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Rivista lasalliana
2010
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ISSN 1826-2155
Rivista lasalliana
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trimestrale di cultura e formazione pedagogica
✓ Cirillo di Gerusalemme, le Catechesi ai catecumeni ✓ Santità e apostolato educativo, un binomio da rivisitare alla luce del Vaticano II ✓ Geografia e identità nazionale nei libri di testo nella scuola dell’Italia unita ✓ La figura dell’educatore come mediatore culturale ✓ Didattica: dal curricolo lineare alla modularità ✓ L’educazione di Sancio, o della metamorfosi dello scudiero analfabeta ✓ L’improbabile offerta dell’episcopato al La Salle ✓ L’Istituto Bartolo Longo di Pompei e i FSC
OTTOBRE-DICEMBRE 2010 • ANNO 77 - 4 (308)
Rivista lasalliana trimestrale di cultura e formazione pedagogica 77 (2010) 4
RL
Rivista Lasalliana Pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole cristiane da lui fondate. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie della Regione lasalliana euro-mediterranea.
Anno 77 • numero 4 • ottobre-dicembre 2010
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Sommario
RICERCHE E STUDI 539 Francesco Trisoglio Il catecheta ‘ufficiale’ dei catecumeni: san Cirillo di Gerusalemme È noto come “il catecheta” per aver dato il massimo splendore al genere letterario della catechesi e dell’istruzione dottrinale predicata. Al suo modello dovettero ispirarsi pastori e fedeli non solo al tempo dei Padri ma anche lungo i secoli della predicazione e della letteratura medievale. Imponenti come mole e basilari come solidità teologica le sue 18 Catechesi, che spaziano sui grandi contenuti del Simbolo e sulle strutture portanti del “come si diventa cristiani”. Il tono delle sue trattazioni è tranquillamente discorsivo, sapendo di parlare a dei principianti nella fede: è un docente che si trova davanti un amplissimo panorama di realtà visibili e invisibili, e lo percorre con la lieta alacrità di chi è sicuro di una verità salvifica di infinita profondità. La sua è una parola trasparente che fluisce in forma dialogica e suadente.
553 Josean Villalabeitia Santidad y apostolado Circoscritti i concetti di santità e di apostolato, la riflessione teologica si sviluppa in tre momenti: il significato biblico, in particolare neotestamentario, dell’apostolato inteso come missione e passione per il Regno; una rapida rivisitazione critica del binomio santità-apostolato così come si è andato verificando lungo le vicende storiche e i contesti sociali dei secoli di cristianità; una rilettura della dottrina conciliare e postconciliare, dove la chiamata alla santità e all’apostolato non è riservata a una élite clericale né monastica ma restituita alla competenza ministeriale propria dell’intero popolo dei battezzati. A conclusione, si sottolinea che la missione fondamentale dei cristiani è, sì, evangelizzare il mondo, ma non senza realizzare prima e indissociabilmente il Regno in sé e nel vissuto della comunità credente e missionaria.
575 Patrizia Savio L’insegnamento della Geografia e la costruzione dell’identità nazionale nel libro per la Scuola elementare tra Otto e Novecento All’indomani del processo unitario la scuola doveva assolvere al compito “nuovo” di formare il sentimento nazionale e di promuovere una comune identità civile e politica tra le popolazioni della Penisola. L’insegnamento della Geografia ha contribuito grandemente a tale scopo. Lo testimonia la notevole intraprendenza di autori ed editori nel fornire a maestri e alunni una variegata tipologia di strumenti didattici, mediante i quali poter trasmettere non solo le necessarie cognizioni di geografia fisica e antropica, ma poter instillare anche un vigoroso amor di patria, educare il senso di una appartenenza civile non più solo localistica o provinciale, poter costruire insomma un inizio di coscienza identitaria nazionale. L’indagine documenta anche l’inevitabile complicità di questo ideale educativo postunitario con alcuni di quei tratti tipici dello ‘spirito del tempo’ – comunque non generalizzabili né nell’opinione pubblica né nei manuali scolastici di allora – quali la retorica del romanticismo, il mito della gerarchia delle razze umane, il preconcetto eurocentrico, l’enfasi del neonazionalismo nascente.
PROFESSIONE DOCENTE 619 Lorenzo Tébar Belmonte Cómo ser educador mediador. ¿Qué aporta la EAM a la pedagogía del profesor en el aula? Quali le sfide che l’odierna “società della conoscenza” pone alla scuola e al ruolo dell’insegnante? Una risposta, già largamente collaudata anche dalla prassi internazionale, viene dal modello pedagogico dell’educatore-mediatore teorizzato da Reuven Feuerstein. L’articolo – a firma di un discepolo spagnolo dello stesso psicologo romeno-israeliano, al quale ha dedicato numerosi studi oltre che una tesi dottorale sul “profilo dell’insegnante mediatore” – presenta in un quadro organico e sistematico i presupposti pedagogici, le condizioni d’esercizio e le applicazioni conseguenti del paradigma socio-cognitivo di una mediazione educativa che risulti non solo rispettosa delle libertà individuali e dei contesti istituzionali, ma capace di incentivare al meglio il potenziale cognitivo-affettivo dell’alunno mediante processi didattici diversificati, personalizzati, e responsabilizzanti sia per l’alunno che per il docente-mediatore.
639 Marco Paolantonio Dal curricolo lineare alla modularità didattica La quarta tappa del percorso intrapreso quest’anno riguarda la didattica per moduli, l’aspetto più innovativo della metodologia costruttivista: il modo di impostare programmazione e svolgere programmi a supporto dei saperi disciplinari e transdisciplinari. È infatti con i concetti stessi di cultura e di trasmissione culturale che la scuola si trova oggi a dover far i conti, per poter approntare efficacemente strategie di elaborazione culturale adeguate ai nuovi contesti della scuola e dell’extrascuola. Confluiscono in questo servizio gli apporti multipli della Didattica breve, dell’Apprendimento cooperativo, dell’immersione multimediale, già evidenziati rispettivamente nelle tre precedenti puntate.
651 Roberto Alessandrini L’educazione di Sancio. Metamorfosi dell’errato scudiero di Don Chisciotte Sotto la penna di Cervantes, nel corso del romanzo, il personaggio di Sancio - scudiero analfabeta ma non ottuso, ingenuo ma non inesperto - cresce in umanità, si affina nei comportamenti, si evolve all’ombra del cavaliere errante, assimilandone mimeticamente il linguaggio e i meccanismo interpretativi, ma mettendo in scena anche sorprendenti qualità proprie. Nei due personaggi immortalati da Cervantes, la saggezza antica della tradizione orale e rurale si intreccia con il magistero donchischiottesco, la dicotomia tra cultura subalterna e cultura egemonica finisce per tradursi in una pertinente circolarità di influenze reciproche tra “maestro e discepolo”. Il breve saggio attinge alle fonti della critica letteraria più recente.
665 Anna Lucchiari Le illusioni della modernità. L’illusione di poter essere felici con il possesso di beni materiali ha ridotto i sogni a fanstasmi grotteschi e ha privato i bambini della capacità di apprezzare ciò di cui dispongono nativamente, che va ben oltre l’usa e getta. La profezia della curandera. Uno sguardo intrigante sulla cultura andina, dimostratasi capace di sviluppare una scienza, un’arte e un’educazione basate non solo sull’indole razionale e analitica dell’uomo ma soprattutto sulle qualità immaginative e intuitive delle donne. Una alternativa non utopica al modello occidentale eurocentrico del sapere, del fare, del vivere.
LASALLIANA 675 José María Valladolid Retazos lasalianos (21-25) ¿De qué fuentes lasalianas disponemos en español ? – ¿Podemos saber, de una bendita vez, quién era el ‘enemigo’ de La Salle ? – ¿Cuatro meses para cumplir la obediencia ? – De cuando Nicolás Dorigny, párroco de San Mauricio, se avino a acoger la primera escuela de Adrián Nyel – ¿Ofreció el rey a La Salle un obispado ?
687 Giovenale Dotta L’Istituto per i figli dei carcerati a Pompei tra Bartolo Longo, gli Scolopi e i Fratelli delle Scuole Cristiane Rivisitazione storica di una istituzione pilota in campo educativo: le motivazioni originarie del fondatore, il ‘regolamento’ educativo-disciplinare, l’altalena di una difficile gestione rimbalzata in più mani, infine l’impronta nuova e decisiva data dalla congregazione lasalliana. Uno spaccato esemplare di un’opera che, accanto ad altre analoghe sparse sul territorio nazionale, testimonia da oltre un secolo la vivace intraprendenza della carità cristiana che sa qualificarsi come servizio educativo ai membri più fragili della comunità civile.
BIBLIOTECA 699 Diritti umani tra politica ed educazione (rassegna a cura di F. Pistoia). Segnalazioni. S.Illari, La Costituzione italiana sessant’anni dopo (V.Onida) – A. Spadaro, Libertà di coscienza e Stato costituzionale (G. Bellieni) – A. Elli, Breve storia delle Chiese cattoliche orientali (F. Pistoia) – R.Risaliti, Letteratura e rapporti itralo-russi dalle salmodie ai gulag (S.R. Allais) – T.Salzano, “Coloro che ti benediranno io benedirò”, a cura di M. Del Maschio (S.R. Allais). Libri pervenuti
709 Indice generale dell’annata 2010 Indice degli articoli per Autore Recensioni e segnalazioni
RivLas 77 (2010) 4, 539-551
La catechesi nei Padri della Chiesa / 11
Il catecheta ‘ufficiale’ dei catecumeni: S. Cirillo di Gerusalemme FRANCESCO TRISOGLIO
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ostantino Vona1 lo dice noto come ‘il catecheta’ “per aver dato il massimo splendore al genere letterario della catechesi e dell’istruzione dottrinale predicata”. C. Riggi2 afferma che “al suo modello catechetico dovettero informarsi pastori e fedeli di tutti i tempi, come dimostra, non solo la testimonianza dei Padri, ma anche la tradizione manoscritta che risale al Medio Evo”. Del resto la dignità di portabandiera gli compete a pieno diritto anche in grazia della mole imponente delle sue 18 catechesi, introdotte da una di esordio (PG 33,331-1060), dove l’estensione è ben giustificata dal distinto pregio concettuale, psicologico, espositivo.3
La vita Nacque a Gerusalemme verso il 313. Consacratosi alla vita ascetica, nel 343 fu ordinato sacerdote da san Massimo, suo predecessore nell’episcopato a Gerusalemme, e nel 348 o 350 predicò le Catechesi, alla vigilia o all’inizio del suo episcopato, al
C. Vona, S. Cirillo di Gerusalemme, in Bibliotheca Sanctorum, Univ. Lateranense, vol. III (1963), col.1318. 2 C. Riggi, Le Catechesi, trad. intr. comm., Collana Testi patristici 103, Città Nuova, Roma 1993, a p. 19. 3 Teofane nella sua Cronografia (anno 335) disse che Cirillo nelle Catechesi spiegò l’utilità del battesimo ad una folla innumerevole che vi accorreva; riferito nei Veterum testimonia di A. Touttée PG 33 col. 309. 1
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quale fu promosso alla fine del 350 o nei primi tempi del 351. Oscura è la maniera con cui vi arrivò, con l’appoggio di Acacio di Cesarea, ariano moderato, il quale, invece di asserire il Figlio consostanziale al Padre (Nicea) lo diceva soltanto “simile secondo le Scritture”. Acacio sperava di trovare in Cirillo un valido sostenitore, però i vescovi riuniti a Costantinopoli nel 382 scrissero a Papa Damaso che Cirillo era stato canonicamente eletto dai vescovi della sua provincia ecclesiastica. Un contrasto sui diritti di giurisdizione, acuito dalle divergenze trinitarie, portò ad uno scontro tra Gerusalemme e Cesarea, per cui un concilio del 357-358, convocato da Acacio, dichiarò Cirillo deposto. Durante l’esilio (358) Cirillo si recò a Tarso, bene accolto dal vescovo Silvano, che lo autorizzò a predicare, attività nella quale Cirillo ottenne grandi successi. Silvano, che era omeusiano, mise Cirillo in relazione con Basilio d’Ancira, che di quel partito era il capo.4 Nel 359 Cirillo, con il sostegno degli omeusiani, ricuperò la sua sede, ma Acacio nel 360 lo fece di nuovo condannare da un sinodo di Costantinopoli; per Cirillo fu il secondo esilio, che durò fin alla morte di Costanzo (361); con Giuliano (361), che richiamò i vescovi esiliati, egli riprese la sua sede, ma l’imperatore arianeggiante Valente lo cacciò di nuovo (367), finché alla sua morte (9 agosto 378) poté rientrare definitivamente in sede, restandovi fino alla morte (387). Sul suo conto si alternarono giudizi contraddittori di apprezzamento per le sue idee e di biasimo per le sue relazioni con gli omeusiani. Però la sua totale ortodossia fu pienamente ammessa: le Chiese tanto d’Oriente che d’Occidente lo riconobbero santo, fissandone la festa liturgica il 18 maggio, finché Papa Leone XIII nel 1882 ne estese la celebrazione a tutta la cattolicità e lo dichiarò Dottore della Chiesa.5
L’opera A renderlo celebre furono le Catechesi, suo apporto fondamentale. Comprendono un’introduzione, 18 istruzioni rivolte ai catecumeni che si preparavano al battesimo; le seguono 5 altre, dette mistagogiche, dirette ai neofiti che avevano poco prima ricevuto il sacramento. Indiscutibilmente autentiche le 19 catechesi “agli illuminandi”, sorsero ricorrenti perplessità sulle mistagogiche. Le omelie ai catecumeni furono predicate durante la quaresima nella grande basilica della Risurrezio-
4 A Nicea fu proclamata la omousía (consostanzialità) del Figlio col Padre e fu vocabolo che divenne la sigla ufficiale dell’ortodossia; gli ‘omeusiani’ (da ómoios, simile) lo stemperavano in una ‘somiglianza’ a confini oscillanti. Basilio, vescovo di Ancira dal 336, aderì all’arianesimo dell’imperatore Costanzo e nel 358 fondò il partito omeusano. Nel 360 fu sconfitto dagli acaciani e mandato esule in Illiria; finì poi con i macedoniani nel rifiutare la divinità dello Spirito Santo. 5 Per un’analisi biografica minutamente documentata cf. X. Le Bachelet, in Dict. de Théol. Cath. III,2 (1938), coll. 2529-2533 e per gli scritti coll. 2533-2537.
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ne, eretta da Costantino sulla tomba di Gesù.6 Furono pronunciate direttamente, senza essere state scritte e vennero raccolte da stenografi, senza che fossero poi passate ad una revisione dell’autore. Sulla paternità delle 5 mistagogiche si è discusso a lungo su fragilità di elementi, per cui il risultato è rimasto fluttuante, basato su impressioni: il problema consiste se considerarle di Cirillo o del suo successore Giovanni II, che si sarebbe a lui ispirato.7 Abbiamo di lui anche un’omelia sul paralitico che giaceva presso la piscina di Betsatà (Gv 5,1-9), opera giovanile (PG 33,1131-1154). Caratteristica per l’originalità della sua testimonianza storica è poi la lettera indirizzata all’imperatore Costanzo, nella quale gli narra l’apparizione di una croce luminosa avvenuta nel cielo di Gerusalemme il 7 maggio 351, della quale era stato egli stesso testimone oculare (PG 33,1165-1176).
L’ortodossia X. Le Bachelet, al termine di un minutissimo e documentatissimo esame della sua dottrina su tutti i singoli aspetti della teologia (Dict. de Théologie Cath. III,2 [1938], coll. 2537-2575) dichiara : “Non c’è nulla nella sua dottrina che diverga dalla fede
S. Janeras, En quels jours furent prononcées les catéchèses 14-18 de Cyrille de Jérusalem? in “Orientalia Christiana Periodica” 74,1 (2008), pp. 195-207, dopo aver percorso una rassegna degli studi su questo argomento, conferma sue indagini precedenti, asserendo che le catechesi 14-18 furono tenute nella settimana che precede la Settimana santa nel 350. In precedenza Janeras, À propos de la catéchèse XIVe de Cyrille de Jérusalem, in “Ecclesia orans” 3 (1986), pp. 307-318, l’aveva fissata il lunedì 26 marzo 350, antecedente alla domenica delle Palme. Però A. Doval, The date of Cyril of Jerusalem’s Catecheses, in “Journal of Theological Studies” 48 (1997), pp. 129-132, considerò più probabile il 351, preferibile al 350. 7 Cl.Beuckers, An attempt at dating the twenty-third Catechesis by Cyrillus of Jerusalem, in “Vigiliae Christianae” 15 (1961), pp. 177-184, per la 23a orazione propone una data tra il 383 ed il 386; avanza poi l’ipotesi che le cinque mistagogiche possano anche essere un’antologia di sermoni predicati nel corso degli anni e pubblicate o da Cirillo stesso o da Giovanni, suo successore. - A. Piédagnel, Les Catéchèses Mystagogiques de Saint Cyrille de Jérusalem. Inventaire de la tradition manuscrite grecque, in “Studia Patristica” X,1 TU 107, Berlin 1970, pp.141-145, dichiara di non poter decidere in modo definitivo su queste catechesi sacramentali, che giudica, comunque, “ammirevoli, insieme semplici e graziose”.- P. Th. Camelot, Note sur la théologie baptismale des catéchèses attribuées à Saint Cyrille de Jérusalem, in Kyriakon J. Quasten, vol. II, Münster West. 1970, pp. 724-729, rileva che la teologia delle mistagogiche è nettamente più sviluppata di quella delle altre omelie, per cui nell’ammissione dell’autenticità, si potrebbe pensare ad opportunità didattiche, connesse con la distanza tra catecumeni e neofiti ed alla loro pronuncia in epoca più tarda della vita di Cirillo. - Più recentemente E. Yarnold, Cyril of Jerusalem, London-New York 2000, traduz. di tutte le Catechesi, a p. 32 presenta come più plausibile l’ipotesi che le mistagogiche siano proprio le note d’istruzione che Cirillo diede verso la fine del suo episcopato; le differenze sarebbero dovute all’evoluzione del suo pensiero durante circa 40 anni ed al mutarsi delle circostanze. 6
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professata allora dalla Chiesa cattolica”, anche se non ha la ricchezza che raggiunsero i grandi Padri successivi quali Atanasio, Ilario ed i Cappadoci. I. Berten8 conclude la sua solerte indagine affermando che la loro teologia è ricca per il senso della Chiesa, la volontà di unità e di pace... e la giustezza fondamentale delle grandi intenzioni della fede cristiana” (p. 75).
La catechesi È significativa la cornice che contorna la sua predicazione; esordisce con un annuncio di gioia: “O catecumeni, spira attorno a voi un profumo di felicità, poiché ormai raccogliete fiori intellettuali per intrecciare corone celesti” 9 e con un proclama gaudioso termina l’ultima catechesi (XVIII,34-35 col.1057): “Tutto sarà riempito di gioia, perché il Signore ha detto: «Io faccio di Gerusalemme una gioia e del mio popolo un’allegrezza» (Is. 65,18); ed ora sia lecito dire anche di voi: «Rallegratevi, o cieli, ed esulti la terra» (Is 49,13)”. È l’atmosfera che tutto permea e segna l’apertura di un panorama. Le disposizioni del catecumeno. Quell’alone di luce è la proiezione dell’importanza e della grandezza del suo annuncio, il quale, per insita conseguenza, ne emana l’altro, corrispondente, della seria responsabilità con la quale esso deve venire accolto. I §§ 15-17, con i quali conclude la Procatechesi (coll. 357-365), sono l’esortazione in una semplicità affettuosa e tranquilla, ad uno stato d’animo favorevole verso un impegno sereno, e, subito all’inizio della prima Catechesi (§ 1 col 369), pone ad accogliere i postulanti lo stesso Gesù “ l’Unigenito Figlio di Dio, che è prontissimo a concedere loro la redenzione” (1 col. 369).10 È una presenza così augusta che esclude, in chi accede, ogni ipocrisia. La vicenda di Simon Mago gli si fa emblematica: “Io racconto esempi di cadute, affinché non abbia da cadere anche tu”.11 Introduce storia ad ammonimento; gli eventi si compiono e parlano, non hanno l’inerzia della nozione; hanno un’iniziativa ed un intento; acquisiscono una loro personalità. E, in parallelo, Cirillo mette in guardia contro ogni dilettantismo che degradi il catecumenato ad occasione stuzzicante per scoprire una nuova esperienza sociale;
I. Berten, Cyrille de Jérusalem , Eusèbe d’Émèse et la théologie sémi-arienne, in ‘’Revue des Sciences philosophiques et théologiques’’ 52 (1968). 9 È l’esordio immediato della Procatechesi § 1 col. 332. 10 Al suo primo apparire Dio si presenta subito “come prodigo nel fare del bene”, ma anche nell’atto di aspettare la genuina decisione di ciascuno (§ 1 col. 333). Pone in evidenza il rapporto tra i due operatori nel sacramento; la pacata obiettività del tono sembra, più che esprimere una verità, vedere affiorare una realtà. 11 Procat. § 2 col. 336. A questa prassi catechetica si autorizza con 1Cor 10,11. 8
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respinge ogni faciloneria (ancora § 2 col 336). Non vuole gente che venga a curiosare, né che entri sventatamente senza la consapevolezza della dignità sacrale dell’ambiente (§§ 3-4 coll. 336-340). Oltre agl’incoscienti scorge però anche gli abulici che arrivano per compiacere eventuali pressioni di familiari o di amici; Cirillo non li respinge, li invita a rettificare il proposito; in quelle premure riscontra una provvidenzialità: “È Gesù che ti prende all’amo, non per darti la morte ma per procurarti la vita attraverso alla morte” (§ 5 coll. 341-343). La purificazione. Nel complesso si tratta di una purificazione mentale in vista di quella morale. Subito nell’allocuzione introduttiva (Procat. § 15 col. 357) vi esorta con una robusta e risoluta metafora: “La mente si infiammi alla pietà; la nostra anima venga lavorata nella forgia; la durezza dell’incredulità venga spezzata a colpi di martello; del ferro vengano gettate via le scaglie estranee; rimanga soltanto ciò che è genuino”. La rude perspicuità del linguaggio introduce in un ambiente di severo impegno. E specifica: “Poiché l’uomo è un essere duplice, composto di anima e di corpo, duplice è anche la purificazione; come l’acqua purifica il corpo, così lo Spirito pone il suo sigillo sull’anima” (Cat. III,4 col. 429). La dottrina è di un’evidenza immediata che si impone. Ed insegna che all’attuazione di questa esigenza è preposto un rito, l’esorcismo, che è un depuratore dell’anima analogo a quanto si pratica nel raffinare l’oro dalle scorie (Procat. 9 col. 348); l’insufflazione dello Spirito è parallela a quella che si opera nell’officina per avvivare la fiamma; e l’effetto è immediato: “Entra lo Spirito, fugge il demonio, rimane la salvezza e rimane la speranza della vita eterna” (col. 349). La scena è tersa, vivificata da un movimento la cui pacatezza si fa assolutezza; all’azione, inesorabile, dei due antagonisti succede un effetto che ha categoricità. La purificazione non è però un’operazione passiva, ha l’alacrità di un combattimento: “Continua a presenziare alle catechesi: vi ricevi le armi contro il potere nemico; vi ricevi le armi contro le eresie; le armi sono pronte, prontissima è la spada dello Spirito, devi combattere anche tu mediante la buona volontà” (Procat. 10 col.349). La fuga e la liberazione dal peccato. La purificazione e la lotta concernono unitariamente il peccato, problema fondamentale nella vita spirituale. Cirillo ne pianta subito allo sguardo l’estrema gravità: “Il peccato è una cosa terribile e l’iniquità è una malattia che tormenta l’anima” (Cat. II,1 col. 381): sono aforismi tanto saldi da non aver bisogno di essere appariscenti; parla una realtà scabra che ha tutto l’aspetto di essere indiscutibile. Ma non incombe nessun fatalismo che imprigioni l’uomo in un destino oppressivo; arbitro ne resta l’uomo; infatti Cirillo appone immediatamente un altro aforisma ugualmente reciso: “Il male risiede nel libero arbitrio; è una germinazione della libera facoltà di volere” (col. 381). Non è imposto dall’esterno, nasce dall’interno; Cirillo visualizza la situazione con un’esperienza di applicazione quotidiana: “Immagina che uno tenga in mano del fuoco; finché trattiene il car-
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bone è inevitabile che si bruci; se invece lo getta via, insieme scaccia il bruciore” (§ 1 col. 384). A stimolare al peccato c’è anche il diavolo, ma non domina coloro che non gli obbediscono: “Chiudigli la porta; tienilo lontano da te e non ti nuocerà”(Cat. II,3 col. 385). Contro i fiacchi che si illudono di vincere senza questa risolutezza, ammonisce: “Non sai che la radice che resta infissa nella roccia sovente la spezza? Non ricevere il seme, perché spezzerà la tua fede; prima che fiorisca sradica il male dalle radici... Non appena ti accorgi di avere male agli occhi, curali prontamente, perché, diventato cieco, non abbia poi da cercare il medico” (ibid.). Prevenire, ma anche recuperare; dal peccato è sempre possibile risorgere; contro l’abbattimento dello scetticismo e della sfiducia osserva: “Il serpente depone la vecchiaia e noi non deporremo il peccato?” (Cat. II,5 col. 389); prima di ricorrere alla ragione gioca sull’immaginazione, ma insiste anche, con richiami evangelici, che sulla caduta è aperta la ripresa. Cirillo pone in risalto la compresenza dell’azione umana e di quella divina; proclama infatti: “A noi non è preclusa la salvezza; la natura umana è capace di accoglierla, esige però l’apporto della sua libera volontà” (ancora in II,5 col. 389). Contro il sospetto che Dio non perdoni la moltitudine dei peccati, replica risoluto. “Il cumulo dei tuoi peccati non vince la grande quantità della misericordia di Dio; le tue ferite non vincono la perizia del sommo medico; tu devi soltanto abbandonarti a lui con fede” (II,6 col. 389). E, per documentare più concretamente, al posto della freddezza di disquisizioni teoriche, viene ad esempi, richiamando la benevolenza che Dio usò con Davide (II,6; 11), con Adamo e con lo stesso Caino (§ 7), con la dilazione del diluvio per dare la possibilità di pentimento (8), con Raab (9); il suo ragionamento è fondato sull’obiettività della storia; e vi insiste con tutta una serie di altri casi, concludendo con Pietro (19). L’ apertura al divino. Quelli precedenti sono requisiti preliminari, la preparazione del terreno perché la semina sia fruttuosa. Sul negativo deve però innestarsi il positivo: il catecumeno deve aprire la sua intelligenza allo Spirito Santo, che “ormai abita in lui e rende la sua mente una dimora divina”; deve ricevere, assimilandola, un’illuminazione: “Quando senti ciò che fu scritto sui misteri, allora capirai ciò che prima non sapevi”. E di questa luce intellettuale Cirillo evidenzia la grandezza: “Tu sei un pover’uomo e ricevi la denominazione di Dio”. È una condizione che impone sincerità: “Bada di non avere il nome di fedele e la mentalità dell’infedele; sei entrato in una gara, accetta la fatica della corsa” (Procat. 6 coll 344-345). Cirillo auspica un’accoglienza dinamica: “Non devi soltanto ascoltare ciò che viene detto, devi apporvi la tua firma mediante la fede” (Cat. I,5 col. 376); il richiamo all’impegno diretto investe la personalità nella sua dignità ed onorabilità.
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La presentazione del battesimo Raggiunte queste disposizioni d’animo, Cirillo viene al nocciolo, presentando il battesimo quale sacramento. Sfata subito un’impressione, che doveva essere diffusa, di banalità, connessa con l’umiltà della materia (l’acqua): per effetti così sublimi uno strumento così umile? Ammonisce quindi: “Non pensare a questo lavacro come ad una semplice acqua, ma alla grazia dello Spirito Santo che viene data insieme all’acqua” (Cat. III,3 col. 429). Sospinge a trapassare dalla materialità del rito ai risultati soprannaturali considerando le cose nel loro simbolismo, e cura di evitare che l’analogia con gli usi pagani possa ridurre ad un’equiparazione quelli cristiani; c’è sempre la tentazione del sincretismo che dissipa il trascendente. Accanto all’avvilimento indebito, Cirillo paventa un’assolutizzazione improvvida: il battesimo, se purifica dal peccato, non esime dalle tentazioni; augusta testimonianza è l’esempio di Gesù: “Come egli dopo il battesimo veniva tentato per quaranta giorni, così anche tu, prima del battesimo avevi paura di combattere contro gli avversari, ma, dopo che hai ricevuto la grazia, lotta fiduciosamente e, se vuoi, annunzia il Vangelo” (Cat. III,13 col. 444). Del battesimo non ha una concezione statica: si ricevono una purificazione ed un’illuminazione, si assume il compito di tradurle in alacrità di azione.
L’ esposizione delle grandi linee della verità cristiana Al riguardo pone subito a premessa in stringata risolutezza: “Abbiamo bisogno della grazia divina, di una mente alacre e di occhi che vedano bene” (Cat. IV,1 col. 456) e, su questi presupposti, della verità segna subito l’area: “Il culto divino consta di questi due elementi: retta dottrina ed opere buone” (IV,2 col. 456); li stringe in una simbiosi vitale che è serietà logica, basata sul meccanismo psichico umano; infatti una dissociazione tra pensiero ed azione comporta la schizofrenia. Imposta poi il suo metodo didattico: “Prima di comunicare la fede, credo opportuno riassumere le verità indispensabili, per evitare che la quantità delle cose che verranno dette e l’estensione dei giorni dell’intera quaresima producano la dimenticanza nelle menti più semplici” (IV,3 col 457): prima porge uno schema sintetico di orientamento, che verrà successivamente ripreso in un’analisi di approfondimento. Il teologo, lucido, è anche un pedagogista avvertito. Presenta quindi un sommario essenziale della materia trattata: il primo dogma concerne Dio: è un’esposizione scandita, incisiva, della fede; è tutta sostantivi e verbi senza l’infoltimento di aggettivi; è l’epigrafe dell’ortodossia e delle eresie: in essenzialità e completezza, dove non manca neppure un bagliore di ironia: “Alcuni fecero del sole un dio, per essere senza dio durante la notte, quando esso tramonta; altri divinizzarono la luna, per non avere un dio durante il giorno” (IV,4-6 coll. 457-461).
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Dogma II, su Cristo, con la medesima categoricità, lievemente più discorsiva (7-8 coll. 461-465). Dogma III, sull’autenticità dell’umanità assunta nell’Incarnazione (9 coll. 465-468). Dogma IV, sulla croce12 e sulla sepoltura (10-11 coll. 468-469). Dogma V, sulla risurrezione ed ascensione (12-14 coll. 469-472). Dogma VI, sul giudizio finale (15 coll. 472-473). Dogma VII, sullo Spirito Santo13 (16-17 coll. 473477). Dogma VIII, sull’anima14 (18-21 coll. 477-481). Dogma IX, sul corpo, sui cibi e sulle vesti15 (22-29 coll. 484-492). Dogma X, sulla risurrezione dei morti (30-32 coll. 492-493). Dogma XI, sulle Scritture divine16 (33-37 coll. 493-504). È una sintesi, ma è insieme la presentazione di un’organicità nella quale la completezza si sviluppa in razionalità. Già ‘l’indice’ è rassicurante.
La rassegna del Simbolo La catechesi IV è un prospetto panoramico delle strutture portanti della fede cristia-
“Non vergognarsene”; la fede da idea s’incarna in atteggiamento; da convinzione si fa vita; Cirillo crea unità nella persona. 13 Stabilisce il suo metodo, la sua norma, il suo confine: “Riguardo ai divini e santi misteri della fede, non trasmettere neppure la più piccola particolarità al di fuori della Scrittura divina; non lasciarsi trascinare alla deriva da superficiali probabilità e da artifici verbali” (§ 17 coll. 476-477). 14 Dopo la conoscenza di Dio, “conosci anche te stesso: chi sei? Come uomo sei costituito duplice, composto di anima e di corpo” (§ 18 col. 477). Cirillo sente che la trascendenza è rivolta all’immanenza; presenta il cristianesimo come la divinità che viene all’umanità: necessari entrambi i componenti del binomio; alla teologia deve corrispondere un’antropologia. Senza psicologia non si fa catechesi. Al § 20 col. 481 combatte il determinismo deresponsabilizzante dei valentiniani: “Non esiste una categoria di anime che peccano per natura, né un’altra di quelle che, per natura, compiono il bene; entrambe dipendono dalla loro libera scelta”. Cirillo connette la dignità della fede con quella della persona umana; c’è una responsabilità che è libertà. Siamo totalmente fuori dal fato classico come anche da certa abulia moderna. 15 In § 23 col. 485 afferma: “Il corpo non pecca per se stesso, ma è l’anima che pecca attraverso al corpo”. Rettifica certo dualismo di impronta manichea, che fu molto radicato nella cultura antica e che mantenne ampi riflessi anche in molto ascetismo cristiano. 16 Mette in guardia: “Leggi i libri canonici; non avere nulla di comune con gli apocrifi; medita con impegno solo quelli che leggiamo con piena sicurezza nella Chiesa” (§ 35 col. 497). Pamela Jackson, Cyril of Jerusalem’s use of Scripture in the Catechesis, in “Theological Studies” 52 (1991), pp. 431450, riassume la sua indagine (p. 449) dichiarando che il suo metodo nell’usare le Scritture è determinato dall’intento di presentare i loro insegnamenti in modo che gli ascoltatori siano capaci di ricevere quel sigillo della fede che si trasforma in conoscenza ed in ubbidienza a Dio. 17 A. Bonato, La dottrina trinitaria di Cirillo di Gerusalemme, in “Studia Ephem. Augustinianum” 18, Roma 1983, a p.155 dichiara: “La Trinità di Cirillo si presenta nel suo insieme ben definita e omogenea, anche se non sviluppata in tutti i suoi aspetti. Infatti la questione relativa alla natura e all’origine dello Spirito Santo non viene ancora presa in considerazione. Ciononostante, rispetto alla dottrina eusebiana, la formulazione trinitaria di Cirillo segna un notevole progresso, dovuto al superamento dello schema subordinazionista proprio della dottrina delle ipostasi e all’inserzione dello Spirito Santo nella visione trinitaria su un piano di perfetta parità rispetto al Padre e al Figlio”. 12
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na. In quelle successive Cirillo scende alle membrature minute, analizzando nella loro interiorità i grandi temi. Vuole mostrare che quel quadro sinottico, che contiene la verità, offre in se stesso, nell’euritmia della sua sapienza, un’impressione di verità. Con le catechesi seguenti passa in metodica rassegna gli articoli del Simbolo. La V, incentrata su ‘Credo’, spiega la fede nella sua dignità, nella sua necessità, nei suoi aspetti e nella sua esigenza di integrità. Al § 2 col. 508, in una di quelle effusioni che, nella loro schietta immediatezza, traducono l’emozione di una scoperta improvvisa, esclama: “È davvero una grande cosa un uomo di fede!” La VI, partendo dall’esordio del Simbolo, “Credo in un solo Dio”, attesta l’unità di natura della Trinità,17 rifiutando le due divinità vicendevolmente contrapposte del manicheismo e le varie divagazioni dello gnosticismo. Contro le audacie teologiche incontrollate segna ben chiaro quanto siano ristretti i confini della nostra conoscenza: “Su Dio diciamo, non ciò che bisogna, ma quanto capisce la natura umana; non spieghiamo che cosa è Dio, ma confessiamo onestamente che non abbiamo una precisa conoscenza di lui; su ciò che concerne Dio è una grande scienza il confessare la mancanza di conoscenza” (§ 2 col. 540-541). Delimita in perspicuità le esigenze degli ascoltatori, i margini della sua esposizione, l’inattingibilità dell’argomento: è un impostare la sua lezione con il massimo di chiarezza; in quest’atmosfera pone le verità essenziali in recisa incisività: “Il Figlio è partecipe, insieme allo Spirito Santo, della divinità del Padre” (§ 6 col. 548).18 Della natura di Dio scandisce le qualità, non le intreccia; giungono singole in netta delimitazione, tasselli perfettamente individuati di un mosaico organico. Inculca la verità e smaschera l’errore, che egli non si perita di riferire: “È molto meglio ascoltare le stramberie altrui mentre vengono confutate che caderci dentro per ignoranza” (§ 13 col. 560), quindi, dopo l’ortodossia, elenca particolareggiatamente le eresie, evidenziandone gli errori (§§ 8-35); dinanzi all’errore non ha complessi. La Catechesi VII, sul Padre (coll. 605-622), intensifica la chiarezza della verità presentandola nei due risvolti del positivo e del negativo, della proposta e dell’esclusione. Parla della paternità effettiva verso il Figlio e di quella metaforica verso gli uomini; nella dimostrazione teologica di questa Cirillo si riscalda in una reazione affettiva: “Dio, nella sua inesprimibile bontà, accettò di venire chiamato padre degli uomini: lui che è in cielo di quelli che sono sulla terra; lui che è il creatore dei secoli di quelli che vivono nel tempo” (§ 12 col. 617), e (ibid.) dall’ammirazione per Dio passa alla commiserazione per gli uomini che lo rifiutano. “Ma l’uomo, abbandonando il Padre celeste, disse a del legno (idoli) «Il mio padre sei tu» e ad una pietra
A. A. Stephenson, S. Cyril of Jerurusalem’s Trinitarian Theology, in “Studia Patristica” XI,2, TU 108, Berlin 1972, pp. 234-241, a p. 240 afferma: “Ritenendo la vera divinità del Figlio, la sua coeternità, coequalità e consostanzialità con il Padre, il Cirillo delle Catechesi era perfettamente ortodosso anche con la norma del Credo di Nicea”. 18
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«Sei tu che mi hai generato» (Ger 2,27)”. Con una deplorazione amareggiata avverte un’assurdità che viene ancora prima dell’empietà. L’VIII tratta dell’onnipotenza di Dio e della sua provvidenza, impugnando soprattutto i manichei, che sottraevano al Suo dominio i corpi ed il demonio, che essi consideravano potenza a lui coetanea e contraria. Cirillo pensa che Dio ne tolleri l’esistenza “per due motivi: affinché, sconfitto, subisca una vergogna maggiore e gli uomini ne vengano premiati” e, commosso, esclama: “O sapientissima Provvidenza divina, che prendi quella volontà malvagia come mezzo per la salvezza dei fedeli!” ( § 4 col. 629). Sempre seguendo i commi del Simbolo, Cirillo nella IX affronta il tema perenne che, se il Creatore è invisibile, è però raggiungibile attraverso alla creazione, e su di essa, lungo tutta l’omelia, si ferma in una contemplazione piena di un gaudioso stupore: ne ammira la molteplice grandiosità, l’ingegnosissima complessità, la perfezione del funzionamento. la testimonianza di una Provvidenza che ama gli uomini con una sollecitudine permeata di benevolenza. Tutta l’orazione è un inno che si eleva dalla meraviglia. La X afferma la divinità “dell’unico Signore Gesù Cristo” sulla scorta delle dichiarazioni scritturali e ne analizza le peculiarità seguendo la serie dei suoi appellativi specifici. Sull’autentica divinità di Cristo conclude facendo affluire una ressa di ‘testimonianze’, le quali esercitano una pressione che avvolge da ogni lato (§ 19 coll. 685-688). Ne scaturisce genuina la deduzione: “Se c’è qualcuno che prima non credeva, creda adesso; se invece credeva già prima, aggiunga alla sua fede un incremento maggiore” (§ 20 col. 689): spira un candore che apre l’animo. L’ XI attorno al Figlio di Dio slarga gl’immensi orizzonti di un tempo senza tempo (“nato prima di tutti i secoli”) e d’un’immensità cosmica di cui è l’unico autore (“ad opera del quale tutto fu fatto”). Evidenzia la diversità delle generazioni create dalla sua eterna. È tutta una tersa visione che si apre sulla natura divina, la quale trascende la ragione, affascinandola invece di umiliarla: “Il Figlio è dunque vero Dio, avendo in se stesso il Padre, senza tuttavia mutarsi nel Padre; non fu infatti il Padre ad assumere l’umanità ma il Figlio; non fu il Padre a patire per noi; il Padre invece mandò colui che patì per noi” (§ 17 col. 712). La più alta trascendenza, nella sua essenza irraggiungibile dalla ragione, è stata, nella sua azione, presentata alla comprensione in limpidissima felicità didattica. La XII, amplissima (coll. 725-769), espone nei particolari l’impressionante prodigio della divinità eterna ed infinita che s’incarna nell’angusta e fragile umanità, esaminandone gli aspetti ed i motivi di credibilità. Vi vede il piano di Dio di superare la propria inaccessibilità da parte degli uomini: “Siccome noi non possiamo vedere Dio com’è, e quindi non lo possiamo godere, egli si è fatto ciò che siamo noi, affinché diventassimo capaci di goderlo” (§ 13 coll. 737-740). La XIII, sulla crocifissione e sepoltura di Cristo, commenta le fasi della Passione, rilevando che il supplizio di Cristo è diventato la gloria dei cristiani, che essi debbono improntare nella quotidianità della loro vita: “Non abbiamo vergogna di con-
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fessare il Crocifisso; segniamo, in libera franchezza, con le dita sulla fronte il sigillo della croce; poniamolo in ogni circostanza: quando mangiamo il pane e quando beviamo le coppe, quando entriamo e quando usciamo, prima del sonno, quando dormiamo e quando ci alziamo, quando camminiamo e quando stiamo fermi” (§ 36 col. 816). Non è un programma normativo, è un’effusione dell’anima; parla il cuore. La XIV completa la successione degli eventi con la risurrezione, l’ascensione e la collocazione di Cristo alla destra del Padre; l’apertura (§ 1 col. 825) è un largo invito alla gioia. La XV presenta e dimostra la seconda venuta di Cristo alla fine dei tempi ed il giudizio finale; è il ricupero della giustizia nella storia: “Il Salvatore verrà, non per essere giudicato una seconda volta, ma per giudicare quelli che lo avevano giudicato” (§ 1 col. 869); è una nemesi storica proiettata al di là di ogni confine. Allo Spirito Santo, per la sua augusta dignità, tanto misteriosa quanto misconosciuta, Cirillo dedica, in continuazione, la XVI e la XVII,19 aprendo con una sollecitazione all’impegno intellettuale nella luce di una illuminazione divina: “È davvero necessaria una grazia dello Spirito per parlare dello Spirito Santo” (XVI,1 col. 917). In corrispondenza al proprio zelo richiede l’alacrità degli ascoltatori: “È opera della grazia di Gesù Cristo concederci che noi parliamo senza manchevolezze e che voi ascoltiate con intelligenza; l’intelligenza è infatti necessaria non soltanto a quelli che parlano, ma anche a quelli che ascoltano, affinché non sentano una cosa e se ne mettano in mente un’altra” (XVI,2 col. 920). Richiama la necessaria cooperazione docente-discente, ponendoli entrambi sotto l’azione dello Spirito Santo, che egli concretizza mediante una similitudine attinta dall’esperienza abituale: “Lo Spirito Santo illumina facendo conoscere ciò che prima si ignorava come, al sorgere del sole, chi era immerso nelle tenebre scorge con chiarezza ciò che prima non vedeva” (XVI,16 col. 941). E nel rapporto docente-discente specifica le rispettive competenze: “È compito mio ammonire contro l’errore e tuo preservarti da esso” (XVII,35 col. 1009). Il dovere dell’ascoltatore è reso più convincente dalla menzione di quello dell’oratore. La XVIII, conclusiva, raccoglie i temi complementari della risurrezione della carne, della Chiesa cattolica e della vita eterna ed avvolge tutto in una prospettiva profondamente rassicurante: “Tutto sarà ripieno di un’inesprimibile gioia” (§ 34 col. 1057). Il Simbolo aveva fornito a Cirillo una struttura, ma da quel tronco egli fece germogliare una vegetazione rigogliosa di riflessioni che illuminano la mente in una salda
C. Granado, Pneumatología de San Cirilo de Jerusalem, in “Estudios eclesiásticos” 58 (1983), pp. 421-490, a p. 484 rileva che queste Catechesi non sono teologia speculativa in cui prevalga la riflessione metafisica sui dati della fede; Cirillo si basa sempre sulla Scrittura; quando esprime concretamente la sua fede nello Spirito Santo, ha un’acuta coscienza a limitarsi a riprodurre il testo biblico. 19
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coerenza culturale e rischiarano l’anima nella contemplazione di un Dio che s’impegna tutto nella salvezza della fragilissima creatura umana. Sotto la sua razionalità dimostrativa ferve un calore vitale in un’ammirazione che si traduce in adorazione.
Parola trasparente in forma dialogica Il tono della sua trattazione è tranquillamente discorsivo; è un docente che si trova davanti un amplissimo e magnifico panorama di realtà e lo percorre con la lieta alacrità di chi è sicuro di una verità che porta ad una salvezza di infinita profondità. L’area della fede gli si mostra soffusa d’una luce pacata che rassicura senza abbagliare; nel mistero percepisce realtà piuttosto che oscurità. Parla con una vivacità d’interesse che non è vivacità di tono; il suo fervore è schermato in una calma che è forza; non ha né vampate né aridità; procede con uno spontaneo senso dell’equilibrio. Anche la sua morale è sana, sul filo della quotidianità della vita; non persegue voli ascetici, non s’inoltra e non sospinge nelle plaghe dell’eroismo; è tanto lontano dal rigorismo quanto dal laicismo; parla tranquillo nel tono e nella qualità delle richieste, in una distesa familiarità; la sua lezione conduce con un agio cordiale attraverso un clima di conversazione amichevole. È un’eloquenza che fluisce accattivante in una semplicità di linguaggio che, lungi dall’apparire povertà, si rivela la sicurezza di chi domina il suo argomento;20 dice chiaro perché vede chiaro; scandisce, perché nella mente non ci sono interstizi di ombra: sua arte è la trasparenza. Nella sua esposizione non appare traccia di fatica; c’è una naturalezza signorile, aliena tanto dalla sciatteria quanto dalla ricercatezza.21 Per facilitare l’immediatezza di comprensione è parco di subordinate, le quali conferiscono, certo, al pensiero un’architettura pregevole, ma ne riducono la prontezza della percezione; preferisce le coordinate, che si presentano frontalmente in perspicuità di visione; scandisce i concetti ciascuno nella propria individualità. Parallela-
È semplice ma non è banale: “Se fatichi poco, ricevi poco; se lavori molto, molto sarà anche lo stipendio; tu corri per te stesso, bada al tuo interesse” (Cat. I,5 col. 377). È una sapienza in abito dimesso e quindi più difficilmente impugnabile. Tanto il suo linguaggio quanto il suo argomentare sono immediati; si direbbe che parli sottovoce; più che il tono un po’ sonante dell’omelia, ha quello smorzato della meditazione. È quanto troviamo anche in IV,21 col. 481: “Se tu vivessi nella dissolutezza per necessità, per che motivo Dio avrebbe preparato la geenna? Se tu compi il bene per natura e non per scelta, per quale motivo Dio avrebbe preparato delle corone ineffabili?” 21 J. Bouvet, Saint Cyrille de Jérusalem, Textes traduits et présentés, Namur 1961, a p.13 osserva che i suoi esordi sono talora assai curati; ci teneva a captare l’attenzione con il fascino della parola; ma non è artificiale; questo fascino nasce senza sforzo dalla grandezza del soggetto e dalla fede entusiasta del catechista. 20
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mente non indulge alle similitudini, che allentano la consequenzialità della trattazione e possono anche sviare dalla concentrazione; si attiene piuttosto ad un linguaggio che include l’immagine nella parola, la quale acquista un efficace colorito di pittoresco: il quadro evocato resta sfondo, di sostegno, senza farsi presenza di ingombro. A vivacizzare l’esposizione introduce con notevole frequenza uno schema di dialogo; così in Cat. II,2 col. 384: “Ma qualcuno dirà: che cosa è dunque il peccato? è un essere vivente? è un angelo? è un demone? che cos’è che lo produce?” e gli replica: “O uomo, non è un nemico che provenga dal di fuori a combatterti; è un cattivo germoglio che si sviluppa partendo da te”. La drammaticità espositiva è come una eco di quella che agita il dissidio interno. E come una lotta presenta fin dall’inizio (Procat. 10 col. 349) la vita cristiana, alla quale le sue istruzioni forniscono le armi: “Persisti nel frequentare le catechesi senza stancarti: vi ricevi le armi contro le potenze demoniache; vi ricevi le armi contro le eresie, contro i Giudei, i Samaritani, i pagani. Hai molti nemici, prendi molte armi; sono molti quelli contro i quali devi vibrare il giavellotto”. È l’intonazione del suo magistero didattico: attrezzare i suoi catecumeni contro ogni genere di nemici. Non teme “di parlare a lungo” perché non può disattendere dal vaccinare contro le molteplici infezioni che insidiano il cammino della vita. È una guida che precede con un impegno animoso e che una corrispondente sollecitudine richiede a coloro che intendono seguirlo.
Nel prossimo numero: 12. San Giovanni Crisostomo
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STRUMENTI EDUCATIVI FRANCESCO TRISOGLIO, FSC Avvio alla politica Effatà, Cantalupa 2007, pp. 302 A partire dalla sua singolare esperienza didattica presso la Scuola di formazione sociopolitica “Alcide de Gasperi” di Torino, l’autore propone un sussidio utilissimo per chi intenda accostarsi, anche da credente, alle grandi questioni della vita politica con l’intento di acquisire non solo conoscenze teoriche adeguate, ma anche e soprattutto competenze operative che lo abilitino ad assumere impegni nella realtà sociale.
ENRICO E IGINO TRISOGLIO, FSC Ma cosa vuole dire? Prontuario di terminologia religiosa Arti Grafiche S. Rocco, Grugliasco 1998, pp.136 (pro manuscripto).
Ma è solo con le parole che si può parlare? Tiellemedia, Roma 1999, pp.192 (ed. fuori commercio) La parola si rivolge alla ragione, filtra concetti e sentimenti, costruisce dimostrazioni, serve ad acquisire e trasmettere nozioni. Il simbolo ha valenze opposte ed integrative: parla all’immaginazione ed entra direttamente nel circuito reattivo dell’anima. Ragioniamo con parole e sentiamo mediante simboli. Di questo linguaggio si offrono qui due saggi complementari, vari nei loro orizzonti e facili per concisione e chiarezza. Creano larghi e complessi sfondi alle consuetudini lessicali, aiutano a capire e a capirci. I redattori, doppiamente fratelli, sono uomini di scuola, sono “del mestiere”.
FRANCESCO TRISOGLIO, FSC In cammino: ausilio alla lettura dell’alfabeto della vita Effatà, Cantalupa 2008, pp. 191 La vita come via è forse la prima metafora che l’umanità abbia inventata: il sole con il suo giro, scandito da luce e tenebra, ci segnala periodi, ce li fa contare, ci dà la sensazione fisica di un succedersi di tappe, di un cammino. Al centro di tutti i problemi emerge l’interrogativo, unico e inevitabile: ma la vita ha un senso? Tutti gli altri quesiti non sono che suddivisioni o supporti. Affiora dal fondo della persona, ma è tanto imponente che finisce con l’intimidire e suscitare un impulso ad accantonarlo. Assai più ragionevole è affrontare il problema ed avviarsi per il cammino. Con chiarezza di idee e coraggio di scelte.
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Santidad y apostolado JOSEAN VILLALABEITIA*
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i preguntásemos a distintos creyentes qué entienden ellos por santidad, probablemente nos encontraríamos con respuestas muy diferentes. Sin embargo, con seguridad todos ellos asociarían en ellas, de una manera de otra, la noción de santidad cristiana con un ideal de plenitud; porque en esta palabra, en este concepto, la tradición ha visto siempre, y ha intentado sintetizar, lo más valioso de la experiencia humana y cristiana1. Luego ya, según se esté aludiendo más en concreto al Padre, al Hijo, al Espíritu Santo, al hombre, a la Iglesia, a la vida, al amor, a la comunidad, al compromiso creyente, etc., el contenido preciso de la santidad se irá introduciendo en aspectos que variarán bastante de una definición a otra. Aunque, eso sí, en todas ellas aparecerá constantemente la referencia a Dios, el único Santo, fuente, modelo y referencia permanente de toda santidad, sea cual fuere el punto de vista desde el que la estemos considerando. Porque si se quiere tratar de santidad, Dios y su misterio han de andar siempre de por medio. Así, por ejemplo, se podrá conectar la santidad con el ser de Dios, con una de sus manifestaciones concretas, con los dones divinos comunicados a una persona, con la transformación del hombre por la acción de Dios para asemejarse más y más a Él, con la eficacia de la gracia... Y es que, en definitiva, sólo se
* Josean Villalabeitia, FSC, dottore in teologia e docente nel Centro Universitario La Salle di Madrid, ha scritto questo saggio per la rivista teologica annuale Claretianum ITVC, Roma, che l’ha pubblicato nel dossier “Chiamati a essere santi” del numero 2010, pp. 51-78. Ringraziamo l’Autore e la Direzione della rivista per la gentile autorizzazione. Esta idea de plenitud –incluso literal: “En Él quiso Dios que residiera toda la plenitud” (Col 1, 19)– es la que se respira también en las primeras manifestaciones cristianas a propósito de la resurrección de Cristo, que podemos leer en varias cartas de San Pablo; aunque algunas de esas fórmulas podrían haber sido redactadas, para las reuniones litúrgicas de las primitivas comunidades cristianas, incluso antes de la propia carta que las recoge; cf. Flp 2, 6-11; Ef 1, 3-14; Col 1, 15-20.
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puede hablar de santidad a partir de Dios, el Santo; en consecuencia, santo será todo aquél o todo aquello que Dios toca, en lo que interviene o influye, todo lo que viene de Él o a Él conduce. Por ceñirnos a una concepción de la santidad que pueda ayudarnos de manera particular a comprender sin dificultad sus relaciones con el compromiso apostólico de los creyentes, en estas líneas utilizaremos una noción de santidad que apunte, con los debidos matices, al proceso de configuración paulatina con la persona de Jesucristo, de conformación e identificación con Él, de divinización progresiva del hombre tomando como modelo la vida de Cristo: sus actitudes de base, sus maneras de actuar, sus objetivos fundamentales, su apertura al Padre, su Palabra recogida en los evangelios, su causa... Santificarse sería, según esta visión, parecerse cada vez más a Cristo, vivir como Él vivió, actuar como Él actuó, prolongar –actualizándola a nuestro aquí y ahora– su experiencia entre los hombres, continuar, con la ayuda y bajo la inspiración de su Espíritu, la obra que Él inició. Desde esta manera de concebir las cosas, ser santo significaría, fundamentalmente, ser cristiano, es decir, ser nuevos cristos que aceleren la llegada completa del Reino de Dios a nuestro mundo y a nuestra historia. A partir de esta idea de la santidad, sin más que dejándose llevar por el propio razonamiento, ya se pueden intuir sin dificultad cuáles podrían ser sus relaciones con el apostolado. Al plantear las cosas de esta manera, no debemos olvidar ese carácter de proceso que hemos atribuido a la santidad. Ello implica que aquí, en esta tierra nuestra, nunca llegaremos a ser cristianos del todo, nunca seremos santos por completo, por más que podamos esforzarnos y aportar con generosidad a la tarea todos y cada uno de nuestros recursos personales. Esta actitud de base será fundamental, e incluso imprescindible, por supuesto, pero no bastará por sí sola para convertirnos en santos. Porque, de acuerdo con lo que los cristianos han creído desde los primeros momentos, nuestro proceso de santificación sólo concluirá, sólo será pleno, total, merced a la intervención gratuita y amorosa, en puro don, de Dios al final de los tiempos2. Debemos colaborar activamente en nuestra propia santificación, por supuesto; pero sólo seremos santos, en definitiva, porque Dios, en su amor gratuito de Padre, nos acogerá un día a su lado y nos regalará el inmenso don de ser como Él. Dicho todo esto a propósito de la santidad, el abanico de posibilidades que abre la definición de apostolado es, por el contrario, mucho más reducido. La misma raíz del término lo acota sensiblemente al asociarlo con la actividad del apóstol, con su misión. Por destacar su aspecto más característico, habría que subrayar quizás que cuando hablamos de apostolado queremos indicar que se trata de una actividad, de
“Si la esperanza que tenemos en el Mesías es sólo para esta vida somos los más desgraciados de los hombres”, afirma San Pablo en 1Co 15, 19.
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hacer algo, de organizar y desarrollar diferentes acciones, de cansarse, tener éxito o fracasar, de ponerse manos a la obra, a una obra apostólica, por supuesto3. En este sentido, el mero testimonio sencillo de la coherencia práctica de la propia vida cristiana4, con ser fundamental para suscitar cuestiones en quienes entran en relación con nosotros, no tendría que ser considerado –y nosotros aquí no lo vamos a hacer– como una actividad explícitamente apostólica5. Ello no quita que, no pocas veces, en la práctica constituya la única manera de proclamar la propia fe o, incluso, que, por los motivos que fuese, el testimonio de vida cristiana se convierta, de hecho, en el método misionero más efectivo. ¿Y cuál es la obra del apóstol? ¿Qué debe hacer para que pueda ser considerado como tal? Pues, fundamentalmente, anunciar –de palabra y de obra– el Reino de Dios, proclamar el Evangelio de Jesucristo6. Por esta razón, hacer apostolado sería equivalente a evangelizar, de la misma manera que un apóstol será el que anuncia el Evangelio, el evangelizador. Evangelizar supondrá, por supuesto, explicar el Evangelio, enseñarlo, hablar de él; pero también acercarse a los hombres, amarlos, servirlos, ayudarlos, comprenderlos... desde la invitación y al estilo de Jesús de Nazareth. Y todo ello viviendo como Él vivió, en sintonía con sus valores e ideales, en unión íntima con su persona. Surgiría así una primera clasificación de las obras apostólicas en dos grupos fundamentales. Las que tienen que ver fundamentalmente con la predicación y el anuncio, con la enseñanza y la palabra, por una parte; y las que suponen un servicio al prójimo, una obra de misericordia hacia él, una ayuda, un apoyo, una acción caritativa, una cercanía. Ambos grupos de acciones apostólicas tendrán por denominador común una doble actitud indispensable: en primer lugar, la unión y sintonía íntimas con el Maestro bueno, cuyo ejemplo queremos seguir aceptando su invitación a extender el Evangelio por todas los lugares; y, en segundo lugar, considerar el amor gratuito y generoso, núcleo primordial del Evan-
3 Como le gusta explicar al cardenal Martini en sus retiros de raíz bíblica, el Señor pide a aquellos pescadores de hombres, en que Él constituyó a sus discípulos, que echen la red y breguen en el mar, que se pongan a trabajar de nuevo, que se fatiguen y actúen confiados en la palabra de su Maestro. Sólo así las virtualidades del Nazareno se pueden desplegar en todo su esplendor. No basta, pues, sólo con confiar en la palabra del Señor; hay que ponerse manos a la obra con entusiasmo. Cf. Lc 5, 4; Jn 21, 6. 4 No cabe duda de que en la eficacia apostólica de los primeros cristianos jugaba un papel trascendental el hermoso testimonio de coherencia cristiana que daban en su vida cotidiana. Cf. Hch 2, 47; 4, 33. 5 El documento conciliar sobre el apostolado de los laicos, Apostolicam actuositatem, destaca el valor apostólico del testimonio del cristiano, cuando tiene lugar en una actitud muy concreta y va acompañado de obras de caridad: “El mismo testimonio de la vida cristiana y las obras buenas, realizadas con espíritu sobrenatural, tienen eficacia para atraer a los hombres hacia la fe y hacia Dios, pues dice el Señor: «Así ha de lucir vuestra luz ante los hombres, para que viendo vuestras buenas obras glorifiquen a vuestro Padre que está en los cielos» (Mt 5, 16)” (Apostolicam actuositatem, 6; en adelante, AA 6). El mismo documento, no obstante, pocas líneas más adelante, indica que “este apostolado no consiste sólo en el testimonio de la vida” (AA 6). Una doctrina similar se repetirá, a este respecto, una década más tarde, en la Evangelii Nuntiandi, 21 y 22; en adelante, EN 21 y 22. 6 AA 2.
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gelio de Jesús, como la fuente única de la que han de nacer todas nuestras obras apostólicas, sean de la naturaleza que fueran. Por organizar un poco nuestras reflexiones a propósito de todas estas cuestiones y limitarlas en lo posible al espacio que tenemos asignado, organizaremos nuestro texto en tres partes. Primeramente, trataremos de resumir en un comentario breve las sugerencias a propósito del apostolado que hallamos en la Palabra de Dios –de manera particular en el Nuevo Testamento–; después, de forma mucho más breve, dada la enorme extensión posible del asunto, apuntaremos a unas pocas intuiciones muy conocidas de ciertos santos que se han caracterizado en la historia de la Iglesia por su entusiasmo apostólico7 y que, en ciertos casos, han pasado a algunos documentos oficiales de la Iglesia; en tercer lugar, y de manera algo más extensa que en los dos capítulos anteriores, nos introduciremos en la doctrina conciliar y posconciliar que la Iglesia ha ido ofreciéndonos a lo largo de los últimos decenios. Concluiremos nuestro artículo con una reflexión en voz alta, que intentará alertar, de alguna manera, sobre el peligro de parcelar en exceso aspectos que tendrían que ir siempre indisolublemente unidos, como es el caso de la santidad y el apostolado. No en vano, como afirma la encíclica Redemptoris missio, del Papa Juan Pablo II, “el verdadero misionero es el santo”8.
La pasión por el Reino Si acudimos al Evangelio –y a otras fuentes serias de la misma época– para intentar saber cómo vivió Jesús de Nazareth, qué hizo, qué le preocupaba y cuáles eran sus prioridades existenciales, el acuerdo de los especialistas es unánime: tras pasar probablemente un tiempo en el desierto, participando en el movimiento que surgió en torno a Juan el Bautista, Jesús de Nazareth decide convertirse en un predicador itinerante cuyo mensaje fundamental podría resumirse en una expresión muy significativa: el Reino de Dios9. Promover el Reino de Dios será, en efecto, la pasión fundamental del Nazareno a lo largo de toda su vida pública, el núcleo imprescindible de su predicación, el objetivo primordial de su actividad, el motor de cuanto dirá y hará; la vida entera de Jesús estará al servicio del Reino de Dios. “El Reino de Dios es la clave para captar el sentido que Jesús da a su vida y para entender el proyecto
7 La presencia en el elenco de santos oficiales de la Iglesia de tal cantidad de figuras entusiasmadas por el trabajo apostólico, del que se recogieron cuantiosos y excelentes frutos de todo tipo, bastaría ya, por sí sola, para dar por definitivamente cerrada –si llegara a existir? cualquier polémica a propósito de la relación entre el apostolado y la santidad. 8 Redemptoris missio, 90. En adelante, RM 90. 9 “Fue caminando de pueblo en pueblo y de aldea en aldea proclamando la buena noticia del Reino de Dios” (Lc 8, 1). Cf. EN 8.
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que desea ver realizado en Galilea, en Israel y, en definitiva, en todos los pueblos”10. Más difícil resulta sintetizar en unas cuantas líneas cómo concebía Él este Reino, que consideraba ya presente entre nosotros, o al menos muy cercano, invitándonos a cambiar de vida para entrar por sus caminos. Es evidente también que para Jesús la llegada del Reino de Dios era una espléndida noticia que debía llenar de alegría a todo el mundo, porque la llegada del Reino de Dios a nuestra tierra, a nuestra vida, supone algo realmente bueno para todos11. En los documentos queda, además, muy claro que donde más entusiasmo provocaba su predicación era entre los sectores más pobres y deprimidos de la sociedad galilea, en quienes surgía con rapidez la esperanza de ver, por obra y gracia de la acción divina, cambiado el triste sino de sus vidas; porque Dios se preocupaba de ellos y había decidido intervenir en su favor12. “Jesús declara de manera rotunda que el Reino de Dios es para los pobres [...] Jesús los declara dichosos, incluso en medio de esa situación injusta que padecen, [...] porque Dios está ya viniendo para suprimir la miseria, terminar con el hambre y hacer aflorar la sonrisa en sus labios. Él se alegra ya desde ahora con ellos. No les invita a la resignación, sino a la esperanza”13. ¿Cómo actúa Jesús, en su entusiasmo existencial por anunciar ese Reino de Dios que está ya entre nosotros, para llenar de esperanza a los pobres? Por una parte, el profeta de Nazareth se dirige a las gentes, les habla de quién es Dios para Él y de lo que espera de todos ellos14, les explica en parábolas en qué consiste ese Reino15, cuáles son sus características fundamentales y las actitudes que demanda16, les indica sus claves esenciales17, les anima a cambiar de vida para incorporarse a sus caminos del Reino18 y hacer que sus virtualidades se manifiesten en plenitud en sus vidas. Pero Jesús no se queda únicamente en palabras; además de predicar, actúa: resucita muertos, cura enfermos, expulsa demonios, ayuda a las gentes tristes19, defiende a los
Pagola J. A., Jesús. Aproximación histórica, PPC, Madrid 20088, p. 88; cf. también p. 466. En este espléndido libro se puede encontrar una bella síntesis de las inquietudes fundamentales de Jesús de Nazareth así como una muy abundante selección de la más reciente bibliografía en relación con su figura histórica. 11 “El Reino de Dios está entre vosotros” (Lc 17, 20). “Se ha cumplido el plazo, ya llega el Reino de Dios. Convertíos y creed la buena noticia” (Mc 1, 15); cf. Mt 4, 17. 12 Las “Bienaventuranzas” podrían señalarse como el mejor ejemplo del Evangelio para fundamentar estas afirmaciones, en particular aquella que dice: “Dichosos vosotros, los pobres, porque tenéis a Dios por Rey” (Lc 6, 20; Mt 5, 3), aunque podrían proponerse muchos textos más: Mt 6, 25ss; 11, 5; 11, 2830; Lc 7, 18ss; 12, 22ss; etc. 13 Pagola J. A., o. c., p. 102. 14 Cf. Lc 15, 11-32; 18, 9-14... 15 No pocas de sus parábolas comienzan, precisamente, por la frase: “El Reino de Dios se parece a...”. Cf. Mc 4, 26-29.30-32; Mt 13, 31-32.33.44.45-46.47-50.52; 25, 1ss; Lc 13, 18-19.21; 14, 15ss... 16 Cf. Mt 6, 9-13; Lc 10, 25ss; 11, 1-13... 17 Cf. Mc 10, 35-45; Mt 20, 20-28; Jn 13-17... 18 Cf. Mc 1, 15; Mt 4, 17... 19 Cf. Lc, 7, 2-10.11-17; Mt 8, 5-13; Jn 4, 43-54; Lc 19, 1-10... 10
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pobres20, perdona a los pecadores21, etc. Los aspectos fundamentales de la actividad de Jesús serían, por tanto, dos: la palabra y la acción; el origen único de ambos residiría, sin embargo, en su deseo filial de cumplir la voluntad de su Padre celestial, identificándose con Él y haciendo lo que más le agrada: asegurar una vida plena a sus hijas e hijos22; el único motor de toda su actividad, un amor sin medida al Padre, que lo envió, a sus hijos los hombres, a quienes Jesús considera como merecedores de idéntico trato que habría que ofrecer al mismo Dios23. Estos planteamientos de entusiasmo por el Reino de Dios, y su consecuente actuación audaz y arriesgada en defensa de sus novedosos valores, llevaron a Jesús al sufrimiento y a la cruz. Porque los poderes religiosos y políticos del momento no podían de ningún modo aceptar que nadie trastocara los pilares en que se sustentaba aquella sociedad, de cuyo correcto funcionamiento eran ellos responsables y que, por otra parte, tan pingües beneficios les reportaba. Probablemente Jesús se fue dando cuenta, de manera cada vez más nítida, del final al que inexorablemente lo conducía su manera de actuar, pero el impulso interior que sentía era tan fuerte, su deseo de llevar adelante su misión –que Él vivía como directamente encomendada por su Padre– tan intenso, su sentido de la obediencia a la voluntad divina y de responsabilidad y coherencia en relación con lo que había predicado, que no se amilanó y prefirió mantener su compromiso hasta las últimas consecuencias. La resurrección dejaría más adelante bien claro, a la vista de todos los creyentes, cómo había comprendido Dios Padre la actuación terrena de su Hijo Jesús, que en apariencia había concluido en el fracaso más total. Y ahora, después de este rápido repaso a la actuación histórica del Hijo de Dios, tocaría preguntarnos cómo identificarnos con Él, cómo repetir aquí y ahora lo que Él hizo y propuso, cómo vivir a su estilo. Decíamos que era, sin duda, una manera –¿la única manera?– de llegar a ser santos. Pues bien: a la vista de lo expuesto, la respuesta es muy sencilla. Se trataría de entusiasmarse más y más por lo mismo que Él se entusiasmó –el Reino de Dios–, a partir de los mismos planteamientos en los que Él basó sus opciones –su convicción de estar cumpliendo la voluntad de su Padre amoroso, que no puede aceptar la situación de sufrimiento en que con frecuencia se desenvuelven sus hijos, que son hermanos de Jesús–, extrayendo la energía para la acción del mismo motor que a Él lo movió –el amor gratuito, incondicional y universal, sin barreras de ningún género– y actuando de idéntica manera a como Él lo hacía –de palabra y de obra; con la predicación y con la acción–: he aquí una preciosa definición de los que tendrían que ser pilares primordiales de todo apóstol
Cf. Lc 21, 1-4; Jn 8, 2-11... Cf. Mc 2, 1-12; Mt 9, 2-8; Lc 5, 17-26; Jn 8, 2-11... 22 Cf. Pagola J. A., o. c., p. 311. 23 Cf. Mt 25, 31-46. 20 21
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cristiano, tomando como base la actuación concreta de Jesús de Nazareth, su modelo primigenio, el mejor de todos, tal como el Evangelio nos lo presenta. Imitar la actuación de Jesús, reproducir aquí y ahora su experiencia, recorrer nuestro camino de santidad siguiendo su ejemplo, no puede estar más claro: se trata de proclamar el Reino de Dios, llevando por bandera el amor tal como lo concibe el Evangelio, con nuestras palabras y nuestras obras, sintiéndonos llamados y enviados a esa tarea por Dios, que nos invita permanentemente a cumplir su voluntad. Pero es que, además de repetir su experiencia, tendríamos que intentar hacer caso a lo que Él mismo nos indicó, con su vida y con su palabra. Y el Evangelio, a este respecto, no deja lugar a dudas. En los cuatro evangelios, al inicio de la vida pública e Jesús, nos encontramos siempre con la llamada a los discípulos, y en particular a los Doce24, para que desarrollen una misión trascendental: abrir camino al Reino25. Y al final de los mismos, tras la experiencia transformante de la Resurrección, la llamada se vuelve aún más apremiante y universal: “Id por el mundo entero pregonando la buena noticia a toda la humanidad”26. “Tal vez Jesús les quiso hacer ver cómo se podía colaborar con Él en el proyecto del Reino. Los enviados no actúan por iniciativa propia, sino en nombre de Jesús. Hacen lo que les ha indicado y tal como les ha ordenado. Son sus representantes”27. Como puede observarse en las citas evangélicas anteriores, la tarea concreta que Jesús encomienda a sus discípulos tiene siempre una doble vertiente inseparable. Por un lado, sus discípulos deben predicar, anunciar el Reino; por otro lado deben actuar, curar enfermos, expulsar demonios, combatir contra el mal28. Se trata, por tanto, de reproducir la manera de actuar del propio Jesús, que no se limitaba sólo a hablar, sino que también actuaba en obras de compasión. Y es que anunciar el Reino de Dios nunca debería reducirse a un simple discurso piadoso y bien intencionado, como a menudo estamos tentados de hacer. Los primeros cristianos, que tenían fresca la invitación de su Maestro y contaban con la fuerza recientemente estrenada del Espíritu que les impulsaba a extender con
“Ni Jesús ni los demás seguidores los llamaron [a los Doce] nunca «apóstoles» […] «Discípulos» son todos los varones y mujeres que siguen a Jesús en su vida itinerante. Los «Doce» forman un grupo especial dentro del conjunto de discípulos. En cambio, «apóstoles» o «enviados» son un grupo concreto de misioneros cristianos (más de doce) que eran enviados por las comunidades cristianas a difundir la fe en Jesucristo”; Pagola J. A., o. c., p. 274, nota 19. 25 “Fue llamando a los que Él quiso y se reunieron con Él. Designó a Doce para que fueran a predicar con poder de expulsar demonios” (Mc 3, 13-15). “Mientras recorría las aldeas de alrededor enseñando, llamó a los Doce y los fue enviando de dos en dos […] Ellos se fueron a predicar que cambiaran de vida, echaban muchos demonios, ungían con aceite a muchos enfermos y los curaban” (Mc 6, 6-13). 26 Mc 16, 15. En términos similares se podrían citar Mt 28, 19-20 o Jn 20, 21. 27 Pagola J. A., o. c., p. 296. 28 Allí donde lleguéis, “curad a los enfermos que haya y decid: «Ya os llega el Reino de Dios»” (Lc 10, 8-9); cf. Mc 3, 13-15; Mc 6, 6-13. Cf. Pagola J. A., o. c., p. 473. 24
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entusiasmo el Evangelio29, aunque a veces supusiera hablar de cuestiones que sonaban a camelo30, comprendieron muy bien que la fe cristiana los convertía en apóstoles31, ante todo a su alrededor, compaginando su actividad apostólica con su vida cotidiana, pero también enviando muy lejos a distintos grupos de evangelizadores cuya ocupación prioritaria era proclamar la buena noticia del Reino de Dios, anunciada por aquel Jesús de Nazareth muerto en cruz y resucitado, “porque Dios estaba con Él”32. Y a fe que sus esfuerzos dieron un fruto abundante y fecundo. En este sentido, el apóstol por antonomasia de los primeros tiempos del cristianismo –y gran santo también, a qué glosarlo– sería san Pablo, urgido permanentemente por aquella convicción, tan propia de su carácter fogoso y exaltado: “¡Ay de mí si no anuncio el Evangelio!”33. San Pablo se declara, en repetidas ocasiones, “servidor de Cristo Jesús, apóstol por llamamiento divino, escogido para anunciar la buena noticia de Dios”34 y logra vivir una acabada síntesis en su persona de intimidad con Jesús, su Señor, y entusiasmo misionero, de mística y apostolado. El Beato Santiago Alberione, por ejemplo, fundador de las diez ramas de la familia paulina, admirador incondicional del Apóstol de los Gentiles, destaca cómo esta condición del apóstol San Pablo es, precisamente, la que más le animó a proponerlo como modelo y protector de su familia apostólica: “Se buscaba un santo que sobresaliera en santidad y que al mismo tiempo fuese ejemplo de apostolado. San Pablo fundió en sí mismo santidad y apostolado”35.
Lo primero que harán en cuanto reciban el Espíritu es lanzarse a las calles de Jerusalén para proclamar con entusiasmo su fe en el Resucitado, “y aquel día se les agregaron unos tres mil” (Hch 2, 41); cf. todo el capítulo segundo del libro de los Hechos de los Apóstoles. 30 “Mientras los judíos piden señales y los griegos buscan saber, nosotros predicamos un Mesías crucificado, para los judíos un escándalo, para los paganos una locura; en cambio para los llamados, lo mismo judíos que griegos, un Mesías que es portento de Dios y saber de Dios, porque la locura de Dios es más sabia que los hombres y la debilidad de Dios más potente que los hombres” (1Co 1, 23-24). 31 En este sentido, el libro de los Hechos de los Apóstoles, que vendría a ser la continuación del Evangelio según San Lucas y, al mismo tiempo, una descripción ?en clave catequética, es decir, pensada para la instrucción de la comunidad y de los candidatos a incorporarse a ella? de las evoluciones de las primeras comunidades cristianas, consiste, en gran medida, en la narración de los afanes apostólicos de aquellos primeros creyentes por llevar el Evangelio a todos los rincones de la tierra conocida, siguiendo para ello las indicaciones de su Maestro. 32 Hch 10, 38. 33 1 Co 9, 16. 34 Rm 1, 1. Del mismo modo podrían citarse los encabezamientos de varias de las epístolas neotestamentarias atribuidas a San Pablo ?aunque no es seguro que sea el autor de todas ellas?, que recogen con mayor o menor extensión, idéntico contenido: 1 Co 1, 1; 2 Co 1, 1; Ef 1, 1; Col 1, 1; 1 Tim 1, 1; 2 Tim 1, 1... Destacamos en particular, a este respecto, el comienzo de su Epístola a los Gálatas, en la que el apóstol desea subrayar con fuerza la actuación directa de Dios en el hecho de que él se dedique a la evangelización: “Pablo, apóstol no por nombramiento ni intervención humana, sino por intervención de Jesús, el Mesías, y de Dios Padre, que lo resucitó de la muerte” (Gal 1, 1). 35 Spiegazioni delle Costituzioni, 463. El beato Alberione creía encontrar este rasgo del apóstol de manera particularmente destacada en su Epístola a los Romanos. 29
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Los primeros cristianos comprendieron muy bien que anunciar el Evangelio, ser testigos activos de la fe que profesaban, “dar razón de su esperanza”36, constituía una dimensión imprescindible de su identidad cristiana. No podían de ninguna manera considerarse auténticamente cristianos si se limitaban a refugiarse tras las paredes de sus casas a vivir su fe de manera cómoda y discreta, y se olvidaban de proclamar a todos los vientos, de palabra y de obra, su fe y compromiso cristianos. Para ellos ser apóstol resultaba una condición sine qua non para considerarse auténticamente cristiano; habría que cuidar también otros aspectos, por supuesto, pero el trabajo misionero resultaba indispensable. Como conclusión de este apartado podríamos afirmar que, de acuerdo con los datos que encontramos en el Nuevo Testamento, el apostolado tiene una relación directa con la santidad ya que constituye una vía privilegiada para identificarse con Cristo, para actuar como Él actuó, para sentirse animado por sus mismos ideales y sus mismos sentimientos. Pero, además, el apostolado es una manera muy concreta, imprescindible, de ser fieles a lo que el propio Maestro propuso a sus seguidores. Ser apóstoles sería, en este sentido, no sólo un camino para alcanzar poco a poco mayores grados de santidad personal, sino también una preciosa ocasión para conseguir que la buena noticia del Evangelio llegue a otras personas, invitándolas a vibrar con esos mismos valores, posibilitando así que también ellas puedan progresar en el camino de la santidad37.
El inmenso inventario de apóstoles santos Resultaría un auténtico despropósito intentar reflejar en estas breves líneas el conjunto formidable de apóstoles entusiastas que han sido proclamados por la Iglesia ejemplos preclaros para el resto de los creyentes, al reconocer oficialmente su santidad. Su número es tan enorme, sus circunstancias tan variadas que, aun disponiendo de una cantidad mucho mayor de páginas, continuaría resultando para cualquiera un trabajo irrealizable. Esta importante anotación previa no nos exime del intento de proponer, al menos, algún apunte general que pueda servir de posible sugerencia de inspiración y profundización a quienes estén interesados en el asunto, Circunstancias históricas, hoy día en fase de superación, hacen que, hasta el momento, gran parte de los santos apostólicos oficiales sean religiosos y religiosas; muchos de ellos fundadores. La historia de la vida religiosa puede, en este sentido, servirnos para entender cómo se ha ido comprendiendo en el tiempo la relación entre santidad
Cf. 1 Pe 3, 15. “Porque Dios nos eligió [a todos] en la persona de Cristo para que fuéramos santos e irreprochables ante Él por el amor” (Ef 1, 4). 36 37
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y apostolado38; no olvidemos que el objetivo primordial de los religiosos, desde aquellos pioneros que, a partir de la segunda mitad del siglo III, lo abandonaban todo y se retiraban a la soledad, ha sido siempre alcanzar la santidad39. Pero hay que reconocer que los primeros padres del desierto y sus inmediatos sucesores en el monacato, tanto occidental como oriental, apenas dieron importancia al compromiso apostólico. Consideraban a los apóstoles del Evangelio como modelos a los que imitar dejándolo todo y siguiendo a Cristo a la soledad, sí, pero de ninguna manera se sentían atraídos por su faceta misionera. Es cierto que figuras monásticas tan influyentes como Basilio, sobre todo, o Benito, prestaron cierta atención a las obras de caridad para con el prójimo, pero se puede decir que, por lo general, los monjes no se sintieron expresamente llamados a la extensión activa del Evangelio. Los canónigos regulares, a partir del siglo X, comenzarían ya a incluir el ministerio como parte importante de su concepción de la vida religiosa40. Pero no sería hasta la llegada de los mendicantes, en el siglo XIII, cuando la predicación y la conversión de herejes se volverán algo fundamental para los religiosos. La santidad personal seguirá siendo importante, por supuesto, pero también la santidad de los demás. Así, las constituciones primitivas de los dominicos les prescribirán lo siguiente: “Compórtense en todas partes honesta y religiosamente, como quienes desean conseguir su propia salvación y la de los demás; y sigan, como varones evangélicos, las huellas del Salvador, hablando con Dios o de Dios en su propio interior o al prójimo”41. Santidad personal, por tanto, pero también santidad de los demás. A partir de este momento, la vida religiosa se vuelve más y más apostólica, alcanzando cumbres significativas con la fundación de los jesuitas o la explosión de institutos religiosos especializados en diferentes tareas apostólicas entre los siglos XVII y XIX, sobre todo. Muy conocidos son, a este respecto, por ejemplo, los pensamientos de San Vicente de Paul, fundador en el siglo XVII de las Hijas de la Caridad, a quienes proponía
Podríamos entenderla quizá como un reflejo de las diferentes sensibilidades por las que ha ido sucesivamente pasando la Iglesia en la concepción de su espiritualidad cotidiana. 39 Durante mucho tiempo, por desgracia, la “vía de los consejos evangélicos”, que era la que seguían los religiosos, ha sido considerada como mucho más fácil o apropiada para llegar a ser santos, porque añadía un plus de mérito a la “vía de los preceptos”, que era la obligatoria para todos los creyentes. Esta forma de concebir las cosas está hoy felizmente superada, por más que, de vez en cuando, alguien nos sorprenda todavía con planteamientos más o menos cercanos a ella. 40 San Agustín, inspirador de la regla más conocida de canónigos regulares, escribirá, a propósito de la escena de la Transfiguración: “Desciende, Pedro; tú, que deseabas descansar en el monte, desciende y predica la Palabra, insiste a tiempo y a destiempo, arguye y exhorta, increpa con toda longanimidad y doctrina. Trabaja, suda, padece algunos tormentos...”; citado en Vita Consecrata, 75; en adelante VC 75. Tanto en este artículo como en el 74 o el 82, esta exhortación apostólica de Juan Pablo II, dirigida a los religiosos, presenta espléndidos ejemplos de santos que han sabido unir su celo apostólico arrollador con un anhelo irrefrenable de santidad, armonizando de manera admirable su amor a Dios con su amor al prójimo. 41 Constituciones primitivas, distinción 2ª, capítulo 31. 38
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como programa de vida “entregarse a Dios para amar a Nuestro Señor y servirlo material y espiritualmente en la persona de los pobres, en sus casas o en otros sitios, para instruir a las jóvenes menesterosas, a los niños y, en general, a todos aquellos que os manda la divina Providencia”42. A este mismo santo le gustaba recordar que, cuando se está obligado a dejar la oración para atender a un pobre en necesidad, en realidad la plegaria no se interrumpe, porque “se deja a Dios por Dios”43, es decir que, si se hace en condiciones, el apostolado no tiene por qué romper la unión con Dios. San Juan Bautista de La Salle, por su parte, recomendaba a sus discípulos, dedicados a la educación cristiana de niños y jóvenes, lo que sigue: “No hagáis diferencia entre los deberes propios de vuestro estado y el negocio de vuestra salvación y perfección. Tened por cierto que nunca obraréis mejor vuestra salvación, ni adelantaréis tanto en la perfección, como cumpliendo bien los deberes de vuestro estado”44. “Vosotros, el día del juicio, responderéis de ellas [las almas de vuestros alumnos] tanto como de la vuestra propia. Y debéis convenceros de que Dios comenzará por pediros cuenta de sus almas antes de pediros cuenta de la vuestra; y tanto más cuanto que desde el momento en que os encargasteis de ellos os obligasteis a procurar su salvación con tanto esfuerzo como la vuestra”45.
Es decir que, según la espiritualidad lasaliana, el esfuerzo por llegar a ser personalmente santo se confunde con el interés activo por conseguir que los demás también lo sean. Aun los más grandes místicos conceden una importancia trascendental a las obras, porque no se debe separar nunca el amor a Dios del amor a los hombres. Es el caso, por ejemplo, de santa Teresa de Ávila, que, tratando sobre la contemplación, recomendaba a sus monjas: “Para esto es la oración, hijas mías; de esto sirve este matrimonio espiritual: de que nazcan siempre obras, obras. Esta es la verdadera muestra de ser cosa y merced hecha a Dios”46. Digamos, en conclusión, que, en su afán por alcanzar la santidad, los religiosos, a lo largo de su historia, han ido descubriendo cada vez más el apostolado generoso como medio ideal para alcanzar la propia santidad, imitando con ello el proceder de Jesucristo, “el Consagrado por excelencia y el Apóstol del Padre”47. Pero estando ardorosamente convencidos, al mismo tiempo, de que obrando así promovían igualmente la santidad de los beneficiarios de su trabajo apostólico.
Correspondance, Entretiens, Documents. Conférence «Sur l’esprit de la Compagnie» (9 de febrero de 1653), Coste IX, París, 1923, 592. 43 Correspondance, Entretiens, Documents. Conférence «Sur les Règles» (30 de mayo de 1647), Coste IX, París, 1923, 319. 44 Colección de varios trataditos, CT 16,1,4; cf. también Reglas personales, RP 3,0,3. 45 Meditaciones para los días de retiro, MTR 205,2,1. 46 Castillo interior, VII, capítulo 4, 6-7. 47 VC 9. 42
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El impulso del Concilio “Todos en la Iglesia, ya pertenezcan a la jerarquía, ya pertenezcan a la grey, son llamados a la santidad, según aquello del Apóstol: «Porque ésta es la voluntad de Dios, vuestra santificación»”48. He aquí, en efecto, una de las propuestas más conocidas e importantes del concilio Vaticano II, consecuencia inevitable de la nueva eclesiología que su Constitución dogmática sobre la Iglesia, Lumen gentium, propone a todos los creyentes. Según el Vaticano II, para alcanzar esta santidad a la que ahora se invita igualmente a todos, sin distinguir las responsabilidades concretas que ocupan en la Iglesia, no hay más que un camino: “[Los fieles] deberán esforzarse para entregarse totalmente a la gloria de Dios y al servicio del prójimo. Así la santidad del Pueblo de Dios producirá frutos abundantes, como brillantemente lo demuestra en la historia de la Iglesia la vida de tantos santos”49. La clave primordial por la que debe regirse toda actividad cristiana, si pretende cooperar a la santificación efectiva del creyente, también está muy clara en la doctrina conciliar: “Todos los fieles cristianos, en cualquier condición de vida, de oficio o de circunstancias, y precisamente por medio de todo eso, se podrán santificar de día en día, con tal de recibirlo todo con fe de la mano del Padre celestial, con tal de cooperar con la voluntad divina, manifestando a todos, incluso en el servicio temporal, la caridad con que Dios amó al mundo”50.
Fe y amor, por tanto, como pilares esenciales de santificación cristiana. En esta misma línea, de acuerdo con el Concilio, una de las características fundamentales que distingue a la Iglesia del Vaticano II es, precisamente, su carácter intensamente misionero, ya que sobre todos sus miembros “pesa la obligación de propagar la fe según su propia condición de vida”51. Si esto es así, los afanes apostólicos deben ser un camino espléndido para alcanzar las más altas cimas de la santidad; es lo que el Concilio asegura a los sacerdotes: “En vez de encontrar un obstáculo en sus preocupaciones apostólicas, peligros y contratiempos, sírvanse más bien de todo ello para elevarse a más alta santidad”52. Pero donde la doctrina del Concilio Vaticano II expone más explícitamente el tema del trabajo apostólico es en los decretos sobre el apostolado de los laicos y
Lumen Gentium, 39. En adelante, LG 39. La cita de San Pablo se puede consultar en 1 Tes 4, 3; Ef 1, 4. 49 LG 40. 50 LG 41. 51 LG 17. En realidad, todo este artículo está dedicado a explicar el carácter misionero de la Iglesia. 52 LG 41. El magisterio posconciliar insistirá más de una vez en ese mismo tema, tanto inmediatamente después del Concilio como más tarde: “[Al formar a los futuros sacerdotes,] no se fijen únicamente en el aspecto peligroso de su futuro apostolado, sino que han de ser formados para una vida espiritual que hay que robustecer al máximo por la misma acción pastoral” (Optatam totius, 9 [1965]). “Existe una relación íntima entre la vida espiritual del presbítero y el ejercicio del ministerio [...ya que] todos reciben el Espíritu como don y llamada a la santificación en el cumplimiento de la misión y a través de ella” (Pastores dabo vobis, 24 [1992]). 48
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la renovación de la vida religiosa, que desarrollan en detalle los planteamientos de base expuestos en la Lumen Gentium. Veamos con brevedad algunas de las ideas fundamentales de ambos documentos en relación con el asunto que nos ocupa. El decreto sobre el apostolado de los laicos, Apostolicam actuositatem, puede decirse que comienza estableciendo un principio fundamental: “La vocación cristiana, por su misma naturaleza, es también vocación al apostolado”53. El mismo párrafo se acoge luego a los argumentos de la eficacia filomercantil para declarar que “el miembro que no contribuye según su propia capacidad al aumento del cuerpo debe reputarse como inútil para la Iglesia y para sí mismo”54. A partir de ahí, la conclusión no puede ser más lógica: “Por consiguiente, se impone a todos los fieles cristianos la noble obligación de trabajar para que el mensaje divino de la salvación sea conocido y aceptado por todos los hombres de cualquier lugar de la tierra”55. “La misión de la Iglesia tiende a la santificación de los hombres, que hay que conseguir con la fe en Cristo y con su gracia”56. He aquí un nuevo principio misionero, del que el decreto conciliar extrae una distinción entre el apostolado del clero y el de los laicos. A los primeros se les encomienda de manera especial “el ministerio de la Palabra y de los Sacramentos”57, mientras que los laicos, a quienes “se les presentan innumerables ocasiones para el ejercicio del apostolado de la evangelización y de la santificación”58, deben dedicarse, sobre todo, “al testimonio de la vida cristiana y las obras buenas, realizadas con espíritu sobrenatural”59. Es de suponer que este consejo resulte también válido para diáconos, sacerdotes y obispos... De cualquier manera, el apostolado de clérigos y laicos es complementario: “Su acción [de los laicos] dentro de las comunidades de la Iglesia es tan necesaria que sin ella el mismo apostolado de los pastores muchas veces no puede conseguir plenamente su efecto”60. Aunque “el apostolado se ejerce en la fe, en la esperanza y en la caridad, que derrama el Espíritu Santo en los corazones de todos los miembros de la Iglesia”61, el amor cristiano es la fuente primordial de la que debe manar toda la actividad misionera de la Iglesia62. En cualquier caso, para el decreto conciliar, si “en la Iglesia hay variedad de ministerios”63, es evidente también que “la misión es única”64, una misión que “tiende a la santificación de los hombres, que hay que conseguir con la fe en Cristo y con su gracia”65. A ello se ordena, en definitiva, el apostolado de todos sus miembros66.
El decreto sobre la adecuada renovación de la vida religiosa, Perfectae caritatis, es más escueto en sus afirmaciones en torno al apostolado de los religiosos y su relación con la santidad, pero no menos explícito y rotundo. Porque, de hecho, su doctrina sobre las tareas apostólicas de los religiosos supone un cambio de orientación radical en la concepción de la vida religiosa que había primado en los siglos anteriores al Concilio. Y es que, en efecto, hasta la mitad del siglo XX, el criterio
AA 2. Ibídem. 55 AA 3. 56 AA 6. 57 Ibídem. 58 Ibídem. 59 Ibídem.
AA 10. AA 3. 62 Cf. AA 3 y AA 8. 63 AA 2. 64 Ibídem. 65 AA 6. 66 Cf. ibídem.
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fundamental de actuación para todos los religiosos había sido la llamada “teología de los dos fines”, que separaba en la vocación religiosa apostólica un objetivo general válido para todos los religiosos, que era alcanzar la santidad, de un objetivo particular, aplicable sobre todo a los dedicados al apostolado, que, en realidad, era considerado secundario y se resumía en el ejercicio de las obras de caridad propias del carisma de cada instituto. Esta manera de presentar la vida religiosa suponía que la vida monástica era el ideal de toda vida religiosa. Por tanto, cualquier detalle que escapase de alguna manera a los cauces monacales clásicos estropeaba, de hecho, el modelo y, como es lógico, debía ser contemplado con suspicacia. Era el caso, por ejemplo, de las actividades apostólicas, que obligaban al religioso a estar mucho tiempo fuera de la comunidad, en estrecho contacto con personas ajenas a ella –?en el mundo”–, y le dificultaban el cumplimiento estricto del reglamento comunitario en materia de oración, comidas, presencia en la comunidad, etc. En estas circunstancias, los religiosos apostólicos tenían abundantes razones para vivir su vocación de manera un tanto esquizofrénica: dedicando mucho tiempo a lo que en teoría era menos importante, mientras que para lo verdaderamente fundamental –lo que parecía llevar directamente a la santidad: la oración, el silencio, la penitencia, el retiro...– apenas si quedaba tiempo ni ganas, después de un trabajo apostólico intenso. A esta manera de ver las cosas el decreto conciliar opone una nueva doctrina auténticamente revolucionaria: “La acción apostólica y benéfica en tales Institutos [religiosos apostólicos] pertenece a la misma naturaleza de la vida religiosa”67. Dedicarse al apostolado no es ya ni un pegote ni un obstáculo para lograr el fin fundamental para el que los religiosos apostólicos han rubricado su consagración, sino una condición sine qua non para que dicho fin pueda ser alcanzado. Un religioso apostólico que no trabaje por extender el Evangelio está, por tanto, fallando gravemente a lo que tendría que ser su vida religiosa y, en consecuencia, no avanza como debiera por el camino que lo lleva a la santidad68. El trabajo misionero de los religiosos apostólicos es, pues, según el Concilio, esencial, y debe marcar decididamente el resto de los momentos de la vida del religioso, del mismo modo que los demás
Perfectae caritatis, 8. En adelante, PC 8. Especialmente interesante resulta, en este sentido, la intervención del Padre J. Van Kerckhoven, Superior General de los Misioneros del Sagrado Corazón, en las discusiones de la comisión conciliar que preparaba el alumbramiento definitivo del decreto PC. “La acción apostólica no es un accesorio, sino que pertenece a su misma naturaleza […,] a su esencia”, afirmaba el Padre Van Kerckhoven, refiriéndose a la vida religiosa apostólica, en palabras que luego pasarían al documento final. “La acción puede y debe ser, no sólo un medio de santificación ?el apostolado santifica al apóstol?, sino que, en estos institutos [de vida religiosa apostólica], se trata incluso de una forma de santidad”; citas tomadas de Villalabeitia J., “La Vida Religiosa apostólica, según el Concilio Vaticano II”, en Claretianum XLIX (2009) 461-462; en este mismo artículo se puede encontrar una referencia más extensa de la aportación del Padre Van Kerckhoven al decreto conciliar, así como abundante documentación al respecto. 67 68
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aspectos importantes de la identidad de éste tienen que reflejarse, de manera apropiada, en el desarrollo de sus tareas apostólicas: “Toda la vida religiosa de sus miembros [de estos institutos de vida religiosa apostólica] ha de estar imbuida de espíritu apostólico, y toda su actividad apostólica ha de estar, a su vez, informada de espíritu religioso”69. Después el Concilio y hasta nuestros días se han dado a conocer diferentes documentos magisteriales, de distinto rango, que, de una manera o de otra, con mayor o menor atención, han aludido al tema que nos ocupa. Sería materialmente imposible referirse a todos en nuestro reducido espacio. Nos centraremos, por ello, sólo en unos pocos que, a nuestro entender, más significativamente se han referido al problema de la evangelización y a su relación con la santidad. El más importante de los publicados durante el pontificado de Pablo VI quizás sea su exhortación apostólica Evangelii Nuntiandi que, como su propio nombre indica, está íntegramente dedicada a explicar distintos aspectos que tienen que ver con la evangelización eclesial; no en vano se trata de un documento que surgió como corolario papal al Sínodo Episcopal de 1974, que se reunió para tratar específicamente el tema de la evangelización. Entre las múltiples páginas de este escrito papal interesantes para nuestro propósito destaquemos la definición que hace de la irrenunciable naturaleza misionera de la Iglesia: “La tarea de la evangelización de todos los hombres constituye la misión esencial de la Iglesia […] Evangelizar constituye, en efecto, la dicha y vocación propia de la Iglesia, su identidad más profunda. Ella existe para evangelizar”70. Por si no estuviera suficientemente claro para los cristianos, llamados a ser siempre coherentes con este retrato tan exigente de ella misma que la Iglesia dibuja, Pablo VI propone una definición explícita de evangelización: “Evangelizar significa para la Iglesia llevar la Buena Nueva a todos los ambientes de la humanidad y, con su influjo, transformar desde dentro, renovar a la misma humanidad: «He aquí que hago nuevas todas las cosas»”71. Transformar desde dentro, renovar, hacer nuevas todas las cosas... ¿no son expresiones que sugieren la santidad como objetivo final de la misión evangelizadora de la Iglesia? Aunque no se trata sólo se hacer avanzar la santidad en los destinatarios de nuestro trabajo apostólico; también la santidad del apóstol ha de jugar un importante papel en todo el proceso evangelizador: “Es necesario que nuestro celo evangelizador brote de una verdadera santidad de vida”72. En el fondo se trataría de un proceso encadenado de compromisos apostólicos sucesivos, que no tendría por qué acabar nunca: “El que ha sido evangelizado evangeliza a su vez. He ahí la prueba de la verdad, la piedra de toque de la evangelización: es impensable que un
PC 8. En un artículo anterior, el decreto del Vaticano II había establecido un principio válido para todos los religiosos en el que se indicaba que “los miembros de cualquier Instituto, buscando sólo, y sobre todo, a Dios, deben unir la contemplación, por la que se unen a Él con la mente y con el corazón, al amor apostólico, con el que se han de esforzar por asociarse a la obra de la Redención y por extender el Reino de Dios” (PC 5). ¡Espléndido camino de santificación! 70 EN 14. 71 EN 18. La cita bíblica está tomada de Ap 21, 5; cf. 2 Co 5, 17; Gal 6, 15. 72 EN 76. 69
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Josean Villalabeitia hombre haya acogido la Palabra y se haya entregado al Reino sin convertirse en alguien que a su vez da testimonio y anuncia”73. Ser cristiano y ser apóstol viene así a ser lo mismo; aspirar a avanzar en santidad personal y tratar de comunicarla a los demás no son, en definitiva, sino dos sensibilidades distintas para observar la única realidad personal del cristiano.
Entre los numerosos documentos dados a la luz pública durante el pontificado de Juan Pablo II vamos a centrarnos en dos, especialmente interesantes para iluminar nuestro problema. El primero de ellos, dedicado a reflexionar sobre el papel de los laicos en la Iglesia, fue publicado en 1988. Nos referimos a la exhortación apostólica Christifideles laici, aparecida poco después de celebrarse un sínodo sobre ese mismo asunto. Además de clarificar otros muchos aspectos de la vida de los laicos, este documento papal ofrece una luz admirable en torno a la relación específica entre la santidad y el apostolado. Así, “la vocación a la santidad está ligada íntimamente a la misión”74, afirmará en uno de sus artículos, ya que “la santidad es un presupuesto fundamental y una condición insustituible para realizar la misión salvífica de la Iglesia”. Y es que “la santidad de la Iglesia es el secreto manantial y la medida infalible de su laboriosidad apostólica y de su ímpetu misionero”. Otra aportación interesante de esta exhortación papal, en relación con evangelización y santidad, es la íntima implicación que se establece en sus párrafos entre la misión de la Iglesia y la comunión que existe en su interior –comunión entre todos los miembros de la Iglesia, por supuesto, pero también entre ellos y Dios–: “La comunión y la misión están profundamente unidas entre sí, se compenetran y se implican mutuamente, hasta tal punto que la comunión representa a la vez la fuente y el fruto de la misión: la comunión es misionera y la misión es para la comunión”75. Es decir, que “la comunión genera comunión, y esencialmente se configura como comunión misionera”. Como no podía ser de otra forma, tanto la comunión como la misión eclesiales tienen el mismo origen divino: “Siempre es el único e idéntico Espíritu el que convoca y une a la Iglesia y el que la envía a predicar el Evangelio «hasta los confines de la tierra»”76. La misión de la Iglesia no es un añadido superficial del que se podría prescindir sin dificultad si las circunstancias así lo requirieran; muy al contrario, “la misión de la Iglesia deriva de su misma naturaleza, tal como Cristo la ha querido: la de ser signo e instrumento de unidad de todo el género humano. Tal misión tiene como finalidad dar a conocer a todos y llevarles a vivir la «nueva» comunión que en el Hijo de Dios hecho hombre ha entrado en la historia del mundo”77. La consecuencia práctica que
EN 24. Todas las citas literales de este párrafo están tomadas de Christifideles Laici, 17. En adelante, ChL 17. 75 Todas las citas literales de este párrafo están tomadas de ChL 32. 76 La cita bíblica está tomada de Hch 1, 8. 77 ChL 32. La exhortación papal está aquí evocando explícitamente la noción conciliar de Iglesia reflejada en LG 1, confirmada más tarde en EN 14. 73 74
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se extrae de esta concepción no ofrece dudas: “Los fieles laicos, precisamente por ser miembros de la Iglesia, tienen la vocación y misión de ser anunciadores del Evangelio”78. En el fondo se trata de que los laicos sean coherentes con su fe y no hagan en sus vidas compartimentos estancos que desvirtúen lo que tendría que ser una auténtica vida cristiana: “En su existencia no puede haber dos vidas paralelas: por una parte, la denominada vida «espiritual», con sus valores y exigencias; y por otra, la denominada vida «secular», es decir, la vida de familia, del trabajo, de las relaciones sociales, del compromiso político y de la cultura. El sarmiento arraigado en la vid, que es Cristo, da fruto en cada sector de su actividad y de su existencia. En efecto, todos los distintos campos de la vida laical entran en el designio de Dios, que los quiere como el «lugar histórico» del revelarse y realizarse de la caridad de Jesucristo para gloria del Padre y servicio a los hermanos”79. La Christifideles laici ha establecido explícitamente la santidad del apóstol como condición indispensable para la misión eclesial. Pero también implícitamente, al destacar la estrecha unión existente entre la misión apostólica de todos los cristianos y la comunión eclesial, uno de cuyos aspectos esenciales, origen y posibilidad de todo lo demás, es la comunión con Dios, por medio del Espíritu Santo. Y es que si aceptamos esta unidad comunión-misión, estamos aceptando, al mismo tiempo, la íntima relación que debe de existir también entre el trabajo por anunciar el Evangelio a todos los hombres y la santidad que el vínculo con el misterio confiere a cuanto con Él se relaciona. El segundo documento de Juan Pablo II que nos interesa es la encíclica Redemptoris missio, publicada a finales de 1990. De nuevo un texto papal dedicado a la misión de la Iglesia, en el que se van a confirmar, de manera más explícita aún si cabe, los contenidos subrayados en su exhortación sobre los laicos: “La vocación universal a la santidad está estrechamente unida a la vocación universal a la misión. Todo fiel está llamado a la santidad y a la misión”80. Dicho de otra manera, “la espiritualidad misionera de la Iglesia es un camino hacia la santidad”. La encíclica explica un poco estas afirmaciones, conectándolas directamente con lo que ya se había expuesto en Christifideles laici: “La llamada a la misión deriva de por sí de la llamada a la santidad. Cada misionero lo es auténticamente si se esfuerza en el camino de la santidad: «La santidad es un presupuesto fundamental y una condición insustituible para realizar la misión salvífica de la Iglesia»”81. Si se desea tener éxito en los trabajos apostólicos que las circunstancias actuales reclaman es preciso tener en cuenta la santidad de los apóstoles: “El renovado impulso hacia la misión exige
ChL 33. ChL 59. 80 Todas las citas literales de este párrafo están tomadas de RM 90. 81 El entrecomillado interior es una cita literal de ChL 17. 78 79
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misioneros santos. No basta renovar los métodos pastorales, ni organizar y coordinar mejor las fuerzas eclesiales, ni explorar con mayor agudeza los fundamentos bíblicos y teológicos de la fe: es necesario suscitar un nuevo «anhelo de santidad» entre los misioneros y en toda la comunidad cristiana, particularmente entre aquellos que son los colaboradores más íntimos de los misioneros”. La encíclica insistirá además en otros aspectos ya subrayados en anteriores documentos, como la íntima unión que debe existir entre la persona del apóstol y la persona de Cristo82 o la importancia de la caridad como motor del trabajo apostólico83. Teniendo en cuenta las rotundas afirmaciones que hemos destacado, tanto en lo que concierne a la persona concreta del apóstol como a la Iglesia en general, y el contenido conjunto ?mucho más amplio que nuestros breves comentarios? de estos últimos documentos de Juan Pablo II, creemos que no es exagerado concluir que en ellos está contenida la doctrina posconciliar más clara en torno a las relaciones que existen entre santidad y apostolado. Con todo, parece de justicia añadir que ambos documentos deberían interpretarse como una estación de llegada en la que desemboca toda la reflexión eclesial a propósito de estos asuntos, que comenzó con la Lumen gentium y la Apostolicam actuositatem; los textos de Juan Pablo II son, por tanto, tributarios innegables de esta reflexión progresiva previa. Pero el viaje continúa y, sin duda, nuevas estaciones quedan aún por descubrir.
Conclusión general con advertencia final Tanto si atendemos a lo que la Palabra de Dios nos indica en el Nuevo Testamento, como si nos fijamos en la tradición de la Iglesia o en lo que su magisterio actual señala como más genuinamente cristiano, la conclusión que sobre el tema que hemos tratado se deduce es sencilla pero importante: apostolado y santidad están muy íntimamente relacionados. Lo podemos explicar desde el punto de vista eclesial: la misión fundamental de la Iglesia consiste en evangelizar, es decir, en llevar el Evangelio y la nueva vida de Cristo por todas partes84, en hacer que las semillas del Verbo ya presentes en todas
82 “La actividad misionera exige una espiritualidad específica […] Esta espiritualidad se expresa, ante todo, viviendo con plena docilidad al Espíritu; ella compromete a dejarse plasmar interiormente por Él, para hacerse cada vez más semejante a Cristo. No se puede dar testimonio de Cristo sin reflejar su imagen, la cual se hace viva en nosotros por la gracia y obra del Espíritu” (RM 87). “Nota esencial de la espiritualidad misionera es la comunión íntima con Cristo: no se puede comprender y vivir la misión si no es con referencia a Cristo, en cuanto enviado a evangelizar” (RM 88). 83 Cf. RM 89. 84 “El empuje misionero ha sido siempre signo de vitalidad de nuestras iglesias” Benedicto XVI, “Las naciones caminarán en su luz” (Ap 21, 24)” (Mensaje para la Jornada Mundial de las Misiones de 2009 – DOMUND, 29 de junio de 2009), 5.
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las culturas85 se desarrollen y lleguen a plenitud cuanto antes, en acercar a todos los hombres a Dios para que Él pueda desplegar más fácilmente en ellos y entre ellos su acción salvadora86. Si esto es así, la comunión con Dios y con los demás miembros de la Iglesia, característica esencial de la Iglesia según la eclesiología posconciliar, ha de jugar un papel notable en el despliegue evangelizador. El magisterio posconciliar lo confirmará señalando, en efecto, que la comunión eclesial es fuente y fruto de la misión eclesial87. Con sus matices apropiados, tanto cuando hablamos de santidad como si nos interesamos por la evangelización, Dios y su gracia han de estar siempre de por medio; a este hecho no puede ser ajeno ningún miembro de la Iglesia, aunque no siempre sea demasiado consciente de él. Pues bien: si Dios es el imprescindible factor común que relaciona ambos universos, nada más lógico que descubrir entre ellos unos lazos de unión extremadamente sólidos. Porque, a fuer de coherentes, si nos referimos al apostolado cristiano, la santidad deberá estar presente en origen y también en destino, esto es, como condición indispensable de todo creyente cuando se lanza al apostolado y como objetivo más importante de sus labores misioneras. Si, por el contrario, en nuestro razonamiento partimos de la santidad, es evidente que, si es auténtica, ella misma originará en el santo un impulso irrefrenable a comunicar y extender sus preciosas experiencias, de manera que todo el mundo pueda disfrutar de ellas; el santo se habrá convertido así en el mejor de los apóstoles88. Cuando examinamos nuestro problema a partir del lado más propiamente personal de los creyentes, la conclusión a la que se llega es idéntica, como no podía ser de otra forma, aunque en el viaje se haya transitado por otros senderos. Porque si pretenden identificarse vitalmente con Jesucristo, con su mensaje, con su causa, los cristianos deberán necesariamente convertirse –entre otras cosas– en apóstoles entusiastas de su Evangelio. Para hacer caso de sus palabras y continuar su obra, por supuesto, pero también para seguir sus pasos y actuar como Él siempre actuó, según observamos con claridad meridiana en la actividad de la Primitiva Iglesia. El apostolado no es asunto de cuatro locos entusiastas, o un simple añadido a la vocación cristiana que puede suprimirse a voluntad; muy al contrario, la exigencia misionera está en el corazón de la fe y del compromiso creyente. Ser cristiano y ser apóstol es una misma cosa89, afirmará sin reservas la Iglesia contemporánea; y dirá aún más: que la santidad es una condición imprescindible de todo evangelizador90, que el entusiasmo misionero brota de la santidad personal, que el auténtico misionero, el Cf. particularmente Ad Gentes, 11 y 15. Cf. también ibídem, 9; 18; LG 16; Nostra aetate, 2. Es lo que hacen los discípulos de Jesús en el relato evangélico del ciego Bartimeo, cuando le dicen: “Ánimo, levántate, que te llama” (Mc 10, 49). 87 Cf. ChL 32. 88 Cf. RM 90. 89 Cf. AA 2. 90 Cf. ChL 17. 85 86
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único verdaderamente eficaz, es el santo91. De todo ello se derivarán algunas implicaciones importantes para quien quiera ser coherente con su vocación cristiana y, por tanto, apostólica: será para él imprescindible cultivar una intensa vida de unión con Cristo, fuerza y sostén de los apóstoles92; deberá sentirse enviado y dejarse guiar por el Espíritu93; animará siempre su acción misionera con un amor evangélico radical94; actuará en comunión con la Iglesia, enviado por ella, representándola95, etc. De cualquier manera, cuando se analizan estos temas nos parece que hay que andar con cuidado a la hora de fijar puntos de partida y sugerir claves de solución. Con demasiada frecuencia se encuentra uno, por ejemplo, con planteamientos dualistas del tipo exterior-interior, espiritual-material, acción-contemplación, oración-misión, santidad-apostolado... que separan de manera radical y artificiosa los dos términos que forman el binomio. Se descompone así la unidad esencial de la persona en partes fácilmente definibles y aislables, como si los hombres fueran complejas maquinarias compuestas por piezas individuales que se pueden recambiar o modificar a gusto del consumidor, sin necesidad de tocar el resto. Según este modelo, un hombre o una mujer serían el conjunto de muchas piezas independientes que funcionan de manera maravillosamente coordinada. De este modo, un creyente, por ejemplo, resultaría de la suma de su santidad, su interioridad, su comunión con los demás, su coherencia moral, su compromiso apostólico, etc. Parece evidente que, atendiendo a lo que nos dicen las ciencias humanas más recientes, plantear las cosas de esta manera es exponerse a graves peligros que pueden provocar un auténtico desastre personal en quien los haya de sufrir. Y es que la persona es, ante todo, una gran unidad, en la que cualquiera de sus distintos aspectos influye decisivamente sobre los demás; en su vida no deben establecerse dicotomías interiores demasiado evidentes y decisivas. La cosa se vuelve aún más grave si, además de despiezar sin reparo la experiencia personal humana y cristiana, se decide luego ordenar jerárquicamente los distintos componentes obtenidos, llegando a conclusiones que otorgan a uno de ellos la primacía o, al menos, prioridad sobre los demás. Aplicando esta concepción al caso de los creyentes, se podría llegar a pensar, por ejemplo, que, desde el punto de vista de la fe o de la gracia, ante Dios, de cara a cumplir su voluntad, la contemplación es superior a la acción, la oración es más eficaz que el trabajo misionero, o la santidad es mucho más importante que el apostolado96. Desde nuestro punto de vista, estos
Cf. RM 90. Cf. RM 88. 93 Cf. RM 87. 94 Cf. EN 79; RM 88. 95 Cf. EN 60 y 61. 96 Recordemos, a este respecto, el famoso libro del monje cisterciense Padre Chautard, El alma de todo apostolado, que ponía en la oración y la vida interior el acento principal de cualquier actividad misionera, restando sin querer (¿) protagonismo a otros aspectos que son igualmente trascendentales de cara a la acción apostólica. 91 92
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planteamientos dualistas –o que admiten, incluso, mayor número de componentes– no son de ningún modo aceptables, porque hace tiempo que están superados teóricamente y, sobre todo, porque, de hecho, llevan a conclusiones prácticas erróneas, que con frecuencia introducen a no pocas personas de buena voluntad por caminos de insatisfacción, fracaso, esquizofrenia espiritual y sufrimiento97. El creyente cristiano debe ser considerado como una persona, un todo único, sin dicotomías ni divisiones internas, recorrido obstinadamente por una dimensión de misterio que lo hace inaprensible en alto grado incluso para él mismo98; cuánto más para quien se le acerca desde fuera. Es cierto que para analizar la inmensidad de esa persona nos resulta muy útil y conveniente dividir su complicadísima realidad unitaria en partes más pequeñas y sencillas, más comprensibles y manejables, que nos permitan establecer relaciones y diferencias. Pero, en el fondo, esto no deja de ser un método práctico de trabajo que nunca deberíamos trasponer tal cual a la vida. A pesar de que, al estudiarla, podamos contemplar en ella distintos componentes entrelazados, la persona, en realidad, continúa formando un todo único, indivisible e inabarcable del todo, que, ciertamente, puede ser iluminado a partir de diferentes perspectivas, en el que pueden distinguirse distintas dimensiones o caras, sí, pero que, a pesar de las apariencias, continúan estando íntimamente unidas, compenetradas. Como cuando, para estudiar una sala, distinguimos en ella las dimensiones longitud, anchura y altura; nos viene bien hacerlo, desde luego, porque nos facilita en gran medida el análisis. Pero sería un error pensar que cada una de esas dimensiones existe separada de las demás, aislada, independiente; que existe por ella misma; que la sala es la mera suma o yuxtaposición de esas tres dimensiones, o que “sólo” es eso. Tampoco podemos suponer que porque el agua sea una síntesis química de hidrógeno y oxígeno, debe ser también un gas como ellos, en las mismas condiciones, o comportarse como ellos frente al fuego, por ejemplo; sería, como es obvio, un craso error. De la misma manera en el creyente, además de sus distintas componentes más propiamente antropológicas, se pueden distinguir su santidad, su interioridad, su apostolado, su fraternidad, su moralidad... y está bien hacerlo así, describirlas y hablar separadamente de una y de otra, y de su relación e influencia mutuas. Está bien... siempre que no olvidemos que, por más distinciones y aspectos que podamos esta-
97 La propia Iglesia, en su magisterio más reciente, hace repetidas llamadas a los creyentes para que cultiven una auténtica “unidad de vida” en sus personas. Esta llamada se vuelve especialmente insistente para los laicos ?ChL 17; 30; 34; 59? pero también va para sacerdotes ?Presbyterorum ordinis, 14? y religiosos ?VC 74; 81?. La unidad de vida también se tiene muy en cuenta cuando se dan orientaciones sobre la formación de religiosos ?PC 18; VC 67? o laicos ?ChL 60?. Cf. también el problema de la que podríamos denominar “dicotomía existencial”, desde el punto de vista de la separación fe-cultura, en GS 43; Ad Gentes, 21; EN 20. 98 “Todo hombre resulta para sí mismo un problema no resuelto, percibido con cierta oscuridad” (GS 21).
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blecer en ella, al final lo que en definitiva existe es una única persona viva, con una única experiencia vital global, animada por la gracia, que cree en Dios como buenamente puede e intenta ser coherente con esa fe en todas partes donde le toca vivir, relacionarse, manifestarse y actuar. Una persona única abierta por todos sus poros a la influencia de lo alto, que marcha por la vida intentando hacer realidad esa invitación de Jesús en el Evangelio: “Os he destinado a que os pongáis en camino y deis fruto, y un fruto que dure”99. Efectivamente: un fruto que pretende ser ya, aquí mismo, sal de la tierra y luz del mundo100 para todos; pero un fruto que lleva progresivamente a la santidad y acaba en vida eterna101, porque aspira a alcanzar un día la comunión completa con el Dios trascendente que lo llamó a la vida, a la fe y al compromiso.
Jn 15, 16. Cf. Mt 5, 14-15. 101 Cf. Rm 6, 22; Jn 4, 14. 99
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L’insegnamento della Geografia e la costruzione dell’identità nazionale nel libro per la Scuola elementare tra Otto e primo Novecento PATRIZIA SAVIO
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egli ultimi decenni la storiografia si è autorevolmente soffermata sul ruolo esercitato dalla scuola e dalle istituzioni educative, all’indomani del processo unitario, nella formazione del sentimento nazionale e nella promozione di una comune identità civile e politica tra le popolazioni della penisola.1 Su questo versante, un ruolo di primaria importanza è stato giustamente attribuito alla manua-
Al riguardo di vedano gli studi degli storici S. Lanaro, U. Levra, I. Porciani, S. Soldani, B. Tobia, F. Traniello, G. Turi e le ricerche degli specialisti di storia dell’educazione e della scuola A. Ascenzi, G. Chiosso, M. C. Morandini e R. Sani. Segnalo, a titolo puramente indicativo S. LANARO, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia 1870-1925, Venezia, Marsilio, 1980; U. LEVRA, Fare gli italiani. Memoria e celebrazione del Risorgimento, Torino, Comitato di Torino dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1992; I. PORCIANI, Manuali per la scuola e industria dello scolastico dopo il 1860, in G. TORTORELLI (a cura di), L’editoria italiana tra Otto e Novecento, Firenze, Ed. Analisi, 1986, pp. 59-65; S. SOLDANI, Il Risorgimento a scuola: incertezze dello Stato e lenta formazione di un pubblico di lettori, in E. DIRANI (a cura di), Alfredo Oriani e la cultura del suo tempo, Ravenna, Longo Editore, 1984, pp. 133-172; ID., G. TURI (a cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea. Vol I. La nascita dello Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1993; B. TOBIA, Una patria per gli italiani, Roma-Bari, Laterza & Figli Spa, 1991; A. ASCENZI, Metamorfosi della cittadinanza. Studi e ricerche su insegnamento della storia, educazione civile e identità nazionale in Italia tra Otto e Novecento, Macerata, eum edizioni Università di Macerata, 2009; ID., Tra educazione etico-civile e costruzione dell’identità nazionale. L’insegnamento della storia nelle scuole italiane dell’Ottocento, Milano, Vita e Pensiero, 2004; G. CHIOSSO, L’educazione nazionale da Giolitti al primo dopoguerra, Brescia, La Scuola, 1993; M. C. MORANDINI, Scuola e nazione. Maestri e istruzione popolare nella costruzione dello Stato unitario (1848-1861), Milano, Vita e Pensiero, 2003. 1
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listica scolastica ed ai libri di testo, considerati tra i principali veicoli dell’ideologia delle classi dirigenti e lo strumento di trasmissione dei modelli culturali ed eticocivili di matrice borghese. Nel novero della pubblicistica per la scuola e per l’educazione, quella dedicata a discipline quali la storia, la geografia, i diritti e doveri (ovvero l’antenata dell’educazione civica), la lingua e la letteratura nazionali riveste, indubbiamente, un significato particolare. Non a caso proprio a queste materie scolastiche la classe dirigente post-unitaria affidò, sebbene con un peso ed un valore differenti, l’ardua ed ambiziosa “missione” di «fare gli italiani».
1. Lo studio geografico elementare nei programmi scolastici del 1888, 1894 e 1905 In effetti, tra Otto e primo Novecento, l’esigenza di una scuola, in particolare quella elementare e popolare, ispirata a forti idealità nazionali, patriottiche e civili, capace di colmare o almeno di ridurre, la distanza tra il «paese reale» ed il «paese legale», ossia i ceti subalterni con i loro bisogni, le loro sofferenze e le élites dirigenti era largamente avvertita da numerosi pedagogisti e uomini politici dell’epoca.2 Dunque, in tale progetto educativo, fondato sull’obiettivo di accrescere il livello di consapevolezza civile del «popolo italiano» e la sua partecipazione alla vita associata, accanto ai fondamentali pilastri rappresentati dall’insegnamento della lingua italiana (la maggior parte del popolo parlava solo il dialetto), della storia nazionale e della formazione civica, anche la geografia fornì un apporto rilevante. Proprio nella seconda metà del XIX secolo, infatti, nelle aule scolastiche delle scuole primarie cominciarono a comparire le prime carte geografiche con lo scopo di far visualizzare concretamente l’idea di una patria – l’Italia – più estesa del piccolo villaggio, dove la stragrande maggioranza dei giovani discenti era destinato a trascorrere tutta la vita. Fu Aristide Gabelli, l’estensore dei programmi scolastici del 1888, ad introdurre per la prima volta nella scuola elementare la carta geografica, destinata da quel momento ad accompagnare gli studi geografici degli alunni italiani, i quali - e questa fu un’altra innovazione - erano invitati anche alla sua costruzione, partendo da una serie di operazioni che iniziavano dalla misurazione del banco per arrivare alla pianta della classe, della piazza, del quartiere o del paese. Quest’impostazione metodologica, che ha poi avuto grande successo nel corso della storia della didattica italiana, ispirandosi in generale al pensiero di autorevoli peda-
2 Per un approfondimento si vedano i contributi di G. CHIOSSO, Nazionalità ed educazione degli Italiani nel secondo Ottocento, in «Pedagogia e Vita», aprile-maggio 1987, pp. 421-440; ID., L’educazione nazionale da Giolitti al primo dopoguerra, cit., pp. 6-147.
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gogisti del passato come L. Vivès3, J. A. Comenio4 e J.-J. Rousseau5, sia più specificamente a competenti geografi del tempo come K. Ritter6, può essere sintetizzata in quattro punti fondamentali: in primo luogo l’adozione del «metodo oggettivo» o «intuitivo», «razionale», da alcuni definito anche «insegnamento per immagini». Queste costituivano per l’alunno una fonte di conoscenza e di veicolo di apprendimento molto tempo prima della scolarizzazione: il bambino infatti acquisiva, fin dalla più tenera età, familiarità con le immagini attraverso cui riconosceva e nominava gli oggetti dell’ambiente circostante.7 La seconda novità metodologica fu l’adozione del «metodo naturale» o «topografico»: la lezione doveva procedere dal semplice al complesso, cioè partendo dalla costruzione della piantina dell’aula, estendersi successivamente ai luoghi più vicini e poi sempre più ad ampia cerchia, tanto che tale procedimento fu da alcuni definito «ciclico». In terzo luogo, appariva prioritario lo studio della geografia locale, ossia la conoscenza del proprio paese come forma propedeutica a conoscenze più ampie. Infine, quarto ed ultimo punto, erano rilevanti pure la lettura ed il disegno delle carte.8 Pertanto, mentre gli ordinamenti scolastici precedenti erano stati molto più generi-
3 Cfr. L. VIVÈS, De Las Disciplinas, in Obras completas de L. Vivès, Tomo II, Madrid, Aguilar, 1947, in particolare la p. 615. 4 Cfr. G. A. COMENIUS, Didactica magna. Traduzione italiana di V. Gualtieri, Milano, R. Sandron, (s. d.), in particolare la p. 334. 5 Cfr. J.-J. ROUSSEAU, Emilio e dell’educazione. Traduzione italiana di D. McArthur Rebucci, Brescia, La Scuola, 1941, in particolare le pp. 216-218 e 133-134. 6 K. Ritter (1779-1859) insegnò dal 1820 all’Università di Berlino; fu sempre particolarmente interessato allo studio ed all’esplorazione dell’Africa. Si interessò in modo prevalente della relazione tra la superficie terrestre e l’uomo, mettendo soprattutto in evidenza i fattori sociali e storici rispetto all’ambiente geografico, per cui fu considerato il maggior esponente dell’epoca dell’indirizzo storico della geografia. Su K. Ritter cfr. R. ALMAGIÁ, Introduzione allo studio della geografia, Milano, Marzorati, 1947. 7 Per un approfondimento si veda A. GABELLI, Istruzioni generali ai Programmi per le scuole elementari del Regno, approvati con R. D. 25 settembre 1888, n. 5724, in «Bollettino ufficiale Ministero dell’Istruzione Pubblica», Vol. XIV, settembre 1888, in particolare la p. 497 8 L’introduzione della cartografia ed in particolare del disegno topografico e di quello geografico nelle scuole elementari suscitò, in quegli anni, un ampio dibattito. In molte riviste specializzate nello studio geografico e/o pedagogiche del tempo sono riportati numerosi interventi di geografi, pedagogisti e uomini della scuola a favore oppure contro le innovazioni introdotte dal Gabelli. Al riguardo si vedano M. MIRAGLIA, L’insegnamento della geografia, in «L’Osservatore scolastico», a. XXIV, n. 40, 20 luglio 1889, pp. 627-628; G. ROGGERO, Dell’utilità del disegno topografico nelle scuole elementari e del disegno geografico nelle scuole secondarie, in «La geografia per tutti», a. II, n. 2, 31 gennaio 1892, pp. 26-29; F. VIEZZOLI, A proposito del disegno geografico nelle scuole, in ivi, a. II, n. 5, 16 marzo 1892, p. 75; A. ZACCARIA, L’insegnamento della geografia, in «L’Istitutore», a. XL, n. 9, 28 novembre 1891, pp. 134-135; L’insegnamento della geografia e della storia nelle classi elementari inferiori, in «L’Osservatore scolastico», a. XXVIII, n. 42, 5 agosto 1893, p. 676; ivi, a. XXVIII, n. 44, 5 settembre 1893, pp. 691-694.
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ci9, grazie al Gabelli la geografia fu notevolmente valorizzata, acquisendo una sua specifica autonomia e fu dotata di strumenti, metodi e di materiale didattico propri.10 Il significativo cambiamento operato con questi programmi nell’insegnamento della geografia rifletteva un fermento culturale iniziato circa quindici anni prima: soltanto nella seconda metà dell’Ottocento con l’introduzione degli atlanti e delle carte tedesche nelle scuole italiane, soprattutto quelle secondarie11, si riconobbe l’importanza e l’utilità pratica degli studi geografici e si concentrò l’attenzione sulle istituzioni scolastiche di quelle nazioni europee che si sapevano più avanzate nello studio della geografia. Così, anche in Italia si cominciò a discorrere di «metodo oggettivo», di sistema topografico, di studio del luogo natio (l’Heimatkunde dei tedeschi) e di sussidi didattici (cosmografi, lunari, planetari, tavole figurate, globi etc.) da affiancare all’insegnamento orale della disciplina. Ad aiutare la diffusione di questi oggetti contribuirono la fondazione nel 1885 a Roma del Museo d’Istruzione, per opera del ministro Borghi e le esposizioni didat-
9 Nel Regolamento del 15 settembre 1860 per le scuole elementari lo studio della geografia, previsto dalla terza classe, non aveva una sua collocazione autonoma, ma era compreso nel sommario “programma di lettura” accanto a “i doveri dell’uomo e del cittadino” ed “i fatti più notevoli della Storia nazionale”. In esso compariva soltanto un elenco delle nozioni geografiche che lo scolaro avrebbe dovuto apprendere a memoria, ma non vi era alcun riferimento al metodo scolastico da utilizzare per insegnarle; si prescriveva solo al maestro di spiegare tale terminologia “con opportune e semplici dichiarazioni”. Pure nelle Istruzioni dei programmi del 1867 i pochissimi riferimenti allo studio di questa disciplina si ritrovano di nuovo solamente sotto la dicitura “libri di lettura”, in cui si consigliava “di dare colla scorta del libro di lettura e di carte geografiche murali, un insegnamento facile e piano di geografia”. Non vi era, quindi, nessun cenno di metodo, salvo quelle generiche parole “facile e piano”. Cfr. Istruzioni ai Maestri delle Scuole Primarie sul modo di svolgere i Programmi approvati. Decreto 15 settembre 1860, tratto da E. CATARSI, Storia dei programmi della scuola elementare (1860-1985), Firenze, La Nuova Italia, 1990, in particolare la p. 195; per la visione dei Programmi per la scuola elementare annessi al Regolamento 15 settembre 1860 e le Istruzioni e Programmi per l’insegnamento della lingua italiana e dell’aritmetica nelle scuole elementari (R. D. 10 ottobre 1867) si veda ivi, in particolare le pp. 187-188 e 201. 10 Dopo l’emanazione degli ordinamenti scolastici del Gabelli si cominciò a riflettere sempre più approfonditamente sulla necessità e sulla qualità del materiale didattico da affiancare alla lezione geografica. Cfr. A. L. ANDREINI, Sul materiale scolastico per l’insegnamento della geografia e più specialmente sui plastici topografici, in «Rivista geografica italiana», a. V, fasc. IX, novembre 1898, pp. 465480; P. SENSINI, Ancora sul materiale scolastico per l’insegnamento della geografia e più specialmente sui Plastici topografici, in ivi, a. VI, fasc. I, gennaio 1899, pp. 19-31; Geoselenegrafo di Domenico Locchi, in «L’Istitutore», a. XL, n. 2, 10 ottobre 1891, pp. 30-31; Insufficienza di materiale didattico, in «La geografia per tutti», a. III, n. 3, 15 febbraio 1893, p. 44. 11 Sull’influenza che la geografia tedesca ebbe nel XIX secolo nel pensiero geografico europeo ed italiano in particolare, e sul dominio quasi esclusivo degli editori tedeschi nel mercato editoriale, soprattutto nella produzione di materiale scolastico, si veda il contributo di E. CIMA, Mappa et imago mundi. Gli atlanti in Italia tra Otto e Novecento, in G. CHIOSSO (a cura di), Teseo ‘900: editori scolasticoeducativi del Primo Novecento, Milano, Editrice Bibliografica, 2008, in particolare le pp. CXIIICXVII.
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tiche nazionali che si svolsero insieme ai congressi pedagogici. In più, la partecipazione degli scienziati e dei pedagogisti italiani alle vivaci discussioni avvenute nei congressi geografici internazionali concorsero, almeno in parte, a promuovere la consapevolezza del ritardo e dell’inferiorità degli studi geografici italiani rispetto alle maggiori capitali europee (Germania, Belgio, Svizzera, Inghilterra e Francia). Da qui, la necessità di promuovere una riforma dei principi e degli ordinamenti didattici fin dalle sue prime basi.12 Qualche anticipazione del rinnovamento nell’insegnamento geografico si era avuta già prima del 1888, con l’emanazione da parte del Ministero di alcune disposizioni come la circolare del 1881 nella quale, seppur ancora implicitamente, il Provveditore agli Studi della provincia di Roma suggeriva l’adozione nelle scuole del «metodo intuitivo», a cui dovevano servire le carte ed il disegno di esse da parte degli alunni, e lo studio della geografia locale, che doveva iniziare con la conoscenza del paese in cui era collocata l’istituzione scolastica.13 Più esplicita fu, qualche tempo dopo, la circolare del 10 luglio 1883 destinata ai sindaci ed alle autorità scolastiche governative, nella quale si raccomandava l’impiego del «metodo oggettivo» ed «intuitivo»14; mentre quella del 10 giugno 1888 (e dunque poco avanti l’emanazione dei programmi) individuò il materiale didattico per l’insegnamento geografico: carte murali, fra cui la pianta della città e la carta della provincia, tavole illustrative, carte dei segni e della nomenclatura geografica, rilievi ideali, apparati per le dimostrazioni cosmografiche. Inoltre, si riteneva necessario che lo scolaro fosse fornito anche di un atlantino, sul quale potesse preparare la sua lezione e “per evitare che lo studio della geografia si riduca ad un lavoro puramente mnemonico”.15 Nella circo-
Per una descrizione sul dibattito che si verificò nello scorcio del decennio 1860/1870 circa, e sui congressi geografici internazionali avvenuti in quegli anni si veda F. PORENA, Dell’insegnamento geografico nelle scuole primarie, in «La geografia per tutti», a. II, n. 20, 31 ottobre 1892, in particolare le pp. 314-315. Sul congresso internazionale svoltosi ad Anversa si veda il programma ed il relativo commento pubblicato dal Moniteur ufficiale del Belgio su «L’Istitutore», a. XIX, n. 29, 22 luglio 1871, pp. 450-451 ed ivi, a. XIX, n. 30, 29 luglio 1871, pp. 467-469. 13 La circolare emanata nel 1881 dal Regio Provveditore degli Studi di Roma è riportata da F. Porena in Dell’insegnamento geografico nelle scuole primarie, cit., alla p. 315. 14 Nella circolare del 10 luglio 1883 si riconobbe l’importanza di formare i futuri maestri con lo stesso metodo che poi avrebbero dovuto adottare una volta intrapresa l’attività lavorativa: a tal proposito era scritto che “è desiderabile che l’insegnamento della geografia proceda nelle scuole normali collo stesso metodo che è raccomandato nelle scuole elementari, cioè dal particolare al generale”. Le parti citate si ritrovano nelle Istruzioni e Programmi per le scuole normali emanate dal ministro Baccelli. Cfr. Programmi per le scuole normali approvati con decreto ministeriale 1 novembre 1883, in «Bollettino ufficiale del Ministero dell’Istruzione Pubblica», a. XI, Vol. IX, novembre 1883, in particolare nella sezione Geografia alla p. 954. 15 Cfr. Materiale didattico scientifico per le scuole normali, in «Bollettino ufficiale del Ministero dell’Istruzione Pubblica», a. XIV, giugno 1888, p. 401. L’elenco del materiale didattico da adottare nelle scuole elementari è in ivi, in particolare alla p. 404. 12
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lare poi, rispetto alle scuole primarie si avvertiva anche che “gli esercizi cartografici […] è preferibile che siano diretti […] a far riempire e rendere parlanti dall’alunno le carte mute già rappresentanti il disegno grafico della regione”.16 Con l’emanazione dei Programmi del 1888 furono specificati i contenuti ed il metodo da utilizzare per ciascuna classe del corso elementare: si legge che “prescindendo da qualche nozione sui punti cardinali e sulla forma della terra, che il maestro può dare in via di discorso e a spiegazione del libro di lettura anche nelle prime due classi, l’insegnamento della geografia non comincia che nella terza”.17 In questa classe lo studio della materia iniziava con esercizi di orientamento nello spazio più prossimo all’alunno, in altre parole dall’aula e dal cortile della scuola, giungendo progressivamente alla descrizione del paese natio, al mandamento (uno o più comuni con le relative frazioni), al circondario (insieme di un numero considerevole di comuni) ed alla provincia (uno o più circondari), con l’obiettivo di “condur l’alunno per via di esercizi pratici a comprendere che cosa sia una carta geografica e a farne uso”.18 Gli ordinamenti scolastici, oltre agli esercizi cartografici prevedevano per la terza classe anche lo studio “dell’idea generale dell’Italia e delle regioni in cui si divide”19, rinviando alla classe successiva lo studio più approfondito della nazione italiana. Poiché con la terza terminava l’obbligo scolastico il legislatore intendeva fornire al futuro cittadino italiano la conoscenza almeno elementare del territorio in cui viveva e che aveva il dovere di amare, rispettare e servire. Nell’ultimo anno del corso superiore elementare, invece, era previsto l’insegnamento dell’Europa e della geografia astronomica. Ciò che colpisce è la grande attenzione posta alla conoscenza delle regioni d’Italia e delle singole province, completata dallo studio dell’Europa, contrapposta alla totale mancanza di uno studio degli altri continenti che, però, come vedremo più avanti, erano in realtà trattati nei libri di testo pubblicati in quegli anni. Ad uno sguardo complessivo si può affermare che, nonostante molte novità, essi erano in sostanza ad impianto ancora regionale ed eurocentrico. Ciò non sorprende più di tanto, se si tiene conto del fatto che quando furono varati i programmi l’unità d’Italia era avvenuta da appena una quindicina di anni circa ed il senso di appartenenza alla nazione non era ancora avvertito dalla maggior parte dei cittadini italiani, che si sentivano ancora legati alla propria regione, quindi, più «piemontesi», «liguri», «napoletani» etc. che non «italiani» e ancor meno «europei». Ancor più gli «italiani» alla prova dei fatti erano soprattutto radicati al loro piccolo paese, in cui trascorrevano tutta la loro esistenza senza mai abbandonarlo, a patto che non si creassero delle condizioni particolari che richiedevano di dover viaggiare e/o spostarsi
Ivi, pp. 401-402. A. GABELLI, Istruzioni speciali ai Programmi per le scuole elementari del Regno, cit., p. 503. 18 Ibidem. 19 A. GABELLI, Programmi per le scuole elementari del Regno, cit., p. 508. 16 17
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nel territorio italiano; occasione che per i giovani poteva presentarsi, il più delle volte, solo durante il servizio militare. Da qui, probabilmente scaturì l’esigenza di favorire, nelle nuove leve, una conoscenza approfondita delle bellezze e delle particolarità proprie di ciascuna realtà regionale, senza inoltrarsi nelle altre parti del globo di cui si aveva un’idea del tutto fantasiosa. Tutto ciò, sebbene i molti cambiamenti politici, le nuove comunicazioni createsi fra popolo e popolo ed i viaggi di conquista e di esplorazione ormai in atto in quegli anni evidenziassero un’apertura verso le altre parti del mondo, soprattutto l’Africa e le Americhe. Non sorprende, perciò, che pochi anni dopo con l’emanazione di nuovi programmi (1894) l’estensore Guido Baccelli avesse sentito l’esigenza di introdurre nel quarto anno del corso elementare superiore, oltre all’apprendimento delle “nozioni generali sugli Stati d’Europa” anche l’insegnamento “della descrizione sommaria delle parti in cui viene divisa la terra”.20 Si riconobbe, pertanto, l’importanza di introdurre ufficialmente fin dalla scuola elementare lo studio dei continenti, al fine di favorire nell’allievo una visione completa e globale del pianeta. Per il resto, per quanto concerne nello specifico lo studio della geografia, gli ordinamenti del 1894 si limitarono complessivamente a confermare quanto previsto dai programmi precedenti, salvo poche marginali correzioni. Infatti, sebbene Baccelli scrivesse che le nozioni geografiche furono “liberate dal fardello delle teorie scientifiche che per la tenera età [dei discenti] sono vuote astruserie”21, in realtà furono totalmente confermate le Istruzioni speciali annesse agli ordinamenti didattici del 1888, perché “dall’esperienza furono dimostrate buone per l’insegnamento elementare della geografia”.22 Unico fattore di variazione fu l’accorpamento, nato soprattutto da esigenze civico-patriottiche, della «Geografia» a quello dei «Diritti e doveri del cittadino» e della «Storia d’Italia» “per indicare, anche in maniera visibile, che i tre insegnamenti debbono in bella armonia concorrere allo scopo di far conoscere ed amare la patria, di svegliare la coscienza e scaldare il sentimento dell’italianità”.23 Dunque, se in questi ordinamenti l’educazione civile e, quindi, nazionale delle nuove generazioni era giudicata più importante e superiore all’acquisizione delle semplici nozioni e conoscenze derivanti dall’apporto delle singole materie, in quelli del 1905 tutto ciò era ancora più palese. In effetti, solo nei programmi di inizio Novecento, si ritrovano alcuni riferimenti alla politica colonialista ripresa dal governo italiano, dopo la temporanea interruzione avvenuta in seguito alla disfatta di Adua (1896), per dare alla nazione le colonie che le mancavano e conquistare un
20 G. BACCELLI, Istruzioni speciali ai Programmi per le scuole elementari del Regno, approvati con R. D. 29 novembre 1894, circolare n. 152, in «Bollettino ufficiale Ministero dell’Istruzione Pubblica», a. XXI, Vol. II, n. 48, 29 novembre 1894, p. 1905. 21 Ibidem. 22 Ibidem. 23 Ibidem.
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ruolo internazionale di «grande potenza». Per la prima volta, quindi, si aveva cura di dedicare una parte della lezione geografica anche alla conoscenza delle colonie che “la vecchia Europa vanta nel mondo, e particolarmente le italiane”.24 Nel documento, con tono patriottico e nazionalista, si ricordava anche all’insegnante elementare di non dimenticare di ribadire che ogni cittadino italiano, ovunque egli vivesse, aveva il dovere “di tenere sempre alto l’onore e il prestigio della Patria”.25 Il sentimento di “amor patrio” e l’orgoglio di appartenenza alla nazione italiana doveva essere un obiettivo da perseguire fin dalla terza classe, che seguitava ad essere il primo anno nel quale si iniziava lo studio geografico. Francesco Orestano, pur precisando che non si doveva insegnare la geografia dell’Italia in modo approfondito che doveva, invece, esser studiata in quinta, giudicava, tuttavia, opportuno che “il fanciullo apprenda a conoscere da una carta elementare la conformazione generale della penisola e delle isole principali e la posizione delle principali città”.26 Inoltre, si sottolineava anche di non dimenticare mai d’indicare sulla carta, anche approssimativamente, “i luoghi dove si svolsero i fatti del Risorgimento nazionale”27, al fine di favorire un collegamento con la storia ed educare il sentimento nazionale e civile dei giovani discenti. La scuola elementare, però, aveva pure il dovere di ampliare la visione spaziale degli alunni attraverso la conoscenza del mondo intero. Infatti, se negli ordinamenti passati (1888, 1894) lo studio della geografia si era concentrato soprattutto sulla realtà locale, regionale e nazionale con lo scopo di formare nei giovani allievi una “coscienza nazionale collettiva” che stentava ancora a formarsi, ora lo “sguardo” doveva esser rivolto anche oltre i confini nazionali. Nel corso elementare ed in quello popolare, difatti, ricorreva praticamente in tutte le classi (ad eccezione della terza) lo studio dei continenti, da ampliare ed approfondire nel corso degli anni.28 Per quanto riguardava nello specifico lo studio dell’Europa, il programma della quinta classe ne prevedeva una conoscenza soltanto generica ed abbastanza approssimativa29;
Istruzioni intorno ai programmi delle scuole elementari, approvati con R. D. 29 gennaio 1905, n. 43, in Supplemento al n. 9 del «Bollettino ufficiale del Ministero dell’Istruzione Pubblica», a. XXXII, Vol. I, 2 marzo 1905, p. 531. 25 Ibidem. 26 Ibidem. 27 Ivi, p. 517. 28 In quarta, ad esempio, era prevista “la conoscenza della carta elementarissima delle diverse parti del mondo, con opportuni esercizi di nomenclatura geografica”; anche in quinta l’insegnamento della “geografia generale ed economica d’Europa e del bacino del Mediterraneo” e quello “dell’Italia in particolare”, doveva avvenire “tenendo sempre presente la carta elementare delle diverse parti del mondo”. Cfr. Programmi per le scuole elementari, cit., pp. 469-470. 29 Nei programmi si dichiarava che del vecchio continente “basterà fare la descrizione complessiva, venendo poi alla determinazione geografica dei singoli Stati, con indicazioni sommarie della loro popolazione e delle più importanti città”. Cfr. Istruzioni intorno ai programmi delle scuole elementari, cit., p. 530. 24
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tuttavia era valutato “opportuno” anche “lo speciale riferimento alla geografia economica”, perché ciò consentiva di far riflettere gli alunni sui “molteplici nessi del commercio di esportazione ed importazione”30 che l’Italia aveva avviato con le altre nazioni europee e non. Inoltre, era pure giudicato “conveniente, per evidenti ragioni storiche e commerciali”31, associare allo studio della geografia generale ed economica d’Europa a quello del bacino del Mediterraneo, “[…] per quella tradizionale preponderanza e corrispondenza di commerci che l’Italia ha avuto in quello che i Romani orgogliosamente chiamavano: mare nostrum”.32 Nonostante le numerose critiche (la principale fu quella di essere eccessivamente nozionistici ed enciclopedici e, pertanto, poco adatti all’età infantile)33, i programmi del 1905 ebbero anche qualche apprezzamento. La rivista cattolica «Scuola Italiana Moderna»34, soltanto per fare un esempio, individuava nel «metodo delle narrazioni di viaggio» la parte più interessante per quanto concerneva la geografia. Questo procedimento, di indubbia derivazione herbartiana35, aveva l’obiettivo di rendere più piacevole ed avvincente lo studio dell’Italia, dell’Europa e delle altre parti della terra. Le Istruzioni specificavano che il racconto di un viaggio doveva sempre essere accompagnato dall’utilizzo della carta geografica, “con la segnatura speciale dei luoghi visitati”36, perché “la narrazione di un viaggio, seguita sulla carta” era giudi-
Ibidem. Ibidem. 32 Ibidem. 33 Cfr. G. GRAZIADEI, I programmi delle scuole elementari, in «L’Unione dei maestri elementari d’Italia», a. XXXVIII, n. 11, 20 dicembre 1906, pp. 83-84; P. SENSINI, La parte geografica dei nuovi programmi per le scuole elementari, in «L’opinione geografica», a. I, n. 3, marzo 1905, pp. 33-36. 34 La «Scuola Italiana Moderna» è il più antico periodico per i maestri: nata nel 1893 e tutt’ora pubblicata, affonda le sue radici negli ambienti del cattolicesimo organizzato di fine Ottocento per iniziativa di G. Tovini (1841-1897). Il periodico fu arricchito negli anni’30 anche da una rivista pedagogica pubblicata come «Supplemento pedagogico». Per una conoscenza più precisa del periodico si rimanda a G. CHIOSSO (a cura di), La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), Brescia, La Scuola, 1997, in particolare le pp. 622-627. 35 Nel redigere le Istruzioni speciali annesse ai programmi scolastici riguardanti “le nozioni di geografia” è noto che F. Orestano si ispirò alla didattica herbartiana. Herbart, infatti, a proposito dell’insegnamento geografico aveva proposto l’adozione del principio della conoscenza dal più vicino al più lontano e l’utilizzo della narrazione di viaggi: in riferimento all’insegnamento geografico aveva suggerito che “l’insegnante deve saper descrivere come chi abbia fatto un viaggio […]. Il luogo dove si trovano attualmente il maestro e scolaro, è il punto da cui si deve procedere”. Inoltre, secondo Herbart “la geografia è una scienza di associazione e deve valersi di ogni occasione per determinare l’unione tra conoscenze di vario genere. […] Senza la geografia tutto viene a mancare di stabilità. Agli avvenimenti storici mancano le posizioni e le distanze; ai prodotti naturali i luoghi d’origine; all’astronomia popolare (che preserva da tante superstizioni) manca ogni nesso […]. Cfr. G. F. HERBART, Compendio di lezioni di pedagogia, in B. BELLERATE (a cura di), I classici, Roma, A. Armando, 1971, p. 282; ID., Disegno di lezioni di pedagogia 1835-1841, traduzione e note a cura di G. Marpillero, Milano, R. Sandron, (s.d.), pp. 182-185. 36 Istruzioni intorno ai programmi delle scuole elementari, cit., p. 518. 30 31
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cata “[…] appropriata più di qualsiasi altro mezzo, per avviare lo interesse dell’alunno ed arricchire la sua mente di utili cognizioni”.37 Il maestro, quindi, doveva coltivare negli scolari il gusto della lettura di racconti di viaggi: si consigliava l’adozione di alcuni romanzi, per molto tempo letti dalle scolaresche, come Le avventure di Telemaco di J.-J. Rousseau e quelle di Robinson Crusoè. Era ritenuto anche “utilissimo” che nel libro fossero intercalate riproduzioni d’immagini, “purché veritiere, di luoghi, scene, tipi di razze, costumi, ecc.”.38
2. Il sentimento nazionale, l’idea del cittadino e lo studio della geografia I significativi cambiamenti di «metodo» introdotti da Gabelli, e mantenuti sostanzialmente anche nei programmi successivi (1894, 1905), nell’insegnamento elementare della geografia sollecitarono nuovi manuali scolastici o, per lo meno, la modificazione di quelli già in uso. Sulla base dell’indagine condotta39 nella produzione di quegli anni sono stati individuati sostanzialmente tre filoni. Il primo è rappresentato da quei geografi, particolarmente sensibili alle problematiche dell’insegnamento, che compilarono testi specificatamente destinati anche agli alunni delle scuole elementari. Tra questi è possibile operare una ulteriore differenziazione: gli studiosi, che potremmo chiamare «geografi descrittivi» ed «informativi» e quelli a «sguardo globale». I primi si impegnarono a far “conoscere” la geografia con un taglio tecnico, descrittivo, un po’ nozionistico, finalizzato a dare sistematicità alle conoscenze e ad interpretarle. Tutto ciò con l’obiettivo di formare, in primo luogo, un “bambino-geografo”, capace di osservare e dare significato agli elementi naturali ed antropici del territorio vicino e lontano. I secondi rivolsero la loro attenzione non solamente sulla conformazione del territorio considerato, che continuava tra l’altro ad essere descritto piuttosto minuziosamente, ma non dimenticarono anche lo sfondo politico-amministrativo, che ne influenzava lo sviluppo economico, sociale e pure civile della stessa nazione. Spes-
Ibidem. Ibidem. La proposta di avvalersi delle «narrazioni di viaggi» per lo studio dell’Italia e delle altre parti del mondo fu oggetto di riflessione da parte di diversi studiosi come P. Sensini che, docente di geografia all’Istituto superiore di Magistero femminile e nell’Istituto di Scienze sociali “C. Alfieri” di Firenze, trovò troppo generica la parte dei programmi che riguardavano l’introduzione di tale metodologia. Pure E. Formiggini Santamaria non ritenne opportuno adottare unicamente tale metodo perché vi era il rischio di sorvolare sulle conoscenze e di risultare monotoni; tuttavia lo giudicava utile per richiamare alla memoria degli allievi nozioni già apprese, per organizzare queste in modo svariato, arricchirle di nuove informazioni, accrescendo così le loro associazioni mentali. Cfr. E. FORMIGGINI SANTAMARIA, Lezioni di didattica (storia e geografia), seconda edizione rifatta ed ampliata, Genova, (s.d.), Formiggini, 1914; P. SENSINI, La parte geografica dei nuovi programmi per le scuole elementari, in «L’opinione geografica», a. I, n. 3, marzo 1905, pp. 33-36. 39 Sono stati analizzati 98 manuali (il calcolo comprende anche le varie riedizioni). 37 38
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so essi utilizzarono vari accorgimenti pedagogico-didattici (dall’adozione di una sintassi più semplice, di un lessico più facile, alla presenza di carte geografiche, immagini, fotografie etc.) per rendere i loro manuali più confacenti alle capacità del pubblico infantile cui erano destinati. Questi testi, in generale, ebbero notevole successo, tanto da essere ristampati, talvolta con modificazioni e/o aggiunte per aggiornarli agli ordinamenti scolastici, ancora nella prima metà del XX secolo.40 Il secondo filone, sicuramente molto più ampio del precedente, comprende al suo interno tutti quegli autori, il più delle volte maestri, professori, dirigenti, ispettori scolastici etc., che proposero i singoli contenuti disciplinari cercando di rispondere tanto alle direttive ministeriali, quanto a quelle del governo italiano di formare nei «cittadini italiani» di domani, un forte sentimento di appartenenza e di “amor patrio” nei confronti dell’Italia. Ciò portò, talvolta, questi compilatori a trascurare la correttezza e la completezza degli argomenti trattati, al punto che su alcune riviste geografiche del tempo, frequentemente, erano segnalati errori geografici rilevati in testi composti da uomini ritenuti poco competenti nella materia.41 Anche l’apparato icoLa grande fortuna che ebbero questi manuali, quasi certamente, è da attribuirsi anche al fatto che rispondevano maggiormente al progetto educativo nazionale avviato dalla classe dirigente, ossia quello di formare dei “futuri cittadini italiani” più consapevoli della realtà sociale, economica, e politica della “propria” nazione. Nei libri per la scuola composti da questi studiosi, infatti, era piuttosto ricorrente la distinzione tra «regione italiana» e «regno italiano», cioè tra «confini naturali» e «confini politici-culturali» della nazione italiana. Essa, probabilmente, era il presupposto indispensabile per legittimare l’edificazione di uno Stato italiano «forte» di stampo germanico, oltre che per allargare le basi sociali del consenso popolare della politica imperialistica intrapresa, seppur molto in ritardo rispetto altre nazioni europee, pure dall’Italia. Sull’argomento si veda L. CARACI, La geografia italiana tra ‘800 e ‘900 (dall’Unità a Olinto Marinelli), Genova, Pubblicazioni dell’Istituto di Scienze geografiche, 1982; G. PÉCOUT, La carta d’Italia nella pedagogia politica del Risorgimento, in A. M. BANTI, R. BIZZOCCHI (a cura di), Immagini della nazione nell’Italia del Risorgimento, Roma, Carocci, 2002, pp. 69-85; M. L. STURANI, «I giusti confini dell’Italia». La rappresentazione cartografica della nazione, in «Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ‘900», A. I, n. 3, luglio 1998, pp. 427-447; ID., La rappresentazione dell’Italia nella cartografia a piccola scala, in M. FIRPO, N. TRANFAGLIA, P. G. ZUNINO (a cura di), Guida all’Italia contemporanea. 1861-1995, Vol. II, Milano, Garzanti, 1998, pp. 561-568, tavv. 1-32. 41 La redazione de «La geografia per tutti», ad esempio, si scagliò contro certi manuali pieni di “errori grossolani” e di “molteplici incertezze, che certi editori ed autori raccomandano, per essere stati approvati da uno o più consigli scolastici provinciali”. Nel medesimo tempo apprezzò che tra gli autori dei libri di testo di geografia per le scuole elementari approvati dal Ministero della Pubblica Istruzione comparissero anche i nomi A. Guerin, L. Hugues, G. Olivati, F. Porena, G. Roggero e di P. Valle, dando così “ufficialmente la cittadinanza scolastica a quella modernità di metodi, che per l’insegnamento della geografia” fu dal periodico tanto propugnata. Cfr. L. CICERI, La geografia per le scuole elementari, in «La geografia per tutti», a. IV, n. 6, 31 marzo 1894, p. 93. Per un approfondimento si vedano anche A. BERTINI, Didattica e insegnamento, in ivi, a. III, n.13, 15 luglio 1893, pp. 198-199; G. ROGGERO, Nuovi libri di testo, in ivi, a. II, n. 23, 16 dicembre 1892, pp. 356-357; F. M. PASANINI, La Commissione Ministeriale pei Libri di Testo, in ivi, a. IV, n. 19, 15 ottobre 1894, pp. 297-298; A proposito di «libri di testo», in ivi, a. III, 1893, p. 15; Libri di testo. Recensioni sui libri di testo di geografia più in uso nelle scuole del Regno, in «Rivista geografica italiana», a. I, fasc. I, marzo 1893, pp. 70-76; Libri di testo, in ivi, a. I, fasc. VI, giugno 1894, pp. 371-375. 40
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nografico e cartografico di questi testi era, talvolta, meno curato e preciso. Il terzo filone, assai meno affollato, è rappresentato da autori decisamente contrari alle tendenze espansionistiche e nazionalistiche italiane. Veniamo ora nello specifico all’analisi della manualistica. Appare necessario precisare fin da ora che, ad eccezione dei volumi composti dai «geografi descrittivi-informativi» e di quelli del terzo filone, in quasi tutti i testi visionati gli argomenti considerati (Italia, Stati europei, cinque continenti), seppur con qualche leggera sfumatura, erano proposti con la medesima chiave di lettura. Gli autori tendevano, infatti, a valorizzare la patria italiana (nelle sue bellezze fisiche, culturali, nel suo progresso industriale e commerciale) e specialmente ogni singola realtà regionale: se meglio conosciuta sarebbe stata più amata, stimata e servita “con il lavoro e le armi”. Minor attenzione era riservata agli altri Stati europei, anche se, talvolta, attraverso la loro presentazione è possibile cogliere l’immagine culturale e caratteriale delle altre popolazioni europee posta a confronto con quella italiana. Va ancora aggiunto che l’Europa era ritenuta, praticamente dalla totalità degli autori considerati, «superiore» agli altri continenti per sviluppo civile, culturale, economico ed anche morale, tanto da legittimare l’espansionismo coloniale in virtù di una missione salvifica, capace di civilizzarne gli abitanti autoctoni, giudicati «barbari», «selvaggi», «rozzi», «idolatri». Anche il modello antropologico di uomo proposto è sostanzialmente analoga in tutti gli autori: egli doveva essere «attivo», «industrioso», «laborioso», oltre che moralmente non corrotto; doveva cioè possedere tutte le qualità giudicate tipiche per essere inscritti tra i popoli più «civili». Per la classificazione del genere umano era illustrata quella proposta, nella seconda metà del Settecento, dall’antropologo, fisiologo e naturalista tedesco Johann Friedrich Blumenbach, considerato il padre del razzismo scientifico e della craniologia. Lo scienziato tedesco aveva individuato una tassonomia composta da cinque razze principali: la caucasica o bianca, la mongolica detta anche tartara o gialla, l’etiopica africana o negra, la malese od olivastra e quella americana o rossa.42 Sebbene que-
J. F. Blumenbach (1752-1840) si laureò in medicina presso l’Università di Gottinga con una tesi dal titolo De generis umani varietate nativa, considerata uno dei lavori che gettò le basi per lo sviluppo del razzismo scientifico. Nel 1776 venne nominato assistente alla cattedra di medicina presso l’Università ove conseguì la laurea, fino a diventare professore ordinario nel 1778. Questa la classificazione del genere umano: 1 La caucasea detta anche bianca o mediterranea avente, in generale, pelle bianca, faccia ovale, barba folta, capelli lisci e ondulati; abitante in Europa, Asia occidentale e Africa settentrionale. 2 La mongolica o tartara, o gialla di colore giallognolo, con barba rada, capelli neri duri e radi, volto largo e piatto, occhi obliqui a mandorla; abitante dell’Asia centrale ed orientale. 3 L’etiopica negra o africana, con il volto lungo e stretto nella parte superiore, le labbra grosse, i capelli corti e ricciuti, la barba rada, le mascelle sporgenti molto sensibilmente in avanti, il naso largo e schiacciato, la pelle fosca ed oleosa; occupante l’Africa centrale e meridionale e le isole della zona torrida e per emigrazione anche in parte dell’America. 4 La malese od olivastra di colore fosco od olivigno, chioma folta nera e ricciuta, naso lungo, bocca larga, fronte bassa; abitante l’Oceania; quest’ultima fu ritenuta anche l’anello tra la razza gialla e la negra. 5 L’americana, del color rame, avente capelli neri duri 42
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sta catalogazione del genere umano non fosse a quel tempo l’unica43, essa fu quella più ricorrente nei manuali e, tra l’altro, rimase correntemente accettata almeno fino alla conclusione della Seconda Guerra Mondiale. Essa, unita al diffondersi dell’evoluzionismo darwiniano e del sociologismo spenceriano44, fu utilizzata per giustificare la superiorità della «razza bianca» su tutte le altre; oltre che per legittimare una politica aggressiva quasi in virtù di un obbligo morale, a quel tempo ampiamente condiviso in Europa, di una civiltà più progredita in grado (e con la missione) di migliorare i popoli più «arretrati». Caratteristica comune a quasi tutti gli imperialisti di ogni nazionalità era, infatti, quella di ritenere di dover “civilizzare” i popoli dominati. Gli europei avrebbero abolito la schiavitù, eliminato pratiche pagane, come l’infanticidio, introdotto il cristianesimo, curato le malattie, posto fine alle endemiche guerre, fornito scuole e sviluppo economico. Il colonialismo, quindi, rappresentava uno strumento necessario di «modernizzazione», che avrebbe aiutato altri popoli a realizzare quello che da soli non sarebbero stati in grado di ottenere, o di fare altrettanto bene, da soli.
e distesi, faccia allargata ed ampia ma non piatta; abitante nell’America. Fu considerata l’anello di unione tra la bianca e la gialla. Nel Manuale della storia naturale Blumenbach, oltre a dichiarare che la razza caucasica era “il modello della vera bellezza, giusta le idee del bello invase generalmente in tutta Europa”, sostenne che “tutte le ragioni fisiologiche concorrono a farci riguardare la razza Caucasica come la vera razza primigenia, o almeno come la razza centrale”. Cfr. J. F. BLUMENBACH, Manuale della storia naturale, recato in italiano sull’undicesima edizione tedesca pubblicata in Gottinga nel 1821, dal Dottor Carlo Giuseppe Malacarne coll’aggiunta d’importanti sue note e corredato di molte emende ed ampliazioni comunale nel marzo 1826 dallo stesso autore e dal prof. Hausman, Vol. II, Milano, per Antonio Fontana, MDCCCXXVI, pp. 113 e 116; la descrizione della classificazione è in ivi alle pp. 113-115; ID., De generis humani varietate nativa liber cum figuris aeri incisis, Goettingae, apud viduam Abr. Vandenhoeck, 1776. 43 Tra il XVIII ed il XIX secolo, anche per opera del darwinismo che stimolò lo studio della gerarchia umana, furono elaborati diversi sistemi genealogici delle razze umane. Basti pensare, soltanto per ricordarne alcuni, agli studi di G. L. Buffon (1707-1788), G. Cuvier (1769-1832), L. Figuier (18191894), E. Lacépède (1756-1825), E. E. Pritchard (1902-1973), J. L. A. de Quatrefages de Breau (18551892) ed a J. J. Virey (1775-1846). Nella traduzione italiana dell’opera di L. Figurier, Les Races humaines, 2. ed., Paris, Hachette et C.ie, 1873 si trova una presentazione, seppur breve, delle diverse suddivisioni del genere umano elaborate tra Sette e Ottocento. Cfr. L. FIGURIER, Le razze umane. Opera illustrata da 341 incisioni e da 8 cromolitografie rappresentanti i principali tipi delle famiglie umane, terza edizione italiana con numerose aggiunte, Milano, Fratelli Treves editori, 1883, in particolare le pp. XXI-XXIV; al riguardo si veda anche R. BIASUTTI, Problemi vecchi e idee nuove: la classificazione delle razze umane, in «Rivista geografica italiana», a. XI, fasc. IX, novembre 1904, pp. 462-472. 44 Sull’influenza della teoria evoluzionistica darwiniana, sulla sua applicazione a diversi campi del sapere (dalla geografia, alla biologia, all’embriologia, alla storia, fino all’antropologia), al sociologismo spenceriano che portarono, inevitabilmente, al concetto di «razza», poiché le differenze fisiche tra gli uomini bianchi, gialli, neri etc. (o qualunque altra classificazione si volesse usare) erano innegabili si veda E. J. HOBSBAWM, Il trionfo della borghesia 1848-1875, Bari, Laterza, 1979, in particolare le pp. 309-340; G. LANDUCCI, Darwinismo a Firenze. Tra scienza e ideologia (1860-1900), Firenze, Leo S. Olschki editore, 1977, in particolare le pp. 1-105 e 129-256.
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Un’altra distinzione, a cui viene fatto spesso riferimento nei manuali scolastici, era fondata sui tratti fisici (cranio, verticalità o sporgenza ad angolo delle mandibole, capelli) delle popolazioni.45 Tuttavia, seppur indirettamente, spesso le popolazioni «civili» e quelle «selvagge» erano differenziate e contrapposte anche in base all’idioma, alla religione, alla forma di governo ed ai costumi. Tra le confessioni professate, il cristianesimo, dominante in Europa e diffusa in tutte le colonie fondate dagli europei, era giudicata la religione della «libertà», dell’«incivilimento» e della «carità»; mentre la fede religiosa più rozza era individuata nel feticismo tipico dell’«uomo selvaggio» che viveva nell’Africa centrarle ed australe, degli indigeni australiani e di molte tribù delle due Americhe. Gli «Europei civilizzati» erano anche più progrediti nella gestione dei loro Stati: essi avevano una forma di governo, fosse essa di tipo monarchico o repubblicano, bene organizzata, mentre le «etnie selvagge» si gestivano ancora con associazioni più primitive, quali tribù e clan. Infine, quest’ultimi erano ritenuti dagli europei «primitivi» anche perché i loro mezzi di sussistenza, il loro abbigliamento e pure le loro dimore, ricordavano il modo di vivere che le genti «civili» avevano avuto nei tempi preistorici. La fisionomia, la lingua, gli usi ed i costumi erano tutti elementi che accomunavano uno stesso popolo. Nei libri scolastici questi fattori furono adoperati per favorire nei «giovani alunni italiani» un forte senso di coesione nazionale; oltre che per far nascere in loro il vanto di appartenere ad una nazione potente, progredita culturalmente ed economicamente. Unica voce controcorrente, come vedremo in seguito, fu quella di Arcangelo Ghisleri, autore in prevalenza di testi per la scuola secondaria e noto soprattutto per i suoi atlanti storici e geografici.
La suddivisione in base al cranio ed alla conformazione della mandibola portò a ripartire le popolazioni del mondo in quattro grandi classi: quelle con crani lunghi si dividevano in dolicocefali ortogonali comprendenti i Germani, Celti, Romani, Greci, Indi, Persiani, Arabi e Giudei; e dolicocefali prognati composti da Negri, Cinesi, Australiani, Eschimesi e parecchie famiglie americane; quelle invece con crani brevi si ripartivano in brachicefali ortogonali comprendenti gli Ugro-Finni e Turchi d’Europa, Slavi, Lettoni, Albanesi, Reti, Baschi; e brachicefali prognati composti da Tartari, Calmucchi, Mongoli, Malesi e parecchie popolazioni dell’America meridionale. La tassonomia fondata sulla capigliatura dell’essere umano operava una distinzione tra gli ullotrichi (uomini dai capelli lanosi) ed i lissotrichi (uomini dai capelli lisci). Dal momento, però, che i capelli lanosi potevano essere a ciuffo o a vello, e quelli lisci potevano essere lisci, dritti o inanellati si individuavano i gruppi dei lofocomi (capelli lanosi a ciuffo), degli eriocomi (capelli lanosi a vello), degli euticomi (capelli lisci dritti) e degli euplocomi (capelli lisci inanellati). I quattro gruppi erano, infine, divisi in dodici razze: Ullotrici Lofocomi (razze ottentotta e papuese); Ullotrici Eriocomi (razze cafra e negra); Lissotrichi Euticomi (razze australiana, malese, mongolica, artica ed americana); Lissotrichi Euplocomi (razze nubica, dravidica, mediterranea). 45
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3. Lo “sguardo” del geografo nello studio elementare dell’Italia, dell’Europa e delle altre parti del mondo 3.1 I geografi «descrittivi-informativi» Tra i più illustri cultori che hanno lasciato un’impronta duratura non solamente nella storia della geografia, delle scoperte geografiche e della cartografia, ma anche in campo didattico non si può non ricordare Luigi Hugues46 che pubblicò presso l’editore torinese Ermanno Loescher svariati testi d’insegnamento della geografia per le scuole di primo e di secondo grado. Per l’istruzione elementare, in particolare, scrisse I principi della geografia47 e Le Lezioni di geografia48 composte da tre volumi per gli alunni dalla terza alla quinta classe. Inoltre, realizzò anche una Guida per l’insegnamento della geografia49 suddivisa in due parti che potevano, eventualmente, anche essere disgiunte. L’esigenza di comporre un sussidio didattico per gli insegnanti nasceva dalla constatazione che “delle molte opere, italiane e straniere, che furono pubblicate in questi ultimi anni intorno ai metodi più acconci a facilitare l’insegnamento della geografia, nessuna ve ne ha, nella quale si trovi sviluppata, con una certa ampiezza, l’applicazione pratica del metodo prescelto”.50 Facevano eccezione, secondo il professore piemontese, soltanto il Methodik des geographischen Unterrichts51 di Matzat e l’Hilfsouch für den Unterricht in der Erdkunde52 di Hummel. Pertanto, nella L. Hugues (1836-1913) ingegnere di formazione e buon musicista, insegnò a lungo negli istituti tecnici come quello municipale “Leardi” di Casale Monferrato (Alessandria) nel 1859, prima di divenire nel 1897 professore aggregato di geografia nella Facoltà di Lettere dell’Università di Torino. Fu anche membro corrispondente della Società Geografica italiana. Alcune informazioni biografiche sono state ricavate da C. PARADISO, Contributo alla prima biografia di Pietro Eugenio Luigi Hugues, Casale Monferrato, Assessorato per la cultura, 2001; P. REVELLI, Il giubileo cattedratico di Luigi Hugues, «Rivista geografica italiana», a. XVII, fascicoli III-VI, marzo-aprile 1910, pp. 181-187; G. RICCHIERI, Nel Giubileo di Magistero del prof. Ing. Luigi Hugues (20 marzo 1910), Tip. Casalese F.lli Tarditi, Casale, 1911; In onore di Luigi Hugues, in «Le comunicazioni di un collega», a. XVI, n. 113, aprile 1910, p. 199; L. Hugues, in «Rivista geografica italiana», a. XX, fascicolo X, dicembre 1913, pp. 606-615. 47 L. HUGUES, I principi della geografia ad uso delle scuole elementari maschili e femminili (terza e quarta classe), terza edizione riveduta, Torino, E. Loescher, 1888. 48 L. HUGUES, Lezioni di geografia esposte agli alunni delle scuole elementari, secondo i programmi didattici del 25 settembre 1888, volume primo per la terza classe, con 19 figure, Torino, E. Loescher, 1891; ID., Lezioni di geografia esposte agli alunni delle scuole elementari, secondo i programmi didattici del 25 settembre 1888, volume secondo per la quarta classe, con 16 figure e schizzi di carte geografiche, Torino, E. Loescher, 1891; ID., Lezioni di geografia esposte agli alunni delle scuole elementari, secondo i programmi didattici del 25 settembre 1888, volume terzo per la quinta classe, con 15 figure, Torino, E. Loescher, 1891. 49 L. HUGUES, Guida per l’insegnamento della geografia nelle scuole primarie e secondarie. Parte prima. La regione italiana –Primi elementi di geografia generale, Torino, E. Loescher, 1888. 50 Ivi, prefazione. 51 MATZAT, Methodik des geographischen Unterrichts, Berlino, Parey, 1885. 52 HUMMEL, Hilfsouch für den Unterricht in der Erdkunde, Halle, 1885. 46
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prefazione de I principi della geografia53, riediti per la terza volta in seguito all’emanazione dei programmi del 1888, Hugues dichiarava di aver applicato “il metodo già formulato dal più illustre geografo del secolo presente (alludeva probabilmente a K. Ritter) e ammesso in oggi dal maggior numero dei geografi”54; ossia quello introdotto nella scuola italiana da Gabelli di condurre il fanciullo alla conoscenza della superficie della Terra, incominciando dalle cose particolari e più vicine e procedendo gradatamente alle generali e più lontane. Il manuale così come era concepito offriva al maestro ed alla sua scolaresca un piano di studio della materia ben strutturato e pianificato. Gli argomenti trattatati erano divisi in tante singole “lezioni”: le prime tredici presentavano i principi della geografia generale (i punti cardinali, le abitazioni dell’uomo, le terre, i rilievi e le acque della superficie della Terra); dalla quattordicesima alla ventiduesima il regno d’Italia; seguivano lo studio degli Stati dell’Europa, delle altre parti del globo, fino ai movimenti della Terra, il sistema solare e le scale delle carte geografiche per un totale di trentadue lezioni. È da sottolineare che soltanto nei manuali scritti da questi studiosi della geografia si ritrovano anche alcune pagine in cui si insegnava all’alunno, seppur con un linguaggio spesso un po’ difficile, a leggere ed a comprendere nei disegni geografici i rapporti tra le lunghezze tracciate sulle carte e quelle reali corrispondenti. Lo studioso, tuttavia, era consapevole che “nello studio della geografia si incontrano ad ogni passo vocaboli, la cui interpretazione non va sovente priva di difficoltà”55; dunque riconoscendo che la maggior parte degli autori dei trattati e dei manuali di questa scienza “poco si curano di spiegare questi vocaboli” scrisse la Nomenclatura di geografia generale.56 Quest’operetta di circa cento pagine conteneva in ordine alfabetico non solo i termini geografici più importanti e comunemente usati (come affluente, equatore, estuario, oasi etc.), ma anche molte altre definizioni attinenti in modo più o meno diretto alla geografia. Il taglio descrittivo, un po’ nozionistico, la sintassi talvolta complessa, l’utilizzo di un lessico specifico ed accurato sono elementi che si ritrovano, in generale, in tutti i testi di Hugues qui considerati: nelle Lezioni di geografia57 i singoli conte-
53 L. HUGUES, I principi della geografia ad uso delle scuole elementari maschili e femminili (terza e quarta classe), cit. La prima edizione risale al 1884; vi fu certamente ancora un’altra edizione nel 1895. Cfr. ID., I principi della geografia ad uso delle scuole elementari maschili e femminili (terza e quarta classe), Torino, E. Loescher, 1884; ID., I principi della geografia ad uso delle scuole elementari maschili e femminili (terza e quarta classe), quarta edizione, Torino, E. Loescher, 1895. 54 L. HUGUES, I principi della geografia, cit., prefazione. 55 L. HUGUES, Nomenclatura di geografia generale e spiegazione delle voci italiane e straniere più comunemente usare nella trattazione di questa scienza, Torino, E. Loascher, 1881, prefazione. 56 L. HUGUES, Nomenclatura di geografia generale, cit. 57 L. HUGUES, Lezioni di geografia esposte agli alunni delle scuole elementari, volume primo per la terza classe, cit.; ID., Lezioni di geografia esposte agli alunni delle scuole elementari, volume secondo per la quarta classe, cit.; ID., Lezioni di geografia esposte agli alunni delle scuole elementari, volume terzo per la quinta classe, cit.
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nuti disciplinari erano presentati con attenzione e dovizia di particolari, quasi come se l’autore, trascurando forse la tenera età degli alunni, non volesse perdere occasione per dare loro quanti più concetti geografici generali fosse stato possibile. La presentazione di ciascuna regione italiana e degli Stati d’Europa, ad esempio, era molto dettagliata, ma sempre soltanto svolta in riferimento alle peculiarità fisiche. Nell’illustrare le isole italiane, Hugues dedicò una decina di righe anche alla Corsica, ceduta dalla Repubblica di Genova alla Francia nel 1768, volendo forse alludere implicitamente al fatto che nonostante fosse di dominio francese era, però, sentita come un territorio italiano. Anche nel ricordare gli “altri paesi della regione italiana” a quel tempo “politicamente indipendenti” si limitava a fare un breve elenco dei possedimenti svizzeri (Canton Ticino e parte del Cantone dei Grigioni), di quelli austriaci (Tirolo meridionale con la città di Trento sull’Adige, i territori di Gorizia e di Gradisca nel bacino dell’Isonzo, Trieste e la penisola dell’Istria), francesi (contea di Nizza e la Corsica), inglesi (gruppo insulare di Malta), oltre a citare il Principato di Monaco e la Repubblica di San Marino, indicando per ciascuno di essi solamente la loro estensione territoriale ed il numero degli abitanti. I manuali, infine, contenevano un buon numero di cartine geografiche in bianco e nero, sempre con l’indicazione della scala; svariati disegni completavano il testo. In particolare, ne I primi elementi di geografia al termine di ogni sezione erano previste domande di controllo ed all’inizio di alcuni capitoli vi erano anche delle “definizioni preliminari” di termini che l’allievo avrebbe incontrato nello studio dell’argomento più prossimo e che secondo l’autore richiedevano, però, uno speciale chiarimento. Un altro studioso che mise a disposizione le proprie conoscenze geografiche specialistiche nel mondo della scuola fu Filippo Porena.58 Professore presso le Università
58 F. Porena (1839-1910?) fu geografo, filosofo, storico e naturalista. Nel 1878 ebbe la cattedra di geografia nel R. Istituto di Roma, per divenire poi professore ordinario di geografia presso le Università di Messina e di Napoli. Si occupò in particolare del metodo e delle vedute scientifiche, concorrendo a divulgarle in Italia ed a chiarirne le applicazioni e il linguaggio tecnico. Egli contribuì anche a modificare con appositi scritti le basi dell’insegnamento secondario e perfino elementare della geografia. Collaborò con numerose riviste del settore, come la «Rivista geografica italiana» del professor G. Marinelli, la «Geografia per tutti», l’«Almanacco geografico». Alcune notizie sulla vita e l’attività professionale di F. Porena si ritrovano su «Le comunicazioni di un collega», a. XVI, aprile 1910, n. 113, pp. 181-182; «Rivista geografica italiana», a. XX, fasc. X, dicembre 1910, p. 470; A. CIANI, Porena Filippo, in «Bollettino della Società Africana d’Italia», a. XXIX, fasc. I-II, gennaio-febbraio 1910, pp. 1-2. Il fascicolo V e VI del «Bollettino della Società Africana d’Italia» fu interamente dedicato al professore Porena: E. COCCHIA, Sulla vita e sulle opere di Filippo Porena, in «Bollettino della Società Africana d’Italia», fasc. V-VI, maggio-giugno 1910, pp. 97-99; C. COLAMONICO, L’opera scientifica di Filippo Porena, in ivi, pp. 99-113; G. FORNARI, Ciò che vive di Filippo Porena, in ivi, pp. 114120; C. CUOMO, In memoria di Filippo Porena, in ivi, pp. 120-123; Elenco delle pubblicazioni di Filippo Porena, in ivi, pp. 124-133.
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di Messina e Napoli, compose la Geografia per le scuole elementari59, una “pregevole operetta” adorna di “numerosi bellissimi disegni e carte e schizzi dovuti a Domenico Locchi e al rinomato stabilimento editoriale Turati di Milano”.60 L’opera, presentata in forma catechistica, era composta da quattro fascicoli distinti: il secondo, il terzo ed il quarto comprendevano gli argomenti di studio previsti dai programmi del 1888 ed erano destinati agli alunni, mentre il primo era rivolto ai maestri e faceva da sussidio al secondo. Quest’ultimi erano identici nei contenuti, ma nel primo vi era in più, per ciascun soggetto, una sezione intitolata “Lezione” stampata in carattere più piccolo che riguardava ciò che “deve dirsi dal signor Maestro, accompagnandola con le opportune indicazioni”.61 Il testo, seguendo puntualmente le indicazioni di «metodo» suggerite da Gabelli, avviava gli scolari allo studio della disciplina, sempre cercando di partire o fare dei riferimenti all’ambiente a loro più prossimo; ad esempio, per il comune, dopo alcuni quesiti generali su che cosa significasse amministrare e chi fossero i vari componenti dell’amministrazione comunale, vi erano varie domande specifiche sulla concreta e quotidiana realtà degli alunni e dell’insegnante: “ D. Come si chiama il comune a cui apparteniamo? R. Il comune a cui apparteniamo dicasi ………. D. È desso una città, o un semplice villaggio? R. È …….. D. In che si occupano principalmente gli abitanti del nostro comune? R. ……………………………… D. Quali sono i prodotti più abbondanti e più utili al nostro comune? R. ……………………………… D. Ditemi infine qualche altra principale particolarità per cui si distingue il nostro comune. R. ……………………………..”.62
Di seguito, come si è potuto vedere, non erano riportate le risposte che dovevano essere scritte dall’alunno che poteva così essere un po’ più partecipe della lezione,
F. PORENA, Geografia per le scuole elementari, sul programma presentato al Congresso di Genova del 1892. Fascicolo 1, per la terza classe elementare, Torino, ditta G. B. Paravia e Comp., 1893; ID., Geografia per le scuole elementari, sul programma presentato al Congresso di Genova del 1892. Fascicolo 2, per la terza classe elementare, Torino, ditta G. B. Paravia e Comp., 1893; ID., Geografia per le scuole elementari, sul programma presentato al Congresso di Genova del 1892. Fascicolo 3, per la quarta classe elementare, Torino, ditta G. B. Paravia e Comp., 1893; ID., Geografia per le scuole elementari, sul programma presentato al Congresso di Genova del 1892. Fascicolo 4, per la quinta classe elementare, Torino, ditta G. B. Paravia e Comp., 1893. 60 L. CICERI, La geografia per le scuole elementari del Prof. Filippo Porena, in «La geografia per tutti», a. IV, n. 6, 31 marzo 1894, p. 93. 61 F. PORENA, Geografia per le scuole elementari, sul programma presentato al Congresso di Genova del 1892. Fascicolo 1, cit., p. III. 62 F. PORENA, Geografia per le scuole elementari, sul programma presentato al Congresso di Genova del 1892. Fascicolo 2, cit., pp. 42-47. 59
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anche se Porena, nel primo fascicolo, precisava che era principalmente compito del maestro informarsi sulle peculiarità del comune di appartenenza, attingendole, tutt’al più, anche dal segretario comunale, o dall’assessore. In seguito all’emanazione degli ordinamenti scolastici del 1894 uscì una nuova edizione del quarto fascicolo nel quale, nonostante l’autore mantenesse la medesima impostazione metodologica ed illustrasse i contenuti disciplinari mantenendo un taglio essenzialmente descrittivo, rispetto alla stampa precedente, fece un’interessante distinzione tra confini naturali e politici dell’Italia: “D. L’Italia Stato corrisponde esattamente all’Italia regione e all’Italia nazione? R. L’Italia Stato non corrisponde interamente all’Italia regione e all’Italia nazione, perché alcuni tratti di paese, che sarebbero compresi dai confini naturali della regione, e che sono abitati da italiani che parlano la nostra lingua, non appartengono all’Italia Stato, ma ad altri Stati, che si estendono nella massima parte in altre regioni, quali sono: la Francia, la Svizzera, l’Austria e l’Inghilterra”.63
Nel parlare poi “delle parti dell’Italia regione che non appartengono al Regno d’Italia” furono utilizzare le seguenti espressioni: “l’Italia francese”; “l’Italia svizzera”; “l’Italia austriaca”; “l’Italia inglese”; quasi a volere non dichiaratamente sottolineare i territori per stato naturale del governo italiano, però, ancora soggetti a Stati stranieri.64 3.2 Alcuni geografi “al servizio” della scuola elementare Furono comunque Domenico65 ed il figlio Luigi Giannitrapani66 i geografi che riuscirono forse più efficacemente di tutti gli altri a creare un collegamento tra la geo-
63 F. PORENA, Geografia per le scuole elementari, sul programma approvato con R. Decreto 29 novembre 1894. Fascicolo 4, per gli alunni della 5 classe elementare, cit. p. 3. 64 “Le parti dell’Italia regione che non appartengono al Regno d’Italia” sono descritte da F. Porena in ivi, alle pp. 49-52. 65 D. Giannitrapani (1816-1916), di origine siciliana, prese parte all’impresa dei Mille e nell’esercito raggiunse il grado di colonnello nell’arma del Genio. Nel 1892 lasciò il servizio attivo e si trasferì a Firenze, dove frequentò la scuola di G. Marinelli e gli ambienti della Società Geografica Italiana. Condusse numerosi studi geografici e fu autore di una copiosa serie di testi scolastici fra i più diffusi nelle scuole primarie e secondarie d’Italia. Fu anche, fino al 1907, direttore del periodico «Rassegna scolastica», promossa dall’editore Bemporad, dapprima destinata agli insegnanti in generale, ed in seguito orientata a soddisfare le esigenze dei maestri, per i quali pubblicò (a partire dall’annata 1898-‘99) un apposito supplemento didattico. Le informazioni biografiche su D. Giannitrapani sono state tratte da P. SCHIARINI, Domenico Giannitrapani, in «Bollettino della Società Geografica Italiana», LIII, (1916), pp. 507-513; «Rivista geografica italiana», a. XXIII, fascicolo IV-V, aprile-maggio 1916, p. 230; su D. G. ha scritto anche S. OLIVIERO, Le riviste per la scuola. Periodici Bemporad dal 1890 al fascismo, in C. I. SALVIATI (a cura di), Paggi e Bemporad, editori per la scuola. Libri per leggere, scrivere e far di conto, Firenze, Giunti, 2007, in particolare alle pp. 193-208. Per un approfondimento sulla rivista «Rassegna scolastica» si veda G. CHIOSSO (a cura di), La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), cit., in particolare le pp. 533-534. 66 L. Giannitrapani fu docente di geografia nel R. Istituto di Studi Superiori di Firenze.
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grafia “alta” studiata nelle università e quella “bassa” oggetto di apprendimento tra i banchi di scuola. I numerosi libri di testo per le scuole primarie e secondarie che pubblicarono per la Bemporad erano di piacevole lettura: scritti con una sintassi facile e piana, un lessico preciso ma mai ostico; oltre ad essere compiuti tanto nei contenuti, quanto nel materiale iconografico e cartografico. Queste probabilmente furono le componenti che determinarono l’enorme successo dei loro manuali al punto da essere ristampati continuamente, spesso con correzioni e aggiunte, ancora nel primo ventennio del Novecento. Per gli alunni delle scuole elementari superiori D. Giannitrapani scrisse le Nozioni di geografia67 composte da due volumi, rispettivamente per la quarta e la quinta classe. In essi raramente si trovano considerazioni personali dell’autore; soltanto nel trattare dell’Europa e dell’Italia si evidenziano alcune espressioni patriottiche con lo scopo “d’infondere nel fanciullo la coscienza della patria e l’amore per essa”.68 Nel primo volume (quarta classe) si può cogliere un cenno di “amor patrio” in relazione alla sconfitta di Adua là dove per l’Abissinia informava che “l’antica capitale dell’impero etiopico era Adua presso la quale il 1 marzo 1896 avvenne una grande battaglia infausta alle nostre armi, ma nella quale emerse, tuttavia, il valore dei nostri soldati sopraffatti dallo stragrande numero dei nemici”.69 Nettamente più imparziale era la descrizione della produzione agricola del protettorato italiano; si legge infatti che “in generale l’Abissinia non è molto fertile; nei terreni meglio adatti si coltivano i cereali, fra cui la dura; e in alcuni luoghi il caffé, l’ulivo e la vite”.70 La colonia d’Eritrea, invece, era “un nostro possedimento acquistato con molti sacrifizi di denaro, ma più specialmente di sangue, poiché arditi viaggiatori e migliaia dei nostri bravi soldati hanno immolata laggiù la propria vita, mantenendo il prestigio della patria lontana”.71 Più obiettivo era nel trattare degli utili economici derivati dal possedimento, dei quali l’autore si limitava a dire che “al presente il commercio è assai limitato”.72 Nel parlare de “la famiglia umana”, anche D. Giannitrapani si appoggiava alla suddivisione di J. F. Blumenbach e nel presentare la razza bianca prendeva posizione affermando che essa “è superiore alle altre per beltà di fattezze corporee e per intelligenza”.73 Pure nel Manuale-Atlante di geo-
D. GIANNITRAPANI, Nozioni di geografia per le scuole elementari superiori, illustrate da figure e da carte geografiche, Vol. I per la IV classe, conforme ai programmi ministeriali (29 nov. 1894), Firenze, R. Bemporad & Figlio, 1898; ID., Nozioni di geografia per le scuole elementari superiori, illustrate di figure e da carte geografiche, Vol. II per la V classe conforme ai programmi ministeriali (29 novembre 1894), Firenze, Bemporad & Figlio, 1898. 68 D. GIANNITRAPANI, Nozioni di geografia per le scuole elementari superiori, illustrate da figure e da carte geografiche, Vol. I per la IV classe, cit. 69 Ivi, p. 80. 70 Ibidem. 71 Ivi, pp. 82-83. 72 Ivi, p. 83. 73 Ivi, pp. 24-25. 67
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grafia destinato agli studenti delle scuole elementari superiori si ritrova il medesimo taglio educativo/patriottico. L’opera, dotata di un ricco apparato iconografico e cartografico ed organizzata in tre volumi, ebbe “accoglienza lusinghiera” presso gli insegnanti, tanto da essere riedita, spesso con qualche modificazione ancora nella prima metà del Novecento. L’elemento più originale del fascicolo per la quarta classe del 191174 è l’attenzione con cui l’autore adeguò lo studio dell’Italia, dell’Europa e degli altri continenti ai nuovi programmi del 1905 che prescrivevano l’adozione del metodo della «narrazione di viaggi». Affinché gli alunni potessero seguire concretamente la narrazione dei numerosi percorsi compiuti erano allegate anche alcune cartine della rete ferroviaria. Le escursioni erano l’occasione per introdurre non soltanto informazioni in riferimento alle attività economiche, culturali dei luoghi italiani o stranieri visitati, ma spesso anche il pretesto per ricordare i passati avvenimenti risorgimentali e/o fortificare negli allievi il sentimento di amor patrio. Per l’Italia valga il seguente esempio: “VIAGGIO I: DA TORINO A VENEZIA - Torino è una popolosa città che ha delle belle strade dritte e delle spaziose piazze contornate da notevoli edifizi. Fu capitale del Regno di Sardegna fino al 1860, poi del Regno d’Italia fino al 1865, e può dirsi di essere stata la culla del nostro Risorgimento politico. Oggi sebbene non più capitale è, dopo Milano, la città che ha maggiormente progredito nelle industrie. Da Torino si va a Milano in meno di tre ore di ferrovia; la città è il capoluogo della Lombardia è la più ricca e più fiorente città d’Italia per le sue industrie e i suoi commerci […]. Da Milano in un’ora e mezzo si va a Brescia uno dei centri più popolati e industriali della Lombardia; la città è rinomata per le sue antiche fabbriche d’armi, e pel suo patriottismo. Poi in altre due ore a Verona, antica città situata sulla riva dell’Adige e quindi a Vicenza patria del celebre architetto Palladio; a Padova nota per la sua antica Università e per i suoi monumenti […]. Da Padova si va a Mestre dove la ferrovia lascia la terraferma e s’inoltra nella laguna sopra un ponte lungo 3500 metri che conduce a Venezia la celebre capitale dell’antica e gloriosa repubblica; città unica nel Mondo, perché fabbricata sopra numerose isolette congiunte da qualche centinaio di ponti […]”.75
Pure nei racconti di viaggi negli altri continenti frequenti erano i richiami agli «italiani» o alla «nazione italiana»: “VIAGGIO II: DA GENOVA A NUOVA YORK E (attraverso gli Stati Uniti) A SAN FRANCISCO - Da Genova partono frequentemente piroscafi nostrani ed esteri, in ispecie tedeschi, diretti all’America: sono enormi navi, alcune lunghe più di 200 m, capaci di trasportare 2000
D. GIANNITRAPANI, Manuale-Atlante di geografia per le scuole elementari superiori, classe IV, conforme ai programmi e alle Istruzioni ministeriali del 29 gennaio 1905, splendidamente illustrato da 60 vignette e 12 tavole geografiche in cromolitografia, Firenze, Bemporad & Figlio, 1911. Vi furono sicuramente altre due edizioni precedenti nel 1898 e nel 1901, ma non è stato possibile visionarle perché troppo rovinate. Cfr. ID., Manuale-Atlante di geografia per le scuole elementari superiori, classe IV, conforme ai programmi e alle Istruzioni ministeriali del 29 novembre 1894, Firenze, Bemporad & Figlio, 1898; ID., Manuale-Atlante di geografia per le scuole elementari superiori, classe IV, conforme ai programmi e alle Istruzioni ministeriali del 29 novembre 1894, Firenze, Bemporad & Figlio, 1901. 75 D. GIANNITRAPANI, Manuale-Atlante di geografia per le scuole elementari superiori, classe IV, cit., (1911), pp. 24-25. 74
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Patrizia Savio e 2500 passeggeri, in gran parte nostri emigranti. […] A Nuova York vive un gran numero d’Italiani, circa 6000000, che vi esercitano ogni sorta di professioni e mestieri […]”.76
Nell’edizione dell’anno successivo77, ornata da una speciale copertina a mosaico di Ferruccio Moro78, era aggiunta una parte sulla storia degli “uomini e fatti di Roma antica”.79 In più si poteva cogliere qualche differenza nell’apparato iconografico. Il manuale continuò ad essere successivamente ristampato praticamente senza altre significative modificazioni.80 In seguito alla morte dell’autore, l’edizione del 191781, arricchita con un’ulteriore copertina (curata dall’illustratore e pittore Ezio Anichini82), fu rivista dal figlio Luigi che introdusse alcune “Letture geografiche”, brani scelti di buoni autori fra cui Carlo Collodi83, Alarico Montelimar, Giulio Italico, Cesare Battisti84, don Giuseppe
Ivi, pp. 48-50. D. GIANNITRAPANI, Manuale-Atlante di geografia e storia per la IV classe elementare, conforme ai Programmi e alle Istruzioni ministeriali del 29 Gennaio 1905, splendidamente illustrato da 81 vignette e 8 tavole geografiche in cromolitografia, Firenze, Bemporad & Figlio, 1912. 78 Su F. Moro si veda F. DONZELLI, Firenze nell’Ottocento nei disegni di Ferruccio Moro (18591948), Galleria D’Arte, 2006. 79 La parte del manuale dedicata alla presentazione dell’antica Roma era alla fine del testo e seguiva una numerazione romana, cfr. pp. I-XVI. 80 D. GIANNITRAPANI, Manuale-Atlante di geografia e storia per la IV classe elementare, conforme ai Programmi e alle Istruzioni ministeriali del 29 Gennaio 1905, splendidamente illustrato da 74 vignette e 8 tavole geografiche in cromolitografia, Firenze, Bemporad & Figlio, 1914; ID., Manuale-Atlante di geografia e storia per la IV classe elementare, conforme ai Programmi e alle Istruzioni ministeriali del 29 Gennaio 1905, splendidamente illustrato da 80 vignette e 8 tavole geografiche in cromolitografia, Firenze, Bemporad & Figlio, 1915; ID., Manuale-Atlante di geografia e storia per la IV classe elementare, conforme ai Programmi e alle Istruzioni ministeriali del 29 Gennaio 1905, splendidamente illustrato da 57 vignette e 8 tavole geografiche in cromolitografia, Firenze, Bemporad & Figlio, 1916. 81 D. GIANNITRAPANI, L. GIANNITRAPANI, Manuale-Atlante di geografia per la IV classe elementare, splendidamente illustrato da 56 vignette e 8 tavole geografiche in cromolitografia, nuova edizione completamente rifusa e corredata di letture geografiche a cura di Luigi Giannitrapani, Firenze, Bemporad & Figlio, 1917. 82 Il fiorentino G. Anichini collaborò con diverse case editrici della sua città. Nel 1897 lavorò a «Scena illustrata»; per la Bemporad illustrò, intorno al 1900, alcuni volumi della “Biblioteca Azzurra” ed una copertina di «Almanacco italiano». 83 C. Collodi (1826-1890), all’anagrafe C. Lorenzini, fu scrittore e giornalista fecondo: scrisse numerose opere per l’infanzia come Giannettino (una raccolta di racconti pedagogici in sette voll. il primo edito nel 1876, l’ultimo nel 1890) e Minuzzolo (1877), ma lo rese celebre soprattutto il romanzo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino (1883), uscito inizialmente a puntate sul «Giornale per i bambini». Cfr. T. MORGANTI, C. Collodi, Firenze, Marzocco-Bemporad, 1953; A. R. VAGNONI, Collodi e Pinocchio. Storia di un successo letterario, Trento, UNI Service, 2007. 84 C. Battisti (1875-1916) fu un geografo, politico e soprattutto irredentista italiano. Dopo aver conseguito una laurea in lettere (1898) ed una seconda in geografia si occupò di studi geografici e naturalistici; contemporaneamente si interessò anche di problemi sociali e politici e nel 1900 fondò il giornale socialista «Il Popolo» e, quindi, il settimanale illustrato «Vita trentina» che diresse per molti anni. Cfr. V. CALÌ, Cesare Battisti, Trento, Museo del Risorgimento e della lotta nella storia d’Italia, 1993; P. PIERI, Cesare Battisti nella storia d’Italia, Trento, Temi, 1965. 76 77
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Capra85, Albertina Somazzi.86 Egli modificò soprattutto la parte dedicata ai “viaggi”, nella quale dichiarava di essersi proposto “di far meglio conoscere i paesi ai quali sono rivolte le nostre aspirazioni nazionali”.87 Infatti, nella narrazione dei viaggi, spesso, si ricordavano i fatti più significativi e patriottici del risorgimento italiano88; mentre dell’irredentista Cesare Battisti era riportato il brano “Il Trentino”, diretto a convincere che il diritto di “cittadinanza italiana” di questa regione si basava tanto sui suoi confini naturali, quanto sul sentimento italico fortemente sentito dagli abitanti di quell’area: “Son quattro sassi! Così si definisce il Trentino da molti che non lo conoscono e che vogliono tagliar corto ad ogni discussione sui problemi d’oltre confine. L’espressione è non solo errata. È anche cattiva. È errata geograficamente. La Val d’Adige, pur racchiusa tra monti che precipitano con pauroso aspetto, è un fiume di verzura; e nelle alpestri valli laterali chi voglia raggiungere le guglie, i pinnacoli, le vette nevose, i sassi insomma, deve avere la pazienza di traversare i campi e pascoli e selve immense. È errata se vuol essere espressione economica, perché il Trentino ha nelle sue viscere dei veri tesori di ricchezza. È cattiva. Perché, se anche il suolo fosse tutto spine e sterpi e brulle rocce, non son di sasso i cuori che lassù palpitano italicamente e si vogliono ai cuori dei fratelli d’Italia implorando aiuto. Dal «Trentino» di C. Battisti a cura dell’ «Ora Presente»”.89
Pure la città di Trieste doveva entrare a far parte dei confini politici del regno italiano; a sostegno di ciò era riportata un’altra lettura di Giulio Italico: LETTURA III: “Trieste è italiana”- “Trieste è in Italia. Capitale naturale della penisola istriana, Trieste fa parte della Venezia, ed insieme all’Istria ed al Friuli orientale costituisce la Venezia Giulia. […] Le Alpi Giulie sono la catena estrema della cerchia alpina che divide l’Italia dai paesi contigui e questa divisione è confermata anche dal corso delle acque. Dunque, Trieste come le altre terre adriatiche irredente fa parte della patria italiana. Da «L’anima di Trieste» di Giulio Italico”.90
85 Don G. Capra (1873-1952) fu una singolare figura di studioso che unì alle doti di naturalista, esploratore e geografo, quelle religiose ed umane. Sensibile al problema dell’emigrazione, viaggiò per conto dell’ Italica Gens, la federazione per l’assistenza degli emigrati transoceanici e nel levante, e di altre associazioni governative che operavano nel settore. Cfr. T. FRAGNO, Don Giuseppe Capra: missionario di fede e di italianità, Aosta, Le château, 2002. 86 A. Somazzi collaborò con L. Giannitrapani alla stesura di alcuni manuali scolastici come L. GIANNITRAPANI, A. SOMAZZI, Visioni del mondo. Antologia geografica per la scuola media. L’Europa: in appendice letture e nozioni di geografia astronomica e di cartografia: con 300 illustrazioni e schizzi geografici - 6 carte geografiche a colori), terza edizione aggiornata e perfezionata, Catanzaro, Guido Mauro, 1942; ID., Il libro di storia e di geografia: per la terza classe elementare corredato da un atlantino geografico: con 77 disegni, schizzi ed illustrazioni (approvato dal Min. P.I. - ottobre 1945), Firenze, G. Mauro, [1946]. 87 D. GIANNITRAPANI, L. GIANNITRAPANI, Manuale-Atlante di geografia per la IV classe elementare, cit., prefazione. 88 Del viaggio “da Torino a Venezia”, ad esempio, si legge che la città piemontese “accolse i nostri grandi patrioti che vi si stabilirono quando ancora l’Italia era divisa e soggetta allo straniero e, con la protezione del Re Vittorio Emanuele, lavorarono a preparare il risorgimento italiano”. Cfr. Ivi, p. 15. 89 Ivi, p. 30. 90 Ibidem.
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In seguito all’emanazione dei programmi del 1905 pure il fortunatissimo ManualeAtlante di geografia, per la quinta classe, pur intatto nella struttura, subì qualche modifica: se della stampa del 191191 si notano le dodici tavole geografiche a colori intercalate nel testo, in quella del 191592, a cui ne seguirono altre pressoché uguali93, la parte scritta fu ridotta a circa trenta pagine, mentre fu arricchito il materiale illustrativo che ne occupava ben diciotto. Il materiale cartografico fu migliorato da otto cartine “fuori testo” ed un’altra “intercalata nel testo” sulle principali linee di navigazione in congiunzione con le ferrovie nel bacino del Mediterraneo. Il testo continuò ad essere riedito anche dopo la scomparsa dell’autore: pur conservando sul frontespizio il suo nome toccò nuovamente al figlio Luigi curarne le nuove edizioni. Quest’ultime erano tutte rifinite anche sulle copertine che riportavano un’illustrazione di E. Anichini. L’opera, pur mantenendo complessivamente l’impianto dato dal padre fu arricchita da alcune “Letture geografiche” ed il materiale illustrativo, già assai ricco, fu migliorato; come pure il piccolo Atlante94 posto a corredo del manuale fu incrementato, “per quanto le condizioni dell’industria libraria in questo eccezionale periodo lo consentivano”95, di otto carte. Nel terzo volume del Manuale-Atlante di geografia96, rivolto agli studenti della sesta 91 D. GIANNITRAPANI, Manuale –Atlante di geografia, per la V classe elementare, conforme ai Programmi e alle istruzioni ministeriali del 29 gennaio 1905, splendidamente illustrato da 60 vignette e 12 tavole geografiche in cromolitografia, Firenze, Bemporad & Figlio, 1911. 92 D. GIANNITRAPANI, Manuale –Atlante di geografia, per la V classe elementare, conforme ai Programmi e alle istruzioni ministeriali del 29 gennaio 1905, splendidamente illustrato da 53 vignette e 8 tavole geografiche in cromolitografia, Firenze, Bemporad & Figlio, 1915. 93 Cfr. D. GIANNITRAPANI, Manuale –Atlante di geografia,per la V classe elementare, conforme ai Programmi e alle istruzioni ministeriali del 29 gennaio 1905, splendidamente illustrato da 53 vignette e 8 tavole geografiche in cromolitografia, Firenze, Bemporad & Figlio, 1916; ID., Manuale –Atlante di geografia, per la V classe elementare, conforme ai Programmi e alle istruzioni ministeriali del 29 gennaio 1905, splendidamente illustrato da 56 vignette e 8 tavole geografiche in cromolitografia, corredato di letture geografiche, Firenze, Bemporad & Figlio, 1917; ID., Manuale –Atlante di geografia,per la V classe elementare, conforme ai Programmi e alle istruzioni ministeriali del 29 gennaio 1905, splendidamente illustrato da 55 vignette e 8 tavole geografiche in cromolitografia, corredato di letture geografiche, Firenze, Bemporad & Figlio, 1918. 94 D. GIANNITRAPANI, Atlante a corredo del Manuale di geografia, Firenze, Bemporad, 1918. 95 D. GIANNITRAPANI, Manuale –Atlante di geografia, per la V classe elementare, cit., (1917), prefazione. 96 D. GIANNITRAPANI, Manuale-Atlante di geografia per la sesta classe elementare, conforme ai Programmi e alle Istruzioni ministeriali del 29 gennaio 1905, splendidamente illustrato da 65 vignette e 8 tavole geografiche in cromolitografia, Firenze, Bemporad & Figlio, 1911. Negli anni successivi furono edite nuove edizioni che pur mantenendo complessivamente l’impianto generale furono arricchite di illustrazioni e/o di nuove “Letture geografiche”. Cfr. D. GIANNITRAPANI, Manuale –Atlante di geografia, per la VI classe elementare, conforme ai Programmi e alle Istruzioni ministeriali del 29 gennaio 1905, splendidamente illustrato da 62 vignette e 8 tavole geografiche in cromolitografia, Firenze, Bemporad & Figlio, 1914; ID., Manuale –Atlante di geografia, per la VI classe elementare, splendidamente illustrato da 63 vignette e 8 tavole geografiche in cromolitografia, corredato di letture geografiche, Firenze, Bemporad & Figlio, 1917; ID., Manuale –Atlante di geografia, per la VI classe elementare, splendidamente illustrato da 63 vignette e 8 tavole geografiche in cromolitografia, corredato di letture geografiche, Firenze, Bemporad & Figlio, 1918.
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sezione, si colgono più accesi toni nazionalistici là dove l’autore trattando dell’impresa libica, nata sullo slancio della politica colonialistica promossa da Crispi sul finire del XIX secolo ed a quel tempo appena conclusasi (1911-‘12), così si esprimeva: “Politicamente la Libia corrisponde all’antico Stato barbaresco, chiamato Tripolitania, ma che comprendeva anche la Cirenaica. Di questo Stato l’Impero Ottomano aveva una sovranità nominale, ma nel 1835 il governo ottomano con la ben nota perfidia se ne impadroniva, e sfruttava e vessava in tutti i modi la popolazione. Anche gli Italiani che vi si erano stabiliti o vi si recavano per ragioni di commercio, erano angariati, imprigionati e perfino assassinati per opera delle autorità turche, senza che i reclami, le proteste del nostro governo a quello turco venissero mai soddisfatte. Poteva l’Italia restare passiva dinanzi alle provocazioni turche, ai danni cagionati ai nostri connazionali dai Turchi, propriamente in quelle terre che furono dominio degli antichi Romani i quali vi apportarono la civiltà? Non lo poteva certamente. Perciò nel settembre 1911 il nostro Governo si decise a farla finita, e per virtù concorde del popolo, con lo splendido valore del nostro esercito e della nostra marina da guerra conquistava la Libia, sostituendo alle barbarie turca, la civiltà, il progresso e il benessere della popolazione oppressa”.97
Nel parlare dello sviluppo economico di quella zona traspare obiettività per l’aridità di quelle terre: “La zona marittima è poco adatta alla coltivazione; l’altipiano invece, pel suo clima temperato, si presta a svariate coltivazioni. Per ora sono quasi solamente gli indigeni che coltivano con metodi primitivi la dura, l’orzo, i legumi e i frutti necessari alla loro alimentazione; però per opera di immigrati italiani si vanno esperimentando la cultura del frumento, del cotone, del tabacco ec. La produzione mineraria, se si eccettua quella del sale, che si raccoglie lungo il litorale o sull’altipiano, può dirsi quasi nulla. Vero è che si sono scoperti dei filoni d’oro, ma per ora si tratta di saggi di sfruttamento, nella speranza di rendere proficui quei filoni”.98
Della Somalia italiana, in parte acquistata dall’Italia attraverso trattati con sultani locali, invece, emerge un atteggiamento più fiducioso: “È un territorio di grande avvenire agricolo. Mentre la costa si presenta come una landa inospitale, l’interno è un’immensa pianura verdeggiante, perché ben innaffiata da corsi d’acqua, e perciò si presta, anche pel suo clima, alla coltura del tabacco, del cotone, della canna da zucchero ec.”.99
Un altro geografo autore di fortunati testi geografici fu Gerolamo Olivati100,
97 D. GIANNITRAPANI, Manuale-Atlante di geografia per la sesta classe elementare, cit., (1911), pp. 25-26. 98 Ivi, pp. 28-29. 99 Ivi, p. 30. 100 G. Olivati (1837-1896) ancora giovinetto passò dalle file dell’esercito austriaco nelle forze armate italiane; quindi partecipò alle campagne per l’indipendenza nazionale e dopo molti anni di servizio militare fu nominato professore di geografia e storia prima nel Collegio militare di Milano, poi nella Regia accademia militare di Livorno. Fu anche autore di libri di testo per la scuola. Cfr. G. MARINA, Gerolamo Olivati, in «Le comunicazioni di un collega», a. III, nn. 9-10, novembre-dicembre 1896, pp. 133-134.
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docente nell’Accademia Navale di Livorno, autore de La geografia per i miei bambini101 composta da quattro fascicoli per gli alunni dalla seconda alla quinta classe delle scuole elementari. Sebbene Olivati mantenesse, in generale, un atteggiamento sostanzialmente descrittivo, nel terzo fascicolo102 destinato agli scolari di quarta, al termine della presentazione dell’Italia mostrava una vena di patriottismo: dopo la seguente esclamazione: “Che Dio conservi sempre l’Italia forte ed unita!”, esortava gli scolari a sentirsi «uniti» e tutti «italiani», al di là delle diversità regionali: “Ora non siam più liguri, piemontesi, lombardi, toscani, napoletani, siciliani, sardi etc.; ora siam tutti italiani, figli tutti della stessa madre, l’Italia, uniti in un regno forte e rispettato. Amor di patria sia la vostra guida costante. E l’amor di patria v’ispiri l’amore del lavoro, l’amore della virtù, con che soltanto la patria si mantiene rispettata e forte. Cogli atti vostri accrescetene lo splendore. Oh! Sì; coll’obbedienza alle leggi, col rispetto alle autorità, coll’energia, coll’attività, coll’assiduità nel lavoro, qualunque sia la vostra condizione, la renderete più grande”.103
Toni nazionalisticheggianti più marcati si ritrovano nel quarto fascicolo104, destinato agli alunni di quinta: nel presentare l’articolazione politica dell’Europa l’autore dichiarava che essa si divideva politicamente in venticinque Stati “indipendenti l’uno dall’altro, ma molto differenti per estensione e per potenza”; seguiva una classifica delle nazioni, accompagnata tra l’altro anche da una relativa tabella, delle quali “sei sono grandi potenze (Impero Russo, Germanico, Austro-Ungarico, Repubblica Francese, Regno Unito e Regno d’Italia); sette sono Stati mezzani (Regno di Spagna, del Belgio, di Romania, di Svezia, di Portogallo, dei Paesi Bassi e l’Impero Ottomano d’Europa); cinque sono Stati piccoli (Confederazione svizzere, Regno di Grecia, di Danimarca, di Serbia, di Norvegia); sei sono Stati minimi (Gran Ducato di Lussemburgo, Principato di Montenegro, di Monaco, di Lichtenstein, Repubblica di San Marino, di Andorra)”.105
G. OLIVATI, La geografia per i miei bambini, fascicolo II, nozioni preliminari di geografia e descrizione della provincia di Firenze, ad uso della terza classe elementare, adorno di figure e cartine geografiche, (edizione ridotta), Firenze, Bemporad & Figlio, 1893; ID., La geografia per i miei bambini, fascicolo III, nozioni di geografia fisica e politica dell’Italia, ad uso della quarta classe elementare, adorno di cartine e di schizzi geografici, Firenze, Bemporad e Figlio, 1982; ID., La geografia per i miei bambini, fascicolo IV, Parte I Nozioni di geografia cosmografia, Parte II Le cinque parti del mondo, ad uso della quinta classe elementare, adorno di figure e cartine geografiche, Firenze, Bemporad e Figlio, 1982. Non è stato possibile recuperare il primo fascicolo scritto per gli scolari di seconda. Cfr. ID., Avviamento allo studio della Geografia. Utile lettura per la seconda classe elementare, ad uso delle scuole d’Italia, adorno di vignette e cartine geografiche, Firenze, Bemporad & Figlio, [?]. 102 G. OLIVATI, La geografia per i miei bambini, fascicolo III, cit. 103 Ivi, p. 92. 104 G. OLIVATI, La geografia per i miei bambini, fascicolo IV, cit. 105 Ivi, p. 53. La tabella sugli Stati d’Europa è in ivi, alle pp. 54-55. 101
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4. Gli uomini della scuola e la geografia Tra i numerosi libri di testo scritti da personalità impegnate nella scuola in qualità di maestri, docenti, ispettori scolastici etc. meritano certamente di essere ricordati, perché ampiamente adottati dagli insegnanti, in primo luogo quelli composti da Eugenio Comba106 che fu professore presso il liceo “Gioberti” e nella Regia scuola tecnica “Monviso” di Torino. Le riedizioni dei suoi manuali, che si susseguirono tra la seconda metà dell’Ottocento ed i primi anni del Novecento, furono spesso riviste, dopo la scomparsa del Comba, dal professore di geografia Giuseppe Roggero.107 Quest’ultimo curò in particolare la riedizione del Breve corso di geografia teoricopratica108 data alle stampe nel 1891 e destinata agli alunni delle scuole elementari superiori. Nell’operetta, la cui prima edizione risale probabilmente ai primi anni Settanta del XIX secolo109, lo studio dei singoli contenuti disciplinari era finalizzato a rinsaldare negli scolari il sentimento di appartenenza alla nazione, al punto che nell’iniziare la descrizione delle caratteristiche morfologiche del territorio italiano l’autore recuperava le antiche grandezze de “l’Italia nostra patria”, la quale pur non
106 Non si hanno, fino ad oggi, molte notizie sulla vita di E. Comba (?-1874); diresse dal 1871 «L’Istitutore» che si pose su una linea di sostanziale continuità con l’immagine del giornale data da D. Berti che la promosse e animò per primo, raccogliendo l’eredità del «Giornale della Società d’Istruzione e d’Educazione». Qualche notizia, seppur non molto soddisfacente, sulla sua vita si trova in «L’istitutore», a. XXII, n. 31, 1 agosto 1874, alla p. 538. Su «L’Istitutore» si veda G. CHIOSSO (a cura di), La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), cit., pp. 365-367. 107 G. Roggero (1842-1904) pur intraprendendo la carriera militare, mostrò particolare interesse per gli studi geografici e per l’insegnamento. Insegnò geografia prima nella Scuola militare di Modena, poi nel Collegio militare di Milano e contemporaneamente nella Scuola Superiore femminile comunale. Oltre a svariati articoli d’argomento geografico, pubblicò moltissime opere, carte murali ed a rilievo con la collaborazione del topografo Pio Galli dell’Istituto Geografico Militare di Firenze; insieme a D. Locchi predispose, per la Paravia, alcune carte geografiche e con A. Ghisleri il Testo-Atlante di geografia moderna. Su di lui si rinvia a G. RICCHIERI, Il colonnello Giuseppe Roggero, in «Rivista geografica italiana», a. XI, fasc. IX, novembre 1904, pp. 478-481. 108 E. COMBA, Breve corso di geografia teorico-pratica, corredato d’esercizi di applicazione ad uso delle scuole elementari superiori, ventiquattresima edizione interamente riveduta e corretta dal Capitano G. Roggero, Prof. Di geografia nel Collegio militare di Milano, arricchita di due carte geografiche e numerose incisioni, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1891. 109 La seconda edizione del Breve corso di geografia teorico-pratica risale al 1872 ed aveva complessivamente la stessa struttura di quella edita nel 1891, anche se i contenuti disciplinari erano presentati con un diverso ordine, non vi era alcuna cartina, né disegni di completamento. L’opera fu premiata con medaglia nel congresso pedagogico di Venezia (1872) e nuovamente all’esposizione universale di Parigi (1878). Cfr. E. COMBA, Breve corso di geografia teorico-pratica corredato d’esercizi d’applicazione ad uso delle scuole elementari superiori e del quarto anno delle scuole ginnasiali, seconda edizione, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1872. Vi fu un’altra edizione nel 1876 cfr. ID., Breve corso di geografia teorico-pratica corredato d’esercizi d’applicazione ad uso delle scuole elementari superiori e del quarto anno delle scuole ginnasiali, sesta edizione, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1876.
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essendo “la parte più grande, né più fertile d’Europa […] stante l’opportunità della sua postura e l’ingegno de’ suoi abitanti, si rese famosa più di tutte”.110 Il forte senso di «italianità», traspare per quanto non espressamente anche quando erano illustrate le “terre italiane” di dominio straniero. L’italianità di questi territori si fondava talvolta su motivazioni storiche, in quanto vecchi possedimenti italiani poi venduti o persi in guerra, oppure perché abitate principalmente da popolazioni “italiane”, ossia accomunate dalla stessa lingua, dagli stessi usi e costumi. L’unione del Canton Ticino al resto dell’Italia, ad esempio, era giustificato dal fatto che su 152000 abitanti, ben 142000 erano italiani. L’annessione del Trentino, invece, era considerata “giusta” perché in passato aveva già fatto parte del regno italiano per poi essere “dato di nuovo all’Austria nel 1814”.111 La legittimità italiana dei “dominii francesi in Italia”112 (isola di Corsica, Principato di Monaco), invece, si basava sulle stesse radici storiche di quei territori, ora francofoni, ma un tempo italiani; ma era soprattutto la città di Nizza con il suo territorio ad essere legittimamente italiana, perché “da quasi cinque secoli era unita al Piemonte”, per poi essere “ceduta alla Francia dal Governo italiano nello stesso anno 1860”.113 Per ultimo, ma non per questo meno importante, l’isola di Malta, la quale “venne definitivamente in possesso degli Inglesi pei trattati del 1815”114, nel manuale fu collocata insieme all’isola d’Elba tra le isole minori della penisola italiana. Nel Breve corso di geografia teorico-pratica è, inoltre, evidente l’obiettivo di infondere nei giovani allievi la convinzione della superiorità economica, culturale e morale dell’Europa presentata come “la più piccola fra le tre grandi parti del continente antico, essendo circa un terzo dell’Africa, e minore di un quarto dell’Asia; ma è la più potente e la più incivilita”.115 Seguiva un ampio discorso volto a convincere il lettore: “[…] superiore ad ogni altra parte del globo in ogni civile istituzione, esercitò sempre ed esercita ora più che mai una grande influenza politica sulle nazioni tutte del mondo, con cui trovasi in comunicazione per l’opportunità de’ suoi mari, per l’abbondanza de’ suoi golfi, per le numerose sue colonie, e per le spedizioni di ogni maniera, che essa intraprende. I suoi vascelli percorrono tutti i mari, e frequentano tutti i porti delle altre nazioni; […] i molti suoi fiumi navigabili, i numerosi suoi canali, le sue estese reti ferroviarie e le sue linee telegrafiche, fanno degli Stati suoi quasi una sola famiglia in continua relazione d’interessi scientifici, letterari, artistici e commerciali tra loro. Le numerose sue colonie propagano la civiltà europea oltre i confini di questa eletta contrada nel mondo e l’Asia, l’America e l’Oceania sono sotto la tutela sua o de’ suoi figli. La stessa Africa, che per i suoi deserti, per gli ardenti suoi soli, per le
E. COMBA, Breve corso di geografia teorico-pratica, cit., (1891), p. 16. Ivi, p. 64. 112 Ivi, p. 65. 113 Ibidem. 114 Ivi, p. 29. 115 Ivi, p. 95. 116 Ivi, pp. 103-104. 110 111
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feroci sue fiere parve inaccessibile ai più arditi viaggiatori, è cinta tutto all’intorno delle sue coste da colonie europee”.116
Si concludeva, quindi, questa lunga arringa dicendo che: “Perciò ben può dirsi dell’Europa, malgrado la sua poca estensione di territorio, è la dominatrice di tutto il mondo, sopra cui esercita la più benefica influenza in ogni ramo dell’umano incivilimento”.117
Anche in questo caso il grado di progresso culturale raggiunto dal continente europeo era contrapposto alla rozzezza degli altri popoli della terra, soprattutto degli indigeni africani che, si legge, per “la maggior parte sono ancora barbari” e “vivono quasi nudi”118; anche in Oceania vi erano “abitanti ancor selvaggi”119 e vari “tipi di animali stranissimi, come il canguro”, descritto come un “quadrupede che sta dritto e salta sulle gambe posteriori” e “l’ornitorinco, quadrupede che porta il becco come un uccello”.120 Abbondanti e rigogliose erano, al contrario, le Americhe “ricchissime in minerali, argento, oro, platino, rame, petrolio, ecc.”121 In Asia, infine, la flora e la fauna presentavano una grande varietà di elementi e vivevano abitanti con tratti di personalità diversificati: “l’Arabo vagabondo e l’Armeno trafficante, il Giapponese intelligente, semplice e frugale, ed il voluttuoso ed astuto Cinese, il Tartaro bellicoso e il pacifico indiano”.122 Il testo ebbe un ampio successo nella scuola, tanto da essere ristampato in modo pressoché uguale svariate volte123; nel 1895 vi furono perfino due edizioni: la ventisettesima124 identica a quelle precedenti e poi la
Ivi, p. 104. Ivi, p. 123. 119 Ivi, p. 126. 120 Ibidem. 121 Ivi, p. 125. 122 Ivi, p. 122. 123 Il manuale giunto alla ventiquattresima edizione nel 1891, ebbe certamente ancora una venticinquesima ed una ventiseiesima edizione nel 1893, una ventisettesima nel 1895 ed un’altra nel 1898. E. COMBA, Corso di geografia teorico-pratica corredato d’esercizi d’applicazione ad uso delle scuole elementari superiori venticinquesima edizione interamente riveduta e corretta dal Capitano G. Roggero, Prof. di geografia nel Collegio militare di Milano, arricchita di due carte geografiche e numerose incisioni, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1893; ID., Breve corso di geografia teorico-pratica corredato d’esercizi d’applicazione ad uso delle scuole elementari superiori ventiseiesima edizione interamente riveduta e corretta dal Capitano G. Roggero, Prof. di geografia nel Collegio militare di Milano, arricchita di due carte geografiche e numerose incisioni, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1893; ID., Breve corso di geografia teorico-pratica corredato d’esercizi d’applicazione ad uso della 4a e 5a classe elementare, nuova edizione condotta sulla quarantesima (1897) del Nuovo Corso, corretta dal Magg. G. Roggero, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1898. 124 E. COMBA, Breve corso di geografia teorico-pratica corredato d’esercizi d’applicazione ad uso delle scuole elementari superiori ventisettesima edizione interamente riveduta e corretta dal Capitano G. Roggero, Prof. di geografia nel Collegio militare di Milano, arricchita di due carte geografiche e numerose incisioni, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1895. 117 118
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ventinovesima125, riordinata sui programmi del 1894, con la stessa impostazione metodologica ed i medesimi contenuti disciplinari, anche se lo studio dell’Italia era soltanto nel “libro secondo”, quello per la V classe, così come stabilito dal ministro Baccelli. Altro elemento che merita di essere richiamato è il maggior spazio che in quest’edizione fu lasciato alla descrizione dei possedimenti e dei protettorati italiani in Africa: se fino a quel momento il libro di testo non prevedeva una sezione riservata alle colonie dell’Italia (salvo un episodico cenno)126; ora era assegnato all’argomento un intero paragrafo. Nei confronti delle terre africane a quel tempo possedute dall’Italia (colonia d’Eritrea ed il protettorato sull’oceano Indiano) nonostante l’indeterminatezza politica e l’improduttività di quelle terre, traspariva un atteggiamento propositivo e fiducioso nei confronti dell’avvenire; l’autore sembrava certo che quelle zone, soprattutto l’area affacciata sul mar Rosso, avrebbe portato alla nazione italiana un notevole guadagno, al punto da elencare i principali prodotti oggetto di diffusione. Riporto il passo significativo: “Il commercio della Colonia Eritrea, nello stato attuale delle cose, cioè coll’anarchia nel Sudan e la continua agitazione e rivolte nell’Abissinia settentrionale, certamente è poca cosa, e rare sono le carovane, che si sono arrischiate in questi anni di attraversare paesi in rivoluzione e giungere a Massaua; ma questo porto, naturale sbocco dell’Abissinia settentrionale e di una parte del Sudan, avrà in avvenire un grande sviluppo commerciale. I principali articoli di esportazione saranno le pelli, le penne di struzzo, l’indaco, le perle e madreperle, gomme, incenso, mirra, avorio e caffè”.127
Ciò che colpisce delle edizioni del primo Novecento del corso del Comba è certamente la grafica: nel 1901128 uscirono due nuovi volumi, rispettivamente per la quarta e la quinta classe che, pressoché identiche nel contenuto a quelle precedenti, presentavano tuttavia moltissime illustrazioni a colori oppure in bianco e nero e numerose cartine geografiche di D. Locchi, L. Hugues o G. E. Fritzsche. I due volumi si E. COMBA, Breve corso di geografia teorico-pratica corredato d’esercizi d’applicazione ad uso della IV e V classe elementare ventinovesima edizione interamente riveduta e corretta dal Capitano G. Roggero, Prof. di geografia nel Collegio militare di Milano, arricchita di due carte geografiche e numerose incisioni, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1895. 126 L’autore fece qualche vago riferimento alle colonie italiane nel continente nero quando presentando l’Africa dichiarò che “girando il capo Guardafui entriamo nel golfo d’Aden e, quindi, per lo stretto di Bab-el-Mandeb nel mar Rosso. Su questo mare l’Italia possiede un tratto di costa che si estende da Assab a Massaua”. Cfr. E. COMBA, Breve corso di geografia teorico-pratica, cit., (1891), p. 123. 127 E. COMBA, Breve corso di geografia teorico-pratica, ventinovesima edizione, cit., (1895), p. 114. 128 E. COMBA, Breve corso di geografia teorico-pratica ad uso della quarta classe elementare, nuova edizione condotta sulla 40a (1897) del Nuovo Compendio corretta dal Magg. G. Roggero, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1901; ID., Breve corso di geografia teorico-pratica ad uso della quinta classe elementare, nuova edizione condotta sulla 40a (1897) del Nuovo Compendio corretta dal Magg. G. Roggero, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1901. Nel 1902 uscì un’altra edizione del testo rivolto agli alunni della quinta sezione, realizzato, però, in-16°. Cfr. ID., Breve corso di geografia teorico-pratica ad uso della quinta classe elementare, nuova edizione dedotta dalla nuovissima edizione del Nuovo Compendio riveduto e corretto dal Magg. G. Roggero, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1902. 125
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presentavano subito in modo editorialmente accattivante: sul frontespizio erano stampati i principali argomenti di studio, quindi, per quello destinato agli scolari di quarta “il planiglobo”, per quelli di quinta una cartina dell’Italia. La spiegazione di ogni continente, ogni Stato d’Europa, come ogni singola regione italiana era sempre accompagnata dalla relativa carta geografica che, quasi sempre, occupava un’intera pagina. La scelta dell’editore di stampare i testi in-4°, ossia con un formato diverso rispetto a quello comunemente utilizzato (in-16°), nasceva forse dalla volontà di porre a disposizione della scolaresca di carte geografiche più grandi e più chiare. Su di esse, infatti, erano riportate le principali unità fisiche e politiche del territorio considerato ed i confini delle zone circostanti (fossero essi nazioni o regioni) erano segnati con elementi cromatici diversi. Questa scelte editoriali erano la testimonianza dell’avvenuto riconoscimento dell’importanza dello studio della geografia fin dalla scuola elementare nonché dei notevoli progressi raggiunti dall’editoria nella tecnica e nella grafica, soprattutto quella specializzata nella realizzazione del libro per la scuola, “alla cui confezione non si dedicavano [più] soltanto gli insegnanti-autori, ma anche i redattori, gli illustratori, i compilatori dei cataloghi e la cui realizzazione era subordinata ad una accurata valutazione economica”.129 Un altro libro di testo copiosamente utilizzato nelle scuole elementari per l’insegnamento-apprendimento della geografia sono gli Elementi di geografia130 di Giuseppe Borgogno131, giunti nel 1890 già alla diciannovesima stampa. Il testo, riveduto in G. CHIOSSO, Il libro per la scuola tra Otto e Novecento, in ID. (a cura di), Teseo: tipografi e editori-scolastico educativi dell’Ottocento, Milano, Editrice Bibliografica, 2003, p. XIV. 130 G. BORGOGNO, Elementi di geografia ad uso delle scuole elementari superiori, diciannovesima edizione accuratamente riveduta secondo i dati statistici più recenti, corredata di esercizi d’applicazione, d’incisioni e di tavole geografiche, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1890. Il manuale fu ristampato senza sostanziali modifiche ancora altre volte; cfr. ID., Elementi di geografia ad uso delle scuole elementari superiori, ventunesima edizione accuratamente riveduta secondo i dati statistici più recenti, corredata di esercizi d’applicazione, d’incisioni e di tavole geografiche, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1892; ID., Elementi di geografia ad uso delle scuole elementari superiori, ventiduesima edizione accuratamente riveduta secondo i dati statistici più recenti, corredata di esercizi d’applicazione, d’incisioni e di tavole geografiche, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1893; ID., Elementi di geografia ad uso delle scuole elementari superiori, venticinquesima edizione accuratamente riveduta secondo i dati statistici più recenti, corredata di esercizi d’applicazione, d’incisioni e di tavole geografiche, in conformità dei Programmi 29 novembre 1894, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1896. 131 G. Borgogno (1821-1892) oltre ad essere un maestro delle scuole elementari, per le quali pubblicò pure con fortuna molti libri scolastici, fondò insieme a C. Ferraris «L’Osservatore scolastico», un giornale didattico che uscì ininterrottamente dal 1865 al 1899. Pensato inizialmente come sussidio per aiutare gli insegnanti, dopo la morte del fondatore agli inizi degli anni ’90 la pubblicazione del giornale fu rilevata dall’editore Paravia che né tentò il rilancio, assorbendo nel 1894 anche «L’Istitutore», ma senza fortuna. Qualche informazione su Borgogno si trova nelle riviste «La Scuola Nazionale», a. III, n. 15, 16 gennaio 1892, p. 235; «L’Istitutore», a. XL, n. 15, 9 gennaio 1892, p. 240; «L’Osservatore scolastico», a. XXVII, n. 14, 9 gennaio 1892, p. 214. Per la ricostruzione delle vicende del periodico si rinvia a G. CHIOSSO, I giornali scolastici dopo l’Unità, in ID. (a cura di), Scuola e stampa nell’Italia liberale. Giornali e riviste per l’educazione dall’Unità a fine secolo, Brescia, La Scuola, 1993, pp. 7-47; ID. (a cura di), La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), cit., pp. 472-474. 129
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seguito all’emanazione dei programmi del 1888, aveva però mantenuto l’impostazione catechistica della prima edizione risalente ai primi anni Settanta.132 Nella sezione del testo intitolata “Etnografia e statistica”, la definizione che il maestro piemontese dava di quei popoli che potevano definirsi “civili”, cioè quelli che “hanno stabili dimore; attendono all’agricoltura, all’industria e al commercio; coltivano le lettere e le scienze; hanno un codice di leggi, una religione e una forma regolare di governo”133, trovava particolare riscontro con le caratteristiche degli abitatori del continente europeo. Non a caso, si leggeva che “nell’industria e nel commercio, come anche nell’incivilimento, l’Europa sta al di sopra di tutte le altre parti della terra”; in più vi era anche una sorta di graduatoria interna fra i diversi popoli d’Europa, dei quali “primeggiano gli Inglesi, i Tedeschi, i Francesi, gli Italiani, i Belgi”.134 Questa presunta superiorità tecnica, organizzativa, culturale e perfino morale degli europei legittimava la loro “corsa” alle colonie, giustificata addirittura da una speciale «missione salvifica» di quei popoli ritenuti culturalmente «inferiori». Alla domanda: D. Date alcuni cenni generali intorno all’Asia.
Seguiva la seguente risposta: R. L’Asia è la più vasta e la più popolata fra tutte le parti della terra. Essa è la culla del genere umano ed ivi un tempo fiorirono l’agricoltura, l’industria, le arti, le scienze, le lettere; ma ora è affatto decaduta dal primitivo splendore ed i loro popoli in quanto a cultura sono di gran lunga inferiori agli Europei”135
Inoltre, parlando delle confessioni religiose non cristiane più diffuse (bramanesimo, buddismo, ebraismo, islam, religione di Confucio), Borgogno rafforzava la considerazione del cristianesimo come fattore assolutamente centrale del processo di civilizzazione, ricordando come “i missionari con eroici sforzi” fossero riusciti ad introdurre anche la religione cristiana. Le innovazioni metodologiche introdotte nell’insegnamento della geografia da Gabelli indussero Borgogno a comporre un nuovo Compendio di geografia136, inizialmente concepito solamente per gli studenti della quinta classe elementare e delle preparatorie alle normali, ma poi destinato anche a coloro che frequentavano le
G. BORGOGNO, Elementi di geografia ad uso degli allievi delle scuole elementari superiori e della 1a tecnica, ginnasiale e normale, corredati di esercizi d’applicazione e di tavole geografiche, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1873. 133 G. BORGOGNO, Elementi di geografia ad uso delle scuole elementari superiori, cit., (1890), p. 56. 134 Ivi, p. 46. 135 Ivi, p. 48. 136 G. BORGOGNO, Compendio di geografia ad uso degli alunni della quinta classe elementare, delle scuole complementari, preparatorie alle Normali, Tecniche e Ginnasiali Inferiori, prima edizione secondo il metodo ciclico e conforme ai vigenti Programmi ministeriali, con carte geografiche e incisioni, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1890. 132
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scuole tecniche e del ginnasio. È sufficiente confrontare il numero delle pagine di questo nuovo manuale con gli Elementi di geografia (174 contro 56 pp.) per rendersi conto che quest’ultimo lavoro era certamente più aggiornato, completo e fornito di tante informazioni, che “se sufficienti pei primi, soverchiamente parche e concise sarebbero state per gli studiosi delle altre classi”.137 Oltre ad essere arricchito da un discreto apparato iconografico, alla fine vi era anche una apposita “appendice per le scuole secondarie”, che conteneva le nozioni fondamentali dell’astronomia e la spiegazione dei termini più comunemente utilizzati nella geografia fisica ed in quella politica. L’autore, in quanto «cittadino torinese», utilizzò il suo Comune per illustrare agli insegnanti primari come far conoscere agli alunni il proprio luogo natio. Il capoluogo sabaudo era descritto non solamente nei suoi simboli principali, come la “gigantesca” Mole Antonelliana, “forse il più alto edifizio d’Europa”138, ma presentato minuziosamente anche nelle sue piazze, vie e nei suoi monumenti d’interesse secondario. La maggior attenzione che l’autore mostrava per la sua regione, si coglie anche quando nel trattare dell’Italia ed, in particolare, delle province piemontesi citava come per tutte le altre, gli uomini illustri precisando, però, che per questi “se ne darà una più diffusa biografia nelle lezioni pratiche dell’Osservatore scolastico” 139, un periodico di lunga durata (nato nel 1865 e spento nel 1899), principalmente didattico, diretto dallo stesso Borgogno.140 Alla fine di ogni capitolo vi erano degli esercizi “di pratica applicazione”, alcuni dei quali alludevano più o meno esplicitamente ai territori sentiti come fortemente “italiani”, seppur ancora di dominio straniero: “Fatemi l’enumerazione ed una breve descrizione delle isole del Mediterraneo appartenenti realmente all’Italia, e di quelle che le appartengono solo geograficamente”.141 “Parlatemi dei domini stranieri in Italia, della loro posizione geografica, della forma di governo e della loro complessiva popolazione”.142
La superiorità della «civiltà europea», considerata unico vero «modello» di «cultura» è palese anche ne La patria dell’Italiano143 scritta da Pietro Fornari144 per gli
Ivi, prefazione. Ivi, p. 17. 139 Ivi, p. 31. 140 Per un approfondimento delle vicende del periodico si rinvia alla nota n. 131. 141 Ivi, p. 69. 142 Ivi, p. 70. 143 P. FORNARI, La patria dell’Italiano. Prime linee di geografia con ricordi storici, per la classe seconda e terza elementare e per le scuole rurali, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1888. 144 P. Fornari (1837-1923) nacque a Borgomanero (Novara), trasferitosi a Milano nel 1863 iniziò ad occuparsi dell’educazione dei sordomuti, dirigendo il Regio Istituto milanese e la scuola normale per l’istruzione dei medesimi. Il professore accademico partecipò a numerosi congressi internazionali e fu uno dei primi e dei più “caldi” sostenitori del metodo dell’Heiniecke, cioè dell’insegnamento orale dei sordomuti. Scrisse, dunque, numerosi libri per i soggetti con tale deficit, più altrettanti di letture amene, 137 138
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allievi della seconda e terza classe elementare e per le scuole rurali. L’autore, rifacendosi alla suddivisione del genere umano del Blumenbach di cui abbiamo già detto, affermava che senza dubbio l’Europa era “tutta incivilita”, e che “Italia fu già maestra di civiltà a tutta l’Europa”.145 Nonostante queste considerazioni, così come si può facilmente dedurre dal titolo del libro di testo, lo studio della geografia nella scuola elementare doveva avere lo scopo principale di far nascere nei giovani scolari un forte attaccamento alla nazione, presupposto indispensabile per formare dei futuri «cittadini italiani» disposti ad amarla ed a servirla fedelmente. Affinché ciò potesse verificarsi, secondo Fornari, era fondamentale “insegnare ai nostri fanciulli, quale è la Patria dell’Italiano”146; infatti, nella prefazione, nutrita di intensi sentimenti patriottici, l’autore constatava con dispiacere che “è doveroso il dirlo che i figli di quella parte di popolo che dà all’Esercito nazionale – Italiae columen et decus – il maggior contributo, quando partono per compiere il proprio dovere verso la Patria, ignorano dove vanno. Poche decine di chilometri intorno al loro paesello o, al più, di là dai limiti della loro provincia, per essi è bujo pesto”.147 Per evitare che lo studio della geografia, e principalmente dell’Italia, fosse solo “un malsano giuoco di memoria” era, dunque, necessario che il maestro non perdesse occasione di infondere negli alunni il sentimento d’italianità fin dalle prime attività didattiche sull’osservazione dell’ambiente di vita del bambino perché anche il contesto locale andava, secondo l’autore, sempre inserito nella realtà nazionale.148
educative ed istruttive. Collaborò e/o diresse diversi periodici come «L’adolescenza», «L’amico del sordomuto» che egli fondò e sostenne per due anni (1875-’76), «L’educatore italiano» da lui diretto per cinque anni (dal 1879 al 1884), «La guida dei maestri», «L’Istitutore», «La Scuola Nazionale» di Torino, «L’educazione dei sordomuti», la «Rassegna di pedagogia e didattica pei sordomuti» etc. Cfr. E. CODIGNOLA, Enciclopedia biografica, Enciclopedia biografica, serie XXXVIII. Pedagogisti ed educatori, Milano, E. B. B. I. Istituto Editoriale Italiano Bernardo Carlo Tosi, 1939, p. 207; A. MARTINAZZOLI, L. CREDARO (a cura di), Dizionario illustrato di pedagogia, Vol. I, Milano, Vallardi, [1894-1899], pp. 694-699; su «L’educatore italiano» si veda G. CHIOSSO (a cura di), La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), cit., pp. 262-263. 145 P. FORNARI, La patria dell’Italiano. Prime linee di geografia con ricordi storici, per la classe seconda e terza elementare e per le scuole rurali, cit., p. 11. 146 Ivi, p. 1. 147 Ibidem. 148 Riporto il passo nel quale l’autore sottolineò come la comunanza di alcuni elementi (lingua, abbigliamento, abitazione) dovessero essere il presupposto per far sentire i giovani scolari «italiani», o meglio ancora una «nazione». Così iniziava il primo capitolo: “La mia casa è dove io abito con la mia famiglia. Vicino alla mia casa e anche lontano ci sono altre case, le quali sono abitate da altre famiglie, uomini, donne e fanciulli. Questa gente veste come me e come i miei e parla come noi. Tutte queste case unite formano un paese. […] Fuori dal mio paese e intorno a esso è la campagna, poi vi son altri paesi con altre genti, cioè moltissimi villaggi, molti borghi e molte città. […] Orbene tutti questi luoghi o questi paesi dove si parla come parlo io, si trovano in ITALIA; e perciò tutti gli abitatori di essi sono Italiani. Così io sono Italiano, Italiani sono i miei genitori, i miei fratelli … L’Italia è la mia Patria, ed è la Patria di tutti gli Italiani, perché qui vissero e morirono i nostri padri”. Ivi, p. 3.
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A completamento di quest’opera Fornari compilò altri due volumi destinati agli allievi delle classi elementari superiori e delle prime delle tecniche.149 Il testo per la quarta classe, scritto con un registro linguistico segnato da maggior complessità, trattava principalmente dell’Italia che era presentata dettagliatamente (sotto l’aspetto politico, quello inerente gli sviluppi nelle comunicazioni e nelle produzioni). In particolare, il capitolo che riguardava la popolazione del regno, oltre a riportare i dati statistici recuperati dall’ultimo censimento compiuto dall’Istituto geografico italiano nel 1881, le cui tabelle erano facilmente consultabili perché allegate alla fine del testo, Fornari indicava anche il quadro della “popolazione italiana fuori del Regno” inserendo pure le cifre degli abitanti “italiani” che vivevano “nell’Istriano e Tirolo italiano”, nel “Canton Ticino”, nella “Corsica e nel Nizzardo”, a Malta, San Marino ed a Monaco. Ben cinque pagine, compresa una per la relativa cartina geografia, erano riservate alla “colonia d’Eritrea”: dopo aver narrato tutte le difficoltà incontrate dal governo italiano per poter ottenere, grazie al trattato stipulato con il negus Menelik (1889), il protettorato di quelle terre, si rendeva noto che “a questo punto si lavora laggiù, perché questo sarà il premio rimuneratore di tanti sacrifici fatti e da farsi”.150 Gli italiani dovevano “cooperare perché la riuscita, la vittoria sia più tosta”; questo era “il dovere di ogni buon cittadino”.151 L’autore profetizzando prosperità e ricchezza per la colonia italiana affermava che se il giro di costa che andava da Massaua fino alla baja di Assab era “sterile, bruciata da un sole africano senza un filo d’erba, non dà speranza di coltura alcuna”; tuttavia essa un giorno sarebbe divenuta “importante come sbocco del commercio africano, quando vi saranno strade e uno stato di sicurezza”.152 Si proseguiva ipotizzando che “dall’interno dell’Africa possono affluire a Massaua pelli, avorio, cera, gomma arabica, zibetto, oro ecc.”, mentre per importazione “si farebbe commercio di filati e tessuti di cotone”. Ad Asmara, posta sull’altopiano abissino ad occidente di Massaua, il clima più mite e perfino “aggradevole”
149 Cfr. P. FORNARI, La Patria dell’Italiano, ossia l’Italia esposta e descritta con ricordi storici per le classi elementari superiori e per la prime tecniche. Parte II per la quarta elementare, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1890; ID., La patria dell’Italiano, ossia l’Italia (Politica, amministrativa, Produttrice, ecc.) con l’Europa e le altre parti del mondo, per le classi elementari superiori e le prime tecniche, Torino, G. B. Paravia e Comp., 1892. L’intera operetta fu ritenuta dal professor G. Roggero “originale, bella, utile e patriottica”, che ne fu particolarmente colpito per “la proprietà e l’eleganza della lingua usata, poi per la semplicità e la chiarezza, ma più di tutto [da] quell’alto e vivo sentimento d’italianità, che spira da ogni frase e che fa battere sempre il cuore a chi ama veramente la nostra patria”. Cfr. G. ROGGERO, La Patria dell’Italiano di P. Fornari, in «La geografia per tutti», a. I, n. 14, 30 novembre 1890, p. 215. Sul manuale si vedano anche La Patria dell’Italiano di P. Fornari, in «L’Istitutore», a. XXXIX, n. 3, 18 ottobre 1890, p. 47; D. B., P. Fornari, la patria dell’Italiano, in ivi, a. XL, n. 8, 21 novembre 1891, p. 126. 150 P. FORNARI, La patria dell’Italiano, ossia l’Italia (Politica, amministrativa, Produttrice, ecc.) con l’Europa e le altre parti del mondo, cit., p. 18. 151 Ibidem. 152 Ibidem.
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ed i terreni “qua e là colla rigogliosa vegetazione selvaggia” promettevano “molto alla coltura”, ma solamente “quando l’intelligente nostro cittadino vi ponesse l’attiva sua mano”.153 Quanto al porto di Massaua si riferiva che “quando [noi italiani] vi piantammo la nostra bandiera, era veramente luogo inospitale, quasi tutto composto di luride capanne; oggi mutò aspetto, ché il suo porto è pieno di navi e di movimento, case decenti anche di muratura si specchiano nelle acque, furon riattaccate le dighe, si costruirono dei moli, un arsenale …” e, concludeva l’autore,“ci si vive anche benino essendo con molti comodi resa più facile la lotta contro il clima che, o piovoso o ardente, era micidiale agli Europei, che da tempo avevano detto Massaua un inferno”.154 Nell’illustrare le varie regioni e Stati d’Europa non mancava mai una descrizione della tipologia dell’abitante di quello specifico territorio; ad esempio, della Russia europea, insieme a quella asiatica si dichiarava che “è composta di genti di varie nazioni (Slavi, per lo più, Finlandesi, Valacchi, Mongoli ecc.), è pochissimo popolata e meno incivilita; ma per opera del governo via via progredisce”.155 Una buona descrizione era data dei paesi nordici: della penisola scandinava si diceva che “il clima è freddo, ma sano”, tanto che “vi si campa facilmente i cento anni”156; poi si specificava che in Norvegia ed in Svezia “gli abitanti sono poveri, ma pieni di ingegno e buon volere, sì che per l’istruzione, diffusa anche fra le ultime classi, la Scandinavia è fra le prime nazioni d’Europa”.157 Gli abitatori della regione iberica ed in particolare gli spagnoli “a cui l’italiano Colombo ha dato un Nuovo Mondo (America), furono già potentissimi, ricchissimi”, ma “ora è il rovescio”158; i portoghesi erano definiti “un popolo assai incolto e amante degli spettacoli, tra i quali pure il combattimento dei tori”.159 I belgi erano descritti come una popolazione “laboriosa”, mentre gli olandesi erano “gente molto ben istruita ed intrepidi navigatori”160; in Francia vivevano uomini “pieni d’ingegno, animo, raffinatezza”, anche se l’autore informava che vi era una discrepanza tra il ceto alto e medio, in cui era “estesa la cultura”, contrapposta alla plebe delle grandi città dove era “diffusa la corruzione” e quella delle campagne dominata “assai dalla superstizione”.161 L’Asia, che oltre ad essere “la culla del genere umano, come narra la Bibbia”, perché “colà e propriamente nella Palestina, nacque Gesù Cristo […] fu per lunghi secoli l’emporio unico dell’Europa, ed è ancora per molte cose”162 come sete, lane,
Ibidem. Ivi, p. 19. 155 Ivi, p. 61. 156 Ibidem. 157 Ivi, p. 62. 158 Ivi, p. 66. 159 Ivi, p. 67. 160 Ivi, p. 70. 161 Ivi, p. 68. 162 Ivi, p. 81. 153 154
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incensi, aromi e tanti altri tipi di spezie provenienti soprattutto dall’India, dal Giappone e dalla Cina. Di quest’ultima, oltre a dire che gli abitanti “sono tutti industriosissimi” Fornari rivelava anche “il singolare costume dei Chinesi di radere ai maschi la testa, eccetto sul cocuzzolo, dove s’intreccia un codino, e di storpiare i piedi alle ragazze, tenendoli piccoli sì da non poter camminare!”.163 In più, informava anche che i giapponesi “ingegnosi ed industriosi assai […] dal 1863 si sono messi ad imitarci e gareggiare con noi [europei] nelle istituzioni, in ferrati, telegrafi, opifici, negli studi, nelle case, e fin nel modo di vestire”.164 Pure nelle Prime nozioni di geografia165, pubblicate con la sigla A. & C. a cura della Congregazione dei Fratelli delle Scuole Cristiane della Provincia religiosa di Torino per gli alunni del corso elementare superiore, il vecchio continente era mostrato come “superiore” per civiltà, progresso economico e potere politico a qualunque altra parte del globo terrestre. L’operetta, pubblicata presso la casa editrice Paravia e la Libreria Scolastica di Grato Scioldo con cui i Lasalliani avevano contratti di vendita esclusiva, dopo tre brevi capitoli di chiarimento delle fondamentali nozioni geografiche illustrava l’Europa nei suoi caratteri naturali principali. Il manuale, forse riedito da un’opera di metà Ottocento166, continuò ad essere stampato ancora nella prima metà del Novecento, con alcune modificazioni per renderlo aggiornato ai nuovi ordinamenti scolastici, che si susseguirono a cavallo dei due secoli. Nel 1907 uscì una nuova edizione riveduta e migliorata delle Prime nozioni di geografia167, smembrata in due volumi, rispettivamente per la quarta e la quinta classe. Per facilitare lo studio della geografia i Fratelli piemontesi corredarono l’opera pure di un Atlante geografico168, composto da dieci carte accuratamente miniate ed a colori sui cinque continenti, l’Italia, più un planisfero.
Ivi, p. 82. Ivi, p. 83. 165 A. & C., Prime nozioni di geografia per le scuole elementari superiori, secondo il vigente programma governativo, pubblicate da A. & C., Torino, presso G. B. Paravia e Comp. e Libreria Scolastica di Grato Scioldo Editore, 1890. 166 L’opera di metà Ottocento a cui forse i Fratelli fecero riferimento è l’Introduzione allo studio della geografia, ovvero Prime lezioni di geografia, applicate specialmente alla città e provincia di Torino, ad uso degli allievi della prima e seconda elementare, per un Fratello delle Scuole Cristiane, Torino, Stamperia Sociale degli Artisti Tipografi, 1850. 167 A. & C., Prime nozioni di geografia con Atlantico geografico, secondo i vigenti programmi governativi. Parte I, classe IV, XV edizione riveduta e migliorata, Torino, ditta G. B. Paravia a Comp. e Libreria Scolastica di Grato Scioldo, 1907; ID., Prime nozioni di geografia con Atlantico geografico per le classi elementari superiori, secondo i vigenti programmi governativi. Parte II, classe V per le classi elementari superiori, XV edizione riveduta e migliorata, Torino, ditta G. B. Paravia a Comp. e Libreria Scolastica di Grato Scioldo, 1907. 168 Atlante geografico ad uso delle scuole primarie, contenente dieci carte accuratamente miniate, pubblicate da A. e C., Torino, presso G. B. Paravia e Compagnia e Libreria Scolastica di Grato Scioldo editore, 1906. 163 164
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Del resto i Lasalliani erano particolarmente esperti nelle pratiche di insegnamento. Già a metà Ottocento, infatti, in un testo destinato agli alunni delle prime due classi elementari, anticipando di alcuni decenni i programmi successivi, dichiaravano che non vi era da meravigliarsi nel trovare “dei giovinetti che dopo aver studiato per più e più anni una qualche scienza, per esempio la geografia, poco o niente ne sanno”.169 La causa di questo difetto d’istruzione era da individuare, secondo i Fratelli, “nel modo con cui furono date le prime lezioni di questa scienza al fanciullo, anzi che nella incapacità di lui. Infatti, se per dare le prime lezioni di geografia, s’incomincia dal far imparare a memoria una lunga filza di vocaboli, sempre dimenticati man mano vengono appresi, perché non mai percepiti, oppure se s’incomincia da nozioni troppo superiori alla capacità del fanciullo, come sarebbe, per esempio, il voler partire da nozioni di cosmografia o di astronomia, dalla geografia generale dell’Europa, ecc. qual vantaggio puossi mai attendere da una tal maniera di procedere?”.170 Era invece “sul suolo natio che si [doveva] ricevere la prima lezione di geografia”; ossia il fanciullo doveva dapprima “con riflessione raccogliere intorno a sé tutto ciò che lo circonda, affine di procacciarsi i punti di comparazione di cui avrà bisogno per l’avvenire, onde rappresentarsi la terra ed il genere umano che l’abita, ed ancora affinché il fanciullo cominci a conoscere ed amare la sua patria, prima di trasportarsi in lontani paesi”.171 Inoltre, sarebbe stata “cosa ottima, prima di dar principio alle lezioni, di condurre, se si può, la scolaresca su qualche luogo eminente, e da quello far osservare la città col territorio che lo circonda […] lo scopo non deve essere soltanto quello di dare le prime cognizioni di una scienza tanto dilettevole quanto utile, anzi necessaria a conoscersi, ma si applicherà, quando le circostanze si presenteranno, a sviluppare e coltivare nei fanciulli i primi germi dell’amor patrio, che in questo tempo più che in ogni altro vuolsi infondere nel cuore della gioventù colla massima sollecitudine, affine di formare giovani che amino veramente la loro patria, la servano e ne facciano un giorno il decoro e la gloria”.172 Questi convincimenti pedagogici avevano portato i Lasalliani a comporre, fin dalla metà Ottocento, dei manuali scolastici allo scopo di insegnare in forma elementare la geografia. Partendo dall’Introduzione allo studio della geografia173, testo attraverso il quale il piccolo scolaro era accompagnato nella conoscenza del suo ambiente di vita (pianta della casa, della città di Torino, dei suoi dintorni e della provincia pie-
169 Introduzione allo studio della geografia, ovvero Prime lezioni di geografia, applicate specialmente alla città e provincia di Torino, cit., p. 3. 170 Ivi, p. 4. 171 Ibidem. 172 Ivi, pp. 5-6. 173 Introduzione allo studio della geografia, ovvero Prime lezioni di geografia, applicate specialmente alla città e provincia di Torino, cit.
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montese), si proseguiva con il Nuovo compendio di geografia fisica, storica e commerciale174 dove, dopo alcune essenziali nozioni sulla nomenclatura geografica, gli alunni si calavano nello studio dell’Italia (ancora suddivisa in otto distinti Stati), dell’Europa e degli altri continenti. La ferma convinzione che lo studio della geografia doveva “senza dubbio cominciar dal suolo natio, dalla descrizione cioè della propria abitazione, ed estendendo mano a mano le idee, si sale sino alla cognizione della pianta della città, della provincia ecc.”, aveva portato i Fratelli a comporre La geografia descrittiva degli Stati Sardi175 pensata appositamente per “il giovinetto piemontese”176 e completata dall’utilizzo dell’Atlante geografico177, molto curato nella grafica. Tornando, ora, alle Prime nozioni di geografia178 nella ventesima edizione pubblicata nel 1917, appare interessante richiamare la presentazione suggerita dai Lasalliani delle “razze umane”, poiché in essa, sebbene anche qui ricorra la classificazione elaborata da J. F. Blumenbach, si coglie tuttavia qualche lieve variante legata all’impostazione cristiana. Così si ricordava che “Gli uomini discendono tutti dall’unico tipo, Adamo creato da Dio; tuttavia la stirpe umana si andò modificando a seconda dei diversi climi, usi e costumi, e per varie altre cause inerenti alla natura umana. Di qui la classificazione degli uomini in cinque principali razze”.179
Tra queste “la razza caucasica o bianca” era innegabilmente “la più nobile”.180 L’Europa, del resto, nonostante fosse “la più piccola fra le divisioni dell’antico continente e delle cinque parti del mondo, era indubbiamente “la più potente, la più incivilita, la più industriosa e la più popolata”.181
5. Arcangelo Ghisleri e l’anticolonialismo italiano A mano a mano che la politica italiana si avventurava, non senza qualche incertezza e dubbio, sulla strada delle conquiste coloniali, andò precisandosi e prendendo
Nuovo compendio di geografia fisica, storica e commerciale per un Fratello delle Scuole Cristiane, seconda edizione, Torino, Stamperia Sociale degli Artisti Tipografi, 1850. 175 Geografia descrittiva degli Stati Sardi per un Fratello delle Scuole Cristiane, Torino, Stamperia Sociale degli Artisti Tipografi, 1850. 176 Ivi, pp. 3-4. 177 Atlante geografico contenente 23 carte miniate per lo studio del Nuovo compendio di geografia e della Geografia descrittiva degli Stati Sardi, per un Fratello delle Scuole Cristiane, Torino, presso i cugini Pomba e Comp., 1850. 178 A. & C., Prime nozioni di geografia per le classi elementari superiori, secondo i vigenti programmi governativi. Parte I, classe IV, XX edizione riveduta e migliorata, Torino, ditta G. B. Paravia e Comp. e Libreria Scolastica di Grato Scioldo, 1917. 179 Ivi, p. 9. 180 Ivi, p. 10. 181 Ivi, p. 11. 174
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forza anche una certa reazione anticolonialista. Quest’ultima per convinzione propria, per delusioni sociali, economiche o militari, oppure per semplice desiderio di vedere prima compiuta l’unità nazionale avviata con il Risorgimento, si delineò sin dalla prima occupazione coloniale italiana, prendendo via via consistenza in seguito alle difficoltà incontrate in Africa, alle stesse vicende politiche interne italiane e dal nascere di nuovi partiti e di movimenti di opinione pubblica lontani da simili «avventure».182 Non mancarono, infatti, nel Paese anche opposizioni, per quanto di minoranza sostenute da uomini di cultura preoccupati delle conseguenze che una politica avventurosa avrebbe determinato nella vita interna del Paese e nei rapporti internazionali.183 Fu soprattutto il gruppo dei repubblicani, capeggiato dal geografo e storico Arcangelo Ghisleri184 e dai collaboratori della sua rivista «Cuore e Critica», a manifestare un forte dissenso. Il gruppo del Ghisleri si schierò contro uno dei cavalli di battaglia dei filo-colonialisti e cioè il presunto incivilimento delle popolazioni locali da parte degli europei e si schierò, invece, a favore del rispetto razziale e dell’autonomia dei valori etnici, rivalutando il “mondo nero”, proprio sulla base dei criteri di rispetto della nazionalità che aveva fatto «una» l’Italia, e che doveva rappresentare un punto fermo di una politica e di una diplomazia da ritenersi valida non solo per i popoli
I contrasti e le polemiche che si verificarono sin dalla prima occupazione coloniale italiana, fino alla sconfitta di Adua (1896) sono ben delineati in R. RAINERO, L’anticolonialismo italiano da Assab ad Adua (1869-1896), Milano, Edizioni di Comunità, 1971, in particolare dal cap. I al IV e dal cap. VI al VIII. 183 Tra le voci di dissenso all’impresa coloniale in Libia si ricordano L. Castani, L. Einaudi, L. Luzzatti, G. Mosca ed U. Ojetti. Per un approfondimento si rimanda a A. DEL BOCA, Gli italiani in Libia. Tripoli bel suol d’amore 1860-1922, Vol. I, Bari, Laterza, 1988, in particolare le pp. 60-64; F. MALGERI, La guerra libica (1911-1912), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1970, pp. 67-96; sulla posizione assunta dai diversi partiti politici (principalmente socialisti e cattolici) si veda ivi, le pp. 203266; R. RAINERO, L’anticolonialismo italiano da Assab ad Adua (1869-1896), cit., pp. 43-79. 184 A. Ghisleri (1855-1938) dedicò buona parte della sua vita al giornalismo fondando e/o dirigendo varie testate politiche come «Il Preludio», «Il Risveglio», la «Rivista Repubblicana», «Cuore e Critica» (poi «Critica sociale»), «La educazione politica» e «L’Italia del Popolo». Abbandonò poi quasi completamente l’attività politica giornalistica per dedicarsi alla geografia, vista sia sul piano della ricerca, sia su quello della didattica. L’opera che in questo ambito gli diede popolarità fu la serie dei Testi atlanti di geografia destinati ai vari ordini di scuole, a cui affiancò la rivista «La geografia per tutti» nata nel 1891 e «Le comunicazioni di un collega» sorta nel 1894 con l’intento di dare agli insegnanti di geografia tempestive informazioni sui progressi della ricerca geografica, oltre che per incrementarne ed aggiornarne la preparazione. Sulla figura di A. Ghisleri vi è una copiosa letteratura, mi limito a segnalare A. BENINI, Arcangelo Ghisleri. Saggio di bibliografia, Cremona, Athenaeum Cremonese, 1970; G. CONTI, Arcangelo Ghisleri. Democrazia in azione. Scritti politici e sociali, Roma, Casa editrice italiana, 1953; L. GIUDICE, Arcangelo Ghisleri, Roma, Quaderni di cultura repubblicana, P. R. I., 1963; M. TESORO, Democrazia in azione: il progetto repubblicano da Ghisleri a Zuccarini, Milano, Franco Angeli, 1996. Sul movimento social-radical-repubblicano si veda L. BULFERETTI, Le ideologie socialistiche in Italia nell’età del positivismo evoluzionistico (1870-1892), Firenze, Le Monnier, 1951. Su «Le comunicazioni di un collega» si veda G. CHIOSSO (a cura di), La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1923), cit., in particolare le pp. 194-195. 182
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europei, bensì per tutti i popoli del mondo senza distinzione di colore o di religione.185 La questione del rispetto delle razze africane non era certamente nuovo alla polemica coloniale italiana ed europea; essa era stata sollevata a varie riprese nel corpo di studi precedenti o di opere politiche più ampie da Ulisse Barbieri186, Dario Papa187, Policarpo Petrocchi188, Eduardo Cimbali189 ed altri che, però, lo avevano spesso confuso tra gli argomenti politici, economici e militari della loro polemica legata all’episodio di Dogali (1887). Fu il Ghisleri che, nel rifarsi indirettamente alla polemica Prati-Turati190, esaminò approfonditamente il problema: la sua polemica prese spunto, in particolare, dalla prolusione letta da Giovanni Bovio191 nell’aprile del 1887 nell’Università di Napoli a proposito del «Diritto pubblico e le razze umane»192 che ripeteva quanto lo stesso deputato dell’estrema sinistra aveva affermato fin dal 1885; cioè il “non esservi un diritto della barbarìe” ed esservi, invece, “per la razza civile” un preciso diritto e dovere di espandere tale civiltà “per ingentilire o elimi-
Cfr. R. RAINERO, L’anticolonialismo italiano da Assab ad Adua (1869-1896), cit, in particolare le pp. 159-201. 186 U. Barbieri (1842-1899) fu garibaldino, socialista, libertario, anarchico ed anticlericale italiano. Nel 1887 pubblicò a Lugo un libretto di versi intitolato Ribellione che dedicò provocatoriamente al negus d’Abissinia ed al ras Alula, “difensori della libertà africana” contro l’Italia colonialista. Collaborò con diversi giornali socialisti e anarchici e, tra il 1887 e il 1888, diresse a Genova il settimanale socialista «Combattiamo!» che subì innumerevoli sequestri. Su U. Barbieri si veda la voce curata da A. ASOR ROSA, in Dizionario biografico degli italiani, Vol. VI, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1964, pp. 240-242. 187 D. Papa (1846-1897) dedicò la sua vita al giornalismo ed alla politica. Fu redattore de «l’Italia Agricola», il «Sole», la «Perseveranza», il «Pungolo»; poi direttore dell’«Arena di Verona», e nel 1881 divenne anche caporedattore del «Corriere della sera». Dal 1884 al 1889 diresse il giornale «L’Italia»; nel 1890 fondò il quotidiano «L’Italia del Popolo» che coordinò fino alla morte; infine nel 1894 fu tra i fondatori del Partito repubblicano lombardo. Cfr. A. BANDINI BUTI, Dario Papa, in Aspetti e figure della pubblicistica italiana. Atti del convegno organizzato dall’Associazione mazziniana italiana a Torino il 13-14 ottobre 1961, (s. l.), (s. d.), pp. 59-65; O. CIPRIANO, L’anima e la coerenza di Dario Papa: Breve studio commemorativo, Milano, Tip. Dell’Italia Del Popolo, 1898. 188 P. Petrocchi (1852-1902) fu scrittore, filologo ed italianista convinto; dedicò la sua vita all’insegnamento e agli studi filologici con l’edizione di un celeberrimo vocabolario (pubblicato a dispense fra il 1884 ed il 1890 a Milano dalla Casa editrice dei Fratelli Treves e ristampato più volte successivamente fino al 1931). 189 E. Cimbali (1862-1934) fu avvocato, professore di Diritto Internazionale alle Università di Macerata, Sassari e Catania. Fu pubblicista fecondo di opere e saggi sulla sua materia di studio. Cfr. B. BUSACCA, in Dizionario biografico degli italiani, cit., Vol. XXV, pp. 553-556. 190 Cfr. Polemica africana. Darwin a Saàti, in «Cuore e Critica», a. I, n. 3, marzo 1887, pp. 40-43; Polemica africana. Risposta a Filippo Turati, in ivi, a. I, n. 3 bis, aprile 1887, pp. 67-68. 191 G. Bovio (1837-1903) fu un filosofo e politico italiano, uno dei teorici dell’ideologia repubblicana e deputato al Parlamento italiano. Cfr. G. ANGELINI, Studi e ricerche su Giovanni Bovio: contributo per un bilancio storiografico, s. l., Edizioni di Archivio trimestrale, 1980; A. SCIROCCO, in Dizionario biografico degli italiani, cit., Vol. XIII, pp. 552-556; C. ZANGARINI, In morte di Giovanni Bovio: Faenza 19 aprile 1903, Faenza, Premiata Tipografia Sociale, 1903. 192 Cfr. Il Diritto pubblico e le razze umane, Napoli, cav. Ant. Morano editore, 1887. 185
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nare le razze selvatiche” con qualsiasi mezzo: “la civiltà si espande come può, dove con la scienza, cioè in se stessa, e dove con la violenza, cioè oltre di sé”.193 Il testo della diatriba repubblicana comparsa dapprima sulla rivista mensile «Cuore e Critica»194 ed in seguito raccolta in un volumetto edito dallo stesso Ghisleri a Savona nell’aprile del 1888 col titolo Le razze umane e il diritto nella questione coloniale195 era abbastanza chiaro: ad un diritto dei popoli ritenuti più evoluti sostenuto dal Bovio a danno dei popoli di civiltà «inferiore», Ghisleri oppose il riconoscimento della piena parità dei diritti tra tutti i popoli europei e non “ad onta delle disparità etnografiche, geografiche, economiche, religiose e intellettuali del genere umano”.196 Le tesi del Ghisleri, tuttavia, non raccolsero un consenso così ampio tale da poter incidere davvero nel senso della revisione della politica coloniale, neppure a livello di opinione pubblica: secondo il Battaglia non restò, pertanto, al Ghisleri “che abbandonare a questo punto il campo … e ritornare al suo campo prediletto, quello storico geografico al di fuori del quale si era lasciato incautamente attrarre”.197 Il nome del Ghisleri è, in effetti, soprattutto legato alla sua attività di autore di testi e in specie atlanti storici e geografici. L’analisi delle sue convinzioni politiche è parsa necessaria per cogliere appieno le novità della sua produzione per la scuola. Sebbene i suoi testi fossero generalmente destinati agli studenti delle scuole secondarie, alcune sue opere sono considerate in questa sede, poiché consentono di constatare come nella scuola tra fine Otto-inizio Novecento fossero adottati anche testi non necessariamente a favore della campagna nazionalistica e coloniale sostenuta dal governo italiano. Nell’Atlante d’Africa 198, ad esempio, era presentata una descri-
Cfr. A. GHISLERI, Le razze umane e il diritto nella questione coloniale, seconda edizione con l’aggiunta di un capitolo sui “Negri agli Stati Uniti”, Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1896, pp. 4 e 11. 194 Cfr. A. GHISLERI, Il Diritto e le razze (punti dubitativi proposti all’On. Bovio), in «Cuore e Critica», a. I, n. 6 bis, luglio 1887, pp. 117-124; ID., Le razze e il diritto (replica all’On. Bovio), in ivi, a. II, n. 1, gennaio 1888, pp. 8-15; ID., Le razze e il diritto, in ivi, a. II, n. 2, febbraio 1888, pp. 26-27; ID., Le razze e il diritto (replica all’On. Bovio), in ivi, a. II, n. 4, aprile 1888, pp. 50-62; ID., Le razze e il diritto, in ivi, a. III, n. 5, aprile 1888, pp. 71-76. 195 A. GHISLERI, Le razze umane e il diritto nella questione coloniale, seconda edizione con l’aggiunta di un capitolo sui “Negri agli Stati Uniti”, Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1896. Il manuale fu recensito dalla «Rivista geografica italiana». Cfr. G. MARINELLI, Ghisleri A. Le razze umane e il Diritto della Questione Coloniale, in «Rivista geografica italiana», a. III, fasc. VII, luglio 1896, p. 423. 196 A. GHISLERI, Le razze umane e il diritto nella questione coloniale, cit., p. 15. 197 R. BATTAGLIA, La prima guerra d’Africa, Torino, Einaudi, 1958, p. 337. 198 A. GHISLERI, Atlante d’Africa, 36 tavole colorate con 200 pagine di testo di notizie geografiche, economiche e statistiche, illustrate da 160 cartine di dettaglio e piante topografiche disegnate in base agli ultimi dati degli esploratori, Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1909. L’atlante fu recensito su «Le comunicazioni di un collega», rivista diretta dallo stesso A. Ghisleri. Cfr. C. COLAMONICO, A. Ghisleri. Atlante d’Africa, in «Le comunicazioni di un collega», a. XVI, nn. 115-116, ottobredicembre 1910, pp. 234-238. Per un approfondimento sull’Atlante d’Africa, ma anche sui numerosi altri atlanti che furono editi tra il XIX ed il XX secolo si rimanda a E. CIMA, Mappa et imago mundi. Gli atlanti in Italia tra Otto e Novecento, cit., pp. CXIII-CXXVIII. 193
L’insegnamento della Geografia e la costruzione dell’identità nazionale
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zione minuziosa del continente nelle sue componenti naturali, economiche e nella sua suddivisione politica; più una quindicina di pagine sulla storia dell’Africa. Nell’illustrare le attività agricole, commerciali ed industriali, così come l’organizzazione governativa del continente nero, spesso, si poteva cogliere la posizione dell’autore riguardo l’occupazione e la conquista europea di queste terre. Nel presentare le razze e le stirpi dei popoli africani Ghisleri dichiarava che non tutti gli indigeni avevano i lineamenti individuati da Blumenbach, cioè la pelle nera e lucida, le labbra carnose, le mascelle sporgenti, la faccia piatta, il naso schiacciato con larghe narici, i capelli lanosi e arricciati che erano ordinariamente attribuiti a tutti gli africani. A sostegno della sua tesi il Ghislieri portava prima l’esempio dei Mombuttù che vivevano tra il bacino dell’alto Nilo e quello del Congo che “spiccano per una tinta quasi chiara, la barba abbastanza copiosa, il naso dritto o aquilino”, poi specificava che fra loro, sovente, vi erano individui “coi capelli d’un biondo cinereo”.199 Seguiva un lungo elenco delle varie popolazioni locali (semiti, boscimani, pigmei etc.) volto ad evidenziare la varietà dei tratti fisici e culturali di quelle genti. Inoltre, sebbene fosse ancora poco nota la storia di quei popoli, l’autore sosteneva che “era opinione errata quella che immaginava il continente popolato da veri selvaggi”, poiché, ad eccezione dei pigmei e dei boscimani “rimasti allo stadio dei popoli cacciatori, le popolazioni indigene africane vivono tutte di agricoltura, per quanto primitiva, o dell’allevamento del bestiame”.200 In controtendenza, contro l’elogio della terra libica quale terra adatta ad accogliere l’immigrazione italiana, il Ghisleri poneva in evidenza gli scarsi profitti delle industrie e del commercio dei possedimenti coloniali italiani: la Tripolitania e la Cirenaica avevano terre aride e clima infausto e, quindi, non favorivano lo sviluppo agricolo ed industriale201; così come in Etiopia, dove l’industria, a quel tempo “è nulla e produce appena gli oggetti di prima necessità per il consumo del paese”.202 Gli etiopi, ritenuti “valorosi ed intelligenti”, erano apprezzati anche per la bellezza estetica delle loro forme: “[…] razza mista, relativamente omogenea, i cui distintivi sono la statura media (m 1,65 per gli uomini, m 1,51 per le donne), la bellezza del tronco, la testa allungata, la faccia fine, senza prognatismo, i lineamenti regolari, il naso molto stretto, le labbra piuttosto grosse e il mento ben disegnato. La pelle dell’Abissino ha un colorito bronzino, talvolta chiaro, tal altra scuro; ed i capelli, sempre neri, sono quasi lisci od appena ricciuti, quando non sono stati pettinati”.203
L’indigeno abitante della Somalia italiana era così presentato: “Il somalo in genere è alto, snello, di fattezze piuttosto regolari; è ottimo camminatore, sobrio,
A. GHISLERI, Atlante d’Africa, cit., p. 21. Ivi, p. 28. 201 La regioni della Tripolitania e della Cirenaica sono presentate in ivi, alle pp. 44 a/h. 202 Ivi, p. 132 b. 203 Ivi, p. 132 a. 199 200
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Patrizia Savio ma di scarsa forza muscolare. L’indole dei Somali è piuttosto mite, aliena delle effusioni di sangue tra di loro; diventano fieri col forestiero. Li caratterizza lo spirito d’indipendenza, avverso a qualunque costrizione e disciplina, lo sprezzo della morte, il coraggio di affrontare le fiere. Avidi dell’unica ricchezza, rappresentata per loro dal bestiame, sono rapinatori, nomadi, dediti alla pastorizia; ignorano quasi totalmente l’agricoltura; e la mancanza di braccia e la difficoltà di piegare gl’indigeni al lavoro agricolo costituiscono il maggiore ostacolo alla colonizzazione”.204
La totale e decisa avversione che Ghisleri manifestò nei confronti dell’impresa coloniale italiana, tuttavia, non gli impedì di mostrare un forte sentimento patriottico nei confronti della nazione, tale da sostenere l’annessione delle terre «italiane» ancora di dominio straniero, come il Trentino, il Friuli, il Goriziano e l’Istria che “le dominazioni a cui andarono soggette, nelle vicende storiche dei varii secoli […] non hanno mai menomato l’italianità”205 di quei luoghi, al punto da dichiarare: “sfidiamo a trovarci uno scrittore di qualsiasi secolo o nazionalità, che ci parli di Trieste, di Pola, dell’Istria come di paesi non italiani”.206
Ivi, p. 143. A. GHISLERI, L’Istria italiana e la tradizione perenne, con cinque carte geografiche, Bergamo, Officine dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1918, p. 12. 206 Ivi, p. 8. 204 205
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Cómo ser educador mediador ¿Qué aporta la EAM a la pedagogía del profesor en el aula? LORENZO TÉBAR BELMONTE Ser profesor es una bella ‘profesión’ Y ser educador es un sagrado ‘quehacer’. También hoy; especialmente hoy. O. González de Cardedal
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a educación es un camino interminable, un arduo camino hacia una meta llamada utopía, una tarea de toda la sociedad, una misión noble. A lo largo de la historia las experiencias educativas, impulsadas por diversos carismas, han dejado referentes imprescindibles que hoy todavía siguen aportándonos luz. Al preguntarnos cómo ser maestros hoy, podemos encontrar preciosas respuestas que nos dan perfiles de profesor ideal, de maestros deslumbrantes, de creadores de escuelas que son hitos para el presente. Vamos a responder en esta cuestión con un modelo que compendia y resume muchos de los rasgos del maestro, profesional de la enseñanza, de la educación, del desarrollo potencial de los educandos, que marca un estilo de relación e interacción educativas, pero que genera un modelo capaz de generar autoestima y motivación a los educadores de hoy, para dinamizar sus aulas, sus escuelas.: El paradigma mediador, en el que la Experiencia de Aprendizaje Mediado (=EAM) resume todo un estilo docente, inspirado en el modelo pedagógico del Prof. Reuven Feuerstein.
1. Ser maestro en una sociedad en constante cambio Alguien, con malévola intención o por ignorancia, se atrevió a profetizar que, con la invasión de las nuevas tecnologías en el mundo de la educación: “los maestros tenían los días contados”… Seguramente que este agorero no tenía muchas luces sobre la esencia y trascendencia de la educación. La vida nos está mostrando la imprescin-
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dible labor de los padres y educadores en la formación integral de cada ser humano y que la humanización y forja de actitudes, los valores y la responsabilidad ética no se logran sino a través de la interacción de cada persona con su entorno cultural, que las dimensiones formativas son enormemente complejas, como corresponde al desarrollo potencial y la realización más completa de cada ser. “A través de los otros llegamos a ser nosotros mismos”, nos enseña Vygotski. Los desafíos de la sociedad del conocimiento, impulsados por la globalización y la revolución digital, entre otros movimientos, nos hace caminar en un mundo cada vez más incierto, en el vértigo del cambio. El horizonte que se está abriendo ante nuestros ojos es cada día más inabordable por la mente humana. Las enormes posibilidades que la suma del saber ha alcanzado hasta llegar al milenio en que vivimos, nos obliga a contemplar el futuro con enorme perplejidad. De ahí que la educación haya vuelto a plantearse como la panacea para afrontar la plétora de saberes y abrir al ser humano al sentido de su existencia. El aprender a lo largo de la vida se ha transformado en norma ineludible para una educación con visión de futuro. Pero esta inapelable realidad del cambio estructural de la que hablan los sociólogos, economistas y politólogos, nos lleva a los educadores a replantearnos nuestras seguridades y los paradigmas que fundamentan nuestra acción docente. Escuelas y educadores estamos en entredicho, porque no hemos asimilado el ritmo del progreso de nuestra sociedad. Ni las escuelas ni los educadores son ya los depositarios únicos del saber. El acceso a las fuentes del saber ha sido una irreversible y venturosa revolución para la humanidad. Pero esa misma evolución, crecimiento y obsolescencia de los saberes, junto con los nuevos métodos e instrumentos de acceso, imponen a la escuela una profunda revisión de sus fines y estructuras. La escuela necesita, con toda urgencia, una actualización y puesta al día en su proyecto educativo, para responder a los innumerables retos que le plantea una sociedad lanzada hacia una transformación imparable e irreversible. Los paradigmas que hasta hoy han fundamentado y dado vigor a las instituciones educativas deben ser revisados, pues toda acción trascendente debe tener bien fundamentados los principios y las metas que orientan su quehacer formador. Por aquí vendría un primer planteamiento didáctico de la revisión de la estructura escolar, por la pregunta a los educadores sobre sus principios, sus fines, sus métodos, los contenidos, las competencias y valores que apuntan en su bitácora de aula. Para todo ello es preciso revisar las bases antropológicas, psicopedagógicas, sociales, axiológicas, etc., que sustentan sus principios educativos. La crisis de la familia, el modelo de trabajo y la profesionalización de los cometidos educativos, necesitan echar mano del maestro, del educador, para completar la formación de los hijos, iniciada en el hogar. Familia y escuela se deben poder dar la mano en el maestro mediador.
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2. El paradigma mediador como propuesta No podemos exigir el cambio educativo si no fundamentamos los pilares del nuevo paradigma o reciclamos sus principios que den sentido y orienten una acción tan sumamente compleja como es la educación, que prepare para una vida digna, llena de sentido, implicada responsablemente en la transformación de la sociedad, pero vivida en en libertad. La educación es una camino humanizador, personalizador y socializador a la vez, hacia la plena autonomía de cada persona. Pero es una suma de procesos de crecimiento y de maduración en los ámbitos cognitivo, afectivo, social, ético, trascendente…, donde el entretejido de relaciones humanas va a ser el humus del incesante crecimiento. La educación es tarea de comunidad, de impregnación de culturas y valores, de vivencias positivas, de relaciones afectuosas, de desarrollo y responsabilidad, donde todos educamos o deseducamos. La sociedad misma, a través de sus organizaciones, normas, ofertas y demandas, es la que envuelve y crea un clima positivo o condicionante del desarrollo pleno de cada persona. En definitiva, educar es acoger, acompañar, promover, mediar procesos de constante crecimiento y desarrollo de todas las dimensiones del ser humano. Las ciencias nos han ido aportando soluciones y nos han abierto caminos. Hoy la ciencia cognitiva, de la mano de todas las ciencias humanas (Filosofía, Psicología, Pedagogía, Medicina, etc) nos han trazado caminos de certeza para responder a los desafíos de la sociedad del conocimiento. Si bien nos ceñiremos al Paradigma Mediador, especialmente elaborado por el profesor Reuven Feuerstein, no podemos orillar otros que dan plena consistencia y ayudan a comprender mejor las respuestas psicopedagógicas en los procesos de desarrollo, de adquisición del conocimiento y de la construcción de la mente y de la persona del educando. Echaremos mano del constructivismo, como paradigma explicativo del funcionamiento del psiquismo humano, con referencias a sus raíces en los conceptos vygotskianos sobre el desarrollo potencial, en la psicología y en la epistemología genética piagetiana; de las aportaciones del aprendizaje significativo de Ausubel y Novak; de las aportaciones de Bruner, Sternberg y Gardner sobre los dinamismos de la Inteligencia; de los constantes hallazgos didácticos de las TIC aplicadas al aprendizaje y de las demás variables sociales y no cognitivas relacionadas con el aprendizaje, los afectos y los sentimientos, como señala Bronfenbrenner. Si bien el protagonista integrador de todos los elementos del aprendizaje va a ser el educando, el motor, guía, orientador, potenciador, planificador y dinamizador de todos los procesos va a ser el maestro-mediador. La profesionalidad de los maestros está hoy en el punto de mira de nuestras reformas y cambios estructurales. En el contexto escolar, se considera que el profesor es el factor principal de aprendizaje, al establecer el clima, el ambiente y el sistema de relaciones interactivas. Las situaciones más efectivas de aprendizaje son aquellas en las que los alumnos son guiados para facilitarles la adquisición y el desarrollo de habilidades de autorregu-
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lación. Cuando los estudiantes maduran, son ellos mismos quienes interiorizan estas funciones, se interrogan a sí mismos y evalúan sus propios procesos cognitivos y los resultados que obtienen. En todas estas situaciones, el modelado, el estilo de interacción, la provocación de conflictos, los cambios de modalidad de los contenidos y los niveles de complejidad y abstracción, deben venir determinados por la sabiduría del profesional de la enseñanza-aprendizaje. J. Delors (1996,108), en su manifiesto educativo para la Comunidad Europea, La Educación encierra un tesoro, definía la educación como un viaje interior, para cuya compleja construcción aportaba los cuatro pilares, aprendizajes o saberes esenciales para la educación del futuro: aprender a ser, aprender a conocer, aprender a hacer y aprender a convivir. En este nuevo caminar hallamos las enormes diferencias entre los diversos paradigmas educativos. Hoy no podemos responder con otros andamiajes que no nazcan de la fuente de la motivación, la autoestima y la implicación del educando, donde los procesos de la construcción de la mente se impongan a los puramente memorísticos o repetitivos. Es fundamental formar mentes, antes que llenarlas, como aconsejaba Montaigne ya en el siglo XVI, tras insinuar que el criterio fundamental para elegir a un maestro debe ser la “ciencia de la bondad” y la característica primera su ejemplaridad, para ser un buen guía. La educación debe consistir más en encender la llama, que llenar un recipiente. La construcción del conocimiento en el aula es un proceso social, guiado y compartido, en el que el alumno participa en prácticas culturalmente organizadas y con herramientas y contenidos de la propia cultura. Cuando esto no es así, es decir, cuando los contenidos a aprender no son consistentes con las experiencias culturales del alumno se oberva una mayor pobreza de destrezas cognitivas. Los investigadores de la inteligencia (Sternberg) descubren cómo el contexto sociocultural configura nuestra inteligencia y nuestro modo de aprender y de pensar. Pero siempre debemos insistir que, en ese clima de relaciones e interacciones, se anticipa y se prepara la aplicación de los aprendizajes a la vida. Por eso no hablamos de una exclusiva metodología, sino de un contexto de construcción de significados, de riqueza de interacciones, de aprendizaje de normas, de conciencia ética, de aceptación y reconocimiento de las diferencias, de superación de toda exclusión, de resolución de conflictos y de creación de lazos de convivencia solidaria, de trabajo cooperativo e investigador y de mediación entre iguales…, que traman una variada metodología para una consolidación de competencias, valores personales y sociales, de cada uno de los educandos. En un contexto de adaptación y respuestas a la diversidad en las aulas, es imprescindible contar con las más variadas metodologías que activen y hagan cristalizar todas las competencias que la vida está exigiendo y dispongan a los jóvenes para su incorporación al trabajo en una sociedad cada vez más compleja y diversificada.
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3. ¿Qué principios configuran el paradigma sociocognitivo-mediador ? Las implicaciones de todo cambio pedagógico crea tensión e inestabilidad si no se han asimilado los principios y si no se dominan los nuevos procesos de aprendizaje. Por eso subrayamos la toma de conciencia previa a todo cambio, que debe estar justificada y motivada, para evitar prejuicios y posicionamientos de rechazo, como constata en el análisis de las “teorías implícitas”, que dan forma a la resistencia al cambio en los docentes (Pozo, 2009). En el cambio que auguramos, con alcance en las estructuras y en la misma función de la escuela y del educador, porque comporta nuevas exigencias y superar las dificultades inherentes a la programación curricular, a los métodos y a la evaluación, principalmente. Es innegable que todo cambio en los contenidos o métodos conlleva un nuevo estilo de relaciones fundamentales entre profesor y los alumnos y un nuevo estilo de enfocar la acción diaria y la creación de un nuevo clima para aprender a aprender, que supone la renuncia del profesor al protagonismo en la vida del aula. Estamos impulsando un nuevo paradigma sociocognitivo, de alcance humanista, integrador, ecléctico. La implicación de un nuevo enfoque exige la profundización en los principios que lo sustentan: - Ecológico e interdisciplinar: Basado en la interacción entre las disciplinas curriculares, superando toda separación de materias escolares. Los objetivos, las actividades, las capacidades y las estrategias son transversales y se extienden en diversas formulaciones en los contenidos de las disciplinas. Todo profesor debe enseñar a pensar, a clasificar o a razonar, sea en las matemáticas como en la lengua o geografía. - Cognitivo y de enfoque constructivista: El alumno es el protagonista y constructor de su aprendizaje. La importancia de adaptar los conocimientos al nivel madurativo y al estilo cognitivo del alumno es premisa imprescindible. Esta característica tiene también su relación directa con el aprendizaje significativo y con las estructuras mentales –habilidades cognitivas, que el alumno va construyendo bajo la tutela del mediador. - Contextual: Los aprendizajes deben salir del umbral de la clase y tener proyección en otros ámbitos. Aunque la experiencia del aula es un laboratorio esencial de aprendizaje, la transferencia y aplicación de los aprendizajes a la vida, debe ser una tarea permanente. - Sociocultural: Los contenidos y las interacciones deben tener su pleno sentido y su proyección significativa en el entorno cultural de los educandos. Por eso subrayamos la dimensión social de los aprendizajes porque se proyectan y se contrastan con las experiencias y vivencias sociales y del entorno de los educandos. - Estratégico: Es decir un estilo de trabajo creativo, adaptativo y flexible, que brinde autonomía en el método y en los procedimientos y destrezas en el trabajo.
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4. Qué aporta el paradigma mediador al maestro de hoy La treintena de tesis doctorales que han investigado el impacto de la teoría y el método psicopedagógico del Prof. Reuven Feuerstein, nos permiten hablar de un auténtico instrumento innovador y paradigmático. Desde la publicación de su obra Instrumental Enrichment, en 1980, se ha ido estudiando el fundamento psicopedagógico cognitivista, el perfil del docente, la metodología, los procesos evaluativos y de intervención clínica-escolar, las estrategias y el estilo de interacción, que marca de forma tan peculiar su propuesta de Experiencia de Aprendizaje Mediado (EAM). La praxis mediadora ha ido calando y hoy resulta imprescindible hablar de maestro o profesor mediador, de la misma manera que se habla de mediadores sociales o mediadores de resolución de conflictos. Los educadores hemos descubierto en la intuición de R. Feuerstein una síntesis de las grandes corrientes humanistas y sociocognitivistas que vertebran la historia de la educación. Lo que podía haberse quedado en una simple aportación a la psicopatología y la intervención en algunas necesidades educativas especiales, se ha extendido al ámbito educativo, como modelo referencial e inspirador de reformas y cambios pedagógicos en muchos países (hallamos una explícita alusión en las Cajas Rojas de la Reforma Educativa en España). Para descubrir cuáles son los ejes que permiten un cambio profundo e innovador en la praxis educativa en las aulas, que fomentan la profesionalidad e inyectan la autoestima en los docentes, recorreremos los aspectos de mayor impacto de la mediación en algunos campos de la vida escolar. 4.1. Responde a los principios psicopedagógicos de la educación de hoy - El primer impacto de la Teoría de la Modificabilidad Cognitiva Estructural (MCE) es su visión antropológica optimista de la persona del educando. El ser humano no está marcado por un determinismo genético: La genética no tiene la última palabra, hemos oído repetir con contundencia a Feuerstein. La fe ciega en la fuerza dinamizadora de la mediación inspira un nuevo estilo potenciador del educando, no importa el problema a afrontar. Un autor llegó a decir que “nacemos genios, pero la escuela nos echa a perder”! - Toda acción educativa se inspira en un sistema de creencias, potenciador y optimista, que da sustento a un quehacer sumamente difícil para los mediadores que se enfrentan con alumnos deficitarios en su maduración o víctimas del abandono o del fracaso escolar. Es fundamental que el mediador crea en sus posibilidades para mediar y en el impacto que es capaz de ejercer en los educandos. A veces hay que luchar contra la visión negativa y pesimista de los docentes, ante una cruda realidad que se impone al trabajo mejor intencionado. Cada alumno debe sentir la actitud del profesor pygmalión que mira a sus ojos para decirle: “Creo en ti”. - Las formas como se van a acomodar las interacciones del maestro se explican en
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los Criterios de la Mediación, que son una fuente de sentido y de comprensión de la labor del mediador. El proceso de aprendizaje no se enciende sino desde la empatía que se crea entre Mediador-Alumno, situación que le permitirá encontrar los caminos de la motivación y de la auténtica modificación y crecimiento del alumno. - Los maestros saben que no siempre se llega en línea recta a una meta, sino que hay que vadear, detenerse, acelerar, exigir, ser paciente, en las diversas situaciones de la vida escolar. La experiencia le va a enseñar que un simple cambio no modifica, no potencia ni cristaliza una conducta. La repetición, la diversidad de enfoques y experiencias educativas será quien cale y reestructure actitudes y mentes. - La mediación es estilo de interacción que se interpone entre el estímulo-contenido-mensaje... y el educando. En esa interposición relacional se juega la educación, el significado, el sentido, el aprendizaje significativo. Sólo cuando el mediador ejerce con plena convicción transformadora es cuando se descubre su absoluta necesidad y su decisiva influencia modificadora o potenciadora, que da a la educación nuevas dimensiones de ciencia, arte y vivencia profunda. Por eso muchos educadores no dudan en expresar que la experiencia educativa configura y, como tal, es una enorme e inapreciable riqueza que sella toda la vida. - Pero en estos procesos el propio maestro-mediador descubre que el primer modificado, el que primero debe modificar su talante y estilo de interacción, es él, para poder llegar a los demás y ejercer su mediación pretendida. Es oportuno recordar la necesaria humildad –y la paciencia-, como actitud esencial, que Karl Popper exige al que quiere buscar realmente la sabiduría y la ciencia. 4.2. Aporta una forma de enseñar a aprender y a pensar: el Mapa Cognitivo - Hoy los docentes se preguntan cómo enseñar. La metodología es una enorme laguna para muchos docentes que culminan sus estudios brillantemente, pero necesitan transmitir de forma adecuada los conocimientos de su disciplina. La diversidad de capacidades y de maduración de los alumnos plantea un serio problema didáctico, de adaptación a la diversidad de necesidades, ritmos y estilos de aprendizaje. No podemos caer en la tentación de dar recetas… - El Mapa Cognitivo es un notable hallazgo pedagógico de Feuerstein. Es una metáfora topográfica que describe los pasos del acto de aprender. Señala los elementos que constituyen el acto de aprender. Es la respuesta estructurada al método que muchos profesores no han llegado a sintetizar en su carrera y que sirve de modelo para transferirlo a la pedagogía mediadora para aplicarlo en los contenidos curriculares de sus disciplinas. Esta notable aportación nos ha inspirado desde el primer momento la aplicación de su modelo pedagógicos en las aulas, para la construcción de la mente de los alumnos a través de la mediación. - El Mapa Cognitivo ofrece una minuciosa analítica que ayuda a discernir los procesos que intervienen en la activación de Funciones Cognitivas o prerrequisitos y las Operaciones Mentales interiorizadas, dinamizadoras del aprendizaje.
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- El arte socrático del cuestionamiento, la enseñanza de estrategias, el modelado, el trabajo personal, cooperativo y de gran grupo, los procesos inductivos y deductivos, las mediaciones personales o entre iguales, el uso de medios didácticos diversos, etc., constituyen un repertorio sumamente enriquecedor que pone dinamismo en las aulas. - Una de las primeras constataciones de los mediadores viene de la mano de su propia necesidad de programar, de prever y buscar los recursos que les ayuden a poner en marcha todos estos elementos didácticos. El ver a los alumnos motivados, motiva al propio mediador para adoptar cada día nuevos medios con más ilusión. - En síntesis, R. Feuerstein propone estos elementos esenciales del Mapa Cognitivo: 1. OBJETIVOS-contenidos, procedimientos, actitudes, competencias… 2. MODALIDAD: Lenguajes en los que se presentan los contenidos. 3. FASES DEL MAPA COGNITIVO: Funciones cognitivas: - input, elaboración y output 4. OPERACIONES MENTALES: Taxonomía de habilidades cognitivas. El punto clave y principal en todos los procesos de aprendizaje y desarrollo cognitivo. 5. NIVELES DE REALIZACIÓN: 5.1. NIVEL DE COMPLEJIDAD: Cantidad, novedad, extensión, códigos. 5.2. NIVEL DE ABSTRACCIÓN: Interiorización de la tarea. 5.3. NIVEL DE EFICACIA: Precisión, rapidez, éxito, ahorro de energía.
- Esta comprensión de los elementos básicos es la pista decisiva para una actualización metodológica racional del profesor en la enseñanza de su disciplina curricular, que merece mayor explicación y ejemplificación práctica sobre la que vale la pena innovar en el ámbito escolar. 4.3. Define el estilo didáctico del profesor-mediador - El maestro debe sentirse profesional, porque sabe lo que es y cómo lograr la construcción de la mente de cada educando. El dominio de estas herramientas permite dar un gran salto de autoconfianza y provoca una inmensa autoestima en los maestros. Como consecuencia obliga a dar un gran cambio en sus funciones mediadores y en el modo de realizarlas. Deja de ser un simple transmisor de conocimientos para convertirse en guía, organizador, orientador, educador cercano, etc. El maestro mediador ha encontrado una brújula que le orienta sin vacilaciones hacia unas metas claras y cada vez más altas. - Muchos mediadores han encontrado en el estilo mediador mayor “sentido a su labor educadora”. Su papel ahora se empieza a admitir como insustituible para potenciar las capacidades dormidas de los alumnos. - Los diversos criterios de mediación son otros tantos enfoques de su interacción, según los problemas educativos que vaya descubriendo en cada uno de los alumnos. La distinción que hace Feuerstein entre los criterios que están en todo acto de aprendizaje (intención-reciprocidad, significado y trascendencia) marcan una inicio esencial en la orientación de los procesos cognitivos, y los demás criterios son intercam-
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biables y según manden las circunstancias, para que el maestro-mediador focalice su forma de interactuar con cada educando. - El mediador va acompañando al educando, ofreciéndole su mediación y retirándosela para experimentar la cristalización de sus aprendizajes y la automatización de sus estrategias. El mediador es también responsable de la creciente autonomía del educando, que se consolida con este flujo y reflujo de la mediación. - En todo momento se apela a la creatividad y al sentido de la novedad y del cambio para lograr una mejor acomodación a las necesidades, expectativas, intereses y apetencias del educando. - En otro lugar (Tébar, L. 2003; 2008) abordamos la explicación minuciosa de los 32 rasgos del profesor-mediador, cómo proyectar relaciones, cómo tejer armonía en la interdisciplinariedad y en el dominio de estrategias de aplicación en los aprendizajes y en la vida. 4.4. Pone atención a los procesos cognitivos de enseñanza-aprendizaje - El mediador percibe la complementariedad de las dimensiones en el ser humano. No existen campos estancos y separados. El ser humano es un todo indivisible, que impone respeto dentro de su complejidad. Esta visión integral exige gran profesionalidad. Los cambios y los resultados buscados ahora se mirarán con otra lupa. Incluso al hablar de “microcambios” entendemos las exigencias que comportan en la observación de todo el proceso de la persona. - El “sapere aude” kantiano (atrévete a pensar), reclama la profesionalidad del mediador para enseñar a pensar a los demás. Comprender, almacenar y aplicar los conocimientos constituyen secuencias de la trama diaria de las actividades planificadas. Las estructuras mentales que se desequilibran y se reestructuran en la constante equilibración y asimilación son un mundo al que el mediador debe prestar permanente atención. - La construcción de la mente, que va desde lo más concreto a lo más interiorizado y abstracto, atraviesa el camino del aprendizaje de la representación mental, del lenguaje simbólico, de la codificación, de la inteligencia fluida que consolida estructuras con cualquier tipo de concepto. La formación de la razón, de la conciencia crítica, del pensamiento lógico y formal, exigen en el mediador un paso muy responsable de formación en estas categorías mentales, para poder ayudar a otros a escalar peldaños elevados del pensamiento. El Profesor Luis Alberto Machado resumía el camino del aprendizaje en el hallazgo de relaciones entre los conocimientos previos y los nuevos contenidos. - Aquí podríamos apuntar a un amplio repertorio de procesos cognitivos que son la quintaesencia de la asistencia mediadora al aprendizaje. - Este sería nuestro listado inicial, de forma telegráfica, para abrir caminos de innovación: 1. Autocontrol, autoconcepto, regulación de la conducta.
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Lorenzo Tébar Belmonte 2. Identificar-definir el problema: Decodificación, lenguaje, modalidades. 3. Determinar los conocimientos previos: Almacenar/Memorizar. 4. Planificación pedagógica y situaciones de aprendizaje. 5. Estilo de relación educativa- Criterios mediadores. 6. Metodología y estrategias de aprendizaje. 7. Procesos dinamizadores del aprendizaje 7.1. Adaptación-Asimilación- Equilibración. 7.2. Percepción: Proyección de relaciones virtuales. 7.3. Motivación-Afecto: Autoestima, interés e implicación. 7.4. Atención e internalización de los conocimientos. 7.5. Autorregulación y control del conflicto cognitivo. 7.6. Niveles de complejidad-abstracción-eficacia. 7.7. Inteligencia y comprensión: Esquemas de conocimiento, algoritmos, heurísticos, mapas conceptuales, diagramas, 7.8. Creatividad, flexibilidad. 7.9. Utilización de habilidades cognitivas y procedimentales. 8. Conocer los estilos cognitivos y patrones atribucionales de los alumnos. 9. Capacidad de transferir-aplicar los aprendizajes. Descontextualizar. 10. Conciencia metacognitiva e insight. Elaborar conclusiones. 11. Evaluación y toma de decisiones.
4.5. Busca el éxito y la implicación del alumno, como protagonista - El cambio copernicano para muchos mediadores se produce al situar al educando en el centro de todo el proceso educativo. Interesan sus necesidades, motivaciones, capacidades y habilidades, lo mismo que sus competencias y sus relaciones sociales. Ahora lo esencial no es el texto, ni el resultado concreto. - El mediador experimenta la necesidad de ser él el primer modificado, para atraer a su campo al alumno. La adaptación a las necesidades del alumno es el primer flujo cambiante de la experiencia mediadora. Crear expectativas en el educando, confiar en sus posibilidades invisibles en la actualidad contra toda esperanza, saber que habrá avances, personalizar sin excluir, significa desechar todo determinismo. - La motivación llega de la mano de la experiencia exitosa, de la recuperación de la autoestima, del reconocerse capaz, de saber que puede hacer cosas por sí mismo, que es capaz de aprender. Para muchos alumnos significa pasar de la noche al día, de las tinieblas más lóbregas a la luz. El milagro está en manos del mediador. - El reclamo que se hace a la apertura y disponibilidad del mediador resulta muy llamativo. Todo alumno es modificable, como lo experimenta el mismo mediador. Pero no podrá quedarse en esa tarea controlable sino que tendrá que irradiar esa creencia en sus colegas y en su ambiente. El buen mediador hace de su entera entrega la expresión del auténtico código deontológico del buen educador. - El mediador descubre la necesidad de implantar una pedagogía preventiva, de la atención temprana, que ayude a madurar y evite problemas de maduración y de desarrollo de habilidades básicas, que condicionan posteriores avances. Podemos afirmar que “la mejor educación, como la mejor medicina, es la preventiva”. Es opor-
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tuno señalar la apuesta por la detección precoz de las dificultades de aprendizaje de los alumnos desde sus primeros pasos en el centro escolar. 4.6. Forja competencias y eleva el desarrollo potencial de cada alumno - La sociedad globalizada va imponiendo sus leyes de productividad, eficacia y consumo, generando un mimetismo entre las culturas y acercando o transformando los puestos de trabajo, cada vez más tecnificados y especializados. El nuevo estilo de trabajo en equipo, las nuevas estructuras laborales y profesionales, demandan a la escuela una función dinámica para la construcción de otras competencias nuevas. Escuela y educadores necesitan un constante dinamismo de respuesta a las necesidades educativas de una sociedad preactiva, que hace del cambio un principio vitalizador. - La formación integral y el pleno desarrollo de las potencialidades de la persona debe plantearse desde una visión global y caminar hacia sinergias educativas, para conseguir una perfecta armonía entre el saber teórico y el práctico, en conjugar el saber ser con el saber convivir, valores y actitudes. El saber ser se debe combinar con los conocimientos teóricos y prácticos, para comparar las competencias solicitadas. La educación debe mantener vínculos entre los aprendizajes: La capacidad de comunicarse, la capacidad del trabajar con los demás y la capacidad de afrontar y solucionar conflictos. “Cada vez más se exige un conjunto de competencias específicas a cada persona, que combina la calificación profesional con el comportamiento social, la aptitud para trabajar en equipo, la capacidad de iniciativa y la capacidad para asumir riesgos” (Delors, 1996:100). - Las competencias son las funciones que los formandos habrán de ser capaces de desarrollar, como fruto de la formación que se les ofrece. Tales funciones habrán de desglosarse, a su vez, en actividades y tareas más concretas. Todo ello orientado a gestionar problemas relevantes en el ámbito de una profesión. COMPETENCIA = CONOCIMIENTOS + HABILIDADES + ACTITUDES
- En el proyecto Tuning, las competencias representan una combinación dinámica de atributos - con respecto al conocimiento y su aplicación, a las actitudes y a las responsabilidades -, que describen los resultados del aprendizaje de un determinado programa, o cómo los estudiantes serán capaces de desenvolverse al finalizar el proceso educativo. En particular, el Proyecto se centra en las competencias específicas de las áreas (específicas de cada campo de estudio) y competencias genéricas (comunes para cualquier curso). Diversos estudios nos ayudan a comprender cómo las demandas diversas y las exigencias sociolaborales, reclaman cada día una gran diversidad de competencias personales, sociales, profesionales y técnicas. - La formación por competencias viene a confirmar el alcance integral que debe tener toda auténtica educación, que no puede reducirse a instrucción.
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4.7. Hace al alumno consciente de sus procesos cognitivos interiorizados - La mediación es el camino para adquirir plena conciencia de cómo aprendemos. El clima metacognitivo permite encontrar el sentido y la trascendencia a cuanto realiza el educando. Es la fórmula del auténtico aprendizaje significativo. - El autocuestionamiento y la búsqueda de las causas de los aciertos y de los errores crean la experiencia de insight. El aprendizaje tiene un sentido más completo, ya que no es almacenar datos sino reestructurar y agrandar el ámbito de las relaciones entre todos nuestros conocimientos. - El mediador debe llegar a manejar con naturalidad el conflicto cognitivo. El uso sistemático y diversificado de métodos y cuestiones, el pensamiento hipotético y divergente, la exigencia lógica, deben llevar a solucionar dos de los problemas más serios del aprendizaje: el nivel de abstracción y el transfer o aplicabilidad de los conocimientos en el espacio y el tiempo. - La tarea en el aula debe beneficiarse del estilo de pensamiento practicado en los grupos del PEI. El problema tiene respuesta con el tiempo, que debe ser el testigo de la cristalización de todos los aprendizajes y de su aplicación a contextos diferentes a los empleados en el aula. Éste es para pocos mediadores –expertos- una de las más ricas experiencias pedagógicas y un constante desafío para la mayoría. - Resulta sumamente didáctico tener los tres elementos esenciales que Flavell atribuye al proceso metacognitivo: El rol del propio sujeto, el contenido del aprendizaje y el método y estrategias empleados para su realización. 4.8. El maestro-mediador recupera su rol trascendente y su autoestima - La profesionalidad de los docentes pasa por un proceso de formación y actualización que permite elevar su autoestima. El mediador mira con nuevos ojos su trabajo, descubre nuevas dimensiones de trascendencia en la persona de los educandos e impacto social en su entorno. - Por esa visión más amplia de sus funciones en el Centro Educativo y, en consecuencia, en toda la sociedad, su influencia no puede ser reducida al simple hecho de enseñar, sino que a través de acción tutorial, su orientación, su acompañamiento y su cercanía de los educandos, tiene un papel insustituible en la formación y maduración de los jóvenes a su cargo y, por extensión, en la formación de los padres. - Ahondando en la nueva perspectiva mediadora, halla en este talante renovador e innovador un sentido indisociable de los componentes del proceso de enseñanzaaprendizaje. Los resultados no dependen de él, ni del alumno, sino de otras sinergias que se generalizan en el entorno, pero que tienen que ver con el clima de relaciones, el aumento constante de la motivación de los educandos, la renovación metodológica, los medios, el nivel de exigencias, los contactos con la familia, etc. - Estas mismas exigencias le obligan a asumir la formación permanente como una necesidad de actualizar sus convicciones y método en aras de la calidad y la eficacia docentes. Pero se reafirma esta postura ante los cambios sociales que impactan
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en la forma de ser y de actuar de los propios educandos, por el cambio de sus valores y formas de vida. Si la sociedad cambia, si cambian los educandos, la escuela debe cambiar, para ir a su encuentro con nuevos lenguajes y nuevos métodos. 4.9. Da a conocer un instrumento de evaluación dinámica (LPAD) - Podríamos hablar de una de las más innovadoras aportaciones de R. Feuerstein (2002) a la Psicología, que cubre una laguna en la forma y en los medios para realizar un diagnóstico de las carencias o dificultades, con la intervención mediada del especialista, con instrumentos asequibles, distintos de los basados en procesos lógico-matemáticos de la Psicometría tradicional. - El mediador percibe en la totalidad de su formación una gran aportación en el enfoque cualitativo del psicodiagnóstico dinámico. La confrontación con otros datos cuantitativos le ayuda a disponer de un diagnóstico y poder pronosticar causas, soluciones y expectativas más acordes con otros muchos rasgos del educando. El mismo mediador se convierte en experto explorador de los procesos cognitivos, de las causas de los problemas de los alumnos, a la vez que se siente capaz de ayudar al cambio, a la modificación de las funciones deficientes de cada alumno. Puede iniciar la intervención terapéutica, sabiendo las debilidades, resistencias al cambio y el nivel de intensidad en la mediación para conseguir los objetivos que se pretenden. - Aunque los datos puedan resultar fríos, no pueden dejar de ser asépticos y válidos, a la hora de analizar los auténticos problemas, siempre teñidos de muy variados matices. En vez de despreciar la información nacida de la mediación, se siente más cercano y vinculado a esta otra nueva forma de acceso al conocimiento real de la persona del educando. - El mediador aprende a aceptar y asumir la evaluación, en todas sus formas, con todas sus aportaciones. La evaluación mediadora está incluida en el proceso. El buen mediador está persuadido de su conocimiento minucioso de todas las peculiaridades de los alumnos. Pero, además, mantiene la autoevaluación como una praxis inseparable de todo el proceso de aprendizaje, que lleva a formar al alumno en un pensamiento más profundo, crítico y sincero. - La evaluación deja de ser algo negativo e impositivo, para transformarse en un instrumento de autocomprobación y control sistemático de los procesos de enseñanzaaprendizaje. 4.10. Crea entornos modificadores y nuevas estructuras de aprendizaje - Muchos programas no llegan a cristalizar sus resultados porque nacen en el sofocante clima de un entorno hostil. La planta para crecer necesita su microclima, primero, pero una aclimatación posterior al entorno. Los mediadores constatan que muchas de las causas entorpecedoras de sus pretendidos resultados se hallan en la falta de los cambios sinceros en el entorno, provocador de los mismos fracasos en los alumnos.
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- No es fácil un cambio estructural. La escuela es un entorno muy conservador, tradicional y estable. Los cambios en educación son arduos. No siempre se toman los medios adecuados, siendo el primero la formación y actualización de los profesores, y de entre ellos, los directivos. La escuela hoy es consciente de tener que caminar contra-corriente, pues la propia cultura ambiental va contra lo que se aprende y vive en la escuela. Vivimos en constante conflicto axiológico. -Una convincente conclusión de los mediadores es que cualquier acción terapéutica o de intervención pedagógica debe estar asumida e integrada en el Proyecto Educativo del Centro. Las acciones no sólo deben contar con la aceptación teórica sino con el apoyo real y la dotación de los medios necesarios para lograr sus objetivos. Es imprescindible crear equipos coherentes y solidarios que avancen con talante científico hacia niveles mayores de calidad educativa. - El entorno puede prolongarse sin límites: El papel del Centro Educativo debe contagiar a la familia y al mismo entorno social. La escuela educa para la vida. Los objetivos concretos, en lugar y tiempo, siempre tienen una trascendencia en la vida de las personas y de las sociedades. Es evidente que el cambio no se suele imponer sino por contagio. Al comenzar con un pequeño grupo, las ideas y las vivencias deben ir ganando terreno. El estilo mediador, la atención a los procesos, la centralidad del alumno en todo proyecto, las nuevas estrategias y métodos de aprendizaje, las orientaciones pedagógicas para enseñar a pensar y aprender a aprender, etc. deben ir calando lentamente en la atmósfera educativa, de la mano del paradigma mediador. - Los nuevos roles del mediador, impuestos por el cambio tecnológico y social, tienen insospechado alcance. Si hasta hoy el Profesor ha seleccionado los libros de texto, mañana deberá ser experto en seleccionar los programas informáticos y en navegar por las redes WEB con toda soltura. - Como epílogo deberíamos añadir un nuevo apartado sobre la mediación del cambio del entorno, como una de las funciones del mediador: El control de los avances tecnológicos frente al ecologismo; aceptación del protagonismo de la mujer en la sociedad laboral; universalidad de las redes comunicativas; los nuevos espacios educativos y la educación no formal; los distintos lenguajes informáticos; el impacto de la postmodernidad en los valores y estilos de vida de las personas; las nuevas competencias en la sociedad del conocimiento; la flexibilidad de la persona para el cambio de empleo en la sociedad del futuro, educar para un desarrollo sostenible, para hacer frente a una sociedad manipuladora, violenta e incierta, etc. Algunas cuestiones clave de la pedagogía de la mediación: 1. ¿Qué objetivos, qué método y qué etapas programadas sigo en la presentación de una lección? 2. ¿Cuáles son las dificultades de aprendizaje de cada uno de los alumnos? 3. ¿Qué habilidades cognitivas e instrumentales se van a ejercitar para asegurar la
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implicación y el éxito de cada alumno? 4. ¿Qué estrategias de aprendizaje va a utilizar en clase? 5. ¿Qué criterios mediadores van a inspirar una relación cercana y adaptada a los problemas que descubre en cada alumno? 6. ¿Qué procesos cognitivos va a controlar para asegurar un aprendizaje significativo del contenido de la clase? 7. ¿De qué forma voy a conseguir más motivación, implicación y autoestima en cada alumno durante la clase? 8. ¿Con qué actividades voy a ejercitar y construir competencias durante la lección? 9. ¿Cómo voy a provocar mayor nivel de exigencia, cuestionamiento, complejidad, abstracción y eficacia a lo largo de la clase? 10. ¿Cómo voy a lograr que los alumnos tengan más conciencia de cómo aprenden y controlen su aprendizaje y lo sepan evaluar? ...
5. ¿Cuáles son las funciones esenciales del profesor-mediador en la interacción pedagógica con sus alumnos? 1. Seleccionar los contenidos: Tema, problema motivador, interesante, novedoso… que provoque curiosidad, que favorezca el análisis, la interpretación y crítica. Para ello es fundamental que esté relacionado –adaptado- con los conocimientos previos y los saberes de los estudiantes. 2. Crear motivación y clima de trabajo cooperativo: El profesor debe dominar el proceso que emprende, suscitar implicación, generar curiosidad, preguntas y novedad del tema con relación a los intereses de cada alumno, para responsabilizar a cada uno en la parcela de su mayor competencia. 3. Aportar relaciones nuevas: Conexiones entre contenidos y disciplinas, ofrecer diversidad de lecturas, significados, sentido; apuntar hacia la representación personal del tema y buscando la verdad de fondo. Importa subrayar, desde el primer momento la visión global de los contenidos y la interdisciplinariedad. 4. Cuidar la singularidad de cada alumno: Por el tipo de iter, estilo cognitivo, conocimientos, información, los recursos, enfoques y tiempo de dedicación. Situar en el centro del proceso las necesidades educativas, estilo personal y maduración de los alumnos, descubrir su desarrollo potencial y sus procesos cognitivos. 5. dar importancia al grupo en la enseñanza-aprendizaje lleva a escuchar y enriquecer el trabajo en equipo. Exige crear actitud participativa e implicación de todos en la cooperación y solidaridad. 6. Adaptarse a las diferencias y formas diversas de aprendizaje, de construir, de transferir los saberes. Es necesario adaptar los contenidos y métodos, como también la evaluación. 7. Actualizar el enfoque de los problemas y saberes: Por medio de la ampliación del currículo y buscando su interdisciplinariedad. Educar para lograr un desarrollo
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sostenible, para despertar sentido crítico y plena autonomía frente a los conflictos y toma de decisiones en la vida. Elevar el nivel de precisión y rigor científico, de exigencia y de superación personal. 8. Responsabilizar a cada alumno de su papel de aprendizaje en los proyectos asequibles. Elevar el nivel de exigencia y perfección en sus actividades, llevando control de sus propios éxitos o errores. Dar la palabra a cada alumno: La palabra, la verbalización ayuda a cristalizar los pensamientos. 9. Diversificar las actividades escolares: Mental y manual- procedimental. Desarrollar procesos de aprendizaje que potencien la formación de habilidades y actitudes (competencias): Modalidades diversas: Verbal, simbólica, gráficas, códigos, TICs… Aportar ricos andamiajes (Bruner). 10. Realizar generalizaciones y aplicaciones (transfer) de los aprendizajes a otras disciplinas y a la vida, ampliando su visión egocéntrica o restringida de los aprendizajes. Ejercitar el insight y la descontextualización de los aprendizajes aprendidos en el aula, acompañando este proceso de alto grado de asimilación y de abstracción.
6. ¿Cómo es posible lograr el estilo mediador en cualquier centro educativo? La propuesta metodologógica que se deriva de la teoría mediadora de R. Feuerstein, la MCE, tiene doble proyección: Una primera puramente clínica, aplicación sistemática de su programa con niños con discapacidades, inmadurez o problemas de aprendizaje, inmigrantes, alumnos con inadaptación social, disruptivos en las aulas, fracaso escolar, etc. Cualquier programa de intervención exige un contexto nuevo, formativo, personalizante, que permita al alumno experimentar el éxito, la motivación, autoestima e implicación en su propia formación. Esta es la llamada de R.Feuerstein a crear entornos modificadores. Estos grupos de alumnos suelen formarse con un fin terapéutico y, por lo tanto, deben contar con un número reducido de alumnos, entre 3 y 7, como máximo. Pero la segunda aplicación posible de su teoría es para orientar y enfocar los procesos de aprendizaje en el aula y para inspirar un método de enseñanza-aprendizaje basado en el esquema del mapa cognitivo, pero con la carga de contenidos de las disciplinas curriculares. Para dar este salto el maestro-docente debe haber asimilado la teoría de la mediación y los elementos pedagógicos que la configuran. El transfer al contexto de los contenidos curriculares concretos es el gran desafío que aquí se plantea. La única condición reside en dominar los procesos mediadores, el arte socrático, la interacción adaptada a los estilos cognitivos y a los niveles de maduración e interiorización de los alumnos. Esta actitud exige alimentar una visión positiva y optimista de la educación, frente a los lentos avances que podamos descubrir en los educandos, o frente al pesimismo o desconfianza de otros docentes ante los serios problemas que nos llevan a un
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determinismo fatalista. El cambio al que nos estamos refiriendo exige adoptar varios pasos. Vamos a hacer una descripción detallada para no caer ni en la utopía ni en el engaño. Si bien la mediación cambia radicalmente las actitudes formadoras de los maestros y docentes que la asimilan, el cambio de estructuras escolares es otro cantar. El problema viene determinado porque no se entiende ni se valora la educación en su auténtica trascendencia, como una construcción orgánica, como una serie de procesos que se sustentan y se amplían unos con otros. Esto exige que los maestros tengan un vocabulario común, una metodología compartida que sea como la horma que van asimilando los alumnos para forjar su autonomía como estudiantes cualificados. Pero enseñar a aprender y a pensar implica estar abiertos a introducir técnicas, métodos, estrategias y formas de enseñar-aprender de acuerdo con las disciplinas, la edad, las metas, porque debe darse el trabajo personalizado, cooperativo, grupal, investigador, de resolución de problemas, usando todas las modalidades y tecnologías a nuestro alcance. La formación de las diversas competencias que preparen a los alumnos a seguir aprendiendo o iniciarse al primer empleo en la sociedad, exige una total flexibilidad racional para saber elegir el método más adecuado para cada circunstancia, que mejor nos asegure la calidad y el éxito. Para cambiar las estructuras hay que cambiar primero las mentes. Esta es la primera revolución, pues ésta pasa primero por la mente, antes de llegar a las manos o a las herramientas. Concluimos constatando la enorme dificultad de hacer asumible una metodología que nos permita conjuntar esfuerzos, construir una pedagogía coherente para un centro escolar y escoger metas ambiciosas. El liderazgo pedagógico y la conciencia de trabajar en equipo es la piedra de choque en la escuela pública. No podemos un clavo sobre otro. Un nuevo paradigma debe ser comprendido y asimilado para poder ser asumido y aplicado por un colectivo tan ambicioso de su libertad y tan celoso de sus propias experiencias y éxitos. Pero la ciencia y la investigación deben ayudarnos a ver la luz al final del túnel y que otras formas de aprendizaje son posibles. Para todo ello precisamos una formación permanente sin tregua. Se trata de una exigencia “deontológico” apremiante para poder responder a los nuevos retos de la sociedad del conocimiento y a los mismos cambios de función que hoy se pide a la escuela y a los maestros. Los alumnos de hoy son distintos de nosotros, cuando estábamos en su sitio. Las nuevas respuestas exigen nuevos aprendizajes a los docentes. Necesitamos creer y confiar en la labor de los docentes y que la sociedad nos crea. Pero esta fe sólo se transmitirá si va acompañada por el esfuerzo y el testimonio de disponibilidad y entrega a una de las más excelsas misiones del ser humano en este mundo: forjar vida plena, transmitir la cultura y la verdad, hacer hombres libres y autónomos para su plena realización en la vida. Creamos en los maestros, pero preparémoslos como los profesionales que forman a lo más precioso que tenemos: nuestros niños y jóvenes. Invertir en los maestros es la mejor apuesta de
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futuro. Exijamos a nuestros gobernantes más confianza y autonomía a los maestros. Pero seamos sinceros, nuestra noble tarea nos exige, como a la profesión más trascendente, plena entrega, amor, pasión y formación permanente. Dadme un buen maestro y él improvisará el local de la escuela, si faltase, él inventará el material de enseñanza, él hará que la asistencia sea perfecta; pero dadle a su vez la consideración que merece… Gastad, gastad en los maestros. (M.B. Cossío: Una antología pedagógica).
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LA SALLE : PEDAGOGIA JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE Itinerario educativo. Un’antologia Arti Grafiche S.Rocco, Grugliasco (To) 2002, pp.190 Educare è arte sempre più difficile e complessa, al punto che gli educatori più avvertiti sentono l’esigenza di attingere a quei maestri che nel passato hanno dato il frutto migliore. Un segno positivo che rischia però di vanificarsi se il percorso non è guidato da chi è ricco di dottrina e di esperienza, di spiritualità e di saggezza pedagogica. In tale ottica si colloca questa raccolta che offre, in una struttura articolata, l’itinerario educativo lasalliano tratto dall’ampia saggistica pedagogica e ascetica del Fondatore dei Fratelli.
NICOLAS CAPELLE, FSC (a cura) Voglio venire nella tua scuola! La pedagogia lasalliana per il XXI secolo Editions Salvator, Paris 2006, pp. 320
Testimonianze sorprendenti di esperienze educative a servizio dei giovani, sui cinque continenti, in contesti culturali molto differenti. Racconti che coinvolgono il lettore: sottolineano sfide dimenticate e nuove, tracciano cammini di speranza. Gli educatori che raccontano vivono sul campo, spesso in situazioni limite: immersi tra le popolazioni aborigene di Australia, con i Gitani di Francia, nelle bidonville di Nairobi, sfidati dalla violenza in Colombia, guide all’incontro interreligioso in Asia, promotori delle minoranze maya o papua sulle Ande, mediatori culturali di giovani migranti di Chicago o di Filadelfia, docenti universitari che militano per la trasformazione sociale. Educatori lasalliani in situazioni di frontiera, in una dinamica educativa sempre fragile ma sostenuta da un umanesimo e da un senso civico ispirati alla fede cristiana.
ALDA BARELLA Essere per educare: attualità della pedagogia lasalliana Alle sorgenti della lasallianità per essere educatori oggi e insegnare con successo
Effatà editrice, Cantalupa 2009, pp. 222 Essere per educare è il punto prospettico da cui cogliere il senso e la sostanza degli argomenti proposti. Far scuola, oggi come ai tempi del La Salle, significa impegnarsi senza riserve, in un ruolo etico che, nel rispetto di chi impara, chiede a chi insegna coerenza di comportamento ed evangelica schiettezza di ideali. Le pagine qui riedite hanno il merito dell’indagine condotta con rigore filologico su testi ed esperienze di tre secoli fa unito alla giusta esigenza di verificarne il senso e il valore oggi. Alda Barella, insegnate e dirigente del MPI, è stata per decenni a contatto con i problemi della scuola avvertendo il dovere di trovare risposte pertinenti a problemi reali.
RivLas 77 (2010) 4, 639-650
Classe come laboratorio d’apprendimento / 4
Dal curricolo lineare alla modularità didattica MARCO PAOLANTONIO
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a quarta tappa del percorso intrapreso quest’anno riguarda l’aspetto più innovativo della metodologia costruttivista: un modo ‘rivoluzionario’ di impostare e svolgere programmazione e programmi a supporto di saperi disciplinari, inter- e trans-disciplinari. È con il concetto stesso di cultura che la scuola si trova oggi a dover fare i conti. È infatti obbligata a mediare tra la cultura del presente e quella del passato, tra la cultura del mondo adulto e quella del mondo giovanile; tra le diverse culture che si intersecano nella comunità umana, con i rischi e vantaggi del multiculturalismo e della globalizzazione; tra la cultura scientifica e quella umanistica, cui va aggiunta quella delle nuove tecnologie, che crea nuovi ambienti di comunicazione e nuovi paradigmi cognitivi. In questa puntata conclusiva confluiscono gli apporti di metodo evidenziati nelle tre precedenti: la necessità di sfoltire ed essenzializzare il programma, fondandolo sulle caratteristiche epistemologiche della materia (Didattica breve); il coinvolgimento strategico degli allievi nei processi di apprendimento, per stimolarne motivazioni e interessi (Apprendimento cooperativo); il ricorso alla multimedialità per potenziare l’apprendimento, affiancando agli apporti della parola parlata e scritta quelli dell’immersione multidimensionale ‘in rete’ (Scuola e multimedialità).
1. Ragioni e urgenze di un rinnovamento Conviene premettere, anche se in modo rapsodico e parziale, alcuni degli elementi che già da qualche decennio hanno introdotto nella scuola motivi di riflessione e di indifferibilità per cambiamenti di indirizzi sia nei metodi che nella didattica.
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Nella scuola tradizionale
In una nuova prospettiva
- L’insegnante, molto ben preparato nei contenuti, è il fulcro. Ne è un modello quando sa spiegare in modo chiaro, è aggiornato nella conoscenza della sua disciplina, possiede buone capacità di rapporto, ed è dotato di una carica umana che riesce a trasmettere ai suoi allievi. - Il programma svolto dal singolo docente s’integra bene con tutte le discipline dei colleghi, perché si inscrive in un programma definito per tutti e, quando si traduce in insegnamento, è strutturato sul modello ‘tayloristico’: suddivide il lavoro in parti, in modo che ognuna di esse concorra a formare il tutto. In qualche modo si riproduce, nel mondo della scuola, la catena di montaggio del mondo dell’industria: ognuno fa quello che gli compete, con compiti ben stabiliti per ottenere risultati ben definiti. Se ognuno fa quello che deve fare, il prodotto risulterà soddisfacente. - La collaborazione tra gli insegnanti non costituisce un problema o un’esigenza, perché il programma è già suddiviso ufficialmente in modo da comporsi in una sorta di mosaico pluridisciplinare. - L’allievo. In questo impianto metodologico rientra anche la particolare concezione del discente. Il concetto di apprendimento coincide infatti con la riproduzione di ciò che l’insegnante ha fatto o detto. Tutti gli alunni saranno interrogati nel corso dell’anno e in sede di esame su ciò che era di programma e il programma è quello che è stato esposto dall’insegnante in applicazione di quelli ufficiali. - La comunicazione è prevalentemente verbale e l’apprendimento si basa sul testo scritto. Il buon studente è quello che sa leggere e imparare dai libri, con nozioni caso mai opportunamente filtrate dall’intervento dell’insegnante, e poi memorizzare, sa riordinare con logica e restituire bene ciò che vi è scritto.
- Il significato di comprendere. La comprensione è la capacità di usare conoscenze, competenze a abilità acquisite a scuola o in altre sedi per far luce su problemi nuovi o imprevisti. Si può essere abbastanza certi che l’alunno ha capito se mostra di saper applicare le sue conoscenze in modo corretto e appropriato; e se lo sa fare spontaneamente, senza istruzioni o specifiche sollecitazioni. - Differenze tra discipline e materie scolastiche. È importante distinguere tra discipline e materie scolastiche. Le discipline sono approcci sviluppati nei secoli dagli studiosi per affrontare problemi e fenomeni fondamentali appartenenti al mondo naturale e a quello umano. Comprendono metodi d’indagine, reti di concetti, strutture teoriche, tecniche di acquisizione e verifica di dati, immagini, sistemi di simboli, vocabolari e modelli mentali appropriati. Questi modi di considerare il passato, comprendere la vita e noi stessi, si chiamano ora rispettivamente storia, biologia e psicologia. Le discipline sono dinamiche: i loro oggetti, i metodi, le teorie o spiegazioni si evolvono nel tempo. Per trasmettere tali conoscenze e procedure, occorre concentrarsi sulle caratteristiche fondamentali che le discipline hanno nell’attuale momento storico - Programmi. Il peggior nemico della comprensione è il bisogno di ‘copertura totale’, la preoccupazione cioè di toccare superficialmente tutti gli argomenti compresi nel libro di testo o nel programma di insegnamento per il semplice motivo che lì ci sono. Ciò induce l’abitudine ad apprendere fatti e procedure in modo mnemonico, sopravvalutando il significato o le implicazioni di particolari espressioni o procedimenti; il risultato più mortificante è una memorizzazione automatica di fatti insignificanti e di procedure astratte.
Dalle conoscenze-abilità alle competenze - Si era abituati a pensare che una buona preparazione scolastica costituisse un repertorio di conoscenze e di abilità stabile nel tempo, e che perciò acquisirle in numero adeguato negli anni della frequenza fosse condizione sufficiente per intraprendere un’attività professionale e per esercitarla nell’arco della vita. È ormai sotto gli occhi di tutti come la situazione sia profonda-
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mente cambiata. Quasi nessuna professione ha conservato i contenuti che aveva solo pochi decenni fa; sono nate nuove professioni, mentre altre sono in declino o sono del tutto scomparse. Osserva B. Vertecchi1: Mentre dentro un quadro caratterizzato da una modesta dinamica delle conoscenze si poteva accettare che la prima parte della vita fosse dedicata all’acquisizione sistematica delle competenze da utilizzarsi nell’età adulta, ormai occorre pensare ad un sistema che assicuri con continuità il soddisfacimento delle esigenze di formazione. Gli anni della formazione scolastica dovrebbero perciò caratterizzarsi per l’apprendimento sistematico di competenze che poi aiutino ad acquisire quanto di nuovo proviene dai settori della ricerca. È come dire che è essenziale sviluppare le competenze linguistiche, matematiche, storiche, logico-argomentative, in breve tutte quelle competenze che facilitano l’adattamento a nuovi contesti di conoscenza.
La comunicazione. Non può più limitarsi ad essere verbale. La multimedialità, che, paradossalmente, invece che facilitarla, rischia di frapporre ostacoli alla comunicazione tra generazioni anche nella scuola, dev’essere utilizzata come potente e suadente tramite culturale. Professione docente. Gli elementi esposti nei quattro precedenti paragrafi concorrono a definire ed esigere un diverso modo di far scuola, in prima istanza da parte degli insegnanti. Anche se limitati ad alcuni aspetti delle nuove situazioni socio-culturali che la scuola deve saper affrontare, si tratta di sfide e di corrispettivi impegni da riconsiderare e a cui dare risposta. La difficoltà di orientarsi per orientare - Compito precipuo della scuola rimane sempre quello di far acquisire agli allievi quei saperi che consentano loro di autoorientarsi, cioè di trovarsi nelle condizioni cognitive migliori per affrontare i problemi complessivi posti da una società, che oggi è caratterizzata da un’accentuata complessità, da una specie di incertezza strutturale nel definire i quadri di riferimento. Più che a campi definiti e durevoli riguardanti i contenuti - come avveniva in un recente passato - l’apprendimento scolastico deve orientarsi all’acquisizione di conoscenze funzionali alla sollecitazione di abilità e di competenze2. Vale sempre il principio che una nozione non ha senso se non viene usata. I ‘saperi’ dovrebbero dunque assumere o ribadire caratteristiche quali3:
Decisione didattica e valutazione, La Nuova Italia, Firenze 2004, p. 24-25. Utile richiamare il significato di termini non sempre univoci: 1. saperi-conoscenze: informazioni fornite dalle singole discipline, capitalizzate secondo criteri di chiarezza, coerenza ed essenzialità; 2. prestazioni-abilità: risposte che dimostrano come le conoscenze acquisite sono ‘spendibili’ in contesti parzialmente nuovi (esercitazioni e interrogazioni su argomenti disciplinari svolti) e tradotte anche nelle forme del ‘saper fare’ (uso degli strumenti ordinati all’apprendimento con corretta applicazione della metodologia); 3. competenze: si configurano come strutture-abilità mentali capaci di trasferire la loro valenza in diversi campi, generando dinamicamente altre conoscenze, prestazioni e capacità reali di riflessione, di decisione e d’azione adeguate alla complessità delle situazioni che l’individuo deve affrontare. 3 Cf. Gaetano Domenici, Manuale dell’orientamento e della didattica modulare, Editori Laterza, Bari 2009, pp. 12-17 1 2
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Marco Paolantonio - significatività, rappresentata da proposte culturali stimolanti sia perché soggettivamente e oggettivamente ancorate ai saperi posseduti (a scuola e fuori) sia perché ne risulta evidente e convincente la possibilità di un’utilizzazione futura; - sistematicità: è l’esatto opposto di un affastellamento di saperi parcellizzati, collegati solo da una logica astratta; intesa in senso proprio, è la capacità di coniugare saperi ‘freddi’ (il meglio della tradizione culturale) con saperi ‘caldi’ (quelli proposti dal contesto socio-culturale in cui si vive); postula perciò un intelligente aggiornamento delle valenze epistemologiche delle varie discipline; - stabilità nell’acquisire competenze, vale a dire la progressiva autonoma capacità di orientarsi e crescere sotto gli aspetti cognitivo, emotivo e relazionale; - basilarità, che consiste nel (far) maturare progressivamente, con lo svilupparsi della personalità, le fondamentali attitudini al leggere (per capire), scrivere (per comunicare) far di conto (per scoprire un ordine logico e condiviso nei frammenti di realtà affrontati); - capitalizzazione, di quei saperi e di quelle abilità che meglio permettono a chi li possiede di progredire nel personale percorso di maturazione globale; implica una costante attenzione all’orientamento basato sulla scoperta e l’irrobustimento delle reali doti individuali.
Il che cosa insegnare preliminare al come farlo - Centrare la didattica sulle nozioni, significa ritenere che esse siano gli elementi caratterizzanti e fondanti dell’insegnamento. Ne consegue che le nozioni inserite nel programma sono quelle che legittimano la funzione sociale dell’insegnante, incaricato di trasmetterle, e rispondono al diritto del discente di acquisirle per inserirsi attivamente nella società. Il nozionismo ‘puro’, vale a dire l’acquisizione prevalentemente mnemonica dei saperi, è del tutto incompatibile con le teorie pedagogiche e le metodologie didattiche, visto che considera scopo unico dell’insegnamento e dell’apprendimento è l’esercizio mnestico di prodotti culturali preconfezionati e indeformabili. Una riflessione sulle nozioni, dalle quali non si può ovviamente prescindere, va fatta partendo dalle lapalissiane premesse che se una nozione non ha senso se non può essere usata, l’insegnamento/apprendimento è impensabile senza contenuti. - Prima considerazione: la didattica propria della scuola risponde al principio che il sapere si costruisce in relazione allo sviluppo individuale dell’apprendimento e della maturità personale. Ha la specificità di un insegnamento orientato all’apprendimento. - Prima conclusione: la scuola deve elaborare il suo modello di curricolo in relazione al suo specifico oggetto: lo sviluppo dell’apprendimento. - Seconda considerazione: lo studente perde di vista lo scopo dei propri sforzi e con esso la motivazione allo studio quando lo svolgimento dei programmi, lineare e uniforme, sviluppa gli argomenti passo dopo passo, senza un’idea gerarchica della loro importanza. Non conosce infatti l’impianto generale della disciplina che sta studiando, non riesce a vedere il ‘panorama’ circostante e spesso percepisce perciò la propria fatica come eterodiretta e inutile. - Seconda conclusione: percorsi più brevi che siano frutto di una scelta condivisa, in cui ogni volta siano esplicitati finalità, obiettivi e opzioni metodologiche, possono invece far sì che chi apprende padroneggi nono solo i contenuti, ma anche il processo del proprio apprendimento.
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2. Il problema delle conoscenze 2.1 Il sapere di chi insegna L’insegnante, mediatore di cultura, ha come primo impegno deontologico l’analisi delle strutture della disciplina insegnata4. Il primo degli aspetti da considerare è dunque quello della trasmissione dei saperi. Pare superfluo osservare che oggi la quantità di conoscenze appare tale da risultare ingovernabile. Logico quindi muovere alla ricerca dei criteri che possano condurre alla ricerca dei saperi essenziali capaci di assicurare la qualità e fare anche da supporto alle successive acquisizioni. Al riguardo, pare giusto convenire con alcune considerazioni. La didattica deve fare i conti con le discipline. Il processo di umanizzazione dei discenti non può fare a meno dei saperi disciplinari: significherebbe fare a meno della storia e del mondo della cultura. La trasmissione del sapere è, dunque, componente essenziale della didattica. Tuttavia, va ribadito, è insostenibile la rivendicazione del primato delle discipline sulla didattica, perché riflette una rappresentazione della disciplina come sapere orientati sui paradigmi della consegna (dei contenuti), della ripetizione e della memorizzazione, anziché su quelli della elaborazione, della ricerca e della creatività. È questa la posizione dei ‘pedagogisti’, fautori di una didattica generale, che si pongono nell’ottica di chi cerca gli strumenti di metodo che consentano di unificare o almeno di semplificare, per renderne più accessibile l’adozione, comuni criteri d’insegnamento. D’idee assai diverse i ‘disciplinaristi’ più intransigenti, paladini delle singole didattiche disciplinari, i quali ritengono contrari al rigore e agli interessi e di una ricerca davvero scientifica l’ibrido giustapporsi di metodologie scientifica/letteraria/artistica/tecnica - assai differenti tra loro per scopi e contenuti. 2.2 Il sapere di chi impara La scuola non può certamente fornire agli studenti tutti i contenuti, deve però loro offrire la ‘chiave’ per accedere a quanti più contenuti possibile. Dovrebbe cioè rendere ogni studente quanto più possibile competente: capace di gestire il proprio
Gli aspetti di una disciplina che si fa insegnamento per stimolare apprendimento sono sinteticamente: ? cosa insegnare, che implica la conoscenza approfondita e aggiornata della disciplina e dei programmi; ? come insegnare, che richiede la conoscenza della metodologia didattica relativa alla materia insegnata in rapporto con la situazione e il gruppo-classe concretamente considerati; ? quali sono i concetti-chiave che permettono di richiamare e organizzare le conoscenze già proposte che supporteranno quelle successive; ? qual è il linguaggio tipico della disciplina, inteso come economia di tempo e di energie mentali, perché chiaro e inequivoco; ? quale ne è la storia, poiché l’origine e l’evoluzione aiutano certamente a capirne senso, peculiarità e a giustificarne la presenza tra le materie del program-
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apprendimento. Va tuttavia osservato che, se nell’apprendimento prevale giustamente l’attività cognitiva, è opportuno tenere costantemente presenti altri due aspetti, dai quali essa è spesso condizionata: le motivazioni al lavoro e i rapporti interpersonali. Al centro del processo di apprendimento c’è dunque la persona dell’allievo nel suo insieme. Ne consegue che parte integrante della progettazione educativa è un ‘modello sistemico’5 tridimensionale - un ologramma psicopedagogico - le cui dimensioni (‘repertori’6, ovvero campi di osservazione e di azione) sono: • il repertorio cognitivo, che riguarda il complesso di processi e abilità mentali: percezione, memoria, ragionamento, elaborazione di concetti; • il repertorio affettivo-motivazionale, che include processi e abilità della sfera emotiva, sia positivi (gioia, empatia…) sia negativi (ansie, paure); • il repertorio socio-interpersonale, che concerne i rapporti transazionali, vale a dire i vari aspetti della vita associata (capacità di interagire adeguatamente, di lavorare in gruppo…). Di questo è giusto sia avvertito lo studente anche quando si avvia a diventare sempre più autonomo nello studio. La vita in classe glielo ha già fatto sperimentare; si tratta di chiarirne forme e rimedi. 2.3 Non esiste il metodo di studio …perché ne esistono tanti quanti sono coloro che ne hanno trovato uno. In questo l’esperienza degli insegnanti che se ne occupano collima con le conclusioni di un esperto come il Cornoldi7. Da tale considerazione non può prescindere anche lo studente che vuole diventare sempre meglio protagonista del proprio apprendimento. Se appare quindi utopistico andare alla ricerca di un ‘metodo di studio’ valido per tutti – di un universale codice di regole precise - è però possibile indicarne prima alcune caratteristiche e poi fornire una serie di suggerimenti su strumenti - strategie e tecniche - mirati ed efficaci, tra le quali operare le scelte più adatte e opportune per chi le adotta. Riflessioni previe: • davvero competente è chi, insieme con conoscenze e procedure, sa prevedere e pianificare, monitorare e valutare il proprio lavoro.
ma; ? quali traguardi formativi essa consente di raggiungere (= quale’progetto-uomo’ sotteso all’apprendimento): un individualista o un intelligente collaboratore? Un esecutore diligente o l’attivo protagonista di una personale storia culturale ?... Sono tutti elementi che armonicamente calibrati e posti in gioco rivelano la competenza 5 Già ampiamente trattato al cap. 1,3. 6 Paolo Meazzini, L’insegnante di qualità, Giunti, Firenze 2000, pp .3-16. 7 C. Cornoldi, Metacognizione e apprendimento, Il Mulino, Bologna 1995, in particolare al cap. 13: Metacognizione e studio.
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• apprendere in senso pieno significa superare il primo gradino, quello del cosa - il materiale “grezzo” proposto alla conoscenza - per adire ai due successivi: il come, - i meccanismi logico-fattuali che caratterizzano il ‘pezzo’ di realtà considerato - , e il perché, rappresentato sia dalla motivazione che spinge ad apprendere sia dalla scoperta della rete di relazioni mediante la quale chi apprende può inserire la ‘cosa’ conosciuta in un contesto significativo e produttivo per lui (la cultura). Altro elemento fondamentale è la consapevolezza dei propri bisogni8.
3. Modularità didattica (e Unità formative) Caratteristiche di metodo. Il modulo è un’unità di insegnamento/ apprendimento indipendente e autonoma, che può riguardare un tema, un problema, un procedimento, una competenza e ha degli obiettivi ben definiti. La logica del modulo prevede che si acquisti in profondità e specificità didattica ciò che, con vantaggio evidente, si perderebbe perseguendo estensione e frammentarietà. . Non è costruito secondo il criterio della linearità, ma ha una struttura interna ramificata o reticolare. Anche se alcuni moduli possono essere considerati propedeutici ad altri, l’idea di fondo è quella di assicurare un’estrema flessibilità nella combinazione dei moduli disponibili. Centro dell’attenzione e della dinamica progettuale non è la materia o la disciplina corrispondente, ma la questione che viene proposta, alla cui soluzione della quale concorrono determinate discipline. Nella metodologia modulare entrano tutte le strategie in cui l’insegnamento si materializza in ‘situazioni’ in cui l’allievo e/o un gruppo di allievi sono attivamente coinvolti (logica del ‘laboratorio’); in cui si parte da un caso concreto - un problema, un materiale predefinito, un’esperienza - per porre domande nuove, cercare soluzioni, trasferendo ad un momento successivo la generalizzazione degli esiti del percorso cognitivo compiuto, in termini nuovi di concetti e categorie (punti d’approdo comunque necessari per la costruzione di una cultura). Scopi. Attuando la metodologia didattica modulare ci si propone di superare la tradizionale suddivisione del sapere in discipline, ognuna delle quali rappresenta un settore a se stante nel percorso di apprendimento dell’allievo. Il quale è impegnato
In altre parole: Lo studente diviene sempre più competente nell’uso del suo tempo, - ed è bene ragionare al riguardo con lui per adottare le soluzioni più redditizie - allorché: ? sa individuare e perseguire gli obiettivi di studio partendo da una conoscenza delle proprie caratteristiche soggettive (la sua capacità d’attenzione, i suoi ritmi, il suo “stile” cognitivo”, i suoi interessi per la materia, la sua propensione ad affrontare/evitare argomenti e materie impegnativi…) e da quelle oggettive ( caratteristiche della materia, qualità e quantità dei compiti, data di consegna, criteri ed esigenze degli insegnanti, tipo di aiuto a disposizione), ? sa programmare la propria attività, rispettando le priorità e l’importanza degli argomenti, ? prevede la distribuzione del tempo pomeridiano in corrispondenza all’impegno 8
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a incrementare, come già si è osservato, tutte le aree di sviluppo della propria personalità: fisico-sensoriale, emotivo-affettiva, cognitiva, collaborativo-sociale. Le prime due consentono di individuare e di facilitare l’autocoscienza di ciò che il soggetto è, le altre due fanno affiorare ciò che egli sa fare e permettono di orientarlo con minori incertezze nell’inserimento in ruoli sociali e professionali rispondenti alle sue doti. Ambiziosi e insieme necessari, gli obiettivi della modularità didattica sono quelli di far affiorare - nella proposta di ogni specifica disciplina e soprattutto nel progetto complessivo del programma di studi - la struttura reticolare della conoscenza individuando • i nodi concettuali di base, • le relazioni - intradisciplinari e interdisciplinari - che li collegano, • alcuni percorsi alternativi di apprendimento significativo, • i particolari processi di apprendimenti previsti e da valutare. Struttura. Il modulo è quindi la parte di un tutto (il curricolo) che può essere considerata separatamente, uno degli elementi di una struttura liberamente componibile. Svolto in un arco di tempo che può variare, comprende un minimo di 3-4 settimane. E’ ulteriormente diviso in unità didattiche e può essere impostato e condotto con criterio intra o interdisciplinare9. 3.1 Il modulo nella normativa Nelle indicazioni normative ricorre costantemente il richiamo alla necessità di organizzare le attività di insegnamento/apprendimento secondo una progettazione di carattere modulare, ma è altrettanto puntuali il richiamo a una programmazione dei curricoli che assicuri la costruzione della mente del discente (perché è stata prevista e viene attuata da parte dei docenti), secondo parametri di sistematicità e organicità scientifica che assicurano funzionalità formativa e validità culturale. Nel Regolamento sull’autonomia (Dpr 8/3/1999, n. 275, art. 4).) si legge che “le istituzioni scolastiche possono adottare tutte le forme di flessibilità che ritengono opportune e tra l’altro: a) l’articolazione modulare del monte ore annuale di ciascuna disciplina e attività,…d) l’articolazione modulare di gruppi di alunni provenienti dalla stessa o
che le varie materie solitamente richiedono da lui, stendendo un planning degli impegni giornalieri e settimanali ? sa predisporre tutto il materiale occorrente, ? prevede ed evita ciò che può disturbare la concentrazione, ? sa prestabilire il tempo da riservare alle attività non scolastiche preferite. 9 Caratteristiche e momenti sono: • il tema, che può essere affrontato e svolto in modo multidisciplinare o interdisciplinare, • la funzione formativa, che inscrive l’unità all’interno della progettazione di Istituto, • la posizione (nella logica della programmazione annuale della disciplina), • il gruppo-classe, con una specifica attenzione alle caratteristiche collettive e dei singoli allievi), • i tempi (con la previsione in ore, settimane, mesi), la motivazione (che chiarisce a quali bisogni formativi si intende dare una
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da diverse classi o da diversi anni di corso” E, limitando la citazione alle disposizioni che riguardano la secondaria superiore, nella legge sul Riordino dei cicli (L 10/2/2000, art. 4, c. 7): “Nei primi due anni, fatti salvi la caratterizzazione specifica dell’indirizzo e l’obbligo di un rigoroso svolgimento del relativo curricolo, è garantita la possibilità di passare da un modulo all’altro anche di aree e di indirizzi diversi, mediante l’attivazione di apposite iniziative didattiche finalizzate all’acquizione di una preparazione adeguata alla nuova scelta”. ANNOTAZIONI A MARGINE Seducente come stimolo all’innovazione metodologica, il costruttivismo ha, com’è noto, sostanziali ricadute sul piano della didattica e dell’organizzazione delle scuole. Sul piano della didattica - Viene rovesciato il rapporto mezzi-fini: il modulo è un pacchetto formativo con un contenuto indirizzato esplicitamente allo scopo di produrre conoscenze e competenze. Ne consegue che la valutazione - finora collegata a ‘saperi’ elencati in programmi definiti e, se condotta correttamente, affidata a prove oggettive – dipende in massima parte da ogni istituzione scolastica, libera di fissare sia i contenuti sia i criteri e gli strumenti per valutarne l’acquisizione. Per evitare dispersioni e disparità, occorre stabilire su piano nazionale (ma è logico pensare ormai, con l’OCSE, in dimensione europea) la definizione di unità di sapere standard da certificare. E’ questo lo scopo delle prove somministrate dall’INVALSI. Ma con quali criteri verranno concesse le certificazioni, se per ora manca la definizione di unità di sapere standard da certificare? Come si potranno armonizzare i vari indirizzi di studio e i vari gradi di istruzione? Sul piano dell’organizzazione - Con la rottura dell’unità del gruppo-classe e la formazione di gruppi flessibili vengono profondamente modificati i rapporti interpersonali con insegnanti e compagni. La dimensione socio-affettiva (fondamentale, se gestita bene) è sacrificata a vantaggio unicamente di quella cognitiva. Le prove di verifica sono infatti tendenzialmente oggettive: come si valuteranno le capacità critiche, comunicative, creative? Viene meno la centralità del Consiglio di classe, organo specificamente correlato a progettazione, programmazione e valutazione. Per i docenti si moltiplicano le difficoltà connesse con la valutazione educativa (che deve comunque riguardare la globalità del percorso di ogni alunno) e con la personale progettazione-programmazione didattica (abitualmente incardinate in progetti di collaborazione pluri/interdisciplinare che comportano la scomposizione del percorso scolastico in unità chiuse, ed esposte al pericolo di perdere il senso del e nel movimento complessivo). La creazione di ‘ambienti di apprendimento’ sempre più tecnologici esige il cambiamento della figura professionale dell’insegnan-
risposta), i prerequisiti d’ingresso, • gli obiettivi formativi specifici (il risultato atteso in termini di conoscenze, competenze, capacità), • gli obiettivi formativi trasversali (comuni alle discipline che confluiscono nell’unità), • i nuclei cognitivi concettuali (la promozione di tipiche attività cognitive, espresse nei termini “essere in grado di…”, “sapere che…”), • il percorso effettivo che si intende compiere (dalle modalità di verifica dei prerequisiti alle attività previste per gli eventuali ricuperi, dalle metodologie didattiche e dagli strumenti posti in essere, alle verifiche - formative, sommative, finali -, • la validazione dei risultati (del singolo docente e del team). 10 G. Domenici, op. cit, v. soprattutto alle pp. 139-144
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te: da fonte unica dei messaggi culturali a mediatore tra gli studenti e gli strumenti interattivi, a tutor individuale degli studenti o ancora a creatore di programmi multimediali.
3.2 Autonomia scolastica: impegni ed obblighi Ruolo dei docenti. Gaetano Domenici, nel tratteggiare gli elementi che dovrebbero caratterizzare la progettazione per moduli, premette che ‘una condizione necessaria anche se non sufficiente che deve verificarsi per compiere la progettazione modulare della didattica, ma soprattutto per l’elaborazione e la messa a punto dei moduli, è che si creino all’interno dei collegi dei docenti gruppi di lavoro disciplinari o, più proficuamente, per ambiti disciplinari. Veri e propri distretti disciplinari permanenti, ovvero organi di lavoro non previsti dagli attuali ordinamenti che regolano il ‘governo’ della scuola attraverso specifici organi collegiali’.10 Passando poi, sia pure ‘in modo empirico’, all’esame della progettazione da parte dei docenti, prefigura: - il gruppo di docenti di specifiche aree disciplinari o discipline affini, che, dopo aver determinato l’estensione del curricolo dell’intero corso (considerando le mete generali finali e le conoscenze che gli allievi dovrebbero possedere all’ingresso e all’uscita del corso), suddivide il progetto per anni, tenendo come criterio di riferimento le unità tematico-concettuali ad elevato peso specifico formativo; - lo stesso gruppo di lavoro stabilisce le caratteristiche di ogni modulo da realizzare nello stesso anno, precisandone l’argomento e prevedendo le attività che vi saranno svolte in rapporto alle conoscenze, abilità e competenze dei gruppi di allievi con cui si lavorerà, stabilendo con buona approssimazione anche il tempo (che non dovrebbe comunque superare i due-tre mesi11) necessario per lo svolgimento; - identificati e stabiliti i moduli, si determineranno e descriveranno gli obiettivi generali per ciascuno, i requisiti generali richiesti per affrontarli, la tipologia degli accordi reticolari, inter/pluridisciplinari; - si passerà quindi alla divisione dei compiti fra i docenti, per definire con la miglior approssimazione il contributo di ciascuno in fase di impostazione, esecuzione, veri-
Osserva opportunamente M.T. Moscato: Solo un soggetto adulto è in grado di mantenere lo sforzo e la concentrazione necessari alle lunghe ore di lavoro didattico su uno stesso tema, e proprio in relazione alle stesse motivazioni di tipo professionale e/o ai bisogni maturati che hanno determinato il contratto formativo. In Diventare insegnanti. Verso una teoria pedagogica dell’insegnamento, La Scuola, Brescia 2008, p. 227. Ovvia considerazione da tener presente nello stabilire l’assetto orario nella programmazione di un modulo. 12 Possono risultare complementari gli elementi esposti alla nota 9. 13 Cf. Oltre il curricolo lineare, www.edscuola.it/archivio/antologia/.. 11
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fica dei vari moduli. Realizzazione dei moduli. Definita così la scansione verticale ed orizzontale dei moduli, occorrerà procedere in modo analitico a studiare le fasi attuative di ognuno di essi, prendendo in considerazione tempi, materiali, strumenti, proposte di attività, riferimenti e requisiti12. Queste le principali fasi. - Descrizione operativa dei traguardi da raggiungere, con formulazione sintetica delle competenze da appurare, ed eventuale formalizzazione di quelle da certificare, in uscita. - Requisiti cognitivi richiesti (conoscenze e abilità) per affrontare i principali snodi del modulo. - Uno stimolo iniziale capace di motivare al lavoro e degli interventi successivi in grado di creare ‘dissonanze cognitive’ tali da incoraggiare e sollecitare alla ricerca di soluzioni dei problemi presentati. - Prove di verifica prima dei requisiti necessari, poi dei risultati raggiunti. Auspicabili quelle semistrutturate, la cui risposta, breve, univocamente decodificabile, dev’essere autonomamente elaborata dall’allievo e non scelta, come nelle prove oggettive. Si estendono a tutte le aree dell’esperienza in atto (comprensione dei testi, esercitazioni di laboratorio, lavoro associato,…). - Particolare cura va posta nel rilevare e verificare i contributi al lavoro associato, monitorando i vari momenti dell’attività svolta (primo approccio, fasi e caratteristiche della collaborazione, contributi e difficoltà). - Indicazione di contesti operativi ed esperienziali, e delle corrispondenti esercitazioni, da utilizzare in piccoli gruppi e/o individualmente per operare il necessario consolidamento od assicurare il ricupero dei requisiti necessari alle successive tappe dell’apprendimento. - Predisposizione del materiale e degli ambienti di studio occorrenti per la trattazione e lo svolgimento degli argomenti previsti e delle attività da porre in essere sia in collaborazione sia individualmente. - Studio e approntamento delle serie di proposte di rinforzo e di approfondimento teorico e operativo utile sia per appurare conoscenze e delle abilità sia per sollecitare emersione e individuazione delle competenze. - Opportuni strumenti di verifica e valutazione formativa dell’apprendimento. - Forme e mezzi diversificati per assicurare, individualmente o in piccoli gruppi omogenei, ricupero e/o sostegno necessari per affrontare i successivi gradi del processo di apprendimento. - Prove oggettive e/o semistrutturate per la verifica e la valutazione complessiva e finale delle più rappresentative conoscenze e competenze indicate come traguardi finali del modulo.
Tappe di avvicinamento. Le difficoltà sono numerose e serie, ma il cammino verso l’innovazione è inevitabile. Per onestà professionale deve essere sperimentato e validato progressivamente. Un’ipotesi di lavoro viene dal modello a tre colonne di Hilbert Meyer13, che propone di alternare nel corso dell’anno tre formule d’insegnamento come graduale approccio alle nuove metodologie: a) insegnamento curricolare - previsto dal piano di studi, organizzato in modo rigoroso e sequenziale può anche prevedere lunghi periodi di insegnamento frontale. Si insegnano in modo sistematico sostanzialmente le conoscenze delle principali discipline tradizionali. I gruppi di apprendimento sono fissi, e di regola sono costituiti dalle classi; b) lavoro libero - offre agli allievi un insegnamento fortemente individualizzato,
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sostenuto dalle nuove tecnologie e ispirato al lavoro libero delle scuole Montessori. Comprende sia il lavoro per prepararsi alle lezioni degli insegnamenti curricolari, ma anche l’approfondimento individuale in settori di studio liberamente scelti in base a un piano di lavoro settimanale, predisposto individualmente dal singolo allievo; c) progetto - per attività che non rientrano in quelle dei due precedenti settori, si formano piccoli gruppi possibilmente eterogenei. Anche in quest’ambito gli allievi vengono invitati a pianificare le attività delle fasi in cui si articola il progetto. Programmato in tempi separati dai precedenti, è affidato a piccoli gruppi stabili, possibilmente eterogenei. Possono uscire da scuola, fare ricerche, indagini e svolgere attività pratiche. L’attività può essere varia e consistere nell’organizzazione di mostre, serate per genitori, rappresentazioni teatrali, ecc.
RivLas 77 (2010) 4, 651-664
L’educazione di Sancio Metamorfosi dell’errato scudiero di Don Chisciotte ROBERTO ALESSANDRINI
Nabokov esagera quando afferma che l’unica cosa che conferisce a Sancio Panza un barlume di personalità propria è l’eco grottesca che producono in lui certe note della nobile musica del suo padrone. Ed esagera Auerbach quando sostiene che tutta la sua educazione consiste solo nell’imitazione di Don Chisciotte. Sotto la penna di Cervantes, il personaggio dello scudiero analfabeta cresce, si affina, si evolve assorbendo certamente l’ingegno del cavaliere, assimilandone il linguaggio e i meccanismi interpretativi, ma anche mettendo in scena qualità proprie oltre che un breve momento di sorprendente lucidità.
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asso e tarchiato, con la barba folta e trascurata, uomo dabbene ma con pochissimo sale in zucca, rozzo e tuttavia discreto, Sancio Panza è un uomo di famiglia, ma un vagabondo nel cuore1, un campagnolo “mezzo tonto e mezzo furbo” forgiato dalla tradizione popolare castigliana. Lo si potrebbe definire un briccone, ma non un pazzo e nemmeno un codardo poiché l’uomo pacifico che alberga in lui non disdegna di fare a pugni, anche se evita di impegnarsi in combattimenti squilibrati o inutili. Quando l’occasione lo richiede, può essere coraggioso e impetuoso. Creatura “farsesca e culona”, furbo e minchione, egli tuttavia non è un clown, ma un essere comico che va preso sul serio2. In compagnia dell’inseparabile
Vladimir Nabokov, Lezioni sul Don Chisciotte, Milano, Garzanti, 1989, p. 44. Cfr. Martín de Riquer, Don Chisciotte e Cervantes, Torino, Einaudi, 2005, p. 95;Vladimir Nabokov, Lezioni sul Don Chisciotte, op. cit., p. 46; Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, Milano, Mondadori, 1974, II, 70; Ian Watt, Miti dell’individualismo moderno, Roma, Donzelli, 2007, p. 66. 1 2
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Don Chisciotte e senza mai allontanarsi dalla familiare pianura e dai confini dell’angusta provincia, Sancio Panza batte incessantemente le strade polverose e le sordide osterie di Castiglia dando il proprio contributo alla prima delle opere moderne (1605 e 1615), al primo grande romanzo della letteratura universale3. Lo scudiero non è ancora entrato in scena quando il cavaliere viene giocosamente armato da un oste, ritenuto impropriamente un castellano, nel corso della prima, solitaria uscita, e farà la sua comparsa a partire dal VII capitolo. Da quel momento la coppia si separerà solo in due circostanze: quando Don Chisciotte resterà solo nella Sierra Morena (e Sancio sarà inviato a Dulcinea con un’ambasceria che non verrà mai portata a termine)4 e in occasione dell’avventura di Sancio governatore5. Bracciante che in gioventù è stato pastore, l’improvvisato scudiero non sa leggere e scrivere, ma non è affatto stupido. Lo si potrebbe accostare, come ha sostenuto Cesare Segre6, “alla figura del bobo, poi gracioso, del teatro cinque e secentesco, con i suoi precedenti nei servi della commedia classica e rinascimentale e i suoi più fulgidi rappresentanti nei fools del teatro elisabettiano”, a colui che “accentuando furbescamente un’originale tonteria, riesce a dire le verità profonde, anche sgradevoli”. Sarebbe tuttavia una forzatura iscriverlo alla vasta galleria bachtiniana di furfanti, buffoni e sciocchi che nei romanzi esibiscono estraneità rispetto alla vita e rivendicano l’immunità della parola buffonesca7 poiché Sancio è seriamente ancorato alla realtà, le sue parole storpiate, talvolta incomprensibili, vengono regolarmente corrette e i suoi ragionamenti emendati. Rispettoso del coraggio di Don Chisciotte, come si comprende dopo la battaglia col Biscaglino, e deferente rispetto allo stile letterario del suo padrone, per esempio quando ascolta il messaggio da recare a Dulcinea, lo scudiero non è mai volgare, anzi talvolta è persino delicato e premuroso8. Come unica indecenza si concede di chiedere al cavaliere, rinchiuso in gabbia alla fine della seconda uscita, come farà a
Cfr. i testi di Michel Foucault, Jorge Luís Borges e György Lukács proposti da Giuliana Di Febo e Rosa Rossi a cura di, Interpretazioni di Cervantes, Roma, Savelli, 1976. 4 Capitoli da XXVI a XXIX. 5 Capitoli da XLIV a LIII. 6 Cesare Segre, Introduzione a Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, op. cit., p. XLII. 7 Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979, p. 308. 8 Dopo l’infelice avventura dei tori nella finta Arcadia, quando lo scudiero e il cavaliere riposano in un fresco boschetto accanto ad una fonte, Sancio, mano alle bisacce, si prepara a mangiare pane e cacio. “Per la grande educazione” non osa essere il primo e aspetta che si serva il suo padrone, ma visto l’indugio di Don Chisciotte, Sancio, “passando sopra a ogni rispetto d’educazione”, inizia a mangiare (II, LIX, pp. 1088-89). Inoltre, il cavaliere riconosce pubblicamente, non senza qualche esagerazione, che quando Sancio ha fame, “pare sì, un ghiottone, perché mangia in fretta e mastica a due palmenti; ma alla pulizia ci sta sempre molto attaccato; anzi durante il tempo che fu governatore [...] tant’è vero che mangiava con la forchetta i chicchi d’uva e anche quelli di melagrana” (II, 62, p. 1118). 9 Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, op. cit., I, 48. 3
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soddisfare le funzioni corporali9 e come più grande impertinenza si permetterà di commentare l’aspetto del cavaliere: “Davvero io tante volte mi metto a guardare Vossignoria dalla punta dei piedi alla vetta dei capelli, e vedo un insieme più da far paura che da far innamorare”10.
Affetto e fedeltà Il dissennato cavaliere errante, che ha perduto il cervello11 per l’eccessiva lettura di romanzi cavallereschi, e il suo ”errato scudiero”12 analfabeta, tondo, “proverbioso”13 e dal robusto appetito, incarnano contrasti fisici – secco, magro e alto il primo, grasso, tozzo e basso il secondo -, ma anche “spirito e carne, testa e ventre, cielo e terra, sogno e realtà, passato e presente, letteratura e vita”. E, a livello sociale: il cavaliere e il contadino, l’eroe e il codardo, l’introverso e l’estroverso, il solitario e il socievole, lo scapolo e lo sposato. Ma anche “il sogno di cavalleria e la realtà tangibile, la follia idealista e l’elementare sensatezza, la cultura e la rozzezza [...] l’ingenuità e la furba scaltrezza”, la piazza popolare e la letteratura14. Inoltre, mentre Don Chisciotte ritiene reali cose che per altri sono pure fantasie, Sancio si fa toccare dai dubbi “solo quando non ne può fare a meno”15 e ritiene che le spalle gli dolgano a causa delle bastonate concretissime che ha ricevuto e non per effetto di maghi o fantasmi16. L’ambivalenza piena di vita dei due caratteri17 fa sì che cavaliere e scudiero divengano “figure paradigmatiche dei modi con cui facciamo fronte all’incertezza del nostro sapere”18, ben sapendo che sarebbe riduttivo diminuirli a una coppia di opposizioni; fuori dallo schema della dicotomia romantica tra idealismo e realismo (la vulgata che ha avuto maggior successo nel senso comune), Don Chisciotte e Sancio non sono in realtà agli antipodi, ma condividono un complesso miscuglio di sentimenti e di comportamenti che si sviluppa e si modifica nel corso del romanzo.
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, op. cit., II, 58. Cfr. Miguel de Unamuno, Vita di don Chisciotte e Sancio Panza, Milano, Bruno Mondadori, 2005, p. 23; Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, volume II, Torino, Einaudi, 1956, p. 97. 12 Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, op. cit., II, 30. 13 Cesare Segre, introduzione a Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, op. cit., p. XI. 14 Ian Watt, Miti dell’individualismo moderno, op. cit., p. 65; Martín de Riquer, Don Chisciotte e Cervantes, Torino, Einaudi, 2005, p.95; Michail Bachtin, Estetica e romanzo, op. cit., p.312. 15 Paolo Jedlowski, introduzione ad Alfred Schutz, Don Chisciotte e il problema della realtà, Roma, Armando Editore, 1995, p. 13. 16 Alfred Schutz, Don Chisciotte e il problema della realtà, op. cit., pp. 36-37. 17 Thomas Mann, Una traversata con Don Chisciotte, Milano, Il Saggiatore, 1995, p. 16. 18 Paolo Jedlowski, introduzione ad Alfred Schutz, Don Chisciotte e il problema della realtà, op.cit., p. 18. 10 11
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Anche se li lega un vincolo di affetto e di fedeltà, Don Chisciotte si lascia spesso cogliere dall’ira contro Sancio, lo insulta, lo maltratta, si vergogna di lui, lo lascia solo nel pericolo; e Sancio, a sua volta, lo segue dapprima per stoltezza ed egoismo sognando di diventare governatore, poi lo inganna, come nell’episodio dell’incantagione di Dulcinea, e non nasconde talvolta di essere stizzito e deluso. Tuttavia, lo scudiero è la consolazione e la controparte del cavaliere, colui “che impedisce che la pazzia lo rinchiuda in una gabbia isolante” e che gli consente di “pensare ad alta voce senza infingimenti”19. Quel che a prima vista sembra basarsi sul contrasto si risolve così in un delicato e complesso parallelo. In qualche misura, uno è una trasposizione dell’altro in chiave diversa20. Entrambi troppo umani per non essere anche contraddittori, sono anche troppo complessi per essere ridotti ad una coppia comica, come avviene nella seconda parte apocrifa del Don Chisciotte firmata con falso nome (Avellaneda) da un autore della cerchia di Lope de Vega. ”L’ambizione li unisce e ne consolida l’amicizia fino agli estremi tentativi di configurarla come complicità”21. La follia di Don Chisciotte e il buon senso di Sancio “sono reciprocamente contagiosi” e, nella seconda parte del romanzo, il cavaliere sviluppa un istinto sancioide, mentre Sancio si donchisciottizza e racconta alla moglie di governatorati su lontane isole usando gli stessi argomenti adottati con lui per convincerlo che i mulini sono giganti e le locande castelli22. “È maggior prova di chisciottismo il fatto che un savio vada dietro a un pazzo, che non quello che un pazzo corra dietro alle proprie follie”23. L’uno si incarica di ereditare la strategia intellettuale dell’altro24 e lentamente Sancio si trova a dover accettare l’incantesimo come plausibile schema di comunicazione o persino come un dato di fatto. In questo modo, nella terza uscita, quando i protagonisti sono allo stesso tempo lettori del romanzo25 e vivono della fama della loro fama perché le loro imprese sono state narrate nella prima parte originale del romanzo e nella seconda apocrifa, la fede di Don Chisciotte nel proprio ruolo cavalleresco diminuisce mentre quella di Sancio aumenta26 e la sua mentalità è sempre più
Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, op. cit., pp. 108-110; Miguel de Unamuno, Vita di don Chisciotte e Sancio Panza, op. cit., 2005, p. 55. 20 cit. in Vladimir Nabokov, Lezioni sul Don Chisciotte, op. cit., p. 48. 21 Riccardo Campa, La destrezza e l’inganno. Saggio sul Don Chisciotte di Miguel de Cervantes Saavedra, Roma, Il Veltro editrice, 2002, p. 32. 22 Vladimir Nabokov, Lezioni sul Don Chisciotte, op. cit., p. 47. 23 Miguel de Unamuno, Vita di don Chisciotte e Sancio Panza, op. cit., p. 57. 24 Riccardo Campa, La destrezza e l’inganno. Saggio sul Don Chisciotte di Miguel de Cervantes Saavedra, op. cit., p. 92. 25 Cfr. Jorge Luís Borges, “Magie parziali del Don Chisciotte”, in Altre inquisizioni, Milano, Feltrinelli, 1974, pp.49-52. 26 Ian Watt, Miti dell’individualismo moderno, op. cit., p. 69. 19
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dominata dal ruolo di scudiero. Alla fine del libro, i due sembrano essersi scambiati i sogni e, almeno in parte, il destino27. Quando ne ha l’occasione, Sancio dimostra, prima di ogni altra cosa, di essere un uomo fedele. In un memorabile dialogo con la Duchessa, egli dice chiaramente che se avesse sale in zucca avrebbe già lasciato il suo padrone. “Ma così hanno voluto il mio destino e la mia sfortuna. Non posso farne a meno, bisogna che lo segua”. I motivi sono semplici, almeno in apparenza: Siamo dello stesso paese, ho mangiato il suo pane, gli voglio bene, lui me n’è riconoscente e m’ha regalato i suoi ciuchini e poi soprattutto io sono fedele, e quindi non c’è altro che la fossa ormai che ci possa dividere28.
Tutto questo è molto più della devozione che uno scudiero deve al proprio cavaliere, è “una sincera e ammirata fedeltà da vassallo29”, un rapporto di tale vicinanza e condivisione che nemmeno la lusinga di un governatorato può pregiudicare. In un originale discorso su Amleto e Don Chisciotte30, Turgenev osserva che Polonio è il rappresentante della massa di fronte ad Amleto come Sancio lo è di fronte a Don Chisciotte31. Il primo è un vecchio pratico, attivo, di buon senso, un ottimo amministratore, un padre esemplare, un chiacchierone che considera Amleto un bambino, un inutile incapace. Sancio, pur ridendo della pazzia di Don Chisciotte, lascia patria, casa, moglie, figlia, per seguirlo ovunque, passa ogni sorta di guai, gli è devoto fino alla morte pur sapendo che lo scudiero di un cavaliere errante non può aspettarsi quasi nient’altro che botte. Allora è necessario cercare altrove la causa della devozione, che per Turgenev è radicata nella capacità di un felice e onesto attaccamento, di un entusiasmo disinteressato, di un disprezzo per l’utile personale più diretto. Quando, alla fine della storia, Don Chisciotte sconfitto fa ritorno con Sancio all’imprecisato paese della Mancia dal quale sono partiti e da dove tutto ha avuto origine, i due non si rassegnano alla vita precedente l’inizio delle loro imprese. Nell’impos-
27 Una versione ebraica di Sancio è rappresentata da Senderl, il compagno di viaggio dell’ebreo polacco che dà il titolo al racconto lungo del “nonno” della letteratura jiddisch Mendele Moicher Sfurim I viaggi di Beniamino Terzo. Uomo semplice, senza particolare saggezza, Senderl è un deriso, tranquillo, capro espiatorio, vessato e picchiato dalla moglie. Subalterno, infantile e femminilizzato, accondiscende ad ogni impresa ripetendo “Che problema c’è per me? Sia pure così!”. Beniamino, il suo compagno di avventure, considerato matto, ha trovato la propria ossessione nei libri di viaggio come don Chisciotte l’ha trovata nei libri di cavalleria e promette al suo improbabile scudiero una nomina a viceré. Tuttavia, i due personaggi sono troppo scolpiti nei loro ruoli affinché si possono intravedere spazi per una autentica metamorfosi interiore. Cfr. Mendele Moicher Sfurim, I viaggi di Beniamino Terzo, Milano, Rizzoli, 1992. 28 Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, op. cit., II, 33, pp. 877-878. 29 Thomas Mann, Una traversata con Don Chisciotte, Milano, Il Saggiatore, 1995, p. 19. 30 Ivàn Turgenev, “Amleto e Don Chisciotte”, discorso pronunciato il 10 gennaio 1860 in una pubblica lettura a favore dell’Associazione per l’aiuto ai letterati e agli scienziati bisognosi), oggi in Ivàn S. Turgenev, Teatro – Opere varie, a cura di Ettore Lo Gatto, Milano, Mursia, 1964, pp. 719-735. 31 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, op. cit., p. 102.
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sibilità di intraprendere nuove avventure cavalleresche almeno per un anno – è questo l’impegno preso dallo sconfitto Don Chisciotte con il Cavaliere dalla Bianca Luna – si inventano subito una nuova via di fuga: farsi pastori “e menar vita campestre”, all’inseguimento di un arcadico e bucolico nuovo sogno. Come ha scritto Claudio Magris: Don Chisciotte ha bisogno di Sancho Panza, il quale vede che l’elmo di Mambrino è una bacinella e sente l’odore di stalla di Aldonza, ma capisce che il mondo non è completo né vero se non si cerca quell’elmo fatato e quella beltà luminosa. Sancho segue il folle cavaliere – anzi, quando rinsavisce, si sente smarrito e reclama l’esigenza delle avventure incantate. Ma Don Chisciotte, da solo, sarebbe forse più povero di lui, perché alle sue gesta cavalleresche verrebbero a mancare i colori, i sapori, i cibi, il sangue, il sudore e il piacere sensuale dell’esistenza, senza i quali l’idea eroica, che infonde ad essi significato, sarebbe un’asfittica prigione32.
Le parole storpiate Nel suo viaggio alla ricerca di avventure, Don Chisciotte adotta “un parlare per lo più libresco e antiquato, ma anche denso di saggezza umanistica”, fatto di ornate parole che risultano quasi sempre incomprensibili alla gente semplice, abituata ad esprimersi in modo più rustico. Sancio, che regala al romanzo la possibilità di attivare dialoghi e raddoppiare i punti di vista su ciò che accade, si esprime, al contrario, con un linguaggio pieno di umori popolareschi e colloquiali oltre che di luoghi comuni conformistici33. Con una certa regolarità, lo scudiero non si lascia sfuggire l’occasione di moltiplicare i nomi e di storpiare i vocaboli. Confonde scrissi con eclissi, stèntile con sterile, pateracchi con patriarchi, pigiata per pregiata, Catone incisore con Cantone il censore, Esoso con Esopo, tritolo con titolo, l’elmo di Malino o Malandrino con l’elmo di Mambrino. E, ancora, presonaggi con personaggi, vocavoli con vocaboli, incotta con indotta, fòcile con docile, sorteggio con conteggio, risorbesse con risolvesse, friscale con fiscale, linea tinozzale con linea equinoziale, zipillino per zibellino, spalafieni per palafreni. Tutto questo avviene con grande disappunto del cavaliere, che non sopporta le storpiature34, ma con uguale disappunto di Sancio, che di quegli errori è l’autore. -
Signor padrone, la mi’ moglie l’ho bell’è incotta a lasciarmi venir via con lei dove la mi vorrà portare. Indotta, vuoi dire, Sancio, e non incotta. Gliel’ho già detto un altro par di volte, se ben mi ricordo – disse Sancio – che mi faccia il piacere di non mi corregger le parole, quando capisce quel che voglio dire. E quando non capisce, dica: “Sancio”, oppure: “Diavolo, non ti capisco”. E se io non riesco a farmi intendere, allora sì mi corregga, perché io son molto fòcile.
Claudio Magris, Utopia e disincanto, Milano, Garzanti, 1999, p. 12. Rosa Rossi, Breve storia della letteratura spagnola, op. cit, p. 85. 34 Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, op. cit., pp. 98, 99 e 100. 32 33
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Non ti capisco, Sancio – disse subito Don Chisciotte – poiché non so quel che vuol dire “son molto fòcile”. Molto fòcile vuol dire che son molto... così. Ora t’intendo meno che mai – replicò Don Chisciotte. Se non riesce a capirmi – rispose Sancio – io non so come dirlo; non so altro, e Dio m’assista. Ah! ora ho capito – replicò Don Chisciotte – tu vuoi dire che sei molto docile, remissivo, arrendevole, e che tu accetterai quello ch’io ti dirò e farai ciò che t’insegnerò. Scommetterei – disse Sancio – che fin da principio lei la m’ha capito benissimo, vede; ma l’ha fatto apposta per imbrogliarmi e farmi dire altri duecento sfarfallotti 35.
Sancio è una cornucopia di proverbi, un sacco pieno di mezze verità36 che attinge dalla ricca tradizione orale (verso la fine del capitolo 19 ha già pronunciato la sua prima sentenza: “Ai morti sepoltura e ai vivi buona ventura”), ma è anche molto abile, per non smentire il suo padrone, ad inventare la parola bacilelmo quando nella locanda nasce una surreale discussione sulla bacinella da barbiere che Don Chisciotte ritiene essere l’elmo di Mambrino37. Nonostante questo, il cavaliere è consapevole di non poter pretendere che il suo scudiero conosca il latino. -
Non aver timore a lasciare incustodite le nostre cavalcature, perché colui che ci porterà così lunge, avrà cura certamente di nutrirle. Lunge? – disse Sancio. – Non capisco. È una parola che, da quando son nato, non l’ho mai sentita dire. Sì, lunge – disse Don Chisciotte – cioè lontano. E non può far meraviglia che tu non la capisca, poiché non sei obbligato a sapere il latino, come alcuni che pretendono di saperlo e lo ignorano38.
Nella seconda parte del romanzo, anche il Duca correggerà Sancio per lo stesso motivo (Abrenuntio diventa nella sua bocca apro e renunzio): “La mi lasci stare, Altezza […]. La si figuri se ora posso stare a badare tanto pel sottile a una lettera di più o di meno!”39 Al contrario del proprio scudiero, un cavaliere errante che gira il mondo per raddrizzare i torti e riparare le ingiustizie deve avere innumerevoli conoscenze. Innanzitutto deve essere un giurista e conoscere le leggi, un teologo per sostenere le regole cristiane, un medico e un erborista per preparare il balsamo di Fierobraccio, capace di curare un cavaliere tagliato a metà, un astronomo per orientarsi con le stelle. Ma deve anche sapere come si ferra un cavallo e come si sistema una sella, deve saper nuotare, ma soprattutto deve essere devoto alla verità40. Deve, in altri termini, possedere conoscenza teoriche e pratiche, una visione del mondo, un insieme non
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, op. cit., II, 7. Vladimir Nabokov, Lezioni sul Don Chisciotte, op. cit., p. 49. 37 Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, op. cit., I, 44-45. 38 Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, op. cit., II, 29. 39 Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, op. cit., II,35. 40 Alfred Schutz, Don Chisciotte e il problema della realtà, op. cit., pp. 29-30. 35 36
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comune di elementi che fanno di un cavaliere errante l’emblema di un sapiente al servizio di una causa, di un asceta laico che si sottopone a rinunce e privazioni per onorare il proprio compito e la propria missione.
L’incantagione di Dulcinea Don Chisciotte è un inguaribile cultore di romanzi di cavalleria che “hanno scritto una volta per tutte la prescrizione della sua avventura”41 e, nella lettera a Dulcinea, la contadina Aldonza trasfigurata in una nobile dama alla quale egli dedica le sue imprese, si esprime con arcaismi che parodiano lo stile delle epistole amorose dei cavalieri: Nobilissima e pregiata signora, Il ferito dalle punte della lontananza e piagato dai dardi del cuore, o dolcissima Dulcinea del Toboso, ti augura quella salute ch’egli più non ha. Se la tua beltade mi sdegna, se i tuoi meriti non mi sono favorevoli, se il tuo disprezzo alimenta la mia angoscia, benché io sia capace di sofferenza, mal potrei sostenermi in questa afflizione, che oltre ad esser forte sarà anche molto prolungata. Il mio buon scudiero Sancio ti darà piena relazione, o bella ingrata, o amata nemica mia, dello stato in cui per causa tua ridotto mi vedo: se ti piacesse di soccorrermi, son tuo; altrimenti fa’ come più ti aggrada, perocché mettendo fine ai miei giorni avrò satisfatto alla tua crudeltade e a’ desidèri miei. Tuo fino alla morte Il Cavaliere dalla Triste Figura 42
Sarebbe compito di Sancio consegnare la lettera a Dulcinea, ma l’epistola rimane per errore a Don Chisciotte e lo scudiero si sforza di ripeterla a memoria al curato e al barbiere, incontrati alla locanda. Nella sua versione, il testo si trasforma nel modo seguente, parodia di una parodia: Mi ricordo solamente che in principio diceva: Nobilissima e pigiata signora. - No, non dirà così – osservò il barbiere – dirà forse “pregiata signora”. - Si, sì, proprio così. E poi, se ben mi ricordo, seguitava: il piagato e insonne e il ferito bacia alla Signoria Vostra le mani, ingrata e sconoscente beltà; e non so quel che diceva di salute e di malattia che le mandava, e poi andava avanti così finché finiva: Vostro fino alla morte, il Cavaliere dalla Triste Figura 43.
All’inizio della seconda parte del romanzo, Sancio contribuisce con una burla ad alimentare proprio il mito di Dulcinea. Egli deve recarsi al Toboso per cercarla e annunciarle una visita del cavaliere, ma decide di uscire da quell’impiccio ingannan-
“Il libro è più il suo dovere che la sua esistenza. Senza posa deve consultarlo per sapere che fare e che dire e quali segni dare a se stesso e agli altri per mostrare che la sua natura è la stessa del testo dal quale è uscito. I romanzi di cavalleria hanno scritto una volta per tutte la prescrizione della sua avventura”. Cfr. Michel Foucault, Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1970, pp. 61-65. 42 Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, op. cit., I, 25. 43 Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, op. cit., I, 26. 41
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do Don Chisciotte e facendogli credere che la dama stia arrivando, accompagnata da due donne, proprio per rendergli un saluto. Questa volta, però, Don Chisciotte vede solo tre contadine sopra tre asini – vede, cioè, la realtà così come si manifesta – e Sancio inscena un capolavoro di mistificazione, quello che Auerbach ha definito “l’incantagione di Dulcinea”. Lo scudiero quindi avanza incontro alle contadine, scende dal ciuco, si inginocchia e recita la sua parte: Regina, principessa e duchessa della bellezza! Che la Vostra Alterezza e Grandigia si degni di ricevere nelle sue buone grazie questo cavaliere vostro stiavo, che lì se ne sta impietrito come un pezzo di marmo, senza fiato e tutto confuso nel vedersi avanti alla vostra presenza. Io son Sancio Panza suo scudiero, ed egli è il tribolato cavaliere Don Chisciotte della Mancia, detto con altro nome il Cavaliere dalla Triste Figura.
Le parti si sono invertite. Don Chisciotte non è in grado di riconoscere Dulcinea nelle sembianze di una contadina – e qui, per la prima volta, si insinua un dubbio nella follia del cavaliere – mentre lo scudiero gli fa credere che ella sia incantata da un mago malvagio. Tutto gli riesce egregiamente, poiché conosce ormai la psicologia del suo padrone e sa adoperare lo stile dei romanzi cavallereschi. “Nessuno accetta interamente come lui la personalità di Don Chisciotte, e nessuno la rivive così immediatamente entro di sé”44. E proprio alla luce di quell’episodio farsesco si può intendere un apologo di Kafka “dal carattere squisitamente chassidico45” (1919), che Walter Benjamin definì “il più perfetto”: Sancho Panza, che per altro non se ne vantò mai, riuscì, col passare degli anni e a furia di comporre un gran numero di romanzi di cavalleria, ad allontanare da sé, nelle ore del crepuscolo e della morte, il suo demonio (a cui poi diede il nome di don Chisciotte) fino al punto che costui si lanciò irrefrenabilmente nelle più pazze avventure; le quali, però, per mancanza di un oggetto predeterminato (che poi avrebbe dovuto essere per l’appunto Sancho Panza) non fecero male a nessuno. Sancho Panza, uomo libero, sempre impassibile, forse in ragione di un certo senso di responsabilità, seguì fino alla fine don Chisciotte nel suo girovagare, procurandosi così un grande e utile divertimento.
Educazione di un governatore La burlesca nomina di Sancio a governatore è ormai imminente e don Chisciotte ritiene di doverlo consigliare e istruire per il nuovo incarico. A questo proposito, i capitoli XLII e XLIII divengono una specie di compendio sull’educazione di un uomo di governo. Il lettore sorride, avvisato della farsa, ma il cavaliere ignaro assume il compito con serietà e impegno. Il risultato è una summa di suggerimenti ispirati alla prudenza, alla saggezza e alla moralità. Qui Cervantes sembra tener conto
Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, op. cit., pp. 93 e 109. Corrado Bologna, introduzione a Miguel de Unamuno, Vita di don Chisciotte e Sancio Panza, op. cit., p. XXX.
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degli aforismi di Isocrate, già tradotti in castigliano quando lo scrittore si accinge alla redazione del romanzo, e di altri che compaiono nell’opera El perfecto regidor di Juan de Castilla y Aguayo (1586), nel Galateo español di Gracián Dantisco e, forse, nel Galateo di Giovanni della Casa, pubblicato in spagnolo nel 158546. La prima parte degli insegnamenti riguarda ciò che può adornare l’anima, mentre la seconda riguarda l’ornamento del corpo. In primo luogo, spiega Don Chisciotte a Sancio, bisogna temere Dio poiché nel temerlo consiste la vera sapienza. In secondo luogo, bisogna cercare di conoscere se stessi, per evitare di montarsi la testa, di gonfiarsi come il ranocchio che voleva eguagliare il bue. È bene non dimenticare e non nascondere le proprie origini e condursi più da umile virtuoso che da peccatore superbo, facendo della virtù un modello e pregiandosi delle azioni eccellenti. I parenti in visita all’isola devono essere accolti amorevolmente – continua don Chisciotte – e la moglie va portata con sé, guidata e ammaestrata (e in caso di vedovanza è opportuno risposarsi). È bene inoltre non lasciarsi guidare dalla legge del capriccio, ma piuttosto provare compassione per le lacrime del povero, amministrare la giustizia con imparzialità ed equità, riconoscere la verità del dovizioso e dell’indigente, esercitare la misericordia e la clemenza. Per quanto riguarda la cura della persona, Don Chisciotte consiglia a Sancio di serbarsi mondo e pulito, di tagliarsi le unghie, di non andare male in assetto, anche se la compostezza non deve degenerare in buffoneria. Lo scudiero-governatore dovrà inoltre esaminare con cura quanto può rendere il suo ufficio, valutare di dare livrea ai servitori (una livrea modesta e utile piuttosto che vistosa e bizzarra). Aglio e cipolle vanno evitati (l’odore potrebbe rivelare le umili origini contadine), il desinare e la cena devono essere parchi perché la sanità del corpo si compone nell’officina dello stomaco. Temperato deve essere anche il bere, poiché il troppo vino fa violare i segreti e mancare di fede. Inoltre è opportuno non divorare a quattro ganasce ed evitare di ruttare. Il vestito sarà: calza intera, casacca lunga, ferraiuolo alquanto largo, “ma i calzoni neppure ti cadano in mente, ché sconvengono e ai cavalieri e ai governatori”. Bisogna camminare adagio e parlare con calma evitando però ogni affettazione e soprattutto quella moltitudine di proverbi che Sancio è abituato a scodellare in continuazione. Montando a cavallo non si deve gettare il corpo sull’arcione, né tenere le gambe intirizzite o stirate o lontane dal corpo dell’animale. Infine, non ci si deve abbandonare troppo al sonno perché la diligenza è madre della buona ventura, e infine non ci si deve accingere a disputare di lignaggi. Di questo ricco compendio di insegnamenti, solo due restano nella memoria labile di Sancio: non lasciar crescere le unghie e maritarsi, all’occorrenza, una seconda volta. Per ricordare tutti i consigli bisognerebbe che fossero scritti perché anche se
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Martín de Riquer, Don Chisciotte e Cervantes, op. cit., p. 145.
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Sancio non sa leggere, potrebbe farseli ricordare dal confessore (don Chisciotte provvederà a farglieli avere per iscritto, ma Sancio li perderà subito). È un male che i governatori siano analfabeti, commenta don Chisciotte invitando Sancio ad imparare almeno ad eseguire la firma. Ma lo scudiero ritiene di essere già in grado perché al suo paese sapeva fare certe strisce come quelle delle balle delle mercanzie e quelle strisce, a suo dire, indicavano il suo nome.
Un “nuovo Salomone” Nabokov esagera quando afferma che l’unica cosa che conferisce a Sancio un barlume di personalità propria “è l’eco grottesca che producono in lui certe note della nobile musica del suo padrone”47. Ed esagera Auerbach quando sostiene che tutta la sua educazione consiste “solamente nell’imitazione di don Chisciotte”48. Sotto la penna di Cervantes, il personaggio dello scudiero analfabeta cresce, si affina, si evolve assorbendo certamente l’ingegno del cavaliere49, assimilandone il linguaggio e i meccanismi interpretativi, ma anche mettendo in scena qualità proprie oltre che un breve momento di sorprendente lucidità. È quando parte per l’isola continentale che deve governare, nel bel mezzo dell’Aragona, vestito in parte da dottore in legge e in parte da capitano, a cavallo di un mulo50. Sancio dimentica quasi subito l’originario intento di arricchirsi, come del resto gli insegnamenti di don Chisciotte, e dimostra un grande senso dell’equità e della giustizia. Giunto all’isola Barattaria, Sancio viene accolto dall’intera comunità, accompagnato in duomo per rendere grazie a Dio e, con ridicole cerimonie, riceve le chiavi del paese. Condotto alla sala del consiglio, viene fatto sedere per il suo primo ufficio. Egli deve risolvere la controversia tra un contadino e un sarto a proposito di berretti di panno, quella tra due anziani sul prestito non restituito di dieci scudi d’oro e quella tra un ricco pastore e una donna. Ogni sentenza viene emanata con giudizio e arguzia e Sancio non sembra affatto uno sprovveduto, ma un “nuovo Salomone”. Egli vuole aiutare i contadini, mantenere ai cittadini i loro privilegi, premiare i virtuosi, rispettare la religione, onorare i suoi ministri. Sette capitoli del romanzo51 narrano di Sancio governatore, dei cibi prelibati che non può gustare a causa del severo controllo del medico, degli annunciati assalti dei nemici, della visita di un contadino impostore e imbroglione e di una agitata ronda notturna. La saggezza inattesa
Vladimir Nabokov, Lezioni sul Don Chisciotte, op. cit., p. 46. Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, op. cit., p. 93. 49 Martín de Riquer, Don Chisciotte e Cervantes, op. cit., p. 94. 50 Vladimir Nabokov, Lezioni sul Don Chisciotte, op. cit., p. 45. 51 Si tratta dei capitoli XLV, XLVII, XLIX, L, LI, LII e LIII. 47 48
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in un uomo che non sa né leggere né scrivere trasforma la burla in verità e gli ingannatori in ingannati. Se Sancio dice di sé di avere più del bestiale che dell’acuto, nondimeno siede al tribunale della giustizia e detta rette sentenze, controlla i mercati, dispone misure per la vendita del vino, modera i prezzi delle calzature, tassa i salari dei servitori, stabilisce pene serissime per chi canta canzoni lascive, proibisce ai ciechi di recitare miracoli in versi, stabilisce un birro per i poveri. Quando Sancio deve contrastare l’assalto dei nemici, la burla raggiunge il suo apice, ma anche il suo epilogo perché la dignità ha il sopravvento sull’ambizione. Lasciati i panni di governatore e ripresi quelli di scudiero, Sancio si reca alla stalla, abbraccia il suo asino, lo bacia, lo imbardella e vi monta sopra. L’amore verso il proprio animale e verso il proprio padrone – osserva ancora Nabokov - “sono i suoi tratti più umani”52. Egli, rincara Victor Hugo, è “tutt’uno con l’asino, fa corpo con l’ignoranza”53, ma anche questa è un’esagerazione ingenerosa. Fatemi largo, signori miei, e lasciatemi ritornare alla mia antica libertà: lasciatemi andare a ricercare la mia vita passata, per resuscitare da questa morte presente. Io non son nato per fare il governatore né per difendere isole e città assalite dai nemici. Io son più adatto per arare, zappare, potare e propagginar le viti, che per far leggi e difender province e regni. [...] Addio, dunque, signori miei; e dicano al Duca, mio signore, che nudo mi trovo e nudo son nato: non ho perduto né guadagnato. Voglio dire che son venuto al governo senza un soldo e senza un soldo me ne vo54.
Sancio, infatti, chiede solo un po’ di biada per il suo asino e mezza forma di cacio e mezza di pane per sé, l’equivalente delle “rape e fagiuoli” del Bertoldo di Giulio Cesare Croce.
Il magistero di un cavaliere In compagnia di Don Chisciotte, Sancio diventa migliore, più saggio e apprende le regole della cortesia. Ad eccezione delle faccende cavalleresche, l’ingenioso hidalgo, infatti, è “colto, saggio, giudizioso, avveduto, poco meno che un maestro”55, come dimostra, per esempio, nel discorso sull’educazione e la poesia – eccellente, a giudizio di Thomas Mann56 - rivolto a Don Diego di Miranda, il signore dal “Verde Gabbano”, che lamenta il fervore poetico del figlio a dispetto degli studi di legge e di teologia e al quale Don Chisciotte rivolge un’interessante dissertazione che sinte-
Vladimir Nabokov, Lezioni sul Don Chisciotte, op. cit., p. 47. Victor Hugo, Shakespeare genio grottesco, cit. in Carlo Montaleone, Don Chisciotte e la logica della follia, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 35, nota 25. 54 Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, op. cit., II, 53. 55 Cesare Segre, introduzione a Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, op. cit., 1974, p. XXXI. 56 Thomas Mann, Una traversata con Don Chisciotte, op. cit., p. 30. 52 53
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tizza, tra l’altro, precetti educativi del libro biblico dei Proverbi: Signor mio, i figli son carne della carne dei loro genitori, e buoni o cattivi bisogna amarli come l’anima nostra. Tocca ai genitori a indirizzarli fin da piccini sulla via della virtù, della buona creanza e dei buoni e cristiani costumi, perché siano poi da grandi il bastone della loro vecchiaia e la gloria dei loro discendenti. Ma il forzarli a studiare una cosa piuttosto che un’altra non lo credo utile, sebbene il cercar di persuaderveli non sarà dannoso: e quando non si deve studiare pane lucrando, ma colui che studia ha la fortuna di avere avuto da Dio dei genitori che gli lasceranno di che vivere, allora io sarei del parere che gli si lasciasse la libertà di seguire quegli studi per i quali si vede che ha più inclinazione: e sebbene lo studio della poesia sia più dilettevole che utile, non è tuttavia di quelli che disonorano chi la coltiva. La poesia, a parer mio, è come una fanciulla di tenera età e d’una perfetta bellezza che molte altre fanciulle, che son tutte l’altre dottrine, hanno cura di adornare ed abbellire, perché ella deve servirsi di tutte e tutte devono nobilitarsi per mezzo di lei. Ma questa fanciulla non vuol essere maneggiata, né trascinata per i vicoli, né esposta al pubblico agli imbocchi delle piazze o sulle cantonate dei palazzi. E’ fatta di un metallo di tal virtù, che chi lo sa trattare riesce a cambiarlo in oro purissimo d’inestimabile valore57.
Pur essendo ancora lontano da queste raffinatezze, anche Sancio, nel tempo, ha imparato ad esprimersi con “parole scelte”, suscitando lo stupore di Don Chisciotte. Le parti si sono invertite, ed è il cavaliere che ora parla attraverso un proverbio (“Dimmi chi pratichi e ti dirò chi sei”), per compiacersi di una raffinata riflessione di Sancio sul sonno: Benedetto chi inventò il sonno! E’ una cappa che copre tutti i pensieri, un vitto che leva la fame, un’acqua che estingue le sete, un fuoco che toglie il freddo, un fresco che tempera il caldo, e finalmente una moneta con cui si compra ogni cosa, una bilancia su cui si eguagliano il pastore col re, lo stolto col saggio. Una sola cosa brutta ha il sonno, come ho sentito dire, ed è che somiglia alla morte, perché tra un addormentato e un morto c’è poca differenza58.
Cervantes si diverte a giocare con i suoi personaggi. Sotto la sua penna, Sancio subisce una profonda metamorfosi. È cresciuto nel corso del romanzo e con il romanzo; ha fatto tesoro delle conoscenze e del vasto sapere di Don Chisciotte, che talvolta si sorprende della capacità mimetica del suo scudiero; ha cavalcato con lui Clavilegno nella crudele burla che segnerà la fine del “magico potere di auto-incantamento59” dell’hidalgo; ha sperimentato in proprio che cosa significa governare un’isola, senza tuttavia lasciarsi cambiare dal potere. La sapienza di tradizione orale e rurale, equivalente popolaresco delle citazioni letterarie, si è intrecciata con il magistero donchisciottesco, la dicotomia tra cultura subalterna e cultura egemonica si è tradotta in circolarità e influenza reciproche60.
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, op. cit., II, 16. Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, op. cit., II, 68. 59 Alfred Schutz, Don Chisciotte e il problema della realtà, op. cit., p. 54. 60 Su questo tema cfr. Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Torino, Einaudi, 2009, pp. XI-XXV. 57 58
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Alla fine del romanzo, la cultura di Sancio non è più fatta solo di insistenti proverbi, ma anche di originali argomentazioni e si è arricchita di nuove esperienze. Il suo linguaggio è più ricercato, le parole storpiate sono divenute più rare e il mondo, con le sue opportunità e le sue stravaganze, è un po’ meno enigmatico. Ma tutto questo deve ora lasciare il posto all’epilogo, al triste commiato da riservare all’ingegnoso cavaliere errante, maestro a sua insaputa, vissuto come un folle e morto come un saggio. Non ci saranno più avventure o vie di fuga, duchesse o giganti, isole o governatorati, mulini a vento o imprese incantate. Sancio può tornare alle sue occupazioni precedenti, ma è il primo a sapere che niente sarà più come prima.
Bibliografia Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, vol. II, Einaudi, 1956. Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979. Jorge L.Borges, Magie parziali del Don Chisciotte, in Altre inquisizioni, Feltrinelli, 1974. Giuliana Di Febo, Rosa Rossi, Interpretazioni di Cervantes, Roma, Savelli, 1976. Riccardo Campa, La destrezza e l’inganno. Saggio sul Don Chisciotte di Miguel de Cervantes Saavedra, Roma, Il Veltro editrice, 2002. Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, Milano, Mondadori, 1974. Martín de Riquer, Don Chisciotte e Cervantes, Torino, Einaudi, 2005. Miguel de Unamuno, Vita di don Chisciotte e Sancio Panza, Milano, B. Mondadori, 2005. Michel Foucault, Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1970. Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Einaudi, 2009. György Lukács, Teoria del romanzo, Milano, Sugar, 1963. Claudio Magris, Utopia e disincanto, Milano, Garzanti, 1999. Carlo Montaleone, Don Chisciotte e la logica della follia, Torino, Boringhieri, 2005. Vladimir Nabokov, Lezioni sul Don Chisciotte, Milano, Garzanti, 1989. Edward C. Riley, La teoria del romanzo in Cervantes, Bologna, Il Mulino, 1988. Rosa Rossi, Breve storia della letteratura spagnola, Milano, Rizzoli, 1992. Mendele Moicher Sfurim, I viaggi di Beniamino Terzo, Milano, Rizzoli, 1992. Alfred Schutz, Don Chisciotte e il problema della realtà, Roma, Armando, 1995. Ivàn S.Turgenev, Teatro. Opere varie, a c.di E. Lo Gatto, Milano, Mursia, 1964. Ian Watt, Miti dell’individualismo moderno, Roma, Donzelli, 2007. Thomas Mann, Una traversata con Don Chisciotte, Milano, Il Saggiatore, 1995.
RivLas 77 (2010) 4, 665-671
CHIAROSCURI di Anna Lucchiari
Le illusioni della modernità
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ià quando frequentavamo le scuole medie, capitava a noi, come a milioni di altri ragazzi di venir rapiti ben al di là dei panorami che si potevano ammirare dalle finestre. I docenti si lamentavano che eravamo a volte imprendibili perché intenti a cavalcare le personali fantasie. Era notorio che i ragazzi rincorressero sogni e fantasticherie ma nella constatazione c’era una punta di compiacimento (anche io ai miei tempi..) e una certa condiscendente benevolenza. Come a dire: ogni tanto anche loro non ne possono più di stare ad ascoltare le vicende belliche storiche e preistoriche della razza umana. Definire questi sogni è stato un piccolo rovello che mi si è presentato quasi a scadenze regolari: si tratta di pensieri che si liberano dai vincoli della gravità, si tratta di desideri coi quali si vivono rappresentazioni infinite del possibile, dell’auspicabile e, perfino, del temuto? Forse i sogni sono un po’ di tutto questo e continuano ad accompagnare nella loro singolarità la faticosa crescita, il terribile quotidiano, il temibile mistero del futuro. Probabilmente sono necessari a riequilibrare le nostre difficoltà e impotenze, i nostri dubbi, ma è certo che si trae sollievo dal liberarsi dalle àncore che ci tengono avvinti al tempo e alla contingenza. Sulle ali delle parole di una canzone si può viaggiare molto piacevolmente, si può salire all’altezza dei cirri, come gli innamorati di Chagall, e guardare dall’alto l’umanità che si agita attorno al fare inevitabile e vitale. Per definizione dunque, i sogni sono liberi e personali e non appartengono solo all’ambito del poter fare ma soprattutto a quello del poter essere. Sognare di avere bacchette magiche o comandi in grado di vincere ogni ostacolo, sognare di affascinare gli amici, di inventare nuovi meccanismi prodigiosi, di scrivere opere immortali, canzoni indimenticabili, sognare da bambini di essere adulti e di dare lezioni agli insegnanti e ai genitori e cercare di tenere i sogni al guinzaglio, a lungo, per non perdere il delizioso sapore che lasciano in bocca… È un’attività che si diluisce e si annebbia nel corso dell’età adulta; a volte pare che questa facoltà sparisca definitivamente, ma a un certo punto riemerge come l’araba
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fenice. I sogni sono indispensabili proprio perché “rappresentano” in scenari personali un immaginario che, se per un verso vale come compensazione, dall’altro è prodigioso motore del pensiero. La realtà e il fare quotidiano a volte appiattiscono e loro, i sogni, sono una via di fuga, un sollievo, una speranza che prendono vita nei silenzi, nelle pause, a volte nelle solitudini. Presa dalla curiosità di indagare quali siano le modifiche che i sogni, specie quelli giovanili, hanno subito negli ultimi tempi, mi sono messa a guardare i programmi per ragazzi di tutti i canali televisivi e mi sono resa conto che invece di sogni del poter essere o del poter fare, i sogni sono massicciamente concentrati nel poter avere, categoria che ha assunto le dimensioni di un immenso centro commerciale. C’è infatti un servizio trasversale ad ogni rete televisiva rappresentato dalla pubblicità, non solo limitata al nostro paese, ma così pervasiva e omologante da abbracciare come uno strato aggiuntivo della ionosfera, tutti paesi vicini e lontani, tutto il mondo abitato. Sono proprio gli scenari, più che le azioni che si svolgono negli spot, a darmi l’impressione di una regia perversa capace di servire da via maestra ai sogni che vi passeggiano comodamente, imperniati sul possesso di qualcosa: ne consegue che i sogni sono diventati molto meno personali, molto meno ideali, molto meno capaci di offrire autentico sollievo, di nutrire dorate speranze. I messaggi pubblicitari sono diventati, gli stessi con poche varianti in tutto il mondo, l’incarnazione dei sogni e pare suggeriscano a ciascuno: non ti affaticare a cercare la pietra filosofale, io ti darò di meglio; non partire col tuo ronzino a conquistare il mondo o a cercare la felicità, è a portata di mano e solo io te la posso dare. Il patrimonio personale di sogni è diventato un fantasma sfrattato dal castello che si aggira avvilito da un messaggio all’altro. Si comincia la mattina con la pubblicità dei biscotti che non fanno ingrassare, delle merendine sane con l’omino di grano che passeggia in elastiche dissoluzioni e si assiste alla colazione di una famiglia felice dove nessuno è di cattivo umore, si sorride, si ha un ottimo aspetto e si esibisce una allegra gioia di vivere in un ambiente perfettamente in ordine e colorato di tenui tinte pastello. Poi si passa ad elogiare il gelato, la bibita, la pasta, il formaggio, la confezione di stuzzichini e perfino l’umile acqua offerta in varianti blu, rosse, verdi e gialle, tutti prodotti comunque presentati come capaci di fungere da legante, strumento magico per agganciare amici e parenti e vivere in armonia. Il tutto agitato sapientemente in un mondo asettico come nei cartoni animati di disneyana memoria, luminoso e consolante, rigorosamente a lieto fine e, oltre a tutto, privo di odori molesti. La lotta agli odori prende molto spazio pubblicitario: gli odori sono quanto di peggio si possa immaginare. La persona non deve avere odore ma nemmeno devono averlo gli ambienti, gli oggetti, la casa, sicché pare auspicabile vivere in un mondo dove l’odore della menta calpestata nei campi è solo un pallido ricordo perduto nel fieno dei secoli e noi abbiamo perfino la scelta di attivare o non attivare uno spruzzo al nostro passaggio, moderna e tecnologica magia.
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La ricerca della felicità è un’impresa cui le persone si sono dedicate con tenacia e con scarsi risultati da che mondo è mondo. Qualcuno ha identificato la felicità col compimento di un’impresa epica, qualche altro nella conquista del mondo… L’ho riscoperta in un cartone animato che ha avuto breve storia, dove il protagonista è un non meglio identificato Prof assistito da un disincantato Mignolo che nella mia mente sono l’immagine rovesciata di don Chisciotte e del suo scudiero. “Che faremo domani?” domanda al genio di turno il fedele e smilzo scudiero. “Andremo a conquistare il mondo, come sempre” è la risposta. Ma il mondo non sarà mai conquistato e avventura dopo avventura il genio incompreso e visionario mancherà il suo obiettivo, per ricominciare ogni volta daccapo. Gli episodi di questo cartone animato mi hanno colpito molto, ma sono stati presto sostituiti da altri: la conquista del mondo ha velocemente lasciato il campo ad altre conquiste che riguardano piccole cose appunto, un prodotto, un ambiente, un colore, un bisogno fisiologico, un nulla irreale dove mancano la pienezza e la varietà del vero ma anche l’ampio respiro della fantasia. Grandi e piccoli hanno finito con l’identificare la bacchetta magica con oggetti di uso comune (i prodotti), dentifrici, attaccadentiere, saponi, detersivi e candeggianti, divani, attrezzi per la ginnastica, vacanze in luoghi dove pare vengano periodicamente convogliate masse festanti, aspirapolvere e tritatutto. Mi sorprende sempre che in un mondo che si definisce disincantato qualcuno possa ancora pensare che le bacchette magiche esistano e che siano di volta in volta rappresentate da oggetti di uso comune, giocattoli, cibi e perfino elettrodomestici. Viene da ridere, ma un po’ amaro, perché in questo modo i sogni hanno perduto il largo respiro di fantasia e di idealità che dovrebbe essere il loro segno distintivo e si sono trasformati in semplici merci offerte dalla bancarella che il mondo della produzione ha allestito. L’illusione di poter conseguire la felicità con il possesso di qualcosa di materiale ha ridotto i sogni a fantasmi grotteschi e trogloditici e ha privato soprattutto i bambini della capacità di apprezzare ciò di cui dispongono che va ben oltre l’usa e getta. In una rassegna che scorre veloce, c’è sempre un altro oggetto che ha il potere di far conseguire la felicità cosicché i bambini lanciano uno sguardo distratto all’ultimo giocattolo ricevuto e si affrettano ad abbandonarlo in un angolo in attesa che la benevolenza degli adulti procuri loro il nuovo. Che subirà presto la medesima sorte. Gli adulti non se ne rendono conto, perché fanno lo stesso e sono ormai risucchiati dal poderoso tapis roulant del poter avere… che gira e gira accompagnato da sonorità a decibel crescenti, che impediscono ai sogni, quelli veri, di allargare le ali. La modernità ci ha dato molte cose buone, speriamo che non ci porti via definitivamente i sogni, gli splendidi fantasmi personali, davvero dotati di magia pura cui non dovremmo mai rinunciare. Bisognerebbe ricordare ogni tanto che i grandi progressi sono partiti da sogni. Che “sulla luna” o “sotto i mari” è stato prima un volo di fantasia. Che navigare sopra il quotidiano è stato sempre prerogativa di geni che hanno dato molto all’umanità
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e che hanno lavorato proprio sul pensiero che sa librarsi sopra e oltre la realtà del quotidiano, esercitando il “pensiero a catena” quello che mi diverte definire “a ciliegia” (l’uno tira l’altro). Bisognerebbe riuscire sempre ad apprezzare silenzi magari brevi ma intensi per scoprire ogni volta l’emozione di viaggiare nelle vie dell’ignoto fuori, ma anche dentro l’anima e poi reimparare a guardare, ad osservare e ad apprezzare la dorata sovrabbondanza del creato. Abbiamo a disposizione spettacoli quotidiani non interrotti da messaggi pubblicitari nelle albe, nei tramonti, nell’avvicendarsi delle stagioni, nei tappeti di stelle da ammirare in un silenzio religioso, tutto da riscoprire. L’osservazione silenziosa non è noia, come non è vita solo il fare, c’è anche il fascino del sogno che è insieme desiderio, curiosità, immaginazione, arcobaleno di sensazioni e di emozioni che non si trovano al mercato ma che dentro di noi, magari coperte da grigiori infiniti, continuano ad esistere fino al nostro ultimo respiro e magari …oltre.
La profezia della curandera
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l titolo dell’edizione italiana di questo lavoro del prof. Mamani1 può trarre in inganno e non rende giustizia del significato che lo stesso autore, sia nel prologo che a conclusione dell’opera, attribuisce ad esso. Il titolo originario era: Kantu. Il potere della donna. Una musica tutta diversa. È infatti una storia che ha a che fare con le potenzialità femminili che la civiltà moderna o anche l’ottusità maschile hanno via via combattuto, compresso, ibernato se non spedito in dimensioni aliene. La storia si svolge attorno a Cuzco, l’ombelico del mondo, luogo che sa davvero di magia per le singolarità che lo connotano: l’altitudine, la finezza dell’aria, le atmosfere della vicina Machu Picchu, gli abitanti colorati, sorridenti e gentili e la fierezza che si va riscoprendo ogni giorno di più, di essere i discendenti di un popolo la cui cultura può riservarci molte sorprese. Noi l’abbiamo conosciuta solo attraverso le notazioni di colonizzatori, invasori spietati e ignoranti che ce ne hanno fornito immagini almeno distorte quando non deliberatamente falsate. Inoltre, avendo distrutto praticamente tutto il possibile, abbiamo davvero pochi elementi per cercare di ricostruire una cultura che, come tutte quelle che ci hanno preceduto, avrebbe potuto fornirci una sua pietruzza, e non indifferente, alla costruzione faticosa di un mondo migliore. In occasione di una visita in Perù, incontrai una guida molto simpatica e preparatissima, un signore che aveva l’aspetto di un agiato banchiere, che dopo qualche giorno, come entrando in confidenza, ci raccontò di essere diretto
Hernán Huarache Mamani, La profezia della curandera, trad. di B. Cavallero, Piemme, Casale Monferrato 2001, p.384. 1
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discendente degli Inca. Ci spiegò come qualcosa dell’antico sapere si sia potuto salvare grazie ad una tradizione conservata quasi come un segreto di famiglia e che gli indios hanno imparato a tenere, nei secoli, accuratamente nascosta. Non ho difficoltà a credere che nei tempi passati e nemmeno da tanto, spesso la sopravvivenza sia stata legata ad un’apparente cieca adesione a regole, norme e religione che a loro erano estranee e che le abbiano tenute vive affidandosi ad una segreta tradizione orale. Il prof. Mamani, indio nato a Chivay, un villaggio nella cordigliera delle Ande, è l’ultimo erede di un’antica generazione di curanderos. È molto facile trattare con sufficienza queste figure che hanno assolto ad un compito, liberamente scelto e spesso a titolo assolutamente gratuito, mi verrebbe da dire sanitario, ma rischierei anche qui di banalizzare questa singolare figura che è presente nelle Ande e in tutto il Perù, ma anche in Bolivia e altri stati dell’America Latina e centrale. Il fascino che possiede il curandero ai miei occhi e che, sfrondando le inevitabili colorazioni sceniche degli autori che ne hanno parlato, mi colpisce sempre, è che non cura mai la malattia tout court. In occidente e nella nostra cultura, se abbiamo una infezione assumiamo un antibiotico e la debelliamo: nelle culture che sbrigativamente definiamo primitive ma che dovremmo ridefinire come naturali od olistiche, magari la si vince con l’applicazione di erbe, decotti e impiastri con i quali spesso si ottiene il medesimo risultato ma, accanto a queste terapie, il curandero ne applica altre che apparentemente non hanno nulla a che fare con la malattia che è solo un sintomo. Secondo questa cultura, la malattia non è solo il risultato dell’aggressione di un virus ma è spesso il sintomo di uno squilibrio che nasce da problemi ben diversi che minano lo spirito, aprendo la strada a virus che invece un organismo sano potrebbe tenere sotto controllo. Il primo aspetto da curare quindi è quello “psicologico”. Il nostro corpo non è una serie di componenti ben assemblati e interdipendenti, c’è anche uno spirito che produce energie che rendono possibili il buon funzionamento delle singole parti e di queste fra loro. Anche per i nostri medici è ormai accertato che le terapie hanno una efficacia diversa nei diversi malati: ci sono persone che riescono a riattivare da sole l’energia vitale necessaria a vincere la battaglia e altre che non ce la fanno. Probabilmente se fosse possibile stimolare questa energia che i curanderos dicono di sentire e di poter governare, si potrebbe fare di meglio. Certo è un argomento che incuriosisce ed appassiona, tanto che fa cavalcare le pagine del libro al galoppo. Ma c’è anche un altro tema che mi sta particolarmente a cuore che è quello legato alle potenzialità femminili. Secondo quanto scrive l’autore, in alcune civiltà incaiche vi sarebbe stata una attenzione particolare alla educazione femminile (non all’istruzione, che è altra cosa) perché la donna con la sua grande capacità d’amore, è la sola che abbia la possibilità di dare un indirizzo di pace e di armonia con la natura. Scrive l’autore: “nella nostra tradizione si tramanda che la chiave per entrare nella sesta umanità nel nuovo millennio, è in
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mano alle donne”. “Ho deciso - continua l’autore - di scrivere questo libro per diffondere gli insegnamenti della mia maestra e per mostrare la via iniziatica andina che seguirono le donne sagge del nostro popolo mantenendo in segreto le sacre conoscenze della Pachamama”. Nello svolgimento della storia, che in alcuni punti sa un po’ di fantascienza, vi sono tuttavia delle osservazioni sulla natura delle donne molto particolari e che posso apprezzare proprio in quanto donna. C’è ad esempio una riflessione che ho spesso fatto anch’io (Cfr. Secondo Eva, Armando editore, 2007) dove il Mamani rileva l’errore commesso dalle donne che hanno accettato la logica e le regole degli uomini considerandole valide anche per loro. Ma le donne sono diverse…Sono diverse le sensibilità che sviluppano, per loro la dimensione affettiva è dominante e di conseguenza possiedono una vasta gamma di emozioni: più emozioni, più connessioni, più canali… Tutte qualità, sostiene Mamani, che sono in grado di sviluppare la natura umana nel rispetto della vita, della natura e di tutti gli esseri che popolano il creato. Perché questa prevalenza del femminino si possa attuare, occorre lavorare in varie direzioni, sia per ridare alla donna il ruolo che le compete, che per aiutarla a riscoprire quelle potenzialità che millenni di asservimento hanno sopito. Intanto l’autore ci comunica il suo progetto di una Università della vita e della pace, promosso nel corso di una sua conferenza: “Necessità di una nuova educazione”. Questa nuova istituzione educativa dovrà mirare a sviluppare la creatività, la coscienza, la dimensione spirituale e sacrale dell’esistenza. Rispetto allo sviluppo della scienza e della tecnologia, l’educazione umana è rimasta indietro, si è privilegiata l’istruzione che attualmente è amorale, nozionistica, massificante e superficiale. Non esistono istituzioni educative che mirino allo sviluppo della coscienza e della spiritualità. La cultura andina aveva sviluppato una scienza ed un’arte che si basavano non solo sulla capacità analitica dell’uomo, ma soprattutto sulla qualità dell’immaginazione e sull’intuizione delle donne. Il mondo manca d’amore perché gli uomini possono arrivarci solo se una donna li prende per mano e li guida. Confesso che il progetto di una nuova educazione, attenta allo spirito non meno che alla mente, all’analisi ma anche alla fantasia, mi piace molto e mi fa ricordare un altro straordinario sognatore nato in tutt’altra parte del mondo: il poeta Rabindranath Tagore. Indignato per quello che aveva osservato nelle scuole di cui l’occidente andava tanto stolidamente orgoglioso, il grande poeta indiano vuole costruire una scuola diversa dove “i bambini non si sentano in prigione, dove non li si chiuda in una stanza per insegnar loro la geografia. Dove non si mortifichi la loro fame di epica per insegnare loro la grammatica, dove siano vicini alla natura per poter essere guidati a comprendere che il mondo dell’uomo è il regno di Dio e dove soprattutto l’alba e il tramonto e la silente gloria delle stelle non siano costantemente ignorati, dove il giovane e il vecchio siedano alla stessa tavola e condividano il pane quotidiano….” Tagore insomma, nei primi anni del
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Novecento, ritiene che la crisi della civiltà occidentale dipenda dalla eccessiva importanza che si dà allo sviluppo intellettuale dell’uomo e al rifiuto di ciò che si potrebbe definire “l’educazione del cuore”. La sua università si chiama VishvaBharati e vive tuttora sostenuta dal governo indiano e, anche se non so quanto possa essere proprio quella che il poeta aveva sognato, mi consola pensare che ci sia e mi stuzzica il suo nome. In sanscrito Vishva significa universo e Bharati vuol dire saggezza ed entrambe queste parole sono contenute in un versetto (delle Upanishad) che nel suo insieme significa: là dove il mondo si incontra in un nido. I collegamenti vengono fuori con facilità: dove c’è un nido c’è una donna e così mi pare molto vicina a quella che pensa di fondare o ha già fondato il prof. Mamani. Certamente è un grande sogno tanto più che è al femminile e mi piacerebbe sapere che i corsi sono iniziati e l’iniziativa ha avuto successo. Non so se le donne hanno la chiave del progresso vero, so che sono mosse più dai sentimenti che dalla ragione e che per amore le loro energie si decuplicano, so che la maternità è un sentimento che non ha tempo né scadenza e che non teme nulla, e spero che non sia solo il sogno di un grande cuore. I sogni che donne e uomini hanno coltivato fin dalle origini del mondo, indicano chiaramente che questo mondo non è definitivo. Senza questo obiettivo di una terra fatata o promessa, di un paradiso, l’anima diventerebbe per l’uomo un tormento senza senso.
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STRUMENTI di PASTORALE FRANCESCO TRISOGLIO, FSC Il Vangelo di Marco alla luce dei Padri della Chiesa Città Nuova, Roma 2006, pp. 340 Un incontro con il testo nello spirito della lectio divina, un cammino alla scoperta di tutti gli stimoli formativi ivi contenuti. Una guida a rileggere i Padri, che ebbero il merito di vedere nella Scrittura la sorgente delle vita in tutte le sue dimensioni. Una proposta affascinante e stimolante anche per il lettore del nostro tempo.
SILVANO FAUSTI, SJ e VINCENZO CANELLA, FSC Vangeli da rileggere, ascoltare, pregare e condividere 1. Alla scuola di Marco, Ancora, Milano 2003, pp. 335 2. Alla scuola di Matteo, Ancora, Milano 2007, pp. 592 3. Alla scuola di Luca, Ancora, Milano 2009, pp. 614 Tra i numerosi commenti ai Vangeli sinottici questi testi si caratterizzano per essenzialità, semplicità e chiarezza. Il titolo dice il taglio didattico. La struttura ricorrente e comune ai tre saggi è quella tipica di strumenti di facile uso: pericope evangelica, annotazioni per capire, piste e schede per approfondire, suggerimenti per pregare. Un metodo collaudato per l’esercizio della lectio divina.
MARIO CHIARAPINI, FSC Aspettando la domenica… durante l’anno scolastico con il Vangelo in mano Paoline, Milano 2004, pp. 398 L’attesa della domenica da parte di molti giovani sembra solo un’attesa vacanziera all’insegna dell’evasione e dello stordimento, ma può essere anche un’occasione di crescita nella maturazione cristiana, aiutati dalle pagine del Vangelo.
MARIO CHIARAPINI, FSC Sacramenti della fede - L’infinito tra noi EDB, Bologna 2010, pp. 142 “Sono convinto che, pur non essendoci verità nuove sul tema, si possono ancora riscoprire in modo nuovo tanti aspetti interessanti. La dimensione sacramentale è talmente decisiva che esige di essere continuamente riscoperta. La novità consiste nella fame e sete di Dio riavvertite da adulti e giovani d’oggi” (dalla prefazione).
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RivLas 77 (2010) 4, 675-685
RETAZOS LASALIANOS [21-25] JOSÉ MARÍA VALLADOLID
¿De qué fuentes lasalianas disponemos en español ? [21]
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Material disponible para estudio - Cualquiera que desee hacer un estudio serio sobre el santo Fundador debe acudir a lo que llamamos las Fuentes lasalianas. ¿Cuáles son estas fuentes? Las podemos clasificar en dos categorías, a saber: 1.1. Para estudiar la persona del santo, las cuatro primeras biografías, que son la de Bernard, las dos de Maillefer y la de Blain. Además, toda la documentación sacada a la luz por las investigaciones en diversos archivos, sobre todo por el Hno. Luís Aroz, y que está publicada en diversos Cahiers lasalliens. 1.2. Para estudiar el pensamiento y las enseñanzas del santo, las obras escritas por él. Aparte de estas fuentes, existen numerosos estudios sobre el santo. Para conocer mejor los diversos aspectos de su personalidad, disponemos de diversas biografías (Éloge historique, Guibert, Lucard, Battersby, Gallego...) y estudios, algunos excelentes (F. Clément-Marcel, Par le mouvement de l’Esprit; Campos, Itinerario evangélico de SJBS; Sauvage-Campos, Anunciar el Evangelio a los pobres; Sauvage, Catequesis y laicado; F. Alphonse, À l’école de SJBS; Jourjon, Pour un renouveau spirituel; J. Goussin, Construir el hombre y hablar de Dios en la escuela..., entre otro muchos). Merecen especial mención la serie de tesis doctorales realizadas por varios Hermanos (Gallego, Varela, Alcalde, Temprado, Maymí, Mengs, Diumenge, Villalabeitia, etc.). Y con un mérito especial para conocer el medio histórico y social del santo, los estudios del H. Yves Poutet, especialmente Le XVIIe siècle et les origines lasalliennes. En fin, existen estudios muy serios sobre algunas de las obras del santo fundador, Cartas, Règles de la bienséance, Guía de las Escuelas, Método de oración, Meditaciones, Deberes del cristiano, etc. Esta relación no pretende ser exhaustiva, ni mucho menos, pero creo que las indicadas son obras de verdadero valor para cualquier investigación lasaliana. 2. ¿De qué fuentes disponemos en español ? - Pero cabe que nos preguntemos: de la doble categoría de fuentes, es decir, de las primeras biografías y de los escritos
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del santo, ¿cuáles han sido, y son, accesibles para los estudiosos de La Salle en lengua española? Pues veamos la respuesta a esta cuestión. - De las cuatro primeras biografías del santo, desde 1990 disponemos de una traducción de Bernard, hecha por el Hno. José María González, de Centroamérica. - De la segunda biografía de Maillefer (la de 1740), tenemos dos ediciones, ambas hechas en Colombia, y una lleva la fecha de 1977. A pesar del indudable y meritorio esfuerzo realizado, ambas ediciones chocan en muchas expresiones para el lector de España. - De la biografía de Blain, que consta de cuatro partes recogidas en dos tomos, sólo la cuarta y última parte es la que se ha traducido al español. Esta parte es la que conocemos como Espíritu y virtudes de San Juan Bautista de La Salle. Hay dos ediciones, una de 1905, cuyo texto se tradujo, no sobre el original de Blain, sino sobre la edición francesa modificada y corregida por el abate Carion; y otra de 1962, que es fiel al texto de Blain. - De las tres primeras partes de Blain nunca hemos tenido una traducción española. Los que hayan manejado a Blain en la casa de formación o en otros sitios, lo han hecho, casi siempre, sobre una edición francesa corregida y modificada por el citado abate Carion. Difícilmente pudieron hacerlo sobre el original de Blain, de 1733, porque los ejemplares eran muy difíciles de encontrar, y sobre todo muy difíciles de leer, a causa de la grafía del siglo XVIII. En cambio, el acceso a los escritos del santo fundador ha sido relativamente más fácil, sobre todo desde que el H. Maurice-Auguste Hermans emprendió la tarea de reproducirlos todos en la colección de Cahiers lasalliens, a partir de 1960. Afortunadamente, desde 2001 disponemos de la traducción española de todos esos escritos, recopilados en las Obras Completas, en tres tomos. 3. Lo que se está preparando - En la actualidad se ha abordado la preparación de la traducción española de las cuatro primeras biografías, totalmente revisadas, a saber: Bernard, las dos biografías de Maillefer y todo Blain, en sus cuatro partes. Se espera que en este año 2010, con la ARLEP unida en un único distrito, se puedan ofrecer en cuatro volúmenes. En el primero, las biografías de Bernard y las dos de Maillefer; en el segundo, las tres primeras partes de Blain; en el tercero, la cuarta parte de Blain más los complementos que añadió Blain y que nunca se publicaron en otras ediciones; y en el cuarto, todos los índices de las cuatro biografías acumuladas: onomástico, geográfico, sistemático y analítico. Un proyecto complementario consiste en la edición de un DVD conteniendo las cuatro biografías en francés y en español; las Obras Completas, en francés y en español; el Éloge historique, en francés, la biografía escrita por Gallego, en español; el Vocabulaire lasallien, (los seis tomos, con unas 5900 páginas, elaborado por el H. Maurice-Auguste), en francés; y la Cronología Lasaliana, de J. M. Valladolid, en francés y en español. Este DVD se distribuiría gratuitamente a cuantos quisieran utilizarlo, con el fin de que puedan hacer observaciones y proponer modifi-
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caciones y correcciones. El último paso de este proyecto sería colgar todo el conjunto del trabajo en Internet, pero elaborado de tal manera que permita todo tipo de vínculos.
¿Podemos saber, de una bendita vez, quién era el «enemigo» de La Salle ? [22]
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n todas las biografías de La Salle se ha hablado, siguiendo a Blain, de que Juan Bautista tenía en su contra a un personaje de mucha virtud, de mucho poder y de mucho prestigio. Este enemigo, o adversario, como también se le llama, aparecido durante el año de 1702, en París, no tiene nombre, porque Blain ha tenido especial cuidado en ocultarlo, y para ello hace sugerencias que despistan al lector. ¿Por qué lo hizo así Blain? Él mismo lo sugiere: no quiso que tan insigne personaje viera menguada su fama por las pésimas maneras que utilizó para maltratar y mortificar al Fundador. Es más: Blain, a veces, lo pone en plural, como si fueran varias personas. Otras, se refiere a empleos o competencias que han llevado a pensar en personajes variados. En algunas biografías, como la de S. Gallego, se sugiere que podía haber sido el señor Brenier, que era Visitador de la sociedad de San Sulpicio, y a cuya obediencia estaba sometido el párroco. El resultado de todo ello es que el señor de la Chétardie, párroco de San Sulpicio quedaba siempre al margen de toda imputación, aunque no de sospecha. Muchas veces he pensado investigar este asunto más en serio, para saber de una vez quién era ese nefasto personaje; o quiénes, si eran varios. Pues la suerte me ha sonreído con un testimonio de alguien que conoció a la vez al santo Fundador y a su enemigo; quien da el testimonio era también sacerdote, y lo dejó escrito en un manuscrito que el Instituto tardó mucho tiempo en conocer, y que sólo publicó en 1934, como obsequio a los miembros del cercano Capítulo General. El manuscrito se titula Éloge historique de M. de La Salle, Instituteur des Frères des Écoles chrétiennes. Se trata de una obra que se cita en numerosos escritos, pero yo me pregunto si quienes la citan la han leído y manejado realmente. Este librito tiene una historia interesante. Al publicarlo, en 1934, se pone una introducción que lo cuenta. Dice que hace años, un amigo del Instituto, el señor Fernand Engerand, miembro del Parlamento francés, informó al Hermano Secretario del Instituto de que en la Biblioteca del Parlamento había un manuscrito del siglo XVIII que hablaba del Fundador. Que tal vez le pudiera interesar tener una copia del mismo. El Hno. Superior General, mandó al Hermano archivero que comprobara si era cierto, y que provisto de las debidas autorizaciones hiciera una copia del manuscrito. En efecto: el manuscrito llevaba la cota 1242, constaba de 180 folios, y junto al título se indicaba «en Rúan, 1740». La cruz trazada en lo alto de la primera pági-
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na y el lenguaje empleado, permite pensar que el autor es un sacerdote. El propósito del autor lo dice él mismo: «resumir los dos volúmenes escritos por Blain, que es una obra muy difusa, publicada en 1733 por los Hermanos de las Escuelas Cristianas», y será mucho más cómodo contar con una vida desprovista de todas las cosas inútiles de la biografía escrita por Blain. La presentación termina con la fecha en que ésta se ha redactado para enviarlo a la imprenta: «Lembecq-lez-Hal, 30 avril 1934». ¡Ciento noventa y seis años habían pasado desde que se terminó el manuscrito hasta que lo publicó el Instituto! Pues bien, el texto de este Éloge historique es sumamente interesante. En primer lugar, porque el resumen de los dos volúmenes de Blain se ha conseguido de manera magistral; y en segundo lugar, porque donde menos te esperas te da un dato que se ve que es de «la propia cosecha» de quien escribe. Eso es lo que ocurre en la página 71, cuando habla de las persecuciones suscitadas contra el señor de La Salle, que llevaron a su deposición como superior, en la primera quincena de diciembre de 1702, por el señor de Noailles, que actuó por medio de su vicario, señor Pirot. El autor del manuscrito escribe una frase que indica con toda claridad que conocía muy bien los tejemanejes del enemigo de La Salle. Lo copio en francés y a continuación doy la traducción. «Le maître des novices, dur à lui-même, et encore autant pour ses élèves, les reprenait si fortement, et leur imposait des pénitences si rudes, qu’il les rebutait et leur donnait un vrai dégoût de leur vocation, dont il n’y avait que M. de La Salle qui pût les faire revenir. Mais il n’était pas toujours avec eux! Ainsi, poussés à bout, ils éclatèrent en plaintes, et ne firent aucune difficulté d’en faire le sujet à ceux qu’ils voyaient. Le malheur fut qu’il s’en ouvrirent à un homme qui avait été l’âme de leur supérieur et le protecteur de l’Institut, mais qui en était devenu depuis l’adversaire, en voulant changer la forme de son gouvernement, pour lui en donner une autre conforme à son génie. Il fut ravi de trouver cette occasion de chagriner M. de La Salle et de le faire déposer, comme il se le promettait; il obligea ces jeunes gens de mettre les sujets de leurs mécontentements par écrit et de les signer». La traducción es la siguiente: «El maestro de novicios, duro consigo mismo pero también con sus discípulos, los reprendía con tanta fuerza y les imponía penitencias tan duras, que los desalentaba y les ocasionaba verdadero disgusto por su vocación, y de tal estado sólo el señor de La Salle era capaz de sacarlos. Pero éste no siempre estaba con ellos. Y así, hartos ya, estallaron en quejas, y no tuvieron ningún reparo en hablar de ello a los que veían. La desgracia fue que se confiaron a una persona que había sido el alma de su superior y el protector del Instituto, pero que se había convertido luego en su adversario, pretendiendo cambiar la forma de su gobierno, para introducir otra más conforme con su pensamiento. Por eso, quedó encantado de encontrar esta ocasión de fastidiar al señor de La Salle y hacer que le depusieran, como era su deseo; para lo cual obligó a los dos jóvenes a que pusieran por escrito el motivo de su descontento, y que lo firmaran».
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Después de esta afirmación tan clara y rotunda, no creo que haya nadie que dude ya de la persona que se esconde bajo el nombre de enemigo o adversario, pues en el pasaje paralelo a éste que existe en Blain, éste dice que los dos novicios fueron a quejarse «al señor de la Chétardie». Y aquí es donde se hunden todos los artilugios de Blain para ocultar la personalidad del «enemigo». Con harto sentimiento con respecto a la intencionada discreción de Blain, hay que reconocer que el enemigo o adversario de Juan Bautista de La Salle, a partir de 1702, fue el señor de la Chétardie, párroco de San Sulpicio.
¿Cuatro meses para cumplir la obediencia ? [23]
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ntre los episodios de la vida de nuestro Santo Fundador, uno de los menos explicados y más complicados está el hecho de su regreso a París, desde el Sur, para hacerse cargo del gobierno del Instituto. Los Hermanos principales de París, San Dionisio y Versalles, llenos de preocupación, le escribieron una carta el 1 de abril de 1714, mandándole, en virtud del voto de obediencia que había emitido con ellos, que regresara. El texto de la misma se encuentra en todos los biógrafos y se han hecho estudios sobre ella, como el que se publicó en el número 57 de Cahiers lasalliens, pp. 137 a 191, cuyo autor fue el Hno. Michel Sauvage. Con todo, lo realmente llamativo es que habiendo sido escrita la carta el 1 de abril, el santo no llegara a París hasta el día 10 de agosto. ¿Como dejó transcurrir tanto tiempo, más de cuatro meses, hasta cumplir el mandato de los principales Hermanos. Desde luego, los biógrafos no lo explican. Sin embargo Blain, no en la Vida del señor De La Salle, sino en la Vida del Hermano Bartolomé, en el suplemento añadido al tomo II (Cahier lasallien 8, p.19), da una pista sumamente interesante que puede explicarlo perfectamente. Es el párrafo siguiente: «El señor De La Salle, a quien la carta de los Hermanos de París, de San Dionisio y de Versailles, había llamado a París, rechazaba todavía retomar el gobierno de la sociedad, y decía que para obligarle era preciso que los Hermanos de Provenza manifestasen por escrito que consentían en ello. El Hermano Bartolomé escribió a sus Hermanos para informarles del asunto, y añadió a su carta una copia de la escrita por los Hermanos de París, que había conseguido que volviera el señor De La Salle, con el fin de que todos los Hermanos de las diversas localidades la firmasen. Sólo había unas palabras cambiadas; en lugar de le rogamos que vuelva, puso, le rogamos que retome el gobierno de la sociedad. Los Hermanos de la Provenza recibieron la carta, y en seguida la remitieron, ya firmada, a París. Este acto, humillante para el señor De La Salle, produjo todo su efecto. Los hijos, por su parte, triunfaron de la humildad de su padre, haciendo que la practicara; le obligaron a encargarse del gobierno de la sociedad y obligándole a que se sometiera a su orden». Es decir, que el santo Fundador, después de recibir una carta que le causaba perple-
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jidad, porque no se la escribía «el cuerpo de la sociedad», sino un grupo de Hermanos, de unas localidades bien concretas, y que se decían ellos mismos «principales Hermanos» (¿quién les había otorgado ese título?), escribió al Hermano Bartolomé y le vino a decir: «Está bien que unos Hermanos de París, San Dionisio y Versailles quieran que regrese para gobernar el Instituto; pero mis noticias son que en varias casas del norte, por indicación de usted, han pedido a los obispos que les den superiores eclesiásticos, y tengan autoridad para el gobierno de dichas casas. ¿Cómo puedo saber que los Hermanos de dichas casas desean, como ustedes, que retome el gobierno del Instituto? Sería conveniente que esas casas manifestaran por escrito si están de acuerdo con la carta que ustedes me han enviado». Hay, con todo, una extrañeza en lo que dice Blain, y es que «los Hermanos de la Provenza recibieron la carta, y en seguida la remitieron, ya firmada, a París». No eran los Hermanos de la Provenza los que podían tener dificultad en aceptar al señor De La Salle, porque las casas del Sur no tenían «superiores eclesiásticos», y porque el Señor de La Salle estaba con ellos y no hacía mucho había pasado por todas las casas del sur. A quienes tendría que enviar la carta el Hermano Bartolomé era, precisamente a los Hermanos de las casas del Norte, pero se entiende que Blain diga que escribió a las casas del Sur, porque él mismo era en aquel momento el superior eclesiástico de San Yon, y no quería verse implicado en el asunto referente a la autoridad del señor De La Salle. Y tal vez por esa misma razón evitó toda referencia a esta consulta del Hermano Bartolomé cuando habló del hecho de la carta en la Vida del señor De La Salle (tomo II, p. 118). Lo que tuvo que hacer el Hermano Bartolomé fue mandar copia de la carta de los principales Hermanos, del 1 de abril, a todas las casas del Norte (Reims, Rethel, Guisa, Laón, Troyes, Lyon, Melun, Mâcon, Chartres, Calais, Boloña, Brest, Ruán, Darnétal y San Yon) y pedirles su conformidad, y una vez recibidas las respuestas, enviárselas al Fundador. Lo importante es tener noticia de que el Hermano Bartolomé hizo la consulta, aunque Blain trate de despistarnos; lógicamente, esa consulta llevaría su tiempo, y eso explica que el señor De La Salle tardase varios meses en regresar a París. Con lo expuesto, podemos establecer un calendario de los movimientos de La Salle en 1713 y 1714, y sería el siguiente: 1713 - Semana Santa (9-15 de abril): retiro en la Ste-Baume, a 40 km. de Marsella. abril-mayo: La Salle pasa 40 días retirado en el convento de San Maximino. junio-julio: La Salle va a Mende. El 11.6, renovación de votos con los Hnos. comienzos de agosto: La Salle va a Grenoble para quedarse allí. 9 de agosto: gestiones para reeditar en Grenoble Los deberes del cristiano, en texto seguido. segunda quincena de agosto: tres días de visita a la Gran Cartuja, con el Hno. Jacques, director. septiembre: envía al Hno. Jacques a París, para informarse de lo que pasa. 8 de septiembre: Clemente XI publica la Bula Unigenitus. 2 de octubre: comienza el curso; La Salle reemplaza en clase al H. Jacques.
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durante el mes de octubre: regreso del Hno. Jacques. Informa del nombramiento de superiores eclesiásticos. diciembre: en París, el abate Brou propone al cardenal de Noailles los cambios en la Regla. El cardenal lo devolverá sin consentir los cambios. 1714 - enero: el santo lo pasa en Grenoble 4 de febrero: el Parlamento registra la Bula Unigenitus. 5 de febrero: 40 obispos aceptan la Bula Unigenitus. febrero-marzo: La Salle cae enfermo de reuma. Pascua: el abate Yves de Saléon le invita, para la convalecencia, a una casa suya, en Malesnes, al pie de la colina de Parmenia: Aquí el santo habla dos o tres veces con sor Luisa d’Hours. Haría el camino a caballo. 1 de abril, domingo de Pascua: carta de los principales Hermanos, mandándole que regrese a París. mediados de abril: La Salle, de regreso a Grenoble, encuentra la carta de París. segunda quincena de abril: escribe al Hermano Bartolomé y le pide que solicite el parecer de los demás Hermanos (del Norte, no a los del Sur). mes de mayo: consulta del Hno. Bartolomé y respuesta de las casas. Algunos amigos dicen al santo que no tiene por qué obedecer... Que se quede en Grenoble. comienzos de junio: La Salle, resuelto a volver a París, inicia una visita a las casas del Sur: Grenoble, Marsella, Mende, Le Vans, Valréas, Alès y Aviñón. 17 de julio: «He sabido que el señor De La Salle comenzó hace varias semanas la visita a las casas del Sur...» (carta del H. Bartolomé). julio: La Salle, en su visita, pasa por Mende, luego va a Le Vans, en caballo. julio: La Salle pasa por Lyon. Sale hacia Dijon y Troyes (casas del Norte). primera semana de agosto: pasa por Epernay y por Reims, por asuntos familiares (enfermedad de su hermano menor). 10 de agosto: llega a París, calle de La Barmondière. En el Cahier lasallien 57, el Hno. Leo Burckard asegura que La Salle pasó tres meses en Parmenia (abril, mayo y junio), y que fue allí donde recibió la carta de los Hermanos de París. Aun reconociendo el esfuerzo del Hno. Leo para demostrarlo, las pruebas que aduce no me convencen, por lo cual me atengo al calendario que he expuesto en las líneas que anteceden.
De cuando Nicolás Dorigny, párroco de San Mauricio, se avino a acoger la primera escuela de Adrián Nyel [24]
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odos conocemos el hecho en que Adrián Nyel y Juan Bautista de La Salle se encontraron por primera vez, ante la puerta de las Hermanas del Niño Jesús en Reims. Y sabemos que La Salle se dio cuenta, de inmediato, de las dificultades que iba a encontrar el proyecto de Nyel. Tenía la experiencia reciente del duro trabajo que le supuso conseguir la aprobación de la escuela de las Hermanas y por eso pre-
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firió hacerse cargo él mismo de la escuela que deseaba establecer la señora Maillefer, por medio de su enviado, Adrián Nyel. Pues bien, la apertura de las dos primeras escuelas, la de San Mauricio y la de Santiago, ambas en 1679, presentan una serie de circunstancias que vale la pena conocer y analizar. Veámoslas. 1. El procedimiento de apertura - Si Juan Bautista hubiera deseado abrir la escuela que promovía Nyel siguiendo la normativa existente en aquel momento, nunca hubiera llegado a abrirla, pues requería tener previamente la aprobación, la autorización del Ayuntamiento y hasta las Letras patentes del rey. Era un contrasentido, pero así estaba establecido. El chantre no hubiera dado permiso; el arzobispo no la hubiera aprobado, y el Ayuntamiento la hubiera rechazado. En tal situación, en los días que La Salle se tomó para pensar el asunto, llegó a la conclusión de que era necesario prescindir de las normas establecidas y encontrar un camino que nadie pudiera contradecir. El procedimiento consistía en conseguir que un párroco de la ciudad acogiera la escuela como un asunto parroquial. Es el plan que trató con diversas personas importantes de la ciudad y lo que aprobaron. Los biógrafos nos hablan de la selección que hizo La Salle para encontrar al párroco más adecuado, y entre todos convinieron que el mejor era el párroco de San Mauricio, Nicolás Dorigny. Hubo, pues, que convencerle de que la escuela sería muy beneficiosa para la parroquia, y que le saldría gratis, ya que otros (la señora Maillefer) pondría el dinero necesario. Que a él sólo se le pedía que diera a entender que la escuela era algo suyo. Se trataba, pues, de simular una situación que no era la real, pero que salvaba las apariencias. Y Juan Bautista de La Salle, tan estricto en la observancia de las normas establecidas, no tuvo reparo en seguir este procedimiento, en aras de la eficacia. Se fue más lejos, pues el párroco Dorigny se encargaría de dar alojamiento y comida a los maestros de la escuela; naturalmente, cobrando el importe correspondiente de los fondos que la señora Maillefer había acordado con Nyel. De hecho, no sólo no perdía nada con la escuela, sino que percibía unas módicas pensiones, que siempre vendrían bien. 2. Balance económico de las dos primeras escuelas en 1679. - La escuela de San Mauricio comenzó a funcionar a mediados de abril, con dos clases, atendidas, es casi seguro, por Adrián Nyel y por su compañero, el joven Cristóbal. Fueron alojados en la misma casa de la escuela. La Salle convino con Dorigny, que por cada maestro se abonarían, por manutención y alojamiento, 300 libras anuales, o lo que es lo mismo, 100 escudos. Era exactamente lo que abonaba la señora Maillefer por dos maestros. En el mes de octubre comenzó a funcionar la segunda escuela, en la parroquia de Santiago, con dos maestros, pero al poco tiempo se añadió otro, porque el alumnado aumentó. Estos tres maestros pasaron a vivir en la escuela de San Mauricio, pero al ser cinco maestros, el párroco pidió cambiar la pensión, y cobrar 1000 libras por los cinco; es decir, 200 libras por cada maestro. Al final de septiembre La Salle tuvo
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que abonar lo correspondiente a dos maestros durante seis meses (abril-septiembre), es decir, 150 libras. Y al final de noviembre, además, tuvo que abonar lo correspondiente a dos meses por cinco maestros. (Es decir: 1000 libras : 12 meses = 83,33 libras por mes. En total: 166,66 libras). La renta dejada por la señora Catalina Leleu era de 500 libras al año, para dos o tres maestros. 3. La solución que adopta La Salle - Las cuentas dejan las cosas claras: lo que cobraba el párroco Dorigny era más que las dos rentas juntas (300 £ para San Mauricio y 500 £ para Santiago). Dicen los biógrafos que hacia la fiesta de san Nicolás (que es el 6 de diciembre, o sea menos de una semana después de haber abonado el último pago), Juan Bautista tuvo la idea de alquilar una casa par que vivieran todos los maestros, con lo cual el coste de la residencia resultaba mucho más barato. Encontró una casa parece que en la calle de la Grue, y probablemente la casa Ruinart, muy cerca de la suya, y la alquiló por 800 £ para años y medio. Por navidades dejaron los maestros la casa del párroco de San Mauricio y se trasladaron a la nueva casa. La comida la preparaban en la casa de La Salle, y el resto del dinero, bien administrado por Juan Bautista, era suficiente para el sostenimiento de todos los maestros. Lo que no conocemos es si el párroco Dorigny exigió alguna cantidad por los locales donde funcionaba la escuela.
¿Ofreció el rey a La Salle un obispado ? [25]
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no de los hechos más oscuros en la biografía de nuestro santo fundador es saber si es cierto o no que el rey le ofreció un obispado. Blain no lo recoge de forma clara, aunque tiene alguna frase que permitiría pensar en ello. Y desde luego, tampoco dice nada Maillefer, ya que sus fuentes fueron mucho más reducidas que las de Blain. Con todo, en el Instituto se ha mantenido como una tradición, y la recogen las biografías posteriores, como la de Lucard (t. II, p. 76 n. 2). En español, hago sólo referencia a la de Saturnino Gallego (tomo I, p. 468), que también lo señala.
¿De dónde proviene la noticia? De un documento que se conserva en los archivos de la Casa Generalicia, firmado el 6 de mayo de 1742, por el Hermano Bernardin, a la sazón director de la escuela de Bourg Saint-Andéol. Este Hermano era director de la casa de Aviñón en 1712, cuando el santo fundador pasó por ella camino de Marsella; y treinta años después (hacía ya nueve años que había aparecido la Vida del señor De La Salle, de Blain) dejó un testimonio en el que certificaba el hecho. Lo mejor será dar la traducción literal de este documento, que merecería un estudio crítico mucho más detenido. El lector juzgará por sí mismo. «Para todos los que corresponda: certifico que en el año mil setecientos doce, nuestro muy venerado padre, el señor Juan Bautista De La Salle, fundador de los Hermanos de las Escuelas Cristianas, me aseguró, de su propia boca, que sólo había dependido de él el ser obispo;
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José María Valladolid lo que rechazó generosamente, porque las personas que le hicieron este ofrecimiento estaban totalmente opuestas a la Constitución, y de esa manera querían comprometerle a él en las mismas ideas; que un eclesiástico de la ciudad de Ruán, para el mismo fin, le hizo un donativo de setecientas libras la primera vez que el señor De La Salle se vio con él; y la segunda vez, le hizo las mismas ofertas de ayuda, pero el señor De La Salle, agradeciéndoselo, le expuso claramente sus sentimientos, y ya no le vio más, aunque la casa de San Yon atravesaba en aquel momento extrema necesidad. Que pasó cuarenta días y más en un eremitorio, a cuatro leguas de Marsella, sin cambiar de ropa, y levantándose a media noche para asistir al Oficio divino. Que desde Marsella ha venido a Mende, en el Gévaudan, y que sólo gastó siete libras y diez sueldos, aunque hay cuarenta y siete leguas. De lo cual doy testimonio de que es muy cierto. En fe de lo cual lo firmo. En Bourg Saint-Andéol, el 6 de mayo de 1742». Firmado: H. Bernardino (rubricado AMG, BJ 5032, dos.17).
Varias cuestiones se plantean con este testimonio. Veamos algunas: 1. El Hno.Bernardin asegura que en 1712 escuchó a La Salle, personalmente, que había rechazado un obispado. No quiere decir que el ofrecimiento se lo hubieran hecho recientemente. 2. Asegura que el ofrecimiento provenía de personas opuestas a la Constitución. Se refiere a la Constitución Unigenitus, que condenaba las doctrinas de Quesnel, o sea el jansenismo, y que fue dada el 8 de septiembre de 1713, por Clemente XI. En 1712 las doctrinas ya existían y dividían a los fieles, pero la Constitución no se había publicado. 3. Habla de un eclesiástico de Ruán, simpatizante de Quesnel, que quiere ganarle a esa doctrina; le hace un donativo de 700 libras; pero la segunda vez, al enterarse de que La Salle es contrario a Quesnel, interrumpe el trato. No quiere decir que fuera él de quien provenía la oferta del obispado. Normalmente, era el Rey quien proveía los obispados cuando las sedes quedaban vacantes. Es seguro que para hacerlo recababa información de diversos sectores, y los seguidores de Quesnel eran sumamente influyentes. Si La Salle hubiera sido partidario de tales doctrinas, su nombre habría sido sugerido para ocupar una sede vacante. 4. Al ser La Salle radicalmente opuesto a los jansenistas, se puede tener la casi certeza de que, a través de ellos, no llegó su nombre a los oídos del Rey. En consecuencia... es casi seguro que nunca se formalizó la oferta de un obispado. 5. Cuándo y dónde pudo oír esto a La Salle el H. Bernardin. La Salle pasó por Aviñón hacia el 7 de marzo de 1712, cuando iba camino de Marsella, huyendo de las consecuencias de la sentencia por el caso Clément. De Aviñón pasó a Mende, a Les Vans y a Alès, y tenemos constancia de que estuvo de nuevo en Aviñón en junio de ese año. Por tanto, en cualquiera de las dos ocasiones pudo el Hno. Bernardino oír la manifestación del santo, de la que da testimonio, puesto que él estaba en aquella comunidad. Pero la frase «que desde Marsella ha venido a Mende», nos lo desbarata todo, ya que cuenta que había pasado cuarenta días y más en un eremitorio, a cuatro leguas de Marsella, sin cambiar de ropa, y levantándose a media noche para asistir al Oficio divino. Pues esto no ocurrió en 1712, sino en 1713, aunque hay que reconocer que en Blain hay varias confusiones y deja todo esto poco claro. Mal pudo escuchar en 1712 la alusión a algo ocurrido en 1713.
Retazos lasalianos
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6. Las cosas ocurrieron de este modo (tratando de poner un poco de orden en Blain): de Aviñón el santo pasó a Marsella, donde llegó hacia el 12 de junio de 1712; todo le sonreía al principio, y hasta abrió un noviciado para la Provenza. Pero luego todo se torció, y las cosas fueron de mal en peor hasta febrero y marzo de 1713. Los Hermanos de Marsella le reprocharon, entonces, que todo fuera tan mal, y «que había ido a Marsella para destruirlo todo». La falta de confianza de sus propios hijos desencadenó en él una serie de reacciones: ¿Tendrán razón los Hermanos? ¿Su reproche no será la voz de la Providencia? ¿Qué es lo debo hacer?... Y decide pasar la Semana Santa en retiro (en 1713, el domingo de Ramos fue el 9 de abril), totalmente aislado, para ver claro. Se va a la Sainte Baume (la santa Cueva), que está, en efecto, a cuatro leguas de Marsella. Había allí una capilla que atendían los dominicos. Terminada la Semana Santa, decidió prolongar su retiro, y se marchó a la casa que tenían los mismos dominicos un poco más a oriente, y que era el convento de San Maximino. Allí pasó más de cuarenta días siguiendo el reglamento de los religiosos, rezando con ellos el Oficio, incluso a media noche, (lo de sin cambiar de ropa no lo dice Blain). Cuando terminó su mes y medio largo de retiro, regresó, pero fue a Mende, pasando por Marsella. ¿Sería éste el viaje al que se refiere el Hno. Bernardino, en el que sólo gastó siete libras y diez sueldos? Pero esto ocurrió en 1713, de manera que no pudo oírselo a La Salle, de su propia boca, en 1712. Probablemente el Hermano, que daba su testimonio treinta años después de haberlo oído, cambiaba Aviñón por Mende, o 1712 por 1713. Y en mayo de 1713 el Hno. Bernardin había sido cambiado, por el fundador, de Aviñón a Mende, y en esta ciudad estuvo el santo en los meses de junio y julio de 1713. Así, pues, hay un pequeño rompecabezas. De todas formas, el documento tiene un valor muy relativo para saber si a La Salle le ofrecieron una mitra. Lo que nos viene a asegurar el documento del H. Bernardin es que si La Salle se hubiera mostrado partidario de los jansenistas y de Quesnel, tal vez le hubieran ofrecido un obispado... Pero lo seguro es que el hombre elegido por Dios para dirigir las escuelas cristianas, que renunció a su canonjía, porque no le permitía dedicarse de lleno a dirigirlas, habría renunciado también a un obispado, por muy apetitoso que resultara para las gentes del mundo, porque lo suyo eran, ante todo, las escuelas y los Hermanos.
En el próximo numero 1/2011: 26.Los maestros de La Salle, ¿cuándo dejaron de ser grupo y comenzaron a ser comunidad? 27. Tres Cahiers lasalliens sobre la familia La Salle que tal vez nunca se publiquen 28. ¿Qué cambios introdujo La Salle en la escuela tradicional para convertirla en escuela cristiana ? 29. Dos votos de obediencia muy distintos: el de 1686 y 1694, y el de 1725 30. ¿Cómo daban la clase los primeros maestros de La Salle ?
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LA SALLE : BIOGRAFIA FRÈRE BERNARD Vita di Giovanni Battista de La Salle trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 153 L’autore ha vissuto in comunità con il La Salle ed ha attinto dalla viva voce dei primi Fratelli le testimonianze che trasmette. Più che biografo è un testimone che offre con limpidità il La Salle nella sua veste di fondatore di una comunità di uomini affascinati da un giovane prete e votati a tenere insieme e in associazione le scuole gratuite.
FRANÇOIS-ELIE MAILLEFER Vita di Giovanni Battista de La Salle trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 301 Nipote del La Salle, l’autore scrisse su incarico della famiglia La Salle. Suo scopo è delineare il volto dello zio in tutta la sua autenticità attingendo a fonti sicure e trattandole con competenza. Con esemplare incisività presenta il giovane Jean-Baptiste alla ricerca della sua vocazione, teso a realizzare il piano di Dio tra l’affetto dei suoi figli spirituali e le resistenze di quanti non capivano il valore profetico delle sue scelte.
ELIO D’AURORA Monsieur de La Salle – una fedeltà che vive Editrice A&C, Torino 1984, pp. 275 La vita del La Salle si svolge nell’irriducibile realismo di una società dibattuta da crisi di coscienza, statolatria, ambizioni del potere, sete di ricchezze, necessità di rigenerarsi. La Salle non colloca la sua pedagogia nelle belle lettere, ma nelle arti e nei mestieri, presagendo il travaglio di un rivolgimento politico e sociale che l’Europa stava covando. Nella Francia del Re Sole, tra guerre miserie e pestilenze, ad onta dello splendore del Grand Siècle, La Salle rovesciò le concezioni pedagogiche di una società che nutriva solo disprezzo o falsa pietà per i ceti popolari. D’Aurora mette tutto questo in risalto con una brillante e documentata biografia.
MICHEL FIÉVET Giovanni Battista de La Salle maestro di educatori trad. it. di Serafino Barbaglia, Città nuova, Roma 1997, pp. 190 L’autore è un professore, sposato, che ha collaborato a lungo con i Fratelli scoprendo poco a poco il loro Fondatore. Affascinato dalla personalità del La Salle ne ha approfondito il profilo come santo e come pedagogista, tanto da riuscire a svelare agli stessi Fratelli aspetti inesplorati della fisionomia del loro Padre e Fondatore. •••
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RivLas 77 (2010) 4, 687-696
L’Istituto per i figli dei carcerati a Pompei tra Bartolo Longo, gli Scolopi e i Fratelli delle Scuole Cristiane GIOVENALE DOTTA [NdR] Questo intervento fa parte di un più ampio saggio che l’Autore, religioso giuseppino del Murialdo, ha dedicato a I collegi per i ragazzi poveri e abbandonati e la formazione al lavoro nell’Italia liberale. Analisi di alcune tipologie, e pubblicato in “Archivio Teologico Torinese”, 16 (2010) 1, 141-169. L’esame storico spazia sulla ricca gamma di istituzioni caritative ed educative che, tra Otto e Novecento, sorsero in Italia ad opera di singole personalità e soprattutto di congregazioni religiose: istituzioni note sotto il nome di “Artigianelli”, “Ospizi”, “Collegi”, “Case di carità”, “Opere per la mendicità istruita”ecc., e che diedero origine spesso a scuole di apprendistato e ai moderni istituti tecnico-professionali. In particolare, l’A. si sofferma più diffusamente su tre istituzioni pilota: l’Opera salesiana al Castro Pretorio di Roma, l’Istituto Bartolo Longo di Pompei e l’Istituto Don Calabria di Verona. “Rivista lasalliana” ringrazia l’Autore e la Direzione dell’ “Archivio Teologico Torinese” per la cortese autorizzazione a riprodurre il paragrafo relativo all’esperienza lasalliana – peraltro, tuttora attiva – presso il “Bartolo Longo” di Pompei.
L’
Istituto Bartolo Longo per i figli dei carcerati si presta per l’analisi di un modello di opera non rara tra quelle assistenziali ed educative sorte nell’Ottocento: abbiamo una fondazione dovuta ad un personaggio pieno di zelo, intraprendente, ma anche accentratore, e la continuazione da parte di una comunità religiosa, in un dialogo complesso, non di rado difficile, ma anche arricchente per l’incontro tra carismi e personalità diversi e complementari. L’avvocato Bartolo Longo (1841-1926) è universalmente conosciuto per le sue iniziative: la costruzione del santuario di Pompei a partire dal 1876, la fondazione dei periodico «II rosario e la nuova Pompei» nel 1884, il febbrile attivismo che tanto contribuì a far risorgere a
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nuova vita l’antica città vesuviana, le opere assistenziali attorno al santuario.1 Mentre il tempio non era ancora giunto a compimento e le diverse opere (asili per i fanciulli pompeiani, orfanotrofio femminile, scuola tipografica, attività editoriale) lo caricavano di responsabilità e di fatica, Bartolo Longo si sentiva assillato dalle istanze dei carcerati di vari istituti penitenziari italiani, a cui inviava il suo periodico, i quali domandavano assistenza per i loro figli. Nacque da qui l’idea di un’opera che accogliesse i figli dei carcerati, che, non essendo orfani, spesso non avevano accesso alla pubblica assistenza. «Sono in condizione peggiore degli orfani, perché invisi ai propri cittadini in odio dei loro colpevoli genitori, portano, senza colpa, il marchio dell’infamia dei loro parenti; e, lasciati con una madre per lo più povera, [...], senza educazione, senza freno, coi pravi esempi paterni dinanzi agli occhi, fra poco si daranno al vizio, e quindi al delitto».2 La posa della prima pietra del nuovo istituto avvenne il 29 maggio 1892, data che fu poi sempre festeggiata come l’inizio di un’opera che veniva percepita e presentata come la prima e l’unica nel suo genere in Italia. Per la nuova fondazione Bartolo Longo aveva chiesto consigli circa la struttura edilizia più consona a finalità di quel genere e anche suggerimenti a studiosi di pedagogia e direttori di collegi. I primi quindici ragazzi furono accolti in un edificio provvisorio, acquistato per non differire gli inizi dell’opera. Il nome dato alla nuova istituzione era «Ospizio Educativo Bartolo Longo». Il fatto, che non mi pare usuale, almeno in ambienti ecclesiali, di aver dato il proprio nome all’istituto, fu giustificato dallo stesso fondatore fin dai primi tempi con la volontà dì assumere in prima persona la responsabilità della nuova impresa «di fronte alla scienza antropologica della scuola positivistica, che reputava inutili i suoi sforzi di educare i figli del delitto».3 Un approccio globale all’intera vicenda delle fondazioni pompeiane non dissipa però, a mio parere, l’im-
Cfr. ANTONIO ILLIBATO, Bartolo Longo. Un cristiano tra Otto e Novecento, 3 voll., Ed. Pontificio Santuario di Pompei, Pompei, 1996-2002 (citato d’ora in avanti in forma abbreviata, con riferimento al singolo vol.). Bartolo Longo è stato beatificato il 26 ottobre 1980. 2 Una parte di questo appello (24 maggio 1891) per la costruzione di un collegio per i figli dei carcerati si può leggere in LUIGI AVELLINO. Pompei, il monumento alla carità, Associazione Ex Alunni Opere Pompeiane, Pompei 1992, 13-15. 3 ILLIBATO, II, 542-544; cfr. AVELLINO, Pompei, il monumento alla carità..., 44-45; 67-70; 99; L’Ospizio pontificio educativo «Bartolo Longo» per i figli dei carcerati ed i Fratelli delle Scuole Cristiane nel venticinquesimo della loro venuta a Pompei 1907-1932, Scuola Tipografica Pontificia per i Figli dei Carcerati fondata da Bartolo Longo. Pompei 1933,5; 11. 1
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pressione che certe critiche, avanzate già dai contemporanei, non fossero prive di fondamento.4 E così pure l’esplicita e pubblica dichiarazione delle finalità dell’istituto (accogliere i figli dei carcerati), nonostante il nobile intento sociale e caritativo, non dimostra quella sensibilità pedagogica che pur abbiamo trovato in esempi precedenti e contemporanei, nei quali si era cercato di non imprimere un marchio negativo, con la stessa denominazione dell’opera, sui ragazzi assistiti. All’inizio, i pochi fanciulli accolti erano affidati ad un sacerdote e ad un laico, collaboratori di Bartolo Longo. Crescendo però il numero degli ospiti, fu necessario affidarsi ad una congregazione religiosa. Le trattative non andate in porto con i Salesiani e i Fratelli delle Scuole Cristiane, si conclusero invece positivamente con gli Scolopi, del resto già presenti a Pompei con un loro padre che reggeva il santuario e l’orfanotrofio femminile. Ma il rapporto tra Bartolo Longo e gli Scolopi fu soggetto a molti alti e bassi, dovuti all’eccessiva distanza tra le necessità, lo stile, il modo di vivere, di organizzarsi proprio di una comunità religiosa e il fare «carismatico» e decisionale di Longo. Il primo confratello delle Scuole Pie giunse a Pompei alla fine di ottobre del 1894. Altri seguirono, fino al formarsi di una vera e propria comunità. Antonio Illibato, biografo di Bartolo Longo, ricostruisce con obiettività sia le lamentele degli Scolopi per la situazione in cui si venivano a trovare, sia le esigenze manifestate dal fondatore. I religiosi addetti all’educazione dei ragazzi non avevano libertà di impostazione e di manovra a proposito di orari, scuole, officine, controllo del lavoro e dell’economia della casa. Chiedevano di non essere relegati al solo ruolo di padri spirituali, ma di poter contare nelle scelte educative. L’avvocato invece intendeva (e lo scriveva in una lettera del 7 settembre 1895) che «l’indirizzo secolare dell’Ospizio» fosse «riserbato interamente al Fondatore», cioè a lui stesso, che desiderava essere libero di cambiare gli orari dei ragazzi, anche all’improvviso, come scrisse o disse in altre occasioni (cfr. ILLIBATO, II, p. 588), voleva essere «padrone in casa sua», «essere solo a dirigere» (ivi, p. 600). Del resto Longo era non solo il fondatore, ma anche il finanziatore dell’istituto e, dal suo punto di vista, non si poteva certo rassegnare a perdere il suo potere di intervento, tanto più che era convinto che con quel tipo di ragazzi occorresse una formazione diversa da quella seguita dagli Scolopi nelle altre loro opere. Ulteriori dispareri nacquero quando gli Scolopi portarono a Pompei i loro
4
Cfr. i tentativi di difesa in L’Ospizio pontificio educativo «Bartolo Longo»..., 35.
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novizi che non avevano il tempo di seguire veramente i ragazzi e però costituivano per l’avvocato un nuovo aggravio di spesa.5 Nonostante queste tensioni, l’istituto proseguiva la sua vita, crescendo nel numero dei ragazzi accolti e nelle costruzioni progressivamente edificate. Le linee guida erano fissate dal regolamento del 1894 che Longo aveva discusso due anni prima con Nicola Amore, noto avvocato, senatore del Regno e già sindaco di Napoli. Vi si diceva che l’Ospizio Educativo Bartolo Longo era istituito per «accogliere e prestare educazione morale e civile ai figli dei Carcerati, i quali, lasciati nella miseria e nell’abbandono, non hanno altro avvenire innanzi a sé, che l’estremo stato di abiezione, o il delitto e le carceri» (art. I). Nell’ospizio erano ammessi «i figli di quei condannati a lunga pena che si trovano già nel luogo di espiazione» (art. II): si escludeva insomma l’assistenza ai figli dei latitanti. Si potevano inoltre accogliere «quei fanciulli i quali, avendo perduto il padre, hanno la madre che si trova espiando lunga pena» (art. III). A parità di condizioni si preferivano i figli dei condannati a vita e si specificava che questo avveniva «non per favorire chi è più reo, ma chi è più abbandonato» (art. IV). Infine, sempre a parità di condizioni, erano «preferiti i figli di quei condannati, i quali, per la loro condotta nel luogo della espiazione della pena, diano pruova [sic] di emendazione morale, in conformità dei rapporti dei Direttori Penitenziali» (art. VII). Una tale norma, si specificava, era ispirata «al sentimento della moralizzazione delle Carceri e del ravvedimento dei condannati, che è il fine immediato della legislazione penale nei paesi civili». L’articolo VIII precisava l’età di ammissione la quale, pur essendo contemplata qualche eccezione, era fissata tra i sei e gli otto anni. «All’età di quindici anni i ricoverati incominciano un tirocinio nell’esercizio di arti e mestieri per ottenere dopo quattro anni un diploma, o licenza, in cui sarà segnata la sua [sic] condotta serbata nel Collegio ed il grado d’idoneità spiegato nelle varie classi, o laboratori» (art. IX). «A diciotto anni i giovanetti cessano di far parte dell’Opera, perché s’intende che a quell’età già hanno appreso un’arte o mestiere, e possono pure aver ottenuto un attestato diploma dell’ Opera medesima di Valle di Pompei, il quale agevoli la loro ammissione a lavorare nei diversi stabilimenti» (art. X). L’articolo XI dichiarava l’impegno dell’opera nell’aiutare i giovani a cercare il mestiere o l’impiego più consono alla preparazione ricevuta, mentre il XIII
Cfr. ILLIBATO, II, 564-603; AVELLINO, Pompei, il monumento alla carità..., 77-78; L’Ospizio pontificio educativo «Bartolo Longo», 6. 5
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e il XIV prevedevano l’espulsione per gli incorreggibili, che dovevano essere restituiti alla madre, a qualche altra persona che se ne interessava, o alle autorità competenti del paese d’origine. Si prevedeva anche che i giovani migliori potessero rimanere nell’istituto, una volta terminati gli studi o l’apprendimento del mestiere. Era un modo per avere collaboratori che conoscessero e amassero la casa e nello stesso tempo per venire incontro a chi non volesse ritornare al paese nativo, ove i ragazzi non possedevano nulla di proprio «tranne l’infamia del casato per colpa dei genitori». L’articolo XVI infatti recitava: «I giovanetti che per abilità e per moralità avranno conseguito tutti i punti di merito, potranno essere ritenuti nell’Opera in qualità di Capi di arti, di Maestri, ecc. o con altri incarichi attinenti l’Opera medesima». Si parlava poi della banda musicale. «La musica non servirà solamente per ammansire e rendere amabili i loro animi, ma anche per apprestare ad essi un’arte liberale, che sarà di gran profitto nella milizia, essendovi sempre gran richiesta di giovani valenti suonatori per le bande militari» (art. XVII). Di particolare interesse l’articolo XVIII. «Se dopo che il giovanetto avrà appreso l’arte o il mestiere a cui intende avviarsi, vi sarà tanto di lucro sul lavoro nelle Officine dello Stabilimento, il dippiù sarà diviso in tre parti. Una resterà all’Opera che sostenta il giovanetto, l’altra andrà a beneficio del fanciullo medesimo da intestarsi in libretto di cassa dì risparmio e la terza sarà inviata, come sussidio ai suoi genitori, anche a quello che è nel luogo di espiazione della pena per quanto è consentito dai Regolamenti Penitenziarii. Questo sussidio spedito da fanciulli ai loro genitori nel luogo della espiazione della pena, non potrà non riuscire sull’animo di costoro di una grande impressione morale». Dei vari laboratori trattava l’art. XIX: «I fanciulli verranno distribuiti nelle varie officine di lavoro secondo la varia capacità ed attitudine. Le officine che s’impianteranno in Valle di Pompei, saranno: 1° la Tipografia; 2° la Legatoria; 3° la Calzoleria; 4° la Falegnameria con Stipettai, Ebanisti, ecc.; 5° l’arte del Fabbro-ferraio, del sarto; 6° le arti meccaniche». L’articolo continuava raccomandando di studiare bene le attitudini del fanciullo, la sua provenienza, le inclinazioni e di offrire l’opportunità di una completa istruzione a chi ne aveva le doti, specificando che «il dono dell’ingegno e della volenterosa applicazione al lavoro non è un privilegio esclusivo dei ricchi; anzi, tra i più poveri si trovano dei forti intelletti, i quali se sono bene educati, produrranno a lor volta nuovi benefattori dell’umanità; come per contrario se saranno male avviati, diventeranno i perturbatori dell’ordine e
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della civile società». L’articolo XX asseriva che l’ammissione dei figli di condannati poveri era gratuita. Non si rifiutavano però eventuali concorsi pecuniari da parte dei comuni, delle province e delle stesse famiglie dei ricoverati, quando non fossero del tutto povere.6 Queste le linee ispiratrici della nuova istituzione, la quale però incontrò già al suo nascere le critiche dei sociologi e dei pedagogisti appartenenti alla scuola positivistica di antropologia criminale che contestavano la possibilità e l’opportunità di dedicarsi all’educazione dei figli di delinquenti «nati», nei quali, a loro giudizio, era «più probabile la eredità criminosa e la conseguente impossibilità di educazione e di emenda». Si adombrava anzi il rischio che l’istituzione diventasse un «vivaio di delinquenti». Erano queste le idee di Cesare Lombroso, di Enrico Ferri, di Alfredo Niceforo: le anomalie comportamentali non sarebbero dovute «a fattori esterni, ambiente sfavorevole e mancanza di guida morale, ma a tare ereditarie. Di qui l’impossibilità di correggere i delinquenti nati e di riabilitare i criminali». Bartolo Longo invece rifiutava quest’impostazione deterministica e credeva nella libertà dei ragazzi, come in quella dei genitori che pur avevano commesso sbagli anche gravi. Egli si contrapponeva coscientemente a questa scuola e lo dichiarava: «Costoro sono i propugnatori della teoria dell’atavismo, dell’ipotesi della forza ingenita per cui si nasce fatalmente delinquente. [...] Noi ci sforzeremo di educarli cotesti tipi di atavisti. Io lo spero: e lo spero, prima, perché la libertà è nell’uomo; secondo, perché nell’uomo la forza della volontà, che è un potere tutto spirituale, domina la forza del corpo, che è fisica e determinata. [...] In terzo luogo, perché, dato che nessuno sia onninamente malvagio, è da supporre che, anche per forza di atavismo, qualche tendenza al bene si debba pure trovare nel fanciullo; e questa tendenza, coltivata e sorretta da speciale educazione, può ben presto costituire una forza da contrapporre alle cattive inclinazioni».7 La preghiera, il lavoro e lo studio costituivano la strada maestra del metodo educativo di Bartolo Longo, mediato dagli adattamenti che gli Scolopi riusci-
II testo del regolamento si può leggere in AVELLINO, Pompei, il monumento alla carità.,., 53-61; cfr. II, 561-562 (ove si ricorda che negli anni seguenti si aprì anche un reparto per i bambini di tre anni, «nati o allevati nelle carceri dalle proprie madri detenute»). 7 BARTOLO LONGO, Per la educazione morale e civile dei figli dei carcerati. Il voto del cuore e la prima pietra dell’Ospizio educativo. Valle di Pompei 1894, 110-112, che riprendo da ILLIBATO, II, 549-550. Le citazioni del paragrafo precedente sono ugualmente tratte da ILLIBATO, II, 548. 6
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vano ad attuare, non senza tensioni, come detto. Ogni giorno i ragazzi partecipavano alla messa alla quale seguiva una riflessione «dettata» da un educatore. Alla sera avevano luogo la benedizione eucaristica e la recita del rosario. I ragazzi meglio disposti e più sensibili si accostavano ogni mattina alla comunione. Per tutti poi, vigeva un’usanza particolare, quella dei «padrini della cresima»: persone che si impegnavano a seguire i ragazzi, proprio in seguito al vincolo creato dal sacramento, durante la permanenza a Pompei e dopo la loro uscita dal collegio, talvolta arrivando anche all’adozione legale. L’amore alla religione si coniugava spesso con l’educazione all’amor di patria, in una sensibilità che, nonostante le resistenze degli intransigenti estremi, aveva ormai accettato nei fatti il Risorgimento e l’unità d’Italia.8 Il lavoro abituava i ragazzi alla fatica, li educava al sacrificio e nello stesso tempo li preparava al futuro. I laboratori erano già attivi fin da prima che cominciasse l’istituto per i carcerati. Nel 1892, a fianco del santuario, funzionavano la scuola tipografica, la legatoria, l’officina elettrica. Longo prevedeva di aggiungervi i laboratori dei falegnami, dei fabbri-ferrai, dei calzolai, dei coniatori di medaglie e anche una scuola agricola. Le officine, che allora erano presso il santuario, avrebbero poi dovuto essere spostate nella nuova costruzione quando essa fosse giunta a compimento. Per i più piccoli si creò, col tempo, un asilo. Per gli altri c’era la scuola elementare, cui seguiva il corso di avviamento al lavoro. Al dire degli Scolopi però, si badava poco alla vera e propria istruzione scolastica, soprattutto dal momento in cui i ragazzi entravano nei laboratori. Più che vera formazione professionale, lascia intendere alla fine del 1895 lo scolopio p. Giannini, uno dei due sacerdoti della comunità (c’erano poi tre chierici e due fratelli conversi), a Longo stava a cuore il lavoro, soprattutto quello della tipografia. Qualche anno dopo, e precisamente nel 1902, lo stesso p. Giannini riferiva che erano state chiuse le scuole per gli esterni, per fare economia, e che «si volevano sopprimere anche le scuole di arti e mestieri, obbligando tutti ad apprendere l’arte di tipografo e legatore, per risparmiare gli stipendi dei capi officina e degli altri operai». Giannini contestava il fatto che i ragazzi fossero pensati come a servizio dell’opera: «È l’Opera, ossia siete voi che avete chiamato i Figli dei Carcerati per beneficarli, non già per essere beneficati con loro danno» (ILLIBATO, II, 597).
«La Riscossa», n. 4 del 17 giugno 1893, rimproverò a Longo di aver acclamato e applaudito il sabaudismo «nel tempio di Dio» (cfr. ILLIBATO, II, 547). 8
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Nell’intento di tenere sempre occupati i ragazzi e per completare la loro formazione, c’erano lezioni ed esercizi di educazione fisica, come pure una scuola di musica per la banda, alla quale Longo teneva moltissimo. I ragazzi erano divisi in squadre di piccoli, mezzani e grandi. Ogni settimana lo stesso avvocato leggeva un rapporto sul loro comportamento; nel contempo venivano stilati i biglietti settimanali e mensili che riportavano i voti di condotta e di lavoro, letti nella sala del teatro e poi spediti alle famiglie. Alla fine del trimestre e poi dell’anno scolastico, le mostre dei lavori eseguiti costituivano un incitamento all’emulazione e al miglioramento. Tra i premi più ambiti dai ragazzi, c’era quello di vedersi apporre sul braccio il «gallone di caporale» recante le iniziali dell’avvocato. Tra i castighi erano previsti la privazione del pane e il «camerino di punizione».9 Alle disparità di vedute in campo educativo tra Longo e gli Scolopi, si aggiunse, per questi ultimi, la disillusione nel vedere che l’avvocato, il quale aveva promesso di lasciar loro in eredità l’istituto, nel 1906 lo aveva invece donato alla Santa Sede. Da quel momento il collegio Bartolo Longo veniva a dipendere da un Delegato pontificio, che fu monsignor Augusto Silj, poi cardinale. Da parte della Santa Sede, inoltre, si lamentava, e con buone ragioni, il non sufficiente contributo di personale scolopico giovane e capace; il superiore generale degli Scolopi si decise perciò a ritirare i religiosi, nel luglio 1907. La direzione dell’Istituto Bartolo Longo fu assunta dai Fratelli delle Scuole Cristiane.10 Da quel momento, e fino agli anni Trenta, l’opera pompeiana conobbe un forte sviluppo nelle costruzioni e nelle attività: nuovi locali per la tipografia, nuovo teatro per l’Istituto Bartolo Longo, nuovo edificio per le figlie dei carcerati, e infine, dal 1930 al 1932 (l’avvocato era morto nel 1926, mentre la consorte, la contessa Marianna De Fusco, era venuta a mancare due anni prima), nuove grandiose costruzioni per l’Ospizio dei figli dei carcerati, arredate con il lavoro stesso dei laboratori dell’istituto che allora erano quelli della tipografia, della meccanica-elettrotecnica e della falegnameria. Furono riaperte le scuole esterne, affidate agli stessi Fratelli, i quali già dirigevano l’asilo interno, le cinque classi elementari, pure interne, il corso di avviamento professionale e i laboratori. Gli alunni erano liberi di scegliere la specializzazione preferita, ma normalmente non era loro possibile passare poi ad un’officina diversa, per impedire che si abituassero alla leg-
9 Circa metodi e mezzi pedagogici, cfr. ILLIBATO, II, 547-597; AVELLINO, Pompei, il monumento atta carità..., passim, tra le pp. 29-105. 10 Cfr. ILLIBATO, II, 604; III, 347-356; AVELLINO, Pompei, il monumento alla carità..., 80.
L'Istituto per i figli dei carcerati a Pompei tra Bartolo Longo, gli Scolopi e i Fratelli delle Scuole Cristiane
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gerezza e all’incostanza nelle decisioni. Fu cura dei Fratelli far sì che nella tipografia e negli altri laboratori gli apprendisti fossero separati dagli operai, affinché dal contatto con persone esterne non avesse a risentirne la disciplina.11 Applicando il loro metodo educativo al particolare ambiente in cui si erano venuti a trovare, i Fratelli delle Scuole Cristiane manifestavano la convinzione che in ogni ragazzo ci sono le potenzialità verso il bene come pure il pericolo di cadere nel disimpegno e nel male.12 L’ambiente, cioè l’educazione, era il fattore che decideva nell’uno o nell’altro senso. I mezzi su cui dichiaravano di puntare erano l’insegnamento, la persuasione e l’esempio. Si proponevano dì infondere vere convinzioni di fede cristiana, mediate e vissute attraverso la frequenza ai sacramenti. La disciplina doveva essere «paterna» (uno dei primi loro provvedimenti fu l’abolizione della prigione o «camerino di punizione»). «All’osservanza del proprio dovere gli alunni sono indotti generalmente dalla dolcezza e dall’esempio. I maestri sono da loro chiamati Fratelli o Carissimi. Finita la lezione i maestri seguono gli alunni nel giuoco, nel passeggio, nel riposo, per mantenerli nei limiti del dovere senza toglier loro la libertà, e, pur mostrando loro grande affetto, far sì che non ne perdano il rispetto con la familiarità». Con un’assidua vigilanza si proponevano di «prevenire i mancamenti»: «custodi degli alunni sono, infatti, gli stessi Fratelli, che, all’autorevolezza del Direttore, al sapere del Professore, sanno unire la pazienza del servitore, la familiarità del compagno, ed una tenerezza più che materna».13 L’impegno era stimolato dall’emulazione e dai premi, dai «Biglietti d’onore» o «Diplomini» che venivano concessi a chi si segnalava nella pietà, nella buona condotta e nello studio. Erano distribuiti nel corso di appositi trattenimenti mensili, con gare collettive ed individuali, presentazione di lavori scolastici, composizioni letterarie, esercizi di declamazione, musica e canti. Solenni erano le accademie bimestrali e ben curate le funzioni religiose, con la schola cantorum, introdotta proprio dai Fratelli. Per ogni alunno veniva aperto un libretto di risparmio postale sul quale si versava mese per mese il
Cfr. L’Ospizio pontificio educativo «Bartolo Longo», 11-50. A proposito della pedagogia lasalliana, cfr. YVES POUTET, I Fratelli delle Scuole Cristiane, in DIP, VIII, 1169-1176 (riguarda la scuola); JEAN PUNGIER - UMBERTO MARCATO. Pedagogia Lasalliana, in PIETRO BRAIDO (ed.), Esperienze di pedagogia cristiana nella storia. II, Sec. XVII-XIX, LAS, Roma 1981, 65-111. 13 Ivi, 50-51. 11
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denaro meritato con le ricompense per la buona condotta, o ricevuto da parenti e benefattori, oppure ancora, per i più grandi, guadagnato nei laboratori. Nel 1909 venne costituita un’associazione sportiva interna, la Fides, tramutatasi poi nel 1911 nella Nuova Pompei che si fece onore anche in manifestazioni cattoliche di livello nazionale. Seguendo l’evoluzione generale propria del mondo cattolico di allora, alla fondazione della società ginnastica fece seguito quella di un circolo giovanile, con lo scopo di coltivare nei partecipanti lo spirito cristiano e l’impegno culturale e sociale. I primi 15 ragazzi del lontano 1893, accolti in una piccola casa colonica provvisoriamente adattata ad internato, erano ormai diventati più di 250, ospitati nelle nuove, grandiose strutture terminate nel 1932.14 […] *** Su Bartolo Longo e la sua istituzione, “Rivista lasalliana” ha pubblicato: - Mario Presciuttini, L’Opera socio-educativa di Bartolo Longo in favore del mondo degli emarginati, anno 49 (1982) 3, 152-194. - Id., Bartolo Longo e i Fratelli delle Scuole Cristiane, anno 49 (1982) 4, 234-256. - Elio D’Aurora, Un santo tra gli scienziati che smentirono Lombroso. Nel centenario dell’Istituto Bartolo Longo a Valle di Pompei, anno 59 (1992) 4, 315-322.
Cfr. ivi, 11-14; 48; 93-109. La seguente tabella, ricavata dalle pubblicazioni finora citate, offre un’idea delle presenze nell’Istituto Bartolo Longo per i figli dei carcerati. 14
anno 1893 (inizio) 1893 (ottobre) 1894 (maggio) 1894 (ottobre) 1895 (luglio) 1895 (dicembre) 1902 1908 (maggio) 1932
convittori 15 circa 30 40 46 più di 60 70 86 112 258
alunni delle scuole esterne circa 80
circa 100 116 le scuole esterne vengono chiuse per motivi economici
riferimento bibliografico Avellino, 68 Illibato, 566 L’Ospizio pontificio, 5 Illibato, 576-577 Illibato, 578 Illibato, 582-583 Illibato, 597-600 L’Ospizio pontificio, 11 L’Ospizio pontificio, 5; 48
Nel 1932, l’opuscolo commemorativo del venticinquesimo di presenza dei Fratelli delle Scuole Cristiane a Pompei scriveva che, dalla sua fondazione, l’istituto aveva accolto 819 ragazzi. Dei 561 che avevano, nel tempo, lasciato l’opera, si diceva che l’esito della educazione ricevuta era stato positivo e che «raramente qualcuno [... era] venuto meno ai propri doveri».
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LA SALLE : SPIRITUALITÀ
JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE Invito alla preghiera Introduzione, scelta dei testi e traduzione di Secondino Scaglione Arti Grafiche San Rocco, Grugliasco (To) 2002, pp. 149 Il La Salle è maestro di orazione: per lui, come per l’educatore, la preghiera è e deve essere uno stato, un habitus, uno stile di vita. L’educatore cristiano, consapevole della fragilità propria e dei giovani di cui ha responsabilità, deve avere fiducia di trovare sostegno nella bontà del Signore. I tempi dedicati alla preghiera, alla scuola, all’attività educativa non hanno soluzione di continuità ma si risolvono in un’armonica successione in cui l’azione umana si apre al piano divino. In questo senso vanno i reiterati interventi del santo: “Applicatevi all’orazione e alla scuola: sono le due occupazioni essenziali di cui renderete conto a Dio”.
J.- B. de La Salle – un silenzio che parla a cura di Secondino Scaglione Editrice A & C, Torino s.d., pp. 107 Inaugura la collana “I tascabili lasalliani”, diretta da Elio D’Aurora. «Dio esiste e non sarò io a dimostrarlo, ma dirò a chi leggerà questi testi - tratti dal La Salle, tradotti in prosa ritmata per donare un respiro palpitante di leggerezza spirituale - che Dio oltre ad accendere i fuochi dell’ispirazione celestiale, si fa vivo e presente col silenzio. Il Santo di Reims non è solo un prodigio della pedagogia e dell’educazione: è anche un simbolo del silenzio di Dio» (E. D’Aurora). Sussidio utile per i “Gruppi di preghiera”.
JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE Educatori come Cristo Teologia dell’educazione e orientamenti pedagogici di J.-B. de La Salle a cura di S. Scaglione e U. Marcato, FSC, Gribaudi, Torino 1976, pp. 116 I curatori presentano al lettore italiano una selezione di brani del Patrono dei maestri e degli educatori per contribuire ad una sua migliore conoscenza e per avviare uno studio più attento e profondo del suo pensiero. Fra gli educatori il La Salle occupa un posto particolarissimo per il sano realismo, la ricca umanità, la modernità di tante sue intuizioni, la solidità cristiana di fondo. Una visione che verte non tanto sul “come educare”, bensì sul “come essere per educare”. Il maestro è Cristo, maestro perché aperto all’ascolto, esempio perché testimone, liberatore perché libero, realizzatore dell’uomo per la sua obbedienza perfetta.
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JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE Confronti con Cristo a cura di Secondino Scaglione, Gribaudi, Torino 1976, pp. 115 Una malattia del nostro tempo è l’«orfanità». Ci siamo gettati il passato alle spalle come un sacco di rifiuti. Il presente, e un po’ meno il futuro, ci assorbono completamente. Alla luce di tali considerazioni è nato questo libretto. Il La Salle non è una cariatide sfiatata sotto il peso dei secoli. Chi leggerà anche solo alcuni di questi brani si accorgerà di imbattersi non in uno scoglio che ostacola la navigazione ma in una grande isola che offre ogni tipo di rifornimento spirituale. I temi oggi giustamente più cari alla gioventù: la vita povera, la gioia, il senso della vera libertà, la preghiera, la testimonianza vissuta, sono i gangli del messaggio lasalliano (Pietro Gribaudi).
GILLES BEAUDET, FSC Itinerario spirituale sui passi di Giovanni Batt. de La Salle Città Nuova, Roma 2001, pp. 112 È dedicato a quanti desiderano condividere la gioia di sentire il La Salle padre spirituale e maestro di vita. Il metodo usato dall’autore è semplice quanto efficace. Parte da pensieri del Fondatore opportunamente scelti e ne ricava spunti di preghiera e di vita. Il libro dunque non è una trattazione sistematica della spiritualità lasalliana, ma si offre quale strumento per crescere come Lasalliani accogliendo la lezione del Fondatore vivente tra di noi con la sua parola calda e convincente.
La vocazione del Fratello delle scuole cristiane e le altre vocazioni lasalliane, opuscolo pp. 32 Il Fratello è un battezzato che, rispondendo ad una chiamata del Signore, si consacra al suo servizio mediante la professione dei voti religiosi. Guidato dallo Spirito rende esplicita la propria consacrazione battesimale impegnandosi a vivere, con pubblica professione, in un Istituto esclusivamente laicale, si impegna in una missione per la gloria di Dio, vivendo in una comunità che testimonia la presenza del Regno di Dio, che lo annuncia agli uomini; assume in forma comunitaria una missione educativa, nel servizio preferenziale ai bisognosi, come dispensatore della parola di Dio e come educatore cristiano delle nuove generazioni; fa della scuola uno strumento singolare di apostolato, anche se non esclusivo, per dare una risposta alle sfide educative del proprio tempo. Dal carisma del La Salle sono nate, nel corso del tempo, altre vocazioni alla vita consacrata: l’Unione Catechisti di Gesù Crocifisso e di Maria Immacolata (Italia), le Hermanas Guadalupanas de La Salle (Messico), le Soeurs Lasalliennes (Vietnam) e le Servantes lasalliennes de Jésus (Haiti). ••• Informazioni e ordinazioni: 06.32294503 – gabriele.pomatto@gmail.com
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Diritti umani tra politica ed educazione Rassegna a cura di Francesco Pistoia 1 1. Lev Nikolaevic Tolstoj (1828-1910) scrive le sue memorie (La confessione) tra il 1879 e il 1882 spinto dal desiderio “di rendere nel modo più autentico e immediato il corso dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, senza mai sacrificare la sincerità e l’immediatezza ad esigenze sistematiche o al desiderio di convincere” (p.112). Il Pacini, docente di letteratura russa all’Università di Siena, aiuta il lettore a cogliere il senso di un discorso complesso e di una ricerca anche drammatica. Il libro si può leggere come opera d’arte letteraria, come cronaca di un’anima, come documento di un complesso di fenomeni storici. Ma certamente emerge da pagine appassionate e sofferte la storia di un uomo che, novello Agostino, si pone domande difficili e tenta risposte non sempre convincenti. Filosofia e fede, scienza e fede, cultura e contesto religioso, inquietudine e senso della vanità della vita, amore per il prossimo e filantropia, attenzione per la vita povera dei contadini, missione educativa: un lungo percorso inteso a liberare dalle tenebre, con ricadute, scoraggiamenti, riprese. E alla fine con l’approdo alla convinzione che “senza fede non si può vivere” (p.66). Nulla di didascalico nel racconto: semplicità, ricerca della chiarezza, immersione negli interrogativi sul destino ultimo dell’uomo e dell’umanità. Ma, nel raccontare se stesso, Tolstoj educa al senso profondo della storia, al dono che è la vita, al bello che ogni frammento della vita incarna ed esprime. E mette conto sottolineare l’altissima funzione della scuola e la carica di sal-
1) Lev Nikolaevic TOLSTOJ, La confessione, Feltrinelli, Milano 2010, pp, 128; Anna BORGÌA, Nel cuore di Tolstoj, LEF, Firenze 2009, pp. 236. 2). Giovanni FASANELLA, Giovanni PELLEGRINO, // morbo giustizialista, Marsilio, Venezia 2010, pp. 124; Carlo SIMONCÌNI, Carne arrabbiata, Garzanti, Milano 2010, pp. 252; Ferdinand VON SCHIRACH, Un colpo di vento, Longanesi, Milano 2010, pp. 240. 3) Anna LUCCHIARI, I pazzi numeri del tempo, Armando. Roma 2009, pp. 128; Autori vari, Siamo nati tutti liberi, tr. dall’inglese di Francesca Fabris, Paoline, Milano 2008, pp. 70.
699 vezza che reca con sé la famiglia. La vita e l’opera del grande scrittore russo gettano tanta luce sul problema dei diritti dell’uomo e del bene comune e della solidarietà: Tolstoj ne è missionario. All’intelligenza dell’opera di Tolstoj avvia il bel libro di Anna Borgia, esperta di problemi educativi e familiari, scrittrice dallo stile limpido e lineare, il suo Nel cuore di Tolstoj esce nella collana “Finestre” con la significativa prefazione di Rodolfo Doni, che ricorda la felice stagione di Papini, Lisi, Betocchi, Bargellini, nonché di La Pira e di don Milani, tutti accolti dalla Libreria Editrice Fiorentina, Le intenzioni dell’Autrice appaiono chiare già dal sottotitolo (Alla ricerca della verità). La vita di un grande scrittore tutto proteso a cogliere il senso del proprio tempo, di una società ricca di contraddizioni, di un movimento anche inconsapevole di lotta e di riscatto. Interessanti le pagine sulle memorie, sulla vita dei contadini, sull’educazione; interessanti e vive le osservazioni e riflessioni su stati d’animo, sulla vita e sulla morte, sull’amore: un umanesimo religioso che è ricerca e conquista. II desiderio di perfezionamento spinge il Tolstoj verso ogni lido, lo trasporta attraverso vicissitudini le più varie e anche contraddittorie: lo scrittore vive esperienze che lo segnano e che, anche quando approda sul terreno della religione, non spengono la sua inquietudine spirituale. La Borgia segue passo passo il cammino del Tolstoj tra scienza e fede, tra incredulità e orientamenti ideali, tra ricerca intellettuale e concreto impegno sociale, tra aspirazioni alla pace e apostolato educativo. Il racconto è fatto di parole semplici e di spunti critici e di fotografie in bianco e nero che immettono il lettore in un clima storico e culturale ben definito. Anna Borgia aggiunge una significativa intervista ai pronipoti dello scrittore russo. Note non ingombranti; rassegna bibliografica e critica. Un bel libro per celebrare a cento anni dalla morte un educatore, un pensatore, un apostolo dei diritti dei deboli, uno scrittore robusto e incisivo. 2. Educare alla giustizia: è possibile? L’anelito di verità e di giustizia, presente in Tolstoj, anima uomini e donne, giovani e adulti; ma il senso della giustizia si va oscurando, travolto da interessi che nascono da esasperato egoismo. Citiamo al riguardo tre recenti opere, che fanno riferimento al tema. Va detto subito che i tre volumi sono godibili: una volta iniziata la lettura, si va avanti,
700 si è coinvolti, ci si attacca ai problemi che il testo solleva e si sveglia in noi il desiderio di conoscere e di approfondire. I tre volumi vanno segnalati per il contributo che essi danno all’educazione alla lettura. Invogliare ragazzi e giovani alla lettura si può, se si è in grado di dare indicazioni significative su pagine costruite con dignità di lingua e di stile. Il libro di Fasanella e di Pellegrino (Il morbo giustizialista), il romanzo di Simoncini (Carne arrabbiata), gli undici racconti di Ferdinand von Schirach (Un colpo di vento) per chiarezza, per intenzioni ispiratrici, per ritmo meritano d’essere segnalati a giovani e a educatori, a quanti apprezzano l’impegno sociale e aspirano al rispetto e alla promozione dei diritti umani e a una società più giusta. Meritano d’essere segnalati per il contenuto e per il messaggio che gli autori trasmettono a una umanità distratta e smarrita. Giovanni Fasanella, giornalista, è autore di interviste, saggi e servizi (anche televisivi) intesi a richiamare l’attenzione su problemi gravi e fenomeni diffusi. Giovanni Pellegrino è avvocato di grido e ora anche scrittore di vaglia. È stato senatore della Repubblica e ha presieduto importanti commissioni; è stato anche presidente della Provincia di Lecce. Ecco cosa scrive sul suo esordio in politica: “Benché quando entrò a Palazzo Madama, avesse cinquant’anni e fosse già un avvocato di successo, dovette constatare la sua assoluta impreparazione al ruolo parlamentare, perché prima non era mai stato consigliere comunale o provinciale e non aveva quindi alcuna conoscenza del modo di funzionare di un’assemblea elettiva. Fu costretto a un anno di studio, di fatica per impossessarsi almeno dei rudimenti. Fece un apprendistato abbastanza veloce, però nutrito di modestia, cosciente com’era di essere arrivato a un ruolo per il quale non era preparato. Ma oggi non si ‘studia’ più, si viene catapultati in Parlamento e subito si smania per apparire in qualche salotto televisivo: è lì che avviene il vero apprendistato” (pp.96-97). Leggiamo ancora: “Abbiamo un Parlamento pletorico, formato da mille deputati e senatori di fatto non eletti dal popolo, ma nominati dalle segreterie dei partiti” (p.94). Si riscontra un vuoto formativo e culturale impressionante che manifesta i suoi negativi esiti in ogni iniziativa, in ogni manifestazione. Fasanella e Pellegrino insistono: il governo delle istituzioni, da cui dipende il bene comune, richiede preparazione e senso di responsabilità, che si
Biblioteca acquisiscono attraverso un percorso educativo rigoroso nella scuola e nell’università e l’impegno graduale negli organismi elettivi e nella militanza politica. Un discorso trasparente, da considerare come strumento educativo efficace. E rivolto a eletti ed elettori e in particolare agli operatori della comunicazione sociale. Il ricorso alla menzogna, alla demonizzazione dell’avversario, alla polemica sterile e alla critica ingiusta non produce nulla di buono e aumenta il senso di confusione e di smarrimento in cui ci si ritrova. Da sottolineare il pensiero di fondo che serpeggia nelle pagine de Il morbo giustizialista: la politica ha perso la sua funzione pedagogica: il politico che non educa con l’esempio, la coerenza, il discorso chiaro non ha valori e non è credibile. Carne arrabbiata è un romanzo. Una confessione. Carlo Simoncini, avvocato a Bergamo, narra le vicende di un civilista serio, consapevole dei propri doveri, responsabile. E anche di carattere un po’ difficile, a tratti stanco e deluso, desideroso di solitudine, non conformista. L’esperienza professionale, ricca e multiforme, lo induce a parlare dei suoi clienti, verso i quali tuttavia osserva sempre rispetto, in termini di “carne arrabbiata”: mai contenti, nemmeno quando escono vincenti dal processo. L’avvocato non si stanca di chiarire, di dare spiegazioni, di informare sulle difficoltà dell’azione legale: è avvocato e anche educatore, cerca di far capire come funziona il sistema giustizia. Cuore del romanzo è la vicenda di un dipendente di una grossa azienda che si vede negato il riconoscimento di inventore (con i consequenziali premi in denaro). L’avvocato si appassiona al caso: sa che è difficile lottare contro i giganti, ma sa che è giusto e sacrosanto impegnarsi perché giustizia sia fatta. Carne arrabbiata è una felice espressione dell’impegno per la giustizia e per la tutela dei diritti dei deboli. Lo Schirach, avvocato penalista a Berlino, si è occupato di processi dalla forte presa emotiva , da cui trae la materia per le pagine di Un colpo di vento, subito coronato da successo di vendita e da consenso di lettori e di critici. L’avvocatoscrittore, rigoroso nel rispetto delle regole, si cala con prudenza ed equilibrio nel cuore dell’assistito per scoprire le radici e le ragioni del delitto. Ogni racconto presuppone uno studio attento dell’uomo, ha un suo impianto psicologico. Storie di ordinaria follia, ma anche di amore e di solidarietà; storie che producono riflessioni su società e natura dell’uomo; anche commoventi,
Biblioteca sempre apprezzabili per struttura e ritmo. E dall’esito pedagogico chiaro e incisivo. Dunque, tre avvocati insegnano il rispetto della persona e conducono sulla via del bene comune, da perseguire lottando contro ostacoli provenienti da mentalità e incrostazioni mentali dure a morire. 3. Un volo rapido e leggero sulle pesanti vicissitudini sociali del nostro tempo compie Anna Lucchiari, apprezzata autrice dei “Chiaroscuri” lasalliani con le pagine de I pazzi numeri del tempo. Ricordi, pensieri, riflessioni: memorie anche queste, non sistematiche, non continuative, ma legate a molteplici occasioni che l’autrice sa sfruttare per condurre il lettore dall’evidenza di un semplice dato o fenomeno, talvolta in apparenza inutile, alla trasparenza di un discorso che si fa via via ricco, complicato, filosofico e politico, anche “acrobatico” (p.89). Un viaggio straordinario: la valigia, il treno, il tempo e gli anni, la campagna, le città, la scuola e le istituzioni educative e culturali, le letture bibliche e quelle mitologiche, e le pagine di De Amicis, le riflessioni su passato e futuro, su giovani e anziani, e non mancano incursioni nel campo politico, talvolta leggere, talvolta pesanti come bastonate. Sono frammenti di attualità che i lettori più vivaci potrebbero incastonare in un mosaico per carpirne il senso: frammenti di quel mosaico fatto di pazienza e di sorprese che è la vita. La Lucchiari mira in Pazzi numeri del tempo e in altre pagine di critica e di pedagogia a evidenziare nelle parole e nei gesti e nei pensieri degli uomini la radicale aspirazione degli uomini a un mondo migliore. È dunque in linea con gli scrittori sopra segnalati e aggiunge al suo dettato motivi che vengono dal mondo della vita interiore. Educare è trasmettere un messaggio: i riferimenti al Vangelo e all’insegnamento della Chiesa, offerti con coscienza laicale, sono l’anima del suo discorso, aperta a una società in crisi ma ancora viva nelle sue tensioni. Nell’uomo della Lucchiari abita ancora Dio. Da qui la forza di una proposta, di un pensiero, di un’iniziativa. Dio? In genere ignorato: nelle cronache, nei romanzi, in televisione. E la Lucchiari insegna che Dio, anche quando ignorato, nutre l’opera dell’uomo. Lo si può vedere nella Dichiarazione universale dei diritti umani, su cui nel 60° anniversario della firma, sono stati pubblicati articoli e saggi. Qui ci si sofferma su Siamo nati tutti liberi : la dichiara-
701 zione dei diritti umani spiegata ai bambini. Un’ottima iniziativa assunta dalle Paoline in collaborazione con Amnesty International. Vi si legge: “Ogni uomo, donna e bambino di questo pianeta è protetto da 30 articoli speciali: la Dichiarazione universale dei diritti umani. In qualsiasi posto viviamo, chiunque noi siamo, questi sono i nostri diritti e nessuno è autorizzato a sottrarceli”. I 30 articoli sono riportati nelle ultime pagine e illustrati con parole e disegni da maestri esperti e artisti insigni. Le parole sono semplici e portano al cuore del problema; le immagini parlano il linguaggio dei bambini e richiamano l’attenzione degli adulti. Educatori e genitori hanno a disposizione un mezzo idoneo per avviare un colloquio, per iniziare un corso di educazione civica non legato a regole pesanti, per spiegare la grandezza della dignità della persona umana, del bambino-persona umana. Siamo nati tutti liberi, nasciamo liberi. Avere consapevolezza di tutto questo è una grande conquista. Una grande conquista frutto del diffondersi della cultura, di movimenti e di lotte incessanti, frutto soprattutto di un cristianesimo che legge e vive il Vangelo e che nei suoi valori e nei suoi slanci è radicato nella coscienza dei popoli e dei cittadini. Il libro si apre con parole incisive di Roberto Piumini: “Quando vai a scuola, perché hai il diritto di essere educato, ricorda chi ha il diritto, e non la scuola. Quando riposi, perché tu hai diritto di riposare, ricordati di chi ne ha il diritto ma non può riposare. Ricorda il tuo diritto, ma anche il suo rovescio, perché c’è un diritto che non hai: dimenticare”. 28 artisti: se ne presenta la foto con un conciso profilo biografico e con l’indicazione degli articoli illustrati. Tutti impegnati in un lavoro che è missione, apprezzati in tutto il mondo, dediti alla promozione e alla tutela dei diritti umani, a un’opera educativa che incide e lascia il segno. Per saperne di più: www.amnesty.it. Francesco Pistoia
Silvia ILLARI (a cura) La Costituzione italiana 60 anni dopo. Esperienze e prospettive Rubbettino, Soveria M. 2010, pp. 270. “Stiamo passando dall’epoca dei diritti del cittadino all’epoca dei diritti dell’uomo: riprendendo
702 e dando pieno significato all’ispirazione universalistica che stava all’origine stessa del costituzionalismo. Lo sviluppo quasi esclusivamente nazionale delle esperienze costituzionali portava in passato a enfatizzare il presupposto della cittadinanza come base dei diritti nei confronti dell’autorità. Si pensi che è ancora formalmente in vigore nel nostro ordinamento, per quanto largamente svuotata del suo contenuto sostanziale, una norma, l’art. 16 delle disposizioni preliminari al codice civile, secondo cui “lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità”: che sembra cioè subordinare i diritti delle persone straniere ad una condizione tipica dei porti fra gli Stati. Poi però la Costituzione, all’art. 10, secondo comma, stabilisce che il trattamento giuridico degli stranieri si deve conformare alle norme e ai trattati internazionali, e fra i trattati vi sono le convenzioni sui diritti umani universali. Oggi poi i trattati, e dunque le convenzioni sui diritti, sono in ogni caso vincolanti per il legislatore. E le convenzioni sanciscono diritti non a favore dei cittadini di questo o quello Stato, ma di ogni individuo. La distinzione fra cittadini e non cittadini resta, ma entro i limiti consentiti dal riconoscimento dei diritti umani universali, che spettano all’individuo non in quanto possa vantare lo status di cittadino dello Stato (o di un altro Stato), ma in quanto semplice individuo umano. Dunque noi costituzionalisti dovremmo tornare a riflettere sul tema della cittadinanza. La nozione di cittadinanza, che con le rivoluzioni della fine del ‘700 nasce in funzione di rivendicazione di diritti e di eguaglianza, perché prima c’erano solo sudditi, e il patrimonio di diritti di cui godevano i soggetti era ampiamente condizionato dalle loro appartenenze di ceto, professionali, religiose, e invece dopo sono tutti cittadini. Oggi, paradossalmente, in una società in cui la convivenza tra cittadini e non cittadini è fenomeno stabile e diffuso, la cittadinanza finisce per porsi come fattore di disuguaglianza, e di disuguaglianze sempre meno giustificabili razionalmente. Si pensi per esempio ai diritti cosiddetti politici, come il diritto di voto, che si considerano pacificamente come diritti attribuiti solo a coloro che godono della cittadinanza del nostro Stato. Ma il diritto di partecipare alla vita della collettività si può davvero limitare, ad ogni livello, ai soli cittadini, esclu-
Biblioteca dendone i non cittadini che pure siano radicati nel territorio dello Stato e vi risiedano stabilmente? Il Consiglio di Europa ha promosso nel 1992 una convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, in cui si prevede che gli Stati aderenti riconoscano agli stranieri le libertà di espressione, di riunione e di associazione (capitolo A), consentano e incoraggino la costituzione di organismi consultivi volti a rappresentare i residenti stranieri a livello locale (capitolo B), e concedano agli stranieri legalmente residenti da almeno cinque anni il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni locali (capitolo C). È la presa d’atto che quello di partecipare attivamente alla organizzazione e alla attività della collettività locale in cui si vive non dovrebbe essere un diritto riservato esclusivamente ai cittadini, perché si connette con diritti elementari della persona. Peccato che solo 13 Stati, sui 47 del Consiglio d’Europa, abbiamo finora aderito alla Convenzione, che solo 8 l’abbiano ratificata, e che l’Italia, che ha aderito e ratificato, l’abbia fatto però limitatamente ai capitoli A e B, escludendo dunque l’attribuzione del diritto di voto e di eleggibilità. È tempo che anche su questo terreno si porti la riflessione dei giuristi e l’attenzione della politica; che si affrontino i temi dei movimenti migratori, così caratteristici dei nostri giorni, con occhi nuovi, muovendo dalla premessa della universalità dei diritti fondamentali e non trascurando il fatto che la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sancisce, all’art. 13, il diritto di lasciare il territorio di qualsiasi paese, incluso il proprio (riconoscendo quindi una libertà di emigrare), e all’art.14 afferma che ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni (Valerio Onida, La Costituzione dal 1948 al 2008, pp. 23-32 passim).
Antonino SPADARO Libertà di coscienza e laicità nello Stato costituzionale Sulle radici religiose dello Stato laico Giappichelli, Torino 2008, pp.282. L’autore è ordinario di Diritto costituzionale e di Dottrina dello stato dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, intellettuale cattolico e giuri-
Biblioteca sta formatosi nella tradizione della scuola giuridica messinese e nei movimenti di impegno culturale dell’Azione cattolica (Fuci, Meic). Nella prospettiva del costituzionalismo viene esplicitato anzitutto il rapporto tra sacro e profano, meglio tra Stato e Chiesa, il cui oggetto ruota intorno a due argomenti correlati: la libertà di coscienza individuale e la laicità dell’organizzazione politica della società, senza escludere il riferimento all’organizzazione ecclesiastica. Fermo l’interesse storico-culturale per l’incidenza delle religioni sui sistemi sociali, la rilevanza costituzionale concerne da un lato i limiti indispensabili di tale influenza, nell’interesse della stessa libertà religiosa, e dall’altro l’assunto basilare che “senza libertà non esista un sentimento autenticamente religioso”. Sullo sfondo degli stati contemporanei si stagliano due possibili derive: il neoconfessionalismo dell’etica pubblica (estrapolazione di valori oggettivi da imporre a tutti) e il laicismo, inteso come esasperazione del soggettivismo e come negazione di ogni etica pubblica. La via mediana propone l’affermazione di una “etica pubblica costituzionale”, una sorta di meta-etica quasi come terzo genere tra l’etica laica e religiosa, fondata su valori condivisi che accomunano credenti, agnostici, atei per realizzare la convivenza pluralistica di più etiche. La ricerca tende ad affrontare la questione delle “radici religiose dello stato laico”, mettendo in luce una sorta di afflato squisitamente religioso posto alla genesi del costituzionalismo contemporaneo che rimane connaturalmente laico. Delle tre parti del volume, la prima, a carattere fondativo, indaga sulla Libertà di coscienza come valore costituzionale e universale, esaminata sia nell’ambito statuale che ecclesiale; la seconda - Le radici religiose del costituzionalismo liberaldemocratico - offre riflessioni frammiste ad elementi filosofici ed antropologici come l’amore dei lontani, universalità e intergenerazionalità dei diritti umani tra ragionevolezza e globalizzazione; la terza, in chiave più applicativa, conclude sulla laicità dello stato costituzionale contemporaneo, verificata su numerose questioni emergenti. Riconoscendo la natura controversa e complessa degli argomenti, la metodologia che l’a. adotta, pur mutuata dall’esperienza del giurista, si iscrive nell’ordine delle indagini di confine e di intersezione tra culture e discipline eterogenee (storia, filosofia,
703 teologia, diritto, sociologia...), condotta nel segno dell’interdisciplinarità per poter meglio scardinare luoghi comuni e pregiudizi (Intr., XVII). Dalla contaminazione degli opposti viene fatta derivare l’ipotesi di una laicità religiosa e - nel trascendimento dell’ipotesi semplificatoria dello Stato etico o della religione civile e dello Stato devoto - di una religiosità laica (in proposito viene recuperato il senso autentico del dibattito introdotto da G. La Pira alla Costituente, di ispirare in un preambolo la Carta nel nome di Dio, ricordando l’intervento di P. Calamandrei favorevole ad “un’idea religiosa” sottesa alla Costituzione, cfr. Atti, Ass. Cost. sed. ant, 22.12.1947, 3759). Tra le tante piste tematiche affrontate mi limito a segnalare qualche punto di maggiore interesse. Anzitutto quello dei “limiti all’obiezione di coscienza di fronte allo Stato e il ruolo dello Stato nella formazione delle coscienze” (p.71). Definita la c.d. “etica pubblica costituzionale, in quanto laica, generale e vincolante per tutti”, il saggio sviluppa la laicità ad extra nei rapporti tra Stato e Chiesa ed in genere Confessioni religiose (ricondotta in essenza alla non ingerenza ecclesiastica e alla non ingerenza statuale), e ad intra nell’ambito specifico ecclesiale cattolico, preminentemente nell’ottica dello spazio riservato alla componente laicale. Rispetto alla soluzione concordataria (ex art. 7Cost. e Accordi di revisione del 1984), premesse le aperte riserve ed i numerosi problemi irrisolti, Spadaro promuove un atteggiamento di apertura e di interrogazione intorno alle peculiarità dei Patti. Si affrontano in sequenza e situandole storicamente, questioni pratiche attuali e ferite aperte nell’approccio suggerito dal diritto costituzionale vigente e dalla giurisprudenza, imperniate sul principio di laicità e di dignità della persona umana, alla luce della “teoria non di relatività, ma di relazionalità dei valori superiori” (p. 189). Rispetto a questi il libertarismo ed il laicismo confermano la loro debolezza, ad es. nel rifiuto aprioristico dei “valori non negoziabili”, recuperati non in chiave di un’etica particolare delle singole realtà sociali, ma dei valori costituzionali condivisi, per loro natura potenzialmente universali ed aperti al confronto con i valori di respiro ecumenico del Vaticano II. Vengono inoltre individuate alcune questioni di particolare rilevanza morale e giuridica, ripartite in base alla loro attinenza alla categoria squisita-
704 mente etica o alla loro natura economica. L’eterogeneità dei problemi viene ad essere sottoposta ad una verifica di carattere trasversale e metodologica di taglio ermeneutico. A partire dalla dichiarata intenzione della Chiesa cattolica di rinunciare ad interventi diretti della gerarchia sulle questioni temporali, di “rivendicare l’esercizio della propria missione nel rispetto della laicità dello Stato” (Benedetto XVI al Presidente della Camera, nov. 2005), di riconoscere persino un giovamento dall’opposizione dei suoi avversari e persecutori (GS 44); fino a dichiarare di essere pronta a rinunciare all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti ove possa essere messa in dubbio la sincerità della sua testimonianza (GS 76). In tal senso i casi seri e sensibili - della via italiana alla laicità - esaminati riguardano l’etica familiare (anticoncezionali, divorzio, coppie di fatto, omosessualità...), bioetica (fecondazione assistita, aborto, eutanasia...) nei quali “l’antropologia personalista sottesa al costituzionalismo”, può fare intravedere fecondi terreni d’incontro. Ampio e significativo il campo delle controversie economiche, dove non secondario risulta l’intreccio con la dimensione temporale e dei beni materiali: patrimonio immobiliare degli enti ecclesiastici, ospedali e case di cura, l’otto per mille, immissione in ruolo degli insegnanti di religione cattolica..). L’interesse per la sfera educativo-scolastica viene sollecitato dallo sguardo sintetico sia sul finanziamento delle scuole private, sia sulla protezione del patrimonio storicoartistico dei beni culturali ecclesiastici sui quali aleggiano giudizi di dubbia legittimità costituzionale. Questioni conflittuali, in buona parte sanabili ove le dichiarazioni di principio sopra richiamate fossero applicate coerentemente, rendendo più trasparente il servizio educativo e la diaconia culturale di una Chiesa evangelicamente impegnata a favore dei poveri, che da ultimo trasformerebbero le sospette “ingerenze” semmai in interferenze, legittime sul piano della manifestazione del pensiero, propedeutiche ad interazioni collaborative. Si rammentano poi le conseguenze della incongrua esclusione della teologia dall’ università statale, mostrandone i condizionamenti causati dalla “emarginazione della teologia dal piano della fondazione epistemologica delle categorie di analisi della società” (p. 213).
Biblioteca Il messaggio di fondo, alimentato dal paradosso costituzionale della “laicità come valore religioso e della religiosità come valore laico”, volge ad affermare la centralità della libertà di coscienza, sia per il cittadino cattolico (di fronte allo Stato) che per il cattolico cittadino (di fronte alla Chiesa, rispetto alla quale il saggio fa emergere con chiarezza il limite della legge naturale). Due prospettive non totalmente incompatibili, anche per l’elaborazione di risposte adeguate alle inedite sfide sociali e culturali. Tale visione - una volta presupposto lo Stato costituzionale laico come capace di valori eterocentrici e portatore di un’intrinseca componente di religiosità - appare decisiva per il dialogo tra credenti e non credenti. Dalla ricchezza di spunti normativi e metagiuridici già offerti e vista la convinta adesione dell’Autore all’antropologia personalista ed all’etica della responsabilità, si auspica che l’A. investa ulteriormente sia sulla formazione di libere coscienze, e lo faccia in termini di risvolti educativi e non meramente di diritti all’informazione e all’istruzione, sia sul ruolo delle istituzioni pubbliche nella comunità educante di una società e di uno Stato autenticamente laici. Giorgio Bellieni Issr di Reggio Calabria
Alberto ELLI Breve storia delle Chiese cattoliche orientali Ed. Terra Santa, Milano 2010, pp. 222. Al sinodo dei vescovi sulla Chiesa cattolica in Medio Oriente, voluto da Benedetto XVI e frutto della sua visita in Terra Santa, le edizioni Terra Santa dedicano cure e ricerche attente e utili. Questa Breve storia delle chiese cattoliche orientali apre la nuova collana ‘Ekklesia’, attenta all’ascolto di esigenze di chiarezza e all’impegno per una puntuale diffusione di conoscenze di dati, situazioni, problemi. L’intento dichiarato fa riferimento a iniziative di limpida divulgazione: ma va subito detto che il volume di Alberto Elli, ingegnere nucleare e studioso appassionato di cultura classica e storico-religiosa e di lingue semitiche, non è pane per tutti i denti. Occorre attrezzarsi di nozioni geografiche e storiche per introdursi in modo più o meno adeguato allo studio delle chiese cristiane orientali, realtà com-
Biblioteca plessa carica di fermenti, dissensi, eresie, atti di coraggio e di coerenza, scomuniche, deposizioni, contrasti interni accompagnati da gelosie, lotte politiche, polemiche su dottrina e disciplina, dialogo, divisioni, rapporti difficili tra chiesa e potere... Qualche esempio: 1) l’arcidiacono Dioscoro, che viene eletto ad Alessandria successore di Cirillo, è di “natura vendicativa, arrogante, presuntuoso e privo di scrupoli” (p.31); 2) Teodosio si atteggia “ad arbitro della fede” (p.32); papa Leone bolla il concilio di Efeso come “brigantaggio” (latrocinium) (p.34). Elli narra le cause delle divisioni tra cristiani, spiega eresie e dispute; descrive fisionomia, consistenza e patrimonio di cultura e di spiritualità delle chiese cattoliche di rito orientale presenti in Medio Oriente (maronita, greco-melchita, copta, etiopica, armena, caldea, sira, siro-malankarese, siro-malabarese) e traccia le linee di un discorso storico che abbraccia i primi secoli del cristianesimo, si diffonde nelle epoche successive, si concentra su problemi del nostro tempo, introduce a un’attualità politica e religiosa fatta di ardore e passione. Il racconto di vicende di epoca moderna amareggia e addolora. Si pensi al Libano e ai suoi delicati equilibri sostenuti da un “patto nazionale” non scritto, al conflitto religioso “reso più acuto anche dal gravissimo problema di destabilizzazione provocato nell’area medio-orientale dalla creazione dello Stato d’Israele”, a guerre civili con strascichi che durano ancora (p.69). E come dimenticare le crudeltà compiute dal fascismo in Eritrea e in Etiopia? “Nel maggio 1937 avvenne la più odiosa delle rappresaglie fasciste: accusandoli di connivenza con quanti avevano attentato alla sua vita nel febbraio precedente, il maresciallo Rodolfo Oraziani (1882-1955) fece massacrare più di mille tra monaci, diaconi, seminaristi e semplici pellegrini del Dabra Libanos, il più noto e importante dei monasteri etiopici” (p.156). Eventi, dolorose spaccature, crociate, Roma e Bisanzio, movimenti, monasteri, personaggi, papi, reggitori del potere politico, interferenze: una serie di implicazioni, ben contestualizzate, costituisce la sostanza di un discorso che va seguito con pazienza e intelligenza. Elli fa tutto questo in modo rigoroso, da storico e da cultore. Ma soprattutto lo fa, pare di capire, in piena assonanza con lo spirito animatore del Sinodo di ottobre. L’Instrumentum laboris e i Lineamenta e le parole pronunziate da Benedetto XVI a Cipro
705 il 6 giugno 2010 fanno riferimento a puntuali motivi e a una forte ispirazione: La Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza. “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola”. Prepararsi ad affrontare le sfide del mondo d’oggi richiede conoscere la storia, stare dentro le prospettive che muovono la Chiesa, capire e approfondire il senso di culture differenti, capire e approfondire il rapporto ebrei-cristiani, cristiani-musulmani, ricercare e avviare con tutta l’anima un percorso comune. Soprattutto lasciarsi guidare, come si legge al punto 124 dell’ Instrumentum, dalla speranza, nata in Terra santa, che “anima tutti i popoli e le persone in difficoltà nel mondo da duemila anni.Nel mezzo delle difficoltà e delle sfide, essa resta una fonte inesauribile di fede, carità e gioia per formare i testimoni del Signore risorto, sempre presente tra la comunità dei suoi discepoli”. Francesco Pistoia
Renato RISALITI Letteratura e rapporti italo-russi dalle salmodie al gulag Centro interuniversitario di ricerche sul viaggio in Italia (CIRVI), Moncalieri 2010, pp. 164. Prima che essere una questione di mercato, l’unificazione europea è questione di cultura. Ce l’hanno ricordato più volte Jacques Delors e Romano Prodi e prima di loro i pionieri dell’europeismo più lungimirante. Ora, chi dice cultura dice anche letterature, al plurale. E l’Europa culturale è un mosaico di letterature nazionali, che non ha eguali al mondo. Certo, la diversità delle lingue nella geografia europea pone barriere alla comunicazione, ma è anche radice di una ricchezza letteraria invidiabile. Una ricchezza che fortunatamente non conosce frontiere, dal momento che non solo si intensificano le traduzioni da una lingua all’altra ma crescono anche i lettori capaci di leggere le opere nell’originale. La scuola stessa, vincolata fino a ieri a programmi blindati sulla lingua e la letteratura nazionale, sta allargando poco alla volta gli orizzonti verso capolavori stranieri, cominciando da quelli europei. Il saggio di Risaliti, già ordinario di storia e letteratura russa all’università di Firenze, documenta la singolare reciprocità di rapporti letterari tra
706 Italia e Russia, tra mondo latino e culture slave, tra cattolicesimo romano e tradizioni ortodosse. Il volume raccoglie una dozzina di squarci panoramici su autori e vicende storiche dal Settecento ad oggi. Così, per esempio, il capitolo “La poesia in Russia nel secondo Settecento” è una galleria di poeti e drammaturghi, esponenti del classicismo allora trionfante e dell’incipiente romanticismo o “sentimentalismo” (giganteggia qui tra tutti il poeta Gavrila Derˇzavin), senza dimenticare le precedenti opere popolari non attribuibili a un autore singolo (canti epici, canti storici, improvvisazioni di giullari...). Un altro capitolo si sofferma a illustrare l’opera narrativa di Leskov, sommo conoscitore del mondo ecclesiastico e fine esegeta delle icone e, prendendo pretesto da queste, vigoroso apologeta dell’animo popolare russo. Tre brevi saggi indagano sulla bilateralità letteraria italo-russa: alcune osservazioni critiche sulle traduzioni di Puˇskin in italiano, la fortuna di Maksimilian Voloˇsin in Italia, e ancora la meritata fortuna riscossa in terra italiana dal romanzo storico russo sovietico. Di particolare interesse il più corposo saggio sui presupposti culturali dell’ecologismo russo, che arriva a conclusioni come queste: in Russia la problematica del rapporto uomo-natura prende le mosse dal libro della Genesi e si incarna nella tradizione storico letteraria dei giardini dei conventi e poi nelle usad’by signorili. Verso la fine dell’Ottocento si dipartirono due tipi di ricerche: quella laica prese le mosse dagli scritti di Cechov sulla difesa dei boschi e giardini, e sull’incombente minaccia rappresentata da spericolati esperimenti scientifici fin dal primo Novecento, e quella teologico-filosofica dovuta a due capiscuola della mistica intellettuale russa: lo storico M.S. Solov’ev, notoriamente simpatizzante con il personalismo cattolico, e a Pavel Florenskij, poliedrico esponente di una escatologia ortodossa ancor oggi ben presente nella Russia profonda, prolifico scrittore attestato su “posizioni assai critiche della civiltà occidentale accusata semplicemente di essere senz’anima” (p.125). Docenti liceali di Lettere e di Storia, nonché Insegnanti di religione, possono trovare in queste pagine non pochi spunti per un’auspicabile e pertinente “apertura a Oriente” dei propri programmi di insegnamento. Silvana Rita Allais
Biblioteca
Maurizio DEL MASCHIO (a cura) «Coloro che ti benediranno io benedirò» (Gn 12,3a) L’ebraismo vivente visto da Teresa Salzano Granviale editori, Venezia 2009, pp. 240. (info. e ordinazioni: tel. 041.5241095 – Adele Salzano, S.Polo 1534, 30125 VE). Si chiede Amos Luzzatto nella postfazione: “Chi è stata Teresa Salzano? Una cattolica impegnata? Una promotrice del dialogo cristiano-ebraico? Una studiosa, una donna appassionata che sapeva suscitare interessi, disponibilità all’impegno, presenza in tutte le occasioni di incontro? Sì, era un po’ tutto questo, ma non basta ancora per tracciare un profilo di questa nostra preziosa amica. (…) Perché due tratti prioritari caratterizzano la figura della militante veneziana: il suo sincero e profondo desiderio di conoscere l’Ebraismo, e il suo amore per gli ebrei così come sono, senza diluire il suo amore in uno scopo, più o meno lucido, di convertirli” (p.225-226). Teresa Salzano (19302008) va annoverata in quel manipolo di pionieri – don Germano Pattaro, Maria Vingiani, don Luigi Sartori - che, a Venezia e nel Veneto, fin dai tempi del patriarca Roncalli e nella stagione postconciliare, hanno precorso, stimolato e accompagnato il dialogo ecumenico e in particolare l’incontro interreligioso tra cristiani ed ebrei. Conferenze a convegni, interventi in trasmissioni radiofoniche, scritti pubblicati in vari periodici regionali e nazionali: dalla massa considerevole di materiali prodotti dalla Salzano sono state selezionate queste pagine, postume, “utili per chi già conosce l’Israele vivente, necessarie per chi lo ignora”, a detta del curatore M. Del Maschio. In effetti, basterebbe uno sguardo all’indice per convincersi dell’ampiezza enciclopedica dei contenuti: Gesù ebreo e i movimenti della sua epoca – Storia ebraica post-biblica in Italia e in Europa – La vocazione perenne di Israele – Preghiera e spiritualità nell’Ebraismo – Israele radice delle Chiese cristiane – Pace, salvaguardia e integrità del creato nella visione biblica – Il dialogo ebraico-cristiano dopo il Vaticano II – La cultura ebraica nella scuola italiana tra Otto e Novecento. E ancora, profili critico-biografici di pensatori ebrei come Martin Buber, I.Bashevis Singer, Jules Isaac… Impreziosiscono questa silloge di saggi un glossarietto di un’ottantina di
Biblioteca termini ebraici, e una fitta selezione bibliografica di ben otto pagine sul tema specifico dei rapporti ebraico-cristiani. Il pregio migliore di questi contributi risiede, a nostro avviso, nella loro qualità di seria, e talora alta, divulgazione. L’ autrice ha avuto il merito di condensare in pagine limpide e sempre puntualmente informate, e persino narrativamente allettanti, un capitale di dati, analisi critiche, riflessioni e dibattiti, che recensisce con serena obiettività, senza tuttavia perder occasione per dare anche il suo proprio punto di vista. Pagine di sintesi e di mediazione culturale ben calibrate, dunque. Traspare da esse la familiarità con la letteratura specializzata ma anche l’habitus pedagogico nel saper porre in diretta e in modo convincente un argomento esegetico, nel saper ricostruire il filo di un dibattito teologico, nell’indicare sagge proposte attuative per il vissuto delle comunità credenti. Le varie tematiche che emergono dal secolare sofferto rapporto tra ebrei e cristiani sono affrontate di preferenza secondo un approccio storico; il che serve sommamente ad attenuare i toni polemici e a superare i pregiudizi. Un attento lavoro di scavo si concentra sui testi ecu-
707 menici del Vaticano II, in particolare su Nostra aetate. Da rivisitare in proposito - per chi volesse documentarsi sull’evoluzione del ricco dibattito italiano in materia – la serie di notiziari annuali che Teresa Salzano ha redatto per Studia Patavina sui Colloqui ebraico-cristiani di Camaldoli dai primi anni ’80 al 2002. Ci piace riportare – a beneficio e norma dei nostri lettori, insegnanti di scuola per lo più (e non solo di religione) – la postilla che chiude il saggio su Jules Isaac, iniziatore dell’amicizia ebraico-cristiana: “Suggeriamo di: 1/ introdurre nell’insegnamento scolastico ed extrascolastico ad ogni livello uno studio più obbiettivo e più profondo della storia biblica e post-biblica,sia del popolo ebraico che del problema ebraico; 2/ promuovere la diffusione di queste conoscenze con pubblicazioni adatte ai vari ambienti cristiani; 3/ vegliare affinché sia rettificato, nelle pubblicazioni cristiane e soprattutto nei testi scolastici, tutto quanto è in contraddizione con i principi (i Dieci punti di Seelisberg) sopra enunciati”. Raccomandazioni che non hanno perso nulla della loro attualità. Silvana Rita Allais
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LIBRI PERVENUTI ROBERTO ALESSANDRINI, NICOLÒ PISANU (a cura di), Collana “Le api”: 1. Brunetto Salvarani, Strani maestri. Anarchie educative dai Peanuts ai Simpson; 2. Anna Tonelli, L’educazione sentimentale. Etica e politica nell’Italia contemporanea; 3. Mirella Rotolo, L’abbecedario di Pinocchio. Disegni originali dagli alfabetieri degli anni ’50; 4. Flavio Pajer, I Grandi Codici. Sacre scritture, laicità e insegnamento religioso in Europa; 5. Massimo Bonfatti, I girovaghi. L’unico fumetto nomade; 6. Roberto Franchini, Il palinsesto dei valori. Metamorfosi della comunicazione sociale in Italia; 7. Nicolò Pisanu, Psicobiologia dell’educazione. Chimica della mente e alchimie relazionali; 8. Francesco Mattei, Abbondanza e privazioni. Avventure e disavventure dell’educazione; Franco Cogoli, Il Borgo del peperino. Vitorchiano in trenta foto d’autore; 10.Vari, La rivolta. Una storia italiana del 1970. Editore IPU/Istituto universitario Progetto Uomo, Vitorchiano VT, 2010; ogni opuscolo 16-24 pp., illustrazioni di Mirella Rotolo. MARIO CHIARAPINI, Sacramenti della fede. L’infinito tra noi, “Formazione catechisti” 5, EDB, Bologna 2010, pp. 142. ISBN 97888-10-12105-4. CELESTINO CORSATO, GIAMPAOLO DIANIN (a cura), Fede cristiana e ricerche morali. Studi in onore di Giuseppe Trentin nel 70° compleanno, “Studia Patavina” 1/2010, Padova, pp. 424. ISSN 0039-3304. FRANCESCA D’ALESSANDRO (ed.), Letture paoline. L’apostolo Paolo e la tradizione letteraria, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2010, pp. 260. ISBN 978-88-7094765-6. MAURIZIO DEL MASCHIO (ed.), Coloro che ti benediranno io benedirò (Gn 12, 3).
L’ebraismo vivente visto da Teresa Salzano, Granviale editore, Venezia 2009, pp. 240. ISBN 978-88-95991-13-9. JOSÉ LUIS HERMOSILLA, JOSÉ RAMÓN BATISTE PEÑARANDA, Santidad en las aulas de La Salle. Antiguos Alumnos Santos, Beatos y Siervos de Dios, Ediciones La Salle, Madrid 2010, pp. 152. SILVIA ILLARI (ed.), La Costituzione Italiana sessant’anni dopo. Esperienze e prospettive, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, pp.270. ISBN 9770032-325006. NICOLA LOMBARDI (ed.), Quærite. Semestrale dell’Istituto superiore di Scienze religiose “S.Pietro”, anno 1, n.1, maggio 2010. Ed. Saletta dell’Uva, piazza Matteotti 3, 81100 Caserta. ISSN 2038-2022. PIER PAOLO OTTONELLO (ed.), Educare: come? Unità dell’educazione, libertà di insegnamento, carità intellettuale. Atti del X Corso dei Simposi Rosminiani, Stresa 2629 agosto 2009, “Rivista Rosminiana” CIV, II-III, aprile-sett. 2010, pp.101-347. ISSN 0035-7030. RENATO RISALITI, Letteratura e rapporti italo-russi dalle salmodie al Gulag, “Civilisation de l’Europe” 13, CIRVI edizioni, Moncalieri 2010, pp.160 (+ 34). JOSEAN VILLALABEITIA, fsc, La clave fue el servicio. El Distrito Central de la Arlep (1955-2010), Ediciones LaSalle, Madrid 2010, pp.162. PANAGHIOTIS AR. YFANTIS, Chiamata alla santità. I fondamenti teologici, ascetici ed ecclesiologici della spiritualità ortodossa, “ Studi ecumenici” 21, I.S.E. “San Bernardino”, Venezia 2010, pp. 388. ISSN 03933687.
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INDICI DELL’ANNATA 2010 Indice dei contributi per autore ALESSANDRINI, Roberto Pitture nell’aria. Appunti per una storia della gestualità religiosa, 2, 233 L’educazione di Sancio. Metamorfosi dell’errato scudiero di Don Chisciotte, 4, 651-664 ALLAIS, Silvana Rita Cf. indice recensioni e segnalazioni: 191, 345, 708 AMURRIO, Santiago Familia Lasallista y Asociación, el desafío de discernir para caminar, 3, 441-460 BARTOLINI, Alessia Cf. indice recensioni e segnalazioni: 523-524 BÉDEL, Henri Le Scuole tecniche e professionali lasalliane in Italia, 1, 73-120 BELLIENI, Giorgio Cf. indice recensioni e segnalazioni, 703 BORNE, Dominique Cf. indice recensioni e segnalazioni: 342-344 BRUTTI, Maria L’Ebraismo nei libri di testo, 2, 245-258 BUTTURINI, Emilio Dall’idea di Europa alla realtà storica dell’Unione europea, 3, 369-380 CAPELLE, Nicolas Nouvelle biographie, nouveau regard sur Jean-Baptiste de La Salle, 3, 513-515 CIPRIANI, Roberto Laicità e religione nella sfera pubblica, 1, 15-41 DANI, Lorenzo Un discorso laico, per nulla neutrale, sul crocifisso nelle scuole, 3, 381-392 DE SALVIA, Antonio La formazione dell’uomo in detenzione: attualità della concezione formativa di Jean-Baptiste de La Salle, 1, 121-152 DI GIOVANNI, Gabriele San Gabriele scolaro, 3, 481-498 DIUMENGE, Lluís Caritas in veritate y el desafío de la solidaridad global, 1, 57-68 DOTTA, Giovenale L’Istituto per i figli dei carcerati a Pompei tra Bartolo Longo, gli Scolopi e i Fratelli delle Scuole cristiane, 4, 687-696
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FITZGERALD, L. Michael Interreligious relations in Egypt, 3, 425-432 FOSSATTI, Paulo Familia Lasallista y Asociación, el desafío de discernir para caminar, 3, 441-460 GIORDA, Mariachiara Alla base della pedagogia monastica: le tecnologie del sé in Egitto IV-V sec., 2, 215-226 HOURY, Alain Remarques sur une recension de Michel Ostenc, 3, 517-520 LUCCHIARI, Anna Tempora e temporali – Politicamente scorretto? 1, 69-72 Mano destra e cervello sinistro – Appunti dal Kunayala, 2, 289-294 Un mondo impazzito? – Farenheit già qui – L’importanza di un ‘non’, 3, 433-438 Le illusioni della modernità – La profezia della curandera, 4, 665-671 MELE, Francisco Il mistero del nome del padre, 3, 393-402 MUÑOZ, Diego Familia Lasallista y Asociación, el desafío de discernir para caminar, 3, 441-460 OSTENC, Michel L’istruzione primaria negli Stati pontifici, 2, 313-318 PAOLANTONIO, Marco La Didattica breve e la ricerca metodologica disciplinare, 1, 43-56 Anselmo Balocco FSC (1910-1995), catechista e catecheta, 1, 165-184 L’apprendimento cooperativo, 2, 265-280 Angelino Guiot FSC (1884-1963): incontri tra scienza e fede, 2, 319-332 Scuola e multimedialità, 3, 403-418 Beniamino Bonetto FSC (1907-1984), o le scienze umane a servizio dell’educazione, 3, 499-512 Dal curricolo lineare alla modularità didattica, 4, 639-650 PISANU, Nicolò Educazione e psicobiologia: transiti, 2, 227-231 PISTOIA, Francesco Il viaggio come pedagogia dell’incontro (rassegna bibliografica), 2, 347 Strumenti per l’educazione liturgica (rassegna bibliografica), 2, 349-351 J.M.Escrivá educatore e scrittore spirituale (rassegna bibliografica), 3, 526-529 Diritti umani tra democrazia ed educazione (rassegna bibliografica), 4, 711-713 RAMOS DIZON, Rolando Christians and Muslims at the Bethlehem University, 2, 333-336 REDCo, Projet européen de recherche Les jeunes, l’école et la religion, 2, 259-264 SAVIO, Patrizia L’insegnamento della Geografia e la costruzione dell’identità nazionale nel libro per la Scuola elementare tra Otto e Novecento, 4, 575-618
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TÉBAR BELMONTE, Lorenzo La evaluación de aprendizajes y competencias en el aula, 2, 281-288 Escuelas con carisma. Raíces de identidad de la escuela católica, 3, 419-424. Cómo ser educador mediador. ¿Qué aporta la EAM a la pedagogía del profesor en el aula?, 4, 619-637 TEMPRADO ORDÍAZ, Santiago El Inspector de las escuelas cristianas en los escritos de La Salle, 3, 515-517 TRISOGLIO, Francesco San Giovanni Damasceno: la catechesi dell’icona, 1, 5-14 Teodoro di Mopsuestia, il più lucido dei catechisti investito dalla più torbida delle tempeste, 2, 199-214 Teodoreto di Ciro: la catechesi culturale, 3, 359-368 San Cirillo di Gerusalemme, il ‘catecheta ufficiale’ dei catecumeni, 4, 539-551 TREFIAKOW, Nathalie Master “Action éducative internationale”, 2, 337 VALLADOLID, José María Retazos lasalianos (la serie è iniziata nel n. 4/2009): [6-10] Dos lugares de retiro para La Salle: Saint-Maximin y la Sainte Baume – Cómo renovaban los votos los primeros Hermanos – ¿Pretendió La Salle fundar un instituto secular? – Cuando La Salle se marchó al Sur, ¿pensaba desprenderse del cargo de superior? – ¿Tuvo La Salle una crisis vocacional después de la muerte de sus padres?, 1, 153-164. [11-15] Las dificultades que Nyel no había previsto – Una perplejidad legal de La Salle al formar la comunidad – Cuatro crisis de Juan Bautista de La Salle – ¿Cuándo se celebró la primera Asamblea de Hermanos, en 1684 o en 1686? – Etapas en el itinerario fundacional de nuestra congregación: comunidad, sociedad, instituto, 2, 297-312. [16-20] Tres innovaciones geniales de J.B. de La Salle – Consagrados por el ministerio - ¿En qué año realmente se fundó el Instituto lasaliano? – ¿Qué fue del sacerdote Faubert, a quién La Salle dejó su canonjía? – La familia cercana de J.B. de La Salle, 3, 461-472. [21-25] ¿De qué fuentes lasalianas disponemos en espanol? – ¿Podemos saber, de una bendita vez, quién era el ‘enemigo’ de La Salle? – ¿Cuatro meses para cumplir la obediencia? – De cuando Nicolás Dorigny, párroco de San Mauricio, se avino a acoger la primera escuela de Adrián Nyel – ¿Ofreció el rey a La Salle un obispado?, 4, 675-685 VILLALABEITIA, Josean Reglas de cortesía y urbanidad cristianas, 3, 473-480 Santidad y apostolado, 4, 553-574
Recensioni e segnalazioni bibliografiche Scienze dell’educazione, pedagogia e didattica R. Artacho López, Enseñar competencias sobre la religión (por el Autor), 344 M. Baldacci, I profili emozionali dei modelli didattici (M. Paolantonio), 185 M. Baldacci, F. Frabboni, La controriforma della scuola (M.Paolantonio), 186 E. Biffi, Educatori di storie (M.Paolantonio), 521 B. Bordignon, R.Caputi, Certificazione delle competenze (G.Adernò), 188 E. Buday, Imparare a pensare (mp), 341
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G. Capozzi, Educazione alla responsabilità in J.M.Escrivà (F.Pistoia), 527 M. Comoglio, Educare insegnando (M.Paolantonio), 189 G. Corsalini, Percorsi di formazione azll’insegnamento letterario (M.Paolantonio), 522 L. Dani, Comunicazione coatta (S.R. Allais), 345 P. Decormeille, I.Saint-Martin, C. Béraud, Comprendre les faits religieux (D.Borne), 342 E. Ducci, Approdi dell’umano (N Pisanu), 523 A.M. Favorini, Educare alla Speranza (ed.), 526 L. Luatti, Educare alla cittadinanza attiva (M.Paolantonio), 190 A. Nanni, A. Fucecchi, Rifare gli italiani (dall’Introduzione), 345 J. Stala, Los padres de hoy (R. Kantor), 524 J. Stala, E. Osewska, Anders erziehen in Polen (R. Biernat), 525 L.N. Tolstoj, La confessione (F.Pistoia), 699 Pubblicazioni lasalliane A. Barella, Essere per educare (M.Paolantonio), 187 C. Covato, M.I.Venzo, Scuola e itinerari formativi dallo Stato Pontificio a Roma capitale. L’istruzione primaria (M.Ostenc), 313 e Remarques 517 (A.Houry) J.-B. de La Salle, Reglas de cortesía y urbanidad cristianas (J.Villalabeitia), 473 Ch. Mory, Jean-Baptiste de La Salle. Rêver l’éducation (N.Capelle), 513 S. Temprado Ordíaz, El inspector de las escuelas en los escritos de La Salle (por el A.), 515 Varia F. Aleo, Spirito Santo e Chiesa (M.Giorda), 185 M. Badalamenti, Pellegrini di pace: Francesco e G. La Pira in Terra Santa (F. Pistoia), 348 M. Ballarini, L’anno del Signore (F.Pistoia), 351 M. Bettetini, Josemaria Escrivà (F.Pistoia), 526 E. Bianchi, Letture per ogni giorno (F.Pistoia), 351 M. Bidoglio, Preghiere e canti liturgici (F.Pistoia), 349 I.Biffi, Messale di ogni giorno (F.Pistoia), 350 E. Butturini, G. Canteri, Le ali del pensiero: Rosmini e oltre (A.Bartolini), 523 G. Chimirri, Filosofia e teologia della storia (ed.), 339 G. Chimirri, L’arte spiegata a tutti (ed.), 340 P. Corigliano, Un lavoro soprannaturale (F.Pistoia), 527 A. Elli, Breve storia delle Chiese cattoliche orientali (F.Pistoia), 706 J. M.Escrivá, Amare il mondo appassionatamente (F.Pistoia), 528. G.Fasanella, G.Pellegrino, Il morbo giustizialista (F.Pistoia), 700 G. Jeusset, San Francesco e l’Islam (F.Pistoia), 347 A. Lucchiari, Pazzi numeri del tempo (F.Pistoia), 701 B. Mondin, Islam e cristianesimo. Possibilità di un dialogo (F.Pistoia), 347 R. Risaliti, Letteratura e rapporti italo-russi dalle salmodie al gulag (S.R. Allais), 707 A. Rosmini, Spiritualità e immortalità dell’anima (F.Pistoia), 339 T. Salzano, “Coloro che ti benediranno io benedirò” (S.R. Allais), 708 C. Simoncini, Carne arrabbiata (F.Pistoia), 701 A. Spadaro, Libertà di coscienza e laicità dello Stato costituzionale (G.Bellieni), 704 F. von Schirach, Un colpo di vento (F.Pistoia), 701 A. Vauchez, François d’Assise entre histoire et mémoire (S.R.Allais), 191.
JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE
OPERE COMPLETE in 6 volumi, rilegati con sovracoperta, 22 x 15 cm. Prima edizione italiana a cura di SERAFINO BARBAGLIA
1. Scritti Spirituali / 1 Raccolta di vari Trattati brevi – Regole – Scritti personali Presentazione di A. HOURY – Introduzione di M. SAUVAGE e M.-A. HERMANS pagine 544
2. Scritti Spirituali / 2 Meditazioni – Spiegazione del metodo di orazione Presentazione di J. JOHNSTON pagine 1194
3. Scritti Pedagogici Guida delle Scuole cristiane – Regole di buona creanza e di cortesia cristiana Edizione italiana a cura di R. C. MEOLI pagine 480
4. Scritti Catechistici I doveri del cristiano verso Dio Traduzione e note a cura di G. DI GIOVANNI e I. CARUGNO pagine 862
5. Istruzioni e Preghiere Istruzioni e preghiere – Esercizi di pietà – Canti spirituali Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA e I. CARUGNO Presentazione di Á. RODRIGUEZ ECHEVERRÍA pagine 470
6. Le Lettere Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA Introduzione di R. L. GUIDI pagine 560
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Actualidades pedagogicas pubblicazione semestrale di carattere accademico Facoltà di Scienze dell’Educazione della Università La Salle, Bogotà, Colombia www.publicaciones.lasalle.edu.co/images/openacces/actualidades/
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De La Salle Today a magazine for the Lasallian Community in the United States and Toronto Region by the Christian Brothers Conference, Washington D.C., USA http://www.lasallian.info/doc
Logos Revista de Filosofía, cuatrimestral, Facultad de Filosofía Universidad La Salle, Ciudad del México, México D.F. revistalogos@ulsa.edu.mx
Sinite Revista de Pedagogía religiosa, cuatrimestral, La Salle Centro Universitario Årea de Ciencias de la Religión, Instituto Superior San Pío X, Madrid, España www.lasalleuniversidad.es
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ISSN 1826-2155
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trimestrale di cultura e formazione pedagogica
✓ Cirillo di Gerusalemme, le Catechesi ai catecumeni ✓ Santità e apostolato educativo, un binomio da rivisitare alla luce del Vaticano II ✓ Geografia e identità nazionale nei libri di testo nella scuola dell’Italia unita ✓ La figura dell’educatore come mediatore culturale ✓ Didattica: dal curricolo lineare alla modularità ✓ L’educazione di Sancio, o della metamorfosi dello scudiero analfabeta ✓ L’improbabile offerta dell’episcopato al La Salle ✓ L’Istituto Bartolo Longo di Pompei e i FSC
OTTOBRE-DICEMBRE 2010 • ANNO 77 - 4 (308)