Rivista lasalliana 3-2008

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Rivista lasalliana trimestrale di cultura e formazione pedagogica

anno 75, n. 3, luglio-settembre 2008


RL

Rivista lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle e delle Scuole cristiane da lui fondate. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, in particolare in area italiana ed europea, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi sulle fonti lasalliane e aggiorna su ricerche e sperimentazioni in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un comitato di Lasalliani e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche e universitarie della Regione Europa. Rivista lasalliana Trimestrale di cultura e formazione pedagogica fondato in Torino nel 1934 anno 75, n. 3 (299), luglio - settembre 2008 Direzione e Redazione: Rivista lasalliana – via Aurelia 476 – 00165 Roma Tel. 06.66523305 - 06.665231; fpajer@lasalle.org Amministrazione, abbonamenti: ACL, viale del Vignola 56 – 00196 Roma tel. 06.32294503 - 3471033855 - fax 06.3236047; gabriele.pomatto@gmail.com Gruppo redazionale: Mario Chiarapini, Gabriele Di Giovanni, Flavio Pajer (direttore), Marco Paolantonio, Nicolò Pisanu, Mario Presciuttini, Roberto Zappalà. Comitato scientifico: Emilio Butturini (Verona), Sergio De Carli (Varese), Lluís Diumenge (Barcellona), Mario Ferrari (Pavia), Teódulo Regidor (Madrid), Pedro Gil (Madrid), Edgard Hengemüle (Porto Alegre), Herman Lombaerts (Leuven), Vito Moccia (Torino), José M. Pérez Navarro (Madrid), Lino Prenna (Perugia), Gerard Rummery (Australia), Jean-Louis Schneider (Paris-Roma), Lorenzo Tébar Belmonte (Madrid). Abbonamento annuo 2008 in Italia: Ordinario € 20,00 - Docenti lasalliani € 10,00 Sostenitore € 50,00. Estero: € 26,00. Conto corr. postale n. 12378113 int. a ACL. Libri in recensione e riviste in cambio: Rivista lasalliana, CP 9099, 00167 Roma RM Composizione, stampa: Graphisoft, via Labicana 29, 00184 Roma, tel.06.7001450 fax 0677255402 - www.graphisoft.it - info@graphisoft.it - M. Proetto Art dir. Registrazione Tribunale di Torino 26.01.1949 n. 353

Registrazione Tribunale di Roma 12.06.2007 n. 233

Periodico associato all’USPI ISSN 1826-2155

Questo fascicolo è finito di stampare il 15 giugno 2008. Il fascicolo 2/2008 è stato consegnato alle Poste di Roma il 19 marzo 2008.


2008, n.3 (299)

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RICERCHE E STUDI

Francesco Trisoglio, La catechesi nell’ascetica: la Scala Paradisi

di san Giovanni Climaco Emilio Butturini, L’ispirazione religiosa nella pedagogia di Maria Montessori Lorenzo Tébar B., La «filosofia per bambini» e il Programma di arricchimento strumentale : M.Lipman e Feuerstein a confronto PROFESSIONE DOCENTE

Marco Paolantonio, I contenuti disciplinari dell’insegnamento Anna Lucchiari, Per fortuna c’è Harry Potter - Benignamente Roberto Alessandrini, Le parole sbagliate. Errori di scrittura e

costruzioni letterarie dell’identità Michele Grisoni, L’integrazione dei lavoratori migranti e la formazione professionale. Il caso del Piemonte LASALLIANA

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Pedro Gil, La identidad lasaliana y los votos. Reflexiones a partir de los estudios de Maurice-Auguste Hermans, FSC Leonardo Tejeiro, La centralidad del voto de asociación para el servicio educativo de los pobres Paul Aubin, Per una storia del manuale scolastico. Il caso tipico dei FSC canadesi nell’Otto-Novecento Louis De Thomasis, Una ‘via cattolica’ alla gestione dei beni istituzionali Léon Lauraire, Le frère Jacques Piveteau, 1924-1986

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Francesco Pistoia, Una rassegna di libri per giovani lettori

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BIBLIOTECA


Sommario FRANCESCO TRISOGLIO 307-322 La catechesi nell’ascetica: la Scala Paradisi di san Giovanni Climaco – Arrivare al credere mediante il vedere e l’udire: è questo il lungimirante principio educativo che l’abate del Sinai Giovanni Climaco (575-650 ca) perseguì efficacemente e con dovizia di accorgimenti non solo retorici, in particolare con il ricorso alla concretezza narrativa dell’episodio capace di incarnare un’idea, alla immediatezza del dialogo diretto che interpella e coinvolge l’interlocutore, alla trasparenza della analisi che scompone i concetti astratti in più accattivanti similitudini visive, anafore, allegorie, e persino in vivaci e ironiche drammatizzazioni teatrali. Una catechesi densamente simbolica, che in origine era rivolta, programmaticamente, ad alimentare l’ascesi monastica, ma che in pratica è destinata a tutti i cristiani spiritualmente sensibili e maturi. Kw: catechesi narrativa - linguaggio simbolico - spiritualità monastica - teologia patristica EMILIO BUTTURINI 323-338 L’ispirazione religiosa nella pedagogia di Maria Montessori – Dopo una sintetica informazione sulla biografia, gli scritti e le fondazioni educative della Montessori, se ne puntualizzano quei caratteri della personalità e dell’opera che autorizzano a valutare oggi la pedagogia montessoriana come una teoria e una prassi pertinentemente rispettose sia del naturale potenziale religioso del bambino, sia come un progetto di positiva e intenzionale educazione spirituale connotata confessionalmente, radicata nella tradizione biblico-cristiana, e consonante con gli orientamenti del magistero cattolico, pur senza esserne ripetitivamente succube. Una pedagogia religiosa che dà priorità al linguaggio muto dei segni e dei simboli, alla dinamica induttiva della esperienza, all’insegnamento del “Maestro interiore” presente nel profondo della coscienza del bambino, ponendo così chiari limiti al campo d’azione, tendenzialmente invasiva e prevaricante, dell’adulto. Kw: catechesi simbolica - esperienza - infanzia - metodo montessoriano - religiosità infantile LORENZO TEBAR BELMONTE 339-352 La “filosofia per bambini” e il Programma di arricchimento strumentale. Mathew Lipman e Reuven Feuerstein a confronto – Se da una parte la scuola deve garantire l’apprendimento di saperi disciplinari spendibili utilmente nella pratica professionale, essa deve però dare priorità a una tempestiva e permanente educazione critica, che è educazione del pensiero come esercizio personale e incessante dell’interrogarsi e del cercare le risposte appropriate. L’a., in base anche a sistematiche esperienze condotte con classi di alunni, legge sinteticamente in parallelo due significative metodologie della pedagogia cognitiva contemporanea, per metterne in rilievo motivi ispiratori, affinità e differenze specifiche. E suggerisce le condizioni di una loro auspicata integrazione nei normali curricoli della scuola di tutti. Kw: didattica personalizzata - educazione critica - euristica - metodo - programma MARCO PAOLANTONIO 353-368 I contenuti disciplinari dell’insegnamento - Ridotto agli elementi essenziali, il compito della scuola è di stabilire quali contenuti culturali insegnare e con quale metodo, in modo che si verifichi l’apprendimento che meglio corrisponde alle capacità di ogni allievo. Si delineano così due paradigmi secondo i quali è possibile indirizzare l’attività didattica: il primo (oggetto del presente intervento) riguarda i saperi da apprendere per arrivare ad acquisire conoscenze e


competenze, e quindi si tratta di riscoprire le discipline nel loro nascere (ragioni fondanti la loro validità culturale e sociale), nel loro evolversi (necessità di aggiornarne i contenuti), nel loro modo di proporsi operativamente oggi (metodologia didattica attualizzata). Kw: competenza - conoscenze - didattica breve - discipline scolastiche - epistemologia ANNA LUCCHIARI 369-372 1/ Per fortuna c’è Harry Potter - 2/ Benignamente -– Spunti di riflessione educativa su due eventi singolari della attualità culturale. ROBERTO ALESSANDRINI 373-382 Le parole sbagliate. Errori di scrittura e costruzioni letterarie dell’identità – Sviste, lapsus, distrazioni e trascrizioni errate sono il più delle volte degli innocui infortuni che è facile sdrammatizzare, ma certi incubi ortografici e fissazioni lessicali, documentate nella letteratura e nella saggistica, possono essere indizio di meno innocui disturbi dell’identità personale. Kw: errore - letteratura - linguistica - ortografia MICHELE GRISONI 383-394 L’integrazione dei lavoratori migranti e la formazione professionale. Il caso del Piemonte – La formazione professionale dei migranti è da tempo al centro della politica dell’accoglienza della Regione Piemonte, potendo vantare risultati soddisfacenti sia sul piano formativo che su quello occupazionale. L’esperienza pilota della agenzia formativa “Casa di carità Arti e mestieri” di Torino si innesta, con specificità di spirito e di metodo, nel quadro delle politiche formative della Regione. Kw: formazione professionale - integrazione - mercato del lavoro - migrazione PEDRO GIL 397-428 La identidad lasalliana y los votos. Reflexiones a partir de los estudios de Maurice-Auguste Hermans, FSC – La riflessione si sviluppa in tre momenti: la rivisitazione degli esiti cui era approdata la tesi canonica di fr. Hermans intorno alla bolla In apostolicae dignitatis solio, che approvò l’Istituto FSC e le sue Regole (1725); il richiamo del contesto storico degli ultimi cinque secoli (dalla Riforma al Vaticano II) per verificare il cammino accidentato di uno statuto canonico della vita consacrata alle prese tra carismi laicali e disciplina gerarchica; infine, la lezione che suggerisce oggi tale contestualizzazione storica. Alla base della corposa riflessione sta un’ipotesi: è presumibile che le investigazioni e le intuizioni prodotte cinquant’anni fa da fr. Hermans possano rivelarci oggi molto più di quanto abbiano potuto rivelare al suo tempo. Kw: diritto canonico - laicalità - missione - Regola FSC - vita consacrata - voti religiosi LEONARDO TEJEIRO 429-434 La centralidad del voto de asociación para el servicio educativo de los pobres – Prendendo spunto dalla recente modifica della formula canonica dei voti propria dei religiosi lasalliani, la nota sottolinea i motivi della centralità del voto di associazione finalizzato indissolubilmente alla missione specifica della congregazione, che è quella originaria del servizio educativo dei poveri. Kw: associazione - carisma lasalliano - sequela Christi - servizio dei poveri - stabilità - voti


PAUL AUBIN 435-452 Per una storia del manuale scolastico. Il caso tipico dei FSC canadesi nell’Otto-Novecento – La congregazione insegnante lasalliana del Canada si è imposta storicamente come uno dei principali agenti della penetrazione del manuale scolastico prodotto in Europa, particolarmente in Francia. Lo studio, condotto su una documentazione archivistica di prima mano, ricostruisce lo scenario di questo transfert, analizzandone i moventi istituzionali e contingenti, le modalità tecniche, le transazioni commerciali, e soprattutto le ricadute pedagogico-didattiche sulla storia della scuola primaria e secondaria del Canada francofono tra Otto e Novecento. Kw: didattica - disciplinare - libri di testo - pedagogia lasalliana - Québec - scuola (storia) LOUIS DE THOMASIS 453-458 Una “via cattolica” alla gestione dei beni istituzionali – Una iniziativa sui generis creata e collaudata dai Lasalliani nordamericani: un istituto di consulenza in materia di investimenti, competitivo con i maggiori istituti di consulenza nel settore finanziario, ma statutariamente impegnato nel contempo in ambiti selettivi di alta responsabilità sociale quali la difesa dei diritti umani, la tutela dell’ambiente, l’equità dei salari. Una formula imprenditoriale vincente che sa conciliare efficacia gestionale e promozione dei valori evangelici. Kw: beni economici - diritti umani – finanza etica - giustizia -proprietà - responsabilità sociale LÉON LAURAIRE 459-466 Le frère Jacques Piveteau, 1924-1986 – Il pedagogista, il catecheta, il formatore d’impresa: sono i tratti che compongono il profilo intellettuale e professionale di un Lasalliano dalla personalità versatile e creativa, mago della parola, appassionato globe-trotter, incisivamente presente con originalità di pensiero nei dibattiti culturali ed educativi del suo tempo, dentro e fuori la scuola. Kw: catechesi - creatività - formazione permanente - pedagogia dei media FRANCESCO PISTOIA 467-476 Una rassegna di libri per giovani lettori – Una proposta di letture a tutto campo. Una guida utile per ragazzi e giovani studenti, non meno che per gli insegnanti e i responsabili delle biblioteche scolastiche. Anche in tempi di comunicazione tecnologica e di e-book, il libro tradizionale resiste. Ma se i libri non mancano, mancano spesso i lettori.


RICERCHE E STUDI

RivLas 75 (2008) 3, 307-322

LA CATECHESI DEI PADRI DELLA CHIESA / 3

La catechesi nell’ascetica: la Scala Paradisi di san Giovanni Climaco Francesco Trisoglio, FSC

Docente em. dell’Università di Torino

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er trattare di ascetica san Giovanni Climaco1 era eccellentemente attrezzato; nelle scuole di retorica aveva infatti attinto la capacità di ampi sguardi culturali sulle problematiche che la civiltà e la spiritualità antica e quella contemporanea presentavano2 ed aveva appreso l'arte di penetrare con sicurezza nell'intimo dei concetti, di discettare lucidamente sulla psicologia e sulle sue reazioni e di esprimere

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Giovanni, che ricevette il soprannome individualizzante di Climaco dalla sua opera famosa, la

Scala (in greco Klímax) del Paradiso, visse tra il 575 ed il 650 circa; della sua vita sappiamo

pochissimo, poiché sono scarse le informazioni che ci offre il suo biografo, Daniele di Raithu. A 16 anni abbracciò la vita religiosa; visse in comunità per 19 e per 21 in solitudine, prima come discepolo di Martirio, poi da solo, poi seguendo come maestro un Mosè; a 60 anni fu eletto abate del monastero del Monte Sinai. Ne ignoriamo il luogo di nascita. Di lui possediamo la Scala del Paradiso (che in 30 gradini-capitoli conduce dalla terra al cielo) ed il Libro al pastore (che in 15 brevi capitoli traccia la figura dell'abate e ne indica i compiti). Il testo delle due opere si trova in PG 88. 2 L'altro soprannome di 'Scolastico', con cui venne anche chiamato, designava uno che era passato attraverso alla scuola dei grammatici ed aveva acquisito una cultura generale (Lampe); non lo concerne invece il secondo significato di 'avvocato'.


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Francesco Trisoglio

le proprie convinzioni in un'elegante concisione. Dell'ascetismo possedeva una saldissima e multiforme esperienza; fu prima anacoreta, poi eremita, poi viaggiatore tra i più rinomati centri monastici della sua epoca per approfittare delle loro soluzioni, poi abate del monastero del Monte Sinai. Aveva a disposizione una larghissima messe di attuazioni ascetiche pratiche e di riflessioni teoriche, che gli porgevano largo campo di scelte, di combinazioni, di elaborazioni. Viveva in un'epoca in cui una raggiunta maturità avvertiva l'esigenza di bilanci e, implicitamente, quella di affacciarsi a nuove prospettive.3 La 'scala', in quanto mezzo per salire, contiene in sé un evidente richiamo all'elevazione; tendeva quindi naturalmente a trasformarsi in simbolo a forte efficacia evocativa; dava corpo all'anelito umano a liberarsi dalla piattezza che lo opprime a terra, nell'aspirazione ad un più largo respiro. Si inserì quindi negli ambiti più svariati, per germinazione propria, nell'indipendenza da influenze; la troviamo infatti nella mentalità ebraica quale Scala di Giacobbe (Gen. 28,12), negli ziggurat mesopotamici, torri a gradini con un sacello sulla sommità ed una scalinata di accesso esterna, nell'emblema nazionale dei Nabatei, per cui è sovente effigiata nei loro monumenti a Petra, nei circoli mitraici che la usarono a designare la redenzione, nella visione di S. Perpetua che la scorse innalzarsi fino al cielo, figura del martirio quale tramite per arrivare alla vita con Cristo. Personificazione dell'ascesa dalla terra al cielo, essa trovava la sua applicazione più spontanea ed ovvia in quell'area ascetica che faceva di tale elevazione il motivo stesso della sua esistenza; nella spiritualità cristiana appare quindi frequente;4 tra tutti però, colui che l'assunse con più risolutezza fu Giovanni, il quale non si limitò ad alludervi, la pose a struttura portante della sua opera. I trenta gradini con cui Giovanni ha costruito la sua, acquistano una speciale suggestione di sacro e di autorevole in quanto sono il riflesso dei trent'anni di vita nascosta di Gesù; al raccoglimento monastico questo ricordo apportava un appoggio ed uno stimolo fortemente animatori.

3 G. Couilleau, in Dict. Spir. VIII,372, affermò che la Scala è un prodotto di transizione e di sintesi: raccoglie gl'insegnamenti dei primi tre secoli del monachesimo e dell'età dei Padri nel momento in cui l'invasione degli Arabi stava per spostarne il cuore verso il Monte Athos; ne fece una prima sistematizzazione, paragonabile, nel suo ordine, alla sintesi dogmatica contemporanea di Massimo il Confessore; essa resta, fino al nostro tempo, il direttorio del monachesimo bizantino. 4

E Bertrand - A. Rayez, Échelle spirituelle, in Dict. Spir. IV, ne segnano lo sviluppo storico nel periodo patristico (coll. 65-70), medioevale (70-74), moderno e contemporaneo (74-78); in col. 79 di quella del Climaco dicono: «Questa sintesi di vita spirituale, capolavoro di pittoresco e di concisione, ebbe un successo immenso». Il larghissimo favore ottenuto è da tutti confermato.


La catechesi nell’ascetica: la Scala Paradisi di san Giovanni Climaco

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'Scala', mentre dice elevazione,5 dalla terra al cielo, richiama la base di partenza ed il punto di arrivo, due valori tra i quali si sviluppa un transito che suppone alacrità d'impegno (sulla scala non si sosta) e chiarezza di metodo da usare e di fini da raggiungere. La costruzione è saldamente impostata6 e presuppone un'ampia visione complessiva ed un vigile senso della progressività, anche se nessuna delle due qualifiche è perseguita con una precisione rigorosa; Giovanni non si preoccupa tanto di esaurire ogni singolo elemento in completezza, quanto di offrire presentazioni valide e non cura troppo il concatenamento logico nella successione della sua trattazione; gli preme l'offerta più che la disposizione. Si compenetrano in lui un progetto archittetonico generale ben congegnato e la tranquilla libertà propria della conversazione. Egli media tra l'esporre la dottrina ed il predisporre un ambiente favorevole ad accoglierla. Non gli pareva opportuno indurire la sostanziale austerità del messaggio con una inflessibile rigidità didattica; cercò quindi di conciliare le esigenze delle due componenti, raggiungendo risultati pregevoli. Mira soprattutto ad eliminare le distanze tra la dottrina che insegna e coloro ai quali la insegna. A questo riguardo un diaframma poteva essere costituito principalmente da una duplice repulsione automatica: da un parte infatti era già in sé malagevole accogliere proposte di vita severe, basate sul sacrificio, e dall'altra poteva insorgere un'impressione di astrattezza, che il contenuto dell'opera quasi inevitabilmente tendeva a suscitare. Veniva presentata la proiezione di un mondo ideale dove vigeva un'eccellenza spirituale che appariva certo allettante, ma anche nebulosamente remota, forse più fantasia che realtà effettuale. Condizione per l'accettabilità della sua proposta era pertanto quella di avvicinarla, di concretizzarla: fu la meritoria intuizione di Giovanni, il carattere distintivo della sua didattica: trasformare la 'lezione' in testimonianza, calare le idee nei fatti, oggettivare la morale in esempi e la teologia in personaggi. Per trasferire i suoi uditori dal mondo terrestre dei sensi,7 a quello superiore 5

Il concetto-metafora di elevazione caratterizzò particolarmente Gregorio di Nazianzo, che se lo pose a personificazione della sua tensione ascetica; cfr. Fr. Trisoglio, La spiritualità dell'elevazione in San Gregorio di Nazianzo, in La Scuola Cattolica 118 (1990), 432-489; per lui «altezza è virtù ed è valore, è vicinanza e somiglianza con Dio ed è illimitata, in una prospettiva d'infinito. È una marcia che potenzia invece di stancare; è una traiettoria che costituisce la realizzazione della vita. La soddisfazione è già nel cammino, perché ogni arrivo è anche una nuova partenza verso un ulteriore arrivo più ricco e più luminoso» (p. 468). 6 Rottura col mondo (1-3); virtù fondamentali, vizi e tentazioni contro cui lottare (4-23), conseguimento della purificazione dell'anima (24-26), pace del cuore nell'unione con Dio (27-30). G. Zannoni, Bibl. Sanctorum, VI,665, rileva nelle tre parti una certa corrispondenza con le tre vie: purgativa (1-3), illuminativa (4-26), unitiva (27-30). R. Cemus, Sinai, Bisanzio, Athos e la loro influenza, in Atlante storico del Monachesimo orientale e occidentale, Milano 2002, pp.182-185, a p. 183 afferma che «la Scala è una vera summa della vita spirituale, molto avvincente per il tono pratico e metodico della sua psicologia». 7

Quest'elevazione dalla terrestrità, se impegnò sempre in un aspro sforzo anche le coscienze più lucidamente determinate, in quell'epoca aveva bisogno di una particolare azione di sostegno per la genericità di composizione dei monasteri, nei quali risiedevano anche molti individui piuttosto scarsamente motivati. Ch. Diehl, La civiltà bizantina, trad. L. Cammarano, Milano 1962, a p.159 dichiara: «Su tutte le classi della società il chiostro esercitava una potente attra-


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che lo travalica senza annullarlo, la via più redditizia gli si rivelò quella di inserire il mondo soprasensibile in quello regolato dai sensi. Fu il lungimirante principio educativo che Giovanni perseguì: arrivare al 'credere' tramite il 'vedere' e l''udire', che dei sensi sono i più nobili ed i più importanti.8

Presenza e partecipazione: "ho visto", "ho udito" Queste due asserzioni sono le pietre miliari che ritmano regolarmente la trattazione di Giovanni. Si fa maestro in quanto testimone; si inserisce personalmente nell'insegnamento; si coinvolge allo scopo di coinvolgere; la norma teorica si fa avvenimento effettivo, diventa esperienza. L'avvenimento, in quanto realtà, è indiscutibile, proietta realtà anche sulla dottrina che impersona. L' "ho visto", l' "ho udito" si alternano nelle due forme verbali dell'aoristo (che assolutizza l'azione, la fissa come evento indiscutibile inserito nella storia) ed il perfetto (che prolunga l'effetto sul presente): si direbbe che quell'incontro non sia rimasto solo nella memoria, ma che permanga ancora nella sensibilità. In IV,701 C2-7 troviamo: "Una volta, vedendo un monaco straordinariamente devoto, gli domandai...", è visione diretta, ci sono la domanda e la conseguente risposta: sono i tre momenti tecnici prediletti da Giovanni; cerca di trasferire dalla scuola immediatamente nell'ambito della vita; sopprime le pareti dell'aula. Gli abituali 'ho visto', 'ho udito' non sono scelte stilistiche, ma espressioni della sua mentalità di docente ed insieme garanzie di un fatto; in V,764 C14 afferma: "Io, avendo udito, personalmente", pregai l'abate di condurmi... è un'esperienza sua, individuale, "vidi veramente" (D9). Quando la visione e l'ascolto si distanziano dall'accezione generica consueta, propria delle solite banalità quotidiane, ed acquistano una più rilevata tonalità, servono come segnalazione d'allerta per un evento particolarmente significativo. Talora invece, come in VII,809 B3, "ho visto" suggerisce una più distesa tranquillità d'osservazione; non allude ad un fatto specifico ma ad un comportamento comune: sono le cose che sogliono avvenire; dall'aneddoto momentaneo passa alla situazione statica, dall'individuo alla società; entrambi presentano reazioni che possono aprirsi a feconde riflessioni. Risulta poi spontaneo il trapasso da quanto ha visto a quanto è accaduto, dalla notizia all'episodio.

Episodi I racconti di episodi in Giovanni non si limitano mai alla narrazione di un fatto accaduto solo perché è accaduto o è attraente; non ha interessi né cronachistici né storizione. Gli uni vi accorrevano per devozione, per bisogno di umiliarsi e di fare penitenza, o perché stanchi e scoraggiati del mondo; altri vi cercavano un rifugio contro le disgrazie, un sistema per sfuggire allo schiacciante fardello dei pubblici uffici, un mezzo per raggiungere alte dignità ecclesiastiche; e anche coloro che parevano più indifferenti coltivavano l'ideale di morire nella venerata veste del monaco, assicurandosi così la salute eterna». 8

Origene, Omelie su Luca SC 87 framm. 81 p. 536 aveva già distinto dai tre (gusto, odorato, tatto) definiti 'servili', gli altri due 'più filosofici': la vista, che ci permette di vedere il mondo e il suo ordine e di ammirarne il creatore, e l'udito, attraverso al quale impariamo la parola di Dio.


La catechesi nell’ascetica: la Scala Paradisi di san Giovanni Climaco

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ci; i suoi racconti sono concrete incarnazioni di un'idea, la quale da un'astrattezza che può facilmente apparire lontana ed aliena dall'applicazione, scende ad un suo inserimento nel reale; la deduzione, implicita ma pressante, che ne scaturisce è: quel comportamento fu vissuto da altri, dunque lo puoi vivere anche tu.9 Personalizza la norma; invece di dire: bisogna fare così, tende a dire: io ho visto fare così.10 Quelle che traccia sono, in genere, scene rapide pur senz'essere affrettate;11 l'autore non indugia sui particolari di contorno; la descrizione è spesso compendiata nella riposta del protagonista: è un motto che riassume una vita, la quale, a sua volta, si riassume nell'assimilazione di un valore spirituale. Un precetto si è realizzato in un'esperienza; da come si deve vivere, è diventato come si vive. Considerata la persuasività indiscutibile dell'evento controllato di fronte alla discutibilissima elusività di molte idee soggette a disquisizioni, si comprende perché Giovanni di esempi abbia profuso un'abbondantissima varietà. Nel raccontare gli episodi inclina a collocarli con precisione nella serie degli eventi; indica, caso mai, quanti giorni siano avvenuti prima della sua partenza: è un conferire loro realtà; entrano anch'essi nella storicità della sua autobiografia. E talvolta di questa garanzia c'è un evidente bisogno, dato che Giovanni non teme di spingersi fino al miracolo propriamente detto; in IV,697 B12 - C12 attesta infatti che dalla bara di un monaco scaturirono "sorgenti di unguento profumato" e ne assicura l'autenticità; passa dalla straordinarietà delle virtù all'eccezionalità degli eventi. In VI,797 A11-13 riferisce che sparì dalla sepoltura il cadavere di un santo: non rifugge dallo stendere una velatura di stupore a sfondo poliziesco; in IV,720 B1 - 721 A7 un morto interrogato risponde: qui incontriamo il romanzesco. Nessuno oggi giocherebbe la propria credibilità su un argomentare di questo genere, ma è un'impostazione che va storicamente inquadrata nel gusto dell'epoca; del meraviglioso sacro si aveva una grande sete e la disponibilità recettiva era largamente diffusa, come testimoniano, tra gli altri, gli scritti di Gregorio Magno (Dialoghi) e di Gregorio di Tours (in Franc.10,31 conferma di aver composto "sette libri sui miracoli ed uno sulla vita dei Padri").

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È la naturale voce della coscienza che parlò ad Agostino attraverso alla casta dignitas conti-

nentiae: tu non poteris, quod isti et istae? Conf. VIII,11,3.

10 In XV,892 D1-5 riferisce uno straordinario esempio di castità che gli fu raccontato; invece di dare il precetto di elevarsi al di sopra delle passioni, lo mostra direttamente attuato. Dichiara egli stesso che questo è il metodo che si è prescelto; infatti in IV,688 D4-7 afferma che trova opportuno adornare il suo discorso con le azioni dei santi che stimolano all'amore di Dio, piuttosto che farlo con le sue esortazioni. 11 In IV,685 A7-10 ne racconta una concentrata in una battuta. In IV,689 A10-12 la figura di Isidoro si drizza viva in una sentenza icastica che anima la descrizione che la avvolge: "Io mi sono sottomesso (all'abate) come lo è il ferro al fabbro"; il motto colpisce e ferma, in una narrazione che poteva scivolare via senza rilievo, in una monotona uniformità. Queste sintesi che si stagliano in un detto sapienziale, oltre a rinvigorire la lezione di catechesi, se ne fanno il frutto che essa consegna alla memoria come viatico duraturo.


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Dalla sorpresa Giovanni passa anche all'angoscia: in VII,812 A10 - D13 cita un episodio che egli dichiara 'terrificante': un individuo, che era stato un santo penitente per tutta la vita, in punto di morte fu sottoposto ad un giudizio dinanzi al quale egli (Giovanni) rimase incerto e perplesso; è una situazione che lascia perplesso anche il lettore, avvolta, com'è, nell'enigmatico; è l'ipostasi dell'incertezza del proprio destino futuro, che inquieta tutte le anime riflessive, soprattutto quelle più sante? L'invito a tener presente il pensiero della morte e della possibile condanna costituisce infatti uno degli assi portanti della spiritualità di Giovanni; sa che le conferisce un'ombra di cupo, ma è anche convinto che possiede una vigorosa tonicità morale; in VII,805 B13-15 raccomanda: ogni sera si metta a dormire con te il ricordo del fuoco eterno e con te si alzi da letto e non ti dominerà mai la trascuratezza al momento della salmodia. In VI,796 C5 - 797 C11 racconta tre episodi sull'efficacia santificatrice del pensiero della morte; due sono documentati con i nomi propri dei luoghi dove avvennero; l'altro lo conobbe per racconto diretto del protagonista. La comunicazione diretta è un delle fonti precipue della sua informazione: in IV,720 A8-9 afferma di aver udito raccontare personalmente il fatto e nell'esposizione inserisce un dialogo tra i protagonisti. In XV,893 C1-11 riferisce il racconto di uno che era stato vittima degli inganni del demonio, e mostra così come esso riesca a corrompere attraverso ad una falsa pietà;12 un altro racconto di una confidenza personale è registrato in VII,813 A13 - B5: vi si stende un'aria di riserbo, d'intimità coperta, che intensifica l'esperienza individuale: è una rivelazione con la quale viene spontaneo confrontarsi per meglio capire e valutare il proprio stato spirituale. Giovanni racconta, di norma, con la stretta adesione che suggerisce un'impressione di sincerità e di realtà, ma, non di rado, avanza da testimone ad attore; non ha solo avuto nozione del fatto, vi ha anche partecipato. In IV,692 A1 - C3 s'inserisce nella vicenda e s'immedesima nell'episodio, che è capitato a lui; non attinge più da tradizioni o da colloqui. Subito dopo (692 C3 - 693 C5) sopravviene un altro episodio, in cui intervengono i protagonisti, tra i quali c'è lui, che non ha solo sentito, ha agito; l'insegnamento morale non viene dato al pubblico come 'lezione', viene scambiato tra i due personaggi quali interlocutori; il racconto si fa presenza. Quell' interrogazione che il pubblico degli ascoltatori sarebbe bene che facesse a chiarimento, ma che probabilmente non farà, viene anticipata, e suggerita, dal dialogo riferito: la spiegazione scolastica che Giovanni farebbe in diretta viene sostituita dall'obiezione che sorge dal colloquio. Poco oltre (693 C11 - 696 A13) segue un esempio di indomita sopportazione dei maltrattamenti: "Io, presente sul posto, vidi e interrogai il monaco e ne sentii la risposta"; non parla un docente, parlano i fatti; sono presenti chi vide e chi rispose; il consiglio ascetico si fa applicazione documentata. La sua norma espositiva è 'ho visto', 'ho udito', sempre direttamente, e spesso 'sono intervenuto'; la scena appa12

Non sono rari questi drammi racchiusi nell'interno della coscienza: in V,776 B14 - 777 A2 comunica che uno, caduto in peccato, chiese una dura penitenza e venne riconciliato con Dio; in IV,721 A11-D6 narra una visione che testimoniava il merito della sopportazione: è un soliloquio del protagonista, di cui sullo sfondo appare la presenza diretta. In IV,721 D13 - 725 A5 l'episodio è essenzialmente un sermone.


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re, talora, quasi sfondo per la sua presenza e il suo messaggio; gli ammonimenti, invece di rivolgerli direttamente al pubblico, glieli fa rimbalzare da quelli che egli indirizza agli attori di un episodio. Alterna, senza che appaiano differenze, 'ho visto' (eîdon) e 'ho contemplato' (tethéamai); potrebbe sembrare una semplice variatio stilistica, ma la due forme vengono a ricongiungersi in una 'visione riflettuta', in una percezione che si è fatta veicolo alla meditazione. I suoi episodi sono spunti che mirano ad aver risonanza nella coscienza. Di qui il trapasso dal vedere all'invito a vedere (episkeps Ómetha) (VIII,832 C12): è un altro sinonimo intensivo: dalla percezione fisica si sale all'indagine mentale e dalla sua azione personale a quella comunitaria degli ascoltatori. Giovanni crede all'efficacia formativa dell'episodio; il trascurarlo gli si configura quasi come un peccato di omissione; in IV,720 A6-7 considera infatti come una colpa occulta ed una manifestazione di avarizia il non raccontarne uno edificante; in VI,796 C15 - D1 sottolinea l'importanza di quello che narra, in contatto diretto con l'ascoltatore: "Non tacerò di raccontarti...". Nella presentazione di questi modesti quadretti talora effonde un palpito di simpatia umana; alla tensione dell'alta ascesi sa intervallare una dolcezza che spira una benevola cordialità di comprensione (cfr. IV,697 A1-13); sa cambiare i toni; l'episodio dissipa la monotonia, un po' opaca, della precettistica, ma è destrezza anche prevenire la monotonia dell'episodio; poco dopo (700 A5-6) non manca infatti di inserire una battuta lepida ed a brevissima distanza (700 A13-14) pone una "finezza spiritosa". Fra gli episodi immette anche le intime confidenze personali: una volta, quando ero ancora giovane, a tavola fui assalito da pensieri di golosità e insieme di vanagloria; mi lasciai piuttosto vincere dalla vanagloria, temendo la golosità, che, per i monaci, è il principio di tutti i mali (XXVI,1028 C1-10): un caso di coscienza è trasferito nella sua persona. In XXVII,1109 A12 - B3 confida una sua esperienza interiore: come la vita spirituale sia esposta a contrasti, come una tentazione possa essere messa in fuga dal sopravvenire di una opposta; è un accenno sobrio nel quale la sua persona entra come natura umana, più che come singola individualità; si pone come un anonimo che si presenta solo come autenticità di esperienza. Quella di concretare in persone teoriche i valori astratti ed i comportamenti morali è tecnica da cui Giovanni non rifugge; in VIII,833 B15-C6 dichiara: vidi tre uomini ricevere la medesima ingiuria: il primo si sentì morso, ma tacque; il secondo si rallegrò per se stesso, ma si addolorò nei riguardi di chi lo aveva ingiuriato (perché aveva commesso peccato); il terzo pianse a calde lacrime rappresentandosi il danno del prossimo; si poteva vedere chi agì per timore di Dio, chi per la ricompensa e chi per amore. Qui non siamo nella storia, siamo nella didattica; i tre sono casi, rappresentano l'umanità, sono emblematici ma esangui, tipi, che però, incarnati in persone, acquistano una loro forma di vita. L'episodio che regolarmente raccontava agli altri, Giovanni lo presentò a se stesso: in IV,688 A13 - C11 si abbandona infatti ad un'estatica ammirazione dinanzi a monaci che, nella loro ieratica canizie, componevano l'acutezza della visione spirituale con la


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più candida umiltà e semplicità; avevano raggiunto il completo superamento delle passioni in una luminosa serenità dello spirito.13 L'episodio o è teoria applicata o è materia su cui si può agevolmente applicare la teoria; didatticamente, colpendo l'immaginazione, apre l'accesso all'idea, che si spoglia della sua potenziale aridità inserendosi nella vita con il suo dinamismo operativo; ciò che arriva come vita realizzata ha la più immediata persuasività per l'impostazione della vita da realizzare.14

Dialogo Giovanni parla ai suoi ascoltatori attraverso a molteplici voci che ha raccolte sul suo cammino, ma parla loro anche, e spesso, direttamente, in persona propria. Colloquia con loro, ma soprattutto li interpella. Sopprime la distanza; stabilisce un contatto, quasi li investe. E lo fa con frequenza; non è un' occasionalità, è un metodo. Dopo aver segnalato la subdola tentazione di godersi la vita, rimandando il battesimo all'imminenza della morte, erompe in un'apostrofe: "E tu, che fai penitenza, non dare ascolto a quel cane (il demonio) di scacciare il pentimento!" È una vivace tecnica di applicazione; cerca di evitare che le belle dottrine restino nella stratosfera; si sforza di immetterle nella coscienza e di farle interferire nella pratica della vita; il tono energico mira a rendere sicura la realtà dell'innesto (VI,796 A5-9). In III,664 D11 si rivolge al monaco con un certo impeto: "Tu, che ti sei estraniato dal mondo, non toccare più le cose del mondo!" non trasmette solo un'idea, la offre in intensità di partecipazione; la persuasività è data dalla coerenza; alle passioni oppone la logica; il richiamo che giunge dall'esterno glielo fa risuonare nell'interno. In IV,728 D1-2, a chi rifuggiva dal vivere nell'obbedienza cenobitica, intima: "O atleta (di Cristo), fèrmati!": costruisce una scena di drammatica tensione; evoca, davanti, un abisso; prospetta un veloce cammino verso il precipizio. Ed è atteggiamento che gli è ben radicato, tanto nella mente quanto nell'immaginazione; infatti, contro quelli che avventatamente si spingevano ad una vita spirituale senza direzione e senza guida, ordina: "Fermi, fermi, ve lo ripeto ancora, fermi, voi che correte alla gara..." (IV,728 B9-10); invece di ammonire quanto sia sconsigliabile vivere la pratica ascetica a proprio capriccio15 parlando in 13

In IV,700 A12-14 introduce un colloquio con alcuni monaci sulla vita solitaria; qui non c'è né culmine di virtù né tensione di ascesi; è una conversazione tanto sgombra di ansie da essere scherzosa "in una festevolezza sorridente". È la sua dottrina, ma la fa esporre da altri; cura che ci sia una varietà di timbri di voce e di atteggiamenti psicologici. Il perfezionamento spirituale non è infatti solo tenacia di forza, che può risultare logorante, ha anche l'aspetto di una fidente sicurezza che si esprime in una pace gioiosa. 14

Giova ricordare che Fratel Remo di Gesù, pubblicò tre volumi di Virtù in esempi e in similitudini, per conferenzieri e catechisti, I pp. XV,1005, Edizioni Sussidi, Erba-Como 1951; II,

pp. XIII, 800, Casa Editrice A&C, Collana Sussidi, s.d.; III, pp. XV,822, Ediz. Sussidi, ErbaComo, 1954. Certo l'iniziativa sorse in indipendenza da Climaco; è una spinta che emerge perenne per suggerimento interno alla psicologia. 15

Sulla figura del direttore spirituale K. T. Ware, The spiritual father in St. John Climacus and St. Symeon the new Theologian, in Studia Patr. XVIII,2 1989, pp. 299-316, dopo aver dichiarato la dipendenza di Simeone da Climaco, rileva che nessuno dei due ha stilato una lista sistematica delle caratteristiche che gli sono richieste, ma che entrambi lo descrivono princi-


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quell'abitudinarietà di linguaggio che finisce per arrivare stracca e scolorita neutralizzandosi, anima il concetto in vivacità di intonazione ed in perspicuità di mosse. Il medesimo effetto talora lo persegue in alternanza di rappresentazione; in V,764 C4-7 esclama: "Accorrete, avvicinatevi, venite qui ed ascoltate; vi parlerò con chiarezza; voi tutti che avete irritato Dio, radunatevi e vedete ciò che Dio, per il vostro bene, ha rivelato all'anima mia"; il tono è solenne, oracolare; Giovanni assume l'atteggiamento del profeta, inculcando la necessità della conversione; la drammaticità dell'accento vuole comunicare la tragicità di un eventuale rifiuto; c'è una teatralità che si propone una mozione degli affetti che traduca in atto le idee della mente. In analogia di voce, rivolgendosi a coloro che giudicavano male il prossimo, sollecita: "Ascoltatemi, ascoltatemi, voi tutti cattivi calcolatori dei comportamenti altrui" (X,848 B34): è un editto solenne lanciato al mondo, al di sopra delle teste dei suoi ascoltatorilettori; la legge ("non criticare") si è riscaldata in un fervido appello. Altrove (XV,893 B12) "Ascoltatemi bene" richiama esplicitamente all'attenzione su un argomento particolare; la formulazione può anche assumere una tonalità lievemente più confidenziale, come in "bada, bada che..." quando presenta il pericolo di un'illusione psicologica; riduce la distanza per intensificare la penetrazione del richiamo (III,668 A14). A questo scopo inserisce talora un vocativo di contatto ("o cari, o amici" VII,816 D1), che supera l'impressione del 'sermone', avviando alla conversazione; anche in XXV,992 D5 troviamo: "Persuàditi, o caro, che...". Il suono familiare dell'ammonimento ritorna più volte a conferire suasività al consiglio; in X,848 C8-12 invita: "Rènditi conto che è caratteristico di quelli che nutrono rancori il biasimare volentieri e facilmente le azioni del prossimo"; a proposito della vanagloria incita: "Guarda bene e vedrai che questa insana passione vigoreggia fin dentro la tomba" (vesti, funerali sontuosi...) (XXII, 949 B11-12) ed in XV,900 B3 "Stiano dunque attenti..." rende un esplicito richiamo ad evitare un pericolo nella vita spirituale. Lungo questa ricerca di una vicinanza di sentimento che infonda simpatia nel consiglio, Giovanni ripetutamente si coinvolge, fa comunione; dal 'voi' di 'accorrete' (V,764 C4) passa al 'noi': "Accorriamo, fratelli, ad entrare nella sala nuziale del palazzo regale" (XXIX,1152 A2-13): diventa più caldo l'invito a superare gli ostacoli che possono frenare il cammino, e continua con fervore (A13 - B8) "Abbattiamo, o amici, il muro di sbarramento che abbiamo costruito con le nostre colpe... Mettiamoci tutto il nostro impegno, o fratelli; se poniamo in atto questa premura, saremo iscritti nel libro della vita": con questa esortazione appassionata e piena di cuore si trasfonde negli ascoltatori; fa emergere un interesse comune, quasi fosse solo suo personale. È una 'fraternità' che aveva già prima proposto di esercitare in una riflessione rivolta a quanti indulgevano al sonno: "Osserviamo bene e vedremo..." (XIX,937 B2); in XX,940 C2-4, dopo aver accennato al modo perfettamente corretto con cui i cortigiani si comportano accanto al re, viene all'applicazione: "Vediamo dunque anche noi come dobbiamo fare la nostra guardia accanto a Dio, che è il nostro re". Gli è comune e spontaneo passare dall'esposizione dottrinale alla parenesi rivolgendosi direttapalmente in cinque qualifiche: dev'essere medico, consigliere, intercessore, mediatore e sponsor, cioè colui che si assume responsabilità in proprio, procurando sicurezza ad un altro.


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mente al pubblico; talora è stimolo e talora è semplice vicinanza spirituale; è un accento di cordialità che si effonde così genuino da parere quasi inconsapevole. In VI,797 B8 - C6, dopo il racconto del fatto, esorta parlando in 'noi', ma poi avanza ad un 'tu' individuante. Il dialogo può anche semplicemente fungere da accorgimento didatticamente efficace per stimolare la curiosità e quindi risvegliare l'attenzione; in IV,725 D14-15 premunisce: "Non spaventarti di quello che sto per dirti; ho come avvocato Mosè": prospetta un paradosso; fa rizzare le orecchie, ponendo l'ascoltatore in un atteggiamento critico che lo impegna a fondo sul tema.16 Quando sta per richiamare l'incongruenza per la quale anime buone rifiutano assolutamente la vita cenobitica, previene: "Non turbarti di ciò che sto per dirti" (XXVI,1073 B4-5); è un'accortezza per far trapelare l'inquietudine propria e per suscitare negli altri il problema.17 È una forma di destrezza vivacizzante, corrispondente a quella per cui, invece di porre personalmente il quesito ("come può partecipare alla vita religiosa uno che vive negli affari del mondo e della famiglia"), se lo fa rivolgere, quasi cogliendolo sulle labbra di uno che lo sta effettivamente vivendo (I,640 C1-5); "io risposi" (C4): apporta uno spunto di drammatizzazione che toglie appiattimento all'esposizione scolastica (C5 - 641 A1).

Chiarezza analitica Un'altra forma di avvedutezza per dissipare il grigiore piatto della 'lezione', che ne costituisce il grande pericolo, capace di sfocarne l'intento illuminatore, è quella di scendere dalla superficie, sovente sorda, dei concetti nel loro interno, che è sempre vario e ricco di aperture prospettiche. Nella sua Scala Giovanni esordisce subito (I,633 A6-12) con una visione generale su Dio, vita e salvezza di tutti, e poi (A13 - C6) s'inoltra a specificare le posizioni che i singoli individui possono assumere dinanzi a lui; spiega la terminologia precisando il contenuto di ogni vocabolo; parla in un tono pacato ed equilibrato ma risoluto: sa

16 Già Origene, Omelie sul Levitico, II,3 SC 286 aveva dichiarata "audace" una sua interpretazione di un passo biblico. E, prima ancora, Clemente Alessandrino, Stromati VII,7,39,6 aveva scritto: "La preghiera, per usare un'espressione audace, è una conversazione con Dio".- L'uso del dialogo ad intento drammatizzante è certo nativo in Giovanni, poiché lo è in tutti coloro che si dedicano ad una comunicazione sollecita della persuasione. Proviene dalle origini stesse della cultura: Platone ce ne ha dato esempi insigni e memorabili sono pure quelli di Cicerone. E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, trad. F. Codino, Milano 1974, a p. 36 ricorda che il dialogo simulato fu patrimonio tradizionale della scuola retorica; la predica cristiana si sviluppò molto presto (anche) sull'esempio della declamazione scolastica filosofico-morale, nella quale le opinioni altrui venivano introdotte a guisa di dialogo e seguite dalla propria risposta, così che ne derivava una scena. 17 In XXVI,1072 B14-15, dinanzi all'affermazione, scussa e piatta, che "non riescono a vincere il peccato coloro che sono schiavi dell'abitudine", le conferì pregnanza preponendo un esordio dubbioso: "Non so se qualcuno non mi criticherebbe, se dicessi che...".


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che intendersi è fondamentale; Giovanni deve aver sperimentalmente constatato quanto sia facile divergere nelle posizioni soltanto perché si è equivocato sui termini. In III,664 B3-8 per chiarire il vocabolo xeniteia (l'abbandono del mondo nello scegliere la vita monastica) prosegue in una serie ordinata di 12 commi, scanditi nell'atmosfera di un raccoglimento meditativo; non proclama, scopre egli stesso mentre cammina; distingue, in densità di pensiero e in decoro di forma. Questo suo tipo di analisi puntuale, impegnata, suscita l'impressione di un'intelligenza lucida che agisce in un clima di alta dignità; irradia serietà; penetra nei problemi con responsabilità; spiega ma non volgarizza, si tiene lontano da ogni sentore di blanda conversazione a tinta banale. Fa così, implicitamente, capire che il suo messaggio è di una sostanziale importanza; dilucida ma fa appello al solerte impegno intellettuale degli uditori; va loro incontro, ma esige che anch'essi vengano incontro a lui. Queste analisi di concetti (virtù, vizi, disposizioni spirituali, stati d'animo) gli sono tanto abituali da formare una delle sue tipiche tecniche compositive; ad ognuno di tali nomi è connessa una sequenza di commi interpretativi, generalmente bimembri, che presentano il vocabolo nella molteplice diversità delle sue accezioni; si succedono con ritmo regolare, quasi fossero contrassegnati da una numerazione progressiva che collega ma distingue; sembra avanzare lento, come se, mentre propone, volesse lasciare il tempo necessario per recepire, valutare, assimilare. Oltre alla cadenza commatica, per individualizzare i concetti ricorre volentieri all'anafora (cfr. ad esempio IV,680 B9 - C3), talora insistita, che alla distinzione specificante conferisce un risalto ancora più netto; quella parola fissa d'esordio suona come l'avviso che si apre un nuovo panorama. Altrove si serve della similitudine: in XXV,989 D1-10 dichiara che la penitenza (metánoia), il dolore (péntos) e l'umiltà (tapeínosis) hanno tra loro la differenza che intercorre tra il lievito e la farina riguardo al pane; vuol dire che l'anima, mediante la penitenza, viene contrita e si affina, si unisce e, per così dire, si impasta con Dio mediante l'acqua di un sincero dolore (le lacrime), poi, accendendosi del fuoco del Signore, l'umiltà, si solidifica e diventa pane, senza nessun fermento di superbia. Giovanni ha qui tentato di visualizzare un processo spirituale ponendolo in analogia con un uso abituale all'esperienza comune (la panificazione); senz'altro pregevole l'intento, però qui la felicità della prova lascia molto dubbiosi per il laborioso intrico che ne è scaturito; di notevole interesse invece il metodo che viene suggerito: l'astratto, che l'occhio della mente stenta a raggiungere, è reso più percepibile da ciò che gli occhi fisici agevolmente constatano. Per rendere più assimilabili i concetti Giovanni ricorre volentieri alla loro scomposizione analitica: in I,641 B3-7 specifica che la vita monastica si può dividere in tre settori: lottare da soli ritirandosi nel deserto, appartarsi nella solitudine con un compagno o due, vivere in una comunità sotto l'ubbidienza; in VIII,832 D10-13 parla della pazienza e ne segnala tre gradi: 1) subire le offese, sia pure nell'amarezza dell'anima; 2) lasciarsele rivolgere senza dispiacere; 3) e sarebbe la perfezione, considerarle come se fossero lodi. In II,653 B9 - C4 presenta nelle sue componenti una disposizione


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spirituale che pure ha un carattere unitario, analizzandola;18 gli ultimi quattro commi non sono che aspetti contenuti nel primo; l'anafora, così vistosamente intenzionale, è un evidente richiamo, movimenta l'enunciato, cerca insieme di chiarire e di premere. Poco dopo (II,657 A8 - B1) individua tre rinunce necessarie per entrare nel regno dei cieli.19 Elenca e concretizza visualizzando: in XXVI,1016 D1 - 1017 A2 dichiara che la vita spirituale è come un mare disseminato di pericoli e li materializza evocandoli all'immaginazione: ci sono gli scogli (gli scoppi improvvisi di collera), i vortici (gli scoraggiamenti che si aprono alla disperazione), i bassifondi (l'ignoranza che prende il male per bene), i mostri (il nostro corpo, greve e selvaggio), i pirati (gl'impulsi della vanagloria, che rapiscono il frutto delle nostre virtù), i flutti (la golosità che rigonfia il ventre), le tempeste (la superbia, che ora ci solleva in alto, ora ci deprime nell'abisso). L'analisi, oltre che in una dimensione prevalentemente spaziale, può effettuarsi in una più particolarmente rivolta all'interiorità; in IV,680 A1 - B4, nel presentare la natura dell'ubbidienza, vuole dimostrare che essa, nella sua apparente rinunzia, possiede un'anima di affermazione e che l'abdicare alla propria volontà è un impegnativo atto di volontà; non nasconde una tale antinomia, la sottolinea; vuole rendere l'ascoltatore pienamente edotto della difficile profondità del problema. Inserisce talora acuti scandagli psicologici, che vanno alla radice di comportamenti morali e spirituali: quando in VII,816 B6-9 afferma che "le lacrime (di compunzione) che provengono dal timore, hanno come custodia il timore medesimo; quelle invece che derivano da un amore imperfetto si dissipano più facilmente", avverte che la paura preme più di un amore fiacco; le percezioni negative, per loro natura inquietanti, hanno un'insita aggressività che procura loro una presenza più tenace, quelle positive invece, più appaganti, inclinano ad una più lenta remissività. I concetti, per rimanere vitali, richiedono parole che li fissino in un'alacre vitalità.

Vivezza espositiva A questo fine Giovanni è propenso ad impostare le idee in una specie di scena teatrale; l'astrattezza teorica si anima così di drammaticità. Se viene a trattare dell'accidia (XIII,860 D3 - 861 A10) propone che essa venga incatenata, trascinata in tribunale ed opportunamente interrogata: "Dimmi, tu così trasandata, chi è tuo padre e quali i tuoi discendenti? Chi ti combatte e chi ti uccide?" Essa rispose:" Tra coloro che sono realmente ubbidienti io non trovo dove posare il capo...". L'autore svolge poi tutta 18 Chi veramente ama il Signore, / chi veramente cerca di acquistarsi il regno futuro, / chi veramente ha provato il disagio dei suoi peccati, / chi veramente ricorda il castigo, / chi veramente ha il timore della propria morte. 19 Rinunciare a tutti gli affari e a tutte le persone del mondo; distaccarsi dalla propria volontà; separarsi dalla vanagloria. L'archim. Sophrony, De la nécessité des trois renoncements chez St. Cassien le Romain et St.Jean Climaque, in Studia Patr. V,3 TU 80, Berlin 1962, pp. 393400, confronta le tre rinunce di Giovanni con quelle di Cassiano, rilevandone le forti consonanze ed evidenziando che Giovanni ha maggiormente messo al centro della perfezione ascetica il rifiuto della vanagloria e della superbia.


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una puntuale analisi dell'accidia nei suoi vari aspetti; c'è il contenuto di un manuale sistematico ma non ce n'è l'aria; il trattatista non parla lui dalla cattedra, la fa parlare lei in un ambiente di austera serietà, che l'avvolge subito in un alone di colpevolezza. Il catechista si fa sostituire dall'argomento personalizzato; la voce viene dall'interno del tema invece di raggiungerlo dall'esterno; la dottrina morale non risuona come precetto di vita, si trasforma nella vita stessa che parla. È il procedimento che adopera anche per l'ira (VIII,833 D4 - 836 A12), dove, invece di spiegare didatticamente quali ne siano le radici, gli effetti, i rimedi, le intenta un processo ufficiale, obbligandola a rispondere alle interrogazioni del giudice; non dice 'immaginiamo che ci sia un processo' (che sarebbe sciatto), dice: "Chi desidera entri con noi nel tribunale ed esaminiamo a fondo... dicci..." ed essa risponde in discorso diretto; lo scrittore costruisce un dialogo effettivo.20 Spesso egli imposta l'interrogatorio anche fuori dall'aula di giustizia; invita infatti (XIV,869 B5 - C3) a rivolgere un'inchiesta in via diretta alla gola, imputandole, sulla traccia della Bibbia (Esaù, Gomorra...) rovine e domandandole quali ne siano le origini e quali le conseguenze; segue la replica infuriata della gola (C3 - 872 A5), attraverso la quale ne vengono elencati gli effetti deleteri nella condotta morale; confessa quali siano i suoi nemici ed è sagace accorgimento per indicare i mezzi con cui combatterla.21 Nel contrasto tra la carne e lo spirito (XV,904 A3 - B6) si rivolge in dialogo alla carne che risponde, intessendo un'autentica disquisizione, che però assume la tensione di una confessione forzata. In XVIII,933 B8 - D9 immagina di costringere l'inerzia spirituale a presentarsi essa stessa, in un'intervista a domande e risposte, nella quale la 'lezione' si colora di una confessione che impressiona più di una comunicazione scolastica; gli accenti possono anche farsi scuri di una densa passionalità; la tiepidezza abulica infatti, quanto alle sue cause ammette: "Io non ho una nascita sola; io sono un incerto sangue misto" (il che equivale ad 'illegittimo', 'degenerato', 'bastardo'). I rimedi contro questa deplorevole insensibilità spirituale, nella stessa bocca dell'imputata, passano dalla burocratica esattezza di una ricetta medica ad una rassegnata ammissione, acquisendo una maggior forza di penetrazione.

20 Nel Libro al Pastore § 11 col.1185 D8 - 1188 A3 osserva: "Non è conveniente che un leone conduca al pascolo le pecore ed è uno spettacolo indecente una volpe tra le galline; ma più indecente ancora è un Pastore soggetto all'ira; la volpe uccide le galline, l'altro sconvolge e rovina le anime". Qui la drammatizzazione è ottenuta con il vigore delle immagini. Origene, Omelie su Ezechiele, II,4 SC 352, in riferimento agli eretici, aveva già definito la volpe "animale cattivo, astuto, indomabile e feroce" e nel Commento al Cantico, IV,3,8 SC 375 spiegò che le volpi sono gli eretici, che con la loro astuzia seducono le anime innocenti. 21

Quanto alla gola è icastica la macchietta del monaco nemico del digiuno, che fa il computo dei giorni che precedono la Pasqua e, nella sua mente, appresta i piatti prelibati (XIV,864 D24). Giovanni rappresenta con incisiva vivezza; non tornisce la figura; non le pone accanto aggettivi; vede e fa vedere i comportamenti.


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Ma non sono solo i vizi a confidarsi; infatti, al culmine dell'opera (XXX,1160 C3 D7) Giovanni si rivolge direttamente alla carità, che sta sulla cima della scala di Giacobbe, invitandola a spiegare come si possano salire tutti quei gradini, ed essa, "come apparendomi dal cielo e parlandomi all'orecchio dell'anima, mi rispose" incitandolo a liberarsi dalla materialità del corpo per poter vedere la sua bellezza. Invece dell'incontro con un vizio, ci possono essere anche incontri tra vizi; così racconta che un giorno s'incontrarono l'iroso ed il finto e nella loro conversazione non fu possibile rintracciare una parola sincera: nel cuore del primo troverai la follia, nell'animo del secondo troverai la malizia (XXIV,981 B3-7). In XXII,953 C11 - D2 riferisce quanto gli narrò un testimone, il quale asserì che due demoni (la superbia e la vanagloria) gli si collocarono una a destra ed uno a sinistra, invitandolo a vantarsi ed a compiacersi del proprio merito. Giovanni conferma così il suo gusto per il superamento dell'astrattezza in forme accattivanti; egli, più che esprimere parole di condanna, ama rappresentare; il giudizio, invece che dalla sua bocca, lo fa dare dalla scena; la teoria si fa azione. Non è tuttavia prigioniero di questo metodo; all'occorrenza sta anche sull'espositivo: così in XIV,865 A12 - B9 mette in bocca ad un monaco traviato una dottrina morale priva di discernimento, esplicitandone l'irragionevolezza. Quasi in contrapposto, riporta l'istruzione ascetica che gl'impartì il santo vecchio Giorgio Arsilaìta sulla vita solitaria e su quella cenobitica (XXVII,1112 B3 - 1116 A8): è un lunga 'lezione', con un carattere più prettamente precettivo del solito; la fa sentire attraverso ad un vecchio asceta,22 forse per conferire una più evidente autorevolezza ad un messaggio importante: la vita del solitario deve essere, in ogni evenienza, illuminata dalla lampada accesa dell'intelligenza e guidata dalla ragione (1113 A4-11). Al tono serio Giovanni non disdegna comunque di alternare quello brioso e tagliente: racconta infatti che un tale, di spirito mediocre, vantava le virtù del suo maestro; gli si rispose: "Come mai una pianta eccellente ha prodotto un ramo sterile?" IV,713 A1213). Talora avanza una domanda curiosa e stimolante: come mai l'anima, che non ha corpo, non riesce a vedere che natura abbiano gli spiriti, forniti della sua stessa sostanza, quando le si avvicinano? Di fronte a tale quesito un tale asserì: "Ti darò brevemente il 'lievito' della comprensione; il resto lo lascerò a te da ricercare con la tua fatica" (XXVI,1072 C6 - D1). E di qui Giovanni non incontra difficoltà a trapassare a suggerimenti pratici che appartengono alla didattica spicciola: nel Libro al pastore I,1165 C3-6, sconsiglia, come sconveniente, che un maestro impartisca il suo insegnamento recitandolo da un testo altrui;23 approva invece che egli consegni ai suoi discepoli opportune direttive

22

23

Ed il citarne il nome può valere un assicurarne l'autenticità.

Sulla medesima linea S. Agostino, De doctrina christiana, IV,10,25 CCL 32 p. 133, 35-40, nell'asserire che bisogna sollecitamente adeguarsi allo stadio di comprensione del pubblico, dissuade "dal recitare frasi preparate in anticipo e ricordate letteralmente a memoria". Occorrono


La catechesi nell’ascetica: la Scala Paradisi di san Giovanni Climaco

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per iscritto (ibid. VI,1180 A7-10);24 ed altri suggerimenti minuti non esita a rivolgere in campo spirituale: a quelli che non hanno ancora raggiunto una preghiera che nasca dal fondo dell'anima consiglia di impegnarvi attivamente anche il corpo, elevando le mani, battendosi il petto, dirigendo gli occhi al cielo, stando in ginocchio (Scala, XV,900 C1-5). Giovanni, nell'esporre la sua dottrina, si è particolarmente curato che essa venisse accolta ed intesa; a tale scopo usa un linguaggio scandito, lesto, che procede spesso per incisivi commi bimembri, i quali sono provocazione all'intelligenza ed invito ad impegnarsi a fondo; fa arrivare i concetti ben distinti in se stessi e tra loro; conferisce loro una nettezza che suscita un'impressione di categorico. Un effetto similare, sebbene a più vigoroso rilievo, lo producono i numerosi epifonemi, che conferiscono all'enunciato autorevolezza di ammonimento. In X,849 A1-3 avverte: "Non condannare nessuno, nemmeno se lo vedessi peccare con i tuoi occhi; sovente sbagliano anch'essi"; sono parole che risuonano in una loro raccolta pensosità, come voci di lunghe e meditate esperienze. Quando proclama che "l'irascibile è un epilettico volontario" (VIII,829 B5),25 formula una sentenza carica di denunzia e penetrante di valutazione; impone un esame di coscienza. La coscienza cerca invece di rasserenarla quando dichiara: "L'essere combattuto è segno che si combatte" (IV,720 A5-6): è un aforisma compatto, risoluto, rassicurante nell'energia di quel perentorio gioco verbale: propone la norma generale di non scoraggiarsi nelle tentazioni; se uno continua ad essere tentato è segno che non cede. La serietà può anche felicemente penetrarsi di ironia: in XVII,929 A5-6 commenta: "L'avaro combatte fino alla morte per uno spillo"; la dissuasione si esprime attraverso alla derisione ed all'evidente assurdità; l'immagine impedisce che l'idea dilegui. Ed insieme ai propri assiomi riporta anche quelli altrui che hanno avuto un'ampia risonanza: il motto di Platone, Fedone 9,1, che la filosofia è una "meditazione della morte" inserisce in una larga tradizione culturale (VI,797 C9-11). La formulazione assume spesso una concretezza visiva: il pregare diventa un "picchiare con la preghiera alle porte del cielo" (IV,717 A9-11) e talora non si astiene dall'arrivare al verismo; dichiara infatti che "quanto più è profonda la cancrena, tanto più è necessario l'intervento risoluto del medico che elimini il pus" (I,640 A6-8) ed ammonisce che "dentro al legno marcio nascono i vermi e dentro gl'individui falsamente miti e tranquilli si insinua il risentimento" (IX,841 D7-9). Accanto alla forza di

sicurezza di preparazione concettuale (antecedente) e sciolta elasticità di espressione verbale (al momento). 24

E soprattutto lo ammonisce che non si attira ammirazione il maestro che inculca la sapienza in ragazzi ben disposti ad imparare, ma quello che infonde cultura e nobiltà di sentire in coloro che di imparare non ne hanno voglia e che alla saggezza ripugnano (Pastore, V,1177 A3-6). 25

Basilio, Omelia contro l'ira, § 1 PG 31,356 B3-4, aveva detto: "L'ira è una follia di breve durata".


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parola si collocano, come equivalenti, l'evidenza di ritratto e la ricchezza di psicologia: in XIII,860 A12-14 troviamo che "l'accidia, quando vede la cella di un anacoreta, sorride, gli si avvicina, gli si 'attenda' al fianco": all'essenzialità dei tocchi corrisponde l'intensità della sostanza e la vivezza della rappresentazione. Giovanni, con la sua Scala, ha composto una catechesi che, programmaticamente, si rivolge ai monaci, ma, praticamente, a tutti i cristiani spiritualmente sensibili;26 ha aperto orizzonti amplissimi, toccando una svariata quantità di temi ed usando una molteplice gradazione di toni. Incombono sovente quelli scuri della morte e dei suoi possibili esiti di pena, ma emergono anche, luminosi, quelli confortanti ed animatori. In III,664 B9 interpreta la perennità dell'amore di Dio come un canale che sempre scorre, dove la grazia estetica rende più vicina ed attraente quell'inesauribilità d'amore; ed alla continuità ininterrotta dell'amore di Dio corrispondono, in cielo, il perpetuo progredire dei santi nel suo amore (XXVII,1001 A15 - B1) e, in terra, la fiducia che in lui pongono i fedeli: "Ha la fede non chi crede che Dio possa tutto, ma chi crede che da lui otterrà tutto" (ibid. 1113 B5-6). E nel Pastore VI,1180 A3-4 incoraggia gli annunziatori della verità a non demoralizzarsi e a non desistere quando incontrano indifferenza e riluttanza: "Le fontane, anche se nessuno ha sete, continuano a far scaturire le loro correnti".

3. continua. Prossimo articolo:

La catechesi popolare: San Pietro Crisologo

26 Ed anche da molti laici fu accolta con vivo interesse. N. Corneanu, Contributions des traducteurs roumains à la diffusion de «l' Échelle» de saint Jean Climaque, in Studia Patr. VIII,3 TU

93, Berlin 1966, pp. 340-355, afferma, sulla testimonianza di vari studiosi, che vescovi e monaci, principi ed alti dignitari, cittadini e campagnoli, uomini e donne, lessero insaziabilmente i gradini della Scala; talune famiglie cristiane la conservavano in casa accanto alla Bibbia. - Del resto fu antica tradizione nell'ambiente monastico che la professione monastica non fosse che un prolungamento ed un completamento di quella battesimale. Obiettivamente A. Guillou, La civilisation byzantine, Paris 1974, a p. 389 ha quindi asserito: «Malgrado l'alta stima che avevano della loro professione, i grandi maestri della vita monastica, hanno sempre affermato che la spiritualità monastica s'identifica con la spiritualità cristiana nel suo fine, la salvezza, ed anche nei suoi mezzi».


RICERCHE E STUDI

RivLas 75 (2008) 3, 323-338

L’ispirazione religiosa nella pedagogia di Maria Montessori Emilio Butturini

Università di Verona

M

aria Montessori nacque a Chiaravalle d’Ancona il 31 agosto 1870, in una famiglia di buona borghesia, unica figlia di Renilde Stoppani e di Alessandro, ispettore ministeriale nel settore dei tabacchi. Tre giorni dopo la nascita fu battezzata nell’antica chiesa di S. Maria in Castagnola, come racconta il padre in un testo di vari anni dopo1. La madre è considerata parente – parentela vantata più volte dalla stessa Maria – di don Antonio Stoppani (1824-1891), geologo e paleontologo, docente nelle università di Pavia, Firenze e Milano, nonché direttore del Museo di Storia naturale di Milano e autore di importanti opere non solo di carattere divulgativo, ma anche scientifico e religioso2. L’abate Stoppani è presente nella vita e nel pensiero di Maria, che amerà rifarsi a lui specie per il tema dell’educazione co-

1

«Notizie sulla nascita e sviluppo fisico e intellettuale». Il documento, conservato nell’ar-chivio di Grazia Honegger Fresco, che lo ritiene databile al 1896, testimonia l’ammirazione del padre per Maria nel suo divenire «donna e donna non comune». Cfr. G.Honegger Fresco, Maria Montessori, una storia attuale, L’ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma 2007, p.15 e 33. 2 Il volto di Stoppani appare sull’etichetta di un formaggio, denominato dal titolo della sua opera più famosa Il Bel Paese ed è diffuso quasi quanto quello della Montessori sul biglietto delle vecchie mille lire (unica donna ad essere stata raffigurata su una nostra banconota). Non manca chi considera don Stoppani fratello di Renilde come V.P.Babini, Maria Montessori: biografia o autobiografia? in A.La Vergata (a cura), Le biografie scientifiche, «Intersezioni», XV (1995) 1, 171-175. La notizia è «dubbia, ma non impossibile» per la Honegger Fresco, M. Montessori, cit., p.23, n.3.


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Emilio Butturini

smica e per la tendenza a conciliare i valori della tradizione cristiana con il progresso scientifico3. Formazione ed esordi professionali - Passò la prima fanciullezza a Firenze e, dal 1875, a Roma, dove si era trasferita la famiglia. Dal 1884 frequentò una scuola tecnica, da cui ebbe la licenza nel 1886, per poi frequentare un istituto tecnico (cui dal 1885 erano ammesse anche le ragazze), che le consentì di iscriversi ad un biennio di Scienze fisiche, matematiche e naturali presso l’Università di Roma, conseguendo nel 1891 un diploma, con cui ebbe «licenza di insegnamento» e possibilità di accedere al terzo anno della facoltà di Medicina. Qui si laureò nel 1896 come una delle prime donne medico italiane (tra il 1892 e il 1895 solo a Roma se ne erano laureate altre tre. È vero, comunque, che erano pur sempre eccezioni, mentre oggi le studentesse di medicina rappresentano più della metà degli iscritti). Nel 1897, pur prestando anche servizio in reparti di medicina interna e in ambulatori pediatrici, divenne assistente della clinica psichiatrica della stessa Università accanto all’umbro Sante De Sanctis (1862-1935) e al lucano Giuseppe Ferruccio Montesano (1868-1961). Con quest’ultimo ebbe anche un’intensa e sofferta relazione affettiva, troncata poi nel 1901, anche per l’opposizione delle rispettive famiglie, nonostante la nascita, il 31 marzo 1898, del figlio Mario (1898-1982), che amerà farsi chiamare con i due cognomi, essendo stato riconosciuto dal padre (senza però alcun matrimonio “riparatore”). Il piccolo sarà affidato dalla madre prima ad una balia, poi ad una famiglia sconosciuta, e, dall’età di sette anni, ad un istituto, sempre però mantenendo segreti rapporti (senza rivelare la sua identità) con lui, fino alla primavera del 1913, quando, dopo la morte di Renilde, avvenuta il 20 dicembre 1912, Maria decise di condurre il figlio a vivere con sé, insieme con il padre, che morirà nel 19154. Su queste vicende insiste un filmato televisivo di successo di fine maggio 2007, che offre però poche e banalizzanti indicazioni sul “Metodo Montessori”, che non possono aiutare a capirne 3 Cfr. M. Montessori Junior, Maria Montessori, mia nonna, «Il Quaderno Montessori», n. 19, autunno 1988, p. 59. Cfr. fra le opere dello Stoppani Il dogma e le scienze positive, 1882, e Sulla Cosmogonia Mosaica, 1887. Triplice saggio di una esegesi della storia della creazione secondo la ragione e la fede. Per un saggio di Stoppani sull’educazione cosmica cfr una conferenza del 1873 («Dell’economia tellurica») in A. Scocchera (a cura), Introduzione a Mario M. Montessori, Opera Nazionale Montessori, Roma 1998, pp. 112-119. Sul «Piano cosmico» e sulla relativa educazione la M. interverrà in Inghilterra negli anni Trenta e approfondirà il tema in India in un ciclo di conferenze tenute nel 1943 a Kodaikanal, da cui avranno origine due suoi libri pubblicati a cura della Società Teosofica fra il 1946 e il 1948 e diffusi in Italia da Garzanti nel 1970, con una nota editoriale di Camillo Grazzini (ora ristampati in edizioni economiche): Educazione per un mondo nuovo e Come educare il potenziale umano. 4 Cfr. M. Schwegman, Maria Montessori, Il Mulino, Bologna 1999, spec. pp. 44, 53-54, 9798 e 117. Mario si sposerà giovanissimo nel 1917 con l’americana Helen Christie da cui ebbe quattro figli, fra cui Mario junior già ricordato. Dalla Christie divorzierà andandosene a vivere in Spagna con la madre. Si risposerà a 49 anni con un’olandese, figlia di un ricco banchiere ed allieva della madre, Ada Pierson, che si era presa cura dei suoi quattro figli negli anni della permanenza in India. Il “riconoscimento” da parte del padre è confermato da documenti e lettere (conservati presso l’Archivio di Storia dell’educazione dell’Università Cattolica, sede di Brescia), dove si riporta il doppio cognome Montesano Montessori.


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l’enorme diffusione nel mondo, anche se non nella patria d’origine. Ben poco appare del superamento del “sistema dei premi e castighi”, della centralità del bambino “padre e maestro dell’uomo”, dell’importanza fondamentale del suo “ordine interiore”, del “fare da solo”, della “mente assorbente” o anche del suo “potenziale religioso”, della valorizzazione delle classi eterogenee per età, della scoperta dei “periodi sensitivi” di sviluppo di certe abilità e “competenze”, ecc.. Frattanto la Montessori era stata rappresentante italiana a Berlino al primo International Council of Women del 1896 e al secondo di Londra del 1899, diventando poi

(1906), insieme con Anna Maria Mozzoni Crespi, presentatrice di una petizione al Parlamento per il voto femminile, in nome di un vero suffragio universale. (È noto che dovranno passare quarant’anni prima che anche in Italia si arrivasse al diritto di votare e di essere votate, con i decreti-legge del 1° febbraio 1945 e del 10 marzo 1946). Nel 1897 aveva partecipato al Congresso nazionale di medicina di Torino, nel quale intervenne sul problema dei bambini minorati psichici, e nel 1898 al primo Congresso pedagogico italiano, dove riferì del suo lavoro di medico, ma con «l’intuizione che la questione […] fosse prevalentemente pedagogica anziché medica», facendone «argomento di educazione morale» (cfr. il suo libro più importante, col nuovo titolo del 1950, La scoperta del bambino, Garzanti, ristampa1987, p.23). L’intuizione era nata, oltre che dalle sue esperienze cliniche con i piccoli “diversamente abili” – come oggi si preferisce dire – dai viaggi e dalle permanenze in Francia che la portarono, fra l’altro, alla conoscenza dei testi dei medici Jean-Marc Gaspard Itard (1775-1838) e Édouard Séguin (1812-1880). Questi studiosi erano arrivati entrambi a puntare sull’intervento educativo più che sulle cure mediche, con l’aiuto di uno specifico materiale, che M. ripropose con varie modifiche e innovazioni, chiamandolo «materiale di sviluppo», espressione del processo di «autoeducazione» dell’allievo più che dell’azione didattica del maestro.

Nell’anno accademico 1897-98 aveva frequentato intanto come uditrice corsi di pedagogia presso la Facoltà romana di lettere e filosofia, spostando già in alcune pubblicazioni (ad esempio sulla rivista milanese Risveglio educativo del 1898) l’interesse dal campo medico-psichiatrico a quello psicologico e pedagogico, pur continuando la pratica medica, anche col conseguimento nel 1899-1900 del diploma di ufficiale sanitario. Divenne poi, come lei stessa ricorda, «studente di filosofia all’Università», certamente dopo il 1900, frequentando corsi di filosofia, psicologia e pedagogia con i docenti Antonio Labriola, Giuseppe Sergi, Sante De Sanctis e Luigi Credaro. Tuttavia il suo «primo e vero titolo in fatto di pedagogia» sono i due anni (1898-1900) di “educatrice”, «dalle otto del mattino alle sette di sera» (La scoperta cit., p. 24), con i bambini con difficoltà sensoriali e/o mentali alla Scuola Ortofrenica Magistrale di Roma (della quale condividerà la direzione con Montesano)5. Seguiranno la libera docenza in antropologia (d.m.29.12.1904) e gli incarichi universitari di igiene e di antropologia pedagogica (quest’ultimo dal 1906-1907 al 19091910), che porteranno al libro Antropologia pedagogica (Vallardi, s.i.d., ma probabilmente del 1910), ancora segnato dal positivismo organicista del prof. Sergi (1841-

5

Cfr. Honegger Fresco, Maria Montessori, cit., pp. 50-53.


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1936), molto attento agli aspetti antropometrici e psicofisiologici, ma ricco di indicazioni valide anche oggi per il superamento dei condizionamenti socioculturali di partenza, con utili correzioni di tipo igienico, alimentare, sanitario e culturale. Non mancano anche in quest’opera prese di posizione “spiritualistiche”, come quando indica, in linea con tanta simbologia conviviale dei testi biblici, per una vita che è «un continuo fuggir di materia», il banchetto come «maggior simbolo della sua immaterialità e spiritualità» (Antropologia pedagogica, p. 106). Pubblicazioni e Case dei bambini - L’anno precedente era uscita la prima edizione della sua opera fondamentale Il metodo della pedagogia scientifica applicato all’educazione infantile nelle case dei bambini6, per l’impulso e il sostegno del barone e senatore Leopoldo Franchetti (1847-1917) e della giovane moglie ebrea (di origine americana) Alice Hallgarten (1874-1911), che l’avevano ospitata nella primavera del 1909 nella loro casa romana (villa Wolkonsky) perché potesse stendere il risultato del suo lavoro degli ultimi due anni e l’avevano poi invitata nell’agosto di quell’anno nella villa La Montesca di Città di Castello (Pg) per tenere un primo corso di «pedagogia scientifica», già aperto ad allieve non italiane. Può essere interessante sapere che un’intima amica dei Franchetti, J.Vida Dutton Scudder, ricordi anche l’ardente desiderio del battesimo di Alice Hallgarten, da cui fu trattenuta dalla «appassionata lealtà alla razza» e dall’apertura ecumenica che caratterizzava l’ambiente della Montesca7. Il nuovo lavoro della M. consisteva nell’organizzare scuole infantili in case popolari e finì per diventare ragione principale della sua vita. Le era stato offerto sul finire del 1906 dal direttore dell’Istituto dei Beni Stabili di Roma ing. Edoardo Talamo, mentre si trovava «in ritiro spirituale per una settimana - come ha ricordato il primo dei suoi quattro nipoti Mario junior (1921-1993), affermato psicoanalista, già prima citato da una suora amica, che conosceva bene» e che la incoraggiò ad intraprendere la nuova strada8. Così il 6 gennaio 1907, nel quartiere S. Lorenzo a Roma, in via dei Marsi 53, veniva inaugurata la prima «Casa dei bambini» (nome suggeritole dall’amica giornalista Olga Lodi9). Il suo discorso inaugurale, che prendeva spunto dalla prima lettura della festa dell’Epifania (Isaia 60) per parlare della Casa dei bambini come di 6 Di quest’opera usciranno altre cinque edizioni italiane nel 1913, 1926, 1935 con gli editori Loescher e Maglione-Strini di Roma, fino a Garzanti del 1950, col nuovo titolo La scoperta del bambino, e all’edizione critica dell’Opera Nazionale Montessori, Roma 2000. Decine le edizioni straniere a partire da quelle francese e statunitense del 1912. L’aggettivo “scientifica” applicato alla Pedagogia era una indicazione ricorrente negli studiosi di fatti educativi, specie del secondo Ottocento. Cfr. S. Bucci, Educazione dell’infanzia e pedagogia scientifica da Fröbel a Montessori, Bulzoni, Roma 1990. 7 Cfr. M. Pomi, Una dilettante sublime. Alle radici dell’opera educativa di Alice Hallgarten Franchetti, «Encyclopaideia», n.16, luglio-dicembre 2004, pp. 99-148, p. 111 anche per i contatti della Hallgarten e della Montessori con la Teosofia e n. 23, pp. 136-138. 8 Cfr. M. Jr. Montessori, Che cosa ho imparato da Maria Montessori, «Vita dell’Infanzia», XXXVII (1988) 11-12, 21-22. La Schwegman (Maria Montessori, p. 57) ricorda che già dopo la nascita di Mario la Dottoressa era solita andare in un convento vicino a Bologna «a meditare insieme alle suore» ogni estate. Non fu comunque definitiva rottura con l’ambiente universitario romano, ma – come mostra la Honegger Fresco nel suo ultimo libro Maria Montessori, pp. 99-100 – un graduale distacco fino alla chiusura di ogni rapporto con la Facoltà nel 1919. 9 Cfr. l’ed. critica del Metodo della Pedagogia scientifica, Op. Naz. Montessori, 2000, p. 130.


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«una nuova Gerusalemme», fu criticato dai giornali come «esagerato» (cfr. La scoperta, pp. 37-38), forse anche per l’esplicito riferimento religioso, in contrasto con il laicismo allora dominante, specie nella Roma che avrebbe avuto come sindaco, dal 1907 al 1913, il Gran Maestro della Massoneria Ernesto Nathan, che pure fu, insieme con Leopoldo Franchetti, Maria Maraini Guerrieri Gonzaga e vari altri fra i sostenitori storici della dottoressa, fin dal Comitato Nazionale Montessori del 191310. Seguirono altre Case, fra cui quella aperta nel 1908 presso la «Società umanitaria» di Milano da una delle sue prime allieve, la livornese Anna Maria Maccheroni (18761965)11. Significative, anche per le scelte personali della dottoressa, le attività promosse presso le Suore francescane missionarie di Maria di via Giusti 12 a Roma, dove fu aperta una Casa dei bambini, anche per accogliere vari piccoli superstiti del terremoto/maremoto di Reggio Calabria e Messina del 1908. Case furono aperte anche in altre sedi delle Suore francescane, come a Milano e a Taormina, all’unica condizione di “arricchire il metodo” con l’educazione religiosa, cui la Montessori acconsentì, accettando anzi di seguire “fedelmente” un corso di religione della Maestra delle novizie a Grottaferrata, dove tornò anche durante le vacanze per trovare «il modo di dare al suo metodo uno spirito veramente cristiano». Il convento di via Giusti fu sede anche di un corso biennale (1910-1911) sul “metodo” per una dozzina di suore francescane e molte altre allieve, religiose e non, di cui circa 100 italiane e 150 americane, con lezioni tre volte alla settimana della stessa Montessori e osservazioni quotidiane sulla quarantina di bambini presenti nella scuola materna del convento12. Espansione internazionale - Intanto il suo Movimento - vicino per vari aspetti all’attivismo, ma rivendicato come diverso e più scientificamente fondato - si diffondeva specialmente negli USA (già nel 1912 usciva la prima edizione della biografia della Montessori da parte di Rita Kramer), con la collaborazione della pedagogista di ispirazione deweyana Helen Parkhurst (1887-1973), e nella Spagna catalana, dove operò la Maccheroni, che fece, fra l’altro, una specifica applicazione del metodo all’ambito dell’educazione religiosa. Questa esperienza spinse la M. a scrivere un’opera in parte pubblicata già nel 1922 (I bambini viventi nella Chiesa) e poi insieme ad altri scritti di «pedagogia liturgica» del 1931 e 1932 (La vita in Cristo e La santa Messa spiegata ai bambini), in un volume unico del 1970 presso Garzanti. In un discorso del 17 settembre 1970 Paolo VI ha rilevato la persistente attualità e la fecondità storica del metodo montessoriano nell’educazione religiosa. In particolare egli ha osservato come «Maria Montessori, convinta che la pedagogia liturgica era basata sugli stessi

10

Cfr. uno dei saggi introduttivi dell’ed. critica sopra citata di M. Trabalzini, Il Metodo della Pedagogia scientifica: genesi e sviluppi, pp. XLV-LXIX, LV per il riferimento specifico. 11 Per le scuole e i corsi tenuti presso l‘«Umanitaria» cfr. Bucci, Educazione dell’infanzia, cit., pp. 157-191. Già nel 1912 Il Metodo verrà pubblicato in francese come primo volume della collana Actualités pédagogiques et psychologiques e alla fine dello stesso anno partirà a Parigi la prima Maison des Petits, con una riconosciuta consonanza di principi e metodi con ambienti

teosofici, sia pure «arrivando per altre vie alle stesse conclusioni», come osserva Bucci, op. cit., pp. 149-151. 12 Cfr. Bucci, Educazione dell’infanzia, cit., pp. 135-155, specie 143-145, dove si trascrive integralmente una relazione inedita, forse della Superiora generale delle Suore francescane, con precise notizie sulle scelte spirituali e religiose della Montessori.


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principi della sua pedagogia profana, entrò decisamente nelle nuove vie aperte dal rinnovamento liturgico di san Pio X. Come la scuola doveva apparire la casa del bambino, così la chiesa doveva apparire la casa dei figli di Dio. Come l’attività del bambino nella scuola lo prepara alla vita, così la sua iniziazione sacramentale e liturgica è l’atrio che lo introduce nella comunità dei figli di Dio»13. Le sue proposte educative trovarono diffusa accoglienza in vari Paesi del Nord e dell’Est europeo, non esclusa la Russia, oltre che in America, Australia, Giappone, Cina (nell’ediz. del 1926 de Il Metodo vi è un riferimento ad una traduzione cinese), SudAfrica, Turchia e India, per un totale di 58 Paesi e di 36 lingue diverse. Questo avveniva anche grazie ai suoi contatti, iniziati già nel primo Novecento e mantenuti nei decenni successivi, con esponenti di società teosofiche, che vedevano nelle sue teorie pedagogiche una applicazione dei loro principi filosofici e religiosi e che, insieme con induisti, buddisti e musulmani abbracciavano il «Metodo», mentre i cattolici «poco se ne interessavano», fatto di cui la dottoressa si dichiarerà «molto rattristata»14. Il suo “Metodo” si era diffuso anche in Italia dove era stata fondata con R.D. 8 agosto 1924 l’Opera Montessori, di cui Mussolini aveva accettato la presidenza onoraria e Giovanni Gentile quella effettiva, fino al 1931, quando gli successe un’altra personalità del regime, il prof. Emilio Bodrero, ordinario di Storia della filosofia all’Università di Padova e, dal 1934, senatore del Regno. La dottoressa temeva però un’omologazione non solo con il fascismo (come mostrò l’atteggiamento da lei tenuto di fronte ai grandi, strumentali elogi del rappresentante del governo all’inaugurazione a Milano, il 21 febbraio 1926, del Corso nazionale istituito con regio decreto15), ma anche con l’attualismo idealistico di Giovanni Gentile (1875-1944) e, in particolare, di Giuseppe Lombardo Radice (1879-1938), portato a vedere l’educazione come “ar13 Cfr. Encicliche e discorsi di Paolo VI, vol. 21, Paoline, Roma 1970, pp. 104-107. Questo discorso è stato ricordato all’Angelus di domenica 6 agosto 1995 da Giovanni Paolo II. 14 Nell’Archivio di Storia dell’educazione dell’Università Cattolica, sede di Brescia, sono conservate centinaia di lettere della Montessori (e una decina del figlio Mario), in gran parte indirizzate a madre Luigia Tincani (1889-1976), fra cui quella di cui si riportano le espressioni del testo, datata 29 luglio 1949. Madre Tincani fondò le Missionarie della Scuola e – con l’appoggio del card. Pizzardo e l’approvazione del ministro Bottai – la LUMSA (Libera Università Maria SS. Assunta) nel 1939. Cfr. B. Papàsogli, Luigia Tincani. L’oggi di Dio sulle strade dell’uomo, Città Nuova, Roma 1985, pp. 310-322 e G. Dalla Torre, Le origini e lo sviluppo del Magistero «Maria SS. Assunta» in Vari, Luigia Tincani. La scuola come vocazione, Studium, Roma 1998, pp.109-143. Socia ordinaria dell’Opera Montessori, la Tincani apprezzava moltissimo il metodo della Dottoressa, sostenendone la validità presso autorità religiose e civili. 15 Cfr. A. Scocchera, Maria Montessori. Quasi un ritratto inedito, La Nuova Italia, Firenze 1990, pp. 57-59. Che però il coinvolgimento fra Montessori e Mussolini ci fosse e continuasse anche dopo («almeno fino al 1930»), come espressione di una «ammirazione personale probabilmente reciproca», è dimostrato da documenti dell’Archivio centrale di Stato (Roma), in parte ripresi dalla Schwegman (Maria Montessori, pp. 104-105). Oltre alla lettera del 20 gennaio 1926 di invito a Mussolini ad accettare la presidenza dell’Opera, è importante quella del 1928 di richiesta della «Sua protezione, che allontani gli ostacoli e dia mezzi e difese a questa opera grande». Significativa una lettera a Mussolini del 21 dicembre 1930 di denuncia delle difficoltà incontrate dai maestri italiani per iscriversi al corso internazionale a Roma dell’inizio del 1931. Cfr. M. Montessori, Il metodo del bambino e la formazione dell’uomo. Scritti e documenti inediti e rari, a cura di A. Scocchera, Opera Naz. Montessori, Roma 2002, pp. 262-267.


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te” piuttosto che come “scienza”. Lombardo Radice, fallito il suo tentativo di “inquadrare” anche la M. (insieme con Rosa e Carolina Agazzi, Giuseppina Pizzigoni, Maria Boschetti Alberti, Alice Hallgarten Franchetti, ecc.) nel movimento italiano delle “Scuole Nuove”, divenne critico di una Montessori, legata al «vecchio scientismo», che sembrava non accorgersi che «la filosofia dell’autoeducazione» era tutt’uno con «la pedagogia dell’idealismo»16, accentuando le critiche specie a partire dal ricordato corso del 1926 e dalla terza edizione de Il Metodo dello stesso anno. Di fatto si verificarono crescenti difficoltà nella Regia Scuola di Metodo Montessori, fondata nel 1928 e assegnata già dal gennaio 1929 alla direzione della giovane allieva Giuliana Sorge (1903-1987), e nei periodici di diffusione dell’Opera, promossi in Italia nel 1927-29 e nel 1931-32. Ne conseguì anche l’azione sempre più intensa della dottoressa a livello internazionale, con la promozione da parte del figlio Mario (e l’appoggio di personalità come Marconi, Freud, Piaget, Tagore, ecc.) de l’Association Montessori Internationale (AMI), fino alla decisione di tornarsene in Spagna nel 1934 e alla “sospensione” della Scuola di Metodo nel 1936 da parte del ministro della «bonifica fascista della scuola» Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon (1884-1959). Quell’anno i Montessori si stabilirono in Inghilterra per passare nel 1937 in Olanda, destinata a divenire sede definitiva e di più fiorente sviluppo (già all’inizio degli anni Trenta c’erano in Olanda più di 200 scuole montessoriane dell’AMI, sia cattoliche che “laiche”). Non mancarono tentativi, sia pure non conclusi positivamente, di mantenere viva la Scuola di Metodo, come mostra il carteggio del maggio-luglio 1937 fra la marchesa Maria Maraini Guerrieri Gonzaga (1869-1950) e la già citata Madre Tincani, perché la scuola o almeno un Centro-studi funzionasse presso un convento delle Missionarie della Scuola, sotto la direzione scientifica e didattica della Sorge17. Rapporti con la chiesa cattolica - Meno buoni erano divenuti anche i rapporti con la chiesa cattolica, che pure, attraverso uno scritto olografo dello stesso Benedetto XV, in data 21 novembre 1918, aveva dato la sua «benedizione apostolica [...] pegno di quelle grazie e di quei celesti favori che auguriamo per rendere fecondo di bene Il me-

todo della pedagogia scientifica applicato all’educazione infantile nelle case dei bambini18. Il suo testo I bambini viventi nella Chiesa, 1922, era stato criticato nei suoi

principi pedagogici e riconosciuto solo come sussidio «per facilitare l’educazione tradizionale» da «La Civiltà Cattolica», mentre la severa denuncia del «naturalismo pedagogico» dell’enciclica Divini illius magistri del 31 dicembre 1929 (nn. 59-63) sembrò indirizzarsi anche ad alcune delle sue più note concezioni. Più netta la polemica contro di lei e la scelta a favore delle Agazzi da parte del docente di pedagogia dell’Università Cattolica Mario Casotti (1896-1975) nel libro Il metodo Montessori e il meto16

Per pagine di condivisione, ma anche di critica cfr. già il testo di G. Lombardo Radice, Ac-

canto ai maestri, Paravia, Torino 1925, pp. 509 e ss. 17

Anche per il carteggio fra la Maraini Guerrieri Gonzaga e la Tincani, cfr. il citato Archivio di storia dell’educazione dell’Università Cattolica, sede di Brescia. 18 Cfr. l’ Introduzione alla III edizione de Il Metodo, p. VII. Cfr. anche Scocchera, Maria Montessori, cit., p. 61, dove si ricorda che la Dottoressa rese noto il documento pontificio solo nel 1926 proprio per cercare di uscire dall’assedio che le veniva da più parti, non senza esprimere il proprio compiacimento per avere scritto il Papa di proprio pugno il messaggio con il lungo titolo originale della sua opera.


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do Agazzi (La Scuola, Brescia 1931). Forme meno impegnative di “riconoscimento” la M. ebbe anche da Pio XI e Pio XII, come afferma la Sorge nel suo carteggio con la Tincani (lettera del 6 maggio 1949) o la stessa Montessori in una lettera del 28 agosto 1950, sempre alla Tincani, di caloroso ringraziamento per il «bellissimo telegramma», con «la benedizione del Santo Padre» (Pio XII) per i suoi ottant’anni. Intanto le vicende degli anni Trenta con l’avvento del nazismo, le guerre d’Etiopia e di Spagna determinarono nel cuore d’Europa uno stato di febbre diffusa che preparava il nuovo conflitto mondiale. M., che già si era attivata durante il primo conflitto, fu fra gli spiriti più preveggenti e sensibili e finì per fare della sua Associazione un centro non solo di innovazioni pedagogiche, specie per l’età infantile, ma anche per ragazzi e adolescenti (cfr. il volume del 1948, Dall’infanzia all’adolescenza, diffuso in Italia da Garzanti nel 1970), ma anche di iniziative per una pace fra i popoli, fondata su una maggiore libertà e giustizia e su una più sostanziale e diffusa democrazia, come si può leggere in Educazione e pace, raccolta di discorsi tenuti fra il 1932 e il 1939, pubblicata in Italia da Garzanti nel 1949 e riproposta nel 2004 dall’Opera Nazionale Montessori19. Invitata in India alla vigilia del secondo conflitto dal presidente della Società teosofica George Sidney Arundale, vi giunse nell’ottobre 1939 con il figlio Mario. Finì per restarvi fino all’estate del 1946, anche per l’entrata in guerra dell’Italia, in un regime di formale “internamento”, come ricorda il figlio nella prefazione del 1949 del suo nuovo libro La mente del bambino. Questo fatto non le impedì di tenere corsi, seminari e conferenze, da cui nacquero altri importanti scritti. Seguì nel 1946 il ritorno in Europa - non senza nuovi viaggi in India e nel Pakistan nel 1948 e 1949 - con accoglienze calorose e riconoscimenti ufficiali di governi e di istituzioni culturali (lauree ad honorem, premio mondiale Pestalozzi, Legion d’onore, Ordine di Orange Nassau, ecc.). Vi furono anche tre nomination (dal 1949 al 1951) per il Nobel per la pace, con il forte impegno di uomini di cultura e di politici, a partire dalla prima proposta di Maria De Unterrichter Jervolino, sottosegretaria alla PI del ministro Guido Gonella e presidente dell’Opera Nazionale Montessori, sostenuta dal ministro degli Esteri conte Carlo Sforza e dall’ambasciatore a Londra duca Tommaso Gallarati Scotti. Tra i promotori fu anche il senatore don Luigi Sturzo, estimatore della “Dottoressa” fin da quando, come prosindaco di Caltagirone, aveva cercato da lei suggerimenti per le scuole materne comunali, apprezzandone in particolare il profondo rispetto della libertà del bambino, contro la diffidenza verso l’autonomia personale, diffusa in tanta parte della società italiana e della sua tradizione culturale, che spiegherebbe il relativo insuccesso da noi del suo metodo20. Anche l’on. Aldo Moro, insieme con la moglie “Nora” (Eleonora Chiavarelli, allieva dell’ultimo Corso della Montessori nel 1951), fu «montessoriano convinto», così da far frequentare ai figli, 19

A quest’ultima edizione facciamo riferimento per le nostre citazioni nel testo. Il primo intervento della raccolta, pubblicato originariamente in francese, La paix et l’éducation, Bureau international d’éducation, Genève 1932, pp. 23, contenente, fra l’altro, esplicite critiche al «ducismo» e alla «idolatria dei condottieri» (così in italiano anche nel testo francese), fu criticato in una lettera a Mussolini dal nuovo presidente dell’Opera Bodrero che lo definì «un’applicazione del suo metodo alla pace [...] grottesca e puerile». 20 Cfr. la sua testimonianza sulla rivista «La via» del 17 giugno 1952, ripresa in Ricordando Maria Montessori, Opera omnia, vol. 12., Zanichelli, Bologna 1970, pp. 243-245.


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spesso accompagnandoli di persona, scuole di allieve della Dottoressa, promuovendo anche scuole secondarie inferiori e superiori, ispirate al suo metodo21. Forse però era allora difficile pensare di dare ad un’italiana un Nobel per la pace, come pensava la stessa Montessori, che, pur offrendo alla Sorge precisi suggerimenti per motivare la nomination, diceva anche di non credere «che l’Italia potesse fare questo passo»22. Nuove fondazioni in Italia - In Italia, la M., di ritorno dall’India su invito del ministro dell’Istruzione Gonella e per la ripresa dell’Opera, grazie al conte Alessandro Casati (presidente già dal 1945 del Comitato per la ricostruzione dell’Opera), al prof. Salvatore Valitutti, al presidente del CNR Gustavo Colonnetti e, soprattutto, all’impegno deciso di Giuliana Sorge23, fu ricevuta solennemente a Montecitorio dall’assemblea Costituente nel maggio 1947 e invitata dalla Jervolino, allora commissaria dell’Opera, a riprendere nel nostro Paese il suo lavoro24. Continuavano intanto i suoi interventi in corsi e congressi, come quello di Londra del 1947, di S. Remo e di Perugia del 1949, di Roma del 1950. In quell’ anno inaugurò presso l’Università per stranieri di Perugia un Centro internazionale per la scuola materna, che sarà poi diretto per circa quarant’anni da M. Antonietta Paolini (mancata, a 92 anni, nel gennaio 2000), mentre Camillo Grazzini (scomparso quattro anni dopo) dirigerà l’analogo Centro di Bergamo per la scuola elementare. Concludendo il Congresso di Londra del 1951 ella disse che il più grande onore e il maggior segno di gratitudine era per lei una reale attenzione al bambino e alla sua ricchezza interiore, cambiando un atteggiamento, diffuso anche fra i suoi ascoltatori, che la faceva sentire come un elefante da circo: lei indicava il bambino e i più si fermavano a guardare e ad ammirare il suo dito!25. Nel Natale di quello stesso anno scriveva una lettera alla Paolini (“Pao” per la “Mammolina”, come amava firmarsi, utilizzando il nome con cui la chiamava il nipote Mario) per esprimere la «addolorata» constatazione della «distanza che ci separa dal Cristianesimo», anche fra «quelli stessi che hanno tanto studiato e praticato le nostre dottrine» e «sono pronti a dilaniarsi», mentre bisognerebbe «attaccare l’opera nostra al Cri-

21

Cfr. G. Honegger Fresco, Radici nel futuro. La vita di Adele Costa Gnocchi (1883-1967), La Meridiana, Molfetta (Ba) 2001, pp. 76 e 187-190, oltre a numerosi altri riferimenti a Moro e alla moglie. 22 Cfr. sempre nell’Archivio di Brescia la lettera della Sorge alla Tincani del 21 ottobre 1947, con allegato un brano di una lettera della M. alla Sorge sul tema della nomination per il Nobel. Per la vicenda del Nobel cfr. in particolare C. Grazzini Un’occasione perduta, «Il Quaderno Montessori», estate 2002, pp. 59-64. 23 Cfr. nell’Archivio bresciano il carteggio della Sorge con madre Tincani, compresa la lunga lettera al ministro Gonella del 22 dicembre 1946 per sollecitare l’appoggio per il Nobel e la nomina di un presidente autorevole dell’Opera, indicato nel prof. Colonnetti, che reggeva l’Opera dopo le dimissioni di Casati. 24 Cfr. G. Honegger Fresco, Il materiale Montessori, Ed. Il Quaderno Montessori, Castellanza (Va) 1993, p. 167. Per un nuovo ricevimento al Ministero della P.I., l’11 luglio 1947, con il testo di brevi discorsi del ministro e della dottoressa, cfr. G. Gonella, Cinque anni al Ministero della Pubblica Istruzione, vol. 3., Giuffrè, Milano 1981, pp. 195-196. 25 Cfr. M. Jr. Montessori, Maria Montessori mia nonna, cit., p. 56.


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stianesimo: imparare la disciplina che viene da Dio e che si è vista vivere nella virtù di tanti cristiani»26. Pochi mesi dopo, mentre stava progettando col figlio Mario un viaggio nel Ghana, la morte la colse il 6 maggio 1952 nella piccola città olandese di Noordwijk, dove risiedeva. Lì fu sepolta, con il rito cattolico, da cittadina del mondo quale si sentiva e quale era effettivamente stata. Sulla lapide della sua tomba nel cimitero di Noordwijk si è ripresa una preghiera di pace, a lei cara, di papa Benedetto XV durante la prima guerra mondiale («Io prego i cari bambini che possono tutto di tendere per me le mani all’altare»), con una rilettura in chiave “secolarizzata”: «Io prego i cari bambini che possono tutto di unirsi a me per la costruzione della pace negli uomini e nel mondo»27. Esiste una lapide anche al cimitero romano del Verano che la ricorda come «illustre scienziata e pedagogista» tutta dedita «al rinnovamento e al progresso spirituale dell’umanità attraverso il bambino». Ora - conclude l’iscrizione - «riposa nel cimitero cattolico di Noordwijk (Olanda), lontana dalla sua terra che aveva così profondamente amata, […] a testimonianza dell’universalità della sua opera che la rese cittadina del mondo»28.

L’ispirazione cristiana della pedagogia montessoriana e le opere dedicate all’educazione religiosa Quando la Montessori accettò l’invito di occuparsi di quella che sarebbe divenuta la prima «casa dei bambini» pensava all’occasione offerta di sperimentare la sua «buona semente di grano» in un «campo di terra feconda». In realtà non fu così, poiché - come ha scritto in Il segreto dell’infanzia (1938; riediz. Garzanti 1986, pp.151-153 «appena mossi le zolle di quella terra io trovai oro invece che grano», per cui «pensando con grande rispetto a quei bambini dissi fra me: Chi siete? Avevo forse incontrato quei piccoli che Cristo si prese in braccio e che gli ispirarono le divine parole: Chiunque riceve in nome mio uno di questi fanciulli riceve me; Se non diventerete come i piccoli, non entrerete nel regno dei cieli». Questi e altri riferimenti biblici ricorrono come un leitmotiv nell’opera della M., dai primi agli ultimi scritti, non come un fatto esornativo, ma costitutivo del suo discorso pedagogico, dimostrandone l’ispirazione religiosa di fondo. Davvero, leggendo le sue tante pagine permeate di profonda religiosità, non si può non condividere l’opinione «di chi, scevro di giudizi preconcetti - come ha scritto il romano p. Vincenzo Ceresi (1869-1958) - sente di avere a che fare con una donna di fede e di fede non superficiale»29. 26

Il testo della lettera, inviatomi da Sofia Cavalletti, ancora impegnata – nonostante i novanta e più anni - nella rinnovata applicazione del metodo montessoriano all’educazione religiosa, è riprodotto nel mio volume La pace giusta, Mazziana, Verona 2007, pp. 320-321. 27 Cfr. Schwegman, Maria Montessori, p. 118. Per il riferimento al «rito cattolico» cfr. Honegger Fresco, Maria Montessori, p.155. La preghiera di Benedetto XV è ricordata, ad es, nel terzo dei testi di educazione religiosa della raccolta di M. Montessori, I bambini viventi nella Chiesa, La vita in Cristo, La santa Messa spiegata ai bambini, Garzanti, Milano 1970, p.102. 28 Per il testo dell’iscrizione cfr. L. Grassi, La rosa gialla e i coralli. Anche dalla tomba Maria Montessori ci impartisce una lezione di vita, «Il Quaderno Montessori», aut. 2007, pp. 20-21. 29 Cfr. V. Ceresi, L’ispirazione religiosa nel metodo M., “Studium”, 1957, n. 10, p. 3. Quello di padre Ceresi è un giudizio non isolato. Cfr., ad esempio, F.M. Bongioanni, Il positivismo


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Anche Mauro Laeng (1926-2004), ordinario di pedagogia, presentando un libro di Sofia Cavalletti - studiosa di ebraico e di lingue semitiche comparate con il prof. Eugenio Zolli (1881-1956), ex rabbino-capo di Roma e poi, fino ad oggi, presidente e animatrice del montessoriano Centro di catechesi del Buon Pastore (Roma, via degli Orsini, 34) - non ha temuto di parlare per la Dottoressa di «concezione religiosa cristiano-cattolica, senza rigidezze». Del resto, la stessa esperienza educativa della sua grande amica e sostenitrice Hallgarten Franchetti alla scuola della Montesca era caratterizzata dalla presenza di una significativa educazione religiosa, con l’insegnamento regolare di Antico e Nuovo Testamento e con una preghiera d’inizio giornata, formulata da una delle più nobili figure della crisi modernista italiana don Brizio Casciola (1871-1957) e definita «suggello» del lavoro educativo di quella scuola da Giuseppe Lombardo Radice (1879-1938), che l’ha riprodotta nella quarta edizione del suo Athena fanciulla (Bemporad 1931, pp. 33-34)30. Certo, si tratta di una religione senza bigottismi, ma non senza esperienza di una precisa pratica, come dichiara lei stessa nella prefazione a La santa Messa spiegata ai bambini («Sappiamo per esperienza come sia difficile seguir la Messa con fede, anche dopo anni di pratica, quando quasi si sanno tutte le parole a memoria»). Semmai si dovrà parlare di una pratica non presente in tutto l’arco della vita, specie per i continui spostamenti in varie parti del mondo, anche se rimase sempre viva – come si è visto nella conclusione del paragrafo precedente – l’intenzione di dare un’impronta cristiana alle sue scelte educative e di vita. Forse negli anni della piena maturità e delle sue lunghe permanenze in Spagna, Olanda, Inghilterra, India, ecc., quando pure non mancarono contatti religiosi, anche con persone significative di fede cattolica, la M. visse l’istanza religiosa in senso meno strettamente confessionale, ma sempre come motivo di fondo della sua educazione “cosmica” o “dilatatrice”, di quello che «già i medioevali chiamavano extensio animi ad magna», come annota la Cavalletti31. Anche nelle cinque edizioni della sua opera principale, pur con approcci diversi, è sempre presente l’ispirazione religiosa. Nelle prime due edizioni del 1909 e 1913, dove pedagogico in Nuove questioni di storia della pedagogia, vol. 3., La Scuola, Brescia 1977, pp. 61-62, dove sottolinea la dimensione profondamente religiosa dell’uomo e del bambino in particolare nella Montessori, in sintonia con la riforma di Pio X. Aveva espresso un giudizio critico sulla M. dal punto di vista filosofico, ma rendendo buona testimonianza alla sua fede ed affermando la non incompatibilità tra il cattolicesimo ed un metodo fondato su un sano sperimentalismo e aperto allo sviluppo dell’educazione religiosa anche il noto gesuita M. Barbera, L’educazione nuova e il metodo M., Ancora, Milano 1946. 30 Cfr. M. Laeng, Presentazione in S. Cavalletti, Il potenziale religioso tra i 6 e i 12 anni, Città nuova, Roma 1996, p.10. Cfr. M.Pomi, Una dilettante sublime, 120-121 e 141-142, n. 63. 31 Cfr. Cavalletti, Il potenziale religioso, pp. 69-71. Per altri importanti lavori della Cavalletti cfr. Il potenziale religioso del bambino. Descrizione di un’esperienza con bambini da 3 a 6 anni, Città nuova, Roma 1934 e, insieme con Gianna Gobbi, Educazione religiosa, liturgia e metodo Montessori, Paoline, Roma 1961. La Gobbi (1919-2002) divenne montessoriana alla scuola di Adele Costa Gnocchi e Maria Antonietta Paolini e fu collaboratrice della Cavalletti per cui si è detto: «Gianna ha portato i bambini alle Scritture, Sofia le Scritture ai bambini». Cfr. G. Honegger Fresco, Il cammino di una maestra Montessori di nome Gianna, «Il Quaderno Montessori», primavera 2002, pp. 49-52.


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frequenti sono i riferimenti biblici e vi è un’osservazione importante sull’opportunità di non prescindere nella attività educativa dal sentimento religioso dell’uomo, manca però uno specifico capitolo sull’educazione religiosa. Tale capitolo, in senso strettamente cattolico, compare invece nelle edizioni del 1926 e 1935, anche per influsso della Riforma Gentile (già l’art. 3 del regio decreto 1 ottobre 1923 poneva la religione «a fondamento e coronamento della istruzione elementare») e dell’art. 36 del Concordato del 1929, che consentiva l’estensione alle medie dell’insegnamento della religione cattolica come «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica». Esaminando l’ultima edizione (La scoperta, p. 189) mi sembra anzitutto importante che venga ripreso il motivo del sentimento religioso e della necessità del suo sviluppo, a partire da quello che la M. chiamava il «periodo sensitivo dell’anima» dei bambini, capaci di avere «intuizioni e slanci religiosi […] sorprendenti per chi non li abbia osservati […], eccezionalmente dotati di intuizione soprannaturale, miracolosamente chiamati dalla grazia divina». È poi significativo che in tale testo (ivi, pp. 319-326) il capitolo sull’educazione religiosa venga riportato per intero, sia pure con le indicazioni finali - espressione forse di preoccupazioni di carattere ecumenico o interreligioso - sulla decisione di abolire l’esperimento di educazione religiosa, «perché esso si riferiva solo all’educazione religiosa cattolica, in cui è possibile fare la preparazione attiva per mezzo di movimenti del corpo e di oggetti [...] mentre questo non può farsi con altre religioni del tutto astratte». Si ribadisce però anche il valore degli esperimenti compiuti, che «già dimostrano la possibilità pratica di introdurre la religione nella vita del piccolo bambino come una ricca fonte di gioia e di grandezza» e si richiamano i testi pubblicati sull’argomento (anche quelli non diffusi in Italia), per concludere laconicamente che «questi tentativi pratici non possono essere propagati» (che è un discorso diverso da quello dell’abolizione)32. A proposito di questo capitolo sull’educazione religiosa Maria Luisa Leccese Pinna, in una lunga nota della sua pur bella antologia di scritti montessoriani, ha osservato che «i passi nuovi interpolati capovolgono tutta l’impostazione», riducendo il «potenziale religioso» del bambino ad una ricerca di risposta al suo bisogno di sicurezza e protezione che rimanda ad un concetto infantile di religione, fondata - come dice la M. - su «Dio che ama e protegge il bambino e manda i suoi angeli ad accompagnarlo invisibilmente giorno e notte» (cfr. anche Educazione e pace, pp. 166-167, dove però si afferma chiaramente la necessità di uno “svolgimento” di quel concetto). Non mi sembra condivisibile una tale interpretazione, anche perché considera di fatto irrilevante la decisione della M. di riprendere comunque integralmente anche nell’ultima edizione de Il metodo il capitolo sull’educazione religiosa. Né la citazione da Come educare il potenziale umano (p. 111), fatta dalla Leccese Pinna, mi sembra capace di

32

Cfr. A. Capitini, Sul concetto di liberazione del pensiero educativo della M., Pacini Mariotti, Pisa 1955, dove si nota la contraddittorietà delle argomentazioni addotte per giustificare la mancata diffusione dei tentativi pratici di insegnamento religioso. Oltre a tutto, anche nelle altre religioni e non solo in quella cattolica sono presenti simboli e riti che si prestano ad essere “materializzati” attraverso atti e movimenti del bambino.


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giustificare la conclusione di una M. la cui «fede torna a dirigersi verso l’umanità», con un «Dio che non si riconosce in alcuna religione storica»33. Anche l’annotazione della medesima studiosa sulla mancanza di capitoli sull’educazione religiosa nelle prime opere fino a L’autoeducazione del 1916 e poi nelle pubblicazioni successive alle edizioni del 1926 e 1935 della sua opera maggiore «fino a La mente del bambino», ha una sua giustificazione letterale, non certo nel senso di escludere numerosi e suggestivi riferimenti alla fede cristiana anche in quelle opere. Semmai essa potrebbe avvalorare la tesi - pure, a mio avviso, non sostenibile - di un’opzione confessionale della proposta educativa montessoriana come di una «parentesi», per dirla con un testo di Scocchera, che ha probabilmente influito anche sulle più recenti tesi della Schwegman34. Vien di nuovo da pensare ad un giudizio espresso da Sturzo, che, dopo visite a varie scuole e incontri personali con la M., concluse che «nessuna pregiudiziale anticristiana fosse alla base di quell’insegnamento», ma che questa «poteva essere introdotta in questo e in altri metodi da maestri non credenti». La mancata diffusione del metodo in Italia, rispetto a Paesi da lui ben conosciuti per il suo lungo “esilio”durante il periodo fascista, come Inghilterra e Stati Uniti, era dovuta piuttosto ad «un vizio organico del nostro insegnamento: manca la libertà; si vuole l’uniformità, quella imposta da burocrati e sanzionata da politici […] c’è diffidenza verso lo spirito di libertà e di autonomia della persona umana che è alla base del Metodo Montessori»35. In realtà, come si è visto, esistono documenti e testimonianze sulla cui base è possibile sostenere che la riscoperta della religione cristiana era avvenuta ben prima del 1916 e che, pur con scelte pratiche diverse a seconda dei tempi e dei luoghi, la M. abbia mantenuto fino alla morte un legame significativo con la fede cristiana, come mostra - oltre alla citata lettera alla Paolini del Natale 1951 - la corrispondenza con personalità del mondo cattolico, a partire da madre Luigia Tincani. È anche importante conoscere che la dottoressa tenne corsi di educazione religiosa anche oltre gli anni venti o trenta, come quello del settembre 1943 a Kodoi in India, per il quale esiste nell’Archivio bresciano di Storia dell’educazione, su carta intestata dell’Opera Montessori di Roma, copia d’una lettera di ringraziamento alla M. di sacerdoti, suore e laici cattolici, ma anche bramini e musulmani, «tra cui alcuni convertiti in seguito al corso». È vero poi che ne L’autoeducazione (cfr.la nuova ed.Garzanti,2000) manca uno specifico capitolo sull’educazione religiosa, ma l’opera è tutta impregnata da un cristia-

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Cfr. M. Montessori, Educazione alla libertà, a cura di M.L. Leccese Pinna, Laterza, RomaBari 1986, pp. 193-195. 34 Cfr. Scocchera, Maria Montessori, pp. 151-160 e Schwegman, Maria Montessori, pp. 57, 68,102,111-119, dove si parla di riavvicinamento al cattolicesimo e poi di distacco, in un periodo «compreso fra il 1929 ed il 1934», con la ripresa di contatti sempre più intensi e profondi con la teosofia, fino a presentarla nell’ultimo capitolo come «la grande maestra nel senso teosofico». 35 Cfr. Sturzo, Ricordando Maria Montessori, cit., pp. 243-245. Il giudizio di Sturzo è ben diverso da quello diffuso nella stampa integralista e antimodernista. Cfr., ad esempio, le prese di posizione sul Metodo Montessori de «L’Unità Cattolica», 25 gennaio 1911 e 12 maggio 1912.


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nesimo riscoperto e profondamente rivissuto, non certo solo nel lungo capitolo sulla questione morale. Questa è sì trattata anche in prospettiva socio-antropologica, con un sano e condivisibile positivismo, ma per approdare ben presto ad un discorso saldamente radicato sulla rivelazione cristiana, che si conclude con due paragrafi (pp. 305-312) su «Morale e religione» e «Il sentimento religioso dei bambini». È quello dell’educazione del sentimento religioso un impegno già ben presente alla M., nonostante le sue ancora «scarse esperienze su l’ educazione religiosa» (ma in due note parla degli «interessanti esperimenti» di Barcellona, da cui deve nascere «l’opera che dovrà far seguito alla presente»), anche se, come constata, «il partito politico imperante nei municipi aveva abolito la religione dalle scuole pubbliche con un rigore settario che faceva temere la parola Dio, come si teme la parola diavolo tra i bigotti» (p. 310). L’educazione religiosa sembra a lei necessaria per non indurre mutilazioni spirituali nei bambini e per non inaridire la fonte della morale, impedendo che attorno al loro spirito si formi «la rozza scoria fatta di tenebre, che rende così difficile all’adulto di abbracciare i misteri dello spirito con la semplicità del bambino. Più tardi è incomprensibile, come a Nicodemo che ribatte al Cristo: “Rinascere? Come potrò rientrare nell’utero di mia madre?”» ( cfr.L’autoeducazione, pp.243-312 per «La questione morale», pp.309-312 per le citazioni puntuali; cfr.spec. pp.251-252, dove riporta il noto passo di Mt 25,31-46 sul giudizio finale, osservando che nell’identificazione fra Cristo e i poveri sta «la vera differenza tra la morale pagana e quella cristiana»). Riguardo alle opere dedicate specificamente all’educazione religiosa dobbiamo anzitutto osservare che quelle oggi disponibili «sono solo una parte dell’abbondante produzione della Montessori in campo religioso, in gran parte ancora inedita»36. Nel primo scritto del volume di Garzanti del 1970 (I bambini viventi nella Chiesa, pp. 914), secondo lo stile ormai sperimentato della M. di parlare anzitutto dell’origine dei suoi lavori, viene rievocato l’incontro con il catalano p. Casulleras (futuro vescovo), che aveva letto il libro sul metodo del 1909 e che, pur ignorando che lei fosse cattolica (dato che nel libro non vi era «nessuna professione diretta di fede religiosa»), aveva trovato quel metodo «cattolico nella sostanza» per otto precise ragioni: «umiltà e pazienza della maestra, i fatti messi in valore più che le parole, l’ambiente sensoriale come inizio della vita psichica, il silenzio e il raccoglimento ottenuto dai piccoli, la libertà di perfezionarsi lasciata all’anima infantile, la cura minuziosa nel prevenire e correggere tutto quanto è male [...], il controllo dell’errore immedesimato col materiale di sviluppo e il rispetto della vita interiore dei bambini, professato con culto di carità» (I bambini viventi nella Chiesa, p.10). A queste ragioni ora poteva aggiungerne una ancora più essenziale, avendo subito colto la fondamentale importanza per l’educazione religiosa della liturgia «espressione 36

Cfr. la nota introduttiva di S. Cavalletti alla raccolta Garzanti del 1970 dei tre volumetti del 1922, 1931 e 1932 già citati, l’unica disponibile praticamente in italiano (ma se ne desidererebbe la ristampa). Questa raccolta era stata arricchita in francese anche dei testi per la preparazione e la lettura del Messale per i bambini. Cfr. M. Montessori, L’éducation religieuse, Desclée de Brouwer, Paris 1956. L’avant-propos di questo testo del gesuita Pierre Faure (pp.7-14) è stato tenuto presente da Paolo VI per il discorso già ricordato a un congresso internazionale di docenti per il centenario della nascita della M.


L’ispirazione religiosa nella pedagogia di Maria Montessori

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grandiosa del contenuto della fede», che «può bene chiamarsi il ‘metodo pedagogico’ della Chiesa cattolica» e avendo colto, ad un tempo, la straordinaria consonanza con motivi fondamentali del suo Metodo, tanto da far apparire la partecipazione alla vita della Chiesa «quasi fine dell’educazione che il Metodo si propone di dare» (I bambini viventi, p.14). Su questa profonda consonanza concordano vari autori, da Canzio Pizzoni, a Pierre Faure, a p. Vincenzo Ceresi, a Fausto M. Bongioanni, oltre ai già ricordati Laeng, Gobbi e Cavalletti. Il primo di questi studiosi sottolinea come la consonanza fra metodo montessoriano e liturgia cattolica nasca dall’itinerario percorso liberamente dalla M. «dalla percezione del valore della religione in genere al respiro nella religione cristiana e al collegamento colla vita del cattolicismo», fino a saper cogliere le “armonie” esistenti fra le sue istanze pedagogiche e le istanze di una fede che pone a modello del discepolo il bambino, da rispettare assolutamente («Guai a chi lo scandalizza!») e da considerare la via privilegiata per arrivare a Cristo e, attraverso di lui, al Padre37. È il discorso che la stessa M. riprende, con chiara consapevolezza, nella prefazione al terzo scritto (La santa Messa spiegata ai bambini, pp.101-105), ribadendo il posto particolare riservato nel Vangelo ai fanciulli, depositari dei misteri del Regno e modelli di sequela cristiana. Queste priorità evangeliche apparivano a lei finalmente accolte con quella che chiamava «la grande riforma di Pio X» (Quam singulari cura dell’8 agosto 1910), che ammetteva i piccoli all’eucaristia (a ricevere «non più solo - per dirla con Pizzoni - la grazia del Signore, ma il Signore della grazia») o anche con le parole già ricordate di Benedetto XV durante la prima guerra mondiale: «Io prego i cari fanciulli che possono tutto di tendere per me le mani all’altare». La M. si rammaricava però che alle intuizioni presenti nei documenti papali si affiancassero nella realtà «metodi antiquati di educazione», espressione della vecchia incomprensione da parte degli adulti del carattere dei bambini, nei quali sono «vivi impulsi spirituali che talvolta nell’adulto sono atrofizzati». Certo, occorre pure l’insegnamento degli adulti, ma ricordando «che il fanciullo può aiutarci, mostrandoci la via del regno dei cieli», con un atteggiamento quindi di grande attenzione e rispetto, così spesso disatteso nella normale pratica liturgica e catechistica, di cui la M. sottolinea le pesanti volgarità, soffermandosi però maggiormente su due comunissimi errori, meno volgari, ma altrettanto deleterii, quello di non tenere distinte istruzione e partecipazione ai misteri divini e quello di non far partecipare attivamente i bambini ai riti. Centrando l’educazione religiosa sulla liturgia, la M. ha colto l’importanza del “segno” (l’acqua, il pane, il vino, il libro aperto, la candela accesa, i paramenti diversamente colorati, ecc.), la sua immediata funzione educativa, senza troppe parole o istruzioni. «È proprio del segno - ha osservato la Cavalletti nella introduzione già citata al volume di Garzanti del 1970 - non tanto presentare alla mente delle verità da comprendere, quanto riprodurre delle situazioni, dei fatti, perché tutti possano esserne partecipi e attivi. La catechesi dei segni è quindi scevra da intellettualismo, ed è nel senso più pieno “aiuto alla vita” religiosa del bambino». Può essere interessante sottolineare che gli stessi titoli dei suoi scritti di specifica educazione religiosa (I bambini viventi nella Chiesa, La vita in Cristo, ecc.) indicano, in forma incisiva e attraente 37

Cfr. C. Pizzoni, Saggi di vita e di cultura religiosa, Donnini, Perugia 1949, p. 128.


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per i piccoli, le ricorrenze liturgiche come un atto vivo piuttosto che come memoria di fatti, in linea con posizioni teologiche, che vedevano le tappe dell’anno liturgico come occasioni per rivivere realmente gli avvenimenti della vita di Cristo. La priorità attribuita al linguaggio muto dei segni e ad una catechesi come propedeutica della liturgia è in linea anche con la visione montessoriana della funzione dell’educatore che deve “dirigere” e magari anche “correggere” l’educando, ma con un’assistenza umile e discreta, tanto più necessaria sul piano religioso «se non vuol dar luogo - come ha osservato Ceresi - al tanto deleterio seme dell’ipocrisia». Ricordando un passo de Il bambino in famiglia, egli osserva che sul terreno religioso in particolare è necessario che l’educatore resista alla tentazione di «prendere il bambino per mano, di trascinarselo dietro». Proprio come nell’episodio ricordato dalla M., l’educatore «deve lasciarlo camminare solo, guidandolo col cenno, col leggero mormorio della voce e, se può, col silenzio eloquente dell’esempio e con molta umiltà, per proporre e non imporre, per consentire che egli prenda una forma religiosa in armonia con la propria personalità»38. Osserviamo, per concludere, la persistenza in tutta l’opera montessoriana del motivo della predilezione evangelica per il fanciullo «padre e maestro dell’uomo», che «può fare molto per noi, più di quello che noi possiamo fare per lui» (cfr. il periodo conclusivo di Educazione e pace, ma il motivo ricorre spesso nelle pagine precedenti, come in tante altre sue opere). Una particolare sottolineatura si coglie nel libro del 1916 (L’autoeducazione, p.264), dove alla tendenza dell’adulto a sgridare il bambino col ritornello “cattivo! cattivo!” contrappone il profilo di chi «non pensa male, non gode dell’ingiustizia, a tutto si accomoda, tutto crede, tutto spera» della 1Cor 13,5-7, attribuendolo al bambino. Riprende poi il motivo, sviluppandolo diffusamente, in una delle sue ultime opere La mente del bambino (pp. 289-291), dove i versetti del testo paolino vengono definiti «una lunga enumerazione di fatti e descrizione di immagini», che «ci ricordano stranamente le qualità dei bambini […] la potenza della Mente Assorbente che assorbe tutto e tutto incarna nell’uomo». «La Mente Assorbente – conclude – forma la base della società creata dall’uomo, e ci appare nelle sembianze del delicato e piccolo bambino che risolve le misteriose difficoltà del destino umano con le virtù dell’amore […]. Se consideriamo la descrizione di san Paolo e poi guardiamo il bambino, dobbiamo dire: in lui si trova quanto egli ha descritto: qui è personificato il tesoro che racchiude tutte le forme della carità». Certo, per Paolo (1Cor 14,20) occorre essere «fanciulli nel cuore, non nella mente», ma è vero – come diceva René Voillaume, che fu priore dei Piccoli Fratelli di Gesù di Charles de Foucauld (18581916) – che «nulla dà maggiormente l’impressione che Dio abita in un uomo di questo sguardo che “tutto giustifica, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”»39 . 38 Cfr. V. Ceresi, Il sentimento religioso e il metodo Montessori, a cura del Circolo Amici della didattica di Roma, s.d., pp. 13-14. Cfr. dello stesso, Lo spirito religioso nel metodo Montessori in La formazione dell’uomo nella ricostruzione mondiale; Atti dell’VIII Congresso internazionale, Ente Opera M., Roma 1950, pp. 446-463. Cfr. anche Religione e Metodo Montessori in Maria Montessori e il pensiero pedagogico contemporaneo. Atti dell’XI Congresso internazionale M., Ente Opera M., Roma 1958. Per l’opera della M., cui fa preciso riferimento p. Ceresi, cfr. Il bambino in famiglia (1923 per la prima edizione in tedesco e 1936 per quella in italiano), Garzanti, Milano 2000, pp. 108-109. 39 R. Voillaume, Sulle strade del mondo, Morcelliana, Brescia 1964, p. 94.


RICERCHE E STUDI

RivLas 75 (2008) 3, 339-352

La “filosofia per bambini” e il Programma di arricchimento strumentale Mathew Lipman e Reuven Feuerstein a confronto Lorenzo Tébar Belmonte, FSC

Centro Superior de Estudios Universitarios La Salle, Madrid1

Ragionare, riflettere, pensare: c’è ancora qualcuno che insegna queste operazioni mentali ai nostri ragazzi? Ci pensa la scuola? Sempre meno, si direbbe, visto il posto marginale che le ultime riforme riservano alle materie filosofiche, giuridiche, e umanistiche in genere. Anche nella scuola, come nella società tutta, il primato viene dato sempre più ai saperi immediatamente spendibili, alle competenze procedurali, mentre i contenuti sono relegati in secondo piano. O forse toccherà ora alla matematica assolvere quel ruolo 1

Nota della Redazione – Lorenzo Tébar, psicologo e dottore in scienze dell’educazione, ha lungamente esplorato e sperimentato i programmi per l’educazione cognitiva, in particolare il Programma per l’arricchimento strumentale di Reuven Feuerstein, del quale è stato diretto collaboratore nei corsi per la formazione dei formatori tenuti a Gerusalemme, presso il Centro internazionale per lo Sviluppo del Potenziale di Apprendimento (ICELP). Ha impartito corsi in varie università spagnole e ispano-americane. Ha pubblicato numerosi saggi in riviste specializzate. La sua tesi di dottorato El perfil del profesor mediador (Santillana, Madrid 2003, pp. 396) ha meritato il Premio Straordinario 2001 in Scienze dell’Educazione della UNED (Madrid). Attualmente è docente e ricercatore presso il Centro di Studi Universitari La Salle della Università Autonoma di Madrid (UAM), è responsabile del Dipartimento di rinnovamento pedagogico dei docenti delle scuole libere della FERE, e ne dirige la rivista Educadores. Il presente articolo è tratto, con alcuni adattamenti e integrazioni, dallo studio pubblicato in Indivisa. Boletín de Estudios e Investigación, 6/2005, 103-116. Sulla nostra rivista l’A. aveva già pubblicato uno studio: “L’ottimismo educativo di Reuven Feuerstein” in Rivista lasalliana, 61 (1994) 2, 95-103.


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educativo che, in altri contesti culturali, veniva riservato piuttosto alla filosofia? E quand’anche la filosofia riuscisse a sopravvivere in qualche angolo dei programmi della scuola secondaria, chi ha deciso che essa non sia adatta persino ai cicli inferiori della scuola primaria?

N

el 1970, un filosofo dell’educazione, lo statunitense Mathew Lipman, allora professore di logica alla Columbia University, introduceva nel mondo della scuola il Progetto di filosofia per bambini (P4C)2. Il tema si è fatto strada anche in Europa grazie all’interesse di docenti di filosofia e soprattutto di pedagogisti che vedono in questo progetto un metodo creativo promettente. In Spagna, per esempio, il metodo FpN (=Filosofía para Niños) continua ad espandersi in due direzioni: in lingua spagnola, dove le sperimentazioni rimangono maggiormente fedeli ai primi modelli di Lipman, e in Catalogna con il progetto Filosofía 6/18, con adattamenti significativi alle specificità della lingua e della psicologia del catalano3. Fino a che punto, ci chiediamo, questo metodo può interessare tutti gli educatori? Che obiettivi si propone e a che serve? Serve a tutti gli alunni, o solo ai superdotati o, al contrario, agli alunni con sintomi di ritardo mentale? Come si applica in classe? E che novità presenta rispetto al collaudato Programma di arricchimento strumentale (PAS) del Feuerstein? Su questi interrogativi punta la presenta analisi, che consisterà nel leggere in parallelo alcuni fondamentali aspetti metodologici del PAS e del programma P4C. Ma, ancora in premessa, occorre rispondere a un’altra semplice domanda dettata dal senso comune: ma il bambino è davvero capace di pensare come un adulto? Lipman risponde positivamente a questa obiezione, sulla scorta di provate ricerche della psicopedagogia attuale. Ogni Programma tra quelli sviluppati nel suo percorso didattico lancia una sfida al nostro sistema di pregiudizi circa le capacità degli altri, specialmente se minorenni, e circa la nostra disponibilità a potenziare le loro capacità. Si sareb2

L’espressione Philosophy for Children si è contratta nell’uso comune nell’acronimo P4C, adottato anche nella bibliografia specialistica italiana. In alcuni Paesi del nord Europa, peraltro, prevale la dizione Philosophy with Children (PwC), a significare che non si tratta affatto di una semplificazione riduttiva “per” bambini, ma a sottolineare invece il ruolo compartecipe dei minori coinvolti nella “comunità di ricerca” [ndt]. 3 In Italia il metodo ha cominciato a diffondersi dall’inizio degli anni ’90 per iniziativa del Centro per l’insegnamento filosofico (CRIF), fondato da Antonio Cosentino, e dal Centro interdisciplinare di ricerca educativa sul pensiero di Rovigo (CIREP), fondato da Marina Santi. Scuole che praticano il curriculum sono sparse su tutto il territorio nazionale: il X Circolo didattico di Scampia a Secondigliano (Napoli), il Circolo didattico di Cesana, il Circolo didattico di Monastir (Cagliari), gli Istituti comprensivi di Magagna (Udine), di Pontedera (Pisa), di Vinosa M. (Taranto), le Scuole primarie di Monitoro inferiore (Avellino), di Scalea (Cosenza), la “G.Pascoli” di Rovigo, quella di Rometta Marea (Messina), la “Don Gnocchi” di Schio (Vicenza), le Scuole medie di Scalea, la scuola “G.Massari” di Bari, e altre ancora…(dai siti: http://gold.indire.it; www.corradomarchi.it/pubblicazioni/articoli/filosofia_bambini.htm, visitati il 22.02.2008). Esperienze condotte in Umbria sono state recensite in Rivista lasalliana 1/2008, 129-130. In calce a questo articolo, una bibliografia italiana essenziale [ndt].


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be potuto valutare il metodo Lipman confrontandolo anche con altri analoghi, per esempio con il Progetto Intelligenza di Harvard. Ma il nostro intento qui è solo quello di individuare la complementarità tra i due citati programmi pedagogici (PAS e P4C), miranti ambedue a costruire e migliorare le abilità cognitive degli alunni.

Imparare atteggiamenti democratici, pensando Certamente Lipman, ispirandosi ai grandi pensatori classici e, più vicino a noi, a Dewey, sa bene che non tutti possiamo essere Aristotele o Kant, nondimeno possiamo pensare e parlare con maggior rigore, con più coerenza. Il filosofo, per definizione, deve essere un “innamorato della sapienza”, uno che sa porre e porsi le domande appropriate, uno che cerca di continuo la verità. Questo obiettivo vale per giustificare il metodo. L’alunno impara l’arte di inserirsi nel gruppo-classe. Imparare ad ascoltare, a farsi ascoltare con rispetto, in un clima di tolleranza, significa prepararsi al vivere democratico in società (che è poi anche l’obiettivo prioritario del programma P4C). In tutto questo programma il perno metodologico sono le domande. È già importante che il bambino fin dai 6 anni si ponga dei perché e cerchi delle risposte insieme ad altri. L’ “arte di domandare” diventa il compito essenziale del mediatore. Quel laboratorio elementare che è la classe diventa il tempo-spazio privilegiato dove il bambino pone a confronto le sue idee, quelle delle storie che ascolta, quelle dei suoi compagni e del maestro: la classe come miglior palestra dove la sua mente si esercita nella analisi, nel confronto, nella deduzione, nella astrazione, nella sintesi… Adottando di preferenza un procedimento di ricerca e convertendo la classe in una “comunità investigatrice”, questo metodo sviluppa nei bambini la capacità di pensare in modo critico e creativo. Dimensioni permanenti del P4C sono i valori personali e collettivi da promuovere, l’ambiente naturale da scoprire, il dialogo, la solidarietà e l’agire comunitario, l’uso di tecniche e relazioni di gruppo, gli incentivi da attivare per la ricerca… Sono tenuti nella massima considerazione certi obiettivi primari come i seguenti: - favorire negli alunni un atteggiamento critico e creativo; - sviluppare le abilità del ragionamento logico; - familiarizzarsi con le implicanze etiche delle esperienze umane; - rinforzare gli aspetti affettivo-emotivi e cognitivi dell’esperienza infantile; - ottenere una piena integrazione di ciascun alunno nel gruppo-classe; - creare in classe una atmosfera “scientifica”, fatta di attenzione, curiosità, rigore.

P4C dai 6 ai 18 anni Perché proporsi di far pensare i più piccoli? L’intuizione di Lipman è al centro di tutta la ricerca psicologica: il processo educativo trova il suo momento favorevole di sviluppo quando il bambino mette le basi alla sua visione del mondo e comincia a formarsi i concetti, quando costruisce la sua prima “impalcatura” mentale, quando struttura i suoi modelli di pensiero e si avvia ad essere se stesso. Il suo miglior approdo


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sarà l’arrivare a un nucleo di convinzioni personali di fondo del tipo: “sono capace di pensare – anch’io merito di essere ascoltato - la mia opinione interessa gli altri - le mie domande provocano e sollecitano le risposte degli altri”. Può sembrare ambizione smisurata, ma non lo è. Il metodo è coerente nel cercare di porre le basi del pensare logico e critico. Non è poi tanto difficile far pensare un bambino, basta saperlo ascoltare. Ciò che è realmente difficile è l’accompagnarlo e il guidarlo nella ricerca istintiva che ogni persona, anche giovanissima, sente per il conoscere e il conoscere la verità. Il bambino può scalare i gradini del programma ogniqualvolta questo programma venga proposto in una scuola e trovi insegnanti disponibili. Un esempio tra altri: Luis Alberto Machado, il grande pioniere venezuelano dei Programmi per “insegnare a pensare”, è arrivato a proporre una piena integrazione di questi metodi nei curricoli comuni della prima scolarizzazione. La “filosofia per/con i bambini” può essere anche uno strumento di arricchimento trasversale di tutti i livelli della scolarizzazione primaria e secondaria.

Un programma in 7 racconti Lipman ha creato una serie di racconti ad hoc. Ognuno è mirato a precisi destinatari, di una data età, al fine di propiziare determinate operazioni mentali, motivare l’interesse a certi temi e far capire certi contenuti. Ognuno di questi raccontini ‘filosofici’ è un gradino, una tappa di avanzamento, che stimola il bambino a pensare criticamente e creativamente. Aiuta il bambino – e, più avanti, il ragazzo, l’adolescente – ad acquisire le regole che disciplinano il pensiero logico. Ogni racconto, accompagnato dal proprio set di quaderni attivi, porta il nome dei Protagonisti: ¦ Elfie – un programma per l’età infantile. ¦ Kio e Gus – da 5 a 6 anni: per riflettere sugli elementi della natura, dell’ambiente circostante. ¦ Pixie – da 7 a 8 anni: sul linguaggio e l’identità, alla ricerca del senso. ¦ Harry e la scoperta delle idee – da 9 a 12 anni: tratta delle abilità di base per ragionare, primi albori di indagine filosofica. ¦ Lisa – da 12 a 14 anni: avvio a un’incipiente riflessione etica. ¦ Mark – da 12 16 anni: il ragionamento è applicato all’esplorazione sociale. ¦ Felix e Sofia – da 16 a 18 anni: sviluppa le abilità basiche del ragionamento. L’esperienza insegna che qualunque pagina può stimolare diversi livelli del pensiero a diverse età, a prescindere da quelli espressamente indicati da Lipman, specialmente nei casi di ragazzi che non hanno avuto una appropriata pregressa iniziazione fin dalle primissime fasi. Perché dunque una filosofia per/con i bambini? Non si tratta di trasferire la grande Filosofia nelle aule e imporre i suoi problemi ai bambini. E nemmeno si tratta di abbassare la qualità e le esigenze della Filosofia per renderla accessibile e farne come un prodotto di consumo (culturale) tra tanti altri. No, la filosofia deve continuare ad essere sempre filosofia e non deve mai perdere il suo rigore. “Chiaramente – afferma Lipman – tutto questo deve essere fatto con linguaggio infantile o da ragazzi. La terminologia tecnica, quella dei filosofi di professione, deve essere smontata, e sostituita dal linguaggio ordinario di tutti i giorni”. Anche se questo – lo dobbiamo ammettere tutti - è certamente ben più facile a dirsi che a farsi.


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L’insegnante mediatore Tutto il Programma, al momento della sua applicazione, poggia indiscutibilmente sulle capacità dell’insegnante. È lui il primo responsabile, e da lui dipende dosare la “direttività” secondo il metodo e le età, da lui dipendono sia il conseguimento degli obiettivi, sia il ritmo del lavoro e la scelta delle procedure in aula. Da questo punto di vista è interessante conoscere, almeno per tratti sommari, le affinità e/o differenze tra i due Programmi (vedi sotto la tabella comparativa allegata). Anzitutto una priorità: la formazione, nell’insegnante, di una specifica competenza filosofica è la chiave per impostare l’intero programma. Fin dalla prima classe, anche la più elementare, l’insegnante di ‘filosofia per/con i bambini’ deve saper dominare qualsiasi materia filosofica, e specialmente quando gli strumenti utilizzati esigono una perizia specifica dell’animatore-filosofo. Questa è una delle ragioni per cui molti maestri si sentono impotenti ad affrontare un Programma che, a precisi momenti, esige conoscenze specialistiche di logica. È evidente poi che l’insegnante deve mostrare sempre sicurezza e fiducia in se stesso, specialmente tenendo conto del forte tasso di improvvisazione che inevitabilmente viene imposto dagli alunni, dai loro interessi, dai temi che scelgono. La formazione dell’insegnante-mediatore è il perno ineludibile per impostare questo Programma, anche se non pensiamo solo ed esclusivamente all’insegnante-filosofo. In rapporto al PAS, emerge evidente una distinzione tra i due metodi: ognuno ha obiettivi specifici propri e adotta un procedimento diverso per sviluppare le attitudini concrete del pensiero. A prescindere dal fatto che alla fine dei diversi procedimenti si constata una enorme coincidenza nei risultati. Ne consegue che gli insegnanti devono conoscere questi criteri per poter discernere e scegliere i metodi più confacenti per quegli alunni che avessero necessità ben definite. I metodi in genere si arricchiscono mutuamente, superando così i propri normali limiti. È importante sottolineare nell’educatore sia la capacità interdisciplinare come la maturità del livello morale, affinché sia garantita in ogni caso negli educandi la formazione ai valori. Il ruolo mediatore risulta, ancora una volta, assai differente nei due Programmi che stiamo confrontando. Basterebbe considerare il ruolo del mediatore che cerca una “modificabilità strutturale cognitiva”, in forza di una esperienza di apprendimento mediato – come nel caso del PAS – centrato più sul procedimento mentale dell’alunno che sulla padronanza dei contenuti.

PROFILO DELL’INSEGNANTE di P4C

secondo M. Lipman

FORMAZIONE ¦ filosofica: conoscere il Programma, le sue tappe di applicazione ¦ umanistica, interdisciplinare ¦ conoscere gli alunni (interessi, bisogni…)

PROFILO DEL MEDIATORE del PAS

secondo R. Feuerstein

FORMAZIONE ¦ pedagogica e curricolare, adattata agli alunni e al loro contesto ¦ conoscere il PAS, il suo iter di applicazione ¦ conoscere personalmente gli alunni, i loro


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¦ conoscere strategie di apprendimento ¦ uso intensivo del metodo socratico

bisogni cognitivi, affettivi, sociali ¦ esperienza educativa per applicare gli apprendimenti ¦ conoscere le difficoltà di apprendimento e le funzioni deficitarie ¦ competenza nell’arte di porre domande ¦ padronanza delle operazioni mentali superiori ¦ conoscere tecniche di studio e strategie di apprendimento

ATTITUDINI ¦ aperto, flessibile, tollerante, paziente ¦ coerenza e fiducia ¦ interiorità, silenzio: autocontrollo ¦ entusiasmo e ottimismo ¦ capacità di empatia con il gruppo-classe ¦ creativo, ludico, recettivo, in possesso di una discreta fantasia ¦ ricerca e impegno per la verità e per la logica ¦ precisione concettuale

ATTITUDINI ¦ credere nella modificabilità cognitiva per alzare il livello dello sviluppo intellettuale ¦ autocontrollo: dominio dell’impulsività ¦ saper creare empatia e partecipazione nell’alunno che sta imparando ¦ flessibilità mentale: adattarsi al ritmo di ciascun alunno ¦ esser capaci di provocare, sfidare, per poter elevare il livello di complessità e di astrazione

FUNZIONI ¦ organizza il tema da discutere ¦ sorveglia l’ordine e la coerenza degli interventi in aula ¦ mette rigore e chiarezza nelle domande d egli alunni ¦ riconduce al tema, senza interferire nella discussione ¦ chiarifica e arricchisce il vocabolario ¦ dà rilievo agli aspetti introspettivi ¦ pone domande per autocorreggersi o tornare al testo ¦ si assicura che tutti partecipino a tutti i passaggi ¦ rispetta il ritmo del gruppo ¦ stimola la curiosità e la ricerca, rimotivando il gruppo ¦ sviluppa le abilità cognitive, sollecitando inferenze ¦ valuta l’andamento e i risultati di ogni lezione

FUNZIONI ¦ organizza gli strumenti e le tappe dell’apprendimento ¦ assicura l’esito efficace di ogni tappa e verifica la qualità dell’apprendimento significativo ¦ stimola a scoprire da sé il compito da realizzare ¦ rimotiva la ricerca e indica le strategie più efficaci ¦ attiva le operazioni mentali di ciascun alunno ¦ sorveglia comprensione, precisione e ricchezza del vocabolario ¦ alza il livello di complessità e di astrazione, quando la situazione lo rende possibile ¦ mette a frutto sia i successi come gli errori ¦ adotta il “criterio mediatore” più opportuno al caso ¦ fa un accompagnamento personalizzato degli alunni ¦ porta per induzione attiva al pensiero scientifico,pianificando le tappe del lavoro ¦ invita a elaborare principi e applicazioni ¦ cerca ulteriori applicazioni di quanto appreso


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Il metodo La popolarità del programma P4C è fuori discussione. Nel caso della Spagna, è introdotto oggi in molte classi secondarie (Bachillerato) anche a titolo di supplenza dei corsi istituzionali di filosofia e persino dei corsi di educazione etica e religiosa (quest’ultimi opzionali). Meno facile risulta adottarlo nell’insegnamento primario, a motivo dell’organizzazione oraria delle lezioni e della (im)preparazione filosofica dei maestri. È innegabile però la ricaduta positiva di ogni metodo nuovo, sia sull’insegnante come sugli alunni. Sul primo, perché arricchisce e fa evolvere la sua didattica, l’atteggiamento di ascolto e di gestione della classe; sul secondo, perché lo converte in persona attiva, abituata a ricercare, integrata nel gruppo, con diritto di pensare a voce alta e di essere rispettato nelle proprie opinioni. Il programma è reiterativo: parte, cioè, dall’ipotesi che il ragionamento dell’alunno, dal momento che sa usare la lingua (o il dialetto), è uguale a quello dell’adulto. La differenza essenziale consiste nel maggior accumulo di esperienza acquisita nell’adulto e nella ricchezza del suo vocabolario. Ognuno ragiona a partire dalla propria esperienza e dal vissuto che ha più o meno integrato, e usando le parole che conosce. Il bambino sta imparando significati nuovi inerenti al contesto di vita, si familiarizza con termini più corretti in riferimento alle materie che studia, abbandona via via la sua visione magica e supera i pregiudizi. A suo modo, il bambino si fa “filosofo”, impara ad applicare certe regole (e nel contempo impara anche le irregolarità e le eccezioni). La parola lo aiuta a dar forma e struttura al suo pensiero. Gli elementi pedagogici di un metodo sono quelli che maggiormente lo contraddistinguono. I materiali d’uso sono distinti. Il programma P4C si identifica per i racconti graduati che si leggono in classe e che offrono spunti per elaborare le domande degli alunni. Nel PAS invece è la scheda da cui si parte per sviluppare l’obiettivo specifico; in base ad essa si intreccia tutta l’interazione tra insegnante-mediatore e alunno. Nella metodologia del P4C si attraversano tre tappe fondamentali: 1. Gli alunni leggono a voce alta e a turno un brano del capitolo del racconto prescelto. Si sentono prima tutti coinvolti nella lettura, e poi condividono le idee e i punti di vista. 2. Gli alunni liberano le loro domande, che vengono scritte alla lavagna o su maxi-fogli. Questa tappa serve a identificare i diversi motivi di interesse degli alunni, a stabilire una mappa delle idee evocate, a individuare possibili convergenze e affinità o contrasti. 3. Tra i vari temi emersi, gli alunni ne selezionano uno, che verrà però approfondito a partire dai punti di vista di tutti gli alunni. È qui che l’insegnante deve dar prova della sua abilità: il dialogo suscita una dinamica permanente all’interno di un gruppo interattivo; si prende coscienza dei propri sentimenti e di quelli altrui; la discussione permette di precisare, approfondire, confrontare, divergere anche. In particolare l’apprendimento oggettivo si verifica in termini di nuovo sapere (circa il tema discusso), di saper-fare (abilità di pensiero) e saper-essere (gli atteggiamenti che emergono costantemente: imparzialità, obbiettività, ascolto attento, rispetto, tolleranza, ecc.).


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Elementi del METODO P4C

Elementi del METODO PAS

secondo M. Lipman

secondo R. Feuerstein

¦ LETTURA attenta del racconto per capitoli

¦ programmazione (strumenti, unità, pagine)

¦ COMPRESNSIONE verbale del testo

¦ a partire dalla programmazione della mappa cognitiva, norme della guida

¦ elaborazione delle DOMANDE: - a partire dagli interessi degli alunni - tutti partecipano, singoli o in gruppo - si scrivono le domande in pubblico ¦ METODO SOCRATICO: - dialogo e discussione sul tema scelto - gli esercizi del libro sono un ausilio supplementare - ogni capitolo è accompagnato da un quadernetto di esercizi e attività mirate a una gamma di potenziali temi a scelta ¦ COMUNITA’ DI RICERCA: = tutti gli alunni imparano da/con tutti - si stabiliscono norme minime di dialogo - si cercano nessi con altri temi curricolari - modalità diverse di presentare i risultati: redazione, disegno, saggio, dialogo… ¦ VALUTAZIONE: - consenso sul tema ed esiti ottenuti - la valutazione è qualitativa - tutti partecipano nel valutare - quantità e qualità delle domande - qualità della lettura e ricchezza lessicale - ragionamento logico e fluidità verbale - abilità di pensiero e inferenze logiche proposte - arricchimento dell’autoimmagine degli alunni

¦ METODO INDUTTIVO-DEDUTTIVO: - messa in sequenza progressiva e adattata dei 14 strumenti - definire obiettivi, partendo dalla Guida didattica: unità e pagina - determinare le operazioni mentali in ordine ascendente secondo complessità e astrazione - cercare la novità in ogni pagina secondo il livello di conoscenze della classe - sollecitare la (auto)scoperta del compito - definire il compito e pianificarlo - cercare le strategie più efficaci per ognuna delle attività previste - realizzazione personale delle attività - abituare a mutare modalità negli esercizi (= codici, simboli, schemi, diagrammi) ¦ MESSA IN COMUNE: metacognizione: analisi del processo, operazioni mentali, difficoltà incontrate, strategie usate, scoperte realizzate, tipi di interattività constatati ¦ corregge le funzioni cognitive che si rivelassero lacunose ¦ adotta il criterio di mediazione più confacente ¦ elabora altri esempi oltre quelli in pagina ¦ cerca nessi del tema con altre materie ¦ cerca di applicare quanto imparato: - in materie curricolari diverse - in eventuali esperienze personali - nella vita sociale, valori, stili di vita - valutazione dinamica dei procedimenti di apprendimento ¦ sintesi e revisione di quanto appreso e condiviso nella lezione

Centrale, e tatticamente delicato, è il ruolo dell’insegnante. La non-direttività al momento di scegliere il tema e le idee emerse dalla discussione, non gli consentono né


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manipolazioni né indottrinamento. La riflessione filosofica consiste in ogni caso nel lanciare la domanda chiave, nel riprendere il tema dopo le inevitabili digressioni, nel dare una interpretazione coerente. L’insegnante non deve imporre soluzioni e risposte definitive. Un elemento costante nei metodi per “insegnare a pensare” è quello dell’arte di porre domande. La domanda implica connotazioni affettive e intellettuali, e per questo è la funzione linguistica che l’essere umano conquista più tardivamente, ed è anche la più specificamente umana. Il bambino non domanda se non quando cerca e aspetta una risposta. Le domande vengono a galla se c’è sotto una motivazione. Da adulti, non possiamo dimenticare che ci è molto difficile rispondere alle domande infantili quando appunto non si è più bambini… La difficoltà maggiore nell’adottare il programma P4C consiste solitamente nel numero eccessivo di alunni per ogni classe. Sarebbe auspicabile che le classi comuni potessero adottare il ritmo normale proposto da un qualsiasi metodo che insegni a pensare. In realtà non è così. La diversità di ritmi e di interessi interferisce nella dinamica attiva e partecipativa. Risulta così praticamente impossibile l’accompagnamento personalizzato di ogni alunno nel suo processo di apprendimento, quando si ha a che fare con gruppi-classe superiori a una dozzina di alunni.

Cosa dobbiamo aspettarci dai programmi per “insegnare a pensare”? È innegabile intanto l’arricchimento strumentale di cui possono fruire gli insegnanti: materiali didattici strutturati e una batteria di strategie di apprendimento, il tutto tarato in base a comprovati paradigmi psicopedagogici. L’educatore sa che è sempre l’alunno il primo agente della propria formazione e per questo deve stare al centro del processo di apprendimento. Parimenti non mette in dubbio che si debbano rispettare i ritmi delle sue abilità cognitive, ma spesso l’insegnante manca di appropriati mezzi, manca soprattutto di un metodo affidabile. È questa preoccupazione professionale dell’insegnante centrato sull’alunno, che deve presiedere tutta la pedagogia attiva capace di potenziare l’autoscoperta e l’apprendimento significativo. D’altro canto non si può cadere nella trappola di usare un metodo a proprio capriccio, dimenticando norme e precauzioni perché il processo dia i risultati attesi. Si cade facilmente, per esempio, nell’abuso di certe tecniche, anche interessanti ma prese come fine a se stesse; o nell’ossessione di dover esaurire tutte le sequenze di schede predisposte; o nel privilegiare iterativamente certe pagine ignorandone altre… Ogni metodo è un itinerario che va percorso correttamente per intero se si vuol raggiungere determinati obiettivi. Anche per questo un Programma non va attivato se non quando la comunità educativa si rende convintamente corresponsabile della sua pertinenza ed efficacia. Ogni innovazione in didattica scolastica deve essere poi debitamente monitorata in permanenza, il che significa assistita con personale esperto, sorvegliata nei suoi aspetti organizzativi, strumentali, relazionali, valutata nei suoi risultati parziali e finali. Imprescindibile dunque l’accompagnamento di esperti e orientatori, viste le limitate competenze professionali della media degli insegnanti e tenuto


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conto che nella generalità delle scuole l’orario standardizzato delle lezioni collettive non favorisce affatto itinerari di apprendimento personalizzato. Non meno importanti sono i risultati che si è in diritto di esigere da ogni Programma. A una condizione però: accettarne preventivamente i “costi” in termini di programmazione, di tempo e quindi di ritmo, di correttezza metodologica e di qualità degli strumenti approntati. L’impazienza di educatori e di genitori può buttare a terra il migliore dei Programmi. Gli obiettivi poi, si sa, devono sempre essere espressi in termini quantificabili, verificabili. Gli alunni stessi diventano i migliori testimoni del proprio progresso: - quando si sentono più corresponsabilizzati del proprio apprendimento; - quando si sentono accettati, riconosciuti, arricchiti di nuove strategie conoscitive; - quando sono motivati (e rimotivati) nei propri sforzi, e quando vedono che gli sforzi sfociano in risultati palpabili; - quando si sentono supportati in tutta la loro persona, nella loro autonomia e sicurezza, nelle relazioni, e non solo controllati a livello di resa intellettuale; - quando esprimono la voglia di imparare sempre di più, perché si sono convinti di essere capaci non solo di conoscere ma anche di pensare. Esistono in effetti sequenze di obiettivi relazionali, affettivo-motivazionali, intellettuali, ecc., preformulati in ogni Programma. Ma la sintesi la può dare solo il fatto di sentirsi felici, a proprio agio, più soddisfatti di se stessi, meglio motivati nello sforzo di imparare. L’ideale sarebbe di non privare mai gli alunni di esperienze positive e progressive di apprendimento, tali cioè che essi possano assaporare man mano il successo e far presagire la possibilità di ulteriori successi in avvenire. Solo un cammino come questo può condurre a una corretta autostima e a una sana crescita. Gli altri valori verranno per sopraggiunta. A partire di qui possiamo attenderci più coinvolgimento e maggior sforzo personale. Dove si vede ancora una volta che qualsiasi Programma per “imparare a pensare” diventa plausibile, fattibile ed efficace se poggia anzitutto sulle capacità degli educatori che decidono di coinvolgervisi.

Analisi e conclusioni di una esperienza di P4C Da una applicazione del metodo P4C sperimentato con un gruppo di alunni spagnoli di 11-12 anni, possiamo ricavare, a mo’ di conclusione, una serie di considerazioni. 1. Tipo di alunni – Gruppo di 12 alunni della classe 6° EGB (insegnamento generale basico, corrispondente circa alla prima media), con difficoltà di apprendimento. Tutti sono al loro secondo anno di applicazione del PAS. Accolgono bene la nuova esperienza, ma come un compito in più. Essendo poco numerosi, la partecipazione è immediata, e anche la motivazione è buona, alimentata dalla novità del programma. 2. Connessione disciplinare – Si individua una prima carenza nel fatto di non poter connettere il tema scelto con il ritmo e i contenuti precedenti; si accetta comunque di procedere con la lettura di un paragrafo per singolo alunno, accolto come una nuova


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modalità di lavoro. L’apprendimento significativo trova qui il suo intoppo nella carenza di conoscenze previe necessarie per inquadrare la novità del tema che dobbiamo trattare. 3. Difficoltà di lettura-comprensione – Si registrano, fin dall’inizio, difficoltà di lettura di alcuni alunni, incapaci di seguire agevolmente l’argomento del capitolo. Li si invitata a sottolineare a matita tutte le parole nuove che non conoscono, a chiederne il significato (che verrà loro spiegato a lettura conclusa). Questa difficoltosa comprensione del capitolo provocherà una certa frammentazione e una percezione solo episodica dei testi letti. La lettura è strumento imprescindibile, specialmente oggi, di fronte alla diversità culturale degli alunni e ai dislivelli di comprensione di alcuni temi. Non sarà mai di troppo reiterare l’educazione alla lettura. 4. Elaborazione delle domande – Apparentemente, è un compito facile. Dapprima si riprendono le domande già suggerite nel testo. Poi si invita a formularne di nuove. Infine diverse domande si concentrano sull’importanza di avere e osservare delle regole nella diverse situazioni di vita: a scuola, in casa, per la strada… Come strategia, chiediamo che ogni alunno scriva due domande in fondo al foglio consegnato. Emerge subito da queste domande una comprensione solo parziale del testo. Anche al momento di selezionare la domanda o il tema da discutere si verifica una certa esitazione, perché ciascuno rimane gelosamente fermo su quello che ha scritto. La fusione di più temi in uno stempera le resistenze e facilità la scelta. La lettura ‘comprensiva’ (intelligente) ha le sue regole, e occorre insegnarle sistematicamente. 5. Partecipazione al dialogo – Dalla domanda generale si scende a puntualizzare le sotto-domande: dov’è che esistono regole, norme, divieti? anche noi imponiamo a noi stessi delle norme? a che cosa servono le norme? Gli alunni entrano molto più motivati in questo procedimento. Tutti partecipano, e a proposto di tutte le domande. Capiscono la diversità delle risposte, a partire dalla esperienza e dal contesto di ciascuno. L’educatore deve qui aiutare a superare l’egocentrismo (implicito o manifesto), e ad allargare l’orizzonte del proprio campo mentale. 6. Discussione – Sul tenore del dialogo e i suoi contenuti, tre rilievi importanti: - Difficoltà ad esprimersi con chiarezza. Le risposte devono essere molto semplici, brevi. C’è povertà di ragioni addotte, in gran parte dovuta al naturale (istintivo) egocentrismo dei ragazzi. Va superato questo ostacolo. - Eterogeneità di risposte: da una parte, è assai scontata tale diversità, ma dall’altra va accolta e incoraggiata nella misura in cui i ragazzi si aprono a una visione maggiormente decentrata dal proprio contesto di vita e quindi più diversificata. - Una sintesi chiara emerge sul finale del lavoro: l’importanza e la necessità di ricevere o darci delle norme di vita: nello studio, nell’igiene, in famiglia, a scuola, ecc.: per rispettare e ottenere rispetto, per vivere in pace e creare condizioni di sana convivenza. Incentivare poi le occasioni di lettura, fino a consigliare libri adeguati al livello e agli interessi di ciascun alunno.


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7. Esercizi e sussidi – La preparazione di un foglio con diverse domande sul tema assicura la partecipazione del gruppo. L’autovalutazione è momento estremamente interessante e altamente formativo della responsabilità e del giudizio critico. Una batteria di domande non banali ma ben formulate e originali, è sempre uno stimolo strategico valido, appellante, interpellante, a volte utilmente sconcertante. 8. Valutazione – Alcuni rilievi di maggior peso da richiamare: - Le difficoltà di lettura di alcuni alunni impediscono, come già notato, il giusto ritmo e la comprensione del testo: il lavoro avanza a rilento sia per la lentezza di lettura dei ragazzi sia per l’ostacolo di parole dal significato incerto o ignoto. - Molta attenzione alla lettura segmentata per brani successivi, in modo che assicuri la partecipazione di tutti, ma insieme la necessità di seguire il testo costantemente e comprenderlo nella sua interezza. - Organizzare e potenziare lo studio delle parole nuove in ciascun capitolo. - Dare importanza alla formulazione previa delle domande scritte, per evitare ripetizioni. - Risulta assai positivo l’ascolto di tutti verso tutti in una rotazione concordata: tutti partecipano e si sentono integrati, o si rimettono in gioco. A volte si deve insistere perché si rispettino anche le risposte divergenti di qualcuno nel gruppo. - Nessun alunno dovrebbe sentirsi affaticato o stressato dai compiti e dalla dinamica pur esigente che si instaura in classe. Dare il tempo necessario perché ciascuno maturi la riflessione e riesca a formularla al meglio e in libertà, oralmente o con altri mezzi. - È possibile ottenere una buona sintesi come anche delle buone estensioni del tema applicato alla vita. La proiezione e l’applicazione (o transfer) degli apprendimenti alla vita e ad altri contesti è l’obiettivo culminante di un apprendimento ben riuscito. È indubbio il consistente apporto che alcuni programmi offrono ad altri programmi, come nel nostro caso. La consapevolezza di questa diversità di proposte metodologiche contribuisce a una più ampia ricchezza di strategie dell’apprendimento e a capire meglio, nel contempo, l’originalità dei processi cognitivi che ogni programma pone in atto.

Traduzione dallo spagnolo, adattamento e bibliografia a cura della Redazione


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BIBLIOGRAFIA di BASE ■ R. Feuerstein in italiano

Non accettarmi come sono (1988), Sansoni, Milano 1995. La disabilità non è un limite. Se mi ami costringimi a cambiare , in coll. con Yacov Rand e Rafi Feuerstein, Libriliberi, Firenze 2005.

■ Altre opere

Instrumental Enrichment: an Intervention Program for Cognitive Modifiability, in

coll. con Y.Rand, M.Hoffman, R. Miller, University Park Press, Baltimore 1980.

Mediated Learning Experience: Theoretical, Philosophical and Learning Implications, Freund, Tel Aviv-London 1991.

■ Studi sul Metodo Feuerstein F. D’Amato, R. Florian, Il Programma Feuerstein. Metodi e tecniche per organizzare l’attività cognitiva, Giunti & Lisciani, Teramo 1989. J. Kopciowsky, L’apprendimento mediato secondo il metodo Feuerstein, La Scuola, Brescia 2002. L.Tébar Belmonte, El perfil del profesor mediador, Santillana, Madrid 2003, con ampia bibliografia (pp. 342-362). P. Vanini, Il Metodo Feuerstein. Come affrontare con successo le difficoltà di appredimento, “Innovazione educativa” n. 6/1993; e altri articoli nei nn. 5/1996, 2/1999, 6/1999, 6/2002, 2-3/2005, 2/2006; Id., Il metodo Feuerstein: una strada per lo sviluppo del pensiero, Irrsae Emilia Romagna, Editcomp, Bologna 2001. . ■ M. Lipman in italiano

Educare al pensiero, Vita e Pensiero, Milano 2005. Il prisma dei perché, Armando, Roma 1992.

La serie dei 7 racconti è pubblicata da Liguori, Napoli 1999-2004, con adattamenti e traduzione a cura di vari specialisti italiani: Antonio Cosentino, Marina Santi, S. Bellagamba, M. Striano… ■ Studi sul Metodo Lipman A. Cosentino, Filosofia e formazione.10 anni di P4C in Italia, Liguori, Napoli 2002 G. Ferraro (ed.), La filosofia spiegata ai bambini, Filema, Napoli 2000. M. Riemma, P. Montesarchio, Vedi alla voce dialogo, Morlacchi, Perugia 2004. M. Santi, Ragionare con il discorso, La Nuova Italia, Firenze 1995. “Rivista della Società Filosofica Italiana”, sezione Friuli-Venezia Giulia, n.13/1996, monografico dedicato alla P4C. “Rivista digitale della Didattica”: http://rivistadidattica.com


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La scienza? Roba per bambini […] Per fare bene nella scienza bisogna toccare, mettere le mani su qualcosa. E soprattutto bisogna farlo da piccoli. Tutti i più recenti risultati delle scienze cognitive applicate all’apprendimento dicono che la vocazione scientifica o nasce presto o non nasce più. L’età dell’oro dell’imprinting va dai 5 ai 12 anni, quelli della curiosità e delle domande più difficili. Il bambino ha il dono di meravigliarsi davanti al mondo. Ai suoi “perché?” scuola e genitori offrono risposte astratte o del tipo “lo capirai quando sarai più grande”. E’ un delitto. Lo stupore è la molla emotiva che porta alla conoscenza razionale, e chi tocca capisce. La scienza è l’arte di svolgere indagini, gli esperimenti non sono nient’altro che domande poste alla natura. Si parte dalle sensazioni che la realtà fa provare al bambino, di lì si passerà all’osservazione, alla descrizione, all’ipotesi, all’esperimento, alla controprova con altri esperimenti e infine ai concetti. Di solito la scuola fa il contrario: parte dai concetti e ne deriva i casi concreti. E’ l’approccio di tipo topdown, dall’alto in basso, mentre ormai i pedagogisti sanno benissimo che funziona molto meglio l’approccio down-top. Un convegno internazionale (Bologna, febbraio 2008) della Fondazione per la Scuola e della Associazione docenti italiani si intitolava “Perché l’acqua bolle”. L’acqua che bolle è un fenomeno semplice, ma a saperlo guardare c’è dentro quasi tutta la fisica. I nostri bambini possono essere affascinati anche da una pentola sul fuoco, non soltanto dalle magie di Harry Potter, una scuola di irrazionalità non così innocua come appare. La scienza affascina proprio perché è un’alternativa al pensiero magico. Che la realtà superi la fantasia non è un luogo comune banale come si pensa. E’ proprio vero. (da un articolo di Piero Bianucci, La Stampa, 8 marzo 2008)

Il Maestro inverosimile Il libro La linea e la striscia. Il testamento pedagogico del Maestro inverosimile (a cura di P.L. Amietta, F. Angeli, Milano 2008, pp. 480) raccoglie i dialoghi maieutici tenuti da Silvio Ceccato ai bambini della scuola elementare di via Muzio a Milano alla fine degli anni 70. In 30 lezioni si sostanzia una pedagogia davvero “inverosimile” per la metodologia innovativa, che costituisce un paradigma didattico a disposizione di insegnanti e genitori attenti che ne vogliano seguire le tracce e aprirne di nuove. Capovolgendo la consueta prassi dei “libri dei perché” – che si prefiggono di dare risposta alle mille curiosità dei bambini – il metodo insegna loro a porre e a porsi le domande giuste. In calce a ogni lezione – che riproduce con vivacità il dialogo vivo tra Ceccato (il “filosofo anti-filosofo”, il “cibernetico”) e i bambini – una nota metodologica di Amietta evidenzia gli aspetti più rilevanti del testo e suggerisce sviluppi ulteriori del tema trattato. Si parla di particelle grammaticali, ma anche dell’Universo e della Guerra, dell’Ambiente e della Musica, del Mercato e degli Animali. Attraverso il metodo dell’analisi operativa, i bambini lavorano sui propri meccanismi mentali e sono portati a rivedere molti stereotipi correnti, “scoprendo” in proprio – e in modo per loro indimenticabile – le nozioni, ma soprattutto, e spesso con stupore, la vita della propria mente (fonte: Informazione editoriale)


PROFESSIONE DOCENTE

RivLas 75 (2008) 3, 353-368

AUTOFORMAZIONE. 3 - LA DIMENSIONE EPISTEMOLOGICA

I contenuti disciplinari dell’insegnamento Marco Paolantonio, FSC Già si è osservato1 che la professione richiede al docente sia la specializzazione nella propria disciplina sia le necessarie conoscenze in campo psicopedagogico. Sono i due aspetti di una competenza didattica - epistemologica - che riguarda “tutto ciò che attiene la forma che assumono le conoscenze nel diventare oggetto d’insegnamento” (Maragliano). Ridotto agli elementi essenziali, il compito della scuola è perciò quello di stabilire quali contenuti culturali (cosa) e con quale metodo (come) insegnare, in modo che si verifichi l’apprendimento che meglio corrisponde alle capacità di ogni allievo (a chi). Si delineano così i due paradigmi secondo i quali è possibile indirizzare l’attività didattica. Il primo, che riguarda quali saperi apprendere oggi per arrivare all’acquisizione di conoscenze e di competenze, costituisce il tema delle presenti annotazioni. Dell’altro ci occuperemo nella prossima puntata2. Si tratta di avviare il processo di riscoperta delle discipline nel loro nascere (ragioni fondanti della loro validità culturale e sociale), nel loro evolversi (e necessità di aggiornarne i contenuti), nel loro modo di proporsi operativamente oggi (metodologia didattica attualizzata).

1

Cf.Insegnante e allievo nel rapporto insegnamento-apprendimento, Riv. las. 2008/2, 249 ss Al terzo aspetto, Educare ad apprendere, sono state dedicate quattro puntate su questa rivista nell’annata 2007.

2


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1. La scuola, i saperi, le competenze È fuori dubbio che la scuola trasmette conoscenze e sviluppa competenze, ma prepara gli allievi a utilizzarle nelle esercitazioni di prova e negli esami, cioè in contesti particolari. Questo basta alla maggior parte degli interessati: agli insegnanti, che hanno svolto il loro programma; agli allievi, che ottengono di continuare i loro studi. Cosa di tali conoscenze resterà più tardi, fuori della scuola, pare non costituisca un grave problema né per gli uni né per gli altri; anzi, sotto certi aspetti rappresenta qualcosa di imbarazzante, da rimuovere e che perciò ci si guarda bene dall’affrontare3. Se però non ci rassegniamo alla semplice constatazione dei fatti, occorre ammettere la modesta trasferibilità dei saperi e delle competenze acquisiti sui banchi e prendere atto che molti allievi, anche brillanti, non sono poi in grado di mettere a frutto ciò che hanno imparato a scuola. Sotto questo aspetto, sono evidenti la necessità di imboccare nuove strade e, di conseguenza, le implicazioni riguardanti il ‘contratto’ pedagogico, la didattica, il lavoro scolastico, la gestione della classe, la cooperazione professionale, il funzionamento delle istituzioni, il ruolo dei responsabili a tutti i livelli. Riuscire a scuola non può dunque essere considerato un traguardo definitivo. Se è logico e naturale che ogni segmento del corso scolastico prepari - sostanzi di conoscenze e di competenze - il successivo, al termine della sua carriera scolastica l’allievo dovrebbe però essere in grado di utilizzare, in situazioni diverse, complesse, imprevedibili, ciò che di valido - vale a dire di capitalizzato e di spendibile - ha acquisito sui banchi4. È in sintesi il problema della trasmissione delle conoscenze e/o della costruzione delle competenze che è compito della scuola. Il rischio, oggi come ieri, è, che “ lo studente esca dalla scuola e dall’università piena d’informazioni e vuoto di abilità, ancora peggio, dotato di informazioni e di abilità che non vengono però richieste, né tanto meno apprezzate dal mondo del lavoro e dalla società”.5

A questo punto è opportuno richiamare il significato di termini ampiamente in uso nella scuola, ai quali vengono però attribuite definizioni multiple ed eterogenee, qui riassunte in modo sincretico: ● saperi-conoscenze: informazioni fornite dalle singole discipline, capitalizzate secondo criteri di chiarezza, coerenza ed essenzialità6; ● prestazioni-abilità: risposte che dimostrano come le conoscenze acquisite sono spendibili in contesti parzialmente nuovi (esercitazioni e interrogazioni su argomenti disciplinari svolti) e tradotte anche nelle forme del saper-fare (uso degli strumenti ordinati all’apprendimento con corretta applicazione della metodologia);

3

Cf. Rudolf Bkouche, Á quoi sert l’école? in: www.sauv.net/bkouche2.htp Cf. Ph. Perrenoud, Enseigner des savoirs ou développer des compétences : www.unidge.ch/fapse/SSE/teachers/perrenaud/php_main/teste.html 5 Paolo Meazzini, L’insegnante di qualità. Alle radici psicologiche dell’insegnamento di successo, Giunti, Firenze 2000, p. 3. 6 Si apre a questo punto il capitolo irrisolto dei contenuti ‘irrinunciabili’ che una commissione di saggi sta studiando dal 2000. Cf. G. Cerini, Saperi, curricolo, competenze – www.edscuola.it/archivio/riformeonline/saperi.html 4


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● competenze: si configurano come strutture-abilità mentali capaci di trasferire la loro valenza in diversi campi, generando dinamicamente altre conoscenze, prestazioni e capacità reali di riflessione, di decisione e d’azione adeguate alla complessità delle situazioni che l’individuo deve affrontare. La legge sull’autonomia delega alle singole istituzioni buona parte delle responsabilità che riguardano contenuti disciplinari e competenze relative. Dal canto suo, “ogni insegnante sa che il suo è un ruolo strategico, perché in ultima istanza determina il sapere effettivamente insegnato in classe, assegnando il tempo all’uno o all’altro contenuto, nel lavoro in aula, sia nelle priorità attribuite al momento della valutazione di quel che conta ai fini del giudizio, del buon voto per la promozione o della sanzione che può concludersi con la bocciatura” (Damiano, op. cit., p. 149).

Sue precipue responsabilità professionali, da onorare in coerente sinergica con i colleghi in un’azione che coniughi operativamente saperi e competenze. Prima di approfondire il discorso alla ricerca di percorsi chiari e praticabili, va detto che la contrapposizione saperi vs competenze non ha ragione di essere: le competenze per non girare a vuoto devono fondarsi sulle conoscenze; e senza reali competenze le conoscenze rimangono un lessico e una morfologia senza sintassi. Truismo, scomodo ma ineludibile, soprattutto oggi.

2. Il problema delle conoscenze 2.1 Il sapere insegnante - L’analisi delle strutture di ogni singola disciplina deve essere costantemente effettuata per individuare, valorizzare e comunicare, oltre le valenze formative della disciplina stessa, la sua rilevanza socio-culturale, cioè la spendibilità in campo professionale e nelle relazioni, in rapporto anche con la realizzazione della personale vocazione umana. Questo implica che l’insegnante abbia in testa pure un progetto uomo, da coniugare ovviamente con la situazione e gli allievi con cui ha a che fare. Paiono dunque aspetti di una disciplina che si fa insegnamento per stimolare apprendimento: ● cosa insegnare: conoscenza approfondita e aggiornata di materia e programmi; ● come insegnare: strategie e specifica metodologia didattica richiesta dalla materia insegnata in rapporto con la situazione e il gruppo-classe concretamente considerati; ● quali sono i concetti-chiave che permettono di richiamare e organizzare le conoscenze già proposte che supporteranno quelle successive; ● qual è il linguaggio tipico della disciplina, inteso come economia di tempo e di energie mentali, perché chiaro e inequivoco; ● quale ne è la storia, poiché l’origine e l’evoluzione aiutano certamente a capirne senso, peculiarità e a giustificarne la presenza tra le materie del programma; ● quali traguardi formativi essa consente di raggiungere (= quale ‘progetto-uomo’ sotteso all’apprendimento): un individualista o un intelligente collaboratore? Un esecutore diligente o l’attivo protagonista di una personale storia culturale ?...


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Conoscenza disciplinare e competenza didattica - Quando si insegna, la dimensione delle conoscenze disciplinari è sempre connessa con la capacità didattica. L’una si sviluppa in relazione con l’altra. L’approfondimento di un argomento è stimolato dalla difficoltà incontrata nello spiegarlo; la spiegazione è tanto più sintetica ed efficace quanto maggiore è lo studio che l’ha preceduta e quanto più ottusa e indisciplinata è la classe che ci si trova davanti. L’esperienza consente di avere, disponibili nella propria mente, certe esemplificazioni, certi argomenti, certi modi di affrontarli - certi contenuti e certe tecniche didattiche insomma - che diventano, insieme, i cavalli di battaglia di ciascun docente. L’alternarsi e il mutevole atteggiarsi nel tempo delle classi e degli alunni impongono continui aggiornamenti, aggiustamenti continui. (Francesco Senatore, Le SSIS e la didattica della storia: www.dssg.unifi.it)

Si apre a questo punto il problema (conflitto se affrontato con mentalità manichea), che si traduce in una contrapposizione di fatto insostenibile: saperi senza mestiere o mestiere senza saperi? Se non è difficile intuirne la speciosità, meno facile è trovare concreti equilibri soddisfacenti. Lo tenteremo nella prossima puntata. 2.2 Il sapere insegnato - Uno degli aspetti da riconsiderare è dunque quello della trasmissione dei saperi. Pare superfluo osservare che oggi la quantità di conoscenze appare tale da risultare ingovernabile. Logico quindi muovere alla ricerca dei criteri che possano condurre alla ricerca dei saperi essenziali capaci di assicurare la qualità e fare anche da supporto alle successive acquisizioni. Al riguardo, pare giusto convenire con le seguenti considerazioni: Che la didattica debba fare i conti con le discipline è fuor di dubbio. Il processo di umanizzazione dei discenti non può fare a meno dei saperi disciplinari: significherebbe fare a meno della storia e del mondo della cultura. La trasmissione del sapere è, certo, componente essenziale della didattica. Tuttavia la rivendicazione del primato delle discipline sulla didattica riflette una rappresentazione della disciplina come sapere orientati sui paradigmi della consegna (dei contenuti), della ripetizione e della memorizzazione, anziché su quelli della elaborazione, della ricerca e della creatività. La disciplina trasmessa, difatti, è intesa, di solito, come sapere ingiallito, senza sviluppo, cristallizzato in un repertorio di nozioni, regole, metodologie piuttosto che come sapere in progress, problematico, aperto all’innovazione, teso alla scoperta. (Cosimo Laneve, La didattica fra teoria e pratica, La Scuola, Brescia 2003, pp. 5-6).

È questa la posizione dei ‘pedagogisti’, fautori di una didattica generale, che si pongono nell’ottica di chi cerca gli strumenti di metodo che consentano di unificare o almeno di semplificare, per renderne più accessibile l’adozione, comuni criteri d’insegnamento. D’idee assai diverse i ‘disciplinaristi’ più intransigenti, paladini delle singole didattiche disciplinari, i quali ritengono contrari al rigore e agli interessi e di una ricerca davvero scientifica l’ibrido giustapporsi di metodologie - scientifica/letteraria/ artistica/tecnica - differenti tra loro per scopi e contenuti. Da notare al proposito che Discipline e materie scolastiche non sono la stessa cosa. Fra un qualsiasi elenco di materie scolastiche e le discipline sottostanti può esserci al limite una corrispondenza. Mentre le materie scolastiche possono essere considerate gruppi di contenuti che gli alunni devono imparare, le discipline implicano particolari modi di pensare e di interpretare il mondo che l’alunno deve sviluppare. Nel lavoro disciplinare, concetti e teorie non possono essere disgiunti dai processi di costruzione della conoscenza da cui emergono. (H. Gardner, Educazione e sviluppo della mente, Erickson, Trento 2005, p. 137).


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…come non è superfluo osservare che molte discipline - in particolare quelle scientifiche - hanno subìto mutazioni epistemologiche che non permettono più di farle coincidere con le tradizionali materie scolastiche corrispondenti. A questo punto si apre il problema dei criteri con cui progettare l’insegnamento dei saperi secondo una metodologia chiara e programmarli in corrispondenza alle caratteristiche mentali dei destinatari.

3. Un rapido, essenziale excursus storico Pur con l’inevitabile semplificazione della sintesi, i caratteri storici della scuola italiana possono essere compendiati come segue: • L’insegnante e i programmi - “La nostra scuola si è inizialmente fondata su un insegnante molto ben preparato nei contenuti. Il buon insegnante era quello che sapeva spiegare molto bene, che era chiaro e molto aggiornato nella conoscenza della sua disciplina, che possedeva anche delle buone capacità di rapporto, nonché una carica umana che riusciva a trasmettere ai suoi allievi. Il programma che insegnava s’integrava bene con tutte le discipline dei colleghi, perché esisteva un programma definito per tutti e l’insegnamento era strutturato, grosso modo, sul modello ‘tayloristico’: suddividere il lavoro in parti, in modo che le piccole parti producano il tutto. In qualche modo si riproduceva, nel mondo della scuola, la catena di montaggio del mondo dell’industria: ognuno faceva quello che doveva fare, con compiti ben stabiliti e risultati da ottenere. Si credeva che, se ognuno avesse fatto quello che doveva fare, il prodotto sarebbe venuto fuori ben fatto. Non c’era una grande bisogno di collaborazione da parte degli insegnanti, perché il programma era già suddiviso in modo collaborativo. (M. Comoglio, La professionalità docente nella scuola del XXI secolo: www.apprendimentocooperativo. it/cmz455-1562-5444/Primo_piano/convegno_...).

L’allievo - Tutto questo si integrava anche con una particolare concezione del discente (…) Esisteva allora un concetto di apprendimento segnato dalla riproduttività di ciò che l’insegnante aveva fatto o detto. Tutti i ragazzi venivano interrogati all’esame su ciò che era il programma e il programma era ciò che era stato insegnato dall’insegnante. La cultura del tempo era prevalentemente verbale e l’apprendimento era prevalentemente da testo scritto. Il buon studente era quello che sapeva leggere e imparare dai libri, memorizzare e schematizzare bene ciò che era scritto nei libri” (Id., loc.cit., p. 3).

I tempi dei verbi usati nei due brevi testi paiono offrirci fotogrammi di un documentario storico; sappiamo invece bene che ritraggono l’attuale situazione di molte delle nostre scuole. L’analisi riportata può essere condivisa del tutto o in parte, ma è innegabile che la veloce evoluzione della società sta mettendo in crisi alcuni capisaldi della scuola tradizionale. Ciò comporta necessariamente la ricerca di soluzioni, di innovazioni. Ma innovare significa cambiare, e il cambiamento può suscitare opposizione e ansia. È doveroso perciò esaminare da vicino e in modo critico cosa è cambiato, cosa sta cambiando e cosa è probabilmente destinato a cambiare nella nostra realtà scolastica. Come abbiamo accennato, vale come premessa necessaria il sostituire al criterio della quantità quello della qualità. Ed è la strada imboccata negli ultimi decenni del Novecento.


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¦ Negli anni ’70 si è proposta la pedagogia degli obiettivi. Per ‘obiettivo’ si è intesa la convergenza di contenuti disciplinari diversi su comuni mete educative, metodi di apprendimento condivisi, criteri di valutazione concordi. Ma è in fase di controllo degli apprendimenti - la valutazione – che si sono poi reintrodotti criteri e procedure disciplinari tradizionali. ¦ È seguita la pedagogia delle competenze. Alla difficoltà di stabilire anche lessicalmente il significato del termine ‘competenza’ si è aggiunta quella di individuarne i campi, considerata l’aggressività e la seduzione delle realtà culturali vissute al difuori degli ambienti istituzionalmente destinati all’istruzione. Cinema, sport, musica, mode e comportamenti, amplificati dagli strumenti multimediali, offrono ai ragazzi modelli e stimoli ‘culturali’ che non possono essere ignorati. • Per questo sono stati introdotti (2003) i piani di studio personalizzati - per ora non accantonati - comprendenti varie ‘educazioni’ (stradale, ambientale, alla salute, alimentare, all’affettività), - che inevitabilmente hanno sollevato obiezioni e critiche sulle scelte e sui contenuti.

4. Cognitivismo, costruttivismo, costruzionismo Anima di ogni sistema pedagogico è, almeno in forma implicita, una particolare teoria della conoscenza, unita spesso a un più generale sistema di valori. La proposta è tanto più valida e convincente quando sa offrire strumenti operativi per una didattica efficace. Cambiamenti significativi della metodologia didattica - sottostante ai quali c’è un diverso modo di considerare il costruirsi delle conoscenze - si sono verificati nella seconda metà del ‘900 e sono riconducibili a due. ● Al primo, cognitivista (anni 50-80), è legata l’istruzione programmata sia nel modello lineare dello Skinner sia in quello ramificato del Crowder. Accetta la teoria della conoscenza oggettiva; considera quindi la mente capace di rispecchiare la realtà, e per conseguenza di codificarla secondo categorie concettuali generali, di articolarla in sotto-conoscenze e di implementarla con l’uso delle tecnologie che simulano i procedimenti del pensare. Sotto quest’ultimo aspetto, il cognitivismo ha chiesto e ricevuto il notevole contributo delle tecnologie della ‘comunicazione in rete’ (networking), che si sono affiancate a quelle che fanno capo al testo scritto, superandole in efficacia7. Al procedimento informatico, esatto e imparziale, può quindi essere vantaggiosamente affidato il compito di sostituire l’insegnante negli snodi dei processi di apprendimento che richiedono stimoli e rinforzi. ● A partire dagli anni ’80 si è venuta affermando la teoria costruttivista, che contesta a fondo le tradizionali teorie della conoscenza. Essa vede l’allievo come costruttore attivo dei significati e non come il terminale di una loro trasmissione lineare e sistema7

Secondo un’indagine condotta dall’istituto Forrest Research il tasso di memorizzazione dei contenuti avviene con questa intensità: lettura 10%, visione 20%, ascolto 30% visione+ascolto 50%, apprendimento collaborativo 70%, applicazione su casi concreti (anche in simulazione) 80%.


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tica di cui l’insegnante sarebbe depositario e demiurgo. Anche il costruttivismo ritiene importante il contributo delle tecnologie, ma ne ridimensiona l’ ‘onnipotenza’: I problemi maggiori sono cominciati quando si è cominciato a confrontare i computer con la comprensione del linguaggio naturale. Si è scoperto ben presto che mettere il computer nella condizione di ‘comprendere’ un testo, ad esempio di farne una sintesi attraverso una parafrasi adeguata, poneva problemi di enorme complessità (per la dimensione metaforica, pragmatica, per le assunzioni implicite che stanno al di là del testo, ecc): per quanto la ricerca al riguardo abbia avuto il merito di produrre un interessante armamentario teorico (si pensi ad esempio ai concetti di script, di frame, ecc.), bisogna riconoscere che le applicazioni scaturite sono rimaste sostanzialmente deludenti. (A.Cavani, loc. cit., p. 4).

Se non sono in grado di sostituirsi all’uomo nel ragionamento logico-deduttivo, gli strumenti multimediali possono tuttavia offrirgli buone possibilità d’interazione sociale in ambienti in cui l’apprendimento è consensuale e cooperativo. • In ambito costruttivista ha una sua originale collocazione il costruzionismo di R. Feuerstein, che attribuisce al mediatore umano - i genitori prima, gli insegnanti poi la capacità autentica (e insostituibile) di interpretare e di attivare le potenzialità di chi apprende non solo sotto l’aspetto cognitivo, ma sotto quelli emotivo, culturale, affettivo, di relazione… Il metodo ha, com’è noto, anche il merito di aver attivato percorsi e realizzato strumenti didattici validi in particolare per soggetti svantaggiati.

5. Che cosa apprendere e con quali metodi? Chi sostiene la necessità di didattiche innovative, dopo l’esame critico della tradizionale funzione dell’insegnante, dei programmi e dell’alunno, punta poi l’obiettivo su contenuti e metodi. “C’è stata un’epoca che io chiamo dell’insegnamento ‘materno’, nella quale l’insegnante ha creato dei ragazzi superprotetti nell’apprendimento, coi libri che hanno tutto, insegnanti che fanno tutto, spiegano tutto, aiutano in tutto, capaci di dare supporto e incoraggiamenti di fronte a ogni difficoltà. Questo non ha creato studenti migliori, ma probabilmente dei ragazzi meno capaci di capire l’importanza di ciò che devono apprendere e della fatica che richiede l’apprendimento. (…) L’insegnante di domani deve essere capace di ristabilire la connessione tra cultura e scuola. Abbiamo creato una scuola senza cultura dove si apprendono, per lo più, conoscenze inerti che non hanno un valore e un significato culturale, che vengono apprese per l’esame, per un titolo o per altri scopi, fuorché quello di arricchire la propria mente e la propria esperienza umana..” (M. Comoglio, loc. cit., p 5).

Il tradizionale insegnamento è dunque ritenuto trasmissivo, monodirezionale (lineare e frontale), sistematico, ciclico, enciclopedico. Tutti aggettivi che, posti in sequenza, ne enfatizzano unicamente i difetti. La realtà è assai più variegata e meno negativa. L’esame dei nuovi percorsi proposti dalle recenti metodologie nasce perciò da un’esigenza di correttezza deontologica, non da una rassegnata ammissione d’inadeguatezza professionale..


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H. Gardner, costruttivista, è uno dei più decisi sostenitori della necessità di innovare metodi e contenuti d’insegnamento e di apprendimento in modo sostanziale, anche perché meno condizionato dalla cultura pedagogica europea. Convinto assertore dell’esistenza di intelligenze multiple, alle quali adeguare le procedure volte a favorire l’apprendimento8, ha sviluppato con coerenza proposte alternative alle metodologie tradizionali. Premessa fondamentale: l’insegnamento-apprendimento deve essere finalizzato alla comprensione, nella scuola e oltre. Ciò implica un nuovo assetto, innanzitutto mentale. ● Il significato di “comprendere” :

“ La comprensione è la capacità di usare conoscenze, competenze a abilità comuni per far luce su problemi nuovi o imprevisti. Finché una persona attinge da tali conoscenze soltanto per dipanare problemi già incontrati in passato, non si può dire quanto abbia capito di ciò che sa. Ma si può essere abbastanza certi che ha capito se dimostra di saper applicare le sue conoscenze a situazioni nuove, senza farlo in modo errato e inappropriato; e se lo sa fare spontaneamente, senza istruzioni specifiche”.

● Natura e funzione delle discipline :

“E’ importante precisare cosa si intende per discipline. Le discipline sono approcci sviluppati nei secoli dagli studiosi per affrontare domande, problemi e fenomeni fondamentali appartenenti al mondo della natura e a quello umano; esse comprendono metodi d’indagine, reti di concetti, strutture teoriche, tecniche di acquisizione e verifica di dati, immagini, sistemi di simboli, vocabolari e modelli mentali appropriati. Nel corso dei secoli l’uomo ha sviluppato questi modi particolari di considerare il passato, comprendere la vita e noi stessi, che ora chiamiamo rispettivamente storia, biologia e psicologia. Le discipline sono dinamiche. I loro oggetti, i loro metodi, le loro teorie o spiegazioni stimolano il dibattito e si evolvono nel tempo. Per trasmettere ai nostri giovani questa conoscenze e queste pratiche, dobbiamo concentrarci sulle caratteristiche fondamentali che le discipline hanno oggi, in questo momento storico, riconoscendo al contempo la loro natura dinamica e la loro evoluzione.”

● Contenuti disciplinari :

“Sicuramente il peggior nemico della comprensione è il bisogno di copertura totale, la compulsione a toccare superficialmente tutti gli argomenti compresi nel libro di testo o nel programma di insegnamento per il semplice motivo che lì ci sono”. - Ciò conduce all’- “abitudine di apprendere fatti e procedure in modo mnemonico, sopravvalutando il significato o le implicazioni di particolari espressioni o procedimenti; il risultato è una memorizzazione automatica di fatti insignificanti e di procedure astratte”.

● Organizzazione verticale dell’insegnamento :

“Prima di tutto alfabetizzare (scuola primaria), poi studiare a fondo alcuni argomenti chiave afferenti alle principali discipline; accostarsi a questi argomenti usando metodi diversi; e dare agli scolari molte opportunità di conoscenza e molti mezzi per dimostrare ciò che hanno capito.” (scuola secondaria) (…). “Vari compiti possono essere lasciati all’università: la specializzazione in una determinata disciplina; un lavoro esplicitamente

8

Howard Gardner, Educazione e sviluppo della mente, Erickson, Gardolo-Trento 2005, pp. 134-151, passim:


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multi/interdisciplinare; e un’ottima conoscenza di una serie di dati che può essere utile volendo diventare esperti…”

Di conseguenza, il sapere è : ● una costruzione attiva del soggetto (la conoscenza nasce sotto la spinta degli interessi), ● da collegare strettamente con la situazione concreta in cui avviene l’apprendimento (è perciò indispensabile attualizzarne i contenuti a scopi funzionali); ● da impostare e alimentare per mezzo della comunicazione interpersonale e della collaborazione sociale (l’integrazione delle molteplici prospettive offerte porta all’acquisizione di un personale metodo di apprendimento). L’evidente il distacco dal modello di un’istruzione rigidamente preordinata in sequenze lineari d’informazione ha come conseguenza l’obbligo per i docenti di offrire varietà di stimoli e di percorsi personalizzati di accesso ai contenuti. Fra i vari corollari : ● c’è il passaggio dall’insegnamento individualizzato (che cerca di adattare il programma alle capacità dell’allievo) all’insegnamento personalizzato, che promuove le capacità del singolo allievo in modo da fargli esprimere il massimo delle sue potenzialità in funzionali ’ambienti di apprendimento’; ● non c’è conoscenza senza comprensione e comprensione senza applicazioni: quindi è da abbandonare la didattica della frontalità, fondata sul presupposto che i saperi passino per ‘trasferimento’, limitando così le operazioni dell’allievo a quelle dell’ascolto e della riproduzione; ● la competenza (che è la capacità di applicare in situazioni nuove ciò che si è appreso) è metacognitiva; non si limita solo ai contenuti culturali, perché “il diventare esperti implica anche l’imparare a gestire il tempo disponibile, a predire i risultati, a porre domande appropriate, a considerare realisticamente possibilità e limiti, a capire il problema e a generalizzare le soluzioni” (Boscolo). Occorre inoltre prendere atto che non sono possibili percorsi didattici validi in assoluto, perché “non esistono modelli predefiniti per ambienti d’apprendimento costruttivistici, e per molti non potranno neanche esistere, in quanto i processi di costruzione della conoscenza sono sempre inseriti in contesti specifici. Così le tipologie di supporto all’apprendimento programmato in un dato contesto con ogni probabilità non potranno mai essere trasferite in un altro” (Jonassen, 1994).

Sono quindi possibili solo raccomandazioni per gli insegnanti che intendono creare ambienti di apprendimento. Le seguenti riassumono indirizzi e strumenti del metodo : ● dare enfasi alla costruzione della conoscenza e non alla sua riproduzione; ● evitare eccessive semplificazioni nel rappresentare la complessità delle situazioni reali; ● presentare compiti autentici (contestualizzare piuttosto che astrarre); ● offrire ambienti di apprendimento derivati dal mondo reale, basati su casi piuttosto che sequenze istruttive predeterminate; ● offrire rappresentazioni multiple (interdisciplinari) della realtà; ● favorire la riflessione e il ragionamento; ● permettere costruzioni di conoscenze dipendenti dal contesto e dal contenuto; ● favorire la costruzione cooperativa della conoscenza, attraverso la costruzione con altri.


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6. Teorie e didattiche innovative Dopo aver considerato le funzioni che il costruttivismo assegna a insegnante e allievo, gli scopi della loro azione congiunta, gli strumenti e gli ambienti con cui e in cui operare, è inevitabile dover trattare dei contenuti proposti in coerenza con le scelte di metodo operate. Al proposito sono da considerare due posizioni: a) di mediazione: con l’adozione di una nuova metodologia per il trattamento e lo svolgimento dei programmi ufficiali (ad es. la Didattica breve) b) di innovazione radicale: Modularità didattica e Unità formative. Esaminiamo subito le ragioni su cui si fonda di quest’ultima opzione. ● Una “rivoluzione” ineludibile - La cultura umanistica tende a diventare come un mulino privato del grano costituito dalle acquisizioni scientifiche del mondo e sulla vita, che dovrebbe alimentare i suoi grandi interrogativi; la cultura scientifica privata di riflessività sui problemi generali, diventa incapace di pensarci e di pensare i problemi umani e sociali del paese. (E. Morin, La tête bien faite, Seuil, Paris 1999, p. 18). ● I bisogni formativi nella società della conoscenza - La formazione continua non era un

problema vitale nella società in cui le tecniche e il “come fare” si mantenevano pressoché immutati nel corso di tutta la vita. La capacità di apprendere continuo degli individui non era soggetta a un forte sollecitazione e non rappresentava un fattore determinante dell’adattamento sociale ed economico. Ai nostri giorni , la forza degli individui risiede nella loro capacità di apprendere, cioè di dominare l’informazione, di assimilarla, di trasformarla in conoscenze e di utilizzarla in modo rapido ed efficace. Emergono dunque nuovi bisogni formativi: ● lo sviluppo delle capacità critiche di selezione, elaborazione e analisi delle informazioni; ● lo sviluppo di capacità cognitive superiori, come il ragionamento e il problem solving; ● la formazione di una mente attiva, critica e riflessiva; ● la flessibilità e l’individualizzazione del processo di insegnamento e di apprendimento; ● la costruzione autonoma si conoscenze e di competenze; ● la capacità di collaborare con gli altri nella costruzione del sapere. (Maria A. Garito, Il processo di insegnamento e di apprendimento nel XXI secolo: www.garito.it/areastudio/tesineo4p5/restagno-luca.pdf ).

6.1 Indirizzi teorici - Al centro di ogni riforma che voglia adeguare l’istruzione alle esigenze della società odierna c’è la formazione degli insegnanti, ai quali sono richieste competenze finora solo auspicate. Ne abbiamo già esaminate alcune9, che riprendiamo in parte: (a) Il sapere. La competenza disciplinare - È intesa come padronanza culturale (storico-epistemologica) delle materie d’insegnamento e come capacità di sapersi confrontare e contaminare con altre discipline (interdisciplinarità). (b) Il saper fare. La competenza didattica - È intesa come padronanza metodologica ed empirica nell’ambito sia della didattica generale (padronanza delle procedure di progettazione, d’innovazione e di controllo-valutazione), sia delle didattiche disciplinari (padronanza delle strategie cognitive nei processi d'insegnamento-apprendimento). 9

Cf. Rivista lasalliana 2008/1, 58-59.


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(c) Il saper stare con gli altri. La competenza relazionale - È intesa come padronanza nell’ambito delle dinamiche di comunicazione-socializzazione, nonché come capacità di controllo degli atteggiamenti del docente nelle relazioni socio-affettive con gli allievi (capacità di analisi e di controllo del transfert e del controtransfert da parte del docente). (d) Il sapere essere. La competenza deontologica - È intesa come professionalità pedagogica nell’ambito delle scienze dell’educazione. Questa competenza mira alla salvaguardia della singolarità (l’irripetibilità-irriducibilitàinviolabilità del soggetto-persona), fortemente minacciata in questa stagione storica da diffusi processi di massificazione generati da una triplice globalizzazione: dei mercati (la cui cifra-rischio si chiama spietata competitività in ambito socioeconomico, e, conseguentemente, in ogni dimensione esistenziale), dell’informazione (la cui cifra-rischio si chiama parcellizzazione elettronica del linguaggio e del pensiero) e della cultura (la cui cifra-rischio si chiama uniformizzazione e omologazione dei modelli di vita quotidiana). (Franco Frabboni, Quale insegnante per la scuola del Duemila : www.educazione.sm/formazione/contributiSett2004/frabboni.dpf Secondo perno del rinnovamento è l’identificazione dei pilastri-base dell’educazione, ad es. quelli del Rapporto Unesco 1996, specularmente corrispondenti ai precedenti: ● imparare a conoscere (cultura generale), ● imparare a fare (competenze professionali), ● imparare a vivere con gli altri (alfabetizzazione emotiva, capacità di cooperare), ● imparare a essere (capacità critica, responsabilità). 6.2 Proposte operative - La traduzione operativa dell’innovazione è affidata, come sappiamo, ai curricoli che i collegi docenti per le istituzioni e i consigli di classe per i singoli gruppi di allievi sono in grado di progettare e programmare, avvalendosi delle prerogative e adeguandosi alle disposizioni previste dalla Legge e dai decreti sull’autonomia. È conveniente premettere che è improprio far coincidere le innovazioni didattiche con le didattiche innovative, perché nel nostro caso è il sostantivo che… qualifica l’aggettivo. Gli strumenti didattici innovativi (audiovisivi, strumenti e livelli vari di comunicazione intermediale, slider digitali…) possono infatti essere introdotti senza che cambi il tradizionale rapporto tra insegnamento e apprendimento, se esso permane prevalentemente lineare-frontale, trasmissivo, enciclopedico. I metodi innovativi, come quelli che si rifanno al costruttivismo o al costruzionismo, stabiliscono innanzitutto nuovi rapporti fra docente e allievo, programmazione e programmi, discipine e didattica… utilizzando, per attuarli, gli strumenti didattici più avanzati. Prendiamo in considerazione due posizioni che sono riconoscibili anche per una metodologia didattica coerente: la Didattica breve. che opera sui programmi tradizionali, la Didattica modulare e le Unità formative, che - in modo più o meno radicale - organizzano autonomamente non solo la progettazione dei curricoli ma anche i programmi che li sostanziano. 6.2.1 La Didattica breve - È nata una trentina di anni fa in ambito universitario per rispondere soprattutto da esigenze di aggiornamento rapido dei docenti di materie tecnico-scientifiche. Dopo gli anni ’90 si è diffusa in altre aree disciplinari e partico-


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larmente in quella umanistica. La possiamo definire, con l’autore, “il complesso di tutte le metodologie che, agli obiettivi della didattica tradizionale (rispetto del rigore scientifico dei contenuti delle varie discipline), aggiunge anche quello della drastica riduzione del tempo necessario al loro insegnamento e al loro apprendimento” (Ciampolini, 1997).

È perciò da collocare in una posizione di mediazione tra passato e futuro, perché : - non fa tagli sui programmi ufficiali, ma li ridimensiona (li ‘distilla’), riducendoli agli elementi metodologico-contenutistici portanti; - opera con rigore scientifico sia nell’impostazione sia nello svolgimento del programma definito; nulla quindi di approssimativo, affrettato né radicali cambiamenti; - utilizza metodologie ‘vecchie e nuove’, escludendo perciò la conflittualità tra passato, presente e futuro, perché fa tesoro di tutti gli elementi giudicati utili; - può consentire un guadagno temporale (anche del 40-50%) rispetto allo svolgimento del programma secondo la didattica tradizionale, rendendo così possibile sia un efficace studio guidato sia efficienti forme di ricupero. In sintesi: Tre i punti qualificanti: il primo riguarda la concentrazione in un tempo ridotto di ciò che si vuol far apprendere, il secondo la revisione in senso di sfoltimento riorganizzato dei contenuti disciplinari, il terzo l’attenzione per le difficoltà di comprensione e di applicazione che lo studente trova nell’approccio con la disciplina. (A. Girotti, La DB come didattica sensata nelle discipline filosofiche : http://lgxserver.uniba.it/lei/sfi/bollettino/162_girotti.htm).

La sigla RMD (Ricerca Metodologica Disciplinare), con cui la DB è spesso indicata, ne chiarisce ulteriormente protagonisti, mezzi e finalità, sottolineando che l’impegno maggiore riguarda gli insegnanti, cui si chiede di perfezionare costantemente la propria competenza epistemica. Siccome è necessariamente radicata nelle singole discipline, la DB non può offrire un assetto didattico uniforme e onnivalente. L’attuazione dei percorsi didattici è quindi da perseguire in senso metodologico, in stretta collaborazione innanzitutto con i colleghi dell’area disciplinare. Scopi comuni sono: raggiungere chiarezza e trasparenza didattica, ‘pulizia’ di ragionamento e di linguaggio, semplicità ed essenzialità nei concetti-base. Coerenza, costanza e cooperazione sono essenziali. Fra le proposte di maggior interesse ci sono le due distillazioni dei contenuti disciplinari. La prima, verticale, è compito dei docenti. Ha l’andamento C-M-c; dove la C rappresenta il programma nel suo complesso, la M gli interventi di metodo, la c il risultato finale, ‘distillato’, su cui sarà chiamato a lavorare l’allievo in sede di distillazione orizzontale. ● Distillare verticalmente una materia d’insegnamento, o una parte di essa, “significa elencare tutti gli ‘argomenti’ che la compongono, ponendoli nella sequenza che il docente segue nella propria esposizione agli studenti. Il distillato verticale di una materia d’insegnamento è dunque delle disciplina insegnata, generalmente più ‘fitto’, come numero di argomenti, di quanto generalmente non sia un indice di libro (…), devono infatti figurarvi non solo i titoli dei vari capitoli e i paragrafi relativi, (…) ma anche


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ogni pezzetto di lezione (magari della durata di pochi minuti) a cui il docente stesso riconosca una unitarietà e una coesione sufficienti per poterlo dichiarare ‘argomento’ (http://rmd.scuole.bo.it/intervista/Capitolo%2o1.htm)

In particolare per le materie umanistiche, (…) il miglior strumento per calare a livello pratico i principi della DB senza dubbio sono le unità didattiche e le unità di apprendimento; questi progetti, chiarificando i punti metodologici fondativi, mirano all’immediata applicabilità, razionalizzando percorsistrumenti-contenuti. In questa unità è sempre chiaramente espresso, già fin dal primo momento, tutto il progetto, l’itinerario, la struttura totale riferita a finalità, strumenti, metodi, la tesi portante, la selezione dei contenuti, la determinazione delle sequenze, nonché tutti i materiali strutturati, gli strumenti di autocontrollo, finalizzati a chiarire la crescita non solo informativa ma anche formativa (in itinere e finale) dello studente. (A. Girotti, saggio citato, p. 4).

È evidente l’affinità metodologica con la modularità didattica cui accenneremo. ● La distillazione orizzontale, che implica l’attività dell’allievo, parte dalle scelte sintattiche, pragmatiche e semantiche degli argomenti di studio operate dal docente. Gli al-

lievi operano la ricostruzione ricomponendo in modo sequenziale le logiche strutturali, le connessioni che esse impongono, i dettagli dei ragionamenti secondo i personali meccanismi mentali. Strettamente connessi con il metodo sono i contenuti: “anche per questi c’è una proposta: coinvolgere maggiormente gli studenti, privilegiando i temi collegabili con le problematiche proprie della loro età e dell’epoca nella quale vivono, senza che per questo vengano stravolti i dati storici; ciò che è avvenuto non deve essere conosciuto perché è avvenuto, ma perché, rimedidato criticamente, può illuminare il presente, facendogli assumere senso nuovo anche in rapporto alla nostra esistenza. Accanto a una lettura sintattica dei contenuti viene proposta dunque anche quella pragmatica. (A. Girotti, saggio citato, p 3),

Oltre alle due precedenti ‘distillazioni’, le più note, il metodo DB ne propone altre particolari, come la distillazione di formule e quelle grafica, regressiva, progressiva, il trapezio logico, tutte strategie variamente utilizzabili a seconda degli ‘stili cognitivi’ di chi apprende. La ‘drastica riduzione’ del tempo occorrente a svolgere gli argomenti in programma è in funzione dell’approfondimento (mediante i gruppi di studio) o del ricupero personalizzato degli elementi portanti. Per entrambe le forme di apprendimento la DB prevede e propone tempi e tecniche. Annotazioni - Ogni riassunto, come quello operato sopra, rischia di risultare parziale e approssimativo. È giusto quindi rimandare a trattazioni più sostanziose e organiche: - sia a quella originale ♦ Filippo Ciampolini: La didattica breve, Il Mulino, Bologna 1993 - sia a quelle facilmente reperibili in Internet, come: ♦ La Didattica Breve e la ricerca medodologico-disciplinare: www.valsesiascuole.it/crosior/db; ♦ Introduzione alla Didattica Breve: http://rdm.scuole.bo.it/intervista/Capitolo%201.htm; ♦ La Didattica

Breve come didattica sensata nelle discipline filosofiche:

http://lgxserver.uniba,it/lei/sfi/bollettino/62_girotti.htm .


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6.2.2 Modularità didattica e unità formative - Orientamenti normativi La progettazione modulare si rifà costantemente nella normativa scolastica a partire dal DPR 275/99, che dice: “le istituzioni scolastiche possono adottare tutte le forme di flessibilità che ritengono opportune e tra l’altro: a) l’articolazione del monte ore annuale di ciascuna disciplina e attività; (…) d) l’articolazione modulare di gruppi di alunni provenienti dalla stessa o da diverse classi o da diversi anni di corso” (art. 4)

- Finalità

“ Non si tratta di definire i contenuti minimi irrinunciabili, ma di individuare per ogni disciplina quali sono i concetti-chiave attorno ai quali si articolano le conoscenze specifiche sia dal punto di vista dei contenuti che delle competenze di base, cioè i concetti fondamentali che consentono un’organizzazione dei contenuti sia in senso gerarchico (individuazione di priorità) sia in senso orizzontale (relazioni, interazioni,…) e che consentono di oltrepassare i confini disciplinari, gettando dei ponti verso le altre discipline; in altre parole, quei concetti che possono divenire fulcri organizzativi del sapere, che diano senso e prospettiva alle conoscenze, che abbiano valenza meta-cognitiva e su cui si possa articolare e impostare l’acquisizione delle competenze di base”. (Preti, Bertocchi, Quartapelle, Oltre il curricolo lineare, p. 100: www. edscuola.it/archivio/antologia/scuolacitta/preti_bertocchi_quartape.pdf ).

- Didattica attiva e differenziazione

“Fermo restando che l’obiettivo dev’essere quello di consentire a tutti gli studenti di acquisire le competenze che ritengono importanti e significative, le strategie di apprendimento devono essere differenziate e, in una certa misura, opzionali, in modo da assecondare o da correggere o integrare l’approccio all’apprendimento preferito da parte di un individuo. (…) Ciò può avvenire solo nell’ambito di una didattica attiva, in cui ai momenti di apprendimento (lezione frontale, studio del manuale) si alternino momenti di operatività, in cui lo studente interagisce con il docente non solo nelle scelte degli argomenti da sviluppare, ma anche nelle scelte metodologiche, si impegna nella pianificazione del suo lavoro individuale e/o di gruppo di cui fa parte, nella ricerca del materiale da utilizzare, prevede il conseguimento di obiettivi che possono tradursi anche in un prodotto concreto, riflette sull’autovalutazione” (ivi, p 102).

6.2.3 Modularità didattica (le Unità formative) ♦ Definizione - Il modulo è un’unità di insegnamento/apprendimento indipendente e autonoma, che può riguardare un tema, un problema, un procedimento, una competenza e ha degli obiettivi ben definiti. Non è costruito secondo il criterio della linearità, ma ha una struttura interna ramificata o reticolare. Anche se alcuni moduli possono essere considerati propedeutici ad altri, l’idea di fondo è quella di assicurare un’estrema flessibilità nella combinazione dei moduli disponibili. ♦ Scopi - Attuandoli, ci si propone di superare la tradizionale suddivisione del sapere in discipline, ognuna delle quali rappresenta un settore a se stante nel percorso di apprendimento dell’allievo, A lui vengono lasciati il compito e la responsabilità di ricomporre in un quadro di sintesi unitario i tanti elementi di conoscenza, competenza e abilità relativi alla reale comprensione delle varie materie. Ambiziosi e insieme necessari, gli obiettivi della modularità didattica sono quelli di far affiorare - nella proposta di ogni specifica disciplina e soprattutto nel progetto complessivo del programma di studi - la struttura reticolare della conoscenza individuando: ● i nodi concettuali di base, ● le relazioni – intradisciplinari e interdisciplinari - che li collegano, ●


I contenuti disciplinari dell’insegnamento

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alcuni percorsi alternativi di apprendimento significativo, ● i particolari processi di apprendimenti previsti e da valutare. ♦ Struttura - Caratteristiche e momenti sono: • il tema, che può essere affrontato e svolto in modo multidisciplinare o interdisciplinare, • la funzione formativa, che inscrive l’unità all’interno della progettazione di Istituto, • la posizione (nella logica della programmazione annuale della disciplina), • il gruppo-classe, con una specifica attenzione alle caratteristiche collettive e dei singoli allievi), • i tempi (con la previsione in ore, settimane, mesi), la motivazione (che chiarisce a quali bisogni formativi si intende dare una risposta), i prerequisiti d’ingresso, • gli obiettivi formativi specifici (il risultato atteso in termini di conoscenze, competenze, capacità), • gli obiettivi formativi trasversali (comuni alle discipline che confluiscono nell’unità), • i nuclei cognitivi concettuali (la promozione di tipiche attività cognitive, espresse nei termini “essere in grado di…”, “sapere che…”), • il percorso effettivo che si intende compiere (dalle modalità di verifica dei prerequisiti alle attività previste per gli eventuali ricuperi, dalle metodologie didattiche e dagli strumenti posti in essere, alle verifiche formative, sommative, finali, • la validazione dei risultati (del singolo docente e del team). (da P. Becherini, Insegnare oggi, La Nuova Italia, Firenze 2006, pp. 144-146). Il modulo è quindi una parte del tutto che può essere considerata separatamente, uno degli elementi di una struttura liberamente componibile. Svolto in un arco di tempo che può variare, comprende un minimo di 3-4 settimane. È ulteriormente diviso in unità didattiche e può essere impostato e condotto con criterio intra/interdisciplinare.

Annotazioni - Seducente come stimolo all’innovazione metodologica, il costruttivismo ha sostanziali ricadute sul piano della didattica e dell’organizzazione delle scuole. Sul piano della didattica: Viene rovesciato il rapporto mezzi-fini: il modulo è un pacchetto formativo con un contenuto indirizzato esplicitamente allo scopo di produrre conoscenze e com-

petenze. Ne consegue che la valutazione - finora collegata a ‘saperi’ elencati in programmi definiti e, se condotta correttamente, affidata a prove oggettive - dipenderà da ogni istituzione scolastica, libera di fissare sia i contenuti sia i criteri e gli strumenti per valutarne l’acquisizione. Per evitare dispersioni e disparità, occorrerà stabilire su piano nazionale (ma è logico pensare ormai, con l’OCSE, in dimensione europea) la definizione di unità di sapere standard da certificare. E’ questo lo scopo delle prove somministrate dall’INVALSI. Ma con quali criteri verranno concesse le certificazioni, se manca la definizione di unità di sapere standard da certificare? Come si potranno armonizzare i vari indirizzi di studio e i vari gradi di istruzione?

Sul piano dell’organizzazione - Con la rottura dell’unità del gruppo-classe e la formazione

di gruppi flessibili vengono profondamente modificati i rapporti interpersonali con insegnanti e compagni. La dimensione socio-affettiva (fondamentale, se gestita bene) è sacrificata a vantaggio unicamente di quella cognitiva. Le prove di verifica sono infatti tendenzialmente oggettive: come si valuteranno le capacità critiche, comunicative, creative? Viene meno la centralità del Consiglio di classe, organo specificamente correlato a progettazione, programmazione e valutazione. Per i docenti si moltiplicano le difficoltà connesse con la valutazione educativa (che deve comunque riguardare la globalità del percorso di ogni alunno) e con la personale progettazione-programmazione didattica (abitualmente incardinate in progetti di collaborazione pluri/ interdisciplinare che comportano la scomposizione del percorso scolastico in unità chiuse, ed esposte al pericolo di perdere il senso del e nel movimento complessivo).


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Marco Paolantonio

La creazione di ‘ambienti di apprendimento’ sempre più tecnologici esige il cambiamento della figura professionale dell’insegnante: da fonte unica dei messaggi culturali a mediatore tra gli studenti e gli strumenti interattivi, a tutor individuale degli studenti o ancora a creatore di programmi multimediali.

Le difficoltà sono numerose e serie, ma il cammino verso l’innovazione è inevitabile. Per onestà professionale deve essere sperimentato e validato progressivamente. Un’ipotesi di lavoro viene dal Modello a tre colonne di Hilbert Meyer, che propone di alternare nel corso dell’anno tre formule d’insegnamento come graduale approccio alle nuove metodologie: a) insegnamento curricolare: previsto dal piano di studi, organizzato in modo rigoroso e sequenziale può anche prevedere lunghi periodi di insegnamento frontale. Si insegnano in modo sistematico sostanzialmente le conoscenze delle principali discipline. I gruppi di apprendimento sono fissi e di regola sono costituiti dalle classi; b) lavoro libero : offre agli allievi un insegnamento fortemente individualizzato, sostenuto dalle nuove tecnologie e ispirato al lavoro libero delle scuole Montessori. Comprende sia il lavoro per prepararsi alle lezioni degli insegnamenti curricolari, ma anche l’approfondimento individuale in settori di studio liberamente scelti in base a un piano di lavoro settimanale, predisposto individualmente dal singolo allievo; c) progetto : per attività che non rientrano in quelle dei due precedenti settori, si formano piccoli gruppi possibilmente eterogenei. Anche in quest’ambito gli allievi vengono invitati a pianificare le attività delle fasi in cui si articola il progetto. programmato in tempi separati dai precedenti, è affidato a piccoli gruppi stabili, possibilmente eterogenei. Possono uscire da scuola, fare ricerche, indagini e svolgere attività pratiche. L’attività può essere varia e consistere nell’organizzazione di mostre, serate per genitori, rappresentazioni teatrali, ecc. (da Preti, Bertocchi, Quartapelle, Oltre il curricolo lineare, cit., p. 99).

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idotto agli elementi essenziali, il compito della scuola è di stabilire quali contenuti culturali (cosa) insegnare e con quale metodo (come), in modo che si verifichi l’apprendimento che meglio corrisponde alle capacità di ogni allievo (a chi). Si delineano così due paradigmi secondo i quali è possibile indirizzare l’attività didattica. Il primo (oggetto del presente articolo) riguarda i saperi da apprendere per arrivare ad acquisire conoscenze e competenze, e quindi si tratta di riscoprire le discipline nel loro nascere (ragioni fondanti della loro validità culturale e sociale), nel loro evolversi (necessità di aggiornarne i contenuti), nel loro modi di proporsi operativamente oggi (metodologia didattica attualizzata).


PROFESSIONE DOCENTE

RivLas 75 (2008) 3, 369-372

I chiaroscuri di Anna Lucchiari

1/ Per fortuna c’è Harry Potter Non mi è mai piaciuta quella stampa che si scaglia indiscriminatamente sulla categoria “giovani” quando si verificano fatti incresciosi, delitti, risse o altro, imputati o imputabili a cittadini di giovane età. Non mi piace, e la contesto vivacemente in nome di tanti bravi giovani che fanno il loro dovere ogni giorno, esattamente come mi scagliai anni fa contro la copertina di un noto settimanale che presentava come titolo a caratteri cubitali “Siamo tutti truffatori”. Io credo in tutta onestà, di non aver mai compiuto una truffa e di non aver alcuna intenzione di compierne alcuna e pertanto, quel titolone, lo ritenni all’epoca offensivo per me come per la stragrande maggioranza dei cittadini italiani che vivono rispettando le regole del nostro paese, quelle civili e quelle morali. Allo stesso modo mi ripugna il rimestare che quasi tutta la stampa fa in questi tempi sulle difficoltà giovanili, come se fossero una deriva inevitabile della moderna società. Certo, ci sono giovani che vengono a contatto solo con una realtà fittizia, che è da loro assimilata come l’unica possibile. E questo è sicuramente grave, ma non dipende da loro. Dipende molto di più dal disinteresse che troppi genitori e familiari esprimono nei confronti dei figli. Vorrei spiegare cosa intendo per disinteresse: piazzare i figli da soli davanti alla televisione, consentire loro di frequentare famiglie che non conoscono, occuparsi solo dei loro vestiti e della loro alimentazione, mettere a loro disposizione, a qualunque età e senza le dovute attenzioni, giornali e stampa che oggi sono un piccolo veleno quotidiano, dato che gli argomenti sono solo guerra, guerre, divertimenti e sesso. Al punto che questi figli pensano che quelli, quelli soli, siano il sale della vita, che rappresentino le uniche aspirazioni che devono coltivare. Mi rattrista questa situazione, perché è il più grande tradimento che gli adulti possano compiere nei confronti dei giovani. A volte cerco nella fantasia che il buon Dio mi ha voluto regalare, uno sfogo a questo miserabile quotidiano. Un po’ per abitudine, un po’ per tenermi aggiornata anche sulle moderne favole, un bel giorno mi sono comprata i libri del maghetto della Rowling1. Harry Potter mi ha preso il cuore e tenendomi per mano mi ha condotto nella dimensione del “niente è impossibile” che per ogni persona rappresenta l’unico rimedio efficace alla fatica di vivere.

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L’editore Salani ha via via pubblicato i sette volumi dal titolo: Harry Potter e la pietra filosofale - Harry Potter e la camera dei segreti - Harry Potter e il prigioniero di Azkaban - Harry Potter e il calice di fuoco - Harry Potter e l’ordine della Fenice - Harry Potter e il principe Mezzosangue - Harry Potter e i doni della Morte..


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Anna Lucchiari

Sicuramente è un libro che piace ai ragazzi perché alimenta i loro sogni, perché li spinge a non scoraggiarsi mai, a puntare in alto, ma ho notato che piace anche a coloro, come me, che hanno superato da molto l’età della fanciullezza. Le avventure che la scrittrice narra, come tutte le autentiche fiabe e favole, sono solo apparentemente dedicate ai ragazzi, perché, come per tutti i libri di valore, possono fornirci indicazioni diverse secondo la chiave di lettura che usiamo. Harry Potter è un orfano che viene allevato da due zii che non lo amano e che gli fanno subire con maligna condiscendenza tutti i soprusi che il loro sciocco figliolo compie quotidianamente su di lui. È piccolo e magro, perché nessuno si preoccupa che mangi a sufficienza, non è particolarmente bello, porta gli occhiali e ha una cicatrice sulla fronte. Per anni conduce una vita insignificante, triste, chiusa tra le anguste mura del sottoscala in cui è stato relegato ma, ad un certo punto della sua vita vede aprirsi davanti un orizzonte favoloso, anzi, magico. Lui non è un povero orfanello maltrattato che non ha futuro, lui avrà un grande futuro perché è un mago in pectore. Lo diventerà dopo una durissima scuola presso la quale frequenta le lezioni fino alla maggiore età. Il piccolo brutto anatroccolo senza amici né parenti, parte per la scuola dei maghi e scopre che tutti lo conoscono, anzi, che lo stavano aspettando e che lo considerano con rispetto, consapevoli che un grande atto d’amore materno gli ha salvato la vita imprimendogli una facoltà indelebile che è di pochi: la possibilità di combattere e vincere la battaglia contro le forze del male. Ciò che gli viene richiesto, lo assolve con fatica, con sacrificio, con l’aiuto di tre amici, del preside della scuola e del suo padrino, anche questo trovato in extremis, ma tutto mette a dura prova la sua intelligenza, la sua forza morale, il suo coraggio. Gli ingredienti sono tutti sapientemente amalgamati perché ognuno di noi ha dentro di sé un piccolo Harry Potter, senza bacchetta magica, ma con il grande desiderio di decollare con o senza manico di scopa ultimissimo modello, al di sopra di una realtà che si fa un dovere di ingabbiare i sogni veri e le aspirazioni. È che non si può vivere senza sogni, senza speranze, senza fede nel potere trainante dell’immaginazione. Ogni invenzione ha sempre valicato i confini della realtà, basti pensare alle ali di Icaro, alle macchine di Leonardo, al sottomarino di Nemo ecc. ecc. La mente deve essere libera di muoversi nel reale ma anche di volare oltre i limiti dell’esistente. Ma tutto quello che si conquista - e il giovane mago lo sperimenta e lo vive in ognuno dei libri anche nell’ultimo piacevolissimo appena uscito - deve nascere da buoni sentimenti, studio approfondito, lavoro e impegno totale. Tutte le sue vicende, da quella umanissima di stabilire un contatto con i suoi genitori, a quella di salvare la pietra filosofale, il calice o altro dalle grinfie di coloro che ne farebbero un cattivo uso, a quella tipica di ogni ragazzo di vincere per la squadra del cuore, si risolvono in metafore che aprono anche i cuori più provati alla speranza, al sogno, alla fede. Oggi la stampa è squallida: solo cattive notizie, brutture, infamie…. le forze del Male pare abbiano la meglio su tutto…..(vedi l’ultimo libro). La signora Rowling ci ha regalato la speranza che l’età dell’oro possa tornare con tutti sogni che porta con sé e che sono l’unico vero motore del mondo. Ha rispiegato ai ragazzi di oggi, di tutte le età, che per vivere una vita degna bisogna sacrificarsi, studiare, nutrire i buoni sentimenti, lottare fino all’ultimo respiro perché solo così le forze del Bene possono sem-


Per fortuna c’è Harry Potter

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pre battere il male che ci insidia. Se questa ponderosa lettura (sette volumi) può avere questo magico risultato, allora benvenuto Harry Potter! E sarei quasi tentata di consigliarlo come una medicina: almeno una volta al dì.

2 / Benignamente Càpitano e capiteranno, sempre più spesso mi dicono, quelle notti nelle quali il sonno ti prende in giro. Beh, in una di queste che affronto ormai senza angosce, mi sono rivista il Benigni che portava in piazza il suo amato Dante. Mi ha fatto piacere percepire l’attenzione degli spettatori tra cui molti giovani, perché il divino poeta, di sicuro non è mai stato molto amato. Non lo è stato dai suoi contemporanei e nemmeno dalla stragrande maggioranza di coloro che sono venuti nei secoli successivi, ai quali è capitato di trovarsi fra le mani un’opera grandiosa sì, ma come si direbbe oggi, non propriamente frendly. Per gli studenti di ieri e di oggi è una specie di calvario inevitabile, come il morbillo o la rosolia: meglio prenderla ma non per questo risulta meno sgradita. È pensando a questo sentimento così diffuso che mi è sembrata un’operazione interessante e anche perfettamente riuscita, vuoi per il caldo accento toscano, vuoi perché lui se l’è studiata bene e prima di leggere un canto lo spiega e sottolinea metafore e iperboli, sentimenti e paure di un Dante che si rintana, a volte, dietro all’orrore delle sue infernali creature. Ed è un fatto quasi storico, dato che per indurre gli italiani (il famoso popolo di poeti) che hanno superato l’adolescenza, a leggere una poesia, non dico un libro di poesie, bisogna puntar loro contro un bazooka. Non si legge poesia, non la si ama, la si considera sempre un po’ con fastidio, con sufficienza e perfino con sospetto. Quando mi sono trovata a proporre poesie per gli alunni della scuola elementare da me selezionate (la prima idea me la diede l’editore Armando Armando) benché precedute da una premessa nella quale spiegavo con chiarezza, credo, l’uso che se ne doveva fare, una casa editrice mi pose come condizione alla pubblicazione della raccolta l’inserimento di un acconcio percorso didattico. Ovviamente andai in bestia, perché era proprio quello che non volevo assolutamente che si facesse. Ma così va il mondo. Loro sono rimasti ai loro percorsi didattici e io alla mia poesia. Però ora, dopo l’esperienza di Benigni, mi vien voglia di tornare all’attacco. In Italia non si ama la poesia: primo, perché porta con sé un inevitabile per domani commento scritto e magari a memoria; secondo, perché gli studenti non sanno (ma spesso non lo sanno nemmeno gli insegnanti) che la poesia va letta ad alta voce e va ascoltata come una musica e come tale va goduta ed apprezzata. Se si fa ascoltare un notturno di Chopin ad una scolaresca, si lascia che le note trovino da sole la strada del loro cuore, dei loro sentimenti. Non si chiede loro al termine dell’esecuzione “e per domani solfeggiare”. La poesia è l’unica arte che viene smontata per farne oggetto di odiosissima analisi grammaticale e logica. Ho memoria di una magistrale lettura di Ovidio eseguita da uno splendido Pino Colizzi, davanti ad uno sterminato pubblico di adolescenti e di


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Anna Lucchiari

giovani, accompagnati dai loro docenti. I giovani erano stupiti che si potesse far spettacolo con la poesia e un insegnante, seduto dietro di me, ad un certo punto disse: - Se sapessi leggere così, non servirebbe spiegare Ovidio! - Frase che voleva essere elogiativa nei confronti dell’attore, ma che, in realtà, se non si chiarisce il senso di quel leggere, si rischia di cadere in un equivoco. Perché Benigni legge bene l’Inferno? La sua lettura così comunicativa non nasce dal fatto che lui è un attore e sa modulare la voce, o almeno non solo, ma dal fatto che lui ha capito Dante. Ha capito la Divina Commedia e la vive e la fa vivere con entusiasmo, la porge con complicità, e sembra voler mettere a parte gli spettatori di un suo grande segreto: - Guardate cosa vi porto, il primo poema di fantascienza! Nel quale Dante, che non doveva nemmeno essere una persona tanto simpatica, se ha riempito l’inferno con quasi tutti i fiorentini che contavano e con molti altri presi da ogni epoca, ha reso protagonista il mondo del suo tempo. Benigni ha fatto un’operazione strepitosa di popolarizzazione di un testo difficile, per la lingua a lui certamente più familiare che ad altri, per l’argomento e per le storie che vi si narrano. Ha fatto un ottimo servizio a Dante e forse alla poesia italiana utilizzando la fama ottenuta esibendo altre sue capacità interpretative. Il risultato che Benigni ha conseguito lo ha certamente ripagato di tanta fatica. E mentre una sera lui era impegnato nella recitazione, mi sono ricordata di una mia insegnante di lingua e letteratura italiana che si chiamava Cattalinich. Ci massacrava perché non solo voleva il “commento scritto e a memoria” dei vari canti della Divina Commedia, ma pretendeva che mettessimo in pratica la “lettura espressiva”, così la chiamava lei. E su questa ci dava anche il voto. Lei sosteneva che chi legge bene, ha capito bene. Semplice. Ma perché fosse evidenziato in modo così “universale”, ci serviva Benigni che ce lo raccontasse non da una cattedra ma da un palcoscenico montato su di una piazza. E sopra il quale, prima di iniziare, si sgranchisce le gambe scorrazzando in tondo, per far comprendere che per lui, è tutto un gioco. Ma è una cosa seria e c’è da sperare che in molti abbiano capito la lezione. La poesia si deve prima studiare e capire e solo poi la si può leggere, non declamare, leggere in modo che gli altri siano facilitati nella sua comprensione. Significa far in modo che chi ascolta sia messo in grado di apprezzarla per quello che è: musica di parole, melodia di suoni, fascino di significati. Ma a tutt’oggi la mia raccolta di poesie da leggere ai bambini non ha trovato estimatori: quando l’ho presentata a gruppi di docenti, mi hanno detto che io posso farlo perché la poesia la conosco bene, conosco l’autore e la sua storia. Loro non sono altrettanto esperti. Ma perché, mi chiedo io, non si può documentarsi e se non proprio esperti, cercare almeno di diventare passabili conoscitori? Osta purtroppo l’avversione cumulata in tutti gli anni di scuola che prima o poi, beni-

gnamente si potrebbe provare ad eliminare.

Anna Lucchiari


PROFESSIONE DOCENTE

RivLas 75 (2008) 3, 373-382

Le parole sbagliate

Errori di scrittura e costruzioni letterarie dell’identità Roberto Alessandrini

Istituto universitario di Scienze psico-pedagogiche e sociali “Progetto Uomo” Sviste, lapsus, distrazioni e trascrizioni errate possono dare vita ad un sottotenente inesistente, provocare la morte prematura di un ufficiale in perfetta salute, creare fastidi identitari. Ma anche incubi ortografici, incurabili idiosincrasie per una vocale, fissazioni perenni per una consonante. Un vasto campionario di “parole sbagliate” che non si limita a suscitare il riso o l’inquietudine, ma genera in modo creativo situazioni impreviste e suggerisce una riflessione sul valore euristico dell’errore.

U

na vedova ha due figlie. La più grande, la preferita, è simile alla madre, antipatica e superba. La più giovane - la trascurata, l’umiliata - è bella e buona, mangia in cucina e si carica delle fatiche di casa. Non solo - racconta la fiaba di Perrault1 -, va anche ad attingere l’acqua con una brocca alla fontana, dove un giorno incontra una povera vecchia che le chiede da bere. La giovane, solerte, la accontenta e la vecchia, che in realtà è una fata, la ricompensa: “Ti do per dono che ad ogni parola che pronunzierai ti esca di bocca o un fiore o una pietra preziosa”. La giovane rientra a casa e, quando racconta che cosa le è successo, dalla sua bocca escono perle e brillanti, rubini e topazi. La vedova vuole lo stesso dono anche per l’altra figlia, la preferita, e la manda alla fontana con le opportune istruzioni. La fata, questa volta, non è una povera vecchia, ma una signora ben vestita. La giovane, la

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Charles Perrault, Le fate, in I racconti di Mamma l’Oca, Einaudi, Torino 1957.


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Roberto Alessandrini

preferita, le nega il favore di un sorso d’acqua. E lo fa con sgarbo e disappunto. Per questo “riceve in dono” che ad ogni parola pronunciata le esca di bocca un rospo o una serpe. Come spesso accade nelle fiabe, la figlia virtuosa - incolpata della disgrazia della sorella malvagia - è ripudiata e costretta a rifugiarsi nella foresta, dove incontra il figlio del Re, al rientro dalla caccia, che la ascolta e la sposa. La sorella, come spesso accade nelle fiabe, viene anch’essa cacciata per la sua malvagità e muore in solitudine al confine del bosco. Le giuste parole, in questo caso le parole autenticamente virtuose e i gesti che le accompagnano, ricevono come ricompensa il dono di diventare preziose e colorate, al pari di perle e fiori. Mentre le parole sbagliate, quelle dettate dal solo interesse e dalla superbia, vengono diminuite e mortificate. Il dono magico delle fate, che nel nome contengono l’allusione al racconto e alla profezia, è “metaforicamente dono della parola”2 o, al contrario, riduzione della parola ad una condizione anfibia e strisciante. Esperte filatrici e amanti del ricamo, le fate tessono una trama non diversa da quella del racconto e, in continuità con le mitiche Parche, si affaccendano attorno ai fili della vita e del destino enfatizzando una delle più pregnanti capacità umane: far accadere le cose per mezzo delle parole3. Poiché commettiamo errori parlando e ascoltando, leggendo e scrivendo - e tutti abbiamo “una virgola, un accento, un suono, una desinenza, una parola, un costrutto” da farci perdonare4 - talvolta accade che le parole giuste e le parole sbagliate si confondano e producano effetti imprevisti rispetto alle intenzioni di chi le scrive o le pronuncia5. “Se possedessimo una scienza degli errori grafici, degli sbagli di scrittura che per comodità potremmo chiamare errografia - quasi certamente dovrebbe occuparsi delle analogie tra sgorbi, schizzi, sfregi, baffi e profili di animali”, osserva Marco Belpoliti6. E probabilmente quella disciplina permetterebbe di distinguere gli errori preziosi da quelli senza valore, gli sbagli dagli errori creativi e intelligenti7. Riconoscendo così che l’errore non è l’hors d’oeuvre, ma il piatto principale della scienza e 2

Cfr. Antonella Sarpi, “Del tessere e del narrare: i fili del discorso”, in Angela Amendola, Maria Teresa Digiesi, Antonella Sarpi, Le fate. Fantasmi della psiche e custodi della narrazione, Palomar, Bari 2003, p. 89. 3 Cfr. Giovanna Axia, Elogio della cortesia, il Mulino, Bologna 1996, p. 8. 4 Pietro Trifone, Malalingua. L’italiano scorretto da Dante a oggi, il Mulino, Bologna 2007, p. 10. 5 Erri De Luca racconta di un manovale curdo, un tempo scrittore, ferito ad un occhio per le botte della polizia del suo Paese. “Un giorno mette fuori un foglio scritto in inglese [...] occhi in inglese è eyes. Un errore di battuta sul foglio li trasforma in yes. Per le botte ha gli yes guasti. E l’errore è giusto, ha tutti i sì rovinati [...]. Le botte guastano i sì più degli occhi. Ci sono errori che contengono un’altra verità” (Erri De Luca, Tre cavalli, Feltrinelli, Milano 1999, p. 17). 6 Marco Belpoliti, Doppio zero. Una mappa portatile della contemporaneità, Einaudi, Torino 2003, p.70. 7 “Negli errori [...] si imbattono coloro che sono impegnati nel fare scoperte, negli sbagli chi non deve inventare niente ma applicare solo teorie che ha ricevuto già confezionate. In altre parole, mentre l’errore è strettamente legato all’immaginazione e alla creatività, lo sbaglio è il frutto di una cattiva memoria o di una scarsa attenzione. In breve, l’errore lo compie risolvendo problemi, lo sbaglio, per lo più, risolvendo esercizi” (M. Baldini, Epistemologia e pedagogia dell’errore, La Scuola, Brescia, p. 91).


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una componente necessaria dell’apprendimento perché “chi farà pochi errori farà anche poche scoperte”8. Come ha osservato Ernst Mach, “conoscenza ed errore discendono dalle stesse fonti psichiche; solo il risultato permette di distinguerli. L’errore riconosciuto con chiarezza è, come correttivo, altrettanto utile cognitivamente della conoscenza positiva”9. L’errore ha, inoltre, un valore euristico, serve a scoprire fatti nuovi, ad indagare scientificamente il funzionamento della mente e a distinguere aspetti diversi della grammatica, un territorio in cui esso si offre all’osservazione senza bisogno di ricorrere ad apparecchiature sofisticate10. Se da un lapsus - che per la psicoanalisi è segno e appagamento di un desiderio inconscio rimosso - può nascere una storia, come ricorda Gianni Rodari in Grammatica della fantasia, da un errore creativo può nascere un dettaglio originale. E’ciò che accade nella Cenerentola di Perrault, dove la scarpina di vaire (una specie di pelliccia) perduta allo scoccare della mezzanotte - unico elemento che consentirà al principe di ritrovare la misteriosa amata - si trasforma, per un errore di trascrizione, in scarpina di verre (vetro), certamente più ricca di suggestioni11. In modo ancor più impegnativo, l’errore di scrittura può invadere il terreno dell’identità personale provocando effetti imprevedibili.

Scrittura e identità Prima di acconsentire al matrimonio che i rispettivi padri vorrebbero concordare, Silvia e Dorando hanno avuto la stessa idea, l’una all’insaputa dell’altro. Poiché non si conoscono e non si sono mai incontrati, il loro primo appuntamento nella casa parigina di Mr Orgon avrà i caratteri della prudenza e dello studio reciproco. Silvia scambierà i propri abiti e il proprio ruolo con quelli della sua damigella Lisette. In questo modo,pensa, potrà osservare il promesso sposo con la libertà e la distanza necessarie. Potrà studiarne i tratti e la personalità senza compromettersi, da un osservatorio obliquo e distanziato. Ma Dorando ha avuto la stessa idea, per lo stesso motivo. E ha scambiato abiti e ruolo con il proprio valletto Arlecchino. L’esito è - pur convinti gli uni e gli altri del contrario - che i padroni parleranno con i padroni e i domestici con i 8

Massimo Baldini, Epistemologia e pedagogia dell’errore, op. cit., 1986, p. 108. Ernst Mach, Conoscenza ed errore. Abbozzi per una psicologia della ricerca, Einaudi, Torino 1982, p.115. 10 Andrea Moro, I confini di Babele, Longanesi, Milano 2006, pp.58-59. Nel suo Saggio sulla filosofia delle lingue applicato alla lingua italiana, uno dei più importanti nel dibattito linguistico settecentesco, il sacerdote Melchiorre Cesarotti, precettore presso nobili famiglie e titolare a Padova della cattedra di Letteratura greca e latina, imposta in modo innovativo il problema dell’”errore di lingua”. A suo giudizio esistono errori contro le parti logico-grammaticali della lingua, generatori di equivoci, controsensi e oscurità, ed errori di opinione, che sono infrazioni alla norma prescrittiva dei grammatici. Cfr. Riccardo Testi, Storia dell’italiano: la lingua moderna e contemporanea, Zanichelli, Bologna 2005, pp. 100-104. 11 Cfr. Thompson, Le fiabe nella tradizione popolare, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 186, cit. in Gianni Rodari, Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino 1973, p. 34. 9


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Roberto Alessandrini

domestici. Il teatro nel teatro che Marivaux si diverte a rappresentare nella commedia Il gioco dell’amore e del caso svela il funzionamento di una prodigiosa macchina dell’inganno che porta in scena identità che si scambiano e che, proprio in virtù di questo scambio, si svelano e, alla fine, si rivelano. L’errore è “l’errore di ortografia” che ArlecchinoDorando chiama in causa e scongiura due volte nei suoi dialoghi con Lisetta-Silvia: LISETTA. Magari durassero, questi bei sentimenti! ARLECCHINO. Per renderli più tenaci, da una parte e dall’altra, giuriamo di amarci sempre, a dispetto di tutti gli errori di ortografia voi possiate commettere nello stabilire chi sono12.

E successivamente:

LISETTA. Andiamo ai fatti, tu mi ami? ARLECCHINO. Ma sicuro, perdinci, cambiando nome non hai mica cambiato

faccia, e tu sai bene che ci siamo promessi fedeltà a dispetto di ogni errore di ortografia13.

Nella commedia di Marivaux l’errore d’ortografia è una deliberata finzione finalizzata alla scoperta della verità o del suo approdo più prossimo, anche se alla fine i padroni si sposeranno con i padroni e i servi con i servi. Non dunque un semplice lapsus calami, che tuttavia svolge un ruolo importante nella riflessione sull’identità e l’errore e, in particolare, sull’errore capace di generare identità. Un caso emblematico è rappresentato dalla novella storica di Jurij Tynjanov Il sottotenente Summenzionato,14 rielaborata dall’autore, esponente della scuola formalista russa, a

partire da raccolte di aneddoti dei tempi del sospettoso e pavido imperatore Paolo I. Un giovane e inesperto scritturale della cancelleria del reggimento Preobraženskij è intento a ricopiare l’ordine del giorno che dovrà essere sottoposto al sovrano. Angosciato dal ritardo, dalle interruzioni e dal timore di sbagliare, commette effettivamente due errori, due “involontarie mistificazioni” che producono effetti inattesi, ma reali. Invece di scrivere “i sottotenenti summenzionati Stiven, Rybin e Azančeev vengono destinati” scrive, infatti, “i sottotenenti Summenzionato, Stiven, Rybin e Azančeev vengono destinati”. Un lapsus, un errore. Nulla di più. Ma, a partire da quel momento, il sottotenente Summenzionato pur non esistendo esiste, in virtù di un semplice segno su un documento. Ufficiale segreto e incorporeo, senza volto, ma con un cognome, Summenzionato sarà esiliato in Siberia per aver gridato “aiuto” sotto la finestra dell’imperatore, poi richiamato dall’esilio, promosso al grado superiore e persino sposato ad una dama d’onore. Ai tasselli di questa elementare biografia si deve aggiungere la notorietà che presto circonderà il suo nome assieme al rigore della sua condotta militare di ufficiale modello. L’errore di scrittura che lo ha generato lo protegge da ogni possibile sbaglio e lo proietta in un mondo di perfezione irreale che solo il soldatesco orrore dell’imperfezione può assecondare. La macchina della finzione militar-burocratica

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Pierre Carlet de Chamblain de Marivaux, Il gioco dell’amore e del caso, Garzanti, Milano 1987, atto II, scena 5. 13 Id., ibid., atto III, scena 6. 14 Jurij Tynjanov, Il sottotenente Summenzionato, Sellerio, Palermo 1986.


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non ha al proprio interno la possibilità di emendarsi: tutti fingono di vedere ciò che non esiste. Summenzionato ha ora un figlio, a lui somigliantissimo. Viene promosso capitano, poi colonnello, tra un risveglio e l’altro dell’oblio nel quale ripetutamente cade agli occhi dell’imperatore. Summenzionato dispone persino di un gabinetto di lavoro e di un ufficio al quale vengono consegnati rapporti e ordini. Nessuno si stupisce dell’assenza del titolare perché l’ufficiale ora comanda un reggimento. La moglie si consola delle sue lunghe assenze in compagnia di qualche tenente, qualche capitano, qualche civile. Il figlio, intanto, cresce. Servitore silenzioso e ineccepibile, anche se privo di protezioni importanti, l’inesistente Summenzionato viene promosso al grado di generale, riceve una tenuta e mille anime. Il suo stato di servizio è impeccabile e nessuno si è mai lamentato di lui. Nessuno ne ha avuto occasione. Decisamente proiettato nella leggenda, gli si attribuiscono ora anche avventure galanti, natali francesi e un padre ghigliottinato dalla plebe a Tolone. L’epilogo della storia non è meno avvincente. Convocato dall’imperatore, che vuole finalmente conoscere di persona e premiare con la fiducia colui che fino a quel momento è stato solo un anonimo stato di servizio, Summenzionato si ammala gravemente e nel giro di tre giorni muore, nonostante le continue attenzioni dei medici dell’ospedale. I funerali sono solenni e indimenticabili, alla presenza delle bandiere spiegate del reggimento, di trenta carrozze della corte, della vedova dolente e del figlio. Quando il corteo passa davanti al castello di Paolo I, l’imperatore alza la propria spada e lamenta: “Muoiono i miei uomini migliori”. E così, dopo aver conosciuto anni di servizio, la punizione dell’esilio, una prodigiosa carriera militare, avventure amorose, famiglia e favori dell’imperatore, l’ufficiale inesistente se ne va, interrato nella necropoli di San Pietroburgo. Sic transit gloria mundi, lo saluta Paolo I seguendo il feretro con lo sguardo. L’intensa e inesistente vita di Summenzionato alimenta il sospetto che la finzione non solo non pregiudichi il funzionamento del sistema militare e sociale, ma ne rafforzi i meccanismi proprio nel momento in cui ne svela la cecità e la distrazione. La sua non-vita offre un’apparenza di decoro ad una dama disinvolta, ad un figlio dal padre incerto e, soprattutto, ad un apparato costretto a riprodurre fideisticamente le proprie certezze nella linea di trasmissione del comando per evitare che la dogmatica solidità del sistema venga inficiata dal sospetto dell’inefficienza. Tuttavia, l’originario errore dell’inesperto scritturale della cancelleria del reggimento non ha prodotto solo la vita inesistente di Summenzionato. Quell’errore ne ha trascinato con sé un altro: il nome del tenente Sinjuchaev, realmente esistente e perfettamente in vita, viene seguito dalla dicitura “deceduto a seguito di febbre”. L’effetto è che il povero Sinjuchaev, scomparendo dagli atti ufficiali scompare anche dalla vita reale e non viene neppure sfiorato dal sospetto che l’ordinanza possa contenere uno sbaglio. Esiste, ma è come se non esistesse. “Io non sono più vivo”, spiega al padre medico. Anche la richiesta di esser riammesso nei ranghi dell’esercito viene respinta: “All’ex tenente Sinjuchaev, escluso dai ruoli a causa di morte, la richiesta sia rigettata per la medesima ragione”. Il destino tragico di Sinjuchaev, vera vittima dell’errore involontario, è di condurre una marcia molle e disarticolata, che disegna per intere settimane cerchi sempre più


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stretti attorno e poi all’interno della città di S.Pietroburgo, come in un allucinato percorso di avvitamento e di perdita. L’autodistruttiva marcia circolare che segue l’epilogo della vita sembra evocare una lenta, progressiva discesa agli inferi o l’esecuzione di un rituale qabbalistico per la creazione e la distruzione del Golem, figura umana che nasce da poteri magici, oggetto di racconti leggendari e apocrifi, rituale ebraico di iniziazione mistica15. Il rituale consiste proprio nel tracciare un cerchio attorno alla creatura pronunciando combinazioni alfabetiche. Quando si cammina in avanti, la terra vergine sepolta all’interno del cerchio prende vita e la creatura si alza in piedi in virtù della forza delle lettere. Quando invece si procede all’indietro e si recitano le combinazioni alfabetiche al contrario, la creatura crolla a terra e muore16. Proprio come l’innocente e tragico Sinjuchaev, che scompare senza lasciare traccia, disfacendosi “in briciole, in polvere, come se non fosse mai esistito”.

Una lettera in più o in meno Secondo la tradizione esoterica ebraica, un rotolo della Torah non è utilizzabile in sinagoga se contiene una sola lettera in più o in meno. Già nel II secolo rabbi Meir, maestro della Mishnah, affermava che “se soltanto ometti una lettera o scrivi una lettera di troppo, distruggi il mondo intero17.” Per la letteratura rabbinica dei primi secoli, i testi che contengono errori, così come quelli logori e dismessi, non possono essere distrutti o gettati come rifiuti, ma devono essere affidati a un ripostiglio presso la sinagoga e poi sepolti nel cimitero ebraico. Quei rotoli ritualmente non più validi sono detti in ebraico pāsūl, da cui proviene – attraverso l’uso giudaico-romanesco – il termine fasullo18. Nella sua perfezione, la Torah non contiene nemmeno una lettera o un punto superfluo19. L’alfabeto è principio di identità, la scrittura una chiave ermeneutica. Caricata

15

Cfr. Gershom Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 1980, p. 220. Cfr. Gershom Scholem, op. cit., p. 235. 17 Gershom Scholem, op. cit. p. 51. 18 Cfr. C. Tagliavini, “It. fasullo < ebr. pāsūl”, in Studi orientalistici in onore di Giorgio Levi della Vida, Roma, Istituto per l’Oriente, 1956, II, pp. 539-552, cit. in Giorgio Raimondo Cardona, Antropologia della scrittura, Loescher, Torino 1981, p. 156, nota 5. Nemmeno la scrittura araba può essere annullata con disinvoltura – calamo e Corano provengono direttamente da Allah - e nelle scuole coraniche gli allievi lavano l’inchiostro dalle tavolette e lo fanno scorrere in una fossa appositamente scavata nei pressi della moschea. Nella Cina tradizionale, anche nei villaggi più piccoli, esisteva un tempietto “della pietà dei caratteri” (xízìtă) nel quale venivano portati, al fine di essere bruciati, i fogli scritti da gettare o trovati per caso. Cfr. Giorgio Raimondo Cardona, Antropologia della scrittura, op. cit., p. 157. 19 Cfr. Gershom Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, op. cit., p. 58; Giulio Busi, “Lettere della creazione. Usi e concezioni asemantiche dell’alfabeto nel giudaismo”, in Alfabeto in sogno. Dal carme figurato alla poesia concreta, a cura di Claudio Parmiggiani, Mazzotta, Milano 2002, pp. 228; Giorgio Raimondo Cardona, Antropologia della scrittura, op.cit., pp. 154, 158 e 188. In Verità e metodo, Gadamer scrive la sentenza più citata e fraintesa dell’ermeneutica filosofica: “Sein, das verstanden werden kann, ist Sprache”. Nella traduzione italiana di Gianni Vattimo – la prima in assoluto dell’opera – la frase diventa: “L’essere che può venir compreso è linguaggio”. Inserire o meno nella traduzione le virgole presenti in tedesco 16


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di connotazioni sacrali e microcosmo che riproduce la struttura del mondo, la scrittura è talvolta fatta oggetto di un rispetto che impedisce di modificare o togliere qualcosa, pena l’inefficacia della parola scritta ad agire nella sua interezza20. Le lettere dell’alfabeto, e in particolare quelle del nome divino e della Torah, sono infatti segnature dell’intera creazione, lo strumento utilizzato da Dio per creare il mondo. Esse hanno una potenza misteriosa, magica e solo l’iniziato è in grado di usarle, come il dotto babilonese del I secolo Bezalel, che può ripetere in miniatura la creazione nella costruzione di un Tabernacolo, in grado di riprodurre tutto ciò che esiste in cielo e in terra21. Un esempio letterario di quel perfetto microcosmo viene descritto da Borges nel racconto “L’Aleph”. Nell’angolo di una cantina di Buenos Aires, il protagonista vede una piccola sfera cangiante di due o tre centimetri di diametro, ma capace di contenere lo spazio cosmico senza che la vastità ne soffra. L’Aleph, infatti, “è uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti”, il luogo in cui si trovano, senza confondersi, “tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli”, senza sovrapposizione e senza trasparenza22. Anche la vita del Golem, automa modellato in argilla come il corpo dell’uomo, dipende da una lettera dell’alfabeto ebraico e deve la propria esistenza alla mano che l’ha creato e che può in ogni istante distruggerla: è vivo quando la parola-simbolo sulla sua fronte (emet) è completa, morto quando viene mutilata (met). Il Marahal utilizza il Golem per il bene comune, per proteggere la comunità ebraica dai pericoli e se ne serve solo in sei giorni della settimana. Il sabato, che porta l’ordine nel disordine della creazione, il Marahal toglie infatti l’aleph, prima lettera dell’alfabeto ebraico, dalla fronte della creatura e la rende così innocua e priva di vita23. Pur senza distruggere il mondo, una lettera omessa o una lettera di troppo possono generare fastidi identitari difficili da risolvere, come accade nel racconto Il caso numero 20 di Mirjana Danilović, pubblicato nella raccolta Casablanca Serba24. Il protagonista ha un nome che non ricorda, dato dalla madre ormai morta, trascritto in modo sbagliato, sostituito nell’uso paterno da un nome simile e poi da soprannomi. Tutte le trascricambia la portata ontologica della sentenza. Senza virgole si identifica il dominio degli enti che si offrono alla comprensione con quello del linguaggio, mentre con le virgole si afferma che l’essere è linguaggio e in quanto tale comprensibile. Cfr. Gianni Vattimo, “Histoire d’une virgule. Gadamer et le sens de l’être”, in Revue internationale de Philosophie, n. 3, settembre 2000, pp. 499-513 e Donatella Di Cesare, Utopia del comprendere, Il melangolo, Genova 2003, pp. 19-21. 20 Un celebre errore tipografico riguardante una Bibbia risale al 1631 e riguarda la Edition of the King James, che in uno dei dieci comandamenti (Esodo 20,14), trasforma il corretto “Thou shall not commit adultery” (non commettere adulterio) in “Thou shall commit adultery” (commetti adulterio). 21 Cfr. Gershom Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, op. cit., pp. 211-212. 22 Jorge Luis Borges, “L’Aleph” in L’Aleph, Feltrinelli, Milano 1989, p 165. 23 Cfr. André Neher, Faust e il Golem: realtà e mito del Doktor Johannes Faustus e del Maharal di Praga, Sansoni, Firenze 1989. 24 Mirjana Danilović, “Il caso numero 20“, in Casablanca Serba, Feltrinelli, Milano. Devo questa segnalazione ad Andrea Lodi.


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zioni del suo nome sono errate. Sul certificato di battesimo compare in un modo, sul certificato di residenza manca una lettera, nella cartolina di precetto due lettere sono state scambiate di posto e nel contratto per la casa le prime tre lettere sono sparite del tutto. Anche sul passaporto il nome non è quello giusto. Il pasticcio familiar-burocratico favorisce un utile mimetismo che permette al protagonista di evitare la guerra, di non avere nome sul campanello e sulla cassetta delle lettere, di non pagare le tasse sui compensi dei lavori saltuari. Di non esistere, di non avere consistenza pubblica, di non farsi notare. “Non ho fatto nulla per cambiare questa situazione. Ho permesso che le persone mi attribuissero il volto che gradivano di più”. L’epilogo è drammatico: l’oblio del nome e la rinuncia ad ascoltare qualcuno che possa pronunciarlo correttamente. Per sentirlo nuovamente riecheggiare servirebbe una magia, la quale – secondo Kafka – “non crea, ma chiama” poiché essa è, nella tradizione dei qabbalisti e dei negromanti, una scienza del nome segreto, del nome nascosto al quale non si può non rispondere, del nome ulteriore rispetto al nome manifesto25.

Incubi ortografici Una vocale, una consonante, un semplice segno di interpunzione possono agire sulle persone al punto da provocare veri e propri incubi e situazioni di follia. Dopo una sgradevole serata in società, il cechoviano segretario di collegio Jefìm Fomìc Perekladin26 si corica impermalito e offeso. E’ la notte prima di Natale, ma le parole impertinenti che gli ha rivolto il giovane figlio di un consigliere di Stato gli hanno provocato una profonda inquietudine. “Voi occupate un posto decoroso, ma che istruzione avete ricevuto?” aveva chiesto il giovane. “Dove avete imparato a scrivere correttamente? E i segni di interpunzione?” Il povero Perekladin si era difeso come aveva potuto, rivendicando quarant’anni di onorato servizio.“Ma l’abitudine è tutt’altra cosa dall’istruzione”, aveva replicato il giovane impertinente. Non basta che i segni d’interpunzione li poniate correttamente...non basta! Bisogna porli consapevolmente! Voi mettete una virgola e dovete aver coscienza del perché la mettete...sissignore! E questa vostra ortografia incosciente...di carattere riflesso non val nemmeno un centesimo. È produzione meccanica e nulla più.

Per Perekladin, che ora si sta faticosamente addormentando nel suo letto, l’inquietudine prende la forma di un incubo ortografico. Gli compaiono virgole infuocate, che lasciano il posto a punti altrettanto infuocati, che a loro volta si mescolano con le virgole per dare vita a punti e virgole e a due punti. Poi è la volta di punti interrogativi, che si allungano in minacciosi punti esclamativi. “Uhm!...Questo segno d’interpunzione nelle lettere si colloca spesso. ‘Mio egregio signore!’, oppure: “Eccellenza, padre e benefattore!”... Ma nelle carte, quando?” Come gli spiega la moglie, che si fa vanto di aver studiato sette anni in collegio e di conoscere la grammatica a memoria, quel segno si colloca “nelle apostrofi, nelle esclamazioni e nelle espressioni di entusiasmo, di sdegno, di gioia, di collera e di altri sentimenti”. Forse Perekladin non ha mai usato l’esclamativo perché non ha mai provato quei sentimenti? Il dubbio si insinua tra gli incubi di una notte agitata. Il mattino

25 26

Giorgio Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma 2005, p. 22. Anton Čechov, “Il punto esclamativo”, in Racconti, vol.I, Rizzoli 2002, pp. 68-72.


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dopo, il segretario esce in strada, chiama una vettura, si precipita nell’anticamera del superiore, intinge il pennino nell’inchiostro e firma: “Segretario di collegio Jefìm Perekladin!!!”, con tre segni perché egli “provava entusiasmo, indignazione, gioia e ribolliva di collera. - To’ questo! To’ questo! – mormorava, premendo sul pennino. Il segno infocato fu pago e scomparve”27. Un incubo ben più grave e irrisolvibile accompagna il protagonista di un breve racconto di Iginio Ugo Tarchetti28, esponente della Scapigliatura lombarda. Il sottotitolo – Manoscritto di un pazzo – offre la cornice e la spiegazione della singolare idiosincrasia del protagonista, che rabbrividisce alla vista della lettera U, presente anche nel suo nome, “segno fatale”, “lettera abborrita”, “vocale tremenda” che lo perseguita a scuola e negli amori e da cui discendono tutte le sventure della sua vita. Quella linea che si curva e si inforca, quelle delle due punte che vi guardano immobili, che si guardano immobili, quelle delle due lineette che ne troncano inesorabilmente, terribilmente le cime, quell’arco inferiore, sul quale la lettera oscilla e si dondola sogghignando, e nell’interno quel nero, quel vuoto, quell’orribile vuoto che si affaccia dall’apertura delle due aste, e si ricongiunge e si perde nell’infinità dello spazio.

Il suono della U è il “ruggito della fiera, il lamento che emette il dolore, tutte le voci della natura sofferente e agitata”. Il primo impatto avviene a scuola: un istinto inspiegabile gli impedisce di apprendere quella lettera e di scriverla: Mi veniva meno la voce, un panico indescrivibile si impossessava di me – io non poteva pronunciare quella vocale! Scriverla? Era peggio! la mia mano sicura nel vergare le altre diventava convulsa e tremante allorché mi accingevo a scrivere questa. Ora le aste erano troppo convergenti, ora troppo divergenti; ora formavano un V diritto, ora un A capovolto; non poteva tracciare in nessun modo la curva, e spesso non riusciva che a formare una linea serpeggiante e confusa.

E ben presto l’inimicizia si trasforma in una guerra mortale:

Incominciai col togliere quanti libri poteva a’ miei compagni, e cancellarvi gli U che mi venivano sott’occhio. Non era che il principio della mia vendetta. Fui cacciato dalle scuole. Vi ritornai tuttavia più tardi. Il mio maestro si chiamava Aurelio Tubuni. Tre U!!! Io lo aborriva per questo. Un giorno scrissi sulla lavagna: Morte all’”U”! Egli attribuì a se stesso quella minaccia. Fui ricacciato. Ottenni ancora di tornarvi una terza volta. Presentai allora, come lavoro di esame, un progetto relativo all’abolizione di questa vocale, alla sua espulsione dalle lettere dell’alfabeto. Non fui compreso. Fui tacciato di follia.

Anche gli amori sono sfortunati, rivolti a un’Ulrica, a una Giulia, ad una Annetta che, in realtà, si chiama Susanna e ha altri cinque nomi di battesimo: Postumia, Uria, Umberta, Giuditta e Lucia. Tormenti, rinunce, a causa della U. Poi il sofferto matrimonio con il primo amore, Ulrica. Ma una notte, invaso da un imprecisato furore, il matto fa un sogno affan27

Biasimato nel corso del Novecento – si arrivò persino a proporne l’abolizione – il punto esclamativo viene oggi molto utilizzato nella scrittura del web, dove è divenuto un’icona di sensazioni ed emozioni. Cfr. Bice Mortara Garavelli, Prontuario di punteggiatura, Laterza, RomaBari 2005, pp. 96-97. Per una originale trattazione sulle potenzialità espressive e comunicative di un altro segno d’interpunzione – il punto interrogativo – cfr. Manfredo Massironi, L’Osteria dei Dadi Truccati: arte, psicologia e dintorni, il Mulino, Bologna 2000, pp. 31-43. 28 Iginio Ugo Tarchetti, “La lettera U”, in Racconti della Scapigliatura milanese, Edipem, Novara 1973, pp. 86-91.


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noso: una U gigantesca lo abbraccia con le sue aste immense, lo stringe, lo opprime. Allora corre dal notaio, lo trascina al letto della moglie che sta ancora dormendo e le chiede di rinunciare al suo nome, che contiene la lettera detestabile. Ma la moglie si rifiuta e lui la percuote col bastone. Viene così arrestato e rinchiuso in un ospizio di pazzi, dove muore l’11 settembre 1865. Il privilegio di imparentarsi con la follia appartiene anche alle consonanti. Thomas Bernhard racconta di un uomo internato nel manicomio di Augsburg perché da sempre e ossessivamente sosteneva che le ultime parole di Goethe erano state mehr nicht! (basta!) e non mehr Licht! (più luce!). Una piccola consonante cambia radicalmente il senso di una frase pronunciata in fin di vita e converte la disperata richiesta di ancoraggio al mondo del visibile in una rassegnata e definitiva chiusura dei conti con la vita terrena. L’insistenza con la quale l’uomo sosteneva la propria tesi “aveva dato talmente sui nervi a quanti lo avvicinavano, che costoro si erano messi insieme per ottenere l’internamento in manicomio di quel cittadino di Augsburg così fissato in quell’affermazione”. Ben sei medici avevano rifiutato di far internare lo sciagurato, ma un settimo ne aveva ordinato il ricovero immediato e, per questo, era stato premiato con la Targa Goethe della città di Francoforte29.

29

Thomas Bernhard, L’imitatore di voci, Adelphi, Milano 1987, p. 55.


PROFESSIONE DOCENTE

RivLas 75 (2008) 3, 383-396

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Il caso del Piemonte Michele Grisoni

La Formazione Professionale regionale del Piemonte e, nello specifico, quella della Provincia di Torino, fin dal 1989 ha approfondito le tematiche dell'accoglienza, della stabilizzazione e della formazione di lavoratori migranti adulti (donne e uomini) e giovani (minori), raggiungendo soddisfacenti risultati in termini sia formativi, sia occupazionali. L’esperienza pilota della agenzia formativa “Casa di carità Arti e mestieri” si innesta, con una sua originalità di spirito e di metodo, nel quadro delle politiche formative della Regione

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ttraverso la formazione professionale (d’ora in poi: FP) e la conquista di uno status lavorativo più qualificato, gli immigrati possono compiere un passo avanti molto importante nel loro percorso di “educazione alla cittadinanza”. Le politiche del lavoro e dell’occupazione vengono spesso intese come un ambito specialistico e interno alla regolazione del sotto-sistema economico, concettualmente separato dal più ampio campo delle politiche sociali. In questa sede vorremmo invece sostenere che si tratta di un luogo cruciale per l’edificazione di un nuovo sistema di welfare, non solo per la rilevanza fondamentale che la questione occupazionale riveste per la coesione sociale delle società sviluppate, ma anche per la possibilità di introdurre proprio a partire dalle politiche del lavoro e dell’occupazione una serie di e-


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lementi innovativi rispetto alle tradizionali concezioni delle politiche sociali: tendenziale personalizzazione degli interventi; ricerca di soluzioni locali e mirate; coinvolgimento di una pluralità di attori, oltre alle istituzioni pubbliche, in una logica di raccordo degli interventi e di programmazione negoziata; attivazione e responsabilizzazione dei beneficiari; enfasi sulla dimensione promozionale, anziché sugli elementi garantisti e su provvedimenti miranti al semplice sostegno dei redditi.

La presenza di immigrati stranieri nelle attività di FP In questa linea di raccordo tra politiche sociali e politiche di governo del mercato del lavoro si pone il concetto di un nuovo welfare delle opportunità, in luogo del welfare della protezione passiva che viene dal passato. I suoi capisaldi dovrebbero essere rappresentati appunto, oltre che dall’istruzione, dalla FP e dalle politiche attive del lavoro e dell’occupazione. In altri termini, viene indicata l’esigenza di proteggere meno determinate categorie e situazioni, e di investire un maggior volume di risorse nell’attrezzare i cittadini ad acquisire le competenze necessarie per inserirsi nel mercato del lavoro, per rimanervi ed eventualmente per rientrarvi. La FP può dunque essere considerata a giusto titolo come una componente del pacchetto dei diritti di cittadinanza: giacché nessuno Stato sociale può oggi promettere credibilmente di garantire a tutti i cittadini l’occupazione, diventa decisivo l’impegno nel fornire e aggiornare le competenze professionali necessarie per trovare, mantenere ed eventualmente ritrovare un’occupazione. Già oggi la FP destinata agli immigrati si trova a rispondere ad un arco molto ampio di esigenze sociali. In carenza di altri interventi di politica sociale, educativa, occupazionale, al sistema formativo è stato chiesto: - di occuparsi della formazione linguistica e della socializzazione degli immigrati alla società italiana - di attuare surrettiziamente interventi di natura assistenziale, assicurando un reddito minimo a quanti disoccupati senza risorse su cui contare, si trovano in condizione di necessità - di contribuire al recupero e all’integrazione sociale di minori abbandonati, sfruttati, coinvolti in esperienze devianti - di offrire opportunità di socializzazione e apprendimento a donne giunte in Italia senza progetti professionali definiti, come mogli al seguito o come vittime dello sfruttamento sessuale - di assicurare un’occupazione a immigrati che, più che essere interessati alla formazione, hanno l’obiettivo di trovare un lavoro e disporre di un reddito relativamente stabile - di aprire prospettive di promozione agli immigrati istruiti e desiderosi di migliorare la loro condizione professionale - di far acquisire l’insieme di quelle norme di comportamento fondamentali (e spesso differenti rispetto alla cultura di origine) necessarie per l’integrazione prima lavorativa e di conseguenza sociale, di fare da filtro per l’assunzione di forza lavoro da parte delle aziende.


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In altri termini, la FP non è solo uno strumento delle politiche del lavoro, ma trova collocazione nell’ambito delle politiche per l’integrazione, nel rispetto delle diversità, degli immigrati. In questo microcosmo, comunicante con la società più ampia e insieme appartato, vi è spazio per ridefinire e negoziare la propria identità culturale e professionale nel contesto della società ospitante. La FP ha una componente prettamente interculturale ma anche assimilatoria, in quanto propone agli immigrati un pacchetto di contenuti (linguistici, comportamentali, tecnico-professionali) ai quali richiede di conformarsi per poter trovare cittadinanza. Ma è anche il luogo in cui i formandi possono discutere e confrontare il proprio bagaglio di saperi e convinzioni con le norme e le istituzioni sociali della società che li riceve, valutando quanto accettare, quanto respingere, quanto conoscere meglio1. Sorge a questo punto il dilemma dell’alternativa tra formazione dedicata ai soli immigrati e inserimento degli immigrati in corsi di formazione professionale a utenza indifferenziata. Il dibattito sul tema indica una preferenza di principio per questa seconda soluzione, almeno come obiettivo a cui tendere. La scelta di una FP dedicata, per soli immigrati, deriva dalla considerazione delle peculiarità e degli elementi di debolezza di questa componente dell’offerta di lavoro: scarsa conoscenza della lingua e della società italiana, mancanza del supporto di reti primarie e conseguente domanda di assistenza economica, difficoltà di fruizione discendenti dalla composizione della formazione con attività lavorative, spesso precarie, atipiche, con orari variabili, ecc. Il fattore di successo di questo tipo di formazione è quindi la presa in carico delle specificità dell’utenza immigrata e l’introduzione di soluzioni organizzative e didattiche peculiari. Oggi, a distanza di tempo è forse possibile riconsiderare il dilemma integrazione/ specializzazione in relazione alla crescente eterogeneità della popolazione immigrata che entra in rapporto con il sistema formativo: per le seconde generazioni, che già hanno ricevuto un’istruzione di base in Italia, appare raccomandabile l’inserimento nella formazione generalistica, con eventuali interventi di supporto. Per gli immigrati già residenti da anni nel nostro paese, e in possesso di un’adeguata conoscenza dell’italiano, è pure immaginabile la possibilità di partecipare efficacemente a corsi di seconda formazione con utenza mista. Per altri segmenti, in particolare gli immigrati neo-arrivati, privi di competenze spendibili, con deficit linguistici, appare invece tuttora più efficace, se non necessaria, la partecipazione a corsi di FP specifici, modulari ed integrati sul territorio con la pubblica istruzione (educazione per gli adulti). Fino a quando non consolida la propria presenza sul territorio nazionale mediante il riconoscimento, a pieno titolo, del diritto di cittadinanza, l'immigrato vive nella condizione di soggetto precario come d’altronde recita in modo molto chiara la L.189/ ’02: il permesso di soggiorno è strettamente legato al lavoro e, di conseguenza, il rispettivo rinnovo, in seguito alla scadenza, avviene solo se l'immigrato straniero dimostra di essere in possesso di un lavoro. Da una parte, questa specificità orienta l'immigrato verso il mercato del lavoro e, dall'altra, lo porta ad avvicinarsi alla FP, al fine di acquisire quelle competenze tecniche professionali e relazionali necessarie per la 1

Annale dell’Osservatorio Interistituzionale della Provincia di Torino, coordinato dalla Prefettura: www.provincia.torino.it/fidati/reti ; http://www.casadicarita.it/progetti/iter.html


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propria crescita professionale con l'obiettivo finale della ricerca di un'occupazione. In questo quadro generale, la maggioranza degli immigrati usufruisce della FP, riconoscendola come soggetto attivo, capace di accompagnare, sostenere e decodificare i messaggi e le culture differenti, proponendosi come ponte tra lavoratore/cittadino immigrato e azienda.

L’esperienza dell’agenzia formativa Casa di carità Arti e mestieri Fino all'anno 2003, alla Casa di carità Arti e mestieri, la crescita della presenza di immigrati stranieri ai corsi di formazione professionale era costante ma lieve: nell'anno 2004, invece, si è passati al 70%, chiaramente in seguito all'emersione dell'illegalità previsto dalla legge 189 meglio conosciuta come Bossi-Fini. L'aspetto più interessante di tale fenomeno, è legato al consolidamento di questo dato. Gli aspetti antropologici, così come la ricerca di nuove forme organizzative e metodologiche, acquistano una maggiore importanza, rafforzati anche dall'interazione tra le agenzie formative in un quadro di marcato confronto e visibilità. Se la teoria illumina la pratica, intesa come cultura, intercultura, comunicazione, abilità cognitive e relazionali, la pratica deve essere da supporto alla teoria. È interessante osservare come, a tutela dell'utenza immigrata, la Casa di carità Arti e mestieri è riuscita, negli anni, a diffondere la propria presenza dall'interno di servizi quali la questura, il centro di giustizia minorile, i centri circondariali, la Caritas, l'arcidiocesi, la prefettura, gli ambulatori, le ASL, gli ospedali, il Comune, il Settore periferie, gli agenti di sviluppo locale, l'università (psicologia e antropologia), gli etnopsichiatri, il privato sociale, le scuole, i centri per l'impiego, i consolati, gli organismi internazionali quali l'OIM e il BIT, oltre ai corsi specialistici che vedono coinvolti università, associazioni, operatori di servizi. Tutto questo ha una ricaduta positiva immediata su tutta l'utenza immigrata presente non solo nelle sedi di Torino, ma anche in quelle delle Provincia e della Regione Piemonte. La formazione e la continua crescita professionale contribuiscono al raggiungimento, per i cittadini immigrati stranieri, della sicurezza e della stabilità sociale, permettendo loro di trovare più facilmente un'occupazione2. I minori appartenenti alla prima e seconda generazione di immigrati non avrebbero, nell'immediato, un facile e possibile inserimento nel mondo del lavoro se non si operasse all'interno di un panorama articolato e flessibile, capace, nel tempo, di fornire risposte positive, anche in riferimento al doppio canale previsto dalla Riforma della scuola. I percorsi formativi devono essere il più possibile individualizzati e personalizzati, con il preciso obiettivo di garantire un'integrazione nel rispetto delle diversità, ottenendo, nel contempo, significativi risultati occupazionali. I minori che frequentano i Centri per la formazione e l'orientamento professionale di Torino sono inseriti in una rete territoriale che coinvolge i Centri di accoglienza e le comunità, i servizi dei minori del Comune, l'arcidiocesi e l'Ufficio stranieri, le scuole di alfabetizzazione e quelle convenzionate (a.t.s.), i mediatori interculturali, oltre ai servi2

Immigrazione. Dossier statistico, Caritas, Roma 2006.


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zi sanitari e socio-assistenziali, al Tribunale dei minori, alla Procura della Repubblica, alla questura, al Comitato dei minori di Roma e alle consulenze legali dell’ASGI. L'obiettivo è quello di integrare l'accoglienza con la formazione, riconoscendo ai servizi territoriali specifiche competenze, aiutando il minore a individuare le opportunità di regolarizzare la sua condizione giuridica, sia sul territorio nazionale sia nel contesto locale3. Le iscrizioni dei minori sono state gestite in stretta collaborazione con le scuole di alfabetizzazione attraverso un dispositivo di orientamento e di accoglienza, predisposto dai Centri territoriali permanenti, propedeutico all'iscrizione e al livello di alfabetizzazione alla lingua italiana (L2). La maggioranza dei minori ha richiesto di iscriversi a un corso diurno o preserale di qualifica per l'anno 2007-08. I minori in possesso del permesso di soggiorno hanno avuto risposta positiva dal Comitato dei minori di Roma per un rinnovo che riconosca la possibilità di risiedere sul territorio nazionale al compimento della maggiore età, potendo esercitare un'attività lavorativa. Da ultimo, al minore con permesso di soggiorno che ha compiuto sedici anni e ha assolto l'obbligo scolastico, è consentito, nella provincia di Torino, di lavorare4.

I dati: un'occasione di riflessione Attualmente (primavera 2008), a Torino e provincia, i regolarizzati sono circa 150mila e i clandestini, nuovi arrivati, sono tra i 10mila e i 30mila. Di fronte a cambiamenti così epocali occorre promuovere approcci innovativi che rimettano in circolo la dimensione del reale nella sua essenza e profondità. Non è sufficiente basarsi sulla realtà rappresentata dal contesto esterno ma occorre che la realtà sia percepita e conosciuta nel suo profondo per essere in grado di promuovere politiche di integrazione e di interazione tra i vari servizi che rispondono ai bisogni della popolazione immigrata. In proposito risulta necessario promuovere azioni che facilitino la lettura dei codici culturali e di conseguenza essere in grado di gestire i conflitti. Operazione non per nulla semplice in quanto si richiede di far riferimento a degli assiomi irrinunciabili dei contesti interculturali e precisamente occorre avere degli: - Operatori in grado di essere lettori della complessità; - Operatori in grado di essere viaggiatori leggeri e capaci di cogliere le “differenze” senza pregiudizi o schemi mentali precostituiti; - Operatori che siano in grado di essere costruttori di ponti e saltatori di muri; - Operatori in grado di trasformare il dissidio, che è il non condiviso, in conflitto, vale a dire trovare le parole che permettono la traduzione dell’uno nell’altro.

Nel momento in cui si trovano le parole per esprimere il dissidio, si è già sulla via della metamorfosi: il dissidio diventerà conflitto, sarà comprensibile alle parti e si aprirà uno spiraglio di trasformazione, per arrivare così ad un reciproco riconoscimento. Questo processo è alla base della mediazione, della conoscenza dei codici culturali, della gestione dei conflitti e del percorso d’aiuto5. Le azioni che l’operatore svolge all’interno della FP hanno lo scopo prioritario di facilitare e fluidificare la complessità, intervenendo su di una utenza bisognosa i cui codici culturali e la gestione dei conflit3

Problematiche di un “Quartiere latin” San Salvario, CICSENE, Torino 1996. Problematiche di un quartiere Porta Palazzo, CICSENE, Torino 1996. 5 Atlante della mediazione linguistico culturale, Franco Angeli, Milano 2007. 4


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ti appartengono a delle dinamiche che mai si devono improvvisare in condizioni emergenziali e dilettantistici; occorre sistematizzare promuovendo linee condivise di prevenzione che scaturiscono da supporti metodologici e da modelli e dispositivi sperimentati e non per ultimo dall’utilizzo e rispettivo intervento di operatori competenti e/o servizi guidati e selezionati per gli interventi sul campo. La mediazione che si utilizza è ritenuta essenziale e vincente quando: - esiste un problema di comunicazione e trasmissione di concetti e di regole di funzionamento: codici culturali, conflitti che considerano il fattore umano; - si verificano incomprensioni ed incidenti dovuti a differenti interpretazioni, a letture stereotipate, a non conoscenza dei sistemi di riferimento reciproci; - la modalità di presentazione delle richieste, da parte dell’utenza, viene vissuta dagli operatori quale incomprensibile, inadeguata, aggressiva. E’ necessario rendere fluida la comunicazione, fare un passo indietro per poter proseguire e prevenire conflitti o definire la natura di quelli in corso, per arrivare a stabilire il terreno negoziabile6; la non conoscenza dei servizi territoriali, dei loro obiettivi, del loro funzionamento porta gli utenti e gli operatori nel farne un uso scorretto che può danneggiare lavori di anni; in questo se non si è formati gli operatori e gli utenti esprimono differenti concezioni su temi importanti (nascita, genitorialità, relazioni affettive, sostegno assistenziale personalizzato, sostegno psicologico e antropologico), entrando così in attrito relativamente alle possibilità/obblighi di intervento dei servizi.

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C. Pontecorvo, L’educazione interculturale, La Nuova Italia, Firenze 1992.


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Nel riquadro circolare (a lato) si evidenzia la centralità della mediazione dalla fase di prima accoglienza alla fase conclusiva in cui l’utente diventa ex-allievo. Nei cerchi successivi si evidenzia: il perché si deve progettare mediazione ed allora si evidenzia la centralità della comunicazione, della comprensione delle problematiche, delle modalità di approccio, della prevenzione e definizione dei conflitti, della non conoscenza dei servizi, delle differenti concezioni. Il quando si deve intervenire (prima del conflitto, nel conflitto, nel percorso d’aiuto). Il come attraverso una presenza stabile di riferimento, in una situazione specifica che si determina su un progetto operativo d’intervento. Le funzioni che si devono coinvolgere sono: l’accoglienza, la traduzione, la facilitazione, l’orientamento, l’informazione, la collaborazione, la partecipazione, la modificazione. La metodologia appropriata è quella che fa propria la relazione, il lavoro congiunto in interazione ed iterazione, l’utilizzo di documentazione scritta e di verifica e valutazione7. In quest'ultimo anno formativo, assistiamo a un consolidamento del numero dei cittadini immigrati stranieri rispetto all'anno precedente, con la percezione che la crescita e la stabilità di questa presenza si stia progressivamente allargando verso altri Centri

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Laura Bonica, Migranti e reciprocità nella rete e nella formazione, con il contributo di Michele Grisoni, Casa di Carità, Torino s.d.


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di formazione della Casa di carità, che non sono necessariamente quelli storici di Torino. D'altronde, in questi ultimi tempi, si assiste a un trasferimento dei migranti verso altri luoghi rispetto al capoluogo regionale, determinando per i centri di FP la necessità di attrezzarsi secondo logiche innovative, preparandosi a far fronte a questa nuova tendenza in continuo aumento. La progettualità, la pianificazione e la condivisione dovranno sempre più tessere legami forti, in un quadro di riferimento che va ben oltre il proprio servizio di appartenenza. Negli anni, sotto questo profilo, si è fatta non poca sperimentazione e ora è giunto il momento di diffondere con iniziative mirate e con il supporto di supervisori competenti e con esperienza in materia in grado di vagliare e di orientare le scelte e gli indirizzi dei soggetti immigrati stranieri che decidono di avvicinarsi alla formazione. La progettualità interculturale, anno dopo anno, si sta consolidando, diffondendo una visione nuova che rinnova da sola non solo la formazione professionale, ma tutti gli organismi territoriali che interagiscono nel sistema di riferimento8. A tutto questo, va aggiunto l'aumento registrato tra cittadini immigrati che decidono di partecipare a corsi di FP di livello medio alto: la maggior parte delle persone, infatti, partecipa a percorsi di formazione di primo livello e solo in seguito al primo ingresso nel mercato del lavoro richiede di rientrare nuovamente a far parte di un percorso di formazione. Il sistema, però, non è ancora sufficientemente flessibile nel raccogliere questa esigenza. Nella fase di pre-iscrizione, si predispone una raccolta dati che visualizza eventuali criticità, quali tipologia del permesso di soggiorno, livello di competenza linguistica, tipo di mantenimento, compreso quello residenziale, per poter operare all'interno di un orientamento/accompagnamento in grado di dare risposte in tempi ragionevoli, evitando prolungamenti o attese che danneggiano l'immigrato straniero fruitore del servizio formativo.

Flessibilità e lavoratori immigrati Il mercato del lavoro nel territorio torinese si orienta sempre di più verso un modello organizzativo innovativo, che proviene dagli USA, il quale ha determinato una crescita economica e una diminuzione del tasso di disoccupazione. Inoltre, l'innovazione tecnologica è rapidissima e la tecnologia divora le competenze appena acquisite. Il mercato richiede sempre maggiore flessibilità, la quale, da una parte, è uno strumento che libera le aziende dagli obiettivi che frenano i processi di trasformazione; dall'altra parte, la flessibilità deve rappresentare un modello interculturale d'interazione di competenze tecnico-professionali e relazionali-comunicative. La scommessa è di considerare la flessibilità non solo come strumento dell'organizzazione aziendale, ma anche come modello i cui fondamenti poggiano su valori etici e sulla valorizzazione delle risorse umane dei lavoratori. I contratti a tempo indeterminato rappresentano ormai una percentuale in via di estinzione dei nuovi assunti (questa tendenza riguarda in misura analoga gli impiegati e gli operai/apprendisti). Oggi, i nuovi assunti nelle imprese industriali e dei servizi, e8

M. Sclavi, L’arte di guardare e mondi possibili, La Nuova Italia, Firenze 1992.


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sibiscono un contratto atipico. Da quando sono sorte le agenzie di lavoro interinale, si è assistito ad un notevole aumento di inserimenti lavorativi di immigrati, rompendo spesso quella diffidenza iniziale da parte delle aziende, spesso riluttanti a una iniziale assunzione a tempo indeterminato, anche perché spesso non preparate ad assorbire in modo stabile e continuativo chi proviene da mondi diversi. La congiuntura strutturale di oggi obbliga le imprese a rivolgersi a questa fascia di popolazione non solo più nei settori marginali (edilizia, agricoltura, assistenza alla persona), ma anche nei settori forti, quali i lavori qualificati e specializzati. La forza lavoro immigrata sta occupando progressivamente tutti i diversi segmenti del mercato del lavoro: gli immigrati, in buona parte, sono lavoratori 'atipici', meno garantiti e quindi più aperti, per necessità, a questa tendenza. Un’ulteriore elemento da acquisire è che, nel sistema delle aspettative di molti immigrati, quella del lavoro atipico (ma normato) è la tappa di un percorso che ha come destinazione l'impresa autonoma. Dai dati che si hanno a disposizione, risulta che sono sempre di più le persone che chiedono il permesso di soggiorno in qualità di lavoratori autonomi. Da questa analisi, risulta che la popolazione di immigrati residente a Torino e Provincia e, più in generale, nella Regione Piemonte è costituita da soggetti con un livello di preparazione culturale, acquisita nel paese d'origine, medio-alta, o comunque con obbligo scolastico assolto; le nuove tipologie contrattuali agevolano il primo inserimento nel mondo del lavoro, permettendo a questi soggetti la possibilità di stabilizzare nel tempo il loro processo di integrazione nell'ambito lavorativo, grazie anche alle innumerevoli iniziative legate alla FP. La questione, che, spesso, risulta critica, è legata all'apprendimento della lingua italiana come L2, che permetterebbe all'immigrato straniero la possibilità di accedere più facilmente a un inserimento lavorativo o a una formazione coerente con gli studi conseguiti presso il proprio paese d'origine. Nella Provincia di Torino, si è lavorato per promuovere presso l'utenza immigrata la capacità di acquisire quelle padronanze relazionali/comunicative e tecnico/professionali, in un quadro di riferimento dinamico e flessibile, in sintonia con l'attuale concetto di lavoro 'normato'. In altri termini, un immigrato che entra nel circuito di formazione integrato con i servizi locali, come accennato precedentemente, risponde per larga parte alle occorrenze occupazionali tipiche della congiuntura odierne, dove sempre più le aziende richiedono manodopera preparata. La complessità della società moderna che lavora e che produce richiede uno sforzo notevole da parte di tutti, e le persone più portate a questo nuovo orientamento nel modo di vivere sono spesso proprio gli immigrati stranieri, in quanto già abituati ad adattarsi al nuovo e, quindi, più sensibili alla ricerca della loro stabilità. Stabilità che richiede agli operatori una piena disponibilità, oltre a una notevole predisposizione al cambiamento, senza il quale i progetti di inserimento nel tessuto sociale, culturale e lavorativo restano di fatto vanificati; a tale proposito, i Centri di formazione cercano di fornire alcune risposte ai bisogni e alle domande delle persone immigrate, spesso analfabeti rispetto alla lingua del paese d'accoglienza, non di rado in possesso di titoli di studio acquisiti nel paese d'origine, ma non favoriti dai processi di integrazione e di accoglienza nel contesto lavorativo, con condizioni giuridiche spesso illegali o con pendenze giudiziarie.


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Soluzioni e strumenti: un'analisi in breve9 Il modello di riferimento sperimentato dalla Casa di carità Arti e mestieri si fonda su un sistema organizzativo e metodologico legato, fin dall'origine all'industria metalmeccanica, che, negli anni Ottanta, ha sperimentato per la prima volta la 'qualità totale' (Fiat)10. La Casa di carità ha cercato di utilizzare il modello giapponese del CWQC, che ha come fondamento la valorizzazione delle risorse umane in contesti interculturali, in un sistema integrato e finalizzato all'ottenimento di un servizio di qualità. Lo strumento operativo sul quale si basa il CWQC è il PDCA10, nato per guidare le politiche di miglioramento continuo in azienda, ma perfettamente applicabile nel campo dell'innovazione formativa in contesti interculturali. Il PDCA (Plan Do Check Action) punta ad ottenere una pianificazione accurata, che parte da una buona individuazione delle esigenze in un'ottica sistemica ed evolutiva. A tale fine, predispone un piano d’esecuzione operativa che riguarda i contenuti, l'attrezzatura, la produzione e, più in generale, che prevede la capacità di incentivare a produrre secondo regole qualitative ben stabilite. Importante è il controllo della qualità rispetto a ciò che si è pianificato, con la conseguente necessità di fissare degli standard e successivamente garantirne il rispetto. L'ultimo processo richiede l'applicazione delle misure correttive indicate dalla funzione qualità, indirizzando gli allievi verso strutture che rispondano alla formazione acquisita, assistendoli e accogliendone le indicazioni. Il continuo miglioramento è ben rappresentato dal territorio locale, che progressivamente si trasforma, sotto il peso delle moderne tecnologie della società dell'informazione; la suddetta trasformazione diventa nel contempo globale, valorizzando le risorse umane che interagiscono nei contesti interculturali. Non basta sapersi muovere con abilità sulle reti telematiche, è necessario muoversi anche su quelle umane, con un notevole salto di qualità che bisogna assolvere anzitutto a livello culturale. L'approccio interculturale permette di perseguire una ricerca culturale continua, capace di favorire il processo di trasmissione e interiorizzazione della nuova cultura immigrata, impedendo che i residenti del paese ospitante si sentano minacciati dalle nuove culture. Sarà così possibile trarre insegnamento proprio da queste, entrando in sintonia con l'altro, specialmente quando si tratta di un cittadino immigrato in difficoltà. Il territorio locale è in continua evoluzione, con una presenza attiva dei servizi che tra di loro favoriscono: una integrazione spaziale; una raccolta di informazioni e una manutenzione delle stesse, attraverso un aggiornamento costante, che facilita l'analisi e gli interventi quando risultino necessari; una ricerca di comuni radici socio-culturali nella diversità (multiculturalità e interculturalità); un forte senso di appartenenza a una comunità territoriale. La ricerca di comuni radici socio-culturali, le diversità, la multiculturalità, l'interculturalità e il forte senso di appartenenza a una Comunità territoriale sono alla base di un processo tendente a far sì che gli organismi predisposti alla formazione professionale siano in grado di gestire il cambiamento, che passa anche attraverso le consulenze 9 10

Guida ai progetti di educazione interculturale, ISMU, Milano 2007. Alberto Galgano, La qualità totale, Il Sole 24ore Libri, 1993.


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offerte alle aziende, le quali, un po' alla volta, per necessità e/o per convinzione, ne comprendono sempre più i significati e l'importanza. È fortemente necessaria una propensione all'educazione della cittadinanza, un'educazione capillare, capace di raggiungere tutti i quartieri attraverso politiche attive. Ci troviamo oggi in una condizione molto dinamica, dove la raccolta di dati di tipo biografico/professionale è essenziale per recuperare il vissuto della persona e poterlo posizionare in un contesto formativo e lavorativo che risulti il più possibile consono alla proprie aspettative. Inoltre, l'orientatore deve essere in grado, nel momento in cui abbia una buona conoscenza della rete dei servizi cittadini, di pianificare i suoi interventi, rispondendo efficacemente alla richiesta di accoglienza e rendendo possibile e praticabile la presa in carico dell'immigrato11. La congiunzione tra strumenti organizzativi/metodologici e la mission valoriale della Casa di carità Arti e mestieri che si accentra sulla valorizzazione della persona rappresentano i due pilastri in grado di governare i profondi processi di trasformazione che stanno modellando il nuovo12. Le connessioni e i sensori sono facilitati e resi possibili dall'impiego di mediatori interculturali: infatti, questi si pongono come dei 'facilitatori' alla comunicazione tra utenza straniera e operatori della formazione; la figura del mediatore interculturale deve essere al di sopra delle parti, non sostituendo l'operatore né, tanto meno, l'operatore del servizio. Per definizione, il mediatore è un esperto e agisce come supporto, strumento, che, con competenza, interagisce con gli operatori e le Istituzioni entro percorsi di cui queste si dotano per la costruzione di servizi di tipo interculturale. In sintesi, il mediatore interculturale deve saper fornire all'operatore della formazione le chiavi di lettura per interpretare correttamente i segni e i comportamenti: l'aggressività (spesso latente), il lamento (inventa i bisogni), le ostilità (non collabora), il rifiuto (di interagire), la trascuratezza (nella persona)13.

Immigrati, formazione, aziende: lo stato dei fatti I tirocini prevedono le figure del tutor formativo e del tutor mentore aziendale; vengono stipulati i contratti di tirocinio e avviato il sostegno al lavoro finalizzato a misurare le capacità e gli atteggiamenti professionalizzanti del giovane14. Le aziende, nel momento dell'inserimento, richiedono giovani che abbiano comportamenti adeguati, secondo la logica di mercato: il tutor formativo dovrà quindi promuovere un abbinamento tirocinante/azienda che tenga conto non solo delle caratteristiche dell'allievo, ma anche della mission dell'azienda, considerandone la storia, l'organizzazione, e le maestranze. I risultati dell'inserimento in stage d’immigrati devono tener conto della rete di accoglienza e reciprocità nella presa in carico tra il Centro di formazione professionale e le aziende metodologicamente predisposte e capaci di veicolare l'utenza verso una stabilità lavorativa.

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Donatella Di Cesare, Gadamer, Il Mulino, Bologna 2007. Storie di storie, ASAI, Eta Beta 2005. 13 Kygotsky, Storia dello sviluppo delle funzioni psiche superiori. 14 Manuale delle sperimentazione, Equal life 2005. 12


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A monte occorre individuare le potenzialità acquisite professionalmente dai giovani nella fase della formazione in aula e nei laboratori e, contestualmente, predisporre l'opportuna ricerca e individuazione di un consistente numero di aziende con caratteristiche e mission diversificate, in modo tale da rendere praticabile l’abbinamento allievo/azienda che salvaguardi le caratteristiche personali e biografiche/professionali dei differenti lavoratori e della stessa azienda. Si richiede quindi la collaborazione dei tirocinanti che l'azienda è disposta ad assorbire e, da ultimo, attraverso l'analisi degli atteggiamenti professionalizzanti degli allievi, si determina l'abbinamento ottimale tra azienda e tirocinante. Il sapere, il saper essere e il saper fare rappresentano i punti di riferimento essenziali per individuare non solo le aziende, ma anche per instaurare effettive collaborazioni di interscambio e interazione: valorizzando il progetto professionalizzante tra le parti, attraverso un'equilibrata comunicazione ed elaborazione, è possibile dare dinamicità metodologica al processo di stabilizzazione delle relazioni professionali, che in questo modo facilitano l'intesa tra il tutor formativo e il tutor mentor (aziendale). Altro elemento non secondario è quello di promuovere azioni che evidenzino le risorse umane emergenziale e le relative strategie di inserimento nel mercato del lavoro, all'interno del rapporto tra Centro di formazione e azienda. Individuata l'azienda, si fissa un appuntamento, accompagnando il tirocinante a conoscere il datore di lavoro. In questa fase si firma la convenzione, il progetto formativo e si consegnano i documenti richiesti. Ciò è positivo, perché è un modo per rendere meno burocratica la procedura, coinvolgendo e interagendo simultaneamente con il tutor formativo e il tutor aziendale, mentre il tirocinante è effettivamente coinvolto nella trattativa. La ricerca dell'azienda e l'abbinamento con l'immigrato straniero non avvengono nell'emergenza, ma attraverso un'accorta pianificazione. Quando si verificano dei problemi (per esempio, una mancanza di rinnovo del permesso di soggiorno o l'intervento del servizio sociale) diventa importante la tempestività della risoluzione, raggiunta grazie all'intervento dello sportello di orientamento, in cui l'orientatore interviene immediatamente attivando i servizi competenti. I servizi chiamati a risolvere i problemi sono quelli che nella fase di pianificazione hanno creato la rete, abbreviando così i tempi d'intervento. Il successo del lavoro svolto dai centri di FP si può riassumere facendo riferimento a un brano tratto da un testo di Vincenzo Cerami, dal titolo suggestivo e appropriato ai contesti interculturali: Pensiero così, dove si racconta di una vecchietta che esce di casa per dare da mangiare ai gatti randagi del suo quartiere romano, senza rendersi conto che questo gesto scatena, in quella zona della città, una violenza inaudita. Infatti, appena la vecchietta si allontana e i gatti lasciano per la strada le lische dei pesci spolpati, ecco che arrivano i colombi che beccano i pochi avanzi lasciati dai gatti. In seguito,altri gatti si avventano sui colombi e, la notte, la buona e civile metropoli diventa un luogo di orrore e crudeltà, in cui si scatena l'inferno. Tutto termina con i ratti, che nel primo mattino portano via gli avanzi rimasti, lasciando tutto com'era prima che la vecchietta entrasse in azione. Così, ogni sera, la vecchietta, ignara di questa complessa realtà, ripete la sua azione che considera di assoluta bontà verso il mondo. Questo fa comprendere come gli operatori e i servizi preposti ai corsi di formazione e inserimento lavorativo di cittadini immigrati sono doverosamente obbligati ad allargare i propri orizzonti nella conoscenza della realtà, fatta spesso di sfumature di colore, di una molteplicità e di una pluralità di elementi che occorre saper manovrare e trasferire, per evitare lo stesso errore della vecchietta del racconto del Cerami.


LASALLIANA ■ ■ ■ ■ ■

Ricerche storiche sui voti religiosi della congregazione lasalliana Novità sul voto di associazione per l’educazione dei poveri I manuali scolastici lasalliani nella storia della scuola nel Québec Finanza e vangelo: una iniziativa pilota dei Lasalliani negli USA Frère Piveteau, pedagogista, catecheta e giramondo



LASALLIANA

RivLas 75 (2008) 3, 397-428

La identidad lasaliana y los votos

Reflexiones a partir de los estudios de Maurice-Auguste Hermans, FSC Pedro Gil, FSC

Los votos son como una glosa existencial del voto en sí mismo M. Dortel-Claudot1

El 26 de enero de 1962 el H. Maurice-Auguste Hermans2 cerraba su trabajo doctoral sobre la bula de aprobación del Instituto FSC. Muy pronto hablaremos de medio siglo. 1 En su sección del art. Vie consacrée, in Dictionnaire de Spiritualité, vol XVI, col. 711. Sintomático y para orientarnos, de lo último en su bibliografía: Les Laïcs associés: participation des laïcs au charisme d'un Institut religieux, Médiasèvres, Paris 2001, 102 pp. 2 Es la fecha que señalaba en su publicación L’Institut des Frères des Écoles Chrétiennes à la recherche de son statut canonique: dès origines (1679) à la bulle de Benoît XIII (1725), in Cahiers Lasalliens 5, Roma 1962, VI+414 pp. En la historia lasaliana fue y seguirá siendo ‘el hermano Maurice-Auguste’, pronunciado con todos los acentos del mundo. Se llamaba Alphonse Hermans y nació en Lieja el 6 de febrero de 1911. Conoció a los Hermanos como alumno, en su ciudad natal. Entró en el noviciado menor o seminario muy pronto, a los doce años. Así su primera formación transcurrió entre 1923 y 1932. Hasta 1946 fue primero profesor, en especial de matemáticas, y luego director. En adelante su vida transcurrió en Roma, a donde llegó primero con el objetivo de hacer el Segundo Noviciado. Ante lo que su persona prometía, los Superiores le propusieron quedarse por un tiempo y dedicarse al menos en principio a estudios que le capacitaran para entender mejor el Instituto y servirle desde sus organismos centrales de formación. Así es como aterrizó en el mundo del Derecho canónico y en el de los Estudios lasalianos. 1946: ya nunca se iría de Roma. Fueron 41 años, hasta su muerte, la mañanita del 16 de julio de 1987. Durante todo ese tiempo fue creador y director de los Cahiers Lasalliens, director del Lasallianum (comunidad de estudiantes lasalianos en Roma), consejero general y procurador del Instituto ante la Santa Sede. Siempre que pudo acudió a donde le llamaron para exponer su visión sobre la identidad lasaliana. Fue un gran hombre, a la vez sencillo, delicado, lleno de sentido del humor, ordenadísimo y concienzudo, amable. Los Cahiers Lasalliens le dedicaron a su muerte el n. 5, reservado para su estudio sobre el Memorial sobre el Hábito, que nunca pudo concluir.


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Desde entonces muchos hemos tenido en cuenta aquella magnífica aportación a los estudios lasalianos, como puede comprobarse por las veces que aparece su nombre en cualquier proceso de formación lasaliana. Sin embargo, es llamativo que en estos cincuenta años formulaciones tan novedosas y serias como las del H. Maurice no hayan recibido otro reconocimiento que el del recuerdo agradecido. Se diría que con el pensamiento de aquel hombre estamos haciendo más un monumento que una herramienta, como si fuera algo para ser recordado pero sin mayor actualidad. En cierto sentido es comprensible. Aquel estudio sobre la bula y la aprobación del Instituto de los Hermanos de las Escuelas Cristianas vio la luz en un momento excepcional: a la vez dispuesto a todo y espantado ante sus propias posibilidades. Eran los días del Vaticano II y del Capítulo general lasaliano de 1966-67: en ellos, dentro de aquella gloriosa esperanza de renovación, se había de poner en tela de juicio, por un lado, el carácter laical del Instituto; por otro, el carácter de los vínculos que expresaran la pertenencia al proyecto de las Escuelas Cristianas. Todo estaba en revisión y así el ardor del encuentro de distintas experiencias hizo mucha más sangre de la debida, de modo que diez años después, tras el siguiente Capítulo general, en 1976, demasiadas heridas quedarían cerradas en falso, dando paso a un tiempo de tristeza y cansancio, dejando tras de sí un problema todavía sin resolver precisamente cuando era menos tolerable y más urgente su superación. En 1980 era difícil avanzar en la línea de aquella tesis3. Ahora mismo, medio siglo después, vemos que todos nos apresuramos demasiado por no haber calculado las dimensiones de la tarea: nuestra referencia no estaba en los límites de nuestra vida sino que alcanzaba por lo menos tres siglos atrás… El H. Maurice había dejado muy claro que el primer diseño institucional de aquella comunidad, el que encontrábamos en los textos y en toda la herencia de La Salle, no era el que resultaba de la bula. Pero - lleno de sabiduría - no había pasado de ahí. Lógicamente, sin decirlo, llevaba a la conclusión de que determinadas interpretaciones de la identidad del Hermano eran más fieles a la literalidad de la bula que al espíritu de los orígenes y a un adecuado discernimiento de los diversos contextos canónicos a lo largo de los tres siglos siguientes. Nos decía que tal vez seguíamos viviendo en una interpretación ingenua de la bula, lo cual proponía para el presente tareas tan enormes que daban y siguen dando miedo. Por eso el Instituto de hecho le dio la espalda: mejor hacer de la obra del H. Maurice un monumento que un punto de partida. Sería citada pero no utilizada. Y ahí estamos. La perspectiva histórica - En estos últimos veinte años, como en todas las instituciones semejantes, ha habido y hay generosos esfuerzos por recomprender la naturaleza de la Comunidad de las Escuelas Cristianas. Por todas partes se ha difundido el lenguaje de la renovación, expresado en la constelación de términos que se encierran en el sistema verbal de la Asociación. Están ahí y en boca de todos, merecedores de nuestra atención, a conciencia de que tienen al menos tanto de timidez como de esperanza y tanto de limitación local de experiencias como de universalización de vocabu3

Es la sensación que nos deja la comparación de la renovación de las Reglas FSC en 1967 y su consolidación en 1986: no hay entre ellas avance sustancial (y F.M. formó parte de la Comisión que preparó durante un año el borrador de éstas últimas). Lo hubo entre 1967 y todo lo anterior, pero no a partir de ahí. Que es donde estamos.


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lario. Por eso los términos están, pero nuestras actuaciones difieren demasiado. ¿Cómo puede ser que todavía no nos lo creamos o que incluso nos dejemos a veces seducir por la tentación restauracionista? Seguramente en la raíz de esta pregunta está el hecho de que el H. Maurice no pensó su obra desde la perspectiva de la historia sino desde la investigación puntual. Nos dejó auténticos monumentos desde el punto de vista del conocimiento de los orígenes, pero no sugirió en qué medida tales monumentos podían iluminar nuestro futuro.4 Y sin embargo lo había dejado planteado en la Introducción de su tesis, que es mucho más que una introducción al uso. Es ya una primera parte de su trabajo, una contextualización de la circunstancia de la bula que merece más atención. Era muy consciente de que sus personajes no vivían en una isla, en medio de un océano desierto. Por eso lo señala, aunque de hecho no vaya mucho más allá. No contextualiza nuestra recepción de lo que él escribe ni la relación entre nuestros antecesores en la Institución, su contexto social y cristiano y su comprensión de las fórmulas de la bula. Y se comprende: sólo la evoca para comprender un documento o un itinerario de cuarenta años, pero no para interpretar el futuro de tres siglos de historia institucional. Tal vez se deba a que en 1960 no se vivía la misma conciencia o perspectiva de la historia que hoy. Probablemente sólo a partir de los primeros setenta del siglo pasado fuimos dándonos cuenta de que algo muy grande había cambiado en la historia, de modo que nuestras referencias debían ser igualmente grandes. Por eso ya no nos bastaba con acudir a los orígenes de las Instituciones sino que debíamos contextualizar esos orígenes y considerar su devenir histórico sobre el trasfondo de las dinámicas de la Modernidad. Sólo en los últimos treinta años nos estamos dando cuenta de que, sin proyectar nuestro presente y nuestro futuro próximo sobre el panorama de la historia de Occidente a partir del s. XVI, era y es imposible entender mínimamente lo que nos está ocurriendo y determina nuestro futuro. Pero esto no llegó a verlo o al menos a tematizarlo el H. Maurice. Lo que sí vio fue la amargura del encarnizamiento de unos y otros, más empeñados en sus criterios que en la fidelidad institucional. Por eso calló lo que pudo tener claro: sintiéndolo parcial y discutible, no quiso echar más leña al fuego.5 Hoy, cincuenta años después, hemos de saber situar su obra - singularmente su tesis sobre la bula y la aprobación del Instituto lasaliano - en el contexto de la evolución legal, social, canónica, institucional…, de la Modernidad. Hacerlo puede ayudarnos a ver en ella luces que no habíamos imaginado. Se la podría comparar a una pieza, un interruptor o enlace que falta sobre un gran panel apagado: cuando la situamos, todo el gran panorama se enciende y muestra itinerarios desconocidos, causas y efectos, conexiones insospechadas, que dan sen-

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Su persona, sí: su persona nos fue diciendo lo que él pensaba de la vida y de la fidelidad, del espíritu de fe y de la novedad de los tiempos. Tal vez por eso citamos más su persona que su obra. 5 Recuerdo, y es mucho más que una nota indiscreta, cómo hablando los dos a propósito del conjunto de la historia del proyecto de las Escuelas Cristianas, me decía que él no tenía datos ni conocimientos como para proponer interpretaciones de semejante conjunto, que él no dominaba la historia. Hoy creo que sí conocía la historia como para decir mucho más de lo que dijo. Era poco antes del Capítulo general de 1986, unos dos años antes de su muerte.


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tido al gran papel. Y la pieza misma que habíamos colocado finalmente en su sitio, ella también muestra ahora colores nuevos, relaciones y pertenencias y proyectos que no parecía tener. Nos hace caer en la cuenta, por ejemplo, de lugares, nombres y gestos de la historia que conocíamos pero no habíamos relacionado con lo que nos importaba. Por eso esta reflexión se desarrolla en tres partes:

1. La tesis del H. Maurice-Auguste 2. El contexto: un escenario de cinco siglos 3. Qué sugiere esta contextualización Primero evoca, resumiendo y a veces interpretando, lo que él nos dejó establecido. Después coloca esa circunstancia dentro de la dinámica general que se abre con la Reforma y lleva hasta los días de Vaticano II. Así puede, finalmente, preguntar si aquella tesis de 1962 nos ayuda a comprender mejor nuestro futuro. En el fondo con este comentario quisiera tan sólo proponer una pregunta: ¿qué nos dice la tesis del H. Maurice-Auguste si la situamos sobre un panorama histórico que él no podía ver? ¿Qué nos dice ante la evidencia del cambio de ciclo que para lo cristiano supone hablar ahora de ‘nueva evangelización’? Proponer esta pregunta: porque a pesar de la respuesta hacia la que apuntamos, no es la respuesta misma lo que nos debe importar. Si se propone alguna interpretación del nuevo conjunto, es más como un ejemplo de lo que podría hallarse que como definición de lo que debe necesariamente encontrarse. Lo importante es la hipótesis: tal vez los hallazgos del H. MauriceAuguste nos puedan decir ahora mucho más que hace cincuenta años.

1. La tesis del H. Maurice-Auguste La investigación del H. Maurice-Auguste Hermans (en adelante F.M.) se centra en el proceso que llevó a la bula In apostolicae dignitatis solio, de Benedicto XIII, en 1725, en la que aprueba y confirma ‘Institutum et Regulas’ que le habían sido presentados al efecto por los Hermanos de las Escuelas Cristianas.6 El proceso mismo se sitúa entre 1721 y 1725, aunque F.M. nos obliga a revivir todo el itinerario lasaliano, los cuarenta años anteriores. En esos cinco encontramos dos Papas: Inocencio XIII (empiezan con ocasión del cónclave que le elegiría) y Benedicto XIII (elegido a su vez en 1724). Comienza con la presentación en Roma de la solicitud de los Hermanos (a través del abbé Jean Vivant, del séquito del cardenal De Rohan) y la primera aceptación por la Congregación correspondiente. Sigue después el bloqueo 6

Como hemos indicado está publicada en los Cahiers Lasalliens (CL) con el n. 11. Es de finales de 1962. Previamente, en los nn. 2 y 3 de la misma serie había publicado su estudio sobre Les voeux des Frères des Écoles chrétiennes avant la bulle de Benoît XIII: dos volúmenes, el primero, de 141 pp., dedicado al examen e interpretación del proceso; el segundo, de 93 pp., se dedica a los documentos, es decir, a las fórmulas mismas de emisión de votos de aquel período. Posteriormente, con carácter póstumo, apareció el volumen 5 de la misma colección, con distintos trabajos que no había conseguido terminar y diversos testimonios (también fotográficos) sobre su persona y su obra, en un conjunto de 468 pp. con una presentación del H. Michel Sauvage.


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por la imposición del abbé De Tencin (por no disponer los Hermanos de la previa aceptación por parte de la Administración francesa). Concluye con los tres meses finales de aprobaciones, primero en Francia y luego en Roma, entre setiembre y diciembre de 1724. La firma del Papa tendría lugar el 26 de enero de 1725 y su publicación un mes después. Ya sólo quedaría la aceptación de la bula por parte del Parlamento de Rouen, así como las modificaciones en el texto de la Regla supuestas por la inclusión de los votos de pobreza, castidad y obediencia. Todo se cerró entre agosto de 1725 con la profesión de los Hermanos según su nuevo estatuto y la publicación de la Regla un año después, ya con las correcciones asumidas por el Capítulo general. Es un proceso muy simple y que muchos lectores de la Rivista conocerán. Lo recordamos para resumir mejor su intencionalidad y resultados. Evocarlo suscita, en efecto, la pregunta de por qué en ese momento y no antes: si la Sociedad de las Escuelas Cristianas lleva ya casi veinte años perfectamente establecida como red de comunidades locales (que además había comenzado otros veinte antes: cuarenta en total), ¿por qué haber esperado tanto? ¿Por qué ahora precisamente y qué se está buscando?

1725: un objetivo o una necesidad muy precisos La carta que los Hermanos entregan al abbé Vivant, presentando su solicitud y los documentos adjuntos, expone así su actitud o sus esperanzas (son los párrafos que siguen al primero, obligado, de saludo): “Vous avez eu la bonté, Monsieur, avant votre départ de faire solliciter M. le chancelier pour obtenir des patentes pour la principale de nos maisons appelée Saint-Yon de la ville de Rouen, qui est comme le séminaire ou le noviciat où on élève des sujets pour toutes nos maisons. M. le chancelier a goûté fort cette proposition comme une oeuvre très utile. Il en a même écrit à M. l’Intendant de Rouen, avec ordre d’en conférer avec Mgr. le premier Président et de faire une assemblée de ville. C’est ce qui a été exécuté et terminé en notre faveur par un acte qui a été envoyé à M. le chancelier, avec des certificats très authentiques de M. le premier Président et avec le consentement par écrit de Mgr. l’archevêque de la dite ville, lequel a approuvé et homologué nos règles par une approbation fort authentique, laquelle est entre les mains de M. le chancelier, afin qu’il puisse en temps et lieu en parler à Son Altesse Royale Mgr. le duc d’Orléans, qu’il trouve fort opposé aux patentes. M. l’ancien évêque de Troyes, M. le marquis de la Vrillière se joignent à M. le chancelier. Pour cela, nous attendons en patience le bon succès de cette affaire. Voilà, Monsieur, l’état où sont toutes choses. M. l’abbé Couet a fait tout ce qu’il a pu, et fait encore tout ce qu’il peut, avec bien de bonté pour faire réussir cette affaire. Nous vous prions donc, Monsieur, pour la plus grande gloire de Dieu, de vouloir bien en temps et lieu, employer votre crédit auprès de Son Altesse Eminentissime Mgr. le cardinal de Rohan et du Saint Père pour obtenir la confirmation de notre Institut, si c’est la volonté de Dieu et le bon plaisir de Sa Sainteté. Vous connaissez, Monsieur, le grand bien que cela produit dans l’Eglise de Dieu. Nous vous envoyons donc…”7

Está muy claro: necesitan el reconocimiento de su casa de San Yon como entidad colectiva. Lo necesitan porque así pueden garantizar su propiedad (en ese momento 7

CL 11, 121s.


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‘pertenece’ a dos o tres personas8, no a la comunidad, que legalmente no existe) y su capacidad de ofrecer un servicio a la Sociedad, tanto en su primera formación como en el retiro de los mayores. No necesitan ningún reconocimiento en cuanto a su identidad ‘interior’, que ya tienen establecida a lo largo de los cuarenta años de la fundación. Por eso toda su presentación se argumenta desde el punto de vista de su interés social. El objetivo fundamental del proceso no es de carácter teológico ni espiritual sino administrativo, organizacional. Son las reglas de este juego. Y había más: el 24 de marzo de 1720 había estallado la bancarrota de Law, el banquero a quien el Regente había confiado el reordenamiento de las finanzas de Francia. Por la novedad de sus sistemas y por otras alianzas menos confesables, el conjunto se había hundido y había arrastrado consigo la estabilidad de muchos pequeños ahorradores. Seguramente toda Europa estaba sintiendo las sacudidas de aquella caída. Así fueron muchos eran los que ante la circunstancia de inseguridad sintieron que su futuro pendía de un hilo. En ese contexto, por su parte, los Hermanos no podían esperar más: también ellos necesitaban reordenar su configuración legal o jurídica, más allá de la buena disposición de personas concretas.9 Por eso buscan primero por el lado de la Administración francesa, sin encontrar respuesta. Era lógico que en semejante momento de convulsiones económicas (y teológicas: son los días de la Unigenitus y de los ‘apelantes’), la Administración no estuviera para nada interesada en reconocer instituciones que de momento podían tener un quehacer pero que a la larga podían ser una carga para la sociedad. Ante esto, como se les indica que necesitan antes el reconocimiento romano, acuden por segunda o tercera vez al cardenal de Rohan10, gran hombre del reino que debe ir a Roma para el Cónclave. En su séquito está el abbé Vivant: a él le entregan un dossier con destino 8 La compra se había efectuado el 8 de marzo de 1718 y quedaban inicialmente como propietarios los Hermanos Barthelemy, superior, y Thomas, administrador. Cfr., por ejemplo, en S. Gallego, San Juan B. de La Salle, vol. I, Biografía (Madrid 1986, L+635 pp.), p. 566ss. 9 Es un contexto que tiene su importancia, mayor de lo que podría suponerse a primera vista. Nos dice que la gran cuestión era la seriedad institucional de las Comunidades, su estabilidad, su solvencia espiritual y además económica. F.M. no lo menciona, tal vez porque lo supone. El Gran Canciller de Francia al que se alude es D’Aguesseau, contrario a las tesis de Law y que por lo mismo ha tenido que dimitir en 1718, pero que es de nuevo llamado tras la bancarrota, en 1720, manteniéndose en el cargo dos años más. Después, ya en 1727 volverá y esta vez se mantendrá hasta su dimisión en 1750 (murió al año siguiente). Precisamente D’Aguesseau sería quien en 1749 establecería fuertes medidas desamortizadoras respecto de las propiedades de los religiosos. También el abbé De Tencin, al que encontraremos enseguida como opositor al reconocimiento romano mientras no lo haya por parte de la Administración francés, una vez ya obispo y cardenal, actuará para los años cuarenta como ministro sin cartera del Reino y presidirá la Comisión de Ayudas (creada para ordenar el mundo de los monasterios femeninos sobre todo) precisamente en los días de la desamortización de D’Aguesseau, entre 1749 y 1751. Su hermana Claudine se hizo célebre, tras su rocambolesco paso por varias comunidades religiosas, como dirigente del Salón o Círculo más conocido en los años 20-30, claramente a favor de las premisas de Law y por donde pasaron todos implicados en los procesos (hijo suyo, no reconocido y abandonado en la puerta de alguna iglesia, sería D’Alembert, el director de la Encyclopédie). 10 Lo habían hecho ya, sin más fruto que el de una acogida educada, en los años anteriores a través de un Hermano, cuya familia estaba al servicio del cardenal. Cfr. CL 11, 110s.


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Roma. Consta de cuatro elementos cuyo conjunto debe dar una idea clara de la identidad de los solicitantes y su solvencia institucional: 1. 2. 3. 4.

‘Nos règlements’

‘L’abregé des règlements’ Siete certificados de Obispos y otros particulares El acta de elección del Superior

La fuerza del conjunto está en el juego entre Reglamentos y Certificados. A juicio de F.M., de los documentos 1. y 2., sólo el 2. llegaría efectivamente a su destino final, la Congregación romana: por la manejabilidad del dossier, es lógico pensar que los cardenales o los oficiales de Roma estudiarían la versión abreviada, que además se preparaba con ese objeto. En relación con ella, como se vio después - desde Roma solicitaron más y tal vez más precisos -, adjuntan los certificados de obispos. Son pues dos ejes o argumentos: el primero dice quién es esta Sociedad, según su propio juicio o criterio interno; el segundo, lo mismo pero desde sus testigos de privilegio, incluso sus titulares o superiores o patronos. Son las dos notas que necesitan: una, sobre el valor de la identidad; la otra, su aceptación o verificación por la autoridad eclesiástica. De la segunda poco hay que decir: los Hermanos la encontraron entre quienes les conocieran y además les fueran favorables, como es lógico. Y su conjunto final era claramente positivo. La clave estaba en el resumen, en la versión abreviada de los Reglamentos: su configuración diría qué era para ellos lo fundamental de su Sociedad, al menos desde el punto de vista del objetivo de toda la operación.

Los votos y el retrato de la Institución En su versión definitiva, octubre de 1722, se trata de un conjunto de 18 artículos. No conservamos la primera versión entregada a Vivant y es una pena, porque entre una y otra hay modificaciones importantísimas. Por suerte sí disponemos de un documento similar que los Hermanos presentaron en el consejo municipal de Rouen con el mismo objetivo que el enviado a Roma unos meses después. Su comparación resulta muy elocuente y se hace además apasionante cuando nos dejamos acompañar por F.M.: en su obra queda el conjunto de la documentación y de este otro ‘abregé’. Para nuestra reflexión retenemos solamente el artículo 9 del romano: “Vota quae emittentur a Fratribus erunt vota paupertatis, castitatis et obedientiae ac stabilitatis in suscepto Instituto, eaque erunt simplicia a quibus Summus Pontifex absolvet.”

Es la formulación final, pero la anterior - a juzgar por la que conservamos de Rouen no sonaba así. Debía ser algo semejante a esto: “Ils s’engagent par voeu à l’obeissance, stabilité à tenir les écoles par association et gratuitement,11 ne recevant ni argent, ni présent des parents des écoliers.”

11

Un poco más adelante añadían: “En conséquence du voeu d’enseigner gratuitement, lorsqu’on les demande dans une petite ville, il faut les assurer d’environ deux cents libres par an


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Con los subrayados queda mejor señalada la diferencia entre los dos textos. En medio había ocurrido algo fundamental: desde Roma se les había indicado la conveniencia o la necesidad de adjuntar los tres votos ‘clásicos’ a su diseño de la identidad del Hermano. Lo hicieron inmediatamente y, según el historiador de los orígenes, con gusto, convencidos además de que ése era el plan fundacional. Podemos dejarlo en lo primero: lo hicieron con gozo. Lo segundo no es tan claro: si los Hermanos tenían ese mismo convencimiento o era más bien el del historiador, Blain, que expresa así su propio sentimiento interpretándolo como de la comunidad. Pudo ser así, desde luego, pero no podemos darlo por seguro: su satisfacción, en cambio, sí, porque solucionaba sus problemas. El hecho es que a partir de esa modificación será muy difícil reconocer en la nueva Institución lo que venía siendo, a juicio de F.M.: una sociedad de vida común sin votos. A partir del estudio de F.M. podemos concluir con seguridad que fue ese añadido el que les abrió la puerta romana. Quedaba, como hemos recordado, la puerta previa: la de las Letras Patentes del Rey; pero una vez conseguidas éstas, todo circularía fluidamente. En efecto, no había problema en entender la misión de aquella comunidad, sociedad o institución. Además su solvencia parecía garantizada, según los testimonios de los obispos aportados. Se veía igualmente en los Hermanos una fórmula que muy próxima a la de otras instituciones conocidas en Roma como las distintas Cofradías de la Doctrina Cristiana (de las cuales entendía mucho el cardenal Corsini, definitivo dictaminador en el proceso) o los Doctrinarios de Cesare de Bus, presentes también en Italia. Decididamente no había grandes dificultades para reconocer aquel nuevo ‘Instituto’. Si además estaban los votos… Porque los votos, los nuevos votos, añadían por su parte un plus muy deseable de estabilidad, de garantía y solvencia institucionales. Por eso unos y otros, en Rouen y en Roma, los admitieron y por eso los Hermanos, en especial, no tuvieron dificultad con ellos: ya los venían viviendo como virtud, de modo que los aceptarían ahora que les eran propuestos como muralla, defensa y refuerzo de vinculación. Ahí estaba la clave: en entender los votos como un refuerzo de la vinculación. Porque eran precisamente una protección ante las veleidades humanas y lo laborioso de la misión. Otra cosa, como vemos enseguida, es si ese concepto de votos nos satisface hoy o no: no debemos olvidar que estamos reflexionando sobre una palabra que tal vez hace tres siglos no significaba lo mismo que tras el Vaticano II. En una de sus notas, F.M. nos recuerda una cita de S. Vicente de Paul que ahorra todos los comentarios. El santo habla en ella de las dificultades en la definición de la Sociedad de la Misión: “Messieurs les prélats ne désirant pas que nous soyons religieux - habla de los sacerdotes de la Misión -, et les religieux nous conseillant le contraire, fondés sur la légèreté hupour chaque Frère.” El añadido señala, primero, el carácter de voto que revestía para ellos la gratuidad - no recogido por la fórmula romana en ese momento - y, segundo, el carácter imprescindiblemente realista de su concepto de voto y de misión. Los textos, tanto el romano como el ruanés, en CL 11, 129 y 173.


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maine et les grands travaux de notre état,… la providence de Dieu a enfin inspiré à la Compagnie cette sainte invention de nous mettre dans un état auquel nous avons le bonheur de l’état religieux par les voeux simples et de demeurer néanmoins dans le clergé et l’obéissance à Nos seigneurs les prélats…”12 .

La idea es muy clara en cualquiera de las dos posibilidades que señala M. Vincent: los obispos no nos lo recomiendan porque normalmente eso iba a sustraer a su autoridad algo muy importante de nuestra vida por la vía de la exención, pero los religiosos nos lo encarecen porque de ese modo no tendremos más remedio que soportar las dificultades de nuestra vida y nuestra obra aguantará a pesar de nosotros. Es el razonamiento de los orígenes. En él se ve claro en qué coinciden ambos puntos de vista: los votos no hablan de consagración - como hoy, siglo XXI, nos gustaría - sino de vinculación y de limitación de maniobra, tanto en las personas como en la Institución. Los votos a lo que parece están para eso y por eso la Congregación del Concilio no va a tener ningún problema en aceptarlos y proponerlos para el diseño de la nueva Institución. No les interesa su contenido teológico sino sus consecuencias organizativas: se trata de aprobar algo que se tenga de pie, que se mantenga durante mucho tiempo, de modo que los votos ayudarán, sobre todo si se tiene en cuenta que no introducen la nueva comunidad en la vida religiosa propiamente dicha - como señalaba M. Vincent, se trata de votos simples, no solemnes, que son los únicos propios de las ‘religiones’, es decir, de las Órdenes - y además quedan reservados en su dispensa al Papa. Este refuerzo, por otra parte, conviene a los demandantes porque les hará parecer a los ojos de su sociedad con una nueva solvencia. No tendrán problema en asumir lo que hasta ahora no habían asumido. Podemos verlo más claro y desde el punto de vista de la Congregación romana si reflexionamos sobre una circunstancia chocante: la omisión en el Informe del cardenal Corsini del voto de enseñar gratuitamente a los pobres. Sus términos precisos son: “Posito itaque quod Institutm sit admittendum, nulla oriri potest difficultas confirmandi

pariter constitutiones, quas iuri conformes, salubres pro confratribus et ad bonum societatis régimen aptas inveni, praesertim in ea parte, in qua vota paupertatis, castitatis, oboedientiae, et perseverantiae emitti debent…”13

Para el cardenal nada obsta ante el reconocimiento del proyecto de los Hermanos, habida cuenta de la utilidad de su cometido y la garantía de su identidad interior. Y lo refuerza con la referencia que él encuentra en el resumen de constituciones que le han mandado: allí se dice que los Hermanos hacen estos votos. Si hay voto de pobreza, de castidad y de obediencia, entonces no queda ningún problema para la aprobación que se solicita. Pero ¿qué significa entonces ese cuarto voto de perseverantia, que F.M traduce primero por ‘stabilité’ y luego por ‘persévérance’? Al margen de la problemática jurídica que el cardenal recuerda y da por resuelta14, este voto nos aclara la naturaleza de los 12

CL 11,7, n.2. CL 2, 116, n.2. 14 CL 11, 282s. 13


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tres anteriores y el silencio sobre el siguiente. En efecto: si recordamos que el sentido de los votos - como el mismo Corsini señala con su cita de Bonifacio VIII15 - es garantizar la estabilidad de la institución, Orden o Comunidad (por la dificultad o imposibilidad de dejarla), caemos en la cuenta de que dicha perseverancia o estabilidad en realidad es una redundancia respecto de los anteriores. Expresa el sentido o el objetivo de la tríada, pero no le añade nada. Y así, si seguimos la reflexión por esa línea, entendemos que el cardenal puede callar sobre el quinto voto: no hace falta mencionarlo porque va implícito en la naturaleza de esta nueva institución (ha nacido para ello y es el objetivo de ese modo de vida), pero sobre todo responde a un tipo de compromiso con un sentido distinto de los tres primeros. En este caso, el quinto se refiere al trabajo, al quehacer, a la misión, que además tiene carácter secular, profano. Por eso mismo, si bien se puede hacer objeto de un voto, como la Bula acabará reconociendo, no se trata tanto de un ‘voto de religión’, categoría que sólo corresponde a los tres primeros, los únicos que cuentan. Es un ‘voto’, pero de otro tipo, que tal vez no necesite ninguna consulta en Roma.

La utilidad de los votos En mi interpretación (no en la de F.M.), si es que hay olvido por parte del cardenal Corsini, se debe más a una omisión lógica que a menosprecio del voto en sí mismo16. A él le importa señalar el carácter de la tríada y la seriedad que con ella recibe el proyecto a examen. El resto no le merece atención como relator de una cuestión jurídica. Que es justamente como los Hermanos y toda su sociedad van a recibir la presencia de estos tres votos en su diseño institucional. Será la garantía definitiva de que tiene sentido la aprobación de su casa de San Yon, recibida en setiembre de 1724 con las Letras Patentes del nuevo rey: se reconoce la sede de un organismo de animación social, no el organismo en cuanto tal porque de momento al menos no lo necesita. Y se entiende que es así, veinte años después, como se cierra positivamente la tremenda crisis que la Sociedad de las Escuelas Cristianas estaba viviendo desde 17021705: la fragmentación del proyecto en acciones locales. Se ve muy bien dentro de la dinámica del conjunto del estudio de F.M. En su magnífica Primera Parte (capítulos III, IV y V, pp. 43-81), nos había situado de manera inmejorable para comprender el discurso de los votos y la aprobación, así como todo el resto de su estudio y para reinterpretarlo hoy. Resulta excelente, en efecto, por lo sencilla y fundamental, su narración de los cuarenta primeros años de la fundación como un proceso articulado en tres pasos: comunidad, sociedad, Instituto. Se entiende con facilidad lo que hay en sus dos primeros momentos o acentos: el proceso en el que un grupo de personas que trabajan juntos van luego pasando a vivir juntos y adoptar los rasgos de una comunidad que poco a poco irá haciéndose red con otros grupos o comunidades semejantes hasta constituir entre todos una sociedad

15

Corsini se apoya expresamente en el Quod votum de Bonifacio VIII: CL 11, 266. Creo que es la interpretación más sencilla del silencio o de la omisión que FM señala y no puede explicar al respecto. Ver CL 11, 257ss. y CL 2, 114ss. 16


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o asociación nuevas. Es sencillo y claro y nos muestra lo que hacen y lo que fundamenta sus vidas, lo que les convierte en una red extraordinariamente eficaz, interesante y testigo del evangelio entre los pobres en un país que de un momento a otro va a comenzar a sentirse moderno. Comunidad-Sociedad: ante su conjunto vemos una institución consistente, seria, especializada… pero sólo en su interior, en lo que viven sus miembros. Ahora va a necesitar un paso más, porque el mundo o la sociedad van siendo nuevos y una institución semejante necesita constituirse en cuerpo social. Es más: puesto que ya está consolidada en su interior, quienes la conocen encuentran en ella algo de gran valor y quieren poner sobre ella su mano. Despiertan el interés y tal vez la codicia de otros que aprecian su eficacia y la quieren situar dentro del organigrama social ya conocido. Además, si no son sacerdotes… Por eso no nos sorprendemos cuando en los primeros años del nuevo siglo encontramos que la nueva Sociedad vive su gran crisis: o bien consigue atravesar la barrera de los tiempos y hacerse moderna, es decir, ‘profesional’ en el nuevo sentido del término, o bien desaparecerá en el caos anterior de las pequeñas actuaciones locales. Con ello se perderá tanto la eficacia de una gran institución como su carácter consagrado o religioso: será en adelante un cuerpo de trabajadores cristianos, sí, pero especificado por su contrato para un trabajo local, no por la llamada de su Dios a una vida común al servicio del evangelio. Es el ámbito supremo o final: o la Asociación se hace Instituto o desaparece. Así las cosas, el binomio Letras Patentes/Bula zanja en la alternativa. Podemos entender bien, sí, la pasión de su iniciador durante aquellos tremendos quince o veinte años en los que no solamente se siente sin nada, en la ruina de su proyecto personal, sino sobre todo en la angustia de si ha sido o no fiel a su Dios. Él se llega a creer obstáculo al futuro de su propia obra a causa de su visión de futuro: piensa que lo que a él le parece conveniente ahoga la vida de los demás y de cada escuela. Los hechos le remiten al fundamento de su fe: si es respuesta a su Señor o si es su propio proyecto. Por eso se comprende, por ejemplo, que la fragmentación de su obra en actuaciones locales le haya tenido durante quince años con las manos atadas respecto de la solicitud de las Letras Patentes para su Instituto. Sí, esta tercera fase del proceso del proyecto de las Escuelas Cristianas (comunidad-sociedad-Instituto) ayuda a entender nuestras preguntas iniciales: ¿por qué hacen ahora algo que podían haber hecho antes? Es que no podían. Y así entendemos muy bien cómo La Salle duda, en Marsella, con el pasaje del barco en la mano, sobre si ha de ir o no a Roma, tal como lo expresaba en sus comunicaciones a Gabriel Drolin. Si la obra se fragmenta, no tiene sentido reconocerla. Y morirá con esa angustia. Las Letras Patentes de 1724 primero y la Bula después acaban con este tormento. El señor de La Salle ya no estaba pero sus más próximos sienten que es ahora cuando los hechos le dan la razón y ellos mismos van a poder continuar la fundación, en su segundo y definitivo paso, que daremos por cerrado con los días del H. Timothée, para 1751. En este momento son los votos los que a la vez les garantizan la continuidad del reconocimiento real y del eclesiástico. Por eso no tienen problema en admitirlos:


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no porque aporten algo a su identidad interior sino porque la consolidan en su aspecto exterior. Sencillamente, les son útiles. Porque su comunidad había sido y seguía siendo otra cosa. A los ojos de F.M., lo que la anima es un espíritu que trasciende todo esto: “[…] Et les voeux ne jouent pas certes dans la société nouvelle, le rôle indispensable d’une ‘profession’: dès leur entrée, en tout cas, dès le terme de leur probation, les nouveaux venus prennent, dans la communauté, un rang qui les distingue à peine de leurs aînés. Entre eux les Règles établissent une fraternité qui ne tient compte que de leur appartenance au même corps; et celle-ci se définit par une simple formalité d’admission, sans autre engagement. ‘Frères’, non seulement en vertu de l’appelation qu’ils se donnent, tous les disciples de M. de La Salle reçoivent le même enseignement, assurent les mêmes prestations, sont tenus par de communs devoirs. Plusieurs se lieront davantage: à terme, ou à perpétuité, ils feront voeux d’association, de stabilité, d’obéissance. Ajoutant ainsi à leurs obligations personnelles, ces ‘profès’ seront, pour le corps entier, autant de points d’appui, autant de facteurs de plus forte cohésion. Leur engagement n’apparaît point toutefois comme nécessaire à la structure de l’oeuvre. Il ne marque pas le moment de leur incorporation à la société, ni ne fonde les devoirs et les droits qui les saisissent en tant que membres de l’Institut”. 17 …Es ciertamente hermoso y merece releerse. Pero a los ojos de las instituciones sociales tal vez con eso no estaba garantizada la estabilidad del proyecto lasaliano y sólo con ella se convertiría en algo fiable. Se diría que en 1724 hay todavía un déficit importante en su diseño institucional. Desde el punto de vista de la estabilidad - y de la fiabilidad consiguiente - el proyecto lasaliano en ese momento es el resultado de la combinación de dos dimensiones: la acción educativa y el compromiso personal de sus miembros. El déficit está en la segunda y los votos vienen a superarlo. La primera dimensión, la animación de las escuelas, funciona, es aceptada por la sociedad tras casi cuarenta años de experiencias y mejoras. Se han especializado y complementado, han fijado sus métodos y los han convertido en un sistema uniforme y universal. Por ese lado, la estabilidad está garantizada. Pero por el otro tal vez no, porque todo proyecto necesita un grupo de personas que lo sostengan y su dedicación será función de los motivos para hacerlo. Y aquí aparece el problema, porque todo el mundo sabe que para garantizar una dedicación a un proyecto se necesita algo más que la satisfacción de ver que ese proyecto funciona con eficacia. Puede bastar como motivación inicial, pero pronto necesita más. Para los días de 1725 la sociedad no ha inventado el procedimiento para cuando la motivación inicial decaiga: el funcionariado, que en ese momento no existe todavía en el mundo de la escuela o al menos de la escuela popular. Será creación del s. XIX y expresará de hecho la lectura secularizada del ‘compromiso’ de los votos. Por eso en este momento la sociedad necesita ver que sus maestros se apoyan en algo más que su éxito personal o su sueldo para creer en ellos. Por eso también la sociedad conoce otro tipo de

17

CL 11, 107.


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garantía para cuando el primer entusiasmo deje paso a la rutina: no hay funcionarios pero sí comunidades… religiosas. Porque ésta y otras comunidades semejantes no han inventado su estilo de vida, sino que lo han asumido de los modos de vida monásticos. Es el único modelo que tienen a mano, en este momento en que los ministerios de la comunidad han desaparecido o casi. Por eso se caracterizan inicialmente por una vida despojada de casi todo, entregada a Dios: es la fe, por tanto, quien les sostiene. De aspecto, son religiosos. Ya es garantía. Pero no bastante: por eso se han establecido los votos, con su objetivo decir en voz alta, pública, el compromiso o la fe de quienes los hacen. En ese sentido hablamos de déficit interior: lo hay cuando la vinculación de los miembros a un proyecto no es pública y, en 1725, el modo de hacerlo… son los votos, con precisión: los votos monásticos, que los Hermanos no hacen. Sin ellos, sólo el sacerdocio (que a su manera comporta unos votos) garantizará suficientemente lo público de la identidad interior de los miembros de una comunidad. Con la bula de Benedicto XIII el proyecto lasaliano recibe un instrumento de estabilidad más poderoso del que estrictamente necesitaban. Con la inclusión de los votos no solamente se reconoce el Instituto sino que se le aproxima - ellos creerán que se le identifica con ellas - a las instituciones de la vida religiosa, a las órdenes o ‘religiones’ por antonomasia. A partir de 1725, si su vida es el resultado del juego de aquellas dos dimensiones identidad interior y especialización laboral -, lo que consiguen con la Bula va a cubrir su déficit como institución social, no en cuanto a su identidad espiritual. Por eso habían distinguido siempre y seguirán haciéndolo, entre su relación con las instituciones sociales - obispos, parlamentos - y su funcionamiento interior. Sus relaciones externas son abiertas, homologadas socialmente y son las afectadas por la nueva estructura jurídica. De ello darán fe en adelante sus ‘nuevas’ relaciones con los obispos. Pero los votos o la nueva estructura no afectarán a su identidad interior, respecto de la cual no están abiertos a nadie ajeno a su proyecto. Es muy significativo esto de que los votos afecten sobre todo a sus relaciones institucionales y no tanto a su identidad interior.

La otra estabilidad: 1691-1694 En realidad los Hermanos ya se habían dado el sistema para garantizar lo que garantizaban los votos, y tampoco esta vez era invento suyo. Por chocante que parezca, ni se acomodaban a los usos convencionales ni innovaban: se remitían al corazón de la tradición monástica, tal como se había vivido en sus primeras formas en Occidente, antes de que existieran los ‘votos’ (esos votos que en la expresión de Dortel-Claudot, son una glosa existencial del voto en sí mismo). Desde 1691, con el llamado voto heroico de La Salle y sus dos compañeros más próximos, la naciente comunidad se había dado el plus de garantía necesario: era también un voto, pero no con las formas de la tríada, sino de respuesta a la llamada de Dios comprometiéndose de por vida en el proyecto de las escuelas cristianas con unas personas concretas y según los usos de la naciente comunidad. Conviene recordarlo porque es la fórmula más propia para conseguir su objetivo, y seguramente la más


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cercana al futuro o a nuestra sensibilidad. Aquel voto tenía un problema: no era reconocido en su verdadera identidad. Habían quedado demasiado lejos los orígenes, laicales o no sacralizados, de lo que luego sería la consagración religiosa. Ellos tres primero y luego doce, entre 1691 y 1694 ya habían propuesto la fórmula de la estabilidad del naciente proyecto: el compromiso del grupo en respuesta a la llamada de Dios que comparten en la dedicación a la escuela de los pobres. A lo largo de los treinta años siguientes profundizarán en su discurso de la llamada de Dios, de su Plan y su providencia, del final y el sentido de la espera en el más allá de todo, de su incorporación a Jesús, como su rostro en la pequeña iglesia que es la escuela… Así fundamentan su gesto en la verdadera garantía: la gracia o la relación diaria con el Dios que les convoca juntos. Y así siguió siendo también después de la bula. Por eso en el fondo no podemos sorprendernos cuando medio siglo después, en el Capítulo general de 1777, hablando sobre la renovación de votos (trienales, renovados cada año, antes de la profesión perpetua) encontramos decisiones como ésta: “Les Frères ne seront point excités à faire la rénovation; elle sera comme elle l’a toujours été, l’effet de leur demande, et de leur pleine et entière liberté, l’intention de l’Institut étant qu’ils ne soient aucunement gênés à cet égard et qu’ils ne souffrent aucun désagrément de ne pas faire cette rénovation, s’ils ne désirent pas la faire; mais qu’on en use également avec eux, tandis qu’ils remplissent d’ailleurs exactement les devoirs de leur état”18

“…Siempre que por otra parte cumplan exactamente los deberes de su estado”: sería una fórmula bien extraña a los ojos de un canonista, pero no a los de cualquier Hermano de la época. Es que entienden que una cosa es lo que les liga ante el derecho y otra la que les compromete ante Dios. Cien años más tarde seguimos encontrando el tema, porque desde antes de la Revolución ya había pasado al Libro o Regla de Gobierno. En 1875 se sigue diciendo: “On n’admettra aux voeux que ceux qui le demanderont; et aucun sujet ne doit jamais craindre d’être mal vu parce qu’il ne demanderait pas à les prononcer, pourvu que d’ailleurs il se comporte bien.”19

Y sigue la misma garantía: “siempre, por descontado, que se comporte bien”. De modo que durante doscientos años se mantiene la fórmula que hemos leído en F.M. a propósito de la comunidad de los orígenes, cuando afirmaba que no eran los votos los que diferenciaban a los miembros de la comunidad. Por eso, una vez más, entendemos la paradoja de su satisfacción y tranquilidad cuando se les ofrece la necesidad o la conveniencia de incluirlos en el expediente para la aprobación: les da ventajas y a la vez no les afecta en su identidad básica.

18

Capítulo general de 1777, Arrêt LXIII. El texto, recogido por el H. Louis-de-Poissy, en Etudes Lasalliennes 10, p. 27, y se cita en el estudio del H. Michel Sauvage sobre Le statut votal des Frères des Écoles chrétiennes en France au ‘temps de la sécularisation’. 19 Règle du Gouvernement, éd. 1875, cap. IV, art. 2.


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Es evidente que una institución como la lasaliana a finales del s. XIX, casi dos siglos después de la bula y en vísperas de los nuevos modelos canónicos, con tan pintoresco estatuto sobre el tema de los votos, está muy lejos de poderse proponer como modelo jurídico en nada. En realidad la ‘consagración’ que identifica aquellos Hermanos no es asunto de votos, de estos tres votos del secretario Digne o del cardenal Corsini. Lo que les identifica ante su Señor y entre sí es la llamada que comparten y que les consagra en su servicio a la educación preferente de los pobres. Esto sí es importante, porque nos lleva al meollo de la reflexión: aquella comunidad no se define por esos tres votos sino por otra cosa. Por eso, sin decirlo, tal vez la mayor aportación de la tesis de F.M. es dejarnos con la pregunta de si para aquella primera Comunidad había o no una distancia real entre la consagración que les constituía y los votos que ahora pronunciaban. En el fondo la cuestión que F.M. deja planteada es: ¿qué significan ‘consagración’ o ‘vida religiosa’ en la comunidad lasaliana? Es un tema de vida o muerte de cara al futuro, en estos primeros años del s. XXI.

2. El contexto: un escenario de cinco siglos Hay un rasgo que salta a la vista en todo este proceso: nos encontramos ante un final que, si bien coincide con lo solicitado en su objetivo, se aleja notablemente de ello en sus formas. Su resultado, en efecto, es el reconocimiento de la personalidad jurídica de una institución. Pero la forma que adopta ese reconocimiento o en adelante esa institución no coinciden con la que se vivía hasta el momento de la demanda. Se diría que el reconocimiento ha supuesto un precio excepcional, habida cuenta de los cambios que seguirán en su diseño. Se diría que la demanda vive en un mundo mientras que la respuesta remite a otro. El primero es el de la vida cristiana en medio de una sociedad a punto de nacer, en la mediación de un quehacer o una profesión seculares. El segundo, en cambio, es el de la vida monástica, continuación de un sistema heredado de siglos y vestido de un ropaje o al menos vocabulario sacralizados. Así sentimos ante esa realidad que se nos abren interrogantes sorprendentes, tal vez incluso amenazadores. Y es un sentimiento que no está lejos de los que sacudieron a la Comunidad FSC ante el trabajo de F.M. Pues bien: ya hemos dicho que el episodio de la primera Comunidad lasaliana y su bula no es una isla minúscula en medio de un vasto océano. Es más bien una pieza dentro de un archipiélago difuso del que todavía no hay mapas, ni en 1725 ni tal vez todavía hoy. El día en que alguien sobrevuela un poco el panorama de los datos, comienza a descubrir, sorprendido, que todos los islotes pertenecen a un diseño común, a una estructura que sería del todo evidente si el océano de la comparación descendiera cincuenta metros en su nivel o si pudiéramos nosotros verlo a cierta altura. Todos están conexionados por una dinámica que se abre en un momento y por un motivo y lleva a otro, y cuyas claves se esconden ahora bajo el nivel de las aguas. Cuando conseguimos elevarnos aparece enseguida la evidencia de que todos los islotes están relacionados, pertenecen a un mismo sistema, a una misma dinámica. Todos son parte de una sola historia. Y el primero de los datos que nos llevan a esa conclu-


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sión es precisamente la estructura, la tensión, que hemos encontrado con F.M. y ahora vemos en todos los elementos del proceso: todos se articulan sobre modelos que no les corresponden y muestran a nuestros ojos que no se sienten en lo suyo, que les falta algo, que no consiguen encontrar su propio vocabulario institucional.

La tensión entre lo buscado y lo posible Durante los últimos cinco siglos - el escenario que se abre con el tratado de Lutero sobre los votos monásticos (1522) y llega hasta Perfectae caritatis y Renovationis causam (1965 y 1969) - hay un dato sorprendente por encima de todos los demás en el mundo de la vida religiosa. Es una paradoja: por un lado el florecimiento de síntesis espirituales al servicio de nuevas fórmulas institucionales; por el otro, el estancamiento de su categorización jurídica. Se trata de un factor decisivo a la hora de interpretar el proceso de la bula que estudia F.M. Cualquiera que lo considere, en efecto, encontrará que estos quinientos años han sido de total renovación en la identidad interior de todas las formas de vida consagrada, anteriores o posteriores a Trento (1546-1563). Se trate de instituciones anteriores (al estilo de las diversas formas de vida monástica), se trate de nuevas instituciones (al estilo de las Ursulinas o los Jesuitas, hasta las nuevas formas de consagración en la vida secular), es evidente la magnífica fecundidad del período. Parece muy claro que nunca había habido en la Iglesia un momento semejante. Y es igualmente evidente que todas esas formas han tenido graves problemas en su definición canónica, en una situación también única en la historia. El dato, evidente, con ser de gran importancia, lo es menos en sí mismo que en su origen, en su causa. Por eso debemos preguntarnos: ¿a qué se debe la distancia entre la gran fecundidad de los planteamientos espirituales y su configuración canónica?; ¿cuál es el motor, la novedad que pueda provocar semejante desajuste?; ¿sigue operativo? Examinando estas cuestiones y la paradoja de la que nacen, encontramos que en este período va a ocurrir un acontecimiento trascendental en la teología de la vida religiosa y en su diseño institucional: la incorporación de la misión apostólica. Esto significaba que junto a la distancia respecto del mundo o de la sociedad, las nuevas formas de la vida consagrada iban a asumir un compromiso con este mundo y esta sociedad que les obligarían a entender de otro modo aquella distancia que habían heredado. En consecuencia, en estos siglos y al menos de hecho, se pone en tela de juicio determinada interpretación de la fuga mundi y se obliga a entenderla como un difícil estar en el mundo sin ser del mundo. El problema estaba en que la interpretación convencional de la vida consagrada suponía no sólo no ser del mundo: incluía además el no estar en el mundo. Por eso es más llamativo el otro factor o rasgo - ahora ya no teológico- con el que estas nuevas formas de vida consagrada van a convivir. Porque paralelamente esos cinco siglos ofrecen el apabullante dato de una legislación canónica que casi siempre ha mirado hacia atrás, hecha más de prevenciones y precauciones que de esperanza. No hay sólo un problema de enfoque teológico: se añade el de la negación de la historicidad de todos los códigos jurídicos. Es difícil, en efecto, encontrar en el panorama de


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los posicionamientos romanos de estos siglos razones para la fidelidad a los tiempos, para la fe en las manifestaciones de Dios en la sociedad, para la renovación organizativa y teórica de las formas de vida cristiana. Encontramos más bien todo lo contrario. En su conjunto los cinco siglos del contexto de nuestra bula son un claro ejemplo de la acción del Espíritu que ha llevado a su Iglesia más allá de sí misma, más allá de lo que ella creía saber de sí misma, hasta gestos que casi siempre han tenido conflictos con lo establecido y poco a poco han ido imponiendo su verdad y su fecundidad incluso en los medios jerárquicos. Porque sería falso y manipulador dejar estas afirmaciones en la impresión de que las fórmulas jurídicas relativas a la vida consagrada no se han movido desde Trento hasta hoy: lo han hecho, ciertamente, pero las más de las veces desde el examen crítico de lo hecho, casi nunca desde la propuesta. Y siempre, en el quicio de cada situación, encontramos el tema de los votos. Se comprende que fueran el protagonista de la negociación de la Bula. Los votos - los tres votos convencionales de pobreza/castidad/obediencia - están en el discurso de la vida religiosa desde las primeras codificaciones de Graciano, a mediados del s. XII20, son teorizados por santo Tomás21 y decididamente impuestos para todos desde Bonifacio VIII y los concilios de Lyon y Vienne (1245 y 1312-1313). Las fechas o el período de todo esto son muy importantes: son asunto de siglo y medio, entre 1150 y 1300, más o menos. Esto nos dice que los votos - estos tres votos - llegan a la institucionalización de la vida religiosa en una situación de notable debilidad estructural: en esos siglos no existen ni la identidad ni la disciplina capaces de asentar las instituciones monásticas o religiosas. Así, el camino elegido para conseguirlo es el de los votos: sin ninguna duda, la introducción de los votos - estos tres votos - se hace para garantizar que los miembros de las comunidades religiosas permanezcan en sus instituciones y de un modo definitivo, como queda sancionado por la reserva de todas las dispensas al Papa. Ningún acto contrario a los votos - en especial el matrimonio - será válido sin la dispensa romana. No sólo será algo ilícito: será sobre todo inválido, incapaz de producir efectos civiles (de propiedad, derechos, continuidad). Los votos son la garantía de haber quemado las naves. Desde ese momento no habrá más remedio que ir adelante y mantener lo heredado: habremos respondido al vacío con la sacralización de la estructura que lo defiende. Se ve enseguida que los votos, entendidos desde ese punto de vista, serían un obstáculo casi infranqueable a la inclusión de la misión apostólica en las comunidades consagradas. A través de la pretendida teología de tales votos, toda dedicación al apostolado era problemática para la disciplina monástica, a menos que en la vida diaria no se tomara demasiado en serio el lado canónico del tema. Por eso no sorprende que las nuevas formas de consagración tengan relaciones difíciles con la convencionalidad jurídica: acabarán separando vida diaria y estructura votal, menospreciarán y sacrificarán ésta última en el altar de la misión apostólica. Pero podemos ser más concretos y fundamentar estas síntesis en episodios concretos. Los problemas comenzaron a aparecer en la generación anterior a Trento. 20 21

Causas 16-20, más la 27 q.1, sobre el voto. Summa II-II, qq. 88 y 186.


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Reforma y ContraReforma Los autores tienen generalmente en cuenta en nuestro discurso sobre los votos y la identidad consagrada el Juicio de M. Lutero sobre los votos monásticos22. Lo conocen y lo citan. No es difícil encontrar resúmenes más o menos amplios de aquel libro y hacerse una idea de su contenido (otra cosa es leerlo, porque sólo existe en las ediciones de las obras completas del Reformador). Lo que suele ser más raro es encontrar el impacto de esta obra en la fuente o en el origen de las orientaciones sobre el tema durante los siglos siguientes. Y sin embargo es un dato sin el que muy difícilmente se entiende lo que va ocurriendo al menos hasta 1900. Suele pasar con las obras más citadas que leídas: muy pronto no dicen nada. Es evidente que toda Europa y no sólo la Iglesia de Roma entendió la propuesta de Lutero como un rechazo integral a la vida monástica. Diversos factores se conjuraron para llegar a esa impresión. El primero fue el del contexto, bélico y político, que lo distorsionó todo. Las relaciones entre príncipes y emperadores y reyes y papas lo enredaron todo hasta tal modo que buena parte del Concilio de Trento, por ejemplo, tuvo que reaccionar no sobre datos sino sobre prejuicios. En lo que respecta a nuestro tema, no es cierto que Lutero quisiera destruir la vida religiosa. Sí que defendió la supresión de los votos monásticos tal como se vivían en su tiempo. Y que fuera acompañada de un subrayado claro en la espiritualidad y en la misión apostólica. Cualquiera que lea hoy aquel tratado o juicio suyo lo encontrará así. Y por eso no se sorprenderá al ver que en el decreto del Concilio sobre la vida monástica no se dice nada sobre los votos y sí en cambio todo sobre la reforma de la vida monástica, tal como Lutero mismo la habría propuesto23. Aquel último decreto del Concilio, veinte años después de su desgraciado e irrecuperable comienzo, muestra que no eran los votos lo que estaba en tela de juicio sino premisas teológicas generales sobre la gracia y la justificación, por un lado, y prescripciones de reforma en la vida de los monasterios. Pero ese estudio no fue posible. En aquellos terribles días nadie estudió la vida religiosa más que desde el punto de la disciplina, que no es gran estudio. Seguramente porque Lutero - y esto hay que concedérselo a sus críticos - no llegó a proponer nada concreto para la vida monástica, salvo la reforma en la definición de los votos y en lo disciplinar. No llegó, porque ya no le fue posible, a proponer otra cosa que la conversión de los monasterios en escuelas cristianas24. Pero Lutero nunca reflexionó en un 22

Compuesto en la soledad-prisión del castillo de Wartburg entre setiembre y noviembre de 1521 y publicado al año siguiente (cuatro ediciones en seis meses, en latín y alemán). 23 3 de diciembre de 1563, sesión XXV, la última del Concilio, cap. V: De religiosis et monialibus, 22 prescripciones disciplinares. 24 Lo hizo cuatro años después de haber escrito su tratado sobre los votos. Un matiz muy importante en el conjunto de esta reflexión: en 1525 (sobre las escuelas, a los Concejos), Lutero propone reemplazar monasterios por escuelas, al dedicar las rentas de los suprimidos a establecer nuevas iniciativas ‘escolares’ de evangelización. Pero antes (1522, sobre los votos) propuso reconvertir o, mejor, reformar los monasterios según su modelo o situación original y dedicarlos a ‘escuelas cristianas’ o lo que hoy entenderíamos por escuelas de evangelización. Con mucho, por la biografía del Reformador, ésta segunda era la fórmula que él prefería. Nos im-


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tratado sobre el sentido mismo de la vida monástica. Sin nada de sarcasmo hemos de añadir que, de haberlo hecho, tendríamos hoy alguna otra síntesis, reactiva, pero que habría animado el desarrollo de alternativas. Es la desgracia de todos los tiempos como aquél, más reaccionario que cristiano. Así el hecho es que su palabra tampoco en esto fue escuchada25. Todo lo contrario: a lo largo del siglo XVI asistimos a la contradictoria ceremonia del desconcierto que se escenifica, por ejemplo, entre la Circa pastoralis de Pío V y las propuestas de Carlo Borromeo a las Ursulinas de su diócesis: el texto del papa, con un tono sumamente impositivo, obliga a todas las comunidades de mujeres a entrar en clausura y a pronunciar todas los votos solemnes, mientras que el arzobispo de Milán, que acaba de venir del concilio, propone a las Ursulinas la doble fórmula de la vida en común o la vida del todo secular como venían viviendo desde su fundación, treinta años antes, aun manteniendo sus compromisos como comunidad. Hay una distancia enorme entre la obra de santa Angela Merici - que arranca en Brescia su comunidad ursulina entre 1530 y 1535 y que es aprobada por Pablo III en 1544 (un año antes de comenzar el Concilio) con la bula Regimini universalis Ecclesia - y las dos constituciones Circa pastoralis (1566, ya citada) y Lubricum vitae genus (dos años después, y para los varones). La distancia está en que por la obra de la santa de Brescia no había pasado todavía la reacción antiprotestante, que crisparía las fórmulas institucionales mucho más allá de lo necesario para una adecuada reforma. Santa Angela, en una postura que Lutero seguramente no conoció, diseñó un modelo de vida consagrada que respondía exactamente a lo que él habría propuesto: es difícil encontrar contradicción entre su incipiente comunidad y los artículos de la citada Confessio Augustana sobre el mismo tema, coincidentes en el tiempo, 1530. Ocurrió más bien lo contrario, como hemos de reconocer con amargura. La reforma de Trento no hizo más que estancar toda posible renovación institucional desde dentro mientras toleraba la verdadera plaga de la vida monástica en Europa: las encomiendas, que vemos arrastrarse hasta los días de la Revolución francesa. La reforma en la vida monástica no nació del Concilio sino de distintas comunidades y distintos cristianos ejemplares en distintos lugares de Europa, y desde luego más de cincuenta años después de Trento. Pero aun eso habría sido tolerable. No lo es lo que faltó tanto en la Reforma como en la ContraReforma: considerar la vida religiosa desde la misión. Estaba ocurriendo - y era evidente desde dos siglos atrás - que la vida consagrada (monástica y mendicante) se había ido quedando vacía en cuanto a la misión. Tanto monjes como frailes eran ahora un elemento fundamental de la estructuración de la porta recordarlo, como puede suponerse, por su proximidad más que material con el proyecto evangelizador de las escuelas cristianas que encontramos, por ejemplo, en Calasanz y La Salle. 25 Si se considera, por ejemplo, el bloque de propuestas del concilio de Colonia, de 1536, en su texto sobre la vida monástica, se ve que asume todas las críticas de Lutero (incluso su apéndice sobre las viudas, según el texto de 1Tim), mostrando así que aquel texto del Reformador era del todo válido. Ver el texto en Enchiridion della vita consacrata (Edb-Ancora, Bologna, 2001, pp. 172ss). Y es enormemente significativa la coincidencia entre este concilio y los Artículos de Wittenberg-Esmalcalda (1536, también, con unos meses de distancia entre las dos formulaciones). Antes, en la Dieta de Augsburgo (1530), en la Confessio Augustana, se había ofrecido la síntesis que luego usarían Colonia y los dos manifiestos protestantes.


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sociedad: sin ellos se derrumbarían tanto las estructuras del saber como las de la propiedad de la tierra y los sistemas organizativos de la sociedad. Era el resultado de los siglos de la Edad Media: desde su consagración aquella gente había ido pensando en su vida en este mundo y habían resultado de una fecundidad pasmosa, que paradójicamente era ahora su cárcel o su tumba. Ya habían cumplido una misión, la que les correspondía desde Carlomagno primero y luego Cluny o las Universidades. Ahora eran muchos, pero sin otro sentido que su vida renunciante. Se habían vaciado en cuanto a la misión. Y el cáncer de las encomiendas es el mejor emblema de esa realidad: un monasterio existe y se mantiene no por su aportación al evangelio en esta sociedad sino por la estabilidad económica que supone en este territorio, que es tanta que se puede considerar como pieza de recambio en arreglos de poder y escaladas económicas. Lejos de plantearse así las cosas, los siglos XVI-XVIII están marcados por la reacción y la sospecha: de ningún modo se quiere ni dar la razón a la crítica de los Reformadores ni permitir un estado de cosas que pueda suponer indisciplina. Por eso se rechaza toda reconsideración del sentido de la consagración, se hipertrofia la consideración de los consejos y los preceptos evangélicos - que Lutero, con toda razón, rechazaba - y se radicaliza la contención de toda novedad por la vía de los votos. Ese carácter reaccionario impide toda modificación en la comprensión de los votos, de modo que a los nuevos fundadores les resultará casi imposible asumirlos en sus nuevas formas de compromiso y consagración.

De los votos a la misión Por eso se equivocan profundamente todos los planteamientos de reforma basados en los votos y en la disciplina: no funcionan, como se ve enseguida. Nada se soluciona ni con quitarlos ni con mantenerlos, como vemos en el efímero devenir de las reformas monásticas del XVII26. Los que, en cambio, se basen en la misión, no tendrán ningún problema para salir adelante. Se encontrarán, sí, con la barrera de una estructuración para los votos, pero de un modo u otro conseguirán salir adelante a lo largo de los siguientes doscientos años. Es el camino que va, por ejemplo, desde las constituciones Quanto fructuosius y Ascendente Domino (de Gregorio XIII sobre los votos simples en la Orden jesuita, 1583 y 1584) y Quamvis justo (de Benedicto XIV, en 1749, sobre la Compañía de Mary Ward y sus votos simples). Este proceso es casi la clave para percibir la geografía sumergida del archipiélago de nuestra historia. Nos ayuda a ver cómo en menos de dos siglos se ha hecho evidente la insostenibilidad de muchas situaciones en la vida consagrada. Y no solo desde el punto de vista práctico, sino además doctrinal, teórico, de principios. Se vive en una situación gravemente defectuosa. Las dos constituciones de Gregorio XIII, por ejemplo, establecen de hecho una excepción en la ordenación establecida: aceptan como 26

Su reflejo: el devenir de la Congregación Super Statu Regularium, aparecida y desaparecida a los dos lados de la Revolución francesa y sin conseguir en ninguno de sus períodos comprender los signos de los tiempos en relación sobre todo con la vida contemplativa.


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religiosos a miembros de una orden que sin embargo hacen solamente votos simples. Porque religiosos, por un lado, son solamente los miembros de una orden; y porque miembro de una orden solamente es aquella o aquel que haga votos solemnes. La formulación de Ascendente Domino es muy precisa: “Declaravimus, motu propio statuentes, eos qui bienio novitiatus peracto, tria vota

tametsi simplicia emiserunt, esse veros et proprie religiosos… considerantes voti solemnitatem sola Ecclesiae constitutione inventam esse, triaque hujusmodi Societatis tametsi simplicia, ut substantialia vota ab hac Sede fuisse admissa, illaque emittentes, in statu religionis vere constitui…”27

En este caso la excepción se hace por un motivo contextual: afecta solamente a los profesos jesuitas de votos temporales, es decir, que dentro de poco harán votos solemnes como corresponde a su orden, es decir, votos ya definitivos, perpetuos y que les incluyen en una orden. Pero deja la cuestión de si no habría sido más lógico suprimir esos votos simples y declarar que no habría votos hasta el momento de emitir los perpetuos, temporales. ¿Por qué complicar la vida estableciendo que también los votos simples abren la entrada en las religiones, si antes se había dicho lo contrario y se volvería a repetir cien años después? ¿No es, acaso, porque no está nada clara la relación entre los votos y la consagración ‘religiosa’? Notemos que, con todo el carácter restringido que se quiera, todo esto aparece cincuenta años después de la obra de Lutero, veinte después del Concilio y algo menos de las drásticas medidas de s. Pío V. Esto quiere decir que, si bien la convencionalidad canónica sigue profesando la reacción más enérgica a las ideas de la Reforma, la realidad ya impone una práctica que está mucho más cerca de las ideas del agustino de Wittenberg de lo que nadie quiere reconocer. Con los dramáticos procesos que todos conocemos sobre las fundaciones de Jeanne de Lestonnac, Françoise de Chantal, Louise de Marillac y Mary Ward encontramos la confirmación de este proceso subterráneo. Lo podríamos acompañar recordando a la vez las historias de Anne de Xainctongue y del padre Barré. Todos nos dicen que la convencionalidad canónica es incapaz de aceptar una acción apostólica que amenace la práctica disciplinar anterior a Trento. No se puede admitir una religiosa, una comunidad consagrada, que corra el riesgo de disolverse en acciones hacia fuera, viviendo fuera de la protección de la clausura, extrañamente confundidas con cristianas o cristianos que no han hecho votos. La acción apostólica se considera, como se ve, desde el punto de vista de la disciplina, no desde la evangelización. Y los votos, lo mismo. La misión: ocurría que por debajo se iba haciendo evidente la necesidad de intervenir en procesos de evangelización o reevangelización de la sociedad y en especial en los sectores más pobres, de la mujer, de la caridad y de la cultura. Había que intervenir en esos ámbitos desde la máxima generosidad y eficacia. Y eso suponía un cuerpo institucional altamente coherente, de modo que se pensaba por principio en los modelos de los compromisos de los consagrados anteriores. Que es donde aparecían los votos.

27

Texto en R. Lemoine, Histoire du Droit et des Institutions de l’Eglise en Occident, t. XV, v. II, L’Epoque Moderne (1563-1789), (Cujas, 1976, 438 pp.) p. 6.


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Lo que tanto costaba era caer en la cuenta de que el compromiso se asienta siempre en el encuentro - compartido con otros miembros de la comunidad - con el Señor que llama en medio del servicio a los demás. Ahí era donde estaba avanzando la formulación espiritual, los nuevos modelos de fe y de comunidad: su mejor emblema, tal vez, es la gran espiritualidad francesa del s. XVII. Como un siglo antes había hecho la escuela española sirviendo de fondo a la reforma de las modos de vida monástica, ahora era en Francia donde comenzaba a emerger otra sensibilidad que acabaría a finales del XVII con la gran crisis de la conciencia europea, el paso del renacimiento y el barroco a la modernidad de los burgueses y de los ilustrados. Ahí estaba apareciendo otro modo de mirar la fe, lo cristiano, la consagración… que la convencionalidad canónica no podía entender tal vez por vivir desde premisas sociales de un tiempo anterior. Es terrible caer en la cuenta de que, si en 1631 Urbano VIII había suprimido la obra de la Compañía de María o Damas Inglesas de Mary Ward en un proceso modélico desde el punto de vista de la irracionalidad teológica, setenta años después (31.6. 1703) Clemente XI tiene que aprobar las reglas de la ‘nueva congregación’ de las Damas Inglesas28. Y todavía al cabo de otros cuarenta Benedicto XIV acabaría reconociendo de hecho como institución religiosa si bien la situaba en una especie de limbo canónico. Desgraciadamente en las tres fechas el factor desencadenante de la definición canónica no es ni religioso: es la política y el poder, las relaciones entre Roma y diócesis lejanas, entre el Papa y príncipes locales. En los tres casos, de modo que no podemos sorprendernos de que las limitaciones de las definiciones queden de tal manera evidentes. Así entendemos bien la paradoja o incluso la contradicción interior de Quamvis justo al decir lo siguiente respecto de la comunidad de Mary Ward (que precisamente se había querido constituir como un modelo de Jesuitas en femenino): “…Quinto: Virgines Anglicanas non esse veras religiosas; promisiones, quae ab ip-

sis emittuntur non esse ad summum nisi simplicia; et transmittendam esse formam 29 et notificanda verba, quibus dictae promisiones emittuntur.”

¿La contradicción?: el resultado de esta constitución es el reconocimiento de aquella comunidad, de cuya estructura ‘religiosa’ nadie dudaba. Menos que nadie, el Papa, que con el documento establecía un auténtico régimen de exención para el puñado de comunidades afectadas por la polémica con varios prelados alemanes y austríacos. El mismo año de 1749, en la Inter praeteritos, Benedicto XIV pretende hacer frente, de nuevo, a temas de dispensas de votos y de organizaciones jerárquicas. En ella, aun citando y reconociendo la vigencia de la De Voto et voti redemptione, de Bonifacio 28

Es el breve Inscrutabili Divinae Providentiae. Diez años antes, el resto de la Compañía, ante las dificultades que experimentaban en relación con las autoridades eclesiásticas locales, habían solicitado ya la aprobación del Instituto y de sus Reglas; se les rechazó de nuevo, pero ante nuevas solicitudes, en 1703, tal vez a modo de satisfacción, consuelo o reconocimiento de situaciones de hecho, reciben la aprobación no tanto de las Reglas cuanto de un bloque de 81 artículos de las Reglas, que por otra parte coinciden casi a la letra con las de los Jesuitas. 29 También en R. Lemoine, o.c., XV, II, 268)


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VIII, reconoce la posibilidad de que todos puedan vivir sus votos, simples, como públi-

cos, con lo cual quedan de hecho reconocidos al remitirse su dispensa al Papa. Es una vez más la necesidad de normalizar el funcionamiento de instituciones que sobrepasan los límites convencionales canónicos con la aceptación de que estos votos, aun siendo privados sean tratados como simples y por lo tanto referidos al Papa: porque esta bula o encíclica, una vez más, alude al tema desde lo disciplinar (está concebida en contexto del Jubileo y habla sobre la praxis de las dispensas otorgables con esa circunstancia, de modo que para nada es un texto de reflexión sobre la identidad de la consagración religiosa).

Notemos, llegados a este punto, que, si en la Comunidad lasaliana en ese momento se creen religiosos porque hacen votos simples, están en un error. Quamvis justo lo dice taxativamente, como acabamos de recordar. Sólo les queda la alternativa, siempre que sigan pretendiéndose religiosos, de interpretar sus votos como votos solemnes. Pero esto, claro, exigiría de su Instituto que fuera una Orden, de lo cual la bula no habla para nada. Se comprende en consecuencia la profunda perplejidad de los Hermanos al cabo de veinte años más, en vísperas de la Revolución, es decir, en medio del clima de reforma institucional de todas las comunidades religiosas.30 Y es que viven, como decimos, en un auténtico limbo jurídico: de su comunidad, en consonancia con Trento y Pío V (como recuerda Benedicto XIV), en realidad se ha reconocido y aprobado la estructura, el funcionamiento, la animación, el gobierno…, pero eso no significa que estén de jure reconocidos como ‘religión’. Con toda razón F.M. reflexiona y duda sobre el alcance del término institutum empleado por la bula.31

Finalmente, la explosión del siglo XIX En cuanto se cruce la frontera de la Revolución Francesa, la equivalencia entre vida religiosa y votos recibirá el golpe definitivo. A partir de entonces ya será imposible, si razonamos desde la vida real de las instituciones y no desde su formulación canónica, seguir manteniendo que la ficción de que la vida consagrada se define por la tríada pobreza-castidad-obediencia. Se mantendrá, desde luego, la distancia entre vida diaria y formulación canónica, pero el nuevo siglo reforzará el valor de la acción apostólica por encima de los códigos heredados. De ese modo en las puertas del XX nos encon-

30 La sentimos con total claridad ante las dos circulares del H. Agathon que conocemos en su publicación conjunta del 1 de enero de 1785. En ellas el Superior responde a inquietudes de los Hermanos sobre sus obligaciones votales y sobre los vínculos que garantizan la estabilidad del Instituto. Es sintomático que la primera se dedique a la Estabilidad, la Educación y la Gratuidad; y que la segunda estudie Pobreza, Castidad y Obediencia: deja muy claro el distinto tratamiento o concepto que los Hermanos tienen de sus votos. El texto es resultado de diversas consultas en la Sorbona,en concreto. El dictamen es claro:somos religiosos, estables institucionalmente, aunque nuestros votos sean simples. El argumento de autoridad más usado, Suarez. 31 Ver sus Conclusions, CL 11, 291-300.


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traremos con una situación de total desorden y hasta esquizofrenia legal, que la Conditae a Christo pretenderá zanjar.32 Lo entendemos bien si reflexionamos sobre lo sucedido ante todo con la supresión de los votos en los días de la Revolución francesa, que en el fondo es muy simple de recordar: entre 1790 y 1792 la ley suprime el reconocimiento civil de cualquier estado o asociación ciudadana definidos sobre los votos. Se entiende que no puede ser reconocida una institución basada en algo que va contra la dignidad humana, contra su libertad de opción. Es un razonamiento simple, sencillo, inobjetable en sí mismo: si el legislador tiene facultad para reconocer instituciones, en este caso define que no reconocerá ninguna que se asiente sobre tales principios. El legislador entiende que tales principios no concuerdan con lo que las nuevas formas sociales exigen o esperan de sus ciudadanos. Y los monasterios y las comunidades se cierran. En realidad ya antes de 1790 se estaba dando un vaciamiento de los monasterios de naturaleza semejante al de los primeros días de la Reforma. Las distintas desamortizaciones que anteceden y siguen a la Revolución por todos los países de Europa no hacen sino dar fe de la situación que lo estaba produciendo. La sociedad se encontraba ante instituciones que, como hemos recordado, habían dejado de cumplir la misión de la evangelización y ejercían solamente la función de la estabilidad social a través de la estructuración de un sector del sistema económico. Por eso pretendía acabar con el orden heredado y racionalizar o rentabilizar la presencia de los monjes en la sociedad. Si los votos son el último lazo que mantiene en pie este estado de cosas, deben suprimirse. Por eso, sin justificar de modo global las desamortizaciones, debemos sin embargo reconocer su sentido33. Y por eso, también, entendemos perfectamente al H. Agathon, superior de la Sociedad de las Escuelas cristianas, dirigirse lleno de urgencia a la Asamblea Nacional ante la próxima supresión de los votos: argumenta desde la utilidad de sus escuelas para la sociedad, desde luego, y por eso pide que no se supriman los votos que les confieren estabilidad. Le comprendemos muy bien: “Ces voeux perpétuels, quoique simples, sont un moyen nécessaire aux frères pour sou-

tenir et propager leur institut, dont la conservation est désirée par tous ses membres. Sans voeux, ils ne pourroient ni compter sur leurs sujets, ni par suite s’obliger à en fournir nulle part; ils ne pourroient même en avoir, parce que personne ne voudroit d’un état qui ne présenteroit aucune perspective ni ressource assurée, en cas de vieillesse et infirmité; sans voeux par conséquent ils ne pourroient se conserver. Des voeux annuels produiroient chez eux le même effet que le défaut absolu de voeux.

32

La Constitución “n’est en effet que la codification officielle et authentique d’une législation jusqu’ici flottante et en voie de formation”: así la presenta en 1902 P. Bastian, en la edición que ofrece el documento y su comentario, puntual y amplio (Conditae a Christo. Texte et commentaire, Paris-Bruges-Rome, 102 pp.; la cita, en p. 25). Ver también nuestra nota 36. 33 Como ocurrirá en todos los países de Europa en sus diversas desamortizaciones, una cosa es la ordenación de la misión y el sentido de los monasterios y otra la nueva titularidad de sus recursos económicos, el ámbito del evangelio y el del dinero. Por toda Europa veremos que el interés por el segundo se disfraza con los argumentos del primero, de modo que se trata por igual a instituciones ya agonizantes y absurdas que otras en plena vitalidad y hasta en crecimiento vocacional.


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…Un prêtre n’a pas besoin de voeux pour s’attacher à une maison qui, avec du travail, lui offre du moins certains agréments; un frère a besoin de ce frein, pour être retenu dans un état, où il ne trouve rien que de pénible et d’assujettissant. Il est d’ailleurs à remarquer que nonobstant la perpétuité de leurs voeux, les frères peuvent en obtenir la dispense; qu’elle ne leur ôte ni la capacité pour les effets civils, ni la propriété de leurs biens patrimoniaux…”34

Los votos, como contrato: es curioso ver que el argumento se vuelve en su contra por la sencilla razón de que los votos no pueden ser un contrato con efectos civiles. La Administración social responderá estableciendo un tipo de contrato, sí, pero medible no en términos canónicos sino administrativos, es decir, laborales y económicos. En adelante se procurará la estabilidad este cuerpo social, pero no se la confiará más que al reconocimiento civil de la validez de su función social. Será el paso de los votos al contrato, una catástrofe si es que antes no se ha dado el otro paso: el de los votos a la misión. Por eso a nuestros ojos puede resultar inicialmente incomprensible el desenlace de la tensión: la autoridad civil suprime algo que no tiene facultad para suprimir y sin embargo las instituciones afectadas se dan por suprimidas. Si lo miramos con cuidado, sin embargo, lo comprenderemos: para estas instituciones, de hecho y de jure, los votos eran un contrato, como vemos por las expresiones del H. Agathon. Son tanto una realidad contractual coercitiva como la expresión de la consagración. Pero es que además estamos en los días todavía del Antiguo Régimen, es decir, en momentos en que no se distingue entre la pertenencia al elenco de las instituciones sociales y al de la vida consagrada: no están separados los dos ámbitos - el religioso y el civil -, de modo si algo afecta a uno de los dos, afectará al otro. El siglo que se abre con la Revolución traerá la culminación de ese distingo y deberá ser acompañado, por parte de estas instituciones, con un esfuerzo paralelo por clarificar la naturaleza de los vínculos que expresan y vehiculan su pertenencia. Desgraciadamente de estas dos tareas sólo se culminará la primera, es decir, la relativa a las Administraciones sociales: acabarán con la identificación de los dos ámbitos a través de la secularización efectiva de la administración social. En cambio las instituciones de la vida consagrada dedicadas al apostolado se mantendrán en su teorización canónica y espiritual. Así, cuando la primera de estas dos líneas llegue a su definitiva realidad al cabo de un siglo, en la definitiva secularización de los servicios sociales, ellas por su parte seguirán en la misma situación que cien años antes, con una tremenda diferencia en su contra: ahora al desajuste inicial sumarán el déficit de un siglo de gran desarrollo numérico que se asienta en bases del todo precarias o intemporales. En su cierre hay dos momentos legales significativos: Ecclesia Catholica (1889) y Conditae a Christo (1900). Los dos documentos están movidos por la explosión institucional de la vida apostólica y consagrada del siglo XIX por toda Europa. Los dos se enfrentan al mismo reto: definir lo que está ocurriendo. Pero ninguno de los dos consigue estar a la altura.

34

En el prospecto Idée générale de l’Institut des Freres des Écoles Chrétiennes, 1790, 32 p. (la cita, en p.3).


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El primero, al reconocer la dignidad de los nuevos movimientos apostólicos no los aprueba como verdaderas congregaciones de votos simples, sino como ‘pias sodalitates’35. Es la tensión insuperable entre algo canónicamente definido por los votos y la dedicación a un apostolado definido por la entrega más que por la renuncia. El segundo va mucho más lejos: siempre sobre la base de la equivalencia votos-estado religioso, distingue las Instituciones de derecho diocesano y las de derecho pontificio, y las sigue definiendo por la autoridad que en último extremo garantiza la estabilidad por la vía indirecta de la dispensa obligada. Desde este distingo reconoce de hecho el carácter religioso a instituciones que antes ciertamente no lo tenían y exhorta de los obispos a promover el nuevo ordenamiento.36 Los dos significan la entrada definitiva de los votos simples en la definición de la vida consagrada, que el posterior Código zanjará ya en 1917. En medio queda el abrumador universo de las Normae que en 1901 siguen a la Conditae, de modo que todas las instituciones reconocidas a partir de ahora como Congregaciones aun siendo de alcance diocesano, todas ellas deberán regirse por un código diario concebido según las dimensiones de la equivalencia votos-consagración. Sus nuevas Normae no se concebirán desde o para la consagración y el apostolado sino para y desde la distancia entre consagración y apostolado. Tres siglos después es de nuevo legalmente la situación de Circa pastoralis y Lubricum vitae, sólo con el aparente cambio de ‘congregaciones’ por ‘órdenes’. Sigue pues vigente la reacción a la Reforma, como una sombra que se alarga y se alarga y nunca acaba de desaparecer. Por eso los votos seguirán siendo el instrumento de esa distancia. Así, cuando a su vez en 1923 aparezcan las nuevas Normae en función del nuevo Código, estas instituciones quedarán ya definitivamente encerradas en el déficit con el que nacieron y sólo a partir de Vaticano II comenzarán a ser conscientes de él y tratarán de remediarlo. Afortunadamente antes, como la definitiva prueba del déficit estructural que repetimos, encontraremos el reconocimiento por parte de Pío XII en 1947 de la existencia de nuevas formas de consagración, marcadas esta vez por una comunidad no localiza-

35

Su definición, después de distinguirlas de las ‘Religiones formales’ y de las ‘veras Congregationes’: “… pias sodalitates in quibus, praeter alia quae juxta hodiernam Ecclesiae disciplinam

desiderantur, nec religiosa professio proprie dicta emittitur, sed vota, si quae fiant, privata censetur, non publica nomine Ecclesiae a legitimo Superiore acepta” (es el n. 5 de la constitución, texto en Vermeersch, De Religiosis, v. 2 (1909), 67-68). Transcribo el texto por su proximi-

dad con la citada descripción de F.M. sobre la primera comunidad lasaliana. 36 Creo que se puede mantener estas afirmaciones y a la vez aceptar la tesis de E. Sastre de que Conditae a Christo no es del todo exacto pretender que “fece veri religiosi i membri delle congregazioni fondate nel secolo XIX”: una cosa es el alcance práctico de un documento y otra su alcance teórico. Tiene razón este especialista al sostener que el documento no define sino que en realidad sólo organiza. No termina con el déficit teórico, porque no se asoma a él. Solamente determina que el cúmulo de estas instituciones deberán regirse por los protocolos de las instituciones de vida religiosa. Otra cosa es cómo se tomaron las Congregaciones del s. XIX el documento: todas entendieron que quedaban ipso facto reconocidas como tales y que todo consistía en entrar por un tipo de disciplina canónica. Sobre el tema, ver el interesante artículo de este autor, conocedor como nadie de los vericuetos canónicos de la teología de la consagración: Il posto della costituzione Conditae a Christo, 8 dicembre 1900, nella storia giuridica dello stato religioso, Informationes SCRIS, XXVI (2000)1, 110-139.


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da externamente y por una vida caracterizada por la secularidad: serán los Institutos seculares, el nuevo rostro de la consagración que finalmente no irá marcado por los votos… Y ahí es donde encontramos al H. Maurice-Auguste, pensando muy pronto en escribir una tesis en derecho canónico. Se ve muy bien qué podía pretender. Es mucho más que una investigación puntual, un estudio coyuntural de algo exclusivo de una familia religiosa.

3. Qué puede sugerir la contextualización de la tesis de F.M. Cuidando de no extrapolar su trabajo, sino simplemente por su ubicación a los diez años de Provida Mater37, ¿qué nos sugiere esta contextualización del trabajo doctoral de F.M.? La pregunta en realidad lleva a dos respuestas, o a dos perspectivas en la misma respuesta. Una referida al propio trabajo, en 1962, y otra a nosotros, que lo releemos hoy. La primera piensa desde la circunstancia de los años sesenta del siglo pasado; la segunda, desde lo habido en los cuarenta siguientes. Son dos, distintas pero complementarias e inseparables, y si las combinamos podría muy bien ocurrir que el alcance de aquel trabajo hubiera superado con creces lo imaginado por su autor en aquellos días. Tal vez podría resultar que hoy, al abarcar un momento que él no podía conocer y que a nosotros nos sugiere arcos de historia que él no veía, aquella tesis diga mucho más que en los días del Vaticano II o del Capítulo general de 1966-67.

Primero: la renovación, desde los orígenes ¿Qué podía esperar F.M., un Hermano de las Escuelas Cristianas, consciente del momento histórico que estaba viviendo, con su estudio del itinerario de la Bula de 1725? Creo que la respuesta inmediata es muy clara: rigor en la comprensión de su propia identidad. F.M. se daba cuenta de que el Instituto lasaliano, como toda la sociedad, estaba viviendo un momento nuevo en su historia. En los últimos momentos de su estudio había incluso conocido la convocatoria del Concilio y así, aunque tampoco él podía imaginar lo que acabaría siendo aquella Asamblea, percibiría la grandeza de la novedad en cuestión. Ante ella, F.M. no podía consentir una actitud de panegírico, es decir, de simple continuidad. Su primera aportación es el testimonio de una actitud crítica inteligente, honrada y dispuesta, ante el examen de la novedad institucional. Si él se exigía a sí mismo y esperaba de los demás rigor en la precisión de la identidad lasaliana es, lógicamente, porque entendía que algo había de cambiarse al menos en su funcionamiento diario. Antes que estudiar la bula, no lo olvidemos, ya se había asomado a la primera reglamentación de la primera comunidad lasaliana, a su conciencia, a sus expresio-

37 Y justo dos décadas después de la solemne rehabilitación de Mary Ward por Pío XII: es el 14 de octubre de 1951, a un paso de la Provida Mater, y en el encomio del Papa quedan unidos Mary Ward y Vincent de Paul. A nuestro F.M. no le resultaría una fecha cualquiera.


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nes. Buscaba pues en sus orígenes pistas para depurar la conciencia que el Instituto lasaliano podía tener de sí mismo trescientos años después. Esto nos está diciendo que su primera actitud es la disponibilidad ante los resultados de su trabajo, fueran cuales fueran. Y éstos fueron ante todo la evidencia de que las definiciones sustentantes no habían sido ni previstas ni comprendidas a continuación. Que no fueran bien comprendidas en los dos siglos anteriores a su trabajo, le decía a F.M. que ahora debía depurarse todas las expresiones de la autoconciencia del Instituto lasaliano. Pero sobre todo que había de depurarse interpretando el acontecimiento mismo de la Bula desde su preparación y sus objetivos. Señalaba con total claridad que la estructura o la expresión de la consagración que el Instituto conocía en 1962 no respondía a la comprensión de la primera comunidad. Con ello no se invalida el proceso mismo de la bula sino que se interpreta de un modo nuevo, cayendo en la cuenta de que tal vez el Instituto lasaliano había vivido una identidad consagrada que trascendía la misma literalidad de la Bula. Esto era lo importante. No creo que él tuviera dudas sobre la naturaleza de lo pretendido por La Salle y que ello se plasmaba en una comunidad dedicada al servicio educativo de los pobres, viviendo según un modelo calcado de las formas de vida consagrada apostólica que él conocía. Pero sí se daba cuenta de que el modelo pretendido por el Fundador escapaba a la convencionalidad de la época y por eso mismo podía aparecer con una imprecisión que su identidad espiritual no tenía.38 Por eso F.M. dejaba abrirse un tremendo interrogante: en el gran contexto de la historia de la vida religiosa ¿puede considerarse el proceso de la bula lasaliana como el avance de un modo nuevo de tipificar la consagración? En aquellos días, en la magnífica euforia que preparaba el Concilio, a F.M. le parecía que si lo percibíamos claramente, seríamos capaces de renovar el diseño identitario que sostenía el Instituto. Es su actitud ante el nuevo Capítulo general lasaliano, en la primavera de 1966, que conocemos por su modo de actuar ante el tema del sacerdocio. Hasta su muerte, los diez o quince años siguientes, su tesis sirvió a F.M. para dedicarse a difundir por todo el mundo aquel mismo estado de conciencia: exigencia crítica ante los datos que se aceptaran y disponibilidad igualmente crítica ante las nuevas propuestas. No pudo ir más lejos. Ocurrió, desgraciadamente algo así como en los días de la Reforma, cinco siglos atrás. Ocurrió, enseguida, con el Concilio, que en la comunidad lasaliana entró la sensibili-

38

Muchas veces, a la vista de lo que va apareciendo en sus páginas y del modo como se conduce, se diría que a F.M. le interesa el proceso, pero no sus consecuencias: no apura el examen de las contradicciones, apresuramientos, acomodaciones, indefinición: lo señala pero no va más allá, como si no se interesara por su análisis teológico, que sin embargo es lo que más nos importa y que, sin duda, debía ser lo que él tenía en el horizonte. Es admirable, siendo como era, su desapasionamiento. Aunque también es verdad y no está en contradicción, que en diversas páginas, en el comentario de tal o cual comportamiento de sus personajes o de alguna referencia bibliográfica, le traiciona aquella veta irónica tan suya, entre simpática y resignada, que mostraba incluso en su lecho de muerte.


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dad por el tema del sacerdocio en relación con la identidad laical del Hermano. Y ocurrió, sobre todo, que a causa del cambio de época y la crisis sociocultural de los días inmediatamente posteriores, la pertenencia de muchos de sus miembros entraría a su vez en crisis. Los dos temas resultaron muy pronto tan apasionantes que desplazaron la atención de todo lo demás, aunque no eran el objeto preciso de la renovación necesitada por el Instituto y propuesta por el Concilio y dibujaron una circunstancia inútilmente polémica. La Comunidad lasaliana no tendría en esos años la serenidad suficiente para reflexionar sobre su modelo específico de consagración. F.M., situado ahora en responsabilidad de gobierno general, debería dedicar ya su vida a reacciones ante lo que ocurría más que a seguir creando conciencia y nuevas condiciones de vida. Probablemente no podía esperarse otra cosa. Las instituciones de la vida consagrada vivieron aquellos primeros decenios posconciliares como una gigantesca convulsión en la que salía a la superficie todo lo institucionalmente inacabado o tal vez incluso reprimido en los tres o cuatro siglos anteriores. Y como casi ninguna de ellas tenía más memoria histórica que la limitada por la referencia de los herederos de Trento, en general no podían esperar otra cosa que un tiempo de convulsiones, a la espera de nuevas circunstancias de serenidad. Pero éstas o bien no llegarían o, si lo hacían, adoptarían rasgos del todo nuevos, casi irreconocibles para quien no dominara el nuevo idioma de la evangelización, lo cual para muchos equivaldría a pensar que no llegaban de ningún modo. A mi parecer, los trabajos de F.M. en sí mismos cayeron muy pronto en el olvido. No dieron casi ningún fruto, de modo que la Comunidad de las Escuelas cristianas no avanzó en la línea señalada por él. Sí lo hizo en la otra, complementaria, de la identidad espiritual, que por esos días tan bien profundizaron otros: fue el redescubrimiento o sencillamente la evocación de la teología de la vocación y del ministerio que se difundió por el universo lasaliano. Por eso debemos matizar el juicio de que los estudios de F.M. cayeron en el vacío: en su objetivo mismo, sin ninguna duda; en su contribución al espíritu de este medio siglo, no. En cuanto parte y símbolo personal de la renovación sobre todo espiritual, su obra ha hecho mucho bien a todos. Ahora queda retomar, si es posible, su objetivo o carácter más propios. Lo que él nos dejaba era nada menos que esto, como se subraya todavía mejor desde su contextualización histórica: • la bula aprueba y confirma el ‘instituto y las reglas’, es decir, la vida concreta de este

grupo humano al servicio del evangelio por medio de estas escuelas cristianas;

• la bula no aprueba ninguna ‘congregación’ (ni menos ‘orden’) en virtud de unos vo-

tos: su sentido es dar estabilidad a la vida concreta de aquella comunidad.

No puede decirse que hayamos ido mucho más lejos en la referencia a los orígenes.

Y segundo: la refundación, desde la laicalidad Han pasado ya cuarenta o cincuenta años y tenemos otra perspectiva que a la publicación del n.11 de los Cahiers Lasalliens. De ese modo, necesariamente, nos vemos derivados al segundo de los sentidos de nuestra cuestión: ¿qué puede decirnos, casi medio siglo después, la tesis de F.M.?; ¿verdaderamente queda en ella algo importan-


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te para el futuro?; ¿qué se ve en la circunstancia de nuestra primera definición cuando la contextualizamos en este proceso de cinco siglos? Ante todo encontramos la explicación de los tanteos, imprecisiones y modificaciones de aquellos días. Es evidente que las dudas de nuestro proceso institucional se deben al contexto de tensiones nacidos con la Contrarreforma. Así entendemos que las indefiniciones o los extraños rodeos que la historia recorre hasta hoy se inscriben en un proceso que no consigue soltarse del aviso de la heterodoxia doctrinal y el desorden institucional: atención a la herejía y al cisma, siempre posibles. Pero, claro, esto nos lleva inmediatamente a preguntarnos por aquella formulación alternativa, la que está en la fuente de esas amenazantes heterodoxia y desorden. Y allí encontramos la diatriba de la Reforma con el tema de los votos. Sin ella, nuestro camino habría sido mucho más natural y sencillo. No habría habido que reaccionar ante nada y todo se habría guiado más por la novedad o la fidelidad. Sólo inicialmente podemos sentirnos sorprendidos ante este hecho. En cuanto reflexionamos sobre la relación entre la Reforma y la vida de las iglesias cristianas en los siguientes cien años, aceptamos sin dificultad que en la fuente de la historia de la vida consagrada en la modernidad hay más de la Reforma más que de Trento. De la Reforma, en efecto, recibimos el aviso de que tal vez los tiempos sean tan nuevos que necesiten revisar las bases teológicas sobre las que se asienta el sistema de la consagración religiosa; del Concilio, en cambio, solamente la imposición de una disciplina necesaria. De las dos referencias la primera es con mucho la más importante y la más positiva y la conciencia de los tiempos de la nueva evangelización nos ayuda a reconsiderarla con nuevo respeto. Durante los siglos posteriores su fantasma estuvo tan presente que impidió avanzar en la conciencia de que tal vez vida religiosa no equivalía necesariamente a lo que entendía Bonifacio VIII y de que tal vez la especulación tomista no fuera la única manera de explicar el sentido o la misión de esta forma de vivir lo cristiano. Presente pero como amenaza, lo cual explica el rechazo de estas dos líneas de reflexión. Ni la estructuración jurídica ni la interpretación teológica se atrevieron a moverse durante cuatro siglos. La vida, sí. La vida de las nuevas comunidades religiosas fue enseñando que la ascesis y la renuncia o la fuga mundi no eran la expresión necesaria ni tal vez la más original de la vida consagrada. En su lugar la vida iba mostrando que la renuncia es nada sin la fidelidad y que la fuga mundi es absurdo y escapismo sin la encarnación o la assumptio mundi. Que no había identidad para la consagración sin Misión. Lo novedad estaba en la Misión, precisamente lo no contemplado ni por el derecho ni por la teología. La vida de estas instituciones en la Modernidad fue enseñando que la esencia de la vida consagrada estaba en ser referencias excepcionales -‘profesionales’- del Reino. Y que eso se cumplía cuando la sociedad veía en aquellas gentes un grupo cohesionado por algo que iba más allá de todos los contratos convencionales: algo que se expresaba en un compromiso plural, en una estabilidad de toda la vida al servicio de un modo distinto de vivir, leído según el evangelio. Lo cual llevaba a recomprender la misma Misión, tarea hoy todavía pendiente. La vida mostraba, sí, lo imprescindible de la distinción, pero a la vez subrayaba lo imposible de la distancia, de modo que la referen-


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cia a lo absolutamente distinto se asentaba en la pertenencia a este mundo, en el compromiso con él. Se descubría que lo sustancial no eran los votos sino la estabilidad en el compromiso compartido al servicio de una función social. Y que esto era lo que consagraba: la Misión (así entendida, no reducida a un trabajo). La vida de las nuevas instituciones estaba mostrando una comprensión nueva de la encarnación del Evangelio: debía decirse con las palabras de la vida diaria, con las que expresan la conciencia de la novedad histórica, con las que usaba el pueblo para decirse sus esperanzas y sus perplejidades. Debía salir de la fortaleza de otro lenguaje, sacralizador y desencarnado. Por eso - y no porque lo hubiera propuesto la Reforma - había que abandonar el discurso de los votos de Bonifacio VIII y su tematización tomista. Había, sencillamente, que secularizarlo. Por eso era tan difícil entender y expresar el itinerario de las nuevas fundaciones: por su recuperación de la secularidad de la consagración, por su renovada lectura de la encarnación de Dios: no en vano la renovación de estas instituciones se asienta en corrientes espirituales muy ricas en su aportación o comprensión de la humanidad de Jesús, tanto en su época o fase española como francesa, o antes en la piedad de movimientos centroeuropeos. La secularización, así, se había abierto paso en el lenguaje espiritual: pero no en el teológico ni mucho menos en el canónico. En realidad estos cuatro siglos estaban mostrando la imprescindible recuperación de la laicidad de la consagración religiosa, es decir, su pertenencia al pueblo cristiano39. Porque, con los siglos, la vida consagrada había ido sacralizándose hasta la desfiguración. Sobre todo a causa de la introducción del sacerdocio primero y luego de los votos, su naturaleza había ido reflejando la distinción entre ministerios ordenados y no ordenados, entre sacerdocio y pueblo. Y la consolidaba, a su vez, con una nueva distinción de modo que en adelante se llegara a absurdo de establecer tres estados en la vida cristiana.40 Los votos, aquellos votos que desde Bonifacio VIII y san Pío V se imponían como cautela sobre todo disciplinar, habían derivado en un corpus teológico que desnaturalizaba la consagración y el Signo de aquellos grupos de cristianos, haciéndoles adoptar rasgos en los que no podría reconocerse la mejor tradición monástica41. Se diría 39 Por esto y no por otra cosa, F.M. fue siempre contrario a la introducción del sacerdocio en los Institutos de Hermanos. Lo mostró ya en mayo de 1966, en las primeras semanas de aquel Capítulo general lasaliano, en su ir y venir entre la Asamblea y el Vaticano, entre el Consejo de gobierno y los Hermanos de todo el mundo. 40 Es el trasfondo de la teología de los ministerios, tan socorrida hoy. La referencia, sin embargo, a la teología de la vida religiosa no es demasiado frecuente en todo ese discurso, siendo así que las distintas formas de la vida consagrada han sido durante siglos el lugar donde vivían los ministerios cuando habían desaparecido de los ámbitos de un presbiterado tal vez demasiado funcionarial. Es bueno atreverse a recordarlo, por la luz que hoy puede suponer en la relectura misma de la teología de la consagración. 41 En este tema, valga por muchas otras la referencia a la obra de Th. Matura, Le radicalisme évangélique, aux sources de la vie chrétienne, Cerf, Paris 1978, 210 pp. Aunque sea ya bastante más frecuente que entonces, en estos treinta años no hemos ido más allá de su propuesta, que nos sigue atrayendo por su capacidad de centrar el tema en el Evangelio más que en la discusión de otras interpretaciones teológicas.


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utilizando otra vez la cita de Dortel-Claudot del comienzo - que estos votos ya no eran la glosa existencial del voto: lo hab铆an suplantado; s贸lo se expresaban a s铆 mismos en un discurso casi autista. Eran l贸gicas las reticencias de Angela Merici, Ignacio de Loyola, Francisco de Sales, Juana de Lestonnac, Luisa de Marillac, Vicente de Paul, Mary Ward y La Salle.


LASALLIANA

RivLas 75 (2008) 3, 429-434

La centralidad del voto de asociación para el servicio educativo de los pobres Leonardo Tejeiro, FSC Procurador general

C

omo es sabido, la Congregación para los Institutos de vida consagrada y las Sociedades de vida apostólica aprobó las modificaciones propuestas por el 44˚ Capítulo general FSC (2007) a la fórmula de votos de los Hermanos diciendo: “…

después de un atento estudio, aprueba la nueva redacción de la fórmula de votos, conforme a la tradición del Instituto”. Si se pregunta por la razón de esta modificación se encuentra que el mismo documento capitular en el que se consigna la propuesta de modificación la justifica de la siguiente manera: [esta modificación quiere]

expresar mejor la consagración específica del Hermano y la centralidad en ella del voto de asociación para el servicio educativo de los pobres”1. Lo cual quiere decir

que la nueva redacción expresa mejor la centralidad del voto de asociación para el servicio educativo de los pobres en la consagración específica del Hermano. De hecho, el segundo párrafo de la fórmula aprobada dice:

Y a este fin yo, […] prometo y hago voto de unirme y permanecer en sociedad con los Hermanos de las Escuelas Cristianas, que se han reunido para tener juntos y por asociación las escuelas al servicio de los pobres, en cualquier lugar a que sea enviado, y para desempeñar el empleo a que fuere destinado, ya por el Cuerpo de la Sociedad, ya por los Superiores.

1

Consejo General FSC, Circular 455, Roma 2007, p. 25.


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Leonardo Tejeiro

La modificación aquí consiste en añadir “y hago voto”2, lo cual implica que “unirme y permanecer en sociedad con los Hermanos de las Escuelas Cristianas” tiene carácter de voto. Claro, son los votos específicos de los Hermanos. “Unirme” se concretiza en el párrafo siguiente en “asociación para el servicio educativo de los pobres” y “permanecer” en el voto de “estabilidad”. Con las implicaciones que más abajo se señalan. Estos dos votos, en este segundo párrafo, vienen primero que los votos de pobreza, castidad y obediencia del tercer párrafo, pero el “permanecer”, entendido en referencia al voto de “estabilidad” pasa en el párrafo siguiente de la fórmula a ser el último en leerse. Qué puede significar ello? Pues nada nuevo en la teología de los votos ya que el orden de lectura nunca ha significado prioridad u orden de importancia o algún tipo de jerarquía. Los votos quieren expresar las distintas dimensiones de la vida del consagrado que se da totalmente a Dios en respuesta al llamado recibido. Y hoy ninguno estaría de acuerdo en decir que se entrega a Dios primero que todo la castidad o primero que todo la estabilidad, etc., sencillamente por que se trata de la entrega total de la persona. Por ello, desde el punto de vista teológico no es posible pensar en una jerarquía entre los votos. Tampoco es posible pensar que aquel voto u votos que se aparezcan primero en la fórmula sean necesariamente superiores o deban entenderse en detrimento del valor de los otros y de las dimensiones de la vida que por medio de ellos se entrega a Dios. Aquí se trata de una persona humana, toda ella entregándose “enteramente e Dios” Para dar continuidad al orden inicial de ideas, se ve que el segundo párrafo de la fórmula hace ya mención del voto de “asociación para el servicio educativo de los pobres”. Por su parte el tercer párrafo trae como novedad el proponer este voto como el primero a ser leído. El párrafo dice:

Por lo cual, prometo y hago voto de asociación para el servicio educativo de los pobres, castidad, pobreza, obediencia y estabilidad en el Instituto, conforme a la Bula de aprobación y a la Regla del Instituto (R 25). Si, como se ha dicho, el orden de lectura de los votos no puede ser entendido en términos de mayor importancia o valor para el o los primeros y menor importancia y valor para los que siguen, vale la pena preguntarse por la razón de dicha modificación. Sin lugar a dudas, la razón no será otra que “…expresar mejor la consagración

específica del Hermano y la centralidad en ella del voto de asociación para el servicio educativo de los pobres”. Aquí el término clave es centralidad.

Entonces cabe preguntarse cómo entender dicha centralidad? A eso dedicamos las siguientes líneas. A continuación se pretende presentar la centralidad del voto desde la doble perspectiva de la centralidad de la sequela Christi propia de la vida religiosa, y de la centralidad del seguimiento específico de Cristo propia de la vida religiosa de los Hermanos de las Escuelas Cristianas en la Iglesia y en el mundo.

2

Id., p. 25.


La centralidad del voto de asociación para el servicio educativo de los pobres

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La centralidad del seguimiento de Cristo El primer párrafo de la fórmula recuerda claramente que el fin de la consagración del Hermano es “procurar la gloria de la Santísima Trinidad”. Todo en la consagración del Hermano tiene esa orientación y sentido. Y es por ello que al decir voto de asociación para el servicio educativo de los pobres se entiende en la perspectiva de la Trinidad: procurar su gloria. Siendo así, la centralidad es entendida como señalamiento de lo que es más propio a la consagración, es decir procurar la gloria de Dios desde el seguimiento de Cristo. Esta centralidad consiste, primeramente, en que recuerda, pone de relieve, marca y señala otra centralidad: la del seguimiento de Cristo. En ese sentido todos y cada uno de los votos son el recuerdo permanente de ese aspecto central y definitivo de la vida del Hermano. Y como no hay votos de primera y de segunda clase, sino que todos tienen el mismo valor. Todos ellos son votos públicos en la Iglesia. Todos ellos son indispensables en la consagración, y por lo mismo, nadie podría decirse Hermano si su consagración no contiene las dimensiones que todos y cada uno de ellos encierran. Si faltara alguno no se podría decir: “me consagro enteramente”. Todos y cada uno señalan la centralidad del seguimiento de Cristo en la consagración del Hermano. En toda vida religiosa se quiere seguir a Cristo en su manera histórica de vivir, se quiere ser “memoria viviente del modo de existir y de actuar de Jesús” (VC 22), es decir, según los consejos evangélicos de castidad, pobreza y obediencia, vividos como votos públicos y en comunidad. Estos elementos son comunes a todos los Institutos religiosos y al vivirlos como Hermanos de las Escuelas Cristianas, participan en comunión con esa manera particular de consagrarse en la Iglesia: la vida religiosa. La Regla al decir que el Instituto es“un Instituto de derecho pontificio compuesto exclusivamente por religiosos laicales” (R 2) confirma ese carácter de Instituto religioso.

Vida Consagrada invita a llamar a institutos como el de los Hermanos institutos religiosos de Hermanos (VC 60). La misma exhortación apostólica recuerda que por los consejos evangélicos el religioso hace de Cristo el centro de su vida e intenta llevar la forma de vida que Él mismo escogió al hacerse hombre:

“…mediante la profesión de los consejos evangélicos la persona consagrada no sólo hace de Cristo el centro de la propia vida, sino que se preocupa de reproducir en sí mismo, en cuanto es posible, «aquella forma de vida que escogió el Hijo de Dios al venir al mundo». Abrazando la virginidad, hace suyo el amor virginal de Cristo y lo confiesa al mundo como Hijo unigénito, uno con el Padre (Jn 10, 30; 14, 11); imitando su pobreza, lo confiesa como Hijo que todo lo recibe del Padre y todo lo devuelve en el amor (Jn 17, 7.10); adhiriéndose, con el sacrificio de la propia libertad, al misterio de la obediencia filial, lo confiesa infinitamente amado y amante, como Aquel que se complace sólo en la voluntad del Padre (Jn 4, 34), al que está perfectamente unido y del que depende en todo” (VC 16). Se podría decir que hacer de Cristo el centro de su vida es para el Hermano actualizar el modo de vivir y de actuar de Jesús. De esta manera los consejos, que hacen


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posible ese “parecido” con Jesús, llevan al Hermano a tener a Cristo como centro de su vida. Esta palabra es importante: Cristo el centro de la propia vida del Hermano. Así, todos los votos recuerdan y ponen de relieve lo central de la vida del Hermano: su entrega total a Dios en seguimiento de Cristo por el evangelio. Incluso los votos específicos del Instituto, es decir asociación para el servicio educativo de los pobres y estabilidad en el Instituto, ya que son igualmente votos, igualmente votos públicos e igualmente expresan la unidad de la persona del Hermano que se entrega “enteramente” a la Santísima Trinidad.

La centralidad del seguimiento específico de Cristo Bien es sabido que cada instituto religioso está llamado a vivir una identidad carismática, es decir a seguir a Cristo, no sólo en los aspectos comunes a todos los institutos religiosos sino también en un sentido evangélico único. Según una síntesis propia. Es identidad carismática en cuanto que viene del Espíritu, es inspirada por El; expresa la razón de ser de un instituto religioso, la novedad que le aporta a la vida religiosa, a su apostolado y a la Iglesia; expresa su identidad específica dentro del contexto eclesial, aquello en lo que es diverso. De esta manera, cada instituto religioso participa de esa “base común” de la vida religiosa, al tiempo que vive su identidad específica en un seguimiento de Cristo propio al instituto y que constituye la “novedad” por la que el Espíritu suscita cada nueva forma de vida religiosa en y para la Iglesia, en y para el mundo. Es el lugar del carisma del fundador, su originalidad, su novedad. Esta originalidad tiene su raíz en aquel “rostro” particular de Cristo que el fundador fue descubriendo, aquella “faceta” de la vida del Señor que impactó al fundador y a sus primeros seguidores; aquella particular actitud de Jesucristo que permitió reconocer una necesidad en la sociedad y en la Iglesia y responder con un tipo de presencia, de vida y de apostolado. Así, la centralidad del voto de asociación para el servicio educativo de los pobres consiste en remitir a esa otra centralidad, la del seguimiento específico de Cristo que caracteriza a nuestro instituto en particular. Una centralidad del seguimiento específico de Cristo que ha de tocar el corazón de los Hermanos llevándoles a un contacto íntimo con “el Cristo de su vocación”: con el Cristo que educa, con el Cristo pobre, de los pobres y presencia salvífica en medio de ellos; con el Cristo que asocia y se asocia para vivir la misión del Padre. Con el Cristo de la niñez y de la juventud.

La centralidad del seguimiento específico de Cristo y los votos del Hermano De acuerdo con lo dicho más arriba, la centralidad del voto de asociación para el servicio educativo de los pobres remite a la centralidad del seguimiento específico de Cristo propio al instituto y al hacerlo “empapa”, “impregna”, “comunica”, “contagia” cada uno de los aspectos de la vida del Hermano y por lo tanto implica castidad, pobreza y obediencia.


La centralidad del voto de asociación para el servicio educativo de los pobres

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Según lo anterior la pobreza deja de ser abstracta y general y se transforma en la pobreza del Hermano de las Escuelas Cristianas que, sin dejar de participar de esa “base común” que es la pobreza de todos los religiosos, es vivida de una manera lasalliana en la que “el itinerario espiritual de su Padre, Juan Bautista de la Salle, la solida-

ridad con los hombres de hoy y las llamadas de la Iglesia, invitan a los Hermanos a modelarse un corazón de pobre, para convertirse en testigos de Dios, su única riqueza”(R 32). El itinerario fundacional fue un itinerario evangélico en el que La Salle y los primeros Hermanos descubrieron existencialmente a Cristo como presencia salvífica con los pobres.

El voto de obediencia, participando de los elementos comunes a los religiosos en la Iglesia, llega a ser vivido por el Hermano a la manera del carisma fundacional, lo cual quiere decir que se concreta en una obediencia lasallista donde “inspirándose en la

doctrina y el ejemplo del Fundador, que se sometió al ‘Cuerpo de la Sociedad’, los Hermanos viven su obediencia en clima de disponibilidad, dentro de una comunidad comprometida en el cumplimiento de la misión del Instituto” (R 36). Una faceta par-

ticular de la obediencia de Cristo marcó el itinerario de evangélico del Instituto naciente identificado como “Sociedad”. La castidad, participando de los elementos comunes a toda la vida religiosa, por la centralidad del voto de asociación para el servicio educativo de los pobres, es vivida por cada Hermano como una castidad original que “dispone a los Hermanos a vivir

en la unión de la comunidad, y sustenta su tarea educativa enseñándoles a amar a cada persona con amor gratuito y respetuoso. De este modo participan de la paternidad misma de Dios” (R 27). Este es el rostro de Cristo que marcó decisivamente al fundador y a los primeros Hermanos.

Pero, ¿qué sucede con el voto de estabilidad? Pues participa de la centralidad del voto de asociación para el servicio educativo de los pobres, al tiempo que informa y es informado del carácter original de cada una de las dimensiones de la vida de los Hermanos. Así,

“considerando la intención de su Fundador, que quiso una comunidad estable para responder a la necesidad siempre actual de la educación de los niños, los Hermanos hacen voto de estabilidad en el Instituto (…) para realizar su misión específica y vivir en comunión fraterna y apostólica, fieles al Instituto y a su espíritu, a sus Hermanos y a aquellos a quienes sirven en su ministerio” (R 42). Cada voto incluye la dimensión asociaciativa, cada voto contiene la perspectiva de servicio, cada voto implica el carisma educativo y cada voto conlleva la opción preferencial por los pobres.

Centralidad y consagración del Hermano No resulta indiferente que en la nueva formulación, la triada pobreza-castidadobediencia esté precedida del voto de asociación para el servicio educativo de los pobres y seguida del voto de estabilidad, es decir en medio de nuestros dos votos específicos. Así, la nueva redacción, antes que significar un llevar a segundo plano los votos de pobreza, castidad y obediencia de los Hermanos, significa su valorización, su concretización, su apropiación, de modo que todas estas dimensiones construyen, en


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armonía, la unidad de vida que cada Hermano entrega enteramente a la Trinidad, como respuesta a la consagración que ella misma les propone. Ya el Superior Hermano Álvaro decía: “Personalmente pienso que no es suprimiendo los tres votos clásicos como recuperaremos la originalidad primera, sino más bien haciéndolos girar en torno a la órbita de nuestra asociación para el servicio educativo de los pobres”3. Vale la pena señalar que el voto de asociación para el servicio educativo de los pobres y de estabilidad implican más que una obligación de Regla o unos votos privados; ellos tienen un carácter público en la Iglesia. Los cinco son votos públicos y no hay jerarquías dentro de ellos. Esto es lógico si se entiende que cada uno de ellos implica una dimensión de la vida que el Hermano entrega a la Trinidad: castidadafectividad, obediencia-disponibilidad, pobreza-solidaridad y estabilidad-temporalidad. La asociación para el servicio educativo de los pobres es la que da el tinte familiar a nuestra consagración, el cariz lasallista, el matiz original, el aroma de hogar, el color de lo nuestro, el sabor lasallista de la vida que los Hermanos generosamente entregan a la Trinidad. Entonces se podría decir que el consejo evangélico de castidad los Hermanos lo viven en asociación para el servicio educativo de los pobres, el consejo evangélico de pobreza lo viven en asociación para el servicio educativo de los pobres, el consejo evangélico de obediencia lo viven en asociación para el servicio educativo de los pobres y el voto de estabilidad lo viven en asociación para el servicio educativo de los pobres. Y que todos y cada uno de ellos abarcan, expresan y comprenden la totalidad de la persona que el Hermano entrega a la Trinidad como respuesta a la consagración que ella le propone. “Santísima Trinidad, me consagro enteramente a vos para procurar vuestra gloria” (R 25).

Conclusión La centralidad del voto de asociación para el servicio educativo de los pobres remite a la centralidad del seguimiento de Cristo propia de los religiosos y más específicamente al hecho carismático que da origen a nuestro instituto, es decir al rostro de Cristo que el Espíritu fue revelando en el instituto naciente, la faceta de la vida de Cristo que cautivó al Fundador y que él supo transmitir a sus Hermanos. Un Cristo que asocia y se asocia para el servicio de una misión educativa confiada por el Padre y que realiza como pobre en medio de los niños y jóvenes pobres, como presencia salvífica en medio de ellos. Este voto además de darle el color lasallista a la consagración, radicaliza el compromiso de seguimiento específico de Cristo “hasta el extremo”. Y por lo mismo también se puede decir que se vive el voto de pobreza hasta el extremo, se vive el voto de castidad hasta el extremo, se vive el voto de obediencia hasta el extremo y se vive el voto de estabilidad hasta el extremo. Es decir “entera-

mente”. 3

Álvaro Rodríguez Echeverría, FSC, Pasión por la esperanza: carisma y profecía de la vida consagrada. Ediciones San Pío X, Madrid 2007, p. 104.


LASALLIANA

RivLas 75 (2008) 3, 435-452

Per una storia del manuale scolastico

Il caso tipico dei FSC canadesi nell’Otto-Novecento Paul Aubin, FSC Centre interuniversitaire d’études québécoises, Québec

N

ella sua espansione missionaria, la Chiesa cattolica, non meno delle altre, ha visto nella scuola un mezzo prioritario per diffondere la sua visione del mondo. Per promuovere tale espansione, non solo ha favorito l’emigrazione – dall’Europa verso gli altri continenti – di strutture già collaudate, ma ha esportato anche strumenti didattici lungamente sperimentati per la trasmissione della cultura cattolica. Studiamo qui il caso paradigmatico dei manuali francesi utilizzati nel Québec. Ma perché un simile transfert quando il paese d’arrivo parlava la stessa lingua e praticava la stessa fede del paese d’origine? In quanto collettività a maggioranza francocattolica, che bisogno aveva il Québec di importare testi scolastici dalla Francia? Orbene, per circa duecento anni, si sono utilizzati nelle scuole primarie e secondarie del Canada francofono centinaia di manuali di diverse discipline, editi originariamente in Francia. L’avventura della comunità dei Fratelli delle scuole cristiane in terra canadese illustra bene questo fenomeno e fornisce un certo numero di spiegazioni.1 1

NdR - Una prima versione di questo saggio è stata presentata all’ International Standing Conference for the History of Education (Maynooth, Irlanda, settembre 1997). Una seconda versione è stata curata per il progetto “École et société au Québec: histoire des contenus scolaires”, sovvenzionato dal Consiglio delle ricerche in scienze umane del Québec, e come tale è apparsa nella rivista Histoire de l’éducation, Institut national de recherche pédagogique (INRP),

Paris, janvier 2000, n. 85, pp. 3-24, con il titolo “La pénétration des manuels scolaires de France au Québec. Un cas-type: Les frères des Écoles chrétiennes, XIXè-XXè siècles”. Una versione del medesimo studio, aggiornato al 2007, è quella che presentiamo ora al lettore italiano. L’Autore è docente ricercatore presso l’Università canadese di Laval, è specialista in biblioteconomia e in particolare nella catalogazione e informatizzazione della produzione ma-


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I. L’importazione di manuali lasalliani nel Québec Fondata in Francia alla fine del Seicento, la Società dei Fratelli delle scuole cristiane si occupa della alfabetizzazione e dell’insegnamento a ragazzi delle classi popolari in contesto urbano. Fortemente sconvolta dalla Rivoluzione francese, la congregazione rinasce all’inizio dell’Ottocento e si lancia in una politica di espansione. In Francia, la comunità fin dalle sue origini aveva prodotto dei manuali scolastici: si deve soprattutto al suo fondatore, il canonico Jean-Baptiste de La Salle (Reims 1651-Rouen 1719), la pubblicazione di una vasta gamma di scritti, tra cui un notissimo Traité des devoirs du chrétien che 150 anni più tardi avrà ancora un’enorme diffusione nel Québec come libro di lettura. I primi quattro Fratelli francesi arrivano a Montréal nel novembre 18372, e già nella primavera 1838 fanno pubblicare un primo trattato di aritmetica.3 Si servono inizialmente della rete locale di editori-tipografi-librai, ma dal 1869 creano una propria editrice autonoma – si pensi invece che la casa-madre di Parigi si lancerà nell’editoria solo agli inizi del Novecento – e dal 1890 si dotano pure di una tipografia in proprio. L’impresa editoriale conquisterà un posto di prim’ordine nell’editoria scolastica canadese durante la prima metà del Novecento. A partire dal 1960 l’editrice – allora designata con l’acronimo Lidec (=Librairie des écoles) – subirà profondi cambiamenti, conseguenti anche alle vicende dell’intera società di quei decenni, e verrà liquidata e assorbita dal 1985 dall’editore Guérin. Se i primi Fratelli insegnanti emigrati in Québec riescono a redigere e pubblicare molto rapidamente i propri testi di scuola, è altrettanto vero che essi potevano contare anche su un importante fondo originale in Francia – le pubblicazioni scolastiche dei loro confratelli – e non se ne privano affatto. La diffusione nel Québec dei manuali d’oltremare trova diverse spiegazioni.

nualistica scolastica francofona moderna e contemporanea; è ideatore e responsabile del sito http://www.bibl.ulaval.ca/ress/manscol/diaspora, che offre oltre 7000 titoli provenienti da una ventina di paesi, principalmente da Francia, Canada e Belgio. La catalogazione, tuttora in corso, è la prima tappa di un lavoro che mira alla futura redazione di una “storia del manuale scolastico”. Per la nostra rivista l’A. ha già pubblicato nel passato una Nota relativa al Progetto di ricerca sui manuali scolastici dei Fratelli delle scuole cristiane, RL 59 (1992) 1, 56-59. * Abbreviazioni utilizzate nel corso di questo articolo: - AFEC/M/P/R: Archives des Frères des Écoles Chrétiennes: Montréal/Parigi/Roma, secondo i casi - LIGEL: Librairie Générale de l’Enseignement Libre. 2 Per approfondire la storia dei FSC nel Québec la fonte più ricca e autorevole è: Nive VOISINE, Les Frères des Écoles chrétiennes au Canada. 1/La conquête de l’Amérique 1837-

1880 ; 2/Une ère de prospérité 1880-1946 ; 3/Inquiétudes et renouvellements 1946-1987,

éd. Anne Sigier, Québec, rispettivamente 1987, pp. 443 ; 1991, pp. 471 ; 1999, pp. 407. 3 La catalogazione dei manuali scolastici è in via di completamento. Visitare il sito indicato alla nota 1. Per un primo profilo delle conoscenze circa la storia del manuale scolastico, cf. Paul AUBIN, Le manuel scolaire dans l’historiographie québécoise, Université de Sherbrooke, Groupe de recherche sur l’édition littéraire au Québec, Sherbrooke 1997, pp. 151; Paul AUBIN, “Le manuel scolaire québécois entre l’ici et l’ailleurs”, in Monique LEBRUN, Le Manuel scolaire d’ici et d’ailleurs, d’hier à demain, Presses de l’Université du Québec, Québec 2007, 25-62.


Per una storia del manuale scolastico.

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1. Importazioni in fogli – Si ha documentazione che nel periodo iniziale una mezza dozzina di manuali redatti da Fratelli francesi e stampati in Francia, venne spedita in fogli sciolti per essere fascicolati e rilegati in volume nel Québec. Il primo direttore della comunità di Montréal, un certo frère Aidant, scrive al superiore generale a Parigi quattro mesi dopo il suo arrivo: Ho cercato di comunicare al Superiore di Saint Sulpice i motivi che vi impediscono di inviarci la Geografia; ma non li trova sufficienti per privare i nostri giovani di un libro così prezioso. Mi ha quindi pregato di fare un nuovo ordinativo in fogli: prima di rilegarli, si farà in modo di sopprimere quello che riguarda la Francia e si stamperanno ex novo uno o due pagine in sostituzione, e dove si parlerà dell’Inghilterra e dei suoi possedimenti americani, africani, ecc, come pure degli Stati Uniti confinanti col Canada4.[…].

L’esame delle copie dei testi Éléments de trigonométrie (1875) e Arpentage - levé des plans (1875), esistenti nella Bibliothèque Nationale del Canada porta alla seguente ipotesi: il tipo di carta del frontespizio, dove compare anche il nome dello stampatore-libraio locale Elzéar Vincent, è differente da quella del resto del libro e di qualità nettamente inferiore: nei due casi, il colophon indica “Tours, impr. Mame”. Ma questo modo di procedere sembrava superato negli anni 1880 e il superiore locale non manca di sottolinearne gli inconvenienti: “Se le opere francesi importate in fogli da Parigi ci venissero cedute allo stesso prezzo che ci verrebbe a costare stampandole qui, dovremmo ordinarne uno stock considerevole che però non sapremmo dove immagazzinare; guasti e deterioramenti nel frattempo rovinerebbero una buona quantità di volumi, il che farebbe lievitare il prezzo delle altre opere”.5 Il bisogno di colmare rapidamente le carenze di strumentazione didattica, la mancanza di autori locali per certe discipline specialistiche, come anche l’esiguità iniziale del mercato editoriale che non meritava investimenti superiori alla domanda: tali sembrano essere stati i motivi che giustificarono il ricorso occasionale ai manuali francesi, anche se non erano da sottovalutare i rischi delle spedizioni per battello.6 2. Ristampe integrali - Sarà soprattutto attraverso le ristampe integrali di opere dei loro confratelli francesi che i Fratelli del Québec faranno sentire la presenza della loro antica madrepatria. Dei 119 titoli che la comunità lasalliana pubblica fino alla fine dell’Ottocento, 26 opere (vale a dire il 21%) sono ristampe integrali di manuali editi 4

Dalla lettera di Frère Aidant al Superiore generale del 22 marzo 1838, AFECR, boîte 432a, n.141. Non è documentato che la richiesta sia stata esaudita. 5 Classiques canadiens. Autorisation demandée d’imprimer nos classiques en Canada, AFECR, boîte 411, dossier n. 8,2. 6 Segnaliamo un caso curioso in questo processo di diffusione dei testi scolastici francesi nel Québec. Nella collezione di libri rari dell’università di Laval si trova Exercices orthographiques d’analyse grammaticale, d’analyse logique […] di “F.P.B.” (Frère Philippe BRANSIET, allora superiore dei Fratelli a Parigi) e pubblicato a Montréal nel 1858 dall’editore L.J.Prégen; ora questa attribuzione dell’editore monrealese è stampata su una etichetta incollata in fondo alla pagina del frontespizio; sotto l’etichetta si può leggere “Tours, Mame”; si presume quindi che l’editore Prégen abbia acquistato da Mame (principale editore dei Fratelli in Francia) un certo quantitativo di copie di questa grammatica e che abbia voluto smerciarla sul mercato canadese facendo credere che si trattasse di una pubblicazione locale; nulla ci permette di pensare che la comunità lasalliana fosse coinvolta in questa operazione.


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in Francia. Questa percentuale sale a 38% se non si tien conto di certe categorie di manuali – storia del Canada, grammatiche inglesi, ecc. – che non potevano avvalersi di fonti straniere. Nel Novecento, la situazione cambia radicalmente: su 295 titoli pubblicati dai Fratelli tra il 1900 e il 1965, solo 19 sono ristampe di testi originari francesi, e per di più la gran parte di queste ristampe interviene proprio nel periodo di emergenza della Seconda guerra mondiale. Non sorprende che la maggioranza delle ristampe di testi francesi si collochi nel settore dell’insegnamento della Lingua francese. Le dodici prime grammatiche pubblicate tra il 1842 e il 1881 sono tutte riproduzioni integrali di manuali francesi, e sono: uno dei quattro sillabari (Syllabaire ou premiers exercices de lecture en rapport avec la méthode d’écriture des frères des écoles chrétiennes, 1875); i due primi libri di lettura (Lectures instructives et amusantes, 1864, e Lectures courantes faisant suite au premier livre de lecture, 1875), ai quali bisogna aggiungere sia il Nouveau traité des devoirs d’un chrétien, 1841, sempre catalogato e adottato come libro di lettura, come anche il loro unico dizionario (Petit dictionnaire ou lexique orthographique mis en rapport avec la dernière édition du dictionnaire de l’Académie, 1895 circa. Nel settore della Matematica la tendenza a riprodurre libri di testo francesi è meno evidente: su sei manuali di calcolo solo uno (Exercices de calcul sur les quatre opérations fondamentales de l’arithmétique, c.1873) viene ristampato in Canada, mentre gli altri cinque si presentano sotto forma di quaderni-eserciziari redatti nel Québec da un fratello francese; su undici manuali di aritmetica si ristampano solo i primi due (Nouveau traité d’arithmétique contenant toutes les opérations de calcul […], 1838, e

Nouvelle arithmétique analytique et synthétique des académies, des écoles modèles et commerciales […], 1858; due manuali di trigonometria e di agrimensura, stampati in Francia ma verosimilmente fascicolati e rilegati in Québec. La geografia è oggetto di una sola ristampa integrale di un manuale francese (Abrégé de géographie commer-

ciale et historique, suivi d’un précis de cosmographie selon le système de Copernic

[…], 1842), mentre il solo trattato di Storia sacra redatto in francese nell’Ottocento (Cours moyen d’Histoire sainte à l’usage des écoles chrétiennes, c.1884) è ugualmente oriundo dalla Francia. Va da sé che le due opere dovute alla penna del Fondatore – Les règles de la bienséance et de la civilité chrétienne, con due edizioni in Québec prima dell’arrivo dei Fratelli, insieme al citato e indissociabile Nouveau traité des devoirs du chrétien -, come pure la traduzione inglese di quest’ultimo (A new treatise of the duties of a christian, 1862), anche se fortemente rimaneggiate, sono contabilizzate con le pubblicazioni di origine francese. L’influenza della Francia nell’editoria scolastica canadese diminuisce sensibilmente nel Novecento. Le cifre, in numero assoluto, possono trarre in inganno a prima vista perché si passa da 23 ristampe integrali nel secolo precedente a 19: sembra che permanga un continuum nel ruolo della madrepatria, in realtà le cose stanno in ben altri termini. Infatti, come ricordato sopra, su 295 titoli pubblicati dalla congregazione tra il 1900 e il 1965, i 19 manuali francesi ristampati o diffusi in Canada non rappresentano che lo 0,06 %. Per di più, 14 di questi 19 titoli, compaiono nel 194142, e sono un risvolto connesso alle difficili condizioni belliche, e inoltre sono desti-


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nati a livelli scolastici non raggiunti ordinariamente dalle precedenti pubblicazioni dei Fratelli canadesi.7 Il Cours de géométrie, pubblicato nel 1964, può essere incluso nel “ciclo di guerra”, trattandosi di un manuale redatto ancora da confratelli francesi e stampato in Francia, ma con la particolarità che è uscito in coedizione tra le case editrici dei Fratelli francesi e quella del Québec. Questo insieme di testi era stato preceduto nel 1919 dal Dictionnaire du bon langage8 del sacerdote canadese Étienne Blanchard, e dal Petit dictionnaire français nel 1922. Non si è potuto reperire il manuale francese del quale gli Exercices de calcul sur les quatre opérations fondamentales de l’arithmétique sarebbe una copia conforme.9 Infine la procura di Montréal, sotto la ragione sociale Lidec, si associa a Mame et Hatier, nel 1967, per pubblicare un

Dictionnaire usuel du français moderne – augmenté d’une section historique et géographique propre au Canada: dei tre compilatori uno è il Fratello canadese Raymond Brisebois.

3. Adattamenti, rifacimenti - Tra le ristampe integrali e le produzioni ex novo c’era posto ancora per pensare ad adattamenti di testi redatti in Europa, sui quali operare quei ritocchi indispensabili per renderli intelligibili in Canada. È il caso del manuale di aritmetica del 1838 già citato, in cui il sistema metrico cede il posto al sistema delle misure inglesi.10 Ma è il Syllabaire – premier livre del 1872 (144 pp) che può illustrare meglio il processo di adattamento. Delle 23 prime lezioni che lo compongono, 22 sono assai vicine a un modello francese molto più breve, pubblicato anteriormente in Francia e che la comunità canadese pubblica in extenso nel Québec nel 1875: Sylla-

baire ou premiers exercices de lecture en rapport avec la méthode d’écriture des frè-

7

Abrégé de l’exposition de la doctrine chrétienne; Leçons de langue française; Précis d’histoire littéraire; Cours abrégé de littérature; Cours d’algèbre conforme aux derniers programmes de l’enseignement secondaire – classe de seconde, de première et de philosophie; Exercices d’algèbre; premières notions de sciences à l’usages des élèves se préparant au certificat d’études primaires; Notions sur les sciences Physiques et naturelles; Cours d’histoire naturelle; L’Antiquité et le Moyen Âge; Les temps modernes et l’époque contemporaine; Simples notes explicatives des tableaux silhouettiques sur la vie de Jésus; Histoire sainte et vie de N.-S. Jésus-Christ ; Histoire de l’Église depuis sa fondation. La maggior parte dei manuali redatti in

tempo di guerra riportano, come autore, la dizione “par une réunion de professeurs”, formula con cui i Fratelli francesi firmavano le loro opere già da parecchi decenni. 8 Nel presentarne la quarta edizione, Bibliographie du Québec (7-602) appone una precisazione: “Éd. originale, Paris: Librairie Vic et Amat, 1914, publiée sous le titre: Dictionnaire du bon langage”. Siamo qui in presenza di uno dei rari casi in cui la congregazione canadese pubblica un manuale il cui autore non è uno dei suoi membri. 9 Fr. Oswald, proc. Liste d’ouvrages de l’Institut ayant fait l’objet d’une adaptation et d’une reproduction 20 mars 1926, AFECP, Montréal, droits d’auteur 1925. Un manuale francese con lo stesso identico titolo era già stato ristampato nel Québec tra il 1873 e il 1911, ma non sembra essere la fonte di quello del 1925. 10 “Mi sono informato sulle pratiche di didattica aritmetica in uso qui nelle scuole pubbliche, ma non ne ho trovato alcuna che sia comparabile alla nostra quanto a chiarezza di metodo. Mi sono allora deciso a ricavarne la teoria cambiando i metri in aune (antica misura di lunghezza, ndt) o in tese francesi secondo i casi, e i franchi in “louis” (Luigi) che sono in uso qui da noi”. (dalla lettera del F. Aidant al “Très vénérable Frère”, 22 marzo 1838, AFECR, boîte 432a, n.141).


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res des écoles chrétiennes (36 pp).11 In certi casi le differenze si riducono a leggeri

ritocchi di forma; in altri si introducono modifiche testuali per tingere di riferimenti locali canadesi un testo costruito su riferimenti esclusivamente francesi (così, per esempio, nella lezione Objets alimentaires si precisa che “noi abbiamo in Canada tutto quanto si possa desiderare in fatto di alimentazione: un pane eccellente e della carne in abbondanza”). La riedizione 1891 dello stesso sillabario introduce ulteriori modifiche rispetto all’edizione francese 1875: Qualche esempio: “le cler-gé cha-ri-ta-ble” della versione francese diventa “le cler-gé cha-ri-ta-ble de ces lieux”; “l’or-gue de la ba-si-li-que” diventa “l’or-gue de la ba-si-li-que de Qué-bec”; scelte simili si fanno anche in ambito di illustrazioni: la ‘Sacra Famiglia’ del sillabario 1875 lascia il posto a un’incisione di Jacques Cartier nell’edizione 1891; si introducono brani letterari o citazioni della letteratura canadese in sostituzione di brani di autori francesi… Concludendo, si può dire che il solo sillabario pubblicato dai Fratelli di Montréal nel Novecento – Lecture par la méthode phonique - première partie del 1918, riedito nel 1935 col titolo Cours de lecture - premier livre (par la méthode phonique) – rivela una chiara volontà di identificarsi con il contesto locale, magari con una semplice illustrazione di un giocatore di hockey o nominando la capitale federale. Resta comunque innegabile l’ispirazione di questo manuale dai sillabari francesi anteriori, se ad ammetterlo è lo stesso superiore di Montréal.12 Possiamo segnalare, a titolo d’esempio, altri casi di libri di testo adattati. In ambito grammaticale, fin dal 1882 i Fratelli del Québec cessavano di ristampare grammatiche francesi per redigere in proprio le loro grammatiche, senza tuttavia emanciparsi totalmente dalla ‘matrice’ francese13; ma qui bisognerebbe parlare piuttosto di una metodologia complessiva ispirata ai manuali francesi e non tanto di brani testuali ripresi o sostituiti nella loro materialità. In geografia gli adattamenti sono di un’ovvia evidenza elementare: per esempio, là dove il testo francese definisce “isola”(île) dando come esempio la parigina île Saint-Louis, il testo canadese porta l’île d’Orléans, sita appunto nei pressi della città di Québec (Géographie du cours élémentaire ou inférieur, à l’usage des écoles chrétiennes, 1873). Se certi alunni dubitavano ancora dell’origine metropolitana, fino a quella data, delle opere geografiche dei Fratelli, non avevano che da leggere la prefazione del Manuel de Géographie élémentaire del 1874: Pubblicando questo manuale, la nostra intenzione non è di presentare un’opera nuova, ma piuttosto una nuova edizione della nostra Geografia stampata fin dagli inizi delle nostre scuole in Canada […], essa stessa ispirata in gran parte all’opera di frère

11 Si può supporre che i Fratelli di Montréal avessero in mano, fin dal 1872, una copia di quel sillabario francese conciso cui si sono ispirati per pubblicare il loro manuale; nel 1875 avrebbero deciso di pubblicare in extenso la versione francese più breve e che poteva figurare come un condensato dell’opera del 1872. 12 Frère Manuel-Paulin, Liste des ouvrages de l’Institut ayant fait l’objet d’une Adaptation et d’une Reproduction Année 1935, AFECM, T58 C39. 13 Lo testimonia, per esempio, il fatto che la definizione di grammatica data dal manuale francese del 1881, Leçons de lexicologie - cours élémentaire, viene ripresa alla lettera dalla gran parte delle successive grammatiche del Québec e conservata tal quale fino al 1950.


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Alexis, professore di Geografia all’ École Normale de Belgique, e autore di numerose pubblicazioni molto diffuse sia in Belgio che in Francia.14

Adattamenti redazionali, dunque, per non dire maquillage in certi casi, cui si ricorre soprattutto nei primi decenni di insediamento dell’opera lasalliana nel Québec, dato che in seguito, nel Novecento, gli autori canadesi prenderanno sempre più decisamente le distanze dal modello europeo. L’ultimo caso di adattamento di un certo rilievo è quello relativo al testo Histoire sainte - cours moyen che fa fortuna tra il 1921 e il 1959: si tratta della “nouvelle édition

illustrée” di un manuale dal titolo pressoché identico edito la prima volta nel 1884, il cui autore era francese (il frontespizio porta le iniziali F.I.C., alias frère Irlide Cazaneuve, superiore generale della congregazione a Parigi). 4. Importazione di libri rilegati – Occorre ancora considerare il caso di libri scolastici pubblicati in Francia e utilizzati tal quali nel Québec senza subire ristampe o ritocchi redazionali. È il caso dell’editoria relativa al disegno industriale. Fin dal 1878 il superiore di Montréal tenta, senza successo, di far approvare il metodo di disegno utilizzato dalla sua congregazione in Francia.15 È risaputo che la mancanza di approvazione di un manuale non ne proibisce affatto l’utilizzazione. Così, quando nel 1891 gli ispettori ministeriali procedono a un’indagine nelle scuole circa l’andamento di questa disciplina, cinque delle trentatré risposte ricevute indicano chiaramente di utilizzare il manuale dei Fratelli, e lo stesso ispettore di Louiseville precisa che nelle scuole della sua città si adottano “cahiers imprimés par les Frères des écoles chrétiennes”.16 Siccome non si trova traccia da nessuna parte della stampa di manuali di questa disciplina da parte dei Fratelli del Québec, bisogna concludere che essi utilizzavano libri importati.17 Quando i loro confratelli francesi fondano a Parigi la loro casa editrice – Ligel, acronimo di Librairie générale de l’enseignement libre – l’esportazione non fa che incre14

NdT – Si tratta dello stesso fr. Alexis, di cui Rivista lasalliana ha proposto un recente profilo bio-bibliografico: Alain HOURY, F. Alexis Gochet (1835-1910), ou quand la Géographie devenait une science, RivLas 75 (2008) 2, 277-283. 15 [frère Réticius], Aux honorables membres du comité catholique du Conseil de l’Instruction publique, s.l., s.n., [1884], p.1. Paul de CAZES au frère Réticius, 3 octobre 1885, Archives nationales du Québec, Éducation. Correspondance expédiée, M93/44. 16 Paul AUBIN et Michel SIMARD, Les manuels scolaires dans la correspondance du Département de l’instruction publique 1841-1899, inventaire, Université de Sherbrooke, Groupe de recherche sur l’édition littéraire au Québec, Sherbrooke 1997, entrée n. 950. 17 Si può consultare negli archivi AFECM una collezione di manuali stampati in Francia. La loro presenza nel Québec non significa necessariamente che sono stati importati in vista di diffonderli sul posto; può trattarsi, in alcuni casi almeno, di copie importate nei bagagli di tale o tal altro individuo. Nel nostro caso, non è da escludere che ci sia stata anche una diffusione commerciale di uno o più testi di disegno, di cui si possono appunto reperire copie negli stessi archivi. Oltre ai cinque ispettori che hanno documentato l’adozione di testi redatti da insegnanti lasalliani, altri due, in particolare quello dell’Assunzione, sottolineano che ogni istituzione lasalliana segue un suo proprio metodo per il disegno; tale consuetudine di permettere ad ogni comunità religiosa di adottare i suoi propri manuali – approvati o meno – apriva certamente ai Fratelli lasalliani un mercato interessante.


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mentarsi. Non c’è dubbio sul fatto che questa esportazione della produzione dei Fratelli di Francia ha trovato nel Québec una clientela interessante a partire dal 1950. A frère Clément, direttore della procura di Montréal che punta a diventare il solo intermediario in Canada, frère Charles, direttore di Ligel, risponde nel 1958: Abbiamo notato, in effetti, un importante incremento delle nostre relazioni commerciali con il Canada e non possiamo che rallegrarcene […]. Abbiamo certo un interesse prioritario a fare dell’esportazione. Siamo registrati tra i migliori esportatori di manuali francesi dagli organismi ufficiali del nostro paese. Se dovessimo rinunciare alle nostre esportazioni in Canada, rischieremmo di perdere il posto che ci siamo conquistato e che desideriamo migliorare ulteriormente; in caso contrario, ne risulterebbe compromessa gravemente la nostra azienda. Sorgerebbero inoltre incresciosi conflitti con i nostri editori nazionali. Le editrici Hachette, de Ginkgo, L’Écolier ci fanno in effetti degli ordinativi importanti per il Canada, ed escludiamo di dover dir loro un giorno che abbiamo concesso l’esclusiva commerciale a uno solo dei rappresentanti editoriali del vostro paese. D’altronde, se consideriamo il totale delle nostre vendite nella sola città di Montréal, vediamo che le fatture della vostra Procura-libreria rappresentano per noi meno di un terzo di quelle delle altre librerie o organismi della vostra città. Come può lei immaginare, stando così le cose, che noi dichiariamo adesso a questi grossi clienti che d’ora in poi non potremmo più servirli e che dovrebbero passare solo dalla vostra Procura? Rischieremmo di irritarli, anzi li incoraggeremmo a cercare altrove manuali diversi dai nostri. In questo modo non lavoreremmo né per i vostri interessi né per i nostri. A nostro avviso, la soluzione ottimale non è quella di stampare voi i nostri libri, e nemmeno quella di concedere l’esclusiva commerciale alla vostra Procura, ma piuttosto quella di attivare da parte vostra un marketing più incisivo in modo che questi clienti si rivolgano di preferenza a voi invece che ordinare i nostri manuali a questo o a quest’ altro libraio di Montréal. Da parte nostra pensiamo – e l’esperienza avuta con un altro paese distante dal vostro ci conferma che stiamo conducendo una buona politica editoriale – pensiamo che voi potreste accrescere in misura considerevole la vostra cifra d’affari vendendo i nostri libri, senza assumervi il peso di farne voi l’edizione, dal momento che le condizioni che riserviamo ai librai vi lasciano un margine di utili interessante.18

Non disponiamo di dati certi che permettano di calcolare l’entità del mercato canadese per l’editore parigino; tutt’al più ci si può fare un’idea dagli ordinativi che la procura di Montréal chiede a Parigi. Nel 1962, risolto il contenzioso dei “livres de guerre”, la procura di Montréal chiede a Ligel 30.000 copie di un testo di geometria con relative 3000 guide per l’insegnante, e insieme 10.000 copie di un testo di fisica: Ligel dovrà concedere l’esclusiva delle vendite di queste due opere in Canada e menzionare in copertina le due librerie dei Fratelli canadesi, quella di Montréal e quella di Québec. Ligel accetta queste condizioni ma solamente il manuale di geometria – Cours de géométrie – riporta la doppia menzione, perché Ligel disponeva di uno stock del manuale di fisica sufficiente per soddisfare la richiesta canadese senza aver bisogno di 18 AFECP, Dossier Ligel éditions - Litige avec Montréal. Evidentemente il direttore di Ligel ignora qui che i suoi confratelli di Montréal ristampano manuali francesi fin dal 1941, e non c’è traccia che il direttore della Procura di Montréal l’abbia informato in seguito. Questa ‘dimenticanza’ gli sarà comunque evocata quattro anni più tardi. In un’altra lettera datata 1958, il direttore dell’editrice parigina afferma di enumerare tra i suoi clienti nel Québec una decina di distributori, tra cui Fides, Granger, Beauchemin et Dussault.


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farne una ristampa. L’anno seguente, i Fratelli di Montréal ordinano ancora a Parigi 10.000 copie del manuale di geometria e 1000 di un manuale di aritmetica.19 Nel 1965, Lidec importa ancora altri manuali di geometria e di fisica – la lettera rintracciata documenta questi ordinativi ma senza precisarne la quantità – e rileva da Beauchemin uno stock di testi di letteratura - Littérature vivante, di Louis Chaigne - editi da Ligel e che fino ad allora erano distribuiti in Canada da Beauchemin. Questi dati, per quanto frammentari, permettono di intravedere la consistenza del mercato del manuale scolastico dalla Francia verso il Québec tra il 1950 e il 1970, e il ruolo svolto dai lasalliani canadesi in tale diffusione; e fanno luce sui non pochi problemi che l’editrice parigina creerà all’editrice consorella di Montréal quando verrà a sapere che i confratelli d’oltre Atlantico, durante la guerra e anche dopo, avevano ristampato libri francesi senza le dovute autorizzazioni dell’editrice titolare.20 5. Autori francesi che scrivono manuali nel Québec – Dobbiamo considerare ancora un’altra forma di influenza francese nella penetrazione dei manuali scolastici della congregazione nel Québec: il fatto, cioè, di alcuni Fratelli francesi redattori di manuali in Canada. Questo si è verificato soprattutto nei primi decenni, quando la comunità oriunda dei religiosi insegnanti non aveva ancora sufficienti reclute native del Québec.21 Il fratello francese Adelbertus (Pierre-louis Legendre) – uno dei quattro fondatori del 1837 – sarebbe l’autore di Série de questions sur les principales vérités de la religion (1869), del Manuel du catéchiste ou questionnaire avec réponses sur la doctrine chrétienne (1878?), e del Questionnaire explicatif du petit catéchisme de la province ecclésiastique de Québec (1881).22 Sembra che abbia redatto anche Nouvelle géographie primaire illustrée à lusage [sic] des écoles chrétiennes de la puissance du Canada (1876) e Nouvelle géographie intermédiaire illustrée à l’usage des écoles chrétiennes 19 Non si sa quale fosse il titolo esatto del manuale di aritmetica; d’altra parte la sua diffusione in Canada sembra abbia sofferto di qualche grave inconveniente, come fa fede una lettera di rimostranze indirizzata al direttore di Ligel da parte di fratel Hector Gravel, professore di matematica a Mont-Saint-Louis. AFECP, Dossier Ligel éditions - Litige avec Montréal . 20 Le informazioni provengono da AFECP, dossier Procure 1900-1950 Ligel (1924-1964), e dossier Ligel éditions-Litige avec Montréal. 21 Analizzando un caso analogo, Clara BRAFMAN prende in considerazione i libri scolastici redatti in spagnolo da insegnanti francesi residenti in Argentina: “Les manuels scolaires de lecture d’origine française en Argentine”, in Histoire de l’éducation, janvier 1996, 63-80. 22 Nive VOISINE, Les Frères des écoles chrétiennes et l’éducation de la foi. Session d’étude, 56, Société canadienne d’histoire de l’église catholique, s.l.1989, pp. 74-75. Lo studioso Raymond BRODEUR (Les catéchismes au Québec,1702-1963, Presses de l’Université Laval, Sainte-Foy 1990, p. 186), a proposito di una nota manoscritta sul frontespizio della copia del Questionnaire explicatif conservata negli AFECM, fa sua la stessa affermazione. Bisogna però ammettere che l’uso dell’anonimato nelle pubblicazioni didattiche dei religiosi di quel periodo obbliga a molta prudenza circa l’attribuzione delle paternità degli scritti. Cf. inoltre Mélanie LANOUETTE, Entre tradition et innovation: l’enseignement du catéchisme chez les Frères des écoles chrétiennes au Québec 1936-1946. Mémoire de M.A. (Histoire), Université Laval, 2000, pp. 160; Paul-André TURCOTTE, La socialisation scolaire du croire et sa gestion institutionnelle. Bible, catéchisme et histoire de l’Eglise à l’école publique québécoise (1905-1970), in Social Compass 54 (2007) 1, 49-62.


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de la puissance du Canada (ambedue pubblicate inizialmente nel 1876 e ambedue tradotte in seguito in inglese) ; e ancora nel 1876, fr. Adelbertus avrebbe pubblicato Géographie illustrée - cours moyen tradotto pure in inglese e una serie di tre quaderni di Exercices cartographiques (1882 circa).23 Un altro caso è quello di fratel Romez: giunto in Québec a seguito delle leggi Combes24, professore per lunghi anni nel principale collegio dei Fratelli di Montréal, il “Mont-Saint-Louis”, è considerato (in particolare dagli esperti della Bibliothèque nazionale du Québec) l’autore diretto o comunque il revisore di un certo numero di opere: Lectures courantes - deuxième livre (1916), Lectures graduées - troisième livre (1917), Lectures littéraires et scientifiques - quatrième livre (1921), Arithmétique cours moyen.II-IV année (1925) e Arithmétique-cours primarie supérieur (1925). Per i primi due titoli disponiamo della testimonianza dell’autore. La copia del Cours primarie supérieur conservata negli archivi di Roma ha anche una dedica firmata “dall’autore Frère Romez”; l’anno prima il medesimo scriveva al direttore della Procure générale di Parigi: Ho appena terminato un corso medio di Aritmetica per le nostre scuole del distretto di Montréal, e mi si domanda di rimettermi immediatamente all’opera per redigere il corso elementare che si vorrebbe stampare a luglio prossimo. Le sarei riconoscente se, per agevolare il lavoro, mi invierà tre o quattro tipi di corsi elementari di Aritmetica pubblicati da diverse editrici tra le più note e affidabili. Ho già quello dell’Istituto.25

Presenza dunque del manuale scolastico dalla Francia al Québec tramite questa comunità di religiosi insegnanti, presenza che si spiega con diverse ragioni, prima delle quali la rarità. Poco studiato, questo fattore era oggetto di troppe allusioni nel carteggio del Dipartimento dell’istruzione pubblica nell’Ottocento perché lo si possa passa-

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In questo caso fa fede la registrazione del copyright a nome del Fratello. Ma, come per l’anonimato, ci vuole prudenza. Fintanto che la comunità lasalliana non ha uno statuto legale nel Québec, fa registrare i diritti d’autore sotto il nome di uno dei suoi membri per premunirsi contro possibili plagi (cosa che l’esperienza poteva documentare fin dal 1840); di solito si utilizza il nome del superiore locale che però non è mai, o quasi mai, l’autore materiale, mentre in Francia si metteva sistematicamente il nome o l’acronimo del superiore generale (così il frère Philippe BRANSIET figurava con la sigla F.P.B.). Nei pochi casi in cui, nel Québec, il copyright è registrato sotto il nome di una persona diversa dal superiore, si tratta presumibilmente di un riconoscimento eccezionale dovuto all’identità dell’autore. Il fr. Aphraates, per esempio (L.-F.-N. DUBOIS) - francese come il citato fr. Adelbertus ma arrivato qualche anno più tardi - avrebbe redatto un buon numero di manuali scolastici, sempre stando alla formula del copyright e alla tradizione della comunità. 24 Sull’arrivo di un nuovo contingente di Fratelli francesi all’inizio del secolo, vedi Guy LAPERRIERE, Les congrégations religieuses de la France au Québec, 1880-1914, tome 2: Au plus fort de la tourmente 1901-1904, Presses de l’Université Laval, Sainte-Foy 1999, pp.450-460 : « […] on reconnaîtra volontiers [leur] grande culture et [leur] compétence intellectuelle » (p. 457). 25 F. Romez au F. Directeur, 24 décembre 1924, AFECP, Canada correspondance 19241943. Si può notare qui che l’autore non si limita a consultare solo i libri interni della sua comunità.


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re sotto silenzio.26 E anche nel Novecento, quando i Fratelli di Montréal ristampano, durante la seconda guerra mondiale, una quindicina di manuali redatti da confratelli francesi, si trattava con ogni probabilità di colmare un vuoto: la guerra aveva imposto il blocco alle importazioni europee destinate ai licei classici e la produzione locale non era in misura di soddisfare la domanda delle scuole secondarie allora in piena espansione.27 Pertanto è nel rapporto dialettico tra le due forze in presenza – lo Stato che regola e la comunità che produce – che vanno cercate le principali spiegazioni del fenomeno.

II. L’esportazione di libri di testo: i fattori di una politica editoriale Al tempo in cui la comunità lasalliana si insediò nel Québec nel 1837 non esisteva alcuna legislazione relativa alla produzione e al commercio del manuale scolastico. A scuola si utilizzavano indifferentemente documenti diversi, giornali, riviste devozionali, e anche qualche libro di testo. Bisogna aspettare il 1860 per vedere una prima timida regolamentazione da parte del Consiglio della pubblica istruzione. Tale organismo esigeva libri locali – canadesi, si precisava – ma per lungo tempo questo fu solo un pio desiderio. A riprova, si pensi che su 26 manuali di origine francese ristampati in Québec durante l’Ottocento, la comunità lasalliana domanda e ottiene l’autorizzazione solo per sette titoli e non subisce alcuna penalizzazione amministrativa sulla produzione e lo smercio degli altri 19.28 Un lasciar fare che si è protratto fino a metà del Novecento, come è documentato dalla stampa di una quindicina di manuali francesi a partire dal 1940 e dai rapporti commerciali che l’editrice lasalliana di Parigi continua a intrattenere con una dozzina di rappresentanti-librai canadesi col tacito consenso del governo locale. In faccia al potere politico che voleva proibire – tale appunto era il tono del discorso ufficiale, in mancanza di normativa specifica – o per lo meno frenare il ricorso al manuale scolastico straniero avanzando tra l’altro il motivo della uniformità, si ergeva un altro potere pronto a difendere la propria politica culturale, invocando l’esigenza di un’altra uniformità, quella della propria tradizione. 1. Una comunità solidale nella sua prassi pedagogica – A prescindere dal mercato del manuale scolastico e dalla normativa che disciplinava o meno l’editoria, la comunità lasalliana venuta dalla Francia ha un altro motivo per attenersi alla sua propria pro26

Paul AUBIN e Michel SIMARD, Les manuels scolaires dans la correspondance du Département de l’instruction publique 1842- 1899, inventaire, 1997, pp. 342 (il « département » è qui si-

nonimo di « ministero »). 27 Paul-André TURCOTTE, L’enseignement secondaire public des frères éducateurs (19201970), Bellarmin, Montréal 1988, pp. 220. Cf. una sintesi integrativa di questo saggio: Id., « Cultura, religione e modernità nell’insegnamento secondario pubblico in Québec (19201990)», in Religioni e società, rivista di scienze sociali della religione dell’Università di Firenze, XIII, n. 32, sett-dic. 1998, pp. 34-55. 28 Sul ruolo delle autorità in merito ai libri di testo, cf. Paul AUBIN, L’État québécois et les manuels scolaires au XIXè siècle, Université de Sherbrooke, Groupe de recherche sur l’édition littéraire au Québec, Sherbrooke 1995, pp. 119.


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duzione manualistica: ed è la fedeltà alla linea pedagogico-didattica della tradizione, e quindi ai libri di testo che ne sono l’espressione più tangibile e collaudata. Inoltre, per via della frequente mobilità dei religiosi insegnanti da una scuola all’altra, l’uso degli stessi manuali facilitava il loro adattamento al nuovo ambiente scolastico.29 E ancora, l’uso delle proprie pubblicazioni didattiche garantiva alla congregazione il mantenimento di una certa ortodossia. La circolare n.107/1840 del superiore generale frère Philippe è esplicita in merito ai libri di testo: “(i Fratelli) sono invitati a non adottarne altri, al fine di conservare tra noi quella continuità di linea didattica tanto necessaria al buon ordine e alla buona gestione delle scuole”.30 Si capisce dunque come la congregazione miri a uniformarsi all’uso comune dei propri strumenti pedagogici, a prescindere dal luogo dove si trova ad operare. I redattori di manuali nel Québec manterranno la stessa posizione lungo tutto un secolo. L’autore di una ricerca redatta a Montréal nel 1881 concludeva: “I membri di questa commissione [della redazione dei manuali] auspica che le analoghe commissioni degli Stati Uniti procedano alla stessa maniera, di modo che in tutta la grande famiglia del Venerabile La Salle ci sia, nell’insegnamento, unità di metodi, di procedure, come c’è unità di intenti e di ideali".31 Settant’anni dopo i nuovi membri dello stesso comitato esprimeranno una preoccupazione analoga sotto la penna di F. Raymond Brisebois: “I nostri libri sono stati redatti in conformità ai metodi moderni più collaudati ma valorizzando anche i procedimenti più recenti. Hanno le loro radici nel ricco patrimonio lasciatoci dai fratelli che ci hanno preceduto e nella tradizione dell’intero Istituto”.32 Ma questa volontà dell’autorità francese di imporre i suoi propri manuali non sarebbe forse un indizio di neo-colonialismo? Davanti al rifiuto del Consiglio dell’Istruzione pubblica di approvare i manuali dei Fratelli per l’insegnamento del disegno e della grammatica, il superiore delle scuole lasalliane del Québec, francese d’origine, risponderà nel 1884 con una lunga arringa costruita sulla base del successo ottenuto da questi manuali oltre Atlantico: quel che ha valore in Francia vale anche in Canada.33 C’è poi da introdurre un altro dato per spiegare il successo dei manuali lasalliani francesi nel Québec, specie nella seconda metà dell’Ottocento. Nonostante la rottura dei legami politici, la Francia aveva continuato ad influenzare la cultura canadese. Ma di quale Francia si tratta? Una lunga dissertazione anonima pubblicata nel 1886 – 29

Fino al 1964 le comunità religiose operanti nel settore scolastico pubblico sottoscrivevano con le autorità locali (le cosiddette “commissions scolaires”) un accordo collettivo, secondo il quale le comunità conservavano il diritto di designare e intercambiare a propria discrezione i soggetti per coprire i posti cattedra nelle varie istituzioni da loro dipendenti. 30 Cf. Noms de quelques frères ayant collaboré à la composition des classiques de notre institut, AFECR, boîte KA 753, dossier 1, entrée « Arithmétique ». Fin dall’inizio dell’Ottocento esisteva ben una normativa sull’adozione dei manuali scolastici in Francia, ma l’osservanza un po’ blanda di tali norme permetteva di fatto alla congregazione di adottare i testi di produzione propria. Cf. Alain CHOPPIN, Les manuels scolaires. Histoire et actualité, 1992, pp. 24-25. 31 Propositions et questions contenues dans le Rapport de la Commission [...], AFECM, T58 C66c. 32 Comité des livres 1946-1955, AFECM, T58 C40. 33 [Frère Réticius], Aux honorables membres du comité catholique du Conseil de l’Instruction publique, s.l., s.n. [1884], pp. 1-15.


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L’éducation ou la grande question sociale du jour: recueil de documents propres à éclairer les gens de bonne foi – mostra quanto gli ultramontani del Québec diffidasse-

ro dell’influenza di una Francia laicizzata: vi si denuncia l’ispettore dell’Istruzione pubblica, Gédéeon Ouimet, e il direttore delle scuole dipendenti dalla Commissione scolastica di Montréal, Urgel Archambault, che hanno sponsorizzato la visita di due maestre francesi delegate da Jules Ferry, e vi si mettono in parallelo testi ufficiali del Ministero dell’educazione francese con testi del Dipartimento dell’istruzione pubblica del Québec, per dimostrare quanto quest’ultimo, per quanto cattolico, si ispiri piuttosto a un modello laico. Ora, per gli ultramontani, la comunità di origine francese presentava una garanzia formale di ortodossia; essa veicolava, in particolare coi suoi manuali, il pensiero corretto della Chiesa cattolica e, di conseguenza, nulla si opponeva a che si adottasse nella scuole la produzione didattica lasalliana. Non è un caso se l’autore anonimo del pamphlet ricorda la “guerra da corsari” che gli ispettori pubblici muoverebbero al Traité des devoirs du chrétien, come ricorda il difensore del diritto della congregazione ad adottare i suoi propri manuali, specialmente quelli provenienti inizialmente dalla Francia, e cioè l’intraprendente frère Réticius – francese di nascita, e superiore a quel tempo del distretto canadese – che è visto come uno dei difensori delle teorie ultramontane, sull’esempio di mons. Laflèche vescovo di Trois-Rivières, con quale fa causa comune.

Nonostante le autorità metropolitane appoggiassero i Fratelli nell’adottare i testi dei loro confratelli francesi, almeno in quelle materie in cui conveniva farlo, e nonostante l’appoggio della destra ultramontana che rivendicava la non ingerenza nella pedagogia delle comunità religiose, specialmente dei Fratelli delle scuole cristiane34, questi ultimi subiscono molto presto pressioni perché redigano testi più adatti all’ambiente canadese e più conformi alle direttive dei programmi scolastici del Québec, cosa questa che supporrebbe il consenso delle autorità francesi della congregazione. Ne consegue che i Fratelli del Québec devono negoziare per trovare una soluzione di compromesso accettabile da tutti. Frère Aphraates, fondatore dell’Accademia del Québec, apre il dibattito con Parigi nel gennaio 1881. In qualità di “rappresentante della commissione dei classici”, egli aveva già provvisto all’edizione canadese di una mezza dozzina di manuali francesi e ne aveva redatto o adattato una quindicina d’altri. E spiega la situazione singolare in cui si trovano i suoi confratelli insegnanti, partendo da due postulati: 1/l’obbligo di conformarsi alle norme emanate dagli organismi competenti incaricati di approvare i manuali scolastici nel Québec; 2/la concorrenza degli autori laici: dato che questi non possono avvalersi di un fondo francese, redigono manuali molto più ricchi di riferi-

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“Parecchie di queste congregazioni hanno i loro libri, i loro metodi. Libri e metodi sono elementi costitutivi della formazione pedagogica che esse danno ai loro membri nei noviziati e aspiratati. Dopo un tempo di tirocinio, questi maestri e maestre insegnano ovviamente aiutandosi con i libri e i metodi propri dei loro istituti. E’ chiaro che lo Stato non ha alcun diritto sulle costituzioni, sui regolamenti, sugli indirizzi pedagogici di queste congregazioni”: cit. da Thomas CHAPAIS, Discours sur la loi de l’instruction publique prononcé par l’honorable M.Chapais devant le Conseil législatif, les 2 et 3 mars 1899, 1899, p. 10.


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menti all’ambiente, alla storia, allo stile di vita canadesi, il che li avvantaggia non poco, ovviamente.35 In riferimento al primo argomento, nulla permetteva a F.Aphraates di prevedere che il discorso ufficiale sulla restrizione dei manuali importati comportasse delle sanzioni effettive, nonostante le numerose minacce di tagliare i fondi alle commissioni che adottavano libri non approvati.36 Il secondo argomento invece merita più attenzione. Contrariamente a quanto lascia intendere il rapporto, gli autori laici non hanno aspettato l’annuncio dei politici della ‘canadizzazione’ per mettersi a pubblicare libri di testo, ma nulla consente di pensare che a partire dagli anni 1880 essi aumentino sensibilmente la quota del loro mercato a danno delle comunità religiose, e cioè essenzialmente dei Fratelli lasalliani a quell’epoca. Di fatto, se si considerano solo i manuali approvati, quel decennio inaugura l’egemonia delle comunità religiose sulla produzione e la vendita del manuale scolastico. L’uso della parola “laico” in un rapporto indirizzato alle autorità parigine poteva camuffare una strategia: la lettura che si sarebbe fatta a Parigi – Ferry cominciava allora a istituire la scuola laica sinonimo di neutra – differiva totalmente da quella del Québec dove i professori detti “laici” non possono presentarsi come “neutri”.37 Dato che è Parigi che detta le norme e le deroghe cui devono adeguarsi i fratelli del Québec, l’ambiguità del termine non poteva che incitare le autorità parigine ad accondiscendere alle richieste dei loro confratelli canadesi: per Parigi, i libri redatti da autori laici non potevano presentare garanzie assolute di ortodossia. Considerando che Parigi non rispondeva con sufficiente sollecitudine, frère Réticius torna alla carica in agosto, anche perché sospetta che il direttore della procura parigina stia ponendo ostacoli al progetto canadese. Agli argomenti del suo rapporto di gennaio, aggiunge degli esempi concreti per illustrare la fondatezza della domanda canadese: il sistema metrico rende inutilizzabili i manuali di matematica38, i libri di geografia francesi non tengono conto della realtà nord-americana, le grammatiche sono troppo sofisticate rispetto al tempo riservato all’insegnamento della lingua francese da imparare accanto all’inglese, la grammatica dei Clercs de Saint-Viateur redatta in Québec rischia di soppiantare il manuale della comunità lasalliana, e infine i costi di produzione sono troppo elevati nel caso di manuali importati dalla Francia. In 35

Cf. la documentazione citata alla nota 31. Una commissione scolastica locale vive su tre risorse: la tassa fondiaria pagata dai proprietari, lo stipendio mensile versato dai genitori in proporzione al numero di figli frequentanti le scuole, e il sussidio del dipartimento dell’Istruzione pubblica. Non risulta si siano verificati casi in cui – malgrado le ripetute minacce – una commissione abbia privato della sovvenzione governativa chi utilizzava manuali non approvati. 36

37 Mémoire présenté par les instituteurs laïques catholiques de la province de Québec à leurs seigneurs les Évêques de la dite province, faisant partie du Conseil de l’Instruction publique,

s.l., s.n., [1877 ?], pp. 4. Fin dal suo sbarco in terra canadese la comunità lasalliana aveva avuto cura di effettuare questa conversione: il primo manuale che fa pubblicare a meno di sei mesi dall’arrivo dei primi Fratelli a Montréal, Nouveau traité d’arithmétique contenant toutes les opérations ordinaires du calcul, les fractions et les différentes réductions de fractions […] (Montréal, C.P. Leprohon, 1838), era un rifacimento di un testo pubblicato inizialmente in Francia e nel quale si era effettuata la conversione dal sistema metrico alle misure inglesi. 38


Per una storia del manuale scolastico.

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attesa di una risposta che non arriva, alcune settimane dopo Réticius riprende quasi parola per parola il suo intervento, aggiungendo questa volta una citazione della legge sui diritti d’autore!39 Due risposte pervenute nell’autunno 1881 danno ragione ai fratelli del Canada: è loro consentito di redigere i propri manuali come già fanno i confratelli d’Italia, di Spagna e del Belgio.40 La volontà delle autorità francesi di esportare la loro produzione si basava su un certo numero di postulati già enunciati, ai quali bisognava aggiungere la dimensione propriamente commerciale dell’operazione. L’importazione francese comportava un vantaggio economico maggiore: si evitava o si alleggeriva, nei casi di ristampa o adattamento, il costo della redazione. Questa collaborazione interna alla congregazione era stata prevista dalle più alte istanze amministrative. I Fratelli francesi affidavano inizialmente l’edizione e la diffusione dei loro manuali a case editrici ben note, in particolare Mame di Tours e Poussielgue di Parigi; questi editori o librai si erano assicurati per contratto il diritto esclusivo di stampa e commercializzazione dei manuali lasalliani in Francia. Tuttavia, in virtù di una clausola inserita nel contratto, la comunità del Québec può sottrarsi al monopolio consentito a Mame; in particolare la clausola prevedeva il diritto per i Fratelli fuori della Francia di pubblicare e vendere gli stessi manuali alla sola condizione di tenersi fuori dal mercato metropolitano; Mame tenta nel 1903 di restringere questa deroga ai soli testi in lingua non francese, ma l’amministrazione della congregazione in Francia nega questa pretesa.41 Da quel momento i Fratelli del Québec pensano di poter agire in piena libertà. Ma erano abbastanza chiare quelle regole del gioco? La restrizione citata, presa alla lettera, consente ai Fratelli fuori della Francia di stampare libri di testo, ma “ad uso delle loro scuole”. Sta di fatto invece che la procura di Montréal sconfina ben presto al di là della rete di scuole dirette dai Fratelli per coprire l’insieme del mercato scolastico. Mame e Poussielgue vengono a sapere di questa trasgressione alla lettera del contratto? Non si trova alcuna traccia di recriminazioni da parte loro.42 Se ne deduce che i Fratelli del Québec, oltre la produzione propria, possono stampare a loro discrezione i manuali redatti dai loro confratelli francesi senza la minima 39

Classiques du Canada – Exposé des raisons qui militent en faveur de l’autorisation d’imprimer les Classiques au Canada, 12 octobre 1881, AFECR, boîte 411, dossier 8,5. 40 F. Armin-Victor au F. Provincial, 28 octobre 1881, AFECM, T28 C3; F. Irlide au F. Assistant, Besançon 26 octobre 1881, AFECR, boîte 411, dossier 8,4. 41 Traité avec MM. Mame et fils, et MM. Poussielgue frères, 19 mars 1869 à 1880 inclusivement, AFECR, boîte EB 162 n.3, dossier 9. Il contratto del 1859 conteneva una clausola analoga: Correspondance entre libraires, observations diverses, etc., 1895-1908, AFECR, boîte

EB 162, n.1. 42 Mame include il mercato del Québec tra la sua clientela, almeno per quanto riguarda le edizioni di cui i Fratelli in Francia non sono gli autori, come documenta lo scambio di corrispondenza tra questo editore e il responsabile dell’Istruzione pubblica nel corso dell’ Ottocento (cf. Paul AUBIN-Michel SIMARD, Les manuels scolaires dans la correspondance du département de l’Instruction publique 1842-1899, inventario “Mame, Alfred”, indice); si può quindi difficilmente credere che abbia ignorato le ristampe canadesi ad iniziativa della procura di Montréal di quei manuali coperti da contratto tra la sua casa e i Fratelli francesi. La procura di Parigi, a torto indubbiamente, arriva a sospettare Mame di vendere nel Québec manuali dei Fratelli francesi, e questo persino nelle scuole dei Fratelli… (Cf. Frère directeur de la procure de Paris au F. Oswald, procureur de Montréal, 10 mai 1927, AFECM, T58 C37).


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contestazione da parte degli editori francesi. La contestazione, però, arriverà; ma da una direzione che la procura di Montréal non aveva previsto. 2. Ostacoli e riserve – Dall’inizio del Novecento i Fratelli francesi cambiano radicalmente strategia in fatto di libri di testo. Le leggi Combes con il loro inevitabile corollario – la caduta drammatica della clientela scolastica nei centri educativi della congregazione – non sono affatto estranee a questo sconvolgimento. I lasalliani cominciano col creare dapprima una ditta presta-nome, la Société générale d’édition, che si fa carico dell’edizione dei loro manuali, liberandosi così di ogni intermediario tra la produzione e la vendita; l’eliminazione di un editore estraneo permette alla comunità francese di garantirsi migliori margini di guadagno, ma nel contempo viene a incombere sull’impresa editoriale la totalità dei costi di produzione, trattandosi per di più di costi crescenti sia perché il mercato francese diventa meno accessibile, e sia per l’incremento delle spese vive di produzione, specialmente durante la crisi dell’immediato primo dopo-guerra. Per risanare la situazione, la procura di Parigi, in una memoria del 20 aprile 1925, propone alle autorità dell’Istituto di stabilire i diritti di compensazione per i manuali francesi copiati o adattati dai confratelli d’altri paesi; si fonda l’argomentazione sulla nozione del diritto d’autore: se la procura di Parigi ha investito nella redazione dei manuali, è normale che le procure estere, esenti da questi costi, contribuiscano a rifondere le spese con un sistema di conguaglio come se i libri fossero pubblicati da editori laici. Il vertice amministrativo della congregazione sottoscrive l’essenziale delle raccomandazioni emanate dalla procura di Parigi, e cioè43 il 10% del prezzo di vendita per le ristampe e il 5% per gli adattamenti. L’applicazione del canone sembra un principio incontestabile e di fatto non fu contestato: si trattava di una misura amministrativa interna a una comunità religiosa che, pur adeguandosi a convenzioni legali, decide in base anche ad altri principi che non sono solo quelli delle operazioni commerciali. Una requisitoria di due pagine, datata 12 giugno 1927, e proveniente probabilmente dalla procura di Montréal contesta il valore ‘giuridico’ della nozione di diritto d’autore utilizzata dalla procura di Parigi44, ma in pratica, ci si rassegnerà al principio del canone. I veri problemi sorgono quando si tratta di determinare la data a partire dalla quale applicare la nuova direttiva, e quali libri vadano soggetti al canone. Se le riproduzioni integrali non danno adito a discussione, diverso è il caso degli adattamenti. E siccome la somiglianza dei titoli può prestarsi a confusioni, viene creata una “commissione incaricata di mettere a confronto le pubblicazioni didattiche dell’Istituto”. Il meno che si possa dire è che tale commissione – con sede a Parigi e i cui membri sono presumibilmente francesi – adempie al compito con vero zelo.45 Alla fine, dopo un paio d’anni di scambi epistolari anche animosi, il contenzioso sarà risolto dall’intervento della più alta istanza dell’Istituto. 43 44

Droits d’auteur, correspondance 1925-1927, AFECM, T58 C37. Reproduction et adaptation de livres de la Procure Générale – Respectueuses considérations

[…], AFECM, T58 C37. « Notes sur quelques livres de français édités par la procure de Montréal », AFECP, Montréal, Droits d’auteur, 1925. 45


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Anche dopo la revisione del precedente listino, il catalogo editoriale della procura di Montréal per il periodo 1925-1940, non conta più di una decina di titoli che, per ammissione delle due parti, si rifanno al fondo francese iniziale; e certi titoli, come una grammatica dell’Ottocento, non interessano che un infimo mercato residuale. Quel che conta comunque è che un nuovo principio è stato accettato: a differenza dall’Ottocento, le procure locali non possono più utilizzare liberamente i fondi francesi e le nuove regole, sancite dai più alti dirigenti della congregazione, saranno regolarmente prorogate. E quando i fratelli di Montréal “dimenticano” di versare le percentuali convenute per i manuali stampati a partire dal 1941, i confratelli di Parigi – appoggiati dai superiori ora residenti nella nuova Casa centrale di Roma – non esitano a richiamarli all’ordine.

Conclusione Protagonista centrale della scuola pubblica nel Québec per più di un secolo, principale editore di materiale pedagogico-didattico durante un buon cinquantennio, la comunità dei Fratelli delle scuole cristiane si è imposta anche come uno dei principali agenti della penetrazione del manuale scolastico prodotto in Francia. Un tale successo commerciale “inter-nazionale” trova una spiegazione sia per il fatto della carenza di strumenti didattici all’epoca della emigrazione della comunità, sia per fattori di ordine strutturale – essa stessa preferisce veicolare i propri testi al fine di garantire continuità e ortodossia – senza dimenticare le ricadute economiche discretamente rilevanti, al punto da suscitare talora delle frizioni all’interno stesso degli organismi amministrativi della congregazione. Ricostruito lo scenario in cui si è verificato questo transfert, resta ancora tutto da analizzare l’impatto dei contenuti. Non entriamo nel merito, ma possiamo almeno chiederci: che cosa è avvenuto del messaggio religioso implicito nei manuali importati dalla Francia? Ha avuto una qualche influenza sulle mentalità e i comportamenti di una società dove la maggioranza francofona aderiva ufficialmente al cattolicesimo? Un solo esempio basterebbe a illustrare l’importanza del problema. Il best-seller dell’editoria dei Fratelli – più di 60 ristampe nel solo Québec tra il 1841 e il 1904 – veniva dalla Francia e intendeva proporsi come una piccola summa di teologia popolare: Le nouveau traité des devoirs du chrétien. Ufficialmente catalogato come libro di lettura, presentava un contenuto apologetico tale che i protestanti locali temevano che lo si imponesse come uno dei testi obbligatori per la preparazione dei candidati alla abilitazione magistrale.46 Era accompagnato costantemente da un altro libro rilegato sotto la stessa copertina e anch’esso di origine francese: Les règles de la bienséance et de la civilité chrétienne. In questo caso, non solo si tenta di utilizzare un manuale per la propagazione di un modo di pensare, quello cristiano, ma anche di un modo di comportarsi, di un galateo urbano.

46

John HAMILTON GRAHAM, Letters to the superintendant of education for Lower Canada, John Lovell, Montréal 1865, p. 3.


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Restano poi da analizzare gli effetti che ha potuto avere questa massiccia importazione editoriale sulle abitudini di lettura di intere generazioni nel Québec. Torniamo ancora un momento al Nouveau traité sopra citato. Secondo l’ispettore Chauveau, “sarebbe il libro di lettura in ben 193 comuni” nel 185547. L’ispettore Lanctot scrive tre anni più tardi: “[…] dopo due o tre anni di scuola, non c’è alunno che non l’abbia letto e riletto dieci volte, ma così il libro perde di interesse e l’alunno non ha più alcun incentivo per la lettura. Lo legge, ma non più per soddisfare una naturale curiosità, per imparare qualcosa di nuovo, bensì per abitudine e per adeguarsi a un obbligo che gli viene imposto d’ufficio”.48 In risposta alle geremiadi del superiore che lamenta le pressioni per togliere il libro dalla circolazione, l’ispettore sente il bisogno di precisare: “Potrei dire qui che certe persone si sono sbagliate quando credevano che io raccomandassi questi libri [i libri di lettura dell’autore canadese Montpetit] ad esclusione del Devoirs du Chrétien, opera popolare da lungo tempo. Io non escludo affatto quest’opera; dico solamente che essa ha poco valore per l’insegnamento della lettura. Non è graduato [non presenta sequenze di letture in ordine progressivo di difficoltà, ndt], e il suo contenuto è in genere troppo elevato per gli scolari […]”.49 Gli interrogativi sollevati intorno alle pratiche editoriali dei Fratelli delle scuole cristiane dovrebbero essere ripresi anche a proposito di ciascuna delle congregazioni religiose di origine francese, che si sono insediate nel Québec. A titolo di esempio, segnaliamo il caso dei Fratelli dell’Istruzione cristiana, detti frères de Ploërmel: il loro manuale L’agriculture dans les écoles: 41 leçons, che pubblicarono a Montréal nel 1896, era la ristampa pressoché letterale di un testo pubblicato originariamente in Bretagna. Le riedizioni si susseguirono fino al 1940, ma l’opera è stata davvero adattata alle esigenze dell’economia, del clima e del territorio del Québec? E’ solo una domanda fra tante altre che meriterebbero ulteriori indagini se si vuole valutare l’adeguatezza dell’offerta francese alla domanda del mercato scolastico canadese.

Traduzione dal franco-canadese a cura della Redazione

47

P.-J.-O. CHAUVEAU, Rapport du surintendant de l’éducation pour le Bas-Canada pour l’année 1855, John Lovell, Toronto 1856, p. 15. 48 Id., Rapport du surintendant de l’éducation dans le Bas-Canada pour l’année 1858, John

Lovell, Toronto 1859, p. 174. 49 Gédéon OUIMET, Rapport du surintendant de l’instruction publique de la province de Québec pour l’année 1881-82, Charles-François Langlois, Québec 1883, pp. XIII-XIV.


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RivLas 75 (2008) 3, 453-458

Una “via cattolica” alla gestione dei beni istituzionali Louis DeThomasis, FSC

Co-fondatore dei CBIS/Christian Brothers Investment Services Docente alla St Mary’s University of Minnesota, Usa

E’

stata una necessità del tutto evidente fin dal 1981. La crescente complessità dell’universo dei servizi finanziari aveva messo molti istituti religiosi cattolici davanti ad un bivio. La gestione finanziaria richiedeva sempre più tempo e competenza, con conseguente deviazione delle risorse dai compiti fondamentali delle organizzazioni religiose. La crisi delle vocazioni e la diminuzione della popolazione dei religiosi e delle religiose hanno costituito un fattore aggravante che ha costretto molte organizzazioni a fare sempre di più ma con meno personale. In questo clima - che, se vogliamo, ha fatto da catalizzatore -, Brother Louis De Thomasis FSC, e Brother Joel Damian FSC, hanno concretamente prefigurato ciò che sembrava un’idea di difficile e lunga attuazione. La loro proposta consisteva nel realizzare un istituto di consulenza in materia di investimenti che potesse offrire servizi competitivi con i maggiori istituti di consulenza nel settore, senza però perdere di vista le convinzioni e gli insegnamenti dell’etica economica cattolica. A ventisette anni dalla fondazione (1981) dei Christian Brothers Investment Services (CBIS)1, l’idea iniziale è stata di fatto ampiamente realizzata.

1

http://www.cbisonline.com/page.asp?id=162


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Oggi, CBIS gestisce più di 4 miliardi di dollari per oltre un migliaio di organizzazioni cattoliche negli Stati Uniti e nel mondo, attraverso un gruppo diversificato di fondi istituzionali e conti separati che possono essere congiunti per costituire portafogli finanziari che soddisfino gli obiettivi di investimento delle piccole e grandi organizzazioni cattoliche. Attraverso un programma di investimento socialmente responsabile (SRI), CBIS ha operato in collaborazione con molte delle società più grandi ed importanti del mondo, per aiutarle ad effettuare cambiamenti positivi in ambiti quali i diritti umani, la compatibilità con l’ambiente, i diritti e la tutela dei lavoratori. I professionisti-consulenti che operano nel servizio clienti CBIS sono persone di grande esperienza, specialisti con incarichi di dirigenza nella gestione degli investimenti, che aiutano i partecipanti ad elaborare solide strategie di investimento istituzionale, a costituire portafogli finanziari ben diversificati, ad interpretare ed a rispondere agli sviluppi dei mercati finanziari, a seguire il lavoro e i risultati del programma SRI del CBIS. Il CBIS continua a migliorare i suoi servizi perché possano essere al passo con l’evoluzione dell’industria degli investimenti e con lo sviluppo delle necessità finanziarie dei partecipanti. Quanto era iniziato in tutta modestia nel 1981 è diventato oggi una sofisticata società per la gestione degli investimenti.

Dal progetto alla realtà Dietro la fondazione del CBIS c’è un’idea straordinaria. Chi può mettere in discussione i meriti dei benefattori che aiutano gli istituti religiosi, le diocesi, le scuole, le strutture mediche e le altre organizzazioni cattoliche a raggiungere i loro obiettivi finanziari e che, nello stesso tempo, rifiutano di trarre profitto da investimenti considerati contrari alla morale cattolica? Nei primi anni, l’operazione più difficile è stata convincere che CBIS rappresentava un’alternativa valida ai gestori finanziari istituzionali esistenti. E’ stata una fatica enorme confrontarsi con diversi istituti ed ordini religiosi per dimostrare che noi avevamo capito cosa stava accadendo nel mondo della finanza. Per la frequenza dei nostri viaggi aerei, abbiamo raccolto un sacco di punti per voli in omaggio, dato che il nostro più importante strumento di lavoro, in quel periodo iniziale, era decisamente a bassa tecnologia, cioè l’incontro faccia a faccia, sul territorio. Nel complesso, i primi partecipanti al CBIS avevano buone ragioni per agire con prudenza. Carenze di competenza finanziaria avevano esposto alcune organizzazioni cattoliche alla truffa e qualche infortunio le aveva rese caute di fronte ai rischi finanziari. Un fattore di svantaggio era costituito dal fatto che CBIS non avesse un’identità nel mondo degli investimenti. Doveva ancora affermarsi, ed era per lo più sconosciuta alla maggioranza dei fiduciari cattolici e, nel complesso, al mondo della finanza. Il trampolino di lancio è stato l’offerta di servizi di consulenza per la gestione ed i conti a gestione separata. Ma poco dopo la sua fondazione, il CBIS ha associato a sé il Religious Communities Trust (RCT) ed il suo Fondo del mercato monetario (ora Fondo RCT Flex Cash). A ciò ha fatto seguito il lancio di altri prodotti finanziari a reddito fisso per l’RCT. Nel 1983 si è così costituito il Catholic United Investment Trust (CUIT) per fornire alle istituzioni cattoliche con accesso ai prodotti azionari, che cominciavano con il fondo bilanciato CUIT, un fondo diversificato 60/40 azioni/obbligazioni.


Una ‘via cattolica’ alla gestione dei beni istituzionali

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Servizi sempre più sofisticati Acquisita maggiore sicurezza negli investimenti nel mercato finanziario, i partecipanti al CBIS hanno iniziato anche a ricercare opportunità in altre soluzioni della gamma di compensazione del rischio. Questa evoluzione naturale coincideva con l’ampliamento delle offerte di investimento della società, che favorivano, a loro volta, l’interesse di un più ampio numero di organizzazioni cattoliche. Sono stati fatti piccoli cambiamenti ai prodotti del fondo, come l’introduzione di obbligazioni societarie nei fondi a reddito fisso. Ma, nel 1990, il lancio del fondo di sviluppo CUIT ha rappresentato uno tipo di investimento del tutto diverso rispetto a quello che era stato tradizionalmente un approccio più conservatore, orientato al valore. Ha fatto seguito un’ulteriore diversificazione del prodotto con il Fondo piccolo capitale CUIT, il Fondo internazionale CUIT e, più recentemente, il Fondo neutrale di mercato CUIT. L’introduzione di tutti questi nuovi prodotti ha indicato la crescente varietà dei partecipanti al CBIS e le loro diverse necessità. Non sono stati, comunque, meno importanti i cambiamenti apportati all’organizzazione a livello strutturale e teorico, molti dei quali risultavano meno visibili. Nel 1998, per esempio, il CBIS ha realizzato una strategia “manager di manager”, in base alla quale ha cominciato ad utilizzare due o tre gestori finanziari con stili di investimento complementari nella maggior parte dei fondi, in modo da contenere la volatilità. La società ha anche potenziato la sua struttura complessiva, diversificando i fornitori dei servizi di custodia e di altre operazioni di ufficio interno, selezionando i migliori.

Una “via cattolica” al servizio finanziario Se produrre profitti da investimenti che aiutino le organizzazioni cattoliche a raggiungere i loro obiettivi finanziari è una parte importante del lavoro del CBIS, c’è un altro aspetto ugualmente importante che lo rende unico nell’industria della gestione degli investimenti istituzionali: la creazione e lo sviluppo di un programma di investimento socialmente responsabile centrato sui valori cattolici. Sono gli uomini e le donne a servire l’economia, o qui è l’economia che aiuta uomini e donne a realizzare il loro potenziale? La risposta, a parere del CBIS, è ovvia, anche se alcune società, ogni tanto, perdono di vista questo assioma. Negli anni della costituzione del CBIS, l’apartheid in Sud Africa era un tema molto stimolante per investitori socialmente responsabili. Era importante che il CBIS, come fiduciario di organizzazioni cattoliche, dimostrasse la sua ferma opposizione ad ogni forma di oppressione sistematica e lesiva della dignità umana attraverso la partecipazione al movimento per l’esclusione delle società commerciali con attività in Sud Africa dai portafogli istituzionali. D’altra parte, questo tema ha anche messo in luce la mancanza di opzioni disponibili per le istituzioni cattoliche che volevano investire nel rispetto di tutti i loro valori. “La Chiesa ha sempre sostenuto l’importanza di coniugare la fede con la vita quotidiana”, spiegava nel 1984 Br. Raymond Blixt FSC, presidente del CBIS e del CEO,


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incaricato dello sviluppo del programma per l’investimento socialmente responsabile. “Si è trattato semplicemente di continuare ad ampliare il nostro impegno sociale. Abbiamo voluto che l’investimento responsabile divenisse parte di ciò che eravamo”. Oggi, il “Programma CBIS di acquisto strutturato” (= analisi delle azioni) elimina dalla selezione dei portafogli quelle società i cui prodotti o servizi violano gli insegnamenti della Chiesa cattolica sull’etica della vita, quelle società cioè che alimentano il militarismo e la violenza nel mondo, o che traggono i loro maggiori profitti dalla pornografia o dai prodotti a base di tabacco. Il CBIS non ha fatto che applicare con coerenza le “linee guida per investimenti socialmente responsabili” adottate dalla Conferenza dei Vescovi cattolici degli Stati Uniti e, sulla base delle conoscenze che derivano dalla varietà dei suoi partecipanti, ha attivamente collaborato al processo di individuazione delle priorità. E’ opportuno rilevare comunque che le analisi eliminano solo circa il sei per cento delle società incluse nell’indice Standard & Poor’s 500, lasciando dunque un’ampia gamma di grandi ed importanti società, e migliaia di società più piccole presenti sul mercato, utili alla costituzione di portafogli diversificati in grado di soddisfare ogni obiettivo di investimento. Il CBIS ritiene che questo sia un sacrificio minimo davanti al valore rappresentato da una chiara scelta di campo degli investimenti.

Protagonisti del cambiamento Anche se l’Acquisto strutturato è stato alla base del programma per l’investimento responsabile lanciato da Br. Raymond alla metà degli anni 80, esso rappresenta solo un aspetto del programma così come si è sviluppato da allora. Il programma che il CBIS chiama attualmente Active Ownership (proprietà attiva) offre ai clienti l’opportunità di promuovere attivamente i valori cattolici nel mercato finanziario. La proprietà attiva significa anzitutto far leva sul fatto che grandi istituzioni cattoliche, come azioniste, sono proprietarie delle società commerciali, e significa inoltre spingere le società stesse a diventare associazioni di cittadini migliori e più responsabili in ambiti quali la gestione aziendale, l’equità dei salari, la difesa dell’ambiente ed il sostegno in favore dei diritti umani nel mondo. Quando gli investitori istituzionali si impegnano a cercare il pieno potenziale spirituale dell’investimento, mettendo a disposizione il capitale che consente alle società di crescere e di fornire i prodotti ed i servizi necessari e, nel contempo, promuovono il bene comune attraverso il loro impegno con le società, allora i profitti finanziari possono diventare anche più consistenti. Nell’esperienza CBIS, le società che rispettano non solo i loro azionisti ma tutti gli interlocutori sociali e che si impegnano a raggiungere alti livelli di responsabilità sociale, rafforzano il loro potenziale per gli investimenti a lungo termine e promuovono lo sviluppo di un’economia più giusta e di un mondo migliore. La promozione di obiettivi di giustizia sociale attraverso la proprietà attiva è uno degli aspetti fondamentali del dovere di fiduciario che CBIS compie come gestore degli investimenti e fondamento della missione spirituale svolta dai partecipanti come investitori.


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Strategie di proprietà attiva Per realizzare il cambiamento si possono seguire varie strategie di proprietà attiva. La prima consiste nell’impegnare le società nel dialogo, al fine di persuaderle ad adottare comportamenti più etici e socialmente responsabili. Se c’è una resistenza al dialogo, il CBIS può intraprendere il passo successivo e presentare una delibera agli azionisti per rendere pubblico il tema che costituisce l’oggetto della discussione ed ottenere il sostegno degli altri azionisti. Inoltre, ogni anno il CBIS, con molta attenzione, vota per delega di più di 1000 partecipanti alle riunioni annuali delle società, esprimendo le opinioni dei suoi partecipanti su un’ampia gamma di temi che influenzano la strategia delle società, lo sviluppo degli affari e la gestione aziendale. Obiettivi finali del CBIS sono: pubblicizzare temi di suo interesse e di interesse della propria comunità di partecipanti, ed incoraggiare l’adozione di politiche e strategie mirate che conducano, a medio e lungo termine, ad un miglioramento dei comportamenti delle società. Tali obiettivi, come è noto, non appartengono in forma esclusiva al CBIS e nemmeno solo all’insegnamento sociale della Chiesa cattolica. Dal 1987 il CBIS, da poco costituito, è entrato nell’Interfaith Center for Corporate Responsibility (ICCR), un’associazione che oggi conta 275 istituzioni religiose che comprendono una molteplicità di fedi religiose. Unendo il suo impegno a quelli degli altri membri dell’ICCR, il CBIS può esercitare un’influenza ancora maggiore sulle politiche delle società. Di fatto, nel corso degli ultimi vent’anni, il CBIS e gli altri soci ICCR sono riusciti a far impegnare le società commerciali in numerosi ambiti, come lo sviluppo di politiche rispettose dei diritti umani nelle attività a livello globale, la difesa degli equilibri ambientali, il miglioramento delle pratiche relative al prestito ed agli investimenti delle comunità, la definizione di standard lavorativi corretti ed il richiamo ad un controllo più attento dei compensi dei dirigenti. “Anni fa, andavo ad una riunione annuale, mi alzavo in piedi e facevo la mia relazione in modo molto professionale”, racconta il dr. Francis Coleman, dirigente vicepresidente del CBIS. “Ma dopo la riunione ero letteralmente evitato da tutti perché si era percepita l’idea di una scarsa trasparenza della gestione. Nessuno dei rappresentanti della società voleva essere visto parlare con me”. Negli ultimi venticinque anni, invece, il CBIS ed altri sostenitori della responsabilità sociale delle aziende hanno avuto un’evoluzione considerevole: da disturbatori delle assemblee degli azionisti a investitori istituzionali globali che influenzano a livello mondiale il comportamento delle grandi società commerciali. Oggi, la maggior parte delle società hanno capito che i loro marchi e la loro reputazione, anche se difficili da quantificare, hanno un valore enorme. Ne deriva che il CBIS riceve regolarmente, da parte delle società, la richiesta di conoscere l’opinione della comunità SRI su determinati temi. Questo significa un gran cambiamento, nei toni e nell’atteggiamento, rispetto ai primi anni di attività del CBIS e conferma ulteriormente la validità della proprietà attiva contenuta nel suo programma di investimento responsabile.


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La sfida del futuro Per gli istituti religiosi, il mondo degli investimenti può essere davvero un enigma. Pur essendo spesso estraneo alla vocazione, rappresenta anche uno strumento potente di sviluppo sociale. Esiste un legame, manifesto o occulto che sia, tra spiritualità e finanza. E tutte le istituzioni cattoliche affrontano la sfida che scaturisce dalla valutazione di come gestiscono, di come costruiscono e di come utilizzano in definitiva il loro patrimonio istituzionale. Nonostante gran parte delle società commerciali comprendano, oggi, che un comportamento socialmente responsabile alimenta un buon senso degli affari, gli investitori religiosi hanno ancora molte opportunità di esercitare un’influenza positiva. Basti pensare alla globalizzazione, che porta con sé enormi possibilità di alzare i livelli di vita nel mondo, ma anche i rischi derivanti dal degrado ambientale, dallo sfruttamento della manodopera, dal disprezzo dei diritti dell’uomo e da altre situazioni a rischio. Per fortuna, dato che le nuove istituzioni cattoliche hanno un approccio socialmente responsabile nell’amministrare il loro portafoglio titoli, la comunità degli investitori religiosi cresce ed aumenta la sua influenza complessiva come azionista. E’ necessario inoltre che gli investitori religiosi contribuiscano a far sì che le società continuino ad agire in consonanza con il senso vero dell’investimento socialmente responsabile. Ogni società, ad esempio, può redigere una relazione sull’impatto ambientale, ma ciò che conta è il modo in cui le società traducono in azioni concrete la loro interpretazione del problema. In altre parole, una delle principali sfide per il CBIS e per l’intera comunità SRI consiste nel controllare che la forma non prevalga sulla sostanza. La sfida maggiore consiste proprio nell’educare dei leaders per il movimento cattolico SRI e mantenere quell’ispirazione educativa che aveva posto le basi del CBIS. “C’è un bisogno reale di preparare i nostri associati, che non sono Fratelli, a portare avanti la missione ed i valori dell’investimento socialmente responsabile - spiega Br. Michael W.O’Hern responsabile del CEO - Trovare e mantenere una leadership forte, sia all’interno della congregazione dei Fratelli che tra i laici, è la questione decisiva”. Offrire leadership alla comunità cattolica istituzionale, creare ed amministrare programmi di investimento che soddisfino gli obiettivi finanziari dei partecipanti e farlo in modo tale che rifletta gli orientamenti sociali della Chiesa: sono stati questi i principi che hanno informato l’opera del CBIS negli ultimi venticinque anni. CBIS si sta impegnando molto per assicurare che a questi principi continui ad ispirarsi la sua attività nei prossimi venticinque anni, e che il suo futuro sia fruttuoso e coronato dal successo come il suo passato.

Traduzione dall’inglese-americano di Alessandra Milleri


LASALLIANA

RivLas 75 (2008) 3, 459-466

PROFILES LASALLIENS / 4

Frère Jacques Piveteau (1924-1986) Léon Lauraire, FSC Chercheur lasallien, Lyon

L

a vie du Frère Jacques Piveteau FSC peut se diviser en trois périodes: d’abord 21 ans d’enfance, d’études et de formation lasallienne initiale de 1924 à 1945; la période professorale dans des classes du secondaire, à Talence, Nantes, Talence à nouveau et Bordeaux, de 1945 à 1961; enfin un quart de siècle à Paris comme formateur, auteur d’articles et ouvrages et responsable de revues, de 1961 à 1986. Il est décédé prématurément à l’âge de 62 ans, à cause de problèmes de santé répétés et de plus en plus graves. Trois aspects méritent d’être soulignés dans cette période, à cause de l’influence qu’ils ont eue dans l’itinéraire du F. Piveteau: • Plus que la chronologie, il importe de rappeler que la période 1945-1986 fut un temps de bouillonnement social, économique, ecclésial, pédagogique et catéchétique. Une époque qui convenait parfaitement à la curiosité insatiable, au naturel aventureux de Jacques Piveteau, à sa passion du progrès, du changement, de la créativité. Très attentif à tout, curieux de tout, fin analyste des réalités mouvantes, intuitif du futur en gestation, il put ainsi donner sa pleine mesure d’éducateur et d’humaniste. • Il importe de noter que, très tôt, il parvint à une bonne maîtrise de la langue anglaise, en particulier pendant les six années de formation à Guernesey, Irlande et Angleterre de 1938 à 1944, années qui lui permirent une véritable


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immersion linguistique et culturelle, à laquelle il ajouta ensuite l’acquisition des diplômes universitaires requis pour enseigner cette langue. Cette connaissance de la langue lui facilita l’ouverture aux cultures anglo-saxonnes, aux recherches, publications et réalisations de nombreux pays, spécialement les Etats-Unis où il effectua de nombreux séjours. Cela devint pour lui une source d’inspiration et de découverte, jusqu’aux dernières années de sa vie. Le troisième élément, c’est la possibilité que lui offrit l’Institut des Frères des écoles chrétiennes d’élaborer et d’exprimer sa pensée, à travers des articles, des livres, ainsi que la tribune des revues Orientations et Catéchistes dont il fut successivement le directeur et qui connurent une grande audience dans les années 1960-1975. Possibilité aussi de collaborer pendant plus de dix ans à la formation en entreprise dans le cadre de l’INSEP (Institut supérieur d’Education Permanente).

Impossible d’établir des séparations entre les trois domaines principaux de ses activités: Pédagogie, Catéchèse, Entreprise, l’ont constamment mobilisé et ce furent les trois lieux éducatifs auxquels il se consacra.

Le Pédagogue L’après guerre a constitué, en France comme ailleurs en Europe, un temps de grand bouillonnement pédagogique, de remise en cause ou d’aménagements des diverses composantes du système scolaire: - les finalités de l’école et les formations souhaitées ou nécessaires pour la société; - la clientèle scolaire avec l’extension de la scolarisation et la démocratisation de l’enseignement; - les structures scolaires: tentatives diverses pour parvenir à celles qui seraient mieux adaptées à la clientèle d’aujourd’hui; - les méthodes d’enseignement et le recours aux nouveaux supports didactiques, grâce aux diverses technologies de l’enseignement. Il suffirait de reprendre l’histoire de l’éducation des cinquante dernières années pour retrouver tous les changements intervenus. C’était comme un réveil après une longue période pendant laquelle le système scolaire semblait menacé d’immobilisme et de sclérose. Les secousses furent parfois violentes: celle de 1968 en est la meilleure illustration. Il n’est pas étonnant que dans ce tourbillon, l’idée de « déscolarisation » d’Ivan Illich ait connu un tel succès. Jacques Piveteau a été très présent dans ce mouvement, avec l’ambition d’en analyser les causes et les conséquences, afin d’éclairer et guider les enseignants dans leur désarroi, parfois leur découragement. Il l’a fait par la parole et par l’écrit. D’où une multitude de cours, de conférences, de débats publics, d’articles et d’ouvrages. L’un de ses souhaits les plus ardents était d’aider la pédagogie, la catéchèse, plus tard l’entreprise, à évoluer, à s’adapter au rythme de notre époque, au rythme de ces changements. Car, répète-t-il, les structures sont naturellement portées à l’immobilisme, donc à la sclérose et au retard par rapport à la vie. Pour jouer ce rôle, il fut amené à prononcer d’innombrables conférences à travers la France et dans le monde entier.


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Conférencier dans l’Hexagone - L’activité débordante de Jacques Piveteau ne s’est jamais limitée à Paris, où il résidait. Il était invité à parler un peu partout en France. Très facilement – trop facilement sans doute – il acceptait de répondre aux multiples sollicitations. Grande diversité des thèmes abordés et des publics qui l’écoutaient. Il possédait vraiment la magie du verbe, parlait avec facilité et chaleur, dynamisme et bonne humeur, quoique avec simplicité pour s’assurer d’être bien compris. Il séduisait généralement ses auditeurs et y prenait sans doute un certain plaisir. Il connut un succès jamais démenti. Conférences suivies de débats, animation de réunions de groupes, débats publics, tables rondes, face à face…pratiquement toutes les situations de prise de parole en public. Que de kilomètres additionnés, de fatigues accumulées, dans les trains de jour et de nuit: l’avion était encore fort peu démocratisé et le TGV n’existait pas! On peut penser et regretter qu’il ait dilapidé dans ces innombrables voyages une partie de ses forces et de sa santé. Globe-trotter de la Pédagogie - Ce n’est pas seulement en France qu’il eut à intervenir, mais littéralement dans le monde entier. Tous les continents l’ont vu débarquer un jour ou l’autre. Il n’a pas poussé le souci du détail jusqu’à établir une liste des pays où il est allé; mais nous savons qu’elle est longue. Certains endroits avaient cependant sa préférence, en premier lieu l’Amérique du Nord: Canada et Etats-Unis. « Visiting professor » pendant plusieurs années dans certaines Universités américaines, en particulier: Notre Dame, Manhattan College de New-York, La Salle University de Philadelphie…; il est intervenu aussi dans diverses paroisses ou diocèses de l’Indiana, du Minnesota, de l’Oklahoma, du Michigan. Il appréciait particulièrement ces séjours outre Atlantique car il y trouvait un stimulant pour sa réflexion, un enrichissement culturel, une sorte de laboratoire de notre avenir pédagogique européen. Il y bénéficiait de facilités d’accès à de riches bibliothèques. Il parlait avec émerveillement des campus universitaires, oasis de tranquillité et d’agrément. Il y découvrait un autre art de vivre et rencontrait des personnes capables de stimuler sa pensée. Mais il fut aussi Professeur invité à l’Institut international Lumen Vitae de Bruxelles et à l’Université de Louvain. Dès sa création, en 1968, le CIL (Centre international lasallien) de Rome fit appel à ses services. Chaque année quelques dizaines de Frères venant de nombreux pays, s’y retrouvaient pour quelques mois de recyclage. Pendant les premières années, le rôle de Jacques Piveteau fut de contribuer à la formation et cohésion du groupe. Comme il était de mode en ces années-là, il recourait aux techniques de la dynamique de groupe. La méthode, en vérité, était diversement appréciée par les participants de cultures si diverses… Au total, beaucoup de déplacements à travers le monde. C’étaient aussi des occasions de détours touristiques qui lui permirent de satisfaire sa curiosité ou de visiter des sites célèbres: Mexico, Brasilia, Benares, Angkor, Hong-Kong, Singapour, Katmandou… Revues, collections, cours réguliers à Paris, sessions, conférences, invitations à l’étranger, voyages pédagogiques, participation dynamique à plusieurs groupes de réflexion ou équipes de travail, rédaction d’articles et d’une douzaine d’ouvrages, rencontres amicales, loisirs et détente… : on reste confondu devant l’ampleur, la diversité et la qualité du travail réalisé.


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Le Catéchète Le Frère Piveteau n’a jamais séparé son engagement dans la pédagogie scolaire et dans la catéchèse. Cela apparaît d’ailleurs dans sa bibliographie, en particulier dans l’ouvrage en anglais qu’il a publié en collaboration avec James Dillon, ou dans son texte en français intitulé Comment ouvrir les jeunes à la foi (traduit en italien). Après la formation reçue à l’Institut supérieur de Pastorale catéchétique de Paris, il devint très vite Professeur dans ce même Institut et intervint très souvent par des conférences et sessions dans le même domaine. Il fut également très impliqué dans la revue Catéchistes, avant même d’en prendre la direction. Dans le numéro 67, il co-signe avec le Frère Vincent Ayel, alors directeur de la revue, un important article: « Pédagogie et Catéchèse: même combat ? ». L’ensemble de ce numéro était consacré au thème « Structures scolaires et catéchèse ». C’est un sujet charnière dans les préoccupation respectives de Catéchistes et Orientations. Les deux responsables consacrent donc une douzaine de pages à l’évolution de la pédagogie scolaire et à l’avenir de la catéchèse. Les sous-titres de l’article sont révélateurs des questions débattues à ce moment-là. Après le sous titre « Le cadre scolaire, obstacle à la catéchèse ? », viennent les cinq parties du développement: La classe est-elle une structure valable de catéchèse ? - La multiplication des

équipements scolaires collectifs - Ambiguïté du cours magistral à l’ère de l’information directe - Pluralisme des élèves et programmes pré-établis - Le problème de la relation pédagogique.

La question de la catéchèse habitera Jacques Piveteau pendant longtemps. En 1971, il assumera la direction de la revue Catéchistes et la conduira jusqu’au n. 100, avant de la transformer et moderniser sous le titre Temps et Paroles, dont l’existence sera plus brève. Dans son ouvrage Comment ouvrir les jeunes à la foi, il se montre convaincu de l’importance de l’éducation de la foi, mais reste critique envers les diverses pratiques qui lui paraissent ne pas aller dans le bon sens. Entre pédagogie et catéchèse, il y a cohérence dans l’ensemble de sa démarche et de sa pensée. Sa recherche est essentiellement habitée par le souci de la liberté, voire de la libération, des personnes: enseignants et catéchètes, jeunes aussi. Car, écrit-il: Précisément, le caractère premier du christianisme et donc de la catéchèse devrait être la liberté. La catéchèse est Parole de Dieu, et la Parole de Dieu nous rendra libres. C’est à cette condition que le christianisme pourra être Bonne Nouvelles et que les chrétiens seront le levain dans la pâte. Il n’est donc pas défendu de penser que le dynamisme d’une catéchèse institutionnelle puisse se développer et créer de véritables renouveaux. […] . Parler de catéchèse institutionnelle, c’est attirer l’attention, au moment où certains désespèrent, sur l’immense champ ouvert à notre labeur, où nous pouvons aider la Parole de Dieu à se faire entendre. A quoi sert-il de renouveler les cours, les traités, si nous ne sommes pas attentifs au discours que tient notre liturgie, au message que crient nos manières de faire, notre style institutionnel, nos relations humaines.


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Le Formateur en entreprise Le Frère Piveteau a consacré l’essentiel de ses dix dernières années à la formation en entreprise. Cela semble un aboutissement naturel et logique, car il a toujours situé la pédagogie et la catéchèse dans un ensemble plus vaste, celui de la société et de l’église. Les derniers ouvrages qu’il a publiés illustrent cet intérêt pour le monde de l’entreprise. D’abord vacataire, il devient très vite permanent à l’INSEP, organisme fondé en 1967 pour développer la formation des cadres en entreprise. Jacques Piveteau y collabora de 1974 jusqu’à sa mort. Là aussi son rôle fut considérable, toujours stimulant et unanimement apprécié par ses collègues et par les responsables de l’INSEP. Monsieur Maurice Génelot, directeur de cet Institut, écrivit après le décès de Piveteau: En 13 années de collaboration, il a animé environ 350 séminaires et contribué ainsi à la formation d’environ 5000 personnes, pour la plupart des managers. De tels chiffres justifient cette appréciation sur l’impact de ce travail : « Son influence sur l’évolution des relations du travail en France, sur la morale du management et sur la pédagogie, est considérable, à travers les personnes qu’il a formées, mais aussi à travers ses nombreux ouvrages et articles. Son étonnante capacité de création et son pouvoir d’influence sont à l’origine de nombreuses et très profondes transformations dans les entreprises.

Axes de sa pensée et de son action La pensée de Jacques Piveteau n’était pas une pensée linéaire, à but démonstratif, mais plutôt une pensée réactive aux situations ou événements, incisive et toujours éclairante. Un simple coup d’œil sur la liste chronologique de ses ouvrages le montre clairement. Une production assez importante finalement, surtout après 1970, soit presque un livre par an et une quantité d’articles, au milieu d’une activité débordante. A travers cette diversité des thèmes, on peut relever cependant quelques constantes de sa pensée et les résumer de la manière suivante: • • • • • •

Primauté des personnes sur les structures et les institutions. Libération des potentialités créatrices individuelles et de groupe. Intérêt et enrichissement du travail en équipe. Nécessaire souplesse et relativité des structures sociales, scolaires, ecclésiales, religieuses pour permettre les évolutions. Importance de la communication entre les personnes, donc du langage. Approche globale des situations, ou approche systémique.

Jacques Piveteau trouvait dans l’action, dans l’actualité, le moteur d’une pensée pertinente. Il testait ses idées ou intuitions sur ses interlocuteurs, sur son équipe de travail, ce qui lui garantissait aussi une pensée ouverte et créative. L’échange d’idées lui était nécessaire, d’où la quantité de dialogues, d’entretiens, de séminaires, de débats qu’il a eus. Il avait une aptitude exceptionnelle pour le débat, quitte à manier parfois le paradoxe pour le faire avancer. Dans ses exposés ou ses cours, il était capable de


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brillantes improvisations, de métaphores inattendues, de remarques ironiques qui étonnaient. C’était un magicien du verbe. Il manifestait, en particulier, l’art de la reformulation de la pensée d’autrui, manière bien connue de faire avancer un dialogue. Mais il avait aussi une grande capacité d’écoute. Ceux qui ont travaillé en équipe avec lui peuvent en témoigner. Vers la fin de sa vie, il exprimait parfois le désir d’écrire un ouvrage sur l’écoute, après avoir publié celui relatif à la communication efficace. En tout cela, il manifestait sa très haute conception de la personne humaine, de sa dignité, de sa liberté. C’est au nom de la personne qu’il a défendu avec conviction le droit et le devoir d’évoluer, la volonté d’adapter et d’améliorer les conditions de vie et de travail, la nécessité de donner priorité aux personnes sur les structures, car la vie ne s’emprisonne pas. Mais elle peut s’étioler et perdre son sens lorsque les structures deviennent un carcan rigide. Il était en faveur d’une approche globale des réalités. On devrait parler d’approche systémique, mais le terme était moins en vogue que maintenant. A l’époque où se développait le débat « école et société », il observait et percevait l’école à l’intérieur des sociétés, affectée par les importants changements sociaux. L’ « école parallèle » dont on parlait encore – et l’ « école institutionnelle » s’entremêlaient. L’observation et l’analyse de phénomènes qui se produisaient suscitaient chez lui un intérêt passionné pour les progrès scientifiques et technologiques, pour les événements sociaux, politiques et religieux, pour les différentes groupements humains, pour les moyens de communication qui connaissaient une singulière expansion. C’était l’attitude d’un humaniste du vingtième siècle à qui rien d’humain n’était étranger. Son souhait était que cet intérêt soit partagé par les enseignants, éducateurs et catéchètes. Suite à un Colloque tenu à Cotonou (Benin) par les membres du CODIAM (Comité

pour l’organisation et le développement des investissements intellectuels en Afrique et à Madagascar), Jacques Piveteau fut pressenti par le groupe pour rédiger les conclusions du

travail, sous le titre: Guide pour votre école de Promotion Collective. Dans cet ouvrage, il exprime quelques unes des convictions qu’il est intéressant de relever:

L’éducation vise toujours à faciliter à un être humain l’entrée dans une société donnée pour qu’il vive à l’aise et qu’il puisse participer à tous les aspects de la vie de cette société. Il doit être tellement partie prenante de cette société qu’il peut collaborer efficacement à son évolution et à son changement […]. Pour vivre à l’aise dans une société et participer aux différents aspects de la vie de cette société, il faut connaître les langages, les comportements et les valeurs ou idéaux en usage dans cette société […] (pp.11-12).

L’école doit donc fonctionner en symbiose avec le milieu et contribuer à faire évoluer tout le monde, car elle doit être une école de « transformation » et non de « répétition » ou de « sélection». Dans l’ouvrage collectif Attention ! Ecoles, le passage suivant est également significatif de l’image qu’il se faisait du type de société que devrait générer l’éducation: Ce qui doit naître, c’est une société autre, basée sur une conception différente de la personne humaine et inséparable de ses relations à la croisée desquelles elle émerge à la conscience. Ce qui doit naître, c’est une société communautaire nécessairement


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moins centralisée, au tissu plus homogène, dans laquelle la richesse des uns est conçue comme un service pour les autres, tandis que les dons des plus doués sont le moyen providentiel pour faire avancer les retardataires. Ce qui doit naître, c’est une société plus fraternelle et ce projet ne peut laisser le chrétien indifférent même si nous savons que le temps viendra plus tard pétrifier à nouveau la vie qui commence à frémir et rendre nécessaire un nouveau glissement de structure (p…)

Lecteur intéressé de l’encyclique Populorum progressio (1967) et conscient que nous sommes dans une époque de lutte en faveur du développement, il était convaincu que c’est de cette encyclique et de ses perspectives sur l’homme (tout l’homme et tous les hommes) que les enseignants chrétiens devraient tirer la charte de leur action. Cela dépasse de beaucoup, on le voit, les préoccupations immédiates du quotidien et les pratiques pédagogiques qui mobilisent trop d’énergies jusqu’à éteindre parfois les capacités créatrices des éducateurs.

En conclusion Le Frère Piveteau a voulu passionnément comprendre, accompagner, voire précéder les évolutions de son temps. Il se montrait réactif et prospectif. Il plaidait pour droit aux réactions spontanées, aux coups de cœur, aux avancées risquées et aux corrections de trajectoire, pourvu que soient préservées la lucidité et la sincérité, et que l’essentiel soit sauf, c’est-à-dire la liberté et la dignité des personnes. A sa mort disparut l’un des penseurs les plus riches et les plus originaux de l’Enseignement catholique français de la seconde moitié du vingtième siècle. Avec son extrême sensibilité aux changements et une perspicace intuition de l’avenir, il a été, pour ceux qui ont bien voulu l’écouter ou le lire, une aide exceptionnelle pour comprendre les phénomènes sociaux, pédagogiques et catéchétiques de cette période.

■ Ouvrages de Jacques Piveteau, FSC (une sélection) 1955 – L’actualité des langues vivantes, Ligel, Paris. 1967 – Catholic Education in the Western World, edited by James Michael Lee, University of Notre Dame (Usa). 1968 – Le vrai problème de l’école. Pourquoi nous n’avons pas de Professeurs? Ligel, Paris. 1969 – L’école chrétienne, pourquoi ? Dialogue avec Edmond Vandermeersch, Beauchêsne, Paris. 1970 – Guide pour votre école de Promotion collective, CEPAM, Paris. 1970 – Jeunesse européenne d’aujourd’hui, avec Gérard Lutte, Ed. Ouvrières, Paris. 1971 – Pour une société en état d’éducation permanente, ouvrage collectif sous la direction de J.P. 1972 – Attention ! Ecoles, ouvrage collectif sous la direction de J.P., Fleurus, Paris. 1977 – Resurgence of religious instruction, avec James Dillon, Press Notre Dame. 1977 – Comment ouvrir les jeunes à la foi ? DDB-Bellarmin, Paris (trad. italienne:


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Elledici, Leumann-Torino). 1978 – Comment communiquer de manière efficace? avec Didier Noyé, INSEP éditions, Paris. 1979 – Le sujet de l’éducation, ouvrage collectif sous la direction de J.P., INSEP. 1981 – L’entretien d’appréciation du personnel, INSEP. 1981 – Guide pratique du Formateur, avec Didier Noyé, INSEP. 1984 – L’extase de la télévision, INSEP. 1985 – Mais comment peut-on être manager? INSEP. * Le F. Jacques Piveteau a écrit aussi un grand nombre d’articles parus dans une quinzaine de revues spécialisées et bulletins. * Sur sa vie et sa pensée, se reporter à : Léon LAURAIRE, Jacques Piveteau, la passion de la liberté, Secrétariat CFV, FEC Région France, Paris 1988, pp. 124. Jacques QUEYNNEC, Frère Didier-Jacques Piveteau. De l’éducation à la formation, Editions Don Bosco, Paris 2004. * Les chercheurs intéressés à approfondir les publications et les inédits de F.Piveteau peuvent s’adresser à: Archives Lasalliennes, 95 rue Deleuvre, F-69004 LYON; mail : archives.las@free.fr; www.archives-lasalliennes.org


BIBLIOTECA

Una rassegna di libri per giovani lettori a cura di Francesco Pistoia

1.

I quarant’anni del Concilio ecumenico Vaticano II (annunciato il 25 gennaio 1959, aperto l’11 ottobre 1962, concluso l’8 dicembre 1965) sono stati celebrati con puntualità e discrezione: rievocazioni animate dal desiderio di capire, approfondire, applicare. Il bollettino semestrale “Orientamenti bibliografici” della Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale, offre una solida documentazione dell’interesse suscitato dalla storica ricorrenza. L’appassionato discorso di Benedetto XVI,

Il concilio Vaticano II quarant’anni dopo

(Lev, Città del Vaticano 2006), fa avvertire emozioni e cogliere spunti di costruttiva riflessione. L’Azione cattolica italiana, scrive il presidente Luigi Alici nella premessa a Un concilio per il mondo, ha voluto raccogliere “alcune tracce di un sentiero, lungo il quale sia possibile darsi la mano e camminare insieme. Per ricordare, per testimoniare, per condividere”. E l’assistente ecclesiastico dell’Aci, mons. Francesco Lambiasi, premette: “Il Concilio è stato la grazia più grande che il Signore ha fatto alla Chiesa nel secolo appena trascorso. La nostra generazione ha la grave responsabilità di ‘passare’ questo dono dello Spirito ai più giovani perché anche per loro sia una ‘sicura bussola’ per orientarsi nel cammino del millennio appena avviato”. Le belle pagine del libro, corredate di testimonianze fotografiche, sono, come recita il sottotitolo, un “invito al Vaticano II”: un invito a compiere un percorso attraverso la sua storia, a scoprirne le ricchezze, ad assimilarne il messaggio. Un invito rivolto soprattutto ai giovani, ai laici, a quanti sono impegnati nei vari campi dell’agire umano: un invito a leggere attentamente proposte e progetti,

RivLas 75 (2008) 3, 467-476

a mettersi in sintonia con il movimento liturgico, con il movimento ecumenico, con il movimento biblico, un invito a scoprirsi chiesa e a scoprire la gioia d’essere chiesa. Un invito a costruire il dialogo via per la pace e lo sviluppo. Ci si può preparare a una missione così coinvolgente riflettendo sulle parole che gli ultimi due Papi hanno rivolto ai giovani in più occasioni. Ci si può preparare a sostenere il dialogo e a lavorare per la pace riflettendo sui messaggi rivolti ai giovani in occasione delle Giornate mondiali della gioventù. Ci viene incontro il francescano Gino Concetti, teologo e studioso di problemi sociali e morali, che raccoglie tali messaggi, i principali e nelle parti essenziali, nel libro Le Giornate mondiali

della gioventù da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI (Vivere In, Roma 2006, pp.334);

ci viene incontro il volumetto

Carissimi giovani, carissimi amici, messaggi

papali raccolti da padre Caesar Acuire e Barbara Prosperi (SRI edizioni, Milano 2005, pp.128). Attraverso il primo, che ricostruisce la genesi e lo sviluppo della straordinaria iniziativa voluta da Giovanni Paolo II (o meglio, secondo le affermazioni dal Pontefice più volte ripetute, dagli stessi giovani), e il secondo, che illustra con pagine limpide e corredate di splendide fotografie testi ed eventi, i lettori possono cogliere la pertinenza e la fecondità dell’insegnamento dei due Papi. E due opuscoli delle edizioni Paoline, Parole da non dimenticare di Giovanni Paolo II (Milano 2005, pp.80) e Conosciamo il nostro Papa, breve profilo biografico e brevi testi di Benedetto XVI (Milano 2005, pp.80), invitano a cogliere il senso di un discorso che esalta la vita e dona gioia. I giovani, che si sono guadagnati il titolo di papa-boys, talvolta usato ironicamente ma sempre con allegria e ottimismo, sono in effetti passati dalla cronaca alla storia come protagonisti e come costruttori di speranze: alle “sentinelle del mattino” si dedicano incontri, seminari, libri, vi si ispirano proposte di nuova evangelizzazione, iniziative, movimenti. Si legga Andrea Brugnoli, Una luce nella notte (Paoline, Milano 2007, pp.192, con fotografie, con prefazione di Domenico Sigalini) e si scoprirà un mondo ricco di entusiasmo,


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di fede, di valori, d’impegno. Le belle pagine di Brugnoli, sacerdote, cultore di filosofia, iniziatore in Italia del movimento e della Scuola S. Andrea e dei Corsi Alfa, dicono quanto televisione e giornali non dicono: che c’è tanta voglia nel mondo, nei giovani, di lavorare per un futuro migliore.

2.

Vanno segnalate due collane dell’editrice Il Mulino di Bologna: ospitano libri per tutti, ma particolarmente adatti per i giovani. La prima è ”Farsi un’idea”. I volumetti, più o meno cento pagine ciascuno, introducono all’europeismo, alle istituzioni, all’economia, ai problemi sociali, alle scienze, all’ambiente, alle religioni. In quest’ultima sezione i lettori trovano materiali per studiare la Bibbia e il Corano, i Cristiani e i Musulmani, i movimenti e gli eventi religiosi. Piero Stefani racconta gli Ebrei con linguaggio semplice, accessibile, rigoroso nel contempo. Biblista e studioso dell’ebraismo, autore di studi apprezzati (L’antigiudaismo. Storia di un’i-

dea, Le radici bibliche della cultura occidentale, La Bibbia – pubblicata nella detta col-

lana nel 2004), lo Stefani non fa solo storia e ricerca religiosa, suscita interesse, educa all’intelligenza di fenomeni complessi e significativi. Il volume Gli ebrei (2006, pp.124) è un lavoro condotto su dati vagliati attentamente ed espresso con puntuale essenzialità. Un lavoro esemplare, rispondente a diffuse aspirazioni di studenti, di giovani. Da raccomandare ai docenti, soprattutto ai docenti di storia e di religione. La seconda collana, “Si governano così”, è simile alla prima: sul piano del metodo e del linguaggio e soprattutto dell’ispirazione pedagogica. E’ un contributo notevole all’educazione civica, alla conoscenza delle istituzioni vigenti nei vari paesi d’Europa e del mondo, all’approfondimento dei contesti in cui si sviluppano iniziative e decisioni. I volumi della collana (Germania di Francesco Palermo e Jens Woelk, 2005, pp.150; Regno Unito di Alessandro Torre, 2005, pp.180; Spagna di Roberto Scarciglia e Dania Del Ben, 2005, pp.160: e ancora Francia, Stati Uniti, Canada, India, Cina…) sono affidati a docenti, ricercatori, esperti che sanno trattare temi

Biblioteca

e problemi con linearità: il loro discorso, pur ricco di riferimenti, è attraente, leggibile, godibile. Le pagine finali offrono cronologie, appunti bibliografici. I giovani sono guidati alla lettura del mondo politicosociale con mano sicura e possono approfondire termini e concetti come democrazia, dittatura, costituzione, referendum, diritti, partiti e movimenti, sindacato, governo, autonomie regionali…

3.

Le edizioni Messaggero di Padova riservano ai giovani una collana di profili biografici, I testimoni. Luigi Ferraresso, che la dirige, si fonda su uno schema didattico abbastanza agile: vita del personaggio, antologia di testi, glossario, pagine fuori testo, nota bibliografica. Termini segnati in neretto nel testo sono spiegati nel glossario. La collana comprende una trentina di titoli (e altri seguiranno) e orienta nei diversi ambiti della cultura e della società. Si va da Gesù di Nazaret dello stesso Ferraresso (2006, pp.190), storia di Gesù raccontata con passione e con stile (una sintesi sobria che avvicina ai giovani un Gesù amico e ricco di sollecitudine nei loro confronti e nei confronti dell’uma-nità), ai profili di Paolo di Tarso, di Teresa di Lisieux, di Teresa d’Avila, di madre Teresa, di padre Pio, di papa Giovanni, di Massimiliano Kolbe, di don Tonino Bello, di Bakhita… La collana si configura così come una piccola enciclopedia biografica, da leggere e consultare. Tra gli ultimi profili, quello di Don Luigi Sturzo (Padova 2007, pp.198), tracciato da Paolino Stella e Ferraresso. Se si vuole davvero studiare il Novecento, fare un viaggio nella storia contemporanea, se ci si vuole aprire allo spirito della democrazia e all’intelligenza del contributo che i cattolici hanno dato alla sua costruzione, il volumetto su don Sturzo giunge davvero opportuno. Ma è opportuno segnalare pure Padre Annibale Di Francia di Luigi Di Carluccio (2007, pp. 152), che viene offerto a lettori giovani e meno giovani nel centenario del terremoto di Messina e Reggio Calabria, avvenuto nel 1908. L’azione svolta da padre Annibale in occasione di quella tragedia resta un esempio luminoso di dedizione eroica al prossimo. Il messinese


Biblioteca

Annibale Di Francia (1851-1927), proclamato santo nel maggio 2004, dedica la sua vita di sacerdote alla preghiera e ai poveri e agli orfani. I rogazionisti da lui fondati (e le suore del Divino Zelo) ne portano avanti l’opera e l’insegnamento. Preghiera e carità animano la sua missione: preghiera per le vocazioni, sollecitudine per i fratelli che vivono nel bisogno o nell’emarginazione. La carità si traduce in gesti concreti: quella spirituale e quella materiale. Ma è soprattutto carità l’educazione, che nel pensiero e nell’apostolato del santo siciliano acquista sommo rilievo e produce una pedagogia dei poveri e degli oppressi, significativa ieri, ancor più importante oggi.

4.

Ai giovani interessati a capire l’Europa è dedicato il libro di Enzo Bianco, teologo, giornalista e scrittore, I Santi Patroni d’Europa costruttori e modelli (Elledici, Leumann-To 2004, pp. 112). L’autore racconta Benedetto, Cirillo e Metodio, Brigida di Svezia, Caterina da Siena, Edith Stein. Famiglia, preghiera, educazione, carità, lavoro, bellezza, cultura…sono motivi dominanti del discorso europeo ed europeistico. Alcuni eventi (lo schiaffo di Anagni, il papato avignonese, pellegrinaggi e giubilei), colti nelle loro origini e nelle loro conseguenze, contrassegnano una storia fatta di fatica, impegno, fede. Sui benedettini, padri della civiltà europea, si concentra l’attenzione dello scrittore e del lettore. Il lettore è aiutato a leggere non solo la storia, ma anche l’attualità, i fermenti, i tormenti, gli entusiasmi, le cadute e le riprese dell’umanità del nostro tempo, soccorsi dalle parole di Paolo VI e, in particolare, di Giovanni Paolo II. I cristiani di oggi devono farsi continuatori dei padri d’Europa, del loro insegnamento, della loro santità: e lavorare con coraggiosa coerenza per un’Europa dello spirito. Un limpido profilo di Benedetto padre di molti popoli (Ancora, Milano 2006, pp.232) traccia il giornalista Andrea Pamparana. Che parla di Benedetto “come di un vecchio amico, un anziano padre, un uomo cui pensare nei momenti difficili, un maestro cui un discepolo sente il bisogno talvolta di porre domande fondamentali. Sapendo che lui ti ri-

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sponderà…”. Prefazione di Marcello Pera, già presidente del senato. Nella stessa collana “Medioevalia” è ospitato Colombano. Un Santo per l’Europa (2007, pp.192), testo di alta divulgazione che aiuta a capire Colombano scrittore latino e viaggiatore, e le radici cristiane dell’Europa. Maurizio Schoepflin dedica ai giovani, e non solo, Pensare da credenti (Borgonuovo di Pontecchio Marconi, Bologna, Ed. dell’Immacolata 2005, pp.160), una guida all’Europa cristiana attraverso una serie di ritratti di filosofi (s.Agostino, s.Alberto Magno, s.Anselmo d’Aosta, s. Bernardo di Chiaravalle, Maurice Blondel, s. Bonaventura, F.-René de Chateaubriand, Nicolò Cusano, Joseph de Maistre, Augusto Del Noce, Duns Scoto, Etienne Gilson, Vincenzo Gioberti, Alphonse Gratry, Romano Guardini, Soeren Kierkegaard, Jacques Maritain, s.Tommaso Moro, Emmanuel Mounier, John Henry Newman, Blaise Pascal, Antonio Rosmini, s.Edith Stein, Luigi Sturzo, s.Tommaso). Schoepflin è docente nei licei e nell’Istituto superiore di scienze religiose all’Apollinare di Roma e pubblicista attivo, presente sulle pagine di “Avvenire” e su riviste di cultura. I suoi lavori sono ben articolati, sviluppati sempre con rigore e semplicità: si fa leggere e sa suscitare la voglia di approfondire, di mettersi in viaggio alla ricerca dei valori che contano. Proteso all’essenziale, educa alla verità e al dialogo. “Il cristianesimo - scrive nell’introduzione - non è una cultura; tuttavia, fin dalle origini, i cristiani si sono confrontati e hanno dialogato in modo molto fecondo con le varie culture, concretizzando uno straordinario patrimonio di sapienza e di bellezza che ha contribuito in maniera decisiva alla costruzione della nostra civiltà”. Il dialogo caratterizza la ricerca di Antonio Rosmini, il più grande filosofo cattolico dell’Ottocento italiano: scrittore poliedrico, teologo, promotore di iniziative politiche, fondatore dell’Istituto della Carità e delle Suore della Provvidenza. A lui Valentino Salvoldi, docente alla Accademia Alfonsiana, fondatore di Shalom, movimento per la crescita dei giovani, dedica un breve profilo, Antonio Rosmini. Una storia dell’amore


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(Velar-Elledici, Gorle-Cascine Vica 2007, pp. 48): pagine riccamente illustrate, attente alla vita e alla spiritualità del Roveretano e all’essenziale del suo pensiero. La beatificazione di Rosmini (Novara, 18 novembre 2007) ha richiamato l’attenzione sull’uomo, sul santo, sul pensatore dal respiro europeo. Le edizioni Paoline in Pensieri e parole di Antonio Rosmini (Milano 2007, pp. 80) offrono ai giovani la possibilità di accostarsi al pensiero e alla scrittura del filosofo attraverso un’antologia di scritti significativi. Le stesse Edizioni con Maurizio De Paoli, Antonio Rosmini. Maestro e profeta (Milano 2007, pp. 270) presentano una biografia di Rosmini impostata su criteri di chiarezza e sviluppata con stile limpido e attraente. Maurizio De Paoli, giornalista di “Jesus”, di “Famiglia cristiana”, di emittenti televisive (è stato anche sindaco di Domodossola, terra rosminiana), ha al suo attivo un altro breve profilo dell’autore delle Cinque piaghe della santa Chiesa (Antonio Rosmini. Una lunga storia d’amore, Paoline, Milano 1997): per Rosmini egli nutre simpatia e ammirazione. Lo segue nelle sue vicissitudini umane, religiose, politiche, letterarie. Ne evidenzia la coerenza, sofferta e sincera; l’amore per gli studi, la cultura, la scuola; l’attenzione per l’Italia e i suoi problemi; il grande inestinguibile amore per la Chiesa; il sentimento dell’amicizia; la volontà di rinnovare la filosofia cristiana e di cogliere i fermenti della modernità. La biografia si legge con gusto, con profitto, d’un fiato. De Paoli sa trattare di storia, di religione, di temi e problemi complessi con agilità. Un discorso che i giovani possono cogliere e apprezzare. Elena Ascoli in Ca-

terina. Un cuore di fuoco per l’Europa

(EMP, Padova 2005, pp.108) scrive pagine limpide e scorrevoli sulla Santa senese a partire da un’esperienza viva, dal suo incontro con lei nel clima del Sessantotto, dalla lettura della sua vita tra storia e attualità. Studiosa dell’opera di santa Caterina, religiosa della congregazione romana di san Domenico, docente nei licei per anni, a contatto coi giovani attraverso la dirigenza dell’Ufficio Scuola della diocesi di Arezzo, l’Ascoli parla a tutti e soprattutto ai giovani:e traccia un ritratto della Santa che

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parla il linguaggio della carità e dell’amicizia. Caterina ci diventa familiare e ci dona insegnamenti preziosi. Insegna il “conoscimento di noi, perché è convinta, per personale esperienza, che è il solo modo di restare fedeli a una visione interiore della verità universale ed eterna e divenire vasello che accoglie la misericordia e la bontà di Dio. La Chiesa ha bisogno di voi e voi della Chiesa: restare dalla parte di Dio è per Caterina schierarsi dalla parte del bene eterno per ogni uomo” . L’Europa è una conquista, una conquista da compiere. I ragazzi e i giovani lo sanno. Scuola e agenzie educative non possono non essere coinvolte. Dell’emergenza educativa parla Stefano Zamagni, ordinario di economia politica presso l’Università di Bologna, in un’intervista rilasciata ad Alessandro Rivali di “Studi Cattolici” (dicembre 2007) a conclusione della Settimana sociale dei cattolici di Pistoia e Pisa (18-21 ottobre 2007). Osserva lo studioso: “purtroppo è passato lo slogan che la scuola non deve più impartire educazione, deve trasmettere il sapere senza impartire formazione: i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Se togliamo alla scuola il compito primario dell’educazione, la riduciamo a una mera dispensatrice di saperi, che possono anche essere ottenuti in condizioni migliori e con altri metodi grazie alle nuove tecnologie”. Non basta il testo di educazione civica. Occorre impegnarsi a fondo, leggere, commentare, approfondire. Mario Mauro ed Elisabetta Chiappa scrivono per i giovanissimi un Piccolo dizionario delle radici cristiane d’Europa (Ares, Milano 2007, pp. 72), che è illustrato da Benedetto Chieffo e corredato di “Eurovia”, “il grande gioco della bandiera europea”. Francesco Cossiga scrive nell’introduzione:”Parlare delle radici cristiane dell’Europa è importante perché, senza quelle, noi non saremmo ciò che siamo”. In trentadue voci si condensa la storia e la visione dell’Europa. Tra le voci: amicizia, civiltà, cultura, democrazia, fede, identità, Lepanto, Maria, musulmani, Natale, rivoluzione francese, vie missionarie, vita. Il libro contiene altresì semplici profili dei patroni d’Europa e una premessa


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per i genitori. “Le radici cristiane della nostra civiltà”, si legge a p. 37 - e il discorso pare rivolto agli uomini e alle donne del nostro tempo con incarichi di responsabilità -,”si rispecchiano nei vari ambiti in cui si manifesta la nostra identità, innanzitutto nella famiglia, nucleo originario fondante della società occidentale fin dai tempi dell’antichità greco-romana”. Mario Mauro, docente di storia delle Istituzioni europee, vicepresidente del parlamento europeo, ha il dono di un linguaggio semplice e limpido: racconta, ragiona, riflette, educa. A quanti desiderano approfondire il discorso sull’Europa dedica Il Dio dell’Europa (Ares, Milano 2007, pp.152). Il suo lavoro, la sua esperienza, l’appassionato impegno di docente e di parlamentare nutrono le pagine dei due libri e suscitano l’interesse dei giovani lettori assetati di ideali e di valori. Nello spirito che anima le collane della Ares, il Piccolo dizionario e Il Dio dell’Europa rappresentano uno stile educativo nuovo, un modo nuovo di studiare la storia, una via lineare allo studio dei problemi del nostro tempo, che sono complessi, sociali, politici, culturali, ma anche e forse in modo più accentuato spirituali .

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Conoscere il cristianesimo per capire la civiltà, l’umanesimo, la storia è esigenza forte. Uno studio serio del cristianesimo non elude, anzi postula, l’approccio ad altre religioni, in particolare all’ebraismo (e il libro citato sopra risponde alla bisogna) e all’Islam. L’editrice Ancora dedica ai ragazzi e ai giovani un Atlante dell’Islam (Milano 2005, pp.62) in grande formato: religione, storia, cultura, vita quotidiana. Opera di un’équipe di esperti, pittori e disegnatori, scrittori e storici; testo di Neil Morris, illustrazioni di Manuela Cappon, Gian Paolo Faleschini e altri. Il libro va letto, va esplorato con l’aiuto degli insegnanti. “In molte parti del mondo i musulmani vivono in pace e armonia con i loro vicini non musulmani, ma in alcuni luoghi sfiducia e paura generano continua violenza”. Le notizie che il libro fornisce aiutano a conoscere una realtà, ad eliminare pregiudizi e ad affrontare le sfide del mondo d’oggi con animo libero dalla paura. Anche Atlante

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dell’Islam, come Piccolo dizionario delle radici cristiane d’Europa, suggerisce un

approccio nuovo alla storia. Nella stessa direzione si collocano altre pubblicazioni della Elledici: - Dio Iahvè Allah. I grandi interrogativi sulle tre religioni: ebraismo cristianesimo islam; - Le origini dell’islam, fascicolo monografico della rivista, particolarmente adatta ai giovani, “Il mondo della Bibbia” (novembre-dicembre 2007); - La Bibbia e il Corano, che esce nella collana della stessa rivista. Ma in particolare si vuole qui segnalare Islam questo sconosciuto, di Cherubino Mario Guzzetti, islamologo autorevole, autore de Il Corano. Introduzione, traduzione e commento (Elledici 2007), e di Bibbia e Corano. Confronto sinottico (San Paolo, Cinisello Balsamo 2001). Alla grande competenza in materia così delicata, prodotto di lunghi studi e di trent’anni vissuti in paesi musulmani, il Guzzetti unisce una scrittura limpida, agile, didatticamente efficace, fruibile dai giovani. Islam questo sconosciuto è un libro da leggere: istruisce, informa correttamente, presenta spunti critici, educa al rispetto, alla tolleranza, all’intelligenza. Combatte pregiudizi, avvia alla lettura della tradizione e della storia non solo religiosa dei popoli musulmani. Magdi Allam, che scrive la presentazione, si dice colpito dall’onestà intellettuale dell’autore, e può concludere: ”Conoscendo l’Islàm sarà più facile vivere in pace con i suoi seguaci che ormai sono in mezzo a noi”. In appendice una cronologia e un glossario. Sulla stessa linea si colloca Altri immaginari (Emi, Bologna 2007, pp.96). Non so se il libro dal sottotitolo “Uno sguardo sull’intercultura attraverso i segni e i colori di Silvio Boselli”, sia stato concepito per gli adulti. E’ certo che esso è pedagogicamente utile ai ragazzi e ai giovani, che possono approdare sulla riva dell’intercultura attraverso immagini, didascalie, fumetti. E’ espressione cospicua del percorso di ricerca che il Cem, Centro di educazione alla mondialità, e la sua rivista “CemMondialità” portano avanti da decenni, protagonisti nell’opera educativa e nell’educazione interculturale. Silvio Boselli, illu-


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stratore e docente presso la Scuola superiore d’Arti applicate del Castello di Milano, racconta storie coi disegni, è presente su riviste e giornali e nel mondo dell’editoria giovanile. Educa all’amore per il prossimo e per il creato. Testi, commenti, temi svolti da docenti di fine sensibilità educativa, da esperti di psicologia e arte del dire e del comunicare: brevi, significativi, spiritualmente intensi. Ci si commuove a osservare la figura di Edith Stein, o quella di Penelope, o quella di Anna Frank; si riflette sulle pagine dedicate ai “doni delle culture” e su quelle che richiamano l’attenzione sul tema della pace e del dialogo. Un viaggio nella poesia, nella storia, nell’attualità. Percorsi interculturali sono i musei missionari. Testi, fotografie, didascalie nelle pagine di Musei missionari (Bologna, Emi, 2007, pp.96): un viaggio nelle culture, nelle religioni, tra i popoli. Una breve storia delle missioni, un’ introduzione all’antropologia moderna, una lettura di eventi, di documenti d’arte, di frammenti di civiltà significativi. Lucetta Scaraffia del dipartimento di Studi Storici de La Sapienza scrive l’introduzione. Sono presentati e illustrati il Museo Africano di Verona dei Comboniani, il Museo Popoli e Culture di Milano del Pime, il Museo d’Arte cinese ed Etnografico di Parma dei Saveriani, il Museo Etnologico del Colle Don Bosco, il Museo e Villaggio Africano di Basella di Urgnano (BG) dei Passionisti, il Museo Etnografico e di Scienze naturali “Missioni Consolata” di Torino. William Siegman scrive sull’arte africana e Maria Angelillo parla dell’India. Il volumetto invita a visitare i musei: se ne tenga conto nel programmare viaggi d’istruzione. Lettura e viaggio ci renderanno consapevoli che le esperienze missionarie sono un elemento costitutivo della storia degli ultimi secoli.

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Dal discorso illustrato o solo disegnato al fumetto classico. Una novità delle edizioni ReNoir, che traducono in immagini il romanzo di Eugenio Corti L’isola del paradiso (Milano 2007, pp.80). Eugenio Corti (Besana di Brianza 1921) è

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uno dei più rappresentativi scrittori cattolici del secolo XX. Alessandro Maggiolini, teologo, lo paragona a Manzoni e Francois Livi, italianista, a Tolstoj e Jorge Ipas, direttore della Gran Enciclopedia Rialp, lo dice superiore ai Nobel. E’ stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere di Polonia (per Processo e morte di Stalin), del Premio internazionale al merito della cultura cattolica nel 2000 e dell’Ambrogino d’oro nel 2007. E’ autore di saggi e romanzi tradotti in varie lingue. Vanno ricordati Il cavallo rosso (più di venti edizioni!), Gli ultimi

soldati del re,Il fumo nel tempio, La terra dell’Indio, I più non ritornano, Catone l’antico. Corti racconta la vita: con parteci-

pazione intensa e con stile limpido. Racconta la vita e fa storia. Quanta storia nelle sue pagine! Il centro della sua ispirazione è la dignità della persona umana: la libertà, la difesa dei poveri, soprattutto la verità. Insegna, con coraggio, la coerenza; esalta la bellezza della fede; scava nei meandri del cuore umano; coinvolge uomini e donne, giovani e adulti con la sua umiltà. Il suo impegno di cattolico, di italiano, di intellettuale, di “soldato” nutre la sua vita e quella delle sue creature. I libri di Eugenio Corti, e quelli su Eugenio Corti (Paola Scaglione,

Parole scolpite. I giorni e l’opera di Eugenio Corti) sono pubblicati da Ares di Milano. La tragica avventura de L’isola del paradiso è resa in romanzo “grafico” da Elena Pianta (disegni), Piero Fissore (sceneggiatura), Pamela brughiera (colori). Il fumetto, scrive lo scrittore nella prefazione, racconta la stessa storia del libro e trasforma il lettore in spettatore: il fumetto è un genere d’arte “che merita attenzione e interessamento”. E Paola Scaglione nella postfazione osserva: “La riduzione a fumetti del testo originale (di cui i più giovani potranno riservarsi una successiva lettura) rende in modo fedele e immediato il racconto di Corti, un racconto che già nelle intenzioni dello scrittore nasce tutto da vedere”.

L’amicizia tra fede e ragione, così appassionatamente richiamata da Giovanni Paolo II e costantemente ricordata da Benedetto XVI (l’ultimo capitolo di Schoepflin è intitolato significativamente “San Tommaso.


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Fede e ragione unite dalla verità per la verità”) è la chiave idonea a favorire una lettura della storia della filosofia con animo sereno. E viene in aiuto dei giovani che vogliono aprirsi alla filosofia e alla ricerca un libro della Zanichelli Una scintilla di fuoco (Bologna 2005, pp.160). Remo Bodei, l’autore di questo “invito alla filosofia”, indica ai giovani liceali l’attrezzatura necessaria alla navigazione e soprattutto si propone di accendere in loro la passione per lo studio, per la lettura, per la ricerca, per la verità, per le cose belle. Si tratta di uno di quei volumetti che i docenti più attenti inseriscono come consigliati nell’elen-co delle adozioni e che poi, presi dai ritmi stringenti di programmi, piani di lavoro, incombenze burocratiche, assenze e proteste studentesche, sono costretti a trascurare: un peccato! Il libro va tenuto presente, va letto, va gustato. E può fare compagnia ai ragazzi non solo per l’intero triennio, ma oltre: un libro dunque che i giovani devono riprendere, ripensare, in un certo senso rifare. Una guida puntuale, che parla il linguaggio dei giovani e che i giovani vuole aiutare a compiere un cammino verso la libertà.

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Quella della “Rosa bianca” (nulla a che fare con omonimie politicoelettorali!) è un’avventura – una storia vera! – tutta giovanile. Hans e Sophie Scholl, di 24 e 21 anni, arrestati all’università di Monaco perché diffusori di volantini contro la tirannia di Hitler, sommariamente processati, vengono dopo quattro giorni dall’accaduto giustiziati come traditori del popolo tedesco. Sono invece eroi e martiri della libertà. Di loro e del loro gruppo si interessa Romano Guardini, teologo ed educatore di grande levatura, Michele Nicoletti, filosofo della politica, studiosi di storia contemporanea e dei movimenti giovanili. Ora, grazie alla editrice Itaca, i giovani, gli studenti universitari, quanti hanno a cuore i valori della democrazia, possono leggere di Hans e Sophie Scholl la raccolta di Lettere e diari (2006, pp. 270) e di Inge Scholl La Rosa Bianca (2006, pp.192), cui si ispira un recente ottimo film. Volumi preziosi: il primo narra aspirazioni, ideali, quotidianità dei giovani oppositori del nazismo con le loro

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parole semplici, cariche di attese, di umanità, di amore alla vita, “grande avventura verso la luce” (P.Claudel). Paul Josef Cordes, presidente del Pontificio Consiglio Cor unum, scrive nella prefazione a Lettere e diari: “Spesso la maggioranza tace quando l’ingiustizia dei potenti sembra prendere il sopravvento. Sicuramente è la paura che fa tacere; il dispotismo infatti può chiudere la bocca, ma certo non può piegare ogni coscienza. E talvolta avviene il miracolo della rivolta contro ciò che è violenza, una rivolta scatenata dall’ardore etico e cristiano. La libertà con cui e a cui Hans e Sophie “erano stati educati in famiglia maturò – scrive Tania Piesch nell’introduzione al libro di Inge Scholl – in loro una sensibilità che ben presto ha svelato la menzogna delle promesse di Hitler. Fu l’esperienza personale che pose ad ognuno di loro delle domande a cui non riuscivano a dare una risposta ragionevole:perché non potevano essere loro stessi a scegliere gli autori che avrebbero voluto leggere? Perché dovevano essere proibiti libri di autori ebrei? Perché non dovevano cantare canzoni di altri popoli?”. Il libro di Inge Scholl ricostruisce la vicenda in tutti i suoi aspetti (è appena il caso di ricordare che la revisione linguistica del testo, effettuata da Gianni Mereghetti, risponde a scrupolose esigenze di conformità alla storia e di chiarezza pedagogica), riporta i volantini diffusi clandestinamente dalla Rosa Bianca e dal movimento di resistenza in Germania, arricchisce il racconto con testimonianze autentiche e vive: vive ancora oggi. L’autrice aggiunge: “Questo libro nasce negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, tra le cui rovine ebbe fine il Terzo Reich. A quell’epoca scrissi la storia della Rosa Bianca, a partire dalle vicende dei miei fratelli Hans e Sophie, perché sempre più spesso insegnanti, alunni, studenti, giovani e meno giovani mi domandavano di loro. Scrissi quella storia per i ragazzi cresciuti nella Hitlerjugend, che allora avevano aperto gli occhi davanti a quell’orribile nulla e che proprio in quel momento erano alla ricerca della verità…” (p.97). E non è tutto. Paola Rosà scrive la biografia dello studente cattolico Willi Graf, condannato a morte e uc-


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ciso il 12 ottobre 1943. Willi Graf. Con la Rosa Bianca contro Hitler è edito da Il Margine (Trento 2008, pp.240). “Nel periodo buio come la notte per la Germania la fiaccola delle ‘Rose Bianche’ diventò un segno di speranza”. Gli scritti sui giovani della Rosa Bianca andrebbero letti e meditati in classe. La stessa Itaca editrice presenta in Budapest 1956 (2006, pp. 166) un’antologia di documenti, testimonianze, poesie a cura di Sandro Chierici, con cui i giovani d’oggi sono chiamati a leggere una storia costruita dai giovani di ieri. Un libro che si legge come un romanzo, un libro che aggiorna, istruisce, educa alla libertà. Un libro che avvicina i giovani alla storia viva.

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Una silloge di poesia autentica. Di poesia vera, viva e vitale. I ragazzi di una seconda liceo, ai quali il volumetto è stato presentato, ne sono rimasti positivamente impressionati, anzi affascinati. Per la musicalità dei versi? Per i paesaggi che i versi evocano? Per i ricordi che essi suscitano? Certamente. Ma non solo per questo. Soprattutto, direi, per il discorso d’amore e di poesia che l’autore sviluppa e con cui sa attrarre i lettori. L’autore è un domenicano, vive nel convento di San Marco in Firenze, onusto di storia e di memorie, e dalla solitudine rivolge al mondo, all’umanità un messaggio di pace e di salvezza di cui il mondo sente il bisogno, di cui i giovani sentono il bisogno. E non è la prima volta che padre Fausto Sbaffoni dai sentieri del silenzio si affaccia alla realtà contemporanea e grida la sua ansia. Lo ha fatto con Ammokonia (Nerbini, Firenze 2003) un romanzo straziante e di ricerca, lo fa adesso con Pellegrini dell’Oltre (ancora Nerbini 2005, pp.120: con la brillante prefazione di Massimo Corsinovi, saggista e poeta), un itinerario spirituale verso la libertà e l’Assoluto. Si faccia attenzione a quel “pellegrini” al plurale: il poema nasce da riferimenti autobiografici ed esistenziali precisi, ma quei riferimenti sono avvertiti e colti come sentimenti, stati d’animo, avventure di ogni cuore umano, di ogni anima chiamata ad attraversare sentieri e contrade del mondo, a vivere gioie e dolori, a prendere le distanze non

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le distanze non dal mondo, che è bello e pieno di fascino e santo, ma dall’immondo del mondo, di ogni anima che si sente attratta in modo irrinunciabile al viaggio verso l’Oltre. Sbaffoni, che per lunghi anni ha insegnato ai giovani la storia e i problemi della spiritualità all’Università San Tommaso in Urbe e dirige da anni la nota “Rivista di Ascetica e Mistica”, non ricorre all’erudizione o alle malie della retorica o a un linguaggio eclatante per celebrare la gioia. Si fa fanciullo e si rivolge con l’innocenza del fanciullo all’uomo stanco del nostro tempo e lo trasforma in fanciullo. Un ritorno all’innocenza. Non sta, come la lettera potrebbe indurre a credere, in disparte “a vivere d’amore e di poesia”, ma come lo spirito induce a leggere - porge al prossimo il suo sogno d’amore e di poesia. Un miracolo, frutto di saggezza e di scienza, ma soprattutto di intensa limpida spiritualità. La santità e la poesia fioriscono negli spiriti che anelano a recuperare l’innocenza. Pellegrini dell’Oltre è un itinerario colorato di sogno dall’”eterno presente di Dio”, un itinerario di educazione alla ricerca dell’innocenza, alla ricerca dell’Assoluto. Ad Ezio Franceschini (1906-1983) Vita e Pensiero dedica, nel centenario della nascita, Per Ezio Franceschini. Ricordi, lettere, profilo a cura di Mirella Ferrari e Pietro Zerbi (Milano 2006, XIX-264); Lettere a Raffaele de Cesare, raccolte dal destinatario; un volume di “Aevum”, rivista al Franceschini molto cara. Ristampa inoltre Parole come sabbia del 1965, che, insieme con Cocci (1975) e con La valle più bella del mondo (1984, postumo), è espressione della sua felice vena narrativa e della sua attenzione per il mondo dei giovani. Parole come sabbia (Milano 2006, pp.224): racconti per Anna e le sue amiche, soffusi di grazia, di mistero, di poesia e di spiritualità medievale. Addestrato alla ricerca di carte rare, a scrutare i segreti degli archivi, trasferisce nelle opere di fantasia un mondo ricco di vita e di palpiti. Scrittura semplice, ariosa, fresca, ricca di insegnamenti profondi. Lo studioso si mette in ombra: traspare l’uomo con la sua sincera emotività,


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con la sua religiosità, col suo amore a Dio e al prossimo, alla Chiesa e alla società. Il libro di Ferrari e Zerbi è frutto del lavoro appassionato di discepoli, colleghi, estimatori. Un discorso a più voci sulla vita, sulle opere, sull’azione pedagogica, sull’impegno culturale e politico, sulla spiritualità di un uomo di pensiero e di scuola dai tratti eccezionali. Docente di letteratura latina medievale, preside della Facoltà di Lettere, rettore della Cattolica, membro del Consiglio superiore della pubblica istruzione, attivo nell’Opera della Regalità di Agostino Gemelli, è soprattutto esemplare come educatore e “cristiano tutto d’un pezzo”. Cordiale e sereno anche nei momenti difficili, invita sempre al bene e lo persegue con solida convinzione. Nella cultura e nella scuola italiana occupa un posto da protagonista. Tutto questo, e altro, nel libro di Vita e Pensiero e anche in Quasi un eremita nel tormentato ‘900 (Lev, Città del Vaticano 2007, pp.116), in cui Ernesto Preziosi, guidato dalla stima che nutre per l’Università Cattolica, da storico e da narratore traccia un ritratto completo di Franceschini, colto soprattutto nella ricchezza della sua vita spirituale: pagine che, corredate di importanti documenti, si leggono, come tutte le pagine del Preziosi, con profitto e intima gioia. Ferrari-Zerbi e Preziosi additano in Franceschini un apostolo, un maestro, un testimone. Geoffrey Trease (19091998), inglese, autore di un centinaio di romanzi, affascina i giovani con un modulo narrativo intriso di fantasia, di noir, di storia. La vicenda de Le Torri di Granata è collocata nel 1200. Robin compie un viaggio avventuroso attraverso le contrade della Spagna alla ricerca dell’Essenza d’oro, utile ad alleviare la malattia di cui soffre la regina d’Inghilterra. Incontra un medico ebreo, frati, saraceni, alchimisti: il rispetto per le credenze e le usanze religiose di ognuno è sommo e incondizionato. Il romanzo educa alla tolleranza, al dialogo, al rispetto reciproco. I personaggi sono vivi, suscitano simpatia, pronti ad affrontare situazioni difficili. Combattono per il bene, per l’onore, per la solidarietà. E il bene alla fine vince. Roberto Mussapi (nato a Cuneo nel 1952, vive a Milano, insegna alla Cattolica) è poe-

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ta affermato, saggista e critico. Ai ragazzi e al loro mondo presta attenzione da tempo. Studioso di Robert Louis Stevenson, che traduce e interpreta con originalità e passione, ne racconta la vita e l’av-ventura, trasformandosi in narratore robusto e limpido. Tusitala, il narratore (Ponte alle Grazie, Firenze 2007, pp.154) è dedicato a quanti amano l’avventura, ai giovani, agli amici di Stevenson, ossia del “narratore” (così Stevenson è denominato dagli abitanti di Samoa, tra i quali lo scrittore inglese si è trasferito per curare i suoi mali). E’ un romanzo davvero bello: paesaggi, avventure, pirati, esploratori, personaggi colorati: e tanta carica umana, fatta di dolori e di gioie, di cadute e di riprese, di religiosità e di senso del mistero. Mussapi parla di “signorilità dell’animo di Stevenson, da tutti i suoi conoscenti rilevata, e in cui si fondono, accanto a una natura generosa, un istinto di solidarietà, uno spirito curioso, e un innato, profondo rispetto per la vita”. Mussapi coglie le voci del mondo, del mare, del cielo, dei tramonti e delle aurore; coglie le voci che si levano dai cuori degli uomini e che invitano alla fraternità. Il suo libro è opera d’arte; è anche pedagogia dello spirito, della bellezza, dei valori che danno senso alla vita e alla storia.

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Una vita negli scouts, nell’A.C., nell’associazionismo, pur impegnato nella sua attività di quirinalista, Paolo Giuntella ama tornare su temi di vita, di storia e di pedagogia religiosa, tener vivo il discorso sulle radici cristiane, conversare coi giovani. Strada verso la libertà (Paoline, Milano 2004, pp.272) spiega il suo ricco contenuto con le parole del sottotitolo: “Il cristianesimo raccontato ai giovani”. Quale cristianesimo? Sostanzialmente quello del Concilio (cap. 4:”Il Concilio raccontato ai miei figli”), ma soprattutto il cristianesimo dei giovani, il cristianesimo a cui i giovani tendono alla ricerca di valori che diano senso alla vita:e il discorso si allarga ai laici, ai cristiani che affrontano i problemi del quotidiano con ansia e appassionato impegno, a quanti s’immergono nel cuore della storia e della teologia e anelando a una risposta si


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fanno costruttori di speranza e di pace. Pagine significative sono dedicate alla Pacem in terris di Giovanni XXIII. Ma che cosa insegnare ai giovani per quanto riguarda la dottrina cristiana? Un noto teologo si pone il problema e tenta una risposta nelle 66 pagine di Piccolo manuale di teologia (Edb, Bologna 2006). Giordano Frosini ha il dono della semplicità del linguaggio e della linearità dello stile: possiede la materia che tratta e la rende accessibile a dotti e meno dotti. Il suo lavoro, sintesi del credo cristiano, vuole essere una guida per catechisti e operatori di pastorale, ma è soprattutto una guida, chiara e puntuale (sarei tentato di ricordare i “sillabari” di Francesco Olgiati) per giovani, giovanissimi, per quanti aspirano a farsi un’idea della proposta cristiana (religiosa, morale, sociale). Ecco due punti essenziali: 1/Gesù è stato condotto alla morte dall’obbe-dienza.”Se Gesù avesse smesso di dire le cose che diceva e di fare le cose che faceva, l’avrebbero lasciato in pace. Ma, così facendo, appunto, avrebbe disatteso il piano di Dio. Le sue parole, i suoi gesti erano una provocazione al potere religioso e civile, che si sentivano scalzati nelle loro sicurezze dal giovane rabbi della Galilea. Per questo, unicamente per questo, fu ucciso. Vittima dell’obbedienza e non della volontà vendicatrice di Dio”; 2/ “Oggi la risurrezione è collocata al centro dell’avvenimento cristiano, anche in occidente che, per secoli, l’ha relegata in un posto secondario, sviluppando una teologia e una spiritualità basate principalmente sulla morte e sulla crocifissione”. Il peccato dell’uomo, la dottrina sociale della Chiesa, la Chiesa di Gesù: capitoli di un discorso che richiede approfondimento e invita all’approfondimento. Ma in tale discorso è fondamentale il riferimento a Gesù “centro del messaggio cristiano”, a Gesù che ci racconta Dio, che ci dona Dio. E, non ci si scandalizzi, resta fondamentale il riferimento ai “novissimi”. Piccolo manuale di teologia forse è più di un catechismo. Le sue pagine parlano alla mente e al cuore, parlano dell’uomo e di Dio, parlano della vita terrena e del destino ultraterreno del-

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l’uomo: spiegano il Vangelo e illuminano le vie della speranza e della pace. E concludiamo con un libro straordinario

L’abbé Pierre parle aux jeunes. La collana

“I Pellicani” delle edizioni Lindau contiene titoli che affrontano problemi attuali partendo da posizioni di coraggioso anticonformismo. In cammino verso l’essenziale. Un appello ai giovani dell’abbé Pierre (Torino 2008, pp.170) è fatto di pagine limpide e di sentimenti e pensieri vivi. Roger Etchegaray intitola così la prefazione. “Qualcuno che ha il coraggio di gridare!”. Quattro capitoli raccontano la storia di Emmaus e la storia di Henry Grouès, la storia di un impegno e la storia dell’abbé Pierre (1912-2007), ordinato sacerdote nel 1938, partecipa attivamente alla Resistenza. Eletto, dopo la guerra, deputato all’Assemblea nazionale, abbandona ben presto l’attività politica e si dona ai poveri e agli emarginati L’associazione Emmaus richiama l’attenzione sui mali che affliggono e lacerano la società, aggrega amici, promuove interventi efficaci, sfida incomprensioni, incredulità, difficoltà d’ogni genere: e salva vite umane e restituisce dignità a tante creature e suscita amore per il lavoro, per il volontariato, per il sacrificio. Viaggia, tiene conferenze, fonda comunità, promuove Cités d’urgence, dialoga con esponenti di religioni e culture diverse: il movimento di opere e di iniziative si diffonde in ogni dove e oggi “continua a svilupparsi con lo stesso spirito che lo animava in origine”. Il cuore dell’abbé Pierre batte per tutti gli uomini della terra, per quanti soffrono povertà e umiliazioni; il suo cuore batte soprattutto per i giovani. I giovani, se educati alla solidarietà nello spirito del Vangelo, potranno costruire un mondo nuovo. Il suo linguaggio è carico di carità educante, di amore vivo e limpido. Grida ai giovani:“Diventate competenti. Siate appassionati. Abituatevi a essere padroni di voi stessi. Dominatevi per poter essere efficaci, per essere all’altezza di quel compito meraviglioso che è davanti a voi e che vi mostra la vera grandezza dell’uomo” .

Francesco Pistoia


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