Rivista lasalliana 3-2010

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Rivista lasalliana Direzione e redazione: 00165 Roma - Via Aurelia, 476 Amministrazione: 00196 Roma - Viale del Vignola, 56

Rivista lasalliana

2010

Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/AC - ROMA - “In caso di mancato recapito inviare al CMP Romanina per la restituzione al mittente previo pagamento dei resi”

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ISSN 1826-2155

Rivista lasalliana

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trimestrale di cultura e formazione pedagogica

✓ Teodoreto di Ciro, teologo e catecheta ✓ Dall’idea di Europa alla costruzione dell’Unione ✓ Il crocifisso in aula: lezione di laicità ✓ La paternità tra Bibbia e psicanalisi ✓ Quando la scuola accetta la sfida del multimediale ✓ L’educazione cristiana riscopre i suoi carismi ✓ La Famiglia lasalliana in America Latina: una visione, i progetti, le strategie ✓ Francesco Possenti, scolaro lasalliano a Spoleto ✓ Beniamino Bonetto FSC, o le scienze umane a servizio dell’educazione

LUGLIO-SETTEMBRE 2010 • ANNO 77 - 3 (307)


Rivista lasalliana trimestrale di cultura e formazione pedagogica 77 (2010) 3


RL

Rivista Lasalliana Pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole cristiane da lui fondate. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie della Regione lasalliana euro-mediterranea.

Anno 77 • numero 3 • luglio-settembre 2010

Direzione e Redazione Rivista lasalliana, Via Aurelia 476, 00165 Roma, fpajer@lasalle.org, telefoni +39 06665231-0666523305, fax +39 066621301. Riviste in cambio e libri per recensione vanno inviati a: Redazione di Rivista lasalliana, Casella postale 9099, 00167 Roma Gruppo redazionale 2010 Roberto Alessandrini, Mario Chiarapini, Gabriele Di Giovanni, Mariachiara Giorda, Anna Lucchiari, Marco Paolantonio, Nicolò Pisanu, Francesco Pistoia, Francesco Trisoglio, Roberto Zappalà Collaboratori, consulenti Rafael Artacho López, Emilio Butturini, Robert Comte, Sergio De Carli, Lluís Diumenge Pujol, Mario Ferrari, Teódulo García Regidor, Pedro Gil, Edgard Hengemüle, Léon Lauraire, Herman Lombaerts, Vito Moccia, José María Pérez Navarro, Lino Prenna, Gerard Rummery, Jean-Louis Schneider, Lorenzo Tébar Belmonte, José María Valladolid Amministrazione e diffusione Associazione culturale lasalliana, Viale del Vignola 56, 00196 Roma gabriele.pomatto@gmail.com, cell. 3471033855, tel. 0632294503, fax 063236047 Abbonamento 2010 (4 numeri): ordinario in Italia e 24.00 - paesi dell’Unione europea e 30.00 - altri continenti Usa$ 50 - docenti lasalliani e 18.00 - sostenitori e 50.00 - un fascicolo separato, anche arretrato, e 6,50. A richiesta sono disponibili annate arretrate per Biblioteche e ricercatori. Il versamento della quota può effettuarsi mediante bonifico bancario su IBAN: IT51N0760101000000012378113, oppure mediante modulo di conto corrente postale n. 12378113 intestato a «Associazione culturale lasalliana». L’abbonamento annuo decorre dal 1° gennaio e si intende continuativo, salvo disdetta da notificarsi a mezzo lettera Editore ACL Associazione culturale lasalliana, Viale del Vignola, 00196 Roma, tel. 0632294503 Progetto grafico Federico Fiorini Stampa Stabilimento Tipolitografico Ugo Quintily spa., Viale Enrico Ortolani, 149/151, Zona Industriale di Acilia, 00125 Roma, e-mail quintily@quintily.com, tel. 0652169299, fax 0652169293 - http://www.quintily.com. Registrazione del Tribunale di Torino n.353 del 26.01.1949 (Tribunale di Roma n.233 del 12.6.2007) Periodico associato alla USPI, Unione stampa periodica italiana - ISSN 1826-2155 - Direttore responsabile a termini di legge F. Pajer - Spedizione in abbonamento postale: Poste Italiane spa DL 353/2003 (convertito in legge 27 febbraio 2004 n.46) articolo 1 comma 2 - DCB Roma.


Sommario

RICERCHE E STUDI 359 Francesco Trisoglio La catechesi culturale: Teodoreto di Ciro Teodoreto ha osato scendere nell’arena della cultura, misurandosi non solo con gli avversari interni (eretici), ma con i filosofi e i pagani del suo tempo. Li affrontò con energia e spesso con ironia. Non partì da chiusure preconcette, ma accolse quanto di vero e di buono riscontrava negli interlocutori. Smantellò gli errori, sapendo estrarre le positività pur presenti in contesti devianti. Combatté le idee, mai le persone. Alla base della sua apologetica una robusta teologia.

369 Emilio Butturini Dall’idea di Europa alla realtà storica dell’Unione europea L’evoluzione storica del continente - in particolare dal Medioevo ai giorni nostri - mostra le diverse configurazioni che politica e cultura, nazionalismi e confessionalismi, hanno impresso al volto dell’Europa prima di diventare un’Unione sovranazionale. Radici cristiane, ma anche guerre di religione. Ideali umanistici ma anche imperialismi. Valori pacifisti nonostante due guerre mondiali. Una nuova frontiera per la scuola europea: educare ai valori comuni della cittadinanza democratica.

381 Lorenzo Dani Un discorso laico, per nulla neutrale, sul crocifisso nelle scuole Una corretta visione laica della scuola non nasconde le religioni e i loro problemi. Al contrario: la tradizionale visione di laicità, paradossalmente, va desacralizzata, e la nozione di religione, laicizzata. Applicando tali premesse alla recente sentenza della Corte europea sul bando del crocifisso dalle aule italiane, può scaturire una argomentazione chiarificatrice che, declinata qui nella forma simulata di un dialogo, messo in bocca a interlocutori di diverso orientamento ideologico, conduce a conclusioni plausibili.

393 Francisco Mele Il mistero del nome del padre Quando lo statuto e il ruolo del padre cadono sotto la lente dello psicologo possono nascere interrogativi salutarmente inquietanti per ogni educatore. Interrogativi che, più che risolversi, si amplificano quando sono letti alla luce dell’ermeneutica biblica. Da Freud a Ricoeur, da Girard agli epigoni della nuova psichiatria provengono non solo dotte interpretazioni, ma anche sensati orientamenti di condotta educativa.

PROFESSIONE DOCENTE 403 Marco Paolantonio Scuola e multimedialità Cresciuti in ambiente multimediale, i ragazzi d’oggi sono spesso più competenti degli adulti nell’uso delle tecnologie comunicative. Compito della scuola rimane quello di far acquisire


conoscenze, abilità e competenze per mezzo di strumenti che meglio agevolano i processi di apprendimento. L’immersione in rete, coinvolgente ma dispersiva, va arricchita con l’astrazione finora legata al sistema lineare della parola parlata e scritta. La presenza professionale del docente consente di evitare la dispersione cognitiva connessa al bagno sensoriale mediatico e di propiziare apprendimenti integrati.

419 Lorenzo Tébar Belmonte Escuelas con carisma. Raíces de identidad de la escuela católica Lo específico de la escuela cristiana es aportar su carisma, ese don especial que se manifiesta en un estilo de acogida y de relaciones, en un compromiso, valores y signos de salvación. El carisma permite ser reconocido por la función social actuada, por las respuestas a las necesidades humanas que merécen una atención prioritaria, y una praxis permanente de solidariedad y gratuidad.

425 Michael L. Fitzgerald Interreligious relations in Egypt Condizione previa per il dialogo tra fedi religiose è una reciproca comprensione tra le culture coesistenti nel territorio. I fanatismi religiosi si alimentano di memorie devianti e di tentazioni identitarie abusive. Anche le minoranze religiose, non meno della religione di maggioranza, devono imparare le regole della convivenza democratica e della pedagogia interculturale. Testo pronunciato alla sessione dei Dirigenti delle istituzioni educative lasalliane d’Europa (Alessandria, 11-15 aprile 2010).

433 Anna Lucchiari Chiaroscuri Un mondo impazzito? - Farenheit già qui - L’importanza di un ‘non’.

LASALLIANA 441 Santiago Amurrio, Paulo Fossatti, Diego Muñoz Familia Lasallista y Asociación, el desafío de discernir para caminar En el Instituto FSC se está iniciando apenas un debate sobre la centralidad de la asociación para el servicio educativo de los pobres, a partir de la invitación que hizo el 44° Capítulo General. Esta convicción nace de un itinerario fundacional, eclesial e institucional que necesita ser discernido desde diferentes claves. Este artículo, desde las experiencias del continente latinoamericano, quiere ser un aporte para la reflexión pastoral con equipos de Hermanos y Maestros lasalianos.

461 José María Valladolid Retazos lasalianos Tres innovaciones geniales de san Juan Bautista de La Salle – Consagrados por el ministerio – ¿En qué año realmente se fundó el Instituto lasaliano? – ¿Qué fue del sacerdote Faubert, a quien La Salle dejó su canonjía? – ¿La familia cercana de Juan Bautista de La Salle.


473 Josean Villalabeitia Reglas de cortesía y urbanidad cristianas Rivisitazione sintetica della genesi, del contenuto e dell’efficacia storica di un classico della letteratura lasalliana, le Règles de la bienséance. Apparentemente conservatore in tema di morale e di religione, il La Salle spicca qui come un precursore dell’urbanità moderna, “un autentico enciclopedista che attua con decenni in anticipo un modo nuovo di vedere la vita, basata sull’organizzazione, l’osservazione, la sperimentazione di nuove tecniche, il metodo per prova ed errore…”.

481 Gabriele Di Giovanni San Gabriele scolaro Una ricostruzione – tra storia e immaginazione – di quella che doveva o poteva essere una giornata scolastica dell’alunno Francesco Possenti, alias san Gabriele dell’Addolorata, iscritto alla Scuola primaria lasalliana di Spoleto verso la metà dell’Ottocento. Evocato il contesto storico e richiamate le linee della prassi didattica codificate nella Conduite, l’A. “prova a immaginare” con piglio narrativo come poteva svolgersi una giornata-tipo dello scolaro e dei suoi compagni dentro e fuori dell’aula, tra lezioni e “impieghi”, tra compitazioni e pratiche di pietà.

499 Marco Paolantonio Beniamino Bonetto FSC, o le scienze umane a servizio della educazione Profilo biografico, curriculum accademico, tappe professionali di un Lasalliano a tutto tondo, che si è distinto per una intensa attività scientifica e didattica (docente di materie scientifiche, psicopedagogista e catecheta, ricercatore per conto dell’Unesco), per compiti di responsabilità istituzionale e di primo collaboratore di don Gnocchi nella fondazione della Pro Juventute, per il ruolo singolare di precettore del principe Vittorio Emanuele di Savoia, per la poliedrica produzione pubblicistica in scienze psicologiche (diagnostica, psicopatologia, orientamento) e in pedagogia religiosa (formazione dei catechisti, educazione etica in età evolutiva…).

513 Bibliografia lasalliana Nouvelle biographie, nouveau regard sur Jean-Baptiste de La Salle (Nicolas Capelle) – El Inspector de las escuelas cristianas en lo escritos de Juan Bautista de La Salle (Santiago Temprado Ordíaz) – Remarques sur une recension de Michel Ostenc (Alain Houry).

BIBLIOTECA 521

Segnalazioni. E.Biffi, Educatori di storia – E.Butturini, G.Canteri, Le ali del pensiero: Rosmini e oltre – G.Corsalini, Percorsi di formazione all’insegnamento letterario – E.Ducci, Approdi dell’umano – J.M.Escrivá, educatore e scrittore spirituale (rassegna) – A.M. Favorini, Educare alla Speranza – Jozef Stala, Los padres de hoy – Jozef Stala, E.Osewska, Anders erziehen in Polen. Libri pervenuti



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La catechesi nei Padri della Chiesa / 10

La catechesi culturale: Teodoreto di Ciro La terapia delle malattie elleniche FRANCESCO TRISOGLIO

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l titolo, con la sua evidente arguzia maliziosamente allusiva, fa subito intendere che qui non si tratta propriamente di una clinica per malattie organiche, ma che l’autore, pur nella serietà del tema, rifugge da una greve impostazione manualistica. Si presenta come coscienziosamente responsabile, perché con le malattie non si scherza, ed insieme come briosamente alacre, perché non si scherza neppure con la sopportazione dei lettori: è un’offerta ed è un’attrazione.

Cenno biografico Teodoreto, nato ad Antiochia nel 393, entrò subito in un monastero adiacente alla città, dove si preparò una sostanziosa cultura, sia teologico-biblica che profano-letteraria. Il vigore della sua personalità emerse subito, per cui nel 423, trentenne, fu eletto vescovo di Ciro, centro di una regione popolosa, situato a 60 chilometri a nord-est di Antiochia. Fu esponente di spicco della Scuola antiochena che si opponeva a quella di Alessandria (il Didaskaleion). Ad Antiochia si privilegiava l’esegesi concretamente storica in aderenza al testo, ad Alessandria si preferiva inoltrarsi negli spazi di un allegorismo che, se favoriva il misticismo, era però rischiosamente esposto a divagare in un soggettivismo incontrollabile ed aleatorio. Anche in cristologia si aveva la prevalenza di due diverse impostazioni: ad Antiochia si evidenziava la distinzione delle due nature, con il pericolo di distanziarle troppo fino a farne due persone (nestorianesimo), ad Alessandria si asseriva l’unità della persona, con il pericolo di avvicinare troppo la due nature fino a farne una sola (monofisi-


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smo, eutichianesimo). Si trattava di due esigenze ugualmente vitali, che andavano però composte con l’ampiezza di uno sguardo rivolto dall’alto e con la magnanimità di una generosa disposizione a capirsi a vicenda. Purtroppo difettarono entrambe, per cui, invece che all’integrazione, si arrivò all’urto. Dopo vari scontri tra Cirillo di Alessandria e Teodoreto (dissenso sugli anatematismi) faticosamente ricuciti, scoppiò la tempesta nel 448, quando Dioscoro, successo a Cirillo nel patriarcato di Alessandria, inasprì la polemica. Nel malaugurato concilio di Efeso del 449, che Papa Leone I definì ‘brigantaggio’, l’intransigente Dioscoro, ricorrendo a manovre oblique ed a violenze, accusò Teodoreto di nestorianesimo, lo fece deporre dall’episcopato ed indusse l’imperatore Teodosio II a mandarlo in esilio. Però, alla morte di Teodosio, nel 450 successe all’impero Marciano (450-457), il quale indisse un concilio a Calcedonia, sobborgo di Costantinopoli al di là del Bosforo (451). Vi intervenne Papa Leone Magno, che annullò le disposizioni del 449, per cui Teodoreto poté ritornare nella sua sede, dove rimase fino alle morte (circa 466).1 Ma, terminate le traversie che aveva subite da vivo, sopravvennero, a distanza, quelle che gli vennero inflitte da morto; infatti, con un intervento infelicemente ispirato, Giustiniano, che intrigava improvvidamente il trono nella teologia, nel concilio del 553, fece irrogare una condanna postuma a Teodoreto (i famosi Tre Capitoli). Teodoreto, nella realtà storica, fu un’anima fervida in un’inesauribile passione per l’ortodossia cristiana,2 che egli sostenne con un’alacre assiduità nella predicazione e con una vastissima produzione letteraria che spaziava in tutti i campi, dogmatici, apologetici, esegetici, storici.

L’opera apologetica La Terapia 3 è la più ampia apologia che la cristianità antica abbia prodotta (12 libri); in essa, ben al di là dei tria crimina sui quali si concentravano gli apologisti anterio-

1 Il card. John Henry Newman, Benedetto, Crisostomo, Teodoreto: profili storici, trad. it. St. Malaspina, intr. I. Biffi, Jaca Book Milano 2009, scrisse che Teodoreto ebbe la sfortuna di trascorrere la vita sotto la più feroce delle tempeste dottrinali; “fu un vescovo grande e santo e non vi è nulla nella sua vita, per quanto ci è giunto, che ci proibisca di dire che sia stato un santo autentico” (p. 83). 2 In tutte le sue opere, e specificatamente nelle lettere, rivendicò con tenacia, contro ogni collusione sia con il nestorianesimo che con il monofisismo, la dualità delle nature nell’unicità della persona. Cfr. ad esempio l’Epist. 85 al vescovo Basilio, Sources Chrétiennes 98 p. 224,9-12: “Respingiamo realmente, nella stessa maniera, quelli che ardiscono asserire che carne e divinità formano un’unica natura e quelli che dividono in due figli l’unico nostro Signore Gesù Cristo”. 3 Per il testo c’è la fondamentale edizione critica, con traduzione francese a fronte, di P. Canivet, SC 57 in due volumi, Paris 1958. Si trova anche in Patrologia Graeca 83,783-1152. M. Morani, La tradizione manoscritta della Graecarum affectionum curatio di Teodoreto di Ciro, in Rivista di Studi Classici 27 (1979), pp.225-246, ha compiuto un esame accuratissimo della tradizione del testo.


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ri, l’autore spazia lungo una varia tematica, nella quale si preoccupa meno di presentare in sistematica completezza la dottrina che di affrontare, in diretta, l’attualità delle opinioni che combattevano il cristianesimo. Per realizzare questo intento, imposta la sua azione sia sulla quantità delle coincidenze probative, sia sulla frequenza delle opposizioni concettuali e morali, sia sull’originalità del dialogo che imbastisce,4 Teodoreto, nell’aderenza al suo ambiente sociale e culturale, partì dal vivo; più che rivolgersi alle teorie nella loro astratta struttura intellettuale, aperse un dialogo serrato con i loro sostenitori. Insieme alla falsità delle concezioni erronee impugnò l’incoerenza dei procedimenti mentali; sull’obiettività delle idee stese la soggettività delle coscienze; accanto al valore (intellettuale) delle idee pose la responsabilità (morale) di controllarne la connessione; avvertì le contraddizioni come deficienze della personalità. Vedeva i sistemi attraverso alle persone; scrisse a tavolino come complemento al parlare nell’assemblea; nel redigere la Terapia si sentiva davanti il pubblico. Aveva da dire, ma capiva che, per non frustrare il suo messaggio, importava altrettanto il modo con cui dirlo.5 La verità costituisce un sublime valore in se stessa, ma la sua efficacia è condizionata dalla persuasività; il puro teologo speculativo la può contemplare in se stessa, l’apostolo la osserva nel suo arrivo alla ‘gente’, a coloro, che davanti all’accoglienza vedono ergersi schermi inibitori diversi, dall’ignoranza all’inerzia, dagli interessi terrestri alle raffiche devianti delle passioni. Teodoreto percepì, forse istintivamente, che la parola, anche se è avvincente, finisce per svanire nell’inconsistenza se non si alimenta con un ubertoso patrimonio di conoscenze, dalle quali attingere idee valide e sostanziose. Egli ad essere teologo esperto e storico informato fu tratto in quanto si sentiva catechista. Nel ‘curare le malattie intellettuali e morali’ Teodoreto non indugia quindi sulla parenesi: non misconosce certo l’importanza dell’elemento emotivo; sa che è una necessaria accensione dell’anima, ma sa anche che non è il fondamento dell’azione; è una fioritura che ha bisogno di radici ed è anche un troppo allettante ripiego per la facile verbosità superficiale di predicatori sprovveduti. Come formatore vide che a dirigere la vita sono le idee, le uniche che abbiano una solida permanenza al di là della volatilità del sentimento.6 Ad ampliare ed a chiarire le idee giova la cultura,

Vanno però segnalati, con alta proclamazione di merito, Clemente Alessandrino ed Eusebio di Cesarea, suoi due grandi ispiratori e fornitori di materiali costruttivi. 5 In Epist. 31, cod. Patm. Sakkelion SC 40, Teodoreto celebra l’arte “ di raccogliere da ogni parte gli espedienti che danno bellezza e forza alle parole”. P. Canivet, Introduzione SC 57, a p. 64 afferma: “Con il suo vocabolario opulento, Teodoreto si trova sempre a suo agio in qualsiasi argomento tratti... Nel suo vocabolario teologico, rigoroso quando parla della Trinità, sceglie con prudenza i termini che si inseriscano senza pericolo nelle strettoie della cristologia. Mira sempre all’eleganza... Sebbene abbia l’aria di dileggiare lo stile, Teodoreto ci tiene a scrivere bene”. 6 In Epist. 40, SC 40, asserì: “Non è l’indole, è la ragione quella che predomina, tanto nella virtù quanto nel vizio”. Essa collabora, per sua natura, con la fede; Teodoreto, Epist. 47, SC 40, p.112,5-6, si propone infatti di “mostrare col ragionamento le grandi verità che nel mondo presente si vedono mediante la fede”. 4


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che, quando è ricca, spinge ad affrontare qualsiasi difficoltà per amore del sapere (I,17) ed il sapere si incentra soprattutto sulla conoscenza di Dio.7 Egli scusa pertanto i filosofi pagani per le loro deviazioni, in quanto non avevano potuto beneficiare delle ‘fiaccole’ dei profeti e delle illuminazioni degli Apostoli (I,121); gli Ebrei ebbero a disposizione almeno i profeti (I,123). Ma Teodoreto pone a base del magistero didattico un articolato intreccio di conoscenze piuttosto che facili dichiarazioni programmatiche e lo fa con il suo instancabile esempio. Per qualsiasi via, sia diretta (studio personale) che indiretta (ricorso a prontuari), si procurò una documentazione immensa, che gli permise di muoversi con pienissima disinvoltura di fronte a qualsiasi contestazione;8 non mostra difficoltà né a proporre la sua fede né a demolire le concezioni contrarie. Procede con la pacatezza di chi è sicuro; affronta con tranquilla confidenza le obiezioni: “Ma forse voi mi direte...” (II,76); a chi gli rileva l’ingiustizia delle disuguaglianze sociali, che mal si concilierebbe “col supremo Regolatore dell’universo” replica con una serie di osservazioni imperturbate, convalidate dalla stessa convenienza sociale (VI,4958).

Metafore, analogie, immagini Ama infatti argomentare aggirandosi in una stretta aderenza alla vita sociale. Si sofferma pertanto ad osservare l’interdipendenza delle professioni artigiane nell’intreccio sociale con un sereno realismo che ricostruisce in limpidezza l’ambiente della vita quotidiana (IV,51); stabilisce così una sfera di concretezza che, dall’inequivocabilità delle cose, si riverbera anche sull’indiscutibilità della dottrina. La pacifica e regolare alternanza dei giorni e delle notti in ossequio alla disposizione del Creatore (IV,59) produce una fine umanizzazione della natura; sa di vivo; il richiamo immerge la natura nell’uomo; l’ordine fisico del cosmo si fa modello e stimolo a quello morale dell’uomo. Similitudini. L’innata razionalità degli ordinamenti della società e del cosmo emana una sottile suggestione di persuasività, anche in grazia di una loro ariosa apertura: Teodoreto richiama e rappresenta. È l’effetto che, in maniera più esplicita, viene attuato dalla similitudine. Teodoreto, come, del resto, tutti gli scrittori, vi ricorre volentieri. Rassomiglia i filosofi greci che hanno inconsapevolmente anticipato dot-

Teodoreto lo dichiara nell’Epist. 73 SC 98. P. Canivet, Histoire d’une entreprise apologétique au Ve siècle, Paris 1957, a p.135 dichiara che è immenso il debito di Teodoreto verso i suoi predecessori Giustino, Taziano, Teofilo, Atenagora; essi sono stati la piattaforma della sua apologetica; ma egli li sorpassò per il suo agio incomparabile nel maneggiare i testi.

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trine cristiane a pappagalli che imitano la voce umana senza capire il senso di quello che dicono (I,120). Di fronte alla mescolanza di buono e di cattivo che i filosofi presentano, consiglia di comportarsi come il giardiniere che raccoglie le rose e tralascia le spine (I,125), in analogia con le api, che si posano su tutti i fiori ma suggono solo il dolce scartando l’amaro (I,126); riscontra che, quando si levò, la luce di Cristo respinse nelle tenebre tutte le congreghe degli dèi a guisa di pipistrelli (XII,97); nota che i persecutori, accanendosi contro le leggi evangeliche, le resero più forti, come chi, per spegnere il fuoco, vi versasse dell’olio (IX,26); rileva che, come tutti i sentieri che provengono dai villaggi e dalle campagne si immettono nella grande strada maestra, così tutti gli antichi profeti sfociano nella grande strada che è Cristo (X,77); ammonisce che le parole divine persuadono ed elevano solo le anime mosse dalle speranze invisibili, come la calamita attira e tiene sospeso soltanto il ferro (V,1-2). Da ciò risulta che Teodoreto nel trattare la similitudine si stringe all’immagine significativa, senza cedere alle lusinghe della descrizione esornativa; l’immagine non attira l’attenzione su di sé, la riverbera sull’idea; è una didattica solerte che sollecita l’immaginazione senza disperdere la concentrazione. Oltre il paragone. Non di rado il richiamo figurato, invece di disporsi nel binomio del paragone, si riassume nello stesso enunciato. Il fatto che gli stoici non condividessero il parere di Aristotele sul concetto di felicità si esprime in un ‘votare’ contro di lui (XI,I5); vediamo che i persecutori non riuscirono ‘ad incidere la minima scalfittura’ nel muro di cinta della Chiesa (IX,3I), che certi malvagi ‘inciamparono’ in gravi colpe (XI,37), che il fedele è colui che ‘scende in lizza’ per Cristo (XI,80), che curare una piaga è ‘uno spalmare con la spugna su di essa i fomenti delle parole” (IV,3); ci presenta l’agevole ‘trapasso di campo di quanti disertano dalla verità’ alla licenza inculcata dal demonio (VII,2). Dietro alle minute vicende della consuetudine sociale Teodoreto staglia impegnativi problemi morali o storici; ricupera il banale trasponendolo nel significativo; offre un esempio di come si possa vedere al di là della superficie ed invita, implicitamente, ad attenervisi. Scene. L’espressione figurata può avvivarsi nell’abbozzo di una scena: così, ad evidenziare la generazione del Figlio di Dio che s’incarnò per curarci, ritrae i medici che ‘non delegano ad altri l’intervento, ma, personalmente, si tolgono il soprabito, si stringono con la cintura la tunica, prendono in mano il bisturi, operano l’incisione, sopportano il fetore, ricevono gli spruzzi di pus, spalmano con la spugna le pomate, ordinano i rimedi ed applicano tutti gli accorgimenti che la scienza medica prescrive’ (VI,83). Lo zelo pastorale da ideale teorico si è fatto modello concreto e, insieme, la lezione ha rivestito una vivezza colorita: alla mente ha procurato il sostegno della immaginazione. A proposito dei dissensi che, in cosmologia, pongono i filosofi in duri contrasti tra loro, evoca lo spettacolo di una battaglia notturna (IV,4), mentre, per illustrare quali siano gli autentici valori della vita, si propone di far ricorso ‘alle fiaccole delle parole divine’ (XI,5); al concreto appaia volentieri il pittoresco.


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Costume. Teodoreto, all’occorrenza, anima il suo discorso inserendolo nel costume; mette quindi in scena quegli avversari che, in sussiegosa sufficienza, sviliscono nella sua totalità l’ascetismo monastico perché qualcuno di quelli che lo professano ne viola le regole: sarebbe “come se uno disdegnasse la vita umana perché vede una scimmia che imita un uomo” (XII,33). È la medesima sicumera di coloro che gustano soltanto i discorsi raffinati in eleganza di stile, e, qualora questa manchi, “ridono, si fanno beffe, si turano le orecchie e rifiutano di ascoltare ciò che viene detto” (IX,1). Lo scrittore osserva, deplora ed irride a sua volta. Non gli è infatti per nulla estranea l’ironia; il suo pittoresco non scade nello scipito. Ironia. La sua ironia cestisce spontanea sulle molte contraddizioni e stravaganze della speculazione pagana, come sulla serie di assurdità e di depravazioni della mitologia.9 È la reazione di una superiorità intellettuale e morale; su certa inconsistenza una confutazione razionale non può trovare agganci di presa; risulta allora più efficace un atteggiamento di motivato disdegno. In IX,26 assume una posa di derisoria commiserazione dinanzi all’accanimento impotente con cui i persecutori “quali coribanti furiosi, avvalendosi dei più sottili artifici ed inganni” cercarono invano di strappare un’apostasia a uomini, donne, ragazzi cristiani. Ed il dissenso a forte tinta canzonatoria non risparmia neppure Platone,10 verso il quale nutriva pure, settorialmente, una simpatia accogliente.11 Quando Platone dichiara che le anime dei buoni nell’altro mondo saranno trasformate in api, vespe e formiche (Fedone 82 b), Teodoreto definisce la proposta “ridicola ed in contraddizione con quanto precedentemente affermato” (XI,36-37). Quando poi Platone avanza la teoria di un succedersi di cicli millenari per il destino delle anime (Fedro 248 e 249 b) lo taccia di stravaganza: “Chi ha potuto informarlo di queste decine di migliaia di anni ed insegnargli che, una volta trascorso il ciclo dei diecimila anni, le anime ritorneranno ciascuna al suo luogo?” (XI,40-41). L’intelligenza, nel suo lucido e saldo buon senso, si leva contro quella che si abbandona alle più incontrollabili fantasticherie. Di fronte alla cultura dominante Teodoreto trapassa in una piena libertà di accettazione o di critica; la sua voce si modula in una molteplicità di toni, ma la sua anima si erge sempre in una convinta sicurezza ed in un’integralità di coerenza.12 Parenesi. Teodoreto condanna, ma, in sostituzione, propone; il negativo libera il campo, in attesa della costruzione valida e perenne. Dopo la lunga marcia attraver-

Talora emerge qua e là, rapida ed improvvisa come un bagliore; in IV,6 imbibisce tutto un ragionamento a strette maglie deduttive. 10 Quando Platone nella lettera VI,323 d, diretta a Corisco, parla di “dei presenti e futuri”, Teodoreto si chiede come questi dèi, che nascono nel tempo, possano essere dèi, se non sono ancora nati (II,74-75): lo stupore, nella sua veste d’ingenuità, rende la radicale insostenibilità della posizione. 11 Cfr. XI,33; in contrapposta antipatia verso Aristotele, cfr. V,46; XII,52-53. 12 Contro gli avversari, oltre ad agire con la confutazione argomentativa diretta e con quella intuitiva dell’ironia, dimostra un’abile destrezza nell’indurli, essi stessi, riferendo le loro incongruenze, ad un’autoconfutazione delle proprie tesi in favore di quelle cristiane. 9


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so alle brevi oasi ed alle estese lande desertiche della filosofia profana, dopo le molte ‘malattie’13 arriva all’unica sanità sostanziale e completa della dottrina cristiana. Può finalmente intraprendere, personalmente con un largo respiro, ed avviare, con franca sicurezza, i lettori al viaggio dal mondo al suo Autore: il sole, la luna, le stelle nelle loro evoluzioni lo conducono dal contingente all’assoluto: “Stiamo bene in guardia, cari amici, dal divinizzare queste cose; innalziamo invece un inno al loro creatore, artefice e pilota, ed eleviamoci dalle cose visibili all’Invisibile” ed è un percorso durante il quale la riflessione contemplativa sale spontaneamente ad inno celebrativo verso lo splendido donatore (IV,65-66). Il libro V è tutto una solerte indagine sulla persona umana, sulle sue componenti, sulle sue finalità e responsabilità, arrivando ad una constatazione: “Noi rimaniamo pieni d’ammirazione vedendo la sapienza del Creatore che si manifesta in noi” (V,81).

Una teologia robusta Lungo questa linea procede alla scoperta dell’unitarietà del piano rivelatore divino, che fa delle profezie la conferma del Vangelo, il quale ne mostra il puntuale adempimento (VI,88-92). La rivelazione illustra la redenzione, la quale si realizza nell’incarnazione; Teodoreto ne riassume in densa perspicuità il progetto: rileva che sarebbe stato incoerente che il Creatore dell’universo, il quale aveva conferito l’essere a ciò che non l’aveva, trascurasse poi che si perdesse l’umanità per la quale aveva prodotto il mondo, ed allora egli la liberò dal peccato, che l’assediava e la conduceva alla morte, rivestendosi di una forma umana; non volle operare con un semplice atto di volontà distruggendo la morte e cacciando il demonio: “Non volle mostrare la sua potenza, preferì mostrare la giustizia della sua provvidenza” e perciò non si rivolse all’umanità dall’alto del cielo ma volle rendersi visibile agli uomini venendo in mezzo a loro (VI,74-79). Teodoreto rende persuasiva l’infinita discrezionalità divina permeandola di una coerenza che si adatta bene tanto alla logicità divina quanto a quella umana; collega i due piani in conformità sia con la teologia che con la didattica; sul quadro che presenta si stende un delicato velo di commozione che coinvolge la mente e rasserena il cuore per la sapienza e la magnanima bontà che ne promanano. Il compimento dell’Incarnazione suscitava il problema della coesistenza in Cristo, in unicità di composizione personale, sia della divinità che dell’umanità nella rispettiva loro autenticità ed integrità: era quella questione della compresenza delle due nature che, considerata unilateralmente, deviò nei due squilibri del monofisismo e del nestorianesimo, i quali sconvolsero la dottrina della Chiesa, ne turbarono violen-

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In II,8 ammonisce: “Sono assai ramificati i sentieri dell’errore”.


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temente la pace, investirono singole persone, tra le quali lo stesso Teodoreto. Quanto però fossero ingiuste le accuse pronunciate contro di lui basta a testimoniarlo la formulazione ufficiale che egli proclamò: “Il Signore si confezionò una dimora in un seno verginale, da cui uscì uomo visibile e Dio adorabile; era colui che è generato prima di tutti i secoli dalla sostanza del Padre e che prese dalla Vergine l’elemento visibile; era insieme recente ed eterno. L’unione non mescolò le nature e non sottomise al tempo l’autore del tempo; ciascuna delle due nature rimase intatta; l’una sopportava le debolezze della natura (come la fame, la stanchezza, la morte), l’altra operava le azioni divine (i miracoli)”. È una lezione ammirevole per equilibrio teologico, per esattezza terminologica, per eleganza e limpidezza espressiva. Il tono è pacatissimo; il problema intellettuale è assorbito in una fidente contemplazione di fede. Questo intervento Teodoreto lo osserva estatico e lo colloca nell’insieme dell’azione divina: l’Incarnazione è il completamento dell’opera creatrice; egli giudica imperdonabile storditezza l’ipotizzare una soluzione diversa da quella attuata dalla suprema Sapienza, che agì in un eccesso d’amore con un criterio progressivo,14 andando dalla Legge ebraica alla trionfale affermazione del cristianesimo (VI,8187).15 La venuta di Dio all’uomo provoca, come di riflesso, un corrispettivo avvicinarsi dell’uomo a Dio, mediante una rassomiglianza, alla quale stimolano san Paolo (Ef 5,1) e lo stesso Gesù (Mt 5,45), e che consiste nell’amare e odiare i comportamenti in analogia all’atteggiamento divino (XII,7-13). Teodoreto rincalza poi le norme divine con la sapienza umana, riportando il precetto platonico di rassomigliare a Dio mantenendo salda la razionalità dell’anima, salendo dal basso all’alto e liberandoci dagli affari terrestri (XII,19-24). Per il cristiano l’adesione a Dio si raggiunge, in sicurezza di percorso, facendo la volontà di Dio mediante l’osservanza dei suoi comandamenti (XII,14-18). Questa concordanza finisce con l’arrivare al culmine di una comunione con Cristo, che costituisce la vita eterna, il regno di Dio, privo di ogni sofferenza, in una beatitudine ineffabile, dono della magnifica liberalità di Dio (XI,52-57). Sulla lunga e frastagliata distesa degli smarrimenti, degli errori e delle perversioni pagane Teodoreto apre questa visione: di contro alle inestricabili contraddizioni dei filosofi si dispiega la nativa, piena coerenza del cristianesimo, nel quale si compenetrano, in spontaneità, la logica divina e quella umana, le linee fon-

È la ‘pedagogia divina’. Y. Azéma, Théodoret de Cyr d’après sa correspondance. Étude sur la personnalité morale, religieuse et intellectuelle de l’évêque de Cyr. Thèse, Université de Paris 1951, dà come tratto preminente in Teodoreto la pietà. Dichiara infatti che fu la pietà ad ispirarne la predicazione e a dettargli gli scritti contro gli eretici, a produrgli tanto zelo nelle dispute teologiche del suo tempo, a spingerlo ad un tenace impegno per riconciliare gli avversari; la pietà gli offerse la certezza che le prove erano un mezzo di espiazione e di purificazione; nelle sofferenze egli provò gioia perché lo associavano strettamente a quelle di Cristo. Fu la pietà a modellare la sua anima e ad informare la sua azione.

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danti ed i particolari specifici. L’apologia supera le minute dimostrazioni sillogistiche in una panoramica grandiosa, nella quale la coerenza proietta una luminosità persuasiva. Teodoreto è convinto che il cristianesimo non abbia tanto bisogno di essere difeso quanto di essere presentato in un’organicità che ne testimonia la verità e quindi la vitalità.

Apologetica come confronto con la cultura Se, come scrittore, la lunghezza dell’opera implica tratti di lentezza e di opacità, come catechista Teodoreto sostiene l’attenzione con una spontanea varietà di toni. Di fronte alla selezione con la quale Dio, pur nella sua illimitata disponibilità creatrice, chiamò all’essere certe cose a preferenza di altre, Teodoreto commenta: “Dio volle non tutto ciò che poteva, ma tutto ciò che giudicò sufficiente” (IV,53): imposta con pacata sicurezza un problema che poteva suscitare qualche inquietudine, come è quello del rapporto tra l’onnipotenza creatrice di Dio e l’effettiva limitatezza della creazione. Volgendo poi lo sguardo alla società, rileva un altro rapporto che concerne soprattutto la responsabilità (VI,69): cita infatti Plotino, Enn. III,2,8, secondo il quale le carenze sociali sono essenzialmente carenze personali: “Esercitano il potere i malvagi, perché i sudditi sono codardi”; Teodoreto condivide la tagliente accusa: è legge perenne che troppi si esauriscano nel deplorare, in assenza di ogni impegnata partecipazione personale. E continua, ancora con Plotino, universalizzando l’ambito: “La Provvidenza non deve agire in modo che noi non siamo nulla; se la Provvidenza fosse tutto e se fosse sola non esisterebbe neppure; verso chi sarebbe ancora Provvidenza? Esisterebbe soltanto l’essere divino”. Tramite un personaggio autorevole Teodoreto lancia un vigoroso messaggio, dal quale spira un’alta magnanimità; la sua fede è immune da pietismi: riconosce l’iniziativa di Dio e proclama la necessità della cooperazione umana; il dinamismo umano si inserisce in quello divino. Per evitare che il suo ammonimento svanisca nel tempo, Teodoreto lo figge nella memoria con la perennità della sentenza, che si fa consegna operativa; appoggiandosi ad Anassagora proclama infatti che “il bene supremo è cogliere in uno sguardo sintetico la natura delle cose, disprezzare quelle che passano e conservare la propria anima libera da ogni schiavitù” (XI,8): una raccolta meditazione sul valore e sul fine della vita è stata consegnata in un clima che ha un sentore di sacro. È una concentrazione riflessiva che esula da ogni ripiegamento inerte, perché si allea bene con la risolutezza: vediamo così che un’opinione sconveniente non va solo tralasciata, va ‘fuggita’ (II,113), che si ‘scapperà’ pure da altri errori (II,114); la condanna consueta viene drammatizzata con vivacità; la negatività dell’errore viene evidenziata dalla reazione che provoca. Teodoreto opera in leale chiarezza; contro gli avversari non lancia accuse generiche,


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documenta; non ne riassume, con l’evidente rischio di soggettivarlo, il pensiero; ne riporta letteralmente le dichiarazioni,16 corredandole spesso col riferimento bibliografico. Non ha paura dello scontro, perché confida che l’intrinseca insostenibilità delle tesi avversarie gli sia arma risolutiva. La sua apologia è una contrapposizione che ha un’anima di sfida, perché è permeata da un forte respiro di sicurezza. Teodoreto ha avuto il coraggio di scendere nell’amplissimo campo della cultura, affrontando non soltanto gli avversari interni (gli eretici, con i quali intercorreva identità di linguaggio tecnico) ma soprattutto i pagani (con i quali esisteva eterogeneità di tradizioni e di mentalità). Li affrontò con energia, spesso con ironia, mai con un’acrimonia astiosa; non partì con una chiusura preconcetta; smantellò gli errori; estrasse le positività che erano pure intrecciate in contesti devianti; accolse quanto di vero e di buono incontrava, in serena disponibilità di spirito; combatté le idee, mai le persone, sulle quali non si permise mai malignità di insinuazioni. Non si propose di abbattere gli avversari, aspirò a ricuperarli. Nel prossimo numero: 11. Cirillo di Gerusalemme, il catecheta “ufficiale” dei catecumeni

P. Canivet, Histoire d’une entreprise a p.161 calcola che siano circa 360 le sue citazioni degli autori antichi. 16


RivLas 77 (2010) 3, 369-380

Dall’idea di Europa alla realtà storica dell’Unione europea Valori comuni al fondo delle varie storie nazionali EMILIO BUTTURINI

L’

Europa prima di essere una realtà geografica, è stata un concetto, un’idea e, prima ancora, un mito: il mito di una giovane, bellissima principessa, di cui lo stesso Giove si invaghì. Tramutatosi in un toro di stupenda bellezza, simbolo della sua potenza fecondatrice, egli rapì la fanciulla (immagine umana della “Dea-madre”) portandola sulle sue spalle – come mostra, ad esempio, una metopa del tempio di Selinunte (VI secolo a.C.) – fin verso l’isola di Creta, dove nacquero tre figli, Radamanto, Sarpedonte e Minosse, destinati a divenire giudici dell’Ade ed uno di essi a dare il nome alla splendida civiltà «minoica». Proprio l’isola di Creta può essere indicata come la culla della civiltà europea, che si estese poi in Grecia, in Asia Minore e nelle isole e penisole del Mediterraneo, per risalire quindi fin verso l’Oceano Atlantico e le isole e penisole della parte settentrionale del continente. L’Europa rimase e, per certi aspetti, rimane ancora un «concetto mobile, flessibile, dai confini sempre in movimento», come ha scritto Eric J. Hobsbawm (1917 - ), ebreo di origini austriache, ma di formazione inglese, non tanto nel voluminoso saggio cha l’ha reso famoso in Italia (Il Secolo breve, tradotto da Rizzoli nel 1995), quanto in un breve saggio, tradotto sempre da Rizzoli nel 19971. Nell’Asia minore (attuale Turchia), fra il 1870 e il 1872, Heinrich Schliemann, scoprì i resti dell’antica Troia, dove si svolse la mitica guerra cantata da Omero in poemi, proposti, fino ad alcuni decenni fa, come testi fondamentali dell’educazione dei giovani europei, insieme con i libri di storia, che narravano le grandi battaglie fra greci e “barbari” prima e le conquiste dei romani poi. Per i greci

E. J. Hobsbawm, La curiosa storia d’Europa nella raccolta di saggi dello stesso Autore, De Historia, Rizzoli, Milano 1997, pp. 254-265, p. 256 per la citazione puntuale. 1


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e per i romani – come osserva lo stesso Hobsbawm nel saggio citato (p. 257) non aveva senso l’attuale divisione fra Europa, Asia e Africa, estendendosi i loro domini su tutti e tre questi continenti. Saranno i regni romano-barbarici prima a spostare i confini d’Europa nelle regioni più settentrionali ed atlantiche e poi l’Islam a rendere più vicina a quella attuale la configurazione dell’Europa (sia pure con persistenti incertezze – come vedremo – di attribuzione di estesi territori, come quelli della Turchia e della Russia), in quanto «ha definitivamente separato – per dirla ancora con Hobsbawm (p. 258) - le coste meridionali e orientali del Mediterraneo da quelle settentrionali», lasciando però aperto il problema dei confini orientali. La non definizione di tali confini ha fatto apparire a lungo l’Europa come «prolungamento occidentale dell’Asia», che «esiste esclusivamente come costruzione intellettuale», al dire appunto dell’Hobsbawm (p. 255), facendo quindi riferimento all’Europa come “idea”, che è motivo centrale di un classico della storia contemporanea (Storia dell’idea d’Europa), opera del grande storico valdostano Federico Chabod (1901-1960) - noto anche per il ruolo svolto nel Partito d’Azione durante la Resistenza - apparsa un anno dopo la sua morte, nel 1961, presso Laterza di Bari.

Le diverse configurazioni dell’Europa dal Medioevo all’età contemporanea, con particolare attenzione alla Russia e alla Turchia Nel Medioevo il cuore d’Europa sembrò assestarsi nell’area renana, tra Francia e Germania, come viene ben presentato in un altro classico saggio del 1942 dello storico Giorgio Falco (1888-1966)2. Questo spostamento lo possiamo verificare anche nelle vicende della diocesi veronese, quando i vescovi Aldone, Eginone, Ratoldo erano nominati dal re dei Franchi Carlo Magno o dal figlio Pipino (che amava risiedere in quella città) o quando occupò la sede vescovile di Verona Raterio di Liegi, nominato da Ugo di Provenza nel 931, sede mantenuta fino al 968, con la celebrazione degli importanti Sinodi del 966 e 967, per divenire dal 968 abate di Lobbes, dove morì nel 974. L’epigrafe posta sulla sua tomba lo ricorda come Veronae praesul sed ter Ratherius exul 3. Seguirono i lunghi secoli dell’età medievale e moderna, con le crociate dei cristiani

Cfr. G. Falco, La santa romana repubblica, Ricciardi, Milano-Napoli 1986 (nuova edizione). Numerosi i riferimenti all’azione e al pensiero dei vescovi veronesi di quel periodo nel I volume dell’opera di Giovanni Battista Pighi, Cenni storici sulla Chiesa veronese, Archivio Storico Curia Vescovile,Verona 1980, specie pp. 159-163 per i primi due vescovi ricordati, pp. 172-180 per il vescovo Ratoldo e pp. 233-258 per Raterio, con p. 243 per lo specifico richiamo all’epigrafe sepolcrale. 2 3


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contro i “mori”, come si diceva, e con la scoperta/conquista dell’America, che contribuirono a ridefinire e a rendere ancor più complessa l’idea d’Europa. Poi la rivoluzione culturale, scientifica, tecnologica ed economica degli ultimi secoli, sviluppatasi quasi solo in Europa e nelle colonie europee dell’America, specie settentrionale, portò di fatto a rafforzare l’identità europea nel mondo e ad estenderne l’influsso in vari Paesi, che finirono per essere “attratti” dall’Europa, a cominciare dalla Russia fin dal 1700, quando – come ha ricordato Hobsbawm nel saggio sopra citato (p. 256) - «Vasilij Tatiˇscˇ ev ha fatto degli Urali il confine fra Europa ed Asia», volendo spezzare «lo stereotipo che aveva […] voluto lo stato moscovita e i suoi eredi come parte dell’Asia». Due secoli dopo, nei primi decenni del Novecento, sarà la volta della Turchia, dove la rivoluzione guidata da Kemal Atatürk, dopo aver abolito sultanato e califfato, instaurò una repubblica, laicizzando lo stato in termini moderni, ben poco diffusi ancor oggi nel mondo islamico. Mentre la Turchia vorrebbe entrare nell’Unione Europea, non senza contrasti con alcuni dei Paesi che già ne fanno parte, la Russia, dopo il crollo del suo “impero”, specie a partire dal 1989 nell’Europa orientale, e la rivendicazione di indipendenza di alcuni stati asiatici, che pure facevano parte dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS), tenta di ricostituirsi come grande potenza in ambito mondiale, a fianco dell’Unione Europea, con la quale pure non mancano tensioni e contrasti anche profondi.

A proposito delle “radici cristiane” d’Europa e delle guerre di religione Mi limito ora ad accennare al tema – ineludibile comunque – delle radici cristiane d’Europa e del ruolo fondamentale svolto dalle chiese nella sua storia, ricordando anzitutto l’azione socialmente innovativa svolta dalle chiese e dal clero in particolare, in quanto - per dirla con una precisa osservazione del grande storico francese Alexis de Tocqueville (1805-1859) – «Il clero apre le sue file a tutti, al povero come al ricco, al plebeo come al nobile; attraverso la Chiesa l’uguaglianza comincia a penetrare in seno al governo e colui che, nella sua condizione di servo, avrebbe vegetato in un’eterna schiavitù, ora, come prete, ha il suo posto tra i nobili e spesso si asside anche al di sopra dei Re»4. Quello delle “radici cristiane” sarà un tema assai caro a papa Giovanni Paolo II, che, già il 3 giugno 1979, terrà a Gniezno in Polonia un’importante omelia sull’ «Europa a due polmoni» e, due anni dopo, dal 3 al 7 novembre 1981, promuoverà in Vaticano un Colloquio internazionale sul tema

A. de Tocqueville, Scritti politici, a cura di N. Matteucci, vol. II , La democrazia in America, UTET, Torino 1981, p. 16 (Introduzione). 4


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«Comuni radici cristiane delle nazioni europee», con grande partecipazione di studiosi, anche se, per circa 2/3 di area slava5. Un altro ineludibile riferimento per questo tema è quello delle posizioni di autorevoli studiosi “laici” come Benedetto Croce, prima e dopo il famoso saggio, apparso per la prima volta su «La Critica» del 20 novembre 1942 col titolo Perché non possiamo non dirci cristiani, posizione già ben presente nella sua Storia d’Europa nel secolo decimonono, edita la prima volta nel 1932. Fin dalle prime pagine si afferma decisamente che il presente è «la confluenza di tutta la storia», non escludendo certo – come egli scrive – la redenzione cristiana o le lotte della Chiesa dei primi secoli o quelle dell’età medievale e moderna6. Si tratta di lotte – occorre ricordare anche questo – spesso intestine (“guerre di religione”), non dunque in senso unificante, ma di violente lacerazioni fra Occidente e Oriente, fra Paesi nordici e Paesi del Centro e Sud Europa. Altro tasto dolente – connesso con quello precedente – è il tema dei “regimi di cristianità”, con “false paci”, come quella d’Augusta del 1555 o quelle di Westfalia del 1648, fondate sul principio – opposto, ad un tempo, ai valori fondamentali del pensiero laico e di quello cristiano - del Cuius regio, eius religio, destinato, talora, a durare nei secoli seguenti e in certe parti del mondo, anche non lontano da noi, riaffermato tutt’oggi7. Proprio nel periodo delle guerre di religione il re francese Enrico IV (1553-1610) – ricordato per i suoi reiterati passaggi dal protestantesimo ugonotto al cattolicesimo, fino all’assestamento su quest’ultima scelta, con la cerimonia dell’abiura del 25 luglio 1593, per non perdere il regno (“Parigi val bene una messa”8) - d’accordo col

Per una sintesi rapida, ma accurata del Colloquio cfr. A. Leonarduzzi, Il dibattito sull’Europa nella recente produzione libraria italiana, «Cultura e Scuola», luglio-settembre 1985, pp. 219-220, dove presenta i principali interventi contenuti nel primo volume degli Atti, The Common Christian Roots of the European Nations, Le Monnier, Firenze 1982. 6 Cfr. B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Laterza, Bari 61943 specie pp. 6-7. 7 A proposito delle “false paci” di Wetsfalia ricordo che i delegati delle due parti non si incontrarono per firmare i trattati di pace, ma i cattolici fecero la loro firma in quella che sarà chiamata la “sala della pace” della cattolica Münster, mentre i protestanti la fecero nell’analoga sala della protestante Osnabrück. Per il periodo delle guerre di religione e della faticosa acquisizione del “principio di tolleranza” cfr. l’importante opera in due volumi di Joseph Lecler, Storia della tolleranza nel secolo della Riforma, trad, it. di Giulietta Basso, Morcelliana, Brescia 1967, a cui mi sono rifatto per molte delle notizie riportate in questo saggio. 8 E’ una frase attribuita (falsamente secondo Croce nell’intervento sotto citato) ad Enrico IV, per sottolinearne la mancanza di scelta di fede e la spregiudicatezza di una mera scelta politica. Nella seduta del Senato del 24 maggio 1929, Benedetto Croce, concludendo il suo intervento, ribadiva la sua critica non al fatto della Conciliazione fra Chiesa e Stato, ma al modo in cui era stata attuata, alle particolari convenzioni che l’avevano accompagnata, per cui egli diceva che «accanto o di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri pei quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza». Mussolini reagì aspramente, parlando di «imbo5


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suo ministro delle finanze Maximilien de Béthune, duca di Sully (1560-1641), propose di fondare una “pace universale” su una confederazione di sedici stati europei (escluse Russia e Turchia considerate ancora “asiatiche”), che avrebbero dovuto inviare ciascuno due rappresentanti ad un «Parlamento Europeo», per trattare di tutti i problemi, a partire da quelli religiosi, fattori probabili di nuove tensioni. Ci furono le prime adesioni (dell’Inghilterra, dell’Olanda, del Papa, non, ad esempio, dell’impero asburgico), quando, il 14 maggio 1610, Enrico IV fu vittima di un attentato. Questo progetto verrà ripreso, nel suo Essay towards the present and future peace of Europe, dal quacquero inglese William Penn (1644-1718), con la proposta di una «Dieta» di 70 Delegati, aperta alla partecipazione anche della Russia e della Turchia. Emigrato in America, darà il nome, nel 1682. a uno stato degli USA, la Pennsylvania, dove stabilì la completa libertà dei culti, analogamente a quanto fece per il Maryland il cattolico lord Georges Calvert Baltimore9.

Ancora sul tema dell’appartenenza di Russia e Turchia all’Europa e delle radici cristiane Fra la scelta di esclusione del Re di Francia Enrico IV e quella di apertura sia a Russia che a Turchia di William Penn esistono le diverse opzioni di due altre grandi personalità del XVII e XVIII secolo. Si tratta del pedagogista e vescovo boemo Jan Amos Komenskj, più noto col nome latinizzato di Comenio (1592-1670), e dello scrittore e naturalista francese Bernardin de Saint-Pierre (1737-1814). Entrambi “ammettono” all’Europa la Russia, escludendo però la Turchia, come fa il primo (1592-1670), nella sua Panergesia, dove parla della «nostra patria europea» e il secondo con i suoi celebri Mémoires pour rendre la paix perpétuelle en Europe, dove include Mosca nel suo Sénat d’Europe, ma non i «sovrani maomettani», forse tenendo conto del fatto – già sopra ricordato - che Vasilij Tatiˇscˇ ev aveva provveduto a fare degli Urali il confine fra Europa e Asia. Frattanto il barone di Montesquieu (1689-1755) nello Spirito delle leggi, XVII - in linea con le posizioni del duca di Sully e del re Enrico IV - continua ad escludere sia Russi che Turchi, trattandosi di popoli più asiatici che europei, «governati con il bastone», costume radicalmente contrario allo spirito d’Europa, fondato sul «genio della libertà». Lo stesso barone aveva annotato nel Diario la predizione di un amico inglese per il quale «l’America si sarebbe separata dall’Europa e le arti e le scienze,

scati della storia», che non potendo «per la loro impotenza creatrice produrre l’evento, cioè fare la storia prima di scriverla, si vendicano dopo, diminuendola spesso senza obbiettività e qualche volta, senza pudore». Cfr. P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo. Documenti e interpretazioni, Laterza, Bari 1971, pp. 197-198 e pp. 214-215. 9 Cfr. Lecler, Storia della tolleranza, cit. II vol., p. 525.


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bandite dai despoti, avrebbero scelto l’America come loro dimora» e sarà un despota sconfitto come Napoleone a rilanciare da Sant’Elena la profezia di un mondo dominato o da una grande repubblica americana o da una monarchia universale russa10. Qualcosa di simile dirà nel suo gran libro già citato il De Tocqueville osservando che due popoli «sono cresciuti nell’oscurità», il popolo americano e quello russo, cosicché «il mondo ha appreso quasi nello stesso tempo la loro nascita e la loro grandezza», ma «l’uno ha per principale mezzo d’azione la libertà, l’altro la servitù»11. Fra secondo Settecento e primo Ottocento grandi autori romantici, come Joseph-Marie De Maistre (1753-1821) con il suo Du Pape, François-René de Chateaubriand (1768-1848) con Le génie du christianisme, Friedrich von Hardenberg, detto Novalis (1772-1801) con Die Christenheit oder Europa, Antoine-Frédéric Ozanam (1813-1853), collaboratore, fra l’altro, della «Revue européenne» e massimo promotore della conoscenza di Dante in Europa, specie con i suoi lavori Les sources poétiques de la Divine Comédie e Dante et la philosophie catholique au treizième siècle, insistevano sull’identificazione fra Europa e cristianesimo, non senza qualche accento sprezzante verso il «paese del dollaro».

L’intreccio tra femminismo, pacifismo ed europeismo nel secondo Ottocento e primo Novecento Il secondo Ottocento è caratterizzato dall’emergere delle donne, sempre più coinvolte nella rivoluzione industriale, che, fin dall’inizio, tendeva ad emarginare «l’operaio maschio adulto» - per dirla con Karl Marx (1818-1883) – e a cogliere l’opportunità di sfruttare il lavoro femminile e infantile, più disponibile a “servire le macchine” e meno oneroso economicamente12. Donne e bambini erano così divenuti la prima forza-lavoro della nascente industria, inizialmente tessile, in misura prevalente, già nel secondo Settecento, ma c’erano voluti parecchi decenni per superare la tradizionale dipendenza dai maschi, che caratterizzava da secoli e millenni la condizione delle donne. Il femminismo del secondo Ottocento e primo Novecento, caratterizzato, fra l’altro – come ha notato Franca Pieroni Bortolotti - dalla «tendenziale convergenza di ambienti laici, cattolici e socialisti nell’elaborazione di un comune “programma minimo”», è anche connotato da un profondo intreccio tra le proprie rivendicazioni “di genere” e le istanze pacifiste ed europeiste. Ciò appare fin dalla Introduzione del nuovo significativo lavoro della Pieroni Bortolotti, che, analoga-

Cfr. Franco Bonacina, Aspetti culturali dell’integrazione europea, negli Atti del Convegno Nazionale dell’UCIIM (24-26 ottobre 1977), Europa: un segno dei tempi, UCIIM, Roma 1978, pp. 31-49. 11 Cfr. De Tocqueville, La democrazia in America, ed. cit., pp. 483-484. 12 Cfr. K. Marx, Il capitale, libro I, parte II, cap. 13, Ed. Avanzini e Torraca, Roma 1969, specie pp. 38-50. 10


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mente a quanto aveva fatto per Anna Maria Mozzoni, in un testo einaudiano di quasi mezzo secolo fa, ha “riscoperto” una protagonista di tale intreccio nella figura di Maria Pouchoulin Gögg (1826-1899), chiamata più comunemente Maria Gögg, col cognome del marito Armand13. La Pieroni Bortolotti, già docente dell’Università di Siena e coinvolta fin da giovanissima nella liberazione di Firenze dell’agosto 1944, ha, fra l’altro, mostrato che la «Associazione internazionale delle donne, fondata da Maria Gögg nel 1868 a Berna, era in sostanza proprio la Sezione femminile di una “Lega per la pace e la libertà” che aveva come organo di stampa un periodico intitolato «États unis d’Europe”»14. Tale Associazione femminile si affiancava alla «Associazione internazionale dei lavoratori», non senza significativi intrecci e scontri dialettici con i compagni lavoratori, data la presenza fra di loro di numerosi seguaci di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), ostili al lavoro extradomestico delle donne ed anche all’istruzione extradomestica dei bambini e dei ragazzi e decisi sostenitori della famiglia quale «santuario augusto dell’autorità che crea, e dell’educatore che alleva»15. Altra donna molto attiva in quel secondo Ottocento fu la baronessa austriaca Bertha von Suttner (1843-1914), che mise prestigio, ricchezza ed ingegno nella lotta contro la guerra, per la pace universale e l’unificazione europea. Fu, tra l’altro, fervida consigliera dell’imperatore di Francia Napoleone III per spingerlo a promuovere un disarmo sempre più generalizzato che fosse premessa appunto di un’unione europea, come ricorda anche nel suo godibile romanzo storico (Die Waffen nieder! Eine Lebensgeschichte, I ed. del 1889), riedito da alcuni anni anche in Italia16. La von Suttner riuscì anche a convincere il re del Belgio a convocare nel 1894 ad Anversa il IV Congresso Internazionale della pace, con la presenza di 250 Delegati, di cui 27 donne, a cominciare dalla von Suttner, dalle francesi Franck e Poignon (cattolica), dalla statunitense Robinson, dalla Griess Traut, già collaboratrice della Gögg, che non poté essere presente, ecc.. A quel Congresso partecipò attivamente anche l’ex garibaldino Ernesto Teodoro

Cfr. F. Pieroni Bortolotti, La donna, la pace e l’Europa. L’associazione internazionale delle donne dalle origini alla prima guerra mondiale, Angeli, Milano 1985, pp. 7-11, p. 8 per la citazione puntuale. Per il lavoro precedente, dedicato alla figura della Mozzoni, cfr. della stessa Autrice, Alle origini dell’emancipazione femminile in Italia, Einaudi, Torino 1963. 14 Pieroni Bortolotti, La donna, la pace e l’Europa, p. 7. 15 Cfr. Pieroni Bortolotti, La donna, la pace e l’Europa, pp. 17-23, p. 20 per la citazione puntuale. Cfr. anche pp. 19-20, dove parla di «posizioni fortemente arcaicizzanti» di questi esponenti del Movimento operaio, simili a quelle del Sillabo di Pio IX del 1864, «dalle quali cominciavano a verificarsi i primi distacchi, anche nel mondo cattolico». 16 Cfr. B. v. Suttner, Abbasso le armi! Storia di una vita, ed. it. Centro di Stampa, Cavallermaggiore (Cn) 1996. 13


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Moneta (1833-1918), fondatore, con la von Suttner, della «Società italo-austriaca»17. La baronessa aveva anche promosso una rivista mensile con lo stesso titolo del suo fortunato romanzo (Die Waffen nieder), che uscirà dal 1892 al 1899 e, nel Congresso di Berna del 1892, aveva tenuto, insieme con Capper e Moneta, una relazione sul tema «La confederazione degli Stati d’Europa». Frattanto nel 1896 moriva Alfred Bernhard Nobel (nato in Svezia nel 1833), stabilendo nel testamento l’assegnazione annuale di un premio per la fisica, la chimica, la medicina, la letteratura e la pace (a cui sarebbe stato aggiunto dal 1969 un premio per l’economia). La von Suttner – che fu anche per breve tempo segretaria di Nobel – riceverà il Nobel per la pace nel 1905, mentre Moneta lo riceverà nel 190718.

Cenni sul significato storico della grande guerra e sul persistente europeismo di alcuni uomini di cultura Il secolo XX inizia con una serie di guerre e rivoluzioni, a partire dalla guerra russonipponica del 1904-1905, per venire alla insurrezione dei «Giovani Turchi» del 1908 o alle guerre del Nord-Africa, specie in Marocco e Libia, dal 1905 al 1911, o a quelle balcaniche del 1912-1913, che furono dirette incubatrici dell’immane massacro della prima guerra mondiale (1914-1918), con la quale finirono tre imperi (turco, russo e austro-ungarico) e iniziò la rivoluzione sovietica. Papa Benedetto XV, nella famosa Nota del 1° agosto 1917, parlò di «inutile strage», con un’espressione che potrebbe apparire infelice, quasi esistessero “stragi utili”, ma occorre leggerla nel suo contesto che si faceva interprete delle aspirazioni dei cittadini e dei popoli per una «pace giusta e duratura», fondata sul disarmo simultaneo e reciproco, sull’arbitrato pacifico in caso di controversie, sulla conciliazione degli interessi delle nazioni con «quelli comuni al grande consorzio umano»19. Poco conosciuta è la successiva enciclica di papa Benedetto XV Pacem Dei munus del 23 maggio 1920, con la denuncia della separazione fra morale privata e pubblica, quasi esistesse «una legge di carità per gli individui e una legge diversa per le città e le nazioni», com’era stato a lungo teorizzato nella storia della nostra cultura, a partire da alcuni Padri della Chiesa del IV e V secolo, per venire a filosofi e teo-

Cfr. Pieroni Bortolotti, La donna, la pace, l’Europa, cit. , specie pp. 205-207, ma numerosi sono in questo libro i riferimenti alla v. Suttner e, più ancora, al Moneta. 18 Cfr. la raccolta di scritti della v. Suttner, a cura di A. Laldi, Giù le armi! Fuori la guerra dalla storia, Ed. Gruppo Abele, Torino 1989, specie la scheda biografica, pp. 5-7. 19 Cfr. U. Bellocchi (a cura), Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740, vol.VIII, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 2000, pp. 182-184. Può essere opportuno ricordare che due anni prima, in una lettera al cardinale decano Benedetto XV parlò di «orrenda carneficina che disonora l’Europa». Cfr. per questa J. Joblin, L’église et la guerre, Descclée de Brouwer, Paris 1988, p. 232. 17


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logi del Medioevo e dell’età moderna, ma anche a grandi esponenti del pensiero “laico”, come Machiavelli, Hobbes, Hegel, Freud, Weber, ecc.20. Le pesanti condizioni imposte dai vincitori alle nazioni sconfitte posero le premesse per la ripresa, di lì a vent’anni, della guerra mondiale, mostrando come quella pace non sarebbe stata altro che «una parentesi – per dirla con uno storico autorevole come Ernesto Buonaiuti (1881-1946) – tra due fasi della medesima guerra [...] la seconda guerra trentennale […] cominciata nel 1914 e chiusasi nel 1945»21. Tale guerra segnò pure la fine della centralità europea, con l’ascesa sì di americani e russi, ma anche con le affermazioni del Giappone prima ed ora anche della Cina e dell’India. Continuava tuttavia il dibattito sull’idea di Europa con Aristide Briand (Nobel per la pace nel 1926, insieme col tedesco Gustav Stresemann), con il gruppo di «Ordre Nouveau» (Raymond Aron, Denis de Rougemont, ecc.), con il gruppo di fervidi “briandisti” di «Esprit» (Emmanuel Mounier, Georges Izard, Nikolaj Berdjaev, Jacques Maritain, ecc.) e col nostro Altiero Spinelli22. Solo qualche cenno su due dei protagonisti sopra indicati dell’europeismo novecentesco, vissuti praticamente nello stesso arco di tempo: lo svizzero Denis de Rougemont (1906-1985) e l’italiano Altiero Spinelli (1907-1986). Il de Rougemont è stato direttore del «Centre européen de la culture» e autore di importanti pubblicazioni, a partire dal notissimo L’Amore e l’Occidente del 1939 (trad. it. di Luigi Santucci, BUR, Milano 1977) – che da anni propongo come testo fondamentale agli allievi dei miei corsi di Storia dell’educazione familiare – per venire ai più specifici lavori come Vita o morte dell’Europa (trad. it., Ed. di Comunità, Milano 1949), Vingt-huit siècles d’Europe (Payot, Paris 1961) e, soprattutto, il suo prezioso Rapporto al popolo europeo sullo stato dell’unione dell’Europa (trad. it., Ed. Pan, Milano 1979). Altiero Spinelli, infine, da comunista nei primi anni del regime fascista, divenne, attraverso le sue varie esperienze carcerarie, dal 1927 al 1943, federalista convinto e, in qualche misura, liberale, anche sulla scia di saggi poco conosciuti, ma da lui approfonditamente studiati, di Luigi Einaudi. Nell’ultima esperienza carceraria dell’isoletta di Ventotene (1939-1943) era divenuto amico di Ernesto Rossi e di Eugenio Colorni, che collaborarono alla stesura del Manifesto per un’Europa libera e unita nell’inverno 1940-1941. Questo documento fondamentale dell’europeismo italiano, diffuso in copie dattiloscritte fin dal luglio 1941 a Roma, in Svizzera e

20 Su Benedetto XV, costruttore di pace (che aveva trovato piena collaborazione nel nuovo imperatore d’Austria Carlo d’Asburgo, proclamato beato da papa Giovanni Paolo II il 3 ottobre 2004) cfr. J. F. Pollard, Il papa sconosciuto. Benedetto XV (1914-1922) e la ricerca della pace, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2001. 21 Cfr. E. Buonaiuti, Pio XII, Parenti, Firenze 1958, pp. 30-32. 22 Cfr. Leonarduzzi, Il dibattito sull’Europa, cit., pp. 216-222, con riferimenti specie a Maritain e Mounier. Vedi, in particolare, p. 216, n. 28 per Denis de Rougemont.


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Francia, fu stampato come Quaderno n. 1 del Movimento Federalista Europeo nel 1943 e ristampato nel 194423. Segretario generale del Movimento Federalista Europeo dal 1948 al 1962, Spinelli divenne dal 1970 al 1976 membro della Commissione esecutiva della Comunità Europea, dando un rilevante contributo per attenuare l’atlantismo troppo filoamericano della prima “piccola Europa”, così da contribuire a rimuovere le posizioni antieuropeiste della sinistra italiana, specie di quella comunista, e a far sorgere un orientamento favorevole all’unità europea in tutto quello che, alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, sarà chiamato “l’arco costituzionale” della politica italiana. Successivamente verrà eletto deputato sia al Parlamento italiano che a quello europeo e riconfermato nel doppio incarico nel 1979.

Vicende degli ultimi decenni, con riferimenti alle prime istituzioni europee Dopo la seconda guerra mondiale si pensò per un certo periodo che l’Europa potesse sperare in una sua unità solo con la Germania divisa, ma finì per prevalere, già nei tre “padri fondatori”, De Gasperi, Adenauer e Schumann (“grandi cattolici, artefici di un’Europa schiettamente laica”24), l’esigenza d’una politica diversa. Tale differente impostazione era resa anche necessaria dalla persistente politica espansionistica dell’URSS, che già si era manifestata con l’annessione delle repubbliche baltiche e poi con la spartizione della Polonia in base al “patto di non aggressione” (chiamato dal nome dei due ministri degli esteri «Patto Ribbentrop-Molotov») del 23 agosto 1939 fra la Germania nazista e la Russia sovietica e che era stata ripresa nel secondo Dopoguerra con la politica “neocoloniale” dell’URSS anche verso Paesi dell’Europa orientale. Ben presto cominciarono i primi sanguinosi moti di liberazione dal giogo sovietico, a partire dalla rivolta ungherese del 1956, seguita da proteste e rivolte in Polonia, Germania orientale, Paesi baltici e Cecoslovacchia (1968), fino alla diffusa rivoluzione – quasi sempre nonviolenta (ad esclusione della Romania) – del 1989, che fu «l’inizio del vero Dopoguerra», come scrisse uno dei protagonisti di quella svolta epocale, papa Giovanni Paolo II nell’enciclica celebrativa del centenario della Rerum Novarum (5 gennaio 1991), la Centesimus Annus, il cui terzo capitolo è intePer numerosi riferimenti a Spinelli cfr. Leonarduzzi, Il dibattito sull’Europa, cit., pp. 222-225, con note 60 e 67, dove si ricorda il suo ultimo libro di memorie, Come ho tentato di diventare saggio, Io, Ulisse, Il Mulino, Bologna 1984. Cfr. anche P. Graglia, Altiero Spinelli, Il Mulino, Bologna 2008. 24 Per questa rapida definizione mi rifaccio ad un implicito suggerimento di un recente articolo di Romano Prodi, Quei cattolici che fecero laica l’Italia, «Il Sole/24 ore», 25 marzo 2010, p. 13. Cfr. anche dello stesso , Un’idea dell’Europa, Il Mulino, Bologna 1999, dove, fra l’altro, si può leggere che l’Europa non fu mai, in nessuno stadio della sua costruzione, solo una convenienza e una necessità, essendoci sempre un legame profondo tra la casa comune di diversi popoli e la loro ispirazione religiosa. 23


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ramente dedicato al 1989, ribadendo la scelta per un’Europa che fosse capace di respirare con i suoi due polmoni, occidentale ed orientale. Ad Ovest intanto si erano compiuti i primi passi del processo di integrazione europea con la istituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), il cui Trattato fu firmato a Parigi l’8 aprile 1951 da Francia, Italia, Repubblica federale tedesca, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi. Dal 1° gennaio 1973 si aggiunsero Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca. Seguirà la Grecia dal 1981 e Spagna e Portogallo dal 1986, per cui l’Atto Unico Europeo del febbraio 1986 sarà firmato da 12 Paesi. La caduta del muro di Berlino nel 1989 allargherà ulteriormente l’Unione, con l’ingresso prima di Austria, Finlandia e Svezia (dal 1° gennaio 1995), mentre frattanto chiedevano di entrare Norvegia, Cipro e Malta, poi Ungheria e Polonia nel 1994, Repubblica Ceca, Romania, Repubblica Slovacca, Lettonia, Estonia, Lituania, Bulgaria e Slovenia, in modo che per le elezioni europee a suffragio diretto del 2004 poterono partecipare al voto 25 Paesi, che divennero 27 nelle elezioni del 2009. Nel frattempo erano sorte la Comunità Economica Europea (CEE) e quella dell’energia atomica (EURATOM), con i Trattati di Roma del 1957, seguiti dagli importanti emendamenti del 1970 e 1975. Vi erano state quindi le prime elezioni, a suffragio diretto, del Parlamento Europeo del giugno 1979, a cui seguiranno quelle del 1984, 1989, 1994, 1999, 2004 e 2009, estese ormai, come si è detto, a 27 Paesi. Un cenno almeno va fatto al Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 e alla decisione – sia pure non unanime – di adottare una moneta unica (l’euro) nel 1998, divenuta effettiva a partire dal 2002.

Educarsi ad alcuni valori comuni della “patria europea” Le tappe economiche raggiunte rappresentano un presupposto per dare concretezza ad una Europa dei popoli e ai valori comuni di una grande tradizione della “Patria europea”, più che della Europe des Patries cara a De Gaulle, poiché sarebbe come voler fare una omelette con uova sode. Perché questa grande Europa – garanzia del recupero e del rafforzamento di una pace “planetaria” – si trasformi in una realtà sempre più estesa ed influente, occorre che tutti i cittadini, a cominciare dai più giovani, si educhino ad uno “spirito europeo”, andando a ricercare i valori comuni al fondo delle diverse storie nazionali. Almeno fino ad oggi non si può, infatti, essere europei, senza esserlo secondo i tratti di una particolare cultura e sensibilità, cioè senza essere tedeschi, francesi, polacchi, boemi o italiani, così, del resto, come si è italiani, senza negare la propria specificità regionale di piemontesi o liguri, di lombardi o veneti, di siciliani o pugliesi, ecc.. L’Italia poi, che è stata luogo d’una lunga storia di civiltà e di un’intensa conflittualità europea e che per la sua struttura geografica congiunge Nord e Sud, Ovest ed Est (sia pure dentro il Mediterraneo), può servire da forte ammonimento perché


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l’Europa non si chiuda in se stessa come una fortezza, ma si estenda ben al di fuori dei vecchi e nuovi confini25. Resta, comunque, sempre valido il richiamo ai valori fondamentali delle grandi sorgenti classiche, ebraico-cristiane, germaniche e slave, la cui eredità sembra a noi compatibile non solo con quella dell’Umanesimo e del Rinascimento, ma anche con quella della rivoluzione tecnico-scientifica del Seicento e Settecento e dello stesso Illuminismo, che ha portato ai “Principi immortali” di libertà, uguaglianza e fraternità, che vari cristiani del tempo sentivano di chiara ascendenza cristiana26. Su questi principi “irrinunciabili” si fonda a sua volta il moderno principio di “laicità”27, che pure risale all’antico termine greco laós, nel senso di “popolo dei liberi”, analogo al Populus dei romani, detentore insieme col Senatus di ogni potere (SPQR, Senatus Populusque Romanus). Volendo definire per concludere alcuni di questi valori, possiamo parlare di una razionalità aperta alla ricerca e ad un’equilibrata criticità, del gusto dell’oggettività e dell’impegno nella scienza e nelle applicazioni tecniche delle sue scoperte, del rispetto della dignità di ogni persona, «di ogni uomo e di tutto l’uomo» - come disse Paolo VI, il 26 marzo 1967, nell’Enciclica Populorum Progressio, n.14 – sia maschio che femmina, del rispetto della libertà e della positiva tolleranza di ogni diversità e differenza, del senso della comunità e dello spirito di solidarietà verso tutti gli uomini, della tensione verso l’uguaglianza e verso una democrazia sostanziale (non solo formale), così come è stata colta, ad esempio, da Paul Ricoeur (1913-2005), in un suo importante lavoro, edito da Seuil nel 1990, Soi-même comme un autre. «La democrazia non è un regime politico senza conflitti, ma un regime in cui i conflitti sono aperti e negoziabili secondo regole di arbitraggio note»28. Due fattori concorrono a rendere “sostanzialmente” democratica una società: quello di uguaglianza e giustizia, che porta a superare non le differenze, ma le disuguaglianze fra individui e gruppi, e quello di libertà e partecipazione, che, per mezzo di ben definite procedure, consente l’accesso reale di tutti i cittadini al potere e al controllo del suo esercizio, con una “ben funzionante” democrazia formale. La nostra Costituzione ha creato un sistema di equilibrio fra questi principi e questi obiettivi.

Cfr. A. Giovagnoli, La via italiana alla cittadinanza europea in L. Corradini, G. Refrigeri (a cura), Educazione civica e cultura costituzionale, Il Mulino, Bologna 1999, specie pp. 37-42. 26 Penso, ad esempio, ad Autori da me studiati nelle ricerche sulle istituzioni educative veronesi come il grande linguista, abate Antonio Cesari (1760-1828), specie in opere come La vita di Cristo e la sua religione o I fatti degli Apostoli o lo stesso vescovo di Verona Giovanni Andrea Avogadro (1735-1815), che in una famosa omelia del 13 giugno 1797 parlò dei tre principi, fino ad arrivare ad una franca accettazione del «Democratico nostro Governo». Cfr. i miei volumi, Istituzioni educative a Verona tra ‘800 e ‘900, Mazziana, Verona 20022, specie pp. 23-26 e Rigore e libertà. La proposta educativa di don Nicola Mazza, Mazziana, Verona 19952, specie pp. 221-224 per il testo dell’omelia del 1797. Cfr. anche di quest’ultimo volume pp. 21-22, n. 35, per il richiamo ad un’altra analoga omelia del card. Barnaba Chiaramonti, futuro papa Pio VII, del Natale 1797 ed alla critica che se ne fece qualche decennio dopo. 27 Cfr. F. De Giorgi, Il brutto anatroccolo. Il laicato cattolico italiano, Paoline, Milano 2008, p. 175. 28 P. Ricoeur, Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993, p. 364, ma cfr. l’intero paragrafo “Istituzione e conflitto”, pp. 355-369. 25


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Un discorso laico, per nulla neutrale, sul crocifisso nelle scuole LORENZO DANI

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oseph H. H. Weiler con la nota Il crocifisso a Strasburgo: una decisione «imbarazzante»1, presenta la propria critica e le proprie osservazioni alla famosa sentenza della Seconda Camera della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Weiler muove dei severi appunti alla sentenza, per come essa trascurerebbe vari aspetti storici e culturali, rivelando – la sentenza – una prospettiva culturale che farebbe coincidere la laicità dello Stato con una neutralità ingiusta e pericolosa. Saremmo insomma di fronte ad una visione dicotomica, forse manichea, in bianco e nero, mentre ci sarebbero varie sfumature da considerare, per preservare la tolleranza e il pluralismo, che sono eccezionali promesse nell’Europa di oggi, dove si ammette una certa commistione tra la religione di una maggioranza e altre religioni. Weiler sembra addebitare alla Corte Europea di concepire la laicità come una propensione a ‘nascondere’ la religione, o quanto meno a ignorarla, a trascurarla. Metto in secondo piano e lascio ad altri gli aspetti giuridici della questione; sono invece attirato da alcune questioni culturali, sociologiche, che rintraccio in questa nota di Weiler. Colloco tali questioni nel contesto di una personale analisi delle caratteristiche ideologiche proprie dei fenomeni e delle istituzioni religiose. Mi sembrano cioè questioni che riguardano la formazione e le caratteristiche della identità religiosa, e, strettamente connesso a questi, il dibattito sulla laicità. Pare a me, diversamente da Weiler, che la Sentenza consenta di chiarire le categorie – la Weltanschauung – che vengono adoperate quando si parla di religione, laicità,

Quaderni costituzionali, 1, marzo 2010 [in cui si riprende: Lutsi: Crucifix in the Classroom Redux, The European Journal of International Law, Vol. 21, 1 (2010)]. Per queste osservazioni ci si collega anche ad altri due interventi di Joseph H. H. Weiler, Un’Europa cristiana. Un saggio esplorativo, Milano, Rizzoli, 2003; Quella parola che «gratta»..., Quaderni costituzionali, 4 (2004), 791- 809.

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neutralità, dialogo. Non sembra essere soddisfacente il modo più diffuso, ovvio direi, con cui si usano questi concetti. Voglio dire, giusto per toccare direttamente una osservazione di Weiler, che, dal mio punto di vista, una visione laica della scuola non nasconde per niente le religioni e le loro problematiche, tutt’altro; vorrebbe invece avviare un dialogo, condotto però non secondo le regole delle Chiese, ma in modo molto diverso. Questa diversità poggia sulla supposizione di riuscire ad usare un concetto di laicità – e, ancor prima, di religioso, irreligioso, eccetera – più complesso ed articolato di quello che sembra trasparire dalla nota di Weiler, nella quale sembra invece affiorare una concezione ‘normale’ della laicità – e della religione –, una concezione diffusa e radicata in vario modo sia tra la gente che tra gli specialisti. Consideriamo allora la concezione della laicità. Sfugge a Weiler – come a tanti altri, e soprattutto alle Chiese, e non solo a quelle cristiane – che ci può essere una concezione e una prassi della laicità ben più originale e radicale, o profonda, di quella che normalmente si intende. La concezione ‘normale’, la più diffusa e consolidata, potrebbe essere definita una concezione ecclesiastica della laicità; si tratta cioè di una laicità che mantiene dentro di sé l’impronta della sua genesi, che è avvenuta nel mondo dei professionisti della religione e delle loro istituzioni, e che a costoro è funzionale. Mentre c’è anche una concezione laica della laicità, cioè una concezione non dipendente, svincolata dall’impronta originaria e dall’azione delle Chiese – e di tutti i loro accoliti: fedeli, seguaci, scherani, alleati, umili fedeli eccetera, ma anche dei loro nemici ed avversari o concorrenti poco avveduti, che, nel modo di contrapporsi alle Chiese più forti, non s’avvedono di fare il loro gioco, almeno in tanto in quanto sembrano intendere la laicità nel modo in cui la intendono le Chiese: anche coloro che si contrappongono alle Chiese sembrano lasciare alle Chiese di definire cos’è religioso e la loro stessa etichetta – di essere o neutrali o avversari della religione – deriva da o fa riferimento alle categorie prodotte dalle Chiese. L’idea laica di laicità, assolutamente minoritaria quanto a diffusione, a sua volta poggia su una particolare idea di religione, un po’ difficile da spiegare, in verità, e che in questo contesto si può così sintetizzare (sperando di non risultare apodittico): la laicità radicale e più genuina consiste nel resistere a ogni imposizione coatta dell’identità religiosa a persone, fatti, cose, istituzioni e anche Stati; veramente laico è chi critica le categorie valutative religiose (le pouvoir d’appréciation) storicamente e socialmente consolidate – e anche ogni altra categoria valutativa e ogni attribuzione di qualsiasi identità –, verificando se tali categorie derivano da e producono a loro volta la tipica dinamica istituzionale, la quale, nei suoi sviluppi estremi, realizza una sopraffazione, che si manifesta nella identificazione coatta e totale tra Chiese e religione. L’aspetto più singolare di questa idea di laicità, concepita e praticata secondo un criterio così radicale, è che proprio l’atteggiamento critico da essa sospinto, e che di fatto si realizza come una resistenza a varie forme di coazione, viene considerato nella sua essenza un fatto religioso (almeno per come questa prospettiva laica


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concepisce la religione e la religiosità). E’ un po’ difficile spiegare e giustificare qui, in breve, queste affermazioni, ma ci si può provare2. Prima però sarà utile riassumere in uno schema le diverse idee di laicità che sembrano esserci. Concezione ecclesiastica della laicità nella forma passata: il laico è l’avversario della chiesa e quindi della religione il suo motto è: Dio lo vuole (Deus vult) o Dio è con noi (nobiscum Deus) nella forma aggiornata: il laico è colui che rimane neutrale nei confronti della chiesa e quindi della religione il suo motto è Etsi Deus non daretur (ma è là, e la ratio lo sa) nella forma più aperta: il laico usa la ragione in modo autonomo dalla fede, senza contrapposizioni, ma in reciproca autonomia e dialogo il suo motto è: et fides et ratio

Concezione non ecclesiastica della laicità critica della identificazione tra chiese e religione (interpretare il mondo senza utilizzare mai la parola cielo o eternità o bellezza o Dio; interpretare il mondo così come esso è, con riferimento al fatto ch’esso il mondo non è l’unico, non è la meta in cui possono trovare riposo i nostri pensieri) il motto è: senza nominare Dio

Come dicevo, alla base dell’idea di laicità non ecclesiastica eppure profondamente religiosa, ci sta una particolare idea o teoria della religione, di cui qui si rileva un aspetto, e precisamente quello relativo al funzionamento delle agenzie, o istituzioni, che storicamente e socialmente hanno il potere di gestire il bisogno religioso, per cui si strutturano come particolari opifici in cui vengono definite le identità religiose. Questi opifici sono impegnati nel creare e rafforzare i criteri di valutazione di uno dei nuclei centrali della religione, ossia della corrispondenza tra principi o dottrine

Chi fosse interessato a questo tipo di annotazioni personali, può trovare qualche dettaglio in alcuni miei lavori: Contraffazione della normalità. Argomentazioni, considerazioni e artifici sociologici, Negarine, Il Segno dei Gabrielli Editori, 2004; “Per un’identità religiosa deviante. L’esperienza del Gruppo per il pluralismo e il dialogo di Verona” (I parte), Religioni e società, 50 (2004), 118-131; (II parte), Religioni e società, 52 (2005), 115-122; “Radici, identità, pluralismo. 1. Identità sane e identità patologiche”, Rivista Lasalliana, 75 - 1 (2008), 23-33; “L’incerto rapporto fra il teologo e la teoria critica negativa. Annotazioni a margine dell’Enciclica Spe salvi di Benedetto XVI”, La critica sociologica, XLIII, 169 (2009), 15 – 31; Comunicazione coatta. Abbozzo di un modello d’analisi critica della relazione comunicativa, Verona, QuiEdit, 2009 (segnatamente: “Per un galateo del dialogo religioso”, pp. 175-180).

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ed azioni, fatti storici. Il loro grande impegno si focalizza sulla elaborazione di criteri di corrispondenza che abbiano una certa durata nel tempo, una certa stabilità ed efficacia nel porsi come criteri di corrispondenza: che abbiano cioè dei caratteri istituzionali. Quando questo sforzo ha esiti positivi, quando i criteri sono socialmente strutturati, le istituzioni acquisiscono potere religioso. Ed è così che, in determinati contesti sociali, l’identità religiosa è ottenuta preferibilmente, ‘naturalmente’, con l’indicazione dei caratteri esterni, materiali, storici, consacrati nella loro valenza religiosa attraverso i criteri di corrispondenza ritenuti dalle chiese certamente e stabilmente adeguati, cioè fedeli ai principi. L’istituzione religiosa in pratica si costituisce, si struttura in forma di garante dell’assegnazione dell’identità religiosa a persone e a cose. Questa è ad un tempo l’origine e il cuore del suo potere religioso. Nella società in cui è presente ed egemone una siffatta istituzione religiosa, capace di mantenere il proprio potere religioso, l’identità religiosa – e quella irreligiosa – si ottiene identificandosi con la chiesa, con il garante della religiosità e con ciò che egli garantisce. Irreligioso è chi non si identifica, chi non accetta tali classificazioni o vi si oppone. A questo processo di strutturazione delle identità religiose danno una mano anche le leggi civili – almeno in quanto ignorano la tendenza coatta e coattiva di tali istituzioni e la loro altrettanto viva tendenza ad esigere autonomia e privilegi rispetto alle altre istituzioni non religiose. Il riconoscimento legale è senz’altro utile per le chiese: non è automatico né certo che ciò sia pure a favore della istanza religiosa. Bisogna inoltre ricordare che il processo di identificazione attraverso cui passano le chiese è esposto a degli esiti molto particolari; alla fine, infatti, può realizzarsi, grazie a una pervicace tendenza antropologica, uno scambio tra identità religiosa e identificazione religiosa. Ciò si verifica quando la identificazione religiosa con il garante e con i suoi criteri di classificazione e valutazione diventa totale. In questo caso criteri e principi della istituzione, della chiesa, radicati profondamente e diventati la pietra angolare della identità religiosa, sia di quella individuale che di quella collettiva, divengono pure la sorgente di particolari paradigmi interpretativi e di universi valoriali. In questo modo – detto sempre in forma molto sintetica – le chiese di fatto si sostituiscono alla istanza religiosa. Ecco perché, se si volessero salvaguardare l’istanza e il problema religioso, bisognerebbe non adeguarsi ma criticare questa dinamica, cioè metterne in luce le connessioni con le istituzioni, col loro modo di gestire il bisogno e il potere religioso. È questa una ‘via negativa’ per salvaguardare la trascendenza e per espungerne gli esiti alienanti. In buona sostanza, per questa via si cerca di ripristinare, sia pure alio modo, il divieto di farsi un’immagine di Dio, nella convinzione che la formazione di un’immagine affermativa di Dio coincide con la soppressione di Dio. Da questa idea di religione negativa scaturisce quella laicità radicale di cui dicevo e che è profondamente diversa sia dalle religioni positive che dalla laicità normalmente intesa.


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E come si atteggia una simile prospettiva teoretica nei confronti della Sentenza della Corte europea? E’ piuttosto complicato dirlo in breve; ci si può tuttavia provare ricorrendo, come Weiler, al simpatico mezzo della parabola. Ecco allora un abbozzo di dialogo in due tempi sul crocifisso a scuola: prima tra il vero laico, radicale (il laico-laico di cui s’è parlato più sopra) e un giovanetto3; poi tra il laico-laico e una insegnante di religione nelle scuole. *** Giovanetto (G): Lo sai cos’è successo oggi a scuola? Il Sindaco ha obbligato a far mettere in tutte le aule il crocifisso, perché ha detto che la Corte Europea ha fatto una cosa molto brutta, e lui ha detto che bisogna salvaguardare la nostra identità di cristiani, la nostra civiltà e le nostre radici cristiane. E ha detto che i genitori sono d’accordo con lui. Pensa che non c’erano neanche crocifissi sufficienti, e allora, con l’aiuto del parroco, hanno trovato un artigiano che, gratis, ne ha fatti un gran numero e belli grandi. Adesso tutte le aule e le stanze della scuola hanno il loro crocifisso. Laico-laico (LL): E a te che cosa sembra di questo che è successo? G: Non so, sono disorientato e confuso. Sento dire che quelli della Corte europea hanno paura che il crocifisso sia una specie di veleno che contamina tutto ciò che tocca, che sia uno scaltro inganno, che è molto strano, bizzarro e ingiusto che quella Corte trovi offensivo imbattersi in un crocifisso a scuola. E i meno arrabbiati per questa Sentenza dicono che così non ci può essere dialogo, che scompare la religione, che c’è intolleranza. C’è un gran subbuglio e molta confusione. E non ti dico l’insegnante di religione! Ci ha detto che la Corte europea ha condannato l’Italia per aver consentito l’esposizione del simbolo religioso nelle aule scolastiche e perché in questo modo sarebbe stata violata una norma importante. Era molto contrariata per questa Sentenza e ha fatto un lungo discorso sulle conseguenze che ne derivano. L’ha fatto con una sorta di lettera a Gesù. Eccola qua: ‘Caro Gesù – ha detto – mi dispiace, ma devo iniziare la tua rimozione. Anche se sono cristiana devo adeguarmi ad una Sentenza della Corte di giustizia europea. Ancora una volta la tua sorte è decisa da un tribunale. Ancora una volta sei condannato ingiustamente. Una Sentenza ti rimuove dalle aule, ma non dal cuore dei veri cristiani. Duemila anni fa sei stato venduto per 30 denari, oggi sei stato venduto per 5.000 euro.’ E ha aggiunto: ‘E adesso, cosa faremo? Per non offendere chi passeggia nei centri storici, via la croce dai campanili? Cosa ci fanno le croci sui monti? E come la mettiamo con la Collina delle Croci in Lituania? Abbattiamo quella collina perché disturba?’ Era molto triste e addolorata, la mia insegnante di religione. E io mi sentivo a disagio.

I discorsi, gli argomenti ed i fatti riportati in questa prima parte del dialogo sono ripresi, con qualche leggero adattamento, da quanto apparso sui mass media italiani nell’anno 2009.

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LL: Ecco partiamo proprio da qui, dalla insegnante di religione. Vedi, secondo me, un bravo insegnante di religione avrebbe dovuto dire, a se stesso anzitutto: ‘Invece di scagliarci contro la Sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, facciamo una verifica, magari assieme ai genitori, per vedere se, sotto i crocifissi da tanto tempo appesi nelle aule scolastiche, non stia avvenendo tutto il contrario di ciò che quel crocifisso ha raccomandato. Basta che ci chiediamo: nella mia scuola i più ‘piccoli’ vengono scandalizzati, cioè umiliati e manipolati? nella mia scuola i più ‘deboli’ (gli handicappati, ad esempio) vengono discriminati ed emarginati? nella mia scuola quale attenzione è riservata agli ‘ultimi’, a quelli che fanno più fatica? nella mia scuola i poveri, gli stranieri vengono accolti? Vedi, se coloro che oggi si danno tanto da fare perché vogliono a tutti i costi il crocifisso nelle scuole non si curano del fatto che questi ‘valori’ – e guarda che sono proposti sia dalla Costituzione che dal Vangelo – vengano rispettati, allora dimostrano di fare un uso strumentale del crocifisso. Sono dell’idea che ci vorrebbero meno crocifissi e più Vangelo, dalla parte degli ultimi. E dunque tutti dovrebbero fare attenzione a non strumentalizzare il crocifisso, dichiarandosi i difensori del simbolo cristiano. E’ rischioso mettersi veramente dalla parte del Crocifisso: Lui ha detto, infatti: ‘Non chi dice Signore, Signore…’ eccetera; e poi: ‘Avevo fame, avevo sete…’ Lui non ha mai chiesto che si appendessero crocifissi. Ha chiesto invece che si tirassero giù dalle croci tutti quei poveri cristi che vi sono stati conficcati attraverso tante sopraffazioni. *** A questo punto, nella nostra verosimile parabola cambiano gli interlocutori: esce di scena il giovinetto e, al suo posto, ecco la zelante insegnante di religione (IdR). Insegnante di Religione (IdR): Non riesco a capire perché qualcuno trova offensivo che venga esposto il crocifisso. LL: Ma io non trovo per nulla offensivo il crocifisso. Ciò che mi offende è quando qualsiasi cosa, anche un simbolo religioso, un crocifisso appunto, viene utilizzato con sistemi coattivi. IdR: Ma dov’è questa coazione? A me pare di essere la più discreta possibile. E poi ognuno rimane libero di scegliere. LL: Vede, il fatto è che la coazione non dipende principalmente da lei personalmente, ma dal sistema che si è strutturato e al cui interno si veicola questa e tante altre coazioni. La coazione è legata al suo apparato istituzionale, alla sua Chiesa, e ad uno strumento in particolare: le norme grazie alle quali lei nella scuola fa l’insegnamento della religione. Qualsiasi cosa lei dica o faccia, qualsiasi sua buona intenzione è come sovrastata dal privilegio grazie al quale lei è nella scuola. La norma in realtà sancisce un privilegio, che in quanto tale opera coazione e produce – le può sembra-


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re paradossale, ma dal mio punto di vista è così – un’azione profondamente irreligiosa. IdR: Si spieghi un po’, perché continuo a non capire. LL: Sono due le cose che dovrei spiegarle (in breve, per quanto posso). Primo, perché grazie a una norma – storicamente acquisita, conquistata sul campo sociale, politico – la Chiesa opera in modo coattivo; e poi la seconda cosa è così sintetizzabile: l’identità religiosa è una questione molto importante, ma non è detto che le Chiese siano necessariamente ed automaticamente le uniche autorizzate a definire e a stabilire cos’è religioso e cosa non lo è – anche se tendono a presumere e ad esigere ciò. Pure loro, come tante altre realtà, possono invece sopraffare e annullare l’istanza religiosa. E le norme del diritto positivo, che prendono come riferimento le chiese e il loro sistema di classificazione, possono rinforzare sia la coazione ecclesiastica sia la sopraffazione nei confronti dell’istanza religiosa. La vera laicità invece salvaguarda tale istanza, facendo anche, se del caso, qualcosa che non è gradito alle Chiese. IdR: Una cosa alla volta, per carità. Cominciamo dalla prima questione. LL: Certo. Il caso dell’insegnamento della religione è un tipico esempio di come, proprio nei rapporti tra Chiese e Stati, possono materializzarsi la coazione e la sopraffazione di cui dicevo. Lo statuto che tale insegnamento ha conseguito, anche sul piano normativo, fa parte delle iniziative che l’apparato ecclesiastico, soprattutto in tempi difficili, di magra, mette in campo per cercare di recuperare terreno, di restare vivo e presente con la propria offerta e il proprio ruolo religiosi, di conservarsi o di crearsi la domanda, l’uditorio e gli interlocutori adatti, disponibili a riconoscergli quel ruolo. L’apparato ecclesiastico ha richiesto e ottenuto, con numerose leggi ed atti giuridici conseguenti, l’insegnamento della religione nelle scuole. In questo modo esso riesce a trovare a disposizione un certo numero di destinatari, che però non convengono sulla base di una loro scelta personale, ma grazie appunto a pratiche, tradizioni, consuetudini, norme, accordi fioriti attorno alle istituzioni. In questo modo l’apparato ecclesiastico cerca di garantire le forme e gli strumenti del proprio monopolio religioso. In pratica, per cercare di preservare il proprio monopolio nella trasmissione del messaggio che esso stesso ha stabilito essere religioso, l’istituzione religiosa si appoggia strenuamente a gruppi di ragazzi e giovani che nella società sono costituiti per altri fini, appunto didattici, scolastici, di insegnamento. Chi è del tutto integrato nell’apparato istituzionale fa questo a fin di bene e sottovaluta o non considera affatto che crea forme di comunicazione che magari il singolo ragazzo (o la sua famiglia) accetta, ma solo perché fa parte di un gruppo, vi è come incastrato. Per avere a disposizione i teneri virgulti, per proteggerli prima che il male li sottragga alla sua pedagogia salvifica, l’apparato ecclesiastico tiene presenti solo le proprie motivazioni, la propria dottrina religiosa; e gli insegnanti fanno fatica ad accorgersi che si


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attaccano come parassiti a dei gruppi e che hanno davanti a sé vari ragazzi in gran parte soltanto perché e fino a quando questi non riescono a tirarsi fuori dal gruppo. Proprio sul gruppo lo scaltro e zelante apparato cerca di giocare per educare, per formare il ragazzo. In questo modo di agire una delle forme di pressione più sottili e più acute consiste proprio nel cercare di obbligare a schierarsi a favore di determinati simboli o a compiere dei gesti in pubblico – una promessa solenne, un rito, una processione, una sfilata o una divisa – per vincolarli anche nei confronti di un contesto sociale più largo. Con questi interlocutori, in questo modo fatti convenire, il professionista della religione tesse relazioni comunicative che ritiene positive e tranquille; e invece, con il meta-messaggio che da quella trama proviene – e in cui sono presenti e attive varie norme positive – esso distilla sottile e spesso dolorosa costrizione; che peraltro il contesto sociale, in quanto colluso o interessato strumentalmente, può apprezzare, normalmente classificandola come esempio di buona religiosità. Salvo poi rivelare – questo stesso contesto sociale – che il simbolo o il messaggio cui aderisce ha ‘soltanto’ un significato culturale. Chi trascura o avversa tutto ciò, viene considerato nemico; la più benevola delle etichette che gli vengono assegnate è giustappunto di essere ‘laico’. Questa etichetta, sia quando era accompagnata da interventi sanguinosi e strazianti, sia in seguito per azioni di emarginazione più sottili e meno terrifiche, è sempre servita al potere ecclesiastico per aver riconosciuto, da parte del potere sociale, da parte dei fedeli e da parte dei sottoposti a quel potere, il proprio ruolo sociale di punto di riferimento, di parametro per la definizione delle identità religiose. Anche oggi, quando si parla di tolleranza religiosa e di dialogo, certi apparati ecclesiastici sembra che facciano più una richiesta per se stessi (‘lasciatemi fare’), che non una ammissione che i ‘diversi’ dal proprio apparato possono essere sullo stesso piano nei confronti dell’istanza religiosa. In buona sostanza vi sono apparati burocratici delle chiese che, anche attraverso le leggi, vorrebbero che i ‘laici’ fossero al massimo neutrali per lasciar fare loro, per non scalfire i privilegi con tanta fatica ottenuti e difesi. IdR: Scusi, sa, ma gira e rigira io ho capito una cosa: che lei non vuole l’insegnamento della religione nelle scuole. LL: Al contrario, ne vorrei di più e migliore di quello che si fa oggi in Italia. Non lo vorrei svolto in questo modo, grazie a dei privilegi, a delle sopraffazioni, a delle coazioni: vorrei un insegnamento coi contenuti e coi metodi non stabiliti dalla Chiesa. IdR: E va bene; ma, alla fine, cosa c’entra tutto ciò con la Sentenza, con la decisione di abolire il crocifisso? LL: Innanzitutto a me pare – ma non so se intendo bene la Sentenza – che non si abolisca il Crocifisso, ma che si abolisca la imposizione privilegiata. Per questo la Sentenza mi pare importante, perché può aiutare a disvelare l’uso strumentale dei simboli e dei valori religiosi. Uso strumentale che, peraltro, non è solo prerogativa


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di alcuni ambienti ecclesiastici. Sono giochetti, questi, fatti da molte istituzioni, in campi anche non religiosi. Provi a rispondere a questa domanda: cosa è più in linea con la religione, chi è che sostiene o difende, protegge, la profonda istanza della religione, il crocifisso o la Sentenza della Corte europea? IdR: Il crocifisso, e non solo; mi pare ovvio. E sono amici della religione e della Chiesa tutti coloro che, con le leggi e con ogni altro strumento dimostrano di essere d’accordo con la Chiesa o che almeno non vogliono interferire. Sono invece nemici – o anche solo diversi, lontani dall’istanza religiosa – quelli che non la pensano così, cioè quelli che vogliono costringere a togliere il crocifisso. LL: Invece io credo che questa volta sono in linea con la religione quelli che non seguono immediatamente, automaticamente, le classificazioni della Chiesa, che ne criticano anzi i comportamenti e le argomentazioni. Che, ad esempio, possono accettare di togliere un crocifisso se questo è usato in virtù di una sopraffazione e per finalità coattive. E’ più religioso chi lotta contro le coazioni che non chi espone crocifissi dappertutto. IdR: Ma qui c’è un grosso problema. Come faccio a riconoscere chi è religioso e chi non lo è se non seguo le indicazioni delle autorità ecclesiastiche, che di questo riconoscimento, discernimento, distinzione sono garanti? LL: Certo che sono garanti, e cercano di proteggere in tutti i modi ciò che garantiscono, anche attraverso le leggi. La sua domanda ha toccato la seconda questione da chiarire, e che è il cuore del problema: l’identità del fatto religioso è socialmente definita dalle istituzioni religiose, dalle Chiese, che l’hanno costruita nel tempo, con vari mezzi e la difendono. Sono un po’ come le vestali, custodi della identità religiosa. Se invece si mette in discussione tale meccanismo, nel senso che se ne fa una critica – cosa questa non proprio semplice, né metodologicamente né storicamente, e che comunque è fieramente avversata da quasi tutte le istituzioni religiose – si scopre che c’è un legame tra identificazione e identità religiosa, come le ho detto prima. In pratica con la critica si scopre che le istituzioni religiose possono giungere a prendere il posto della religione. Loro stesse diventano la religione. Secondo me, invece, da un punto di vista veramente laico – cioè indipendente dai parametri di valutazione delle istituzioni religiose – , un modo adeguato per salvaguardare la religione è mantenere una certa tensione tra l’identificazione storicamente consolidata delle istituzioni e una nuova identità. Il buon laico, quello religioso, è colui che mantiene questa tensione e che per questo non teme di acquisire – di vedersi assegnare – l’identità di ‘rompitore di identificazioni’ e quindi di identità – che non significa diventare dei professionisti guastafeste o rompiscatole; più semplicemente il ‘rompitore di identificazioni e di identità’ cerca di rifiutare ogni automatica considerazione religiosa o sacrale a ciò e a chi è comunemente detto religioso e ritenuto senza alcun dubbio solidale con la religione. A me piace definire questo processo di rottura della identificazione come un proces-


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so di secolarizzazione radicale. E’ chiaro che attribuisco a questo termine un significato abbastanza diverso da quello che assume per tanti sociologi – e naturalmente per tanti uomini di chiesa, e probabilmente anche per molti giuristi. Mi piace cioè pensare che questi piccoli fenomeni di critica dei fatti religiosi sono come dei piccoli tentativi coi quali ci si sforza di tenere aperta la possibilità della trascendenza, che è il valore, senza scavalcare, senza trasfigurare l’immanente, cioè senza prendere il posto dei valori, ossia cercando di avere una identità il meno istituzionalizzata possibile. Così, almeno per un po’ di tempo, giusto il tempo della critica, viene fatta balenare la possibilità di avere una identità non totalmente istituzionalizzata, fatto questo che costituirebbe una grossa novità, poiché romperebbe, incrinerebbe, ogni prospettiva prestabilita, ogni catalogazione di identità fatta e indurita dalle istituzioni. Mi rendo conto che tutto ciò è molto difficile e fragile, perché si fa una gran fatica a criticare in questo modo le istituzioni religiose, e perché coloro che sono consacrati nella loro rappresentanza dei valori, appunto come vestali, molto facilmente e molto spesso vi si oppongono. E questa loro tenace resistenza diventa alleata del processo sociale, che, come penetra nelle scuole, nei partiti, nelle aziende, nelle agenzie del tempo libero, e aggiungi quello che vuoi, così penetra anche dentro le istituzioni religiose. Il rafforzamento e l’omogeneizzazione delle istituzioni per ciò che riguarda i meccanismi di ipostatizzazione – o sacralizzazione, santificazione – e di creazione delle identità religiosamente normali e di quelle devianti – ‘eretici’, ‘atei’, ‘laici’ (ma in realtà ‘laicisti’) – fa parte di quella che si può definire come socializzazione progressiva, una marea che avanzando rende sempre più difficili le alternative, la scoperta, l’ammissione e la rottura della identificazione, cioè la secolarizzazione. Ed ecco allora la conclusione cui dal mio punto di vista si arriva: procede ed aumenta la socializzazione: regredisce fino quasi a scomparire la religione, e a nascondere la sua regressione si fanno avanti – insperato e vanamente esorcizzato sodalizio – istituzioni religiose, stoltamente orgogliose del rafforzamento della propria identità, e ordine sociale, che più volte, anche con le leggi, offre puntelli alle istituzioni egemoni. Invece la salvaguardia della istanza religiosa si realizza mano a mano che aumenta quella secolarizzazione di cui parlo io. IdR: Trovo paradossale tutto ciò, e sento odore di eresia. Mi pare che di solito si dica – e mi sembra più logico – che l’aumento della secolarizzazione è una minaccia per la religione. LL: Non è detto che i paradossi siano lontani dalla verità delle cose. In ogni caso, ho cercato semplicemente – con qualche giro di parole, è vero, e attribuendo significati differenti ad alcuni termini, ad alcuni concetti che vengono utilizzati quando si parla di queste cose, in particolare al termine ‘secolarizzazione’ – ho cercato, dicevo, di spiegarle perché per me la Sentenza della Corte Europea non è imbarazzante. Tutt’altro. Va contro un luogo comune, questo sì. Ma, se ci pensa bene, è probabile, a gioco lungo, che l’intolleranza religiosa scaturisca più dai sindaci che si oppongo-


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no alla Sentenza della Corte europea, che non dalla Sentenza stessa. IdR: Ma come si fa a considerare ‘religiosa’ questa Sentenza? LL: Questa volta è la sua domanda a risultare imbarazzante per me, perché mi fa capire che non sono riuscito a spiegarmi. Bisognerà che riprenda il dialogo con lei in altro modo. IdR: Con me è facile, sono sempre pronto. Ma con le Chiese e i garanti? LL: Si può provare, sia sul piano sociologico che su quello politico e teologico, perché, lo ripeto, non sono assolutamente neutrale, né cerco di creare muri bianchi. Ho anch’io qualche chiodo fisso: cerco di uscire da ogni tutela, e vorrei assumermi le mie responsabilità e valutare in prima persona, senza nascondermi dietro nessun imprimatur. Per quanto posso, e non senza accettare compassionevolmente qualche cedimento, cerco di resistere, ma non contro il dialogo, ma contro ogni richiamo nostalgico, contro ogni persuasione a tornare indietro, ad essere condiscendente nei confronti delle identità chiare, distinte, luminose e gloriose. Però, se non ce la farò, se i miei discorsi non saranno ascoltati, considerati, non mi resta che andarmene, ritirarmi in buon ordine, scotendomi la polvere dai piedi.



RivLas 77 (2010) 3, 393-402

Il mistero del nome del padre FRANCISCO MELE 1

I

n premessa, un riferimento ad alcuni significati che il termine padre 2 detiene a partire dalla Bibbia. Nella Scrittura il padre è “colui che sa partire”. Teraj, padre di Abramo, lascia la città di Ur nella Caldea e si dirige a Canaàn per stabilirsi nella città di Jaràn. Abramo - in contrasto con Teraj adoratore di più dèi, distrutti a martellate gli idoli appartenenti al padre - va verso il deserto e cammina a lungo confidando nella parola di Colui che gli indica la via. Interpretando metaforicamente questo racconto, possiamo attribuirlo all’uomo in genere: l’uomo è un progetto. Avventurarsi nel deserto significa seguire una parola e una promessa. Il dio che parla è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Quando Giacobbe, inoltratosi nel deserto, si addormenta, sostiene fino all’alba una misteriosa lotta con un uomo. Vedendo che non riusciva a vincerlo, l’uomo lo aveva colpito al nervo sciatico rendendolo claudicante, ma Giacobbe aveva continuato a lottare, finché l’uomo gli aveva chiesto di lasciarlo andare. A quel punto Giacobbe aveva voluto da lui la benedizione e l’uomo - che era un angelo - gli aveva mutato il nome in Israele, che in ebraico significa “uomo che vide Dio, o uomo che lotta con Dio”. La notte successiva, Giacobbe in sogno vede una scala che parte dalla terra e va verso il cielo. Su quella scala gli angeli di Dio salgono e scendono, e dalla sommità della scala il Signore gli dice: “Io sono il Signore, il Dio di Abramo e il Dio di Isacco. La terra dove tu riposi la darò per te e per la tua posterità. La tua posterità sarà numerosa come i granelli di polvere che si trovano sul terreno”. Svegliandosi, Giacobbe esclama: “Certamente il Signore è qui e io non lo sapevo. Come è temibile questo luogo! È senz’altro la casa di Dio e qui c’è la porta del cielo”. In quel momento Giacobbe prende consapevolezza delle sue generazioni passate e di quelle che verranno. Gia-

Socio ordinario di Didattica presso la Società italiana di Psicologia e Psicoterapia relazionale, docente di Sociologia della famiglia presso l’Istituto superione universitario di Scienze psicopedagogiche e sociali “Progetto Uomo”. 2 Bernard This, El Nacimiento del Padre, Paidos, Barcelona. 1


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cobbe erige poi un monumento partendo dalla pietra che aveva usato come cuscino, e lo chiamò Betel, cioè casa di Dio. Il Dio delle generazioni non è il Dio che genera se stesso. Il mito della couvade3 si trova nelle storie di Abramo e di Giacobbe. Sono loro a partorire dei popoli. L’Eterno promette a Giacobbe che dalle sue reni usciranno dei re. Il verbo “tagliare” significa anche “creare”. Nominando, separando quello che si trova sopra da quello che c’è sotto, Dio separa il cielo dalla terra, la Parola è creatrice perché taglia e feconda.

Abramo: da Avram ad Avraham A - VR- AM, figlio di Teraj, è uomo che sa partire, che attraversa, ma che fa anche attraversare il popolo. Al nome AVRAM – padre alto – se si aggiunge la acca aspirata, diventa AVRHAM, che vuol dire “padre di una moltitudine di popoli”. In età avanzata Abramo segue le indicazioni del Padre che nella Genesi dice: “Lascia la tua terra, la tua famiglia e la casa di tuo padre”: egli opera quindi un triplo taglio con la terra, con la madre e con il padre. E seguirà la triplice promessa: “Vai alla terra che ti consentirò di vedere, farò di te una grande nazione; ti benedirò, magnificherò il tuo nome e tu sarai fonte di benedizioni”. Abramo era perplesso all’annuncio dell’angelo che sua moglie Saray a novant’anni potesse partorire un figlio, e ne aveva riso. Quando Saray diventa madre, il suo nome cambia in Sarah: la y viene sostituita con una acca, assumendo il significato di madre. Abramo chiama suo figlio Isacco. Isacco, dopo la circoncisione, da Jsaac – che è il suo nome originario – diventa Ysaac, che vuol dire “lui riderà”. In questo processo di cambiamenti del significato dei nomi attraverso una lettera il gioco delle lettere e dei numeri: numeri e lettere sono interscambiabili, in quanto nell’alfabeto semitico le lettere rappresentano cifre e viceversa4.

Dare un nome. Che significa? Il nome del figlio rimanda al nome del padre e il figlio non può dimenticare che la sua esistenza gli viene dal padre. Attraverso questo gioco di rimandi si costruisce l’identità di una persona. Accettare il proprio nome, conoscere il suo significato simbolico permette di inserire il soggetto nella trama della storia e nel (dis)corso delle generazioni. Nell’universo religioso il significato del nome del padre poggia su

Il mito della couvade riguarda il rituale in uso in alcune tribù in cui è il padre a somatizzare i sintomi del parto della moglie, quindi è lui che viene assistito nei suoi dolori di parto. This, nel suo libro, descrive i diversi racconti e miti in cui è il padre a partorire figli. 4 Santo Marcianò (2008), Signore insegnaci a parlare, San Paolo, Milano. 3


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“Quel Nome” che è al di sopra di tutti i nomi. Gli ebrei scrivono il nome di Dio ma non lo pronunciano. Nel Nuovo Testamento, invece, l’uomo nomina Dio, si rivolge al Padre e può ascoltare la sua voce che lo chiama. Dare un nome significa ancora qualche cosa? Significa dare qualche cosa? Jacques Derrida risponde: «Si può dubitarne, dal momento che non solamente il nome non è niente, in ogni caso non è la ‘cosa’ che nomina, non il ‘nominabile’ o il rinominato, ma rischia anche di incatenare, di asservire o di impegnare l’altro, di legare il chiamato, di chiamarlo a rispondere persino prima di ogni decisione o di ogni deliberazione, persino prima di ogni libertà. Passione assegnata, alleanza prescritta quanto promessa. E tuttavia se il nome non appartiene mai, originariamente e in ogni rigore, a chi lo riceve, non appartiene già più, dal primo momento, a chi lo dà. (…) il dono del nome dà ciò che non ha»5. Derrida scrive ancora: «L’esempio vivente di cosa sia davvero il ‘dono’ per Jean Luc Marion è il padre: che dà la vita, un bene che il figlio non potrà mai restituirgli o ripagare, anche se fosse il migliore dei figli possibili. Ricevere la vita è un’esperienza che rende impossibile pareggiare qualsiasi bilancio esistenziale e carnale. Al massimo il figlio potrà a sua volta donare la vita a un altro, con un gesto che di nuovo andrà del tutto al di là di ogni calcolo e di ciò che un uomo possiede: dando la vita, il padre non dà qualcosa che è suo». «Questo padre a cui si deve tutto - scrive a sua volta Marion - resta essenzialmente assente e messo fra parentesi. Perché il padre manca. Manca anzitutto perché non procrea che nell’istante e, divenuto superfluo, immediatamente si ritira, al contrario della madre, che resta e nella quale il figlio rimane». Il padre «si fa notare dal figlio in ciò che gli fa mancare, e questo per principio». Non perché sia un ‘padre assente’: «egli manca piuttosto perché non può mai fondersi con il figlio». Il padre «si manifesta nella misura in cui scompare». Il padre «indica l’unica indiscutibile trascendenza che ogni vita umana può e deve riconoscere nella propria immanenza; di modo che, se mai dovessimo chiamare Dio con un nome, sarebbe adeguato chiamarlo ‘Padre’ e così soltanto».6 Per Derrida, Jean-Luc Marion cerca di disgiungere la parola Dio dal concetto di essere, forse per salvare il nome di Dio, per sottrarlo ad ogni idolatria ontoteologica.7 In questo modo viene salvato il Nome del Padre e nel salvataggio del Nome del Padre viene salvato il nome del figlio.

Excursus biblico Nel nome di Abramo troviamo la parola abba, padre: come ogni nostro nome esso partecipa e proviene da quel luogo: «…dal quale ogni paternità nei cieli e nella terra Jacques Derrida (1997), Il segreto del nome, Jaca Book, Milano, p. 176. Nel blog del Papa: http://paparatzinger-blograffaella.blogspot.com/2008/03/fede-e-ragione-il-filosofo-jean-luc.html. 7 Ibidem, p. 155 5 6


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prende nome» (Ef 3, 14-15). In ognuno dei nostri nomi c’è il mistero del nome; scoprire questo mistero è una ricerca infinita. Nella frase di Gesù - Padre mio, perché mi hai abbandonato? - si presenta il dramma di ognuno di noi; in un’altra frase Lasciate padre e madre, seguitemi - Gesù raccorda il compito della differenziazione del soggetto dal contesto in cui si nasce; il compito non significa rompere il legame con i genitori, ma incontrarsi in un nuovo tipo di rapporto. Se per diventare un soggetto autonomo si devono lasciare madre e padre, è necessario, quindi, aver avuto un padre e una madre. Il concetto di padre non è legato soltanto al registro della generazione biologica. In questo senso ogni paternità partecipa alla paternità di Dio Padre, sostiene san Paolo. Il mistero del padre porta con sé anche il rischio dell’idolatria nelle diverse forme, l’idolatria di se stesso e l’idolatria dei capi. Riconoscere il padre è stato preceduto dal riconoscimento del figlio da parte del padre. Riconoscersi come figlio significa riconoscere il limite.8 Paul Ricoeur si domanda quale sia l’idolo contro il quale lotta la psicoanalisi. Il filosofo ritiene che l’idolo sia il Padre. E’ possibile allora pensare a una fede senza illusioni? Di quale padre la psicoanalisi vuole sbarazzarsi?

L’ermeneutica psicanalitica In Totem e Tabù Freud ha avuto bisogno di costruire il concetto del Grande Padre per articolare tutta l’impalcatura psicoanalitica. Si tratta di un protopadre preistorico che possiede in sé tutti i poteri e i privilegi a discapito dei figli e della moglie. La storia comincia quando i figli si ribellano e uccidono questo padre. Questa uccisione, secondo Freud, determina la nascita della cultura: il padre ritorna attraverso i riti religiosi e attraverso la legge morale. Ma in realtà non si tratta della storia come la concepiamo modernamente, ma di un mito. Alcuni autori mettono la morte del padre primordiale all’origine di uno dei grandi miti del Novecento. Questo mito delle origini non è poi diverso dai miti della creazione nelle differenti religioni che Freud voleva combattere, né si differenzia dai miti greci: Urano e Cronos costituiscono le immagini di quei padri che distruggono i propri figli. Lo stesso Freud, in particolare con i propri figli-allievi, si comporta come un padre terribile. René Girard non condivide il mito dell’uccisione del padre dell’orda primitiva, ma coincide con Freud nell’affermare che la cultura nasce dalla violenza e la religione rappresenta una delle formule per arginare la violenza originaria; ripropone poi la differenza fra il mito, le religioni arcaiche, le altre religioni monoteiste e il Cristianesimo. Con il Cristianesimo, secondo Girard, viene denunciato il meccanismo che porta ai riti e alle violenze organizzate che servono soltanto a calmare, in forma

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Santo Marcianò (2008), Signore insegnaci a parlare, San Paolo, Milano.


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momentanea, la pulsione omicida presente in ogni gruppo, in ogni famiglia e in ogni società. I concetti di crisi mimetica e di rivalità mimetica9 costituiscono due strumenti teorici che permettono di analizzare le diverse configurazioni della violenza individuale e sociale. Una delle critiche maggiori che il padre della psicoanalisi rivolge al Cristianesimo riguarda la rottura con l’Ebraismo e il passaggio dalla religione del Padre alla religione del Figlio, il Cristo. Il teologo domenicano Jacques-Marie Pohier 10, in dialogo con Paul Ricoeur11, cerca di conciliare la critica freudiana con gli sviluppi della teologia contemporanea. Secondo noi non si tratta di rifiutare i contributi della psicoanalisi in toto, ma di studiarli per illuminare meglio alcuni concetti del pensiero religioso. Una fede che riesca a superare la critica - sostiene Ricoeur - diventa una fede più robusta che si differenzia da quella appresa nell’infanzia e rimasta entro quei limiti riduttivi, secondo una concezione costruita in funzione della mente di un bambino, talvolta esagerando aspetti che intimorivano e suscitavano in lui profondi sensi di colpa. Una religione infantile poggia su due elementi basilari, quello del Padre onnivedente, vendicativo e colpevolizzante, e quello della consolazione: in sintesi si tratta della lotta tra il senso di colpa e la consolazione. La novità che porta il Cristianesimo, oltre al concetto di perdono che supera la legge del taglione dell’Antico Testamento, è il concetto di riconciliazione con il Padre offeso. Pohier sostiene che il Cristo non è venuto ad occupare il posto di Dio Padre, come afferma Freud. Il mistero trinitario restituisce al Padre la funzione di padre e, soprattutto con l’invio del Figlio nel mondo, il Padre rafforza il suo ruolo in un rapporto personale con l’Uomo. Dio non è più il ‘totalmente Altro’ come sostiene Ricoeur, o l’‘Innominabile’ secondo la religione ebraica: attraverso il Figlio, Dio sancisce la sua presenza nella storia umana. Nel ‘totalmente Altro’, dice Pohier, Dio rimane distante dalla storia. Lacan cerca da un’altra angolazione di criticare la posizione di Ricoeur quando questi afferma che non esiste nessuno ‘totalmente Altro’; egli invece sostiene l’ipotesi che la vera formula dell’ateismo è ‘Dio è inconscio’, quindi un significante che rimane inscritto nell’altro linguaggio, quello che regge il linguaggio convenzionale. Infatti il significante Dio viene espresso come un’appoggiatura linguistica nei Seminari lacaniani; quel Dio che Lacan vuole allontanare ritorna nell’intercalare - “Mio dio” e simili (Lacan ha una formazione cristiana) - che durante le sue lezioni si inserisce nel discorso. Volendo affrancarsi dall’ebraismo, Freud finisce con l’accusare di idolatria la religione cristiana; la trasgressione cristiana è stata quella di osare nominare Dio

F. Mele, Io diviso/Io riunito. Per una psicoetica dell’operatore sociale, FrancoAngeli, Milano 2001. Jacques-Marie Pohier, Au nom du Père. Recherches théologiques et psychanalytiques, Cogitatio fidei 66, Cerf, Paris 1972. 11 Paul Ricoeur, Della interpretazione, Il Saggiatore, Milano 2002. 9

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e di rappresentarlo. I teologi cristiani sostengono che l’aspetto non rappresentabile e non nominabile di Dio viene comunque conservato attraverso lo Spirito Santo.

Fede e psicanalisi, incompatibili? La fede cristiana si enuncia sempre ‘nel Nome del Padre’. Attraverso il Cristo, l’uomo diventa figlio del Padre. Il cristiano è la creatura di Dio. Secondo Ricoeur la Parola viva è la Parola del Padre: la Parola che il Padre dice su se stesso e sul mondo, è la Parola che il mondo dice sul Padre e su se stesso. L’essenziale del Cristianesimo è credere nel Padre e credersi suo Figlio. Per i non cristiani la vera follia è voler essere amati da Dio, e soprattutto volergli assomigliare: Cristo dice «Siate perfetti come lo è il vostro Padre celeste». Secondo René Girard12 questa frase invita all’imitazione di un modello che trascende la rivalità mimetica, non è portatrice di elementi distruttivi. Freud denuncia questa rappresentazione centrale del Cristianesimo. Il cristiano che si crede figlio di Dio e amato da Lui rappresenta - sempre secondo Freud - l’illusione e l’onnipotenza del desiderio. Freud usa il termine ‘illusione’ per definire la religione. La religione utilizza come meccanismo di difesa la proiezione: l’uomo proietta in Dio l’Onnipotenza, la Saggezza e tutte quelle virtù di cui l’uomo si sente carente: in termini lacaniani sarebbe tutto quello che all’uomo ‘manca ad essere’. Alla base della morale, invece, prevale il meccanismo dell’introiezione: la coscienza morale che ordina i comportamenti è una delle funzioni del Super Io. Per il padre della psicoanalisi, la religione cristiana non è solo espiazione, ma esaltazione in forma mascherata del trionfo del Figlio sul Padre: nel rito della Comunione, per Freud, ogni volta i figli celebrano la morte del Padre, ma - rileva Pohier - egli non tiene conto del risvolto relativo alla morte, cioè della resurrezione del Figlio. Né la psicoanalisi né la filosofia possono esaurire lo studio della fede, sostiene Pohier. Allo stesso modo che si può criticare la religione come illusione, e quindi una forma di onnipotenza del desiderio, si può estendere la critica dell’illusione come forma di onnipotenza del desiderio e del pensiero alle posizioni estreme della scienza. Riguardo alla fede come illusione, si tratta piuttosto di una fede infantile che nel caso patologico sfocia nel fanatismo proprio di tante sette religiose sia all’interno del mondo cristiano come fuori di esso. Sul piano politico-sociale il fanatismo religioso ha delle conseguenze che in tanti casi fomentano la violenza contro i gruppi laici o religiosi contrari alle loro posizioni. Anche il fanatismo antireligioso è rimasto in una fase infantile del pensiero, ma qui si maschera di scientificità; tanti suoi

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R. Girard (2003), loc. cit.


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sostenitori sono incapaci di esercitare un vero dialogo con il mondo religioso. Gli scientisti accusano le religioni monoteiste di essere la causa di tutte le guerre quando sono incapaci di leggere la storia che ci porta esempi di massacri compiuti all’interno di società politeiste, o ignorano quelle società che si dicono atee che non sono state meno violente delle prime.

Origine della violenza Quindi l’origine della violenza dobbiamo cercarla in altri ambiti. L’uomo è intessuto di follia e di violenza, gli sforzi della ragione non bastano a rimuovere i meccanismi della genesi dell’aggressività. Concordo con René Girard circa l’affermazione che gli uomini si dividono in persecutori e perseguitati. Talvolta i persecutori giustificano il loro operato secondo ragioni religiose: dopo una brusca conversione, religiosi diventano nemici della fede e atei diventano religiosi; queste conversioni non sono servite a ridurre il tasso di crudeltà, la volontà di perseguitare l’altro che non concorda con lui. Chi ha avuto un padre violento o assente, proietta su Dio le caratteristiche negative di quel padre: Dio diventa per lui un Dio Padre vendicativo, severo, colpevolizzante. Chi invece ha avuto un padre disponibile all’ascolto e presente alle sue necessità, proietta su Dio le caratteristiche positive di quel padre: Dio per lui diventa un Dio misericordioso, di bontà e di amore. Quanti poi hanno avuto con il proprio padre un rapporto conflittuale, vanno ricercando in Dio Padre quegli elementi che gli sono mancati nel rapporto con il proprio genitore: la disponibilità, il riconoscimento della propria persona. Ricoeur ipotizza una fede senza illusione, ispirandosi al pensiero del teologo protestante Bultmann, che sostiene la necessità per la religione di usare il metodo della demistificazione. Bultmann si era riproposto di eliminare qualsiasi traccia dei miti dell’Antico e del Nuovo Testamento. L’illusione può essere superata - afferma Ricoeur - soltanto rinunciando al Padre. Compito difficile da portare avanti, come lo è stata il tentativo di eliminare dai testi sacri ogni riferimento ai miti. Più che rinunciare al Padre, ritengo che si debba tentare di modificare nei suoi confronti il tipo di rapporto, non più basato sulla paura, ma, attraverso un lungo percorso che dovrebbe portare a ristabilire il perdono, sulla fiducia; tale processo implica l’etica ricostruttiva: il che non comporta di accettare di sottomettersi a un padre terribile e autoritario, ma di uscire da un’ottica dove ciascuno tenta di eliminare l’altro. Nella religione cristiana il vero peccato è di voler essere al posto del Padre, cioè di essere Dio. L’annuncio del messaggio evangelico implica che per prima cosa l’uomo debba riconoscersi peccatore in quanto ha desiderato di essere Dio. In termini lacaniani, la castrazione simbolica significa riconoscere che non si “è” il fallo, ma si “ha” un pene: l’uomo deve rinunciare al desiderio di diventare Dio, deve riconoscere che non è Dio. Dove si può appoggiare l’uomo per costruire la sua esistenza?


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In Lacan il Padre è una funzione, il Nome del Padre è un significante fondamentale: siamo di fronte a una metafora, la metafora paterna. Le diverse patologie si costruiscono intorno al modo di affrontare il rapporto con il significante fondamentale. Nella psicosi si impone il rifiuto della metafora paterna; nella perversione si impone la ri-negazione; nella nevrosi, la negazione. Il Nome del Padre è il nodo che tiene insieme i tre registri che costituiscono la formula RSI, Reale, Simbolico ed Immaginario. La teoria dei nodi - rielaborata da Lacan - ci permetterebbe di capire meglio la funzione della metafora paterna, come anche gli schemi lacaniani che riguardano i quattro discorsi, del Padrone, dell’Universitario, dell’Isterica e dell’Analista. Il concetto dell’Altro, che nella teoria lacaniana rappresentava il luogo o l’archivio dei significanti, è stato successivamente modificato dallo stesso Lacan che inserisce una riga trasversale ad attraversare l’Altro; la A ‘barrata’ rimanda a un padre anche lui soggetto alla legge della castrazione. L’illusione dell’uomo è di trovare il padre che si mantiene onnipotente, fuori da qualsiasi legge; l’ideale del suo desiderio onnipotente è di trovare un Altro senza questa riga trasversale. Pareva che in questi schemi ci fosse spazio per Dio, ma questo Dio era anche lui soggetto alla legge della castrazione. Tuttavia Karl Barth aveva impostato il suo pensiero intorno a un Dio ‘spezzato’, vinto, sofferente: il Cristo sofferente permette all’uomo di identificarsi con il Figlio e così di diventare anche lui figlio di Dio. In una lettera di San Paolo agli Ebrei è scritto: “Il quale (Dio) essendo irradiazione splendente della sua gloria e sigillo della sua sostanza, sostiene tutte le cose con la parola del suo potere” (Eb 1,1-4). Nell’ultimo comandamento del decalogo - sostiene Girard13 - viene scritto: “Non desiderare la casa del tuo prossimo, non desiderare la moglie del tuo prossimo, né lo schiavo, …cosa alcuna appartenga al tuo prossimo” (Es 20,17). E’ la nascita del concetto del desiderio mimetico. La legge comincia enumerando gli esseri e gli oggetti che non devono essere desiderati, quelli cioè che appartengono al prossimo. Il Vangelo invita a imitare il modello, Cristo, per proteggerci dalla rivalità mimetica invece di incoraggiarla14. Il dio della filosofia non è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Il Dio cristiano è un Dio persona con cui l’uomo stabilisce un dialogo. La castrazione, in termini psicoanalitici, consiste nel riconoscere il Padre nel suo ruolo di padre; essa significa accettare la finitudine, ossia l’uomo accede alla verità del Padre nella misura in cui vive sotto la legge del Padre. Nella società post-nevrotica15 si è verificata - a mio giu-

R. Girard (2003), p.22. Ibidem, p.34. 15 Cf. F.Mele (2004), Le spie dell’incertezza. Famiglia, scuola istituzioni: la costruzione del Sé allo sbando, Bulzoni, Roma; Id (2005), La società post-nevrotica, in Aa.Vv, La sfida del post-umano, a cura di I. Sanna, Studium, Roma. 13 14


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dizio - non una rinuncia al padre, né un conflitto con il padre, né il desiderio di occupare il posto del padre, perché questo luogo del padre è vacante, e quindi la crisi che ha portato alla scomparsa del padre ha portato anche alla scomparsa del figlio.

Considerazioni pedagogiche Come definire questi concetti di padre, di figlio? Essi sono ancora validi? Quando in una famiglia nasce un figlio, e dopo pochi anni questo figlio si trova proiettato a vivere in una terza o quarta dimensione familiare, a chi deve fare riferimento riguardo al padre? La stessa cosa avviene per il padre: di chi deve prendersi cura, di quale dei figli acquisiti attraverso altre unioni. In alcune culture tradizionali i genitori conservano ancora l’usanza di chiamare con il nome del padre il primogenito. Oggi i futuri genitori cercano di eliminare ogni riferimento alla famiglia o al calendario religioso quando scelgono il nome per un figlio. Quanto più originale appare loro il nome, tanto più seducente esso viene considerato dai genitori che non pensano a quale imbarazzo venga poi sottoposto il figlio nel portare quel nome. La scelta del nome da parte dei genitore ha a che vedere con un modello con il quale si vorrebbe che il figlio o la figlia si identificasse. La scelta del nome della “velina” televisiva famosa al momento della nascita del bambino e presto dimenticata, parte da una madre soggetta - come quella “velina” - alla legge di un mercato che sforna e “cestina “ nomi e persone loro portatrici con la velocità delle effimere pubblicità. Il cognome rappresenta quel punto di capitonné (imbottitura) con cui Lacan voleva spiegare il rapporto fra il desiderio e la legge. Il cognome, come significante che trascende il singolo, allaccia il soggetto alla storia delle generazioni da cui proviene la famiglia, inserisce il soggetto nell’ordine della cultura e nella dimensione simbolica. Portare il cognome della madre o del padre - o portarli entrambi - rappresenta il sigillo con cui l’individuo si mostra in società. Qualcuno desidera cambiare il proprio cognome perché non lo trova di suo gradimento, così come avviene per il nome. Cambiare il proprio nome rappresenta un gesto contro il desiderio dei genitori. Il rifiuto del nome o del cognome dimostra in chi lo compie un tentativo di rifiutare l’appartenenza alla famiglia e in definitiva è un rifiuto del padre o della madre.



RivLas 77 (2010) 3, 403-418

Classe come ambiente d’apprendimento / 3

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sponendo per sommi capi le caratteristiche della Didattica breve1 si sono affrontate mansioni e funzioni del docente che intende stabilire tra insegnamento e apprendimento un rapporto tale da garantire lo svolgimento del programma secondo una metodologia tradizionale, ma ‘distillandone’ i contenuti allo scopo di ricavare tempo da utilizzare proficuamente per il ricupero e lo studio personalizzato, L’insegnante, perno dell’attività didattica, ha un’accentuata funzione tutoriale; lo studente è attivamente associato in fasi importanti del personale processo di acquisizione delle conoscenze. Affrontando poi le caratteristiche dell’Apprendimento cooperativo2 che pone in primo piano l’attività del discente, guidato alla collaborazione per raggiungere traguardi culturali e di effettiva socializzazione, si è sottolineato il radicale cambiamento richiesto dalla metodologia costruttivista che ne sta alla base e fa dell’apprendista il protagonista dei propri processi di apprendimento. La presente puntata prende in esame gli strumenti della comunicazione che, nel passaggio sempre più spiccato dalla galassia gutenberghiana alla convergenza digitale, impongono oggi alla scuola riflessioni e scelte non solo sull’adozione di una strumentazione tecnica innovativa, ma soprattutto sui cambiamenti di prospettiva etico-antropologica. Due premesse necessarie: 1. l’approccio è epistemico; si pone quindi nell’ottica di chi insegna senza essere uno specialista di multimedialità; 2. l’ambito disciplinare trattato è prevalentemente quello delle materie espositive.3

Orientamenti - In un’intervista di una dozzina d’anni fa, il prof. Roberto MaragliaCf. RL 2010/1, 43-56. Cf. RL 2010/2, 265-280. 3 Ma non è difficile colmare la lacuna anche solo ricorrendo a rapide consultazioni in internet, come, ad es., Matematica e multimedialità, http://www.matmedia.it/Siti%20didattici/ricerca%20internet/matematica.html 1 2


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no esponeva alcuni punti4, poi ripresi e approfonditi in successivi suoi scritti5. Possono servire a impostare l’argomento. - La multimedialità a scuola si dovrebbe introdurre non solo come strumento, ma come elemento che rivoluzioni sia le modalità di apprendimento che di insegnamento. - Sono soprattutto gli insegnanti a dover imparare come utilizzare gli strumenti. - L’aspetto più interessante delle multimedialità è che riesce a realizzare una forma di sapere immersivo. - La multimedialità piuttosto che far morire il libro lo saprà rendere più forte. - Il patrimonio culturale italiano offre molto materiale per prodotti multimediali. - Tutte le materie possono essere insegnate con l’utilizzo delle tecnologie digitale; la cosa importante è che, fin dai primi approcci, i ‘cybernauti’ siano indirizzati e affiancati da esperti. Perplessità, resistenze, opposizioni - Le tre più diffuse posizioni critiche o dichiaratamente ostili con cui ci si è confrontati sulla multimedialità possono essere riassunte in termini di determinismo, tradizionalismo, catastrofismo6. • Per i deterministi, i media, e tra essi in particolare le nuove tecnologie di comunicazione (NTC), producono cambiamenti consistenti nel modo con cui i soggetti organizzano il loro pensiero e lo comunicano. Un modello ‘parallelo-in-rete’ prende il posto di quello ‘sequenziale’, caratterizzato e veicolato da scrittura e stampa. Si tratta di un impatto fra tradizione e innovazione, destinato a modificare profondamente il modo di comunicare. Conseguenze: occorre che nella scuola si creino o si moltiplichino operatori e strumenti in grado di far godere i vantaggi ed evitare i rischi di un modo di comunicare ormai ineludibile. • Per i tradizionalisti c’è il rischio di un analfabetismo di ritorno: imparare con le nuove tecnologie significa disimparare a leggere e scrivere, non riuscire più ad esprimersi in maniera adeguata. Sono sotto gli occhi di tutti le conseguenze che hanno avuto la diffusione dei fumetti (con un linguaggio spesso ridotto a figure ed onomatopee), della televisione (che fa dello spettatore un consumatore passivo di situazioni anche aberranti), del telefonino cellulare (che con gli sms pare impoverire ulteriormente le già precarie risorse lessicali e sintattiche del mondo giovanile). Conclusione: occorre muoversi in due direzioni: da un lato riproponendo i valori della cultura ‘alta’, dall’altro riducendo all’essenziale gli spazi destinati alle NTC, visto che è irrealistico ignorarle del tutto.

La multimedialità a scuola: http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/m/maragl03.htm Ad es. Nuovo manuale di didattica multimediale, Laterza, Bari 2004, pp. 228. È questa l’opera da cui è attinto gran parte del materiale. 6 Cf. P.C. Rivoltella, Formazione del soggetto e multimedialità in ‘Proposta educativa’, 2001/3, 7-13 4 5


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• Per chi condivide una prospettiva apocalittica i timori dei tradizionalisti sono aggravati dal fatto che molti degli strumenti interattivi - dal computer ai videogiochi - amplificano per gli utenti i rischi dell’avatar: le situazioni virtuali nelle quali la simulazione si sostituisce alla realtà e può causare un’estraneazione, uno sdoppiamento di personalità che nei soggetti più deboli può portare a forme e comportamenti nevrotici7. Conclusione: occorre opporsi con decisione soprattutto all’azione nefasta che un uso indiscriminato delle NTC provoca sui soggetti più deboli, coinvolgendo in quest’opera di prevenzione educativa le famiglie e la scuola. Necessità di una mediazione - Sia la concezione tradizionalistica sia quella apocalittica espongono ragioni che non sarebbe giusto negare o ignorare del tutto, tuttavia non propongono soluzioni diverse da quella di un rifiuto più o meno deciso a un’innovazione che non può essere accantonata. Tentare di ottenere improbabili conversioni o fragili compromessi non porterebbe a nulla. Vale perciò la pena di impostare in modo nuovo la questione, per giungere alla definizione di indirizzi praticabili anche perché non pregiudizialmente inconciliabili con altre posizioni. Il Maragliano (op.cit. p.29) ce ne offre di convincenti, considerando la multimedialità intesa come zona di confluenza di tre tradizioni mediali e quindi di tre culture: • la cultura della stampa, caratterizzata da oggettività, analiticità, sistematicità, chiusura; • quella dell’audiovisione, dove agiscono elementi di globalità, soggettività, compartecipazione, apertura; • quella dell’interattività, dentro la quale all’utente è riservata una funzione coautoriale. Nessuna di queste tre matrici dovrebbe prevalere sulle altre, e ognuna, anche rinunciando a una parte di sé, dovrebbe collaborare con le altre a strutturare il nuovo campo. Di sicuro interesse, per una lettura antropologico-culturale, sono gli elementi offerti da Mc Luhan in Galassia Gutenberg (1962)8. D’immediata evidenza sono, al riguardo, alcune riflessioni del Maragliano (cit., 9-10), che ne attenuano i contraAll’ospedale delle Molinette di Torino è in funzione un ambulatorio’per nuove dipendenze’: per maniaci del web, videodipendenti cronici da social network, videopoker, videogiochi e gioco d’azzardo, per ’malati patologici’ di facebook… 8 La trasformazione dei processi di interazione sociale attraverso i mezzi di comunicazione ha modificato la dimensione sensoriale e cognitiva dell’uomo. Nelle società primitive la funzione aggregatrice della parola orale, associata alla mimica e spesso alla pittografia, induceva a un apprendimento immersivo, che generava un sapere aperto e vissuto: un’esperienza diretta e immediatamente condivisa con i membri della comunità. La scrittura, potenziando la riflessione personale-soggettiva, ha accelerato i processi di separazione dalla comunità d’appartenenza; ha sostituito la scissione all’immersione comunicativa, favorendo un apprendimento distaccato e razionale, che contribuisce, però, ad accelerare il processo del pensiero. La tecnologia multimediale ha profonde conseguenze, perché crea - con strumenti di enorme capacità processi di immersione comunicativa simile a quella delle primitive comunità, ma potenzialmente estese all’intera umanità, riunita in un virtuale villaggio globale. 7


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sti e ne evidenziano le valenze: Le operazioni che un lettore competente è sollecitato a compiere su un testo di divulgazione, per esempio un manuale scolastico, sono della stessa natura di quelle attivate da un ipertesto: la messa in evidenza di un particolare, l’approfondimento di un concetto o di un tema, il collegamento tra la scrittura e l’immagine, il movimento da quel frammento testuale ad altri frammenti testuali, il cambiamento di prospettiva che il movimento può ingenerare, ecc. Il suo agire all’interno di un orizzonte multi e inter-testuale, e, implicitamente, multi e interpersonale (dove la lettura è dialogo con il testo e prospettiva di dialogo con altri) ha da fare con le logiche della reticolarità: in quanto lettore sapiente egli apre e riconnette tra loro gli elementi testuali (o nodi) di cui è fatto il testo, secondo procedure che associano l’attività del ‘ricavare’ (o dare) significato a quella del ‘cucire’, o del ‘tessere’(non a caso questo termine sta alla radice di ‘testo’).9

Dunque, con la varietà di apparati paratestuali di cui può avvalersi, una lettura attiva rappresenta già un allettante invito a trasformare in ‘lettura aperta’ - ipertestuale in senso analogico - i molteplici stimoli all’apprendimento che potenzialmente possiede. Il gap generazionale - Non è difficile convenire che le giovani generazioni si trovano più a loro agio nel sistema di convergenza multimediale10 che in quello monomediale (il linguaggio lineare e sequenziale della lettura). È in questa ‘frattura generazionale’ che si trova la ragione di una sostanziale diversità di essere tra gli adulti (fra i quali molti insegnanti) e i giovani/giovanissimi11. Le ragioni principali stanno

E, con altrettanta evidenza logica, il Maragliano prosegue: L’introduzione a un brano, il riferimento ad altri, la sequenza delle note di accompagnamento, l’apparato bibliografico per gli eventuali riferimenti; la proposta di esercizi e di strumenti per la verifica sono sponde che delimitano e indirizzano la sua strategia di lettura, senza condizionare totalmente i movimenti che sono propri del suo stile (delle sue abitudini) di attraversamento e di appropriazione della scrittura, e che, comunque, introducono cesure e rotture alla linearità classica del testo, e rendono impraticabile l’idea che ne esista una sola matrice d’uso. 10 Grazie alla rivoluzione digitale, la convergenza dei media è ormai assai avanzata: il paper diventa epaper, il telefonino tivufonino, l’iPod , l’iPhon, l’iPad scaricano non solo musica, ma anche immagini e video, e tutto si può comodamente connettere al wifi di casa; i social network e le videoconferenze consentono di creare comunità di lavoro; gli innumerevoli blog permettono - pur con discutibile efficacia - di commentare quasi in tempo reale notizie ed opinioni espressi sui giornali o in tv. 11 “C’è qualcosa di più profondo, che cambia le idee che ci siamo fatte sul sapere. Una volta le idee - le ‘teorie’ - sopravanzavano di gran lunga il fare - le ‘applicazioni’ - che appunto ne derivavano più o meno rapidamente: e di fatto noi ci siamo formati sull’imperativo per il quale ‘prima’ bisognava conoscere e, soltanto ‘dopo’, conseguentemente, operare. Ora non più: il pensiero tecnico, il come-si-fa, ha preso la guida della conoscenza. Lo sviluppo tecnologico (…) si sta rivelando un modo ‘alternativo’ di conoscere, alternativo alla ‘teoria’, perché sistemico, strategico, complesso. (…) Questa rivalutazione della pratica che nelle nostre aule si coglie negli alunni che manifestano un approccio più diretto, ‘esperienziale’, che a noi pare ‘meno riflessivo’ - non può avere conseguenze sulla soluzione del problema dell’insegnamento: non si tratta di allievi ‘più vivaci, distratti e poco motivati’, o non è solo questo e tanto questo, quanto invece una nuova modalità di andare incontro alle cose, solo apparentemente più ‘sprovveduta’. Ma noi sappiamo che è un’altra modalità di conoscere, anch’essa con le sue ‘virtù’: l’immediatezza, l’essenzialità, la concretezza, la coordinazione, la positività, la responsabilità e in genere, nel bene e nel male, il superamento delle distinzioni (dal dire al fare, dal pensiero all’azione, dalla scienza alla morale…) cui eravamo abituati (e rassegnati)”.(da Elio Damiano, Insegnare i concetti, Armando Editore, Roma 2004, p. 11). 9


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nel fatto che: • la multimedialità comporta l’immersione nel mondo della comunicazione; tutti i sensi sono impegnati: vista e udito (stimolati dal movimento di immagini e da flussi sonori vari, continui, talora ossessivi), manualità (videoscrittura e videogiochi), interazione interpersonale (nell’apprendimento in collaborazione). È il primo modo di conoscere dell’essere umano, in cui quasi nulla avviene per riflessione o ragionamento, ma attraverso una sorta di ‘bagno sensoriale’ sinestesico, dove i gesti, i movimenti, le emozioni tradotte dalla mimica e dai toni di voce rendono motivante e significativa la comunicazione bidirezionale; • la monomedialità esige l’astrazione, sia nel momento della codificazione (condivisione delle convenzioni grafiche mediante le quali ricevere e trasmettere idee, categorie e concetti) sia in quello della decodificazione12. È la caratteristica di un modo artificiale di comunicare, che comporta tutte difficoltà connesse con il linguaggio simbolico-astrattivo. Sono due modi diversi di intendere la comunicazione che, se contrapposti magari a causa di matrici culturali ritenute inconciliabili come quella ‘umanistica’ e quella ‘tecnologica’, impediscono un confronto utile quanto inevitabile. E spesso a sostegno di motivi d’ordine cognitivo si affiancano preoccupazioni educative in senso più generale, simili a quelle che al suo comparire (e ancor oggi, non senza fondati motivi) suscitò l’avvento della televisione.13 Va aggiunto che soprattutto il giovanissimo apprendista culturale - lo scolaro - ancor oggi in molti testi di psicopedagogia pare considerato estraneo al mondo dei media - tv, computer, videogiochi, ipod, ecc., che invece sa spesso manovrare con più perizia di tanti adulti.

Non solo parole per comunicare Monomedialità: i pro e i contro - La diffidenza, che talora si trasforma in avversione, per la tecnologia che caratterizza molte delle attuali forme di comunicazione pare derivare dal disagio, se non dal timore, di perdere prerogative che vengono considerate peculiari per la persona umana nel suo modo di conoscere, quali l’indipendenza, l’autonomia, la costruttività, la creatività. Questo avviene perché il libro - la

Radio e telefono si sono sviluppati inizialmente come ‘scritture sonore’, per rapportarsi alle quali occorreva operare gli stessi processi astrattivi richiesti dalla lettura/scrittura. 13 Da un lato considerata dannosa, perché non fa ragionare, appiattisce le menti, non consente di fissare le conoscenze, crea isolamento già all’interno della famiglia, non produce astrazione; dall’altro ritenuta di grande utilità, perché amplia le conoscenze e le rende più appetibili, permette la rilettura dei ‘testi’ (con il videoregistratore che ne consente la scomposizione e l’analisi), è una potenziale miniera di sussidi audiovisivi (le videocassette e i DVD) e, opportunamente proposta, è valido supporto per l’apprendimento cooperativo. 12


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parola scritta - è considerato il modello insostituibile della comunicazione, non solo come strumento didattico, ma come privilegiato se non unico tramite per accedere alla cultura, al divertimento, alla stessa tecnologia. E il libro esige una disciplina cognitiva caratterizzata da un’articolazione lineare delle conoscenze, dalla loro suddivisione in blocchi (i testi), da una logica dimostrativa che si fonda sul ragionamento ipotetico deduttivo o induttivo. I media più recenti destabilizzano tali certezze, generalmente condivise da quando la rivoluzione gutenberghiana ha progressivamente reso fruibile i vari aspetti della cultura a un numero sempre maggiore di lettori e a classi tradizionalmente escluse dal mondo dell’istruzione. All’articolazione lineare, ai blocchi testuali, al ragionamento induttivo/deduttivo e ai tempi correlati la multimedialità ha sostituito in misura sempre più aggressiva la contemporaneità, la ‘contaminazione’ audiovisiva, il ragionamento analogico, l’informazione reticolare, le procedure connettive. Convergenze - Il Maragliano (op.cit. p.37) propone: “Se invece si accettasse il dialogo con i differenti mezzi e le diverse forme del sapere e quindi si provasse a proiettare sui suoi stessi meccanismi di elaborazione (e sulle garanzie loro fornite dalla ragione gutenberghiana) lo stesso atteggiamento distanziante che generalmente fa agire nei confronti delle ‘altre’ macchine comunicative, la pedagogia non perderebbe altro che i suoi stessi vincoli. E guadagnerebbe in fatto di chiarezza terminologica e scioltezza discorsiva”. Un esempio convincente nasce dall’analisi del modo di imparare e di utilizzare la scrittura. Buona parte dei problemi che lo scolaro alle prime armi incontra è dovuto alla mancata distinzione tra i due piani del codice scritto: quello tecnico/funzionale (gli strumenti) e quello espressivo (il messaggio da comunicare). Il primo aspetto registra, ed esige, un’evoluzione dovuta alle conquiste dell’ingegno umano (si passa dallo scalpello delle incisioni rupestri al mouse della videoscrittura); l’altro si manifesta con il passaggio dalla pittografia all’alfabeto (e, se vogliamo anticipare un elemento del ragionamento, con il passaggio dalla monomedialità all’immersione multimediale). Appare logico aiutare al massimo chi apprende, offrendogli la soluzione dei problemi legati alle difficoltà ‘tecniche’ perché possa concentrarsi sui contenuti (che, in definitiva, sono le ragioni stesse del comunicare). Ora, un uso abituale della videoscrittura impostata con metodo (ma in modo non esclusivo, per evitare che non si sappia poi scrivere a mano in modo spedito e leggibile14) permette di superare con meno fatica le difficoltà ortografiche e, in fase di elaborazione del pensiero, di aver sott’occhio l’intera schermata del testo che si va costruendo, con la possibilità di modificarlo. Se si aggiunge la possibilità per l’internauta di avvalersi delle nuove tecnologie digitali - la multimedialità, gli ipertesti, la realtà virtuale, la robotica, le simulazioni

14 ‘Attenti al computer: ruba la scrittura ai nostri bambini. I piccoli cresciuti con tastiera e cellulare sempre più spesso soffrono di una sindrome che impedisce loro di scrivere correttamente, A. Tornielli, ‘Il giornale’, 8.03.2010.


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-, ci si rende conto che l’uso della ‘macchina’ è un correttivo dell’inadeguatezza fin qui denunciata dalle tecnologie15 tradizionali, a vantaggio della comunicazione nei due aspetti che la caratterizzano: il codice e il messaggio. E saper leggere significa saper decodificare per capire, ma anche saper ricercare, selezionare e trattare i documenti, ivi compresi quelli audiovisivi16. Apprendere oggi – Provocatoria ma fondata l’analisi di Domenico Parisi17: Il modo con cui i ragazzi apprendono a scuola non è molto diverso da come era quando la psicologia non esisteva. L’insegnante fa le sue lezioni cercando d’essere chiaro, di spiegarsi, di tenere alto l’interesse dei ragazzi, ma la qualità e l’efficacia delle sue lezioni dipendono più dalle sue qualità personali, dalla sua motivazione a insegnare, dalla sua esperienza, che da qualunque scienza che gli dica come insegna e che analizzi e spieghi come i ragazzi apprendono. Lo stesso vale per i libri di testo sui quali i ragazzi studiano, scritti da altri insegnanti o da professori universitari, e per gli esercizi, i problemi e le attività che i ragazzi svolgono in classe o a casa. (…) Questo ovviamente è un bello scacco per la psicologia, la scienza che studia come la mente funziona e come apprende.

Lo stesso Parisi aveva già osservato18: Con il linguaggio (verbale) si può parlare di tutto, anche di cose che non sono presenti nell’aula scolastica e quindi non si possono vedere o toccare, o su cui non si può agire, e quindi si può imparare su tutto. Questo è essenziale per una scuola com’è quella delle società moderne in cui lo studente non deve imparare mestieri e abilità manuali e non deve imparare solo com’è fatta la realtà immediata che lo circonda, ma deve imparare su un gran numero di cose lontane, astratte, puramente concettuali. (…). Perché una scuola che fa affidamento praticamente esclusivo sul linguaggio come canale di apprendimento non funziona più? La prima ragione è (…) che nella nuova società la scuola è scuola di massa, non di élite.( ). La seconda sta nella crescente importanza della scienza e della tecnologia come elementi costitutivi della cultura (…). La terza perché non è più possibile che una scuola ‘linguistica’ funzioni bene in una società ‘visiva’. (…). La quarta è che con le tecnologie dell’informazione, che pervadono l’intera società, i modelli di comportamento sono offerti dai coetanei e dai media più che dai genitori e dagli insegnanti. Ma se le simulazioni (possibili con gli strumenti multimediali) sono strumenti cognitivi non verbali, questo non significa che la tecnologia che il rapporto tra simulazioni e linguaggio debba essere necessariamente un gioco a somma zero, cioè qualcosa in cui se vince l’uno perde l’altro. Lo scenario che bisogna realizzare è il seguente. Gli studenti sono seduti davan-

Tecnica è l’applicazione pratica della scienza a fini di immediata utilità; tecnologia sono le varie forme di ‘protesi’ offerte all’attività umana dal progredire della tecnica (ieri e oggi, il libro; oggi, le varie famiglie di media). 16 Una nota casa editrice a partire da quest’anno arricchisce i testi scolastici per la scuola secondaria di I e II grado con attività interattive on line: file mp3, verifiche autocorrettive e tanti altri contenuti. ‘Con il Libropiùweb - promette la pubblicità - si può parlare di tutto, anche di cose che non sono presenti nell’aula scolastica e quindi non si possono vedere o toccare, o su cui non si può agire, e quindi si può imparare su tutto.’ 17 Perché la psicologia dell’apprendimento serve così poco nella scuola?, in ‘Scuola e città’, 2002, n. 52, pp. 57-58. 18 Come il computer cambierà il modo di studiare dei nostri figli, Mondadori, 2000. 15


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Marco Paolantonio ti a un computer, osservano i fenomeni simulati che avvengono sullo schermo, agiscono sui comandi cambiando le condizioni di quello che osservano e quindi i cambiamenti che ne conseguono. Accanto c’è l’insegnante che fornisce il commento verbale a quello che loro osservano, cioè fornisce i concetti, i termini, le descrizioni, le analisi, le spiegazioni, i ragionamenti verbali che consentono di completare la comprensione intuitiva (nel senso di non verbale), ma fondamentale, fornita dalla simulazione, con la comprensione più concettuale, articolata e ragionata che è il contributo specifico e altrettanto fondamentale del linguaggio.

In definitiva, è logico concludere, una riflessione sulla multimedialità è utile soprattutto se offre suggerimenti, se non soluzioni, sul modo di apprendere, soprattutto in un periodo in cui la scuola, trova più difficoltà che nel passato a trasmettere alle nuove generazioni la ‘cultura’ del passato. Se le variazioni dell’ambiente di apprendimento non sono significative, si verifica il fenomeno dell’assuefazione, nel senso che lo stimolo viene percepito non come incentivo ma, al massimo come un elemento di disturbo che non merita particolare attenzione (ad es. l’insegnante che in classe spiega cose nuove, ma che normalmente viene percepito dagli allievi come persona noiosa). Pericolo di assuefazione da una parte, rischio di dispersione per eccesso di stimolazioni sensoriali dall’altro.

Multimedialità e didattica Lessico funzionale - È opportuno premettere la distinzione fra didattica empirica e didattica come disciplina. La prima coincide in buona parte con il ‘buonsenso pedagogico’ e dipende dalla sensibilità culturale e dall’esperienza didattica acquisita dal singolo insegnante; l’altra è guidata dal bisogno di stabilire in modo sempre meglio strutturato i principi dell’azione didattica. In questo è ‘scientifica’; perché deve saper validare la teoria con gli esiti positivi delle applicazioni; e come ricerca di questo tipo non può dare nulla come di assolutamente assodato e definitivo. Altra distinzione tutt’altro che artificiosa è quella tra psicopedagogia19 e psicodidattica20. La prima, che si occupa del soggetto della didassi, va posta a fondamento dell’azione didattica che voglia essere davvero formativa, perché non ci si può occupare marginalmente od occasionalmente del ‘vissuto’ degli alunni. Ignorarne esperienze scolastiche pregresse e in atto, interessi, stile percettivo-cognitivo e motivazioni, interazioni socio-emotive con la classe, la famiglia,ecc., espone al rischio di veder in buona parte vanificato anche il tentativo di far loro acquisire valore saperi speci-

19 Riguarda in particolare l’azione del docente, competente gestore della materia insegnata e del modo di proporla. Si dà dunque la psicodidattica di un insegnamento/apprendimento letterario, scientifico, artistico, storico… 20 Prende in considerazione le caratteristiche della personalità in evoluzione dell’allievo per assicurargli le risposte educative più efficaci. Richiede un’azione concorde del team dei docenti, possibilmente affiancati da esperti.


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fici della disciplina insegnata. Non si tratta di abbandonarsi alla deriva rischiosa e inconcludente dello psicologismo d’accatto, quanto piuttosto di acquisire gli elementi necessari per porre in opera una didattica individualizzata che assicuri i migliori risultati. Stimoli per una riflessione (e una conversione) - Il Maragliano (op.cit., p.82-83) sostiene che per mezzo della didattica multimediale sono conciliabili, e con buona possibilità di successo, l’approccio al sapere ‘astratto’ della metodologia, attento al soggetto da educare, e quello ‘concreto’ della didattica disciplinare, sensibile soprattutto alle caratteristiche dell’oggetto culturale da trasmettere. La prima riflessione riguarda il modo di intendere le discipline scolastiche, o meglio, i ‘saperi’21 Siamo infatti abituati a concepire i saperi della scuola come un insieme chiuso, suddiviso in sottinsiemi, ciascuno dei quali presenta una sua ben precisa configurazione. Entro questo spazio la ripartizione degli oggetti dell’insegnamento tende a uniformarsi a quella della ricerca scientifica, dell’accademia, della biblioteca. Geografia da una parte, geometria dall’altra: due edifici, due scaffali, due insegnamenti, due forme diverse. Oggi tutti o quasi tutti i saperi scolastici riflettono un impianto accademico: l’intero campo dell’insegnamento formale è organizzato attorno a ‘oggetti scientifici’.

Ne consegue che: È dunque il caso di chiedersi se il paradigma che dà fondamento alla ripartizione corrente dei saperi -per la ricerca come per l’insegnamento - quello cioè di far coincidere la chiusura della disciplina con la chiusura del libro stampato e l’insieme delle discipline con la struttura ‘enciclopedica’ possa ancora godere dell’autorevolezza e dell’esclusività di cui ha goduto nei tre secoli di dominio della ragione gutenberghiana.

e occorre prendere responsabilmente in considerazione se questi suoi tratti (che sono anche i tratti costitutivi di buona parte dei curricoli scolastici) non risultino attenuati e ridimensionati dall’azione di altre forme di mediazione conoscitiva: tra queste, in primo luogo, le forme e gli stimoli della cultura mediale e soprattutto multimediale, di saperi che non conoscono chiusure definitive e che prediligono l’incontro, la collaborazione, l’integrazione, la contaminazione.

È una chiara impostazione costruttivista, che si definisce meglio allorché si prendono in considerazione i soggetti della didattica. Al riguardo è scontato convenire che i processi di insegnamento/apprendimento sono tanto più efficaci - e giustificati quanto meglio si adeguano al modo di apprendere dei singoli allievi. Ed è appurato che accanto ai due più noti ‘stili cognitivi’, il linguistico e il logico-matematico, se

Il Maragliano. fa osservare che, mutuando le espressioni dal francese, il termine ‘saperi’ è più fluido e aperto, più disponibile nei confronti dell’area delle procedure, meno compromesso con la visione disciplinare e accademica delle conoscenze, più attento all’ampia varietà di comportamenti, in alcuni dei quali c’è coincidenza tra sapere e conoscere, in altri, ‘sapere’ equivale a ‘saper fare’ o anche a ‘saper essere’.

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ne possono individuare almeno altri sei22. Si tratta di predisposizioni innate, che fanno privilegiare un modo di accedere alle conoscenze, senza escludere gli altri che possono integrarla e potenziarla soprattutto se sollecitate da un insegnamento attento alla caratteristiche individuali - cognitive, emotive e relazionali - del discente. Ogni comunicazione, a cominciare da quella verbale, consta di sue interfacce - cioè di due modi di accedervi - uno passivo, di ricezione, l’altro di interazione attiva. Si tratta dunque di vedere con quali mezzi è possibile rendere più efficace la prima e più fruttuosa l’altra. Dalla lettura all’ipertesto - Un modo per confrontare i vantaggi offerti dalla multimedialità rispetto alla lettura di un testo può essere quella di confrontare i due diversi modi di trattare lo stesso argomento. Nell’ipertesto23 si abbandona la secolare abitudine alla lettura lineare, sequenziale, stabilita definitivamente dallo scrittore per passare ad una lettura che, ovviamente sempre sulla base del materiale fornito dall’autore, vede il lettore come protagonista, non più come fruitore passivo. Ciò che consente questo processo sono i link o “parole calde”. Ad alcuni termini di un ipertesto viene associata la possibilità di collegarsi, con il semplice click del mouse, ad altre parti dell’ipertesto. Il percorso di lettura che ne consegue è perciò deciso dal lettore. È giusto riconoscere maggior possibilità critico-riflessiva al percorso consentito dalla lettura di un testo, ma è del pari giusto ricordare che “nella lettura multimediale c’è posto anche per esso, e quindi anche per i suoi valori, e nell’intrecciarsi e integrarsi dei diversi codici dei media (scrittura+suono+immagine) si può sviluppare una capacità critica di tipo nuovo, fondata sulla pluralità dei punti di vista, degli approcci, dei percorsi cognitivi, sulla contestualizzazione delle conoscenze, sulla mobilità e la contaminazione dei saperi (Maragliano, cit., 100). Cui vanno aggiunti la dimensione ludica (= il piacere di organizzare i saperi in varie forme grafiche, in particolare con le simulazioni) e la possibilità di accedere rapidamente agli elementi del materiale consultato, sfruttando le enormi memorie che i motori di ricerca e i loro link mettono immediatamente a disposizione dell’internauta. In breve, l’ipertesto - che oggi sarebbe meglio definire ipermedia, vista la sua capaci-

Tesi sostenuta da H: Gardner, ad es. in Educazione e sviluppo della mente, Erickson 2005. Oltre alle due più apprezzate a scuola, la linguistica e la logico-matematica (anche perché più facilmente misurabili) vanno considerate quelle musicale, spaziale, cinestetica, naturalistica e le due centrate sui rapporti: l’intelligenza intrapersonale e quella interpersonale. 23 Un ipertesto, come si sa, è un insieme di documenti messi in relazione tra loro tramite parole chiave. Può essere visto come una rete; i cui nodi sono costituiti dai documenti La caratteristica principale di un ipertesto è che la lettura può svolgersi in maniera non lineare: qualsiasi documento della rete può essere ‘il successivo’, in base alla scelta del lettore di quale parola chiave usare come collegamento. È possibile, infatti, leggere all’interno di un ipertesto tutti i documenti collegati dalla medesima parola chiave. La scelta di una parola chiave diversa porta all’apertura di un documento diverso: all’interno dell’ipertesto sono così possibili praticamente infiniti percorsi di lettura. 22


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tà di gestire anche immagini e suoni - è la risposta all’atavico desiderio di navigare liberamente nel mare sempre più vasto delle informazioni, seguendo una ‘rotta’ personale.

Formazione alla multimedialità La multimedialità non va quindi assunta come valore in sé, ma ‘contestualizzata’, cioè riferita all’uso sociale che ne viene fatto rispetto a quello che è da ritenere corretto. Il videogioco può essere un’esperienza alienante o uno straordinario modo per sviluppare le abilità di problem solving; internet può costituire un rischio di isolamento sociale o una opportunità di socializzazione; facebook e youtube possono ridursi a forme di narcisismo spesso rischioso oppure costituire punti d’avvio per analisi e discussioni capaci di stimolare spirito critico e autonomia di giudizio. Cinque scenari possibili 24 - Affidando ad altrettante preposizioni articolate il collegamento tra formazione e multimedialità, si possono delineare cinque posizioni in collocazione ascendente: formare con la multimedialità, alla multimedialità, attraverso la multimedialità, nella multimedialità, sulla multimedialità. 1. Formare con la multimedialità significa accogliere le nuove tecnologie come sempre si è fatto a proposito delle tecniche utilizzate come supporto alla comunicazione (voce ➝ segno ➝ libro ➝ lavagna ➝ filmati ➝ laboratori linguistici ➝ videoregistratori, e oggi CD-rom DVD e siti internet). Rispondono alla preoccupazione di rompere la monotonia della lezione frontale per innalzare i livelli medi d’attenzione con la moltiplicazione dei punti d’accesso ai problemi. Le difficoltà maggiori possono nascere dalla dissonanza tra l’esposizione lineare comunque ritenuta fondamentale e, ad es., i CD-Rom ipermediali che aprono una navigazione reticolare. 2. Formare alla multimedialità esige la costruzione collaborativa di ipermedia, ad es. con l’adozione di ‘programmi-autore’ sui quali è possibile interagire assemblando oggetti multimediali, gestendo testo immagini e suoni. È una scelta che suppone la dimensione collaborativa tra gli allievi e una loro sufficiente competenza tecnologica. Tra i rischi c’è quello di sopravvalutare il prodotto rispetto al processo (non è difficile trovare in internet ipertesti bellissimi, frutto però del lavoro degli insegnanti e che perciò hanno pochissimo inciso sugli apprendimenti della classe). 3. Formare attraverso la multimedialità significa guidare gli allievi alla comprensione della realtà vissuta o ricostruita culturalmente con l’estensione della logica verbale ai linguaggi non verbali. Se nell’alfabeto e nella grammatica della multimedialità - l’uso degli strumenti - la maggior parte dei ragazzi è più scaltrita di molti adulti, manca abitualmente loro la capacità (e l’interesse spontaneo) per una sintassi

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È un’interessante disamina di Cesare Rivoltella nel saggio citato alle pp. 10-16


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multimediale, vale a dire per l’utilizzo della tecnologia a fini di vera cultura, mediante l’identificazione di temi culturalmente validi, capaci cioè di arricchire, ampliandolo nelle connessioni interdisciplinari e disciplinandolo nelle procedure, il mondo della conoscenze necessarie non solo alla futura scelta professionale. In questo la presenza tutoriale dell’insegnante resta fondamentale. 4. Formare nella multimedialità vuol dire creare nella scuola un vero e proprio ambiente in cui i media siano i normali strumenti di lavoro: costruttivismo multimediale. L’iperscuola (Cavani), già vagheggiata anni fa, farebbe della lettura/scrittura multimediale la normale attività scolastica. In tal modo, la produzione culturale dell’occidente che finora è passata attraverso i filtri della scrittura, troverebbe sbocchi assai più soddisfacenti nelle varie forme della comunicazione telematica. Già ora ai testi scritti - spesso consultabili via internet - è possibile addizionare una documentazione visiva (immagini fisse o in movimento), simulazioni (con ricostruzione virtuale di ambienti, avvenimenti esperimenti). La teledidattica 25 e le lavagne multimediali sono una parziale dimostrazione dell’efficacia di un nuovo modo di impostare il rapporto insegnamento/apprendimento. 5. Formare sulla multimedialità è la premessa pedagogica necessaria per fare della multimedialità uno strumento di vera formazione. Chiede agli insegnanti innanzi tutto la capacità di leggere i media. Ciò significa26 “mettere in condizioni chi apprende di analizzare CD-Rom e pagine web dai diversi punti di vista: tecnico (come sono costruite, che architettura suppongono), grafico (navigabilità, usabilità dell’interfaccia), contenutistico (valore conoscitivo, attendibilità delle informazioni), etico (accettabilità sociale, valori portati in gioco)”. Ma chiede - in particolare agli insegnanti di materie espositive - soprattutto di promuovere modalità corrette di lettura a partire dalle reali modalità di consumo. “In sostanza - chiarisce l’esperto - occorre verificare cosa consumano i soggetti, invitarli a sondarne le ragioni, aiutarli a problematizzarle. L’obiettivo è di disegnare una mappa delle sub-culture d’appartenenza, smascherare gli stereotipi, far emergere convinzioni e ideologie e poi favorirne l’elaborazione attraverso il confronto e la discussione”. Morfologia e sintassi multimediale - Le note tassonomie del Bloom, che a partire dagli anni Cinquanta hanno offerto una valida pista metodologica agli insegnanti, sono state adeguate ai mezzi e al linguaggio interattivi. Agli obiettivi che le caratterizzano (conoscenza, comprensione, applicazione, analisi, sintesi, valutazione) sono state aggiunte le dimensioni affettive e relazionali.

Agli adulti la formazione a distanza permette una maggior autonomia nella scelta dei tempi da dedicare allo studio; ad es. i corsi di aggiornamento e di riqualificazione professionale possono essere seguiti in orari che non disturbano quelli lavorativi. Disabili e lungodegenti non sono obbligati a spostamenti che richiederebbero tempo, denaro e assistenza. 26 Rivoltella, op. cit., p. 15. 25


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Possibile tassonomia degli obiettivi educativi per apprendere in internet: 27 1° livello: capacità di ricercare e selezionare le informazioni ed esplorare le relazioni ipertestuali interagendo con il software. Strumenti: Browser Web, Motori di Ricerca, Indici di rete, podcast. 2° livello: abilità di interagire in modo critico ed attivo con altre persone. Strumenti: Posta elettronica, Guest Box 3° livello: capacità di apprendere insieme con altri, partecipando in modo attivo e critico ai forum. Strumenti: Liste di Discussione, IRC, CU-seeMe- NetMeeting 4° livello: capacità di collaborare e/o cooperare ad un progetto in via telematica. Strumenti del linguaggio HTML 5° livello: cooperazione ipermediale - Strumenti: gli stessi del 4° livello, ma con la possibilità di lavorare su ipertesti con immagini, voci, suoni, animazione (ipermedia) Numerosi sistemi, come SewCom, guidano nel cammino dell’apprendimento con internet. Sono anche metodologicamente validi, perché postulano un procedimento razionale, che, partendo dall’individuazione dei link utili al reperimento delle informazioni relativi all’argomento trattato, richiede la cernita critica fra la pluralità dei dati disponibili, e offre infine i mezzi per assemblare e costruire le informazioni anche in modo creativo. La lavagna interattiva multimediale (LIM) didatticamente stimolante, si rivela di non difficile gestione. Collaborazione in rete - La teledidattica si propone la creazione di ambienti di apprendimento telematico in cui si possano verificare tutte le mediazioni interattive che caratterizzano la metodologia del cognitivismo. L’e-learning (apprendimento elettronico) sfrutta le potenzialità disponibili in internet per offrire una informazione/formazione diretta o registrata a chi si connette online. Sono forme d’insegnamento tipicamente ‘centrate sullo studente’. Non si tratta di una semplice multiformità di proposte, perché è prevista una serie di figure e di servizi che costituiscono una vera metodologia didattica: tutor, comunità di pratica. I contenuti sono offerti con il criterio della modularità didattica e progettati in diversi formati: pagine HTML, animazioni 2D o 3D, contributi audio e video, simulazioni, esercitazioni interattive, test, sempre in modalità multimediale che può essere utilizzata com’è proposta o modificata con l’aggiunto di altro materiale in rete. Le quattro principali caratteristiche della formazione online sono: - modularità: materiale didattico diviso in unità della durata di 15-20’; - interattività: possibilità di vera interazione tra utente e mezzo tecnico, in modo da sollecitare in continuazione le motivazioni ad apprendere; - esaustività: ogni modulo deve corrispondere a un obiettivo formativo e portare l’utente alla realizzazione dell’obiettivo stesso; 27

C. Petrucco, Introduzione all’informatica e alla navigazione in Internet, Cedam, Padova.


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- interoperabilità: i materiali devono essere compatibili con qualsiasi piattaforma tecnologica ed essere facilmente rintracciabili28. Certamente tutto ciò comporta una trasformazione della scuola da sistema autoreferenziale a sistema aperto alla comunicazione interattiva. Richiede al docente non solo di saper utilizzare e di saper far utilizzare in modo attivo le risorse dell’informazione multimediale, ma anche di sapersi impegnare in attività di ricerca e di produzione del software didattico.

Dal programma agli standard d’apprendimento Nel gennaio di quest’anno, nel varare la riforma dell’istruzione secondaria superiore, il ministro Gelmini ha usato l’aggettivo ‘epocale’. Con il riordino dei cicli è sicuramente cambiato l’impianto, ma il successo della riforma dipenderà dalla qualità degli insegnanti, dalla chiara definizione degli obiettivi di apprendimento (che non siano sterminati elenchi di competenze difficilmente definibili), dall’efficacia dei sistemi di autovalutazione e di valutazione sia delle singole istituzioni sia a livello nazionale ed europeo. Fra i vari nodi da sciogliere introduciamo, rimandandone l’esame alla prossima puntata, quello che si riferisce ai contenuti, i ‘saperi’ da far acquisire, che ha una logica ricaduta sui modi di utilizzare la multimedialità. “Il cosa insegnare - fa notare Gaetano Dominici29 - è prerogativa prioritaria, seppur non esclusiva, della società nel suo complesso, ovvero di decisioni assunte a livello nazionale. Non più attraverso la definizione puntigliosamente analitica dei programmi di insegnamento per ogni livello, corsi e tipo di scuola, ma, come peraltro emerge dai documenti ufficiali, nazionali ed europei, più accreditati scientificamente, attraverso indicazioni generali degli standard di formazione”. Si tratta dunque di definire: • a livello nazionale ed europeo, il grado di competenza raggiunto dagli allievi al termine di ogni segmento della loro carriera scolastica; • e a livello delle singole istituzioni, sulla base delle predette indicazioni generali, la formulazione di curricola adeguati al tipo di studi seguìto dagli allievi, nel rispetto delle attitudini e delle doti personali. Discorso molto articolato, dibattuto da anni e, per ora, sufficientemente chiarito e

28 Il Progetto europeo di apprendimento per via elettronica 2004-2006 ha previsto la promozione dell’alfabetizzazione digitale, la creazione di ‘campus virtuali’ europei, il gemellaggio elettronico delle scuole europee e azioni trasversali per la formazione dei docenti. Facile l’accesso ai siti che danno notizie dell’attività promossa e svolta sia in Italia sia in Europa: Cf., ad es., www.osservatoriotecnologico.net/internet/e-learning.htm http://ec.europa.eu/education/programmes/elearning/programme_it.html 29 Manuale dell’orientamento e della didattica modulare, Laterza, Bari 2009.


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definito solo a riguardo delle materie logico-combinatorie (scienze matematiche e lingue), che hanno strutture epistemologiche precise (regole, corollari e vocabolario) e perciò si prestano alla definizione di standard orientativi di prestazioni (formalizzati in standard prescrittivi di certificazione delle competenze) almeno in risposta alle richieste d’impiego o di inserimento in gruppi di lavoro sovranazionali. Sono questi gli intenti dell’INVALSI.30 I profondi mutamenti socio-culturali accennati all’inizio delle presenti note hanno riguardato ovviamente anche la scuola, provocando un disorientamento che pare giustificare sia l’arroccamento sulle posizioni conosciute (con un insegnamento ipertradizionale) sia, con le varie sfaccettature del costruttivismo, l’apertura a forme di metodo e di didattica sostanzialmente innovative. È di queste ultime che intendiamo occuparci nella prossima puntata: Modularità didattica e unità formative, in cui riprenderemo in modo concretamente applicativo anche la multimedialità nella scuola.

30 Se è vero che lo scopo dichiarato dell’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema educativo d’Istruzione e di Formazione è quello di ‘integrare gli elementi di valutazione propri della scuola con elementi rilevati a livello nazionale in modo di avviare azioni per migliorare la qualità della scuola’, è altrettanto evidente che molti dirigenti e docenti la considerano un’ingerenza che condiziona fortemente una reale autonomia. Non è quindi difficile trovare chi giudica ‘pericolosi’ i test, perché inducono gli insegnanti a inseguire in modo compulsivo le Indicazioni ufficiali e a privilegiare le modalità della didattica a quiz. Non meno forti le perplessità dei docimologi, i quali fanno notare che l’attuale sistema messo a punto dall’INVALSI è affidato a un voluminoso questionario che combina differenti tipologie di dati (evidenze empiriche, dati quantitativi e dati qualitativi) e non restituisce alle scuole elementi utili per una riflessione critica ordinata a successivi interventi migliorativi o correttivi.



RivLas 77 (2010) 3, 419-424

Escuelas con carisma Raíces de identidad de la escuela católica LORENZO TÉBAR BELMONTE

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on ocasión de la celebración del Cincuentenario de la fundación de la Federación española de centros católicos, bajo las siglas de FERE-CECA, escribí estas reflexiones, que siguen teniendo plena vigencia.. El doble millar de centros educativos de Iglesia en España constituye un precioso caleidoscopio de carismas, que proclama de forma diáfana los valores del Evangelio en nuestra sociedad. La riqueza plural de los carismas se ha encarnado a lo largo de lustros y siglos, en todos los rincones del mundo, acrisolada con experiencias creativas de atención a los niños y jóvenes de todos los tiempos, con el impulso y la autenticidad de la vida de los santos y venerables fundadores de los diversos Institutos y Congregaciones dedicadas a la educación. Los carismas son un tesoro que pervive más allá de las contingencias humanas. Vale la pena, en esta hora de celebración, recordar lo que tienen todos de común, su significado y continuidad, por la fuerza e inspiración pueden aportar a los educadores cristianos.

Qué son los carismas Al tener que definir la identidad de la escuela católica no podemos dejar de referirnos al tesoro que constituye el patrimonio de los carismas de los Fundadores y Fundadoras, muchos de ellos santos, que han dado vida a lo largo de siglos a obras e instituciones educativas, y reconocer el impacto y actualidad de sus carismas. La misión de la escuela católica se realiza desde los carismas, sean universales o eclesiales, sean concretos o institucionales. Los carismas nos ayudan a comprender la misión, a tener una imagen más cercana del amor de Dios a los hombres. Cuando se habla de carismas: – Se trata de una forma de amar y preocuparse de los niños y jóvenes, desde su abandono familiar, su privación cultural, su salud, su exclusión social, sus carencias y limitaciones.


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– Es el espíritu peculiar con el que nos vinculamos a una organización o institución desde donde se responde a una especial necesidad. La Comunidad aporta el nuevo signo del amor y la fraternidad con el que dinamiza todo su proyecto. – Es el estilo como asumimos un ministerio de atención a los más excluidos: los pobres, los niños, los inmigrantes, los ancianos, los enfermos, etc., que se convierten en el centro de nuestro proyecto desde la ayuda, la educación, la alimentación, la salud, la gratuidad… Los carismas nos ayudan a entender la imagen de Dios: Padre bueno y acogedor, sentado a la mesa con los hijos (Mt 22,1). El banquete es la gran parábola, el gran símbolo del Reino, que no excluye a nadie: “La vocación más alta del hombre es entrar en comunión con Dios y con los otros hombres, sus hermanos” (VFC, 9). La única condición que se nos pide es la de presentarnos con el vestido de fiesta: Confiar en la bondad de Dios. Pero hay otras formas de ver y creer en la vida, desde la total autonomía del ser humano hasta la exclusión de toda noción de transcendencia. En toda propuesta de carismas subyace una visión creyente, una eclesiología de comunión, una misión que atrae “a los hijos dispersos”, que abre sus puertas, que comparte sus bienes, que va en busca de los más necesitados, de las ovejas descarriadas. El carisma nos acerca al concepto de vocación o llamada de Dios para una mediación salvadora. Tanto la Iglesia como la escuela cristiana son signo e instrumento de amor, casa y escuela de comunión, para no defraudar la búsqueda de sentido y esperanza que existe en todo corazón humano. El carisma es la especial forma de ver, entender y descubrir las necesidades humanas para responder a ellas con el compromiso vital. El carisma es el dinamismo que atrae al camino de la convivencia y de la promoción a todos los marginados y excluídos. Todo carisma es inclusivo, constructor de humanidad, dinamizador de proyectos, como hizo Jesús de Nazaret, acogiendo a los leprosos, tocando a los ciegos, acogiendo a las prostitutas, viudas, a los publicanos explotadores, hombres mal-vistos, a los pobres y hambrientos, a los niños, a los tullidos. El carisma es un don que afina nuestra sensibilidad y nos hace vulnerables al dolor de los otros. El carisma es gracia para responder con valentía a los desafíos de los marginados. Pero el carisma también nos da el privilegio de sentirnos acompañados, fortalecidos y enriquecidos por la comunidad de creyentes, de vivir en estado de gozo, de esperanza y confianza en un mundo mejor, que vive fraternidad y paz.

Cómo se manifiestan los carismas Al carisma no se le puede discernir sólo desde la eficacia, sino desde otros criterios de siembra, de gratuidad, de frutos lejanos, porque “el grano tiene que morir” y “otros recogerán los frutos”. Nos ayuda a ver la vida como don de Dios, nos invita


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a vivir siempre a la sombra de la ternura de Dios y a caminar en su presencia providente. Por eso en muchos casos los carismas llegan al radicalismo del desprendimiento y de la entrega de la misma vida por los demás. El carisma es una forma de ver a Dios en los otros. El carisma da identidad, crea sintonía, empatía y entrega. Lo específico de la escuela católica es aportar su carisma: ese don especial que se manifiesta en un estilo de acogida y de relaciones, en un compromiso, valores y signos de ayuda y salvación. Por todo lo dicho, podemos concluir que el carisma aporta especificidad, nos permite ser reconocidos por la función social que realizamos, por las respuestas a las necesidades humanas, a veces las más urgentes y básicas, que atendemos con prioridad. Incluso en los carismas hay dimensiones de profundidad como en el caso de vivir la fraternidad hasta sus últimas consecuencias en comunidad. La Comunidad es signo de fraternidad y de compartir la vida en torno a un proyecto evangélico, para una misión. Por eso el carisma manifiesta sus riquezas cuando trabajamos juntos personas con diferentes estados de vida, pues introduce a toda la Comunidad en un camino de búsqueda y creatividad de respuestas para una misión concreta. Las comunidades, a la luz de la Palabra, de la oración y del diálogo, disciernen en común la autenticidad de los carismas como signos totalizantes del amor de Dios que conllevan sus exigencias, formas de vida, compromisos y disponibilidad radical. Por eso también hay diversas formas de comprometerse y vincularse con los carismas, que diferencian a los religiosos de los seglares, especialmente por la total o parcial disponibilidad para vivirlos en el espacio y en el tiempo, compatibilizando otras obligaciones familiares y laborales. Aunque de pasada, deberemos aludir a la teología de los carismas que ya diseñó san Pablo y que son muestra de que Dios sigue actuando sobre su plan de salvación con estos signos de su amor. Dios nos ha escogido para ser signos presenciales de su amor. Jesús de Nazaret fue “el hombre para los demás”, el que se vacía totalmente de sí mismo y se universaliza al darse a todos, para atraerlos a todos, para reunir a los hijos dispersos... Es el absoluto mediador entre Dios y los hombres. Por eso el credo fundamental de los primeros cristianos era: “Jesús de Nazaret es el Cristo, esto es, el completamente lleno del Espíritu escatológico de Dios. Él es la revelación final y definitiva de Dios y en ella, al mismo tiempo, el paradigma de la humanidad escatológica” (Schillebeeckx). La mística es un don y un privilegio de encontrar a Dios en las personas, en la vida. Por eso podemos entenderla como una capacidad para ver la realidad a través de los carismas, con los ojos de Dios.

Carisma, vocación y misión eclesial Los carismas, cuando nos enfrentan a problemas que atañen a nuestras profundas aspiraciones, nos conmueven y suscitan en nosotros otras llamadas más radicales,


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incluso la vocación… (Vocación viene del verbo latino vocare: que significa llamar). En muchos casos concretos se nos llama o invita a compartir el compromiso con otros, a asociarnos o unirnos en grupos, comunidades o instituciones. Los carismas se manifiestan en su plenitud cuando se concretan en diversos estados de vida cristiana. El carisma, por tanto, se convierte en: – el dinamismo de búsqueda y creatividad constante para dar nuevas respuestas humanizadotas, – la forma específica de revelar y comprender el rostro de Dios, que hallamos hoy en el evangelio, y que se manifiesta al mundo, – el estilo de vida, el impulso de compromiso entre los que comparten el mismo carisma, en una misión eclesial. Los carismas nos sitúan en una conciencia más eclesial de nuestra misión y de nuestras obras. Misión realizada por un grupo eclesial en el que se integran diferentes vocaciones (seglares, sacerdotes, religiosos) y obras que no pertenecen tan sólo a un Instituto sino a una comunidad eclesial o social. Los carismas nos abren a las teologías de la realidad de cada día, a lo que cuesta la vida, a la enfermedad de un niño o de un adulto, a los problemas de la ancianidad, de los inmigrantes, de las madres o a los de las asociaciones de vecinos… Los carismas nos permiten centrarnos más en lo que nos interpela de disponibilidad, en los compromisos de identidad: oración, relaciones con el grupo o la comunidad, afianzamiento de estructuras y medios, nuevos desafíos, pruebas, crisis, creatividad, etc. Los carismas nos dan una complementariedad de riquezas en la dimensión religiosa y en la forma de entender el mundo: Acentuando el “Dios del mundo” (los religiosos), de la misma forma que los seglares acentúan “el mundo de Dios”. Cada identidad se debe expresar en su existencia específica, pero sin dejar de convertirse en signo total del amor y la presencia de Dios, porque nuestra misión es mantener viva la pregunta sobre Dios y los caminos para conocerle. Por eso que el primer apostolado debe ser el testimonio de presencia y disponibilidad, tanto de los religiosos como de los seglares. En los carismas los roles de las personas se diversifican en funciones plurales: – apoyando la educación y formación o tareas administrativas, – humanizando las culturas por medio del testimonio acogedor y con la sencillez de vida, – promoviendo la justicia o acogiendo a los excluidos de la sociedad, – asumiendo responsabilidades en estructuras sociales o en tareas menos relevantes u ocultas, – fundamentando la educación, la catequesis o con el anuncio explícito del Evangelio, – animando o liderando proyectos de mejora a favor de los más necesitados de nuestra sociedad,


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– formando líderes, creando equipos, despertando vocaciones, animando a otros al compromiso y a la entrega gratuita. Podemos afirmar que los diversos carismas constituyen un rico patrimonio de la Humanidad, amasado a lo largo de los siglos para el servicio de la dignidad humana, sin ninguna restricción o exclusión, en todo caso en beneficio de los más débiles y desamparados.

Los carismas en educación Los que vivimos inmersos en el mundo educativo conocemos nombres estelares, fundadores de Instituciones centenarias que siguen alentadas por el don de su carisma: San Francisco de Asís, San Agustín, San Ignacio de Loyola, San José de Calasanz, San Vicente de Paúl, Santa Teresa de Jesús, San Juan Bta. de La Salle, San Antonio Mª Claret, Santa Joaquina Vedruna, San Enrique Ossó, San Juan Bosco, San Marcelino Champagnat y una lista casi interminable de fundadores, además de una estela de insignes continuadores y seguidores de sus pasos, son los que han dado forma y vida a la gran riqueza de los carismas de la educación católica. Sus vidas y sus obras fundamentaron y lanzaron proyectos educativos impregnados de Evangelio, para la construcción del Reino de Dios, de la nueva sociedad, basada en la fraternidad de los hijos de Dios. Cada fundador representa un carisma, un don especial para entender la encarnación del amor de Dios a través de sus siervos y amigos. Su respuesta ha sido una llamada a la compasión, a la misericordia, para poner remedio desde su fragilidad, en la mayor parte de los casos. Sólo los santos han sabido leer y escuchar esa interpelación al compromiso radical con el más débil y el más excluido: El pobre, el ignorante, el enfermo, el discapacitado, el hambriento, el emigrante, el refugiado, el sintecho… Todos han sido voces que han resonado en sus corazones con eco profundo. Han nacido institutos religiosos, órdenes y fundaciones de Iglesia, desde el amor y el compromiso evangélico: Escuelas, hospitales, orfelinatos, fábricas, imprentas, teatros, centros culturales, periódicos, seminarios, universidades, comunidades, iglesias…, y otras muchas iniciativas creadoras, inspiradas por el amor y la gratuidad evangélica. La misión realizada con conciencia de Iglesia hace que las acciones se transformen como expresión de un ministerio, si realmente se hacen en comunión con la misión eclesial. Esta es la nueva dimensión del Educador Cristiano, impulsado por la fe y guiado por el Espíritu, que le invita a actuar para realizar su tarea como una misión. Sin duda que se trata de un nuevo enfoque que presta sentido y trascendencia a una labor a veces insignificante, pero que cuando se hace con elevadas miras y con pro-


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fundas convicciones, nos permite comprender que entre todos estamos construyendo la nueva familia de los hijos de Dios. Estos compromisos educativos que perviven han hecho grande la Historia de la Educación, y siguen propagando una luz inextinguible a través de las familias que continuaron sus huellas. Revitalizar y expandir esos carismas, dándoles el valor y apreciando la fuerza que poseen, es el reto que nos obliga a la fidelidad y creatividad con visión de futuro, pero con la misma fe que los fundadores tuvieron en la meta sublime que alentó sus vidas.

Conocer y revitalizar los carismas La presencia masiva de seglares en los Colegios Católicos nos invita a cuestionarnos sobre la transmisión de los carismas a las futuras generaciones. Hoy se insiste en que cada empresa tiene que tener su espíritu y misión, con visión de futuro. El primer gesto de compartir un proyecto arranca de la sintonía con unos mismos principios y un compromiso que aglutine las fuerzas para formar familia en torno a un carisma fundacional. Es sencillamente una vuelta a las fuentes para forjar la identidad. Las instituciones depositarias de los carismas son las primeras responsables de compartir, transmitir y aglutinar mentes y corazones, compartir un mismo lenguaje y un mismo ideal, para que todo proyecto tenga pleno sentido y sea auténtica respuesta a las necesidades educativas de hoy. El liderazgo hoy exige acompañar, formar y afianzar en el carisma, en una misión compartida, que debe surgir de una conciencia vocacional de todo bautizado. Pero esta mentalización ni se improvisa, ni puede ser superficial o simplista. Debe ser fruto de una nueva conversión mutua y de una transformación de estructuras de misión e, incluso, de gobierno en las Instituciones, convencidos de que la escuela cristiana es hoy un medio imprescindible de inculturación, el areópago imprescindible de la presencia del Evangelio entre los hombres. El paso del tiempo puede llegar a erosionar y a dejar en el olvido auténticos valores e ideales que han sido capaces de llenar de sentido a hombres y mujeres durante siglos. No basta hoy la adhesión afectiva de los educadores y de los padres a un proyecto educativo formal. Si se quiere que se construya entre todos, todos deben sentirse impulsados y entusiasmados por un mismo carisma que es el que proyecta luz a metas a veces sobrehumanas y utópicas, todas ellas dentro de la entraña de la misma esencia de la Educación. En definitiva aquí encuentra sentido la Escuela Cristiana como parcela humilde de la gran utopía del Reino de Dios, el gran desafío y promesa de Dios, por medio de Jesús.


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Interreligious relations in Egypt Possibilities and limitations MICHAEL L. FITZGERALD

I

have been asked to speak to you about interreligious relations in Egypt. I am not sure whether I am the best person to do this, not being an Egyptian, and having been in this country for only four years. The reflections presented here will necessarily be sketchy, even somewhat impressionistic, based on what I have seen myself and on what people have shared with me. However, I have also drawn on the paper of H. E. Mgr Hanna Golta, Auxiliary of H. B. Patriarch Antonios Naguib, entitled Les chrétiens d’Orient et l’Islam, presented during the colloquium held in Paris to celebrate the 150 years of l’Oeuvre d’Orient.

A historical perspective You are surely expecting to hear about current relations, but it may be good to provide first a historical perspective. Please be reassured that I do not intend to give a lecture on the history of Egypt, but just a few reflections on the past which have contributed to the present of this country. Surely when Egypt is mentioned what first comes to mind is the pyramids. These monuments bear witness to an ancient pre-Islamic civilisation. Though for some Muslims they may be considered remnants of the jâhiliyya, the era of ignorance and barbarity, they have remained proudly standing. The Egyptian government has not tried to destroy them, as has happened with other pre-Islamic monuments elsewhere. Of course there are practical reasons for preserving the pyramids – the need to develop the tourist trade and bring in much needed hard currency – but the government’s position denotes a broad attitude. I have been struck, moreover, by the fact that the Pharaohs are still alive. This is not only because it is the name given to the Egyptian football team, but also because cer-


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tain features of the architecture of pharaonic times are reproduced in modern buildings, for example very delicately in the Bibliotheca Alexandrina, but even in shopping malls. One also sees in schools reproductions of bas-reliefs from the temples; it would seem that there are still lessons to be drawn from ancient history. A question arises here of the relationship between religion and culture. Should culture be purely Islamic in a majority Muslim country such as Egypt, or can other influences be allowed? The tension such a question raises is found in Egypt, as in other countries. One sign is the wearing of the veil by a far greater number of women, I am told, than say ten or fifteen years ago. The President’s wife, Suzanne Mubarak, never appears with a veil, and this is true of a number of women who hold high positions in society, although there is one woman minister who does wear the veil. Apart from Christians, the majority of girls or young women studying in school or at university are veiled, but this can easily be combined with the latest model of jeans. What is noticeable, though, is the increasing number of women wearing the niqab, the veil covering the whole face, and this phenomenon has aroused much concern and controversy. Another obvious feature of Egypt, after the pyramids, is the Nile, this great river which traverses the whole country as a lifeline. We could say that without it, the very fertile strip of land, a veritable green belt, would not exist, and the population of Egypt could not survive. But the Nile reminds us of Moses found in the bulrushes, and the thought of Moses leads to Sinai where the Law was given after the Exodus of the Jewish people. So Egypt recalls the historical presence of Judaism, and in fact not only at the beginnings of this religion, but also, especially here in Alexandria, the importance of the Jewish diaspora - we can recall the translation of the Septuagint - and the symbiosis of Jewish and Greek culture. Yet today Judaism hardly exists at all in Egypt. Of course in Old Cairo there is the Ben Ezra synagogue, the oldest synagogue in the country, but very much restored and really open only for tourists. The synagogue in down town Cairo was recently restored in view of the centenary of its construction. It is used at High Feasts. However, the Jewish community in Egypt is extremely reduced, most of its members having left the country, first when Gamal Abd al-Nasser came to power, and then after the war which followed the nationalisation of the Suez Canal. Many Catholic schools in Egypt used to have Jewish pupils, but now this would be extremely rare. The disappearance of the Jewish community means that interreligious relations in Egypt are practically confined to Christians and Muslims. (There exists a small number of Baha’is, but they have no official existence and thus are, in a sense, a negligible quantity.) Turning now to Christianity, we must remember that it was present in Egypt centuries before the rise of Islam. Without taking into account the presence of the Holy Family in Egypt, traditionally the origins of Christianity in the country go back to


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apostolic times, to the preaching of the Evangelist Mark, the disciple of Peter. The Church was at first Greek, distinguished by the great theological school of Alexandria (Clement, Origen, Athanasius, Cyril). It gradually became a Coptic (that is Egyptian) Church, characterised by the celebration of its martyrs and the practice of monasticism. Other Churches entered the scene later for a variety of reasons: as a result of mission work, first by the Franciscans and then others (Latin Church), and then through immigration, from the Greater Syria or from Turkey (Maronites, Melkites, Armenians, Syrian and Chaldean), or as a result of the preaching of American missionaries (the various Protestant Churches). Islam arrived in the middle of the 7th Century, gradually penetrating the whole country, through conquest, through conversions, through the exertion of pressure, and with the help of immigration of already converted Arabs tribes. Different Islamic regimes ruled the country: Umayyad, Abbasid, Fatimid, Ayyubid, Mamluk and Ottoman. There was an interval of British colonial rule. The revolution of 1952 has led to the Egypt which exists today.

The relative strength of the two communities How do Christianity and Islam in Egypt relate, first of all as regards size? It is never easy to give accurate statistics. Estimations vary considerably. Take, for instance, the figures given for the overall population of Egypt. Two sources consulted by internet gave quite different results. NationMaster.Com provided the figure of 70,000,000, whereas the CIA World Factbook gave an estimate for July 2006 of 79,000,000. Today the figure of 80,000,000 is frequently advanced. With regard to the size of the religious communities, NationMaster.Com states that 91% of the population is Muslim, but it also quotes another source, Islamic World.Net which would push this figure up to 94%, leaving only 6% for Christians (as I have said, people of other religions, including the miniscule Jewish community, are a negligible quantity). The CIA source estimates Muslims at 90%, the Coptic Orthodox at 9% and other Christians at 1%. The Italian branch of Aid to the Church in Need, in its 2005 report on religious liberty in the world, puts Christians in Egypt at 15%, in other words at about 12,000,000. I have heard some people raise the figure to 20%. It is possible that the higher figures include Egyptian passport holders who are resident in other countries, particularly in the USA, Canada and Australia, but also in Latin America, in the UK and in Italy, where the Coptic Orthodox Church has its own bishops and where there are also Catholic Coptic communities. The Catholics in Egypt are estimated to be between 250,000 and 300,000. One factor to be taken into account in weighing the relative strength of the two communities is that of unity or its absence. Practically all Muslims in Egypt belong to Sunni Islam, though some attention has been given in the press recently to Shi’i ele-


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ments. This does not mean that all Muslims are ideologically united, far from it. There is considerable friction between those who belong to the Muslim Brothers or are favourable to this tendency, or confraternity as it is often but perhaps incorrectly termed, and those who are radically opposed to it. There have also been protests about unauthorised fatwa-s given by preachers on cable television (the Islamic equivalent of tele-evangelists). Yet it could be said that there is a fundamental unity, with the official line being a moderate form of Sunni Islam. This is in sharp contrast with the divided state of Christianity. Though, as has been said already, the Orthodox Copts form the vast majority of Christians – so much so that the newspapers tend to speak about Muslims and Copts - the other churches should not be forgotten. There is the Greek Orthodox Patriarchate pf Alexandria and All Africa. There are the Armenian Orthodox. There is the Anglican/Episcopalian Church, and the various Protestant Churches, twenty-seven of which are federated under one leader. Then there are the Catholic Churches of seven different rites: The Catholic Copts who are the most numerous, the Greek Catholics, the Maronites, the Syrian Catholics, the Chaldeans, the Armenian Catholics and the Latin Catholics. The Catholic Copts have a Patriarch and six other eparchies, whereas the other rites have one bishop each. The fact of the division is mentioned to underline the importance of ecumenical efforts.

The Catholic contribution to Egyptian society The influence of the Catholic communities in Egypt has been and still is far greater than mere numbers would suggest. This is due to the network of schools, activities in the field of health care and social development, and, on the part of individuals, the contribution to culture and the arts. It is through this outreach of the various Catholic communities, whether diocesan or religious, that relations with Muslims are established. Catholic schools provide education to many Muslims, and it would seem that the ethos of these schools is much appreciated. In some schools, besides the formal religious instruction which is given separately for those belonging to each religion, there is a cours de vie, or moral education, where themes which interest all young people can be discussed. Some schools also have scout or guide troops to which both Christians and Muslims belong, though they also have movements of a spiritual nature which are only for Christians. Often those in the higher ranks of the administration are past pupils of these highly reputed schools. At a meeting with a department head at the Foreign Ministry where the conversation was in French, the head said her two assistants, both men, dis-


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played constant rivalry because one was a product of the Jesuits and the other of the “Frères”, the de la Salle Brothers. There are generally good relations with the parents who are often past pupils themselves. It has been said, though, that more difficulties arise between Christians and Muslims in the schools than say ten years ago. This is probably due to the increasing islamisation of society. The services that Catholics provide, to the poor and the destitute, are highly appreciated. A number of the dioceses have structures for social action and development work. On a national scale Caritas Egypt offers its services to all and enjoys a good reputation in government circles. The Association of Upper Egypt for Education and Development provides education for Muslims as well as Christians. I have had occasion to attend a celebration in one of these schools near Luxor where the local authorities were present in force. At a higher level, the Institut Dominicain d’Etudes Orientales (IDEO), with its rich library and excellent facilities, provides a meeting ground with Muslim students. The students who use the library are not only welcomed but also assisted in their research. In some cases this research is on Christian topics. The Centre d’Etudes Orientales Chrétiennes, under the responsibility of the Franciscans of the Custody of the Holy Land, to some extent plays a similar role. This library is also very rich in its holdings, though the physical plant is not as attractive as that of the Dominicans. One of the Friars is teaching Latin to research students, since they need this language to have access to the sources.

Formal dialogue While the structures of the Church offer the possibility of an ongoing dialogue of life, there would seem to be little formal dialogue taking place. The association alIkha’ al-dini, Religious Fraternity, was officially recognized in 1978 (though its roots go back to an earlier association, Ikhwan al-Safa’, which was active from 1941 to 1953). Periodically meetings are held in which a Christian or a Muslim delivers a talk, which is then followed by discussion. The meetings close with a prayer that has been specially composed for the Fraternity. During Ramadan al-ikha’ al-dini organizes an iftar. The same is done by the Commission for Justice and Peace, and on this occasion there is usually an exchange on some current topic. I am not aware of any other structures of dialogue. Some Christians take part in the meetings of the Association of Arab Philosophers, under the chairmanship of the noted Egyptian scholar Hassan Hanafi. The Catholic participants are welcome, but few seem prepared to engage in conversations at this level. I have attended part of one meeting which brought together a small number of


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Catholic and Muslim university students. The meeting was organised by the Association for the Catholic Youth of Egypt, on behalf of the International Movement of Catholic Students. I know that the organisers had great difficulty in getting permission from their universities for the Muslims to attend. There is always a great fear of proselytism. Christians too fear to engage with Muslims in serious conversations, perhaps because of a feeling of being unprepared, but more because of the accusation of proselytism being levelled against them. I have heard students say that there is a “red line” which is not to be crossed.

A sense of frustration How can one explain this lack of willingness on the part of local Christians to engage in formal dialogue with Muslims? First of all, it is perhaps because they feel frustrated. The official line taken by people in authority, whether Christians or Muslims, is that the relationship between the two communities is a harmonious one: “We are all Egyptians; we have been one people for centuries.” It is true that there is no persecution, though there are sometimes outbreaks of violence, such as in Nag Hammadi at Coptic Christmas. When such acts of violence are considered by the authorities to be the work of unbalanced people, which is what happens very often, the Christians feel that their case is not being heard properly. Actually the Nag Hammadi event seems to have been taken more seriously by the Government as a sign of sectarian attitudes which need to be corrected at their roots. There are other grievances. Sometimes Christian girls are inveigled into marriage with Muslims and become cut off from their families. Here again the local authorities are not considered to take sufficient interest and give adequate help. The conversion of Christians to Islam is facilitated and welcomed, whereas a movement in the opposite direction is rendered almost impossible. It must be pointed out that there is freedom of worship, and churches are generally well frequented, but it is not easy to get the required permission to build a new church or to make necessary repairs. The real feeling of frustration, however, lies elsewhere. It is the result of disguised discrimination (une discrimination larvée) which means that Christians feel the way is blocked ahead of them. They have difficulties in finding work, unless they go into private business or are exercising liberal professions. There is little opportunity for promotion in the administrative services, though there are exceptions. It is hard to penetrate political circles. In the autumn of 2005 only one Christian was elected to the current parliament, which led to the President giving half of the ten seats in his power of appointment to Christians, including one Catholic. Members of the Muslim Brotherhood, the forbidden but tolerated movement, standing as independent candidates, won 88 seats, a fifth of the People’s Council. According to their vision Islam is the solution to all the problems and the key to a healthy society, a society


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in which there would be no place for Christians. This is not the official line, but sometimes it would seem that the government is bending over backwards to show that it is truly Islamic, so as to take the wind out of the Brothers’ sails.

Serious consequences The consequences of this uncomfortable situation that Christians find themselves in are very serious. There is the temptation to leave the country. Where the Holy Family fled into Egypt for the sake of security, now there is a flight out of Egypt, at least for those who have the possibility of pursuing their education or of finding employment abroad. This deprives society of the Christian elements that could bring it the values of the Kingdom. There would be a need to help the members of the Christian communities to deepen their understanding of and appreciation for the mission of Christians in the Arabo-Muslim society of today. This is a message that the Assembly of Patriarchs has not ceased to give. It will surely figure strongly in the forthcoming Synod for the Middle East. Yet its reception by the people is not easy. For those who stay in the country there is another temptation, that of cultivating a siege mentality. This is perhaps strongest among the Orthodox Copts, with their veneration for the early martyrs and the history of the monasteries as strongholds of resistance against Islam. Yet it would seem to appear also in the behaviour of other Christians. Social life revolves around the Church clubs, and there would seem to be little socialising with Muslims. Nor is there any real interest in Islam, so the road to a deeper dialogue is psychologically blocked, yet such a dialogue could help to reinforce the conviviality which is desired.

Some suggestions Let me end with a few tentative suggestions towards improving the relations between Christians and Muslims in Egypt. I make them in the form of questions. • Would it not be possible to put a greater emphasis on cultural dialogue? The Nobel prize winner, Naguib Mahfouz, died some years ago. Could Christians take a larger part in the efforts to build on his legacy? The Barcelona process has emphasised the importance of the dialogue of civilisations (or the alliance of civilisations as the Spaniards prefer to term it). A special institute has been set up in Alexandria, the Anna Lindh Foundation, to promote exchanges between countries on both sides of the Mediterranean. Could Christians be encouraged to become involved in its activities? • The Catholic schools have been and still are a wonderful contribution to Egyptian


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society. Can this action be extended to the university level? Is there any possibility of creating spaces where Christians and Muslims can come together to discuss issues and continue their religious and moral education together? • Would it be useful to explore the possibility of developing exchanges between Catholic universities in different parts of the world and some of the Egyptian universities? Could some Muslim students be encouraged to deepen their knowledge of Christianity in Catholic universities abroad? Would this be a way of ensuring valid dialogue partners for the future? • Could an effort be made to prepare people for the task of cultural and interreligious dialogue? This would mean encouraging some younger members of the clergy or of the religious communities, both men and women, to dedicate themselves to a serious study of Islam and the arabo-muslim heritage. If the Christian message is to be presented to this society there is a need for people who, in the words of Mgr Golta, can express the true meaning of “the Word became flesh” and who can engage in development work without setting aside their faith or neglecting the message of the Gospel.

Conclusion Let me borrow again from Mgr Golta for the conclusion to these brief reflections. “We must deepen interreligious dialogue at all levels, and not only at the intellectual and theological level. We have to discover God in others, discover God through our differences. This requires on our part great humility, the capacity to listen to the other, to be patient also. Even more, it requires of us that we be solidly rooted in prayer, with great trust and faith in the One who has said: “I am with you until the end of time”, and who also said to us: “All flesh will see God’s salvation.”

Alexandria, Assedil Meeting, 15 April 2010


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CHIAROSCURI di Anna Lucchiari

Un mondo impazzito?

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eputo molto stimolante ascoltare con “tutti i sentimenti” le notizie che vengono date. A volte scivolano via velocemente perché sono passaggi brevi ma anche tra questi, vi sono fatti che fanno scattare nel cervello dei campanelli d’allarme. E’ il caso di alcuni argomenti che sono da sempre tabù, come quelli legati alla malattia mentale di cui alcuni aspetti sono stati evocati recentemente da uno sceneggiato televisivo. Sembra impossibile che ci possa essere qualche persona così ottusa da non comprendere l’operazione di umanità, di rispetto, che il professor Basaglia compì all’epoca. Una persona non perde la dignità che le afferisce solo perché è malata. In varie occasioni ed in varie sedi ospedaliere, mi sono sempre ribellata al tu che sbrigativamente viene dato ai malati, ai modi veramente irrispettosi che vengono riservati ai pazienti (e specialmente a quelli anziani) che si trovano in situazioni di grande disagio fisico e psichico. Il piccolo potere in mano a chi dispensa le cure, viene gestito talvolta da persone che si divertono a tiranneggiare chi non è in condizioni di difendersi. Lo abbiamo visto tante volte e credo tutti ritengano giusto denunciare le situazioni che contravvengono alle regole più elementari di umanità. Ma c’è un aspetto che a me sembra sia sempre scarsamente messo in luce. Se la città dei matti doveva essere eliminata in tutte le sue versioni, anche in quelle più soft, siamo sicuri che abbiamo eliminato solo ciò che era legato a pregiudizi assurdi, tipo “pazzia = criminalità”? Sono assolutamente convinta che le strutture pre-Basaglia in molti casi somigliassero più ai lager che ai centri di cura, ma credo sia anche opportuno richiamare l’attenzione degli scienziati sul problema della malattia mentale, che è una malattia pericolosa e difficile spesso da individuare, ma che è una malattia e che come tale va studiata e curata. Spesso, sbrigativamente e superficialmente, si imputa la malattia mentale o le manifestazioni che produce al suo esplodere, allo stress, alla fatica di vivere, alle condizioni di vita, all’ambiente sfavorevole. La nostra società produce certamente un disagio diffuso che nasce da un eccesso di competitività, da un eccesso di attenzione al soddisfacimento di pulsioni che in realtà poco hanno a che vedere con i bisogni veri e propri, ma non esistono né sono mai esistite finora, società


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che abbiano saputo costruire una rete di protezione e di sicurezza valida per tutti i suoi membri. Si parla soprattutto delle conseguenze dello stress su alcune funzioni che possono condurre a esiti “nefasti”. In sé ogni persona ha la capacità di rispondere agli stress che la società produce e le risposte del cervello a queste pressioni, non paiono molto cambiate da quando l’uomo primitivo fuggiva ai segnali visivi ed uditivi che collegava, per esempio, all’avvicinarsi dei predatori. Lo stress scatena una serie di conseguenze nell’organismo che dipendono dalla sua intensità, dalla sua durata, dal complesso del vissuto, da fattori genetici, comportamentali e ambientali. L’organismo umano possiede tuttavia gli strumenti che lo mettono in grado di difendersi, proteggersi e adattarsi alle situazioni di stress. E comunque, lo stress da solo non è sufficiente a spiegare l’esplosione di fatti delittuosi di cui sono più spesso vittime donne e bambini, che la cronaca riporta, proprio perché non sono risposte “sane”. Interrogato sull’ultimo gravissimo episodio riportato dai media, uno psichiatra ha affermato che quei comportamenti non sono solo frutto di difficoltà anche gravi, ma che denunciano una malattia mentale sfuggita ad ogni accertamento ma che preesisteva. Riporto a memoria, ma mi pare che la sua frase fosse: questi fenomeni improvvisi di violenza e di perdita del controllo, nascono da malattie mentali che o sono state coperte o sono sfuggite a qualsiasi controllo. Comprendo che i processi mentali sono quanto di più complicato ci possa essere e che il cervello è l’unico organo davanti al quale probabilmente siamo ancora poco lontani dalla preistoria e che l’uomo comune può solo porsi delle domande, ma mi piacerebbe che ci fossero campagne mediatiche in favore della ricerca neurologica, dello studio di questo luogo ancora in gran parte sconosciuto che è il nostro cervello, perché credo che in questo campo ci sia un lavoro titanico da svolgere. Se alla nostra complicata e stressante civiltà possono essere ascritte molte colpe, va anche riconosciuto ad essa il merito di aver risolto molti problemi legati alla salute. Gli organi di cui si compone il nostro organismo sono stati studiati al punto che oggi molti si possono riparare, correggere e perfino riprodurre. Ma, le più elementari funzioni del nostro cervello sono ancora avvolte nella nebbia. Basti pensare al sonno che occupa quasi metà della vita di una persona e che è stato tanto studiato da alcuni neurofisiologi ma che presenta malgrado tutto delle larghe zone d’ombra. Probabilmente è la sfida maggiore che gli scienziati dovranno affrontare nel futuro ed è, a mio avviso, a questo settore della ricerca che andrebbero attribuiti i sostegni di tutti quegli enti che hanno a cuore la salute pubblica. Le malattie mentali producono esiti tragici ma sono di difficile identificazione e, malgrado tutto, soffrono ancora del peso dei più vergognosi luoghi comuni che le hanno associate a colpa o condanna. Per questo, addolorata da quanto accade nella nostra società ogni giorno, società che non riesco a colpevolizzare più di tanto, mi auguro che sempre più scienziati e ricercatori lavorino per far luce su quel luogo misterioso che è ancora il nostro cervello, in modo che si possa aiutare e curare e non ci si limiti, come si fa ora, a condannare e a reprimere, a volte e colpevolmente, ad ignorare.


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Fahrenheit già qui

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e biblioteche sono state un mito nel mio cuore, un monumento che testimonia da sempre il cammino dell’umanità; ma non quella anonima, indistinta, nebbiosa, intendo quella fatta di uomini che hanno preso la penna in mano, che si sono impegnati, hanno lavorato e spesso sofferto per lasciare tracce del loro e di altri passaggi. Nella mia immaginazione c’è perfino quella di Alessandria perduta, ma soprattutto quelle che negli anni ho potuto ammirare, piccole o grandi, fornite o sguarnite. Le ho visitate e frequentate con passione dalla mia prima, la Querini Stampalia di Venezia, dove già quattordicenne avevo il mio posto fisso: tavolo rotondo d’angolo che guardava sul campo santa Maria Formosa. Mi piacevano i cassetti con le schede scritte a mano in bella calligrafia dove venivano raccolti in ordine alfabetico i titoli e gli autori, mi piaceva il sorriso d’intesa del bibliotecario che prendeva la scheda e che come un iniziato sapiente, andava a cercare i testi menzionati in posti segreti dove noi, i richiedenti, non potevamo entrare. Probabilmente è nata in questo modo la passione di Carlos Ruiz Zafón per i meandri sconosciuti delle biblioteche note e ignote e questo è uno dei motivi che mi fa molto amare i suoi libri. Ma altre vicende mi hanno portato a contatto con quelle che nel nostro dialetto si chiamerebbero “voglie di biblioteca” che sono quelle strane accozzaglie di libri di poco o scarsissimo interesse per i bambini che sono pomposamente definite biblioteche di classe. Non credo che i titoli che ho trovato nelle classi in anni diversi riescano ad essere attraenti per nessuno, tanto che ho pensato qualche volta che ci sia in giro un genio del male che vuole tenere lontani i bambini dai libri…. e che spesso ci riesce. Negli anni ho invano, ma spesso, fatto notare come nelle raccolte antologiche destinate ai bambini, i testi siano banali e per le poesie ci siano solo povere filastrocche che sono altra cosa. Ho insistito sulla mancanza di autentico valore artistico dei brani e dei passi scelti: al massimo c’è qualcosa di Italo Calvino che i bambini finiscono con l’odiare e reperti anteguerra di scritti intimidatoriopiagnoni che farebbero scappare chiunque. Tutto questo appartiene ad un “filone di pensiero”, duro a morire, che considera il bambino un minus habens, un cucciolo nella cui mente il meglio si deve ancora formare e nel quale, in modo particolare, la sensibilità artistica è ancora di là da venire. E’ una falsità di comodo che consente tutt’ora che vengano ammanniti ai bambini dei testi orripilanti che dovrebbero essere dati alle fiamme. Se davvero ci stesse a cuore la educazione di quanto il buon Dio ha già dato al bambino sotto forma di seme da sviluppare con cura ed attenzione, dovremmo ripensare a tutto quello che mettiamo nei libri di lettura. Qualcuno mi dirà che già lo si fa…. in parte. Solo in parte perché personalmente trovo che ci sarebbero molti tagli e integrazioni da operare. Anzi, una volta, sollecitata dal prof. Armando Armando editore particolarmente sensibile a questo argomento, preparai una scelta di poesie (o stralci) di grandi autori soprattutto italiani, ma


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anche stranieri da porgere ai bambini della scuola elementare. Quando la esaminò si passò le mani sul capo dicendo che erano tutti o quasi viventi o scomparsi da poco e che quindi avrebbe dovuto pagare un sacco di soldi e che non ce l’avrebbe fatta mai. IL professore non c’è più, sono passati molti anni, ma non è cambiato nulla. Ho proposto la mia selezione a molti editori, ma pare che la cosa non interessi a nessuno, malgrado il gradimento dei bambini mi sia stato più e più volte e in varie classi, dimostrato e testimoniato. La mia raccolta di poesia per bambini sta lì. Ai bambini si insegna a balbettare l’inglese assieme all’italiano, si offrono strumenti informatici che faranno scomparire le biblioteche in un tempo breve dove non sarà più necessario invitare al silenzio perché saranno definitivamente avvolte nel terribile silenzio di ciò che non vive più… e alla fine basterà una generazione per far perdere anche la memoria del suono affascinante del foglio d’epoca sotto le dita, dell’odore particolare della carta e della carta d’epoca… C’è internet, che Dio la benedica, dove si clicca per cercare parole, opere… e mi verrebbe da aggiungere omissioni. Perché ce ne sono e come. Manca l’alito poetico anche nelle poesie, manca quella parte tanto importante che è la partecipazione dell’uomo con tutto se stesso che è anima, mente, cuore e voce che insieme sono il complesso strumento attraverso il quale si può realmente trasmettere il pensiero artistico, educarlo e svilupparlo. Quando l’ho spiegato a qualche maestra, non molte mi hanno capito perché poche di loro hanno ricevuto a suo tempo una educazione artistica in tal senso. Ma alcune hanno compreso perfettamente. Però non si fa, e l’educazione artistica è considerata un optional malgrado si sappia bene che l’arte educa l’uomo nel migliore dei modi, aperto alla vita e alla ricchezza del mondo. La lettura ad alta voce deve essere fatta spesso in classe per brani che possano essere gustati dai bambini perché piacevoli, affascinanti, intensi e validi dal punto di vista artistico… Perché non cercare brani di autori, dei nostri grandi autori, invece che mettere insieme storie idiote piene di false morali, di parole che non dicono niente, come se “la parola” fosse solo un pretesto per riempire pagine che non insegnano altro che giocose insussistenze? Si lamenta che non ci sono lettori ad esempio di poesie. E’ vero, ma a quali poesie sono stati accostati i bambini? Sono state offerte loro letture di poesie ad alta voce? Alcune maestre hanno eccepito che a me viene facile perché conosco opere e autori e io ho risposto che basta leggere e informarsi e che non mi pare sia un lavoro così terribile. La mia raccolta sta lì e io spero sempre che a qualcuno venga in mente di poterla utilizzare e non come qualche genio mi ha proposto per far fare ai bambini percorsi didattici (?!) di analisi logica o grammaticale, ma solo per il piacere di ascoltare e di sentire che le parole possono diventare musica dell’anima. Potrebbe darsi che quei bambini, una volta cresciuti, possano ritrovare interesse per le pagine scritte, possano amare i libri e gli autori con i quali vivere nell’arco della vita incontri festosi. Possano sentire il desiderio di circondarsi di libri come si fa con gli amici veri. Mi pesano molto i congiuntivi e i condizionali, ma spero sempre.


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L’importanza di un ‘non’

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n proverbio notissimo che mi ha sempre dato da pensare, è l’abito non fa il monaco, anche perché, una volta traversate le Alpi, il proverbio diventa l’abito fa il monaco. Quel non messo e tolto, risveglia una miniera di interrogativi. In una Italia che nasce da una storia così ricca e complicata, così piena di contraddizioni, di pomposità e di povertà, così piena di sacre maestà, di signori col fazzolettino di pizzo che spunta dalla manica odorosa, di bambolotti e bambolette che si adoperavano a trascorrere il tempo tra lazzi e frizzi e tanta brava gente che cercava di vincere ogni giorno la lotta per la vita, evidentemente si pensava e si pensa di essere sempre in grado di riconoscere qualcuno, anche sotto mentite spoglie. E’ una dichiarazione di sagacia che fin troppo spesso è smentita, un atto di presunzione incredibile, tanto che, al di là dei monti si esprime proprio il concetto opposto. Siamo esser umani, siamo fallibili e quando vediamo un personaggio riccamente abbigliato, non possiamo che assegnargli il credito che gli spetta per ciò che rappresenta. E uso il verbo rappresentare in tutte le sue accezioni perché a volte, si tratta proprio di vere e proprie rappresentazioni. Siamo sempre sensibili al fascino dell’apparire. Se così non fosse non si porrebbe tanta cura nell’abbigliarsi, nel pettinarsi, nel far in modo che l’aspetto possa veicolare un certo messaggio su ciò che siamo e su come intendiamo porci dinanzi al mondo. Tanto è vero che i giovani in ogni tempo hanno interpretato con fantasia il proprio modo di presentarsi ad uso e consumo dei coetanei, ma anche degli altri voce che comprende tutto il resto dell’umanità. Da quando i ragazzi andavano con le chiome al vento, ai riccioli cotonosi dei rasta, ai caschetti, alle chiome incollate in un immaginario colpo di vento, con dei jeans, via via, incollati, affusolati, a zampa d’elefante, a vita alta e a vita bassa, l’abbigliamento e l’aspetto hanno sempre avuto la funzione di esprimere assonanza o dissonanza con la società, di dimostrare l’appartenenza ad un gruppo, primo fra tutti quello dei giovani in contrapposizione eterna con quello dei vecchi . I quali, a loro volta, ma questo è fenomeno recente, hanno accolto certe mode per significare grosso modo: “a dispetto dei capelli bianchi sono sempre giovane”. Non vale solo per le donne, il vezzo di fingersi di un’altra età è ormai comune e, spesso, fonte di vero e proprio ridicolo. A volte si dice che l’abito non è molto importante ma non lo si crede davvero. E’ una grossa forma di ipocrisia, perché se avessimo visto Antonella Clerici presentare il festival di Sanremo con jeans e tshirt, ci saremmo non sono meravigliati ma, probabilmente, scandalizzati. Viceversa, un abito tutto d’oro pieno di gale e volant, possiamo considerarlo magari un po’ eccessivo, ma certo confacente alla presentatrice ed all’occasione. E dunque, non c’è onestà in quel nostro l’abito non fa il monaco, ma solo una grossa dose d’ipocrisia. L’abito è talmente importante che le alte cariche dello stato devono attenersi a giacche d’ordinanza e che qualche deroga ha sempre fatto gridare allo scandalo. Tanto è


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vero che maggiore è la considerazione che una categoria ha di sé, tanto più è ricercato il messaggio che col suo aspetto vuole trasmettere e che l’abito è quantomeno un efficace rafforzativo d’identità. Pensiamo ad esempio ai religiosi. La semplicità, l’uniformità veicola un messaggio di indifferenza alle cose di questo mondo, un’attenzione alla varietà, grandezza e miseria dell’animo umano. Tra i religiosi tuttavia, vi sono dei distinguo, perché ad esempio, nelle gerarchie della Chiesa, i vescovi e i cardinali pur nella uniformità, si presentano con abiti che li distinguono: raffinati indicatori di categorie spiritualmente preziose, fino al Santo Padre, che malgrado sia sovrano di un minuscolo stato, come capo di tutta la cristianità, si distingue con abiti che attengono più ad un sovrano terreno che ad uno spirituale. Avendo avuto la fortuna di essermi trovata a tu per tu col alcuni Pontefici, posso testimoniare che al di là delle vesti e della maestosità del contorno cerimoniale, bastano poche parole perché da ciascuno, certo con modulazioni diverse, si possa cogliere la profonda attenzione umana, la cura e l’attenzione viva nei confronti di tutti anche di quelli che non sono nessuno, che sono uno o una tra i tanti. Insomma, ciò che si indossa serve certamente a connotare il ruolo che si è conquistato nella società, ma molto di più è importante come si agisce perché ciò che l’abito lascia intendere, trovi la più ampia sintonia con le qualità intrinseche della persona. L’aspetto e la veste, ossia tutto l’apparire, sono come delle belle promesse che non dovrebbero essere deluse. Ricordo le tetre divise dei medici di un tempo, i terrori dei bambini, ma anche dei grandi, al solo nominarli e penso con tenerezza ai medici del sorriso che scherzano in abiti da clown con i bimbi nei loro letti d’ospedale. Penso alle parrucche dei giudici e alle toghe tragiche, vesti rimaste tali e quali e non solo nel nostro paese, esempio forse unico di attaccamento pervicace ad epoche in cui tra l’altro la categoria non ha mai goduto di amore e fiducia incondizionata. Evidentemente vi sono alcune categoria di persone che, tanto per non sbagliarsi, ritengono fondamentale ammantarsi di una sacralità che non compete loro e alla quale non possono essere sufficienti velluti ed ermellini perché sotto qualunque tipo di paludamento c’è sempre e solo un essere umano con tutti i suoi limiti intellettuali e morali. Se così non fosse, dovremmo accettare ad occhi chiusi che i jeans sfilacciati facciano da soli il sedicenne. E allora torno al proverbio bifronte. L’abito fa il monaco mi pare una dichiarazione ottimistica, mi pare indicare una speranza: si immagina che un uomo ben vestito, che appare bene, sia anche uno che possiede una buona sostanza. L’abito non fa il monaco nasce da antiche e disincantate osservazioni sulla scollatura che a volte si incontra tra quello che si immagina una persona debba essere e quello che in realtà è. L’abito non fa il monaco ha le sue radicatissime ragioni ma anche l’abito fa il monaco ha le sue: l’idea che l’abito che si indossa sia un indice rivelatore, nel bene e nel male trova delle ragioni che restano nelle tradizioni e che sono ben dure a morire. E che oltre a tutto sono umane, molto umane.


LASALLIANA Familia Lasallista y Asociación : discernir para caminar Retazos lasalianos Reglas de cortesía y urbanidad San Gabriele, alunno della Scuola lasalliana di Spoleto Beniamino Bonetto FSC studioso, educatore, pubblicista Novità bibliografiche



RivLas 77 (2010) 3, 441-460

Familia Lasallista y Asociación, el desafío de discernir para caminar PROF. SANTIAGO AMURRIO, Distrito de Chile IR. PAULO FOSSATTI, Distrito de Porto Alegre H. DIEGO MUÑOZ, Distrito México-Norte Equipo de Reflexión MEL - RELAL

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uando hablamos del Instituto de los Hermanos de las Escuelas Cristianas La Salle- en América Latina y el Caribe pensamos en una comunidad internacional dedicada a la educación cristiana, con multitud de rostros locales. Generalmente, se asocia a Hermanos y Laicos1 comprometidos en obras educativas para niños, jóvenes y adultos, situados en ambientes urbanos y rurales, al servicio de familias pobres y también de clase media, con propuestas educativas formales e informales. Tanta variedad expresa la búsqueda de una comunidad que tiene una historia común, un lenguaje propio, una cultura organizacional2 y, sobre todo, un carisma que le aporta sentido y direccionalidad.

También cuenta con algunos Sacerdotes diocesanos o religiosos y Religiosas de otros Institutos que colaboran en las obras educativas lasallistas. 2 Sin entrar en detalles polémicos acerca del uso del término “cultura organizacional”, propio del mundo de la gerencia, queremos indicar que las escuelas lasallistas comparten elementos comunes que le brindan una identidad: la disposición de los locales, los símbolos, el lenguaje, los iconos… todo va colaborando en el desarrollo de una red de significados que son apropiados y reinterpretados por los Hermanos, Maestros, Estudiantes y Familias que forman parte de ese universo escolar. Para la revisión del concepto de cultura organizacional sugerimos el texto de Sánchez García, José C., Alonso, Esteban y Palací, F. (1999), El concepto de cultura organizacional, sus fundamentos teóricos e investigación en España, in “Revista de Psicología general y aplicada”, revista de la Federación Española de Asociaciones de Psicología, 52 (2-3) 287-299. 1


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1. Desde la realidad La Salle -como comunidad- tiene una historia de más de tres siglos. En ella, ha experimentado el impulso carismático inicial, propio de los tiempos de su fundación; momentos de crecimiento y expansión que ayudaron a sentar las bases de una comunidad de Religiosos comprometida en la educación cristiana de la niñez y juventud; momentos de desasosiego y persecución, como los experimentados desde los inicios; durante la Revolución Francesa; un nuevo resurgimiento, con el reconocimiento de la escuela como institución social prioritaria para la construcción de las sociedades modernas del siglo XIX; tensiones, conflictos y retos vividos en un mundo en cambio, a las puertas del siglo XX, que impulsaron la expansión universal del Instituto en los cinco continentes. Hoy, a más de cuarenta años del Concilio Vaticano II, nos situamos desde una Iglesia con un nuevo rostro: somos una comunidad de Hermanos y Maestros llamada a construir el reino desde la educación (nuestra misión se extiende más allá de la escuela primaria y secundaria; estamos presentes también en la educación superior y la educación no formal). Desde allí, nos sentimos invitados a reflexionar sobre el futuro de la Familia Lasallista desde el compromiso por la asociación para el servicio educativo de los pobres. No cabe duda que hoy en las obras educativas lasallistas hay un grupo sólido y comprometido de Laicos que se identifican con el carisma de La Salle. Llevan adelante proyectos educativos en relación con una comunidad de Hermanos -no siempre presente físicamente- pero que sirve de referencia local o distrital, con quienes descubren día a día el ministerio de la educación cristiana, sintiéndose parte de una Iglesia al servicio de los niños, jóvenes y adultos, preferentemente los más pobres. Esta dinámica es la que ha impulsado, desde hace más de tres décadas, la reflexión sobre el perfil de la comunidad lasallista, a manera de una Familia con diversos grados de pertenencia, donde conviven diferentes formas de comprometerse en el servicio educativo, siendo la asociación de los Hermanos la primera y fundamental, sin confundirse con la dinámica propia de los Laicos, quienes están descubriendo nuevos espacios ministeriales desde su propia experiencia familiar, social y profesional. Por ahora, entendemos el término de Familia Lasallista3 como el conjunto de aquellos que participan en el proyecto educativo de La Salle, especialmente a los que

3 El Hermano John Johnston y su Consejo General, en el año 1997, ofrecieron al Instituto el documento Misión Lasallista. Educación humana y cristiana. Una misión compartida, que consideramos fundamental para comprender la evolución del concepto de Familia en la década de los ochenta y noventa. Hoy, no se trata sólo de compartir la misión con los Laicos; la asociación para el servicio educativo de los pobres está impulsando un nuevo movimiento carismático que abre a los Laicos hacia una nueva consideración de su vocación cristiana.


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se sienten llamados a compartir el espíritu y la misión de San Juan Bautista de La Salle (cf. Botana, 2008:84; Hermanos de las Escuelas Cristianas, 1997: 182). Por eso, involucra a todas las personas, grupos y movimientos que han encontrado su inspiración en el enfoque educativo y en la espiritualidad heredada del Santo Fundador. En este amplio grupo podemos ubicar al conjunto de los Maestros Laicos, Religiosos y Sacerdotes que comparten la misión educativa lasallista; de ellos, resaltamos especialmente la presencia de tres Institutos Religiosos Lasallistas: los Catequistas de Jesús Crucificado y María Inmaculada, las Hermanas de La Salle de Vietnam y las Hermanas Guadalupanas de La Salle, quienes han concretado una pertenencia aún mayor a nuestra familia desde su propia especificidad vocacional. La definición anterior es un punto de encuentro de muchas búsquedas. La reflexión sobre la misión compartida, que surgió con fuerza a partir del 41° Capítulo General de 1986, ayudó a explicitar lo que ya era un hecho en el mundo de las escuelas lasallistas: los Hermanos habían comenzado, desde hace algunas décadas atrás, a “asociar” con gusto a los Maestros a su misión educativa, ofreciendo, incluso a los que lo deseaban, medios para conocer al Fundador y vivir según su espíritu (cf. Regla,17). A partir de ese momento, se avanzó por comprender el impulso carismático que esta experiencia de asociación lasallista estaba desarrollando, en fidelidad a los signos de los tiempos. En el año 1988, el entonces Hermano Superior General, John Johnston, en su Carta Pastoral a los Hermanos, clarificó dicho criterio, desde la experiencia vivida hasta entonces en la misión compartida: “Aceptamos que de hoy en adelante nuestras escuelas no sean ya Escuelas de hermanos, animadas por la comunidad de los Hermanos con la colaboración secundaria de seglares, padres, estudiantes. En cambio, serán Escuelas lasallistas, animadas por comunidades educativas lasallistas de fe, dentro de las cuales se realiza la actividad apostólica de la comunidad de Hermanos…” (Johnston, 1988: 33-34). La escuela lasallista, como espacio vital del carisma, ayudó a comprender la necesidad de seguir buscando ejes articuladores de la experiencia cotidiana: desde esa búsqueda, emergió con fuerza la experiencia de la asociación, no sólo como un acontecimiento fundacional, sino como una razón para comprender lo que sucedía y que trascendía la experiencia de la misión compartida. A casi veinte años después de esta constatación, la Asamblea de la Misión Educativa (2006) identificó al proceso de asociación como la experiencia fundamental para seguir avanzando en nuestra comprensión como Familia lasallista; por ello, pidió al Instituto entero el avanzar en la definición de las características fundamentales de la asociación para el servicio educativo de los pobres, no sólo como un aspecto a ser reflexionado, sino también como una experiencia que necesita ser discernida por quienes se sienten vocacionalmente llamados a vivir esta nueva realidad dentro de la Familia Lasallista (AI-MEL 2006: 21). Más aún, el 44° Capítulo General (2007), ratificó esa intencionalidad, identificando la centralidad del voto de asociación


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como un aspecto esencial para comprender hoy, no sólo la identidad de los Hermanos de las Escuelas Cristianas, sino también la identidad de aquellos que quieren hacer realidad esa experiencia de asociación desde su vocación cristiana particular. Esto implica, en consecuencia, caminar en un itinerario de búsqueda, reflexión y discernimiento. Hasta ahora han surgido algunas convicciones importantes: los Hermanos recibimos un carisma que hoy desborda los límites del Instituto y se expande en la Iglesia, especialmente entre aquellos que han descubierto su vocación como Maestros cristianos; hay una espiritualidad lasallista, una manera propia de mirar, trabajar y pensar desde Dios y con Dios, apropiada para hombres y mujeres que viven con intensidad la escuela, de la cual los Hermanos son testigos privilegiados, mas no exclusivos; el carácter laical de los Hermanos les permite establecer un diálogo más cercano, de tú a tú, con los Laicos con quienes viven los problemas cotidianos de la escuela, hecho que favorece el desarrollo de una nueva eclesiología de comunión; las experiencias vividas en los últimos años están encaminando al Instituto a plantearse nuevas estructuras que incorporen a los Laicos, comprometidos e identificados con el carisma lasallista, en procesos de animación educativa y formación permanente, todo ello alimentado por una relectura de la primera asociación de los Hermanos; de hecho, existen comunidades de Hermanos y Maestros que están asumiendo proyectos de servicio educativo a los pobres. Aún así, no hemos llegado a definir con claridad el final del camino. Lo que sí sabemos es que el modelo de Iglesia Pueblo de Dios-Comunión nos ayuda a entendernos y a narrar nuestro hoy y aquí como comunidad de Hermanos y Laicos lasallistas con un proyecto común. Hoy estamos convencidos que la Asociación implica el proceso de comunión para la misión desde el carisma lasallista. Es el producto de un largo camino de profundización y participación en el carisma, la espiritualidad y la comunidad lasallista; sentirse parte de la Familia Lasallista y compartir la misión en la escuela es sólo un primer paso, necesario por supuesto. Quienes se sienten llamados por Dios, descubren una vocación particular a vivir de acuerdo con el carisma de La Salle y eso impacta en su vida de fe, su manera de vivir en relación con otros un proyecto de servicio y su apertura a la realidad. La asociación quiere caminar hacia el desarrollo de comunidades de fuerte identidad carismática dentro de la Familia Lasallista (cf. Botana, 2008:19). Por supuesto, es una invitación para todos pero, al fin, exige un compromiso vocacional personal, surgido de una experiencia personal entre el Dios que llama y la persona que responde. Y aquí entramos en la dinámica profunda de la fe. La reflexión que proponemos en este artículo se enmarca en la dinámica personal y comunitaria del discernimiento de la llamada de Dios que sustenta la experiencia de asociación para el servicio educativo de los pobres de quienes, como Lasallistas, intentamos vivir con autenticidad nuestra vocación en las obras educativas.


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Partimos de opciones fundamentales que nos sitúan en una eclesiología de Pueblo de Dios-Comunión, propia del Concilio Vaticano II; desde ella, queremos aprender a releer la experiencia fundacional, cuando Juan Bautista de La Salle y los primeros Hermanos confrontaron sus vidas en un itinerario a veces nada claro, complejo como la realidad misma. Por eso, ofrecemos una mirada a algunos iconos lasallistas que pueden ayudarnos a comprendernos a nosotros mismos, a nuestros procesos y experiencias personales y comunitarias. Esperamos que el conjunto de esas experiencias iniciales nos aporten pistas necesarias para tener una mayor comprensión del llamado que hemos recibido desde la experiencia de la asociación en la escuela lasallista. Por supuesto que esta búsqueda suscita en nosotros muchas preguntas, como hombres y mujeres del siglo XXI: ¿qué tanta distancia –o aproximación- hay entre la experiencia que vivimos en lo cotidiano y los discursos que dan razón y sentido a nuestra experiencia? Mucha, sin duda. Sabemos que la búsqueda de la coherencia es una tarea de toda la vida. Pero estamos conscientes que la comunidad exige la construcción permanente de narrativas capaces de impulsar la búsqueda de experiencias referenciales desde el mundo fragmentado y relacional que vivimos. En esa experiencia, siempre frágil, de lo humano, surge la comunidad como un espacio rico en relaciones, como una instancia donde se vive la experiencia de un Dios que irrumpe, que se hace cotidiano y que impulsa a una comunidad a entregarse al servicio educativo, teniendo siempre en su horizonte la causa de los más necesitados. Desde esta perspectiva realista queremos hacer una lectura pastoral de la experiencia de discernimiento que hoy pueda iluminar el camino de la Familia Lasallista y la Asociación en nuestra Región, reconociendo que el proceso está abierto y exige un mayor esfuerzo4. Sabemos que hay múltiples lecturas. No obstante, asumimos una postura cercana a nuestra realidad, porque nos ayuda a ubicarnos, no desde la seguridad de los que llegaron a la meta, sino desde la provisionalidad de los que se encuentran en camino. Como en éxodo. Es necesario que caminemos juntos en esta aventura institucional. El Centro del Instituto presentará en el año 2010 una Circular sobre la Familia Lasallista y la Asociación, donde clarificará aspectos pastorales y jurídicos en torno a este tema. De nuestra parte, esta reflexión forma parte de una serie de trabajos de la Región Latinoamericana Lasallista, que se enmarcan en este itinerario de reflexión. La X Asamblea RELAL (octubre 2007) determinó como una primera prioridad el impulso del desarrollo de la Asociación -Hermanos, Seglares y otros Lasallistas construyendo comunidad- para el servicio educativo de los pobres. Para ello, identificó dos líneas orientadoras. La primera, tiene que ver con el desarrollo de experiencias comunitarias de Asociación dentro de cada distrito, e interdistritales, promoviendo la sistematización y difusión de sus narraciones. La segunda pide avanzar en la comprensión y vivencia de la asociación y de sus procesos dentro de cada distrito y a nivel interdistrital, desde las bases, sistematizadamente, en la perspectiva de la eclesiología del Pueblo de Dios-Comunión (RELAL, 2007, Prioridad 1, párr. 2-3-4). Este trabajo quiere ser un aporte a la segunda línea orientadora.

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2. Las opciones eclesiológicas que iluminan el camino 5 La Iglesia católica, a partir del Concilio Vaticano II, inició una nueva reflexión teológica y una intensa acción pastoral. Por su parte, la Iglesia de América Latina y el Caribe, impulsada por este acontecimiento y atenta a los signos de los tiempos no ha cesado de buscar, desde las conferencias episcopales de Medellín y Puebla, un rostro propio capaz de comulgar con las necesidades de tantos hombres y mujeres, especialmente de los que viven sin esperanza en nuestro continente. La Salle en América Latina y el Caribe ha participado en estos procesos de búsqueda desde la tesitura propia del mundo educativo, incorporando a Hermanos y Laicos en la reflexión pero, sobre todo, en la acción pastoral dirigida a niños, jóvenes y adultos. En este contexto eclesial, ¿cuáles han sido las opciones eclesiológicas que podríamos identificar como fundantes para releer y repensar la experiencia pastoral lasallista de nuestra Región? ¿Desde dónde podríamos discernir nuestra realidad como Lasallistas hoy? Consideramos que existen cuatro opciones, coherentes con el modelo de Pueblo de Dios –Comunión, esenciales para un proyecto eclesial en camino al horizonte de la Familia Lasallista y la Asociación. Éstas son:

2a) Reflexión teológica desde el contexto No cabe duda que el discurso de la Iglesia es un discurso sobre Dios. Pero, de un Dios que se acerca al hombre, que camina con él. Un Dios que irrumpe en la historia, que llama y convoca desde una realidad concreta. Sabemos que los teólogos de América Latina se identificaron con el Dios del Éxodo que es capaz de “abajarse” para escuchar el clamor de su pueblo (Ex 3,7). Ésa es la imagen que ayuda a muchos cristianos a comprender el sentido de su fe en el mundo de hoy: sólo prestando oído atento al Dios que irrumpe en nuestras vidas, a través de las personas y de los acontecimientos, es como podremos comprender su llamamiento. Desde esa experiencia del éxodo, seremos capaces de elaborar un discurso sobre Dios, porque Él se ha hecho vida en nuestra vida.

2b) Desde la historia de la salvación La presencia de un Dios cercano que camina con nosotros hace de nuestra vida una historia de salvación que sólo tiene sentido desde Jesucristo, quien habla en nombre Sugerimos la lectura previa de: La Eclesiología del Vaticano II del Hno. Edgar Genuino Nicodem; Eclesiología, Pueblo de Dios-Comunión del Hno. Oscar Elizalde; Eclesiología Pueblo de Dios del Hno. Diego José Díaz Díaz, y Pueblo de Dios y Eclesiología en la Biblia y en la Tradición aquí y hoy del Hno. Israel José Nery. Estos documentos están publicados en www.relal.com.co y fundamentan esta reflexión.

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del Padre. El Evangelio es buena nueva para nosotros, porque nace de una comunidad de fe que reflexiona sobre la experiencia del Hijo de Dios que se encarna para devolvernos la dignidad de hijos y de hermanos, al asumir con radicalidad la fraternidad como proyecto del Padre. Por eso, Jesucristo nos invita, nos cuestiona, nos desestabiliza, nos hace salir de nuestra zona de confort. Siendo nuestro ser fragmentado y relacional, nos descubrimos ante Él débiles y necesitados, como la pecadora que enjuga los pies de Jesús con sus lágrimas (Lc 7,38), como el endemoniado a quien nadie comprende (Mc 5,4), como el enfermo al borde de la piscina que no encuentra apoyo (Jn 5,5). Jesús se relaciona con nosotros, establece con nosotros una alianza eterna, nos alimenta, nos reconcilia con nuestra propia fragilidad y nos pide hacer lo mismo con los demás; es decir, nos ayuda a reconstruirnos desde la referencialidad de su Palabra para hacer camino con los otros, porque rompe la lógica de nuestro egoísmo. La prueba máxima del amor es su resurrección, que vence a la muerte. Con la fuerza del Espíritu, nos lanza al encuentro con el prójimo, especialmente hacia aquél que no goza de la aprobación social, como el leproso, el endemoniado o el samaritano de hoy. Al salvar a otros, nos encontramos paradójicamente con nosotros mismos. Con Jesucristo, dejamos de ser simplemente un yo perdido e impersonal para convertirnos en un tú relacional, rico en posibilidades, capaz de construir una experiencia comunitaria que nos invita a la santidad, esto es, a la plenitud de nosotros mismos desde nuestra entrega al proyecto del Reino de Dios.

2c) Dinámica encarnación-alianza-resurrección Experimentamos la dinámica de la encarnación-alianza-resurrección cuando recibimos la fuerza del Espíritu Santo. No somos capaces de proclamar a Jesucristo si el Espíritu no nos empuja, no nos alienta (Rm 8,15). El Dios trinitario se encarna en la persona de Jesucristo para asumir la historia del hombre y llevarla a su plenitud. Establece una alianza con su pueblo y, al morir en la cruz, abre la historia humana a la dinámica de la resurrección. La experiencia de Jesucristo se convierte en la referencia permanente para nuestras vidas: es Él quien nos invita a encarnarnos en las situaciones humanas concretas que demandan de nosotros una respuesta, una alianza con personas de carne y hueso que necesitan resucitar a una vida nueva. Esa entrega hace surgir la fraternidad que produce vida, y vida en abundancia; no tiene lugar la búsqueda del propio bienestar, egoísta y destructor. La experiencia de Jesucristo nos lleva a la comunidad, sobre todo, a comprender que ella misma es sujeto de salvación para la humanidad entera. Es en ella donde las narrativas existenciales se entrecruzan y se dejan afectar unas a otras. La búsqueda


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de sí mismo pasa a un segundo plano; en el otro encontramos la imagen más acabada del Dios que nos llama, sobre todo cuando ese “otro” ha perdido su dignidad de hijo y de hermano.

2d) Opción eclesiológica por el pobre Para el cristiano, la salvación se traduce en una opción permanente por la persona humana. Si Dios Padre llama, si Jesucristo se encarna y el Espíritu impulsa a una comunidad no es sino para hacer realidad las exigencias del Reino en la vida concreta de los hombres y mujeres de aquí y ahora. La opción por el pobre se convierte en una exigencia cristológica, entendiendo que sólo por ella somos fieles al proyecto del Padre6. Claro que esta opción se debe traducir en una fidelidad creativa capaz de expresarse en múltiples facetas, tan variadas como la misma actividad humana. El compromiso por el pobre nos exige asumir las consecuencias del anuncio y de la denuncia de todo aquello que esclaviza y destruye a la persona humana. Por eso, comporta el signo de la cruz de Jesucristo; no sólo de la cruz cotidiana del pecado personal, sino también de la cruz que surge del pecado estructural que lleva a la muerte y a la destrucción. Desde la fragilidad propia del hombre postmoderno, el mensaje de la cruz incomoda, atemoriza; pero, felizmente, ayuda al mismo hombre a desnudarse ante la fuerza de la fragilidad de Dios que no deja de acompañar la historia humana. Es en ese misterio desde donde el planteamiento de Dios se hace actual y pertinente, especialmente en las comunidades que creen, luchan y esperan por el advenimiento del Reino, a veces en contextos conflictivos y desesperanzadores. Asumir la realidad se convierte, en consecuencia, en la respuesta del hombre de fe que acepta el proyecto de Dios en su vida. Desde allí, puede, gracias a la acción de Espíritu, dar vida en abundancia como Jesucristo, desde y con una comunidad comprometida con los valores del Evangelio. En conclusión, el modelo eclesiológico de Pueblo de Dios-Comunión nos ayuda a tomar conciencia de que Dios irrumpe en nuestra historia y convierte nuestra frágil existencia en salvación para cuantos caminan con nosotros en la escuela; gracias a la encarnación de su Hijo, establece una alianza eterna, y con su resurrección establece su proyecto de fraternidad universal al cual todos somos convocados; finalmente, el Espíritu Santo nos hace proclamar a Cristo en el pobre.

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cf. Documento de Aparecida, La opción preferencial por los pobres y excluidos, N°391-398.


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3. Un itinerario de discernimiento en la experiencia del Fundador Juan Bautista de La Salle es un hombre de su tiempo y de su Iglesia. Sin embargo, encontramos en él las intuiciones necesarias para dialogar con su experiencia. Desde su genialidad de inspirador y fundador, fue capaz de vivir, junto a los primeros Hermanos, una serie de acontecimientos donde Dios se entrecruzó en su camino. Hizo de su pequeña historia personal una experiencia de salvación para sí y para cuantos tuvieron relación con él. En las alianzas que consolidó junto a hombres sencillos, y muchos de ellos faltos de formación cristiana y experiencia escolar, construyó una comunidad fundada en la fe, de fuertes lazos fraternos y con un proyecto común. Pero todos estos logros sólo fueron posibles gracias a una labor de discernimiento de la voluntad de Dios en su vida, de la invitación siempre presente de un Dios atento y preocupado por la salvación de los más pequeños, los niños y jóvenes menos favorecidos de la sociedad. Sauvage y Campos (1977) señalan que ese discernimiento no fue fruto de una ideología, de una teoría espiritual o de un texto de la Sagrada Escritura: Su materia es la existencia misma: las exigencias que imponen los acontecimientos, las necesidades concretas, las interpelaciones de los maestros. La comunidad constituye el lugar de ese discernimiento activo… se realiza bajo la luz y con la fuerza inspiradora de un proyecto que los reúne de ahora en adelante más fundamentalmente todavía que una obra común: poner la salvación de Dios al alcance de una juventud pobre y abandonada (1977:44).

Esta dinámica personal y comunitaria se corresponde con lo esencial del ser cristiano: es necesario vivir en discernimiento, esto es, buscando con amor y pasión la voluntad de Dios en la coherencia del propio proyecto de vida, pero no desde una teoría sino en respuesta a una realidad inquietante y retadora. Dios, en su sabiduría, se manifiesta a través de personas y acontecimientos que se constituyen en testigos de su presencia, en signos que ayudan a comprender una realidad más profunda. A continuación, presentamos algunos iconos lasallistas; en su conjunto, son personas concretas en la experiencia histórica de San Juan Bautista De La Salle que hoy nos invitan a tomar conciencia sobre los elementos esenciales del discernimiento. Desde la fragilidad de la experiencia humana, nos hablan del paso de Dios en nuestras vidas.

3a) Dejarse impresionar por la realidad Somos herederos de un carisma nacido de la experiencia de un hombre de mirada profunda, generoso, que se dejaba cuestionar por la realidad. En Reims, en el año de 1678, se dejó interpelar por un maestro de la ciudad de Ruán, llamado Adrián Nyel, quien era portador de una carta, solicitándole ayuda para abrir una escuela al servicio de los niños pobres. Juan Bautista, que estaba inquieto y que buscaba con ansia


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una alternativa pastoral de servicio, encontró en el experimentado maestro una oportunidad para asomarse al mundo desconocido de los maestros de escuelas de caridad que existían en su ciudad. Y fue allí, en la pobreza material, académica y espiritual de esos maestros, abandonados de todos, en donde descubrió el llamado de Dios a la educación cristiana. Gracias a Nyel, nuestro futuro Fundador, sacerdote y teólogo, tuvo la experiencia del encuentro con el Dios vivo en la realidad concreta de los maestros y de los niños pobres. Años más tarde, fue capaz de dar su propio testimonio: Dios, que gobierna todas las cosas con sabiduría y suavidad, y que no acostumbra a forzar la inclinación de los hombres, queriendo comprometerme a que tomara por entero el cuidado de las escuelas, lo hizo de manera totalmente imperceptible y en mucho tiempo, de modo que un compromiso me llevaba a otro, sin haberlo previsto en los comienzos (Memorial sobre los orígenes, 6).

La Regla de los Hermanos comienza afirmando que: San Juan Bautista De La Salle, atento por inspiración de Dios al desamparo humano y espiritual de “los hijos de los artesanos y de los pobres”, se consagró a la formación de maestros de escuela enteramente dedicados a la instrucción y a la educación cristiana (R.1). Es en esa experiencia del Dios que irrumpe, que cuestiona, donde Juan Bautista rompe con su pequeño mundo de privilegios y comodidades; desde allí nosotros también podemos revisar nuestra propia imagen de Dios y aprender a dejarnos cuestionar por Él. Adrián Nyel se convirtió para Juan Bautista en un instrumento privilegiado de Dios para impulsar un cambio en su vida a los treinta años. Es el primer icono de la experiencia lasallista que queremos poner a consideración. Su papel, a veces un tanto caricaturizado y desvalorizado, surge con fuerza. Es el hombre experimentado que viene recomendado por la prima Maillefer de Ruán. Es el maestro que, al momento de conocer a Juan Bautista De La Salle, había dedicado treinta y ocho años de su vida a la organización de una red de escuelas para los pobres de Ruán7, ganándose la confianza y el aprecio de las autoridades de su ciudad (cf. Poutet, 1988: 22). Nyel estaba consciente de los dones que De La Salle tenía para afrontar el reto de las escuelas. Blain hace notar que era evidente la gracia especial que había recibido y que obraba en él poderosamente sin que lo percibiera, “… porque él fue el primero en prever todas las dificultades, en remover los obstáculos, en tomar medidas seguras y en escoger medios eficaces…”(Blain, 1733/2005: 259) para lograr el éxito de las primeras escuelas para niños pobres que surgieron en el año de 1679 bajo su orientación.

Cuando hablamos del servicio caritativo de los pobres de Ruán estamos haciendo referencia a la administración del Hospital General de la ciudad que, para ese tiempo, era el lugar donde la ciudad alojaba y mantenía a los mendigos y pobres. Adrián Nyel dedicará la mayor parte de su vida a administrar el Hospital General de Ruán, desde donde ayudó a organizar una red de escuelas. En ellas conoció la realidad de los Maestros y de los niños abandonados por la sociedad. 7


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Nyel nos recuerda que Dios habla a través de las personas y de los acontecimientos. Es una convicción profunda que encontramos perfectamente aleccionada en la vida de La Salle. El Dios de la historia se encarna en la realidad de los maestros y de los niños. De La Salle escribe su experiencia desde la realidad. Y comparte su experiencia de salvación con sus Hermanos.

3b) El discernimiento de la voluntad de Dios en el seguimiento de Jesucristo En el año 1712, Juan Bautista De La Salle, de sesenta y un años, vive una experiencia que para muchos de sus biógrafos resulta enigmática y reveladora (cf. Bannon, 1988/2004: 210). Durante más de treinta años había vivido profundas decepciones al llevar adelante el proyecto de las escuelas para los niños pobres. Había sufrido el alejamiento de familiares y amigos, la hostilidad de párrocos influyentes de París, el intento de ser desplazado como superior de los Hermanos por incompetente, el hostigamiento de los Maestros calígrafos y los juicios contra las escuelas. En ese año, el párroco de San Sulpicio -señor de La Chétardie- comienza a influir sobre algunos Hermanos de la comunidad de París, molestos por la presencia de La Salle. Éste, al ver la incomodidad cada vez más creciente de algunos, comienza a sentir la dificultad para discernir el camino que Dios quería para él. Al sentir el rechazo dentro de la misma comunidad, duda de su propio papel y de su vocación como fundador. Por eso, decide retirarse al sur de Francia. En ese trayecto, La Salle visita algunas comunidades y disfruta, sin duda, el apoyo y la estima de los Hermanos alejados de las tensiones de la capital del Reino. Pero, al llegar a Marsella y recibir el apoyo local para establecer un Noviciado, se declara opuesto al jansenismo y eso provoca no sólo el rechazo de las autoridades locales sino también el cierre de las obras de los Hermanos. “De acuerdo con Blain, ésta fue la ocasión escogida por varios Hermanos para decir al Fundador que había venido al Sur para demoler más que para construir”(Bannon, 1988/2004: 220). No obstante, el Fundador sigue esperando una señal de Dios para su vida. Continúa por Mende y Grenoble, actuando como un Hermano más en la comunidad, trabajando en las escuelas con los niños; es cerca de Grenoble, en Parmenia, donde tiene la oportunidad de visitar a la solitaria Sor Luisa, quien gozaba de un afamado don de discernimiento. Producto de sus diálogos espirituales con ella, además de otra circunstancia a la que haremos referencia en el siguiente punto, comprende que el Señor le llama a continuar y fortalecer la obra que había iniciado hacía más de treinta años junto a los primeros maestros en Reims. Este relato, lleno muchas veces de misticismo, nos presenta a un La Salle que vive con intensidad la noche oscura de la fe descrita por San Juan de La Cruz. Y en ese momento difícil, de duda y confusión, una mujer sencilla, llena de fe, tiende la mano


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a Juan Bautista y le ayuda a discernir. Es Sor Luisa, a quien identificamos como el segundo icono de esta reflexión. A decir de los biógrafos, Sor Luisa es determinante en el proceso de discernimiento que Juan Bautista vivió en el año 1714; gracias a ella percibe con claridad que no es voluntad de Dios alejarse de sus Hermanos sino, más bien, ir con ellos para terminar el trabajo que comenzó en Reims (cf. Watrigant, 1923: 46). Juan Bautista es fiel al proyecto de Dios en su vida, es capaz de asumir su historia de salvación cuando se deja confrontar aun en los momentos más difíciles de su propio itinerario. La presencia de una mujer llena de fe, capaz de hablar con la autoridad de quien se sabe cercano al Señor, es capaz de fortalecer en La Salle su camino hacia el reencuentro con sus Hermanos en París. ¿Por qué la proponemos como el segundo icono? Por varias razones. La primera, se trata de una mujer del pueblo con una fe inquebrantable en Jesucristo. ¡Cuántas mujeres en América Latina han sido para nosotros testigos de la fe, como maestras y catequistas en la escuela! ¡Cuántas se han convertido para nosotros en compañeras de camino en nuestro seguimiento de Jesucristo dentro de la escuela cristiana! La segunda razón: es una persona con quien La Salle comparte su experiencia de Dios. Es cierto que Dios se revela en el corazón de la persona humana; pero, sobre todo, en los momentos de crisis, se hace necesaria la confrontación con el otro, que posibilita el encuentro del nosotros; es el espacio existencial donde la narración de la experiencia del Dios vivo interpela y llama. Tercera y última razón, es la persona que impulsa a La Salle a volver al encuentro de sus Hermanos. Lo desafía a salir de su seguridad, que definitivamente deja cuando recibe la Carta de los Hermanos Directores de París, quienes lo invitan a volver, “… en virtud del voto de obediencia”. Sor Luisa nos interpela como tantas mujeres lasallistas que viven a diario la dureza de la jornada de trabajo y que, desde su experiencia particular de fe, impulsan con su amistad, con su perseverancia y con la fuerza de su fe a los Hermanos y a los demás compañeros Laicos a seguir descubriendo la voluntad de Dios cada día.

3c) El carisma exigente y cercano de la fraternidad Los Hermanos de París, entre los años de 1712-1714, viven momentos de confusión. Juan Bautista De La Salle viaja al sur de Francia, preocupado por la agresividad de tantos acontecimientos que en la capital han socavado su confianza como fundador. Los Hermanos, por su parte, se muestran distantes ante él. Por eso, La Salle decide alejarse de ellos para ver con más claridad la voluntad de Dios. Y es cuando, en abril de 1714, los principales Hermanos de las comunidades de París -esto es, los Directores- le envían una Carta, que será la respuesta que La Salle


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espera de Dios . Una carta fraterna, llena de contenido espiritual, exigente y afectuosa, que transcribimos a continuación: Señor y amadísimo Padre nuestro: Nosotros, los principales Hermanos de las Escuelas Cristianas, teniendo como finalidad la mayor gloria de Dios, el mayor bien de la Iglesia y de nuestra Sociedad, reconocemos que es importantísimo que vuelva usted a tomar la dirección general de la obra santa de Dios, que es también la suya, puesto que plugo al Señor servirse de usted para establecerla y dirigirla desde hace tanto tiempo. Todo el mundo está convencido de que Dios le ha dado a usted y sigue dándole las gracias y talentos necesarios para gobernar bien esta nueva compañía, que es de gran utilidad para la Iglesia; y con toda justicia damos fe de que usted siempre la ha dirigido con mucho éxito y edificación. Por lo cual le rogamos, Señor, muy humildemente y le ordenamos, en nombre y de parte del cuerpo de la Sociedad al cual usted prometió obediencia que se haga inmediatamente cargo del gobierno general de nuestra Sociedad. En fe de lo cual hemos firmado. Dado en París el 1 de abril de 1714. Y quedamos, con el más profundo respeto, Señor y amadísimo Padre nuestro, sus muy humildes y muy obedientes inferiores… (Bannon, 1988/2004: 235-236).

Creemos que esta carta puede ser leída desde varias perspectivas. Nosotros queremos llamar la atención acerca del sentido de fraternidad que recorre todo el texto, de principio a fin. En ella, una comunidad de hombres ha discernido el itinerario de su Fundador, a quien se dirigen con un afecto exigente y determinante: por eso, le ruegan, pero también le exigen. Proponemos al conjunto de los Hermanos Directores de París como el tercer icono lasallista de nuestra reflexión. Se reconocen inmersos en una circunstancia para nada favorable; están verdaderamente desorientados. Los párrocos quieren asumir la dirección de las comunidades de Hermanos, con lo que la Sociedad llegaría a su fin; si esto se formalizara, ya no tendría sentido mantener la asociación para el servicio educativo de los pobres que por más de treinta años ha costado construir y que ya expresaban, para ese momento, a través de una fórmula de votos. En dicha Carta, los Hermanos Directores de París son capaces de reconocer a La Salle como el portador de un carisma que construye a la comunidad, dándole direccionalidad y sentido. Es él quien lo ha suscitado a través de los dones recibidos de Dios. Por eso, los Hermanos le agradecen y le exigen. Es el carisma de una fraternidad afectuosa, y a un tiempo comprometedora, que los impulsa a participar en el proyecto de las escuelas. Esta exigencia recuerda el compromiso de encarnación-alianza-resurrección que se expresa en la comunidad de la Iglesia cuando ella misma es sujeto de salvación para los demás. Y eso no es posible sin el ejercicio de una fraternidad atenta a las mociones del Espíritu. De La Salle fue el hombre de Dios que comprendió la necesidad de contar con una fraternidad para asegurar el servicio de las escuelas. Y acertó al proponer que el Maestro actuara ante sus alumnos con la firmeza de un padre y la ternura de una madre. Es la actitud que había moldeado a los Hermanos que firmaron la carta de 1714.


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3d) Con corazón pobre para colaborar con el proyecto de Dios ¿Qué sentido tiene seguir a Jesucristo si no es para colaborar con el designio de salvación del Padre? Nuestro Fundador, después de tantos años de esfuerzos, de luchas, de dificultades, está consciente que Dios es tan bueno que, una vez creados por Él los hombres, quiere que todos lleguen al conocimiento de la verdad y se salven (MTR 193,1). Es la convicción con la que inicia las Meditaciones para los Hermanos y Maestros a quienes prepara momentos de Retiro durante el verano. Tras casi cuarenta años de servicio a los niños pobres, soportando adversidades por atreverse a impulsar una iniciativa que iba en contra de los moldes eclesiásticos, gremiales y escolares de su época, entiende que el sujeto preferencial de las escuelas cristianas es el niño pobre y, junto a él, la familia con quien establece profundos lazos de cooperación desde las escuelas8. Para nosotros, el cuarto icono lasallista que puede ayudarnos en esta reflexión, son los niños pobres de las escuelas, descritos por De La Salle en sus Meditaciones. De manera especial, tomamos la Meditación 86 para la Fiesta de la Natividad, que bien podría ayudarnos a releer la opción cristológica por el pobre en el servicio educativo: Jesús no se contentó con nacer pobre. Como había escogido por herencia la abyección en el mundo, según lo que dice el Real Profeta, quiso realizar su entrada en él por un lugar donde fuera desconocido, donde no se tuviera ninguna consideración ni hacia Él ni hacia su santa madre, y donde estuviera abandonado de todos. Es verdad que lo visitan en su nacimiento, pero son sólo unos pobres pastores que no pueden tributarle otro honor que el de sus deseos; pero incluso es preciso que un ángel les anuncie, de parte de Dios, que el niño que acaba de nacer en Belén es su Salvador, y que su nacimiento será motivo de sumo gozo para todo el pueblo. Fuera de estos pobres pastores, nadie piensa en Jesús cuando nace. Y parece incluso que Dios no quiere que los ricos e importantes puedan llegarse a él, pues el ángel que anuncia su venida no da a los pastores otra señal para reconocerlo que el estado pobre y abyecto en que lo han de hallar, capaz sólo de repugnar a quienes no estiman más que aquello que deslumbra. Nosotros, al elegir nuestro estado, debimos estar resueltos a vivir en la abyección, igual que el Hijo de Dios al hacerse hombre; pues eso es lo más relevante en nuestra profesión y en nuestro empleo. Somos pobres Hermanos, olvidados y poco considerados por la gente del mundo. Sólo los pobres vienen a buscarnos, y no tienen más nada que ofrecernos más que sus corazones, dispuestos a recibir nuestras instrucciones (MDF 86,2).

En esta Meditación identificamos cuatro ideas sustanciales. Primera, ubica la comunidad de los Hermanos desde la realidad de pobreza que han asumido en fidelidad al proyecto de educación de los niños pobres, dentro de una sociedad profundamente desigual, determinista y descalificadora. Ser pobre implica no ser reconocido por quienes dictan las pautas en la sociedad. Es colocarse en la periferia, no en el cen-

El Hermano Léon Lauraire, en el Cahiers Lasalliens 61, explica la relación de la escuela con las familias para asegurar el éxito escolar del niño, frente a las limitaciones de la pobreza.

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tro de las decisiones. Implica entregar la vida en el servicio educativo hacia aquellos que sólo pueden agradecernos con su amistad; significa un cambio de lugar social para aquellos que quieren colaborar con el proyecto salvífico de Dios. Los satisfechos no tienen nada que buscar, ya están saciados. Segundo, la condición humilde y pobre recuerda el pesimismo teológico del siglo XVII; rescatamos de él la imagen del Dios que es capaz de abajarse, de encarnarse, de humillarse para caminar con el hombre desde su propia realidad. Recordamos las palabras del profeta: Mis planes no son sus planes (Is 55,8). Dios rompe la lógica del mundo; nace donde nadie le espera, y se da a conocer incluso a aquellos que no esperan recibir nada. Esta convicción nos recuerda que debemos revisar periódicamente la imagen de Dios que fundamenta nuestra fe; Dios se hace el escurridizo con quienes desean atraparlo y poseerlo para sí. Tercero, la experiencia del encuentro con Dios no es un asunto que compete exclusivamente al área personal; es la comunidad quien es convocada. Es ella quien conoce al Señor y se siente comprometida en darlo a conocer a otros. Es la comunidad de los Hermanos quien busca y es buscada por los niños pobres que vienen a las escuelas. No hay protagonismo personal porque Dios llama y salva “en racimo”. El “nosotros” representa el espacio existencial donde Dios se comunica y donde interpela al corazón de los hombres. Cuarto, sólo un Hermano pobre puede ser entendido por un niño pobre. Hay una sintonía en la experiencia de la vida: se trata de un lenguaje común, nacido de la convicción de ser hijos en el Hijo, de ser testigos de una verdad que no puede quedarse escondida. Y se trata nada menos de tocar el corazón y dejarse tocar. El corazón representa el centro de la persona humana, el lugar donde Dios llama y el hombre responde, el lugar de la evangelización. Para ello, el Hermano, el Maestro, debe prepararse para dialogar con el niño y el joven que Dios ha puesto en su camino. Es el verdadero acto de pobreza: desprenderse de todo aquello que no promueve ni permite el encuentro con el otro que me interpela. Ellos estarán dispuestos a recibir nuestras instrucciones, nuestros esfuerzos, nuestra propuesta educativa si descubren que nosotros estamos disponibles para vivir con ellos la experiencia de la escuela. No somos funcionarios; tampoco simples profesionales de la educación. Somos ministros de Jesucristo en la escuela. En la diversidad propia de las obras lasallistas de nuestra Región, el icono de los niños pobres de las escuelas es una llamada a revisar el sentido que tienen las comunidades de Hermanos y Laicos en el mundo concreto de la educación del continente. ¿Cuál es la fidelidad creativa a la que estamos llamados desde nuestra realidad en el aquí y ahora de los niños y jóvenes de nuestras localidades? ¿Para qué consumir nuestras vidas en un proyecto comunitario al servicio de la educación? ¿Qué tanta satisfacción-insatisfacción sentimos ante las respuestas que damos? ¿Qué nuevos retos vislumbramos a futuro?


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4. Discernir desde la experiencia fundante del Dios vivo Los iconos que hemos revisado anteriormente, propios de la experiencia de nuestra familia religiosa, nos acercan al núcleo de nuestra reflexión: la experiencia fundante del Dios vivo que llama desde la comunidad para el servicio educativo de los pobres es quien da razón y sentido a una comunidad de Hermanos y Maestros que desean vivir el carisma educativo heredado de La Salle. Precisemos algunas ideas. Cuando hacemos referencia al concepto de familia, estamos hablando de un universo de hombres y mujeres, cada uno con su historia personal, que en algún momento de su existencia comienza a participar de una comunidad con una identidad propia, construida en torno a la figura de San Juan Bautista De La Salle. Esta narrativa de fe y misión implica un lenguaje, una iconografía, una forma de trabajo; todo está organizado en función de asumir un proyecto de educación cristiana local que tiene una referencia distrital, regional e internacional. En algún momento de la historia particular de cada quien, esta propuesta se convierte en invitación personal; algunos abrazan un compromiso radical de seguimiento de Jesucristo en la vida religiosa de los Hermanos; otros, consideran con seriedad el asumir la perspectiva ministerial del maestro cristiano comprometido en la escuela lasallista. Cada quien, desde su propia decisión de vida, siente, sin embargo, que el carisma de La Salle le plenifica y le impulsa a descubrir el proyecto de Dios para su vida. Es la experiencia de Dios, indispensable para entender el camino que una vez La Salle vivió con un grupo de Maestros en Reims, allá desde el año de 1679. También es indispensable para evitar encuadrar la vida de los Maestros en el esquema de vida de los Hermanos; cada uno está llamado a ser fiel a su vocación específica. Es la actitud que consideramos pertinente al momento actual porque aporta solidez al proyecto común. Nuestra familia tiene una historia. Pero, desde el aquí y el ahora, cada Hermano y cada Maestro comprometido en la educación cristiana está llamado a construir su propia historia de salvación, junto a otros, con quienes descubre el paso de Dios en su vida. Y no hablamos de hombres y mujeres totalmente construidos; muchas veces, desde la fragilidad de sus existencias, donde conviven la incoherencia y el deseo de ser mejores, es donde Dios se muestra cercano; en la debilidad, no deja de manifestarse. La relación interpersonal y comunitaria va fortaleciendo los lazos de una fraternidad humana y espiritual, que sin la referencia explícita a Jesucristo no tiene capacidad para salir de sí misma para ir al encuentro con el más necesitado. Por eso, ¿de qué sirve tener una hermosa fraternidad si no se cuenta con un proyecto de entrega y de servicio? La comunidad existe para una misión, no para el disfrute egocéntrico de una fraternidad que se satisface a sí misma. En ella, el Dios exigente irrumpe para socavar las seguridades y para alentar nuevos proyectos. Por eso, es la comunidad la que discierne la misión para enviar en nombre de ella a los Hermanos y Laicos a desarrollar servicios educativos concretos en un tiempo determinado.


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Y ¿dónde están las estructuras que hacen posible y que sostienen esta experiencia? La presencia de los Laicos en las escuelas lasallistas y su interés por asumir compromisos mayores, ha llevado al Instituto a plantearse también algunas estructuras que les ayuden a vivir el carisma, pero respetando su condición particular laical, sin que pierdan su identidad propia, hecho que traicionaría la riqueza del laicado y su contribución a la Iglesia. Las experiencias responden a estilos locales que continúan su desarrollo. Las estructuras que existen hasta ahora son consecuencia de un itinerario institucional. Los Hermanos, después de trescientos años, intentan hoy en día renovar el sentido de la asociación primera –la asociación para el servicio educativo de los pobresque dio lugar a la experiencia que viven como Instituto de derecho pontificio compuesto exclusivamente por religiosos laicales (cf. Regla 2). Tomando como referencia los votos de asociación para el servicio educativo de los pobres, obediencia y estabilidad de Juan Bautista De La Salle y de los doce Hermanos en el año de 1694, los Hermanos están conscientes de que son corazón, memoria y garantía del carisma lasallista y lo comparten con generosidad a todos aquellos que se sienten llamados a vivir la experiencia ministerial del Maestro cristiano. Creemos que aquí está el desafío actual: construir la experiencia de la Familia Lasallista, ayudando a que cada quien fortalezca su identidad propia y sea coherente con el llamado que ha recibido de Dios: los Hermanos de las Escuelas Cristianas, fortaleciendo su identidad propia desde la relectura de su experiencia fundante y, los Laicos, definiendo su presencia dentro de una Iglesia Pueblo de Dios – Comunión, abierta al desarrollo de los carismas y ministerios para el servicio de todos. ¿Cuáles son los elementos que nos pueden ayudar a discernir hoy? Entendiendo que la asociación es para la misión, y ésta se expresa de manera explícita en el servicio educativo de los pobres, estamos invitados a recorrer un itinerario de búsqueda cuyos hitos podrían ser: Una imagen de Dios consecuente con la experiencia de un Dios vivo y presente, que llama y envía, que manifiesta su voluntad explícita de salvación a todos los hombres, de manera privilegiada desde la educación de los niños, jóvenes y adultos. Un ambiente físico, relacional y espiritual que “hable de Dios”, es decir, coherente con las intencionalidades expresadas en un proyecto educativo que haga posible la salvación para todos. Espacios de oración y reflexión personal y comunitaria, donde la realidad vivida en la escuela pueda dialogar con la Palabra de Dios, donde el Espíritu se manifieste para renovar la mirada, la acción y el compromiso de quienes se sienten convocados a ser testigos de Jesucristo, sus embajadores y ministros. Una experiencia de Dios compartida y madurada, producto de la formación permanente de Hermanos y Maestros que buscan comprender la realidad desde las claves del Evangelio. Esto implica no sólo un conocimiento teórico, sino también


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el diálogo y el acompañamiento espiritual apropiado para saber leer en la vida cotidiana el paso de Dios. Espacios para crear, impulsar, romper con las comodidades y las seguridades que limitan las invitaciones del Espíritu. Estar disponibles para salir del centro a la periferia, para descubrir mundos nuevos, para atreverse a cambiar. Pero no por espíritu de aventura, sino por exigencias de una realidad que nos cuestiona y pide nuevas respuestas. Estructuras comunitarias que eduquen en el diálogo, en función de la búsqueda compartida de la voluntad de Dios para el desarrollo de un proyecto común. Una autoridad consecuente con los procesos pastorales necesarios de animación, capaz de llevar adelante un acompañamiento fraterno, exigente y orientador; dispuesta a servir y no a ser servida, sin que por ello se diluya en la ambigüedad. Una comunidad local de Hermanos abierta, acogedora, comprometida a hacer camino con los Maestros en espacios de oración y de acción, que quiera hacer camino con ellos desde su propia realidad, manifestándose tal cual es.

5. Una invitación a caminar Los Distritos de América Latina y el Caribe viven esta realidad asociativa a diferentes velocidades y realidades. Cada quien, desde su realidad particular, ha entendido e impulsado la vivencia del carisma entre Hermanos y Laicos. Entre los Hermanos, los procesos de formación inicial definidos para la Región siguen su curso; hoy, todos los Distritos cuentan con programas y casas de formación interdistritales que han ayudado a sembrar un espíritu de interdependencia, sobre todo entre los Hermanos jóvenes. No dudamos que los procesos de restructuración de los Distritos también ayudarán a fortalecer los procesos de formación permanente de los Hermanos en general, por las dinámicas de conocimiento mutuo y apoyo que impulsarán en los años próximos. Con respecto a los Laicos, vemos con entusiasmo la preocupación de casi la totalidad de los Distritos en llevar adelante procesos de formación permanente para todos sus Maestros y Colaboradores Laicos. Conscientes de que sólo desde la experiencia de fe es posible fundar una familia con un carisma particular, consideramos que el reto sigue siendo la formación cristiana y lasallista del conjunto de Maestros que hoy trabajan en las obras educativas9. Reconociendo que los cristianos en América Latina y el Caribe tienen en general una débil formación religiosa y una ambigua experiencia de Dios, el reto se hace todavía mayor. De ahí que quizás un campo privilegiado para el desarrollo del carisma lasallista sea la formación de los Laicos, especialmente la dimensión cristiana, como alternativa para el desarrollo de la educación en el continente.

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Familia Lasallista y Asociación, el desafío de discernir para caminar

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Además de fortalecer los procesos de formación de Hermanos y Laicos, es indispensable seguir promoviendo experiencias de servicio que ayuden a vivir desde la realidad las exigencias de la asociación; sólo desde el contacto con la realidad nos permitirá reconocer los desafíos que implica el dejarse conducir por el Espíritu que sopla donde quiere, que habla a través de múltiples mediaciones (la Palabra de Dios, la comunidad de referencia, el contacto directo con las situaciones de pobreza y marginación) y que nos permite comprender que el itinerario vocacional de cada uno exige el acompañamiento de una comunidad de fe y de vida capaz de motivar, impulsar y recrear el carisma heredado desde los cuestionamientos de la realidad de hoy. Juan Bautista De La Salle supo formar una comunidad de maestros capaz de asumir con radicalidad un proyecto de educación cristiana. En el siglo XXI, los Lasallistas, Hermanos y Laicos, seguimos buscando nuevas experiencias comunitarias que nos permitan responder a los desafíos de la educación cristiana de los niños, jóvenes y adultos, sobre todo de aquellos que no tienen ninguna alternativa para salir de su condición de pobreza, cualquiera que ella sea.

Preguntas para la reflexión 1. ¿Cuál es la imagen de Dios que sostiene tu vida de fe? En tu historia personal, ¿cómo entiendes el paso de Dios en tu vida? 2. ¿Qué impacto tiene la persona de Jesucristo en tu vida personal, familiar y profesional? ¿Es referente para ti? ¿Qué lugar tiene el Evangelio en esa experiencia? 3. ¿Quiénes han sido para ti los iconos de la presencia de Dios en tu experiencia dentro de una obra lasallista? 4. ¿Qué experiencias de acompañamiento fraterno has experimentado en tu trabajo cotidiano? 5. ¿Qué pobrezas de los niños, jóvenes y adultos con quienes trabajas te cuestionan más y por qué? 6. ¿Qué estarías dispuesto a aportar y qué pedirías para incentivar la asociación para el servicio educativo de los pobres en la obra educativa donde trabajas?


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Prof. Santiago Amurrio, Ir. Paulo Fossatti, H. Diego Muñoz,

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RETAZOS LASALIANOS [16-20] JOSÉ MARÍA VALLADOLID

Tres innovaciones geniales de san Juan Bautista de La Salle [16]

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an Juan Bautista de La Salle merece un lugar destacado tanto en la historia de la pedagogía como en la Historia de la Iglesia, y ello a causa de tres innovaciones que él introdujo y que transformaron, por un lado, la escuela tradicional y la figura del maestro - Historia de la Pedagogía -, y por otro, la vida religiosa - Historia de la Iglesia -. Tal vez no se ha dado a estas innovaciones la importancia que han tenido para nuestro mundo actual. 1. La primera innovación fue el paso de la escuela tradicional a la escuela cristiana - Apenas unos meses después de verse mezclado, sin buscarlo, en la fundación de una escuela, cayó en la cuenta de que abrir una escuela, si era una más entre las muchas que había en su tiempo, no valía la pena. De las escuelas de entonces, unas cobraban la enseñanza para pagar al maestro, y en otras se enseñaba por caridad a los pobres que no podían acudir a las de pago. En todas estas escuelas, de enseñanza elemental, se enseñaba de la misma manera, con un sistema individual, que facilitaba muy poco el aprendizaje, y sirviéndose del latín, en vez de la lengua popular. Además vio que los maestros no estaban preparados y que para cambiar la escuela había que comenzar por cambiar al maestro. Pero lo primero que cambió fue la «finalidad de la escuela». En la escuela tradicional se pretendía educar al niño como miembro de la sociedad, y que tendría que desarrollarse dentro de ella. La Salle cambia la óptica radicalmente: en la escuela cristiana se educará al niño como miembro de la sociedad, desde luego, pero además, como hijo de la Iglesia. Y el maestro verá en el niño no sólo al ser que se hará adulto, sino a un hijo de Dios, que será buen ciudadano y buen cristiano, a la vez. Con esta nueva perspectiva, la escuela experimentó un cambio radical: las relaciones del maestro y del alumno cambiaron; cambió el modo de enseñar, el sistema individual dio paso al sistema simultáneo, se iniciaba a la lectura mediante la lengua vulgar, la que servía para dirigirse a Dios. y todos estos cambios se hicieron de


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común acuerdo del fundador con sus maestros... ¿Cuál era el motor de este cambio? El espíritu de fe, que era el espíritu del cristiano, y que hace ver todas las cosas desde la perspectiva de Dios. Y es también el espíritu del Instituto y del Hermano. Cuando algunas familias pudientes se dieron cuenta de que en la escuela cristiana se enseñaba más, mejor, y además gratis, se apresuraron a cambar a sus hijos de escuela. Y de ello nació la oposición de los maestros que perdían alumnos, y por lo tanto, parte de la paga. Hasta cinco pleitos tuvo que sufrir La Salle, y terminó perdiendo, porque le obligaban a admitir en sus escuelas sólo a los pobres de solemnidad. Los considerados ricos, ¿no tenían también derecho a la educación que recibían los pobres? 2. La segunda innovación: la nueva imagen del maestro - Para La Salle no hubiera sido posible transformar la escuela sin haber transformado antes al maestro que la anima. Aquellos primeros maestros que apenas tenían formación para enseñar, aplicándose diariamente al examen de cuanto habían hecho en la escuela, fueron muy pronto capaces de ver al niño como al hijo de Dios y al hijo de la Iglesia, al que tenían que enseñar a ser hombre y cristiano a la vez. Y para poderlo hacer, ellos mismos se tuvieron que transformar en auténticos cristianos, vivir las máximas del Evangelio y actuar como ministros de la Palabra de Dios, y como catequistas que transmitían y educaban la fe a cada niño. En las reuniones frecuentes con Juan Bautista habían pensado a menudo que eran los sustitutos de los padres, que eran evangelizadores, como los apóstoles, que eran los ángeles visibles de los niños, colaboradores con los pastores y con los obispos... que Dios les pediría cuenta de cada alma de sus alumnos, que ejerciendo su ministerio se hacían ministros de Jesucristo y de la Iglesia. Aquellos maestros, pensando y meditando todas estas ideas, que no son otras que las que encontramos en las Meditaciones para el tiempo del Retiro, no tardaron ni cuatro años en pasar de llamarse maestros a denominarse Hermanos, y luego Hermanos de las Escuelas Cristianas, y luego, a sentirse profundamente hermanos entre sí, hermanos mayores para con los niños y hermanos para con las personas adultas que se relacionaban con la escuela. La figura del Hermano era totalmente nueva en el mundo de la educación. 3. La tercera innovación: el Instituto de los Hermanos de las Escuelas Cristianas - Las tres innovaciones de La Salle se fueron realizando de forma simultánea, y todo tuvo su origen en ese espíritu de fe que invitaba a ver al niño como hijo de Dios. La Salle se dio cuenta de que aquellos maestros, transformados en Hermanos, desempeñando su ministerio de «educar cristianamente a los niños» se estaban consagrando a Dios mediante una consagración distinta a la de los monjes de la época, pero igualmente válida: en vez de hacerlo por los votos religiosos, la consagración del Hermano le venía por el ejercicio del ministerio. Y de esa forma nacía un nuevo tipo de familia religiosa en la Iglesia: los que se consagran plenamente a Dios ofreciendo el sacrificio de toda su vida y de toda su acción desempeñando un ministerio.


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En tan sólo siete años, desde 1679 a 1684, aquellos maestros recorrieron varias etapas: de «comunidad» de maestros pasaron a fomar la «Sociedad» de Hermanos, que diez años después, en 1694, se convertía en «Instituto». Y eran religiosos, escogidos por Dios, separados del mundo, consagrados para evangelizar, pero sin los votos religiosos. El voto imprescindible para formar sociedad era el voto de Asociación, y de él se derivaba el de obediencia. Pero hubo aún otra faceta de este nuevo tipo de vida consagrada: los Hermanos serían todos laicos, es decir, simples fieles, sin acceder al sacerdocio ministerial. ¿Y eso, por qué razón? Por una muy sencilla: porque el ministerio de la educación cristiana, aquel por el cual el Hermano se consagra a Dios, es un ministerio laical, y no requiere el sacerdocio. Es un ministerio que Dios, por medio de la Iglesia, confía a los simples fieles, a los simples cristianos. Una intuición de Juan Bautista de La Salle que la Iglesia ha vislumbrado, y tan sólo vislumbrado, con el Concilio Vaticano II.

Consagrados por el ministerio [17]

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odos sabemos que Juan Bautista, en cierto momento, vio claramente que Dios le pedía que se encargara de las Escuelas Cristianas; y eso ocurrió, según él mismo dice, hacia finales de 1682. Fue entonces cuando vislumbró la posibilidad de formar con los maestros una comunidad de personas consagradas a Dios, separadas del mundo, de profunda espiritualidad y plenamente dedicados a sostener las escuelas para educar cristianamente a los hijos de los artesanos y de los pobres. En este itinerario hacia la consagración - desde formar comunidad con los maestros hasta constituir con ellos una sociedad religiosa - hubo dos momentos fundamentales. Veámoslos.

1. Los momentos clave de la consagración La Asamblea de 1686 - El modo de llegar a formar esa comunidad, fue largo y sinuoso. En la Asamblea de 1686 los reunidos hablaron de emitir votos, y según los biógrafos algunos querían emitir votos de pobreza, castidad y obediencia. Juan Bautista, que era el director de todos ellos, y el confesor de buena parte de los mismos, y que por lo mismo conocía la generosidad y las posibilidades de cada uno, trató de disuadirlos, y lo consiguió. Al final de la Asamblea todos estuvieron de acuerdo en emitir solamente el voto de obediencia, por tres años, y renovarlo cada año. Eso suponía que si alguno no quería renovarlo al expirar el año, tenía todavía por delante dos años de compromiso. Pero lo importante de este acontecimiento es que Juan Bautista se opuso en aquel momento a que se hiciesen los votos tradicionales en la


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vida religiosa: pobreza, castidad y obediencia. Con este acto, los Hermanos se asociaron —formaron Sociedad—, y vivieron tanto en Reims como en Rethel, Guisa y Laón, y poco después en París (desde febrero de 1688), como «comunidad religiosa», es decir, como grupo de personas consagradas a Dios; el mismo arzobispo de París se lo reconoció de viva voz, y posteriormente también por escrito. El Capítulo de 1694 - Así vivieron los Hermanos hasta la Asamblea de 1694, considerada como el primer Capítulo General, y en ella volvieron a tratar de los votos. Esta vez algunos querían emitir votos perpetuos de pobreza, castidad y obediencia. Como ya tenían todos el voto de obediencia, hacerlo para toda la vida no era mayor dificultad. La dificultad se presentaba en quienes querían hacer los otros dos votos religiosos, los de castidad y de pobreza. Las virtudes propias de estos votos ya las practicaban, y en modo admirable. ¿Qué impedimento había para hacer tal compromiso? Al parecer, ninguno. Pero Juan Bautista de La Salle se opuso otra vez, y convenció a los Hermanos de ligarse a la sociedad sólo mediante el voto de obediencia. Y así lo hicieron aquel 6 de junio de 1694. El resultado de este acontecimiento fue que la «Sociedad» se convertía en «institución de Iglesia», formada por hombres consagrados a Dios y viviendo como los religiosos tradicionales, pero sin los votos de religión. Esta situación se prolongó hasta que fue aprobado el Instituto por la Iglesia mdiante la bula In apostolicae dignitatis solio, de Benedicto XIII, en 1725.

2. La idea fundacional de Juan Bautista de La Salle ¿Qué idea podía tener Juan Bautista en su cabeza para oponerse a que sus Hermanos fuesen religiosos tal como la Iglesia lo pedía en aquel momento histórico? Si hubiera permitido que sus Hermanos emitieran los tres votos tradicionales en la órdenes existentes en aquel momento, mediante los cuales los religiosos se consagraban plenamente a Dios, el Instituto hubiera sido una orden religiosa más. Y lo podía haber admitido, sobre todo teniendo en cuenta que los Hermanos ya observaban, sin haberlos hecho, esos votos. La intuición de La Salle sobre la consagración religiosa - En esta actitud de Juan Bautista de La Salle yo creo adivinar que el Fundador tenía muy claro que para consagrarse a Dios no era necesario emitir los tres votos de religión, sino que hay otras formas de consagrarse plenamente a Dios. Y que en el caso de los Hermanos, esta consagración la realizaban mediante el ministerio que desempeñaban, y que el hecho de dedicar toda la vida a educar cristianamente a los niños era una consagración tan auténtica y real para ellos, como lo eran los tres votos de religión para los monjes y otros religiosos. El valor del ministerio en la fórmula de votos - Y esta idea quedaba expresada con suficiente claridad en la fórmula de votos. Tomemos la fórmula de 1694, ya que no


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nos ha llegado la de 1686. Dice así: «Santísima Trinidad... me consagro enteramente a Vos... Para lo cual, prometo y hago voto de unirme y permanecer en sociedad con los Hermanos... para tener juntos y por asociación las escuelas gratuitas, donde quiera que sea... o para cumplir en dicha Sociedad aquello a lo que fuere destinado, ya por el Cuerpo de la Sociedad, ya por los superiores que la gobiernen. Por lo cual prometo y hago voto de obediencia... Los cuales votos, de asociación, de estabilidad y de obediencia prometo guardar inviolablemente durante toda mi vida». Es decir, que para consagrarse a Dios los Hermanos hacían tres votos: de asociarse para tener las escuelas cristianas, y ejercer el trabajo (es decir, el ministerio) en el lugar donde fuere destinado; de estabilidad (para asegurar el ejercicio del ministerio); y el de obediencia, (para desempeñar el ministerio conforme a lo que el cuerpo de la Sociedad o los superiores dispongan). Así, pues, los tres votos están en función del ministerio, esto es, de educar cristianamente a los niños. En resumen: el ejercicio del ministerio del Hermano, tiene tanto valor de consagración, para el Hermano, como los votos religiosos tenían valor de consagración para un monje o para el miembro de una orden religiosa de aquel tiempo. Las explicaciones de Blain sobre los votos de religión - Cuando Blain aborda el tema de votos, tanto con ocasión de la Asamblea de 1686 como en la de 1694, hace un extenso discurso sobre el valor de dichos votos y parece lamentar que los Hermanos no los hubieran emitido. En varias ocasiones repite que el Fundador quería que su Sociedad fuera reconocida y aprobada por la Santa Sede, y que deseaba que el Papa permitiera a sus Hermanos emitir los tres votos de religión. Y cuando habla de la aprobación del Instituto después de la muerte del santo, se alegra porque en la bula se incluían los tres votos religiosos, y afirma que era lo que el fundador había anhelado. Con todo el respeto que me merece Blain, creo que todas esas explicaciones son elucubraciones del biógrafo, pero que no coinciden con el verdadero sentir de Juan Bautista de La Salle. No es la única ocasión en que el biógrafo traspasa sus propios sentimientos a nuestro santo fundador. Personalmente creo que el biógrafo no penetró a fondo en el pensamiento y en la actitud de La Salle. La bula de aprobación - Las personas encargadas por el Hno. Timoteo, Superior General, de gestionar en Roma la aprobación del Instituto, comunicaron en un momento dado, que sería difícil obtener la aprobación si no se incluían los tres votos de religión. Al Hno. Timoteo y a sus consejeros les alarmó más el posible retraso en obtener la aprobación que el importante cambio en lo que era algo fundamental para la consagración del Hermano, y no tuvieron inconveniente en admitir que en la minuta de súplica, con la cual se redactó la bula, se incluyeran los tres votos. En el Capítulo de 1726, para la recepción de la bula de aprobación, los capitulares hicieron su profesión incluyendo los tres votos religiosos. Y así se ha hecho desde entonces, con la rara particularidad que los Hermanos hacemos una doble consagración a Dios, la primera a través de nuestro ministerio; la segunda, por los votos tradicionales de la vida religiosa. Pero la genial intuición de Juan Bautista de La Salle quedó desdibujada. ¡Qué pena!


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¿En qué año realmente se fundó el Instituto lasaliano? [18]

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s éste un tema que se plantea con frecuencia en el Instituto, y no se acaba de dilucidar, siendo así que los biógrafos, sobre todo Bernard y Blain lo han dejado suficientemente claro. Al más alto nivel del Instituto se han notado los titubeos. Así, el segundo centenario de la fundación se celebró en 1880; y cuando en el siglo pasado hubo que celebrar el tercer centenario, se fijo el año 1980. No tiene mayor importancia, pues lo importante es poder celebrar esos centenarios con el mayor fervor posible.Pero si establecemos el calendario que encontramos en los biógrafos, tendremos elementos indiscutibles para fijar el año del nacimiento el Instituto. Veámoslo. — En el mes de marzo de 1679 ocurrió el encuentro de Juan Bautista de La Salle con Adrián Nyel, ante la escuela de las Hermanas del Niño Jesús, en Reims. — En el mes de abril de 1679 se abría la primera escuela, en la parroquia de San Mauricio de Reims, con la dotación de la señora Maillefer. — En octubre de 1679 se abre la segunda escuela, en la parroquia de Santiago, con la dotación dejada en la herencia de la señora Catalina Leleu. — En diciembre de 1679 y enero 1680, La Salle alquila una casa donde junta a los seis maestros que dependen de él (Nyel y el joven Cristóbal, más otro maestro para la escuela de San Mauricio; y tres maestros para la escuela de Santiago). — En octubre de 1680 se abre la tercera escuela, la de San Sinforiano, parroquia donde está la casa alquilada por La Salle para los maestros. Cuenta con dos clases, por lo tanto los maestros son ya ocho. Los gastos de los dos últimos corren por cuenta de La Salle. — En la Semana Santa de 1681 La Salle dirige el retiro de los maestros. Adoptan un reglamento muy elemental. — En 1681, 1682 y 1683 Nyel se ausenta con frecuencia, tratando de abrir escuelas en Guisa, Rethel y Laon. Le tiene que sustituir otro maestro: ¿acaso el joven Cristóbal? — El 24 de junio de 1681, La Salle lleva a los maestros a vivir en su propia casa, de la calle Santa Margarita. — Eneromarzo de 1682, casi todos los maestros se retiran. Pero la Providencia envía otros con cualidades para ser maestros. Entran más de los que se retiraron. Así hay alguno de reserva, bien formado. — 14 de mayo de 1682: fallece el joven Cristóbal, y Juan Bautista lo reemplaza con los que tenía en reserva. — 24 de junio de 1682 dejan la casa de La Salle y pasan a otra casa alquilada, en la Calle Nueva. — 30 de junio de 1682: se abre la escuela de Château-Porcien. La Salle envía dos


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maestros, de los que tenía de repuesto. Esta escuela duró menos de un año. Los dos maestros volvieron a Reims. — Septiembre de 1682: en la nueva casa adoptan los ejercicios comunitarios y deciden llamarse Hermanos. Hasta esta fecha La Salle no se ha comprometido de lleno con las escuelas... sólo tiene cuidado de los maestros y de su formación. — Finales de 1682: «Fue hacia finales de 1682 cuando comprendí claramente que Dios me pedía que me ocupara de las escuelas Cristianas» — Primeros meses de 1683: Acuden nuevos maestros de gran valía que piden entrar en el grupo de maestros (Nicolás Bourlette, Juan Francisco, Juan Morice, Gabriel Drolin, Juan Paris). — Primer trimestre de 1683: Los maestros se inquietan por su futuro personal. Reprochan a Juan Bautista que él es rico... — Abriljunio de 1683: Juan Bautista medita el despojarse de sus bienes. — Julio de 1683: Juan Bautista decide dejar la canonjía. Viaja a París. Habla con sus hermanos Juan Luis, en San Sulpicio, con Santiago José, en el Noviciado de los agustinos, con la Barmondière, párroco de San Sulpicio y con Nicolás Barré. — Julio de 1683: Juan Bautista regresa a Reims decidido a desprenderse de la canonjía y de los bienes, y a vivir con los maestros de forma definitiva. — 16 de agosto de 1683: Deja la canonjía al sacerdote Juan Faubert. — Inviernos de 1684 y de 1685: Vende sus bienes y reparte el dinero en limosnas. — Mayo de 1685: Nyel deja las escuelas de Guisa, Rethel y Laon y regresa a Ruán. — Octubre de 1685: Juan Bautista de La Salle se tiene que hacer cargo de las tres escuelas dejadas por Nyel. — Último trimestre de 1685: según Blain fue en esta situación cuando pensó por primera vez hacer una asociación con los maestros de las seis escuelas existentes. — Mayo de 1686: primera Asamblea de los maestros. Se asocian y hacen voto de obediencia. *** Este es el itinerario cronológico seguido por Juan Bautista desde su encuentro con Nyel hasta que se ve totalmente entregado a las Escuelas: Dios le fue llevando, casi sin darse cuenta, de un compromiso a otro... ¿Cuándo, dentro de esta cronología, nace el Instituto? Cuando los maestros de Reims vivían juntos (desde 1681) se consideraban ellos mismos como una Comunidad. A finales de 1682, Juan Bautista comprende que Dios le llama a ocuparse de las Escuelas. 1683 es el año en que abandona todos sus bienes y se compromete a fondo con las escuelas. 1686 es el año en que se juntan las seis escuelas, celebran la primera Asamblea y emiten voto de obediencia, para lo cual se han asociado previamente. A partir de entonces, se consideran Sociedad.


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A mi modo de ver, fue el año 1683 cuando comenzó a fundarse el Instituto, que no nació en una hora y un minuto determinado, sino a medida que Juan Bautista se iba entregando a los compromisos que Dios le ponía delante. Hasta el año 1682 había una Comunidad, pero Juan Bautista de La Salle la atendía como algo externo. A finales de 1682, cae en la cuenta de que Dios le llama; y en 1683 se entrega totalmente a la obra. En 1684 se puede decir que el grupo de maestros es algo más que una comunidad... y que en 1686 florecerá en Sociedad. Desde luego, lo que queda claro es que el Instituto no nació en 1680.

¿Que fue del sacerdote Faubert, a quien La Salle dejó su canonjía? [19]

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odo comenzó aquel año de 1682, cuando los nuevos maestros enviados por la Providencia para sustituir a los que abandonaron, mostraron una inquietud tal que La Salle se dio cuenta, y se encaró con ellos. Y ellos le dijeron con toda sinceridad que estaban preocupados por su futuro. Si las escuelas desaparecían, él quedaría muy tranquilo, porque tenía una canonjía y porque era rico. Pero, ¿qué sería de ellos? ¿Tendrían que acabar la vida en un asilo o pidiendo limosna? Estas palabras fueron un trallazo en el alma de Juan Bautista, y comprendió que era Dios quien hablaba por boca de los maestros. Y comenzó a meditar el modo de hacerse pobre como ellos, y deshacer el argumento que habían empleado. El resto del año y la primera parte de 1683 lo dedicó a dilucidar su futuro. Dudó si desprenderse de los bienes antes que de la canonjía. Buscó consejo y vio que era más factible dejar primero la canonjía. Todo un año, 1682-1683, tuvo que emplear para conseguir desprenderse de la canonjía. Al arzobispo, Monseñor Le Tellier, cuando se enteró de ello por ciertos rumores, no le gustó nada. El cabildo, por el cual también se extendieron los rumores, se oponía con más firmeza. Al final, en julio de 1683 viajó a París para entrevistarse con Le Tellier, que estaba en la Corte, pero cuando quiso verle, ya estaba de regreso. El resto del mes de julio y la primer quincena de agosto lo pasó en continuas consultas. Al final ya sabemos lo que sucedió: el señor arzobispo aceptó la renuncia y, aunque con disgusto, consintió que Juan Bautista cediese la canonjía a un sacerdote pobre, pero celoso, de apellido Faubert. Éste tomó posesión de la canonjía el 16 de agosto de 1683. Juan Bautista le había preferido a su hermano, Juan Luis, que se preparaba también para el sacerdocio. Esto molestó mucho a la familia. Los demás canónigos también se disgustaron, no sólo por perder a Juan Bautista, sino porque el nuevo canónigo no era de familia distinguida. Si embargo, La Salle actuó así, porque lo había consultado, y no se lo dejó a su hermano precisamente porque era miembro de su familia.


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Pero ¿qué fue del sacerdote Faubert? Dicen Bernard y Blain —Maillefer no hace referencia a ello— que mientras Juan Bautista estuvo en Reims, Faubert siguió su ejemplo y mostró mucho celo por la salvación de las almas. Más aún: dice Blain que organizó una especie de Seminario menor para preparar al sacerdocio a jóvenes y adolescentes que tenían vocación. Y además, esta especie de seminario funcionó en la casa en que vivían los maestros con La Salle. Llegó un momento en que La Salle necesitó los locales que le había prestado, y Faubert buscó una casa distinta. Sería, tal vez, hacia 1686, cuando La Salle había comenzado a organizar a sus maestros como una «sociedad», y cuando celebraron la primera Asamblea. Cabe señalar que Faubert, siendo miembro del cabildo, tenía derecho a una vivienda que le proporcionaba el claustro de la catedral. Pero no se dice a dónde trasladó aquel Seminario menor, ni cuánto tiempo duró. La realidad es que Juan Bautista se trasladó a París en febrero de 1688, y sólo volvía a Reims de forma esporádica. Y dice Blain: «Hay que pensar que mientras el hombre de Dios pemaneció en Reims, el señor Faubert aprovechó su presencia, y que comenzó a relajarse cuando perdió la ayuda de sus enseñanzas y de sus ejemplos. La vida duce y tranquila que siguió a su vida dura y sacrificada, después de haberle permitido descansar de sus primeras fatigas, le permitió una situación que sólo podía encontrar en una rica prebenda, y habiéndole sumido en el seno del descanso, llegó a estar tan gordo y tan pesado, que sólo entre ocho o diez personas pudieron llevarle para enterrarle después de su muerte. Ésta precedió en varios años a la del señor De La Salle, que tuvo la tristeza de ver a su sucesor en el capítulo de Reims terminar en la relajación de una carrera comenzada en el fervor. Si el santo varón lo hubiese podido prever, según le oyeron decir, no hubiera ido a buscar al señor Faubert entre las últimas categorías de los sacerdotes, donde hacía maravillas y vivía como digno discípulo de Jesucristo y fervoroso ministro de segundo rango, para hacerle ocupar su lugar entre los canónigos. Lo que parece extraño es que el cambio de estado, tan diferente en los dos, parece que dañó la salud del primero y abrevió sus días a causa de una vida tranquila y muelle; y que, en cambio, las durísimas austeridades y trabajos del segundo parece que fortalecieron su debilitada naturaleza. El señor De La Salle, nacido en la comodidad y educado con extrema delicadeza, tal vez hubiera vivido menos tiempo si hubiera sido menos penitente y menos austero; y el señor Faubert, que había nacido en la pobreza, probablemente hubiera obtenido más largos días si su cuerpo, acostumbrado al trabajo y a la vida dura, no hubiera engordado tanto en el descanso y en la indolencia» (Blain, I, 205).. En resumen, y simplificando toda la palabrería de Blain, que después de algunos años fervorosos, el canónigo Faubert se entregó a la buena vida y se aficionó a los manjares delicados y abundantes. Se puso como un tonel, y su celo por las almas se evaporó. Juan Bautista se arrepintió de haberle dejado la canonjía, y Blain, que no conoció a Faubert, no se retrae en pintar su situación con crudeza.


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También Bernard alude a este decaimiento de su primer fervor, pero como es muy probable que le conoció personalmente, se limita a expresarlo de manera más indefinida, y dice: «Pero como los honores cambian las costumbres, no continuó por mucho tiempo sus predicaciones, y su fervor se enfrió poco a poco, lo que hizo decir al señor de La Salle que si hubiera sabido el uso que iba a hacer, nunca le hubiera cedido su canonjía».

La familia cercana de Juan Bautista de La Salle [20] Es bastante conocida la familia de san Juan Bautista de La Salle, pero no siempre se dispone de un listado que nos ayuda en los datos precisos. Quiero ofrecer los nombres y fechas de sus padres, de los once hijos que tuvieron, y de los veintidós sobrinos directos del santo fundador.

1. Los padres: Luis de La Salle (19.9.1625-9.4.1672), casado el 25 de agosto de 1650 con Nicolle (Nicolasa) Moët de Brouillet (30.11.1633-19.7.1671).

2. Los once hermanos: 1. Juan Bautista de La Salle (30.4.1651-7.4.1719). 2. Remy (11.12.1652). Falleció con poca edad. 3. María (26.2.1654-23.3.1711) casada en Reims con Juan Maillefer (1651-1718) en 1679. Tuvieron 10 hijos [1. Juan Bautista Nicolás, 2. Juan Francisco, 3. Simon Luis, 4. Francisco Elías, 5. María Rosa, 6. María Carlota, 7. María Ana, 8. María Petronila, 9. Simón José, 10. hijo sin nombre [1694] y 7 nietos [todos hijos de María Carlota: 1. María Carlota, 2. Felipe, 3. Enrique Alejo, 4. Felipe, 5. Nicolás Luis, 6. Juan Francisco, 7. Juan Bautista Pedro]. 4. María Rosa (29.2.1656-21.3.1681), religiosa en Saint-Etienne-aux-Nonais, Reims. 5. María Ana (2.2.1658) Murió de corta edad. 6. Jacques-Joseph [Santiago José], (21.9.1659-29.3.1723), agustino Genoveviano, prior de Chauny (Aisne). 7. Juan Luis (15.2.1663); falleció al poco tiempo. 8. Juan Luis (25.12.1664-26.9.1724), doctor en la Sorbona (1693), canónigo de Reims (1694-1724).


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9. Pedro (3.9.1666-26.6.1741), casado en 1696 con Françoise-Henriette Bachelier (1665-1728). Tuvieron 8 hijos [1. María Juana Remigia, 2. Juan Bautista Luis, 3. Juana Remigia, 4. María Juana, 5. Elisabeth, 6. Carlos Remigio, 7. María Rosa, 8. Juana Elisabeth] y 8 nietos [todos hijos de Elisabeth: 1. Francisco María, 2. María Rosa, 3. Claudio, 4. Elisabeth Flavia, 5. Pedro José, 6. María Ana, 7. María Elisabeth, Luis Adán; seis de ellos murieron de poca edad]. 10. Simón (10.9.1667-22.4.1669). 11. Juan Remigio (12.7.1670-1732), casado en Épernay, en 1711, con Madeleine Bertin du Rocheret (1690-29.12.1758). Tuvieron 4 hijos [1. Adán, 2. Francisca Enriqueta, 3. Nicolás Luis, 4. Magdalena], y 6 nietos [todos hijos de Nicolás Luis: 1. Juan Bautista Carlos, 2. Simón Philbert, 3. Valentín Carlos Francisco, 4. Francisco Luis, 6. Adán Nicolás].

3. Los 22 sobrinos: 3a. Hijos de Juan Maillefer y de María de La Salle: l. Juan Bautista Nicolás (1679-?). 2. Juan Francisco (1682-1723), canónigo de San Sinforiano, rector de la Universidad de Reims (1719). 3. Simón Luis (1683-1752), benedictino de San Mauro. 4. Francisco Elías (1684-1761), benedictino en San Remigio, de Reims. biógrafo del santo. 5. María Rosa (1685-1686). 6. María Carlota (1687-1732) casada en 1732 con Rigoberto Dorigny (1686-?). Tuvieron siete hijos. 7. María Ana (1683). 8. María Petronila (1690-1771). 9. Simón José (1693-1694). 10. Hijo fallecido sin nombre (1694). 3b. Hijos de Pedro de La Salle y Francisca Enriqueta Bachelier: 11. María Enriqueta Remigia (1696, † a los 21 días). 12. Juan Bautista Luis (1698-1736) Benedictino en San Remigio de Reims. 13. Juana Remigia (1699-1737), religiosa de la Congregación de Notre-Dame. 14. María Juana (1700). 15. Elisabeth (1701-1740) casada con Adán Lespagnol (1698-1757). Tuvieron 8 hijos. 16. Carlos Remigio (1703-?). 17. María Rosa (1704-1781) casada en 1733 con Santiago Fermín (1699-1758). No tuvieron hijos.


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José María Valladolid

18. Juana Elisabeth (1706-1739), religiosa de la Congregación de Notre-Dame. 3c. Hijos de Juan Remigio de La Salle y de Magdalena Bertin du Rocheret: 19. Adán (1712-1758), dominico. 20. Francisca Enriqueta (1713-), ursulina. 21. Nicolás Luis (1715-d. 1770), casado con Francisca Nicolasa Rivot de la Grange (1724-d. 1770); tuvieron seis hijos, todos varones, pero sin descendencia. 22. Magdalena (1716-1717). (continúa) Otros retazos en el próximo número: 21. ¿De qué Fuentes lasalianas disponemos en español? 22. ¿Podemos saber quien era el ‘enemigo’ de La Salle? 23. ¿Cuatro meses para cumplir la obediencia? 24. Nicolas Dorigny y la primera escuela de Adrien Nyel 25. ¿Ofreció el rey a La Salle un obispado?


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Reglas de cortesía y urbanidad cristianas JOSEAN VILLALABEITIA

S

i hoy se conoce la figura de Juan Bautista de La Salle (1651-1719) es, probablemente, gracias a sus seguidores más cercanos, los Hermanos de las Escuelas Cristianas - conocidos también por el apelativo de Hermanos de La Salle, en referencia a quien fuera su iniciador -, que han llenado de escuelas, colegios y centros educativos de toda condición numerosos lugares de nuestra tierra.

Así las cosas, nada de extraño tiene el que entre nosotros se acostumbre a destacar, sobre todo, algunas facetas concretas de la personalidad de este santo francés y de su aportación a la historia y a la sociedad. Su condición de excelente pedagogo, por ejemplo, no sólo en el terreno de la práctica, sino también en el de la reflexión escolar, como autor, junto con los primeros Hermanos, del que es generalmente reconocido como uno de los mejores tratados de pedagogía - si no el mejor - publicados durante el siglo XVIII: la Conduite des Écoles Chrétiennes 1. O su carácter de fundador de los Hermanos de las Escuelas Cristianas, congregación religiosa cuyos impagables servicios en campos tan esenciales como la educación popular, la formación de maestros o la evangelización pocos se atreverán a menospreciar. O, incluso, sus dotes como guía espiritual y autor notable de obras que han orientado el compromiso cristiano de tantos educadores creyentes por las vías del Evangelio, haciéndolos caer en la cuenta de que, ejerciendo su profesión con fe, responsabilidad y entrega generosa, estaban respondiendo a la llamada divina a construir el Reino de Dios y desarrollaban un auténtico ministerio eclesial. Con estas premisas previas, puestos a buscar entre la veintena de libros que Juan

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Conocido en español como Guía de las Escuelas Cristianas, en italiano Guida delle scuole cristiane.


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Bautista de La Salle llegó a publicar el que, sin duda, ha tenido mayor éxito editorial pocos darían con el título acertado. Porque lo normal sería pensar en alguna obra de contenido más bien espiritual, o quizás escolar, o pedagógico. Sin embargo, por más que a más de uno le pueda costar convencerse de ello, el gran éxito editorial de Juan Bautista de La Salle a lo largo de la historia ha sido un tratado sobre cortesía y buenas maneras titulado Règles de la bienséance et de la civilité chrétiennes à l’usage des Écoles Chrétiennes 2, Los datos son incontestables; echémosles un vistazo. Nuestro libro se imprimió por primera vez a principios de 1703, y tuvo ya cuatro reediciones en vida de su autor. Hasta el día de hoy se han localizado ejemplares de 177 ediciones distintas, aunque algunos calculan que, si se tuvieran en cuenta los ejemplares probablemente destruidos para siempre a causa de los avatares históricos - no olvidemos que por medio se halla la Revolución Francesa -, el número real de ediciones podría superar los dos centenares. Sólo a lo largo del año 1825, por aportar otro dato, salieron al mercado seis ediciones, preparadas por seis imprentas distintas. La mayor parte de los ejemplares publicados están en su lengua original, el francés, aunque los responsables de su impresión no siempre radicaran en Francia; y es que durante el segundo tercio del siglo XIX, con la expansión y progresiva consolidación del Instituto de los Hermanos en aquellos países, también aparecieron libros de la Civilité en Bélgica y Canadá junto con otras traducciones parciales al inglés, en Irlanda, y al alemán. Recientemente, y fuera ya de los cómputos antedichos, ha visto la luz una edición crítica muy cuidada, al tiempo que el libro se publicaba en su integridad en inglés , italiano vasco portugués y español, idioma este último en el que, además, en edición diferente, apareció asimismo una interesante selección de textos. Todo un récord para una obra que nació con pretensiones mucho más humildes; porque, en el fondo, las Règles de la bienséance et de la civilité chrétiennes lasalianas no son más que un simple libro de lectura escolar. Juan Bautista de La Salle y sus discípulos procuraban, en efecto, organizar la educación en sus establecimientos a partir de unos planteamientos muy pegados al suelo, tremendamente prácticos, de modo que todo lo realizado en la escuela sirviera sin más a los alumnos para la vida que les aguardaba fuera de los muros escolares. Por explicarlo en términos populares, con sus métodos los Hermanos trataban siempre de matar dos pájaros de un tiro. Al objetivo puramente didáctico de aprender a leer, por centrarnos en el aspecto que aquí nos interesa, intentaban asociarle otro más directamente relacionado con la vida misma. Éste podía ser de corte más profesional, como el trabajo sobre manuscritos u otros documentos concretos, que les permitiera conocerlos bien, saber qué apariencia material presentaban, de qué manera estaban escritos, con qué tipos de letra, en qué había que fijarse, etc.; otros

Obra que se ha traducido al español con el título de Reglas de cortesía y urbanidad cristianas para uso de las Escuelas Cristianas, Madrid

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tenían una finalidad claramente religiosa, como el conocimiento de oraciones o pasajes bíblicos, de modo que los alumnos fueran poco a poco familiarizándose con ellos; y en otros primaba el propósito social, o más general, como es el caso que nos ocupa: en él, al objetivo puramente didáctico de aprender a leer se añadía el conocimiento de las reglas sociales de urbanidad y cortesía comúnmente admitidas en la buena sociedad de las ciudades, de forma que su uso fuera calando en unos alumnos más bien poco habituados a regirse por este tipo de conductas. Partiendo de esta filosofía de base, que permitía preparar más directa y rápidamente a los alumnos para la vida, los Hermanos habían seleccionado y escalonado convenientemente las lecturas más apropiadas a las necesidades educativas de sus escolares. Como es bien sabido, contra lo que se estilaba en las sociedades occidentales de finales del siglo XVII, en las primitivas escuelas lasalianas se enseñaba primero a leer en francés y sólo cuando los escolares se manejaban bien en su lengua vernácula se pasaba al latín, cuya lectura también terminaban por dominar quienes continuaban en la escuela hasta los últimos grados. A partir de esta revolucionaria opción metodológica, los Hermanos habían establecido en sus escuelas nueve niveles de lectura. Pues bien: el libro que nos ocupa era el correspondiente al octavo nivel, consecutivo al séptimo, cuyo manual de lectura eran los salmos bíblicos, que se leían en latín, de manera que los alumnos de este grado pusiesen definitivamente a punto la lectura en dicha lengua, y previo al noveno y último, que consistía en la lectura de manuscritos de todo tipo: contratos, actas, cartas, etc. La peculiaridad de las Règles de la bienséance et de la civilité chrétiennes, redactadas en francés y desde ese punto de vista sin apenas dificultad para los alumnos de octavo nivel, residía en el hecho de estar imprimidas en caracteres góticos, o muy parecidos a ellos, lo que complicaba mucho su interpretación. Aunque no era demasiado frecuente por aquella época encontrarse con este tipo de letra en las publicaciones, tampoco era raro del todo, sobre todo en libros de cortesía y buena educación - de hecho, a estas letras se las llamaba caractères de civilité -, por lo que parecía obligado entrenar a los chavales en su lectura. Con ese propósito nació nuestro libro que, según hemos comentado, alcanzó pronto un éxito enorme. Pero, si el origen del libro es el que se acaba de explicar, no sería justo silenciar que, sin descuidar nunca su objetivo inicial - que, materializándose en contenidos concretos diferentes, ha servido de acicate hasta bien entrado el siglo XX para la aparición de numerosos libros de lectura escolar con pretensiones similares -, muy pronto, incluso en vida de su propio autor, surgieron ediciones de las Règles de la bienséance et de la civilité chrétiennes en caracteres normales, cuya única intención era dar a conocer el tenor literal de la obra a los interesados. De hecho, gran parte de las ediciones que han llegado hasta nosotros están imprimidas en los tipos de letra habituales de cualquier libro. Y es que, si atendemos a sus contenidos concretos, nuestro libro parecería dirigido a un público muy distinto de los hijos de los artesanos y los pobres que atestaban las aulas de las primeras escuelas lasalianas. A lo largo de


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sus páginas, el Señor de La Salle parece dirigirse a gente de su propio nivel social: urbano y de una cierta cultura; como es obvio, si se mueve con tanta soltura en estas cuestiones es porque trata de asuntos que, por propia experiencia, conoce a la perfección. Es como si el Santo de Reims quisiera extender la manera concreta de comportarse que él mismo había aprendido en su familia a todos los alumnos de sus escuelas, de extracción urbana como él, aunque la mayor parte de ellos pertenecientes a niveles sociales muy diferentes del suyo. Más tarde, con el paso del tiempo, los cambios alcanzaron al propio contenido del libro, que sufrió algunas transformaciones sustanciales. Así, se adaptó al mundo de las niñas, y hasta el propio Instituto de los Hermanos, según evolucionaban las modas y exigencias sociales, fue introduciendo en él ajustes progresivos, tanto para agilizar el estilo como para poner al día su contenido, que desfiguraron un tanto el texto originario, aunque sin enmascarar del todo sus raíces de proveniencia y buena parte de su tronco y ramaje. Las Règles de la bienséance et de la civilité chrétiennes no son, ni mucho menos, el único libro de cortesía conocido por aquella época. Al contrario, desde que Erasmo de Rotterdam abriera la veda en 1526 con la redacción y publicación del primero, los tratados de urbanidad habían ido cobrando interés entre las clases más altas de las sociedades europeas. En tiempos del Señor de La Salle circulaban por Francia unos quince, de los que dos o tres gozaban incluso de una cierta popularidad entre las capas cultivadas. De La Salle se inspiró claramente en ellos, ya sea en cuanto a contenido, ya en el estilo y forma de expresarse o en el esquema general elegido para organizar la obra. Nuestro autor no intenta en absoluto camuflar este hecho, entre otras cosas porque, por aquel entonces, el plagio no preocupaba para nada a los escritores; pero, de poder consultarle la cuestión, es muy probable que se hubiera mostrado convencido de haber compuesto una obra original. Porque, en los tratados de cortesía y urbanidad que conocía, seguro que Juan Bautista de La Salle echaba de menos algo que para él resultaba primordial, indispensable: alguna razón de fondo importante para comportarse según se proponía en los libros y no de manera más grosera. Y, como es natural, para nuestro Santo esta razón fundamental no podía ser otra que la fe. En este sentido, la gran aportación lasaliana al mundo de las reglas de urbanidad y cortesía es su fundamentación cristiana, que les da una peculiaridad innegable, como atestigua sin esfuerzo la presencia del adjetivo chrétiennes en el mismo título de la obra. Y es que para Juan Bautista de La Salle actuar en público como se debe es una consecuencia evidente de la caridad cristiana, una manera concreta de amar al prójimo, de respetarlo, de hacerle ver con obras que para nosotros cuenta y es importante. Por ello, desde las páginas del libro se pondrá en guardia al lector para que evite en sus actos las intenciones viles, para que nunca deriven éstos de la falsedad o la doblez, para que se alejen de toda hipocresía, vicio tan extendido en ciertos ambientes sociales de la época que algunos manuales del género lo presentaban


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como perfectamente aceptable y normal. Para el Señor de La Salle, en cambio, la hipocresía se compadece muy mal con la fe cristiana ya que es contraria a las propuestas evangélicas, que son las que debieran inspirar la vida entera del creyente. No a la hipocresía, por tanto, y un sí muy grande al amor cristiano, con lo que las Règles de la bienséance et de la civilité chrétiennes entran de lleno en los fines evangelizadores de la escuela de los Hermanos. Juan Bautista de La Salle, al que se suele calificar a menudo - con alguna razón - de escritor denso y hasta en muchas ocasiones monótono y pesado, logra, sin embargo, en esta obra, adaptarse al auditorio al que va dirigida y expone los distintos hechos y sus circunstancias con gran claridad, evitando los párrafos demasiado largos que caracterizan otras obras suyas, mostrándose concreto y minucioso, sin rehuir en ningún momento la crudeza de ciertos temas por lo demás ineludibles en este terreno, como los modos de comportarse en la mesa, la higiene personal, la suciedad indumentaria, o los escupitajos, mocos y demás. Analizando globalmente su obra completa - y no solamente la escrita -, algunos expertos en temas lasalianos descubren en el Señor de La Salle una personalidad muy original, en la que se concitan, en extraña mezcla, varias características muy distintas entre sí. Porque, por un lado, La Salle parece muy tradicional, hasta extremadamente conservador, sobre todo cuando se refiere a ciertas cuestiones de costumbres y religión, mientras que desde otros puntos de vista más prácticos se muestra como un adelantado a su tiempo, un auténtico enciclopedista que actúa como tal bastantes décadas antes de que esa manera de plantear la vida, basada en la organización, la observación de la realidad, la experimentación de nuevas técnicas, el método de ensayo y error, etc., se abra un hueco destacado en la historia occidental. Aunque puede que en algunas obras suyas estos planteamientos no aparezcan tan claros, el libro de las Règles de la bienséance et de la civilité chrétiennes es un ejemplo nítido de lo acertado que resultan en otras ocasiones. Porque si atendemos a la presentación de la sociedad y a las concepciones sociales que se vislumbran en sus páginas - la estricta división de la sociedad en grupos sociales inamovibles; el respeto y acatamiento que cada cual debe al nivel social en que su nacimiento le ha colocado, manifestación evidente de la voluntad de Dios sobre él; la indiscutible sumisión de los artesanos a los nobles, independientemente de la riqueza de la que cada cual pueda hacer gala; las nulas posibilidades de que los miembros de las capas más bajas consigan progresar en la escala social, por más dinero que atesoren o matrimonios traten de arreglar; etc.-, resulta del todo evidente que a nuestro autor ni se le pasa por la cabeza que la organización social en la que él mismo se había criado pudiera ser alterada lo más mínimo, o incluso que fuera pertinente intentarlo, aunque personalmente hubiera renunciado a sus prerrogativas sociales y religiosas para irse a vivir con y como sus Hermanos, gente de una categoría social muy inferior a la que por nacimiento pertenecía su fundador. Pero, al mismo tiempo, en el planteamiento fundamental de sus escuelas, que pretendían formar a los alumnos


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modestos en áreas que, de acuerdo con los usos sociales de su tiempo, se alejaban por completo de lo estrictamente necesario e, incluso, de lo conveniente y prudente; en la opción por un método pedagógico tan alejado de lo que por entonces se estilaba; en el escalonamiento minucioso de sus objetivos educativos; en la utilización del libro como medio para el aprendizaje simultáneo de la lectura y de los buenos modales; en el contenido mismo del texto, que por aquellas fechas pocos considerarían adecuado al tipo de alumnos que frecuentaban las aulas lasalianas, etc., nuestro autor aplica con mucha antelación no pocos principios de los que, casi un siglo más tarde, promoverían en Occidente un sinfín de cambios trascendentales de todo tipo, cuyo pistoletazo de salida se suele asociar con la Revolución Francesa. Lo dicho: una curiosa mezcla que, contra todo pronóstico, en ningún momento chirría. El paso del tiempo ha sido inmisericorde con los contenidos de cortesía y urbanidad de las Règles de la bienséance et de la civilité chrétiennes. Hoy vivimos en otra época, en la que los consejos de Juan Bautista de La Salle en relación con estos temas pueden sonar a curiosidad histórica e incluso a extravagancia y ridículo. Ahí han quedado, no obstante, inalterados, como testigos mudos, pero elocuentes, de las costumbres y criterios de aquella gente. Aunque, a la hora de valorar estas cuestiones, lo más sensato es andar con cierto cuidado; porque si las reglas de cortesía de los siglos XVII y XVIII son hoy anacrónicas y remiten inmediatamente a unos tiempos del todo caducos y olvidados, en los que la sociedad vibraba con asuntos en las antípodas de los que hoy nos preocupan, en el fondo del libro late una preocupación pedagógica que sigue conservando gran parte de su vigor. Ese afán por educar al niño de manera integral, por ejemplo, y no sólo a base de llenar su cabeza de datos más o menos interesantes. O la preocupación constante por adaptar los contenidos de la enseñanza, las técnicas educativas y los materiales didácticos a las necesidades concretas que encontrarán los escolares en la sociedad, cuando les toque ganarse la vida en ella. O las invitaciones permanentes que se lanzan a los padres para que tomen en serio la educación de sus retoños en todos los aspectos de su existencia, incluidos los aparentemente más intrascendentes. Desde este punto de vista menos literal, en una sociedad como la nuestra, que con frecuencia vacía la pedagogía de muchos de sus componentes humanistas de base y la deja en demasiadas áreas huérfana de abundantes dosis de sentido común, las Règles de la bienséance et de la civilité chrétiennes mantienen, y hasta han dilatado, buena parte de su interés pedagógico y didáctico. Decíamos más arriba que para encontrar el libro más exitoso de Juan Bautista de La Salle parecía lógico rebuscar entre sus obras religiosas o escolares. Es la mejor opción, sin duda, porque lleva además, de hecho, a los resultados apropiados. Y es que, desde los ángulos que hemos expuesto, las Règles de la bienséance et de la civilité chrétiennes son una obra que pertenece por derecho propio a ambas categorías al mismo tiempo; no en vano se trata de un libro escolar que intenta enseñar a los alumnos, no sólo los secretos de la lectura más enrevesada, sino también el arte de


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la relación social, que es una forma importante de caridad cristiana; también es, por tanto, catequesis, formación humana y cristiana a un tiempo. Educación integral, en definitiva, que incluye, como no podía ser menos, el cultivo de las dimensiones trascendentes, sin caer para nada en el adoctrinamiento. Un pequeño tesoro pedagógico, en definitiva, si el lector es capaz de saltar por encima de sus anacronismos y extravagancias para llegar a su meollo educativo y catequístico fundamental, cien por cien lasaliano.



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San Gabriele scolaro GABRIELE DI GIOVANNI

I

l rapporto tra san Gabriele dell’Addolorata1 e i Fratelli delle scuole cristiane è stato affrontato con una certa precisione anche in precedenza2. Il taglio però che si intende dare a questo breve studio è diverso: non si vuole tanto illustrare la pedagogia lasalliana, né verificare come essa abbia influito sulla formazione cristiana ed umana del giovane Francesco. Diamo per presupposto che essa ci sia stata, ma per certificarla in modo non dozzinale occorrerebbe conoscere bene e la spiritualità di San Gabriele e quella del mondo lasalliano. Chi scrive ha una qualche competenza sulla seconda, ma non conoscenze approfondite sulla prima: questo confronto resta per chi scrive un cantiere aperto, nella speranza di avere tempo e modo di chiuderlo, sempre che altri non vogliano impegnarsi. Inoltre rispetto ai primi confronti operati, molta strada credo sia stata fatta sia sul versante lasalliano che in quello passionista nel recupero delle rispettive memorie, e si sa che scavando inevitabilmente vengono a galla elementi nuovi che costringono a ripensamenti ed ad aggiustamenti rispetto alle valutazioni primitive. C’è poi da tenere presente che nella vita e nella vocazione di Francesco certamente qualche responsabilità/merito è da ascrivere sul conto della Compagnia di Gesù3. Per queste ragioni queste pagine hanno dunque il sapore di un primo approccio e

Per stilare queste brevi note ho fatto riferimento agli archivi, peraltro manchevoli, della ex Provincia romana dei Fratelli delle scuole cristiane (APR), recuperati solo in parte e anche qui con ampi vuoti dall’archivio della Casa Generalizia (ACG) dei Fratelli delle scuole cristiane. 2 Cfr. C. A. Naselli, “Gli studi elementari di Francesco Possenti a Spoleto”, in San Gabriele dell’Addolorata e il suo tempo. Studi, ricerche, documentazione, Ed. Eco, Teramo 1983, pp.111-142. 3 Anzi questo è un legame che presenta vari aspetti interessanti: facilmente si facevano le elementari dai Fratelli e le superiori dai Gesuiti, almeno nelle aree di cultura francese e finché i Fratelli non si sono dedicati anche alla scuola superiore. È ad esempio il caso di un de Lubac (Francia) e di un Lonergan (Canada). 1


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Gabriele Di Giovanni

nascono dalla volontà di provare a descrivere, in forma semplice ed addirittura immaginifica, come dovesse essere una giornata di scuola del giovanissimo Francesco4. Infine i motivi che reggono queste pagine. Sono motivi personali (sono Fratello delle scuole cristiane e non a caso mi chiamo Gabriele), che per questo potrebbero essere trattati alla stregua di private curiosità, ma anche motivi più sostanziali, collegati direttamente al mondo lasalliano cui appartengo. Oggi si parla facilmente di “emergenza educativa”5: come è accaduto che la scuola cristiana abbia in qualche modo fatto crescere dei santi? Ed oggi ancora ci riesce? Dovrebbe farlo sempre, si dirà, stante la sua natura: ma sappiamo che non è così semplice. E si possono addurre molte ragioni. Tuttavia in un caso almeno, quello di Francesco/Gabriele, questo è avvenuto, il che mette in crisi e costringe ad interrogarsi su molta pratica educativa anche buona, ma che non porta a risultati “possibili”, visto che sono avvenuti. Inoltre, fino a qualche tempo fa, la memoria liturgica di san Gabriele dell’Addolorata compariva nel proprio dei Fratelli delle scuole cristiane; oggi il “proprio” si è molto arricchito di figure di Fratelli santi e beati e la memoria di san Gabriele è, forse giustamente, passata in secondo piano. Chi scrive crede al contrario che essa mantenga un alto valore esemplare per chi si dedica all’educazione dei giovani. Mette infatti, una volta tanto, l’accento sul risultato della educazione, che è certamente un investimento a lungo termine e che non compete al seminatore valutare, ma che comunque deve esserci, almeno come speranza di fede.

Introduzione Date certe non se ne hanno. Così come non ho trovato documenti diretti della presenza del piccolo Francesco Possenti nella Scuola cristiana di Spoleto. La vita quo-

4 T. P. Zecca, nell’agile biografia Gabriele dell’Addolorata, Paoline, 2008, p. 16, ce ne fornisce questo ritrattino generale: “Con i fratelli e con gli amici il suo ardore di ragazzo appassionato alla vita ebbe modo di rapportarsi nel modo giusto, anche se come temperamento era vivacissimo e portato all’eccesso. Da ragazzino, mentre giocava con i fratelli, si ruppe il setto nasale, per questo gli affibbiarono il soprannome di “naso storto”. Ci viene detto infatti che era molto vivace, nonché soave, gioviale, insinuante, insieme risoluto e generoso. Non si tirava mai indietro. Prendeva fuoco facilmente anche se poi, dagli effetti e reazioni degli altri, accorgendosi di aver fatto qualcosa di male, subito rimediava. Aveva un cuore sensibile ed affettuoso. Insomma sapeva stare in compagnia.” 5 È il tema in primo piano in questi nostri tempi. Mi limito ad indicare il recente volume a cura del Comitato per il Progetto culturale della Cei, La sfida educativa, Laterza, Roma-Bari 2009. 6 Abbiamo un registro delle spese, ma si riferisce agli anni 1859 e successivi (APR classificato con il n. 23) quando ormai la scuola di Spoleto si stava chiudendo in conseguenza delle mutate condizioni storico politiche.


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tidiana non ha lasciato molte tracce negli archivi della Provincia romana FSC6. Resta qualche traccia invece degli eventi straordinari. Ad esempio nell’inverno del 1848, precisamente il 27 febbraio, il direttore della casa di Spoleto, fr. Massimo, scriveva al Vicario del Superiore generale7, che la situazione era precipitata e che i Fratelli erano stati costretti ad andarsene ed anche il modo piuttosto sbrigativo8. Francesco aveva 10 anni: forse aveva già terminato la scuola elementare. Anno caldo il ’48 per tutto lo Stato Pontificio: e i problemi dureranno anche nel ‘49. Appena cinque anni prima le cose erano molto diverse: il Municipio di Spoleto notificava, con data 28 gennaio 1843, al direttore fr. Tommaso di aver approvato alcune richieste economiche (50 scudi una tantum e l’aumento da 180 a 200 scudi l’annuo assegno che la municipalità di Spoleto versava alle scuole cristiane a partire dal primo gennaio dell’anno in corso, 1843)9. Francesco non aveva compiuto i 5 anni. Il 9 febbraio 1842 gli era morta la mamma. Due date, 1843 e 1848: cinque anni scolastici. Quelli in cui probabilmente (non tutti) il giovane Francesco ha frequentato la scuola primaria: la nostra ipotesi, stante l’organizzazione delle classi a Spoleto è dal 1844 al 1848. Di certo abbiamo in questo periodo, solo il nome del direttore della scuola: fr. Tommaso e quello di fr. Pietro, Cini Giuseppe, a Spoleto dal 1839 al 1845, insegnante della seconda classe10. Qualche altro nome siamo riusciti a rintracciarlo, ma non abbiamo elementi per collegarlo in modo diretto al giovanissimo Francesco.11 I Fratelli avevano aperto la scuola di Spoleto nel 1825: vi erano giunti l’anno precedente. La tennero fino al 1863, quando le mutate condizioni geopolitiche (la fine dello Stato Pontificio e l’inizio del Regno d’Italia) portarono alla sua chiusura (come di moltissime altre scuole). Il 27 febbraio del 1862, Gabriele aveva raggiunto il cielo. Era stato personalmente Leone XII, nato a Fabriano, ma che si era sempre considerato spoletino, a volerli nella sua città, per l’educazione dei maschietti, insieme alle Maestre Pie per le bambine12. Per loro aveva riservato il palazzo di

Al Vicario e non al Superiore generale perché all’epoca i Fratelli italiani, a partire dalle vicende della Rivoluzione francese che avevano disperso l’Istituto in Francia, dipendevano direttamente dal Papa attraverso un Vicario. Su questo le brevi linee di Ugolino Giuseppe Ferranti, I Fratelli delle scuole cristiane nello Stato Pontificio dal 1700 al 1870, Roma 1981. 8 Lettera autografa del direttore fr. Massimo in un faldone dell’ACG ND492,1 dossier 8 9 Lettera autografa n. prot 2369 della Delegazione apostolica di Spoleto (ACG ND 492,1, dossier 8) 10 All’epoca la “continuità didattica” non era data dallo stesso maestro presente per tutta la durata degli studi. Piuttosto i maestri si specializzavano in una classe: la continuità era garantita dal progetto educativo comune e dallo stile didattico simile. 11 Ho rintracciato un Clementino, un Raffaele e sicuramente per il 1848/49 un Antonino di Maria che aveva appena 22 anni e curava la classe superiore cioè la quarta. 12 Situazione peraltro verificatasi anche altrove ad esempio nella Scuola Cybo di Castelgandolfo, ora «Scuola Paolo VI», la cui fondazione risale al tempo di Pio VII. Anche in questo caso Fratelli non sono più presenti nella scuola tutt’ora funzionante. 7


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famiglia, il palazzo della Genga13, insieme ad una cospicua dote (700 scudi annui) proveniente dalla Commenda della Madonna delle Macchie, nella diocesi di Camerino, che gli era stata conferita mentre era ancora nunzio apostolico. La Madonna delle Macchie era una antica abbazia benedettina riorganizzata sul finire del sec. XVI. Ma evidentemente i soldi non sempre erano sufficienti e si faceva ricorso alla municipalità. A tutti gli effetti la Scuola cristiana di Spoleto era una scuola statale, anche se lo Stato era quello pontificio. Francesco dunque la frequentò per qualche anno, insieme ad una media di altri duecento giovani spoletini. “Qualche anno” perché le scuole cristiane di allora non avevano un programma di studi identico a quello che abbiamo noi oggi. Di fatto si componevano di due classi: una per i principianti, un’altra per i ragazzi più avanzati. In concreto però quasi sempre si avevano tre classi o quattro, come a Spoleto. In qualche caso anche cinque. Il numero degli alunni per classe era vario, ma comunque enorme per la nostra sensibilità moderna. In un anno immediatamente successivo a quelli considerati ne abbiamo nelle classi di Spoleto rispettivamente 45, 52, 60, 82. E credo che questa fosse la media abituale. L’organizzazione della giornata era ferrea: e non poteva essere diversamente con un numero di alunni così elevato e per noi oggi, improponibile. E lo strumento di uniformità delle Scuole cristiane era la Conduite des écoles, costantemente rivista dal tempo del fondatore Giovanni Battista de La Salle14. In particolare il Capitolo generale del 1837 ne aveva approvato una profonda revisione, pubblicata in Italia nel 184415, in pratica quando il giovanissimo Francesco cominciava a varcarne la soglia. Scorrendola possiamo avere una idea di come dovesse essere la giornata scolastica di Francesco e non solo: nella Norma sono indicati esercizi, preghiere, atteggiamen-

Ora Palazzo Pucci della Genga. Oggi potremmo intenderla come un testo a metà tra una introduzione alla Pedagogia generale e un manuale di Didattica generale, ma è anche qualcosa di più, perché si occupa della formazione dei nuovi insegnanti. Il riferimento autoriale del testo è La Salle, ma le ricerche storiche hanno dimostrato che le due versioni della Conduite fatte con La Salle vivente hanno avuto il concorso diretto dei migliori maestri tra i Fratelli. Sulla Conduite lasalliana essenziali gli studi di L. Lauraire, La Conduite des écoles. Approche contextuelle, Roma 2001 (CL 61) e La Conduite des écoles. Approche pédagogique, Roma 2006 (CL 62). Successivamente la Conduite è stata riscritta più volte recependo l’evolversi della riflessione pedagogica per fermarsi all’inizio del secolo XX. Ma questa è un’altra storia. Da notare però che modificandola anche in profondità, adeguandola alla evoluzione pedagogica, i Fratelli non hanno mai pensato di togliere il riferimento a La Salle: hanno sempre considerato di muoversi nella tradizione. 15 Norma delle scuole cristiane del venerabile De La Salle, Torino 1844 dalla Tipografia Mussano (d’ora in avanti: N, seguita dal numero di pagina). La più antica traduzione italiana (anonima e manoscritta) risale però al 1782: cfr. ACG, BM 651/5, d. 4. 13 14


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ti sia degli alunni sia dei loro educatori. Sicuramente Francesco ha recitato le preghiere che indicheremo e compiuto le attività e gli esercizi proposti16.

Una giornata di scuola Le lezioni si svolgevano la mattina dalle 8 alle 11,00 e nel pomeriggio, dalle 13,30 alle 17,00. La lunga pausa del pranzo toglieva il problema della organizzazione della ricreazione e della refezione: e alla fine i ragazzi erano più liberi di muoversi e giocare di quanto possano farlo oggi. Veniva dato molto spazio alla lettura (serviva anche come spiegazione/studio delle diverse materie) e alla scrittura; l’aritmetica per lo più si insegnava nel pomeriggio. Certamente i contenuti dei programmi erano molto ridotti rispetto ad oggi (leggere, scrivere e far di conto) e si badava molto a sviluppare la capacità della memoria (da qui l’insistenza sul “ripetere le lezioni”), senza tuttavia venir meno alla necessaria comprensione dei contenuti appresi. Ogni giorno veniva celebrata la santa Messa al mattino17 e si faceva il catechismo a chiusura della giornata: è questa una caratteristica della scuola cristiana su cui torneremo tra breve. Il giovedì era vacanza, a meno che ci fossero feste infrasettimanali18. Si dava inoltre vacanza anche un pomeriggio durante la settimana, abitualmente il martedì. Le vacanze estive duravano un mese e la loro collocazione dipendeva dalle esigenze locali. In questo periodo i Fratelli facevano il loro ritiro di otto giorni19. La divisione delle classi non era fatta in base alla età, ma in base ai livelli di conoscenze possedute. Ogni disciplina infatti era divisa al suo interno da una rigida classificazione funzionale anche all’apprendimento20. Il possesso di livello opportunamente e costantemente valutato segnava il passaggio al livello successivo, anche nel corso dell’anno. E questo era il motivo che i più bravi e capaci potevano concludere la scuola in due anni. Ma forse non è stato il caso di Francesco, probabilmente troppo vivace per applicarsi con costanza. Di questa continuità nella tradizione fa fede la mia diretta testimonianza: molte delle cose indicate erano ancora applicate e con successo, quando ho frequentato le elementari presso le Scuole cristiane a metà degli anni ’60 sotto un maestro d’eccezione a cui rendo qui un grato e venerato omaggio, fr. Servilio Angelo Bernardini. 17 Essendo celebrata in latino ai ragazzi venivano distribuiti dei rosari e si recitava il rosario. Tuttavia La Salle ha scritto una serie di preghiere per accompagnare tutti i momenti della santa Messa. Cfr. J.B. de La Salle Opere, vol. V: Istruzioni e preghiere, Roma 2005, pp. 94-110. 18 E ce ne erano molte, collegate soprattutto alle tradizioni religiose dei diversi luoghi: per quanto paradossale si era più flessibili quando esistevano norme rigide… 19 Per questo ritiro annuale La Salle ha scritto una specifica serie di meditazioni (16 per l’esattezza, una per il mattino, l’altra per il pomeriggio) che rappresentano la summa della sua riflessione e contengono una vera teologia della educazione, assolutamente attuale. Cfr. J.-B. de La Salle, Meditazioni per il tempo del ritiro…, in Opere, II: Scritti spirituali/2, Roma 1999, pp. 743-820. 20 Era la modalità in cui le Scuole cristiane applicavano il principio pedagogico della gradualità: un po’ per volta, costantemente, premiando ogni piccolo passo in avanti compiuto. 16


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Il metodo adottato viene definito dalla stessa Norma21 simultaneo – mutuo: simultaneo, perché si insegnava a più alunni per volta, mutuo perché anche i ragazzi migliori venivano coinvolti nell’insegnamento, in qualità di “decurioni”, incaricati di far recitare le lezioni agli altri, oppure di “ripetitori” incaricati di proporre una lista di domande standard su alcune materie come la geografia22. Ma agli “incarichi” nella scuola lasalliana dedicheremo un paragrafo a sé stante: sicuramente Francesco ne avrà ricoperti alcuni (quelli che richiedevano di muoversi), se non tutti. Nelle Scuole Cristiane paradossalmente deve regnare il silenzio. Le Scuole Cristiane non ammettono schiamazzi. Tutto deve essere fatto con moderazione, a bassa voce, con ordine. Il maestro stesso è formato a parlare solo quando è necessario: per il resto ci sono i ripetitori e tutta una serie di segnali sonori23 che sostituiscono i comandi abituali (alzarsi, sedersi, il prossimo nel leggere, recitare, andare avanti, fermarsi…)24. Spazio inoltre veniva dato ai rapporti con i genitori degli alunni25: in una realtà in cui l’obbligo scolastico era una normativa ancora da inventare, a scuola si andava per scelta. E questa in genere comportava la scelta volontaria sia dei genitori che degli alunni stessi. Per questo si cercava di mantenere il contatto con la famiglia già al momento della iscrizione, perché i genitori fossero consapevoli della importanza della scuola e soprattutto ne condividessero le metodologie. In particolare in sede di presentazione e della scuola e degli alunni, si insisteva con i genitori sulla opportunità della correzione: è infatti questo un aspetto che se non viene condiviso dalla famiglia rende praticamente impossibile qualunque forma di educazione. Correggere non significa punire, significa riorientare, far svolgere una seconda e una terza volta un esercizio, richiamare all’ordine se necessario. Significa assumere realisticamente la dimensione dell’umano che non è perfetta, ma che è perfettibile con l’aiuto della grazia e l’impegno di ciascuno. Si arriva a dire nelle Scuole Cristiane che se manca questa collaborazione con le famiglie è meglio che i ragazzi tornino a casa. Ed in altre circostanze che siano i genitori stessi a prendere i giusti provvedimenti del caso. Con Sante Possenti, padre di Francesco crediamo che le cose andarono nella prospettiva della collaborazione26. Propongo, aggiustandolo nel linguaggio, l’orario indicato dalla Norma (N 1 -6) divi-

Cfr. nota in N VII Oggi lo chiameremmo una sorta di cooperative learning. Cfr. M. Bay (a cura di), Cooperative learning e scuola del XXI secolo, Roma 2008. 23 Si utilizzava un particolare strumento, il segnale, che consisteva in due pezzi di legno, uno più grande e l’altro più piccolo, che legati insieme permettevano di ottenere un piccolo rumore. 24 Naturalmente tutte queste indicazioni possono essere interpretate in maniera affatto diversa, come un meccanismo di controllo. È quanto ha fatto M. Foucault in Sorvegliare e punire, Torino, 1976. 25 Mi rifaccio al bel saggio di E. Costa, I genitori degli allievi nel pensiero e nella esperienza educativa di G. B. de La Salle, in Rivista lasalliana, LIX (1992) 1, 16-35, ripreso in traduzione francese nei Thèmes lasalliens, II, 130-140. 21 22


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so nelle tre classi che vengono indicate nel testo. Ricordo che a Spoleto c’erano quattro classi: il che comportava una diversa disposizione del programma, ma non una differenza sostanziale di orario. Utilizzo uno schema. In neretto i momenti di preghiera27.

Classe Maggiore o Prima 7,30 – 8,00

8,00

9, 45 10,45 Osservazioni

13,00- 13,30

14,45 16,00 Osservazioni

Apertura della scuola28 - Ingresso a scuola Ripasso personale delle lezioni Recite ai decurioni Santa Messa Preghiera dell’inizio della scuola Recita delle lezioni assegnate e/o verifica del lavoro dei decurioni Lettura Lettura dell’esercizio ortografico del giorno precedente Dettatura Preghiera del mattino Chi finisce di recitare la lezione fa il disegno lineare29, altrimenti studiano fino alle 9,45 Nei primi tempi invece di dettare (può farlo il maestro o un alunno) si faranno esercizi di scrittura. Qualcuno alla lavagna sarà seguito dai più bravi. Il mercoledì lettura insieme fino alle 9,45, quindi dettato ortografico, raccolta dei compiti e verifica dei quaderni dei verbi.

Rientro a scuola Preghiera dell’inizio della scuola Recita delle lezioni e/o verifica del lavoro dei decurioni Aritmetica Scrittura Catechismo Il Direttore può decidere nei giorni caldi di sostituire l’esercizio di scrittura del pomeriggio con quello di ortografia della mattina Il martedì, per coloro che lo studiano, invece dell’aritmetica si spiegano i principi del disegno lineare; gli altri rispondono alle domande di geografia fatte dai “ripetitori” Nei giorni che precedono le vacanze si termina l’aritmetica alle 14,30 per scrivere. A dicembre, gennaio, febbraio non ci sarà aritmetica

Cfr. L. Ravasi, Sante Possenti Padre di San Gabriele dell’Addolorata, Ed. Fonti Vive, Roma, 1972, il capitolo dedicato a “il padre di famiglia”, pp. 161-173. 27 Sono perfettamente cosciente che la Norma indica il “dover essere” non la pratica effettiva: tuttavia l’attività scolastica era sottoposta a verifica periodica e dunque almeno tendeva alle indicazioni fornite dalla Norma. 28 Della chiave della scuola era incaricato un ragazzo che viveva nelle vicinanze: la scuola non era dei Fratelli, era di tutti. Tutti quindi erano invitati ad averne cura. 29 Si intende lo studio della geometria piana e solida di cui si dovevano disegnare le figure. 26


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Classe seconda 7,30 – 8,00

8,00

9,00 10,00 10,30

13,00- 13,30

14,00 14,30 15,15 16,00 Osservazioni

Apertura della scuola - Ingresso a scuola Ripasso personale delle lezioni Recite ai decurioni Santa Messa Preghiera dell’inizio della scuola Recita delle lezioni assegnate e/o verifica del lavoro dei decurioni Lettura Scrittura Ortografia Preghiera

Rientro a scuola Preghiera dell’inizio della scuola Recita delle lezioni e/o verifica del lavoro dei decurioni Aritmetica Lettura Scrittura Catechismo A novembre dicembre, gennaio, aritmetica solo per un quarto d’ora, e mai nei giorni prima delle vacanze

Terza classe 7,30 – 8,00

8,00

9,00 10,45

13,00- 13,30

14,00 16,00 Osservazioni

30

Apertura della scuola - Ingresso a scuola Studio delle preghiere e del catechismo Recite ai decurioni Santa Messa Preghiera dell’inizio della scuola Recita delle preghiere e del catechismo Lettura Preghiera

Rientro a scuola Preghiera dell’inizio della scuola Recita delle preghiere e della lezione di catechismo Lettura Catechismo Alla vigilia delle vacanze, per mezz’ora si faranno recitare le preghiere a tutti, uno alla volta, per verificare se le conoscono; poi si farà il catechismo sopra i principali misteri30

Si intende il catechismo sulle verità contenute nel Credo, che era la sintesi dell’intero catechismo.


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La semplice scorsa dell’orario permette di notare che l’aspetto religioso nelle Scuole cristiane era preponderante31 ed in qualche modo copriva tutta la giornata scolastica. È di particolare interesse rilevare che il catechismo occupava l’ultima ora di ogni giorno di scuola32. Nota a questo proposito la Norma: “Quel silenzio che gli è ingiunto (al maestro ndr) durante la scuola, par che siagli imposto per dar maggior nervo alle sue parole durante il catechismo” (N 101). In effetti il catechismo è lo scopo primario ed essenziale delle Scuole Cristiane. Una consapevolezza che deve avere il maestro per primo: “Un maestro che perfettamente intende la vocazione sua alle scuole cristiane, sarà di leggeri persuaso, che un’arida ripetizione del catechismo non basterebbe a formar la gioventù alla scienza della religione: egli farà dunque uno studio profondo della morale e delle massime di Gesù Cristo, affinché, essendone egli stesso ben penetrato, possa istruirne quelli, la cui educazione gli ha il divin Padre di famiglia commesso” (N 102). E la riflessione non si ferma qui: “È che si vuol dunque preferire lo studio del catechismo a ogni altra cura; convincersi innanzi a Dio, che questa scienza dee tenere il primo posto nell’acquisto delle cognizioni, che un fratello dee possedere; che la scrittura, l’aritmetica, ecc. non sono che accessori al fine principale del nostro stato, e che senza trascurarle, perocch’ell’entrano nelle mire della Provvidenza, non si vuol mai sacrificare il più stretto de’ suoi doveri al desiderio di riuscir buono scrivente, o buon aritmetico, ecc. Egli è necessario prepararsi ognidì al catechismo che si dee fare, per posseder bene la sua materia, preveder le pratiche che potranno esserne il frutto, cosicchè sendo previsto ogni cosa, non s’esca di tema, e che un si esprima bene e con chiarezza, senza stendersi in riflessioni inutili” (N 103).33 In effetti i Fratelli sono stati per molto tempo “maestri del catechismo”, non quello svolto per ricevere i sacramenti, compito dei parroci, ma quello che poteva farsi in classe. Il catechismo dei sacramenti è, per usare una terminologia didattica, una sorta di preparazione prossima; quello svolto in classe ha una funzione di preparazione remota. Infine a quelli indicati nello schema, occorre aggiungere due/tre altri esercizi/pratiche di natura religiosa distribuite nell’arco della giornata, che, lungi dall’essere pra-

È la definizione loro assegnata da Pio X. Cfr. J. M. Pérez Navarro, “Apostoles del Catecismo” in Rivista lasalliana 74 (2007) 2, 145-157. Per certi versi ancora lo sono e se ne occupano in forme diversificate pubblicando riviste di diverso spessore come Sinite in Spagna e Sussidi per la catechesi in Italia. 32 Ma era anche la prima lezione di ogni anno scolastico: in pratica dava il “la” a tutta l’attività scolastica. 33 L’indicazione può tranquillamente servire ai predicatori. 31


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tiche religiose minori, scandiscono uno stile e che pertanto ancora oggi vengono praticate in tutto il mondo lasalliano34. – La pratica della “presenza di Dio”. Al suono della campana (tutte le mezz’ore) un ragazzo incaricato, si alzava in classe ed a voce alta diceva - Ricordiamoci che siamo alla santa presenza di Dio. Tutti gli altri rispondevano: Adoriamolo. Seguiva un breve momento di silenzio per compiere un breve atto di fede relativo alla presenza di Dio. Quindi continuava il lavoro scolastico. – La “riflessione” del mattino: poche parole del maestro per centrare un argomento, indirizzare la preghiera, formare la mentalità cristiana, aiutare a formarsi un giudizio sul mondo e sulle cose che in esso vi accadono. – Le giaculatorie, in particolare il saluto lasalliano classico: - Viva Gesù nei nostri cuori!, a cui si rispondeva - Sempre!, che scandiva vari momenti della giornata.

Gli “incarichi” La pratica di assegnare a scuola degli incarichi ai ragazzi è tipica delle Scuole Cristiane: non che altri non lo facciano. Nella Scuola Cristiana è però una scelta pedagogica. Oggi diremmo che sviluppa il protagonismo dei giovani e crea una appartenenza. Una volta semplicemente pensavano che fosse un modo efficace per tener buoni ed occupati quelli più vivaci e che non riuscivano a stare fermi e per far riposare il maestro, alle prese con una caterva di alunni. Per mia esperienza personale (ho avuto incarichi da alunno e ne ho assegnati da maestro), posso dire che poche cose fanno diventare la scuola una cosa propria come avere degli incarichi in essa. In effetti gli “incarichi” avevano una struttura istituzionalizzata e non erano assegnati a caso: erano pubblici ed ufficiali, richiedevano l’approvazione esplicita del Direttore della scuola ed erano riconoscimento di una maturità raggiunta ed una forma di educazione alla responsabilità. Attenzione: stiamo parlando di ragazzini delle elementari, non di liceali o di giovani universitari35. “V’avrà per le scuole più officiali per fornir quelle varie veci, che i maestri non possono o non debbono fornire da sé; questi offici verran nominati dal fratel Direttore unanimemente col Maestro.

Dalla qual cosa discende che su di esse si continua a scrivere e a riflettere. Ad esempio la pratica della “presenza di Dio” è stata oggetto di una riflessione di J. Goussin, Une pratique lasallienne: la présence de Dieu, Cahiers MEL 21, Casa Generalizia, Roma 2005. 35 Con i più grandi in Italia citerò la bella esperienza del convitto universitario Villa San Giuseppe in Torino, dove attualmente l’amabile fr. Igino Trisoglio riesce praticamente da solo a gestire oltre cento giovani universitari, grazie alla loro diretta collaborazione nei più svariati ed umili impegni relativi alla casa e alla organizzazione degli studi. Ad esempio le matricole vengono assegnate a qualcuno dei più grandi che le segue e le indirizza, fino a svolgere ripetizioni di argomenti, se serve. 34


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Potrann’essere rinnovati ogni mese per tener viva certa emulazione36, che li reca bene sdebitarsi delle parti del loro ufficio…” (N 199). In effetti la pratica di assegnare incarichi creava nella scuola un clima di famiglia e consentiva di far proprio idealmente, l’ambiente scolastico: non dimentichiamo che all’epoca non c’era l’obbligo di andare a scuola. I ragazzi venivano solo se erano contenti. E se avevano incarichi erano anche obbligati a venirvi per primi37. Dunque gli incarichi indicati dalla Norma sono i seguenti: – i recitatori delle preghiere; – il porta aspersorio: arriva in chiesa prima degli altri, raccoglie l’acqua benedetta dalla pila e la porge agli altri; – i porta rosari; – l’incaricato del campanello, all’epoca della campana; – i vigilanti: sostituiscono i maestri quando questi sono costretti ad assentarsi e “a essere de’ suoi condiscepoli il modello”; – i decurioni e i ripetitori; – i controllori dei compiti assegnati come punizione (per lo più pagine da copiare); – i pulitori: la pulizia e l’igiene delle classi era garantita dai ragazzi; – il portiere che apre la scuola, ma svolge anche la funzione di intrattenere brevemente i visitatori. Considerando la ciclicità di questi incarichi è sicuro che il giovane Francesco ne abbia svolto, negli anni, più di qualcuno.

La preghiera a scuola38 Tante39 le preghiere nelle Scuole Cristiane e tutte precisate40. Qui ne indicheremo alcune con qualche brevissima annotazione. Faccio notare ancora una volta che,

Si utilizza qui un concetto che oggi è un po’ in disuso, quello di “emulazione”. Facilmente lo si confonde con la “competizione” con tutti gli aspetti negativi che tali termine comporta. In realtà emulare è gareggiare nel bene, dove non ci sono vantaggi materiali e la vittoria ultima consiste nel tagliare insieme il traguardo. 37 Certamente doveva farlo, l’incaricato della chiave della scuola, il portiere, cioè colui che doveva aprirla la mattina e chiuderla. Questo incarico ha una forza simbolica che ognuno può considerarla da sé. 38 L’intento di questo paragrafo è mettere a disposizione degli studiosi di san Gabriele alcuni elementi su cui è possibile operare confronti ed eventuali connessioni: non sono così addentro alla spiritualità del Santo da poterli operare io stesso. 39 Ad un primo sguardo moderno sembrano una litania infinita: in realtà durano circa un quarto d’ora quelle dell’inizio e del termine della scuola. Le altre sono momenti di meno di mezzo minuto. Oggi noi non diciamo più “preghiere”: recitiamo i salmi, magari riducendoli ad uno solo. 40 “Exercices de piété, qui se font pendant le jour dans les écoles chrétiennes, à Rouen, chez Laurent Dumesnil, Imprimeur-Libraire au coin de la Renelle à la Justice triomphante, M.DCCLX, trad. it. di Italo Carugno, in J.-B. de La Salle, Opere, V: Istruzioni e preghiere, Roma 2005. 36


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stante l’organizzazione delle Scuole Cristiane, il giovane Francesco le ha sicuramente recitate. A. Si inizia con la preghiera all’inizio della scuola diretta comunque da un ragazzo: – il segno di croce: il maestro lo farà “a specchio”, cioè con la mano sinistra, finché tutti i ragazzi non lo sapranno fare in modo corretto; – il ricordo della presenza di Dio; – il Veni Sancte Spiritus; – la preghiera tipica dell’inizio della scuola: Ti adoro, salvatore Gesù, e ti riconosco come mio maestro. Insegnami ti prego, a conoscerti, amarti e servirti: è per impararlo che vengo a scuola. Prometto, con l’aiuto della tua grazia, di ricordare e praticare le sante istruzioni che mi darai41. – l’Angelus A questo primo segmento di preghiere seguono, sempre nell’ambito della preghiera all’inizio della scuola: – l’indicazione per la risoluzione pratica da prendere42. Qui si inserisce la “riflessione” del maestro; – la preghiera di offerta della giornata; – la richiesta a Dio di non offenderlo durante il giorno; – il Pater; – L’Ave Maria; – Il Credo; – Il confiteor; – L’Angelo di Dio; – La preghiera per le anime del purgatorio – La richiesta a Dio della sua benedizione In qualche modo la preghiera del mattino prepara la giornata scolastica, aiuta a prevenire i momenti di difficoltà, ricolloca il momento educativo nella sua dimensione

Il vero ed unico Maestro nella Scuola cristiana è Gesù: è dunque a lui che ci si rivolge. Il maestro umano è figura dell’unico Maestro: La Salle invita i suoi Fratelli a favorire presso i loro ragazzi questa identificazione. Lavoro non semplice perché chiede in alto grado una efficace testimonianza cristiana. 42 Vengono proposti cinque punti di riflessione (uno per ogni giorno della settimana) con lo scopo di evitare di commettere peccati prevenendone le occasioni. I cinque punti sono: 1. Considerare che questo giorno ci è dato solo per lavorare alla nostra salvezza. 2. Considerare che questo giorno potrebbe essere l’ultimo della nostra vita. 3. Prendere la ferma decisione di utilizzare l’intera giornata. 4. Essere disposti, oggi, a morire piuttosto che offendere Dio. 5. Pensare alle colpe che commettiamo con maggior facilità, prevedere le occasioni che possono portare a commetterle e cercare i mezzi per evitarle. 41


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fondamentale, dove Gesù è il Maestro. Certo l’ambiente è religioso, ma quanto ancora utile sarebbe anche semplicemente in ambito umano, abituarsi a prevedere le cose da fare e le difficoltà che si potrebbero incontrare… B. Naturalmente la preghiera accompagna anche l’inizio e la fine di ogni lezione: Prima di ogni lezione Mio Dio, farò questa azione per amor tuo; permettimi di offrirtela in onore e in unione alle azioni che Gesù Cristo tuo Figlio ha compiuto durante la sua permanenza sulla terra. Concedimi la grazia di compierla bene e che possa esserti gradita. Io continuerò, mio Dio, a compiere ogni mia azione per amor tuo. In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Così sia. Dopo ogni lezione e al termine della scuola Ti ringrazio, o Dio, delle istruzioni che mi hai dato oggi a scuola. Concedimi la grazia di trarne profitto e di essere fedele nel metterle in pratica. Da notare che nella preghiera dell’inizio della scuola e delle lezioni, si offre una lettura teologica del lavoro scolastico: è Gesù/Dio in persona che insegna ed il motivo della frequenza scolastica è quello di conoscerlo, amarlo e servirlo. Per fare tutto questo si chiede l’aiuto della grazia. Sono i criteri di fondo, anche oggi, di una educazione che vuole definirsi cristiana. Il tono della preghiera inoltre è affettivo: lo scopo è unirsi a Gesù e ai suoi sentimenti. C. La preghiera al termine delle lezioni del mattino e del pomeriggio è anch’essa ampia e prevede: – segno di croce; – il ricordo della presenza di Dio; – una invocazione allo Spirito santo; – un atto di adorazione alla ss. Trinità; – un atto di ringraziamento per i benefici e doni ricevuti da Dio; – un atto di adorazione, ringraziamento ed offerta a Cristo: Ti adoro, mio salvatore Gesù. Figlio unico ed eterno di Dio, ti sei fatto uomo, sei stato concepito dallo Spirito Santo e sei nato dalla Vergine santissima. Ti ringrazio per la bontà che mi hai mostrato morendo su una croce, dando soddisfazione a Dio dei miei peccati, liberandomi dalle pene dell’inferno e meritandomi la vita eterna. Mi offro tutto a te, volendo vivere, d’ora in poi, solo per amarti. Regna, dunque, nel mio cuore tutti i giorni della mia vita, che voglio trascorrere nel tuo santo amore. Concedimi anche che, dopo la morte, possa regnare con te in cielo. Così sia.

– il Pater; – l’Ave;


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– il Credo – il Miserere Al termine del giorno tuttavia cambia l’intenzione: si prega infatti per i maestri, i genitori e i benefattori viventi o defunti. Per Francesco che aveva perso la madre, forse era come ritrovarla ogni giorno al termine delle lezioni. Da notare che la preghiera proposta per la fine della giornata è una sorta di sintesi del Credo, tolta la parte relativa a Dio creatore. Nella Scuola cristiana i motivi teologici si legano costantemente con la crescita delle persone e con i loro vissuti concreti: in questo clima, che abbiamo provato brevemente a descrivere, è cresciuto il giovane Francesco. Una pietà che non è pietismo, né solo sentimento, ma dono dello Spirito. Una pietà che è piuttosto ed insieme riconoscimento del Padre e della nostra situazione di figli non sempre capaci di stare al posto loro.

Proviamo ad immaginare… Possiamo provare ad immaginare, basandoci sulle indicazioni generali che si è cercato di descrivere, come dovesse essere una giornata di scuola di Francesco. È una digressione narrativa, chiaramente non scientifica: è piuttosto un gioco. Ha il semplice scopo di provare a visualizzare: oggi lo si fa con le ricostruzioni computerizzate. L’aria fredda di Spoleto, colpisce la faccia del piccolo Francesco, otto/nove anni, che alle 7,30 esce dalla casa di Via della Trattoria per avviarsi verso la scuola che è oltre il Duomo, ma comunque ad appena sei-settecento metri: sei-sette minuti a piedi. Un pensiero alla mamma che non c’è più lo coglie all’improvviso quando si aggiusta la sciarpa, un gesto che una volta faceva lei con affetto: passa davanti alla chiesa dove è sepolta. Dietro l’angolo di casa incontra Giovanni: fa talmente freddo che si scambiano solo un cenno con il capo e continuano in silenzio con le mani in tasca. Francesco dà un calcio ad un sasso per strada. È bello incontrare gli amici la mattina e non servono molte parole. Oggi è giorno di mercato: qualcuno dentro una bagnarola di stagno ha acceso un fuoco. Pochi passi e Francesco prende via Fontesecca voltando a sinistra. Ora ci sono Matteo e Giustino che già hanno trovato forza e voglia per spingersi tra di loro e ridere forte. Poi tutto torna tranquillo: la scuola dista ancora un mezzo chilometro, ma gli schiamazzi a Spoleto a quell’ora li sentono tutti. Il portone della scuola sarà già aperto e qualcuno dei compagni più grandi sicuramente controlla che lungo la via si comportino tutti bene. Poi chi lo sentirà il direttore fr. Tommaso, sempre così serio. Il campanile del duomo segnala la Messa delle otto e fa alzare ai quattro ragazzi gli occhi al cielo, limpido e gelato. Ma è solo un attimo. Un altro centinaio di metri e la scuola è lì. Inutile sostare fuori di essa, fa troppo freddo. I quattro entrano in clas-


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se, posano la cartella e si mettono a ripassare la lezione. Un leggero brusio si sente navigare nell’aula. Il maestro non è ancora arrivato. Antonio, il decurione di turno, già sta aspettando per interrogare qualcuno. Francesco dopo un rapido ripasso si presenta per ripetere la lezione di geografia di ieri. Poche cose, da sapere a memoria. Domande precise, risposte precise, magari indicando sulla carta appesa alla parete. Francesco torna al suo posto, Giustino invece viene rimandato al posto: deve ripresentarsi a ripetere e si mette con i pugni sulla testa a provare a studiare stamattina quello che non ha studiato ieri. Borbotta: ma sta solo provando a ripetere a mezza voce la lezione. Arriva il maestro: tutti i presenti si alzano in piedi. Senza parlare fr. Clementino segnala che è il momento di mettersi in fila per andare a Messa. Pasquale prende l’aspersorio e va avanti. Francesco insieme a Uguccione va a prendere i rosari che distribuirà in chiesa. Si va tutti in silenzio in cappella e ci si sistema nei banchi secondo le silenziose indicazioni del maestro. Inizia il canto e l’animo di ciascuno è rapito dal mistero del gesto sacramentale, non compreso eppure capito. Francesco si prepara a ricevere l’eucarestia: è stato abituato a riceverla tutte le volte che assiste alla Messa. L’ha ricevuta la prima volta l’anno passato, insieme alla cresima, e recita tra sé le preghiere che ha imparato: Ti adoro, Gesù mio salvatore, che ti annienti e nascondi la tua gloria in questo mirabile sacramento, per donarti completamente a noi e restare sempre con noi, certamente perché anche noi ci diamo totalmente a te. Ma cosa posso darti in cambio, mio Salvatore? Io sono una creatura piena di peccati, e tu mi doni te stesso, o Dio che sei la santità stessa. Per la tua bontà trasformami in te, così anch’io sarò santo perché tu sei santo e il peccato non entrerà più in me. Come sono felice, o mio Dio, di averti ricevuto e di possedere te, che hai tutti i tesori della scienza e della sapienza di Dio e in cui risiede la pienezza della divinità. Il tuo sacro corpo me lo hai dato per riempirmi di grazie e d impegnarmi a vivere in modo degno di te…. … E’ un pane celeste che dà forza per resistere alle tentazioni e non cadere nel peccato. E’ una carne che è sostanza della divinità stessa, che dona il gusto di applicarsi al servizio di Dio al di sopra di ogni cosa ed è rimedio capace di guarire qualunque malattia delle nostre anime… fa’ che la tua carne conservi la vita dell’anima mia custodendo la tua santa grazia e il desiderio di servirti… Mi unisco ai tuoi servi e alle tue serve che oggi si comunicano e conducono una vita pura, per comunicarsi spesso, anche tutti i giorni. Tutti insieme noi siamo le membra di uno stesso corpo che tu animi e fai vivere della tua vita…. Concedi che, come essi ti onorano continuamente con la loro santa vita, anch’io ti onori imitandoli, poiché essi ti possiedono e sono posseduti dal tuo Spirito.


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Si torna a scuola sempre in silenzio, anche se Vittorino dà un pizzicotto ad Ernesto mentre entra in classe: allo strillo improvviso di questi, tutti ridono. Il Maestro non pare turbato: guarda Vittorino, senza battere ciglio e sale sulla pedana della cattedra. Dà inizio alla preghiera che è guidata questo mese da Filippo. È tranquillo Filippo, e devoto. Svolge bene il suo compito. Tutti pregano a voce chiara. Poi si siedono, il maestro interroga qualcuno e chiede ai decurioni chi è stato già interrogato: verifica rapidamente se è effettivamente così. Alle 9,00 suona la campana. Alfonso attacca svogliatamente il Ricordiamoci e il maestro glielo fa ripetere, senza rimproverarlo: Alfonso ha sempre altro per la testa. Si prende il libro di lettura: oggi si studia la storia. Comincia a leggere Ottavio: va avanti a fatica, segue con il dito, è proprio una pena. Due minuti e il segnale stabilisce che la lettura la continua il compagno di banco. Compare una data: il maestro ferma la lettura e sottolinea. Oggi racconta un episodio che nel libro non è scritto, di come effettivamente avvenne che i romani vinsero i cartaginesi. Francesco ascolta trasognato le vicende di quel mondo lontano, vede Annibale attraversare le Alpi, Roma tremare, perdere, riprendersi. La lettura procede, ma il maestro ora non segue più l’ordine dei banchi, invita a leggere a caso. Non si ha più il tempo di fantasticare. Bisogna stare attenti e seguire la lettura. Suona la campanella. Ancora il Ricordiamoci, stavolta Alfonso è stato più vigile. Inizia l’ora di scrittura, con tutto l’armamentario di inchiostro, penne d’oca, temperini, carta assorbente e biglie di Pietro che cadendo rimbalzano sul pavimento. Il maestro le fa raccogliere e le fa deporre sulla cattedra: nessun rimprovero. Silenzio. Lavoro. Il maestro fa dettare una frase: Carlo la scrive alla lavagna (Carlo ancora scrive malissimo) e gli altri sul foglio rigato. Non è semplice grafia, ma scrittura ornata, piena di svolazzi e di ghirigori e bisogna adattare la penna al tipo di tratto da imprimere. Francesco con la lingua tra i denti e la penna in mano si esercita. Il maestro passa tra i banchi e controlla, correggendo ora l’uno ora l’altro. “Vincenzo, la penna non è una zappa, non bucare il foglio”. “Giovanni stai dritto e tieni la penna come ti ho insegnato”. “Francesco, usa la carta assorbente, altrimenti lasci un sacco di pastrocchi”. L’ora di scrittura vola: già è tempo di approfondire l’uso della doppia t. Nell’ultimo dettato sono stati commessi troppi errori. Un languorino allo stomaco comincia ad avvertirsi. Finalmente il maestro dà il segnale di riporre tutto: ancora la preghiera e per questa mattina è finita. Francesco già pregusta la zuppa che la sorella più grande ha preparato. Si esce da scuola e per un po’ si sta zitti. Poi un po’ di baraonda è fisiologica: Ernesto intende assolutamente vendicarsi di Vittorino e gli altri se la ridono. Ridono della loro fanciullezza, della vita che si apre loro davanti. Tutti però si dirigono verso casa: mamma, o almeno il piatto, per mezzodì li aspetta. Qualche battuta, ma neanche tante: è già ora di riprendere la strada per la scuola. Alle 13,30 si ricomincia. Per prima mezz’ora tutto fila liscio. Poi cominciano i problemi, nel senso letterale


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del termine: l’aritmetica è la gioia e la delizia dei primi pomeriggi alle Scuole cristiane. Per fortuna è solo mezz’ora più o meno. Francesco un po’ si annoia: ma che fare? Fuori ha cominciato a piovere e la giornata si è fatta uggiosa. La campanella delle 14,30 chiama tutti al ricordo della presenza di Dio. Un Dio sempre vicino che accompagna il lavoro scolastico, lo sostiene, lo apprezza, lo approva. Un Dio che è papà, che ama stare con i propri figli e vederli impegnati. Si comincia a leggere: questa volta è il galateo43. E le cose si fanno più divertenti, perché è la vita stessa dei ragazzi che viene messa sotto osservazione a cominciare da come si puliscono sonoramente il naso o se si pettinano la mattina (Paolo ad esempio sembra proprio negato per il pettine, ed un po’ tutti lo sono per l’acqua fredda). Il tempo trascorre tra qualche sottolineatura del maestro che punta a far comprendere come la buona educazione sia una forma di carità verso il prossimo, qualche strafalcione di lettura, qualche risatina sommessa dei compagni. Arriva il momento del tema. Non è mai semplice tirar fuori quattro pensieri ordinati. Ma il maestro offre indicazioni, tracce e consigli. Al segnale Bartolomeo raccoglie i componimenti di tutti e li posa sulla cattedra: stasera il maestro la passerà a correggere, sempre che riesca a decifrare la grafia di qualcuno. È l’ora del catechismo, la summa pratico-teologica di una giornata trascorsa nella luce della presenza di Dio, con Gesù come maestro. Per una mezz’ora si risponde a memoria alle domande sugli argomenti già svolti. Poi finalmente il maestro parla in modo tranquillo, chiaro, affascinante. Oggi racconta la bontà di Gesù così come ce la narra il Vangelo: tocca il cuore dei ragazzi ma anche li impegna ad essere buoni tra loro. Il pizzicotto mattutino di Vittorino ad Ernesto trova la sua valutazione e la sua riconciliazione. Francesco progressivamente scopre l’amore del Padre che ha dato suo Figlio per ciascuno di noi. Ogni giorno una goccia, un piccolo passo, un pezzetto di verità. Lentamente, costantemente, quotidianamente. Ci si alza ancora in piedi per la preghiera al termine della giornata di scuola: sono le 17,00 e fuori è quasi buio. Filippo intona: - Preghiamo per i nostri maestri, per i nostri genitori e benefattori perché Dio li conservi nella sua fede e nel suo amore. Quella mamma che a casa purtroppo non c’è più, Francesco la ritrova ogni giorno a scuola.

La Salle ha scritto un galateo, Les Règles de la bienséance e de la civilité chrétienne, in J.-B. de La Salle, Opere, Vol III, pp. 315-443, che ha accompagnato tutta la storia dell’Istituto FSC ed è stato più volte riedito con i necessari aggiornamenti. N. Elias lo ha usato per mostrare come siano evoluti i costumi: cfr. N. Elias, La civiltà delle buone maniere. Il processo di civilizzazione I, Bologna, 1982.

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sicologo di riconosciuta competenza, fr. Beniamino lesse con sicuro interesse non solo professionale, il profilo psicologico che di lui, e su sua richiesta, aveva tracciato Paul Griéger1 nel 1968: “Carattere: EAS-2: Appassionato accentuato con predominanza dell’attività ad un tempo dinamica e organizzata Elementi complementari: Predominanza di tendenze allocentriche e spirituali; bisogno di servire, di approfondire e realizzare in vista di un ideale spirituale e apostolico.- Personalità: Evoluzione dinamica della personalità, servita da un carattere ricco e organizzato, ma accentuato da alcuni elementi; portato a esagerare, la qual cosa può favorire la tensione interiore e l’accentuazione di taluni aspetti della personalità”.2 Il biografo3 annota: “Commentando il referto fr. Beniamino contesta solo la preponderanza di A (= attività), assegnata dal Griéger, su S (= secondarietà), che egli sente invece più corrispondente alla realtà, anche se la misura della differenza è, a suo avviso, irrilevante e se la S viene considerato più come fattore dovuto all’invecchiamento che al temperamento. E spiega: ‘ Sono più secondario (S) che non emotivo (E) e attivo (A). Di qui la mia tendenza all’introversione e alla ruminazione mentale; di qui anche la mia difficoltà ad accogliere le innovazioni e le riforme; dif-

Paul Griéger, FSC, 1916-2009, caratterologo di fama internazionale, fu docente di psicopedagogia nella Pontificia Università Lateranense, nell’Istituto Superiore Jesus Magister di Roma. Autore di una quarantina di libri, alcuni dei quali tradotti in più lingue, e di centinaia di articoli su riviste specializzate. Vedi una sua bio-bibliografia in “Rivista lasalliana” 2005, 3, 183-195, e un’altra breve nota necrologica in “Rivista lasalliana” 2009, 2, 347-348. 2 Il testo originale è in francese; qui è data la traduzione del biografo. 3 F. Leandro Gogliani, attento e preciso collettore di documenti, soprattutto nelle due appendici della biografia Nostro fratello Beniamino, A&C, Torino 1987, pp. 222. 1


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ficoltà che supero solo con gli argomenti di ragione e con la forza di deliberata volontà”. È un supplemento all’analisi delle proprie doti e dei propri difetti nativi - il temperamento - che fr. Beniamino aveva già tracciato nel 19484, a conclusione del Secondo Noviziato5. Tutti elementi che aiutano a capire atteggiamenti e comportamenti che tenne in molti degli episodi anche straordinari che la vita gli riservò.

Frammenti biografici (1907-1984) • 1907-1920: Fanciullezza travagliata - Terzo dei cinque figli, Giuseppe nasce il 13 giugno 1907 a General Cabrera, un modesto villaggio rurale presso Cordoba, la città argentina a sud della quale si apre lo sterminato territorio delle pampas. La famiglia vi è emigrata quattro anni prima da Virle Piemonte6, dove farà ritorno nel 1913, anno in cui Giuseppe è iscritto alla elementare. La serenità della vita famigliare è sconvolta nei primi mesi del 1915 dalla morte al fronte del padre. Per ovviare alle strettezze economiche in cui versa la famiglia, anche Giuseppe deve contribuire al lavoro nei campi, limitando la frequenza scolastica ai soli mesi invernali. Tredicenne, in seguito a un casuale incontro con un Fratello delle Scuole cristiane, vede chiarirsi la scelta verso la vita religiosa che sente da tempo. Nel 1920 entra nell’aspirantato di Grugliasco (TO), dove, insieme con la formazione religiosa, acquisisce una regolare preparazione scolastica, superando con la tenacia dell’impegno e la prontezza nell’apprendere l’handicap dei precedenti cinque anni di una scolarità irregolare e assai carente. • 1920-1932: Religioso insegnante - A Grugliasco nel 1923 veste l’abito religioso, assumendo il nome di fr. Beniamino della Consolata. Ivi trascorre l’anno del noviziato, cui seguono due anni di studentato per la preparazione all’abilitazione magistrale, conseguita nel 1926 a Torino. Dal 1926 al 1932 insegna nel corso elementare delle scuole lasalliane di missione a Tripoli di Libia e a Rodi nell’Egeo. Mentre insegna, studia, ottenendo la maturità scientifica (Rodi, 1930) e, rientrato in Italia, i

In quella analisi si attribuisce una sensibilità nervosa alquanto pronunciata, con forme di irritabilità e irrequietezza, specialmente in presenza di impegnative mansioni; si dichiara sensibile alle emozioni estetiche, considerandole una naturale via d’accesso a quelle religiose; sente vivissimi i sensi di solidarietà, di riconoscenza, di entusiasmo, in particolare se collegati a iniziative apostoliche; ammette che in genere la sensibilità è ben controllata dalla ragione, dominata dalla volontà, orientata dalla fede, anche se a volte raggiunge un’intensità tale da provocare momentanee ribellioni alle offese e alle contrarietà. 5 Corso annuale di forte esperienza di preghiera e di riflessione sul carisma lasalliano organizzato nella sede centrale dell’Istituto per un numero ristretto di religiosi in predicato per posti di responsabilità. 6 Paese a una trentina di km a sud di Torino. Virle ha intitolato a fratel Beniamino, il 12 settembre 2004, l’Oasi della pace, il giardino pubblico cittadino. 4


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diplomi - inferiore superiore - di Scienze religiose (Torino, 1932). Il 1932 è anche l’anno della sua professione religiosa perpetua. • 1932-1950: Studioso e docente di materie scientifiche 7 - Fr. Beniamino si dedicherà all’insegnamento di matematica e fisica per cinquant’anni (quasi esclusivamente all’Istituto Gonzaga di Milano dal 1932 al 1981), conciliandolo senza sostanziali compromessi con le varie attività che si verranno via via aggiungendo. La laurea, conseguita all’Università statale di Milano è del 1936 (summa cum laude e dignità di stampa). La stima del prof. Polvani, rettore della facoltà, appare ben riposta: conosce fr. Beniamino anche come insegnante, perché i suoi tre figli frequentano il Gonzaga. Lo vorrebbe perciò come suo assistente per poi avviarlo alla libera docenza, ma i superiori hanno altri progetti. All’abilitazione in matematica e fisica (1938) seguono l’iscrizione all’Albo nazionale Docenti delle scuole medie superiori (1940), la nomina a Socio titolare vitalizio della Società di Scienze Naturali (1947) e a Socio titolare della Società Italiana di Fisica (1948). Sarà anche membro della Società Europea di Fisica nel 1970. • 1950-1983: Psicopedagogista e catecheta - La specializzazione in Psicologia differenziale (con Fellowship dell’UNESCO, 1950-51) è la naturale conclusione di un cammino culturale a favore della gioventù di cui è possibile solo far affiorare alcune tappe: la nomina a membro di organizzazioni internazionali8, l’attività come orientatore scolastico9, di docente di Psicopedagogia10, di conferenziere11. Fra tutte

Tra le sue pubblicazioni di questo periodo: - Centrifugazione degli elettroni, in “Rendiconti del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere”, Milano 1937. - Effetto magnetico di centrifugazione, ivi, Milano 1938. - Alessandro Volta, in collab. con Giovanni Polvani, Domus Galileana, Pisa 1942. - Il metodo e le scienze matematiche, in “Rivista lasalliana”, 1946, 2, 23-43. - L’insegnamento dell’aritmetica nelle scuole elementari, ivi, 1947, 3, 145-172. - La matematica nelle edizioni scolastiche FSC, ivi, 1965, 4, 295-343. 8 1951: membro titolare della Liaison Committee tra l’Union Internazionale de protection de l’Enfance (Ginevra) e la International Society for Welfare of Cripples (USA); 1952: aggregato all’UNESCO come esperto in educazione differenziale per gli handicappati; 1953: membro titolare dell’Associazione Internazionale di Psicologia Applicata (AIPA) fondata da Eugène Claparède. 9 Dal 1951 al 1983 per le classi finaliste dell’Istituto Gonzaga, per gli allievi dell’Istituto s. Giuseppe di Milano e quelli di Villa S. Maria di Bassano del Grappa. 10 E di Catechetica al PIME di Milano (1952-1968); di Psicologia ai corsi FIRE e FIRAS (Federazione delle Religiose insegnanti della Lombardia) negli anni 1954-1976; di Psicopedagogia e Catechetica ai corsi di Pastorale per neo-sacerdoti a Saronno (Varese), negli anni 1956-1968; e, sempre a Saronno negli anni 1966-68, Psicopedagogia per seminaristi in procinto di iniziare Teologia. 11 Attività davvero non commensurabile, come ammette il biografo, scrupoloso annotatore di dati e date: Non sono compresi in questo elenco i brevi corsi di qualche giorno tenuti a sacerdoti, chierici e catechisti in altre località soprattutto della Lombardia o nelle parrocchie di Milano (Biografia cit., p. 181). Una copiosa documentazione al riguardo rimane nel faldone X.40.3 dell’Archivio provinciale torinese FSC. 7


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spicca però la collaborazione che fr. Beniamino offerse all’opera di don Carlo Gnocchi, oggi beato. Si erano conosciuti al Gonzaga, dove don Carlo fu direttore spirituale; si ritrovarono nell’immediato dopoguerra, quando proprio al Gonzaga don Carlo chiese ed ottenne i primi aiuti economici per l’eroica attività che stava incominciando a favore dei piccoli mutilati. E fu proprio il sacerdote milanese a riconoscere la qualità ‘professionale’ della collaborazione di fr. Beniamino: Ella veramente sta diventando il tecnico ‘nostro’ di questo attualissimo problema, e nessuno meglio di Lei ha le qualità per esserlo con piena autorità. È una citazione dal libro Riscatto del dolore innocente12, frutto di un’obiettiva ricostruzione degli avvenimenti unita all’appassionata condivisione di ideali e a una dedizione senza calcoli alla realizzazione e alla gestione di opere socialmente rilevanti. • 1949-1959: Responsabile e animatore di istituzioni - La prima esperienza riguarda il Lasallianum, il corso di studio e di aggiornamento psico-pedagogico e filosofico-teologico frequentato dai giovani Fratelli insegnanti nel periodo estivo. Ne fu docente dal 1949 al 1968 e lo diresse dal 1951 al 1958. Il suo fu un insegnamento che riscosse interesse, acuì sensibilità educativa di varie generazioni di corsisti e indirizzò alle facoltà di psicologia e di pedagogia alcuni di essi. Breve (1959-1960) e tormentato il periodo che lo vide Direttore generale degli Istituti Filippin di Paderno del Grappa. Le obiettive difficoltà di una situazione precaria sotto vari aspetti si scontrarono con l’indisponibilità a compromessi e cedimenti di fr. Beniamino, che lasciò l’incarico senza recriminazioni né rimpianti. Lo attendeva la direzione generale del Centro Pilota della Pro Juventute di Milano, che tenne dal 1959 al 1961 e di cui vale la pena di occuparsi a parte, inserendola nel lungo sodalizio che legò fr. Beniamino e i Fratelli delle Scuole cristiane con don Carlo Gnocchi. • 1983-84: Il rapido declino - Nel 1961, in piena attività, fr. Beniamino era stato colpito da un infarto dal quale si era ripreso in pochi mesi. Dieci anni dopo si verificarono altri disturbi cardiaci; in entrambi i casi poté tuttavia riprendere in pieno la consueta, intensa attività. Nell’80 si accusò il primo serio episodio ipoglicemico, dal quale si riebbe parzialmente, anche a causa delle mediocri cure ospedaliere. Nel luglio1983 la salute si aggravò improvvisamente e nel contempo si fecero più evidenti i guasti causati dal morbo di Parkinson. Si rese inevitabile il ricovero in casa di riposo a Torino. Gli ultimi mesi gli furono particolarmente penosi, non tanto per le sofferenze fisiche, quanto per l’inazione alla quale era costretto dal blocco all’apparato sensoriale. Si spense al Centro La Salle di Torino il 27 aprile 1984.

Giuseppe Bonetto FSC, Riscatto del dolore innocente. Don Carlo Gnocchi e i Fratelli delle Scuole Cristiane, Ed. Rivista lasalliana, Torino 1967, pp. 219.

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Intense e singolari pagine di vita Dal disadorno elenco cronologico precedente è opportuno estrarre e dare qualche ulteriore notizia almeno su alcuni episodi che, tra l’altro, ci permettono di verificare dal vivo qualche aspetto del profilo psicologico posto in capo a queste note. - 1942-46: la risoluta adesione agli ideali di libertà che animarono all’azione i migliori esponenti dell’autentica resistenza e l’attività svolta con la ‘San Vincenzo’ del Gonzaga nell’immediato dopoguerra a favore degli sfollati, degli ex internati e dei reduci; - 1953-56: il tentativo di educare in senso proprio (sotto gli aspetti civile e culturale) Vittorio Emanuele di Savoia, esiliato in Svizzera con la famiglia; - 1948-61: gli anni della più intensa collaborazione con don Carlo Gnocchi e la sua opera, la Pro Juventute. Tra guerra e Resistenza - Il bombardamento aereo che sconvolse Milano nell’ottobre del 1942 e il fondato timore di successive incursioni, convinsero la maggior parte delle famiglie degli alunni del Gonzaga ad aderire all’iniziativa dei dirigenti dell’Istituto, i quali avevano predisposto il trasferimento dell’attività scolastica in sedi non esposte a pericoli13. Fr. Beniamino rimase a Milano, dove continuarono a funzionare alcune classi dell’ITC, sotto il continuo assillo di allarmi e bombardamenti14. Dopo l’armistizio si crearono situazioni che opposero, spesso in modo assurdo, persone che non avevano ragione di combattersi. Coinvolto nelle vicende drammatiche di alcuni suoi ex-allievi, fr. Beniamino si prodigò per salvarli15. Venne così a contatto con i partigiani della Val d’Ossola e aderì, con il permesso dei superiori e senza venir meno ai suoi impegni professionali, al movimento della Resistenza lombarda, con l’intento, che si intensificò a cominciare dai primi mesi del ’44, di stabilire accordi di intermediazione umanitaria tra le forze della resistenza e il comando tedesco. Tra le molte drammatiche situazioni che si verificarono, una oppose due gruppi armati di partigiani di diversa ideologia. L’intervento deciso e chiarificatore di fr. Beniamino evitò il peggio16. La sua azione coraggiosa e socialmente rilevante fu riconosciuta ufficial-

A Erba, a Riva del Garda, a Costa Lambro. In data 14 agosto 1943 in una lettera ai suoi, mai spedita ma conservata nell’archivio FSC di Torino, scriveva: Mi sento nel pieno vigore delle mie forze, ma l’urlo della sirena di pochi minuti fa ha acceso intorno a me un clima di agonia; lo scoppio fragoroso delle dirompenti e le vampe degli incendi appiccati dalle bombe rovesciate da centinaia di apparecchi inglesi, messaggeri di morte e distruzione, mi avvertono che la mia ora estrema può essere giunta. Fiat voluntas Dei! (…). 15 Il periodo è ampiamente illustrato nel volume commemorativo Istituto Gonzaga: Cento anni di presenza a Milano, Ed. Gonzaga, 2007, pp. 49-57. 16 Dovuta al sospetto che, insieme con alcune casse di documenti loro affidate dalla famiglia dell’exministro Biggini, i Fratelli del Gonzaga occultassero armi destinate ai combattenti per la resistenza. 13 14


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mente nel 1946 con l’attribuzione, su proposta del Servizio di Informazione militare (SIM), della Commenda della Corona d’Italia per meriti partigiani. Tornata la quasi normalità del dopoguerra, si impose la necessità di affrontare forme di concreta solidarietà per alleviare sofferenze e disagi dei più colpiti dalla sventura. Fr. Beniamino pone sé e i suoi giovani al servizio della POA17, che nei locali delle scuole di via Galvani dà assistenza materiale e morale a migliaia di profughi, assicurando anche la protezione civile a quanti di essi sono esposti a rappresaglie anche mortali perché sommariamente accusati di collaborazionismo. La notevole attività assistenziale svolta nel contempo anche nei locali del Gonzaga18 ha fr. Beniamino come animatore e coordinatore. Alla S. Vincenzo, che perseguirà la sua azione caritativa sotto la guida di un altro indimenticabile confratello, fr. Arnolfo Caligaris, fr. Beniamino resterà sempre legato. L’ultima preoccupazione nel lasciare il Gonzaga sarà quella di garantire la continuità dell’opera, consegnando scrupolosamente materiale, documenti e denaro al successore designato. In missione speciale a Losanna - È questo il titolo che il biografo riserva a uno dei capitoli più insoliti della vita di fr. Beniamino, che dal 1953 al 1956 fu precettore del principe Vittorio Emanuele di Savoia. La cosa ebbe ampia eco sulla stampa anche in anni successivi19. Annota il biografo: Fu un’operazione alquanto rischiosa per fr. Beniamino, che come educatore era tenuto al riserbo e alla discrezione professionale, soprattutto in un caso così singolare come questo che poteva facilmente essere strumentalizzato e prestarsi a manipolazioni tendenziose20. Nei Chiarimenti, volume inedito di 242 pagine dattiloscritte21 si trovano i dati e le informazioni e le riflessioni relativi all’esperienza davvero inconsueta, con l’intento dichiarato di offrire a chi volesse trarne materia di studio, la chiave per l’interpretazione e la valutazione di un operato a beneficio della psico-pedagogia scolastica.22 Nel 1953 il principe, sedicenne, costituiva una seria preoccupazione per i genitori. Le vicissitudini legate all’esilio e ai vari trasferimenti che l’avevano contrassegnato, avevano tra l’altro propiziato manifestazioni di tipo anarcoide e un estremo disinteresse per lo studio. Alla ricerca di una soluzione, il marchese di Montezemolo, ufficialmente incaricato dai Savoia di trovarne una soddisfacente, ebbe l’ aiuto della

Pontificia Opera di Assistenza. Incontri, il bollettino dell’Istituto (IV quaderno, anno scolastico 1944-45, pp. 30-33 e 69) fornisce alcune cifre significative: ex internati ospitati 4.170; pasti distribuiti 17.700; pernottamenti registrati 24.500; nomi di reduci registrati, 40.000; nominativi schedati 8.000; informazioni comunicate 15.000; ore di lavoro prestate 5.340. 19 La biografia in nota a p. 64 elenca sette testate di giornali e di settimanali che, talvolta a più riprese, se ne occuparono. 20 Biografia cit., p. 64. 21 Conservato nell’Archivio Centrale FSC, Roma, collocazione GE 350 BON. 22 Biografia cit., p. 65 17 18


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responsabile della sezione francese dell’AEI23. La dott.ssa Anita Ferrari conosceva personalmente fr. Beniamino e lo sapeva esperto di educazione specializzata nei corrispondenti organi internazionali di Parigi e di Ginevra. Superate le comprensibili incertezze personali e gli altrui dubbi sull’opportunità dell’iniziativa, fr. Beniamino ebbe dai superiori l’incarico di occuparsi a pieno tempo del caso. Senza lasciare del tutto l’insegnamento al Gonzaga, per tre anni insieme con l’azione educativa riservata al principe ebbe la docenza di matematica e fisica al liceo Pareto di Losanna a cui ottenne si iscrivesse il principe, anche per sottrarlo a una vita di collegio che ne giustificava ogni intemperanza. Il ‘soggetto’, che quando era stato affidato a fr. Beniamino presentava i sintomi del ‘sinistrato psichico’24, passò dall’insuccesso scolastico (fu bocciato al termine dell’anno 1953-‘54) alla maturità conseguita a pieni voti nel luglio del 1956. Il giudizio sulla maturità comportamentale del principe rimane negli appunti riservati, i Chiarimenti, di cui si è detto. Al proposito, la cronaca ha in seguito registrato episodi che fr. Beniamino avrebbe giudicato con giusta severità e sincero rammarico. La sua opera fu comunque altamente apprezzata dai Savoia, che il 4 marzo 1983, con motu proprio di Umberto II, gli conferirono la Commenda della Corona d’Italia. Riscatto del dolore innocente - Il titolo del libro in cui fr. Beniamino rievoca l’opera di don Carlo Gnocchi reca come sottotitolo: Don Carlo Gnocchi e i Fratelli delle Scuole Cristiane. Precisazione del 1967, ma doverosa anche oggi (seppur talvolta disattesa) a ricordo della sostanziale collaborazione che la Congregazione lasalliana diede al sorgere e allo sviluppo della Pro Juventute 25. • Il primo dei tre corposi capitoli presenta don Carlo Gnocchi, già sacerdote, prima come coadiutore parrocchiale (1925-1936), poi come direttore spirituale del Gonzaga (1936-4026 e 1945-46) con l’interruzione degli anni 1940-45, quale cappellano militare degli alpini nella campagna di Russia). Le pagine più ricche di documentazione soprattutto epistolare sono quelle riguardanti il secondo periodo (Padre spirituale al Gonzaga) e al terzo (Volontario tra gli Alpini, cuore al Gonzaga) sono citati scritti e lettere di don Carlo, che ne pongono in evidenza schiettezza di carat-

L’Associazione Educatrice Italiana, fondata da fr. Alessandro Alessandrini FSC (1878-1956), svolse per decenni un’intensa attività di animazione fra gli insegnanti cattolici. 24 Definizione usata da fr. Beniamino nell’intervista alla Domenica del Corriere, del 9 aprile 1983: Il mio allievo Vittorio Emanuele.“Definizione contestata e disapprovata da taluni ‘maestri di diplomazia’ come esagerata e irriguardosa, ma sostenuta da fr. Beniamino che, oltre a non scorgervi alcunché di meno dignitoso o di offensivo, considerava anzi motivo di vanto per Vittorio Emanuele, l’essere egli riuscito, a forza di volontà, a cancellarne ogni traccia.” (Biografia cit., nota di pag. 69). 25 Notevole e obiettiva la rivisitazione storica operata da Floria Galbusera in Una prossimità fatta storia. La Fondazione Pro Juventute e don Carlo Gnocchi, Ed. NED, Milano 1996, pp. 156. 26 In congedo temporaneo nell’ottobre del 1941, riprese per qualche tempo la direzione spirituale all’Istituto. 23


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tere, sensibilità pedagogica, preparazione culturale, forza d’animo (evidenziata soprattutto nei drammatici frangenti vissuti in guerra sui fronti russo, greco e albanese). • Il secondo capitolo, Verso nuove mete di apostolato, traccia con ricchezza di particolari la nascita e l’affermarsi della vocazione ‘pro Juventute’ di don Gnocchi, che nell’anno scolastico 1945-46 associò alla direzione spirituale del Gonzaga l’assistenza agli Orfani di guerra a Cassano Magnago e ai Grandi Invalidi di guerra ad Arosio. E fu in quest’ultima località che l’incontro casuale con la madre di un mutilatino di guerra gli fece scoprire la sua definitiva vocazione. Deciso a dedicarsi anima e corpo alla missione, ottenne i primi aiuti economici dagli alunni e dalle famiglie del Gonzaga; e quando l’opera venne man mano ampliandosi chiese ai Fratelli l’aiuto per affrontare la gestione delle opere27, e in particolare a fr. Beniamino28 quello per studiare e risolvere i problemi educativi riguardanti i motulesi. A lui, significativamente, affidò la direzione del Centro pilota S. Maria Nascente di Milano, voluto e progettato personalmente da don Carlo che lo considerò il cuore di tutte le sue istituzioni. • Il terzo e ultimo capitolo, Educazione e riabilitazione nella fondazione Don Gnocchi, illustra il lavoro concordemente condotto da don Gnocchi e fr. Beniamino per creare strutture educative adeguate alle esigenze sia fisiche che psicosociali dei giovani ricoverati, anche quando, dopo gli anni Sessanta ai motulesi si vennero prima affiancando poi sostituendo i poliomielitici. Un’appendice riporta tre conferenze e una relazione di fr. Beniamino (1955), in cui vengono riassunti scopi e mezzi per la rieducazione dei minori affetti da handicap: 1. Il significato psicologico della motulesione29 - 2. Negativismo e aggressione nella vita e nell’educazione dei motulesi 30 3. Pause psicopedagogiche31. Il 14 luglio 1950 don Carlo scriveva a fr. Gioachino Gallo, Assistente per l’Italia della congregazione lasalliana: Sarei felice di fare di quest’opera32 una nuova gemma nella corona già ricca delle opere della Congrega-

27 A mano a mano che le creava affidò ai Fratelli i collegi maschili di Parma, Pessano, Torino, Marina di Massa, Roma, Salerno. 28 Incaricato di questo studio - ricorda lui stesso in terza persona - si portò nei collegi di Arosio, Erba, Parma, trascorse giornate e giornate a contatto con gli alunni e i loro educatori e, con la più cordiale collaborazione di tutti, poté raccogliere un cumulo di rilievi, ritenuti da Don Carlo della massima importanza. (Biografia cit., p. 121). 29 Situazioni psicologiche precarie - La motulesione come perturbazione della persona – Il significato sociale della motulesione. 30 La frustrazione o negativismo -Tensione e aggressività - Trattamento psicopedagogico - La sovraprotezione - Il ripudio. 31 Il tempo come elemento di maturazione - Il tempo come elemento di apprendimento - Le pause pedagogiche. 32 Federazione di tutte le istituzioni Pro Juventute.


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zione Lasalliana, unica forse fra quelle che essa possiede nelle varie Nazioni 33. L’auspicio era purtroppo destinato a rimanere tale.

«Catechista: la mia ragion d’essere!» È la frase con cui fr. Beniamino apre il suo diario l’11 maggio 1962 e che è giusto prendere in considerazione per tratteggiare un aspetto della sua professionalità fin qui solo accennato. Formatore di catechisti - Si è accennato all’attività, svolta soprattutto tra il 1950 e l’80, che lo impegnò in seminari diocesani e convegni di religiose educatrici; incontri replicati per una serie d’anni che dimostra come fosse stimato e richiesto il suo insegnamento. Faceva parte del gruppo di eccellenti catechisti che, come fr. Leone di Maria (il ‘capostipite’), fr Remo Re, fr. Agilberto Gatti, fr. Giovannino Verri, fr. Mansueto Guarnacci, fr. Anselmo Balocco, fr. Siro Ferranti, fr. Alberto di Maria, …tennero corsi e incontri per clero e seminaristi, insegnanti di religione e catechisti in tutta la Penisola. Copioso fu anche l’apostolato che svolse con la penna, in particolare sulle pagine della Rivista Sussidi per la catechesi, pressoché ininterrottamente dal 1938 al 1977 (anno in cui la pubblicazione venne sospesa a Milano, per poi riprendere nel 1982 a Roma). Si tratta di oltre 150 articoli,34 generalmente non molto estesi, che trattano vari aspetti dell’insegnamento della religione. Prevalgono quelli di argomento psicopedagogico (come si vedrà), ma se ne leggono su catechesi e catechisti, su attualità e storia,35 liturgia, sacramenti, morale, magistero ed ecclesiologia.36 È una delle tante lettere di don Gnocchi conservate nell’Archivio della Casa generalizia FSC, Roma: Assistenza per l’Italia (Corrispondenza tra Congregazione e Fondazione Pro Juventute, F). 34 Integralmente riportati, con titolo e collocazione, nell’appendice II, punto 5, pp.186-190. Rimandiamo a quelle per una consultazione più dettagliata. 35 Uno scarno elenco dà l’idea dell’orizzonte internazionale in cui si muoveva: - Problemi e soluzioni dall’Alpe al Mar d’Irlanda, 1949, 1, 7-15; - In Gran Bretagna un maestro: Drinkwater, 1949, 3, 166-173; - Oltre Manica i catechisti., 1949, 4, 258-265; - Nei Training Colleges (catechetica all’estero), 1949, 5, 351-361; - Bloomington: prima la scuola, poi la chiesa e infine la casa del sacerdote, 1951,1,13-17; - California, regno di santi antichi e di pionieri moderni, 1951, 3, 120-122; - Catechismo romano e Concilio di Trento, 1963, 231-235; - Argentina: fervore catechistico, 1971, 6-7, 387-388; - Le dimensioni sociali dell’Anno santo, 1974, 3, 3-16; - Esperienze di vita ecclesiale, 1975, 3, 78-87. 36 Rinviando per una documentazione completa alla citata Bio-bibliografia, basti alludere qui alla gamma di tematiche sviluppate nei sui interventi sulla rivista: orientamenti pedagogici e schemi didattici di lezione sulla Grazia e la Liturgia in genere, sui singoli sacramenti (in particolare i sacramenti dell’iniziazione e il matrimonio), sui giovani e le condizioni della loro pratica cristiana, sull’etica biblica ed evangelica… 33


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Su “Rivista lasalliana” fr. Beniamino esamina Lo spirito e le forme della catechizzazione lasalliana37, cui si attiene non solo per rispetto di una tradizione di famiglia, ma soprattutto perché convinto dell’efficacia di una metodologia didattica capace di coniugare l’ortodossia dottrinale con le più opportune forme attivismo atte a stimolare le giovani intelligenze e con la personalizzazione dell’insegnamento. Il capitolo 6 su La conoscenza del fanciullo38 prende specificamente in esame Il fanciullo e la religione39, ma l’intero trattato è un’esposizione delle caratteristiche psicologiche della fanciullezza, intesa a suggerire i mezzi più adeguati per un’educazione che sia insieme culturale e morale. Non si concepisce una catechesi che non si accompagni a delle solide conoscenze psicologiche; si ritiene inefficace e assurda una didattica religiosa avulsa dalla conoscenza dell’educando, annota l’A. di suo pugno a pagina 3 del volumetto, evidentemente preparato per una seconda edizione (che non uscì). Frutto della catechesi e dedicato dall’A. “ai suoi allievi ed ex-allievi” è Il vostro focolare, o giovani 40, un esplicito invito a una sana e cristiana autoformazione affettiva in preparazione al matrimonio. Rimase irrealizzata, anche per insuperabili difficoltà logistiche (la sede proposta era Milano), la creazione di una facoltà di catechetica, che caldeggiò a lungo e con buone ragioni41.

Psicopedagogista Fr. Beniamino deve però la sua notorietà, non solo nazionale, alla sua attività di psicopedagogista. Nelle brevi note iniziali (Frammenti biografici: psicopedagogista e catecheta), sono elencati studi, specializzazioni e riconoscimenti che riguardano questa sua attività a partire dal 1950. Ad essi va aggiunta la trentennale azione sul campo svolta a favore di molte generazioni di studenti, soprattutto delle scuole lasalliane milanesi, mediante il Consultorio psicopedagogico che operò al Gonzaga a partire dal 1952. Difficile, e tutto sommato marginale, stabilire in che epoca della

Annata 1949, fascicoli 1 e 2, rispettivamente pp. 85-104 e 150-174, poi pubblicati in estratto. Ed. Sussidi, Erba 1945, pp. 246. Fa intenzionalmente parte della collana Sussidi per la catechesi, perché innanzitutto destinata ai catechisti. 39 Esamina: Il fanciullo e le verità religiose, la morale cattolica, la vita cristiana, la preghiera. 40 Ed. Sussidi, Erba 1944, pp. 119. 41 Nel progetto illustrato nel 1955 all’Assistente per l’Italia fr. Gioachino Gallo si legge, tra l’altro: Una Facoltà cattolica apposita, affidata ad una Congregazione insegnante che conta membri in tutte le parti del mondo, esclusivamente dediti all’educazione cristiana e all’insegnamento del catechismo, che sono stati definiti dal santo Pio X ‘Apostoli del Catechismo’, darebbe al problema la soluzione migliore: metterebbe al servizio dei catechisti bene informati e formati in tutte le discipline educative, e, quindi, in grado di insegnare il catechismo in ogni ordine di scuole, e porrebbe a disposizione dei Vescovi dei maestri capaci di attendere dovunque alla formazione di catechisti laici’. Il documento è riportato per intero alle pp. 50-60 della biografia citata in nota 3. 37 38


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vita questa ‘vocazione supplementare’ emerse e si affermò. Il primo scritto che la rivela in modo esplicito anche se conciso, è del 194242. L’incontro con don Gnocchi e i problemi dei portatori di handicap, indurrà poi fr. Beniamino ad approfondire, fino a diventarne uno specialista, il complesso mondo dei piccoli minorati fisici. Fece suoi i principi della psicologia cognitiva che, accantonando l’empirismo di quella comportamentista, si occupa dei processi mentali: percezione, apprendimento, risoluzione dei problemi, memoria, attenzione, linguaggio, emozioni,…insomma di tutti gli aspetti psicofisici che costituiscono la personalità individua, cristianamente intesa come unico, inimitabile progetto di Dio. Itinerari scolastici di diagnostica psicologica.43 è la pubblicazione che segue gli anni della specializzazione negli USA. Essa è il primo (ed unico, perché gli altri due rimasero ‘in pectore’) di una trilogia di volumi da riunire sotto il titolo di “Itinerari scolastici di Psicologia” annunciati dall’editrice Sussidi per la collana “Il seminatore avveduto”. La premessa richiama la genesi dell’opera, nata come risposta a due domande formulate da un gruppo di esperti del Centro Nazionale Didattico a conclusione del convegno tenuto a Paderno del Grappa nel 1953: 1. Che cosa offrono oggi gli psicologi all’insegnante? - 2. Come praticamente un insegnante potrebbe avvalersi nel suo magistero dell’apporto concreto della psicologia?. Una esauriente recensione44 ci dà conto delle risposte affidate da fr. Beniamino alle pagine degli Itinerari. Su “Rivista lasalliana” pubblicò i saggi di maggior spessore, tra cui: - Le esigenze psicologiche e morali dei mutilatini, 1950, 2, 111-120; Educazione e psicopatologia, “Sussidi” 1942, 177-182 e 210-213. Ed. Sussidi, Erba 1955, pp. 304, con 6 tavole allegate. Tra gli altri scritti psicopedagogici vanno segnalati, oltre a quelli segnalati : - Reattivo della personalità (per scuole medie e superiori) con taratura e ‘chiave’, in collab con Paul Griéger, Istituto Gonzaga, Milano 1953, pp. 12; - Reattivo d’intelligenza (per scuole elementari, medie e superiori), con taratura e ‘chiave’, Istituto Gonzaga, Milano 1953, pp. 22; - Reattivo degli interessi per maturandi, con taratura e ‘chiave’, Istituto Gonzaga, Milano 1953, pp. 12; - Inventario dell’intelligenza: 1.Serie elementare; 2.Scuole medie; 3.Scuola superiori, Ed. Sussidi, Milano 1956, pp. 6+7+8; - Reattivo di personalità, Ed. Sussidi, Milano 1956, pp. 12; - Inventario dell’adattabilità, Ed. Sussidi, Milano 1956, pp. 12; - Corso di psicologia educativa (pro manuscripto), FIR, Milano 1956, voll.2, pp. 125+170. 44 È di fr. Emiliano (Giuseppe Savino) su “Rivista lasalliana” 1955,3: Definiti i limiti del proprio lavoro ed affermato che lo spirito e le forme della scuola nuova esigono la diagnostica psicologica (…), l’A. richiama la natura, la possibilità, l’opportunità e l’oggetto della conoscenza psicologica. In un capitolo molto impegnativo esamina i presupposti della diagnostica psicologica: buone le considerazioni svolte sulla varietà, unità e organicità della vita umana con il necessario rilievo al primato dello spirito; lumeggiati sinteticamente i fattori di rilievo nella compagine della personalità (…) egli traccia un quadro di sistematica tipologica, secondo i criteri morfologico, morfo-funzionale, neurovegetativo, psichico-analitico, psichico correlato, umorale antico e moderno, di correlazione e di versione ambientale (pp. 281-283). 42 43


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- Educazione e abilitazione alla vita dei minorati fisici, 1952, 1, 26-42; - L’affettività del ragazzo motuleso (infermo), 1953, 2-3, 216-239; - La Psychologie sociale et l’adaptation affective des enfants infirmes-moteurs, 1954, 1, 33-70; - Introduzione alla Psicologia sociale applicata ai motulesi, 1954, 2, 12-149; - Scrittura, voce e personalità, 1954, 3, 250-268; 1955, 2, 158-181; - Éducation du sens international et pédagogie scolaire, 1955, 3, 224-253; - Introduzione alla Psicopedagogia, 1956, 1, 39-75 ; 1956, 2, 188-214; 1956, 3, 334-354; 1956, 4, 410-438. La collaborazione alla rivista “Sussidi per la catechesi” durante il trentennio del dopoguerra costituisce un’autentica miniera di pagine dedicate alla psicologia educativa; pagine snelle, senza preoccupazioni accademiche, calibrate per lettori alla ricerca di indirizzi e strumenti applicabili nella quotidiana fatica dell’insegnare (vedi l’elenco in appendice).

La qualità umana È di qualche interesse concludere questo profilo, rapido e parziale45, prendendo in considerazione i rapporti interpersonali. Improntati a stima e testimonianza del credito professionale di cui godeva sono quelli ‘ufficiali’46 di cui rimane un’ampia ampia documentazione. Riconoscenti e commossi quelli delle persone - il cui numero è impossibile quantificare - che assisté, incoraggiò, aiutò concretamente negli ultimi anni del conflitto e nel lungo periodo in cui fu incaricato e animatore alla San Vincenzo del Gonzaga. Ma, soprattutto nel primo caso, si trattò di rapporti brevi, gestibili quindi nel modo più soddisfacente. Di impegno ben diverso quelli pressoché quotidiani con gli con allievi e i confratelli, compagni di cammino, perciò testimoni oculari e coprotagonisti della sua azione educativa. Fra le forme meno gradite che fr. Beniamino esibiva nei rapporti ‘feriali’ c’erano le impennate, talora violente, e le intemperanze verbali, sia pur spesso giustificate dalle situazioni in cui si verificavano: erano la traduzione in linguaggio comportamentale, della sua natura interiore, che, abbiamo visto era stata scientificamente descritta come “servita da un carattere ricco e organizzato, ma accentuato da alcuni suoi elementi; portato a esagerare, la qual cosa può favorire la tensione interiore e l’accentuazione di taluni aspetti della personalità”47. Limiti che onestamente Non si accenna per esempio alla sua figura di religioso, intransigente nei principi e rigoroso nell’osservanza, tuttavia abitualmente comprensivo, ma senza silenzi complici o compiacenti, con chi lo era meno. 46 Imponente la documentazione al proposito, consultabile nei faldoni X/40/1-4 all’Archivio provinciale FSC di Torino. 47 Dal profilo psicologico di Paul Griéger, citato all’inizio di queste note biografiche. 45


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riconosceva, perciò motivi di pene segrete e tema costante dei suoi professionali esami di coscienza: “In cattedra… come sull’altare: vi salgo con l’impegno di obbedire alla consegna del Maestro, al solo scopo di pormi al totale servizio degli alunni. In cattedra… per questo, ho perduto salute, voce vigore, tempo e… vita’ (dal Diario, marzo 1962). Tuttavia, da allievi, allieve e loro famiglie, arrivarono a lui in vita e per lui dopo morte per lo più riconoscimenti di una stima intrisa d’affetto, attendibili anche perché spontanei48. Per ciò che attiene ai rapporti con i confratelli può risultare interessante sottoporre fr. Beniamino a un virtuale ‘reattivo di autovalutazione degli interessi’, inteso a far emergere ciò che egli ritenne più ammirevole e forse si propose di imitare in loro. Lo si evince dalle biografie che scrisse per tre di essi e per le notizie biografiche che inviò per numerosi altri. - Luce dalla cattedra49 ha per protagonista fr. Angelino Guiot, eminente figura di religioso e di insegnante con cui fr. Beniamino condivise ideali ed entusiasmi professionali (entrambi furono docenti di materie scientifiche)50. Era stato suo confratello nelle comunità di Rodi e del Gonzaga. - Come Cristo a tempo pieno51, biografia di fr. Cecilio Ughetto Piampaschetto. Delle tre la più ricca e documentata. Fr. Beniamino ebbe la fortuna di sentire direttamente i parenti prossimi di fr. Cecilio, si avvalse delle testimonianze vive dei molti confratelli con i quali era convissuto e aveva lavorato, ne aveva potuto consultare la corrispondenza e le note intime.52.

48 Cf. in particolare il faldone X/40/4 nel citato Archivio. Sono testimonianze del tipo: - Attendo fiduciosamente il suo consiglio, perché della sua parola ho tutta la fiducia e la stima, avendo riscontrato in lei un vero educatore, coscienziosissimo ma autorevolissimo, che ha molto contribuito a rendere il mio spirito sicuro e sereno’ (R.P., 1.7.1961). - Caro professore, vorrei sentire la sua mano sulla mia spalla: mi darà tanto coraggio per riuscire come io desidero. (M.M., s.i.d.). - Ringrazio cordialmente per gli ultimi insegnamenti ricevuti secondo i principi cristiani e serviti in pratica per la buona riuscita agli esami di stato. (ex-alunno induista, 16.9.1970). 49 Ed. A&C, Milano 1968, pp. 159; cf. il profilo di fr. Angelino Guiot in RL 2010, 2, 319-332. 50 Dalla Premessa: Queste pagine sono dettate da un dovere e dai sentimenti tra i più degni di impegnare il cuore umano. Il dovere è analogo a quello degli Apostoli che dichiarano:’Non possiamo tacere quanto abbiamo visto e udito’ (At 4, 2). E i sentimenti sono: di ammirazione commossa per il Signore che fa splendere i giusti come il sole nel suo Regno (Mt 13, 43), e affettuosa per il grande religioso-educatore nel quale rifulsero l’abbondante effusione dei doni di Dio e l’esemplare corrispondenza del destinatario. 51 Ed. A&C, Torino 1977, pp. 254. 52 Dalla Premessa: Per educare si può dare con gioia la vita e affrontare con uguale gioia la morte. Quando l’educare è vocazione divina. Quello di Fratel Cecilio è il messaggio di un impegnato allo spasimo con la gioventù su commissione di Dio. Il finale è emblematico di tutta la sua vita. Non per lui come tanti. Che la morte ne sveli come per incanto le virtù e i miracoli. No.


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- Fratel Agilberto. Tuttocatechesi 53 è soprattutto la celebrazione della missione che dovrebbe contraddistinguere ogni lasalliano: la catechesi54. Con lui e con i membri del Centro catechistico lasalliano fr. Beniamino aveva condiviso il trentennio di animazione e di rinnovamento dell’insegnamento religioso che si estese pressoché e tutte le diocesi italiane. *** Appendice bibliografica - Una selezione di articoli pubblicati su Sussidi -

Le vie della conoscenza del fanciullo, 1945, 3, 43-57; I problemi educativi della giovinezza, 1946, 2, 42-53; Sussidi visivi (motivi psicologici della catechesi), 1950, 6, 268-274; Il preadolescente e la religione, 1957,7, 325-332; Conosciamo i giovani: l’indagine psicologica nella scuola, 1958, 6, 283-285; La fede nell’età evolutiva,1964, 1, 7-12; Presupposti psicologici per una catechesi nella scuola media, 1964,12, 611-618; Sviluppo umano e vocazione divina, 1966, 12, 567-571; Esperienza cristiana e psicologia, 1966, 5, 317-318; Non c’è catechesi senza adeguamento psicologico, 1966,10, 497-501; Adattamento psicologico e catechesi dell’adolescente, 1966, 3, 172-178; Direzione spirituale nell’età dello sviluppo, 1966, 5, 425-429; Incontri educativi tra ragazzi e ragazze, 1969, 4, 237-244; Psicologia degli audiovisivi, 1969, 5, 296-300; La catechesi come rapporto interpersonale, 1970, 2, 607-619; Il comandamento dell’amore cristiano nell’età evolutiva, 1971, 2, 105-112 Oltre la scuola la vita di gruppo, 1972, 3, 20-31; Presupposti psicologici per una catechesi sociale, 1972, 4, 34-43; Le dimensioni psicologiche della preghiera, 1972, 6, 3-17: Catechesi di gruppo: incentivi psicologici, 1974, 1, 17-29; Psicologia e problemi vocazionali, 1974, 2, 24-35 Motivazioni psicologiche dell’attivismo nella catechesi, 1974, 5, 16-27; Istanze psicologiche del fanciullo recepite dal CdF (I), 1974, 6, 3-16 Psicologia e confessione, 1975,1, 3-19; Motivi psicologici nel Catechismo dei fanciulli (II), 1975, 6, 12-27; Presupposti psicologici nella catechesi matrimoniale, 1976, 4, 11-17; Valori psicologici nella catechesi sulla legge morale, 1976, 5, 3-16: La fedeltà al fanciullo nel Catechismo dei fanciulli (III), 1976, 6, 11-24.

Ed. A&C, Torino 1980, pp. 199. Dalla Premessa: Chi era Fratel Agilberto? Tutto qui: catechista insigne e catecheta fedele al mandato di Dio e alle esigenze delle anime. Come catechista era il genio del suo catechismo di tutti i giorni, lo straordinario direttore d’orchestra; e c’era da esserne estasiati a vederlo in azione. E come catecheta era docile e fervido esecutore del magistero cattolico. Un artista sull’uno e sull’altro piano.

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Bibliografia lasalliana

Nouvelle biographie, nouveau regard sur Jean-Baptiste de La Salle NICOLAS CAPELLE

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vec plaisir, le F. Sylvain Flambert et moi-même, avons reçu et lu la vie de JeanBaptiste de La Salle que Mr Christophe Mory nous a adressée il y a quelques mois. Publié aux éditions Pygmalion, l’ouvrage est en librairie, depuis le 17 février 20101.

Mr Christophe Mory est écrivain, biographe (Schubert, Charles de Foucauld, Molière…). C’est donc un regard neuf qui se pose sur la vie de notre Fondateur et qui nous invite à rentrer dans la compréhension d’une psychologie et d’une aventure dont nous pensions tout connaître. Aussi j’ai lu cet ouvrage avec ouverture et sympathie, espérant y découvrir un visage renouvelé de Jean-Baptiste de La Salle. Et c’est en partie le cas. En effet, nous sommes tellement habitués à comprendre JeanBaptiste par l’exégèse de ses écrits, par la recherche de ses sources spirituelles et éducatives, que notre approche du Fondateur se fait ordinairement à travers un maquis de justifications (pour lui, mais aussi pour nous, éducateurs lasalliens) qui nous interdit quelque peu de saisir le personnage dans la ‘simplicité’ de sa psychologie, de sa démarche, dans la ‘primitivité’ de ses intuitions et de ses réflexes. Ici, l’auteur “neuf et ingénu” - dit-il - nous met au contact d’une personnalité qui donne corps à ses intuitions à travers des combats inhérents à sa personnalité, à son milieu, à sa formation, aux intérêts divergents de ses interlocuteurs, ecclésiastiques notamment, mais aussi des maîtres qu’il veut hisser jusqu’à l’estime d’eux-mêmes, de leur métier d’instituteur et de catéchiste. J’ai aimé ce Jean-Baptiste de La Salle, issu d’une famille chrétienne rigoureuse et pour laquelle Dieu est au centre. Ce jeune homme qui reçoit la marque d’hommes du renouveau chrétien, au séminaire de St-Sulpice, animé par des spirituels d’envergure auprès desquels il reviendra sans cesse au cours de sa vie et dans les épreuves. Cet homme de

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Christophe Mory, Jean-Baptiste de La Salle. Rêver l’éducation ? Pygmalion, Paris 2010, pp. 346.


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convictions qui sera l’homme d’un projet, modelant et remodelant, en dépit des vents contraires, cette communauté de maîtres pauvres et mortifiés, destinés aux pauvres pour les tirer au-dessus de leur condition, vers les bienséances sociales et religieuses qui vont leur permettre de se mouvoir dans le monde des gens ordinaires et respectables, sans honte et sans orgueil; conscients de leurs origines tout autant que des efforts d’éducation nécessaires au commerce en société. Cet homme d’âge qui doute au soir de sa vie, lucide sur ses limites et ses raidissements, comme de la répétition sans cesse recommencée des mêmes tracas, de leurs mêmes causes, des mêmes réflexes et entêtements, privés de ses conseils que la mort a déjà emportés... J’ai aimé ce Jean-Baptiste de La Salle que l’auteur situe avec bonheur dans le contexte très éclairant de Louis XIV, des Sulpiciens, de Fénelon, des grands vicaires de Paris, de l’ami Godet des Marais, de Mme de Maintenon et des préoccupations éducatives du temps. Tout un contexte d’austérité, de radicalité janséniste, de volontarisme qui, malgré tout, ne détourne pas l’auteur de la fine pointe du projet de Jean Baptiste: “les Règles de conduite inscrivent les Frères au cœur de l’éducation: elles transforment la misère humaine en pauvreté évangélique; elles transcendent la fatalité sociale par une humanité partagée; elles créent un modèle vivant pour permettre à des enfants dédaignés par la société de se construire, d’exister, de s’élever. L’éducation relève de la vocation.” J’ai été plus dubitatif quand l’auteur nous parle de Jean-Baptiste de La Salle comme « l’enfant du péché », conçu avant mariage (aujourd’hui nous parlerions davantage d’ « enfant né avant terme »); il en fait une hypothèse insistante qu’il applique aux parents de Jean-Baptiste (dans leur désir de prêtrise pour lui), puis à Jean-Baptiste lui-même, justifiant par cette conscience du ‘péché’ son désir permanent de rachat, de souffrances, de mortifications. J’avoue que je n’ai pas été convaincu de la thèse; d’autant moins qu’une facette de la personnalité du Fondateur semble échapper à l’auteur qui a dû lire trop rapidement l’Explication de la méthode d’oraison. En effet il y aurait perçu l’âme d’un grand mystique qui laisse libre cours à sa sensibilité, aux affections, à une détente intérieure éloignée de la contention qui lui est reprochée. Contrairement à ce que dit l’auteur, Jean-Baptiste de La Salle n’est pas « dans une logique de bonne conduite » mais dans une logique d’écoute et d’abandon à Dieu dont il a éprouvé la conduite: “Dieu qui conduit toutes choses avec sagesse et avec douceur, et qui n’a point coutume de forcer l’inclination des hommes, voulant m’engager à prendre entièrement le soin des Écoles, le fit d’une manière fort imperceptible et en beaucoup de temps…” L’attention de l’auteur n’a pas retenu ce texte de fin de vie qui en dit long sur les évolutions humaines et spirituelles de Jean-Baptiste, soixante ans durant. Ceci dit, l’auteur a bien percé les tiraillements de cette personnalité et le sens profond de sa fondation. La ténacité, voire l’entêtement de Jean-Baptiste (qui a dû souvent peser à ses amis les plus proches et les plus convaincus de son œuvre), lui ont finalement permis de donner corps à ses intuitions. Intuitions que l’auteur salue lar-


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gement, car il y découvre pour aujourd’hui une source d’inspiration: constitution d’un corps de maîtres et d’une société nouvelle dans l’Eglise. Communauté de Maîtres tout donnés aux jeunes, leur offrant les moyens d’exister dans un monde comme il est, qui exige bienséance, langage correct, respect des règles, rigueur, silence pour que l’élaboration de croissance se fasse. Communauté de Maîtres solidaires, cohérents, engagés uniquement pour l’éducation des enfants et des jeunes, au-delà d’un gagne-pain. Oui, l’auteur a compris qu’un pays a besoin, pour ses jeunes, d’éducateurs répondant à une vocation; vocation individuelle, certes, mais surtout, vocations collectives. Et ceci est l’occasion pour l’auteur de développer un peu ses attentes actuelles dans le contexte français. La lecture de cet ouvrage rajeunit notre vision du Fondateur. Elle donne à voir un simple chrétien, enraciné dans l’humus d’une époque, qui fait confiance à son milieu, en épouse les convictions jusqu’au moment où il a la fragile intuition de sa propre route, qu’il ouvre de façon ferme et résolue, la partageant avec des compagnons d’infortune jusqu’à les rejoindre dans un état de vie que sa propre famille et ses formateurs n’auraient pas imaginé. Pour moi, il y a beaucoup de similitudes entre le 17è siècle foisonnant et ce début de 21è siècle: nos catégories éducatives, sociales, d’Eglise sont en train d’être bousculées et des initiatives nouvelles tracent des voies inédites. Le livre de Christophe Mory nous incite à faire notre propre chemin d’innovation, à la suite de Jean-Baptiste de La Salle dont les intuitions de fond sont encore d’une grande actualité.

El inspector de las escuelas en los escritos de Juan Bautista de La Salle SANTIAGO TEMPRADO ORDÍAZ

E

l título de nuestro trabajo es El Inspector de las escuelas según los escritos de Juan Bautista de La Salle2. Lo cual supone dos temas importantes. Primero, el cargo y la función del Inspector; y en segundo lugar su misión educativa de inspeccionar. Con este título hemos querido precisar que nos referimos al Inspector creado por La Salle, distinguiéndose de todo Inspector antiguo o moderno, público o privado, confesional o social; nos centraremos únicamente en este Inspector, cuyo sentido y espíritu queda patente en documentos de La Salle. La Salle lo llamó Inspector de las Escuelas, lo cual coincide con la Guía de las Escuelas, pero podía

Santiago Temprado Ordíaz, El inspector de las escuelas en los escritos de Juan Bautista de La Salle, “Cuadernos Lasalianos” 24, Ediciones San Pío X, Madrid 2010, pp. 328. 2


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Santiago Temprado Ordíaz

haber añadido Inspector y Guia de las Escuelas Cristianas, como hizo con los Hermanos de las Escuelas Cristianas. Este título de Escuelas Cristianas, original de La Salle, ha sido adoptado, modernamente, por el colectivo de colegios y escuelas confesionales. Nuestro estudio se centra en varios documentos escritos por Juan Bautista de La Salle, el más antiguo de los cuales se ha conservado íntegro y tal cual lo escribió el propio Fundador, publicado en la edición príncipe de las Reglas Comunes, en 1726, en Rúan, imprenta de Antoine Le Prevost, que luego, sin variaciones del texto, tendría 13 ediciones más hasta 1947. La primera Asamblea General de Hermanos en 1684, reclamaba unas Reglas, pero el Fundador, antes de fijarlas por escrito, convenció a sus Hermanos para que, antes de eso, sería preferible vivir varios años según las prescripciones verbales ya en uso, cuya primera redacción, corregida por el propio Fundador y que se conserva en los Archivos de la Casa Generalicia, se llamó Reglamento diario, escrito en 1690, de donde saldrá la Regla. Las Reglas Comunes de los Hermanos de las Escuelas Cristianas dedican el capítulo XI al Inspector de las Escuelas. Como se ha podido observar, el título del capítulo XI de la Regla dice Del Inspector de las Escuelas, y no del Inspector lasaliano. Eso obedece a varias razones entre las cuales la principal es que había que hacer notar desde el origen que se trataba no de un Inspector cualquiera de las escuelas, y tal como ya existía y se venia haciendo en tiempos del Fundador, sino del Inspector original de las Escuelas creado por La Salle, lo cual lo diferencia en muchos aspectos de otros Inspectores. Es el capítulo XI es el más corto de las Reglas, pero tal vez el más sustancioso y bien escrito en el cual no falta nada de lo referente al personaje que ejerce el cargo de Inspector, por destacar en la docencia, por su experiencia y manejo de las clases y por su liderazgo entre sus compañeros. No es de extrañar que en su último párrafo del texto, insista La Salle en el mucho respeto que los maestros han de tener al Inspector de las Escuelas así como al Hermano Director y a todos los que ejerzan algún cargo en ellas. El Inspector de las Escuelas es un agente fundamental e imprescindible en la labor de equipo con el Maestro y el Director en la pedagogía de la Salle. El Maestro como motor de la enseñanza y el aprendizaje de los alumnos en la clase. El Director como organizador y dinamizador de la vida de la escuela y el Inspector como agente de cambio e innovación en la educación y de la formación, acompañamiento y promoción de los maestros y de los alumnos. El Inspector ha de ejercer un liderazgo basado en la confianza, como lo ejerció La Salle en sus escuelas, con sus maestros y con los alumnos. Y es que en varios autores, incluso muy posteriores a La Salle, se considera al Inspector escolar en general, con aversión y temor hacia el personaje que lo ejerce, llegándose incluso a considerar su acción como subversiva , contraria o destructora de la obra escolar, realizada por los maestros. Y es que la figura del Inspector de las Escuelas tardó


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mucho tiempo en introducirse en las escuelas con diferentes nombres, y su función inspectora siempre fue mirada con recelo y sospecha por parte de un sector de los maestros. Por el contrario para La Salle, el Inspector de las Escuelas y la función inspectora, es el motor que mueve la educación hacia adelante, hacia el progreso, hacia la innovación y la creatividad y dinamiza a los Maestros con nuevos proyectos, nuevas iniciativas y sobre todo con nuevos estímulos de formación, de mejora personal y de adquisición del profesionalismo y de la perfección de sus actitudes y acción educativa. El segundo texto sobre el Inspector, escrito por La Salle está en la tercera parte de la Guía de las Escuelas. Así lo anuncia la edición príncipe de 1720 en su tercera parte dedicada a los Deberes del Inspector de las Escuelas, que no publica. Desde 1695, La Salle permaneció la mayor parte del tiempo en Vaugirard y allí, en silencio y en relación con los Hermanos más experimentados en las escuelas, recopiló sus consejos pedagógicos a los maestros en un cuerpo de doctrina que titula Conduite des Écoles Chrétiennes, o Guía de las Escuelas. Es el mejor libro de Pedagogía del siglo XVII, sin duda. Se hizo dominante en la educación primaria francesa, en su metodología y aun su filosofía al meno en las escuelas de varones. Este texto se guardó manuscrito durante toda la vida del Fundador, que existió desde los orígenes mismos de la congregación y que fue el libro fundamental del Hermano como pedagogo y educador. Fue publicado en Avignon en 1720 (chez Chastenier, 230 pp.). En el prefacio de esta edición príncipe, se dice lo siguiente: Esta Guía ha sido recopilada y puesta en orden por el Sr. De La Salle después de un gran número de conferencias y reuniones con sus Hermanos del Instituto, los más antiguos y los más capaces en el arte de dar bien la clase, y tras una experiencia de muchos años. Esta edición príncipe está dividida en dos partes, sin embargo el prefacio hace mención de una tercera parte, que no aparece, precisamente la referente al Inspector de las Escuelas. “Rivista Lasalliana” (Torino, diciembre 1934, pp. 634-660) llama a la Guía de las Escuelas, la Magna Carta de la educación lasaliana. Esta tercera parte desconocida, ha sido objeto principal de nuestra investigación.

Remarques sur une recension de Michel Ostenc ALAIN HOURY Rivista lasalliana pubblicava nel n. 2/2010, pp. 313-318, la recensione di una serie di recenti ricerche italiane condotte sulla storia della Scuola primaria negli Stati Pontifici tra il 1815 e il 1870. Il recensore, il prof. Michel Ostenc, è storico della Pedagogia dell’Università di Angers. Di fronte ad alcune ragionevoli perplessità sollevate da più di un lettore attento alle “cose lasalliane”, abbiamo


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chiesto un parere rettificativo a F. Alain Houry, esperto di Storia lasalliana e responsabile in Francia degli Archivi Lasalliani nazionali (Lyon); il quale interviene puntualizzando qui efficacemente alcuni aspetti che la recensione lasciava invece nell’ambiguità. Gliene siamo grati [ndr].

[p.314] “Les « écoles paroissiales » furent progressivement attribuées par le Vicariat à des congrégations religieuses, si bien qu’en 1869 les deux-tiers de leurs enseignants étaient des ecclésiastiques. Les écoles tenues par les « Ignorantelli » enseignaient en italien et leurs classes correspondaient aux trois disciplines de la lecture, de l’écriture et du calcul. Le maître s’occupait d’un seul élève à la fois, pendant que les autres s’adonnaient à des exercices répétitifs.” Vu que les Frères des Écoles chrétiennes – car ce sont bien eux qui sont appelés « Ignorantelli » (voir Rigault 4,534) – viennent juste avant la partie soulignée, il semblerait que, dans la 1re moitié du XIXe siècle, ils pratiquaient l’enseignement individuel dans les États Pontificaux : ce serait alors en contradiction avec la Conduite des Écoles chrétiennes qui prévoyait, dès 1704, l’enseignement collectif dans une classe comportant divers niveaux (« ordres ») (voir CE 3,1,8-9)3 ; sauf pour les débuts de l’écriture (CE 4,8,1)4. Les Frères, dont bon nombre à Rome étaient français, pouvaient utiliser couramment les rééditions de la Conduite faites après la Révolution à Lyon 1811, 1819 et 1823, ou celles revues et corrigées par le Frère Guillaume de Jésus, ancien Vicaire des Frères à Rome, avec l’aide de 3 Frères, et éditées à Paris 1828 et 1837 ; suite au Chapitre général de 1837, le champ de l’enseignement s’est étendu : éditions parisiennes de 1838, 1849, 1850, 1852, etc. De plus la Conduite était disponible en italien à Turin depuis 1834 (traduction de 1811), revue en 1844, traduction de 1838 (RL 2000-4, 247). *** [p.314] “Ces établissements contribuèrent largement à la diffusion de l’alphabétisation; mais ils ignoraient les innovations pédagogiques de l’enseignement mutuel avec la création de classes homogènes, l’apprentissage simultané de la lecture

CE 3,1,8 Chaque ordre de leçon aura sa place assignée dans l’école [= classe] en sorte que ceux d’un ordre de leçon ne soient pas confus et mêlés avec ceux d’un autre ordre de la même leçon, les commençants, par exemple, avec les médiocres, mais qu’ils soient facilement distingués les uns des autres à raison de leur place. CE 3,1,9 Tous les écoliers de tous les trois ordres de leçons liront cependant ensemble sans distinction et sans discernement, selon que le maître les avertira. 4 CE 4,8,1 D’abord [= Dès] qu’un écolier commencera à écrire et sera dans le 2e et 3e ordre des écrivains, le maître lui enseignera à bien former les lettres, par où il les faut commencer, quand il faut soulager et lever la plume, ce qu’il faut faire tout d’un trait et ce qu’il faut faire à plusieurs reprises, ensuite il lui fera concevoir la manière de bien faire toutes ces choses. 3


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et de l’écriture, l’usage du tableau noir et des cartes murales.” Certes, les Frères, en France et en Belgique, dont l’enseignement simultané a fait ses preuves, se sont montrés rétifs à l’introduction de l’enseignement mutuel (cf. Frère Henri Bédel, XIXe siècle, 1805-1875, pp. 31-40). Au Piémont, au contraire, le Frère Hervé de la Croix encouragera les Frères à s’inspirer partiellement de l’enseignement mutuel. Il faudra attendre le Comité général de 1834 et le Chapitre général de 1837 pour que La Conduite des Écoles signale l’avantage d’une « méthode simultanée-mutuelle » ou « mixte » « pour toutes les leçons qui s’en montrent susceptibles » (id., p. 125). Pour ce qui est du tableau noir, voir CE 5,0,135. Chez les Frères, l’usage du tableau noir remonte donc au tout début du XVIIIe siècle. Par contre, ils ont attendus que leurs élèves sachent parfaitement lire avant de leur apprendre à écrire. *** En plusieurs endroits du texte d’Ostenc, le terme de « cléricalisation » du personnel enseignant ou le désigner comme formé d’« ecclésiastiques », semble curieux quand il s’agit de religieuses et de Frères, pour qui l’emploi des termes techniques « clergé » ou « ecclésiastiques » est inadapté. On comprend cet emploi de « cléricalisation » dans le contexte d’une analyse politique de la situation scolaire, mais il ne faut pas oublier que Frères et Sœurs ont dû souvent aller à l’encontre des conceptions de nombre de membres du clergé. Pie VI, on le sait, a été le premier Pape à se soucier vraiment de l’éducation des enfants des milieux populaires : il réussit à faire construire l’école gratuite qu’il confie, en 1793, aux Frères à San Salvatore in Lauro (il y aura, en plus des leçons ordinaires des Frères, un cours de dessin donné les jours de congé par un laïc, Andrea de Dominicis), alors que de nombreux prélats s’opposent à l’augmentation des classes pour les enfants pauvres. On peut voir à ce sujet l’attitude du cardinal Luigi Lambruschini, Secrétaire d’État de Grégoire XVI, tançant son neveu Raphaël qui a ouvert, en 1832, une école dominicale gratuite où l’on enseigne la géométrie (A. GAMBARO dans RivLas décembre 1961, p. 237-238). Les Frères ont aussi travaillé à maintenir la gratuité absolue de leurs écoles, sans pour autant en exclure les enfants dont les parents auraient pu payer une faible scolarité : c’est pour laisser sans ambiguïté la relation éducative, et ne pas faire de l’école gratuite un ghetto pour pauvres. Oui, Frères et Sœurs auront été utilisés souvent pour une politique réactionnaire, mais habituellement leur action permet un élargissement du champ scolaire.

CE 5,0,2 Cette table [= Ce tableau] doit être attachée à la muraille à l’endroit le plus commode, le bas élevé de terre de cinq pieds, et le haut penché en devant d’un demi-pied. CE 5,0,3 Il faut aussi que les deux pans de cette table soient peints en huile de couleur noire, afin qu’on puisse écrire les règles [= exercices de calcul] dessus, avec de la craie…

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Alain Houry

*** [316-317] Un dernier détail : les Sœurs de la Visitation sont dites d’une congrégation « essentiellement contemplative ». Ce qui est tout à fait exact à l’époque dont il s’agit. Mais on ne doit pas oublier que François de Sales et Jeanne de Chantal ont institué une congrégation féminine active – visiter malades et pauvres chez eux – qui, se déclarant formée de « religieuses », a été soumise à la plus stricte clôture : « contemplatives » par nécessité canonique, car on ne connaît pas d’autre statut pour des femmes ! C’est d’ailleurs en réfléchissant sur ce changement imposé aux Visitandines que Vincent de Paul a décidé de parler de « Filles » de la Charité : « votre chapelle, c’est l’église paroissiale ; votre cloître, les rues de la ville », leur disait-il. Il a ainsi ouvert à grand nombre de congrégations féminines un chemin pour mener une vie religieuse au service des populations voisines sans en être empêchées par l’exigence du cloître. Lyon, Archives Lasalliennes, le 03.06.2010


Biblioteca

BIBLIOTECA Elisabetta BIFFI (a cura di)

Educatori di storie L’intervento educativo fra narrazione, storia di vita e autobiografia FrancoAngeli, Milano 2010, pp. 191. Memoriali e racconti autobiografici, noti soprattutto come forma espressiva di alcuni capolavori della letteratura, trovano a scuola una loro collocazione funzionale. Nella prospettiva delineata da studi recenti, i racconti autobiografici, i diari, i resoconti delle più varie esperienze personali sono da considerare veri e propri strumenti educativi, capaci di portare concreti risultati in termini di ricupero, cambiamento e nuova progettualità. La scrittura, infatti, sviluppa capacità retrospettive, introspettive e auto consapevoli a un livello più profondo della narrazione orale, perché richiede ai soggetti di prendere il tempo per dedicarsi all’ascolto di sé, per pensare in silenzio e ponderare la scelta delle parole in grado di esprimere concetti ed emozioni. Sono questi la premessa metodologica e il filo conduttore dell’antologia ‘esperienziale’ introdotta e curata da Elisabetta Biffi, dottore di ricerca in Scienze umane dell’Università di Milano-Bicocca. L’opera fa parte della collana I territori dell’educazione, che ha lo scopo di fornire a chi già lavora professionalmente in tale campo, o si prepara a farlo, pratici elementi di conoscenza e di riflessione su argomenti di sicuro interesse. “L’educare - osserva in via preliminare l’A. richiede al vivere di divenire vissuto ed alla vita di divenire storia”, perché in connessione fra il vissuto con consapevolezza e le successive stagioni di vita; ragionare su quanto accade, meglio se con l’aiuto di chi è in grado di farlo bene, permette di tramutare l’esistenza in esperienza. Racconto, narrazione, scrittura, autobiografia sono tutte modalità che offrono all’educatore e all’adolescente i mezzi per un’intesa empatica che ha le caratteristiche della danza; richiede, infatti, una reciprocità di azioni e reazioni ove qualcuno guida e qualcuno si lascia guidare non senza, però, imporre all’altro la sua presenza. All’educatore si chiede di operare in modo coerente: il suo diario delle esperienze in atto è insieme strumento professionale e aiuto, perché

521 non solo gli consente di pensare ed agire con maggior consapevolezza, ma anche di proporre agli allievi modalità di comunicazione che personalmente sperimenta. I tre saggi successivi raccontano esperienze maturate in ambienti diversi, ma accomunate dal tema indagato, dal metodo seguito e dalla pratica di educatore-pedagogista degli autori. A. Marchesi, in Storie di vita e sguardi educativi rileva che chi educa deve evitare di giudicare gli adolescenti in base a stereotipi, anche quando, come in alcune delle attuali patologie diffuse e incoraggiate dai new media - il narcisismo, il gregarismo, bullismo, l’anarchia valoriale - sembra di riscontrarne le manifestazioni in gran parte dei soggetti. Sono endemie rivelatrici di una crisi che investe anzitutto famiglia e scuola; richiedono perciò interventi educativi sinergici. A uno sguardo rettamente ‘giudiziario’, che vede nei soggetti a rischio persone non tanto da condannare quanto da tutelare proteggere, occorre unire l’attenzione psico-sociale, che deve prendere in considerazione il sistema di relazioni familiari da irrobustire o ricreare, soprattutto nel caso delle disabilità o della grave emarginazione. Mezzi efficaci: educare a prendere la parola (e a sentirsi ascoltati), abilitare alla progressiva capacità di riflettere per scrivere storie individuali e di gruppo in vista di un futuro da progettare, anche su basi e prospettive diverse da quelle fin qui vissute. Il tema della deriva sociale è affrontato in Storie di vita ai margini da F. Oggionni. L’emarginazione è correlata alla complessità e alla storia della società contemporanea, in cui l’incertezza pervade ogni dimensione dell’esistenza: conoscenza, valori di riferimento, appartenenze, prospettive, possibilità di collocarsi individualmente e collettivamente in una storia che abbia sufficiente senso. Per essere efficaci gli interventi vanno differenziati in rapporto alle situazioni (povertà/abbandono, discriminazione sociale/razziale), per mezzo di narrazioni individuali e di gruppo capaci di dare visibilità, offrire chiavi interpretative e soluzioni a storie di vita altrimenti destinate a rimanere invisibili. Il racconto di sé nella formazione degli educatori, di S. A. Rossetti, parte dall’osservazione che, spesso, la narrazione di sé e della relazione educativa non trovano uno spazio adeguato nel lavoro degli operatori. Eppure una riflessione scritta


522 sul proprio vissuto in rapporto a quello da condurre con e sugli altri offrirebbe elementi convincenti e diretti per stabilire ambiti, passaggi e criteri di valutazione dei propri interventi; sarebbe un far tesoro della propria esperienza, un passare dal fare esperienza all’avere esperienza. È una metodologia da suggerire anche ai genitori quando sia possibile stabilire con loro un efficace rapporto di intesa educativa. Trattato in forma autobiografica, il tema della genitorialità pone a confronto la prospettiva educativa personale con quella di altri operatori, le teorie di riferimento con i modelli parentali, ciò che si pensa con ciò che si vive nella propria e nelle altre famiglie. Con indubbi vantaggi per tutti. Marco Paolantonio

Giulia CORSALINI

Percorsi di formazione all’insegnamento letterario Tra critica e didattica della letteratura FrancoAngeli, Milano 2010, pp. 226. E’ opportuno stabilire in via preliminare la differenza tra disciplina e materia scolastica. Le discipline sono approcci sviluppati nei secoli dagli studiosi per affrontare domande, problemi e fenomeni fondamentali appartenenti al mondo della natura e a quello umano; comprendono metodi d’indagine, reti di concetti, strutture teoriche, tecniche di acquisizione e verifica di dati, immagini, sistemi di simboli, vocabolari e modelli mentali peculiari. Le materie sono gli strumenti operativi con cui la scuola trasmette a scopo educativo queste conoscenze e queste pratiche. Per farlo correttamente, occorre che l’insegnamento/apprendimento si concentri sulle caratteristiche fondamentali che le discipline hanno nell’odierno momento storico, riconoscendo e rispettando al contempo la loro natura dinamica e l’ evoluzione. La didattica storiografica della letteratura è passata, almeno in alcune delle esperienze più avanzate, da una concezione unitaria e lineare della narrazione - l’asse storico-cronologico - alla proposta pluricentrica, che differenzia, per ricomporli secondo gli assetti di metodo ritenuti più efficaci, i fulcri del discorso letterario: la cronologia, l’autore, il tema, il genere, l’opera. Nella scuola media e nel biennio lo studio storicistico,

Biblioteca correlato con l’approfondimento di alcuni grandi autori è stato per lo più sostituito dallo studio per generi e per temi, mentre all’opera si è riservato uno spazio specifico (l’ora di narrativa). Per il triennio le opzioni di metodo - il contemperamento dei cinque elementi che caratterizzano l’insegnamento della letteratura - offrono oggi varie opportunità, tanto più efficaci quanto più chiari sono i criteri cui si ispirano. Ed è questo lo scopo del libro, che si rivolge anzitutto agli insegnanti in formazione; propone perciò situazioni ‘virtuali’, attraverso percorsi correlati con attività laboratoriali e di tirocinio in grado di preparare le esperienze future, guidando alla ricerca dei significati, alla verifica e alla valutazione dei risultati. Ognuna delle quattro sezioni (il testo, l’autore, il tema, il genere) comprende, dopo la rassegna delle varie concezioni teorico-didattiche, una parte operativa suddivisa in fase di osservazione (schede per l’analisi dei contesti didattici proposti), fase progettuale e laboratoriale (che suggerisce come pianificare gli interventi e propone uno schema per la progettazione di percorsi, moduli o lezioni), fase valutativa (con tracce di riflessione e ipotesi di revisione dei progetti e delle esperienze). L’utilità e l’indubbia originalità dell’opera risulta proprio dall’esame del metodo seguito. La prima parte di ogni sezione è infatti, come si è detto, una sintesi chiara ed esaustiva delle teorie storiografiche e delle loro implicazioni didattiche. A proposito del testo, ad es., si passa dall’esposizione delle ‘rettoriche’ e del metodo estetico all’indagine storico-sociologica, alla analisi linguistico-strutturale, agli influssi della neoermeneutica e della pragmatica, delineando infine gli orientamenti recenti. Significative le citazioni di testi che illustrano la logica ermeneutica che sta alla base delle varie scelte di metodo. Ed è a tali paradigmi che fa puntuale riferimento la seconda parte, quella applicativa, che, a proposito del testo, nella ‘scheda per l’analisi dei contesti didattici’, suggerisce: a) modalità di avvicinamento al testo letterario (citazione a sostegno del discorso storico, di genere, tematico, biografico; lettura; comprensione di primo livello; analisi; interpretazione; b) modalità della comprensione (parafrasi integrale; parafrasi dei termini e dei luoghi oscuri; sintesi dei singoli elementi informativi; sintesi del contenuto informativo; c) metodi di analisi del testo (lettura e valutazione


Biblioteca estetica; analisi delle competenze psico-biografiche; analisi stilistica; analisi genetica e variantistica; analisi strutturale; analisi semiologica; analisi narratologica; d) modalità dell’interpretazione guidata (spiegazione del significato delle singole scelte linguistiche, stilistiche, strutturali; contestualizzazione; attualizzazione; valutazione; confronto delle interpretazioni; e) modalità della contestualizzazione (riferimento ad altri testi dello stesso autore, a testi coevi, a testi della stessa tematica; riferimento alla biografia, alla poetica, all’ideologia dell’autore; riferimento alla corrente letteraria; riferimento al genere; riferimento alla tradizione; riferimento al periodo storico; f) modalità della valutazione (in relazione al valore estetico; in relazione all’originalità; in relazione all’interesse e alla ricchezza dei contenuti. I parametri non prevedono risposte rigide, né si escludono reciprocamente; hanno il solo fine di orientare l’osservazione e potrebbero servirsi di sigle quali A per assente, S per saltuario, P per prevalente. Marco Paolantonio

Edda DUCCI

Approdi dell’umano Il dialogare minore Anicia editore, Roma 21999, pp. 158. Il saggio riedito della Ducci propone una rivisitazione del dialogare dalle accezioni più comuni fino ai significati profondi. Considerata attività comune e ordinaria, al dialogare viene attribuito l’aggettivo minore, a significare la sua natura di “materia prima” per l’incontro con l’altro, elemento primordiale per prevenire sofferenze e solitudine. Attraverso una scrittura fluida, che tocca risonanze poetiche, la Ducci compie sul dialogare un’operazione da anatomopatologo con destrezza da chirurgo plastico e toni di alto rigore scientifico. Ne scaturisce un susseguirsi a cascata di significati e declinazioni, scanditi dagli approdi cioè da punti di arrivo e di partenza, che vedono protagonisti l’uomo e il potere della relazione interpersonale. Le conseguenze educative di questa dotta e poliedrica ricerca epistemologica si rivelano molteplici e intriganti, nell’attenzione costante dell’Autrice a non “rimpicciolire e immiserire l’educativo stesso”. Chiamando a testimoniare

523 anche voci autorevoli degli auctores, cioè pensatori e scrittori in genere che “hanno la capacità di cogliere l’umano e di comunicare”, la Ducci traccia un cammino di filosofia dell’educazione che completa progressivamente il profilo dell’uomo dialogico, cioè di un soggetto che smettendo i panni del persuasore, permette all’individuo di scoprirsi e apprezzarsi. In definitiva, questo saggio è un omaggio nonché un’enfasi della maieutica socratica e richiama, cogliendone le sfumature più intime e squisitamente pedagogiche, il “mito della caverna” quale sfondo per ogni azione educativa che risponda al fine ultimo di avviare nella persona una ricerca di senso, attraverso un dialogare ricco di significati che vanno oltre l’immanente per approdare ai tesori racchiusi nell’interiorità dell’uomo e alle sue possibilità di trascendersi. Saggio gradevole per la lettura, pur nella densità dei temi sviscerati, per cui al lettore attento non può sfuggire l’impressione di trovarsi di fronte ad un testo nutriente, laddove si permette al contenuto di trovare eco dentro di sé, assimilandolo con dosata ruminatio. Le citazioni, talvolta impegnative, e i rimandi bibliografici, inoltre, costituiscono un’opera nell’opera, che permette approfondimenti e stimola alla ricerca. Saggio indispensabile per chi opera, a diverso titolo, in campo educativo: rammemora il sapore della conversazione, tanto lontana fortunatamente dall’odierno informare molto vicino al gossip, dove si riscopre il dialogare come strumento di conoscenza, che rimanda a un tempo lontano, traspirante saggezza, trasportati nell’agorà ateniese a dialogare, appunto, con i grandi filosofi. Nicolò Pisanu

Emilio BUTTURINI, G.CANTERI

Le ali del pensiero: Rosmini e oltre Le sfide della modernità Editrice Mazziana, Verona 2009, pp. 280 Durante l’anno accademico 2008-2009, la Facoltà di Scienze della Formazione di Verona in collaborazione con il Collegio universitario “Don Nicola Mazza”, con l’ESU-ARDSU e con gli istituti teologici veronesi ha organizzato un corso di studio della durata di dieci incontri intitolato Le ali del pensiero: Rosmini e oltre. Le sfide della modernità. A un anno dalla beatificazione


524 del Roveretano, il ciclo di incontri a tema, di cui il testo costituisce gli atti, ha positivamente offerto l’occasione di conoscere la vicenda umana, il pensiero e l’opera educativa di una delle figure più rappresentative e contrastate del XIX secolo; grazie all’apporto culturale di professori provenienti da ben tredici atenei italiani. Il saggio, oltre ad una prima parte introduttiva nella quale viene ripercorsa brevemente la vicenda umana e culturale di Rosmini, si compone dei contributi di un folto gruppo di relatori del corso (ben ventiquattro). Il pensiero di Rosmini viene analizzato da una pluralità di prospettive: storiche, filosofiche, etiche, giuridiche ed educative che, investigando il nostro tempo, ne propongono una attualizzazione. Qui mi limito a segnalare alcuni aspetti della riflessione pedagogica proposti da Rachele Lanfranchi e Lino Prenna. La prof. Lanfranchi si interroga sui rischi della società post-industriale e individua negli elevati cambiamenti planetari la causa della perdita della memoria storica dei giovani che, sradicati dalla propria cultura, dalla propria religione e dalla propria morale, vivono sempre più legati ad un presente precario e relativo, nel quale l’autoaffermazione personale diviene l’unica ragione di vita. Emerge, quindi, con evidenza, l’urgenza e l’emergenza del fenomeno educativo che sappia rifondare l’esistenza dei giovani su certezze basilari, su valori in grado di dare un senso autentico alla vita affinché ciascuno possa diventare ciò che è: un uomo. L’educazione diventa un processo che si compie a più mani: nessuna istituzione può da sola coprire la domanda di educazione dell’uomo; solamente interagendo e collaborando insieme, possono significativamente contribuire all’opera educativa. Forse è proprio a questo richiamo all’unità “che sta il punto di forza dell’educazione, come aveva ben intuito, esplicitato e proposto Rosmini” ( p.150). Sulle “verità educative” rosminiane riflette Prenna nella sua intensa relazione, muovendo dall’idea di educazione come “perfezionamento dell’uomo, moralizzazione della sua vita, nella convinzione che solo il bene morale è perfettivo della natura umana” (p. 136). Rosmini, infatti, “proponendo l’educazione come processo di conformazione dell’uomo all’essere, assegna all’educazione stessa una finalità morale”(p.138), suggerendo una concezione strumentale delle conoscenze: conoscere di più per essere di più. In un momen-

Biblioteca to storico e culturale fortemente suggestionato dalla razionalità scientifica nel quale si afferma il primato del fare sul sapere e sull’essere, la lezione rosminiana può condurci a ricentrare l’educazione verso il suo reale obiettivo: la formazione della virtù dell’animo, sollecitando “il soggetto a rispettare e a riconoscere la verità oggettiva che abita ogni cosa” (p.139). Solo in questa accezione la prassi educativa può autenticamente contribuire al miglioramento dell’umanità. Alessia Bartolini

Jósef STALA (ed.)

Los padres de hoy Problemas y retos Ed. Polihymnia, Tarnów 2009, pp. 294. Matrimonio y familia ocupan un sitio muy peculiar, marcado en la vida de personas y de las sociedades. A lo largo de los siglos dicho sitio es defendido por la misma humanidad, creando costumbres y distintas instituciones - tanto seglares como religiosas - que pretenden de asegurar la estabilidad de matrimonio y familia y guardar su futuro. La experiencia histórica asegura, que cuantas veces matrimonio y familia gozaban de estimación y promoción, tantas veces el nivel cultural y ético de la vida humana subía de manera notable y la gente se sentía feliz y crecía. En cambio cuantas veces el matrimonio y familia caía, tantas veces se observaba la degradación de las civilizaciones incluso crecientes. El problema de la función de los padres ocupa un lugar importante en la reflexión contemporánea de la pedagogía y de la pastoral de la Iglesia universal y en Polonia. Dentro de los pensamientos en este tema hay que subrayar indicaciones a los padres. En este libro, bajo la dirección del prof. Józef Stala de la Universidad de Krakaw, dichas cuestiones sobre el matrimonio y familia son objeto del profundo análisis inter-disciplinar. Hay que subrayar, que primordial papel juega aquí la teología, que tratando la realidad humana en la perspectiva de Dios, está dando una luz muy importante. Varios problemas que tocan la familia son el objeto de muy profundo pensamiento y sugerencias prácticas que inspiran otros temas de parecido índole. Las cuestiones en la publicación son divididas en cuatro partes: I. Los padres y sus tareas; II. Los padres y sus hijos; III. Los


Biblioteca padres y sus hijos en las situaciones peculiares; IV. Los padres y otros ambientes educativos. En la primera parte fueron presentadas las siguientes cuestiones: La familia sana moralmente, ambiente de desarrollo del hombre - Los padres en la educación cristiana del niño - La función profética de los padres cristianos - Las tareas catequéticas de los padres - Las tareas canónicas de los padres como resultado del bautismo de sus hijos. En la segunda parte encontramos los siguientes problemas: Los aspectos pedagógico- catequéticos de la santidad de los padres en la educación de los hijos - Los retos pedagógico-catequéticos de la educación religiosa en la familia - Los hijos como catequistas de sus padres - La paternidad suplente como forma de tutela del niño huérfano - Los padres y su papel en el educación de actitud y valores de la joven generación de Polacos - La creatividad de los padres como promotores de las actitudes creativas de niños y jóvenes - La presencia del padre en la familia y éxitos y adversidades de los hijos en la escuela. En cambio en la tercera parte son ilustrados los retos: La violencia y sexo en los medios de comunicación en la percepción de los niños y sus padres - La violencia de los padres como factor de reproducción de los niños de la calle - Los padres en la situación de educar a los niños con dificultades de evolución - Los padres del niño minusválido intelectualmente - Los padres en la educación de los niños en las peculiares situaciones educativas. En la última cuarta parte se presentan las siguientes cuestiones: Las implicaciones pedagógicas en el proceso “educación para la vida familiar” - Cambio familiar de los valores: los padres en los ojos de estudiantes - Los rasgos de la verdadera colaboración de los padres con la escuela. Dilemas del tiempo de los cambios - La parroquia católica y formación de la cultura pedagógica de los padres - Que hacer con las películas provocadoras? La obligación de anunciar la Buena Nueva es de todos los cristianos, aunque la manera del anuncio es distinta. De distinta manera anuncian el evangelio aquellos que sienten la llamada de Dios para que del dicho anuncio hicieron el sentido de la vida, y de distinta manera anuncian el evangelio los seglares, sobre todo los padres. Los padres cristianos desempeñan un papel importante en la Iglesia, sobro todo a través del ministerio hacia sus hijos, para los cuales son primeros educadores y maestros

525 de la fe. El proceso se hace poco a poco, con etapas, y la educación y catequesis conducen hacia la plena madurez humana y cristiana. De aquí viene la importancia de las cuestiones que tocan el tema de la función de los padres de hoy, presentadas en la monografía. Robert Kantor

Jozef STALA, El˙zbieta OSEWSKA

Anders erziehen in Polen Der Erziehungs- und Bildungsbegriff im Kontext eines sich ständig verändernden Europas des XXI. Jahrhunderts Ed. Polihymnia, Tarków 2009, s. 202. Dans la Pologne d’aujourd’hui, dans un contexte de transformations politiques et culturelles, ce qui fait problème en particulier c’est la crise généralisée de l’éducation. Le passage à la démocratisation, depuis 1989, se réalise par étapes, et assez lentement, car la transformation du système éducatif va de pair avec l’évolution des mentalités. En même temps, il est nécessaire de créer de nouveaux instruments éducatifs pour soutenir le processus. L’après 1989 a coïncidé avec l’exploit des nouvelles technologies de la communication, avec la culture de la postmodernité et un subjectivisme grandissant de la vie sociale. C’est pour cette raison qu’en Pologne une conjoncture paradoxale s’est vérifié : d’une part, les jeunes avaient besoin de soutien dans la formation intellectuelle, sociale, morale, spirituelle, pour se façonner une identité ; d’autre part, les institutions compétentes n’ont pas pu répondre à ces besoins par manque de préparation face aux nouvelles réalités qui se sont produites. Le contexte original polonais interdisait, par ailleurs, de s’inspirer trop vite aux solutions expérimentées, par exemple, en Europe occidentale. Il semble que l’éducation en Pologne, ne serait-ce qu’en fonction de contester les buts, les contenus et les méthodes du système socialiste passé, soit plus ouverte par rapport aux questions morales et religieuses qu’en Europe occidentale. En même temps, l’éducation scolaire en Pologne reste plus démunie en matière d’outils et de ressources humaines. Nous avons, d’une part, des instituteurs qui se consacrent sans mesure à l’enseignement et à l’éducation des enfants, et d’au-


526 tre part, des enseignants sélectivement embauchés, qui n’ont pas réussi dans d’autres filières d’étude. A présent, les jeunes polonais se caractérisent par des traits typiques : une vision individualiste du monde, une faible résistance aux manipulations, une tendance vers un certain consumérisme, vers l’acceptation spontanée de la culture populaire, un conformisme et une attitude prétentieuse. La pluralité et la complexité des tâches éducatives et pédagogiques nécessitent la collaboration des milieux éducatifs conjoints: famille, paroisse et école. D’où la raison de cette monographie, qui prétend aborder certaines questions de fond de l’éducation en Pologne dans le contexte complexe de Europe du XXIème siècle. Le premier chapitre introduit à une compréhension globale de l’Europe unie, mais confrontée à ses diversités et à toute sorte de frontières (E.Osewska). Un deuxième chapitre sur « la jeune génération en Europe d’aujourd’hui » présente les jeunes dans la perspective macrosociale et religieuse. Au chapitre trois il est question de recherche de modèles adéquats aidant les jeunes dans le choix, l’acceptation et la réalisation des valeurs. Le quatrième chapitre, « Formation morale et religieuse dans les écoles en Pologne au XXIème siècle », est axé sur l’impératif et les conditions d’une éducation scolaire aux valeurs morales et confessionnelles. Le chapitre cinq est centré sur la synergie « familleparoisse-école », considérée conditio sine qua non pour oser espérer des objectifs éducatifs. Enfin, des « propositions pédagogiques et pastorales de Jean-Paul II concernant le service pastoral des jeunes » indiquent des choix prioritaires pour une Eglise polonaise en quête de futur. Ryszard Biernat

Anna Maria FAVORINI (a cura di)

Educare alla Speranza Itinerari pedagogici e didattici speciali

Biblioteca compiti e ruoli educativi. Da qui è nata l’idea di Lorenzo Leuzzi, direttore dell’Ufficio per la Pastorale universitaria diocesana di Roma, di costituire presso il Vicariato di Roma un tavolo di lavoro permanente con le Università statali e pontificie romane per interrogarsi sul delicato tema dell’educazione. La logica conclusione di questi lavori è stato il convegno Educare alla speranza oggi. Sfide educative e itinerari pedagogici per uno sviluppo integrale della persona, tenutosi a Roma. Tale iniziativa ha costituito un’occasione significativa d’incontro tra le università romane e ha visto anche la partecipazione di docenti stranieri di pedagogia speciale. Questo volume, che dal convegno ha preso le mosse, intende proporre sia una riflessione accurata sul complesso tema dell’educazione letto da diverse prospettive (antropologica, storica, pedagogica, pedagogica speciale e sociologica) sia un fecondo dibattito sui punti di forza e di criticità legati alle varie fasi dell’età evolutiva in una prospettiva dialogica. Lo sfondo di riferimento e di condivisione di tutti gli studiosi è stato il tema della speranza insito in ogni processo educativo aperto al futuro e all’incontro con l’altro, per la promozione e la costruzione del progetto di vita in un’ottica integrante e inclusiva. Intervengono A.M. Favorini, F. Botturi, C. Nanni, G. Tognon, E. Plaisance, C. Di Agresti, M. D’Amato, F. Pesci, L. C. Cajola, I. Fiorin, C. Palazzini, A.M. Di Santo, M. Farina, M.O. Llanos, F. Montuschi. La curatrice è professore ordinario di Didattica e Pedagogia speciale all’Università Roma Tre, è Presidente del Corso di laurea in Scienze della Formazione primaria e responsabile scientifico delle Attività Formative per il Sostegno. Tra le ultime pubblicazioni che ha curato Pedagogia speciale e formazione degli insegnanti. Verso una scuola inclusiva (Angeli, 2009). (ed.)

FrancoAngeli, Milano 2010, pp. 236. Il 23 febbraio 2008 Benedetto XVI consegna alla diocesi e alla città di Roma la Lettera sul compito urgente dell’educazione. L’evento avviene in Piazza San Pietro alla presenza di migliaia di persone tra le quali insegnanti, docenti universitari, famiglie, operatori del sociale, studenti e tutti coloro che a vario titolo sono coinvolti in

J.M. Escrivá educatore e scrittore spirituale1 rassegna a cura di Francesco Pistoia 1. Ai giovani. e a chi voglia conoscere la vita e l’opera e il pensiero del fondatore dell’Opus Dei, Massimo Bettetini dedica un lavoro semplice e


Biblioteca ricco di spunti, concepito nello spirito della collana “I Testimoni”, che tanto consenso riscuote (qualche titolo: Massimiliano Kolbe, Bakhita, Don Tonino Bello, Padre Pio da Pietrelcina, Benedetta Bianchi Porro, Don Lorenzo Milani, P.Annibale di Francia, Don Luigi Sturzo…). L’autore racconta la vita del Santo attenendosi al contesto storico, agli scritti, alle testimonianze (significativo anche l’apparato fotografico). Un’antologia di pensieri, un glossario e una nota biografica riassuntiva aiutano la ricerca e l’approfondimento. L’amore per la Chiesa e per i santi, la concezione del lavoro da santificare e santificante, l’idea e lo sviluppo dell’Opus Dei, l’adesione al Concilio: sono temi trattati con linearità. Il Bettetini richiama l’attenzione sulla santità partendo da un’osservazione preliminare (cf. il capitolo 10 intitolato “Una giornata tipo”): “Parlare di un santo è come raccontare una grande avventura dove cose grandi e piccole si intrecciano per originare un ordito ricco e variopinto” (p.66). Ed ecco, quindi, la giornata di un santo: carica di problemi come quella di un comune mortale, di preoccupazioni e di gioie, di progetti, di delusioni, di riprese… Ma sempre una giornata illuminata da Dio, raggiunto con la preghiera e coi piccoli gesti che nascono dal cuore e dalla mente, resa significativa dal senso della carità e della comunione. Le grandi catechesi di Escrivá sono opera di un maestro, di un educatore, di un amico. Escrivá sa parlare a folle di fedeli, a persone di ogni età e di diversa formazione, soprattutto ai giovani. Il suo insegnamento va al cuore di chi cerca la verità e il senso della vita, di chi aspira a donarsi. 2. Tornano utili a tale scopo un paio di pensieri che Pippo Corigliano consegna nelle pagine delle sue “memorie”. Primo: “Il 99 per cento della produzione televisiva mondiale oggi non concede a Dio alcuno spazio. Il modello di con-

Massimo Bettetini, Josemaría Escrivá, Emp, Padova 2008, pp.140; Pippo Corigliano, Un lavoro soprannaturale. La mia vita nell’Opus Dei, Mondadori, Milano 2008, pp.130; Giuseppina Capozzi, Educazione alla responsabilità in san J.M. Escrivá, Pensa Multimedia, Lecce 2007, pp. 110; Id., Educazione al valore della famiglia in san J.M. Escrivá, ivi, 2008, pp.160; Bernard Lecomte, I misteri del Vaticano, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2010, pp.352; Josemaria Escrivá, Amare il mondo appassionatamente, Ares, Milano 2010, pp.88.

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527 dotta che offre è vivere come se Dio non esistesse. Ma quando Giovanni Paolo II è morto, miliardi di persone sono rimaste incollate al televisore. Il Dio che percorre per amore la via della sofferenza e che, come dice papa Ratzinger, insegna che ‘servire è il vero modo di governare’, ha tanto da dire alla gente del nostro tempo. Il mondo della comunicazione può trasmettere nel villaggio globale la Buona Notizia. Ha già cominciato a farlo” (p.119). Secondo: “Non vorrei dare l’impressione che l’Opus Dei sia il paradiso in terra. Per me è ‘il posto migliore per vivere e per morire’, per usare un’espressione cara al Fondatore” (p. 113). Pippo Corigliano trasmette il messaggio dell’impegno. Il cristianesimo è impegno. Ogni cristiano è chiamato all’impegno, alla lotta, a dare un contributo alla diffusione del Vangelo, a educare secondo il Vangelo, a essere Chiesa, a vivere in spirito di comunione, a testimoniare la propria fede. A rispondere con animo sereno agli attacchi ingiusti. Corigliano, napoletano, classe 1942, conosce Escrivá e aderisce nel 1960 all’Opera. Il racconto è tutto concretezza: pagine di storia civile e religiosa del Novecento. Dal mondo dell’ ingegneria elettrotecnica al mondo dell’umanesimo d’ispirazione religiosa. Passa attraverso vari incarichi di responsabilità (a Napoli, a Milano), dal 1980 dirige l’Ufficio informazioni dell’Opera a Roma. Segue le attività formative dedicate ai giovani, rilascia interviste, appare in tv. Viaggia, incontra personalità della cultura, della scuola e dell’università, della politica, del giornalismo, dello sport, dell’impresa. Di alcuni personaggi è delineato un profilo, con poche parole, tutto sostanza. Si veda per esempio quello di Renzo Arbore (p.122). Corigliano sa ascoltare, comprende le ragioni dei suoi interlocutori, entra in dialogo. E il libro si trasforma in una galleria di ritratti vivi e sprizzanti simpatia. Tutto questo scaturisce da una condotta di vita radicata nella lettura della storia della salvezza e rispettosa della libertà di tutti in ogni ambito. 3. Giuseppina Capozzi dedica a Escrivá de Balaguer due studi (citati nella nota iniziale). Impegnata nella cultura e nella pratica pedagogica, l’A.prende le mosse dalla conoscenza diretta delle istituzioni educative e scolastiche gestite dall’Opus Dei e scrive pagine limpide e puntuali sul pensiero di Escrivá (e dei suoi discepoli) in


528 materia di educazione. Di più: la Capozzi affronta uno dei temi più difficili del momento attuale, quello della famiglia, della sua crisi, della sfida che è chiamata ad affrontare. E lo svolge con attenzione al concilio Vaticano II, alla dottrina sociale della Chiesa, all’insegnamento di Escrivá e di robusti pedagogisti. Il primo volume presenta un profilo di Escrivá: la sua infanzia, la formazione, gli studi, la vocazione al sacerdozio, le relazioni con i contemporanei, la sua opera di sacerdote e di educatore. Antropologia, sociologia, pedagogia: e da qui al discorso sul diritto, con riferimento a san Tommaso, e a quello sulla libertà, motivo dominante negli scritti del Fondatore. Le pagine di Educazione alla responsabilità in buona parte fanno da premessa a Educazione al valore della famiglia. I due volumi sono il risultato di una lettura biografica appassionata e di una riflessione sui valori predicati dal santo spagnolo, sulla necessità di tornare ai principi ineludibili del pensare e del vivere. Un lavoro, dunque, di scavo, alimentato dalla certezza che dai pensieri e dalle omelie di Escrivá si può trarre una pedagogia non effimera per il nostro tempo. Osserva Lomiento nella prefazione: Escrivá “non ha scritto opere specificamente pedagogiche”, ma ha formato molte generazioni di uomini e donne dei cinque continenti, ed ha promosso istituzioni educative adatte ai diversi contesti sociali”. E aggiunge: “le sue idee guida sono incarnate nell’azione e sono disseminate nei numerosi scritti. Per lui, cuore dell’educazione è la persona, e al centro della persona vi sono i legami di amore da coltivare ad uno ad uno. Un’intuizione, questa, che, a partire da Platone, attraversa tutta la cultura occidentale: l’uomo è una pianta celeste (Timeo, 90a) che si nutre di amore per dare frutti di amore e va coltivata” (p.7): l’arbore di santa Caterina da Siena! La famiglia è amore. L’amore coniugale “si trasforma in cammino di santità” (2, p.122). La Capozzi studia la famiglia come valore, come comunità umana, come fonte di crescita; la studia nel suo processo storico e nella sua crisi. La studia nel linguaggio di Escrivá, il quale “leggeva spesso i giornali considerando importante l’attenzione agli orientamenti del pensiero contemporaneo”. L’A. è aperta al dibattito culturale del nostro tempo e vi partecipa con la sua ampia attrezzatura culturale, che comprende filosofi e pedagogisti antichi e moderni messi a confronto

Biblioteca con la cultura biblica e coi grandi orientamenti del Concilio. L’educazione non è e non può essere azione frammentata, ma è azione integrale, tesa allo sviluppo pieno della persona. Genitori e figli, mondo dei giovani, lavoro e professione, crisi dei valori: il discorso sulla verità è irrinunciabile e va di pari passo con quello sull’amore. La Capozzi ricorda un incontro pubblico tenuto da Escrivá a Sumaré (San Paolo) nel giugno del 1974. “A chi gli chiedeva quale atteggiamento assumere con i divorziati” Escrivá suggeriva di “trattarli bene, con affetto, con senso soprannaturale; di essere anzitutto umani, e poi cristiani”. Il lavoro della Capozzi arricchisce la letteratura su Escrivá : dà indicazioni per una lettura dell’Opera, della storia contemporanea (come non ricordare la guerra civile spagnola e le guerre che hanno lacerato l’umanità nel ventesimo secolo?), del rapporto chiesa-mondo inteso in tutta la sua carica innovativa. 4. Bernard Lecomte, giornalista attivo presso i più prestigiosi quotidiani e periodici francesi, autore di libri di successo, ha il dono del linguaggio semplice: si legge senza difficoltà anche quando la materia non è di poco conto. Vaticanista informato e attento, rivela doti di equilibrio e saggezza. Le sue pagine trasformano la cronaca in storia e la storia in un bel libro che istruisce ed educa al giudizio moderato e prudente. Il suo ultimo lavoro, I misteri del Vaticano, è dedicato a figure e momenti della Chiesa del Novecento: Pio XI, Pio XII, il dramma dei preti operai, il Concilio. Un capitolo riguarda l’Opus Dei. Già il titolo annunzia qualche sorpresa: “La rivincita dell’Opus Dei”. Il profilo di Escrivá, momenti di storia della Spagna attraversata dalla guerra civile e a lungo dominata da Francisco Franco, gli “opusdeisti” coinvolti nel regime… Il Lecomte non si lascia trarre in inganno, non ascolta le sirene degli accusatori, non crede alla favola dell’Opus Dei piovra e/o covo di massoni. Escrivá, fa notare, e si riferisce al 2 ottobre 1928, è un precursore: “Trentacinque anni prima del famoso ‘schema XIII’, che sarà discusso al concilio sull’apostolato dei laici, la sua idea è del tutto inedita” (p.240). Fa notare altresì che il cardinale Luciani, prima di diventare Giovanni Paolo I, impressionato dall’idea di santificazione tramite il lavoro quotidiano, paragona il fondatore dell’Opus Dei a san Francesco di Sales che, come


Biblioteca lui parlava di chiamata universale alla santità (p.247). Dialogo ed ecumenismo sono tratti audaci e incancellabili dell’Opera. I ministri “opusdeisti”? Al di là delle “scivolate che hanno contrassegnato gli ultimi anni di Franco, la maggior parte degli storici riconosce a questi ministri” - comunque impegnati a titolo personale, come viene sottolineato in più occasioni - “un ruolo importante nella transizione graduale che ha permesso al franchismo, nel 1975, di passare la mano senza violenze” (p.245). Giovanni Paolo II, attento ai segni dei tempi, ai nuovi fermenti della società, al dinamismo dei nuovi movimenti ecclesiali, accoglie, mentre sorprende collaboratori ed esponenti di istituzioni classiche, la novità dell’Opera, destinata a diventare la prima “prelatura personale”. Giovanni Paolo II scorge in essa, come nel Cammino neo-catecumenale, come in Cl, come nell’Azione cattolica rigenerata, le radici robuste di un nuovo impegno per l’evangelizzazione. Il papa che inventa le giornate mondiali della gioventù non può non esaltare i tanti giovani che si preparano con serietà e rigo-

529 re e gioia a diffondere il vangelo in ogni ambiente e contrada del mondo. Escrivá fonda università e scuole: il messaggio cristiano viene predicato in tutto il mondo. La valenza educativa della sua Opera è straordinaria. 5. Leggere su di lui è cosa ottima, ma leggere le opere dello scrittore spirituale e dell’educatore è la via migliore per capire e approfondire un pezzo di storia della Chiesa e della società, della spiritualità e dell’educazione. I suoi scritti sono editi in Italia, in belle edizioni e anche in edizioni economiche, dall’Ares. Dal marzo 2010 è disponibile una nuova edizione dell’omelia pronunziata quarant’anni fa nel campus universitario di Pamplona, Amare il mondo appassionatamente : è la magna charta del laicato, come ribadisce l’attuale prelato Javier Echevaría, che scrive la prefazione (commento di Pedro Rodríguez): omelia che suscita emozioni vive e conduce all’impegno attivo e alla testimonianza.


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Biblioteca LIBRI PERVENUTI

FRANÇOIS-XAVIER AMHERDT, FÉLIX MOSER, ANAND NAYAK, PAUL PHILIBERT (Eds.), Le fait religieux et son enseignement. Des expériences aux modèles. Actes du colloque de troisième cycle Université de Fribourg Suisse et Université de Neuchâtel , avec la collaboration de Patrizia Conforti et Françoise Surdez, Academic Press Fribourg/Paulusverlag, Fribourg 2009, pp. 366. ISBN 978-28271-1055-1.

PIERA A. MANTOVANI, AGNESE CINI TASSINARIO (eds.), Bibbia e immagini, Numero speciale in collaborazione con ‘Biblia’, Il Mondo della Bibbia, n. 100, novembredicembre 2009, Elledici, pp. 72, illustrato. ISBN 978 8801-04395-2. JARDELINO MENEGAT, FSC, Família Menegat. Recortes de um legado italiano no Brasil, Editora Algo Mais, Porto Alegre /RS, 2009, pp. 144, ill. rileg. ISBN 978-85-6283702-9.

SERGIO ANDREOLI (ed.), Angelae de Fulgineo Liber, vol. I, estratto da “Analecta TOR” 183 (2010) 7-224, nel VII Centenario della morte della beata Angela da Foligno [via dei Fori Imperiali, 1, 00186 Roma].

ERNEST MILLER, Appel mondial à une nouvelle mobilisation pour l’enfance, Cahiers MEL 41, FSC Roma 2010, pp. 48 (anche in versione ingl. e spagnola).

RICCARDO BARILE (ed.), Il rosario tra devozione e riflessione. Teologia, storia, spiritualità, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2010, pp. 348. ISBN 978-887094-760-1.

FLAVIO PAJER, GIOVANNI FILORAMO, Tante religioni un solo mondo. Pluralismo e convivenza, SEI, Torino 2010, pp. VIII-216; Idd., Materiali per il docente, pp.116. ISBN 978-88-05-07025-1.

Centres lasalliens d’enseignement supérieur, Bulletin des FSC, n. 252, Janvier 2010, Maison Généralice, Rome, pp. 76 (in versione ingl., franc., spagn).

EGIDIO PALUMBO, VITTORIO ROCCA (eds.), Definitività delle scelte nella Chiesa, oggi, Ed. Città aperta-Studio Teologico S.Paolo, Catania 2010, pp.206. ISBN 978-888137-441-0.

RADOSLAW CHALUPNIAK, JAN KOCHEL, JERZY KOSTORZ (eds.), Katecheza parafialna Reaktywacja. Duszpasterstwo katechetyczne w parafii, Wydzia Teologiczny Uniwersytetu Opolskiego, Opole 2006, 252. ISBN 83-6024442-1. MARIO CHIARAPINI, Messa La Salle, spartito pp. 64 + cd, Edizioni musicali SMAF Record srl, Roma 2010. Costituzione, laicità e democrazia, “Quaderni laici” numero 0, dicembre 2009, Claudiana, Torino 2009, pp. 122. ISBN 978-88-7016-791-7. ERMANNO GENRE, Martin Bucer, un domenicano riformatore, Claudiana, Torino 2010, pp. 118. ISBN.978-887016-794-8.

M. JAMES PENTON, I Testimoni di Geova e il Terzo Reich. Inediti di una persecuzione, trad. di A.Aveta e S. Pollina, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2008, pp. 552, ill.b/n. ISBN 978-88-7094-714-4. JOZEF STALA, Katecheza Rodzinna w nauczaniu Kósciola od Soboru Watykaƒskiego II, Poliyymnia, Tarnów 2009, pp. 292. ISBN 978-83-7270-770-7. PIERPAOLO TRIANI, NATALINO VALENTINI (eds.), L’arte di educare nella fede. Le sfide culturali del presente, Edizioni Messaggero, Padova 2010, pp. 190. ISBN 978-88-2502003-8.

REMO L. GUIDI, Fratel Luigi Panizzoli, “Biografie FSC” 19, stampato in proprio, viale del Vignola 56, Roma 2010, pp. 64.

FRANCESCO TRISOGLIO, Basilio il Grande si presenta: la vita, l’azione, le opere, Ed. Monastero Esarchico, Grottaferrata 2004, pp. CV + 305. ISBN 88-89345-00-4.

CLAUDIO LAIM, CineScuola. Proposte di film per interrogarsi, per confrontarsi, per maturare insieme, Elledici, Leumann 2009, pp. 86. ISBN 978-88-01-04300-6.

FRANCESCO TRISOGLIO, San Gregorio di Nazianzo. Teologia e dogmatica, Ed. Monastero Esarchico, Grottaferrata 2009, pp. 278. ISBN 978-88-89345-03-0.


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Actualidades pedagogicas pubblicazione semestrale di carattere accademico Facoltà di Scienze dell’Educazione della Università La Salle, Bogotà, Colombia www.publicaciones.lasalle.edu.co/images/openacces/actualidades/

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ISSN 1826-2155

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trimestrale di cultura e formazione pedagogica

✓ Teodoreto di Ciro, teologo e catecheta ✓ Dall’idea di Europa alla costruzione dell’Unione ✓ Il crocifisso in aula: lezione di laicità ✓ La paternità tra Bibbia e psicanalisi ✓ Quando la scuola accetta la sfida del multimediale ✓ L’educazione cristiana riscopre i suoi carismi ✓ La Famiglia lasalliana in America Latina: una visione, i progetti, le strategie ✓ Francesco Possenti, scolaro lasalliano a Spoleto ✓ Beniamino Bonetto FSC, o le scienze umane a servizio dell’educazione

LUGLIO-SETTEMBRE 2010 • ANNO 77 - 3 (307)


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