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Rivista lasalliana Direzione e redazione: 00165 Roma - Via Aurelia, 476 Amministrazione: 10131 Torino - Strada Santa Margherita, 132
Rivista lasalliana
2011
Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/AC - ROMA - “In caso di mancato recapito inviare al CMP Romanina per la restituzione al mittente previo pagamento dei resi”
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ISSN 1826-2155
Rivista lasalliana
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trimestrale di cultura e formazione pedagogica
✓ L’Oratio catechetica magna di san Gregorio di Nissa ✓ Quando l’homo religiosus si sublima nell’homo ludens ✓ Con i ragazzi delle scuole professionali: quale pedagogia? ✓ Educare alle religioni nella scuola primaria? ✓ Per un approccio storico-critico alla figura di Gesù nella scuola secondaria ✓ Missio canonica dei religiosi educatori e rilettura del servizio educativo dei poveri nel tempo presente ✓ Uno spaccato storico della nascente istituzione lasalliana nello Stato Pontificio del primo Ottocento ✓ Dante Fossati FSC, antesignano degli Studi lasalliani e promotore della Scuola libera in Italia
APRILE - GIUGNO 2011 • ANNO 78 – 2 (310)
Rivista lasalliana trimestrale di cultura e formazione pedagogica 78 (2011) 2
RL
Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole cristiane da lui fondate. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie della Regione lasalliana euro-mediterranea.
Anno 78 • numero 2 • aprile-giugno 2011
Direzione Rivista lasalliana, Via Aurelia 476, 00165 Roma, tel. 06665231-0666523305. Gli articoli vanno inviati esclusivamente via e-mail all’indirizzo: fpajer@lasalle.org. Riviste in cambio e libri per recensione vanno inviati a: Rivista lasalliana, Casella postale 9099-Aurelio, 00167 Roma Gruppo redazionale 2011 Roberto Alessandrini, Mario Chiarapini, Gabriele Di Giovanni, Mariachiara Giorda, Anna Lucchiari, Marco Paolantonio, Nicolò Pisanu, Francesco Pistoia, Lorenzo Tébar Belmonte, Francesco Trisoglio, José María Valladolid Collaboratori e consulenti Bruno Bordone, Ernesto Borghi, Emilio Butturini, Robert Comte, Sergio De Carli, Paulo Dullius, Pedro Gil, Edgar Hengemüle, Alain Houry, Léon Lauraire, Herman Lombaerts, Matteo Mennini, Patrizia Moretti, Diego Muñoz, Israel Nery, José María Pérez Navarro, Gerard Rummery, Giuseppe Tacconi Editore Associazione culturale lasalliana, Strada Santa Margherita 132, 10131 Torino Amministrazione e diffusione Associazione culturale lasalliana, gabriele.pomatto@gmail.com, cell. 3471033855, tel. 0632294503, fax 063236047 Abbonamento 2011 Ordinario in Italia e 24 - docenti lasalliani e 18 - Paesi dell’Unione europea e 30 - altri continenti Usa $ 50 - sostenitori e 50 - un fascicolo separato, anche arretrato, e 6,50. A richiesta sono disponibili annate arretrate per biblioteche e ricercatori. Il versamento della quota si effettua mediante bonifico bancario sul codice Iban IT51N076000000012378113 oppure mediante modulo ccp n. 12378113 intestato a «Associazione culturale lasalliana». L’abbonamento ai 4 numeri annui decorre dal 1° gennaio e si intende continuativo, salvo disdetta scritta Progetto grafico Federico Fiorini, cell. 3384583313 Stampa e spedizione Stabilimento Tipolitografico Ugo Quintily spa., V.le E. Ortolani, 149/151, Zona Ind. di Acilia, 00125 Roma - quintily@quintily.com tel. 0652169299. ISSN 1826-2155. Registrazione del Tribunale di Torino n.353, 26.01.1949 (Tribunale di Roma n.233, 12.6.2007) Periodico associato alla USPI, Unione stampa periodica italiana - Responsabile a termine di legge F. Pajer - Spedizione in abbonamento postale: Poste italiane DL 353/2003 (conv. in L n.46, 27.02.2004) art.1 c. 2 - DCB Roma.
Rivista lasalliana 78 (2011) 2 Sommario
RICERCHE • STUDI • PROPOSTE 195 Francesco Trisoglio La catechesi al clero in san Gregorio di Nissa Dotato di un’esperta abilità retorica ma mediocre quanto a valore letterario, il vescovo cappadoce si impose in campo filosofico e teologico per non comuni capacità speculative. La sua Oratio catechetica magna è in realtà un trattato teologico sistematico composto in un’ ottica prevalentemente apologetica. Sommo teologo della Trinità, il Nisseno sa controbattere con abbondanza di argomenti convincenti la massa crescente di obiezioni provenienti dal pensiero ellenico e dalle credenze pagane. La sua teologia viene detta catechetica perché la verità che propone non solo è dottrina da credere, ma messaggio da vivere e da far vivere. .
211 Kostas Zorbas Christian approach of the poverty: biblical, patristic and ethical approach Il senso biblico della povertà non è riconducibile alla sola carenza di beni materiali; la prosperità è anzi uno dei segni della benedizione di Dio. Non la povertà, ma chi si fa “povero per il regno dei cieli” è al centro del messaggio evangelico. Vari Padri della chiesa declinano la povertà come autospoliazione, ascesi, contemptus mundi, demonizzando denaro e agiatezze, ma non dimenticano – con esortazioni e con fondazioni di opere sociali – di promuovere un’etica della condivisione solidale, del servizio fattivo ai poveri delle classi disagiate.
217 Roberto Alessandrini Devota allegrezza. Forme di disciplinamento religioso del gioco e del divertimento Non pochi teologi dell’ultimo secolo hanno rivisitato e riscattato la valenza religiosa delle attività ludiche dopo che le visioni rigoristiche delle riforme protestante e cattolica le avevano caricate di subdola pericolosità morale. Se la religione canonica ha tentato di disciplinare il gioco, il teatro, la danza, la spontaneità artistica, si devono nondimeno a uomini religiosi l’intuizione dell’Oratorio (san Filippo Neri), la mistica della sana ricreazione (san Francesco di Sales), la valorizzazione educativa del tempo libero (don Bosco), e persino il riconoscimento magisteriale del cinema e dello sport (Pio XII). D’altra parte, la cultura dell’agonismo spettacolarizzato degli ultimi decenni ha paradossalmente riprodotto in campo laico forme di sacralizzazione quasi idolatrica della competizione sportiva, come dimostrano, tra altri, i rituali di quelle “liturgie di massa” che sono i giochi olimpici o i campionati di calcio.
229 Giuseppe Tacconi Tra rassegnazione ed ostinazione: logiche di intervento con i ragazzi dell’Istituto di formazione professionale Una ricerca che smonta non pochi pregiudizi negativi che l’opinione dominante ha creato e diffuso a spese dei ragazzi che frequentano i centri regionali di formazione professionale. Recenti indagini in diverse regioni italiane su pratiche didattiche di formatori-insegnanti e sui vissuti di giovani apprendisti e sui loro ambienti di vita e di lavoro documentano che si possono produrre metodi e strategie vincenti, basate su una non scontata qualità delle relazioni personali, sull’inventività perseverante delle procedure di apprendimento, sulla motivazione sociale dell’impegno formativo. Dalle molte indicazioni emerse dalle ricerche per migliorare la didattica della formazione professionale può trarre indubbi stimoli e vantaggi la stessa scuola.
243 Mariachiara Giorda Educare alle “religioni” nella scuola primaria. Esperienze in corso La scuola italiana non ha ancora saputo assumere responsabilmente il problema della diversità religiosa. Ai tentativi di sperimentare percorsi disciplinari a impianto interculturale non ha fatto seguito finora che una attenzione episodica alla didattica interreligiosa. Il tradizionale Irc sopperisce solo in parte alla domanda. L’articolo riferisce di alcuni primi esperimenti pionieristici di “educazione alle religioni” in classi di scuola primaria. Si tratta di una disciplina in fieri, praticamente inedita nelle classi primarie italiane, esposta quindi a possibili derive e inevitabili limiti. E tuttavia supportata da ragioni di evidente urgenza, stando non solo all’incremento quantitativo di alunni stranieri ma anche, e più ancora, al bisogno conoscitivo della generalità degli alunni “cattolici” nostrani che vanno educati a saper convivere nella diversità.
255 Ernesto Borghi Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth (1) Oggetto di questo contributo – il primo di tre – è la figura di Gesù di Nazareth vista nei suoi presupposti, nella sua nascita e nella sua infanzia a partire dai connotati narrativi offerti dai testi sinottici di Luca e Matteo. L’intreccio tra storia e teologia, tra finalità documentarie e obiettivi catechetici costituisce il filo conduttore di questi racconti, propedeutici al culmine della vita del Nazareno. Si argomenta come i c.d. vangeli dell’infanzia non siano storiografia, bensì un aiuto a credere che la storia di Gesù sia quella del Figlio di Dio. La lettura non tradizionalistica delle due annunciazioni, della c.d. strage degli innocenti e dell’incontro di Gesù con i dottori nel Tempio esemplificano quanto si debba restare al di fuori di ogni confusione tra storie e Storia, e di ogni volontà di costringere alcuno a credere all’amore di Dio per gli esseri umani.
MISCELLANEA LASALLIANA 295 Herman Lombaerts La “mission canonique” et les districts vieillissants A partire dal processo di ristrutturazione della rete delle opere lasalliane, assai radicale in questi ultimi anni soprattutto nel continente europeo, si pone il problema della continuità del carisma della congregazione insegnante, definito ieri in un contesto socio-ecclesiale e canonico
della prima modernità, ma interpellato a misurarsi oggi con situazioni decisamente inedite. Come si è evoluto tale carisma nel corso dei secoli? Che significa oggi “servizio educativo dei poveri”? Come reinterpretare dunque i testi fondativi di ieri perché le pratiche di oggi siano conseguenti? La sfida impegna a ripensare il profilo canonico – o la ragion d’essere profonda – della congregazione in funzione del rapporto nuovo che nella postmodernità si sta instaurando tra società civile e patrimonio cristiano, tra cristianesimo e religioni, tra lo strumento scuola e il progetto educativo cristiano.
313 Jorge Enrique Fonseca Sánchez Educational Service of the Poor Da uno sguardo complessivo alle politiche demografiche, sanitarie, educative, ambientali dell’ONU per il nuovo millennio risulta stridente lo scarto tra le dichiarazioni d’intenti e gli obiettivi che restano da conseguire, in particolare sul piano della lotta contro le povertà e l’analfabetismo. L’Istituto lasalliano è coinvolto statutariamente in queste lotte. Da tempo, mediante la voce di capitoli generali e di organismi esecutivi ad hoc, sta verificando la pertinenza delle sue strategie educative nelle scuole e nelle università che dirige, sta riorientando programmi di intervento in funzione delle priorità emergenti nei diversi contesti continentiali, sta incrementando le proprie risorse investendo nella formazione mirata di laici e laiche competenti sul fronte del servizio dei poveri, della educazione interculturale, del dialogo interreligioso
323 Matteo Mennini Contributo per una storia sociale della componente italiana dei Fratelli delle scuole cristiane negli anni della Restaurazione. La corrispondenza di Fratel Regolo fra il 1815 e il 1830 L’origine francese dell’Istituo dei FSC non ha facilitato lo sviluppo autoctono delle sue comunità religiose e delle scuole cristiane in terra italiana. Un’indagine su uno spaccato storico al tempo della restaurazione post-napoleonica nello Stato pontificio rivela divergenze di vedute e difformità anche sostanziali nel gestire gli esordi dell’opera lasalliana che si era andata sviluppando con soggetti religiosi italiani e non più solo grazie al personale di provenienza e di cultura francese. Lo studio – di cui si pubblica qui una prima parte – focalizza l’attenzione sull’ intenso scambio epistolare di F. Regolo Agnez, figura di spicco come amministratore e come religioso, sia con i superiori della congregazione residenti oltralpe, sia con la Curia pontificia e con gli stessi Pontefici del primo Ottocento.
351 José María Valladolid Retazos lasalianos [31-35] Rispolverando episodi curiosi, ma non ininteressanti, della microstoria lasalliana, o riposizionando sotto luce nuova eventi centrali della biografia del La Salle e correggendone a volte gli stereotipi agiografici tramandati da autori “devoti” ma non altrettanto corretti con le regole della storiografia, questa puntata di flash lasalliani tocca temi canonici sensibili come la distinzione tra missione e ministero, e la natura della consacrazione religiosa dei Fratelli prima della bolla pontificia di approvazione; ricostruisce il profilo del Santo attraverso una singolare manciata di “fioretti” e puntualizza aspetti pedagogico-organizzativi come la programmazione del “catechismo” alle origini delle scuole cristiane; e non dimentica persino di interrogarsi da dove provenisse il lussuoso e costoso arredo della storica sede parigina di rue de Vaugirard…
363 Marco Paolantonio Un antesignano degli Studi lasalliani: Dante Fossati FSC, 1902-1995 Le ricerche scientifiche sulle origini lasalliane non sono nate con la pubblicazione dei Cahiers lasalliens. Hanno avuto dei precursori, purtroppo rari, e tra questi va annoverato certamente fr. Dante Fossati. L’articolo ne ricostruisce i tratti biografici e il curriculum accademico; presenta le pubblicazioni dello studioso lasalliano e del promotore della Scuola libera in Italia (è stato cofondatore della FIDAE); e documenta il sereno rigore professionale con cui svolse il ruolo di dirigente scolastico nelle maggiori istituzioni educative della Provincia religiosa del Nord Italia, disimpegnando nel contempo complesse e delicate mansioni amministrative.
379 Nicolas Capelle La “Grande Chapelle” de Passy-St-Nicolas et le mouvement catéchétique au 20è siècle Le vetrate della cappella di un grande collegio lasalliano alle porte di Parigi sono state ideate cinquant’anni fa come sintesi illustrata e unificante di quel Credo cristiano che i mille studenti liceali ospiti del collegio andavano imparando in aula durante le ore di religione e che celebravano in cappella nei riti della liturgia. Il cinquantenario è stato il pretesto per attraversare le fasi evolutive di un secolo di catechesi europea (dal Metodo di Monaco alla crisi del “catechismo progressivo”, fino alla svolta del rinnovamento postconciliare), al fine di evidenziare l’incidenza innovativa della prassi catechistica lasalliana in terra di Francia.
NB – Per mancanza di spazio non compaiono in questo numero alcune rubriche ordinarie, come “Chiaroscuri”, “Cronache lasalliane”, “Biblioteca”. Saranno nuovamente riproposte nei prossimi numeri.
Hanno collaborato a questo numero: Roberto Alessandrini, docente all’Istituto univ. ‘Progetto Uomo’, Modena e Viterbo Ernesto Borghi, docente universitario di materie bibliche a Nola, Trento e Torino Nicolas Capelle, FSC, studioso e saggista di Storia e Pedagogia lasalliana, Parigi Jorge Enrique Fonseca Sánchez, FSC, titolare della MEL (Missione Educativa Las.) Mariachiara Giorda, docente di Storia delle religioni, Università di Torino Herman Lombaerts, FSC, già docente di Antropologia all’Univ. Cattolica di Lovanio Matteo Mennini, dottorando, Scienze della formazione, Università RomaTre Marco Paolantonio, FSC, docente di materie letterarie e già dirigente scolastico, Torino Giuseppe Tacconi, docente di Didattica della formazione professionale, Univ. Verona Francesco Trisoglio, FSC, docente emerito di Storia e Letteratura Patristica, Univ. Torino José María Valladolid, FSC, ricercatore e saggista in Studi lasalliani, Madrid Kostas Zorbas, teologo ortodosso, rappresentante della Chiesa di Grecia all’UE, Bruxelles
RivLas 78 (2011) 2, 195-210
La catechesi nei Padri della Chiesa /13
La catechesi al clero in S. Gregorio di Nissa FRANCESCO TRISOGLIO
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ra la molteplice eccellenza di Basilio, l’elegante acutezza del Nazianzeno, l’attraente eloquenza del Crisostomo, la figura del Nisseno sembra presentarsi in penombra. Però, se non fu affascinante fu solido; ebbe più l’attitudine a pensare profondo che quella a parlare avvincente. Vescovo di un borgo sconosciuto, parve condividere la modestia della sua sede con quella delle sue doti, ma era solo il raccoglimento consono con la sua concentrazione riflessiva.
Schema biobibliografico Nacque verso il 335 a Cesarea di Cappadocia da Basilio e da Emmelia, famiglia di forte tradizione e pratica cristiana. Fu fratello minore di san Basilio e maggiore di Pietro, futuro vescovo di Sebaste; fu sua sorella maggiore Macrina, alla cui morte assistette conversando sulle prospettive escatologiche con argomentazioni che poi egli raccolse nel De morte et resurrectione (PG 46,16-140), trasposizione cristiana del Fedone platonico. Non frequentò le grandi scuole dell’epoca, come Basilio, il Nazianzeno, il Crisostomo, tuttavia si procurò un’esperta abilità retorica oltre ad una buona conoscenza nelle scienze naturali. Per motivi di politica ecclesiale, San Basilio nel 371/372 lo elesse vescovo della minuscola Nissa, della quale noi ignoriamo l’ubicazione precisa. Se non spiccò né come amministratore né come diplomatico, fu apprezzato come oratore, per cui fu designato a pronunciare la commemorazione funebre alla morte dell’imperatrice Flaccilla e della figlia Pulcheria (386). Dal sinodo di Antiochia (379) fu nominato visitatore delle diocesi del Ponto e dell’Armenia e nel concilio di Costantinopoli (381) fu salutato come ‘colonna dell’ortodossia’.
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Francesco Trisoglio
Mediocre quanto a valore letterario, si impose nel campo filosofico e teologico per distinte capacità speculative. Morì poco dopo aver partecipato al concilio di Costantinopoli del 394.1 In ambito letterario lasciò: Scritti dogmatici. Nelle edizioni antiche vengono citati 12 libri Contro Eunomio, che sono la raccolta di quattro trattazioni contro di lui. 1) la confutazione di testi polemici rivolti da Eunomio contro Basilio (Apologia sull’apologia); 2) la confutazione del secondo libro di Eunomio; 3) in dieci libri la ritorsione ad un suo nuovo attacco contro Basilio; 4) la confutazione di una Expositio fidei presentata da Eunomio all’imperatore Teodosio. Nel breve Contra fatum combatte il fatalismo astrologico. Opere esegetiche e Omelie. Nel De opificio hominis e nell’ In Exaemeron si propone di difendere contro le distorsioni la trattazione sull’Esamerone (la creazione biblica) di Basilio. Nelle Omelie seguì l’allegorismo origeniano spingendosi fino ad eccessi inaccettabili. Composizioni ascetiche. Sono cinque trattatelli: Sulla perfezione cristiana - Sul nome e sulla professione di cristiani - Sulla verginità - Sulla vita di Santa Macrina - Sulla pratica cristiana della vita mistica. Trenta lettere, di carattere occasionale. Tra esse ha acquisito notorietà la seconda, nella quale biasima gli abusi che avvenivano in occasione dei pellegrinaggi a Gerusalemme.
Importanza e struttura dell’Oratio catechetica magna Bardenhewer la giudicò il più pregevole tra gli scritti dogmatici del Nisseno; sottolineandone il carattere riflessivo, per cui “la dimostrazione biblico-teologica viene completamente sospinta sullo sfondo dall’argomentazione speculativo-filosofica” (p. 202). Per Altaner è l’opera dogmatica più importante del Nisseno (p. 313); J. Quasten, dopo aver ribadito che è il più importante di tutti i suoi scritti dogmatici, nota che essa costituisce una somma della dottrina cristiana e che, dopo il De prin-
Per un’edizione critica dell’Oratio catechetica del Nisseno cfr. E. Mühlenberg in Gregorii Nysseni Opera vol. III pars IV, Brill, Leiden 1996. - Per prospetti generali della sua persona e della sua opera cfr. O. Bardenhewer, Geschichte der altkirchlichen Literatur, Dritter Band Herder Freiburg i. Br 1923, rist. Darmstadt 1962, pp. 188-220; P. Godet in Dict. Théol. Cath. VI,2 (1947), coll. 1847-1852; J. M. Sauget in Bibliotheca Sanctorum VII (1966) coll. 205-210; B. Altaner, Patrologia, Marietti Casale, trad. A. Babolin, da Herder Freiburg, VI ed. 1968 pp. 312-318; J. Quasten, Patrologia, vol. II, trad. N. Beghin, Marietti, Casale 1980, pp.257-299; F. Dünzl in Dizionario di Letteratura cristiana antica, di S. Döpp e W. Geerlings, ed. ital. di C. Noce, Città Nuova, Roma 2006, pp. 472-479.
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La catechesi al clero in S. Gregorio di Nissa
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cipiis di Origene, è il primo saggio tentato di una teologia sistematica. Gregorio vi compie una notevole esposizione dei principali dogmi, che difende contro pagani, ebrei ed eretici, cercando di fondare il complesso insieme della dottrina cristiana su una base metafisica anziché sulla sola autorità della Scrittura (p. 265). Quasten ne espone poi il piano costruttivo: la prima parte, capitoli 1-4, considera Dio unico in tre Persone, la consostanzialità del Figlio col Padre e la divinità dello Spirito Santo; la seconda, capitoli 5-32, tratta di Cristo e della sua missione di restaurare l’ordine primitivo, sconvolto dal peccato, mediante l’incarnazione e la redenzione; la terza, capitoli 33-40, esamina l’applicazione della grazia della redenzione per mezzo del battesimo, dell’Eucaristia e della credenza nella Trinità. Questo manuale dogmatico è una grande opera, come testimonia la sua vasta diffusione attraverso la Chiesa orientale (p. 265). Quasten afferma poi che Gregorio occupa certamente un posto grandissimo nella fondazione e nello sviluppo del misticismo cristiano (p. 294).2
Carattere dell’opera Se Gregorio stesso non l’avesse intitolata ufficialmente Oratio catechetica magna e non l’avesse definita ‘catechesi’ nell’esordio (Prologo col. 9 A) ribadendolo nell’epilogo (§ 40 col. 101 B), avremmo forse qualche riluttanza a considerarla catechesi. Presenta infatti un aspetto spiccatamente diverso rispetto alle catechesi di tutti gli altri che composero questo specifico tipo di omelie. Infatti invece dell’abituale catechesi-omelia questa appare una catechesi-trattato; negli altri oratori l’argomento era per gli uditori, qui gli uditori sono per l’argomento; non ha gli occhi sul pubblico, li tiene sulla dottrina. Gli altri della lezione facevano una conversazione, qui l’allocuzione resta lezione; non cura, come gli altri, una vivacità accattivante, mira ad una salda coerenza nell’esposizione. Si propone una stretta concatenazione nel suo procedere; nel succedersi delle deduzioni non lascia intervalli di sollievo; tutto è agganciato; vuole suscitare un’impressione di compatto, di solido, di assolutamente affidabile; è tanto concatenato da apparire talvolta pedante, da rincalzare l’ovvio,
2 R. J. Kees, Die Lehre von der Oikonomia Gottes in der Oratio catechetica Gregors von Nyssa, Supplements to Vigiliae Christianae vol. 30, Brill Leiden 1995, istituisce un confronto tra l’Or. Cat. ed il De principiis di Origene (pp. 69-78), concludendo (p. 77) che soltanto nell’intento e nel metodo dello sviluppo si possono stabilire dei paralleli tra le due opere. La costruzione e la successione dei due trattati si differenziano fondamentalmente tra loro poiché basano i due sistemi dei giudizi teologici e metodici su fondi diversi. Kees imposta poi un altro confronto, minutissimo, con il Contra gentes ed il De Incarnatione di Atanasio (pp. 78-90) riassumendo (p. 90) che Gregorio nella costruzione della sua Or. cat. non dimostra nessuna dipendenza servile dal modello di Atanasio che egli ben conosceva. Senza detrarre la struttura di Atanasio, ha però attinto la successione dei temi, aggiungendone tuttavia anche di quelli che in Atanasio non c’erano.
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ma ad una ferrea connessione non rinunzia.3 Avanza per deduzioni in una catena logica; cammina passo passo; ciascuno di essi deriva saldamente dal precedente; più che percorrere una via che sia stata scoperta, si direbbe che se la costruisca al momento; non c’è scioltezza, c’è saldezza e, in conformità, anche lo stile presenta un’inflessibile continuità di tono. Questa peculiarità d’impostazione e questa tonalità del suo discorso, oltre ad essere indubbiamente un prodotto del suo temperamento, lo sono anche della qualità del pubblico al quale si rivolgeva. Non erano più catecumeni da sollecitare o comuni fedeli ai quali rassodare i rudimenti della fede e della morale, erano, come dichiara subito nell’apertura del Prologo (col. 9 A), i “dirigenti ecclesiastici”, che non era più il caso di incitare alla fede ma di illuminare sulle linee portanti della fede. Si era infatti in un’epoca inquietata da smarrimenti, fratture, contrasti tra i capi delle comunità cristiane. La confusione teologica si estendeva in larghissimi spazi. Persisteva, diffuso, un sottofondo di gnosticismo che svaporava la fede nelle più bizzarre stravaganze; rimaneva radicato un sabellianesimo che dissolveva la Trinità in una parvenza di nomi; furoreggiava un arianesimo che negava la divinità del Figlio e di Cristo ed accanto gli si poneva un pneumatomachismo che la rifiutava allo Spirito Santo; un paio d’anni prima (nel 385) Gregorio nell’Antirrheticus adversus Apolinarium aveva rigettato la cristologia di Apollinare di Laodicea, che mutilava l’Incarnazione, sottraendo a Cristo la mente umana per surrogargli la presenza del Verbo divino; perdurava lo scisma rigoristico di Novaziano; con Firmiliano di Cesarea il donatismo era approdato in Cappadocia; il suo amico Anfilochio d’Iconio stava per condannare nel concilio di Side (390) i messaliani ed intanto stavano cestendo i prodromi del monofisismo eutichiano, che finiva per sottrarre a Cristo l’umanità, e del nestorianesimo, che minacciava l’unità della persona di Cristo... Era il momento di fornire uno schema dottrinale che presentasse, in sicura sodezza teologica, il dogma ortodosso, motivandone la verità e sostenendone la credibilità. Gregorio vi si accinse. A fornire un’idea precisa del suo stile argomentativo e della sua mentalità risulterebbe inadeguata qualsiasi definizione basata sui soliti formulari tecnici; l’unico modo è quello di presentarlo in diretta, riferendo, in una traduzione condotta con un’aderenza ‘fotografica’, un tratto sostanzioso del primo capitolo, che, proprio in quanto primo, risulta paradigma del procedimento innato nell’autore. Sull’argomento basilare della natura del Verbo divino egli si esprime così: Anche se si dice Logos-Verbo (ragione, parola) 4 di Dio non si penserà che esso abbia la sua consistenza (soltanto) nell’atto di pronunciarlo, come avviene per le nostre parole, per poi passare nel nulla [col.13 C]. Ma, come Il suo discorso è costruito su un sistematico, inesauribile “per conseguenza”: è l’ossatura della sua trattazione. 4 La traduzione di ‘logos’ con ‘verbo’ produce un grave disagio: il vocabolo risulta inevitabile ma inadeguato per la diversa ampiezza semantica delle due parole. 3
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la nostra natura, che è peritura, ha una parola che è anch’essa peritura, così la natura incorruttibile e perenne ha anche una parola che è eterna e perenne. Se da ciò, per conseguenza, si deduce necessariamente che il Verbo di Dio ha un’esistenza eterna, è assolutamente necessario ammettere che la persona del Verbo esiste nella vita. Non è infatti cosa santa il pensare che il Verbo abbia una consistenza priva di anima a guisa delle pietre. Ma se ha l’esistenza di un essere intelligente ed incorporeo, ha inevitabilmente la vita. Se viene separato dalla vita, non ha assolutamente più sussistenza. Ma risulterebbe un’empietà il sostenere che il Verbo di Dio non abbia sussistenza. Si è dunque dimostrato che, in base alla connessione logica, il Verbo va pensato nella vita. Siccome si è creduto che la natura del Verbo, come è logico, sia semplice e che non mostri in se stessa nessuna duplicità e composizione, non si potrebbe pensare che il Verbo sia vivo per partecipazione alla vita. Se si pensasse così esso non sarebbe fuori dalla composizione, un elemento sarebbe dentro all’altro. Ma è assolutamente necessario, in base alla semplicità che è stata riconosciuta, pensare che il Verbo sia la vita di per se stessa e non abbia soltanto una partecipazione alla vita. Se dunque il Verbo vive, poiché è la vita, è inevitabile ammettere che abbia anche la facoltà di esercitare una libera scelta; nessuno infatti degli esseri viventi è privo della facoltà di compiere questa scelta. È atteggiamento pio il credere, per conseguenza, che il Verbo abbia questa capacità di scegliere; se infatti qualcuno non ammettesse questa capacità, inevitabilmente porrebbe l’incapacità. Ma l’incapacità è concetto estraneo alla concezione del divino. [16 A] Noi non accettiamo nulla di incoerente in quanto concerne la natura di Dio. È di necessità assoluta ammettere che altrettanta è la potenza del Verbo quanti sono i suoi propositi, per evitare di accettare la mescolanza di elementi contrari in ciò che è semplice, di ammettere l’impotenza e la potenza nel medesimo proposito se da una parte potesse e dall’altra non potesse. La libera scelta del Verbo può tutto , ma non ha la propensione verso nessun male. La tendenza al male è infatti estranea alla natura divina; essa vuole invece tutto ciò che è buono. In assoluto la sua volontà è potere. La sua potenza non rimane estranea all’attuazione, ma conduce alla realizzazione qualsiasi proposito di bene. Il mondo è cosa buona e si vede che tutto ciò che c’è in esso risulta compiuto con un’esperta sapienza. [16 B] Dunque tutto è opera del Verbo che vive e sussiste, poiché è il Verbo di Dio, il quale sceglie liberamente perché vive; ha la capacità di eseguire tutto ciò che si propone; sceglie però in assoluto ciò che è buono e sapiente e quanto ha un significato superiore. Poiché ammettiamo che il mondo è cosa buona, è risultato da quanto abbiamo detto che il mondo è opera del Verbo, il quale sceglie ed ha la potenza di compiere il bene; questo Verbo è distinto rispetto a Colui di cui è Verbo; si può dire che esso sia uno
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di quegli esseri che stanno in relazione con quanto è stato detto prima; poiché bisogna assolutamente sottintendere al Verbo anche il Padre del Verbo. Non sarebbe infatti Verbo se non fosse Verbo di qualcuno. Se dunque il pensiero degli ascoltatori distingue, nel senso della relatività, il Verbo in se stesso e colui dal quale ha l’essere, non c’è più nessun pericolo che il mistero (del Verbo), che è in netto contrasto con le concezioni dei Greci, vada a confluire con i partigiani dei Giudei; [16 C] Si eviterà in ugual modo l’assurdità di entrambi, confessando che il Verbo di Dio vive ed opera, cosa che il Giudeo non ammette; si crederà che non perisce, poiché, riguardo alla natura, il Verbo è uguale a colui dal quale deriva. Come infatti noi diciamo che in noi la parola (o ragione, logos) deriva dalla mente, ma non è assolutamente la stessa cosa della mente, ma non è neppure completamente diverso; il fatto che proviene dalla mente fa sì che sia un’altra cosa e non quella; il fatto poi che il pensiero esprima la mente stessa fa interpretare che esso non sia una cosa diversa da quella, ma che sia una sola cosa quanto alla natura in se stessa, che sia diverso solo nell’identità individuale. Così anche il Verbo di Dio, in quanto esiste di per se stesso, è separato da colui dal quale riceve l’essere; [16 D] Però il fatto che mostra in se stesso ciò che si vede in Dio testimonia che è lo stesso, quanto alla natura, rispetto a colui che viene ritrovato attraverso ai medesimi segni di riconoscimento. Se la bontà, la potenza, la sapienza, l’eternità ed il non recepire il male, la morte, la corruzione, se l’essere perfetto in ogni cosa e le qualità analoghe vengono considerati segni per comprendere il Padre, attraverso ai medesimi segni troverai il Verbo che da lui deriva la sua esistenza. La formulazione appare fortemente compatta, precisa nell’incisiva individualizzazione dei concetti; è rigoroso senz’essere astruso; per rassodare la base della verità non teme di arrivare ad una concatenazione che pare scivolare nella pedanteria; è austero, non concede allentamenti; non alletta con lenocini stilistici; la sua parola ha un carattere severamente aristocratico; viene incontro ma esige che le si vada incontro.
Metodo Ed austeramente responsabile vuole che sia anche il progetto di costruzione dell’edificio; affronta subito la questione del metodo, che concentra nell’adeguamento alle disposizioni degli uditori. In rapporto ad esse si prefigge di “mirare all’unicità dello scopo, servendosi però di diversità di dimostrazioni” (Prol. 9 A). Rileva la differenza delle predisposizioni determinate dalla diversità delle dottrine precedentemente
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seguite e conclude con la flessibilità della terapia: “Bisogna adattare il tipo di cura al genere della malattia” (9 B). Didatticamente, nel discutere con eretici, consiglia di partire dalle consonanze, rilevando, al di là delle divergenze, i fondamenti razionali comuni, sui quali impostare una dimostrazione della verità (12 AB); per l’innesto della verità preconizza elasticità metodologica nello scegliere le argomentazioni; si fonda sulla coerenza del ragionamento; costruisce nella logicità interna del discorso, convinto che essa possa condurre al raggiungimento della verità (12 C). In forza di questa logicità afferma: “Non si può pensare che sia Dio ciò che contenga un concetto di insufficienza, e neppure di antico o di recente; infatti ciò che non esiste sempre è fuori dal concetto di divinità” (12 CD).
Problemi Da ciò che non si deve pensare su Dio, Gregorio passa a ciò che si deve pensare e lo condensa subito in una sintesi essenziale: “L’ortodossia vede una diversità di ipòstasi nell’unità della natura” ed aggiunge: “Per evitare che, mentre combattiamo contro i Greci (politeismo), il nostro pensiero scivoli verso il giudaismo (soppressione della Trinità), conviene rettificare questo errore con una distinzione competente (autosussistenza ed autonomia delle Persone trinitarie)” (§ 1 col. 13 A). E così viene a spiegare il concetto di Logos, fondamentale nell’essenza ma infelicemente interpretato da un vocabolo esposto ad una continua confusione per la sua equivocità semantica, in quanto designa sia una Persona trinitaria sia il concetto e la parola umana. L’ambiguità del termine esponeva ad incertezze concettuali e provocava un fastidioso impaccio nella discussione dialettica. Gregorio distingue perciò il concetto di ragione i Dio ed in noi malgrado l’identità della denominazione; noi siamo mortali e transeunti di contro all’immortalità del Verbo divino (§ 1 col.13 BC). Contro le obiezioni giudaiche Gregorio cita il loro Salmo 33/32,6, dove si proclama che “con la parola (logos) del Signore furono fatti i cieli e con il soffio (pneuma) della sua bocca tutto il loro ornamento” intendendo “il Verbo di Dio e lo Spirito consostanziale a Dio come potenze sussistenti e creatrici di tutto ciò che è stato fatto” (§ 4 col. 20 B); vi sostiene quindi una proclamazione trinitaria.5 A quelli divini contrappone la nostra parola (logos) ed il nostro respiro (pneuma), “ che non sono assolutamente capaci di agire e non hanno concretezza” (20 C). Quanto a Logos, insiste vigorosamente sulla sostanza di un significato trascendente, indipendentemente dal
È dialetticamente abile, anche se ha forzato l’idea biblica trasferendola artatamente in un’area trinitaria che le era ignota; afferma infatti abusivamente che il Salmista parlava di un Verbo dotato di sostanza e di uno Spirito fornito di ipòstasi: 20 C.
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suo enunciato verbale: “Non mi dissocerò se uno vuole chiamare il Creatore dell’universo Logos, o sapienza, o potenza, o Dio, o qualsiasi altra cosa che sia sublime e di alto valore” (§ 5 col. 21 B). È ben conscio dell’equivocità del termine Logos e di tutti gli altri che lo possano eventualmente surrogare; sono tutti intercambiabili e tutti chiamati a trasmettere una sola entità: Attraverso a qualsiasi nome si indica una sola realtà, e cioè l’eterna potenza di Dio, creatrice dell’universo, che ha inventato ciò che non c’era, che tiene insieme le cose che sono state chiamate all’esistenza, che prevede il futuro: questo Dio, Verbo, sapienza, potenza, ha creato l’uomo senza esservi costretto da nessuna necessità ma solo per la grandezza del suo amore (21 B). E continua affermando che della sua bontà era necessario che qualcuno godesse; se l’uomo fu creato per diventare partecipe di beni divini, dovette essere posto in condizione di raggiungerli; come l’occhio partecipa alla luce mediante uno splendore che è insito nella sua natura, attraendo per una potenza innata ciò per cui è connaturato, così era necessario che nella natura umana venisse mescolato qualcosa che fosse imparentato col divino, perché fosse attirata verso ciò che avevano vicendevolmente in comune (21 C). Perciò l’uomo fu ornato del logos e della sapienza, affinché, tramite loro, bramasse ciò che gli era proprio; poiché uno di questi beni che si trovano nella natura divina è l’eternità, bisognava che la nostra natura non ne fosse priva, ma che avesse in sé l’immortalità, perché, grazie ad un impulso innato, conoscesse e desiderasse l’eternità divina (21 D). Il logos divino e quello umano sono profondamente distanti nella natura, ma sono collegati da una finalizzazione: quello umano, creato a somiglianza di quello divino, ad esso tende in forza della sua stessa natura. In inevitabile parallelismo, il nostro spirito (pneuma) sta in rapporto con quello divino. Gregorio evidenzia che, come il Verbo i Dio ha una sua consistenza, per cui non si dissolve quando viene pronunciato, così anche lo Spirito, che accompagna il Verbo, non lo pensiamo come un soffio di fiato, che sarebbe un abbassare la potenza divina se si stimasse lo Spirito divino alla stregua del nostro ( § 2 col. 17 B). Dato il ripetersi anche per pneuma dell’equivocità, Gregorio ci tiene a distinguere, all’interno di un parallelismo esteriore (il nome, sul quale tuttavia Gregorio non manca di giocare) lo Spirito divino da quello umano: lo Spirito Santo “è una potenza dotata di sostanza”, che ha consistenza in una propria ipòstasi e non può essere separata da Dio nel quale si trova e dal Verbo che l’accompagna (17 C). La limpida incisività è categoricità: la sua è un’ortodossia che ha piena sicurezza in se stessa. E, di fronte al Verbo ed allo Spirito Santo, sta l’uomo con la sua drammatica vicenda: C’era nell’uomo la bellezza divina della natura intellettuale confezionata da una potenza misteriosa; ma il demonio, colui che aveva ottenuto l’amministrazione del mondo terrestre, considerò come un’enormità intollerabile che
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dalla natura che gli era soggetta venisse estratta una sostanza assimilata alla suprema dignità (cioè alla natura divina). Così precipitò nella passione dell’invidia colui che non era stato creato in vista di nessun male da colui che aveva composto il mondo nella bontà (§ 6 col. 28 AB). È una scena tragica nella quale spira un sentore di epicità: la corruzione rovinosa di una grande potenza. Non ci fu però nessun fatalismo: è in gioco la piena autonomia personale, infatti il demonio fu dotato del libero arbitrio, chiuse gli occhi al bene e, come colui che al sole chiude gli occhi vede buio, così anche il demonio, siccome non volle pensare il bene, pensò ciò che al bene è contrario, e questo è l’invidia (§ 6 col. 28 D). Gregorio continua in una pacata contemplazione dell’evento: poiché l’uomo, potenziato dalla benedizione divina, era fornito di un’alta dignità, era destinato ad avere il regno sulla terra e su quanto contiene, era bello in quanto formato ad immagine della bellezza assoluta, tutto ciò irritò l’invidia dell’avversario;6 siccome però egli non poteva attuare i suoi progetti con la forza aperta, in quanto la potenza della benedizione di Dio era superiore alla sua forza, tramò per separarlo dalla potenza che gli conferiva forza e così renderlo facilmente preda delle sue insidie. E come quando nella lucerna il fuoco si è ben appreso al lucignolo, se qualcuno non riesce a spegnere la fiamma soffiandovi sopra, mescola acqua all’olio e con questo accorgimento indebolisce la fiamma, così l’avversario, mescolando con l’inganno il vizio al libero arbitrio dell’uomo7, in certo modo smorzò la benedizione; quando essa viene meno, sottentra, a sua volta, l’opposto. È similitudine originale ed efficace, visiva, pur nella sua concisa essenzialità. L’esposizione, in positivo, dell’ortodossia comportava, in negativo, la confutazione dell’errore ed il rafforzamento di dubbiosi ed incerti, scartando gli inciampi dal loro percorso. Gregorio fa quindi sfilare una serie di contestazioni, che qui riferiamo nella loro successione, anche ad illustrare la struttura della trattazione.
Antikeímenos “colui che si pone contro” è significativa antonomasia, corrente nei Padri della Chiesa, a personificare il demonio; trae la sua origine e la sua autenticazione da Zacc. 3,1, dove è Satana in atto di accusare davanti al Signore. 7 Cfr. W. Völker, Gregorio di Nissa filosofo e mistico, trad. di Chiara O. Tommasi, presentazione di Cl. Moreschini, Vita e Pensiero, Milano 1993, ediz. originale 1955. Völker dichiara che, per quanto concerne il libero arbitrio, Gregorio si muove completamente sulla linea della tradizione. Era abitudine comune presso gli antichi Padri concepire il libero arbitrio soprattutto come libertà di scelta (p. 78). Gregorio spiega che la differenza tra il bene ed il male è posta dal ragionamento; tutto l’agire etico riposa sulla retta capacità di giudizio; ciò corrisponde alla concezione intellettualistica che della morale avevano i Greci; questo razionalismo era connesso, presso gli Alessadrini come presso Gregorio, con considerazioni utilitaristiche che facevano apparire opportuno il conseguimento della virtù. Gregorio non è però convinto che la volontà possa ugualmente decidersi per le due parti (p 80). Egli limita il libero arbitrio attraverso la grazia, senza però proporre una soluzione al rapporto tra libertà grazia (p. 81). 6
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Obiezioni Nell’intento di sopprimerla, Gregorio introduce una supposizione velenosa: siccome Dio prevedeva la sventura che si sarebbe abbattuta sull’uomo, lo creò in un intento di malignità, poiché a lui conveniva piuttosto non nascere che trovarsi nei mali. Era quanto sostenevano gli adepti dei manichei, per dimostrare che il creatore della natura umana era cattivo (§ 7 col. 29 D). E Gregorio replica: penso che i propulsori di queste fantasticherie siano stati mossi dal fatto che definiscono il bene in base al piacere del godimento fisico; poiché la natura del corpo è sottoposta alle malattie che portano dolore, stimano che essa sia opera di un dio cattivo, ma nessun male sta al di fuori delle proprie scelte; esso non ha consistenza: “L’artefice di ciò che non esiste, non è l’artefice di ciò che esiste; dunque Dio non è causa dei mali, poiché è il creatore di ciò che esiste non di ciò che non esiste; egli costituì la vista non la cecità” (§ 7 col. 32 CD). È un esempio dei suoi saldi sillogismi. Taluni si sdegnano perché l’uomo muore affrontando dolore, quando la vita è finalizzata al godimento di ciò che è gradito. Replica: poiché, spinti dal libero arbitrio, abbiamo scelto il male, veleno cosparso nel miele del piacere, ci siamo privati della felicità, che consiste nello star fuori dalle passioni e ci siamo disposti al vizio; per questo motivo l’uomo si dissolve di nuovo in terra, affinché, respinta l’attuale sozzura, venga riplasmato, attraverso la risurrezione, nella figura originaria (§ 8 col. 33 AB). “Giudicare il bene ed il male dalle sofferenze e dai piaceri è proprio di una natura irrazionale” (§ 8 col. 37 D). Si impugnò l’Incarnazione di Cristo: la natura umana è piccola e circoscritta, mentre Dio è infinito (§10 col. 41 B). Per illustrare la presenza della divinità nella carne di Cristo, Gregorio reca, tra l’altro, un esempio: nella lampada il fuoco afferra la materia che gli è sottoposta; la ragione distingue il fuoco che c’è nella materia e la materia che accende il fuoco, ma, nella realtà, non è possibile separarli tra loro e mostrare la fiamma in se stessa disgiunta dalla materia, poiché entrambe fanno una cosa sola (nessuno però prenda, nell’esempio, l’azione distruttiva del fuoco, ma solo quanto conviene alla similitudine e rifiuti quanto le è improprio ed incoerente). Gregorio s’interrompe per mettere bene in chiaro che in ogni paragone c’è un tertium comparationis estraneo, ineliminabile ma inutile e fuorviante; tutelatosi dal rischio di sviare proprio con ciò con cui intendeva aprire la via giusta, Gregorio prosegue: così vediamo che la fiamma che si accende dalla materia non è inclusa nella materia; che cosa, allora, impedisce di pensare ad un avvicinamento e ad un’unione della natura divina con l’uomo e di conservare l’idea che si addice a Dio anche nell’ avvicinamento, credendo che Dio è fuori di ogni circoscrizione, anche se sta nell’uomo? (41 D) È un paragone felice, evidente nell’immagine e aderente nell’idea; il paragone non è mai prova ma, quando è indovinato, alla prova facilita l’accesso. A chi cerca in che modo la divinità si mescoli con l’umanità Gregorio risponde:
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cerca prima quale sia l’unione dell’anima con la carne (§ 11 col. 44 A): è efficace nel piglio secco con cui centra il problema e nell’intonazione di sfida. È un a fortiori che, nella sua definitività, scalza la difficoltà in radice, non rendendola neppure meritevole di una risposta. Chi cerca una dimostrazione che Dio sia apparso nella carne tra noi, guardi alle sue azioni; come, osservando il governo del mondo, comprendiamo che al di sopra ci sta una potenza creatrice e conservatrice di quanto è stato fatto, così anche crediamo che siano una dimostrazione sufficiente della presenza di Dio tra noi i miracoli, che testimoniano una potenza divina (§ 12 col. 44 C). Ma è cosa indegna per Dio unirsi all’uomo? Risposta: Dio è virtù e nessuna natura è contraria alla virtù; contrario le è solo il vizio e Dio non nasce nel vizio ma nella natura dell’uomo (§ 15 col. 49 A). È un ragionamento solido nella sua evidenza, calmo nella sua sicurezza; il tono è pacato perché l’autore parla in un’obiettività ineccepibile. Altra obiezione, più insidiosa: ma la mutazione del nostro corpo è una passione (pathos); pathos è subire e Dio, per sua natura, non è soggetto a subire; è dunque estraneo alla divinità che Dio sia venuto a condividere questa passività. Replica: pathos viene usato in una doppia accezione: in senso proprio quando attacca il libero arbitrio e trascina al vizio; in senso più distinto quando interpreta la natura che procede secondo la propria norma di sviluppo, cioè nel nascere, nell’accrescersi, nel permanere secondo l’afflusso o il deflusso del nutrimento; noi sosteniamo che Dio si è unito con la nostra natura che da lui ha avuto principio; dove sta l’incompatibilità con Dio? Non gl’introduciamo nessun pathos deteriore; se la nascita in se stessa non è pathos, non può venire considerata tale neppure la vita. La generazione umana è connessa con il pathos della voluttà; quella di Cristo le fu estranea ed estranea le fu la vita (§ 16 col. 49 B). La confutazione, in lucida e vigorosa sicurezza di argomentazione, qui è però stata resa faticosa e scarsamente perspicua dalla malaugurata ambiguità semantica di pathos, che ha conferito all’esposizione una parvenza di vacillante. Altra difficoltà inquietante: se tanta è la potenza di Cristo, perché non ha operato la nostra salvezza soltanto con un atto di volontà, ma ha percorso tutto il lungo tragitto della vita? Gregorio ribadisce l’oscurità della nostra visione in questa vita, in attesa dell’epoca futura, dove sarà rivelato ciò che ora vediamo solo per fede (§ 17 col. 53 AB); tuttavia possiamo considerare che il mondo era dominato dall’inganno dei demoni, i quali s’imponevano mediante l’idolatria ed i sacrifici di animali (§ 18 col. 53 C); la grazia di Dio ha distrutto completamente l’idolatria in tutte le sue manifestazioni (53 D); una prova per i Giudei è che, fino alla venuta di Cristo, avevano una sede regia ed il Tempio con i sacrifici, dopo che a lui preferirono le loro consuetudini, il loro apparato religioso è svanito (col. 56 A-C). Ma siccome né Giudei né Greci traggono da questi fatti nessun indizio della venuta di Dio, sarà bene trattare separatamente le obiezioni: per quale motivo la natura divina si connette alla nostra, salvando attraverso se stessa, l’uomo; a tale scopo non ci resta che comincia-
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re esponendo, per sommi capi, le nostre opinioni su Dio (§ 19 col. 56 C).: Gregorio ci comunica egli stesso il suo piano di composizione.8 Taluni però dinanzi alla prospettiva di una nascita umana provavano una ripugnanza così istintiva da postularne una in cielo; Gregorio ribatte con un assioma di stringente persuasività: “Né la terra è più lontana dalla suprema dignità divina né il cielo le è più vicino” (§ 27 col. 72 C); Dio è ugualmente presente in tutte le cose; “tutte le cose sono ugualmente soggette alla potenza che presiede all’universo” (72 D): c’è un’indiscutibile verità nell’idea ed un’indubitabile veracità in chi la presenta. Se pensano che la natura terrestre sia indegna di intrecciarsi con quella divina, non se ne troverebbe un’altra che sia degna; se però tutte risultano insufficienti a quella dignità, rimane soltanto che a Dio sia confacente beneficare chi ne ha bisogno; se noi sosteniamo che, dove c’è la malattia, sia venuta la
Gregorio aderisce alla teoria che vede nella redenzione un riscatto giuridico dalla padronanza che il demonio aveva legittimamente acquisita sull’uomo, il quale, usufruendo della sua libera scelta, col peccato gli si era venduto. Per evitare un colpo di forza tirannico, per unire alla bontà la giustizia, il Liberatore doveva pagare il riscatto al possessore (§ 23 col. 61 A) e Cristo vi provvide con l’Incarnazione, nella quale compose la bontà, la sapienza e la giustizia (23 col. 64 A). Gregorio di Nazianzo a questo tipo di transazione si era dimostrato risolutamente contrario ed aveva proposto una tutt’altra impostazione. In Or. 45,22 PG 36 col. 653 A scrive: “ Si presenta ora una questione che merita un attento esame: a chi e a riguardo di che cosa fu versato il grande sangue di Dio?” e risponde: al Maligno? Sarebbe una vergogna se il brigante ricevesse non solo da Dio ma Dio stesso come riscatto. Fu versato al Padre? ma il Padre non si compiacque del sangue del Figlio, egli che non aveva accettato neppure quello di Isacco; è chiaro che fu il Padre a riceverlo senza averlo chiesto, ma in nome del progetto redentivo, per il quale bisognava che l’uomo venisse santificato dall’umanità di Dio tramite la mediazione del Figlio (ibid. col. 653 AB). Assai più complessa nell’impostazione, profonda nella speculazione, tesa nella dialettica la posizione di S. Agostino, che in De libero arbitrio III,110-112 CSEL 74 ragiona: Il Figlio unico di Dio, rivestitosi del’umanità, assoggettò all’uomo il diavolo, che egli sempre tiene e sempre terrà sotto le sue leggi; non gli strappò nulla con un atto di dominio violento, lo vinse in base alla legge della giustizia. Il diavolo si rivendicava il possesso, attraverso alla donna ed all’uomo che egli aveva ingannati, di tutta la stirpe umana, in quanto peccatrice; c’era della perfidia nella sua brama di nuocere, ma tuttavia ne aveva un pieno diritto. Il suo potere sarebbe durato fino al momento in cui uccidesse un giusto in cui non potesse mostrare nulla che fosse meritevole di morte. In totale giustizia quindi il diavolo fu costretto a lasciare liberi coloro che credono in colui che egli aveva in totale ingiustizia ucciso. Così gli uomini, in quanto muoiono nel tempo, pagano il loro debito e, in quanto vivono sempre, vivono in colui che pagò un debito che non aveva; lo pagò in nome di coloro che l’infedeltà aveva assoggettati alla dannazione perpetua insieme al diavolo seduttore. Così avvenne che al diavolo non fu strappato con la forza l’uomo, che egli si era acquistato non con la forza ma con la persuasione, e l’uomo, che era stato giustamente reso schiavo di colui al quale aveva acconsentito nel male, fu giustamente liberato per mezzo di colui al quale aveva acconsentito nel bene; l’uomo aveva peccato di meno nell’acconsentire al male di quanto avesse fatto il diavolo persuadendolo al male. Abbiamo una mirabile architettura logica in cui bontà, giustizia, potenza si compenetrano in un’armonia perfetta. - S. Zañartu, El Dios razonable en la gran catequesis de Gregorio de Nisa, in Teología y vida (Santiago) 45,4 (2004), pp. 564-604 sottolinea che Gregorio attribuisce a Dio non soltanto la potenza, ma anche la giustizia, la bontà, la sapienza; in tutto si manifesta un Dio ‘razonable’.
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potenza risanatrice, che cosa crediamo che sia fuori dalla concezione che conviene avere su Dio? (72 D). È mirabile la calma sicurezza d’una fede che rassicura la mente mentre infonde una distensiva certezza nell’anima. Se ingenera scrupoli il modo con cui Cristo intervenne nella nostra storia, ne suscita altri il tempo: se ciò che è stato fatto conveniva a Dio, perché ha differito tanto il beneficio? Se il vizio c’era già all’inizio, perché non ne ha amputato lo sviluppo? (§ 29 col. 73 D). Ribatte che la dilazione del beneficio avvenne per sapienza e provvidenza; anche i medici, quando la malattia resta interna, prima che erompa all’esterno, 9 ne aspettano la maturazione (76 AB). Era un problema che dovette angustiare molti, se lo vediamo presentare, in Africa, dal presbitero Deogratias, nella richiesta di una soluzione, ad Agostino, il quale rispose con la lunghissima epistola 102, in cui pose, come seconda tra sei interrogazioni, la questione sulla sorte di quanti vissero prima della venuta di Cristo (CSEL 34, Epistole, Pars II, pp. 551-558). Agostino la dice contestazione avanzata da Porfirio e risponde (§ 12 p. 554,11-14): fin dall’inizio del genere umano tutti coloro che credettero in qualsiasi modo nel creatore e regolatore del mondo e vissero piamente secondo i suoi precetti, in qualsiasi tempo e luogo fossero, ad opera sua, senza nessun dubbio, sono stati salvati. E le irrequietezze critiche non cessano di germinare: anche quando fu applicata la medicina l’uomo non smise di peccare; Gregorio oppone una constatazione: come nel serpente, se la testa è stata mortalmente ferita, con essa non muore la parte che segue, la coda continua a restare viva; così il vizio, colpito da ferita mortale, nei suoi resti continua a tormentare la vita (§ 30 col. 76 C). Ancora: perché la fede non raggiunge tutti gli uomini? Dio non ha voluto concedere a tutti il beneficio o addirittura non lo ha potuto? Risposta: Dio chiama tutti, ma lascia all’uomo il libero arbitrio (§ 30 coll. 76 CD-77 A). E le obiezioni continuano a susseguirsi a catena: sulla libertà concessa ai cristiani di perdersi a cui si contrappone una bella celebrazione della nobiltà del libero arbitrio (§ 31 col. 77 BD); sulla sconvenienza che la natura divina provasse la morte (§ 32 coll. 77 D - 80 B); sulla dimostrazione che Dio venga presente al momento della consacrazione eucaristica (§ 34 col. 85 A-D) ed in passato aveva già accennato al
P. Zemp, Die Grundlagen heilsgeschichtlichen Denkens bei Gregor von Nyssa, Münchener Theologische Studien , Systematische Abteilung 38, München 1970, sulla coincidenza dell’Incarnazione del Logos e del culmine del male (pp. 219-221) nota che Gregorio si vede qui davanti un’obiezione che Origene aveva già discussa (Contra Celsum IV,3 e 7-8): perché Dio ha differito il beneficio e non ha troncato il male al suo inizio? (Greg. col. 73 D): Gregorio risponde che l’economia divina voleva lasciar venire tutto il male alla superficie; culmine del male ed Incarnazione non soltanto coincidono cronologicamente ma dipendono l’uno dall’altra; appariva che la sommità del male poteva essere sanata solo dal medico divino. 9
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rifiuto dell’antropologia proposta dalla Genesi (§ 5 col. 24 AB), a quello della risurrezione di Cristo, che si addice alla divinità, ma è connessa con la morte, che non le conviene (§ 9 col. 40 D). Questa oratio è magna per la sua salda impostazione teologica ed è catechetica per il suo movimento dialettico; dinanzi alla verità Gregorio si premura di rimuovere gli ostacoli che le possono ostruire l’accesso. Dimostra il suo culto per la verità con un accanito sforzo di precisione espositiva in acutezza penetrativa ed il suo riguardo al lettore enucleandogli in anticipo e dissolvendogli le insidie che gli possono turbare lo spirito. Lo trattiene a lungo, perché è convinto che chi considera accuratamente la profondità del mistero acquista una certa quale misurata comprensione della dottrina che concerne Dio. Questa tensione per l’esattezza della verità si ritorce, per larghi tratti, in laboriosità nell’enunciarla.
Linguaggio Gregorio è infatti sovente faticoso nell’esprimersi; cede all’astruso; costruisce con stento un concetto che poi non offre agevolezza di comprensibilità. È talora duro nella formulazione (ad es. § 20 coll. 56-57; 21 col. 60 AB), lento e ripetitivo (ad es. § 24 coll. 64-65; § 35 col. 88-89, 92; § 37 col. 93; § 39 col. 100); talora le parole risultano perspicue per lui che scrive ma assai meno per chi legge. Positivo è invece l’effetto delle varie similitudini, che evitano tutti gli aspetti pittoreschi, con la loro implicita spinta dispersiva, per concentrarsi in paragoni che illustrano immediatamente il tema. L’affermazione che chi crede nella nascita verginale di Cristo sia indotto a pensarlo, oltre che uomo, anche Dio (§ 13 col. 45 C) è limpida, in fluida agevolezza. Spiega l’opportunità che nell’uomo ci sia una mescolanza di intelligibile e di sensibile: “Con ciò che è divino viene innalzato ciò che è terreno ed una sola grazia si diffonde in uguaglianza di onore attraverso a tutta la creazione, poiché la natura inferiore viene mescolata insieme con quella sovramondana” (§ 6 col. 28 A): è una tersa e solenne visione del piano divino nella creazione; sembra una contemplazione assorta dell’azione che Dio esplica in spontaneità di sapienza e di potenza. A chi chiedeva perché Dio sia nato tra gli uomini, risponde che la nostra natura ammalata aveva bisogno di un medico; l’uomo che era caduto aveva bisogno di chi lo risollevasse; colui che aveva perso la vita aveva bisogno di chi gli ridesse la vita; colui che si era lasciato trascinare via dal partecipare al bene aveva bisogno di chi al bene lo riconducesse. Colui che era rimasto rinchiuso nella tenebra, chiedeva la presenza della luce; il prigioniero cercava chi lo riscattasse, il carcerato chi lo aiutasse; colui che era trattenuto sotto il giogo della schiavitù chi lo liberasse. E tutto questo, chiedo, è cosa da poco e non merita di commuovere Dio a discendere a visitare la natura umana, quando l’umanità era ridotta ad un stato così miserevole ed
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infelice?” (§ 15 col. 48 AB). Su una intensa meditazione drammatica emana un fervore d’anima che quelle anafore fanno sentire come inestinguibile; e continua nell’accompagnare le fasi successive della permanenza di Cristo tra noi con un sentimento di adorazione; la teologia ha acquisito un afflato mistico. In § 36 col. 92 CD Gregorio presenta il raggiungimento della salvezza come un processo di tersa razionalità; suggerisce infatti che ragione e Scrittura mostrano che non si può entrare nel coro celeste se non si sono ripulite tutte le colpe del peccato; cosa che è facile a farsi: basta credere che Dio è dovunque e quindi è in tutti coloro che ne invocano la potenza salvatrice; è presente a fare ciò che gli è specifico, cioè procurare la salvezza di coloro che ne hanno bisogno; essa si attua mediante la purificazione nell’acqua; chi è stato purificato sarà partecipe della purezza; ma ciò che è davvero puro è la divinità; vedi10 come è facile tornare allo stato iniziale (di purezza), bastano fede ed acqua; la fede è posta nel nostro libero arbitrio, l’acqua è congenita alla vita. Ma il bene che deriva da esse, quanto è grande ed eccellente: che l’uomo possegga la familiarità con Dio stesso! Questo passo è un gioiello di catechesi, limpido cammeo teologico, serrato in una coerente unità, che è persuasività, e terso nella sua evidenza. Gregorio ha comunicato egli stesso lo schema e lo spirito di questa sua Oratio11: Altrove abbiamo combattuto contro gli avversari ed abbiamo personalmente esaminato le questioni che ci venivano presentate. Nella composizione presente invece abbiamo stimato che fosse bene che trattassimo, riguardo alla fede, soltanto ciò che la parola del Vangelo contiene, e cioè che colui che nasce in una rigenerazione spirituale sappia da chi viene generato e che persona diventa. È solo questo tipo di generazione che ha in suo potere di diventare quello che vuole (§ 38 col. 97 C). Anche il questa Oratio la tessitura polemica è fitta, ma pure si distingue da quella dei trattati precedenti: là la teologia era la verità in se stessa, nell’assolutezza del suo valore intrinseco, qui è volta al nutrimento spirituale dei fedeli; si capisce la sua denominazione di catechetica; è una teologia non solo da credere, ma da vivere e da far vivere; Gregorio conclude infatti lasciando la consegna: “Se hai ricevuto Dio e sei diventato figlio di Dio, mostra, attraverso alla tua libera volontà, Dio che è in te; mostra in te Colui che ti ha generato” (§ 40 col.104 B). Prossimo articolo: 14. La catechesi liturgica in S. Isidoro di Siviglia
“Vedi”: interpella direttamente il lettore in un tono di conversazione familiale; è qui pressoché un caso unico, mentre negli altri catecheti è normale. 11 Principalmente nel Contra Eunomium in tre libri e nella Refutatio confessionis Eunomii. 10
RivLas 78 (2011) 2, 211-216
Christian approach of the poverty: biblical, patristic and ethical approach KOSTAS ZORBAS
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n the narrations of the Old and the New Testament many sides of the phenomenon of poverty are shown, as well as ways to restrict it. In the following we will give some elements of Psalms of the Old Testament, which will show the immensity of poverty in the world of the Bible and the efforts undertaken to relieve the poor. The elements concern mainly the second half of the 5th century B.C., where we find in Israel of the Bible a lower class with many financial and social problems1. In many Psalms there is expressed the wish to restore (something is missing, I guess your refer to the wealth of the poor?, thus it could be) wealth to the poor and the people in injustice. In Psalm 73 the poet wants that the sovereign rules over the people of God are without distinctions and that he gives justice to the poor. More important is the care of God to the poor. As Psalm 113,7 (Bible: King James version) states «He (God) raiseth up the poor out of the dust, [and] lifteth the needy out of the dunghill; That he may set [him] with princes, [even] with the princes of his people». Also respectful and blessed is the one who «hath dispersed, [he] hath given to the poor» (Ps 112,9). The only weapon for the poor who had lost any hope is his refuge in God. As it is underlined: «But I [am] poor and needy; [yet] the Lord thinketh upon me: thou [art] my help and my deliverer» (Ps 40,17) and «Bow down thine ear, O Lord, hear me: for I [am] poor and needy» (Ps 86,1). In the few references given, it is shown the difficult financial situation of many members of biblical Israel. It seems that this situation had been created because of the threat of the superpowers of that time and the unjust repartition of wealth. The hope of the poor is God Himself. The prayer of the Psalms does not forget the help
Rainer Albertz, A History of Israelite Religion in The Old Testament Period, London 1994, pp. 760770. 1
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that God has given to His people in difficult times and is calling to Him, intrusting Him and knowing that He will give them justice. This is absolutely naturally for a community which has known the good things of God and all its actions had as reference point the god given law which was written in the books of the Torah. This tradition of the rescue of the poor towards God is being continued in the books of the New Testament and the works of the Fathers of the Church. As St. John Chrysostom is underlining, the one who gives to the poor, is giving a lawn to God (PG 48:1061). Jesus in the parable of rich man (Luke 12:15-21) explicitly and emphatically rejects the identification of good life with an “abundance of possessions”. The rich man in the story is not a fool because he is rich; he is a fool because he identifies his very existence with the security he thinks comes from having grain stored in barns. The attempt to win life from possessions is folly. However, this in no way suggests that things themselves are either illusory or evil, or, for that matter, the use of any part of is wicked (Gen 1:31; Wisd 1:14). The First Epistle to Timothy refutes false asceticism by affirming: «everything created by God is good, and nothing is to be rejected if it is received with thanksgiving” (1Tim 4:4). In 1Timothy a popular Hellenistic proverb is cited: “the love of money is the root cause of all evils» (6:10). The problem for the Father is not the rich main with money but his «love of money». St. John Chrysostom (4th century) makes abundantly clear that what is morally wrong is not its misuse. He is against of the human selfishness and states: «I am often reproached for continually attacking the rich. Yes, because the rich are continually attacking the poor. But those I attack are not the rich as such, only those who misuse their wealth. I point out constantly that those I accuse are not the rich but the rapacious. Wealth is one thing, covetousness another. Learn to distinguish»2.
Charity and compassion are not virtues that only the rich must practice. St. Basil exhorts that even the poor to practice charity and compassion sharing even the minimal gifts that they may have from God: Are you poor? There is someone much poorer than you are. You have enough bread for ten days; another has enough for one. As a good and kind hearted person, make your surplus equal by distributing it to the needy. Do not shrink from giving of the little you have; do not treat you own calamity as if it is worse than the common suffering. Even if you possess only one loaf of bread, and the beggar stands at the door bring one loaf out of the storeroom and, presenting it to the hands lifted up towards heaven, offer this merciful and considered prayer: «One loaf of which you see, O Lord, and the problem is evident, but as for me, I prefer you commandment to myself and I give of the little I have to the starving brother; for you also give
2
Homily on the Fall of Eutropios, 2.3.
Christian approach of the poverty: biblical, patristic and ethical approach
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to Your servant in trouble. I know Your great goodness and I also confidently believe in your power, for you do not defer Your grace for another time, but dispense Your gifts when you wish. And if you were to speak and act in this way, the bread that you should give out of your scarcity would become seed for planting: it would bear rich fruit, a pledge of sustenance, a patron of mercy… o poor one, led to the rich God. Believe in the one who is at all times taking up the cause of the afflicted in his own person and supplying grace from his own store»3.
This kind of cheerful compassion and giving is grounded upon belief that «in nothing do we draw so close to God as in doing good to man». Jesus Christ in his teaching ministry had juxtaposed, as it can be found in Matthew 22:39 and Mark 12:31, the demand of loving God with all one’s heart (Deut 6:5) with the command to love one’s neighbour as oneself (Lev. 19:18). By placing these two commands in immediate juxtaposition, Jesus asks us to understand each in light of the other. This is a consistent trend in the gospels and even in St. Paul who writes to Galatians: «Through love be servants of one another. For the whole law is fulfilled in one word, ‘you shall love your neighbour as yourself» (Gal 5:13-14). The ways we love our neighbour reveal the authenticity of our faith in God, in the most concrete terms: «By this we know love that he laid his life for us; and we ought to lay down our lives for the brethren. But if anyone has the world’s goods and sees his brother in need, yet closes his heart against him, how does God’s love abide in him? Little children, let us love not in word or speech but in deed and in truth» (1Jo 3:16-18). The pastoral nature of the church’s faith did not allow the issue of poverty in situations of famine, homelessness, and sickness to be simply an issue of theological speculation. The patristic homilies had a sense of urgency and invitation to move from call to practical action. That means for a diaconical work. The Fathers exhorted the faithful to be compassionate now, to use their resources as manifestation of their faith in God. St. Basil asks: «What keeps you from giving now?… The hungry are dying before your face. The naked are stiff with cold. The men in debt are held by the throat. And you, you put off your alms, till another day?»4. With the same fervour St. Gregory of Nazianzus implored his audience: «Let nothing come between your will and the deed. This alone must suffer not delay: kindness to another person… a kindness done promptly is a kindness twice done. A favour done in a sour spirit, and because you must, is unlovely and without grace. We should be cheerful, not grieving when we give mercy»5. How we are to love in specific situations is difficult to be spelled out. Love requires the same faithful attentiveness, the same sharp hearing of God’s truth in the com-
Basil, Tempore Famis et Citatis, PG 31.320-321. Basil, Homilia in illud: Destruam Horrea Mea. English translation M.F.Troal, The Sunday Sermons of the Great Fathers (Chicago: Henry Regney, 1959), vol. 3, p.331. 5 Gregory of Nanzianzus, Or. 43 (De Pauperum Amore), PG 35. 857-909. English trans. M. Toal, The Sunday Sermons of the Great Fathers, Chicago: Henry Regnery, 1963, v. 4, p.63 3 4
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plexity of here and now. As with the response of faith, so with the response of love, discernment is the link between attitude and action. The mandate of faith in God is clear: we must, in some fashion, share that which has been given to us by God as a gift. From a Patristic perspective, the significance of sharing possessions lies not in the social arrangement but expresses our disposition toward God and the world. St. Justin in First Apology for the Christian Faith gives us a second century description of the Sunday Eucharist as a communal action that reflects these three equally important and inseparable elements of the Church’s ethos. Christians, based on Matthew 25:31-46, believe that Christ is sacramentally present in the poor and the needy. Cyprian in an address to the bishops of Numidia after raising money as a ransom for the release of Numidia Christians from their barbarian captors writes: «The captivity of our brethren must be reckoned as our captivity, and the grief of those who are endangered is to be esteemed as our grief, since indeed there is one body of our union. It was the temples of God which were taken captive, and we ought not by long inactivity and neglect of their suffering to allow the temples of God to be long captive… Christ is to be contemplated in our captive brethren»6.
Gregory of Nyssa reminds the rich that they must recognize the true identity of the poor and acknowledge their special dignity and role in Christian community. He wrotes: «Do not despise these men in their abjection; do not think them of no account. Reflect what they are and you will understand their dignity; they have taken upon them the person of our Savior. For he, the compassionate, has lent them his own person wherewith to abash the unmerciful and the haters of the poor… The poor are the treasures of the good things that we look for, the keepers of the gates of the Kingdom, opening them to the merciful and shutting them on the harsh and uncharitable. They are strongest of accusers, the best of defenders – not that they accuse in or defend them in words, but that the Lord beholds what is done toward them, and every deed cries louder than a herald to his who searches all hearts»7.
John Chrysostom draws a similar conclusion from the identification of Christ with the poor. He writes: «You eat in excess; Christ eats not even what he needs. You eat a variety of cakes; he eats not even a piece of dried bread. You drink fine Thracian wine; but on him you have not bestowed so much as a cup of cold water. You lie on a soft and embroidered bed; but he is perishing in the cold… You live in luxury on things that properly belong to him… At the moment, you have taken possessions of the resources that belong to Christ and you consume them aimlessly. Don’t you realize that you are going to be held accountable?»8.
Letter 59; Ante-Nicene Christian Library (Edinburgh, 1868 ff.), Vol. 8, pp. 199-202. Love of the Poor; W.Shewring, Rich and Poor in Christian Tradition, London 1948, p 65. 8 On Matthew: Homily 48:8. 6 7
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The poor for Chrysostom are not only the «temples of God» but their identification with God makes them bearers of salvation. The poor in St. John Chrysostom become the liturgical images of the most holy elements in all of Christian worship: the altar and the body of Christ. He identifies explicitly the poor as altar, both divine and divinely constituted: «Do you wish to see his altar?… This altar is composed of the very members of Christ, and the body of the Lord becomes your altar… venerable because it is itself Christ’s body… This altar you can see lying everywhere, in the alleys and in the agoras and you can sacrifice upon it anytime… invoke the spirit not with words, but with deeds» 9.
Based on this sacramental identification of Christ with the poor, Chrysostom suggests specific ways to express the recognition that Christ lives and is actively present in the poor and needy people: «Do you really wish to pay homage to Christ’s body? Then do not neglect him when he is naked. At the same time that you honor him here [in Church] with hangings made of silk, do not ignore him outside when he perishes from cold and nakedness. For the One who said “This is my body”… also said “When I was hungry you gave me nothing to eat.”… For is there any point in his table being laden with golden cups while he himself is perishing from hunger? First fill him when he is hungry and then set his table with lavish ornaments. Are you making a golden cup for him at the very moment when you refuse to give him a cup of cold water? Do you decorate his table with cloths flecked with gold, while at the same time you neglect to give him what is necessary for him to cover himself? I’m saying all this not to forbid your gifts of munificence, but to admonish you to perform those other duties at the same time, or rather before, you do these. No one was ever condemned for neglecting to be munificent: for the neglect of others hell itself is threatened, as well as unquenchable fire. The conclusion is: Don’t neglect you brother in his distress while you decorate His house. Your brother is more truly his temple than any Church building» 10.
In the ascetic anthropology the passion of greed (avarice, miserliness, etc.) is the root of all evil. It commutes the human being into a person. Saint Jean Damascene (8th century) underlines that all sins have some limits, but that avarice is a beast, which is never dying. René Girard, a modern French intellectual, describes its work as the “désir mimétique”, the mimic desire, an interior form of violence, which exists in all human societies… All the human societies without exception have the tendency to hurt themselves because of their internal violence. When this happens, they possess a way of reestablishment which is escaping from themselves and which anthropology never has explored, the spontaneous convergence, mimic of all the community against a unique victim, the original “scapegoat”, on which all the hatred
Epistulam 2 ad Corinthios, Homilia 20:3. Quoted by W. J. Burghardt, “The Body of Christ: Patristic Insights,” in R. S. Pelton, ed., The Church as the Body of Christ (South Bend, Ind., 1963), p. 97. 9
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Kostas Zorbas
discharge themselves without being spread catastrophically around, without destroying the community11. The Church has founded a strong tradition of philanthropic works, as many historical texts testify. The ecclesiastical legislation assures the building of philanthropic foundations, like hospitals, shelters for the poor, hospices for the elderly and similar institutions. But the philanthropic work of the Church (diakonia) is not a subject of cold legislation, which in theory can mean a lot, but in practice little is being done. The faithful do not need laws to force them to express their compassion to the brother or sister in need. From the Bishop to the simple faithful, philanthropy consists with their everyday care. In many cases the Bishop led the people (sentence needs to be restated, difficult to understand meaning) to express their desire to help others, thus the care of the whole Church for philanthropy. The moral teaching of the Church for philanthropy has been developed and incorporated in the Divine Liturgies, the writings of the Fathers, the dogmatic teaching, the Canon law and has become one with it. The Greek book The witness of Love (with subtitle The philanthropic and social work of the Church of Greece, published by the Service for Communication and Education of the Church of Greece) shows the philanthropic work of the Church in hundreds of philanthropic institutions, in an open or closed form. If someone is reading the rubrics of some of the first hospitals run by the Church, like the rubrics of the Monastery of Pantocrator in Constantinople, where one can see the organization and the functioning of the hospital, then you will see that the Church considers its real richness the poor, the sick, the offended, who needed affection and philanthropy and someone who cares for them.
Celui par qui le scandale arrive, Desclée de Brouwer, Paris 2001, pp. 61-62 and Je vois Satan tomber comme l’éclair, Grasset, Paris 1999, pp. 25-33.
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Devota allegrezza Forme di disciplinamento religioso del gioco e del divertimento ROBERTO ALESSANDRINI
Da Moltmann a Cox, da Fink a Miller, la teologia ha rimesso in valore il gioco e ha postulato l’idea di un Deus ludens. Tra regolamentazioni laiche e condanne religiose, le attività legate alla gioia e al divertimento hanno attraversato le diffidenze e i rigidi controlli della Riforma protestante e di quella cattolica fino ad approdare all’esperienza degli oratori di don Bosco, a tradursi in liturgie profane, a rivestire il calcio e il ciclismo di significati insospettabili.1
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l riformatore boemo Jan Hus era appassionato di scacchi, Calvino si concedeva alle bocce nei pomeriggi della domenica e Lutero riteneva che i ragazzi dovessero avere i loro giochi, anche se si opponeva ai racconti che avevano per protagonista l’irriverente e folcloristico Till Eulenspiegel, accusato di esaltare la “bricconeria”. Teresa di Lisieux si augurava di essere “una palla senza valore che i bambini scagliano a terra oppure abbandonano in un angolo, ma che potrebbe anche essere stretta al cuore, se facesse piacere” 2. Ugo di San Vittore ricordava che le cose serie ci piacciono di più se accompagnate da amabile ironia, Giovanni di Salisbury trovava piacevole e per niente indegno di un uomo rispettabile lasciarsi ogni tanto ingentilire da una contenuta serenità (modesta hilaritate) e san Francesco di Sales, decisamente più esplicito, affermava che “un santo triste è un tristo santo”.
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Questo articolo sintetizza i contenuti del libro di Roberto Alessandrini, Gesto, Emi, Bologna 2010. Hugo Rahner, L’homo ludens, Paideia, Brescia 1969, p. 56.
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Roberto Alessandrini
Gioco è parola dalla straordinaria estensione semantica, con diversi significati che ricadono in gran parte nell’area del passatempo, dello svago, del divertimento, della gara, della destrezza e dello sport 3 e con attività che forano “ogni categoria di cui disponiamo” aprendo spazi di novità e creatività4. La nozione è dunque molto vasta e considera l’attività ludica un’oasi di felicità e un simbolo del mondo5, un mezzo per veicolare valori, comportamenti e abitudini oltre che per cementare appartenenze culturali e nazionali. Libero, circoscritto in limiti spaziali e temporali, sottoposto a convenzioni che sospendono le regole ordinarie, dispensatore di illusioni compensatorie, dotato di una elevata componente di teatralizzazione e talvolta vicino a forme di ascesi e oltrepassamento di sé che ricordano pratiche e riti monastici, il gioco è state oggetto di studio anche da parte di teologi, come il protestante tedesco Jürgen Moltmann, che ha inteso rimettere in valore la gioia “nell’ambito dell’estetica, in opposizione alla pretesa totalitaria dell’etica”, e l’americano della Chiesa battista Harvey Cox6. Per fondare un legame tra Dio e il gioco, Eugen Fink e David Miller hanno inoltre postulato l’idea di un Deus ludens, al quale corrisponderebbe un Homo ludens al tempo stesso sereno e grave, col sorriso e con le lacrime, in letizia e pazienza7. Nel testo biblico, è a causa di un giocoso scherzare che Abimelech, re dei Filistei, comprende che Rebecca è la moglie di Isacco e non la sorella (Gn 26,8), è con una scommessa che inizia la storia di Giobbe ed è un gioco l’attività che la Sapienza afferma di compiere davanti a Dio (Pr 8,30). Molto, inoltre, si è scritto sui riferimenti all’arena e alla palestra nei testi paolini, dove l’idea della contesa atletica si trasferisce alla vita morale8. Ha osservato Huizinga che i concetti di fortuna e di destino “si trovano sempre vicinissimi alla zona delle cose sacre”9 e Primo Levi ha richiamato l’attenzione sugli aspetti liturgici dei giochi infantili, paragonabili a una cerimonia religiosa10 e spesso echi di antichi riti, anche se non riducibili – precisa Caillois – solo a residui di realtà passate11. Il gioco e il sacro sono dunque quasi conniventi12 e molte attività ricreative hanno
Giampaolo Dossena, Dizionario dei giochi con le parole, Garzanti, Milano 1994, p. 161. Gregory Bateson, “Questo è un gioco”, Raffaello Cortina, Milano 1996, pp. 118 e 179. 5 Cfr. Eugen Fink, Oasi del gioco, Raffaello Cortina, Milano 2008, p. 18; Eugen Fink, Il gioco come simbolo del mondo, Hopeful Monster ed., Firenze 1991. 6 Harvey Cox, La festa dei folli. Saggio teologico sulla festività e la fantasia, Bompiani, Milano 1971. 7 Hugo Rahner, L’homo ludens, op. cit., p. 43. 8 Sean Freyne, “Cristianesimo primitivo e ideale atletico della grecità”, in Concilium, n. 5, 1989, p. 133. 9 Johan Huizinga, Homo ludens, Einaudi, Torino 1949, p. 81. 10 Primo Levi, “L’internazionale dei bambini”, in L’altrui mestiere, Einaudi, Torino 1985, p. 117. Cfr. Stefano Bartezzaghi, Scrittori giocatori, Einaudi, Torino 2010, pp. 25 e 27. 11 Roger Caillois, “Unity of Play: Diversity of Games”, in Diogenes, 19, 1957, p. 99, cit. in Erving Goffman, Espressione e identità, op. cit., p. 83. 12 Roger Caillois, L’uomo e il sacro, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 149. 3 4
Devota allegrezza
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un’origine religiosa, anche se – al contrario di Huizinga – Caillois ritiene che le attività ludiche e quelle cultuali non siano equivalenti per il solo fatto di distinguersi dal corso ordinario dell’esistenza e di non avere identici contenuti: esse, infatti, si assomigliano nella misura in cui si contrappongono. Dal sacro, fonte di onnipotenza, il fedele si sente sopraffatto. Al suo cospetto è inerme ed è alla sua completa mercé. Nel gioco accade il contrario: tutto è umano, inventato dall’uomo creatore. Perciò il gioco riposa, distende, distrae dalla vita, e fa dimenticare pericoli, affanni, faccende. Il sacro è invece l’ambito di una tensione interiore, al cui confronto è proprio l’esistenza profana a diventare riposo, distensione e distrazione. La situazione è capovolta13.
Se nell’India vedica gli dei giocano alla creazione, alla conservazione e alla distruzione del mondo, nella cultura greca Dioniso, Ermes, Apollo ed Eracle sono bambini creatori14 che dispongono di trottole di varia forma, bambole mobili e pomi aurei o, come il giovane Zeus, di un globo formato dalla nutrice Adrastea. Nell’arte medievale regge un globo anche Gesù bambino, una visualizzazione che ha nei putti barocchi gli ultimi, quasi incompresi, successori15, anche se i giochi che la tradizione popolare attribuisce all’infanzia di Gesù sono molto diversi. Il vangelo dello Pseudo-Tommaso lo ritrae come un maghetto capriccioso e vendicativo, rissoso e persino crudele, mentre quello dello Pseudo-Matteo e il vangelo arabo siriaco lo rendono “una sorta di Giamburrasca di cattivo umore” (Geno Pampaloni) che ricorre agli attributi divini per rimediare ai propri sgarbi e alle proprie malefatte.
Tarpare le ali alla fantasia Nel corso dei secoli, l’atteggiamento delle Chiese nei confronti del gioco, del divertimento, dello svago e dell’allegria ha visto alternare proibizioni e forme di disciplinamento, rifiuti e adozioni, condanne puritane e “santificazioni” di atleti, diffidenze e benedizioni. Tra il XIII e il XV secolo le autorità pubbliche e la Chiesa riflettono e intervengono sul gioco in termini di regolamentazione laica e condanna religiosa16. In particolare, i divertimenti legati alla fortuna vengono avvertiti come gravi pericoli e destabilizzatori economici della società, ma anche come infami vizi che allontanano gli uomini dalla preghiera e dalla vita onesta. Sono soprattutto gli ordini mendicanti, con le loro predicazioni itineranti capaci di radunare grandi folle, a lanciare invettive e, nel corso del XV secolo, a intensificare la propaganda antiludica. Ber-
Roger Caillois, L’uomo e il sacro, op. cit., p. 152. Hugo Rahner, L’homo ludens, op.cit., pp. 21 e 22. 15 Cfr. Hugo Rahner, L’homo ludens, op.cit., p. 23. 16 Alessandra Rizzi, Ludus/Ludere. Giocare in Italia alla fine del medio evo, Treviso, Fondazione Benetton Studi Ricerche, 1995, p. 205. 13 14
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nardino da Siena, sulla cui figura si concentra la fase più acuta della lotta all’azzardo, ne fornisce il modello17. Elaborando gli elementi di una riflessione iniziata già nel XII secolo, i predicatori giungono tuttavia nel Quattrocento a ricordare nei loro sermoni anche i giochi leciti e a riconoscere uno spazio all’attività ludica, primi preziosi segnali di timide aperture che richiederanno ulteriori, faticosi approfondimenti e nuove sintesi. Ai primordi dell’ortodossia protestante i sermoni pasquali hanno cura di incominciare con una battuta18, anche se rispetto alla cultura popolare e al gioco le Chiese riformate del XVI secolo sono ancora più intransigenti della Chiesa cattolica in Occidente e della Chiesa ortodossa nell’Europa orientale. La zelante ricerca di purezza evangelica mette in discussione in modo sistematico e brutale anche il patrimonio folklorico europeo, le sacre rappresentazioni e le feste religiose. Scrive Peter Burke: Una lista completa raggiungerebbe davvero proporzioni enormi, ma anche un elenco riassuntivo dovrebbe comprendere: attori, ballate, burattini, carte da gioco, ciarlatani, combattimenti di cani contro gli orsi, corride, dadi, danze, divinazione, fiere, libretti popolari, magia, maschere, menestrelli, predicazione dell’avvenire, racconti popolari, stregoneria e taverne19.
Nel quadro di una riforma della cultura popolare che nella sua prima fase (15001650) viene principalmente guidata dal clero e giustificata su basi teologiche, il timore dell’indecenza, della violenza e della vanità porta a contrastare il carnevale e a fare trionfare la quaresima, due combattenti che nel celebre dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio (1559) prendono rispettivamente la forma di un grassone a cavalcioni di una botte e di una vecchia seduta su una seggiola. La Riforma protestante e la Riforma cattolica convergono sulla necessità di purificare il cristianesimo medievale, eliminando scorie e incrostazioni, con l’esito, secondo Ioan Petru Couliano, allievo di Mircea Eliade, di tarpare le ali alla fantasia. In particolare, la diffidenza dei Paesi “riformati” nei confronti del gioco ha radici nell’atmosfera etica che accompagna la nascita del capitalismo dove, secondo Victor Turner, la sfera del lavoro si sacralizza e si contrappone a quella dello svago legittimando solo il gioco ergico, quello legato alla ricreazione in funzione delle attività lavorative, e rifiutando quello ludico, considerato non utile e irrazionale20, incapace di creare merci o ricchezza. Vita austera, costumi severi, sobrietà ed essenzialità dei gesti, modestia e disciplina, adozione luterana e calvinista dell’ideale ascetico monastico si contrappongono alla povertà francescanamente vissuta in allegria e portano alla soppressione di giochi e giorni di festa all’insegna – per adottare
Alessandra Rizzi, Ludus/Ludere. Giocare in Italia alla fine del medio evo, op. cit., p. 207. Jürgen Moltmann, Sul gioco, Queriniana, Brescia 1971, op.cit., p. 49. 19 Peter Burke, Cultura popolare nell’Europa moderna, Mondadori, Milano 1978, p. 204. 20 Victor Turner, Dal rito al teatro, il Mulino, Bologna 1986, pp. 49-111. 17 18
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un’espressione di Weber – di un’ “ascesi intramondana”. Proprio l’etica della frugalità, del risparmio, del duro lavoro e del merito viene seriamente minacciata dal gioco d’azzardo, oggetto polemico oltre che della predicazione religiosa medievale anche di una vasta letteratura di matrice liberale che tra Otto e Novecento contrasta lo sperpero e la perdizione. I caratteri di quel mondo magico-divinatorio vengono rivelati a livello popolare dal gioco del Lotto, nato a Genova nel XVI secolo e notevolmente diffuso nell’Ottocento, in particolare a Napoli, bersaglio di durissime condanne di superstizione e dissolutezza e oggetto di analisi anche in sede parlamentare. L’arte di indovinare i numeri contrasta con gli ideali di operosità parsimoniosa del giovane Stato liberale. Per Balzac è una droga, ma anche una fede, una sorta di religione che libera attese di riscatto dalla povertà, di speranze di redenzione, mentre per Gramsci, che nei Quaderni coglie la stretta connessione tra il Lotto e la religione, le vincite mostrano che si è stati “eletti”, che si è avuta una particolare grazia da un santo o dalla Madonna. Si potrebbe fare un confronto tra la concezione attivistica della grazia presso i protestanti che ha dato forma morale allo spirito d’intrapresa capitalistica e la concezione passiva e lazzaronesca della grazia propria del popolino cattolico21.
L’intuizione dell’oratorio Il pur rigido controllo delle Chiese sulle attività ludiche e trasgressive non riesce tuttavia ad impedire l’affermazione di tradizioni e riti alquanto insoliti per la sensibilità moderna. In gran parte dell’Europa, una festa burlesca detta episcopus puerorum o episcopellus si svolge nel periodo natalizio e prevede che un bambino vestito da vescovo entri in chiesa, benedica i fedeli e rivolga loro prediche scurrili22. Un Concilio della Chiesa russa – detto degli Stoglav o dei “cento capitoli” (1551) – proibisce i giochi di “origine greca e di invenzione diabolica” che si svolgono la vigilia di san Giovanni Battista e nel periodo natalizio23; “Feste dei folli” sono ancora vive nella Francia del XVI secolo, annuali sermoni di miseri vagabondi contro potenti rabbini ricorrono nei ghetti polacchi24 e la parodia di un rito religioso, il “gran sinodo dei folli”, si celebra nella Russia di Pietro I il Grande25. Un’usanza radicata nel
21 Cit. in Paola De Sanctis Ricciardone, Il tipografo celeste. Il gioco del lotto tra letteratura e demonologia nell’Italia dell’Ottocento e oltre, Dedalo, Bari 1987, p. 34. 22 Giuseppe Maria Viscari, “Undicesimo non giocare. Feste, giochi e divertimenti nell’Europa moderna tra cristianizzazione e secolarizzazione”, in Giuseppe Imbucci, a cura di, Il gioco pubblico in Italia. Storia, cultura e mercato, Marsilio,Venezia 1999, p. 115. 23 Peter Burke, Cultura popolare nell’Europa moderna, op. cit., p. 209. 24 Cit. in Erving Goffman, Espressione e identità. Giochi, ruolo, teatralità, il Mulino, Bologna 2003, p. 46. 25 Simone Clapier-Valladon, “L’homme et le rire”, in Histoire des Moeurs, vol. II, Gallimard, Paris 1991, p. 256.
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costume ecclesiastico e ritenuta lecita anche da alcuni vescovi, il risus paschalis, prevede che la mattina di Pasqua, in chiesa, il sacerdote rallegri il popolo dopo la tristezza della lunga quaresima e celebri gioiosamente la resurrezione facendo ricorso a imitazioni del verso degli animali e di personaggi grotteschi, ma anche a barzellette, buffonate, sconcezze, gesti irriverenti e osceni26. Già nel corso del secolo precedente, la dura condanna cattolica nei confronti dello svago si era attenuata, soprattutto ad opera dei Gesuiti, che nei regolamenti dei loro collegi avevano gradualmente introdotto la danza e alcuni giochi al fine di educare il corpo. L’attività ludica aveva fatto il suo ingresso anche nei programmi degli istituti in cui si formava la classe dirigente e la Chiesa iniziava a servirsi del gioco anche per esperienze educative e scolastiche con i figli delle classi popolari27. Uno degli esempi più noti riguarda l’attività del “santo della gioia” o “buffone di Dio” san Filippo Neri (1515-1595), il sacerdote che a Roma raduna attorno a sé “ragazzi di strada” per avvicinarli alle celebrazioni liturgiche e farli divertire con canti e giochi. L’esperienza, che in seguito sarebbe diventata l’Oratorio, viene proclamata congregazione da papa Gregorio XIII nel 1575. Qualche decennio dopo, nel 1609, Francesco di Sales, vescovo di Ginevra e Annecy, pubblica a Lione l’Introduzione alla vita devota e dedica quattro capitoli a danze, passatempi e ricreazioni. I giochi in cui “un guadagno premia e ricompensa l’abilità e la destrezza di corpo e spirito” (palla, pallone, pallamaglia, corse all’anello, scacchi, dama) vengono considerati buoni e leciti anche se bisogna guardarsi dagli eccessi e dai soldi che si impegnano. Dadi, carte e simili, dove la vincita dipende principalmente dal caso, sono invece ricreazioni pericolose, così come il ballo, carico di rischi e pericoli. “Per giocare e danzare lecitamente – scrive Francesco di Sales - bisogna farlo per ricreazione e non per passione, per poco tempo e non fino a stancarsi o stordirsi, e poi anche di rado; perché, a farlo d’abitudine, si muta la ricreazione in occupazione”. Nelle sue parole si insinua tuttavia un dubbio: “Forse è un vizio esser tanto rigidi, rozzi e selvatici da non voler mai prendersi, né permettere agli altri, nessun tipo di ricreazione”28. E’ nella pedagogia di don Bosco, che proprio a Francesco di Sales si ispira, e nell’esperienza ottocentesca degli oratori salesiani che l’allegria, il gioco, l’attività fisica e teatrale acquistano uno spazio privilegiato e contribuiscono a definire un modello educativo e ricreativo che per un oltre un secolo offre ai giovani un punto di riferimento e alla società un “ramificato apparato di gestione del tempo libero”29.
Maria Caterina Jacobelli, Il Risus paschalis e il fondamento teologico del piacere sessuale, Queriniana, Brescia 1990. 27 Alessandra Rizzi, Ludus/Ludere. Giocare in Italia alla fine del medio evo, op. cit., p. 210. 28 Cfr. Giuseppe M. Viscari, “Undicesimo non giocare”, op. cit., pp. 109-120. 29 Stefano Pivato, Anna Tonelli, Italia vagabonda., Il tempo libero degli italiani dal melodramma alla pay-tv, Carocci, Roma 2001, p. 100. 26
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Lo scopo è “di trattenere la gioventù nei giorni di festa con piacevole ed onesta ricreazione dopo d’aver assistito alle sacre funzioni”. L’intuizione del sacerdote piemontese rappresenta una grande novità e – secondo Umberto Eco – anche una “grande rivoluzione”. Don Bosco la inventa, poi la esporta verso la rete delle parrocchie e l’Azione cattolica, ma il nucleo è là, quando questo geniale riformatore intravede che la società industriale richiede nuovi modi di aggregazione, prima giovanile e poi adulta, e inventa l’oratorio salesiano: una macchina perfetta in cui ogni canale di comunicazione, dal gioco alla musica, dal teatro alla stampa, è gestito in proprio su basi minime e riutilizzato e discusso quando la comunicazione arriva da fuori. […] La genialità dell’oratorio è che esso prescrive ai suoi frequentatori un codice morale e religioso, ma poi accoglie anche chi non lo segue. In tal senso il progetto don Bosco investe tutta la società italiana dell’era industriale”30.
È proprio all’insegna del divertimento “sano e onesto” che il teatro acquista piena, moderna legittimità nell’ambito della pedagogia religiosa. A partire dal 1860, a Valdocco, gli studenti si specializzano nella preparazione di teatrini, talvolta anche in latino, per un pubblico di benefattori e amici, secondo la tradizione dei gesuiti; si preparano commedie o drammi – lo stesso sacerdote piemontese ne scrive alcuni ed è di loro spettanza anche una banda musicale per esecuzioni nell’oratorio e nelle parrocchie in occasione delle feste locali. Come osserva Gabriele De Rosa, le commedie del teatrino “hanno poco a che fare con la storia del teatro” perché il loro fine è pedagogico e pratico: elevare il militante, ribattere la propaganda avversaria, respingere i modelli proposti dal teatro positivista e piccolo borghese, esaltare la famiglia cattolica31. Bozzetti comici, quadri edificanti, monologhi e sacre rappresentazioni si assumono il compito di esaltare la vita domestica, i valori della civiltà rurale e il rispetto per l’autorità, ma anche di riflettere l’impegno morale contro la pornografia, il ballo32 e la bestemmia. Aliena da pretese artistiche in senso tradizionale, la pedagogia teatrale di don Bosco si affida ad “uno spontaneismo creativo sorretto da una costante preoccupazione di carattere morale” e da una sottolineatura di carattere didascalico33. Il Manifesto del teatro educativo, redatto dal sacerdote piemontese nel 1858, precisa che lo scopo è
Umberto Eco, “A lezione da don Bosco”, L’Espresso, 15 novembre 1981, p. 105. Cit. in Stefano Pivato, “Il divertimento ‘sano e onesto’: nascita dell’oratorio e organizzazione religiosa dello svago”, in Roberto Alessandrini e Michelina Borsari, a cura di, Il sorriso dello spirito. Riso e comicità nella cultura religiosa dell’Occidente, Fondazione San Carlo e Banca Popolare dell’Emilia-Romagna, Modena 2000, p. 185. 32 Le critiche degli ambienti religiosi nei confronti del ballo si acuiscono tra la metà dell’Ottocento e i primi del Novecento, quando si affermano il valzer e il tango, danze considerate fonti di immoralità capaci di distogliere i parrocchiani dai doveri del buon cristiano. Su questi temi cfr. Stefano Pivato e Anna Tonelli, Italia vagabonda, op. cit.,, in particolare le pp. 79-87. 33 Stefano Pivato, “Don Bosco e la ‘cultura popolare’”, in Francesco Traniello, a cura di, Don Bosco nella storia della cultura popolare, Sei, Torino 1987, pp. 277 e 279. 30 31
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“rallegrare, educare, istruire i giovani più che si può moralmente” e che le composizioni devono essere “amene ed atte a ricreare e divertire”, ma sempre istruttive, morali e brevi. Il documento invita inoltre ad evitare le rappresentazioni di fatti atroci: “Qualche scena un po’ seria è tollerata, siano però tolte di mezzo le espressioni poco cristiane, e quei vocaboli che detti altrove, sarebbero giudicati incivili o troppo plateali”. Pur con i suoi limiti, la grande intuizione di don Bosco è destinata a lasciare il segno. Agli inizi del Novecento il teatrino assume i caratteri di un fenomeno di massa e negli anni Trenta, quando le filodrammatiche raggiungono il loro massimo sviluppo, escono nove riviste specializzate, cinque editori stampano esclusivamente testi per il teatro educativo e ogni casa editrice cattolica, grande o piccola, dispone di una propria collana teatrale. Un’attività editoriale che nella prima metà degli anni Trenta produce una ottantina di nuovi libri l’anno con un lancio sul mercato di duecentomila volumetti di commedie. Un’intensa attività destinata a ricevere un duro colpo dal cinema, accolto dalla Chiesa come positivo strumento di educazione e propaganda, ma anche come ambiguo e pericoloso responsabile della decadenza morale della società. Con il proposito di indirizzare la “cinematografia in senso cattolico”34, nel 1928 nasce l’Office Catholique International du Cinéma e Pio XI dedica al nuovo, potentissimo mezzo di divulgazione ben quindici interventi tra il 1922 e il 1939. L’interesse è confermato dall’espansione delle sale cinematografiche negli oratori, il cui numero, nel 1937, è di poco inferiore a quelle del dopolavoro, e dalla pubblicazione, a partire dal 1935, delle Segnalazioni cinematografiche alle quali parroci e direttori di sale e oratori sono invitati ad attenersi. Tuttavia, anche il cinema parrocchiale non basterà ad arrestare la parabola discendente di uno dei pochi luoghi in cui il divertimento è stato pienamente ricompreso nei percorsi di educazione cattolica. Don Milani, in Esperienze pastorali, stigmatizzerà l’oratorio come “luogo dove si perde tempo” e don Primo Mazzolari riconoscerà con amarezza che esso viene ormai disertato dopo aver accompagnato, spesso gioiosamente, la crescita di generazioni di italiani. Negli anni di don Bosco il clima culturale è anche orientato a istituzionalizzare gli sport in chiave educativa e a considerarli utili per insegnare lealtà di gruppo, resistenza fisica e autostima35. E’ la stagione in cui si assiste ad una cesura tra giochi popolari tradizionali e sport all’insegna di un crescente disciplinamento e di una sempre più evidente spettacolarizzazione. Con l’intuizione dei giochi olimpici, Pierre de Coubertin intende offrire un’esibizione di comportamenti “esemplari” e teatralizzare una morale laica, con un ricorso talvolta esplicito a riferimenti religiosi36.
Daniele Menozzi, La Chiesa e le immagini. I testi fondamentali sulle arti figurative dalle origini ai nostri giorni, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1995, p. 271. 35 Davide Zoletto, Il gioco duro dell’integrazione. L’intercultura sui campi da gioco, Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 26. 36 Georges Vigarello, Culture e tecniche dello sport, Il Saggiatore, Milano 1993, p. 237. 34
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Siamo anche alle origini dello “sport cattolico”, che si tiene a distanza dall’agonismo e dalla competizione. Se le élites liberali prediligono club alpini e circoli del tiro a segno, attività individuali finalizzate alla disciplina del corpo e alla diffusione di uno spirito patriottico e militaresco, le attività sportive dei circoli cattolici sono in genere di gruppo e si propongono obiettivi morali e religiosi. Vescovi ed educatori condannano attività che per carica agonistica e impegno distolgono dalle pratiche di pietà; così, per lungo tempo, gli sport “acrobatici” vengono ignorati dalle associazioni cattoliche, che privilegiano la ginnastica, più rispondente a far “alitare un soffio di spiritualismo cristiano anche nelle manifestazioni della forza fisica”37.
Liturgie del calcio e del ciclismo Anche se è privo di una configurazione mitica, distante da riferimenti a trascendenza, aldilà, salvezza ed abitato da ideali labili, lo sport “funziona un po’ come una Chiesa” e si configura come “la nuova religione del popolo”38, con pantheon di adulati campioni, reliquiari di coppe, trofei, medaglie, abiti liturgici, sacerdoti garanti dei rituali, racconti mirabolanti di imprese, foto e immagini pie, riti magici di preparazione39. La corsa ciclistica, l’incontro di pugilato, la partita di calcio e il gesto del tennista40 sono spettacoli in sé, “con i loro costumi, l’apertura solenne, la liturgia adeguata, lo svolgimento prestabilito”41 e, come la religione, si affidano al fascino del rito e adottano modalità cerimoniali che rompono con il tempo e lo spazio profano42. Osserva J.M. Brohm: Metafore religiose di ogni genere abbondano nel discorso sportivo; l’intuizione più o meno consapevole riproduce oggettivamente la pratica sportiva e alcune strutture del mito, del sacro, del mistico, del culturale, del rituale. Sono numerosi le cattedrali, i templi, le mecche, i campi e i recinti sportivi sacri, etc; pullulano le liturgie, le messe, gli offizi, le cerimonie pagane, le messe a morte per sacrificio simboliche (e, a volte, reali…); mentre i grandi preti, gli officianti, gli eroi delle leggende, i servitori del culto, i pii, i martiri, i santi e i grandi avi sono una legione. Così il linguaggio sportivo riflette la nostalgia della comunione, della fusione mistica nel grande corpo (la Chiesa?) dell’immensa famiglia sportiva. Esprime una confessione, un credo, una Bibbia, l’appartenenza ad una comunità superiore ammutolita dalla fede e dal culto dei grandi avi o dei nuovi messia 43.
Stefano Pivato, “Don Bosco e la ‘cultura popolare’”, in Francesco Traniello, a cura di, Don Bosco nella storia della cultura popolare, op. cit., p. 281. 38 Claude Rivière, I riti profani, Armando Editore, Roma 1998, pp. 129-149. 39 Cfr. Claude Rivière, I riti profani, op. cit., p. 134. 40 Cfr. David Foster Wallace, Roger Federer come esperienza religiosa, Casagrande, Bellinzona 2010. 41 Roger Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano 1995, pp. 39-40. 42 Cfr. Gregory Baum e John A. Coleman, “Editoriale”, Concilium, 5, 1989, p. 20. 43 Cit. in Claude Rivière, I riti profani, op. cit., p. 131. 37
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Un grande rituale moderno che si trova al centro di una drammaturgia popolare è il calcio, imponente macchina di comunicazione e socializzazione, “spettacolo interpretato da professionisti, su cui avvengono investimenti materiali, emotivi e simbolici di massa” e luogo di un confronto rituale tra amici e nemici che assume la metafora della guerra44, quando addirittura non la provoca realmente, come accade nel 1969 tra Salvador e Honduras per gli incontri eliminatori dei campionati del mondo45. In quegli anni, Pier Paolo Pasolini afferma: “Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci”46. Segni di croce di calciatori al fischio d’inizio delle gare, preghiere a mani giunte dopo un gol segnato, ricorsi superstiziosi all’acqua benedetta, esibizioni di magliette in cui ci si dichiara appartenenti a Gesù o si inneggia al Papa, associazioni di atleti di Cristo, sono gli esempi di una “delocalizzazione”47 di gesti religiosi e la conferma che il calcio si è trasformato in una religione sostitutiva popolare di tipo laico, in vettore di fascinazione non privo di un suo lato liturgico, in una forma di epica capace di adattarsi alle necessità di una società post moderna e di riprodurre alcune strutture del mito, del sacro e del rito. Il football, osserva Marc Augé, funziona come un fenomeno religioso e le affinità sono molteplici, come ha magistralmente narrato Christian Bromberger, anche se il calcio non rimanda a un sistema religioso autonomo, ma è piuttosto un fertile campo di applicazione “di pratiche magico-religiose prese in prestito da altri orizzonti rituali” che svela il carattere ibrido e minore delle religiosità secolari. Si tratta di credenze perennemente in bilico tra serietà e parodia che, prese alla lettera, potrebbero avere un effetto di trompe-l’oeil liturgico. La cerimonia riproduce le sequenze liturgiche, ma ne traveste lo stile e ne travisa il senso. La coppa, che sarebbe un errore considerare un accessorio intercambiabile, conserva un’aura quasi religiosa (i tifosi cercano di toccarla) ma è, per così dire, svuotata della sua trascendenza. Anche quando si osservano le vetrine (che spesso ricordano gli armadi di una sacrestia) in cui sono conservati i trofei del club si prova la stessa sensazione di oscillazione tra secolarità e religiosità. Si tratta di un museo o di un santuario? Ci si va in visita o in pellegrinaggio? Davanti ad esse, i tifosi tacciono in furtivo raccoglimento, come il passante che incrocia una processione o scorge all’improvviso un altare dietro l’angolo. Restano a metà strada, tra il sacro e il profano48.
Cfr. Alessandro Dal Lago, Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio, il Mulino, Bologna 1990, pp. 25, 34 e 36. 45 Ryszard Kapu´sci´nski, La prima guerra del football e altre guerre di poveri, Serra e Riva, Milano 1990, pp. 179-204. 46 Intervista a Guido Gerosa, L’Europeo, 31 dicembre 1970, cit. in Giorgio Simonelli e Darwin Pastorin, Reti e parabole, Mursia, Milano 2010, p. 67. 47 Cfr. Roberto Alessandrini, Gesto, Emi, Bologna 2010, pp. 55-58. 48 Christian Bromberger, La partita di calcio. Etnologia di una passione, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 252. 44
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Questo ibrido si palesa con evidenza a Napoli in occasione dei festeggiamenti per lo scudetto del 1987, quando la “canonizzazione” di Maradona, in un’esagerazione liturgico-parodistica, prende la forma di un “san Gennarmando”, realizzato con la statua del patrono e la testa del campione argentino, e di una processione simile a quella della Madonna dell’Arco. Nel corso del ‘900 nemmeno le guerre riescono completamente a interrompere il gioco del calcio. Il 22 giugno 1941, il giorno in cui i tedeschi invadono l’Unione Sovietica in una delle azioni decisive della seconda guerra mondiale, 90 mila spettatori assistono a Berlino alla finale del torneo tedesco e nel 1944, pochi giorni dopo lo sbarco di Normandia, in 70 mila seguono la finale di un campionato che in Germania prosegue anche quando l’aviazione britannica rade al suolo il Paese e i giovani vengono inviati sul fronte orientale. Come ricorda Primo Levi in Sommersi e salvati, anche ad Auschwitz si gioca a pallone. Gli spettatori di un incontro di calcio fra una squadra di SS e una rappresentanza del Sonderkommando, i prigionieri incaricati di sgomberare la camere a gas e bruciare i cadaveri, “parteggiano, scommettono, applaudono, incoraggiano i giocatori, come se, invece che davanti alle porte dell’inferno, la partita si svolgesse sul campo di un villaggio”49. Ed è curiosamente specchio dei campi di concentramento, anche se situato su un isolotto della Terra del Fuoco, l’inquietante e crudele stato totalitario, esclusivamente dedito allo sport, di cui narra Georges Perec in un suo libro50. Lo scrittore e drammaturgo francese Alfred Jarry narra invece gli episodi della Passione come gara ciclistica in salita, con Gesù in derapata sul Golgota, la croce in versione di ordinario tubolare da pista, le stazioni della via Crucis trasformate in tornanti e le tradizionali cadute in ruzzoloni51. L’impresa di Jarry è doppiamente dissacratoria se si pensa che proprio agli inizi del Novecento la bicicletta, che in Italia rappresenta il primo felice esempio di connubio tra sport e industria, viene inizialmente considerata negli ambienti religiosi e in quelli socialisti un mezzo troppo moderno e “secolaresco”, “un utensile di lusso” secondo Giovanni Semeria, maître à penser dello sport cattolico. Ritenuta sconveniente per le donne, la bicicletta viene a più riprese proibita da alcuni vescovi anche ai sacerdoti: per i trasgressori si invocano energiche misure disciplinari e persino la sospensione a divinis52. Curiosamente, negli anni Trenta sarà proprio un ciclista ad incarnare il prototipo dell’”atleta
Cfr. Stefano Bartezzaghi, Scrittori giocatori, op. cit., pp. 22 e 29. Georges Perec, W o il ricordo d’infanzia, Rizzoli, Milano 1991. 51 Alfred Jarry, “La Passione come gara in salita”, in Acrobazie in bici, Bollati Boringhieri, Torino 2010, pp. 80-83. 52 Cfr. Stefano Pivato, “Il divertimento ‘sano e onesto’”, op. cit., pp. 195-196 e Stefano Pivato, Loretta Veri e Natalia Cangi, a cura di, In bicicletta. Memorie sull’Italia a due ruote, il Mulino, Bologna 2009, pp. 18-19. 49 50
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morale” e dello “sportivo cattolico” in mitiche gare vissute come “grandi epopee”, al pari del Tour de France interpretato da Roland Barthes53. A vincere due volte ciascuno il Tour de France sono il meccanico Gino Bartali (nel 1938 e nel 1948) e il fornaio Fausto Coppi (nel 1949 e nel 1952), due amici e avversari che a lungo alimentano l’immaginario popolare italiano anche in termini religiosi e politici, soprattutto in occasione degli attesissimi appuntamenti del Giro d’Italia, la gara che a partire dal 1909 accompagna la compiuta esplosione della “mania ciclistica” nazionale. Se Barthes paragona i campioni del Tour de France agli eroi omerici dell’Odissea, la versione italiana della gara su due ruote porta, al contrario, in scena la campagna, il dialetto, i mestieri umili, la fatica, il sudore, lo sforzo54. Coppi vince il Giro cinque volte, Bartali quattro; la loro leggenda è “l’archetipo di ogni leale rivalità, il mito del dopoguerra, della nazione che si risolleva sulle sue macerie”55. Ricostruisce con efficacia Gianni Mura: Coppi lascia la famiglia per la moglie del suo medico, Giulia Occhini, nota come Dama Bianca. Carcere per lei, denunce per lui, pubbliche riprovazioni, abbandono del tetto coniugale, appostamenti di fotografi (il tutto da vedere nell’ottica dei primi anni Cinquanta). […] Bartali pio, paolotto si diceva allora, e Coppi che sfida la morale costituita, Coppi eroe romantico che cerca l’amore oltre le leggi.
Prima della “Dama Bianca” i mass media cattolici offrono anche di Coppi l’immagine di un campione devoto, ma la vicenda sentimentale che trasgredisce pubblicamente la morale comune gli attira le antipatie degli ambienti religiosi. Bartali, al contrario, si conferma il “ciclista di Dio”, il campione dell’oratorio, l’incarnazione del “perfetto atleta cristiano”, un modello – alternativo anche a quello proposto dal fascismo – che ricomprende le virtù morali del militante. Nel settembre 1947, davanti alla folla convenuta in piazza San Pietro, Pio XII lo eleva a modello dell’Italia cattolica: “La dura gara di cui parla San Paolo è in corso; è l’ora dello sforzo intenso. Anche pochi istanti possono decidere la vittoria. Guardate il vostro Gino Bartali, membro dell’Azione cattolica: egli ha più volte guadagnato l’ambita ‘maglia’. Correte anche voi in questo campionato ideale”56. L’iniziale diffidenza della Chiesa nei confronti della bicicletta si converte così definitivamente, e solennemente, nella celebrazione di un ciclista come prototipo dello sportivo cattolico.
Roland Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1974, p. 111. Cfr. Stefano Pivato e Anna Tonelli, Italia vagabonda, op. cit., pp. 69-70. 55 Giorgio Simonelli e Darwin Pastorin, Reti e parabole, op. cit., p. 37. 56 Stefano Pivato, “Il divertimento ‘sano e onesto’ ”, op. cit., p. 200. 53 54
RivLas 78 (2011) 2, 229-242
Tra rassegnazione ed ostinazione: logiche di intervento con i ragazzi dell’Ifp GIUSEPPE TACCONI
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n questi ultimi anni, ho avuto modo di condurre o di partecipare a diverse ricerche di taglio qualitativo, svolte nel contesto della formazione professionale iniziale1, in particolare nei centri di formazione professionale (Cfp) salesiani italiani. Le ricerche hanno coinvolto complessivamente quasi 200 tra docenti, formatori e tutor, in circa 10 regioni italiane. Si tratta di ricerche che assumono diverse focalizzazioni, ma che si muovono tutte nello stesso campo, fanno riferimento allo stesso paradigma, quello dell’analisi delle pratiche (cfr. Laneve 2009, 19-58), che cerca di generare un sapere sul fare formazione a partire da come i formatori raccontano la loro pratica formativa, e allo stesso approccio metodologico, quello della fenomenologia applicata alle scienze umane (cfr. Van Manen 1990; Mortari, 2007). Anche le tecniche impiegate sono state differenti: dall’intervista, individuale o di gruppo, alla raccolta di scritture professionali, all’osservazione etnografica. Per una presenUna prima ricerca - non ancora completata - è quella affidata dalla Federazione nazionale Cnos-fap al Cred (Centro di ricerca educativa e didattica) del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Verona, sul tema de “La didattica dell’italiano e della matematica nell’Ifp”, che ha coinvolto - a vario titolo - 73 docenti-formatori di area logico-matematica e linguistica nei Cfp della Federazione in 8 Regioni: Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sicilia, Umbria, Veneto (per i primi risultati, cfr. Tacconi, 2009b); la stessa ricerca è stata poi ampliata a circa altri 20 docenti-formatori di alcuni Cfp della Federazione Ciofs-fp (Tacconi, Mejia Gomez, 2010, pp. 21-91); un’altra ricerca, finanziata questa volta dal Ciofs-fp Regione Puglia, si è focalizzata sulla figura del tutor nell’Ifp e ha coinvolto circa 20 operatori, tra tutor, coordinatori/trici, docenti e allievi (cfr. Tacconi, Mejia Gomez, 2010, pp. 141-222); un’ulteriore ricerca finanziata dal Ciofs-fp della Puglia ha coinvolto altre circa 15 persone, tra docenti e tutor, sul tema della gestione della classe (cfr. Tacconi, Mejia Gomez, 2010, pp. 93-140). Chi scrive ha poi collaborato in una ricerca sulle pratiche di progettazione con una quarantina di formatori di area pratica della formazione professionale in lingua italiana della Provincia autonoma di Bolzano (cfr. Tacconi 2009a).
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tazione dettagliata delle singole ricerche, rimando ad altri testi (cfr. Tacconi, 2009b; Tacconi, Mejia Gomez, 2010). Qui mi interessa proporre alla riflessione un aspetto che emerge dalle ricerche empiriche e che può aiutare a ripensare il contributo e il ruolo specifico della formazione professionale nel sistema complessivo di Istruzione e formazione del nostro Paese. Lo spunto viene dal fatto che alcune di queste ricerche si sono svolte nella Regione Puglia e hanno coinvolto anche diversi docenti di istituzioni scolastiche che svolgono il loro servizio all’interno della formazione professionale, oltre che nella scuola2. Diventa allora possibile, pur con molti distinguo, tentare un confronto tra le strategie che, davanti allo stesso tipo di utenza, vengono messe in atto, da una parte, dai docenti-formatori che sono in capo agli enti di formazione, e, dall’altra, dai docenti della scuola che operano anche all’interno dei Cfp. Per far questo sarà prima opportuno mettere a fuoco le caratteristiche della tipologia prevalente di utenza che abita i Cfp.
1. I ragazzi del “vietato diventare” È difficile dare una rappresentazione unitaria degli utenti della formazione professionale, tanto è variegata, a questo livello, l’offerta formativa nel nostro Paese. Esistono alcune ricerche che cercano di illuminare le caratteristiche di questa tipologia di utenza (cfr., ad esempio, il rapporto Isfol 2007). Con qualche approssimazione, possiamo affermare che i ragazzi che frequentano la formazione professionale rappresentano una fascia di utenza che proviene prevalentemente da ceti sociali medio bassi, è spesso esposta pesantemente al disagio, vede una rappresentanza di ragazzi di cittadinanza straniera più elevata che in tutti gli altri percorsi di istruzione secondaria superiore ed esprime un rapporto spesso difficile con l’ambiente scolastico e formativo. Nelle Regioni del nord, e in particolare nel nord-est del Paese, sono molti gli allievi che scelgono questi percorsi direttamente dopo la conclusione del primo ciclo, tanto più che tali percorsi vengono riconosciuti validi per l’assolvimento dell’obbligo di istruzione. Nelle Regioni del sud, la maggior parte degli allievi della formazione professionale, dove questa esiste, proviene da un precedente insuccesso scolastico, in particolare nei percorsi dell’Istruzione Tecnica e Professionale3. Non
In quella Regione infatti il modello secondo cui è prevalentemente organizzata la formazione professionale iniziale è quello che vede un’integrazione tra gli enti di formazione e le Istituzioni scolastiche. La titolarità dei percorsi è generalmente degli enti di formazione ma, per le aree culturali, vengono coinvolti i docenti delle Istituzioni scolastiche (per una panoramica sui vari modelli organizzativi della formazione professionale iniziale in Italia, cfr. Tacconi 2008a). 3 Alla luce dei dati qui richiamati, si può dunque affermare che il (sotto)sistema della Formazione Professionale si muove tra una funzione specificamente formativa, orientata alla professionalizzazione e all’inserimento nel mondo del lavoro, ed una funzione di prevenzione della dispersione formativa e di inclusione sociale. 2
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vogliamo qui indulgere ad un’idea di formazione professionale come sistema di soccorso, perché siamo consapevoli del tentativo che, pur tra non poche incertezze, è in atto in Italia per dare pari dignità ai percorsi scolastici e a quelli che puntano sul valore culturale del lavoro. Ci limitiamo ad osservare che, di fatto, in tutte le Regioni in cui è presente la formazione professionale, gli allievi dei Cfp rappresentano una tipologia di utenza che risulta particolarmente sfidante per docenti e formatori. Nelle ricerche che abbiamo condotto in questi anni, appaiono spesso, nei racconti dei docenti, i volti degli allievi. Si tratta per lo più di ragazzi che hanno alle spalle percorsi scolastici accidentati e non raramente sofferti, che talvolta si sono trasformati in una specie di interdetto a “diventare qualcuno...”, un “io non ce la farò mai!” interiorizzato, che rischia di agire pesantemente sulla loro possibilità di maturare apprendimenti significativi e che sfida la capacità dei docenti di costruire contesti di apprendimento motivanti. Proviamo a rappresentarci alcuni di questi volti, a partire dalle parole stesse di alcuni formatori del Cnos-fap e del Ciofs-fp4: chi arriva nei Cfp ha delle scarse conoscenze di matematica [...]; spesso, hanno alle spalle veri e propri insuccessi scolastici e una ridotta capacità logica deduttiva; [...] nei primi colloqui, i genitori dicono: “Ah, mio figlio la matematica non l’ha mai studiata; mio figlio ha sempre avuto […] delle insufficienze!” [...] (IntMi3/27); i ragazzi arrivano da un percorso di scuola elementare e media, in cui hanno maturato un odio profondo nei confronti di questa materia; molti arrivano dicendo: “io la matematica non la capisco” (IntMe2/338); [...] vengono dalla scuola media col risultato di “sufficiente” (IntMe2/348); probabilmente sono quelli che sono stati vissuti [...], all’interno del gruppo classe [...], un po’ come l’ultima ruota del carro, come la zavorra del gruppo, che magari avrebbe potuto viaggiare e che loro rincorrevano sempre (IntMe2/352); si verificano anche degli abbandoni; gli alunni [...] (FGPu/94) lasciano perché hanno problemi familiari, nel senso che devono andare ad aiutare il padre che fa l’ambulante al mercato e quindi ha bisogno di una mano; lasciano perché non hanno voglia di studiare e i genitori, invece di stimolarli, dicono loro: “Va beh, allora è inutile che vai a scuola, vieni ad aiutare a me, aiuti mamma in casa, fai questo…, ti rendi utile in questo modo...” [...] (FGPu/96) o perché trovano un lavoro (FGPu/97).
Non intendiamo proporre generalizzazioni, ma, nell’esperienza dei formatori che hanno partecipato alle varie ricerche, è frequente il riferimento a ragazzi che, soprattutto nei confronti delle aree cosiddette “culturali”, manifestano una certa disaffe-
I brani che seguono sono tratti da differenti ricerche e vengono analizzati in dettaglio nei relativi rapporti. In particolare i primi due estratti si riferiscono alla ricerca condotta nei Cfp del Cnos-fap (Tacconi, 2009b), mentre la terza si riferisce alla ricerca condotta in Puglia, presso i centri del Ciofs-fp (Tacconi, Mejia Gomez, 2010). I codici si riferiscono alla posizione che il brano riportato assume nell’insieme del testo raccolto, che può essere il testo di un’intervista (Int) o di un focus group (FG).
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zione. Non si tratta solo dell’espressione del bisogno di processi di insegnamentoapprendimento maggiormente legati al fare e alla concretezza, ma anche dell’espressione di un rapporto difficile con tutto ciò che odora di scuola e spesso di disagi legati al contesto sociale e culturale di provenienza. Si nota una singolare affinità tra i ragazzi di cui ci parlano docenti e formatori del Cnos-fap e del Ciofs-fp e i ragazzi del “vietato diventare”, di cui si è trattato altrove, ad esempio commentando il “Diario di scuola” di Daniel Pennac (Tacconi 2008b), che sviluppano una sorta di identità al negativo, che fa loro dire: “io sono quello che non riesce, che non ce la farà mai...”. Diventa allora interessante vedere come i docenti interpellati affrontino le problematiche di cui questi allievi sono portatori, distinguendo, nei paragrafi che seguono, tra i formatori/trici di Cfp e i docenti impegnati normalmente a scuola e “prestati” all’Ifp per la gestione di alcuni moduli “culturali”.
2. Elementi caratterizzanti l’intervento didattico dei/delle formatori/trici di Cfp Le interviste e i focus group, realizzati nell’ambito delle varie ricerche, e le osservazioni etnografiche, condotte in alcuni Cfp del Veneto, della Lombardia e della Puglia, hanno consentito di raccogliere una variegata rappresentazione fenomenologica delle pratiche didattiche dei/delle formatori/trici di Cfp. Ci pare di poter riconoscere in esse i tratti di approccio didattico caratteristico e largamente prevalente. Con i ragazzi del “vietato diventare”, i docenti-formatori dell’Ifp, pur nella diversità dei contesti sociali e delle situazioni regionali (e anche delle configurazioni contrattuali), sembrano aver imparato a non darsi per vinti, a non lasciarsi scoraggiare e ad ostinarsi a cercare piste di accesso e cammini praticabili. Quali sono i tratti caratteristici di questa didattica? Proviamo ad analizzarli, commentando alcuni estratti dai testi raccolti nell’ambito delle ricerche citate sopra. Si tratta innanzitutto di una pratica didattica molto attenta ai soggetti, che non cede all’inevitabile senso di delusione, che talvolta afferra anche i formatori più motivati, sa che i frutti hanno bisogno di pazienza, mira ad alimentare negli allievi fiducia in se stessi, punta verso mete elevate e tenta di far emergere potenzialità e risorse latenti5: da quando ho iniziato questa attività [...] ho sempre preteso il massimo dagli allievi, perché alcuni (docenti della scuola) vengono avendo già definito questi ragazzi come “quelli che non sanno fare niente”, o come “quelli che possono fare solo poco”. Invece no, loro hanno un tesoro di risorse inesplorate, che è incredibile e va fatto emergere (Int2/19);
Le citazioni che seguono sono tratte le prime due dalla ricerca sui tutor svolta per conto del Ciofs-fp della Regione Puglia (cfr. Tacconi, Mejia Gomez, 2010, pp. 141-222), le seconde due dalla ricerca sui coordinatori dell’Ifp (cfr. ibid, pp. 223-277).
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quando vedo che il livello della spiegazione scende, cerco di alzare il tiro, di far capire che sono ragazzi che possono dare molto; questa classe, ad esempio, è spettacolare; abbiamo dei ragazzi interessati, che partecipano, ti stimolano, sono uno pungolo pure per te; io passo il pomeriggio a cercare cose da proporre loro e molte volte [...] sono proprio loro che mi portano qualcosa da farmi vedere: “Sai, abbiamo trattato questo, guarda cosa ho trovato...”, “Abbiamo visto Voyager, l’altra sera, sai di che cosa hanno parlato?...” (Int4/4); nei percorsi che sono iniziati, sono entrata in aula e ho chiesto cos’era per loro la competenza; lo sapevano perfettamente; certo, lo esprimevano con il loro lessico, però lo sapevano. Noi tendiamo spesso - e questo è il nostro grave handicap - a pensare che i ragazzi non siano in grado di..., e invece non è vero. Ci danno parecchie lezioni i nostri ragazzi! (IntCo1/9). quando [...] imparano e vanno in azienda e dimostrano quello che sanno fare, ne sono molto fieri; per questo noi non possiamo abbassare il livello della nostra formazione, solo perché, in alcuni momenti, ci sembrano poco interessati; anche allora dobbiamo dare il massimo [...]; ecco un esempio: uno dei ragazzi del corso per operatore grafico sembra che qui acquisisca molto poco, ma, andando in stage in azienda, ci ha potato una locandina bellissima e la città ora è tappezzata di queste locandine; dobbiamo sempre spingerli a dare il massimo, nonostante la delusione di alcuni momenti, in cui ci sembra che la loro risposta sia debole, la loro voglia scarsa; arriva il momento giusto in cui tutto quello che hanno appreso lo mettono in pratica (IntCo4/27).
Per far crescere la fiducia nei soggetti, i/le formatori/trici dicono che è importante innanzitutto alimentare fiducia in loro e nel fatto che essi portano dentro un tesoro di “risorse inesplorate”, anche al di là di ciò che può apparire superficialmente. Spesso sono proprio gli allievi che sorprendono, quando si dà spazio ai loro interessi, e che fioriscono in quelle circostanze in cui riescono ad attribuire senso a ciò che apprendono e a fare delle cose con quello che imparano. In questa prospettiva, è proprio la qualità della relazione che sembra fare la differenza perché esprime, da parte dei formatori, un’attenzione profonda e delicata nei confronti dei soggetti in apprendimento6: [...] (è importante) valorizzare l’aspetto umano. Loro non vogliono sentirsi soggetti da indottrinare: “Adesso ci sta riempiendo di queste informazioni! Lasciamola parlare, tanto, dopo, se ne va fuori!”. In terza, basta un occhiata per capire se l’ora prima è stata un disastro, se qualcuno ha preso un brutto voto, se uno si è tagliato i capelli, se uno è depresso, se uno ha perso l’i-pod…; basta un’occhiata per vedere le emozioni; l’aspetto umano è fondamentale [...]; passo l’intervallo a chiedere cosa è successo: “Paola, cosa è successo?”... (IntVr3/258); anche dopo, nel corso della lezione, passando tra i banchi mi accorgo e dico: “Cos’è successo? Qualcosa non va?” (IntVr3/260).
Diventa essenziale coltivare un particolare sguardo, che sappia intercettare le esperienze e gli stati d’animo dei ragazzi e, facendo questo, comunichi loro rispetto profondo e sincera benevolenza.
Le citazioni che seguono sono tratte dalla ricerca commissionata dal Cnos-fap nazionale (Tacconi 2009b). I nomi riportati sono stati ovviamente cambiati. 6
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L’azione dei formatori si muove poi nella direzione di una didattica del concreto, capace di agganciare e valorizzare l’esperienza quotidiana dei soggetti in formazione: un ragazzo con grosse difficoltà disciplinari, però attento, curioso, [...] ha detto: “Prof, stavo pensando ad una luce supplementare da mettere sulla mia bicicletta, sotto la sella, così la accendo di sera e mi vedono un po’ di più e sono più tranquillo...”. Rispondo: “Intanto comincia a pensare a come la vorresti fare...”; a questo punto, ha scoperto che aveva bisogno di conoscenze: “Allora, vediamo un attimino, la dinamo: quanto ti può dare di corrente? Che cosa ci puoi mettere?...”; qui si è avuto un avvicinamento alla fisica attraverso quello stimolo iniziale e, in classe, abbiamo portato questo come esempio di applicazione pratica di concetti fisici che potevano permetterci di risolvere il problema che era sorto; [...] l’esempio proposto da un allievo è diventato esempio per tutta la classe: “Ecco, abbiamo questo problema, vediamo come risolverlo...”; “Cosa proponete come soluzione? Cosa fareste voi?”. Intanto, il ragazzo si è sentito gratificato, perché al centro dell’attenzione in quel momento (IntRoma1/2); ho rimandato il problema alla classe, chiedendo: “Come proponete voi di risolverlo? Cosa dobbiamo applicare per riuscire a risolvere questo problema? Ora non affrontiamo il problema dal punto di vista pratico, questo lo farete in officina, ma andiamo a vedere quali concetti ci stanno dietro!”. Il ragazzo si è sentito estremamente gratificato e, nello stesso tempo, la classe si è sentita coinvolta nel risolvere un problema che in effetti interessava al compagno [...] (IntRoma1/6); l’attività culturale matematica l’ho sempre vista come un completamento [...] di quello che fanno nella pratica (FGMat2/242); [...] se io dovessi svolgere [...] “il programma” stilato nella programmazione provinciale, regionale o quant’altro, molte cose resterebbero lettera morta [...] (FGMat2/246), come delle parole… (FGMat2/248) che cadono nel vuoto; [...] poi mi accorgo che, alla fine dell’anno, se ho seguito un certo iter [...], non è che ho fatto cose diverse; forse le ho fatte in maniera diversa, con una modalità diversa e con un ordine diverso, però in realtà ho fatto le stesse cose, forse anche in modo più approfondito; [...] questa modalità di lavorare è un pochino più complessa, però sicuramente più motivante per il ragazzo che si aspetta un’attività pratica [...] e vuol vedere il succo delle cose (FGMat2/250).
Si tratta di rendersi capaci di cogliere gli spunti che vengono dai ragazzi stessi e che rivelano i loro interessi e le loro esperienze quotidiane, per poter rendere visibili e manipolabili i concetti e far cogliere il succo delle cose stesse. La centratura sul concreto consente di avvicinarsi agli apprendimenti disciplinari non come a saperi inerti e tra loro separati, ma come ad una risorsa per la soluzione di problemi concreti, avvertiti come tali. Questo non significa “fare di meno” ma “fare in modo diverso” e mettere i soggetti nella condizione di dare senso a ciò che imparano. Un ulteriore elemento caratterizza la pratica dei formatori di Cfp: la loro è spesso una didattica che si basa sul principio dell’imparare facendo e sull’attivazione di una specifica riflessione sull’agire: i migliori risultati si ottengono quando si lega la matematica ad un capolavoro da realizzare [...]; ad esempio, cerco di spiegare i volumi e le conversioni nelle varie unità di misura per poter misurare questi volumi, ma mi guardano come se... parlassi un’altra lingua; nella mia mente penso: “in fondo, è il volume di un cilindro, non è che sia...”, ma ottengo poca attenzio-
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ne; se, invece, faccio un esempio pratico, collego il volume del cilindro [...] alla cilindrata del loro motorino, ottengo un effetto diverso: è come se si levassero: guardano, seguono, hanno motivazione [...]; ad esempio, se vado a parlare di pesi specifici, ottengo qualcosa, però è difficile. Se invece dico: “Il Centro deve rifare il parapetto che è di ferro ed è arrugginito; quanto costerà? Vediamo, dobbiamo fare un calcolo, un preventivo di quanto può costare questo parapetto”…, allora è diverso. Magari usciamo dall’aula - la classica aula, dove loro vedono la lavagna, vedono l’insegnante e dicono: “oggi c’è matematica! Uffa” -, usciamo con il blocco degli appunti e cominciamo a misurare con un metro quanto è lunga la ringhiera, che forma ha, da quante parti è formato questo parapetto; cominciamo a scindere il problema. Vedo che così c’è un impegno diverso. Una delle cose che funziona è legare i percorsi alla loro esperienza, ad aspetti pratici [...], in modo che la loro attenzione sia focalizzata su un problema da risolvere, su un capolavoro da creare. I nostri ragazzi non pensano di stare facendo inglese, matematica, geometria, in maniera distaccata, separata, scollegata [...] (FGMat1/6); i meccanici costruiscono un monopattino [...] in laboratorio. Per fare il monopattino di cosa ho bisogno? Devo comprare i materiali [...], devo andare a vedere le aziende che me li forniscono e, se l’azienda è in Inghilterra, devo fare una lettera commerciale in inglese [...], oppure si chiedono: “ma quanto mi costa?”. In matematica fanno un minimo di preventivo [...]; i formatori di meccanica sono [...] bravi: suddividono i ragazzi anche per la gestione, ad esempio: io sono il capo-commessa, tu sei quello che mi convalida il pezzo, tu sei quello che ha prenotato il singolo pezzo, [...] come in un’impresa vera. Questa cosa può [...] coinvolgere anche il diritto: per noi grafici, che lavoriamo con le immagini e con i marchi, è coinvolta tutta la parte del diritto che riguarda il marchio registrato, la proprietà [...] (IntMe6/300).
Non è che al “fare” consegua necessariamente un “comprendere” – lo sanno bene i formatori – ma la comprensione assume una diversa qualità quando avviene a partire dal “fare” e dalla riflessione su ciò che viene realizzato. Nei racconti dei docenti dei Cfp si nota il tentativo di valorizzare l’esperienza del lavoro come esperienza conoscitiva (che implica diversi tipi di sapere, di carattere tecnico-professionale, ma anche di carattere più ampiamente culturale, etico, perfino estetico…), fonte di apprendimenti significativi. Per questo l’esperienza di stage e l’incontro diretto con testimoni assumono una particolare rilevanza: vincente [...] per me è stato far intervenire spesso degli ex-allievi, che vengono a portare la loro testimonianza. Ho ragazzi che due o tre anni fa erano esattamente in quelle stesse aule, facevano quelle stesse cose; siccome sono qui da venticinque anni, ho i miei ex allievi, che vengono a raccontare del mondo del lavoro, di dove sono collocati, di che cosa utilizzano concretamente di ciò che si fa al Cfp. Per i ragazzi [...] queste testimonianze sono estremamente... (FGMat2/189) motivanti, molto utili, perché poi davvero scatta l’interesse di dire, ad esempio: […] “Come hai fatto ad arrivare nel posto in cui sei? Che responsabilità hai? Ma i disegni te li fai da solo o te li controlla qualcuno [...]?”. È una cosa interessante, perché davvero si crea un dialogo costruttivo (FGMat2/191).
L’incontro con testimoni avvicina al mondo del lavoro e attiva interesse, fa venir voglia di saperne di più, dispone all’esperienza diretta. A partire da questo contatto, si possono poi avviare percorsi riflessivi che stimolano a cogliere il valore culturale del lavoro e i tanti saperi che sono in esso incorporati e chiedono di essere libera-
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ti. Tutto questo non può essere fatto senza un’interazione intensa tra docenti di area teorica e docenti di area pratica. La didattica a cui ricorrono i docenti di area culturale (quelli di matematica ma anche quelli di italiano) cerca infatti di non imitare le modalità “scolastiche” e di integrare tra loro le varie aree e dimensioni del curricolo: per noi che lavoriamo al Cfp, l’insegnamento della matematica comincia con un confronto profondo e quotidiano con l’insegnante di laboratorio (IntMe3/2); ci confrontiamo con i professori di laboratorio per capire quali possano essere i principi della matematica immediatamente fruibili nella loro area di specializzazione [...] (IntMe3/4), nei vari settori, quello grafico [...] (IntMe3/10), quello meccanico e quello [...] elettrotecnico (IntMe3/12); [...] la prima cosa che ho fatto è stata andare in laboratorio e vedere come lavorano i colleghi. Sono loro la mia fonte di informazioni privilegiata, in quanto a metodo e in quanto a strategia (IntMe3/326); da noi [...], un anno sì e un anno no, si svolge una giornata di workshop per i docenti “teorici”, all’interno di uno dei settori; [...] l’anno scorso, abbiamo fatto una giornata in cui ciascuno di noi doveva realizzare un pezzo, in quel caso una lampada, partendo dai rudimenti dell’elettronica, per arrivare all’applicazione meccanica, attraverso una macchina a controllo numerico; ciascuno di noi ha costruito la propria lampada [...] (IntMe3/328), guidati ovviamente dai professori di laboratorio, che in quel giorno ci vedevano come allievi (IntMe3/330). Questo apre la mente, perché qui [...] impari le parole che i ragazzi hanno in bocca tutto il giorno e che a noi magari dicono poco (IntMe3/332); la differenza tra una fresa e un tornio non mi era ben chiara (IntMe3/334), prima di aver visto (IntMe3/336) e utilizzato questi strumenti, con tutti gli errori del caso (IntMe3/338); senza il laboratorio, non saprei da che parte cominciare la teoria; d’altra parte, senza i principi di base, gli insegnanti di laboratorio avrebbero difficoltà ad esporre ai ragazzi le esigenze che hanno nella costruzione di un pezzo o nell’elaborato di grafica; penso che ci sia una sinergia da questo punto di vista (IntMe3/352); la prima cosa da fare, quando si arriva ad insegnare in un Cfp, è dunque proprio scrollarsi la polvere [...] scolastica che si ha addosso, quella patina che ci vorrebbe tutti bravissimi a svolgere il programma che il libro propone (IntMe3/354); lavoriamo [...] in sinergia con il laboratorio, perché è il modo più semplice per dare qualche risposta alla domanda che tutti fanno: “A che cosa mi serve quello che mi sta dicendo?” [...]; al controllo numerico fanno dei test che sono complessi, sotto il profilo geometrico. Provare a scomporre il profilo geometrico, andare a cercare delle coordinate - utilizzando ovviamente gli strumenti che ci fornisce la geometria analitica - e poi andare sulla macchina e verificare che il punto che si è calcolato sia realmente quello: vi garantisco che cambia la prospettiva dell’allievo [...] (FGMat2/189); [...] per far passare i concetti complessi, come quelli di geometria analitica [...], noi colleghiamo sempre i concetti al particolare che poi loro realizzano effettivamente in officina, in modo tale che abbiano davvero la possibilità di vedere che quello che fai teoricamente su un foglio o alla lavagna, poi te lo fa la macchina e che, se la coordinata che dai è sbagliata, la macchina ti fa un pezzo sbagliato [...], che non funziona (FGMat2/191).
I formatori cercano dunque di individuate quelle modalità organizzative che facilitano un lavoro di squadra e un’intensa collaborazione tra i docenti delle varie aree. Nel far questo, sanno mettersi anche loro nella condizione di chi sa che non smette mai di imparare. Attenzione ai soggetti nella loro singolarità, cura della relazione, valorizzazione dell’esperienza, centratura sul far fare e sul far riflettere sul fare,
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valorizzazione del lavoro come contesto all’interno del quale sviluppare saperi rilevanti, ma soprattutto disponibilità a ricercare vie sempre nuove per guadagnare i soggetti all’avventura della conoscenza, anche interagendo intensamente con i colleghi, sono le caratteristiche principali dei formatori e delle formatrici di Cfp che hanno partecipato alle nostre ricerche.
3. L’approccio di alcuni docenti della scuola con i ragazzi della formazione professionale Come ricordavo sopra, nelle ricerche condotte in Puglia, i docenti coinvolti sono stati prevalentemente quelli della scuola, perché, in quel caso, oggetto di esplorazione erano appunto le pratiche di insegnamento dei docenti di area linguistica e logico-matematica; in quel modello organizzativo della formazione professionale, gli insegnanti provengono dalla scuola (per lo più Istituti tecnici e professionali) ed integrano il loro normale carico didattico svolgendo qualche ora di insegnamento anche al Cfp. Il confronto tra approccio didattico dei formatori dell’Ifp e approccio didattico degli insegnanti di scuola non era un aspetto su cui avevamo esplicitamente puntato l’attenzione, ma è comunque emerso come elemento di particolare interesse. Per questo intendiamo darne conto qui di seguito. Non mancano, nell’Istruzione tecnica e professionale, insegnanti capaci e motivati. Alcuni, tra quelli intervistati, affermano esplicitamente che l’esperienza vissuta nei Cfp li ha interrogati e ha in qualche modo cambiato anche il loro modo di far scuola negli Istituti di provenienza: insegnare nella formazione professionale mi ha fatto mettere in discussione: “Vediamo se sono capace...”, perché un conto è lavorare con ragazzi bravi, ordinati, scolarizzati, un conto è lavorare in situazioni in cui un giorno te ne vai dicendo: “Oddio non ho fatto niente! Oggi è proprio andata malissimo!”, però il giorno dopo lavori e sei contenta, perché comunque [...] stabilisci un rapporto umano e quindi hai la speranza che, nel tempo, quello che tu hai seminato, possa tornare utile (IntPu1/46); l’esperienza del Ciofs mi ha migliorato: riesco ad essere più “umano”, tra virgolette, pure a scuola [...]; la scuola italiana manda in mezzo alla strada gli alunni, perché non li sa tenere dentro. Poi arriva un ente tipo il Ciofs che li prende dalla strada, li porta in “clinica” e chiama pure noi professori (del liceo) a dare una mano, a fare quest’opera. Noi professori, che questi alunni prima li abbiamo cacciati, poi andiamo nella “clinica” per tentare di rimediare al danno [...] (IntPu4/80).
Gli insegnanti di questo tipo si sentono stimolati dalla difficoltà, che li induce a fermarsi, a riflettere e a cercare nuove vie. Alcuni arrivano a riconoscere che, da quando operano al Cfp, il loro modo di fare scuola si è fatto più vario e attento alle diversità individuali. L’atteggiamento prevalente dei docenti delle istituzioni scolastiche coinvolte nelle nostre ricerche, nei confronti dei ragazzi della formazione professio-
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nale, è però di segno differente e per certi aspetti addirittura opposto7. La maggior parte sembra infatti manifestare un modo di fare che complessivamente potremmo definire “rassegnato”8, incapace di alimentare attese e speranze nei confronti dei ragazzi che abitano i Cfp. Molti di loro lamentano le poche ore a disposizione, per sviluppare programmi sempre troppo fitti, e le enormi difficoltà di contesto. Tutto insomma sembra “remare contro”: in questo corso, faccio 20 ore, [...], una a settimana [...]; fare un’ora sola a settimana è veramente riduttivo perché [...] sappiamo che i ragazzi a casa non fanno niente; quello che fanno lo fanno in classe. Quindi un’ora a settimana significa che la settimana successiva non si ricordano più nulla di quello che si è fatto la settimana precedente [...]; con il ragazzo o la ragazza che sta con te alla lavagna, riesci a raggiungere qualche risultato, ma, nel frattempo, quelli che stanno al posto si perdono; è inevitabile. Quindi diventa una cosa molto faticosa, che richiederebbe più tempo [...]; gli elementi a favore sono pochi e tutto rema contro. È veramente difficile (IntPu2/10).
Alcuni docenti lamentano il fatto che agli allievi manchino basi adeguate. Non riescono ad assumere la costruzione di queste basi come obiettivo del loro agire e si limitano a denunciare la mancanza di ciò che considerano un prerequisito indispensabile. Il problema è visto come tutto a carico dell’allievo che “...non studia”, “non lavora”, “non fa gli esercizi”, “non ci mette buona volontà”, “non fa proprio niente”: [...] la matematica si costruisce su degli scalini; ci sono come tanti mattoncini; quelle sono proprio le basi; da lì si può parlare di equazioni di primo grado, di secondo grado, però, se non si hanno le fondamenta, non si può costruire niente; ho ancora difficoltà sui prodotti notevoli, sul quadrato di un binomio; me lo hanno di nuovo sbagliato; “somma per differenza” anche...; [...] non riusciamo a impostare un’equazione di secondo grado, hanno ancora difficoltà a trattare gli argomenti elementari, perché ci sono delle “regolette” da memorizzare; siccome manca l’esercizio a casa e manca la volontà, siamo ancora lì [...] (IntPu2/30).
L’esigenza maggiormente avvertita dai docenti è quella di semplificare un programma visto come somma di conoscenze discrete, di ridurre tutto all’osso, accontentan-
7 Questo aspetto trova conferma anche nei dati sugli esiti degli scrutini finali nelle scuole secondarie di II grado a.s. 2009/10, che, soprattutto per quanto riguarda gli Istituti professionali, vede percentuali molto alte di studenti non ammessi alle classi successive (http://www.istruzione.it/alfresco/d/d/workspace/SpacesStore/1afdbbbe-126e-436a-a4e6-c0e9f1e2db6c/notiziarioesami_2ciclo.pdf). 8 A questo riguardo, la tutor di un Cfp pugliese osserva: “(i docenti) vengono dalla scuola, dove i ragazzi sono più educati, osservano di più le regole, perché quelli delle scuole superiori statali sono ragazzi più “inquadrati”, più rispettosi; loro (gli insegnanti) sono abituati al rispetto, al fatto che i ragazzi si alzino quando loro entrano in classe o quando escono dalla classe, stiano in silenzio quando loro spiegano; arrivati qua, si sono trovati effettivamente in una realtà completamente diversa da quella che sono abituati a gestire da anni e si sono trovati spiazzati” (Int6/31).
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dosi di risultati tutto sommato modesti: bisogna che riconoscano i polinomi [...], per arrivare a fare le equazioni di primo grado, i prodotti notevoli, le potenze di secondo grado, un po’ di geometria del piano e dello spazio, i sistemi, anche se non [...] quelli di secondo grado; fare i sistemi di primo grado sarebbe già tanto! Il programma va ridotto all’osso, perché sono argomenti che comunque nella scuola si sviluppano anche in un paio di anni e, invece, avendo poche ore a disposizione con loro, bisogna veramente ridurre, semplificare al massimo e fornire proprio le regole minime per impostare almeno qualche semplice esercizio (IntPu2/8); nel tempo che si ha a disposizione, si deve veramente minimizzare e cercare di ricavare ugualmente qualche risultato, accontentandosi: non si può pretendere più di tanto, per vari motivi [...]: perché la disciplina non è gradita, il tempo è poco, la matematica non è ritenuta importante [...] (IntPu2/10); […] hanno ancora molta difficoltà sulle frazioni; [...] quando vedono le frazioni, proprio si spaventano, ma questo è normale, succede dappertutto, soltanto che, mentre a scuola, volenti o nolenti, si hanno più ore, si fa più esercizio e alla fine la cosa entra in testa, al Cfp è più difficile; perciò si tenta sempre di semplificare, di evitare gli esercizi che possono risultare più ostici e di cercare sempre di trattare gli argomenti più semplici, anche se poi più di tanto non si può fare (IntPu2/28).
La difficoltà dei docenti è sganciarsi dalla logica del “programma” da svolgere e considerare che gli allievi “fanno matematica” nell’ora di matematica ma anche nell’ora di laboratorio o nello stage, di passare dalla rigida ripartizione disciplinare a percorsi interdisciplinari, centrati su compiti autentici e significativi. Soprattutto, le difficoltà, anziché mobilitare energie, sembrano paralizzare e indurre alla rinuncia e alla rassegnazione, tanto che, nella mente di molti di questi insegnanti, alla formazione professionale viene attribuita una valenza puramente “sociale”, più che formativa e questo impedisce di comprendere che proprio l’azione formativa diventa la principale leva per un’autentica inclusione sociale: avrei voluto [...] provare la strategia del lavoro di gruppo, ma non l’ho fatto perché ho paura [...] delle distrazioni; [...] mettendoli in gruppo a lavorare su un esercizio di matematica, non so che cosa ne potrebbe venire fuori; [...] il tempo è poco, gli argomenti sono tanti e quindi quel poco tempo che si ha si deve cercare di non disperderlo [...]; penso che più di questo stare vicino ad ognuno di loro […], considerando anche che [...] molti ragazzi hanno delle grosse difficoltà a livello sociale, delle situazioni anche particolari, non si possa fare [...] (IntPu2/36); penso che, se riuscissi ad eliminare dalla loro forma italiana gli errori e se loro imparassero a produrre una lettera da inviare ad un datore di lavoro, completa e soprattutto corretta, per me sarebbe già tutto, perché non posso dare altro, purtroppo, nella situazione in cui si trovano (IntPu11/40).
A questa visione sostanzialmente sconsolata e rinunciataria, corrisponde l’idea che esista un solo modo per imparare (e insegnare) e che a poco servano le innovazioni didattiche e le esplorazioni metodologiche: la maniera tradizionale di insegnare la matematica, secondo me, rimane ancora un ottimo metodo! È vero che i ragazzi sono diversi da quelli di trent’anni fa: studiano molto meno e quindi, nonostante quello tradizionale sia un ottimo metodo, alcuni non hanno la possibilità di
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Giuseppe Tacconi assimilare i concetti [...]. Una volta il ragionamento era questo: “tu adesso fai questo, impara, poi vedrai a che cosa ti serve!”, ed effettivamente, dopo, piano, piano, uno capisce; il metodo tradizionale è sicuramente valido (IntPu9/68), se si vuole arrivare ad un certo tipo di risultati. La pratica nel calcolo si acquisisce esclusivamente calcolando; non ci sono altri metodi! Noi possiamo sollecitarli, possiamo parlare di tanti metodi [...] (IntPu9/70), però, senza fatica, difficilmente si riuscirà a risolvere un problema di questo tipo [...] (IntPu9/72); [...] le motivazioni saranno tante, saranno complesse [...] però i ragazzi non sono più abituati a lavorare; prima erano abituati a lavorare [...]; adesso non vogliono più lavorare e scelgono altri tipi di competenze che pensano siano più facili da acquisire. Pensano male: non è vero, non è così, però loro lo pensano […]; il fatto di voler portare tutti avanti, alla fine è squalificante per i ragazzi. C’è poco da dire, la preparazione con cui escono i nostri ragazzi dalla scuola è deprimente [...] (IntPu9/74); [...] la matematica è la prima materia che lasciano [...] (IntPu9/80); [...] ci sono stati trent’anni in cui hanno demolito la scuola [...], hanno reso “facile” la scuola. Adesso, per renderla un po’ più seria, ci vorranno tanti anni (IntPu9/82).
Lungi dal mettere in discussione, la difficoltà porta a formulare un giudizio negativo (e definitivo) su come i ragazzi imparano (o, meglio, non imparano). Anche qui, l’onere del cambiamento sembra pesare tutto sugli allievi: non è l’azione della scuola che deve adattarsi a loro, ma viceversa.
Conclusioni Non possiamo trarre conclusioni affrettate. Bisogna tener conto del contesto sociale particolarmente difficile nel quale gli insegnanti pugliesi, dei quali abbiamo riportato le parole, si trovano ad operare. Non è solo l’utenza ad essere particolarmente impegnativa; anche le concrete condizioni organizzative del modello pugliese appaiono problematiche: spesso, diventa difficile infatti conciliare la presenza degli insegnanti a scuola e al Cfp, incastrare gli orari, coordinarsi e tutto questo non può che incidere sulla percezione e sull’azione degli insegnanti stessi. Alcuni degli elementi emersi in questo lavoro ricalcano però quelli che erano emersi in una ricerca di qualche anno fa sul successo formativo in Lombardia (cfr. Tacconi, 2007), dove era stato possibile mettere a confronto i docenti di Cfp e gli insegnanti di scuola (licei, istituti tecnici e professionali), appartenenti ad una rete per il successo formativo (Resfor), e constatare una netta differenziazione tra i due gruppi. A partire dai dati raccolti, ci sembra di poter affermare che i docenti della formazione professionale iniziale appartenenti ai Centri di formazione professionale del Cnos-fap e del Ciofs-fp appaiono mediamente più in grado di fronteggiare le difficoltà poste da un’utenza come quella normalmente presente nei Cfp, rispetto ai loro colleghi delle scuole pugliesi, che sono alle prese con un tipo di utenza simile. Non mancano le positive eccezioni tra i docenti della scuola, ma, nei docenti dei Cfp, riscontriamo più diffusamente quella sorta di “ostinazione a ripescare” di cui parla Pennac (Pennac, 2008), che ne fa l’elemento caratterizzante di quegli insegnanti che l’hanno fatto diventare un “ex-somaro” e gli hanno così letteralmente salvato la vita.
Tra rassegnazione ed ostinazione: logiche di intervento con i ragazzi dell'Ifp
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È come se il confronto con un’utenza particolarmente sfidante sollecitasse nei formatori una speciale inventiva e li stimolasse a provare e a non darsi mai per vinti. Alle prese con ostacoli e sfide consistenti, questi formatori fanno esperienza diretta che certe modalità non funzionano e si sentono perciò spinti a ricercare piste alternative, per coinvolgere i soggetti e guidarli verso apprendimenti significativi. Le ricerche a cui ho fatto riferimento - e a cui rimando - non miravano a generare indicazioni sul sistema dell’Ifp, ma principalmente a costruire un sapere didattico a partire dalle pratiche dei formatori. Ciò che emerge a questo riguardo è estremamente significativo (cfr. Tacconi, Mejia Gomez 2010; Tacconi 2009) e talvolta le fonti di un sapere didattico rilevante sono costituite anche da quegli insegnanti delle Istituzioni scolastiche che, a contatto con i ragazzi della formazione professionale, si sono saputi interrogare e hanno saputo inventare strategie adeguate9. Dalla focalizzazione sul confronto tra le pratiche prevalenti nei formatori di Cfp e nei docenti di scuola “prestati” all’Ifp, possiamo però forse individuare anche alcune indicazioni complessive sul sistema. In particolare, dalla ricerca, ci sembra di poter ricavare l’importanza di mantenere o potenziare (non certo smantellare) tipologie specifiche di intervento con i ragazzi del “vietato diventare” che, per fiorire, hanno bisogno di interventi ad hoc, che spesso la scuola non riesce a mettere in atto. Ci riferiamo al sistema dell’Ifp regionale, in particolare a quelle realtà in cui l’offerta viene portata avanti avendo a cuore la formazione dei giovani e sapendo costruire ambienti formativi di qualità. Anche i percorsi scolastici, in primis quelli dell’istruzione professionale, dovrebbero essere maggiormente attenti a quelle dimensioni didattiche che vengono evidenziate nella ricerca sui formatori: la scuola può imparare dai Cfp, almeno quanto i Cfp possono imparare dalla scuola e tra i due contesti si può dare una positiva e reciproca fertilizzazione.
Riferimenti bibliografici Isfol (2007), La domanda di formazione dei giovani in diritto-dovere all’istruzione e alla formazione, Roma. Laneve C. (2009), Scrittura e pratica didattica. Un contributo al sapere dell’insegnamento, Erickson, Trento. Mortari L. (2007), Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, Carocci, Roma. Pennac D. (2008), Diario di scuola, Feltrinelli, Milano [tit. or. Chagrin d’école, Éditions Gallimard, Paris 2007]. Tacconi G. (2007), I processi di insegnamento e apprendimento nel confronto tra “Istruzione” e “Istruzione e formazione professionale” (Ifp), in ISRE, 14/2, pp. 80-111.
A questi insegnanti è intitolato un approfondimento specifico, dal titolo “Insegnare italiano e matematica al Cfp. Un’esperienza che fa cambiare”, nel volume che dà conto complessivamente delle ricerche svolte in Puglia (cfr. Tacconi, Mejia Gomez, 2010, pp. 21-91).
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Giuseppe Tacconi
Tacconi G. (2008a), Il sistema di istruzione e formazione professionale, in Girelli C., a cura di, Processi e metodologie formative. Teoria e applicazioni nella scuola, nella sanità, nell’industria, nel turismo e nel terzo settore, Erickson, Gardolo (TN), pp. 191-205. Tacconi G. (2008b), Strategie di contrasto del “Vietato diventare!”. Analisi della didattica narrata da Daniel Pennac in Diario di scuola, «Rassegna CNOS», 24/2, pp. 167-189. Tacconi (2009a), Dall’analisi delle pratiche ad alcuni modelli operativi di progettazione. Un’esperienza di ricerca e formazione con i docenti di area pratica della formazione professionale in lingua italiana della Provincia autonoma di Bolzano, «Rassegna CNOS», 25/2, pp. 101-132. Tacconi G. (2009b), Didattica dell’italiano e della matematica nell’Ifp della Federazione Cnos-fap. Report provvisorio di ricerca, Report provvisorio, Cnos-fap, Roma. Tacconi G., Mejia Gomez G. (2010), Raccontare la formazione. Analisi delle pratiche nei Centri di Formazione Professionale dell’Assoc. CIOFS/FP-Puglia, PrintMe, Taranto. Van Manen M. (1990), Researching lived experience. Human science for an action sensitive pedagogy, State University of New York Press, New York.
RivLas 78 (2011) 2, 243-254
Educare alle “religioni” nella scuola primaria Esperienze in corso MARIACHIARA GIORDA
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ella nostra società, post-secolare, post-cristiana, ma non post-religiosa, le differenze religiose - uno degli aspetti del pluralismo culturale - restano fonte di polemiche e difficoltà sia nel garantire l’uguaglianza nella scuola, sia nel facilitare la partecipazione alla vita politica e culturale della società, sia nell’impegno di creare il sentimento di cittadinanza condivisa. Più precisamente, le questioni riguardanti la religione a scuola continuano a testimoniare l’estrema complessità e la natura particolarmente delicata dei problemi in causa e confermano la necessità di trattare la diversità religiosa come una componente dell’educazione interculturale1.
Se le religioni conservano un peso ed una funzione sociale, non può non esserci uno spazio per l’educazione al religioso, alle religioni. Per dirla con Delors, uno dei compiti dell’educazione è «insegnare la diversità della razza umana e al tempo stesso educare la consapevolezza delle somiglianze e dell’interdipendenza fra tutti gli esseri umani (…). Ma se si debbono capire gli altri, è necessario anzitutto capire se stessi. La scuola deve aiutare i giovani a capire chi sono. Solo allora essi saranno in grado di mettersi nei panni degli altri e capirne le reazioni. Sviluppare questa empatia nella scuola produce frutti in termini di comportamento sociale per tutta la vita. Per esempio, insegnando ai giovani ad adottare il punto di vista degli altri gruppi etnici e religiosi, si può evitare quella mancanza di comprensione che porta all’odio e alla violenza tra adulti. L’insegnamento della storia delle religioni e dei costumi può servire come un utile punto di riferimento per il comportamento futuro»2. 1 Mc. Giorda, Il “caso” Italia: storia, attualità, progetti, Studi e Materiali di Storia delle Religioni 2 (2009), 469-496. 2 J. Delors, Nell’educazione un tesoro, Armando, Roma 1997, 86.
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Come si legge nel Rapporto Debray (2002) l’insegnamento del fatto religioso è motivato da «la ricerca, attraverso l’universalità del sacro con le sue proibizioni e i suoi permessi, di un fondo di valori unificanti, per riannodare a monte l’educazione civica e temperare l’esplosione di riferimenti come la diversità, senza precedenti per noi, delle appartenenze religiose in un paese di immigrazione felicemente aperto in senso largo»3. La stessa esigenza di trattare le diversità religiose come componente dell’educazione interculturale è stata ribadita da dichiarazione e documenti delle istituzioni europee che hanno, negli ultimi anni, riproposto con vigore la necessità di tenere in considerazione il peso culturale, politico, sociale delle religioni, delle confessioni, delle credenze, nella stesura dei programmi, nell’ideazione dei curricula scolastici4. L’educazione alle religioni è, a livello cognitivo, uno degli strumenti fondamentali di educazione alla cittadinanza globale ed è un antidoto contro derive teoriche ma anche contro comportamenti fondamentalisti e violenti. L’analfabetismo religioso diventa un ostacolo nella costruzione della cultura alla cittadinanza responsabile. Per quanto concerne la conoscenza delle religioni, siamo convinti che l’approccio cognitivo e razionale non sia in contrasto, ma anzi sia premessa per maturare discernimento critico in vista di scelte personali (di adesione o non adesione ad una confessione). In classi scolastiche contraddistinte dal pluralismo, anche religioso, vi è la necessità di conoscere le religioni, poiché queste sono tratti culturali che non possono e non devono essere ignorati nella convivenza di tutti i giorni: inutile fare finta che non esista chi non si avvale dell’ora di religione cattolica, chi non mangia il prosciutto a mensa, chi è vegetariano per prassi religiosa, chi non va a messa alla domenica e neppure al catechismo, chi sta a casa in alcuni momenti dell’anno non per tutti chiaramente riconoscibili… Inutile e dannoso, perché presta al fianco al dilagare dell’ignoranza, dell’indifferenza, dei pregiudizi. I bambini devono imparare, o meglio vogliono capire perché Abdelali non mangia il prosciutto, perché Alexia per andare
Si vedano: R. Debray, L’insegnamento del fatto religioso in Francia. Per una laicità d’intelligenza, Il Regno-documenti 15 (2002),514-520. (or. L’enseignement du fait religieux dans l’école laïque, O. Jacob, Paris). In Italia, già Ernesto Balducci (1922-1992) esortava a prender atto che «nell’Europa post-ideologica i confronti tra le coscienze vanno impostati ex novo, in vista di un ecumenismo che sorpassa il perimetro delle confessioni cristiane e delle religioni per comprendere anche quei convincimenti umani che hanno come loro principio di legittimità la fedeltà della ragione alle proprie autonome risorse. L’età premoderna è l’età delle guerre di religione, quella moderna è l’età delle guerre ideologiche, quella postmoderna è l’età del libero confronto delle coscienze disposte a contribuire a un progetto storico comune, sulla base di un ethos cosmopolitico»: E. Balducci, La paideia europea nei prossimi anni, Testimonianze 33 (1990), 12, 21-34, spec. 26; E. Balducci, L’uomo planetario. Fiesole, Edizioni Cultura della pace, 1990. 4 F. Pajer, Scuola pubblica, diversità religiosa, cittadinanza democratica: un paradigma europeo, Religioni e Società, 25 (2010), 32-49. 3
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nella “sua” parrocchia attraversa la città, perché la mamma di Amhed porta sempre un velo sui capelli, perché Giovanni Lin non crede in nessuna divinità e perché Adele, che è italiana, fa l’ora alternativa.
La proposta Queste riflessioni, qui riassunte in premessa, hanno portato all’idea di realizzare un percorso, rivolto ad alcune scuole elementari di Torino e della provincia di Roma, che permetta di ragionare sul senso della democrazia e della convivenza plurale, proprio a partire dalla conoscenza delle diverse religioni presenti nel nostro territorio. Come si legge nel documento ministeriale di indirizzo per la sperimentazione dell’insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione” del marzo 2009, il concetto di convivenza civile si compone di diversi livelli conoscitivi, tra cui, oltre alla conoscenza della storia e della Costituzione, si può individuare «la conoscenza del contesto sociale nel quale i ragazzi si muovono e agiscono: essi non possono prescindere dalla conoscenza delle fondamentali dinamiche europee ed internazionali, di alcune delle altre lingue, culture e religioni». La globalizzazione e i processi di incontro tra culture differenti, se da una parte portano a fenomeni di scambio e di diffusione di diritti, dall’altra rischiano di dare adito a forme di intolleranza, particolarismo o di apatia: per opporsi a tali derive è necessario uno sforzo di conoscenza e di impegno per ristabilire un nuovo equilibrio di convivenza. La presenza nelle scuole di un numero sempre maggiore di ragazzi con culture, lingue e religioni diverse pone in primo piano il bisogno di instaurare un dialogo costruttivo e rispettoso, un ascolto dell’altro e degli altri, come d’altronde viene sostenuto dalla Costituzione italiana e dalla dottrina legislativa internazionale. Se uno dei compiti della scuola consiste nel formare cittadini responsabili, capaci promuovere percorsi democratici di inclusione e di dialogo, allora occorre ripartire dalla conoscenza reciproca, che evita di generare pregiudizi e paure: conoscere le religioni dei ragazzi che frequentano le nostre scuole è un primo passo per costruire quel terreno comune in grado di accogliere e riconoscersi reciprocamente. La proposta avanzata consiste quindi nella realizzazione di percorsi di formazione e di discussione sull’educazione alla cittadinanza, a partire dalla conoscenza della storia e delle tradizioni delle religioni; per intraprendere un percorso così complesso è certo necessario un confronto con gli insegnanti delle classi interessate, con il preciso obiettivo di capire le necessità di bambini e ragazzi. Da un punto di vista operativo, metodologico e contenutistico, il progetto che sto descrivendo si pone nel solco di una serie di sperimentazioni di insegnamenti di storia delle religioni, inaugurata in Italia dall’insegnamento proposto al liceo valdese di Torre Pellice dal 1984 e proposto in altri contesti educativi, come al liceo Sociale, in una sperimentazione che prosegue per il III anno consecutivo, e in cui sono io
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la docente, nella convinzione che le religioni rappresentino un tratto culturale su cui vale la pena riflettere in una prospettiva laica e scientifica5. Per quanto concerne il ciclo d’istruzione primaria, in particolare nel 2010, la scuola elementare di Sonnino, in provincia di Roma, Istituto Leonardo da Vinci, in seguito ad episodi di chiusura nei confronti delle culture di provenienza dei genitori di alcuni alunni6, ha progettato e affidato un corso di Storia delle religioni ad alcuni giovani studiosi di Storia delle religioni, che in larga parte sono membri della redazione di IRInews, newsletter di informazione sugli insegnamenti delle religioni che da oltre un anno facciamo uscire ogni tre mesi. A Torino, il progetto in forma sperimentale è partito nell’ottobre 2010, con la consulenza scientifica di chi scrive.
Componenti e modalità del progetto Nel concreto il progetto prevede tre modalità di intervento: 1. Laboratori nelle classi: gli educatori dell’associazione Acmos, che si occupa di educazione alla cittadinanza, promuovono dei percorsi laboratoriali di discussione e di approfondimento, da svolgere nelle scuole primarie e secondarie di I grado. I laboratori potranno essere eseguiti in diverse modalità, a seconda delle specifiche esigenze della classe. Gli incontri possono essere a frequenza discrezionale a seconda dei casi e delle possibilità di percorso più o meno approfonditi, che durino anche l’intero anno scolastico. I nuclei tematici possono vertere : - su discussione e definizione del concetto di religione, a partire dalle preconoscenze dei ragazzi e ragionando sulle abitudini personali di ognuno e sui pregiudizi e stereotipi; - sul concetto di pluralismo religioso e il contesto democratico; - sulle principali religioni, presentate a partire dai loro simboli, dalle tradizioni, dai racconti e dalle principali feste. 2. Percorsi di formazione per insegnanti: gli insegnanti coinvolti nei laboratori potranno beneficiare di un incontro di formazione preliminare di circa 1 ora per ciascun laboratorio, in modo da poter essere preparati alla realizzazione del percorso in classe. Tali incontri saranno tenuti da esperti competenti in materia, in collaborazione con l’Università di Torino, il Centro di Scienze religiose di Torino, l’Università La Sapienza di Roma e l’Università RomaTre. Durante l’incontro vengono affrontati temi come questi: introduzione generale alla storia delle religioni (approccio
Si veda Mc Giorda: http://www.storicamente.org/05_comunicare/ora_di_religione.htm del 2009 e Mc. Giorda, Storia delle religioni nei corsi superiori. L’esperimento in un liceo cattolico di Torino, Rivista lasalliana 76 (2009)4, 663-674. 6 Si veda il racconto di questo episodio: http://acmos.net/2010/10/caso-%E2%80%9Cburqa%E2%80%9Da-sonnino) 5
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scientifico e metodi) - conoscere e non trasmettere le religioni (learning about religions vs. learning from religions) - diffusione delle religioni nel mondo contemporaneo: per un atlante storico-geografico - la conoscenza delle religioni come sapere necessario all’interazione tra culture (nell’ottica dell’educazione interculturale, dunque). 3. Seminari pubblici: per rispondere alle esigenze, già emerse in modo esplicito da molte scuole, di individuare momenti di discussione e di formazione tra docenti di scuole di gradi differenti, si propone l’organizzazione di alcuni seminari pubblici per condividere aspetti teorici e didattici della storia delle religioni, con la consulenza scientifica dei docenti delle Università partner. Con l’ausilio di alcuni strumenti Laboratori in classe: elemento fondante del progetto sono i laboratori proposti alle scuole, basati sulla modalità della discussione, del dialogo guidato da un adulto: i ragazzi trovano nel laboratorio uno spazio di espressione delle proprie idee e dei propri dubbi, senza la preoccupazione di essere giudicati o valutati dagli insegnanti o dai propri compagni. Il conduttore del laboratorio riesce a proporre momenti di approfondimento contenutistico a partire dei ragionamenti e dalle proposte degli studenti, guidando la discussione, riprendendo e sottolineando alcune riflessioni emerse o ponendo nuovi interrogativi utili al ragionamento collettivo o, infine, tirando le fila di quanto emerso7. Incontro con gli esperti: una parte del progetto prevede l’organizzazione di seminari e di percorsi di formazione per gli insegnanti. Tale scelta permette di saldare il rapporto tra il mondo accademico con quello dell’insegnamento, per condividere contenuti, prassi e preoccupazioni legate al tema della storia delle religioni. Produzione di materiali: Durante l’ultimo seminario e a conclusione dei laboratori sarà distribuito un libretto di presentazione dei contenuti trattati, degli interventi e dei materiali prodotti dai bambini, in modo tale che sia utile sia come strumento di conoscenza per le famiglie sia come strumento di divulgazione per altre scuole e agenzie formative. Utilizzo dei nuovi media: durante i laboratori o le sessioni formative sarà proposto l’utilizzo di film e documentari, ma anche l’analisi di siti internet o di musiche che possano aiutare lo sviluppo del ragionamento.
Un percorso didattico possibile Durante tutti gli incontri verrà fatto un cartellone che mano a mano si arricchirà contenendo gli aspetti più salienti che verranno fuori dai bambini. Un percorso possibile, da sviluppare e approfondire diversamente, a seconda delle esigenze, potrebbe svolgersi a partire dai seguenti snodi tematici: Tutti i tipi di laboratorio cominceranno con un Brain storming sulla parola religione, cercando di far emergere riflessioni, domande e un conseguente dibattito.
Alcuni titoli utili possono essere: G. Filoramo, F. Pajer, Tante religioni, un solo mondo, SEI, Torino 2010; L. Mentasti, C. Ottaviano, Cento cieli in classe. Pratiche, segni e simboli religiosi nella scuola multiculturale, Unicopli, Milano 2008; O. Morello, I colori della pace. Storie di introduzione alle culture e alle religioni di altri paesi, Armando editore, Roma 2010.
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- cogliere il linguaggio religioso inserito nei vari linguaggi simbolici umani (feste, abbigliamento, cucina, luoghi…) - decodificarlo e interpretarlo in funzione della comprensione del contesto reale di vita
- saper mettere in relazione temporale e geografica fatti religiosi ed esperienze dell’uomo del passato e del presente - comprendere ciò che ci lega al passato (religione come tradizione) e ciò che invece libera (religione come profezia)
- iniziare a esplorare la dimensione religiosa dell’esperienza quotidiana in famiglia e negli ambienti di vita - inquadrare la ‘religione’ come fenomeno onnipresente nelle culture e nelle storie dei popoli - risvegliare l’interrogativo su Dio, la trascendenza, il senso della vita, della libertà, dell’eternità, della speranza, dell’attesa…
- cominciare a comprendere (o almeno a intuire) i fondamenti delle leggi che regolano le diverse tradizioni religiose - saper avvicinarsi, per approssimazioni esemplificative concrete, a idee chiave come tradizione, culto, comunità, pratiche religiose, feste, sacrifici rituali, condotta morale…
Linguistiche
Storiche
Psicologiche e antropologiche
Sociali, etiche e civiche
COMPETENZE
- individuare alcuni segni caratteristici della condotta umana di seguaci dell’una o dell’altra tradizione religiosa - cogliere aspetti della vita sociale di un individuo o di un gruppo, che dipendono dalla tradizione religiosa cui appartiene - distinguere nell’ambiente fatti o azioni di natura civile e altri di natura religiosa
- interrogarsi sui piccoli e grandi perché della vita quotidiana - partendo dal “qui e ora”, riflettere su l’ “oltre” nel tempo e nello spazio (passato e futuro) - individuare situazioni problematiche cui l’uomo, nei suoi limiti, non può da solo trovare soluzione - interrogarsi su ciò che si può definire mistero
- riconoscere le tradizioni religiose, la loro nascita e i loro sviluppi, attraverso documenti storico-geografici e attraverso confronti di fatti, personaggi, situazioni (metodo comparativo)
- saper nominare e comunicare aspetti relativi alle religioni, credenze e visioni del mondo, pratiche religiose - saper ascoltare e comunicare intorno alle diverse tradizioni religiose - saper riesprimere in parole proprie (o con altre forme espressive) un racconto religioso
CAPACITÀ
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Sarà proposta una mappa del mondo con attenzione alla diffusione religiosa, soprattutto in Italia. Partire dalle esperienze personali di ogni bambino con domande sul loro vissuto e sulle abitudini loro e della famiglia di appartenenza. Verranno poste domande personali e di contenuto, volte a capire quale sia la percezione delle religioni della classe. Hai una religione? Che cosa senti quando preghi? Dove vai a pregare? Vi vestite in un modo particolare? Quali sono le tue abitudini? Ci sono delle regole da seguire? La tua famiglia ha delle abitudini religiose? Partecipate a delle feste o cerimonie? Un incontro sarà utilizzato per imparare i simboli delle principali religioni nel mondo: Cristianesimo, Islam, Ebraismo, Buddhismo e Induismo, attraverso la loro costruzione con materiali diversi. Per presentare le diverse religioni verranno utilizzate diverse modalità tra cui il gioco e la condivisione in gruppi di contenuti. Quali sono i luoghi di culto di ogni religione? Ci sono abiti particolari per ogni credenza? Quali sono le Feste e i cibi unici per le religioni? Chiederemo alla classe di portare foto che rappresentino il più grande momento di festa per loro e la loro famiglia, oltre lavori di gruppo attraverso immagini di diverse festività religiose, più o meno conosciute. Lettura di racconti per ogni religione. Si cercherà di capire cosa ci interessa davvero della religione: che cosa si festeggia e perché? Quali le attività durante le feste? Musiche e danze?
Inizi dell’esperienza nella classe II C, a Torino: elementi descrittivi - La classe in cui è partita la sperimentazione è una seconda elementare del Circolo didattico Santorre di Santarosa, composta da 23 bambini di cui otto italiani, due cinesi, un albanese, tre romeni, un colombiano, un peruviano, tre marocchini, due egiziani, un tunisino, un nigeriano. - I maestri hanno scelto di dedicare un’ora e mezza alla settimana, nelle 4 ore di compresenza che hanno a disposizione, per fare un percorso di storia delle religioni per i bambini. - Il mio ruolo di studiosa e docente di Storia delle religioni è stato utile sia per quanto concerne la formazione e la consulenza ai maestri, con cui stiamo costruendo il percorso, sia per gli interventi diretti in classe, che avvengono ogni due settimane. - I primi incontri, avvenuti tra l’autunno e l’inverno 2010, costituiscono un esempio parziale, ma già interessante, di come un percorso storico-religioso può essere un importante itinerario pedagogico interculturale anche per dei bambini di 6-7 anni. - Ripercorrendo le tappe, nel primo e nel secondo incontro, ai bambini è stato chiesto: Che cosa è per te la religione? Qual è la prima parola che ti viene in mente quando senti parlare di religioni? Alcuni bambini hanno dato le stesse riposte e tutte
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le parole e i verbi sono stati trascritti su un cartellone e poi commentati: mondo, pianeti, mare, alberi, perché Dio ha creato il mondo, i pianeti, il mare e gli alberi, ubbidire, perché si deve ubbidire a Dio, arcobaleno, cielo, perché la religione fa venire in mente una cosa bella, Dio, perché ogni religione ha un dio, pregare/preghiera perché se preghi Dio ti aiuta, perché i genitori ti fanno pregare, punizione perché se ti comporti male Dio ti punisce, amore, perché la religione ti fa amare gli altri, aiutare, perché Dio aiuta le persone malate. - La discussione e il fatto di avere lasciato spazio ai bambini è stato utile per ragionare successivamente sulla religione di appartenenza di ogni bambino dei suoi genitori o dei suoi parenti, poiché vi sono anche alcuni casi di bambini le cui famiglie, e quindi anche loro, non credono e non professano alcuna religione. La maggioranza degli alunni della classe si divide però tra cristiani, cattolici e ortodossi e musulmani: un buono spunto per parlare di queste religioni, dei loro nomi (perché i cristiani si chiamano così, perché i musulmani hanno questo nome) e per spiegare la centralità di Gesù Cristo, fin dal nome appunto, per i cristiani ma anche il ruolo di Gesù nel Corano, per i musulmani. Nessuno, in classe, sapeva fino a quel momento il perché del nome di queste religioni e nessuno ricordava l’importanza di Maometto/Mohammed nell’Islam. L’obiettivo del terzo incontro è stato ripetere e far ricordare ai bambini che in Italia, come in classe, ci sono le religioni cristiana, cattolica e ortodossa, e musulmana ma anche altre che compongono un mosaico delle religioni, che arrivano da paesi anche molto lontani. Se la piantina dell’Italia è nota a tutti e non è stato così difficile descrivere la quantità di religioni e la loro diffusione nel nostro paese, più arduo è stato fornire qualche elemento per orientarsi nella mappa del mondo: tanti paesi, tante religioni, per lo più sconosciuti per dei bambini di II elementare. I maestri hanno scelto di partire dai paesi rappresentati in classe, per spiegare ai bambini qualche nozione di geografia e per descrivere, durante il quarto e il quinto incontro, quali sono le religioni prevalenti in quei paesi: il compito è stato molto faticoso e anche ambizioso perché con allievi così piccoli si tratta di fornire, spesso per la prima volta, rudimenti di storia e di geografia. La mappa che ora è appesa sulle pareti della classe testimonia lo sforzo fatto in direzione di una prima e semplificata mappa delle religioni del mondo contemporaneo, che i bambini possono osservare e su cui si può lavorare procedendo con il percorso. La celebrazione della festa del sacrificio, alla fine del mese di novembre, è stato un ottimo spunto per introdurre il tema delle feste religiose. Alcuni bambini infatti non erano andati a scuola per due giorni e, a partire dalla curiosità degli altri bambini, ha fornito l’occasione per raccontare che cosa è la festa del sacrificio, come si festeggia e perché si festeggia. I bambini di religione islamica hanno spiegato in che modo si è svolta per loro la festa: si erano riuniti tutti nella sala di preghiera -per adessopiù grande e importante di Torino; i maestri hanno letto la storia del sacrificio di
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Ibrahim/Abramo, secondo la sura 37, (vv. 102-108), l’hanno commentata con i bambini e hanno poi letto il racconto del sacrificio di Abramo che per obbedire al Dio era disposto a sacrificare il suo unico figlio Isacco, secondo quanto è scritto in Genesi 22. I bambini hanno ovviamente notato delle comunanze, non solo nei nomi ma anche nei meccanismi delle storie: entrambi raccontano di un uomo, Abramo, disposto ad un atto estremo per ubbidire a Dio: per i bambini ciò vuol dire che è importante credere e fidarsi di Dio, per i cristiani e per i musulmani. Il racconto della festa, la lettura dei testi, il commento di questi hanno occupato tre lezioni, di cui quello centrale svolto da me con i maestri. Il nono incontro e il decimo incontro, che ho potuto nuovamente svolgere in classe, ho introdotto il tema delle feste religiose: Che cosa è una festa religiosa? Perché si festeggia? Per ricordare qualcosa? Quante volte si festeggia? Che cosa facciamo quando festeggiamo?In particolare ho iniziato a introdurre la religione ebraica, in modo molto rapido, perché l’obiettivo era quello di spiegare la festa di Hannukah, in modo tale che i bambini possano acquisire conoscenza di alcune delle feste religiose che si svolgono nello stesso periodo dell’anno (da Diwali, alla Festa del sacrificio, a Hannukah, al Natale). L’introduzione della religione ebraica ci ha spinti però a costruire una linea del tempo su cui iniziare a mettere i punti di nascita di cristianesimo, islam e ebraismo, in modo che i bambini inizino a orientarsi anche nelle categorie della storia, evitando il tono favolistico del “tanti anni fa”. I bambini hanno costruito degli oggetti tipici delle feste, da esporre in classe: hanno realizzato in cartoncino un candelabro di Hannukah, le cui candele sono state colorate giorno dopo giorno per otto giorni, seguendo la scansione della festa; hanno disegnato delle moschee, dei cartoncini di auguri per Diwali, un presepe e degli alberi di Natale con cui la classe II C è stata addobbata anche in previsione della festa di Natale con i genitori, durante la quale tutti i bambini hanno potuto presentare alle famiglie i loro lavori, esponendo quanto hanno imparato nei primi mesi di questa sperimentazione.
Prime valutazioni in itinere Come ho già detto, non posso trarre nessuna conclusione, per adesso, perché il percorso è troppo breve e ancora in via di sviluppo, ma vorrei dare la voce ai bambini, perché nella semplicità delle loro riflessioni è possibile cogliere qualche traccia delle ricadute di un percorso di questo tipo. Credo che la mia presenza, accanto ai maestri, ma anche il lavoro che questi stanno facendo, con continuità e determinazione, rappresenti un’ottima sinergia di approcci diversi e un’alternanza di figure più o meno familiari per i bambini ha aiutato a definire la specificità di questa nuovo centro d’interesse che è la “storia delle religioni”.
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Chiedendo ai bambini che cosa pensano di questo percorso in via di sviluppo, mi dicono: “Mi è piaciuto imparare la storia delle religioni: mi sono divertita e ho imparato tante cose nuove che prima non sapevo, per esempio che Abramo è bravissimo sia per i cristiani sia per i musulmani”. Un bambino mi ha detto “Ho imparato dove è l’Egitto e dove è il Marocco”, mentre un altro “Ho imparato che Dio e Allah si assomigliano”. Una bambina ha detto: “Ho imparato la festa di Hannukah e perché si festeggia… tutti festeggiano: i musulmani riposano il venerdì, gli ebrei festeggiano il sabato e i cristiani la domenica”. Per un altro bambino è stato interessante scoprire che il muro che è rimasto agli ebrei si chiama muro del pianto. Una bambina, molto stupita, ha riferito che la cosa che più l’aveva colpita è il fatto che “Uno può scegliere una religione e un Dio” e pertanto “è importante sapere e scoprire perché così posso scegliere meglio la mia religione”. Un bambino ha detto che in questo modo quando viaggia capisce di più quello che vede e può anche spiegare ai suoi genitori cose che non sanno. Tanti bambini vorrebbero vedere Gerusalemme, città importante per tre religioni, i cristiani i musulmani e gli ebrei. Un sentimento comune è, senza dubbio, l’importanza di avere capito alcune abitudini, alcuni tratti di vita dei propri amici che prima non si capivano o non si conoscevano: un auspicio per il lavoro futuro. I maestri, Simona Carchedi e Milko Scaglione, sono stati attori indispensabili di questo percorso: a loro vorrei dare la voce per esprimere alcune riflessioni di contenuto e di metodo. “Noi insegnanti riteniamo che l’esperienza che stiamo vivendo nella nostra classe sia molto utile, pur se molto complessa per gli argomenti trattati. Sottolineiamo che questo percorso didattico, non previsto dalla programmazione curricolare, risulta stimolante ma particolarmente difficile da gestire in quanto si è consapevoli di non avere la preparazione adeguata. I bambini hanno risposto positivamente alle prime lezioni, essendo coinvolti sia nell’ascolto dei racconti, sia nella preparazione di cartelloni. Quest’ultimi sono stati realizzati quasi interamente dagli alunni, i quali hanno scritto le loro “idee e conoscenze” riguardo il termine religione e hanno colorato la cartina del mondo disegnata dai maestri, per essere così in grado di localizzare le varie religioni nel mondo. L’attività in classe, sia quella di ascolto sia quella pratica - disegni e schede prestampate - deve essere mirata ad un obiettivo specifico, in modo che i bambini riescano ad assimilare un concetto e lo comprendano, altrimenti il rischio è che la spiegazione sia vana e poco chiara. La nostra classe, con una forte impronta multietnica, risulta essere un luogo ideale per affrontare la tematica delle differenze religiose. I bambini nel corso del ciclo didattico, comprenderanno che le differenze, spesso portatrici di pregiudizi e preconcetti, possono in realtà arricchire e creare stimoli culturali ed educativi”. - “Secondo noi è opportuno che la storia delle religioni venga affrontata e spiegata ai bambini di una scuola primaria; occorre però essere consapevoli che ogni singola lezione debba essere presentata in maniera molto semplificata e soprattutto è
Educare alle “religioni” nella scuola primaria
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necessario integrare la spiegazione orale con lavori pratici per favorire l’apprendimento di tematiche così “astratte”. - “Il percorso didattico è stato inizialmente presentato alle famiglie in una riunione esplicativa alla presenza del team di classe e della dott.ssa Giorda; non è stato semplice, da subito, far comprendere che l’esperienza proposta non voleva essere un modo per veicolare dogmi o concetti a bambini di religioni diverse ma un primo contributo ad un’effettiva integrazione culturale per famiglie di paesi diversi. Dopo le prime riserve si è creato un clima positivo e la proposta ha suscitato un consenso unanime. Per noi insegnanti è importante avere l’assenso delle famiglie perché poi, noi crediamo, i bambini potranno continuare l’azione di assimilazione e discussione anche all’interno delle proprie famiglie. Ogni alunno, speriamo, potrà capire attraverso la discussione e la partecipazione attiva a questa esperienza didattica che la scuola può essere un “posto” dove non solo si impara a leggere o a contare, dove si acquisiscono regole, ma anche un luogo di interazione e reciprocità, dove lo scambio di idee e di opinione contribuisce ad un nuovo senso della cittadinanza”. Anche i genitori sembrano, per il momento, soddisfatti del lavoro che si sta svolgendo e ciò che li colpisce di più è che i figli tornino raccontando storie e questioni che loro stessi ignorano: “Ci stiamo accorgendo che anche a noi servirebbe un corso di storia delle religioni”, dice una mamma. E un papà mi dice: “Avevo paura che si trattasse di una replica del catechismo, ma mi accorgo che è totalmente un’altra cosa”. Dovendo infine sollevare alcune criticità utili per i prossimi mesi ma anche per svolgere un percorso di questo tipo in futuro in altri contesti, credo che una delle chiavi sia l’essere più semplici possibili ma non superficiali: una pratica importante, che non sempre mi riesce, ma che è fondamentale per non cadere nella trappola del “siamo tutti uguali” o del folklore spirituale e religionistico. Il laboratorio che stiamo svolgendo insieme, non è un’esplorazione di alcuni aspetti, tra il curioso e l’interessante, di alcune religioni contemporanee, ma è un cammino storico-religioso, fondato su dati scientifici e condotto con una precisa metodologia e con gli obiettivi educativi che ho tentato di illustrare sopra (v. la tabella di p. 248). Credo infatti che si gettino qui le basi per un’educazione che davvero parte dal basso e che coinvolge da subito la crescita dei bambini in anni in cui è possibile incidere nel profondo. Credo anche che, se è vero che le “materie” per dei bambini delle elementari siano già tante e, a volte, un poco confuse tra loro, la autonomia della storia delle religioni, come disciplina a sé, riconoscibile per i bambini oltre che ai loro genitori, è un’occasione importante per mettere a fuoco temi che difficilmente si riescono a trattare a scuola.
RivLas 78 (2011) 2, 255-292
Proporre la lettura biblica nella formazione culturale oggi
Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth (1) ERNESTO BORGHI 1
1. Premessa generale Inizia con questo articolo un ciclo di contributi con cui intendo presentare l’importanza della lettura dei testi biblici per la formazione scolastica e culturale in genere anzitutto nella società italiana contemporanea. Scopo di queste pagine non è fare dell’apologetica cristiana per il XXI secolo e neppure raggiungere particolari verità scientifiche in chiave laicistica. Spero di riuscire a mostrare a lettrici e lettori – insegnanti di scuola secondaria in primo luogo – quali siano gli aspetti fondamentali, in termini di contenuti e di metodo, su cui è culturalmente serio ed opportuno fondare il confronto con i testi biblici e come ciò possa avvenire nella formazione culturale odierna di adolescenti e giovani e adulti. La prima serie sarà di argomento neo-testamentario e vedrà la figura e l’opera di Gesù di Nazareth detto il Cristo quale oggetto principale, trattata secondo quattro
Nato a Milano nel 1964, sposato e padre di due figli, ha studiato all’Università degli Studi di Milano e all’Università di Fribourg, conseguendo la laurea in lettere classiche (1988), la licenza in scienze religiose (1993) e il dottorato in teologia (1996). Dal 1992 è docente universitario di materie bibliche. Attualmente insegna esegesi biblica all’ISSR “Duns Scoto” di Nola, al CSSR a Trento e all’ISSR di Bolzano ed esegesi e teologia del Nuovo Testamento all’Università Salesiana a Torino. Dal 2003 coordina la formazione biblica nella diocesi di Lugano e presiede l’Associazione Biblica della Svizzera Italiana (www.absi.ch). Tra le pubblicazioni recenti: Il Tesoro della Parola. Cenni storici e metodologici per leggere la Bibbia nella cultura di tutti, Borla, Roma 2008; Credere nella libertà dell’amore. Per leggere la lettera ai Galati, Claudiana, Torino 2009; D’ soltanto una parola. Linee introduttive alla lettura della Bibbia, Effatà, Cantalupa (TO) 2010.
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momenti fondamentali: la nascita e infanzia; la predicazione in opere e parole; l’ultima cena, la passione, la morte e le apparizioni del Risorto; i primi decenni delle comunità dei discepoli sino alla redazione finale delle versioni evangeliche canoniche.
2. Premessa specifica Tutto quanto concerne la nascita e l’infanzia di Gesù di Nazareth è stato raccontato, per quanto concerne il Nuovo Testamento, nei primi due capitoli del vangeli secondo Luca e secondo Matteo. Essi hanno occupato, nei secoli, l’attenzione di teologi, pittori, scultori2 e della pietà popolare, perché affrontano un tema estremamente suggestivo e importante: i presupposti e i primi tempi della vita di Gesù. Sono testi di storia? Sono pura invenzione? La riflessione teologica e culturale in genere si è molto confrontata con questi due ultimi interrogativi, offrendo le risposte più diverse. La lettura dei momenti qualificanti di questi quattro capitoli evangelici viene qui proposta per tentare di offrire degli elementi seri di risposta alle due seguenti domande: quale importanza hanno essi per la fede e la cultura cristiane delle origini e di oggi? Quale genere di storia esprimono? E vi sono anche altre domande, comunque assai importanti. Delle quattro versioni evangeliche canoniche soltanto Matteo e Luca si occupano delle premesse iniziali e della prima fase della vita di Gesù e i testi neo-testamentari più antichi – anzitutto le lettere sicuramente dettate da Paolo di Tarso – si fermano alla morte e alla risurrezione del Signore (cfr., per es., 1Cor 2,2; 15,3-8). Perché e a chi interessava Gesù prima dell’inizio della sua missione pubblica? In Matteo-Marco-Luca-Giovanni non si vedono i discepoli interrogare il loro Maestro sui trent’anni precedenti alla sua missione né porsi il problema della sua coscienza nascente o della sua formazione religiosa. Per i suoi vicini come per la folla affascina soltanto la sua messianicità. Lo si vedrà all’ora della Passione: tutti fuggiranno. Gesù sarà ridivenuto chi era al tempo di Nazareth: un individuo senza discepoli, semplicemente un essere umano, in mezzo ad un’amnesia generalizzata3. Cionondimeno Matteo e Luca risalgono alle “origini” dell’umanità e divinità di Gesù: perché lo fanno? Come lo fanno? E altre questioni potrebbero ancora essere poste. Per tentare di rispondere sia pure sinteticamente a quanto posto sinora, sarà utile toccare, sia pure per sondaggi significativi, anche il terreno degli apocrifi evangelici
A titolo esemplificativo, si vedano M. O’ Kane, The Artist as Reader of the Bible. Visual Exegesis and the Adoration of the Magi, in “Biblical Interpretation”, 13.4 (2005), 337-373; S. Zuffi, Episodi e personaggi del Vangelo, Electa, Milano 2003; Z. Zuffetti, La sacra Famiglia nell’arte, Ancora, Milano 2007. 3 Cfr. F. Quéré, Jésus enfant, Desclée, Paris 1992, pp. 13-14. 2
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neo-testamentari: non possono essere sovrapposti alle narrazioni canoniche, ma neppure essere trascurati, in particolare oggi, epoca in cui si assiste ad esaltazioni più o meno immotivate e censure altrettanto infondate di tali testi4. Prima di addentrarci nei temi evocati, è indispensabile, alla luce dei contenuti offerti dalle narrazioni bibliche nel loro complesso, esplicitare due presupposti da cui prenderà le mosse la nostra attenzione esegetico-ermeneutica: a) i testi biblici di carattere storico sono, nello stesso tempo, “fonti” e “testimonianze”5. In quanto fonti essi conducono a ciò che la critica storica chiama verità storica; come testimonianze essi conducono all’operazione sostanziale che costituisce questi testi, alla loro intenzionalità verso lettrici e lettori futuri (secondo una distinzione che dipende dall’interesse del lettore, non dal testo biblico); b) d’altronde resta ancora vivissima una questione di fondo: la verità della storia è soltanto la verità storica nel senso scientifico corrente di tale espressione da tre secoli a questa parte? E, accanto a questa, è giusto porre anche un’altra domanda: avere accesso alla verità della storia, per chi si riferisce agli scritti biblici, suppone necessariamente una lettura di fede da parte di chi legge? Se si accetta la distinzione sovramenzionata tra fonte e testimonianza e se si reputano i testi storiografici della Bibbia come testimonianze – non soltanto della storia alla quale essi si rapportano, nella confusione dei suoi avvenimenti, ma anche del modo in cui essi afferrano questa storia – allora indubbiamente la lettura di tali testi suppone una fede, ossia una fiducia accordata a tali testimonianze o, perlomeno, una presa in considerazione di quanto essi pretendono di essere. Il secondo presupposto è interno alle stesse versioni evangeliche che cercheremo di indagare. L’attenzione metodologica dei redattori evangelici è contenuta anzitutto nel prologo lucano: «1Appunto perché molti hanno posto mano a comporre una narrazione degli avvenimenti compiuti(si) tra noi, 2come ce (li) hanno trasmessi quelli (che furono) dall’inizio testimoni oculari e che sono divenuti servitori della parola, 3è sembrato opportuno anche a me, dopo aver seguito tutto dal principio con cura, scrivere per te, in modo ordinato, illustre Teofilo, 4affinché, in merito alle cose di cui hai ricevuto informazione (i.e. insegnamento), tu possa riconoscere la solidità».
L’autore intende risalire nel suo lavoro di documentazione ricostruttiva non soltanto dall’inizio, ossia dall’avvio della vita pubblica di Gesù, ma dal principio, ossia ai
Di notevole rilievo può essere, a questo scopo, la consultazione di A Synopsis of the Apocryphal nativity and Infancy Narratives, by J.K. Elliott, Brill, Leiden-Boston 2006, di cui si può utilmente vedere la recensione di G. Ravasi, Il Gesù degli apocrifi, in «Il Regno attualità» (15 dicembre 2010, pp. 757760). 5 Cfr. J.-M. Carrière, Ouvertures, in ACFEB, Comment la Bible saisit-elle l’histoire?, a cura di D. Doré, Cerf, Paris 2007, pp. 289-292. Si può vedere anche P. Di Luccio, Re e «pastori» prima della nascita di Gesù, in «La Civiltà Cattolica», 3852 (IV/2010), 552-563. 4
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primi passi dell’esistenza del Nazareno. E Matteo, sia pure in forma ben più stringata e meno “ellenisticamente” esplicitata, fa altrettanto. E, comunque, sappiamo, prima di leggere almeno Lc 1-2 e Mt 1-2, che la formazione alla fede nel Dio di Gesù Cristo, l’affidabilità della narrazione redatta in questa prospettiva, ha costituito uno scopo essenziale dei redattori di tali brani evangelici e dei libri e del corpus biblico di cui essi fanno parte6. Ponendoci costantemente tutti gli interrogativi esegetici e storiografici sin qui delineati iniziamo la nostra avventura esegetico-ermeneutica nella consapevolezza che anzitutto Matteo e Luca sono molto più che dei singoli testi religiosi, quali che siano i devozionismi più o meno a buon mercato creati a partire dai loro personaggi e dalle vicende di cui essi sono soggetti.
3. I contesti testuali Soltanto Mt e Lc ci danno informazioni significativamente ampie sulla fase infantile della vita di Gesù e la versione lucana è, a questo proposito, ben più estesa dell’altra (132 versetti contro 48). Le versioni evangeliche – Marco/Matteo/Luca/Giovanni – sono narrazioni che, a partire dal nucleo fondativo della vita del Cristo (la sua morte e risurrezione, centro del kerygma neotestamentario), ripercorrono l’esperienza esistenziale, le parole e le azioni di Gesù. Esse rileggono nell’ottica del kerygma stesso le testimonianze dirette ed indirette trasmesse da quanti hanno convissuto con lui durante la sua vita pubblica e dai membri delle comunità cristiane delle origini. Dunque storia certo teologicamente orientata, ma non frutto di invenzione fantastica. E un discorso conseguenziale vale, come si nota leggendo anche Lc 1,1-4, per le cosiddette narrazioni dell’infanzia, appunto Mt 1-2 e Lc 1-2. Confrontate con le parabole, con i racconti di miracoli e le sentenze gesuane in genere, esse appartengono ad una fase recente di sviluppo dei testi, assai vicina alla redazione finale. Per i componenti del primo trentennio successivo alla morte e risurrezione di Gesù non vi fu alcun bisogno di redigere racconti sulla nascita e sull’infanzia del Nazareno: per loro, raggiunti da predicatori itineranti che parlavano nell’improvvisazione dell’oralità e sulla scorta di ricordi folgoranti, la storicità del Cristo era un dato di fatto. La generazione che conduce alle versioni evangeliche matteana e lucana non condivide tale freschezza viva, ma inevitabilmente sommaria e discontinua. Ha bisogno di rispondere a domande legittime, ma non facili che vengono dai cristiani degli anni
Cfr. E. Borghi, La responsabilità della gioia. Vivere il vangelo secondo Luca,Paoline, Milano 2000, pp. 19-28; N. Siffer-Wiederhold, Le projet littéraire de Luc d’après le prologue de l’évangile (Lc 1,14), in “Revue de sciences religieuses” 79 (1/2005), 49-54.
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Sessanta e Settanta del I secolo: chi è questo Cristo che Dio ha risuscitato? Quale è stato il suo iter esistenziale umano? Chi ha scritto la redazione finale di Matteo e Luca rende testimonianza a queste esigenze “documentarie” dicendo del Cristo non soltanto il contenuto della sua predicazione, ma tutto quello che ha potuto apprendere di lui in vista della formazione alla fede (cfr. Lc 1,1-4). L’indipendenza reciproca evidente di Lc 1-2 e Mt 1-2 ne aumenta l’attendibilità, visto che un nucleo comune è da entrambi conservato. Infatti sono molti i luoghi narrativi importanti in cui Lc e Mt concordano: • il nome della madre di Gesù; • il fatto che ella fosse promessa sposa di Giuseppe; • la discendenza davidica di costui; • la paternità putativa di Giuseppe a causa del concepimento divino di Gesù; • la realizzazione del concepimento prima che gli sposi andassero a vivere insieme; • la nascita di Gesù durante il regno di Erode il Grande (Lc 1,5; Mt 2,1); • l’angelo annuncia ai due il nome del nascituro; • la discendenza davidica dello stesso Gesù (Lc 1,32; Mt 1,1); • la città, Betlemme, ove Gesù nasce (Lc 2,11; Mt 2,5-6); • il ritorno a Nazareth dei genitori e del bambino.
Se si tiene conto del ruolo che storia e linguaggio hanno contestualmente nei testi che abbiamo dinanzi agli occhi, proprio alla luce di quanto Lc 1,1-4 dice, occorre riconoscere, anzitutto, che i racconti dell’infanzia hanno lo scopo di far riconoscere la vera identità di Gesù. Inoltre essi, in quanto discorsi, presuppongono un grande lavoro di selezione, interpretazione, enunciazione, che si è assoggettato alle possibilità espressive di una lingua estranea alla nostra, in un momento storico assai diverso da quello che stiamo vivendo. A noi spetta, dunque, il tentativo di leggere, interpretando, come il testo ha scritto, a sua volta interpretando, quanto è avvenuto «al tempo del re Erode» (Lc 1,5). Tramite l’interpretazione di un’interpretazione «noi constateremo allora che questi splendidi capitoli dei vangeli dell’infanzia non sono estranei né ai fatti storici né alle ricchezze del linguaggio e dell’arte letteraria, né, soprattutto, alla nostra esistenza di lettori e di credenti, perché, come nota J. Delorme, “leggere nel linguaggio non è soltanto cercare il significato delle parole e il seguito delle idee. Ciò significa disporsi al passaggio della parola”»7.
G. Rouiller, «Il vous est né un Sauveur». Luc 1-2 et Matthieu 2, ABC, Fribourg 1996, pp. 12-13. Affermare che il racconto si sviluppa alla luce del Cristo pasquale, ossia dire che Lc 1-2 e Mt 1-2 riferiscono le vicende di Gesù lette dalle comunità del I secolo con gli occhi della fede in Gesù Cristo morto e risorto non significa dire che si tratti di fatti inventati, di mitologie edificanti: «gli evangelisti a nome della comunità scrivono una storia teologica perché aiutano il lettore credente a scorgere negli avvenimenti il disegno divino che tutto orienta verso Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio. Da Lui, con Lui e per Lui prende senso tutta la storia degli uomini e del loro rapporto con Dio. Per questo i primi capitoli di Matteo e di Luca offrono una così elevata cristologia. Teologia e storia costruiscono insieme il Vangelo» (M. Orsatti, I vangeli dell’infanzia (Mt 1-2 e Lc 1-2), in M. Laconi [ed.], Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, Elledici, Leumann [TO] 20022, p. 216).
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Sempre nella consapevolezza che l’ispirazione divina di questi versetti lucani «rimane di tipo analogico, adattata cioè alla forma letteraria utilizzata dall’evangelista. Pertanto, pur trattandosi di racconti dell’infanzia ispirati, sono però un brano ispirato di storiografia imitativa, che non è senza problemi»8, come avremo modo di notare nel corso di questo e del prossimo articolo.
4. Le differenze fondamentali tra versione lucana e versione matteana Resta comunque evidente che Lc si differenzia da Mt per alcuni aspetti del tutto qualificanti quali la scelta degli episodi (Mt, per esempio, parla dei Magi, della fuga in Egitto e della strage dei bambini a Betlemme, Luca è assai più attento al mondo della pietà giudaica e all’ambiente del tempio) e prospettive assai determinanti: in Lc Maria è al centro degli avvenimenti, in Mt questo ruolo spetta a Giuseppe. Lc mostra la rivelazione di Gesù come Salvatore, Messia e Signore, mentre Mt sottolinea la realizzazione in Gesù delle profezie bibliche precedenti. Vi è anche una palese differenza di tono: alla gioiosità lucana corrisponde una sensibile tragicità matteana. Insomma: al di là dei parallelismi sinottici, il racconto dell’infanzia gesuana secondo Luca ha una sua specificità nel fatto che non poche corde proprie della composizione lucana complessiva cominciano qui ad essere suonate: • il ruolo di Giovanni quale precursore; • la presentazione di Gesù nella sua messianicità redentrice e divina; • la caratterizzazione di Gesù come bambino designato per il cadere e il sorgere di molti in Israele, un simbolo che la gente vuole rigettare; • l’incorporazione di Gesù in Israele, adombrando la logica connessione tra il giudaismo farisaico e il cristianesimo che Lc suggerisce ripetutamente sino alla fine del libro degli Atti. Nell’insieme della versione lucana la funzione di questa prima sezione è chiara; essa mira a collocare Giovanni e Gesù nella storia della salvezza, a subordinare il precursore al Messia, nel proclamare, sin dall’inizio della narrazione, il mistero di Gesù9. La prima sezione matteana (1,1-4,22) può essere utilmente suddivisa a metà. Infatti i capp.1-2 concernono la nascita e infanzia di Gesù nel senso più ampio dei termini, mentre i due successivi trattano gli eventi propedeutici al suo ministero pubblico. L’ampia genealogia che apre la versione matteana (1,1-17) mira a esplicitare la sto-
J.A. Fitzmyer, Luca teologo, tr. it., Queriniana, Brescia 1991, p. 46. Circa la tradizione gesuana relativa, in particolare a Lc 2,1-20.22-39.41-51, si veda, per es., W. Radl, Der Ursprung Jesu. Traditionsgeschichtliche Untersuchungen zu Lukas 1-2, Herder, Freiburg-BaselWien 1996, pp. 55-56; per l’azione redazionale alla base di Lc 1-2, cfr. ibidem, pp. 56-65. 8 9
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ricità della presenza di Gesù: egli è il compimento di una storia di attese e promesse che dal padre nella fede per eccellenza, Abramo, si è snodata lungo decine di generazioni10, e ha trovato non la sua fine, ma il suo fine nella persona di Gesù «chiamato il Cristo» (v. 17). Questa contestualizzazione storico-culturale acquista ulteriore rilievo nel corso del cap.2, ove viene tratteggiata la venuta al mondo del bambino, contrassegnata subito da due distinti, ancorché intrecciati, atteggiamenti da parte dell’ambiente circostante: l’accoglimento, l’accettazione reverente e benevola degli “estranei” (cfr. la presenza dei Magi - 2,1-2.9-12) e il rifiuto, intriso di violenza, dei “suoi” (la persecuzione erodiana, la fuga in Egitto e il ritorno a distanza di tempo, ma in una città lontana dalla nativa Giudea - 2,3-7.13-23)11. Sotto il profilo letterario Mt 1-2 è un brano senza cesure o difficoltà nello sviluppo del tessuto narrativo. Uno degli elementi unificanti più significativi sono le cinque citazioni bibliche (1,22-23; 2,5-6.15.17-18.23), che offrono a chi legge un commento agli avvenimenti in corso. La loro presenza è ancora più rilevante, se si considera che degli undici (o dieci) testi biblici esplicitamente citati in Mt con la formula «affinché si compisse...», cinque sono propri di questi due capitoli e quattro di essi sono introdotte dalla formula di compimento: «perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore...». Mt 1-2 appare quindi come un’occasione efficace per rileggere le Scritture alla luce di avvenimenti nuovi, un modo di capire la realtà vissuta a confronto con la Parola di Dio. Per quanto riguarda la formazione di questi due capitoli matteani, una lettura accurata del testo consente, pur senza pretese di definitività, di identificare le tradizioni prematteane sulle quali il redattore è intervenuto: i dubbi di Giuseppe superati dall’intervento dell’angelo, la visita dei Magi che hanno visto la stella e vengono dal “re dei Giudei”, l’incontro dei Magi con Erode e la riapparizione della stella, l’uccisione dei bambini di Betlemme, la fuga in Egitto e il ritorno in terra di Israele. D’altra parte, per quanto sotto il profilo contenutistico Mt 1 sia assai significativo per comprendere il cap.2 nel quadro dell’intera versione matteana, l’assenza in Mt
La tavola genealogica, «che abbraccia più di 1750 anni, con 41(42) generazioni - con una media di 35/40 anni - lascia degli spazi vuoti. Ma la continuità storica è garantita dalla lista di nomi che collega i grandi tornanti della storia biblica come sottolinea espressamente il commento finale di Matteo 1,17» (R. Fabris, Matteo, Borla, Roma 19962, p. 53). 11 Leggendo Mt 2,1-12 si consideri utilmente quanto segue: «Gesù è il Messia. Ma in più noi sappiamo... che ciò implica la regalità, ma quella del Servo sofferente. Questa rivelazione è rafforzata dall’opposizione, lungo tutto questo testo, tra due re: Erode, il tiranno potente che troneggia a Gerusalemme, la città che si chiude tragicamente al suo Salvatore; un bimbo indifeso nel quale soltanto la fede può salutare il Re, oggetto di desiderio di tutti i popoli. Non è un caso che il racconto dei Magi rimandi, da vari punti di vista, a quello della Passione. Natale e Pasqua sono in comunicazione. Il racconto dei Magi anticipa ampiamente gli avvenimenti della storia della salvezza. Si può parlare sin da ora di escatologia realizzata. Il pellegrinaggio delle nazioni è cominciato. Il pastore comincia a far pascolare il suo popolo credente. Il tempo del compimento è giunto» (G. Rouiller, «Il vous est né un Sauveur». Luc 1-2 et Matthieu 2, p. 153). 10
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2 di riferimenti ai temi della concezione verginale e della discendenza abramiticodavidica di Gesù - centrali per Mt 1 - dimostrano come un’analisi di questo cap.2 intesa come inscindibile da quella del primo sia una forzatura esegetico-ermeneutica. Vediamo ora, a titolo esemplificativo e in prospettiva esegetico-ermeneutica, alcuni brani di questi splendidi capitoli lucani e matteani. Non essendo possibile, per ragioni di spazio e per la finalità essenzialmente esemplificativa di questi articoli, trattare compiutamente i testi dei quattro capitoli più volte menzionati, mi limiterò a due passi lucani e due matteani.
5. I due annunci: Lc 1,26-38 e Mt 1,18-25 5.1.
Luca 1, 26-38
(a) Il contesto immediato Il I capitolo della versione lucana, nella parte precedente all’annunciazione a Maria (vv. 5-25), secondo un vero e proprio parallelismo, che si snoderà per tutta la sezione costituita dai capp. 1-2, presenta il percorso di nascita di Giovanni il Battezzatore, precursore di Gesù. Per quanto mi sia impossibile affrontare in profondità il confronto tra le due figure, si veda questa tabella comparativa che aiuta a fissare almeno i dati testuali della questione: Giovanni 1,5-7 Presentazione dei personaggi 1,8-12 Apparizione dell’angelo Gabriele 1,13 Grande turbamento di chi è oggetto dell’annuncio 1,13 Parole di conforto dell’angelo 1,13 Ann. del concepimento. e del nome del nascituro 1,14-17 Descrizione della missione futura del bambino 1,18 Obiezione di chi è oggetto dell’annuncio 1,19 Risposta rassicurante dell’angelo 1,20 Offerta di un segno quale prova
Gesù 1,26-27 1,28 1,29 1,30 1,31 1,32-33 1,34 1,35 1,36-37
Il redattore lucano si avvale di un procedimento analogo anche nel libro degli Atti degli Apostoli per presentare Pietro e Paolo, cui sono dedicate, rispettivamente la prima e la seconda parte dell’opera. La figura di Giovanni si presenta come un trampolino che permette di cogliere meglio il mistero della nascita e presenza di Gesù. Se il Battezzatore è messo in rilievo, ciò avviene sempre in funzione del disegno divino che trova in Gesù il suo vero compimento.
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(b) Svolgimento narrativo Anche ad una prima lettura, la pericope appare estremamente ricca di significati. Per favorirne una lettura ragionevolmente dettagliata, suddividiamo il testo in cinque momenti: vv.26-27; 28-29; 30-33; 34-37; 38. Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazareth, 27a una ragazza vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La ragazza si chiamava Maria. 26
La cronologia dell’annuncio (nel sesto mese) è importante soprattutto per la sua relatività alla gravidanza di Elisabetta, quindi alla nascita di Giovanni il precursore. Inoltre Gabriele è messaggero divino che ha, nell’AT, un ruolo particolarmente importante (cfr. soprattutto Dn 8,16; 9,21) anche in termini di vicinanza al Signore Dio. Zaccaria ha ricevuto la notizia della sua prossima paternità in un contesto spazio temporale sacro e cultualmente puro (la settimana del suo servizio sacerdotale presso il luogo più sacro del tempio di Gerusalemme - v.8). Non è così per Gesù. La sua nascita, infatti, è preannunciata in una piccola città periferica, dalla fama non buona (cfr. Gv 1,46) e dalla popolazione molto composita, ove la purezza rituale era assai difficile da conservare. Chi riceve l’annuncio è una fanciulla assolutamente anonima, una come tante, che certo è fidanzata ad un membro della discendenza davidica12, ma che non ha in sé alcuna peculiare distinzione socio-culturale o fisica. Il tutto tende a sottolineare che Dio è attento, non esclusivamente, ma anzitutto, a quanto è piccolo, debole, marginale13. Vi è poi un altro aspetto importante: Maria è presentata come vergine. Il termine in questione, ossia l’aggettivo greco parthénos significa, in prima istanza, fanciulla senza riferimenti intrinseci alla verginità sessuale e, per estensione, vergine in senso stretto14. Nella LXX (cfr. Gen 24,14.43.55) questa parola traduce tre termini ebraici, uno dei quali (na Jarah) indica una fanciulla che non ha ancora avuto rapporti sessuali, fatto che vale, non di rado, anche per il sostantivo più attestato, ossia betûlàh (cfr., per es., Dt 22,23; Gdc 19,24). L’utilizzazione lucana nel passo in oggetto non dà adito a dubbi di sorta: è sufficiente un confronto con il v. 34 per rendersene conto, tanto più che, tenendo conto delle norme e delle consuetudini matrimoniali dell’epoca, Maria appare nella prima fase
Questa notazione è fondamentale per la messianicità di Gesù, colui che riunirà in sé tutte le prerogative dell’Unto del Signore atteso secondo la tradizione primo-testamentaria (si legga, con estrema utilità, ad es., 2Sam 7, 8-16; Is 7,13-14), anche se con un profilo opposto rispetto a quello esplicitamente sfolgorante e/o politicamente liberatorio che si attendeva la più parte dei giudei, anche suoi contemporanei. Il nome Giuseppe deriva probabilmente dall’abbreviazione di un nome come Yôsîp-yah (= Il Signore può aggiungere [altri figli a colui che è già nato] - cfr. Gen 30,24). 13 In proposito si veda, per es., l’esordio della predicazione pubblica gesuana in Lc 4,16-21. 14 Cfr. H. G. Liddell-R. Scott, A Greek-English Lexicon, Clarendon Press, Oxford 1968 9, p. 1339. 12
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del matrimonio israelitico, quella della promessa vincolante (‘erushin), ma non dell’unione completa (nissû’în) come avveniva frequentemente, all’epoca, ad una ragazza tra i dodici e i tredici anni. Nel I secolo d.C., a differenza di quanto avveniva nei secoli precedenti (cfr. Gen 29,21.23; 30,4; 38,2; Dt 21,13; Tb 6-8) la differenza tra fidanzamento e matrimonio era particolarmente sottolineata, anche se, giuridicamente, la fidanzata era equiparata ad una donna sposata, tant’è vero che, in caso di morte del fidanzato o di divorzio o di adulterio, ella era trattata, secondo la legge, come una donna sposata15. Il quadro preparatorio dell’annuncio dell’angelo fornisce, quindi, agli eventi di parola che stanno per verificarsi un contesto di tranquilla modestia. E proprio in questo clima la fanciulla di nome Maria16 viene ad essere dalla fine del v. 27 in poi il centro della chiamata divina. Non siamo di fronte ad una narrazione di genere agiografico, ma ad un discorso di rivelazione: «Mentre il racconto su Zaccaria si muove lungo il livello orizzontale della storia di un sacerdote concentrato sulle sue funzioni e legato ai suoi problemi familiari, il racconto su Maria è segnato dalla verticalità dell’irruzione apocalittica dell’angelo»17. Entrando da lei, disse: «Sii gioiosa, tu che sei davvero ricolma di grazia, il Signore è con te». 29A causa di queste parole ella rimase molto confusa e si domandava di quale genere fosse questo saluto.
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L’arrivo di Gabriele sulla scena della vita di Maria non è accompagnato da nulla di straordinario o stupefacente: a differenza di quanto avviene nei confronti di Zaccaria (v.11), non vi è alcunché di solenne. Anche sotto questo punto di vista prevale, quindi, una sorta di ordinarietà quasi familiare. E ciò fa risaltare ancora di più l’eccezionalità dell’evento che sta per essere annunciato. L’arcangelo vuole trasmettere serenità e contentezza crescenti e pervadenti e il testo ci presenta il tutto secondo un klymax a tre livelli. • Anzitutto la parola d’esordio, chaîre: essa è certamente un saluto convenzionale nella grecità profana e lo stesso v. 29 conferma la presenza anche qui di que-
Per tutto quello che riguarda il matrimonio ebraico-giudaico e le questioni ad esso relative, tutt’altro che facilmente analizzabili, cfr. A. Tosato, Il matrimonio israelitico, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1982; F. Manns, Il matrimonio nell’Antico Testamento, e Id., Il matrimonio nel giudaismo antico, saggi entrambi contenuti in Aa.Vv., Il matrimonio nella Bibbia, Borla, Roma 2005, pp. 14.83; 139-191. 16 L’etimologia che appare più fondata nel nome Maria è quella del verbo ebraico rûm ( essere alto, elevato) che, con il prefisso participiale ma, può essere inteso nel senso di elevata, esaltata, principessa (cfr. E. Vogt, De nominis Mariae etymologia, in VD 26/1948, 163-168); altri studi propenderebbero per il significato di amata da Jhwh (origine egiziana: m+r+t+Ja - cfr. Il Corano, a cura di F. Peirone, Mondadori, Milano 19802, p. 152). Non si può non pensare almeno ad una sorta di allusione a quanto avverrà nei vv. successivi ed in tutta l’esistenza di Maria. Ella, in forma analoga al figlio che genererà, sarà umile e nascosta secondo le logiche mondane e sommamente innalzata secondo quelle dell’evangelo di salvezza. 17 L. Legrand, L’Annonce à Marie, Cerf, Paris 1981, p. 73. 15
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sto significato. D’altra parte sia il retroterra primo-testamentario delle parole dell’angelo18 sia altre attestazioni del verbo chaîrein come espressioni del pregnante termine ebraico shalôm (pace, nel senso di benessere e serenità globali) non quale saluto (ad es. Is 48,22), fanno pensare a qualcosa di più. Luca conosceva il saluto semitico propriamente detto, shalôm appunto: altri passi lucani lo testimoniano (cfr. Lc 10,5; 24,36). Il fatto che non se ne sia avvalso in questo caso rafforza l’idea che l’imperativo chaîre voglia insistere sull’invito dell’angelo alla gioia. • In secondo luogo la parola kecharitôméne19) che è tradizionalmente espressa, in italiano, con la locuzione piena di grazia: questo che è, sintatticamente un vocativo, accresce ulteriormente la carica di felicità cui si fa riferimento perché è fortissimo sia sotto il punto di vista della forma che del significato. Infatti la grazia divina dal passato al presente ha avvolto l’esistenza di Maria20 ed è destinata a persistere: Maria è, per così dire, appellata a rendersene conto. «Per Maria il nuovo nuome con il quale l’angelo si rivolge a lei è: “amata gratuitamente e per sempre da Dio”. Questo nome nuovo di Maria dice immediatamente la gratuità e la fedeltà dell’amore di Dio, radice di ogni corretta comprensione di Dio, dell’uomo e del mondo. Di questa radice Maria è l’icona luminosa e trasparente. E in questa trasparenza sta la sua identità e la sua missione»21.
• In terza battuta - e si giunge all’apice del klymax - una conferma tanto fondata quanto laconica: l’affermazione della presenza accanto a lei del Signore Dio. Il tono dell’angelo è d’auspicio, invocazione ed affermazione, secondo una prospettiva che trova in Rt 2,422 e Gdc 6,12 i suoi più significativi ascendenti primo-testamentari: «saluto e appello sono come sostenuti da questa presenza di Dio, da questo
Nella LXX si vedano, per es., Zc 9,9; Sof 3,14-17; Gl 2,21-2 Il verbo charízein in accezione profana può significare rendere grazioso, amabile, attraente e, al passivo, essere stato reso grazioso, attraente. In senso teologico è fondato pensare, nella forma passiva detta tradizionalmente passivo divino, a queste formulazioni: essere una persona trasformata dall’azione benevola di Dio o essere il luogo ove si manifesta l’effetto della grazia (cfr. G. Rouiller, «Il vous est né un Sauveur», p. 52). 20 Il participio perfetto greco esprime normalmente un’azione o uno stato venuti a compimento nel passato, ma i cui effetti continuano ad agire nel presente. Qui, oltretutto, si tratta di una forma esclusivamente passiva: ciò significa che la persona rappresentata nel participio - Maria appunto - è il centro dell’agire che ella riceve su di sé. E a tutto questo si deve aggiungere la considerazione della posizione ultima, quindi rilevata, del complemento con te. Pertanto è possibile concludere legittimamente che tutto qui è al servizio della gioia di entrare responsabilmente ed entusiasticamente nel piano salvifico di Dio. 21 B. Maggioni, I personaggi della natività, Ancora, Milano 2004, p. 74. 22 Mi pare di grande interesse un confronto complessivo tra la figura di Rut e quella di Maria. Si legga in proposito Rt 1,16-17; 2,10-12; 3,8-17 e soprattutto 4,13, ove il favore del Signore su questa ragazza raggiunge il culmine (cfr., per ulteriori approfondimenti, L.A. Schökel, Maria: sintesi della spiritualità dei poveri di Yhwh nella sua fame di Dio e fame di pane, in Id., Lezioni sulla Bibbia, Piemme, Casale Monferrato [AL] 1996, pp. 296-298). 18 19
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Dio che si rende presente personalmente presso la persona salutata e interpellata: a partire di qui essi ricevono il loro senso profondo. Anche questa spiegazione implica un’effettiva anticipazione: il Signore è già vicino a Maria, le è al fianco con la sua grazia e la sua protezione, e così sarà anche in futuro; l’asserzione non può essere intesa esclusivamente in riferimento al successivo concepimento del Figlio di Dio»23. La presenza attiva di Dio è la garanzia essenziale che si offre a coloro che sono oggetto della chiamata divina, garanzia che, evidentemente, apre le sue ali sulla fede libera e responsabile dei destinatari. Questo percorso relazionale di serenità proposta ha raggiunto un livello d’intensità notevole, che pare, di primo acchito, aver toccato profondamente l’emotività psicologica della destinataria. Proprio una reazione in questo ambito si verifica immediatamente. Lo sconvolgimento della Vergine espresso qui dal testo lucano è assai forte. Non si tratta di paura24: il verbo greco dietaràchthe indica qualcosa di più del fatto che ella resti turbata o molto impressionata, e cioè lo stravolgimento istantaneo25 del suo status personale: «Maria si era certamente abituata ad un certo tipo di vita di preghiera, di pietà, di impegno, di ascolto della Bibbia, ma ora sente che Dio la trasporta su un piano diverso e che le è necessario lasciare - come per Abramo - le sicurezze precedenti, e abbandonarsi ad una diversa azione di Dio. Da qui comincia la sua educazione a quel piano divino che, sarà, in parte, secondo le sue attese e, in parte, contro le sue attese»26.
Questa nuova condizione non conduce Maria ad un rifiuto o ad una obiezione immediata. Il redattore lucano presenta una reazione di ordine meditativo-interiore, che viene un poco prolungandosi nel tempo, con la quale si esplicita la ricerca di senso, il discernimento ritenuto necessario da Maria per capire le ragioni di quest’esaltazione che Dio, attraverso l’angelo, ha inteso ed intende fare di lei. L’angelo le disse: «Non avere paura, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. 31Concepirai in seno un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. 32Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre 33e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e della sua sovranità non ci sarà fine». 30
La prima spiegazione dell’angelo è di taglio umano e, subito dopo, teologico-programmatico. La rivelazione si presenta sconvolgente sotto vari punti di vista. Anzitutto si veda l’evento dall’esterno. Era del tutto inusuale, allora, che una donna ricevesse un saluto così solenne come quello ricevuto da lei: già questo è un elemento
H. Schürmann, Il Vangelo di Luca, 1, tr. it., Queriniana, Brescia 1983, pp. 136-137. Non così Zaccaria, che era rimasto atterrito (cfr. v. 12b). 25 Il verbo - che ricorre solo qui in tutto il NT, fatto che gli conferisce ulteriore forza - è all’aoristo passivo: quindi azione di valore puntuativo. Inoltre la presenza della preposizione dià acuisce la penetratività del verbo, dunque l’intimità del turbamento. 26 C.M. Martini, L’Evangelizzatore in San Luca, Ancora, Milano 19836, p. 134. 23 24
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di ulteriore sopresa e turbamento. In secondo luogo - ed è aspetto ancora più importante - si consideri il contenuto delle parole dell’arcangelo: Maria, in tutta la sua persona, è chiamata ad essere colei che darà alla luce l’atteso da millenni, il Messia, il Figlio di Dio. La rassicurazione che ella riceve (v. 30) è di chiaro impianto primotestamentario, nella linea vocazionale già ripetutamente citata: nessun timore può permanere in lei27, giacché il favore divino l’ha raggiunta in modo inequivocabile e definitivo28. Tutto quanto segue non è da meno. Infatti la tela di fondo è la già citata profezia di Natan (cfr. 2Sam 7,4.11.13-16) e il nome del bambino (31) è indicato prima di tutto e significa «Dio aiuta, Dio salva»29. La grandezza30 del neonato è assoluta (vv. 32-33): egli non l’acquisirà dall’esterno (cfr., per es., Gen 12,1-4) ed essa non varrà soltanto davanti al Signore, come nel caso di Giovanni il Battezzatore (cfr. 1,15)31. La natura divina di Gesù e l’annuncio messianico sono riaffermati decisamente (cfr. Gen 14,18.22; Sal 78,35; 2,7; 89,27) nella loro collocazione davidica e reale (cfr. Sal 2,2; Is 9,6), secondo una prospettiva che parte dalla dimensione legata ad Israele e si espande in una dimensione d’eternità (cfr. Dn 7,14). Non sfugga un particolare importante: «Mentre nella profezia di Natan l’atteso è figlio di Dio perché re (cioè la sua funzione regale lo porta ad avere una relazione di speciale prossimità con Jhwh), Gesù invece è re perché è figlio dell’Altissimo; la sua regalità viene radicata nel suo rapporto privilegiato con Dio, che egli possiede fin dalla nascita (cfr. v. 35b) e che non avrà mai fine»32. In questi versetti la
27 La negazione mè dell’imperativo mè phobû impedisce la prosecuzione della condizione espressa (cfr. M. Zervick, Graecitas biblica, PIB, Roma 19604, § 246. 28 La locuzione eyrískein chárin è l’equivalente dell’ebraico masa’ hen (Gen 6,8; Gdc 6,17; 1Sam 1,18; 2Sam 15,25) ed indica la libera e gratuita scelta di Dio che favorisce in modo particolare uomini e donne. E l’aoristo éures indica la puntuatività esplicita dell’azione espressa: «L’infinitamente lontano si è fatto vicino, l’eterno entra nel tempo, l’altissimo si è curvato, l’immenso si è concentrato e fatto piccolo per essere abbracciato e concepito. Siccome l’uomo non può essere con Dio, Dio ha deciso di essere con l’uomo. Perché la gioia di Dio, che è amore è di essere con l’amata. Per questo Maria è chiamata colmata-digrazia» (S. Fausti, Una comunità legge il vangelo di Luca, EDB, Bologna 1994, pp. 31-32). 29 Alcuni studiosi dubitano molto del fatto che i destinatari lucani fossero in condizione di cogliere questo significato. D’altra parte, nel nostro testo manca la spiegazione relativa - presente, invece, in Mt 1,21 - e Lc è interessato essenzialmente al fatto che il nome viene da Dio. Perché allora Lc ha voluto mantenere detto nome, se esso risultava incomprensibile a coloro per i quali il testo era pensato? Oltretutto si sente nel ritmo della frase la venerazione per questo nome, come succede in Fil 2,10. 30 L’aggettivo grande è associato a Dio in numerosi salmi (cfr., per es., 48,2; 86,10; 135,5; 145,3). Lo stesso titolo hyiós ypsistû, accanto ai riferimenti primo-testamentari (Sir 4,10) trova un suo parallelo nei testi ritrovati nelle grotte di Qumran: «Si dirà che egli è il Figlio di Dio ed essi lo chiameranno Figlio dell’Altissimo» (4Q 243). 31 Si confronti il testo in questione con altri in cui la grandezza è riferita a Dio: Sal 48,2; 145,3; 86,10; 135, 32 G. Rossé, Il Vangelo di Luca, Citta Nuova, Roma 1995, p. 53.
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descrizione di Gesù è, quindi, quella del Messia classico della speranza giudaica, anche se tutto il contesto in cui il dialogo tra l’arcangelo e Maria si svolge va al di là di essa. Allora Maria disse all’angelo: «Come sarà possibile ciò? Non conosco sessualmente alcun uomo!». 35Le rispose l’angelo: «Il respiro santo e santificante scenderà su di te, la potenza dell’Altissimo farà scendere la sua ombra su te. È per questo motivo che colui il quale nascerà sarà santo e chiamato Figlio di Dio. 36Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era chiamata sterile: 37nessuna parola da parte di Dio resterà inefficace». 34
Maria, ormai entrata nel quadro divino che il messaggero del Signore le ha prospettato, si preoccupa della fattibilità concreta della nascita preannunciata e la sua domanda (v. 34) è la vera e propria cerniera narrativa della pericope. Questo versetto conferma come «Lc non intendeva trasmettere il dialogo tra l’angelo e Maria come da registrazione: si tratta soltanto d’un montaggio redazionale, secondo il modello letterario degli annunzi... Con l’artificio del dialogo l’evangelista non vuole rilevare l’atteggiamento psicologico di Maria, ma piuttosto l’ascendenza davidica e la filiazione divina di Gesù: Dio con un intervento diretto, con un atto creativo rende fecondo il grembo verginale di Maria»33. Questa spiegazione, pur assai interessante, non risolve ogni problema, visto che permane almeno una domanda: se l’interrogativo posto da Maria è frutto dell’opera del redattore del testo, «non si capisce perché per una domanda simile Zaccaria sia punito e Maria no»34. La risposta a questo ulteriore interrogativo può essere tratta ancora da una lettura sinottica dei due annunci. Da Zaccaria, attore del culto sacerdotale, per di più proprio nell’espletamento delle sue funzioni, si pretende una sensibilità alla presenza del divino ben maggiore che da una fanciulla anonima della “periferia” palestinese lontana da Gerusalemme, per giunta colta in un momento del tutto quotidiano della sua giornata. Quindi, a parità di atteggiamenti, si è assai più esigenti con lui che con lei. E, comunque, Zaccaria non si limita a domandare le modalità “tecniche” della nascita, come fa Maria, ma chiede conto della concreta possibilità che l’evento in sé si attui (v. 20). Maria vedeva l’esistenza personale del tutto stravolta dalla prospettiva che Gabriele le annunciava, mentre Zaccaria era interessato da vicino dal contenuto dell’annuncio, ma non si apprestava a viverne molte implicazioni fisiche e psicologiche su di sé. L’interrogativo posto da Maria, non sul “che” dell’evento, ma sul “come” è del tutto legittimo a partire da una condizione umana responsabile e, soprattutto, intelligen-
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A. Poppi, Sinossi dei Quattro Vangeli, II, Messaggero, Padova 19944, p. 298. M. Orsatti, L’annuncio a Maria, p. 483.
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te. La risposta che l’arcangelo fornisce a Maria fuga ogni incertezza anche sotto questo profilo attraverso una serie di approfondimenti di quanto è venuto esponendo sinora sempre in un linguaggio intrinsecamente teologico35. - Gabriele (v. 35) riprecisa l’intervento diretto ed avvolgente del Signore Dio in tutta la sua santità (cfr. Es 40,34-35). La consacrazione in Spirito santo di Gesù è qui messa in stretta relazione con la sua azione salvifica ricca di potenza. Essa non può che essere una dimensione essenziale del nascituro, il quale è del tutto Altro rispetto agli individui, pur nella sua dimensione profondamente umana. Sarà, comunque, il resto della narrazione in Lc dell’infanzia gesuana e, in generale, l’intera narrazione lucana successiva a chiarire che cosa significhi concretamente per Gesù essere il Messia davidico e il Figlio di Dio. - Nel v. 36 si dà la garanzia che tale azione è superiore ai limiti vincolanti dell’anatomia e fisiologia umane. Infatti ciò si è già tangibilmente verificato per Elisabetta, madre imminente di Giovanni (cfr. v. 13). - Il v. 37 vede riaffermata definitivamente la superiorità divina: citando Gen 18,14LXX il messaggero esprime qualcosa di molto significativo. Infatti «non dimentichiamo che questa parola era stata rivolta in un contesto analogo a Sara, sterile ed in età avanzata, al momento dell’annuncio della nascita di Isacco. “Nulla è impossibile”. Il termine nulla traduce la parola greca rêma, che significa (come dabar in ebraico) contemporaneamente parola e avvenimento, una parola ed il suo effetto»36. Tutte le parole dell’angelo, dal chaîre iniziale alla citazione appena commentata si rivolgono alla responsabilità di una risposta che solo Maria può dare. 38«Ecco la serva del Signore! Che mi possa proprio capitare secondo quello che hai detto!». E l’angelo si allontanò da lei. L’adesione di Maria al progetto del Creatore sulla sua vita di madre, di donna, di essere umano non manca certo. Certamente lo stesso v. 34 aveva iniziato a far pensare che ella non fosse orientata verso il rifiuto, ma l’empito di desiderio che scaturisce dalle sue parole, in quest’ultimo versetto della pericope creano un’evidente collegamento con l’esordio delle parole dell’angelo. Alla gioiosa comunicazione della presenza gratificante di Dio nella sua esistenza fa da pendant l’accettazione impaziente con cui Maria risponde definitivamente all’annuncio celeste. Il messaggio divino fa prendere alla fanciulla una decisione di cui ella stessa non può prevedere più di tanto le conseguenze per sé. Due mi paiono gli aspetti da sottolineare particolarmente. Eccoli.
La domanda di Zaccaria (1,18) che chiede un segno di conferma di quanto gli è stato annunciato suscita la reazione di rimprovero dell’angelo, che gli annuncia la punizione per la sua incredulità. Ben altro è, ancora una volta, il tipo di dinamica propria del contesto relativo a Gesù. La domanda mariana riceve non solo risposta positiva, ma addirittura un supplemento di rivelazione: «la sua domanda è presentata come quella di una fede autentica, una fede che cerca di capire per rispondere meglio all’appello di Dio» (A. George, Études sur l’oeuvre de Luc, p. 437). 36 G. Rouiller, «Il vous est né un Sauveur», pp. 63-64. 35
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a) Decisivo è comprendere la valenza dell’espressione serva del Signore. Il sostantivo dûle non riecheggia qui il significato greco profano del termine, che conferisce sfumature di sinistra e dura schiavitù al rapporto tra chi serve e chi è servito. In realtà la base di riferimento nel v. 38 (e anche nel successivo 48) è un altra, che si riesce a cogliere a partire dalla terminologia ebraica e dalle attestazioni della LXX. In non pochi passi (cfr., ad es., 1Sam 1,11, Is 6,8; 42,1a-TM 37; 56,6; Gl 3,2, ripreso e modificato anche in At 2,17) il termine si collega al ruolo dello ‘ebed Adonai (= servo del Signore) ebraico, l’essere umano che, in quanto parte del popolo dell’alleanza con Dio, aderisce a Lui quale partner esistenziale, quindi corrisponde all’amore divino servendo e, a sua volta, amando il Signore. Maria, pertanto, definendosi serva del Signore, coglie tre risultati: - si pone nel clima del patto con Dio proprio della sua tradizione etnico-culturale, giungendo alle radici più autentiche di esso (cfr., per esempio, Es 19,8; 24,37; Gs 24,21); - riconosce che il suo destino è strettamente collegato a quello del Figlio che darà alla luce; - evidenzia, senza alcuna passività o soggezione servile negativa, i connotati della propria vocazione e la forma più intrinsecamente umana per farvi fronte in piena libertà e serietà relazionale. b) Altrettanto importante è cercare di chiarire il tono dell’adesione mariana al progetto di Dio. La parola ghénoito, ossia il verbo di 38b, è stata ripetutamente fraintesa, senza poterne o volerne comprendere anzitutto il valore morfo-sintattico. Si tratta di un ottativo indipendente, che, quindi, manifesta quello che è il valore primo di questo modo del verbo greco, la desideratività. La traduzione della Volgata latina (fiat) non risulta infedele se il lettore rammenta che la lingua latina contempla un valore ottativale del congiuntivo indipendente. Viceversa l’interpretazione più comune è stata sovente di tipo debolmente e rinunciatariamente esortativo e il fraintendimento si è così perpetuato. Grazie a questa forma desiderativa, l’intera frase è quasi un’esplosione di entusiasmo nei confronti di quanto le è stato presentato, che ella accetta, facendosene carico secondo le modalità di servizio appassionato, di amore fedele che ella si è liberamente attribuita. Ciò dimostra, mi sembra, senza possibilità d’equivoci, che ogni interpretazione riduttivistica, passivizzante - quasi che Maria accetti tutto quasi contro la sua volontà e solo in mancanza di alternative praticabili - può avere certamente un rilievo, per esempio, nella storia dell’esegesi e della pietà mariana, ma nulla a che vedere con questo testo lucano.
La sigla significa testo masoretico, ossia quello fissato tra l’VIII e il X secolo da alcuni studiosi della masorà (tradizione). I masoreti stabilirono un unico testo consonantico della Bibbia ebraica, fissarono la vocalizzazione e punteggiatura scritte del medesimo.
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La Vergine sancisce, con l’espressione del suo desiderio di fede e di azione conseguente in favore del suo Signore, la propria scelta, un vero snodo essenziale nella storia della salvezza umana secondo il Dio di Gesù Cristo. Con «il suo fiat Maria ha, in un certo qual senso, firmato un assegno in bianco a Dio su tutta la sua esistenza. Ella non sapeva da che cosa sarebbe stato scritto questo foglio bianco»38. E la partenza dell’angelo (38c) chiude la vicenda, secondo una prospettiva speculare rispetto al v. 26: la sua missione è conclusa39. (c) Linee di sintesi In questo brano vi è molto di più che il racconto di una vocazione e l’annuncio di una nascita imminente: l’avvenimento più importante della storia della salvezza (l’incarnazione del Figlio di Dio) inizia orientando il destino concreto di una persona. Un destino che passa anzitutto attraverso la proclamazione del nome della protagonista come sorgente di gioia. E si tratta della «gioia di Dio nel poter dire a Maria: gioisci... L’incarnazione ha un carattere passionale: rivela la passione di Dio. È l’inizio delle nozze tra lui e l’umanità, il principio di un amore che sarà più forte della morte»40. Questa è la base della gioia che promana da tutto il testo e che investe tutti i personaggi: l’arcangelo, perché reca un annuncio gioioso nel contenuto e nella forma; Maria, perché si fa carico con entusiasmo di quanto tale rivelazione comporta per la sua vita. L’alleanza tra Dio e l’essere umano trova qui, ad un tempo, la sua riaffermazione più tradizionale e più nuova: il Signore offre ad una donna di farsi tramite non soltanto delle sue parole, pur efficaci, ma della sua parola per eccellenza, suo figlio, per il bene ultimo e vero di tutta l’umanità. Le modalità abituali dell’azione divina si manifestano con grande nitidezza: la tenerezza che libera, la fedeltà di chi offre un’alleanza cui non si sottrae mai, l’amore prioritario per quanto è segreto, modesto, umile, povero, lontano “dai riflettori”. E colui che sta per nascere sarà certamente re di tutto quanto esiste ed esisterà. Dunque il suo regno sarà tangibile, proprio come tangibile è, sin dal suo concepimento, la logica del suo regnare: la valorizzazione delle possibilità umane anche meno appariscenti. L’atteggiamento pieno di concretezza e semplicità di Maria delinea un modello di riferimento per qualsiasi risposta ad una vocazione. Infatti ella non è l’esempio di una certezza disumana. Vive il turbamento, la perplessità, il dubbio, insomma
B. Sesboüé, Pour une théologie œcuménique, Cerf, Paris 1990, p. 38 A questo punto risulta del tutto chiara la difformità di scopi, di prospettive e di spessore umanistico che vi è tra questa pericope evangelica e altri testi dell’antichità greco-ellenistica profana in qualche misura accostabili, come, ad esempio, Plutarco, Vita di Numa, 4,3-5. A titolo, in certo modo, compendiario si veda G. Theissen, L’annuncio a Maria. Un anti-mito rispetto al racconto degli angeli seduttori (Lc. 1,26-38), in G. Theissen, La porta aperta. Variazioni bibliche, tr. it., Claudiana, Torino 1993, pp. 83-87. 40 S. Fausti, Una comunità legge, pp. 29-30. 38 39
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un’obbiettiva inquietudine che si esplicita attraverso fatti precisi: l’interrogarsi interiore su quale fosse la sua nuova prospettiva esistenziale, l’esplicitazione delle sue domande circa le modalità della vocazione che Dio aveva pensato per lei. In tutto questo, oltre che nella sua risposta finale positiva, Maria apre la strada a qualsiasi percorso di fede nel Dio della rivelazione ebraico-cristiana, perché ella reca un aiuto ad accogliere l’avvenimento dell’ingresso divino nella specificità di ogni esistenza, secondo una dimensione realisticamente umana. La forza di Maria risalta particolarmente a partire dalla pochezza esteriore delle sue risorse, dei suoi mezzi: la sua energia interiore è notevolissima, la sua capacità di affidamento eclatante. La grazia divina certamente la sostiene, ma la scelta che ella compie è frutto della sua libertà. Una libertà giocata nella fedeltà al suo essere creatura di Dio, figlia di quel Signore che ha tenacemente pensato al bene dell’essere umano sin dalle origini. Maria non si accontenta di dire qualcosa in forma verbale, risponde con la proclamazione sommessa, ma tenace della sua vita41. A questo proposito Origene dice assai eloquentemente: «a che cosa serve che io dica che Cristo è venuto soltanto nella carne che egli ricevette da Maria, se non manifesto che è venuto pure nella mia carne?»42. Questo brano, che non è centrato sulla vocazione di questa donna straordinaria, ma sulla nascita terrena del Figlio di Dio e sul suo ruolo salvifico, chiama i lettori ad un rapporto con Dio dinamico, non irrigidito dal fideismo o immiserito nel devozionalismo. Si tratta di lasciare che la grazia e la potenza dello Spirito realizzino in ogni essere umano questo parto così da offrire al figlio di Maria un’umanità disposta a crescere nell’accoglierlo43, forte della stessa forza d’amore di questa ragazza palestinese, attraverso la quale la vita di tutto potrà giungere al suo compimento. Non in modo meramente miracolistico, ma tramite la libertà ed intelligenza umane44. Sempre nella consapevolezza che la promessa sposa di Giuseppe viene presentata giustamente come la credente ideale, ma che nessuna delle sue qualità viene indica-
Maria «è madre nel corpo e nella fede, o - più esattamente - lo è nel corpo perché è tale nella fede. Il figlio che porta in grembo è a un tempo l’espressione fisica della sua fede: in Maria maternità e fede sono dimensioni inseparabili» (G. Gutiérrez, Il Dio della vita, tr. it., Queriniana, Brescia 1991, p. 293). 42 Origene, In Genesim homilia III, § 7 in PG 12, col. 183. 43 Circa il valore straordinario dell’essere donna e madre si vedano, per es., quanto dice Giovanni Paolo II: «La madre accoglie e porta in sé un altro, gli dà modo di crescere dentro di sé, gli fa spazio rispettandolo nella sua alterità. Così la donna percepisce e insegna che le relazioni umane sono autentiche se si aprono all’accoglienza dell’altra persona, riconosciuta e amata per la dignità che le deriva dal fatto di essere persona e non da altri fattori, quali l’utilità, la forza, l’intelligenza, la bellezza, la salute» (Evangelium vitae, n. 99). 44 «La nascita del messia non può avvenire senza il consenso di una donna. La logica dell’azione di Dio nella storia rispetta lo statuto di libertà umana. Soltanto nella congiunzione sinergica delle due volontà, quella di Dio e quella dell’uomo, può realizzarsi il piano divino sulla storia, di cui la nascita del messia è un esempio paradigmatico» (S. Grasso, Luca, Borla, Roma 1999, p. 72). 41
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ta come motivo per la scelta divina. Questa ragione resta celata nel disegno divino45. Appare chiaro, comunque, che «l’evangelo si fonda sulla certezza di nuovi eventi, che finalmente sconvolgono l’itinerario usuale che conduce i figli di Adamo dalla colpa alla sofferenza e alla distruzione. Qui si va dall’umiltà alla grazia e alla vita, ma le azioni gratuite dello Spirito richiedono il massimo impegno di intelligenza e di coerenza da parte degli esseri umani»46. 5.2.
Matteo 1, 18-25
(a) Il contesto immediato La genealogia47 con la quale inizia la versione matteana ha uno scopo piuttosto evidente: inserire esplicitamente la figura del Nazareno nella storia israelitica. Nei primi diciassette versetti di Mt al di là delle singole denominazioni e generazioni indicate gli ascendenti più significativi citati lungo questa sequenza sono il padre nella fede, Abramo, e il re per eccellenza, Davide, a sottolineare i due connotati fondamentali – fede e regalità – che il Messia ha e deve avere. E ad una domanda legittima – è la genealogia a nobilitare Gesù o il contrario? – si può rispondere così: non solo la genealogia pone Gesù in rapporto con la storia d’Israele, ma anche la storia d’Israele con Gesù. D’altra parte «Se a ragione si deduce da ciò che un autore non vuole perdere il suo pubblico sin dall’inizio, quale pubblico al di fuori di uno cristiano o molto vicino alla fede cristiana sarebbe pensabile, che non debba scandalizzarsi per una tale trasformazione cristocentrica della serie in questione?»48. (b) Sviluppo narrativo La pericope che mi accingo ad analizzare presenta tre momenti distinti: vv. 18-19; 20-23; 24-25. «18Così si svolse l’origine di Gesù, (il) Cristo. Maria, sua madre, era promessa sposa di Giuseppe. Prima che andassero a vivere insieme, un soffio inconcepibile intervenne e lei si trovò
Cfr. F.B. Craddock, Luca, tr. it, Claudiana, Torino 2002, p. 40. R. Osculati, L’evangelo di Luca, ITL, Milano 2002, p. 28. 47 La parola ghénesis – il secondo vocabolo della versione matteana – ha uno spettro di significati molto ampio, da origine del cosmo a nascita degli dei, semidei ed eroi, da rinascita spirituale nella lingua misterica a creazione nell’arte (cfr. M. Mayordomo-Marín, Den Anfang hören. Leserorientierte Evangelienexegese am Beispiel von Matthäus 1-2, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1998, p. 209). In Mt 1,1 (cfr. Gen 2,4; 5,1) le prime due parole fungono da titolo utile a presentare la figura principale della narrazione e l’immersione della figura di Gesù nella lingua della Genesi, dell’attesa del Messia giudaico e della confessione cristiana non solo incatenerà l’attenzione del pubblico dei lettori con curiosità, ma ne susciterà anche il profondo rispetto, delineando un orizzonte di attesa in cui è centrale il quadro di una narrazione religiosa la cui figura di riferimento è di somma rilevanza. 48 M. Mayordomo-Marín, Den Anfang hören, p. 223. 45 46
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Ernesto Borghi incinta. 19Giuseppe, suo sposo, era un uomo giusto e non voleva comprometterla; perciò decise di congedarla segretamente».
Il primo dato referenziale che il testo presenta (v. 18) è la maternità esplicita di Maria. I due connotati circostanziali sono, da un lato, il fidanzamento con Giuseppe, vincolante come un matrimonio, e il concepimento prima dell’inizio della convivenza sponsale tramite l’intervento divino. Il concepimento pre-matrimoniale appare un dato storico più che verosimile anzitutto in ragione del fatto che, giudaicamente parlando, causava accuse e contumelie a chi ne era soggetto e attore. Si veda, in proposito, un esempio tratto dalla letteratura rabbinica: «si chiama bastardo il prodotto di un matrimonio proibito, secondo rabbi Aqiba; rabbi Simeone figlio di Attà restringe il titolo ad un bambino che proviene da un matrimonio proibito sotto la minaccia della distruzione celeste e la Legge va in questo senso»49. Per mostrare che Gesù fosse figlio di Dio non sarebbe stato necessario un concepimento “irregolare”. Sarebbe bastato un concepimento verginale in una matrimonio regolare. Perché il redattore evangelico ha conservato questo dato eticamente e culturalmente così “difficile”? La fecondità della casa d’Israele è ripresa da chi ne è, ad un tempo, l’origine e il compimento. Nell’annuncio dell’arcangelo Gabriele a Maria50 è lei la protagonista narrativa e quel brano è fondamentale per capire Lc 12 e, in certo modo, l’intera narrazione lucana. Il protagonista della narrazione matteana - che anticipa il discorso sulla divinità di Gesù, che i discepoli avrebbero percepito soltanto dopo la risurrezione - è, invece, Giuseppe, a cui è chiesto di far posto volontariamente nella sua vita al progetto di salvezza universale di Dio. Se le condizioni non sono agevoli, anche sotto il profilo sociale, per la fanciulla di Lc 1,26-38, questo vale altrettanto, se non di più per Giuseppe che, nella cultura comune della Palestina del suo tempo, a fronte di una promessa sposa fedifraga, avrebbe dovuto ripudiarla, come la Torà prevedeva esplicitamente (cfr., ad esempio, Dt 22,20-27; 24,1). Giuseppe, però, è giusto (v.19). Questo appellativo, nel linguaggio primotestamentario, significa essenzialmente integro e retto perché capace di un rapporto dinamicamente fedele con il Signore Dio in termini di alleanza con Lui (cfr. Gn 6,9; 17,1; Gb 1,1), dunque di un atteggiamento particolarmente generoso nei confronti degli altri esseri umani. Come Giuseppe poté sapere quanto era avvenuto visto che non conviveva ancora
Mishnà. Trattato Yebamot, 4,13. Il modello dell’annuncio della nascita ricorre ripetutamente, prima che in Lc, nell’AT (cfr. Gn 16,713; 17,1-19; 18,2-15; Gdc 13,3-22) e implica cinque momenti: «1) apparizione dell’angelo del Signore; 2) reazione, paura o prostrazione del destinatario; 3) messaggio divino comprendente il nome, qualifica, invito “non temere”, annuncio di concepimento, nascita, nome-etimologia, missione futura del bambino; 4) obiezione; 5) segno. Dal confronto di questo elenco con Matteo 1,18-20 appare evidente che nel testo di Matteo sono stati assunti dallo schema di annuncio solo alcuni elementi in funzione del contesto e intenzione dell’autore» (R. Fabris, Matteo, Borla, Roma 19962, p. 57 nota 13).
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con Maria? Che gliel’abbia comunicato ella stessa o che l’abbia appreso da altra fonte, a partire dal suo essere giusto si può comprendere, nel quadro del brano, la volontà di evitare a Maria l’onta della denuncia pubblica. D’altronde la sua coerenza etico-religiosa gli impediva di sposare una persona che appariva fedifraga. Accusare Maria di adulterio avrebbe implicato la rottura del rapporto. Attribuire la causa di quanto era capitato alla donna ad altro, al di fuori della responsabilità umana, avrebbe implicato riconoscere il mistero e, dopo la nascita, prendere le distanze da un figlio di origine divina. La ricerca di un equilibrio possibile tra le esigenze proprie e quelle di Maria, la donna nella quale egli aveva risposto del tutto verosimilmente fiducia e amore, lo spinge a ipotizzare una soluzione che tuteli tutto al massimo livello possibile. Un congedo segreto appare la soluzione più realistica. E, sin qui, si è comunque ancora in un quadro etico giudaico possibile. «20Mentre pensava a queste cose in cuor suo, ecco: gli apparve in sogno un messaggero del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di accogliere Maria, tua sposa, perché la vita che è in lei viene da un soffio umanamente inconcepibile. 21Darà al mondo un figlio. Tu lo chiamerai Gesù, perché è lui che salverà (i membri de)l suo popolo dai loro peccati”. 22E avvenne, tutto questo, perché si adempisse la parola del Signore tramite il profeta: 23“Ecco, la vergine diventerà incinta darà al mondo un figlio, e lo chiameranno Emmanuele, che significa Dio è con noi”»51.
Una rivelazione divina aiuta Giuseppe ad essere effettivamente “giusto”. Il messaggero divino non si manifesta mentre il destinatario umano è sveglio (è il caso di Gabriele con Maria in Lc 1,26ss), ma in una fase complessa, che passa dalla meditazione al sogno (v. 20), dunque dalla consapevolezza di sé alla sostanziale incoscienza. A Giuseppe viene proposto di passare da un’azione – il ripudio – che genera, comunque, la morte di una relazione (quella tra Giuseppe e Maria), a scelte che, anche grazie alla sua capacità di accoglienza, rendano possibili e anche “legalmente normalizzati” i rapporti più importanti della vita: quelli tra gli esseri umani e Dio attraverso il figlio a cui gli è chiesto di dare la paternità legale. La logica vitale divina – lo Spirito santo – ha realizzato il concepimento. L’oggetto di questa azione ha, sia sotto il profilo onomastico che sotto quello della sua esistenza, una sola, indiscutibile prospettiva: dare la salvezza ai componenti della propria etnia, sia in senso individuale che collettivo, intendendo per salvezza la liberazione dal male costituito dall’interruzione dell’alleanza con Dio52.
Is 7,14. Questo brano iniziale della versione matteana propone tale prospettiva di “salvezza dai peccati” che ricorre frequentemente e in termini etnicamente e culturalmente vari, da Israele ai pagani, nel prosieguo di Mt: si veda, in proposito, per es., B. Repschinski, “For He Will Save His People from Their Sins” (Matthew 1:21): A Christology for Christian Jews, in “Catholical Biblical Quarterly” 68 (2006), 257-265.
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La citazione (v. 23) di Isaia 7,14 - testo che si riferisce ad un momento di grave pericolo del regno d’Israele nella seconda parte dell’VIII secolo a.C. e al parto di un erede della dinastia davidica capace di far superare le difficoltà in questione – è letta nel testo matteano in chiave finalisticamente cristologica. Essa presenta due varianti assai eloquenti rispetto alla LXX. Infatti • il plurale chiameranno al posto del singolare chiamerai costituisce l’affermazione della coralità universale della denominazione proposta; • la traduzione in greco dell’ebraico Emmanuel sottolinea la volontà di far rimarcare il rapporto del Divino con gli esseri umani (cfr. Rm 8,32). E comunque, se si opera un confronto anche tra il fatto presentato ai vv. 20b-21 e le parole della profezia isaiana riportata al v. 23 si notano delle differenze significative: Maria vergine rispetto ad una vergine in generale; da uno stato interessante per opera dello Spirito santo ad uno senza determinazioni particolari53; dal nome Gesù e dalla sua azione salvifica a quello di Emmanuele. Da queste differenze chi legge è spinto a trarre una conclusione di fondo: «ciò che è accaduto non solo è diverso, ma è anche molto di più di ciò che sta scritto. Di conseguenza deve comprendere che ciò che è scritto è solo l’abbozzo di un disegno, che è possibile scoprire soltanto alla luce della fede nella piena rivelazione del mistero di Gesù Cristo. Senza la fede e la piena conoscenza della rivelazione, è impossibile ritrovare le tracce del disegno di Dio nelle parole profetiche citate. La differenza è troppo evidente; e solo la grazia della fede può illuminare e far dire che ciò che è accaduto in Gesù Cristo è il compimento delle parole dette da Dio per mezzo dei profeti del passato»54. «24Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come gli aveva detto il messaggero del Signore. Accolse la sua sposa. 25Ma non ebbe relazioni sessuali con lei, finché ella non ebbe dato alla luce un figlio, e lo chiamò Gesù».
La disponibilità nel dare credito alla rivelazione onirica di Dio e nel seguire le indicazioni comportamentali conseguenti, mostra un atteggiamento di assoluto rispetto nei confronti di Maria e di quanto di unico ella sta vivendo. Qui si nota il salto di qualità etico e teologico del brano: «accogliendo Maria come sua sposa, che attende un figlio di origine divina, egli deve dargli
«Gesù è figlio di sua madre, nasce come tutti gli uomini, entra come uomo nella storia; la sua origine è nello stesso tempo divina; egli è il salvatore del proprio popolo, è un segno della vicinanza di Dio agli uomini. Questa doppia origine di Gesù viene concentrata in un paradosso: la nascita da una sposa, vergine ma incinta» (D. Pezzoli-Olgiati, “Nato da donna”. Accenni a interpretazioni neotestamentarie e apocrife della nascita di Gesù, in C. Dotolo – C. Militello [edd.], Concepito di Spirito Santo. Nato dalla Vergine Maria, EDB, Bologna 2006, p. 119). 54 N. Casalini, Libro dell’origine di Gesù Cristo. Analisi letteraria e teologica di Mt 1-2, Franciscan Printing Press, Jerusalem 1990, pp. 75-76. 53
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quella paternità legale che gli garantisce lo statuto storico della discendenza davidica. In breve la rivelazione divina non è rivolta a risolvere un dramma spirituale di due promessi sposi, ma, data la sua concentrazione cristologica, è un messaggio comunicato ai lettori perché riconoscano la vera identità di Gesù: il salvatore di origine divina che compie le attese messianiche»55.
Per quanto riguarda il concepimento verginale di Gesù, che nel v. 25 è ulteriormente sottolineato, da un punto di vista umano-relazionale, la concordanza sostanziale tra Matteo e Luca, sebbene avvenga in modo autonomo, offre elementi significativi in ordine alla storicità del fatto. È un evento reale, ma eccezionale, che segna l’inizio del nuovo corso della storia della salvezza. «Dio con la nascita di Gesù fa il massimo dono all’umanità e lo fa in modo miracoloso, nel modo più conveniente, affinché apparisse chiaro che suo Figlio, anche come uomo, era “filialmente unito al Padre e non aveva nel pieno senso della parola altro padre che Dio” (dal supplemento al Catechismo Olandese)»56. Del nascituro, in ultima e coronante analisi, si ripete il nome eminentemente salvifico. La salvezza è l’ultima parola della pericope. Il messaggio teologico è chiaro: il Figlio di Dio secondo lo Spirito nasce perché ogni carne riceva la figliolanza divina (cfr. Gal 4,5; Rm 1,3). E la paradossalità della nascita di Gesù è indubbia. Dalle sorti regali di Davide e Salomone si giunge ad una gravidanza che sarebbe priva anche della più elementare tutela. Gesù. Che si preoccuperà in particolare degli “ultimi” e dei “precari”, condivide tale sorte sin dall’inizio. (c) Linee conclusive La paternità divina, l’intervento divino esclusivo nella nascita di Gesù va al di là di altri esempi biblici. Il clima è di sorpresa totalmente inattesa, al di là di qualsiasi prevedibilità ed accettabilità. Anche il contesto di precarietà e di ambiguità appare imprevedibile. L’apertura alla potenza di Dio avviene secondo giustizia e si registra
R. Fabris, Matteo, p. 62. A. Poppi, Sinossi dei Quattro Vangeli, II, Messaggero, Padova 19944, p. 65. «L’esistenza umana assume il fatto biologico senza ridursi ad esso, ma anche senza potersene separare. La nascita di un uomo è un atto indissociabilmente umano e biologico... Possiamo allora pretendere che l’incarnazione del Figlio debba evitare la sfera della carne umana legata alla natura fisica dell’uomo? Ritroviamo qui la corrispondenza con la risurrezione, che deve interessare il corpo concreto di Gesù. La manifestazione biologica della risurrezione è la scomparsa del corpo dal sepolcro. Il concepimento verginale è in coerenza perfetta con la risurrezione della carne di Gesù e la risurrezione della carne promessa alla fine dei tempi... Se non ci fosse tutto il peso dell’esistenza di Gesù e della fede nel suo rapporto unico con Dio che egli chiama suo Padre, questi due segni non potrebbero fare altro che perdersi in un miracoloso molto sospetto e privo di significato. Ma all’interno della fede essi diventano la rivelazione che l’ordine del nostro mondo (le leggi della fisica e della biologia...) non è affatto l’ultima parola e che Dio ha già posto in questo mondo i segni dell’instaurazione di una nuova creazione» (B. Sesboüé, Credere, Queriniana, Brescia 2000, p. 319). 55 56
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un evidente salto di qualità dalla storia d’Israele alla storia umana in generale, dal radicamento storico giudaico all’eccezionalità ultraumana. L’atteggiamento proposto è quello dell’accoglienza della volontà di Dio al di là di tutto, nella protezione di ogni tipo di relazione verso il Divino che entri nella propria vita. Ciò appare possibile soltanto se vi è la fiducia nella relazione con Dio come aspetto essenziale dell’esistenza. Gesù è Dio-con-noi; egli salverà il popolo dai suoi peccati. Tuttavia il vangelo dell’infanzia presenta anche il lato paradossale di questa realtà: nato per “salvare il suo popolo dai suoi peccati”, Gesù si scontrerà con il rifiuto d’Israele. L’episodio dei magi, in un certo senso, lo mostrerà subito57. 5.3. Annunciazioni a confronto: cenni di sintesi Stupore, discernimento profondo e gioia sono vissute dalla Maria lucana, difficoltà nella propria giustizia e apertura all’obbedienza partecipe contraddistinguono il Giuseppe matteano. Il comune denominatore è un ascolto esistenziale della Parola al di là di certezze e prove. Per chi vive nel XXI secolo l’invito inequivocabile è quello di saper affrontare le prove della vita con una matura capacità di discernimento, anzitutto di sé, e nella convinzione che Dio agisce ispirando scelte di dedizione e di donazione. Nessuno può dimostrare che i due racconti siano storici anzitutto nel senso che si attribuisce da qualche secolo a questa parte alla nozione di “storicità scientificamente verificabile”. Le categorie espressive sono simili a quelle dei racconti mitici di tante tradizioni antiche e taluni elementi (per es. Lc 1,30) rispondono a schemi già presenti – come abbiamo visto – in altri racconti biblici cronologicamente ben precedenti. D’altronde nessuno può anche asserire con certezza che Maria e Giuseppe non abbiano vissute esperienze intime ed interiori, che i redattori evangelici hanno ritenuto di estrinsecare secondo le modalità letterarie racchiuse nei due passi che abbiamo appena considerato. Se noi, lettrici e lettori di oggi, ci confrontiamo con questi brani, possiamo cogliere altri aspetti di storicità non meno, ma diversamente “veri” rispetto a quanto ci potremmo attendere a priori. La fede nel Signore dell’alleanza sinaitica è, per i due personaggi fondamentali di questi due testi, in rapporto, di volta in volta, con la gioia più visibile, con la giustizia più responsabilizzante e con l’obbedienza più esistenziale. L’umanità dei soggetti coinvolti esce rafforzata nel corso del processo, contrassegnato da difficoltà e soprprese, che li conduce alla libera adesione all’offerta divina. Maria in Lc 1 e Giuseppe in Mt 1 accettano che la loro storia personale sia modificata fondamentalmente da una proposta storico-salvifica che viene dall’Alto.E questo dato storico-para-
Cfr. A.L. Levoratti, Vangelo secondo san Matteo, in A.J. Levoratti (ed.), Nuovo Commentario Biblico. I Vangeli, tr.it., Borla/Città Nuova, Roma 2005, p. 371. 57
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digmatico interpella qualsiasi interprete, che abbia dei testi biblici un’opinione non soltanto storico-documentaria in chiave archeologistica. Egli è portato a domandarsi se è vero o meno che delle scelte di apertura generosa agli altri, al di là del calcolo previamente completo delle conseguenze da esse indotte, contribuiscono a rafforzare il senso della propria esistenza in termini di intensità costruttiva e positività relazionale. La risposta è lasciata alla libertà di ciascuno, proprio nel rapporto tra le opzioni esistenziali particolari e globali e la gioia, la responsabilità e la giustizia che esse riescono o meno a realizzare.
6. Matteo 2,13-23 Storia e teologia sono particolarmente intrecciate in questo brano così carico di tragicità globale per tutto e per tutti. E nello stesso tempo questo brano è abbastanza paradigmatico in ordine alla comprensione di che cosa significasse, per le origini cristiane, l’adempimento delle Scritture ebraiche in Gesù Cristo. 6.1. Analisi del testo La pericope si articola in tre parti in chiara successione tra loro: vv. 13-15; 16-18; 19-23. Nel corso della lettura si consideri con particolare attenzione il confronto con la pericope precedente 1,18-25. «13Dopo che essi erano appena partiti, un angelo del Signore appare in sogno a Giuseppe dicendo: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta per cercare il bambino per ucciderlo”. 14Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e partì verso l’Egitto, 15 e vi rimase fino alla morte di Erode, affinché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Dall’Egitto chiamai mio figlio”».
La partenza dei magi è avvenuta in un contesto certamente non sereno. Il meccanismo narrativo del sogno rivelatore entra in gioco per la terza volta in questi due capitoli iniziali matteani e si esprime in una dimensione senza tempo (il presente del verbo lo indica)58. Come Giacobbe e Mosè, sia pure in termini tra loro diversi, scesero in Egitto per ritornarne oggettivamente cresciuti, così Gesù deve sparire in questa terra59 che è stata anche sede di dolorosa schiavitù per ritornare chiamato da Dio. Gli ordini del messaggero divino sono da realizzare immediatamente, ma il loro contenuto ha una chiara durata (cfr. i due presenti imperativi che sono il sesto e settimo verbo del v. 13, ossia quelli essenziali delle parole dell’angelo a Giuseppe). Il progetto erodiano di morte è nell’immediata imminenza della sua realizzazione e la
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Phàinetai esprime una duratività senza inizio e senza fine. Circa il valore dell’Egitto come luogo di rifugio cfr., per es., 1Re 11,40; Ger 26,21.
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sua distruttività per il bambino è inequivocabile60. Giuseppe mette in atto subito quanto imperiosamente suggeritogli (vv. 14-15). Questo riferimento notturno appare un ammiccamento abbastanza chiaro al ruolo della notte nel racconto della passione e morte di Gesù (cfr. 26,30-34; 27,45-50). L’adempimento del testo di Os 11,1 appare forzato all’occhio di un lettore biblico rispettoso della storia e della lettera dei testi, non a quello del redattore matteano. Egli è costantemente preoccupato di collocare Gesù come culmine della vicenda salvifica giudaica e «di insegnare al lettore che nella vita di Gesù Cristo si compie un disegno voluto da Dio»61. E allora gli ascendenti della vicenda del bambino Gesù minacciato sono ampiamente considerati. Gli esempi più eloquenti appaiono due: • quello di Giacobbe (cfr. Gen 46,2-5), rifugiatosi in Egitto per fuggire le vessazioni di Labano, avrebbe dato origine ad un popolo numeroso e avrebbe atteso l’apparizione della stella della liberazione, mentre Rachele, sua sposa, sepolta a Canaan (Gen 35,19), avrebbe pianto sino al ritorno dei suoi (Ger 31,15). • quello di Mosè, che era misteriosamente fuggito alla morte (Es 2,1-10) e si era rifugiato lontano per scappare da Faraone (Es 2,11-15) prima di ricevere l’incarico divino di liberatore del suo popolo dalla schiavitù egiziana (Es 3,1-12). E Gesù si sottrae all’azione di Erode, per poi ritirarsi a Nazareth (v. 23) e riapparire e predicare pubblicamente dopo la sua investitura messianica in occasione del battesimo (cfr. capp. 3-4).
E il collegamento dell’andirivieni di Gesù dall’Egitto alla Palestina con il testo profetico parrebbe riconducibile all’idea che il primo esodo, quello mosaico, sia stato inconcludente. Ora si verificherà il vero viaggio della salvezza divina (Gesù = Dio salva – cfr. 1,21) verso la terra promessa62 «non per esservi servito, ma per servire e per dare la vita come prezzo di riscatto per molti (Mt 20,28)»63. «16Allora Erode, dopo aver visto che era stato preso in giro dai Magi, s’infuriò molto e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, secondo il periodo su cui era stato informato dai magi. 17Allora si adempì quel che era stato detto per
Si notino due elementi: il valore atemporale del verbo uccidere (= apolésai), un aoristo infinito, che concentra l’attenzione sull’azione in sé; la posizione rilevata del pronome lo (= autò), all’ultimo, eloquentissimo posto nel v. 13. 61 N. Casalini, Libro dell’origine di Gesù Cristo, p. 95. 62 «La fuga del Cristo, nuovo Giacobbe, in Egitto, e il suo ritorno in terra d’Israele alla testa delle folle che lo seguono (cfr. 4,25), primizie d’un popolo nuovo e innumerevole (cfr. 28,19-20), prefigurano già quello che il mistero pasquale realizzerà una volta per tutte» (J. Radermakers, Au fil de l’évangile selon saint Matthieu, IET, Bruxelles 1974, p. 43). 63 D.R.A. Hare, Matteo, p. 28. «Il futuro re d’Israele ripercorre il cammino dei suoi padri con l’esilio nella terra straniera e con il ritorno in patria. La vita di Gesù rinnova e porta a compimento le tappe dell’esistenza del popolo che l’ha generato e chi lo seguirà sarà suo compagno in un itinerario spirituale dove il cammino esteriore segue un processo interiore. La persecuzione costringerà anche in seguito il messia misconosciuto a muoversi su vie straniere e là dovranno seguirlo i discepoli di tutti i tempi» (R. Osculati, L’evangelo di Matteo, p. 20). 60
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mezzo del profeta Geremia: “18Un grido fu udito in Rama, un pianto e un lamento grande; Rachele piangeva i suoi figli e non voleva essere consolata, perché non ci sono più”».
Nessun’altra fonte ha trasmesso notizie circa questo evento tragico al di fuori di tale passo matteano. La Betlemme dell’epoca aveva verosimilmente circa 1000 abitanti. I bambini dell’età in questione potevano essere una ventina. Un evento certamente luttuoso e drammatico viene qui presentato secondo dei connotati di particolare negatività per ragioni extra-storiche di grande importanza. L’azione di Erode dipende soltanto da lui, senza coinvolgimento divino di sorta, esattamente come per Faraone nei confronti degli ebrei64. La notizia tratta da coloro che intendevano adorare il bambino, è utilizzata ora scopertamente per la morte. L’ulteriore rilettura profetica (cfr. Ger 31,15) in chiave neo-testamentaria è assai significativa. Infatti Rachele, nonna di Efraim e Manasse e simbolo delle madri israelitiche, avrebbe pianto sull’altura di Rama al vedere i suoi figli andare in esilio e restare uccisi e Geremia confronta questa immagine con la drammaticità della condizione dei deportati a Babilonia, dal cui novero, proprio a Rama (cfr. Ger 40,1) egli viene fatto uscire. L’uccisione dei bambini betlemiti appare una realizzazione contemporanea di quanto vissuto dagli avi israeliti. E nelle ultime parole della citazione profetica («non ci sono più») appaiono comprese tutte le persecuzioni, da quelle di Faraone fino alla fine dei tempi, perchè tutte sono riassunte in quella vissuta dal bambino Gesù. E, d’altra parte, quanto è avvenuto non è un adempimento delle Scritture divinamente voluto: l’avverbio tòte (= allora) del v. 17a è indiscutibilmente diverso dalla congiunzione finale hìna (= affinché) del v. 15: questa carneficina infantile adempie la Scrittura, ma non è certo determinata da Dio, a ribadire che il Signore «prevede le atrocità che gli uomini commettono sfidando la sua volontà, ma non dobbiamo annullare la responsabilità umana attribuendo la strage di Erode, o qualsiasi altra della nostra epoca, al proposito di Dio. L’enigma della sovranità divina e della libera volontà umana non si deve risolvere in modo così superficiale»65. «19Dopo che Erode fu morto, un angelo del Signore appare in sogno a Giuseppe in Egitto 20dicendo: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nel paese d’Israele, perché sono morti coloro che cercavano la vita del bambino”. 21Egli, alzatosi, prese con sé il bambino e sua madre, ed entrò nel paese d’Israele. 22Avendo però udito che regnava sulla Giudea Archelào al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi divinamente in sogno, si ritirò nelle zone della Galilea 23e, dopo esservi giunto, andò ad abitare in una città chiamata Nazareth, in modo che si adempisse ciò che era stato detto nella logica dei profeti: Sarà chiamato Nazareno».
Ultimo ricorso al sogno rivelatore in questi capitoli iniziali: con la stessa atemporalità dell’annuncio precedente, viene comunicato a Giuseppe che le gravi insidie alla esistenza di Gesù sono venute meno definitivamente (cfr., quale ascendente testua-
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Si veda, come possibile ascendente primo-testamentario, Esodo 1,5-21. D.R.A. Hare, Matteo, p. 29.
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le, Es 4,19). Il v. 21 propone una conclusione circolare della vicenda con il rientro in patria da parte dell’intera famiglia. Ciononodimeno la durezza è passata di padre in figlio, da Erode ad Archelao, così come l’azione onirica rivelatoria. Il Giuseppe primo-testamentario è interprete dei sogni; il Giuseppe matteano è destinatario di sogni per conoscere il futuro suo e dei suoi cari nella volontà divina66 e la condizione di aspra difficoltà comunque realizzata dal figlio di Erode fa dirigere verso il Nord palestinese, etnicamente composito. La profezia qui espressa è costruita dal redattore matteano senza l’ausilio effettivo di citazioni primo-testamentarie. Alla base del v. 23 vi è l’incontro di due elementi: da un lato, la fede nella persona di Gesù come colui che porta a compimento le Scritture; dall’altro, il fatto storico dell’abitare a Nazareth. La dinamica dei fatti storici percepiti come eventi della fede impone la lettura primo-testamentaria: in questo senso la Scrittura non dà prove su Gesù, ma è lui a farne scoprire l’attualità portandola a compimento. Che Gesù vivesse a Nazareth non era scritturisticamente previsto. Il fatto, però, è tanto storico e Gesù è colui che compie le Scritture a tal punto che è indispensabile che tutto l’AT ne parli, anche se non esplicitamente. E quale che sia la base etimologica della parola Nazareno al di là del significato abitante di Nazareth67, il redattore matteano registra in trasparenza «il compimento di un’altra profezia, poichè il nome della cittadina ha un suono simile a quello del germoglio che avrebbe rinnovato la casa regale e a quello degli asceti che rappresentavano le forme più austere della pietà religiosa»68. Tra l’altro è molto probabile che vi fossero «membri della sinagoga che si opponevano con fermezza all’affermazione cristiana che il Messia fosse stato un abitante dell’insignificante cittadina di Nazareth (vedi Gv 1,46; 7,41). Nel suo gioco di parole scritturale, Matteo difende la provvidenza di Dio»69. 6.2. Linee di sintesi Questa è una storia di fuga, di violenza e di continuità sul fronte della storia della salvezza. La storicità non risiede tanto nei fatti positivisticamente verificabili, ma «Il sogno appartiene esso stesso a quella maniera di parlare che nella Bibbia esprime, accentuandola fortemente, la piena adesione dell’essere umano alla volontà divina; adesione personale, poiché essa si situa nell’intimità del sonno, ossia all’interno di una condizione in cui, per quanto sia incosciente, l’essere umano si appartiene in un certo senso totalmente in una profonda e misteriosaunificazione di sé, che diventa il luogo privilegiato dell’incontro personale con la divinità» (A. Paul, L’évangile de l’enfance, Cerf, Paris 1968, pp. 151). 67 Nazir (= consacrato – Gdc 13,3-7; 16,7; 1,11; Gen 49,26; Dt 33,16), anche se l’accostamento è linguisticamente insostenibile, perché le radici di Nazir e Notseri (= Nazareno) sono diverse; nètzer (= germoglio – Is 11,1); natsur (= fuggito, esule – Is 49,6; Ez 6,12). Per cogliere queste allusioni, il lettore del testo matteano, in greco, avrebbe dovuto essere del tutto consapevole dei riferimenti all’ebraico, visto che questi possibili ascendenti linguistici sono in questa lingua semitica. 68 R. Osculati, L’evangelo di Matteo, p. 21. 69 D.R.A. Hare, Matteo, p. 30. 66
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nel richiamo e radicamento nella storia della salvezza, a partire dalla fiducia che sia vero che la Storia ha questo andamento, dunque che: • Dio veglia sul figlio e sui suoi genitori; • il male dipende dalla scelte umane; • la fedeltà al progetto unisce Giuseppe a moglie e figlio. Dalla morte e risurrezione di Gesù risalendo sino alla sua nascita si è notato la costante determinazione nella realizzazione del progetto divino. Colui che si presenta come il “nuovo” Mosè, la salvezza di Dio è coerentemente impegnato nella liberazione umana, in un quadro in cui la sua regalità è a rischio fin dall’inizio. Infatti «il nuovo re, figlio di Davide e di Abramo, generato dalla forza divina nel ventre d’una giovane donna, accolto e protetto da un umile e attento discendente di Davide, è misconosciuto dai suoi, ma cercato e trovato dalle genti. I tratti leggendari ed artistici di cui il testo è intessuto vogliono indicare fin dalle origini i caratteri della nuova regalità e della sua diffusione tra gli umili, gli innocenti, i perseguitati»70. Questo passo matteano indica come la storia della salvezza si attui nelle difficoltà nonostante la violenza umana in contesti culturalmente multiformi senza paura di contaminazioni di sorta. E nel quadro dell’intera teologia matteana tutti gli eventi che contrassegnano l’esistenza di Gesù sinora sono chiaramente introduttivi e simbolici della sua messianicità: «Figlio di Davide e figlio di Abramo: Gesù è un vero ebreo, ma proprio per questo appartiene all’intera umanità. Il trionfo del suo universalismo non si identifica con il trionfo di Israele. Gesù Figlio e Nazareno: sono i titoli umili e gloriosi di Gesù. Proprio Gesù di Nazareth è il Figlio di Dio. Nell’unione tra il Figlio e il Nazareno è racchiusa la meraviglia del credente, ma anche la ragione del rifiuto di chi ne resta scandalizzato. Un Messia che venisse da Nazareth e predicasse anzitutto nella Galilea era inaudito e scandaloso. Ma Matteo ci dice che in realtà proprio qui appare l’universalità dell’azione di Dio e quindi il compimento delle attese»71.
Per la nostra contemporaneità l’indicazione ermeneutica più evidente è l’invito ad un’attenzione particolare verso ogni segno utile alla realizzazione della salvezza nella vita di chiunque. Tutto ciò al fine di superare ogni sorta di scoraggiamento. Il pianto di Rachele segnala la necessità di un sano realismo: la violenza è un dato costante che travalica le epoche. Sono necessarie la solidarietà effettiva verso le vit-
R. Osculati, L’evangelo di Matteo, p. 21. B. Maggioni, I personaggi della natività, p. 54. Alla fine delle letture matteane si può affermare, con cognizione di causa, quale sia il ruolo delle citazioni primo-testamentarie: la loro inserzione nel racconto non produce un aumento di significato né una mutazione nel senso di ciò che viene raccontato. La loro funzione, pertanto, è chiara a partire dalla formula con cui sono inserite nel testo: mostrare che tutti gli episodi del racconto sono conformi a un piano già prestabilito da Dio; e che ora Dio stesso manda a compimento, guidando direttamente ogni evento della vita del Cristo, suo Figlio (cfr. R. Brown, La nascita del Messia secondo Matteo e Luca, Cittadella, Assisi 1981, pp. 118-119). 70 71
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time e la diffusione di una logica di vita in cui l’ansia di potere e la prevaricazione non prevalgano.
7. Per concludere su Mt 1-2 Anche in questo senso non soltanto la pericope che abbiamo appena esaminato, ma l’intera sezione di Mt 1-2 è davvero un’introduzione simbolica e, in un certo senso, paradigmatica, all’intero vangelo secondo Matteo, nel radicamento primo-testamentario aperto al culmine gesuano e cristiano. Nei primi due capitoli matteani «Gesù rivive l’esperienza fondamentale della storia d’Israele vale a dire l’esodo. Matteo aggiunge altri elementi; tutti però sono integrati in questo quadro essenziale. Vedremo che si tratta di una scelta di massima importanza per l’interpretazione della figura di Cristo nel primo vangelo, che inizia con un “esodo” e non con la conquista della terra o con l’instaurazione della monarchia. Gesù fa l’esperienza dell’Egitto e dell’esodo prima di essere riconosciuto come “messia”, come discendente di Davide e come re d’Israele. La conclusione alla quale Matteo conduce il suo lettore è semplice: Gesù è un “vero” membro d’Israele perché ha vissuto tutte le esperienze fondamentali del suo popolo»72.
Dietro ad ogni manifestazione di Gesù come il nuovo Mosè, ossia come il nuovo salvatore d’Israele (cfr. 4,8; 5,1ss; 28,16.19), si nota la figura del legislatore (soprattutto in Mt 5-7 e 28). E un confronto tra Mt 1-2 e Mt 5-7, 21 e 28 mostra come appare inadeguato per i primi due capitoli l’appellativo di “Vangelo dell’Infanzia” 73. Infatti la genealogia (1,1-17) trova la sua eco più fedele e più efficace nell’ultima pericope della versione matteana, quando Gesù risorto (28,16-20) si presenta al mondo per proclamare la piena realizzazione della promessa fatta ad Abramo e i discepoli, finalmente convertiti, si prostrano davanti a lui riconoscendolo una volta per tutte come il Messia e il vero figlio di Davide. In questo momento la Nuova Creazione è arrivata al suo compimento e attende di essere accolta dagli esseri umani che hanno ascoltato e ascoltano, hanno letto e leggono queste pagine 74.
8. Luca 2,41-52 Il parallelismo narrativo e teologico con Giovanni il Battista è certamente terminato in Lc 2,40. Ciononostante il testo prosegue, probabilmente sulla base di un’altra
J.L. Ska, Cose nuove e cose antiche. Pagine scelte del Vangelo di Matteo, EDB, Bologna 2004, p. 38. Cfr. A. Paul, L’évangile de l’enfance, p. 174. 74 Per ulteriori approfondimenti circa i rapporti tra Mt 1-2 e il resto della versione matteana si veda anche M. Mayordomo-Marín, Den Anfang hören, pp. 328-330. 72
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fonte in cui un racconto giovanile e una tradizione templare si intersecano. E secondo una prospettiva comune nella letteratura antica75 la trattazione relativa al fanciullo che preconizza l’adulto ricorre in tante fonti diverse. Questo brano lucano, pur finalizzato al di fuori da miracolismi di sorta e in vista dell’illustrazione della sapienza straordinaria del ragazzo Gesù76, è perfettamente all’interno di questa sensibilità culturale. 8.1. Analisi del testo Il passo si articola in tre parti: vv.41-45; 46-50;51-52. «41I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l’usanza; 43ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, e i suoi genitori non se ne accorsero. 44Credendo che egli fosse nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45non avendolo trovato, fecero ritorno a Gerusalemme per cercarlo.
Un imperfetto di consuetudine inizia il brano: era precisato nella Torà (cfr. Es 23,17; Dt 16,16) che i maschi ebrei dovessero recarsi tre volte all’anno a Gerusalemme, in occasione di tre ricorrenze importantissime per la loro identità religiosa e culturale: Pasqua (marzo/aprile), Festa delle Settimane (= Pentecoste – maggio/giugno), Festa dei Tabernacoli (settembre/ottobre). Il v. 41 è una testimonianza diretta del fatto che quanti erano lontani, potevano recarsi a Gerusalemme una sola volta all’anno. Gesù si trova a pochi mesi dalla maggiore età religiosa: infatti a tredici anni vi era l’ingresso a pieno titolo nella vita cultuale. Il v. 43 descrive una situazione non del tutto impensabile in quel contesto culturale dell’antichità: non era insolito il fatto che, in una carovana di persone che avevano tra loro legami di parentela o, comunque, di continguità relazionale, genitori e figli si dividessero e fossero in luoghi diversi. Comunque il dato conclusivo e culminante del testo è l’inconsapevolezza dei genitori circa l’assenza di Gesù. E i successivi vv. 44-45 sono certamente preziosi nell’evoluzione narrativa del racconto: infatti, tramite una serie di verbi al passato puntuativo, la narrazione viene progressivamente centrata sulla figura dello “scomparso”, che è il punto d’arrivo conclusivo del discorso: l’oggetto delle azioni dei due genitori in ricerca è espresso dal pronome lui, che è l’ultima parola del testo. «46Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, ad ascoltarli e ad interrogarli. 47E tutti quelli che l’udivano erano in estasi per la sua intelligenza e le sue risposte.
Cfr., per es., Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, II,230; Erodoto, Storie, I,114ss; Plutarco, Vita di Alessandro Magno, 5,44. 76 Cfr., per es., N. Krückemeier, Der zwölfjährige Jesus im Tempel (Lk 2,40-52) und die biographische Literatur der hellenistischen Antike, in “New Testament Studies” 50 (3/2004), 307-319. 75
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Ernesto Borghi Al vederlo restarono fortemente sbalorditi e sua madre gli disse: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io eravamo angosciati e cercavamo te”. 49Ed egli rispose: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo essere tra le cose del Padre mio?”. 50Ma essi non compresero quanto aveva detto loro». 48
Questo è il cuore del brano. La notazione temporale è chiaramente allusiva alla fine gesuana (cfr. anche 9,22) e Gesù viene ritrovato nello spazio clou della cultualità e vita religiosa giudaica. Il clima descrittivo non presenta alcuna eccezionalità: in piena duratività77 il testo rappresenta un incontro di alto livello simbolico in cui importantissima è la dinamica relazionale tra il ragazzo e gli esperti della Torà suoi interlocutori. L’ascoltare precede il parlare questionante - azioni ambedue proprie dell’interagire giudaico tradizionale sia con i testi biblici sia con i dotti rabbini78 - e il tutto si verifica in modo continuativo. L’esito di questa situazione è duplice: • un vero e proprio “uscire di sé” dei presenti di fronte alla capacità gesuana di leggere nelle situazioni e nelle parole e di replicare alle domande altrui (v. 47)79; • uno sbigottimento profondo dei genitori e delle parole della madre – la figura genitoriale largamente più presente in Lc 1-2 – , la quale, a partire da un’evidente umanità interiore e dall’intima destabilizzazione affettiva di entrambi80, chiede conto al figlio del suo agire. Indubbiamente gioca un ruolo importante l’affetto materno81, ma il testo prosegue nel delineare la figura di Maria come colei che desidera comprendere quanto sta succedendo nella vita del figlio e nella propria. Gesù risponde (v. 49) superando le dinamiche naturali tra figlio e genitori82. La traduzione letterale della replica qualificante è la seguente: «devo essere nelle cose del Padre mio». Due sono, tra le altre, le possibili interpretazioni di questa presenza/appartenenza e di questa relazione filiale: • la totale disponibilità al piano di salvezza del Padre; • la permanenza nel Tempio, il luogo d’insegnamento della Parola per eccellenza, dunque nella casa della sapienza divina per antonomasia. Non escluderei che l’intepretazione più circoscritta sia compresa da quella più sostanziale e globale. La relazione unica tra Padre e Figlio, variamente preannunciata da segni e parole disseminate lungo i centotre versetti precedenti - da 1,26 in poi,
Si noti in proposito la morfologia dei participi del v. 46: sono tutti al presente. Cfr., per es., Prv 3,1-7. 79 Si vedano, a titolo di confronto, passi quali Lc 8,56; 24,22. 80 L’espressione «tuo padre ed io» appare non una formula di cortesia espressiva, ma il segno evidente che almeno questa parte del racconto viene da ambienti culturali che non erano al corrente dell’evento dell’annuncio di Gabriele a Maria e delle caratteristiche “costituzionali” della funzione divino-universale di Gesù. 81 In termini di coinvolgimento emotivo profondo si vedano anche testi tra loro diversi come Lc 16,2425; At 20,38. 82 Si veda, in termini analoghi, Marco 3,31-35. 77 78
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dall’annunciazione di Gabriele alle parole ed azioni di Simeone ed Anna, passando per quanto vissuto e detto da Maria, da Zaccaria, da Elisabetta, dagli angeli e dai pastori – viene riassunta in queste parole di Gesù, che i genitori non riescono a capire, perché, in definitiva sfugge loro la particolarità dell’alterità divina. «51Partì dunque con loro e tornò a Nazareth ed era sottomesso a loro. Sua madre custodiva tutti i fatti e tutte le parole piene di senso nel suo cuore. 52E Gesù progrediva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli esseri umani»83.
Il ritorno nel contesto umano preparatorio (cfr. Dt 5,16) avviene senza alcun segno di eccezionalità e la “subordinazione” del ragazzo ai genitori appare una condizione sostanzialmente analoga a quella di qualsiasi altro figlio in una famiglia palestinese dell’epoca. D’altronde questi due versetti presentano due indicazioni preziose, in qualche misura, riassuntive di quanto sinora trattato nella versione lucana e prospettive verso il prosieguo del testo e della vicenda di Gesù in esso narrata: • Maria (v. 51), in una logica di continuità, continua a sviluppare la sua fisionomia meditativa in relazione a quanto ha vissuto84, proponendosi quale modello per chiunque abbia ascoltato o letto ciò che i centrotrenta versetti precedenti hanno mostrato e voglia tenerne conto esistenzialmente nella propria vita85; • la crescita culturale e biologica di Gesù, dunque il suo iter di promozione umana culmina nell’accrescersi del favore divino in lui. E questi tre “assi” di potenziamento qualitativo della persona del Nazareno si prospettano all’attenzione contestuale di Dio e degli esseri umani (cfr. 1Sam 2,26), destinatari questi ultimi collocati quali espressione finale e culminante del discorso. Cfr. Lc 1,80; 1Sam 2,26. La parola rèma, che, nel plurale del v. 51 ho reso con la perifrasi tutti i fatti e tutte le parole piene di senso, quando non esprime strettamente la parola di Dio o di Gesù o di un angelo che riferisce parole divine, sottolinea la realizzazione misteriosa della parola (cfr. 2,15.17). Per quanto riguarda proprio l’uso plurale, essa ricorre in particolare quando si parla di eventi raccontati da o su Gesù (1,65; 24,11 e, appunto 2,19.51). E siccome il termine contiene in sé, come traduzione dell’ebraico davar, la parola e la cosa, Maria può confrontare dei rèmata, ossia mettere accanto e di fronte, per soppesarli e scoprirne armonie e distonie, fatti e fatti, parole e parole, parole e fatti. 85 Nel confronto tra i due atteggiamenti mariani di 2,19 e 2,51 cambiano i prefissi del verbo comune terèin. Nel primo caso, synetèrei e, nel secondo, dietérei. Il prefisso del primo verbo indica comunione, quello del secondo dispersione, dunque «una distanza, un conflitto, un dialogo, ma anche un perdurare nel tempo. Il cuore di Maria è abitato dalla gioia, alla nascita del Figlio, alla festa dei pastori. Lo stesso cuore è abitato dall’inquietudine, forse dalla difficoltà di comunicare con il Figlio, dodici anni dopo. Il ritrovamento di Gesù nel tempio il terzo giorno prefigura infatti la morte e la risurrezione di Gesù; e per Maria prefigura un destino in cui forse si sente divenire estranea, perché il Figlio non la comprende più e non la può più seguire: è il segno di contraddizione, la spada che le trafiggerà l’anima. La memoria prima raccolta e custodita gelosamente nell’intimo ora diventa una memoria divisa, fra la gioia e il timore. Maria continuava a custodire tutte queste cose, ma nell’incomprensione con il Figlio si apriva progressivamente alla comprensione del mistero e della missione di Gesù» (G. Cereti, «Maria custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore» [Lc 2,51], in Aa.V., «Se avete fede quanto un granello di senape», a cura del Segretariato Attività Ecumeniche, Ancora, Milano 2006, p. 207). 83 84
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Detto tutto questo, nessun lettore di questi due capitoli lucani, sino a queste battute finali e compendiarie, potrà stupirsi di quello che sarà letto a partire dall’inizio del prossimo articolo. 8.2. Linee di sintesi Questo brano è un vero e proprio coronamento globale del Vangelo dell’infanzia lucano. Per vari motivi: • il piano di Dio si realizza in ogni circostanza, anche se gli esseri umani non ne sono coscienti in parte o del tutto, come avviene qui ai genitori di Gesù; • tale realizzazione avviene nella storia degli esseri umani tramite il loro essere nell’umanità di Gesù, pienamente e intensamente giudaica86, ma aperta all’universalità della propria missione salvifica; • il quadro storico delle relazioni nella priorità divina non implica gesti eclatanti fini a se stessi; • l’umanità di Gesù è reale, non fittizia e lo sviluppo di sé è per Gesù la strada dello →←esseri sviluppo di Dio secondo la duplice relazione verticale/orizzontale Dio→ umani. Una tradizione cultuale che non ha soluzioni di continuità rispetto alla quotidianità extra-cultuale della vita si fonda sull’ascolto della Parola di Dio e si affianca ad una capacità d’interlocuzione umana indipendente. E il quadro di relazioni interpersonali parte da rapporti familiari del tutto costruttivi.
9. Per concludere su Luca 1-2 In questo episodio conclusivo della sezione di Lc 1-2 visitazione divina e riconoscimento umano, teologia ed epistemologia, convergono a realizzare una peculiare cristologia lucana, che rimarrà decisiva attraverso l’intera versione evangelica. In questo senso un racconto che inizia come teologia ed epistemologia diventa sempre più nettamente, versetto dopo versetto, sino a 2,52 cristologia. Essa ha certamente le sue radici nella cristologia primo-testamentaria, ma ha una sua evidente originalità nel focalizzarsi su Gesù come interprete di se stesso. In una narrazione che è stata così chiaramente assorbita dalla risposta umana all’azione divina, non sorprende che che vi si trovi una cristologia che dispieghi una dominante della dimensione cognitiva.
Considerando l’insieme del brano – e la globalità almeno di Lc 1-2 se non dell’intera versione lucana – si può legittimamente affermare, credo, che «l’interesse primario di Luca è di stabilire che Gesù era un vero israelita, cresciuto fin dalla nascita nella vita morale e rituale del giudaismo. Casa, Tempio e sinagoga lo hanno formato, e nessuna successiva critica del suo ministero e del suo messaggio potrà accusarlo di essere un eretico, un infedele o dirisentire di influenze fuorvianti nella sua formazione» (F.B. Craddock, Luca, p. 57).
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In questo quadro 2,49 diventa fondamentale. L’intera versione evangelica lucana appare una risposta in parole e azioni, da parte di Gesù, alla domanda qui rivolta da lui a Maria e Giuseppe e, in particolare, una spiegazione della locuzione “devo essere tra le cose del Padre mio”, in cui si manifesta certamente una prima percezione del Nazareno della propria identità e della propria missione. I capitoli 1-2 non lasciano al prosieguo del testo soltanto il protagonista che in essi è nato e ha visto delineare le sue caratteristiche “identitarie” e “funzionali”, ma anche dei lettori avvertiti di che cosa li attende. D’ora in poi nella narrazione evangelica lucana, lettrici e lettori, ascoltatrici ed ascoltatori, sebbenen conoscano molti caratteri gesuani – Figlio di Dio, santo, Messia, Gesù - devono ascoltare lui tanto quanto prestano attenzione ad uno di tali titoli. In questo senso Gesù è tanto rivelato quanto celato. Da Lc 3,1 in poi Dio e il narratore passano la parola a Gesù perché si dispieghi chiaramente l’interazione tra rivelazione e nascondimento. D’altra parte «sulla scorta della tradizione biblica, soprattutto profetica ed apocalittica, l’evangelista va elaborando una filosofia o teologia della storia e della vita umane, al cui centro si pone il Gesù terrestre e glorificato, quale sapienza conclusiva»87.
10. Per concludere su Luca 1-2 e Mt 1-2 L’indipendenza reciproca evidente di Lc 1-2 e Mt 1-2 ne aumenta l’attendibilità, visto che un nucleo comune è da entrambi conservato. Infatti sono molti i luoghi narrativi importanti in cui Lc e Mt concordano, a cominciare dal nome della madre di Gesù e dal il fatto che ella fosse promessa sposa di Giuseppe sino alla città, Betlemme, ove Gesù nasce (Lc 2,11; Mt 2,5-6) e al ritorno a Nazareth dei genitori e del bambino. Se si tiene conto del ruolo che storia e linguaggio hanno contestualmente nei testi che abbiamo dinanzi agli occhi, proprio alla luce di quanto Lc 1,1-4 dice, occorre riconoscere, anzitutto, che i racconti dell’infanzia hanno lo scopo di far riconoscere la vera identità di Gesù. Inoltre essi, in quanto discorsi, presuppongono un grande lavoro di selezione, interpretazione, enunciazione, che si è assoggettato alle possibilità espressive di una lingua estranea alla nostra, in un momento storico assai diverso da quello che stiamo vivendo. Per Matteo e Luca come per i credenti cristiani di oggi questi episodi hanno avuto luogo nel senso in cui Gesù realmente ricapitola la storia e ne diventa il centro e il termine. Egli riunisce i popoli ed è ormai dinanzi a lui che ciascuno, giudeo o pagano, è chiamato a collocarsi. L’evento della risurrezione di Gesù ha suscitato una fede che è andata alla ricerca di tutto quanto aveva preceduto questa vittoria sulla morte, a cominciare dal senso della crocifissione sino alle fasi iniziali della storia del Naza-
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R. Osculati, L’evangelo di Luca, p. 48.
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reno. Gli avvenimenti hanno suscitato la fede ed essa, a sua volta, interpreta in verità gli avvenimenti stessi. La fede in questione ha le fattezze • della fedeltà ricca di intelligente e fedele discernimento manifestata da Maria; • della dinamica e coraggiosa fiducia di Giuseppe; • della determinazione culturale e spirituale dei Magi; • della fiduciosa e concreta volontà di verifica dei pastori; • dell’apertura non sempre facile alla volontà di Dio propria di Elisabetta, Anna, Zaccaria e Simeone. Il colore di fondo è la luminosità della gioia nella complessità delle vicende umane, in cui il disegno divino si fa strada in mezzo alle crudeltà, alle durezze di cuore e alle paure degli individui e dei gruppi. Il radicamento primo-testamentario, più esplicito e testuale in Matteo, più intenso e culturale in Luca, fa comprendere che questa fiducia parte da lontano, ma si manifesta nell’eccezionalità culminante del Figlio di Dio che si fa uomo per il bene di chiunque. E i racconti evangelici manifestano che ogni essere umano può credere che l’amore si realizza nella propria e altrui vita, a partire da due dati che tali narrazioni esprimono: • Dio ha scelto di incarnarsi per amore nelle condizioni ordinarie e comuni della nascita di Gesù; • la vita di persone del tutto eterogenee per formazione, cultura e prospettive come Maria, Giuseppe, i Magi, i pastori e gli altri personaggi positivi di questi capitoli ha fatto spazio ad esso. Tutto questo non è in contraddizione con le emozioni suscitate ancora oggi nel cuore di milioni di persone dal Natale e dalla figura del Bambino Gesù. È, invece, del tutto alternativo rispetto a certe semplificazioni catechistiche deteriori o alle zuccherosità melense di chi, per ragioni essenzialmente commerciali, vuole propalare, magari da novembre alle feste natalizie, un’idea infantilistica e superficiale di tutto quanto circonda la nascita e l’infanzia del Nazareno.
Notazione pedagogica conclusiva Prima di concludere mi pare indispensabile fare un’ultima notazione. Almeno una volta all’anno, nel tempo di Natale, nelle chiese cattoliche, in Italia e altrove, si sente una serie incredibile di esaltazioni della cosiddetta “Sacra Famiglia di Nazareth”, che viene presentata come modello etico fondamentale per qualsiasi nucleo familiare, anzitutto d’ispirazione cristiana. Basandosi essenzialmente su quanto dicono i primi due capitoli delle versioni evangeliche canoniche di Luca e di Matteo, predicatori di ogni livello di responsabilità ecclesiale, catechiste e catechisti, insegnanti di religione, delineano quadri formativi, offrono piste educative, fanno sottolineature critiche in chiave etica come se i loro punti di riferimento biblico lucani e mattea-
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ni fossero dei testi di storia tout court o dei saggi di pedagogia o di etica nel senso stretto del termine. Tutto questo è profondamente sbagliato dal punto di vista scientifico e “pericoloso” sotto il profilo formativo. I racconti lucano e matteano sono pagine di storia teologicamente orientata che non hanno lo scopo di raccontare “positivisticamente” come certi avvenimenti si siano verificati, ma di offrire il senso dell’incarnazione di Dio in Gesù di Nazareth nella prospettiva che guarda costantemente alla morte e alla risurrezione: sono testi propedeutici a quegli eventi culminanti e decisivi. «La storia di Gesù non poteva essere dimenticata, ma l’impegno più urgente era tener desta la sua testimonianza attraverso le proprie operazioni di bene»88. In questo quadro occorre collocare anche queste splendide pagine, che hanno ispirato numerosissime, mirabili interpretazioni artistiche a livello figurativo e musicale. Da queste decine di versetti di teologia e cristologia catechetica non è sostanzialmente serio né sensato, in particoalre a partire dalle conoscenze scientifiche che si hanno da alcuni decenni a questa parte, cercare di arguire quali fossero i rapporti effettivi tra Maria e Giuseppe e tra i due genitori e Gesù. Questi non sono racconti di storia familiare. Un’annosissima tradizione esegetico-ermeneutica ha ritenuto di poter costruire a partire da questi testi, in particolare da quelli lucani, una vera e propria pedagogia sponsale e familiare, ma, occorre riconoscerlo, a partire da criteri di lettura da decenni scientificamente inaccettabili soprattutto se sono applicati a questi capitoli delle versioni evangeliche canoniche. Se si continuasse a fare quest’operazione culturale, non soltanto si dimostrerebbe di non aver compreso che cosa significhi la differenza tra i generi letterari nei testi biblici, ma si proporrebbe un’ipostatizzazione di queste tre figure e della stessa “famiglia di Nazareth” che avrebbero una rilevanza esemplare sempre minore nella vita di oggi e di domani. Concludendo: quanto Lc 1-2 e Mt 1-2 dicono di Gesù, di Maria e di Giuseppe sono assai importanti rispetto al prosieguo delle versioni evangeliche stesse, al tipo di rapporto con Dio che ne emerge, ai valori del discepolato verso il Dio di Gesù Cristo, sempre operando un attento discernimento tra quanto proposto verosimilmente dai testi nei primi decenni cristiani e il valore etico ed estetico che ciò propone oggi a distanza di molti secoli dagli eventi e dai valori considerati. L’incontro con la nascita di Gesù e quello con il Nazareno neonato creano immediatamente il desiderio di manifestare l’eccezionale positività dell’evento. Vi sono forme diverse, talora gioiosissime (= Maria, Elisabetta, i pastori, i Magi) talaltra rasserenate (= Simeone), ma senza alcuna superficialità emotiva. Nella consapevolezza, tutta rivolta all’avvenire del bambino Gesù nella storia sua e in quella universale, che raccontare questo evento sia dare la notizia più entusiasmante e rivoluzionaria che sia possibile offrire, anzitutto nell’antichità e, via via, epoca dopo epoca, sino alla nostra attuale. Un entusiasmo e una forza di trasforma-
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zione che passano anche attraverso la sofferenza e il dramma, ma che intendono risolversi nel superamento del male e della morte come fine di tutto e di tutti. Il significato e il valore dei testi letti sin qui appare proprio questo: • un aiuto a credere che la storia di Gesù di Nazareth sia quella dell’Unigenito Figlio di Dio; • che ciò sia il sostegno decisivo ad una vita piena di senso umanamente ineguagliabile; • che tutto questo debba essere annunciato in ogni direzione possibile, per la crescita liberamente umanizzante di tutti. E ciò al di fuori di ogni slancio apologetico o di ogni dissacrazione laicista. Per non confondere storie e Storia, verità misurabili per beni transitori e verità incommensurabili per ricchezze senza tempo e non imporre ad alcuno di credere all’amore di Dio per gli esseri umani. (1. continua)
MISCELLANEA LASALLIANA La mission canonique et les districts vieillissants (Herman Lombaerts) Educational Service of the Poor (Jorge Enrique Fonseca) Contributo per una storia sociale della componente italiana dei Fratelli delle scuole cristiane negli anni della Restaurazione (1815-1830) (Matteo Mennini) Retazos lasalianos [31-35] (José M. Valladolid) Un antesignano degli Studi lasalliani: Dante Fossati FSC (1902-1995) (Marco Paolantonio) La « Grande Chapelle » de Passy-St-Nicolas et le mouvement catéchétique au 20ème siècle (Nicolas Capelle)
RivLas 78 (2011) 2, 295-312
La «mission canonique» et les districts vieillissants HERMAN LOMBAERTS
1. Justification En quelques décennies, l’Institut, en Europe, s’est restructuré. D’une part, la Région Lasallienne Europe-Méditerranée (RELEM) s’est formellement constituée. D’autre part, un certain nombre de districts se sont regroupés. Bien entendu, les contours d’une identité dynamique lasallienne, tels que développés par le 44e Chapitre Général de 2007 valent à part entière pour cette Région : bâtir la communauté, regarder la réalité, appliquer un discernement avec les yeux de la foi, et agir dans la foi. Mais le phénomène des districts vieillissants, en Europe, comme tel, ne figure pas parmi les thématiques explicitées dans la Chronique du Chapitre1. Pourtant, le réaménagement des districts ne reflète pas en premier lieu un « renouveau charismatique» intentionnel et stratégique. Il s’agit plutôt d’une adaptation à une réalité inéluctable : le vieillissement, et par conséquent la diminution, voire la disparition des Frères. Ce processus fait partie d’un changement social et ecclésial beaucoup plus large. A un niveau plus fondamental, il s’agit d’une transition du rôle et de la fonction des religions dans la société européenne. Y a-t-il lieu de reconnaître dans ce vieillissement « un signe des temps », un événement qui interpelle l’Institut dans son ensemble ? En fait, la restructuration constitue une adaptation administrative à une évolution qui s’est imposée dans le courant du vingtième siècle. D’abord il y a eu, en 1988, l’intégration des districts d’Angleterre et de Londres pour constituer le district de Grande-Bretagne; plus tard Malte s’y est associé en tant que secteur. Depuis 1991 les différents districts de France ne forment qu’un seul. En 1994 il y a eu la réorga-
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Bulletin de l’Institut des Frères des écoles chrétiennes, n° 251, p. 77-86.
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nisation du district de l’Europe de l’Est ; depuis 2006 les Frères des Pays Bas en font partie en tant que secteur. Depuis 2002, les deux districts d’Italie ont fusionné. Et fin 2009 les 6 districts d’Espagne et de Portugal se sont réunis en une seule entité ARLEP. Parallèlement, puisque les nouvelles vocations se comptent au comptegouttes, un seul noviciat européen assure la formation initiale. Si, sociologiquement, ce changement institutionnel a été repéré il y a quelques décennies déjà, il s’avère qu’aujourd’hui on atteint un point de non retour. Dès lors, l’idée de réaliser une centralisation structurelle se contente-t-elle de répondre à quelques impasses organisationnelles, ou met-elle en place des mesures pour faire face à une réalité globale incontournable ? S’agit-t-il d’une restructuration provisoire, une étape intermédiaire, préparant une intervention beaucoup plus fondamentale ? Les deux districts de la Belgique (Nord et Sud) et des Pays-Bas, font partie d’un même contexte socio-culturel, avec trois cultures et deux entités linguistiques. D’autres districts, en Europe, répondent aux mêmes phénomènes de vieillissement. Statistiquement, leur fin se fait entrevoir dans un avenir assez proche. Dans ces districts, la gestion se concentre sur l’accompagnement de cette réalité. Il y a deux décennies déjà, les Frères des Pays-Bas ont pris l’initiative de s’y préparer. Les deux districts Belges actuellement sont contraints à y faire face à leur tour. L’âge moyen des Frères se rapproche de 80 ans. Afin de mieux se réaliser, et de façon plus consciente, qu’il s’agit d’un processus historique irréversible, ces districts on pris l’initiative d’examiner ensemble la façon dont ils ont accueilli cette réalité. Ils ont relu ensemble le diagnostique établi lors des récents chapitres de district. Ils examinent de façon critique la gestion mise en place pour y faire face, la question-clé étant : avons-nous appliqué un discernement suffisamment lucide et prévoyant ? Pour ce faire, depuis 2009, les frères visiteurs et quelques conseillers des trois districts se sont organisés en groupe de concertation pour s’entraider à concevoir une gestion appropriée, inventive aussi, orientée vers l’avenir à court et à moyen terme. Le district de Belgique-Nord, de son côté, a mis en place une « Commission de Supervision ». Elle comprend d’une part les quatre Frères du bureau, assumant avec le frère visiteur la gestion quotidienne du district, et d’autre part le frère Économe Général (Rome), un frère du conseil de la RELEM, et deux laïcs, l’un étant spécialiste dans le domaine de l’immobilier, conseiller auprès d’autres congrégations, et l’autre représentant le domaine médical : hôpitaux et maisons de retraite d’inspiration chrétienne. Le but de la commission étant de préparer la gestion du district quand les Frères eux-mêmes ne peuvent plus en assumer la responsabilité. Un aspect important de ce projet concerne la gestion des biens immobiliers et des réserves financières. D’un point de vue institutionnel, deux questions se posent: 1/ Y a-t-il lieu de transférer les propriétés et les réserves financières vers une instance externe (l’Institut à Rome par exemple), à condition que l’avenir de tous les Frères
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soit assuré ? 2/ Un district vieillissant garde-t-il la responsabilité, et jusqu’à quel point, de maintenir la mission éducative lasallienne dans les écoles qui lui appartiennent ? Lors de la 2ème réunion de la Commission de Supervision (18.12.2009), examinant la situation des biens immobiliers, il a été souligné que le district devait veiller à ce que l’usage des biens immobiliers de l’école garantisse la finalité canonique qui est l’éducation chrétienne. Lors de la concertation des provinces Belgique et des PaysBas il s’est avéré que posséder des propriétés est un acte social, soumis aux lois. Dans ce contexte, pour rester fidèle à une mission, il faut une stratégie disciplinée et intelligente (inventive) afin que la valeur du caractère symbolique n’en soit pas trahi. Si des mesures radicales ne sont pas prises, certaines situations, dues à une gestion malheureuse, peuvent atteindre un point de rupture fatal. Quant à la continuité de cette concertation, il a été suggéré de clarifier la « mission canonique » : qu’est-ce qu’elle signifie aujourd’hui dans le contexte européen ? Ce point figurait donc en tête de l’ordre du jour de la réunion du 30 septembre – 01 octobre 2010. Le texte qui suit a été discuté lors de cette rencontre, de même que par la Commission de Supervision, les 28 et 29 octobre 2010. Ce dossier veut rassembler quelques jalons historiques et contemporains pour essayer de clarifier le contenu même de la « mission canonique », afin de pouvoir se prononcer sur une stratégie de gestion à ce sujet dans les districts vieillissants.
2. Les Règles Communes de 1726 Référons-nous d’abord à la conception de la mission des écoles telle que J.-B. de La Salle l’a entrevue. Elle constitue le nœud unique et original de l’identité de l’Institut et de l’apostolat de tous ceux qui s’en inspirent. L’édition princeps de 1726, approuvée par Benoît XIII, imprimée à Rouen – d’après les manuscrits de 1705, 1713 et 1718, précise au Premier Chapitre2: [3] « La fin de cet Institut, est de donner une Education chrétienne aux Enfants ; et c’est pour ce sujet qu’on y tient des Ecoles, afin que les Enfants y étant sous la conduite des Maîtres depuis le matin jusqu’au soir, ces Maîtres leur puissent apprendre à bien vivre, en les instruisant des Misteres de nôtre sainte Religion, en leur aspirant les Maximes chrétiennes, et ainsi leur donner l’éducation qui leur convient. » [4] « Cet Institut est d’une très-grande nécessité, parce que les Artisans et les Pauvres étant ordinairement peu instruits, et occupez pendant tout le jour pour gagner la vie à eux et à leurs Enfants, ne peuvent pas leur donner eux-mêmes les Instructions qui leur sont nécessaires, et une Education honnête et chrétienne. »
Les citations renvoient au texte original repris du Cahier Lasallien 25, p. 16-17. Pour une transcription en Français moderne, cf. Oeuvres Complètes, p. 3ss. 2
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Ces deux points sont à l’origine de ce qu’on appelle la « mission canonique ». C’est la référence-clé historique de l’identité lasallienne. Les frères s’associant au nom de cette mission, s’y appliquent nuit et jour, pour du bon, gratuitement, sans se laisser distraire par d’autres occupations, aspirations ou ambitions. Cet engagement se conçoit et se vit dans une optique bien précise. « Ce qui est de plus important, & ce à quoi on doit avoir plus d’égard dans une Communauté, est que tous ceux qui la composent ayent l’Esprit qui lui est propre […] « L’Esprit de cet Institut est premièrement un Esprit de foy, qui doit engager ceux qui le forment à n’envisager rien que par les yeux de la foy ; à ne rien faire que dans la vûë de Dieu, à attribuer tout à Dieu… »3 « Secondement, l’Esprit de leur Institut consiste dans un zèle ardent d’instruire les Enfants et de les élever dans la crainte de Dieu, … »4
L’intention de ce texte n’est pas d’offrir une analyse approfondie de cette référence historique. Bon nombre d’études lasalliennes l’ont amplement clarifié5. La référence à l’origine de ce qui constitue la mission éducative lasallienne est indispensable pour pouvoir la réinterpréter dans le contexte actuel. Cette mission trouve son inspiration dans ce que de La Salle a vu à un moment donné de sa vie, et dans son engagement continu au service de cette fin. Le caractère authentique ce son projet s’est trouvé confirmé dans l’engagement des frères, pendant trois siècles, dans des contextes socio-culturels les plus variés. La mission émane donc d’un contexte historique bien précis, et s’est progressivement cristallisée dans ce qu’on appelle le « charisme » lasallien.6 Bien entendu, toute l’œuvre de La Salle est fort imprégnée de la spiritualité du 16e et 17e siècle, l’Ecole de spiritualité française, avec comme inspirateurs François de Sales, Pierre de Bérulle, Jacques Olier, et tant d’autres, avec de nombreuses référence aussi à Thérèse d’Avila et Jean de la Croix. On y décèle également l’influence incontestable de saint Augustin - dont la lecture par Jansénius et Quesnel, tout comme le quiétisme et le gallicanisme, ont tant brouillé la vie de l’Eglise, en France, au 17e siècle. Mais, loyal envers l’Eglise de Rome, solidaire de nombreux collègues, de La Salle s’est franchement intégré dans les courants innovateurs de son temps. Fort motivé à réaliser les options du Concile de Trente, il s’est impliqué sans réserves dans le discernement des besoins irréfutables et dramatique qui réclamaient une
CL 25, p. 18, au par. [2]. CL 25, p. 20 au par. [9]. 5 A part les premières biographies (Bernard, Maillefer, Blain) et la lecture comparée par fr. Émile Lett, Les premiers biographes de saint J.-B. de La Salle, Paris 1955, l’étude approfondie de Yves Poutet, Le XVIIe siècle et les origines lasalliennes, tome I, Période Rémoise, Rennes 1970, offre une documentation inestimable pour apprécier la portée précise de la « mission canonique » telle que de La Salle et ses Frères l’ont conçue. 6 Conseil International des Études Lasalliennes, Le Charisme Lasallien, Rome 2005. 3 4
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réponse immédiate, notamment la pauvreté et les conditions de vie du peuple, à cause de la migration de la campagne vers les villes. Cherchant sa place à lui dans le contexte ecclésial et social de son temps, il a été amené à créer un environnement éducatif nouveau. Il s’est donc appliqué à la formation spirituelle appropriée du clergé, il a surtout mis en place une spiritualité pour les éducateurs chrétiens laïcs au service des enfants et des jeunes à risque. L’enseignement des enfants par le catéchisme et l’initiation à une vie sacramentelle et morale y occupaient une place centrale. Une conscience vivante de la présence de Dieu, agissant dans la vie d’un chacun, un approfondissement de la foi en la Sainte Trinité, la dévotion à la Sainte Vierge, une fidélité sans compromissions à l’autorité du pape et une fidélité loyale vis-à-vis de l’Eglise représentaient des caractéristiques de sa spiritualité. Bien que précédé par Descartes (1596-1650) et Spinoza (1632-1677), bien qu’étant témoin de l’émergence de l’esprit scientifique (Galileo Galilei, 1564-1642) et d’une rationalité propre à la Modernité (Locke, 1632-1704), préparant les Lumières, La Salle s’est mis à distance des discussions entre foi et science. Ses convictions et propositions reflétées dans les Règles Communes, dans la Conduite, dans les Méditations et dans les Règles de la bienséance, s’enracinent dans la foi, comme grâce, comme don de Dieu. C’est ce qui constitue l’enjeu de la mission des Frères. Leur enseignement ne concernait pas en premier lieu l’émergence progressive de la pensée moderne. Il s’agissait de « sauver » les enfants des artisans et des pauvres. Il fallait les aider pour qu’ils échappent au cercle vicieux de leur situation familiale et sociale. Pour y arriver, il voulait des écoles où le développement de compétences élémentaires, indispensables pour pouvoir s’intégrer dans le marché du travail, occuperait une place centrale. L’enjeu c’était que les jeunes intègrent dans une société urbaine de plus en plus axée sur la culture du livre, les documents de la bureaucratie, le commerce en pleine expansion. Cette formation, bien entendu était directement associée à une éducation chrétienne, à une vie sacramentelle paroissiale, à un comportement moral en harmonie avec les valeurs de l’évangile. Comme – selon la visée de l’époque - toute la vie (sociale et politique) correspondait à l’ordre divin, il s’agissait d’assurer que cet ordre soit respecté en tout et partout, que l’on écarte toute « distraction » possible. En cela il était fidèle à sa formation ecclésiastique à Reims et à son passage par le séminaire Saint-Sulpice, à Paris, de 1670 à 1672. La Salle prenait ses distances par rapport aux écoles de son temps. L’enseignement « payant » excluait la plupart des enfants de l’éducation scolaire. Il se mettait solidairement du côté des familles en difficultés, sans espoir de pouvoir s’en sortir, condamnant ainsi leurs enfants à un échec certain de leur vie future : défaillance sociale et économique, dépourvue de sens et de cohésion éthique et religieuse. Il avait compris qu’il fallait se mettre avec la classe sociale visée, rejoindre les enfants dans leur situation, les connaître personnellement, abandonner la commercialisation de l’éducation, toujours aux frais des familles.
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Sa réponse technique à cette menace d’une fatalité irréversible fut l’enseignement scolaire, bien entendu. Mais l’univers symbolique qu’il voulait instaurer pour sauvegarder l’authentiticité de la foi chrétienne et ecclésiale, c’était la gratuité, le don de soi à l’autre tel que compris par l’amour chrétien. L’amour du Christ témoigné par les Frères dans leur dévouement généreux, et l’accueil du Christ dans les enfants se présentant à l’école, constituaient le garant d’un engagement vrai et crédible visà-vis des parents et des enfants. Au cœur de cette visée, on retrouve le souci d’adresser les vrais besoins, d’aller droit au but, de faire coïncider « être, penser, agir », et de refuser toutes sortes d’ambigüités, d’entente entre intérêts contraires. C’est ce qui frappe lors de la lecture des Règles Communes. L’éducation envisagée misait sur la cohérence totale entre la vie personnelle et communautaire des Frères d’une part, et leur comportement envers les enfants d’autre part. Ils étaient au fond des « sophoi » (des sages offrant un enseignement désintéressé) en non des « sophistes » (des techniciens rémunérés). Ce qui constitue la dynamique de cette « mission canonique » du début : Être impressionné profondément par ce qui arrive à des enfants et des jeunes dans un contexte précis, en comprendre les causes, en repérer le cercle vicieux. Reconnaître que le Dieu de la vie s’annonce à partir de ces enfants/jeunes et leurs familles, et appelle à assumer une responsabilité sans ambigüités. S’unir en communauté et se partager une sensibilité nouvelle pour cette foi « incarnée » dans une réalité sociale. Développer un style de vie qui en exprime l’intuition. Se mettre radicalement du côté de ces personnes à risque et de s’intégrer dans leur monde. Ainsi peut naître une empathie profonde, une solidarité crédible entre enseignants et enseignés. Une intégrité indiscutable permettra dès lors que le dévouement gratuit introduise une différence réelle dans la vie des personnes visées.
Interpellation Cette forme du projet de La Salle est interpellée actuellement. L’évolution qui s’est imposée à la suite de l’introduction de l’école moderne, de la démocratisation de l’éducation scolaire, de l’émergence d’un modèle de société occidental (capitaliste, démocratique, mondialisé, médiatisé, consommation autogérée …), norme pour le reste de la planète, a modifié la réception d’une éducation d’inspiration chrétienne. Ces changements ont introduit une nouvelle intelligence de la vie, une nouvelle compréhension de son origine, de sa maîtrise, de son avenir. Cette vie que nous vivons actuellement sur terre, finira un jour, non pas au « dernier jugement », mais parce que notre planète va se désintégrer à la suite de la diminution de l’influence
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du soleil. Selon le discours de certains scientifiques, la nouvelle cosmologie évacue toute référence à un Dieu ‘créateur’, voire un Dieu ‘rédempteur’. En d’autres termes, les présupposés théologiques et anthropologiques propres à l’univers chrétien du 17e-18e siècle, et à M.de La Salle, ont été abandonnés par l’homme contemporain qui, par ailleurs, a bien profité de la scolarisation prolongée. Cet univers chrétien est en train de se déconstruire de l’intérieur. Ce processus est incontournable et irréversible. Et nous questionne: - Que reste-t-il de la « mission canonique » lasallienne dans le contexte contemporain en Europe ? A quoi peut-on s’attendre pendant les décennies à venir ? - Comment alors interpréter la « disparition » des Frères de nos pays ? Dans quel sens est-ce « un signe des temps », et comment alors l’interpréter ? - Rassembler des laïcs intéressés à continuer l’œuvre amorcée dans le passé, les inviter à rejoindre « l’association », est-ce suffisant pour dépasser la « disparition » d’une forme historique de l’outil charismatique? - Quel discernement faut-il pour ré-inventer le charisme historique dans les systèmes scolaires de l’avenir, qu’en ce moment nous ne pouvons que deviner?
3. Qu’est devenue cette « mission canonique » au cours des siècles7? Au cours du 18e, 19e et de la première moitié du 20e siècle, on note une tension constante entre le but historique de l’Institut et les changements qui s’imposent à partir du contexte philosophique, social, économique et politique. Pour bien comprendre comment en a pu en arriver à une interpellation aussi forte durant ces dernières décennies, il est indispensable de se rappeler l’influence de la Modernité et des Lumières, et de ses conséquences pour une œuvre qui, dès le début, s’est située au cœur de la réalité sociale. Deux études des péripéties affectant la « mission canonique » s’imposent : l’étude du fr. Pedro Gil (l’éducation chrétienne par les écoles) et du fr . Bruno Alpago (le service éducatif des pauvres). 3.1. L’éclatement de la «mission canonique» aux contacts avec le monde moderne Fr. Pedro María Gil a essayé de repérer les grands changements qui se sont imposés à l’école lasallienne durant les trois siècles de leur existence8. Déjà dans le courant
Cf. la série L’initiation à l’histoire de l’Institut des Frères des écoles chrétiennes, du fr. Henri Bédel, Études Lasalliennes, 5, 6, 9, 11 et 12. 8 Tres siglos de identidad lasaliana. La relación misión-espiritualidad a lo largo de la historia FSC, Rome, 1994. 7
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du 18e siècle, des mutations contextuelles importantes se sont imposées. En ce qui concerne l’Institut, face aux changements, c’est (l’esprit de) la Règle – toujours en gardant le texte littéral de l’époque du fondateur - qui sauvegarde l’identité lasallienne. C’est la «mission canonique », telle qu’énoncée dans la Règle, qui les maintient en communion avec la passion du fondateur. C’est seulement vers le milieu du 18e siècle que l’Institut s’est pris en main, de façon autonome, adulte, pour réaliser le charisme, en évitant une dépendance excessive par rapport au fondateur. Ces changements obligeaient les Frères à discerner en quel sens leur enseignement pourrait intégrer les sciences et les exigences pédagogiques (l’éveil d’une l’éthique autonome, l’encyclopédisme) de l’époque. Mais c’est surtout la Révolution française – fruit de la Modernité (relation nouvelle entre raison et organisation sociale) - qui a perturbé l’Institut, pourtant déjà solidement établi en France. C’était une première vague de « sécularisation » : la disparition d’un sens supposé être légitimé par un univers révélé, extra terrestre, divin. Si les Frères s’efforcent de rester en dehors de ce courant, en pratiquant la Règle, ils n’ont pu empêcher que le contexte social a transformé leurs écoles, en y intégrant les exigences du progrès socio-culturel, économique et idéologique. C’est une première forme de « déconstruction » de l’héritage historique, sans que pour autant l’Institut comme tel soit détruit, ou que son dynamisme charismatique disparaisse. Mais déjà ces changements exigeaient un autre type de compétences pour « tenir les écoles » et donc aussi l’expérimentation avec d’autres modèles de formation. Par rapport à l’école populaire moderne du 17e-18e siècle, une transformation de l’outil de l’éducation chrétienne émerge progressivement : - l’école se professionnalise - l’école s’émancipe de la tutelle ecclésiale, et sera contrôlée par l’Etat - l’école se sécularise. Il semble que déjà à ce moment, pour bien s’adapter ou pour repenser la mission dans un contexte différent, il fallait développer une vision suffisamment large et innovatrice pour assurer une fidélité créative au Fondateur. C’est ensuite au début du 19e siècle que l’Institut se ressaisit, se réorganise et réinstaure son identité. Les Frères s’impliquent dans l’organisation même du progrès concernant l’apport des écoles dans la société « moderne », des Lumières : l’invention de l’école populaire moderne ; un nouvel élan spirituel au service de la mission, malgré les ambiguïtés de la restauration du rôle de l’Eglise dans l’Etat (laïcisé) et de la nouvelle évangélisation. Durant la deuxième moitié du 19e siècle des changements importants affectent tant les écoles que leur clientèle: l’industrialisation, l’urbanisation, l’émergence de la bourgeoisie, la scolarisation pour tous les enfants. Et tout au long du 19e siècle, l’Institut s’établit progressivement dans différents pays de l’Europe, et d’autres continents. L’esprit « missionnaire » va colorer la « mission
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canonique ». Les Frères se voient obligés de repenser leur mission et leur spiritualité. Ils sont aussi confrontés à de nouvelles crises politiques et sociales. Au début du 20e siècle, l’Institut est directement visé par la « sécularisation » des ordres et congrégations religieux (1904-0914)9. L’Europe se repense idéologiquement et se reconstitue politiquement. Les Frères parviennent une fois de plus à se réorganiser, à se maintenir dans leur vocation spécifique, tout en constatant que la mutation de la société (Européenne en premier lieu) a des répercutions importantes. La « mission canonique » s’est universalisée et se pratique désormais dans d’autres cultures et s’intègre aussi dans des régions non-chrétiennes. Les Frères se sentent obligés de réinterpréter intuitivement leur « fidélité au Fondateur » et leur « mission canonique ». Souvent ces efforts n’arrivent pas à dépasser les conflits inhérents au passage de leur mémoire historique à des situations, des modes de pensée et des conditions de vie, totalement inexistants et inimaginables au temps du Fondateur. Il s’y prépare de façon inévitable une situation explosive, courageusement entrevue pour la première fois au Chapitre Général de 1956. La réponse s’est clarifiée lors du Chapitre de 1966-67, alerté aussi par le Concile Vatican II. La Déclaration et la révision de la Règle entament une nouvelle phase dans l’histoire de l’Institut – dans un certain sens on peut parler d’une rupture avec le passé. Une lecture littérale, statique de la fidélité au fondateur y est ouvertement écartée. Il ne s‘agit pas d’une nouvelle « formulation » ; c’est le charisme original qui s’y conçoit de manière nouvelle, bien entendu à partir de l’inspiration dynamique qui a fait démarrer un projet, dont l’initiative a été attribuée au Dieu de la vie. Cette démarche trouve se légitimité et sa vérité dans une étude historique et scientifique de la biographie de La Salle et de la tradition lasallienne (conscience historique), en tenant compte des changements des sociétés (l’impérialisme économique capitaliste face à une économie collectiviste, une société de masse, le changement de la hiérarchie des valeurs, la sécularisation généralisée, les techniques de la communication, la société de consommation, les cultures des jeunes, l’émancipation de la femme, la mondialisation de la violence, …). Un paradoxe nous rend perplexes, en ce moment, en observant qu’au milieu du 20e siècle, l’Institut comptait 16.000 Frères, et que le « renouveau », ayant pour but de redynamiser la mission éducative lasallienne dans un contexte différent, coïncide avec un effondrement du modèle historique. En tant que « signe des temps » cette
Les trois premiers volumes des Études Lasalliennes offrent une vue d’ensemble de ces mesures politiques : H.Bédel, Le temps de la « sécularisation » 1904-1914, Rome 1991. Sur l’impact de cet événement dans l’Institut, cf. Le temps de la « sécularisation » 1904-1914. Notes et Réflexions, vol. 2, Rome 1991. Les documents officiels et rapports des procès sont rassemblés par Raymond Tronchot, Le temps de la « sécularisation » 1904-1914. La liquidation, vol. 3, Rome 1992. 9
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évolution mérite toute l’attention. Le site de l’Institut précise qu’aujourd’hui, avec plus de 76.000 collègues laïcs, nous administrons et enseignons près de 900.000 élèves, dans 80 pays. Il n’y est pas dit combien de Frères sont encore impliqués dans cette mission. D’après le Conseil Général, l’Institut compte 4.883 frères (15.12.2010). Ce nombre diminue d’année en année. Il est tout à fait clair que quelque chose s’est arrêtée, qu’il y a une rupture ou une interruption par rapport au passé. Serait-ce une des conséquences logiques – inimaginables à l’époque – du fait que La Salle ait introduit un autre type d’école, au service d’une réalité sociale émergeante, et contribuant ainsi à l’établissement d’une société autre ? 3.2 Adoucissement et radicalisation du « service des pauvres » Fr. Bruno Alpago10 parcourt l’histoire de l’Institut pour observer ce que deviennent la « gratuité » scolaire et l’école lasallienne « au service des pauvres », non seulement en France, mais dans d’autres pays et continents au fur et à mesure que les Frères s’y intègrent. La gratuité se voit interpellée et combattue par le contexte social et par les politiques scolaires introduites par les gouvernements (école publique, école privée…). L’éducation était de plus en plus considérée comme un sujet et un instrument politique. Alpago évoque à plusieurs reprises, d’une part une lutte entre l’Etat et les institutions religieuses (l’Eglise). Et d’autre part, il remarque une lutte interne à l’Institut. La gratuité étant considérée comme une caractéristique essentielle de la mission. Mais elle ne pouvait se maintenir comme telle dans des contextes nouveaux. Le principe de la gratuité entre en conflit avec la réalité concrète de plus en plus diversifiée. En ce qui concerne « l’école pour les enfants des artisans et des pauvres », avec une progressive démocratisation de l’enseignement scolaire, au service de tous, la composition de la clientèle des écoles change. L’école devient celle de ceux qui la choisissent, ceux qui peuvent la choisir, en non celle des pauvres ou de tous. Avec l’émancipation de l’école vers les plus hauts niveaux d’études - en continuité avec l’école primaire - cette mutation constitue certainement un facteur qui a favorisé que les écoles lasalliennes soient fréquentées par les enfants de la classe moyenne et même, dans certains cas, de l’élite sociale. Emerge aussi la transition vers de nouvelles préoccupations : l’alphabétisation, le développement du niveau culturel de la population, l’inculturation. Ces objectifs pédagogiques dépassent largement la mission des écoles et s’adressent tant aux adultes qu’aux jeunes. C’est après la deuxième guerre mondiale, au chapitre de 1956, que des Frères demanderont de clarifier la nature du vœu d’enseigner gratuitement, de s’adresser
10
L’Institut au service éducatif des pauvres, Études Lasalliennes 7, Rome 2000.
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aux enfants pauvres. Cela veut dire que l’engagement des Frères dans les différents continents, en réponse à des contextes forts différents, a pu s’écarter de l’évidence de la « mission canonique » émanant de la fondation au 17e siècle. Des tableaux à l’appui, fr Alpago offre une information très nuancée sur l’évolution, par région, du nombre d’élèves « gratuits » dans les écoles. L’éducation des pauvres s’exprime ainsi en termes de l’éducation des enfants des ouvriers, ou d’un choix préférentiel en faveur des plus défavorisés, des marginaux. Le projet de la Règle proposé au Chapitre de 1966-67 intègre une composante sociale de la mission, non explicitée auparavant : le service des pauvres et des défavorisés reste prioritaire. Selon cette (re)lecture, l’engagement apostolique se solidifie de par la consécration, par le vœux de pauvreté, par la pratique de la pauvreté communautaire. Le vœu de gratuité (le désintéressement) garantit la réalisation de la finalité (la « mission canonique »). Dès lors, le service de l’évangile vécu dans la gratuité se doit de se soumettre à un examen de conscience continu, aussi en référence à une insertion, de fait et recherchée, dans la réalité sociale, en termes de lutte pour la justice, pour le développement humain et la paix dans le monde11. Avec la séparation entre l’Eglise et l’Etat, avec la démocratisation de la scolarisation, et l’évolution vers un niveau économique plus confortable (dans le monde occidental), l’éducation lasallienne - même si elle s’articule toujours en termes de la gratuité et du service des pauvres - exige une éducation plus approfondie du sens social chez les Frères. Par les institutions qu’ils gèrent comme œuvre lasallienne, mais aussi par d’autres institutions qu’éventuellement ils mettent en place, ils sont souvent invités à innover au nom de la « mission canonique ». La pauvreté (les pauvres) y occupe une place centrale, réelle et symbolique. Bien qu’il ne s’agisse plus de continuer ou de reproduire des modèles mis en place à une autre époque, en réponse à d’autres besoins ou convictions. Le « retour aux sources » et la « fidélité au Fondateur », tels que réclamés au moment des chapitres, exigent une nouvelle lecture et une nouvelle interprétation du charisme, conditionnées par l’expérience d’un monde différent. Si de La Salle a conçu son projet à partir de l’Eglise (post-Tridentine), de manière déductive, aujourd’hui, bon nombre de Frères sont à la recherche d’une inspiration nouvelle pour discerner autrement l’originalité de l’appel évangélique. Celui-ci se perçoit de manière plus nuancée à la lumière de l’expérience du monde, de la vie vécue sous de nouvelles conditions, en explorant d’autres potentialités. A travers le monde entier, des Frères prennent la mission originale à la lettre et s’engagent dans des expériences fort diverses, s’efforçant de repérer des enfants et jeunes qui sont vraiment à risque. Ils veulent ainsi actualiser de façon radicale la « mission canonique
Lire les réflexions du fr. Bruno Alpago, Le défi de l’appartenance, in Cahier MEL 27, L’identité lasallienne, Rome 2006, p. 45-53. 11
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Herman Lombaerts
». Néanmoins, l’intégration du désenchantement12, de la sécularisation, de la globalisation dans une réorientation de la mission risquent de perturber les perceptions existantes du passé et de brouiller les évidences identitaires13.
4. Réinterprétation au 20e et 21e siècle 4.1 La Règle La nouvelle Règle, approuvée par le Chapitre de 1987, tient compte de la réalité complexe et diversifiée actuelle et offre une formulation plus ouverte du but de l’Institut – en distinguant lettre et esprit quand il s’agit de la fidélité au Fondateur. La mission est perçue dans une perspective plus large. Le texte de la Règle des Frères des Ecoles Chrétiennes, approuvé le 26 février 1987, précise: au chap. 1, [3] La fin de cet Institut est de procurer une éducation humaine et chrétienne aux jeunes, spécialement aux pauvres, selon le ministère que l’Église lui confie.
L’école chrétienne, toujours à renouveler, est l’instrument privilégié de l’action des Frères. L’Institut s’ouvre aussi à d’autres formes d’enseignement et d’éducation adaptées aux besoins de l’époque et des pays. au chap. 2, [11] Saisi par la situation d’abandon des enfants des artisans et des pauvres, Jean-Baptiste de La Salle a découvert dans la foi, la mission de son Institut, comme réponse concrète à sa contemplation du dessein de salut de Dieu.
Pour répondre à ce même dessein et à de semblables détresses, l’Institut veut être dans le monde d’aujourd’hui une présence de l’Église évangélisatrice. Attentif en premier lieu aux nécessités éducatives des pauvres qui aspirent à prendre conscience de leur dignité d’hommes et de fils de Dieu, et qui cherchent à la faire reconnaître, l’Institut crée, renouvelle et diversifie ses œuvres selon les besoins du Royaume de Dieu. (http://www.lasalle2.org/French/Resources/Publications/rule.php) Au 43e Chapitre Général, tenu à Rome au mois de mai 2000, on a approfondi le thème de la mission de l’Institut aujourd’hui sous trois titres: 1/ le service éducatif Cf. M. Gauchet, Le désenchantement du monde. Une histoire politique de la religion, Paris 1985. Cfr. la recherche faite, en France, sur l’engagement apostolique et l’appartenance des Frères : N. Capelle, Je veux aller dans ton école. La pédagogie lasallienne au XXième siècle, Paris 2006. Lire aussi à ce sujet dans le Cahier MEL 27, le chapitré rédigé par R. Comte, Le changement d’époque et ses signes, p. 23-33, et sa conclusion p. 67-69. Cf. aussi les textes de G. Rummery, P. Gil et M. Meister dans le même Cahier.
12 13
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des pauvres, 2/ l’évangélisation, 3/ les urgences éducatives, c’est-à-dire : les Droits de l’Enfant, la rénovation éducative, l’annonce explicite de la foi, et la présence Lasallienne dans les sociétés Multireligieuses. Le document La mission éducative déclare : Dès l’origine l’Institut s’est reconnu suscité par Dieu pour l’évangélisation et le service éducatif des pauvres. Dans le passé comme actuellement l’Institut s’est toujours préoccupé et se préoccupe encore du service éducatif des pauvres. La question du service éducatif des pauvres est liée à un contexte social, culturel, économique qui est très diversifié selon les implantations de l’Institut à travers le monde14. D’une part, cette “nouvelle Règle” doit se lire, encore aujourd’hui, à la lumière de la Charte du Chapitre de 1967: Le Frère des Ecoles Chrétiennes dans le monde d’aujourd’hui, dite “La Déclaration”15. D’autre part il y a, depuis 1967, une double relecture herméneutique continue: 1/ de la fidélité à l’identité et au charisme lassalliens, explicités dans de nombreuses études et publications, lors des sessions de formation, des Chapitres tant au niveau de l’Institut que des districts, et 2/ de la foi et la tradition chrétiennes et ecclésiales - à la lumière du vécu concret en réponse à la diversité et l’évolution du monde contemporain. 4.2 Les études approfondies Depuis le Chapitre de 2000, un nombre impressionnant d’initiatives a contribué à la réinterprétation et l’approfondissement de la « mission canonique ». Qu’il suffise ici de les énumérer et d’en encourager la lecture, l’étude et la mise en pratique. J.-B. de La Salle a précisé et développé la « mission canonique » dans ses publications majeures comme la Conduite, Règles de la Bienséance et de civilité chrétienne, Le Catéchisme des Mystères et des Fêtes. En vue de réinterpréter la « mission canonique », lire les ouvrages de L. Lauraire et de Jean Pungier en particulier16. L’événement le plus marquant est sans doute l’élargissement du concept de l’Institut en incluant, structurellement et statutairement, les laïcs dans la MEL. Plusieurs initiatives y ont contribué : une relecture de: - la Famille lasallienne17 - l’Association18 - le vœu héroique19 - les cinq Colloques20 - les collections Cahiers MEL, les
http://www.lasalle2.org/French/Mission/Statement/mims.php Cf. aussi l’actualisation de ce texte par fr. John Johnston en 1997. 16 Cahiers Lasalliens, n° 58-60 ; 61-62 ; 64-65. 17 A. Botana, Fondements pour un modèle actuel de Famille Lasallienne, Essais Lasalliens 4, Rome 2008. 18 A. Botana, L’Association Lasallienne : Le récit continue, Cahiers MEL 2, Rome 2003 ; Id., Vocabulaire Thématique de l’Association Lasallienne, Essais Lasalliens, 3, Rome 2008. 19 Le vœu héroïque, germe de vitalité, Bulletin de l’Institut FSC, n° 235, Rome 1991. 20 L’Institut des FSC et l’Education aujourd’hui, Bulletin de l’Institut FSC, n° 245, 1999. 14 15
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Etudes Lasalliennes, les Essais Lasalliens - la session sur la MEL de 200621 - le Chapitre de 200722.
5. La « mission canonique » à la une À lire tous ces documents, à suivre les traces d’un discernement original qui s’est mis en place à partir des années 1960, il en émerge ce que la « mission canonique » pourrait représenter dans le contexte du monde contemporain. D’abord, la relecture est profondément marquée par l’expérience des réalités concrètes d’aujourd’hui, des besoins des enfants et des jeunes. Deuxièmement, une réflexion théologique « désenchantée » de la foi chrétienne, des croyances et des pratiques a réorienté le rapport entre le « service des pauvres » et la vie consacrée. Assez vite, après la reconnaissance par l’Eglise de Rome (1725), le modèle de la vie consacrée a marqué la vie quotidienne des Frères. Elle s’est imposée, ainsi que dans toutes les congrégations apostoliques, comme critère d’une part, pour attribuer aux « religieux » une valeur supérieure et privilégiée dans la hiérarchie ecclésiale et sociale, et d’autre part pour s’approprier le monopole de l’éducation chrétienne. La diminution décisive du nombre de religieux est un signe des temps au sens que cette forme de dépendance structurelle et historique entre mission et état de vie s’est implosée. C’est ainsi que la « mission canonique » est abordée à partir de prises de conscience d’un autre ordre et que l’intégration de la sensibilité à un appel-promesse et l’engagement concret sur le terrain se pense et se valorise autrement. Sans nier l’originalité et le charisme historiques – voire même en les appréciant davantage -, elles se voient actuellement interpellés à manifester leur crédibilité et leur vérité dans un contexte différent23. On pourrait comprendre la mission en ces termes : s’associer, s’unir, établir des relations engagées, fiables, intègres, transparentes, stables au nom d’une expérience profonde et personnelle, être ‘touché’, être affecté par le Dieu de la vie, aimant tout être humain, par le Christ kénotique (le divin s’est dépossédé de lui-même), que l’on trouve déjà actualisé dans la personne et l’œuvre de J.-B. de La Salle, afin de combattre par l’éducation, l’enseignement scolaire ou sous d’autres formes, la souffrance et le risque d’un échec fatal de la vie des jeunes générations, à
Associés pour la Mission éducative lasallienne. Rapport de l’Assemblée internationale 2006. Le 44e Chapitre Général 2007, Bulletin de l’Institut FSC, n° 251, 2007. 23 Cf. le témoignage du Fr. John Johnston lors du 44e Chapitre de 2007, Bulletin n° 251, p. 46-47 ; Conseil Général, In Memoriam Fr. John Johnston, Circulaire 458, Rome 2008. 21 22
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cause de la pauvreté, l’injustice, la violence, l’exploitation, la méconnaissance et la marginalisation, la migration forcée …, de sorte que toute être humain, de façon personnelle et en communauté, naisse à la vraie vie. C’est en vivant un pareil engagement que Dieu devient possible et se rend présent dans la réalité historique. En fait, Il devance les personnes engagées ; elles le reconnaîtront au cours de leur pèlerinage, de façon inattendue et, tout compte fait, impressionnante, bouleversante. Tout en restant membre de l’Institut, ne pas y contribuer, se retirer d’un tel projet, ne pas inventer des voies nouvelles pour qu’il prenne forme sous d’autres circonstances, dans d’autres contextes, parce que vieillissant, ou à cause d’une gestion irresponsable, aveuglée, ou d’une ‘spiritualité’ (sic) stérile, voire corrompue, c’est, au fond, choisir pour l’échec total d’un projet historique, pour le suicide, pour une euthanasie active. Rester fidèle à la « mission canonique », c’est repenser la situation actuelle en vue d’un avenir inespéré, dépassant toute espérance. C’est s’associer autrement, au nom du dynamisme propre à la foi au Christ et son Esprit, de reconnaître les « signes du printemps » (Lc 21,29-30) et d’investir pour que la promesse d’une longue tradition se réalise effectivement dans l’aujourd’hui. « Depuis octobre dernier, j’en viens à comprendre et à estimer l’association d’une nouvelle manière. J’avais déjà vécu l’association comme communion de personnes unies dans leur engagement pour la mission lasallienne. Mais pendant ces sept derniers mois, j’ai fait une expérience de l’association que je n’avais jamais connue auparavant. Le nombre et le contenu des courriels, des lettres, des cartes, des appels téléphoniques, des visites, provenant des Lasalliens, Frères et laïcs, m’ont sidéré. Le fait que tant de personnes m’aient témoigné une telle sympathie m’a profondément ému24. »
La découverte de la « mission canonique », à la suite d’une relecture induite par les événements et l’expérience de vie, constitue la caractéristique la plus originale de l’Institut pour le monde contemporain, interculturelle, interreligieuse, mondialisée, en pleine mutation. La diminution du nombre de Frères, depuis la moitié du 20e siècle, comme telle, n’est pas un échec, à condition de dépasser les formes historiques de cristallisation de la chrétienté du passé, de ressaisir le charisme original, et de permettre qu’il réapparaisse autrement.
6. La « mission canonique » et les districts vieillissants Le Fr. Robert Comte identifie un point de rupture historique quant au contenu même de la mission canonique: 24
Ibid.
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Herman Lombaerts « Toutefois, un point est clair : les Frères, et donc l’Institut comme tel, ne peuvent plus revendiquer l’exclusivité de l’héritage lasallien. Celui-ci est désormais partagé avec d’autres, même si les Frères demeurent, à un titre particulier quoique non exclusif, ‘le cœur, la mémoire et la garantie’ de cet héritage. A’ terme, l’interprétation de l’héritage puisera aussi dans cette diversité de la famille lasallienne. »25
En ce qui concerne les districts vieillissants, il y a lieu de distinguer trois perceptions différentes de la réalité actuelle. Le choix de l’optique est décisive quant à l’avenir: “ce qu’on a fait jusqu’à présent, ne peut plus se faire”. Le « on », ce sont les Frères, leur système, leurs convictions, leur tradition et leur pratique concrète émanant du passé, les (nombreux) laïcs étant considérés comme des collaborateurs, imitant ou s’efforçant d’enseigner dans le même esprit que les Frères; les présupposés concernant l’établissement scolaire ne changent pas ou peu ; une adaptation à une certaine modernisation va de soi, sans que le concept fondamental de ce qu’est une école ne change. Dans le cas où les Frères disparaissent, des laïcs dévoués peuvent bien essayer de continuer l’œuvre des Frères. C’est un événement fort heureux. Mais, au fond, ces laïcs sont toujours considérés comme des collaborateurs. Le système et l’héritage lasalliens existent toujours et ne changeront pas. (Le frère, aussi âgé qu’il soit, restet-il irremplaçable ? – cf. la citation de R. Comte). La disparition des Frères est à considérer comme « un signe des temps » qu’il faut accueillir en l’interprétant. C’est le symptôme d’un double changement fondamental : 1/ de l’Eglise, de la place et du rôle des congrégations apostoliques en particulier Les congrégations apostoliques reproduisant le modèle standard, développé depuis le Concile de Trente, se sont bien maintenus jusqu’à la moitié du 20e siècle. Depuis, progressivement, ce modèle s’est déconstruit de l’intérieur (une sorte d’implosion), à la suite de la confrontation avec une société fondamentalement autre notamment, et paradoxalement - à cause du travail inestimable réalisé par ces mêmes congrégations apostoliques. Elles ont été remplacées par des initiatives des gouvernements, par les organisations et institutions internationales, par des ONG et par d’autres organisations se chargeant de répondre aux multiples besoins du monde, mais sans se lier à une identité chrétienne, à une éthique explicitement chrétienne, à une idéologie particulière. Le champs traditionnel de l’apostolat (les hôpitaux, les écoles …) a muté dans un autre modèle de société, capable de fournir de bons soins pour tous (les résultats de la science s’imposent, et non l’appartenance religieuse ou les concepts [théologiques] d’une rédemption universelle), de fournir un enseignement de valeur pour tous
25
Cahier MEL 27, p. 68.
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sans qu’intervienne une foi religieuse normative pour tous (ce sont les sciences de l’éducation, la psychologie, la gestion des organisations qui offrent les modèles théoriques et pratiques): « à vin nouveau, outres neuves ». Les chrétiens se retrouvent donc sur le terrain concret, dans une solidarité loyale avec tous les hommes de bonne volonté. Ils y rencontrent une interpellation à exprimer leur foi et leur espérance dans leur participation à résoudre des problèmes qui affectent toute humanité. 2/ de la place et du rôle de la religion dans la société, du rapport entre la société civile et les religions. Les présupposés historiques à ce sujet ont muté: Désormais ce n’est plus – en Europe – le christianisme établi qui gère la vie des croyants et la vie sociale. Bien que … l’influence du christianisme a profondément marqué la civilisation et la culture occidentales. Son influence reste indéniable, mais moins ouvertement, moins comme profession religieuse, moins à partir d’une action publique de l’Eglise. À la suite du progrès des sciences, notamment la cosmologie, la médecine, tant que les sciences sociales, un désenchantement positif a contribué à l’éveil d’une nouvelle prise de conscience de la vie de notre planète, de la vie tout court. L’éducation scolaire prolongée, une société ouverte vivant au rythme d’une communication et d’une consommation planétaires ont favorisé que les peuples gèrent leur vie de façon plus autonome, aussi en ce qui concerne les valeurs, le sens de la vie, la foi religieuse. Ils prennent conscience surtout qu’un autre monde, différent du nôtre, notamment le monde d’un Dieu intervenant d’ailleurs, du dehors, n’existe pas. Le Dieu de la vie est présent au cœur de cette vie que nous vivons au jour le jour. Il ne faut donc plus faire semblant qu’il existe en tant que réalité physique, quelque part dans l’univers. Si les croyants pratiquants on diminué, si les croyances se tarissent, la foi existe-t-elle pour autant ? Les personnes discernent avec plus de précautions leurs appartenances et leurs engagements. Ils en vérifient attentivement l’enjeu, les conséquences, les avantages, les implications sociales. Pragmatiques, ils restent plus proche de leur réalité quotidienne et à la limite se méfient de ce qui se réfère à un autre monde. Ils se méfient de l’image de Dieu propagée pendant des siècles par les Eglises, peu attentives à une herméneutique existentielle. L’affiliation ecclésiale, l’association sous forme d’une communauté «lasallienne» dépend moins d’une appartenance sociologique ; elle se base plutôt sur une prise de conscience personnelle. L’appréciation, dans la foi, d’un projet précis vient de l’intérieur et vise une authenticité
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Herman Lombaerts
7. Conclusion L’enjeu original et historique de la « mission canonique » non seulement se maintient comme qualité identitaire de l’Institut, elle constitue une exigence prioritaire de sa continuité pour l’avenir, bien que le contexte et l’intelligence de la société aient changé fondamentalement, allant de pair avec une réinterprétation du contenu même de cette mission. Il est donc impossible de maintenir une représentation de la « mission canonique » dans un sens statique, purement historique. Elle est à repenser à partir d’une influence charismatique originale, à partir d’une découverte déconcertante dans l’aujourd’hui, mobilisant toute la personne au service de cette partie de l’humanité qui est à risque. La prise de conscience qu’il faut se mettre de leur côté de façon désintéressée est à reconquérir. L’enjeu, pour un district vieillissant, c’est donc de mobiliser toutes ses – dernières – forces pour que la renaissance puisse avoir lieu, là où le corps âgé va achever une phase importante de sa mission. Prenant toutes les circonstances en considération, une fidélité à la « mission canonique » exige que l’on investisse une partie importante du capital réel et le capital symbolique, le fruit de l’engagement d’un district au nom de la gratuité, pour que le charisme lasallien redémarre avec d’autres acteurs et dans un contexte en pleine mutation. D’autres personnes affectées, touchées par la présence divine au cœur même des événements imprévus se mettront à creuser des chemins nouveaux.
RivLas 78 (2011) 2, 313-322
The Lasallian Educational Mission in recent Years
Educational Service of the Poor JORGE ENRIQUE FONSECA SĂ NCHEZ
W
e have reached the end of the first decade of the new millennium and there are many reasons that have led me to write this paper. One of them is to create a summary of what has happened and is currently happening in the Lasallian Educational Mission as it faces the great challenges of education for the new millennium. In order to see the activities as compared to the challenges facing the Institute’s educational mission, I have done a re-reading of each of the documents of recent General Chapters and the documents of world conferences that have occurred in recent years and which frame the path of education in the world.
Great challenges for the world: The Millennium Development Goals In light of the problems that affect the entire planet at the beginning of the new millennium the United Nations held the Millennium Summit in New York City in September 2000 in which representatives from 189 countries participated. At this Summit a declaration containing eight Millennium Development Goals was signed, along with their respective targets to be met by 2015. The participating countries committed themselves to make efforts to contribute in a significant way to achieve the targets and the goals that would aid in overcoming world problems.
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Jorge Enrique Fonseca Sรกnchez
World panorama in the new Millennium Millennium Goals
1. Eradicate extreme poverty and hunger
Reality
- 1.2 million persons live on $1.00 per day - 800 million persons go hungry
Targets
- Halve the proportion of people living on less than $1 a day - Halve the proportion of people who suffer from hunger
2. Achieve universal - 114 million children of school - By 2015, all children can complete a full course of primary schooling, girls and boys. primary education. age do not attend school. 63 million of these are girls. 3. Promote gender equality and empower women.
- The percentage of girls who - Eliminate gender disparity in primary and have no possibility of going secondary education preferably by 2005, and at all levels by 2015. to school is greater in comparison with boys.
4. Reduce child mortality rate.
- Reduce by two-thirds the under-five - Each year 11 million mortality rate. children under the age of five die, the majority of them from treatable diseases.
5. Improve maternal health.
- Each year 500,000 women die during labor or pregnancy.
- 3 million persons die from 6. Combat HIV/AIDS each year. HIV/AIDS, malaria, and other diseases.
- Reduce by three quarters the maternal mortality ratio. - Halt and begin to reverse the spread of HIV/AIDS. - Halt and begin to reverse the incidence of malaria and other major diseases.
7. Ensure environmental sustainability.
- 2.4 billion persons do not have access to potable water.
- Integrate the principles of sustainable development into country policies and programs. - Halve the proportion of people without sustainable access to safe drinking water. - By 2020, achieve a significant improvement in the lives of at least 100 million slum-dwellers.
8. Develop a global partnership for development.
- Differences between the North and the South are on the rise.
- Be committed to good governance, development, and poverty reduction
* Data taken from these sources: Brothers of the Christian Schools (2007) and from the United Nations (2000).
This is the panorama which the world presents at the beginning of the new millennium and today, as we have reached the end of the first decade, the results are not at all encouraging, even though there have been significant advances in some of the millennium targets. I would like to focus attention on the theme of education and from a world view observe where the discussion is headed and what actions have been taken in different areas that affect world education in a significant way.
Educational Service of the Poor
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A space for everyone in the school: Education for All The Universal Declaration of Human Rights, in Article 26, says that everyone has the right to education, but the reality is totally different. We see in statistics that there are millions of children, young people and adults who continue to be deprived of this fundamental right, for many reasons. In view of this situation, the World Conference on Education for All (EPT), established in March 1990 in Jomtien, Thailand, set up some key objectives to universalize primary education for all children, young people and adults. In its discussions, the conference observed that the educational conditions of the era did make the objective of primary education for all achievable. This universalization of primary education guarantees access on the part of all children, young people and adults, and it improves learning processes. Elementary education is the basis for all learning and the school is the privileged place where all children can develop their learning processes for life. For young people and adults different programs for literacy can be generated that will guarantee the development of basic training competence. Science and technology today facilitate different means of communication that will allow educational programs to reach under-developed populations. But it is necessary that along with the school programs there be added other aspects that have direct bearing on educational results, such as: health and a healthy and calm environment. Despite the efforts made in the 1990’s, in 2000 the advances toward the objective of Education for All continued to show discouraging numbers. Statistics showed that 113 million children do not have access to primary education, and 880 million adults are illiterate. As positive aspects, an increase in the coverage and decrease of school defections and school repetitions (UNESCO, 2000) have been observed. Participating countries in the Education for All project gathered together again in 2000 and committed themselves to work on the following objectives: Expand early childhood care and education, especially for the most vulnerable and the underprivileged, free and compulsory education of good quality by 2015, expand adult literacy by 50 per cent by 2015 and enhance educational quality (UNESCO 2000). As a concrete action to help resolve the problem of illiteracy, the 2001 United Nations General Assembly declared the United Nations Literacy Decade 2003 - 2013 (UN 2001).
Thinking about the present and the future: Education for sustainable development In facing the reality of the world at the beginning of the new millennium, the theme of sustainable development in education has a relevant role as a means to overcome world problems. As Federico Mayor says in the preface of one of Morin’s books
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Jorge Enrique Fonseca Sánchez
(1999): “Education is the ‘force of the future’ because it constitutes one of the most powerful tools to realize change.” For this reason, the World Summit on Sustainable Development in Johannesburg reaffirmed the commitment to strengthen sustainable development (UN 2002) and the UN in December 2002 declared the UN Decade of Education for Sustainable Development (2005 - 2014). “This decade is based on a view of the world in which all have the opportunity to receive an education and to learn necessary values, behavior and ways for the advent of a sustainable future and a positive transformation of society” (UNESCO 2006, 6). It is also good to stress that at the World Conference in Bonn the importance of education for sustainable development was reaffirmed (UNESCO 2009). It is necessary to work from many fronts to achieve the hoped-for goals and thus to overcome the problems that confront humankind.
A school open to all: Inclusive education In view of the difficult situations which educational systems present, actions are discussed and implemented in order to help change the panorama of education, while making reference especially to coverage and to quality. The work of serious reflection never ceases to look for solutions so that in the midst of the 21st century there will not be persons who are excluded from educational systems. There are many efforts that are being made on all levels, in order to see to it that the fundamental right to education becomes a reality. In the last two decades work has been done in integrating different educational systems. UNESCO, as part of its responsibility, guides and fosters actions to stop persons from being excluded from the educational system and, in a parallel manner, it works to improve the quality of education so that it responds to the needs of persons and society. From this perspective, reflection is being promoted on the process of “inclusive education: the path of education for the future1.” This theme emerges as a strategy to accomplish the objective of the universalization of education (UNESCO, 1990), and it is considered to be a quality and integral solution in the educational system itself for all children, young people and adults and especially for those with special needs. Inclusion is “a guiding general principle to strengthen education for sustainable development” (UNESCO, 2008, 3). As the reflection advances, changes that should be generated within the school come into view – changes that will require working with the requirements demanded by inclusion.
1
Theme of the International Conference on Education organized by UNESCO in 2008.
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World educational urgencies: Lasallian educational responses From the origins, John Baptist de La Salle was always attentive to reality in order to help solve problems with effective and appropriate responses. The Institute of the Brothers of the Christian Schools, at each of its General Chapters, made clear reflections and actions that the Institute was undertaking to contribute, based on education, to the urgencies that the world is facing. Let us take a look at what has happened in the history of the Lasallian educational mission.
Thinking about the forgotten: Educational service of the poor Lasallian responses cannot be far from the different types of poverty in which millions of people live, some of whom do not even have the minimum elements to live humanly and which were mentioned previously: health, nourishment, education, a healthy and calm environment. Since the time of John Baptist de La Salle there have been great educational contributions made to help the needs of each era. In each of the General Chapters the desire to help poor and forgotten people has always been present. Many projects have been undertaken throughout the life of the Institute, especially in recent years. The 42nd General Chapter invited new educational works to be created in more needy areas, and it urged educational projects to respond to situations of poverty, and to be integrated in the local culture and reality (FSC, 1993). Some years later, the 43rd General Chapter was motivated to include the theme of social justice into educational projects and to continue creating new educational works in underprivileged areas, both in cities and in rural areas. The Chapter also promoted collaboration in literacy programs (FSC, 2000). The last General Chapter continued inviting the strengthening of the educational mission, through the renewal of existing works and the creation of others in needy areas. This Chapter encouraged work in programs of accompaniment for people who are at-risk and it made a call to Lasallian universities to encourage policies that would allow higher education to reach the poor (FSC, 2007). All these efforts that the Institutes makes in mission, with the participation of Brothers and lay partners, is a commitment of the Church in view of educational needs. Each Lasallian school in the world offers assistance so that fewer children and young people are deprived of the fundamental right to education by offering a space in the school to more than one million children, young people and adults, no matter their culture or religion. It can be clearly observed that the responses of the mission are always attentive to educational realities. Of course the efforts are little when compared with the great needs, which motivates us to continue working to broaden the field of activity of our mission.
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Jorge Enrique Fonseca SĂĄnchez
Statistics from the 2011 Lasallian educational mission RELAF
RELAL
PARC
USA/Canada
RELEM
Total
Schools
79
274
75
83
406
917
Students
43 848
325 640
158 494
70 339
259 498
857 819
Teachers
2 791
30 494
12 043
11 001
22 775
79 104
* Data taken from 2011 edition of Memento
Working together in the same commitment: Associated for the educational service of the poor From the origins of the Institute the Founder was always surrounded by persons who, in one form or another, helped him to undertake the project of the Gratuitous and Christian Schools. Some offered him financial support to open new schools and of course the Founder had to invite persons to become Brothers and work as teachers in the schools that had just been founded. Without this support the project would not have been possible. The life and the work of the Institute we can say has always been led by a community or associative effort. Reality today tells us that we have to continue strengthening that bond of fraternity and service that unites Brothers and lay partners so that the mission continues to be present, especially among the poor and forgotten. Each one of the recent General Chapters has emphasized the need to continue the educational mission, emphasizing “together and by association� and in this sense the 41st General Chapter made an invitation to share the mission with the entire Lasallian Family (FSC, 1986). Even with a quick glance at the 42nd General Chapter we can see the importance that the idea of shared mission had. The discussion on the mission between Brothers and lay partners focused principally on the following themes: association for the educational service of the poor, shared mission and the Lasallian Family. To move from discussion to action let us look at some of the recommendations and propositions that the General Chapter made: to encourage the participation of the entire educational community in constructing educational programs, the personal program of the Brothers and the community program should spell out the means to live the shared mission and to seek strategies to integrate the Lasallian Family in the shared mission (FSC, 1993). The 43rd Chapter continued the discussion of association for the educational service of the poor and it proposed a meeting of Brothers and lay partners as a concrete action to promote association in mission. It also promoted, on the District level, the leadership, support and assessment of all new forms of collaboration that were taking place in the development of the mission (FSC, 2000). The International Assembly and the 44th General Chapter in a priority statement encouraged all parties to continue working to discern the different forms of associ-
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ation that are under development and to strengthen the educational mission (Int. Assembly, 2006; FSC, 2007).
Organizational and administrative structures: ways to strengthen the Lasallian Educational Mission But the discussion of shared mission or of association for the educational mission cannot stay at the level of identifying its forms, but it has to continue moving forward to consolidate more and more the joint work between Brothers and lay partners in the Lasallian Educational Mission. This discussion has encouraged the creation of structures that will guarantee the continuity and the strengthening of association for the educational mission. The 44th and 43rd General Chapters were spaces for important discussion to go forward in the theme of association for the educational mission of the poor. The 43rd General Chapter laid down themes in its guidelines and propositions – themes that are important elements to continue the work of the Lasallian Educational Mission. This Chapter encouraged Regions and Districts to work in seeking structures that would have as their purpose the leadership of the Lasallian Educational Mission in its different circumstances. On the international level the Chapter presented two propositions: the first one made reference to the creation of an International Council for the Lasallian Educational Mission, which has now been functioning for several years, and the second proposition was to hold an International Assembly on Association for the Lasallian Educational Mission (FSC, 2000) which held its first session in 2006 and at the present time preparations are underway for the second session of this kind which will take place in 2013. The contributions from the 2006 International Assembly and from the 43rd General Chapter have been important in the development of MEL (Lasallian Educational Mission) structures. Discussion continued and the 44th General Chapter continued to encourage Regions and Districts to continue working in strengthening MEL structures (FSC, 2007). In this sense, we observed that a great number of Districts have already held at least one Mission Assembly and they are in accord with the MEL Council. Also on the Regional level the first assemblies of this kind have already been held and they constituted the MEL Regional Councils. As we can see, there have been many advances made in the strengthening of the educational mission.
The formation of Brothers and partners: a privileged process in MEL Ongoing formation and training for those in leadership positions of MEL works has been a continual concern of the Institute, Regions, Districts and each of the works
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in the MEL network. John Baptist de La Salle always had a privileged place in the Gratuitous and Christian Schools for the formation of all collaborators so that the school would run well. He trained and guided the Brothers and lay partners so that they would exercise their office well and so that the students could believe in them. The former he trained in the novitiate and the latter he trained in the school for rural teachers. You can see in each General Chapter discussions and actions on the theme of the formation of Brothers and partners in MEL, taking as a point of reference the realities and needs for the development of MEL. The 42nd General Chapter, in one of its recommendations, invited us to make the formation of Brothers and lay partners a priority, stressing the themes that have to do with social communication and the educational methods proper to the needs of the young (FSC, 1993). The 43rd General Chapter promoted the formation of Brothers and partners from the idea of association for mission (FSC, 2000). The 44th General Chapter and the 2006 International Assembly proposed that there be drawn up a guide for formation that would articulate all the essential elements of formation and accompaniment, for the purpose of guiding joint formation programs for all members of the Lasallian Family (FSC, 2007).
The Gratuitous and Christian Schools: Educational programs in pastoral ministry When John Baptist de La Salle thought about the project to educate the children and young people of his time, he not only thought about founding a common school like those that existed during his time but he put an accent on it that would mark the direction of great work for the world and especially for children and young people who were poor: gratuitous and Christian schools. Lasallian schools over the course of history have followed the school model that the Founder left us, adapting themselves in each era to social changes and to the needs of children and the young, but maintaining their Christian orientation. The Gospel and pastoral ministry have always been energizing elements of the educational program of the Lasallian school. With regard to the theme of evangelization and pastoral ministry, the 43rd General Chapter proposed that commissions be established on the Regional and District levels that would guide the discussion, leadership and coordination of organizations that work with and for young people as regards the growth in faith and apostolic commitment (FSC, 2000). The Chapter also invited the “awakening� of and education in the faith. The 44th Chapter encouraged the design, impetus, adaptation or creation of proposals in teaching, pastoral ministry and catechesis that would be real responses to situations of poverty today (FSC, 2007).
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Pluri-religions and multiculturalism: A space in the Lasallian school Cultural diversity is one of the themes that stands out today wherever people gather to discuss. “Cultural diversity is not simply an environment that should be preserved, but a resource that must be promoted, even in areas that are relatively far from culture understood in the strict sense� (UNESCO, 2009, 3). In this sense education plays an important role in cultural diversity to help promote dialogue between different cultures. Today it is easy to find a school where children, young people and adults from different cultures share the same space for formation. In the Lasallian world our schools are open to cultural diversity and in them we find children, young people and teachers who share their cultural diversity and are enriched by it. Cultural diversity as it is lived today is not a barrier to continue the educational mission, but on the contrary, it is a wealth that has strengthened educational programs. The theme of cultural diversity has also been present in Institute reflection and there are many activities that have been undertaken to foster multiculturalism in the school. The 43rd Chapter gave some necessary guidelines to foster interreligious dialogue on four levels: Life, school, service and that of institutions (FSC,2000). The 44th General Chapter proposed discussion on our way of sharing the charism with teachers and young people of different religions (FSC, 2007). The reflection on cultural diversity was also a theme that was broadly discussed at the 2006 International Assembly and it can be seen in the second basic orientation (2006 Int. Assembly).
Communication and the new technologies: means for sharing and growing In this era where science and technology are developing at an incredible speed, we cannot set aside the tools and the means that can help us to share and to strengthen more and more what we are doing in the area of the educational mission. Along these lines the 43rd General Chapter invited us to use the new technologies in order to make communication more effective and to share thinking and research and the activities of all the works in the MEL network (FSC,2000). The 44th General Chapter and the 2006 International Assembly proposed to create technological structures that would facilitate the exchange of experiences and resources (FSC,2007; 2006 Int. Assembly).
Conclusion We cannot be unaware of the educational problems of the current time and especially the relevance that this has as we face the challenges of the new millennium. The
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problem is being dealt with from many spaces and solutions are being sought, but unfortunately they are not sufficient nor are they rapid. This is the reason why each one of us (parent, teacher, administrative professional, service personnel or student) should be committed to the changes the school requires today, to respond to social needs, from the places we find ourselves and with the responsibility that we may have. The Institute, from its origins, has been attentive to social realities and today it continues to make great efforts so that the Lasallian mission that gives life to many children, young people and adults, continues to make significant contributions to aid in building a world we all want. Questions 1. How do we see the Lasallian Education Mission in our District as it faces the social challenges of the present time? 2. Are the MEL assemblies and MEL councils of the District considered as import strategies in the development of the mission? 3. What projects or strategies could be undertaken in order to continue strengthening the Lasallian Education Mission?
Bibliography – FSC, 1986. Circular 422. Rome. – FSC, 1993 Circular 435. Rome. – FSC, 2000 Circular 447. Rome. – FSC, 2006 International Assembly. Rome. – FSC, 2007 Circular 455. Rome. – FSC, 2010 Memento. Rome. – Morin, Edgar 1999. La educación del Futuro. – UNESCO, Paris. Millennium Development Goals. 2000. – UN, 2000. Millennium Declaration. New York. – UN, 2002. Declaration on Sustainable Development. Johannesburg – UNESCO, 1990. World Declaration on Education for All. Jomtien. – UNESCO, 2001. United Nations Decade for Literacy. Paris. – UNESCO, 2000. World Forum on Education. Dakar. – UNESCO, 2008. Inclusive education: the path to the future. Geneva. – UNESCO, 2006. United Nations Decade for Sustainable Development. Paris. – UNESCO, 2009a. World Conference on Education for Sustainable Development. Bonn. – UNESCO, 2009b. Investing in Cultural Diversity and Inter-cultural Dialogue. Paris.
RivLas 78 (2011) 2, 323-350
Contributo per una storia sociale della componente italiana dei Fratelli delle Scuole cristiane negli anni della Restaurazione La corrispondenza di Fratel Regolo fra il 1815 e il 1830 MATTEO MENNINI
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algrado l’assenza di studi critici complessivi sulla presenza in Italia della Congregazione dei Fratelli delle Scuole Cristiane1, eccezion fatta per alcuni lavori di carattere divulgativo2, il problema delle congiunture sto-
Vedi la voce «Fratelli delle Scuole Cristiane», in Enciclopedia Cattolica, 1950, vol. 5, coll. 17091711. Cfr. M.-A. HERMANS, voce «Fratelli delle Scuole Cristiane», in Dizionario degli istituti di perfezione, IV, Roma 1977, coll. 739-741; G. RIGAULT, Histoire Générale de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes, 9 voll., Paris 1937-1953; W. J. BATTERSBY, The History of the Institute of the Brothers of Christian Schools, 3 voll., London 1960-1963; ALBAN, FSC, Histoire de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes. Expansions hors de France (1700-1966), Editions Générales Fsc, Roma 1970; P. GIL, Tres siglos de identidad lasaliana La relación misión-espiritualidad a lo largo de la historia FSC, Rome 1994 (Études lasalliennes, 4); H. BÉDEL, Initiation à l’histoire de l’Institut des frères des écoles chrétiennes, 5 voll., Maison généralice Fsc, Rome 1994-2007 (Études lasalliennes, 5, 6, 9, 11, 12); B. ALPAGO, El Instituto al Servicio educativo de los pobres, Frères des Écoles chrétiennes, Rome 2000 (Études lasalliennes, 7). D’ora in poi riferendoci ai « Fratelli delle scuole cristiane » useremo l’appellativo di « Fratelli », e relativo acronimo «Fsc». 2 Fr. E. STEFANONI, Nota storica sulla prima fondazione lasalliana di Ferrara (1741-1810), Torino, 1959; Fr. U. G. FERRANTI, I Fratelli della Scuole Cristiane nello Stato Pontificio dal 1700 al 1870, s.n.t. [ma 1981]; Fr. C. VERRI, I Fratelli delle Scuole Cristiane e la storia della scuola in Piemonte (1829-1859). Contributo alla storia della pedagogia del Risorgimento, Erba (Como), Ed. Sussidi, s.d.; Fr. R.C. MEOLI, La prima scuola lasalliana a Roma, Roma 1995. 1
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riche, che hanno consentito ai figli di Jean-Baptiste de La Salle3 di consolidare la loro attività in Italia, ha attirato, in diverse riprese, l’attenzione degli studiosi sulla natura conflittuale e dialettica dei rapporti con il centro francese dell’Istituto, giudicando insufficiente l’analisi condotta da Georges Rigault, la cui opera, orientata in buona parte a ricomporre i dissidi in un disegno unitario dai tratti quasi sempre nitidi, è tradizionalmente considerata il maggior riferimento complessivo per le vicende storiche che qui si dibattono4. Già nel 1978 un articolo apparso su «Rivista lasalliana» aveva posto diversi interrogativi sull’opportunità di accogliere in modo netto le tesi di Rigault, riguardo alle vicende degli anni ’30–’50 dell’Ottocento; apportando prezioso materiale documentario dell’Archivio Segreto Vaticano, avanzò l’ipotesi di un “fattore politico” come causa dei difficili rapporti tra francesi e italiani5. Tali rapporti, recentemente, sono stati oggetto di un saggio di Maria Lupi che prende in esame un arco di tempo compreso tra la fine del Settecento e l’età di Pio IX: merito del suo lavoro è stato quello di connettere i risultati della ricerca di archivio con quanto già acquisito dalla storiografia, sdoganando, perciò, la “piccola” storia dei Fratelli e inserendola in un contesto di analisi di ben maggior respiro e portata6. Si rimanda, dunque, alle sue conclusioni per ciò che concerne l’evoluzione storica dei rapporti tra componente italiana e francese nella prima metà dell’Ottocento, un conflitto complesso che non solo coinvolse due componenti geografiche di uno stesso Istituto, ma ebbe risonanze sul piano politico e su quello della definizione stessa dello statuto del Fratello come religioso. In questa sede si vuole verificare una differente ipotesi di ricerca che guarda in modo più specifico alla possibilità di una valutazione “da dentro” della componente italiana, per conoscerne sia le dinamiche di funzionamento che la mentalità; ci interessa
Vedi: Enc. Catt., 1950, vol. 6, coll. 615-617. Dopo la morte di La Salle, i suoi confratelli fecero redigere una documentata memoria della sua vita; vennero prodotte inizialmente tre biografie: BERNARD, Fsc, Conduite admirable de la divine Providence en la personne du vénérable serviteur de Dieu JeanBaptiste de La Salle, prêtre, Docteur en Théologie, ancien chanoine de l’Église Cathédrale de Reims et Instituteur des Frères des Écoles chrétiennes, divisée en quatre parties, 1721; F. E. MAILLEFER, La vie de M. J.-B. de La Salle, 1740; J.-B. BLAIN, La vie de M. J.-B. de La Salle Instituteur des Frères des Ecoles chrétiennes, Rouen 1733. Per le questioni storiografiche cfr. R. L. GUIDI, Jean-Baptiste de La Salle: un problema storiografico del Grand Siècle, Roma 2000. 4 G. RIGAULT, Histoire Générale, cit. 5 M. CHIARAPINI, Fratelli francesi ed italiani in Roma nella prima metà dell’Ottocento, in «Rivista lasalliana» 45/3-4 (1978), 165-189. 6 M. LUPI, Religiosi francesi a Roma tra Rivoluzione e restaurazione: il caso dei Fratelli delle Scuole Cristiane, in Les échanges religieux entre l’Italie et la France (1760-1860). Regards croisés – Scambi religiosi tra Francia e Italia (1760-1860). Sguardi incrociati, textes réunis par F. MEYER - S. MILBACH, Chambéry, Presse de l’Université de Savoie, 2010, 145-174. 3
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comprendere come venne strutturandosi quel gruppo di religiosi che tra il 1815 e l’inizio del pontificato di Gregorio XVI si trovò a gestire le Scuole Cristiane nello Stato Pontificio in modo sempre più autonomo da quella generazione di Fratelli francesi che, in fuga dalla Rivoluzione, aveva abbandonato la propria patria per stabilirsi in Italia7. Protagonista di quest’epoca, tuttavia, fu un francese che si fece promotore dello sviluppo e della formazione della componente italiana dell’Istituto: Frère Rieul, meglio conosciuto come Fratel Regolo, costituì, infatti, la figura cardine intorno alla quale si coagularono fin da subito i fermenti e le tensioni di quell’esordiente gruppo di religiosi italiani. Per indagare la portata storica di tale esperienza, caratteristica dello Stato Pontificio nell’età della Restaurazione, è necessario fare il punto su Fratel Regolo e introdurre così quella che in questa sede viene considerata la documentazione di maggior rilevanza, ovvero la sua corrispondenza: l’Archivio della Casa Generalizia dei Fratelli delle Scuole Cristiane conserva 145 lettere di Regolo, oltre a numerosi altri scritti, grazie ai quali è possibile ricostruire un complesso mosaico le cui tessere rappresentano diversi casi che saranno passati in rassegna con l’interesse di rintracciare il profilo sociale della componente italiana dell’Istituto nella prima metà dell’ Ottocento.
«È da notare che per effetto della Rivoluzione in Francia oltre una ventina di fratelli profughi furono fraternamente ospitati nelle nostre case di Ferrara e della Trinità dei Monti» (Roma, Casa di San Salvatore in Lauro. Cenni cronografici. 1789-1924, in AMGFÉC, ND 467/1, d.1). Per quanto riguarda la comunità di Trinità dei Monti in questo periodo, cfr. AMGFÉC, CK 575/2, d.1. Una ricerca dettagliata dell’arrivo di Fratelli francesi a Roma durante la Rivoluzione e un’analisi della loro presenza sul territorio desunta dagli “Stati delle anime” è stata condotta da Maria Lupi che scrive a riguardo: «Fu la rivoluzione francese la causa principale dell’aumento dell’impegno dei fratelli nel contesto romano. La chiusura delle case in Francia, dopo la legge di soppressione del 18 agosto 1792, e la dispersione dei fratelli durante i periodi più cruenti della rivoluzione, insieme al disorientamento dovuto alla mancanza di notizie sul superiore generale, fece pensare a una rapida fine della loro esperienza religiosa. Ma come molti esponenti del clero refrattari al giuramento, anche i fratelli cominciarono ad emigrare, dirigendosi direttamente verso le loro case situate fuori dei confini della neonata repubblica. Un discreto numero si stanziò nella stessa Roma. Come risulta dagli Stati delle anime della parrocchia di S. Andrea delle Fratte, se fino al 1791 abitavano a Strada Felice un massimo di sei fratelli compreso il cuoco, nel 1792 erano saliti a dieci, nel 1793 a diciotto, con evidenti problemi di tipo finanziario e logistico, ma anche con un’abbondanza di risorse umane da utilizzare nella scuola. Probabilmente fu questo duplice motivo a suggerire di incrementare l’uso, prima sporadico, di tenere pensionanti. Se fino al 1789, negli Stati delle anime, risulta un solo individuo non religioso abitante a Strada Felice, a partire dal 1791 il numero degli ospiti aumenta fino a diventare un vero convitto, che nel 1793 contava quattordici ragazzi dai sette ai tredici anni, di cui alcuni dai cognomi sembrerebbero parenti dei fratelli stessi. Le rette dei pensionanti potevano essere un aiuto finanziario in quel momento difficile, ma anche in questo frangente fu fondamentale l’appoggio di Pio VI» (M. LUPI, Religiosi francesi a Roma…,153-154). Cfr. D. ROCCIOLO, Emigrati francesi a Roma tra il 1791 e il 1799, in Roma religiosa nell’età rivoluzionaria, 1789-1799, in «Ricerche per la storia religiosa di Roma» 11 (2006), 213-233. 7
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«Un saint homme, mais un peu faible» Le uniche due biografie di Frère Rieul risalgono agli anni a cavallo tra l’Otto e il Nocevento, quando si verificò un tentativo di introduzione della sua causa di beatificazione8: la prima consiste in un libricino di 24 pagine intitolato Cenni biografici del Pio Servo di Dio Fr. Regolo delle Scuole Cristiane con alcuni documenti di perfezione del medesimo (notizie sulla vita e sulle virtù del pio servo di Dio Fratel Regolo delle Scuole Cristiane, morto in Roma in opinione di singolare virtù il 2 marzo 1838, nell’età di 81 anni) 9, pubblicato dalla tipografia Vaticana nel 1895; la seconda, in lingua francese, edita a Marsiglia nel 1902, si intitola Notice sur Joseph Agnez, Frère des écoles chretiennes10, composta da l’Abbé André, sacerdote di PuySanières che dedicò la sua modesta opera a «les Instituteurs de France». Desumiamo altre informazioni biografiche dalle Relations mortuaires interne all’Istituto che danno notizia del suo decesso11 e da alcuni foglietti di appunti su cui, alla fine del secolo XIX, vennero raccolte delle brevi testimonianze di Fratelli che, molto probabilmente, contribuivano a attestare la fama di santità del religioso francese12. Rieul, al secolo Joseph Agnez, nacque il 6 maggio 1757 nel Delfinato, a Gap, nella piccola parrocchia di Sauze, allora parte dell’Arcidiocesi di Embrun, da Antoine e Anne Thaïs Michel13; la biografia agiografica dell’Abbé André ci parla di un bambi-
L’archivio della Postulazione generale dei Fratelli delle scuole cristiane (APGFSC) conserva alcune testimonianze rese con lo scopo di attestare la fama di santità di Frère Rieul. Tra queste, solo un quaderno di appunti sembra essere espressamente connesso a un progetto di introduzione di una causa di beatificazione: si racconta, ad esempio, di un padre domenicano, Maestro del Sacro Palazzo, che «di proprio pugno in uno stampato corresse l’espressione morto in odore di santità in quest’altra: morto in opinione di singolare virtù»; troviamo anche riferimenti alla questione della salma del religioso di cui si dice che dopo la sua traslazione dal cimitero del Verano alla chiesa di San Salvatore in Lauro, fra gli ecclesiastici ivi sepolti, non venne più trovata; e infine si ricorda come Monsignor Pietro Chinetti spingesse i Fratelli a introdurre la causa, «ma non si volle troppo dargli ascolto dicendo i f.lli che prima doveva passare il Padre e poi il figlio. Altra volta disse ad un fratello (credo f. Antonino) voi avete una gran colpa di non introdurre questa causa» (Appunti vari sopra il Fr. Regolo. Raccolte dalla bocca del C. f. Angelo di Maria in Albano (1895), in APGFSC 17/2/“Fratel Regolo”). Ringrazio Fratel Rodolfo Meoli, Postulatore per le Cause dei Santi, per avermi concesso di consultare le carte dell’Archivio della Postulazione Generale. 9 AMGFÉC, ND 106/1, d.2. 10 Notice sur Joseph Agnez. Frère des écoles chrétiennes. Mort à Rome, le 2 mars 1838, par l’Abbé André, Curé à Puy-Sanières (H.-A.), Marseille 1902, 54 pp. 11 Relations mortuaires des Frères des écoles chrétiennes, Tome 1, 1822-1847, Versailles 1855, pp. 288-289. 12 APGFSC, 17/2/“Fratel Regolo (Rieul)”. 13 In APGFSC 17/2/”Fratel Regolo (Rieul)” si conserva una copia conforme all’originale dell’Extrait des registres de catholicité de la paroisse du Sauze, diocése de Gap, con i dati relativi alla nascita e al battesimo. 8
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no completamente assorto negli esercizi di santificazione personale, ritirato e silenzioso, attivo come catechista nella sua parrocchia dove perfino «quelques vieillards, qui vivaient encore il y a peu d’années, se souvenaient alors avec délices des saintes et pieuses leçons qu’ils avaient tous reçues dans leur enfance de Joseph Agnez, devenu leur maître»14. Dopo alcuni anni passati a Vienne, segnati dalla morte del padre, all’età di 22 anni, il 7 novembre 1779 venne ammesso nel noviziato di Avignone, dove ricevette una discreta formazione religiosa e pedagogica, apprendendo il “metodo di orazione” di La Salle, il catechismo e le tecniche didattiche previste nella Conduite des Écoles dello stesso Fondatore15; durante il periodo di Noviziato, sicuramente entrò in contatto con opere spirituali che segnarono la sua sensibilità religiosa, quali la Guida dei peccatori di Luís de Granada, la Vita devota di San Francesco di Sales e il Trattato sull’orazione di Rodríguez16. Rimase ad Avignone alcuni anni fino al trasferimento a Saint-Yon, vicino Rouen, in un convitto per giovani detenuti17; nel 1785 i suoi Superiori lo inviarono a Ferrara dove rimase per dieci anni fino alla sua nomina a direttore del nuovo noviziato fondato ad Orvieto per iniziativa diretta di Pio VI, e destinato a reclutare Fratelli italiani18. In Italia, dunque, a fine Settecento, vi erano due comunità a Roma - quella di Trinità dei Monti che proseguiva l’opera dei primi Fratelli giunti dalla Francia nei primi anni del secolo e San Salvatore in Lauro nel
Notice sur Joseph Agnez..., 19-20. H. BÉDEL, Iniciación a la historia del Instituto de los Hermanos de las Escuelas Cristianas. El siglo XVIII: 1726-1804, Roma 2002, 72-79. Il testo della Conduite si trova in ST. JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE, Œuvres complètes, Études Lasalliens, FEC, Roma 1993, pp. 597-729. Vedi D. FOSSATI, La “Conduite des écoles chrétiennes” – Carta della scuola primaria lasalliana, in «Rivista lasalliana» 1 (1934) 4, 634-660; S. SCAGLIONE, Un capitolo inedito della “Conduite des écoles”, in «Rivista lasalliana» 62 (1995) 1, 63-81. 16 Queste erano le opere segnalate da Frère Irénée, maestro dei novizi a Saint-Yon e futuro Assistente, che offrì in quegli anni indicazioni importanti riguardo la formazione dei Fratelli: non a caso molti dei direttori di noviziato si formarono alla sua scuola (vedi RIGAULT, II,156-169). Queste tre opere, inoltre, saranno sempre presenti nelle liste, redatte da Regolo, riguardanti i libri che le comunità religiose avrebbero dovuto avere per l’edificazione spirituale dei propri membri (cfr. lettera di Fr. Regolo al vescovo di Nocera, Roma, 30 maggio 1818 [copia dattiloscritta], in AMGFÉC, ND 106/1, d.4 e lettera di Fr. Regolo al vescovo di Narni, Roma 27 ottobre 1819, in AMGFÉC, ND 106/1, d.5). Circa il rapporto tra la tradizione spirituale legata a San Francesco di Sales e le opere di La Salle, vedi J. HERMET, Alle sorgenti della dottrina spirituale di san G. B. de La Salle, in «Rivista lasalliana» 5 (1938) IX, 2, 248-275. 17 Cfr. L. SAVORÈ, I Fratelli “in prigione”, in «Rivista lasalliana» 3 (1936) IV, 1, 21-39. Circa la località del convitto, segnaliamo che Meoli, contrariamente alla biografia dell’Abbé André, parla di un’opera situata in Normandia (Cfr. R. MEOLI, La prima scuola…, 76n). 18 Pio VI, Breve Inter graves, 7 agosto 1795, copia in AMGFÉC, EL 552, n° 1: Rescrits, d. 13. 14 15
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rione Ponte, aperta nel 1792 - mentre nel territorio dello Stato Pontificio erano funzionanti una scuola a Ferrara e dal 1795 una ad Orvieto: quest’ultima costituisce un capitolo importante nella storia dell’Istituto in Italia, poiché fino a quel momento l’ossatura delle comunità dello Stato Pontificio era rappresentata da religiosi nati in Francia, conseguenza di un assetto maturato durante il corso del XVIII secolo. Inoltre Orvieto fu anche il teatro di un’azione di resistenza che i religiosi intrapresero contro l’occupazione napoleonica, consegnata alle memorie nel segno del protagonismo dello stesso Regolo19. Certamente la comunità dei Fratelli dovette rischiare la soppressione, al punto che nella primavera del 1811, indirizzò una lettera al Superiore Generale, Frère Gerbaud, chiedendo il permesso di poter emettere un voto al Sacro Cuore di Maria, come ringraziamento per aver concesso ai Fratelli di restare nella città di Orvieto con l’abito, le regole e gli usi dell’Istituto delle Scuole Cristiane e non aver conosciuto il dramma della soppressione20. Il voto consisteva nel celebrare la festa del Sacro Cuore e nel digiunare il giorno precedente: l’approvazione del Superiore Generale arrivò l’11 aprile 1811, stando a quanto riportato sulla copia originale del voto, e venne concessa limitatamente alla durata dell’incarico di Direttore di Regolo, non ritenendo opportuno caricare i superiori a venire di pesi eccessivi. Nel dicembre 1813, a seguito del trasferimento in Francia di Frère Guillaume, Vicario del Superiore Generale nello Stato Pontificio21, dovuto all’intervento del Gran Maestro dell’Università di Parigi che non aveva gradito la reticenza dei Fratelli “italiani” al giuramento previsto, Rieul venne incaricato dal Superiore Generale Frère Gerbaud di andare a Roma per fare la visita alla comunità di Trinità de’ Monti22;
ALBAN, Histoire..., 69-70. AMGFÉC, ND 456/1, d.3. 21 Il Breve Inter graves del 1795 (vedi nota 18), registrando l’indisponibilità del Superiore Generale Frère Agathon a esercitare le sue funzioni, nominava nella persona di Frère Frumence un Vicario Generale «ut, quemadmodum Generalis pro tempore existens, ac juxta eadem Statuta et Constitutiones electus, sic ipse administrationem, gubernium ac regimen dicti Instituti usque dum, remotis impedimentis, vel memoratus Frater Agatho ad administrationem et gubernium hujusmodi redire possit, vel indubiis documentis probata illius morte, convocatis Generalibus Comitiis, novus Generalis eligatur, Auctoritate Nostra Apostolica gerat». Frère Frumence resterà a Roma fino al 1804 quando, ricreatesi le condizioni in Francia per ristabilire l’Istituto, verrà chiamato a Lione dal cardinal Fesch, lasciando le sue funzioni a Frère Guillaume (RIGAULT, Histoire Générale…, III, 532). Il ruolo del Vicario si sarebbe reso inutile, come si deduce dal testo latino su citato, non appena un Capitolo Generale regolarmente convocato, avesse eletto un Superiore. 22 Il ruolo del Fratello Visitatore emerge nella sua importanza nei documenti del Capitolo Generale tenutosi dal 4 al 21 maggio 1787 a Melun: i suoi compiti si riferivano al collegamento tra la vita delle singole comunità e il governo del Superiore Generale, sia in materia economica che pastorale. Il paragrafo XXXIV afferma: “Prima di chiuder la visita, il Visitatore leggerà alla Comunità riunita il verbale intorno alle cose da regolarsi, e intorno agli abusi da correggere; e ne farà relazione al Superior [sic] Generale, affinché egli ordini ciò che sarà opportuno” (Capitoli Generali dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Notizie storiche e decisioni, Torino 1904). 19 20
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dopo pochi mesi una lettera dello stesso Superiore lo nominava suo “sostituto”, decisione avallata dal cardinal Della Somaglia che incaricò il direttore di Trinità dei Monti, Frère Félicissime23, di far eseguire il trasferimento di Regolo da Orvieto a Roma24. A seguito di questa nomina, Regolo verrà sempre indicato col titolo di “Vicario”, col quale egli stesso amava firmarsi. Se in quel frangente l’ormai ex direttore del noviziato di Orvieto sembrava essere l’unica speranza di traghettare le comunità lasalliane d’Italia fuori della confusa situazione, mentre ancora resisteva il dominio napoleonico sullo Stato Pontificio, le fonti testimoniano la sua amara insoddisfazione: dalle sue lettere emerge a varie riprese un disagio legato sia alla sua personale situazione di salute, resa instabile da frequenti crisi epilettiche25, sia ad una duplice insofferenza, per un ruolo che si rivelava complesso e rischioso e per la città di Roma26. La sua salute andò peggiorando a partire dall’estate del 1825 e nel 1830 le sue condizioni si aggravarono: Fratel Regolo fu deposto dal suo incarico il 16 giugno 1832 quando una lettera del Supe-
Jean-Jacques Couronne (Frère Félicissime) è uno dei tanti religiosi che lasciarono la Francia in opposizione al regime rivoluzionario e contrari al giuramento. In AMGFÉC (ND 106/1, d.23) si conservano pochi, ma interessanti documenti che consentono di ricostruirne la vicenda: un biglietto del 4 ottobre 1792 di Fr. Aventin, superiore di Saint Yon, certifica che Couronne ha dimorato per due anni nella sua comunità con condotta irreprensibile; una lettera del 27 marzo 1794 del card. de La Rochefoucauld, arcivescovo di Rouen, attesta che Jean-Jacques Couronne, Fratello delle Scuole Cristiane, «est de bonne vie, moeurs et doctrine, et qu’il mérite par son attachement aux vrais principes de l’église catholique, apostolique et romaine et de la monarchie françoise les secours et la protection des honnêtes gens». Arrivato in Italia fu accolto a Ferrara e il 2 settembre 1795 ricevette l’obbedienza per far parte della comunità di San Salvatore in Lauro, a Roma: non sappiamo cosa avvenne nel periodo immediatamente successivo, visto che il Vicario Fratel Frumenzio il 25 agosto 1797 lo trasferisce ad Orvieto, ma sul certificato dell’obbedienza, conservato in archivio, risulta che Félicissime era a Trinità dei Monti alla data del trasferimento e non a San Salvatore; una lettera di Fr. Philadelphe del 20 dicembre lascia intuire la presenza, in Félicissime, di uno stato d’animo inquieto relativo alla decisione non completamente condivisa di lasciare Roma, dove i suoi alunni gli mostravano grande stima. Si parla di motivi di salute che avrebbero portato a tale decisione. Rimase a Orvieto fino al 1804: a maggio ricevette la nomina come vice direttore, ma pochi mesi dopo, il 1 agosto, venne trasferito di nuovo a Roma, a San Salvatore in Lauro, dove starà fino al 30 ottobre dello stesso anno, data che appare su un nuovo certificato con cui Fratel Frumenzio gli chiese di trasferirsi a Trinità dei Monti. Non ci è dato di sapere quali ragioni costringessero il superiore a sottoporre il Fratello a tali improvvisi spostamenti; è certo, invece, che negli anni passati ad Orvieto, Félicissime conobbe bene Fr. Rieul. 24 AMGFÉC, ND 106/1, d.23. 25 È Regolo stesso che informa il Superiore Generale circa le sue crisi epilettiche, con la lettera del 25 maggio 1814, sul retro della quale vi è un appunto datato 27 maggio in cui si dice che l’ultima crisi si era verificata il giorno precedente alla data in cui scrive, trovandosi costretto a prendere un asino per tornare a casa (in AMGFÉC, ND 106/1, d.4). 26 «Pour obéir à vos ordres, je me fis effort pour vaincre la répugnance que j’avais de venir à Rome, vu la difficulté de leur exécution trop supérieure à mes forces et à la faiblesse de ma santé» (Lettera a Fr. Gerbaud dell’8 settembre 1815 in AMGFÉC, ND 106/1, d.4). 23
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riore Frère Anaclet27 comandava a Frère Hilarion, vice direttore della comunità di San Pelagio a Torino, di recarsi a Roma, di assicurarsi del suo trasferimento e di provvedere alla sua sostituzione, affinché i Fratelli italiani potessero adottare l’abito francese; a causa delle precarie condizioni di salute, si ritenne che Regolo non potesse tornare in Francia, perciò gli si concesse la scelta del luogo dove risiedere28. Trascorse gli ultimi anni presso la comunità di Sant’Antonio al rione Monti dove morì il 2 marzo del 1838 alle 5,30 del mattino; il suo corpo senza vita, recita una cronaca, «per singolare privilegio viene portato in parrocchia con la bara scoperta accompagnata da tutti i Fratelli di Roma»29.
La situazione sociale dei Fratelli a Roma alla fine dell’occupazione napoleonica Durante l’occupazione napoleonica, i Fratelli residenti nello Stato Pontificio non vennero colpiti dai decreti di espulsione e soppressione e, come ha documentato Maria Lupi, la loro assenza dalle liste delle congregazioni esenti da tali provvedimenti fu dovuta al fatto che il governo francese li considerava un’associazione di laici dediti all’istruzione e non un istituto religioso30. Malgrado ciò, il timore di una
Lettera di Fr. Anaclet a Fr. Ilario, del 16 giugno 1832, in AMGFÉC, ND 105, d.4. Così scrive Fr. Anaclet nella lettera a Fr. Ilario: «Je lui ai envoyé une autre obédience, pour lui donner le choix de la maison d’Italie qui lui fera plaisir» (AMGFÉC, ND 105, d.4). 29 «Resoconto cronologico delle fondazioni e dei principali fatti riguardanti il Distretto di Roma dalla sua origine ai nostri giorni. 1700-1907», in AMGFÉC, CK 576, d. 5. 30 Nel rapporto di Portalis a Napoleone, citato da Rigault, si dice che «les membres de la Doctrine chrétienne ne peuvent être considérés comme formant une corporation; ils sont simplement associés pour l’instruction gratuite de la jeunesse» (G. RIGAULT, Histoire générale, III, 532). Cfr. M. LUPI, Religiosi francesi a Roma,158-162. Diversa, invece, fu la sorte della comunità di Ferrara che, appartenendo al Regno d’Italia, conobbe la soppressione (G. RIGAULT, Histoire générale, IV,522-523): numerosi furono i tentativi di riaprirla, ma senza successo. Le fonti consultate, tuttavia, ci consentono di maturare un’ulteriore riflessione riguardo il ruolo giocato dal Superiore Generale nei confronti dei Fratelli che erano a Ferrara. Tra l’ottobre 1810 e il febbraio 1811, infatti, Frère Gerbaud a più riprese rivolse loro l’invito a far ritorno in Francia, inizialmente con toni contenuti e parole concilianti, muovendo dalla ragione contingente che la casa di Ferrara non corrispondeva alle caratteristiche del “Prospectus” dell’Università Imperiale, poi con giudizi sulla situazione italiana via via molto pesanti, tanto da giustificare l’uso dell’espressione «secouez la poussière des pieds»; chiese a Esprit di prendere con sé i Fratelli più validi e, all’insaputa degli altri, tornare a Lione dove si poteva girare in abito, a testimonianza di una situazione tranquilla (Sono 5 le lettere indirizzate a Ferrara, nella raccolta delle minute di Fratel Gerbaud: Table du 3° cahier 1810-1811, in AMGFÉC, EE 274/2, d.3). Inoltre la lettera del 1 febbraio 1811 di Frère Gerbaud a Frère Félicissime ci autorizza a pensare che tra i Fratelli in Italia circolasse la voce che a Lione fosse in atto un tentativo di chiudere l’esperienza italiana. «Nous n’avons garde de supprimer le Noviciat d’Orviète; ce serait fermer la porte de l’Institut à tous les Italiens, parmi lesquels il y a d’excellents sujets. Il ne faut point en refuser de tels. Le cher frère Rieul est bien capable de les former parfaitement à la piété et à la régularité» (AMGFÉC, EE 274/1, d.20). 27 28
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probabile soppressione dovette essere reale e drammatico se, appena prima di partire per la Francia a causa dei dissapori con il Gran Maestro dell’Università per aver rifiutato il giuramento, Frère Guillaume divise, secondo un criterio di anzianità, il fondo delle case tra i membri delle due comunità romane (4 italiani e 2 francesi), ai quali fu richiesto di restituire la propria parte nel momento in cui il pericolo di soppressione fosse stato scongiurato31; durante la visita che realizzò a Roma nel dicembre 1813, Regolo si scontrò con la netta opposizione degli italiani che non ritenevano ci fossero ancora le condizioni per devolvere il denaro nelle casse della comunità32. Al di là della ricostruzione puntuale dei fatti, le fonti ci consentono di addentrarci nella situazione di una comunità religiosa maschile di inizio ‘800 e ci danno l’opportunità di tentare un approccio di “storia sociale”33 a singoli casi in cui il disagio individuale diventa indicatore di una sfera più ampia di fattori culturali, psicologici, religiosi ed economici. Da un’analisi, per esempio, della situazione di San Salvatore in Lauro all’arrivo di Regolo a Roma, risulta evidente come vi fossero due ordini di problemi in relazione agli italiani presenti nella comunità: uno riguardava l’insofferenza verso le direttive dei superiori; il secondo aveva a che fare con la “questione dei voti”. Il primo che troviamo nella documentazione34 riguarda le vicende legate ai maestri residenti nella comunità di San Salvatore in Lauro, non solo per le conseguenze sul bilancio della casa, ma perché la loro uscita dalla congregazione metteva in crisi la continuità dell’attività scolastica: la situazione doveva essere di delicata e difficile gestione se addirittura il Papa, il 7 ottobre 1814, convocò Regolo e Félicissime chiedendo di fare tutto il possibile per tenere aperta la scuola di San Salvatore35. Una lettera del 7 settembre 1814 a Gerbaud ci restituisce un quadro breve, ma incisivo, della deriva che stava per essere raggiunta dalla comunità religiosa, in cui
Lettera di Fr. Guillaume a Fr. Gerbaud, senza data (quasi sicuramente del 1813), in AMGFÉC, ND 101, d.2. 32 Lettera di Fr. Regolo al card. Vicario Della Somaglia, s. d., in AMGFÉC, ND 101, d.2. 33 F. BRAUDEL, Sur une conception de l’histoire sociale, in «Annales E.S.C.», n. 2, aprile-giugno 1959, Débats et combats, 308-319. 34 In questa sede non vengono prese in considerazione le vicende legate ad un religioso chiamato Fratel Lorenzo che causò diversi disagi alle comunità di Roma; in AMGFÉC, ND 106/1, d. 4 si conserva una copia dattiloscritta di un memoriale posteriore al marzo 1815, di cui si ignora la provenienza e la collocazione di un presunto originale. Tuttavia va detto che nelle lettere di Regolo si trova un riscontro generico delle vicende riportate in dettaglio nel documento citato (lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, del 6 ottobre 1814, in AMGFÉC, ND 106/1, d.4). 35 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, del 17 dicembre 1814, in AMGFÉC, ND 106/1, d.4. In realtà, Regolo indica il 3 ottobre come data dell’udienza, cosa alquanto improbabile poiché non si spiegherebbe come, nella lettera del 6 ottobre, non vi sia traccia alcuna dell’evento. La data del 7 ottobre, invece, è registrata in un libretto di appunti intitolato «Promemoria dall’anno 1814», che Fr. Regolo ha meticolosamente curato dal 1814 al 1829 (AMGFÉC, ND 106/6, d.6). 31
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ingranaggi legati all’interesse privato innescavano meccanismi difficili da gestire, ma possibili e giustificabili all’interno di un sistema che consentiva la permanenza temporanea nella Congregazione anche senza aver emesso i voti di religione36. Descrivendo la situazione di San Salvatore, si parla di irregolarità durante gli Esercizi e di insofferenza per gli alimenti serviti a tavola; un’espressione di Regolo classifica tali atteggiamenti come sintomi di inadeguatezza spirituale ed umana: «n’ont plus l’esprit religieux»37. Dovendo garantire il funzionamento della scuola, Regolo non poteva permettersi di muovere iniziativa alcuna contro i maestri, forti del fatto che l’incertezza politica del momento non assicurava il ristabilimento delle condizioni pattuite con Guillaume, cioè la ricostituzione del “governo legittimo”, come si legge nel memoriale di Regolo al cardinal Vicario38; in realtà non passò molto tempo che tre dei quattro maestri, in diversi momenti, lasciarono la comunità, portandosi via perfino le coperte!39 L’altro caso da analizzare è quello del quarto maestro, Bernardo, romano di nascita40 e legato alla storia della casa di San Salvatore per esservi rimasto durante gli
36 In un memoriale presentato da Fr. Regolo al cardinal Della Somaglia si evince che la ragione addotta dai maestri per non rimettere in comune il denaro ricevuto da Fr. Guillaume, era esattamente il fatto di non essere vincolati da voti alla comunità (lettera di Fr. Regolo al cardinal Vicario Della Somaglia, senza data, in AMGFÉC, ND 106/1, d.4). 37 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, del 7 settembre 1814, in AMGFÉC, ND 106/1, d.4. 38 Vedi nota 32. 39 È esattamente questa la ragione che mosse Regolo a richiedere l’intervento del cardinal Vicario visto che al momento dell’uscita dei maestri dall’Istituto riuscì a dissuadere solo uno dei tre, chiamato Stefano, a non portare via l’arredamento della propria stanza, in cambio, comunque, della somma di cinque scudi. Regolo chiarì che, essendo usciti su iniziativa personale, potevano pretendere solo quello che avevano portato con sé all’ingresso del noviziato e quindi che la congregazione, in verità, avrebbe potuto richiedergli il corrispettivo di quello che erano costati per il noviziato. «Nella nostra Congregazione si osserva vita comune perfetta, nessuno può tener quattrini vi è la totale espropriazione, tutto sta in comune, il superiore provvede a ciascuno quanto gli occorre». (Lettera di Fr. Regolo al cardinal Vicario Della Somaglia, s.d., in AMGFÉC, ND 106/1, d.4). Dalla lettera a Gerbaud del 17 dicembre 1814 apprendiamo che il cardinal Vicario obbligò i tre maestri a restituire le coperte sottratte alla casa di San Salvatore, ma non poté fare lo stesso con i soldi, poiché già spesi. 40 Ignazio Berlan (1771-1847). Si conserva notizia della sua morte in una circolare del 10 giugno 1847 firmata da Fr. Pio (AMGFÉC, ND 467/1, d.5). Sulla sua figura si è acceso un interessante dibattito negli anni ’40 del Novecento, quando Fr. Ottavio, della comunità di San Salvatore, scrisse una nota dattilografata di cinque pagine, criticando il modo in cui Rigault nel tomo IV della sua Histoire (p.537) aveva descritto Bernardo: «pseudo religioso, turbolento insofferente di disciplina, conducente una vita più da secolare che da religioso». Ottavio, rimproverato dalla Casa Generalizia di aver consultato superficialmente la documentazione, ne tracciò un breve profilo biografico e attraverso le lettere di Regolo post 1825, tentò di dimostrare come il “Vicario” lo tenesse in gran considerazione (Nota del 24 novembre 1944, in AMGFÉC, ND 467/1, d.5). La risposta arrivò il 28 marzo 1946 («Note au sujet de l’appréciation sur le F. BERNARDO qu’on lit dans l’Histoire générale de l’Institut, tome IV, p.537» in AMGFÉC, ND 467/1, d.5) apportando, sempre dalle lettere di Regolo tra il 1814 e il 1815, nuove informazioni a conferma dell’interpretazione di Rigault. Ancora due anni e Fr. Ottavio, stavolta con un
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anni della Repubblica Romana che causarono la dispersione e la fuga di molti religiosi41. Nella già citata lettera del 17 dicembre 1814 apprendiamo che Bernardo non aveva ancora restituito il denaro e che lo avrebbe fatto al momento di emettere i voti perpetui e la situazione politica fosse cambiata. Il giudizio che Regolo esprimeva sulla persona, seppur con linguaggio contenuto, è un indicatore del problema che si viveva nella comunità: “agisce come un borghese più che come un religioso”42. Che Bernardo fosse un problema lo si deduce da un passaggio ironico contenuto in una lettera di pochi giorni prima, indirizzata a Regolo da Guillaume, come augurio per il Natale e l’anno nuovo: «Se il Rametto de la tête de mort vous est presque inutile, je le recevrai volontiers pour mes étrennes de Bonne Année, que je vous souhaite, ainsi que les Stes fête [sic] de Noel, à tous tant que vous êtes dans vos 3 saintes Maisons, le plus cordialement que je puis, dal 1° sin all’ultimo, Bernardo in mezzo»43.
Nelle lettere del biennio 1814-1815 il nome di Bernardo ricorre spesso: nonostante, per la sua esperienza, gli venisse affidata la Classe Grande nella scuola di San Salvatore44, Regolo ammetteva di non riuscire a gestire i suoi comportamenti e scriveva al Superiore che solo Guillaume avrebbe saputo farlo ragionare. Bernardo rimarrà nella comunità di San Salvatore fino alla sua morte e senza aver mai emesso i voti, né in forma temporanea, né, tanto meno, perpetua: è difficile stabilire quanto
dossier di 20 pagine firmato il 6 febbraio 1948, controbatté alla nota adducendo diverse ragioni in difesa di Bernardo, preservando così una figura rimasta nella memoria del quartiere più per la sua vicinanza alla gente che per le doti di religioso. Oggettivamente notiamo una palese divergenza tra quanto Regolo afferma di Bernardo nel biennio 1814-1815 e i continui riferimenti alla sua persona nella corrispondenza con Fr. Paolo dal 1825 in poi. Sta di fatto che Rigault nella sua Histoire, scrive letteralmente: «A San Salvatore, le Frère Bernard, qui n’etait passé par aucun noviciat, se conduisait en seculier plutôt qu’en disciple de M. de La Salle» (p.537), parafrasando in realtà un’affermazione di Regolo contenuta nella lettera a Frère Gerbaud del 17 dicembre 1814 (AMGFÉC, ND 106/1,d. 4). 41 Tra i fogli di appunti conservati in AMGFÉC, ND 467/1, d.1 aventi come oggetto la storia della scuola di San Salvatore in Lauro, in riferimento alla Repubblica Romana si legge: «Stando a un’attendibile tradizione, sembra che solo fr. Bernardo, il quale godeva grande popolarità, potesse rimanere al suo posto, e con molta probabilità esercitare il suo ministero scolastico a benefizio di quella gioventù ch’egli tanto prediligeva - come risulta altresì dal suo testamento». Di Regolo non ci sono notizie: vengono omessi sia il suo trasferimento da Orvieto che la sua morte; di quella di Bernardo, invece, si fa menzione, ricordando le sue ultime volontà. Si dice anche che fosse «non professo» e che la gente lo aveva soprannominato «Padre dei figli del popolo». Un altro documento, il “Riassunto cronologico delle fondazioni e dei principali fatti riguardanti il Distretto di Roma dalla sua origine ai nostri giorni. 1700-1907” (AMGFÉC, CK 576, d.5), sostiene che la casa di San Salvatore fu comunque riaperta nel 1800 per ordine di Fr. Frumenzio, rifugiatosi a Vallerano, non impartito, però a Bernardo, ma a Fr. Raimondo. 42 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Roma 17 dicembre 1814, in AMGFÉC, ND 106/1, d.4. 43 Lettera di Fr. Guillaume a Fr. Regolo, Lione 4 dicembre 1814, in AMGFÉC, ND 106/1, d.3. 44 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Roma 6 ottobre 1814, in AMGFÉC, ND 106/1, d.4.
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fosse diffusa in Italia tale modalità di appartenenza all’Istituto e quanto dipendesse dalla gestione precedente alla venuta di Regolo a Roma, ovvero al governo di Frumence e di Guillaume. Risulta evidente, consultando le fonti disponibili in merito, come la generazione di Fratelli uscita dal noviziato di Orvieto sotto la direzione di Regolo, avesse conosciuto un iter canonico di ingresso e permanenza nell’Istituto modulato sul rinnovo triennale dei voti religiosi. Ci si chiede, dunque, se quello di Bernardo fu un caso isolato, oppure fu il risultato di una precedente politica dei Fratelli francesi tesa a diffidare degli italiani e non fidelizzarli alla comunità con un percorso regolare di ingresso canonico. Al di là delle singole vicende in cui non si può non intravedere una base di profondo disagio socio-economico se non addirittura culturale, i casi appena esposti costituiscono una testimonianza importante circa lo stato d’animo del popolo romano all’indomani della fine del periodo di occupazione napoleonica, iniziato nel 1809. La città di Roma visse questi anni come una vera e propria “dominazione”45 e la “Consulta straordinaria per gli Stati romani”, organo preposto all’introduzione delle leggi francesi in gran parte degli ex Stati pontifici già a partire dal 1 gennaio 1810, non riuscì a penetrare le maglie della vita socio-economica della città. I 5641 fra decreti e rapporti emanati dalla Consulta46 per centralizzare il governo dei territori sottratti al Papa, non superarono l’ostacolo delle interdizioni che quest’ultimo aveva espresso prima di partire, e il peso della scomunica su coloro che avessero accettato impieghi o giurato a favore dell’Impero, a cui si aggiunsero, con prospettive e interessi diversi47, le reazioni alla politica anticlericale dei francesi suggellata dal-
45 «Un processo di laicizzazione dei costumi e delle coscienze prima ancora che delle cariche o degli «incarichi» (uffici) che progressivamente va ad estendersi a tutti i gangli dell’apparato amministrativo, giudiziario, politico. Un processo di secolarizzazione delle istituzioni preesistenti che acquista particolare sentore di sfida nei confronti del passato. Un passato che si viene ad eliminare in forma radicale, anche se per gradi, onde evitare pericolose reazioni. Tuttavia questa trasformazione dello Stato clerical-curiale in uno Stato laico non poteva non suscitare immediati contraccolpi, istintivi dissensi, giustificate renitenze» (C. NARDI, La Roma di Napoleone nella corrispondenza di un diplomatico, in PH. BOUTRY, F. PITOCCO, C. M. TRAVAGLINI (a cura di), Roma negli anni di influenza e dominio francese (1798-1814). Rotture, continuità, innovazioni tra fine Settecento e inizi Ottocento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000, p. 123). Vedi anche P. BOUTRY, La Roma napoleonica fra tradizione e modernità (1809-1814), in Roma, la città del papa. Vita civile e religiosa dal giubileo di Bonifacio VIII al giubileo di papa Wojtyla, a cura di L. FIORANI e A. PROSPERI, Einaudi, Torino 2000 (Storia d’Italia. Annali, 16), pp. 937-973. 46 C. NARDI, Napoleone e Roma. La politica della Consulta romana, Roma 1989. 47 E’ il caso della nobiltà romana, emblema di una resistenza giocata su interessi specifici e indice della fragilità del consenso alle prerogative del Papa. “Già verso la metà del 1810, il «ralliement» dei nobili romani e la loro progressiva collaborazione con il nuovo regime sono ben documentati dai Bollettini delle nomine alle cariche pubbliche e dalle onorificenze stampati dalla «Gazzetta Romana», il giornale fondato dal Miollis il 5 aprile 1808 e che ci documenta gli eventi di rilievo della vita cittadina” (C. NARDI, La Roma di Napoleone…,124).
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l’espulsione dei religiosi stranieri, dalla soppressione di congregazioni e confraternite e dall’esilio per i preti refrattari48. A tale conformazione della mentalità e della personalità del popolo romano, si accompagnava una crescente sfiducia in quelle riforme che «non mancarono di produrre un effetto destabilizzante sulla popolazione: abolizione dell’antico sistema di pesi e misure, abolizione del vecchio computo del tempo per allinearsi al resto dell’Europa. Dettagli che sconvolgevano la percezione dello spazio e del tempo di tutti i romani»49.
L’apertura di Bolsena e il graduale protagonismo dei Fratelli italiani Da 29 anni ormai in Italia, Regolo si fece interprete delle prerogative di quel gruppo di religiosi italiani decisamente in crescita, tanto che fu lui stesso, nel 1814, a firmare una lettera durissima nei confronti del Superiore Generale dal quale lo separava non soltanto la distanza geografica, ma una profonda divergenza di vedute e di sensibilità. E dopo più di un anno in cui da Lione non giunse neppure una risposta alle lettere che arrivavano da Roma, dove si tollerava con forte disagio la politica filo-imperiale dell’Istituto in Francia50, verso la fine del 1815 lo scontro tra Regolo
48 C. BRICE, La Roma dei “francesi”: una modernizzazione imposta, in Roma moderna, a cura di G. CIUCCI, Laterza, Roma-Bari 2002, 349-370, in particolare 360-362; riguardo la capacità delle istituzioni ecclesiastiche a esercitare forme di controllo sociale anche di fronte al rovesciamento dell’ordine politico, è utile un confronto con quanto già avvenuto nel biennio giacobino: cfr. D. ARMANDO, Il Giuramento civico nella vita politica e religiosa della Repubblica romana, in Roma religiosa nell’età rivoluzionaria 1789-1799, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 11 (2006), 31-53. 49 C. BRICE, La Roma dei “francesi”…, 363. Riguardo lo specifico della situazione sociale romana, vale la riflessione di M. Piccialuti: “Il periodo francese a Roma durò dal 1809 al 1814. In un’opera tuttora insuperata il Madelin racconta come il favore della popolazione andò calando nei “ci-devant États du Pape” per cause complesse: l’opposizione muta del clero, l’ambiguità dell’aristocrazia, le resistenze alla leva militare introdotta per la prima volta il 30 aprile 1810, e anche lo scontento per l’aumento della pressione fiscale. I tentativi d’incoraggiare nelle campagne la coltivazione del cotone e nella città l’industria tessile fallirono clamorosamente, con disastrose conseguenze sociali e politiche. Gli scambi commerciali inceppati dal blocco continentale, i raccolti rovinati dalla pioggia e dal gelo in due anni consecutivi portarono a un impoverimento vistoso della popolazione, alla diminuzione delle nascite, a un consistente calo demografico (le nascite scesero da 5.260 a 3.138, la popolazione da 135.000 a 123.000)” (M. PICCIALUTI, Istituzioni napoleoniche a Roma: i “Dépôts de mendicité”, in PH. BOUTRY, F. PITOCCO, C. M. TRAVAGLINI (a cura di), Roma negli anni di influenza e dominio francese (17981814). Rotture, continuità, innovazioni tra fine Settecento e inizi Ottocento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000, 95-96). 50 Nella lettera del 25 maggio 1814, all’indomani del rientro di Pio VII dall’esilio, Regolo espresse il suo disappunto sulle condizioni dell’Istituto in Francia: Regolo chiedeva spiegazioni riguardo il permesso accordato dal Gran Maestro dell’Università ai Fratelli, visto che certamente - sosteneva - il Governo non avrebbe mai accettato, come documento comprovante la loro esistenza, la Bolla di approvazione che li rendeva una Congregazione dipendente dal Papa. Regolo dimostrò di conoscere a fondo l’argomento: «Ne soyez pas surpris si nous parlons de cet Acte. A Rome on assure que cet Acte existe
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e Frère Gerbaud si fece acceso e drammatico: motivo scatenante fu una richiesta di quest’ultimo, disattesa da Regolo, di portare al Papa i suoi personali omaggi e richiedere l’Apostolica Benedizione sulla Congregazione. Il religioso motivò il suo rifiuto nella lettera del 15 febbraio 1816, in cui sosteneva che le scuole lasalliane dello Stato Pontificio versavano in uno stato di crisi e affermava di credere che dietro a questo abbandono da parte del Superiore ci fosse un malcelato tentativo di chiudere le comunità italiane: «que bien plus vous désirerez que nous retournassions tous en France, vous contentant de conserver seulement deux classes en activitè à Rome, au lieu de 18 que nous avions dans ses Etats y compris la Maison de Ferrara? […] Or si toute personne doit tenir sa parole, bien plus quiconque est constitué en dignité. […] Encore une fois que diroient le Pape, et le Cardinal Vicaire, s’il étoient pleinement informés de votre manière d’agir envers nous?»51.
Frère Gerbaud non accolse di buon grado la risposta di Regolo e colse l’occasione per rimproverarlo della decisione di aprire una scuola a Bolsena52, senza aver ottenuto il suo consenso a dare seguito alle trattative con il vescovo di Orvieto monsignor Lambruschini53; il Superiore non concesse religiosi per Bolsena, ma Regolo
à Paris, et qu’à Lyon la Copie du même Acte est entre les mains du Régime. Voilà ce que l’on assure à Rome; et ce ne sont pas le frères, mais des gens versés dans les affaires du Gouvernement Papal. Estce vrai ou faux? Nous l’ignorons. Ce qu’il y a de certain, c’est qu’à Rome ce qu’il y a de plus saint et de plus savant dans le Clergé est persuadé que les frères n’existent en France, qu’en vertu d’un serment, d’une agrégation à l’Université, et d’une adhésion aux principes du Gouvernement» Lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Orvieto, 25 maggio 1814, in AMGFÉC, ND 106/1, d. 4). La vergogna vissuta da Regolo e compagni era quella di appartenere alla Congregazione che si era accordata con l’Impero, mentre vescovi, sacerdoti e seminaristi erano stati imprigionati per la loro fedeltà a Roma: per questo consigliò a Gerbaud di presentare al Papa un atto di sottomissione per ristabilire i rapporti. In un momento di grande confusione, in cui i Fratelli, stando alle affermazioni di Regolo, vivevano nel sospetto, diffuso a Roma, che l’Istituto delle Scuole Cristiane dovesse la sua stessa sopravvivenza al fatto di essersi piegato al giuramento richiesto dall’Università di Parigi, non era più possibile obbedire alla richiesta avanzata da Gerbaud di fare lo stesso anche in Italia, senza così pregiudicare irrimediabilmente il loro rapporto con la Santa Sede. Sulla situazione dei religiosi nello Stato Pontificio durante l’occupazione napoleonica, cfr. C.A.NASELLI, La soppressione napoleonica delle Congregazioni religiose (1808-1814), Roma 1986 e C. CANONICI, “Per non abbandonare la Chiesa né il popolo”. Il giuramento ecclesiastico negli “Stati Romani” in epoca napoleonica (1809-1814), in «Rivista di storia del cristianesimo», I (2004) 2, 303-331. 51 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, 15 febbraio 1816, in AMGFÉC, ND 106/1, d.4. 52 Lettera di Fr. Gerbaud a Fr. Regolo, Lione 26 febbraio 1816, in AMGFÉC, ND 106/6, d.4. 53 Il 30 settembre 1815 Regolo scrive al vescovo ringraziandolo per la richiesta di aprire una scuola a Bolsena, «per l’istruzione e salute di quei poveri pargoletti bisognosi della dottrina cristiana. Vorrei bene poterla servire immediatamente ma la scarsezza di soggetti capaci ce lo impedisce per ora»; il 1 novembre comunica che si è preso atto della relazione riguardante la casa e il 28 novembre una lettera a Fr. Joseph, direttore di Ajaccio in Corsica, dice che la decisione dell’apertura è stata già presa, notizia confermata dalla lettera a Gerbaud di un mese dopo in cui si dice che Esprit è disponibile ad andare come direttore. Le lettere si trovano in AMGFÉC, ND 106/1, d.4.
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aveva già previsto e organizzato quanto necessario per l’apertura della nuova scuola, tanto che il 2 ottobre 1816, dopo che Fratel Esprit fu tornato dai sopralluoghi, scrisse al vescovo di Orvieto: «Io userò tutta la premura perché dette scuole possano aprirsi quanto prima, ma è necessario che gl’individui che vi saran destinati abbian il provveder conveniente al loro stato, onde possano insegnare gratuitamente conforme portano le Costituzioni della Congregazione, senza che siano obbligati a procacciarle […] per altre vie»54.
Il 30 novembre 1816 Esprit ricevette l’obbedienza55 come direttore della scuola di Bolsena che iniziò la sua attività il 12 gennaio seguente56: arrivato a Roma tre anni prima, nel dicembre del 1813, con l’incarico di salvare una situazione che potenzialmente avrebbe potuto compromettere la permanenza delle Scuole Cristiane nello Stato Pontificio, alla fine del 1816 Regolo informava il Superiore Frère Gerbaud, appena riconfermato dal Capitolo Generale nel suo incarico, circa l’ottimo andamento delle scuole che, anche grazie a un contributo del governo, avevano ripreso a funzionare con regolarità57. San Salvatore e Trinità dei Monti, con quattro classi cia-
Lettera di Fr. Regolo al vescovo di Orvieto (copia dattiloscritta), Roma 2 ottobre 1816, in AMGFÉC, ND 106/6, d.4. Probabilmente il maggior finanziatore della scuola dei Fratelli fu il conte Giuseppe Cozza Luzzi: lo deduciamo dalla lettera a lui rivolta da Regolo il 14 agosto 1819 per informarlo che Sebastiano sostituirà il defunto Esprit e da un’altra, sempre dello stesso anno, datata 4 dicembre, in cui si ringrazia per la protezione accordata ai Fratelli (AMGFÉC, ND 106/6, d.4). Cfr. RIGAULT, IV, 533-535. 55 AMGFÉC, ND 106/6, d.6. 56 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Roma 1 marzo 1817, in AMGFÉC, ND 106/6, d.4. 57 L’occupazione napoleonica determinò l’interruzione dei sovvenzionamenti da parte del Governo alle Scuole Cristiane, mettendo i Fratelli nella condizione di dover chiedere compensi alle famiglie dei propri alunni, derogando così dall’obbligo della gratuità previsto dalle regole dell’Istituto: «L’Institut des Frères des Écoles chrétiennes est une Société dans laquelle on fait profession de tenir les écoles gratuitement» (SAINT JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE, Œuvres complètes…, p. 3). Per una definizione di “scuola gratuita” cfr. J.-B.BLAIN, La vie de M. J.-B. de La Salle Instituteur des Frères des Ecoles chrétiennes, Rouen 1733, p. 34). Il permesso di ricevere offerte dagli alunni fu accordato dal vice gerente della diocesi di Roma, Mons. Passeri e ne abbiamo notizia dal “Riassunto cronologico delle fondazioni e dei principali fatti riguardanti il Distretto di Roma dalla sua origine ai nostri giorni. 1700-1907” (AMGFÉC, CK 576, d.5) riporta la notizia facendo riferimento al vicegerente di Roma, mons. Passeri: le offerte dagli alunni avrebbero riguardato le lezioni del sabato. Cfr. R. MEOLI, La prima scuola…, 83-84. In Francia la reazione fu negativa e si guardò con preoccupazione alla non gratuità delle scuole. Una delle minute delle lettere di Frère Frumence, di cui ignoriamo sia il destinatario che la data (compresa comunque tra il 1808 e il 1809), ci riporta il pensiero del Superiore in merito, quando afferma che un’istruzione non gratuita è “entièrement contraire à l’essence de notre Institut” e che ci vorrebbero altri fratelli francesi, ma che in Francia ce n’è un maggiore bisogno (“Brouillons de lettres, cah. n° 1”, 1808-1809, in AMGFÉC, EE 273, d.2). Quest’ultima affermazione è presente anche in un’altra lettera indirizzata a Guillaume a Roma, dell’11 gennaio 1809 (“Brouillons de lettres, cah. n° 1”, 1808, in AMGFÉC, EE 273, d.19). Dopo che la gratuità fu ristabilita, il 7 maggio 1811, il Superiore Generale Fratel Gerbaud, in una lettera a Fratel Félicissime ribadì con forza la scelta della gratuità, affermando che dare lezioni private significa infrangere la Regola e che Dio benedice il lavoro solo quando è fatto «dans l’ordre» (AMGFÉC, EE 274/1, d.20). 54
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scuna, registravano una grande affluenza di alunni, tanto da costringere perfino i Fratelli con problemi di salute a lavorare58, mentre a Bolsena ci si accingeva a iniziare una nuova opera. Se appena nel gennaio del 1815, scrivendo a Frère Gerbaud, il direttore di Trinità dei Monti Frère Félicissime sosteneva che «il faut aussi considérer, qu’autant qu’il est possibile, il convient que chaque Maison ait un directeur françois», bastò appena un anno per invertire la tendenza di conformare la propria identità intorno al centro francese. Mentre, infatti, la direzione del noviziato venne affidata all’italiano Benedetto59 coadiuvato, come vice direttore, da un altro italiano Sebastiano60, Regolo, tra il 1817 e il 1823, ricevette innumerevoli proposte di nuove opere: una quarta classe a Orvieto61 e scuole a Nocera62, Spoleto63, Loreto64, Narni65, Calvi66, Novara67, perfino un
Lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Roma 6 novembre 1816, in AMGFÉC, ND 106/6, d.4. Fratel Benedetto, al secolo Giuseppe Quattrinelli, era nato a Roma il 14 luglio 1779 ed era entrato nel noviziato di Orvieto il 4 luglio 1805 (cfr. “Stato degli individui della Provincia dal 1795 a tutto il 1857” in APRFSC). Sappiamo che chiese di poter emettere i voti perpetui da una lettera di Fratel Frumence, Superiore Generale, indirizzata a Fratel Regolo l’8 gennaio 1810, con cui veniva dato il consenso (“Brouillons de lettres, cah. n° 5” 1810, in EE 273 d.18). 60 Stando al «Riassunto cronologico delle fondazioni e dei principali fatti riguardanti il Distretto di Roma dalla sua origine ai nostri giorni. 1700-1907» (AMGFÉC, CK 576, d.5), Fratel Sebastiano (Vincenzo Sterbini) nacque a Roma il 6 ottobre 1785 e morì nella comunità di San Salvatore in Lauro nel 1874 all’età di 89 anni; entrò nel noviziato il 18 giugno 1803 (cfr. «Stato degli individui della Provincia dal 1795 a tutto il 1857», in APRFSC). 61 Nella lettera a Gerbaud del 1 marzo 1817, Regolo scrive che il vescovo avrebbe trovato lo stipendio per un quarto maestro (AMGFÉC, ND 106/1, d.4). 62 Il 6 agosto 1817 Regolo informa Gerbaud che il vescovo di Nocera ha richiesto due fratelli (AMGFÉC, ND 106/1, d.4): i contatti col vescovo sono documentati fino a maggio 1818, ma probabilmente la mancanza di persone ben formate, le altre richieste pervenute, soprattutto Spoleto, e infine la morte di Esprit nel 1819 resero impossibile la prosecuzione del rapporto. Nella lettera a Gerbaud del 18 ottobre 1817, Regolo presenta un’ipotesi di riorganizzazione con Esprit direttore a Nocera. 63 Il primo contatto per l’apertura della casa di Spoleto, che avverrà poi nel 1824 per volontà e iniziativa di Leone XII, è documentato in una risposta di Regolo a don Stefano Scerra, Vicario Generale della diocesi di Spoleto (lettera del 12 agosto 1818, in AMGFÉC, ND 106/1, d.4). 64 Apprendiamo della richiesta del vescovo di una comunità di Fratelli per aprire una scuola nella città da una lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud del 17 dicembre 1817 (AMGFÉC, ND 106/1, d.4). 65 L’unico documento che attesta l’interesse del vescovo di Narni per i Fratelli è una delle minute raccolte in un quaderno manoscritto di Regolo, ma non abbiamo nemmeno copia dattiloscritta della lettera inviata (lettera di Fr. Regolo al Vescovo di Narni, Roma 27 ottobre 1819, in (AMGFÉC, ND 106/1, d.5). 66 La richiesta di Fratelli per Calvi viene da Fr. Joseph direttore a Bastia a cui Regolo risponde negativamente (copia dattiloscritta della lettera di Fr. Regolo a Fr. Giuseppe a Bastia, Roma 26 febbraio 1820, in AMGFÉC, ND 106/1, d.5). 67 In una lettera al Superiore Generale Fr. Guillaume, Fr. Regolo informa della richiesta del vescovo di Novara per avere tre o quattro fratelli e avviare una scuola nella sua diocesi (lettera di Fr. Regolo a Fr. Guillaume, Roma, 10 dicembre 1823 [copia dattiloscritta] in AMGFÉC, ND 106/1, d.5). 58 59
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orfanotrofio68, senza considerare i tentativi di ripristinare Ferrara, che lo impegnarono diversi mesi durante il 1817, ma senza risultato69. E alla fine dello stesso anno, il noviziato registrava la presenza di dieci candidati italiani. Se, da un lato, era ancora imprescindibile la presenza e l’autorità dei Francesi nelle case dello Stato Pontificio e specialmente a Roma, dall’altro iniziavano a verificarsi positivi protagonismi da parte di componenti italiani, incoraggiati, certamente, dal successo che le Scuole Cristiane continuavano a registrare in fatto di alunni: a San Salvatore, alla chiusura dell’anno scolastico, erano 340, divisi in 4 classi70. Il 12 gennaio 1817, dunque, iniziò l’attività a Bolsena, sotto la direzione di Esprit, ma con la presenza di due giovani italiani, Michele, siciliano e Giovanni Battista, ex alunno di Orvieto71; a Trinità dei Monti, a causa del pessimo stato di salute di Félicissime, si stava mettendo in ottima luce come maestro Luigi Gonzaga72 e a San Salvatore emergeva la figura di Fratel Paolo, molto apprezzato da Regolo, per le sue doti di maestro e la “regolarità”73.
Il 19 maggio 1820, Fr. Regolo scrive a Giovanni Battista Piansoli ringraziandolo per il proposito di voler fare testamento in favore dei Fratelli. La condizione posta dal Piansoli, però, è l’apertura di un orfanotrofio a Orvieto, a cui Regolo risponde che ciò «non è conforme allo spirito del nostro stato e non possiamo in conto alcuno accettarlo, né per noi, né per farlo dirigere da altri». Gli consiglia di destinare i soldi al mantenimento di alcuni novizi o all’apertura di due scuole nella zona della città chiamata “Sant’Agostino”. Probabilmente il Piansoli chiese l’intervento del vescovo di Viterbo, perché il 14 giugno 1820, un mese dopo l’altra lettera, Regolo scrisse a quest’ultimo, ribadendo: «Il fine del nostro Istituto è di attendere all’istruzione e educazione de’ figli de’ poveri ed artisti; i quali non avendo mezzi di mandarli alla scuola pagante resterebbero privi d’istruzione e di coltura; ed anche una gran parte nell’ignoranza delle cose necessarie da sapersi per conseguire l’eterna salute. Per la qual cosa non possiamo accettare la cortese esibizione propostaci per non esser conforme alle leggi della nostra congregazione» (le due lettere in AMGFÉC, ND 106/6, d.5). 69 Il 27 aprile 1817 Regolo risponde a una lettera dell’avvocato Ronchi di Ferrara (copia dattiloscritta in AMGFÉC, ND 106/1, d.4) che aveva presentato una richiesta di far tornare i Fratelli nella sua città; Regolo lo invita a scrivere al Superiore Generale, poiché la mancanza di Fratelli gli impedisce di aprire una scuola. Poi aggiunge: «Per ora si valgano intanto di quei soggetti che una volta furono membri dell’Istituto, sintanto che il tempo ci permetta di rimetter le cose nel loro pristino stato». Di pochi mesi dopo (23 luglio 1817) è una lettera a Fr. Pascasio a Ferrara (copia dattiloscritta in AMGFÉC, ND 106/1, d.4) dove Regolo garantisce che si sta tentando di ottenere un appoggio dal governo; per il momento, consiglia di contattare l’avvocato Ronchi. Ma nell’immediato le cose dovettero andare per il verso contrario a quello auspicato, se in una nota del 6 agosto diretta a Guillaume, Regolo scrive che a Ferrara, appena il Demanio ha saputo che la scuola non si sarebbe riaperta a causa della mancanza di Fratelli, si è impossessato dell’intero immobile (lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Roma 6 agosto 1817, in AMGFÉC, ND 106/1, d.4). 70 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Roma 6 agosto 1817, in AMGFÉC, ND 106/1, d.4. 71 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Roma 1 marzo 1817, in AMGFÉC, ND 106/1, d.4. 72 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Roma 18 ottobre 1817, in AMGFÉC, ND 106/1, d.4. 73 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Roma 18 ottobre 1817, in AMGFÉC, ND 106/1, d.4. Fratel Paolo Maria, al secolo Francesco Moncelsi, nato a Porano, nella diocesi di Orvieto, il 4 ottobre 1792, entrò nel noviziato il 7 gennaio 1809. Morì a Roma nel 1874 (cfr. “Stato degli individui della Provincia dal 1795 a tutto il 1857”, in Archivio della ex Provincia Romana dei Fratelli delle Scuole Cristiane, d’ora in avanti APRFSC). 68
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Come detto più sopra, le richieste di Fratelli da parte dei vescovi per l’apertura di Scuole Cristiane era in notevole ascesa: nel 1818 furono presi i contatti sia per Nocera che per Spoleto, ma la svolta che segnò il cammino delle case dello Stato Pontificio in direzione di una sempre maggior preponderanza degli italiani nella gestione delle scuole fu la morte improvvisa, il 6 agosto, a soli 52 anni, di Fratel Esprit, direttore della casa di Bolsena, seguita, poco mesi dopo, dalla scomparsa del diciottenne Ignazio; riflettendo sulla situazione, Regolo scrisse al Superiore: «Il semble que le bon Dieu veut prendre sa portion de nos cher [sic] frères d’Italie; il nous à privé de notre bon frère Esprit à Bolsène; ensuite il nous à ravi le meilleur novice...»74. E alla fine del 1820 fu la volta di Giovanni Battista, giovane Fratello che aveva seguito Esprit a Bolsena, morto a causa di una febbre durata quattro mesi75. Sebastiano sostituì Esprit nella direzione della scuola di Bolsena; nel frattempo il francese Stanislao, uomo di fiducia di Regolo nella comunità di Trinità dei Monti, venne trasferito in Corsica e al suo posto arrivò un altro francese, un giovane di nome Amable, rispedito in Francia poco dopo, il 27 agosto 1820, a causa delle intemperanze caratteriali che in pochi mesi avevano creato diversi problemi a Bolsena76. Alla fine del 1820 il bilancio delle scuole era positivo e Regolo poteva scrivere a Gerbaud una relazione ottimistica e con discrete prospettive di sviluppo77. Compresi i novizi, i Fratelli erano 25, così distribuiti: in ognuna delle due case di Roma c’erano sei religiosi, dieci a Orvieto e tre a Bolsena. Erano maturi ormai i tempi per fare un passo in avanti nell’affidamento di responsabilità agli italiani e Regolo propose Francesco Borgia e Pio come vice direttori a Trinità dei Monti e a Orvieto. Un anno dopo, nel 1821, il quadro rimaneva sostanzialmente invariato e se, da un lato, si registrava una diminuzione di novizi, dall’altro la sostituzione di Frère Jerôme con Francesco Saverio come maestro a San Salvatore segnava un ulteriore passo verso la creazione del volto italiano dell’Istituto delle Scuole Cristiane nello Stato Pontificio. Nella lettera a Gerbaud del 19 dicembre 182178, Regolo scrisse: «nous sommes sept frères à S. Sauveur y compris le vieillard, et six à la Trinité; à Bolsène
Lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Roma 15 marzo 1820, in AMGFÉC, ND 106/1, d.5. Lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Roma 17 dicembre 1820, in AMGFÉC, ND 106/1, d.5. 76 Nella lettera con cui Regolo invita Amable a uscire dall’Istituto, la motivazione risulta essere il desiderio del giovane di abbracciare lo stato ecclesiastico (lettera di Fr. Regolo a Fr. Amable a Bolsena, Roma 9 agosto 1820, in AMGFÉC, ND 106/1, d.5). Il 30 agosto Regolo scrive a Gerbaud dicendo che Amable è partito 3 giorni prima da San Salvatore per Lione e spiegando che i suoi capricci erano dovuti alla sua convinzione di non esser portato per quella vita, ma per fare il predicatore e il missionario (lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Roma 30 agosto 1820, in AMGFÉC, ND 106/1, d.5). 77 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Roma 20 dicembre 1820, in AMGFÉC, ND 106/1, d.5. 78 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Roma 19 dicembre 1821, in AMGFÉC, ND 106/1, d.5. 74 75
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ils sont trois et à Orvieto six», aggiungendo che due novizi erano stati allontanati «par insubordination»79.
Il caso di Fratel Benedetto e la questione dei voti Quando Regolo alla fine del 1821 chiese a Gerbaud di intervenire nei confronti di Benedetto, non nascose profonda preoccupazione, riferendosi al fatto che il denaro nella cassa di Orvieto era terminato80; e nel maggio seguente, lamentandosi di come lo stesso Benedetto concedesse elemosine alle famiglie senza discrezione81, concluse che tale atteggiamento pregiudicava seriamente la sopravvivenza stessa della comunità. Le due affermazioni ci aiutano a introdurre un dossier intitolato “Fr. Benedetto”, conservato nell’Archivio della Casa Generalizia dei Fratelli delle Scuole Cristiane82, raccolta di undici lettere scritte tra il settembre 1822 e il settembre 182383 che restituiscono il profilo di una vicenda interessante per la storia lasalliana, sia perché costituisce un caso esemplare di esercizio dell’autorità, sia perché introduce il dibattito sulla spinosa questione dei voti professati dai membri dell’Istituto
Uno dei due è sicuramente Nicola Boncetti che accuserà i Fratelli presso il Papa, «come fosse una Religione senza carità»: dice di aver contratto una malattia, ma Regolo smentisce le accuse in una risposta del 12 marzo 1822 a una Memoria con cui probabilmente si chiedevano spiegazioni intorno alla questione. Regolo informa che Boncetti non aveva rinnovato i voti triennali «il che dimostra che non voleva perseverare nel suo stato ma ritornarse [sic] al secolo» (“risposta alla Memoria diretta alla Santità di N.S. da Nicola Boncetti contro i fratelli delle Scuole Cristiane”, Roma 12 marzo 1822, copia dattiloscritta, in AMGFÉC, ND 106/1, d.5). Dal libretto «Promemoria dall’anno 1814» (AMGFÉC, ND 106/6, d.6) sappiamo che Boncetti fu espulso dall’Istituto il 27 novembre 1821, «per le sue impertinenze». Nicola Boncetti (Fratel Luigi Maria) era nato a Recanati il 20 giugno 1789 ed aveva fatto il suo ingresso nel noviziato di Orvieto il 18 gennaio 1816 (cfr. “Stato degli individui della Provincia dal 1795 a tutto il 1857” in APRFSC). 80 «Ne manquez pas de lui faire une forte répréhension de sa trop grande libéralité, ou plutôt dissipation du temporel» (lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Roma 19 dicembre 1821, in AMGFÉC ND 106/1 d.5). 81 «Il y a beaucoup de familles ruinées, elles recourraient à lui pour être secourues» (lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Roma 18 maggio 1822, in AMGFÉC ND 106/1 d.5). 82 ND 106/1 d.5. 83 I documenti conservati nel dossier “Fr. Benedetto” (AMGFÉC ND 106/1 d.5): lettera del vescovo di Orvieto a Fr. Regolo, Orvieto 14 settembre 1822 (copia dattiloscritta); lettera di Fr. Regolo al vescovo di Orvieto, Roma 18 settembre 1822 (copia dattiloscritta); lettera di Fr. Regolo a Fr. Benedetto, Roma 18 settembre 1822 (copia dattiloscritta); lettera del vescovo di Orvieto a Fr. Regolo, Orvieto 21 settembre 1822 (copia dattiloscritta); lettera di Fr. Regolo a Fr. Benedetto, Roma 25 settembre 1822 (copia dattiloscritta); lettera di Fr. Regolo a Fr. Guillaume, Roma 26 dicembre 1822 (copia dattiloscritta); lettera di Fr. Regolo a Fr. Guillaume, Roma 8 febbraio 1823; lettera di Fr. Guillaume a l’ex Benedetto, Lione 28 febbraio 1823 (copia dattiloscritta); lettera di Fr. Regolo a Fr. Guillaume, Roma 3 maggio 1823; lettera del vescovo di Orvieto a Fr. Regolo, Orvieto 30 agosto 1823 (copia dattiloscritta); lettera di Fr. Regolo al vescovo di Orvieto, Roma 3 settembre 1823 (copia dattiloscritta). La validità storica dei documenti citati in copia è garantita dai riscontri puntuali che emergono nelle lettere di Regolo a cui si rimanda in nota. 79
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dei Fratelli delle Scuole Cristiane. La conseguente uscita dall’Istituto di Fratel Benedetto costrinse, inoltre, gli altri Fratelli italiani ad assumere il peso finanziario del bilancio della casa di Orvieto, il cui successo coincise con una nuova stagione dettata dalla salita sul trono di Pietro di Leone XII, più che dall’elezione a Superiore Generale di Frère Guillaume. Il 14 settembre 1822 il vescovo di Orvieto informò Fratel Regolo che Fratel Benedetto nel frattempo diventato direttore di Bolsena84 «si è adoperato per ottenere dalla S. Penitenzieria Apostolica la dispensa de’ Voti semplici della loro rispettabile Congregazione e ne ha ottenuto il favorevole rescritto a me diretto per l’esecuzione. Ha esposto i motivi di coscienza che ha affidato con segreto allo stesso Cardinale Penitenziero [sic] Maggiore e così niente si può sapere di ciò. Il rescritto è ancora al foro esterno e così io posso contestarlo con prudenza e lo manifesto a lei con riservatezza affinché si sappia regolare tanto più che sospetto che il detto fr. Benedetto non voglia manifestarlo al Superiore se non a cose fatte»85.
Segue la risposta di Regolo del 18 settembre, convinto che «perché sia valida la dispensa ci vuole l’intesa del Superiore Generale e del suo Capitolo conforme si è sempre praticato». Dello stesso giorno è una lettera di Regolo a Benedetto in cui lo scrivente raccontò di un sogno «che non poco mi ha molestato l’imaginazione [sic] e sebbene non presti fede ai sogni, perché questo più d’ogni altro mi ha disgustato, glielo voglio raccontare. Mi sognai adunque darmi che lei ha lasciato il nostro S. Abito, lo vedevo vestito da secolare come era appunto quando giunse il [sic] noviziato. Con risoluta e ostinata volontà di ritornar al secolo. Non può figurarsi il fastidio che me diede questo sogno, ne sudavo e piangevo di dolor mi svegliai tutto spaventato [sic] e mesto ed ebbi non poco a combattere per cacciarlo dalla morte [sic]».
Nella lettera Regolo menzionò anche un presunto colloquio con un Fratello di Trinità dei Monti che avrebbe confermato i presagi del sogno. Il 21 settembre giunse la lettera del Vescovo che spiegava come il rescritto non potesse essere annullato con la Bolla di approvazione dell’Istituto (art. 9-10), secondo quanto proposto e sperato da Regolo: «se l’oratore ricorreva alla S. C. de’ Vescovi e Regolari, doveva sentirsi il R. Superiore Generale; ma essendo ricorso alla S. Penitenzieria, i motivi o sia raggioni che possono essere addotte devono essere di coscienza; e però da quel Tribunale non saranno mai comunicati [sic]».
84 Nella lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud del 18 maggio 1822, si cita una richiesta di Guillaume riguardante proprio il cambiamento tra Benedetto e Sebastiano, del quale, in realtà, si erano già sottolineati alcuni problemi di salute che meritavano attenzione, nella lettera del 19 dicembre 1821 (ambedue le lettere in AMGFÉC ND 106/1 d.5). 85 Sul libretto «Promemoria dall’anno 1814» (AMGFÉC ND 106/6 d.6), posteriormente, Regolo ha annotato così i fatti riguardanti il caso di Benedetto: «11 agosto. fr. Benedetto presentò supplica al card. Castiglione Penitenziere Maggiore per ottenere la dispensa de’ suoi voti ed allì 22 ricevette rescritto.»
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Il 25 settembre Regolo scrisse di nuovo a Fratel Benedetto, lamentandosi di non aver ricevuto risposta alla sua precedente, indotto dunque a credere che il sogno non fosse privo di fondamento. Regolo, che era stato direttore di Benedetto durante il periodo del noviziato86, esercitò la sua autorità spirituale con accortezza e strategia, prima attribuendo al diavolo la responsabilità di un’eventuale uscita dall’Istituto87, poi spiegandogli che le conseguenze di una tale situazione lo avrebbero costretto ad affrontare la calunnia e il disprezzo dei Fratelli e della gente88. Nel frattempo, come già detto, il Capitolo Generale aveva eletto Guillaume Superiore Generale e il 26 dicembre 1822, congratulandosi con lui, Regolo ricapitolava al neo eletto e amico tutta la vicenda, insistendo sui debiti contratti da Benedetto sia a Orvieto che a Bolsena e raccontando che i colloqui con il Cardinale Penitenziere dovevano essere avvenuti durante i ripetuti soggiorni di Benedetto a Roma, «sous prétexte de récupérer des terrains qui devaient être restitués à notre couvent de Bolsena». Alla data della lettera, Benedetto era già uscito dalla Congregazione e, subito pentitosi, aveva chiesto di essere riammesso, a qualsiasi condizione. «Una catastrofe funesta»: con queste parole, sia nel dicembre 1822 che nel febbraio 1823, Regolo definiva la situazione; in quest’ultima lettera informò Guillaume che il vescovo di Orvieto aveva espresso parere negativo riguardo la possibilità del rientro di Benedetto nell’Istituto, accennando anche a una relazione con una donna che si sospettava si protraesse da prima della sua uscita. Del 28 febbraio 1823 è la risposta di Guillaume a Benedetto89, tornato a chiamarsi col suo nome da secolare, Giuseppe Quattrinelli, che avrebbe manifestato la volontà di fare penitenza, riconoscendosi debitore verso l’Istituto di una quantità imprecisata di soldi. Decisa la risposta di Guillaume: «non è necessario di essere nel
«Libro iniziato 25 gennaio 1796 per registrare gli atti delle vestizioni – I parte», in AMGFÉC, CK 576 B. 87 «Lei sa come è accanito il demonio contro li nostri poveri giovani fratelli, e anche contro li professi, questi ultimi poi sono il suo cibo eletto se mai gli riesce di sedurli, perché allora fa doppia stragge [sic] nel gregge» (lettera di Fr. Regolo a Fr. Benedetto, Roma 25 settembre 1822, copia dattiloscritta, in AMGFÉC ND 106/1 d.5). 88 «[...] e forse si penserebbe, ed anche si direbbe che Lei ha pensato negli anni scorsi sotto il manto di Religione e di carità a far borsa per se [sic] e poi uscire dalla Religione. Ma torno a dire non lo credo capace di tal pazzia» (ibidem). Il 21 ottobre, stando alle indicazioni del «Promemoria...», Benedetto ottenne il rescritto dal vescovo di Orvieto per uscire dalla Congregazione. 89 Dal libretto «Promemoria dall’anno 1814» (AMGFÉC ND 106/6 d.6) apprendiamo che il 3 gennaio 1823 Benedetto si era presentato a Trinità dei Monti vestendo l’abito dell’ Istituto, ma non venne accolto. Il 18 febbraio sia Benedetto che Regolo scrivono a Guillaume, mentre il 25 febbraio, per colpa di Benedetto, esce dalla Congregazione Fr. Filippo (non vi sono riportate le circostanze). Il libretto indica il 28 febbraio come data in cui «il Sup. Gen.le escluse l’ex Benedetto dall’esser più riammesso nell’Istituto». 86
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nostro Istituto per salvarsi». Seguirono altri tentativi di Benedetto, ma furono respinti90. Il 3 maggio 1823 Regolo informava Guillaume che Sebastiano aveva riassestato le finanze dopo la gestione di Benedetto a Orvieto e che lo stesso aveva fatto Vincenzo Ferrer a Bolsena. Ma in queste ultime lettere tra il Superiore Generale e il suo sostituto a Roma, durante la primavera del 1823, emerge una questione di notevole interesse storico, che evidentemente si era resa urgente dopo la vicenda del caso “Benedetto”: con una lettera del 26 marzo91, Guillaume chiese a Regolo di verificare, presso alcuni esperti, l’opportunità di presentare un memoriale al Papa per modificare l’iter canonico riguardante la dispensa dei voti, facoltà che la Bolla di approvazione attribuiva al Santo Padre; non è semplice stabilire se il centro dell’Istituto, in quel frangente, sentiva la necessità di ridefinire lo statuto integrale del Fratello in quanto religioso, o se piuttosto fosse mosso dall’esigenza contingente di risolvere un problema che, evidentemente, si ripresentava con frequenza. Regolo rispose dopo alcuni giorni dicendo di aver consultato alcuni esperti della Penitenzieria Apostolica e della Congregazione dei Vescovi e dei Regolari, così come il Priore dei domenicani di Santa Maria sopra Minerva: tutti gli dissero che il Papa avrebbe rimandato un’eventuale richiesta alla Sacra Congregazione «et que cette Congrégation n’approuvera pas qu’on touche à la disposition primaire de la Bulle de Benoît XIII qui réserve la dispense de nos voeux quoique simples à l’autorité du Souverain Pontife. Ils ont encore dit que ce serait réduire nos voeux à un jeu...» 92.
Regolo chiudeva la lettera annotando la preoccupazione di Beniamino e Félicissime, definiti “tra i più autorevoli”, rispetto a “ciò che il Superiore vuole fare dei voti”93: è evidente, ancora una volta, una divergenza di visioni, una resistenza alla politica elaborata a Lione, percepita a Roma come accentratrice e contraria agli interessi dei Fratelli residenti in Italia. Per Regolo, infatti, la questione dei voti, più che un annoso problema canonico, significava l’ennesimo spazio di contrattazione della sopravvivenza dell’Istituto in Italia, soggetta più ai dettami della “Bolla di approvazione” che alle prospettive disegnate dal Capitolo Generale: un’altra lettera, infatti, di pochi giorni dopo94, sempre destinata al Superiore, tentò di spostare il problema, non nella
90 La vicenda si riaprì nei primi mesi del 1824, quando un gesuita presentò la domanda di riaccogliere Quattrinelli nell’Istituto e il vescovo di Orvieto minacciò i Fratelli di perdere tutta la stima nutrita nei loro confronti, qualora lo avessero riammesso (lettera di Fr. Regolo a Fr. Guillaume, Roma, 6 giugno 1824, in AMGFÉC ND 106/1 d.5). 91 La lettera non è conservata in Archivio: conosciamo la data del 26 marzo perché viene indicata nella lettera del 3 maggio, già citata a proposito del caso “Benedetto”. 92 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Guillaume, Roma, aprile (?) 1823, in AMGFÉC ND 106/1 d.5. 93 Ibidem. 94 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Guillaume, Roma, 3 maggio 1823, in AMGFÉC ND 106/1 d.5.
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sostanza, ma nella sua area geografica di influenza, suggerendo a Guillaume di sentire il parere di alcuni teologi della Sorbona ed eventualmente chiedere a loro di preparare un memoriale, pur avendo come unico riferimento la Bolla di approvazione dell’Istituto e portando l’esempio dei gesuiti, il cui Superiore può dispensare dai voti semplici secondo quanto previsto dalla regola della Compagnia di Gesù. In alternativa, suggeriva, si sarebbe potuto chiedere al Papa di autorizzare l’arcivescovo di Parigi a dispensare. Nella risposta di Regolo sono due gli elementi che richiamano l’attenzione in senso critico: se nello scambio di lettere col vescovo di Orvieto, nel tentativo di risolvere il caso “Benedetto”, aveva manifestato stupore nell’apprendere che il Superiore non aveva autorità diretta sulla richiesta di dispensa del religioso, scrivendo a Guillaume, invece, non difese in alcun modo tale prerogativa; il secondo elemento, riguarda la proposta di domandare al Papa un’autorizzazione che concedesse all’arcivescovo di Parigi la facoltà di dispensare dai voti, proposta nient’affatto originale, né nuova, ma riferimento preciso a un precedente già verificatosi, nel periodo della Rivoluzione Francese, quando Agathon chiese al Pontefice la facoltà di dispensare i religiosi dai voti per permettere loro di essere esclusi dagli obblighi dell’Istituto, ma ottenendo, appunto, come risposta, una autorizzazione che riguardava esclusivamente l’arcivescovo di Parigi95. Ancora una volta, pare evidente che per Regolo il problema non era la definizione di un iter canonico, ma la necessità di affermare una presa di distanza dal centro dell’Istituto come garanzia nei confronti dell’ambiente romano; l’Istituto delle Scuole Cristiane aveva, col tempo, perso il suo carattere di dipendenza dalla Francia e si era costituito come realtà capace di elaborare al suo interno un’identità propria. La questione dei voti, al di là dei risvolti canonici, rappresenta un momento di questo conflitto, una cartina tornasole della percezione che i Fratelli italiani avevano circa l’autorità del Superiore Generale e la sua area di influenza.
L’apertura di Spoleto e la corrispondenza con Fratel Paolo Il 28 settembre del 1823, il cardinal vicario Annibale Della Genga succedeva sul trono di Pietro a Pio VII, prendendo il nome di Leone XII96. Sul rapporto di profon-
95 L’informazione è contenuta in F. FRÉDEBERT MARIE, FSC - R. CAULIER, Un grand Supérieur. Le Très Honoré Frère Agathon, Supérieur Général des Frères des Écoles chrétiennes, 1731-1777-1798, Tournai 1958, 134-136. 96 Annibale Sermattei Della Genga (Spoleto, 22 agosto 1760 – Roma, 10 febbraio 1829) era stato nunzio a Lucerna, Colonia e Parigi, eletto con l’appoggio del partito «zelante», in opposizione alla linea del Segretario di Stato Ercole Consalvi. Cfr. R. COLAPIETRA, La formazione diplomatica di Leone XII, Roma 1965; Id., La Chiesa tra Lamennais e Metternich. Il Pontificato di Leone XII, Brescia 1963.
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da stima e sulla politica di investimento che questo Pontefice condusse nei confronti dei Fratelli delle Scuole Cristiane si è scritto molto: certamente il periodo del suo pontificato significò per l’Istituto delle Scuole Cristiane in Italia una svolta in termini di crescita e rafforzamento delle strutture, ma fu anche il preludio di una rottura con la componente francese che rischierà di spezzare l’unità della stessa Congregazione. L’intraprendenza di Leone XII non si fece attendere e il 27 febbraio 1824 convocò Regolo informandolo di voler destinare il suo palazzo di Spoleto per aprirvi una scuola: dopo i consueti sopralluoghi e le procedure burocratiche, fra cui la necessaria soppressione del metodo Lancaster che veniva usato nelle cosiddette scuole di “mutuo insegnamento”97, il 13 ottobre iniziò l’attività didattica. Durante questo lungo periodo e fino alla Pasqua del 1825, Regolo rimase a Spoleto, per poi recarsi in visita a Bolsena e a Orvieto, dove si trattenne circa due mesi per aiutare il direttore Fratel Pio, dopo l’avvenimento drammatico del suicidio di un giovane religioso nella stessa comunità98. Neppure a Roma, però, la situazione appariva serena: già dal giugno 182499 Regolo si accorse che nella comunità di Trinità dei Monti dove, forse per rispetto al ruolo di Félicissime, non si faceva la visita prevista dalla Regola, si erano verificate delle irregolarità causate da una situazione economica non trasparente, risultato di prestiti di denaro effettuati dal direttore, non coperti dalle dovute garanzie. Per questo motivo Regolo, dopo la Pasqua del 1825, lasciò Spoleto per rientrare a Roma, recandosi a Trinità dei Monti per la visita, dove Félicissime lo pregò di aspettare il mese di settembre per dei motivi che lo stesso religioso avrebbe spiegato al Superiore in una lettera100. Di fatto ci risulta che la visita venne realizzata da Regolo nell’agosto del 1826101: la relazione che ne attesta il contenuto presenta alcune raccomandazioni che riguardano la persona del Direttore, sia lasciando intendere che in alcuni casi veniva meno da parte dei Fratelli il rispetto alla sua persona, sia che era necessario porre
A. ASCENZI, G. FATTORI, L’alfabeto e il catechismo. La diffusione delle scuole di mutuo insegnamento nello Stato Pontificio (1819-1830), Pisa-Roma 2006. Il metodo cosiddetto “Lancaster” fu diffuso da J. HAMEL, L’enseignement mutuel, ou histoire de l’introduction et de la propagation de cette méthode par les soins du docteur Bell, de J. Lancaster et d’autres. Description détaillée de son application dans les écoles élémentaires d’Angleterre et de France, ainsi que dans quelques autres Institutions. Traduit de l’allemand de Joseph Hamel, Colas, Paris 1818. 98 Nella lettera a Fr. Guillaume (Roma, 23 giugno 1825, in AMGFÉC ND 106/1 d.5), Regolo racconta di reiterati tentativi di togliersi la vita da parte del religioso di cui si omette il nome, fino all’estremo gesto di colpirsi mortalmente la gola con un coltello. 99 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Guillaume, Roma, 6 giugno 1824, in AMGFÉC ND 106/1 d.5. 100 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Guillaume, Roma, 23 giugno 1825, in AMGFÉC ND 106/1 d.5. 101 La relazione firmata da Regolo e conservata in AMGFÉC ND 106/1 d.13, riporta la data di giugno, periodo, però, in cui Regolo non risulta essere a Roma, bensì a Orvieto: la data di agosto la apprendiamo da una sua lettera posteriore a Guillaume, del 15 dicembre 1826 (AMGFÉC ND 106/1 d.5). 97
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sotto controllo le sue attività esterne alla comunità, come nel caso dell’articolo 10: «che ogni volta che il fratello Direttore uscirà fuori di casa ne dia avviso al fratello sotto Direttore o ad un altro fratello se questo fosse assente»102. Nella lettera a Guillaume di fine anno, infatti, Regolo lamentava la scarsa regolarità del Direttore, precisando che i suoi prestiti non garantiti oscillavano tra i mille e i duemila scudi. Dalle lettere di questi anni, la maggior parte delle quali indirizzate a Fratel Paolo, principale corrispondente a Roma con l’incarico di svolgere l’ufficio di Procura presso la Santa Sede, emerge sempre più decisa l’iniziativa di Regolo nel campo della formazione religiosa e il Giubileo del 1825 gliene diede occasione e motivo, poiché le scuole lasalliane collaborarono con le rispettive diocesi coinvolgendo i propri alunni nelle diverse celebrazioni, compreso l’intero arco dell’anno 1826 in cui si celebrò il Giubileo extra urbem, che coinvolse le case di Orvieto, Bolsena e Spoleto103. Nel frattempo giungevano da Roma note di preoccupazione riguardanti lo stato di salute di Regolo, che dovette più volte tranquillizzare i Fratelli che gli scrivevano104: di fatto tra il 1825 e il 1826 i disagi fisici si intensificarono, probabilmente in conseguenza del carico di lavoro e dei relativi viaggi105, non di meno, però, delle preoccupazioni per le singole e contingenti situazioni che la gestione dell’ordinario gli presentava. A fine dicembre 1825 informò Paolo di un sospetto circa la relazione tra due Fratelli a Roma, Filippo di Trinità dei Monti e Andrea di San Salvatore106: nei mesi successivi il problema si acuì, coinvolgendo anche un altro Fratello, Bonaventura, al punto che Regolo avanzò l’ipotesi di far allontanare Filippo dalla congregazione107, rivedendo poi la decisione in seguito a una riflessione: «…questa è una faccenda al sommo fastidiosa, disgustosa, e dispendiosa; senza parlare de’ disturbi, affanni, crepacuore, tutti effetti della nostra misera umanità, sedotta dalle non ben morigerate passioni, le quali predominando, offuscano non solo il lume della fede, ma ancora della ragione»108.
Filippo fu trasferito ad Orvieto, dove si cercava un’alternativa ad un altro religioso,
“Relazioni delle visite annuali. C.tà Trinità dei Monti – 1826 – 1830” (in AMGFÉC ND 106/1 d.13). Lettera di Fr. Regolo a Fr. Paolo, Orvieto 26 maggio 1826, in AMGFÉC ND 106/1 d.9. 104 «…sebbene non stia in ozio, lei sa bene ch’essendo io d’indole pigra e flemmatica, non ci è pericolo che mi carichi troppo; sicché per questa parte possono vivere tranquilli» (lettera di Fr. Regolo a Fr. Paolo, Spoleto, 30 agosto 1825, in AMGFÉC ND 106/1 d.8). 105 Nelle lettere del periodo fra febbraio e marzo 1826, si fa continuo riferimento al tremore della mano, che non gli permette di scrivere; nella lettera del 22 luglio 1826, avvisa Fr. Paolo che non può mettersi in viaggio da Orvieto a Roma, perché non riesce a camminare ( AMGFÉC ND 106/1 d.9). 106 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Paolo, Roma, 5 dicembre 1825, in AMGFÉC ND 106/1 d.8. 107 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Paolo, Roma, 4 febbraio 1826, in AMGFÉC ND 106/1 d.9. Già il 13 agosto 1825, Regolo scriveva a Fr. Paolo chiedendo che si dicesse a Filippo di non trascurare i suoi impieghi per «esercitarsi nello scrivere» (AMGFÉC ND 106/1 d.8). 108 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Paolo, Orvieto, 4 luglio 1826, in AMGFÉC ND 106/1 d.9. 102 103
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Pietro De Angelis, ritenuto non idoneo alla vita in comunità a causa della sua “insubordinazione”109. La gestione di casi simili si fece, negli anni, sempre più complessa e i comportamenti assunti dai diversi individui nelle comunità si imponevano anche agli stessi codici stabiliti nelle regole; le ragioni che portavano religiosi come Pietro a creare disagio nelle comunità erano, a quanto possiamo apprendere da una lettura critica delle fonti, principalmente economiche, fatta eccezione per il caso di Filippo, legato a comportamenti sessuali ritenuti devianti. Il nome di Pietro tornò un anno dopo, in una lettera di Regolo a Paolo110 in cui si parlava di Fratel Marco, cuoco di San Salvatore, accusato di aver trattenuto dei soldi della cucina, d’accordo, appunto, con Pietro De Angelis. Interessante la strategia suggerita da Regolo a Paolo: avrebbe dovuto ammonire il Fratello procurando che si pentisse; altrimenti al mattino seguente, gli avrebbe letto alcune righe, che Regolo aveva già predisposto, avrebbe aspettato che si cambiasse gli indumenti per controllare che non portasse con sé denaro della comunità, ridato i suoi vestiti secolari e mandato via. L’importante, suggeriva il “Vicario”, era non rifare gli stessi errori commessi con Pietro con cui «siamo stati buoni minchioni»111. L’operazione non riuscì secondo i piani, Marco non gradì le parole di Fratel Paolo e dopo alcuni giorni lasciò la congregazione per entrare tra i Rocchettini di Gradoli, esperienza che durò circa una settimana, fino a che, di nuovo, venne sorpreso a rubare112. Come accogliere un candidato alla vita religiosa, quali condizioni per trattenerlo, quali criteri per un discernimento trasparente? Non si può dire che i criteri vigenti in materia113 venissero sempre seguiti con scrupolo se il 17 luglio 1827, Regolo
Alcuni documenti del giugno 1826 attestano la produzione di un memoriale indirizzato al Papa per ottenere la dispensa dei voti per Fratel Pietro. Cfr. in AMGFÉC ND 106/1 d.8: lettere di Fr. Regolo a Fr. Paolo: Orvieto, 6 giugno 1826; 20 giugno 1826; in AMGFÉC ND 106/1 d.21 lettera di Regolo al Papa (senza data); in AMGFÉC ND 106/1 d.18 lettera del 29 giugno in cui si dice che nel Memoriale per espellere fr. Pietro dalla congregazione manca la richiesta esplicita di dispensa dei voti. Fratel Pietro, al secolo Filippo De Angelis, era nato a Roma il 25 maggio 1790 ed era entrato nel noviziato l’8 dicembre 1817 (cfr. “Stato degli individui della Provincia dal 1795 a tutto il 1857” in APRFSC). 110 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Paolo, Orvieto, 26 giugno 1827, in AMGFÉC ND 106/1 d.10. 111 Ibidem. 112 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Paolo, Orvieto, 11 luglio 1827, in AMGFÉC ND 106/1 d.10. 113 Di seguito una descrizione tracciata da Regolo del profilo necessario al candidato alla vita religiosa, imprescindibile per poter aspirare a far parte della congregazione dei Fratelli delle scuole cristiane: «bisogna informarsi se sappia leggere e scrivere; se sia di buoni costumi; se sia sano di viscere; se non sia soggetto a qualche infermità abituale e avvisarlo che porti seco la sua fede di Battesimo, di buoni costumi e di stato libero. Tutte cose assolutamente necessarie» (lettera di Fr. Regolo a Fr. Paolo, Orvieto, 24 dicembre 1825, in AMGFÉC ND 106/1 d.8). Ulteriore indicazione ci è fornita da una descrizione di Regolo riguardante le condizioni e i criteri per allontanare un membro della congregazione, contenuta in una lettera posteriore, sempre indirizzata a Paolo, a proposito di un giovane Fratello: «egli ha spiegato un carattere che non conviene alla Congregazione, rissentito, indocile, bizzarro, capriccioso, poco divoto, insomma mancante dello spirito dell’Istituto, ch’è spirito di fede, di Religione, di umiltà, di obbedienza, di docilità» (lettera di Fr. Regolo a Fr. Paolo, Roma 6 ottobre 1830, in AMGFÉC ND 106/1 d.12). 109
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ricordava a Paolo di rispettare tali indicazioni nell’accogliere un diciottenne genovese; e aggiungeva: «mi sono sempre pentito di non aver prese queste misure prima di ricevere l’ex Pietro De Angelis che mi ha poi dato tanto fastidio e disonore»114. Allo stesso modo le vicende riguardanti Félicissime continuavano a preoccupare Regolo che, nella lettera appena citata, faceva riferimento ai «cavalieri d’industria» di cui «il buon minchione di Felicissimo» si era sempre fidato115. E la visita alla comunità di Trinità dei Monti del 1827, aperta il 19 agosto e chiusa il 9 settembre, costrinse Regolo a rivedere la lista degli articoli integrando quella dell’anno precedente e inserendovi parole che lasciano intendere una situazione caratterizzata da forti tensioni tra i religiosi: «si è osservato che alcuni fratelli in molte occasioni dimostrano una certa arroganza ed insubordinazione verso i Superiori»116. Il caso Félicissime, memoria storica della presenza dei Fratelli in Italia e uomo autorevole agli occhi della Santa Sede, consente un’ulteriore riflessione intorno all’avvicendarsi di generazioni di religiosi italiani e sulla creazione, pertanto, di un Istituto sempre meno francese: colpisce, infatti, nella documentazione raccolta, una certa discrepanza tra la perdita di credibilità dello stesso Félicissime presso i Fratelli di Trinità dei Monti per le ragioni analizzate finora e la fiducia accordatagli continuamente dal Superiore Generale che da Parigi, nonostante fosse ben informato riguardo i disagi finanziari da lui provocati, faceva riferimento proprio al suo intervento e alla sua autorevolezza per gestire l’apertura di una nuova comunità a Roma che sarebbe stato il principale motivo della spaccatura evidente e drammatica tra francesi e italiani117. Con l’arrivo dei Fratelli d’oltralpe si apre una pagina complessa e nuova: in questa sede si è voluto verificare la possibilità di una storia “italiana” dell’Istituto delle Scuole Cristiane, ricomporne il quadro assemblando tasselli diversi e di difficile gestione che richiedono strumenti di analisi che vanno al di là della rappresentazione di eventi istituzionali. È dunque un contesto dalle tinte divergenti, quello che si preparava ad accogliere a Roma una nuova opera gestita da religiosi francesi che, se
Lettera di Fr. Regolo a Fr. Paolo, Orvieto, 17 luglio 1827, in AMGFÉC ND 106/1 d.10. Quale fosse il problema lo si può dedurre in maniera abbastanza certa dall’espressione usata da Regolo per concludere la sua riflessione: «Il povero ingannato non ne avrà niente». Certamente si trattò di impostori che chiesero prestiti ingannando il religioso francese direttore a Trinità dei Monti: la definizione “cavalieri d’industria” li inquadra nella tipologia dell’imbroglione; basti pensare all’ultimo romanzo di Thomas Mann, Le confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull (1954). 116 “Relazioni delle visite annuali. C.tà Trinità dei Monti – 1826 – 1830” (in AMGFÉC ND 106/1 d.13). 117 In AMGFÉC ND 106/1 d.23, nel dossier dedicato a Félicissime, si conservano due lettere a lui indirizzate dal Superiore Generale Fr. Guillaume, rispettivamente del 28 gennaio e del 28 marzo 1825: nella prima si parla del progetto che il Papa ha comunicato al cappellano del re riguardante il convento di Trinità dei Monti e che Guillaume, nonostante i Fratelli siano impazientemente attesi in molti luoghi, asseconderà; nella seconda lettera Guillaume conferma l’intento dando la disponibilità ad inviare 4 Fratelli per 4 classi. 114 115
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pur della stessa Congregazione, esprimevano in quegli anni difformità sostanziali, basti pensare all’abito, la cui restaurazione presso gli italiani, secondo il dettato delle regole, costerà a Rieul la sospensione dalle sue funzioni. Ad una facciata apparentemente positiva in termini di numeri di alunni e di ingressi nel noviziato, la corrispondenza di Regolo ci consente di associare una realtà umana di forte precarietà, sia dal punto di vista economico, per cui le frequenti defezioni nella comunità rivelavano un profondo disagio sociale, sia in un’ottica di maturazione culturale. Quest’ultima pista di indagine necessita di un ulteriore studio, reso possibile dalla notevole quantità di scritti catechistici e spirituali che Regolo ha lasciato ad uso dei Fratelli, la cui analisi può avvicinarci a cogliere la mentalità e il profilo ideologico di quel gruppo di religiosi di inizio Ottocento. Per tale analisi rinviamo al prossimo articolo su questa rivista.
RivLas 78 (2011) 2, 351-362
RETAZOS LASALIANOS [31-35] JOSÉ MARÍA VALLADOLID
Los muebles de la Casa Grande [31]
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lain, en ocasiones, relata las cosas con tanto detalle que se advierte que ha contado con una fuente exhaustiva; y, en otras, se nota que sus fuentes estaban desunidas o que le llegaban referencias incompletas de aquellos que conocían más o menos los hechos. Una cosa que me ha intrigado en la vida de La Salle es la rapidez con que se pasa de vivir en Vaugirard a la Casa Grande: la rapidez con que alquiló ésta, la benevolencia del párroco, señor de la Chétardie para hacer un alquiler tan caro, de 1.600 libras, la pronta reparación de la casa, que necesitaba arreglos; quién o quiénes hicieron esos arreglos; cómo completaron el mobiliario; y cómo, después de haberlo hecho, la misma piadosa dama compró mobiliario nada menos que por siete mil libras (¡catorce millones de pesetas!)... Pues bien, indagando en lo que dicen los biógrafos, se puede encontrar una explicación que soluciona todas esas preguntas a la vez. Veámoslo. El alquiler de la Casa Grande se hizo en 1698, pero no dice el mes. Pero sí se da más adelante la fecha en que los moradores de Vaugirard comenzaron a habitar la Casa Grande, que fue el 18 de abril. En Vaugirard había por aquellas fechas 35 novicios más el fundador y otros 14 Hermanos. En total, cincuenta personas, que vivían con suma estrechez y pobreza. Ese número fue el que pasó a vivir en la Casa Grande, y como el mobiliario que tenían era paupérrimo, la señora de Voisin, por sugerencia de La Chétardie, dio a La Salle un donativo de 400 libras (unas ochocientas mil pesetas) Para que compraran algunos muebles. Recuérdese que, según los biógrafos, en Vaugirard no tenían camas, sino unos jergones de paja que colocaban por los suelos. El señor de la Chétardie, cuando los trasladaban de la vieja casa a la nueva, que estaban en la misma calle y a algo más de un kilómetro de distancia, sintió vergüenza y compasión por la pobreza con que vivían los Hermanos.
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Pero de inmediato se dice que poco después la misma señora de Voisin dio las 7000 libras para comprar más muebles. ¿Pues qué muebles podían adquirir con todo ese dinero? La solución está una página más adelante, cuando de repente, dice que el señor párroco, de acuerdo con el monseñor de Noailles (todavía no era cardenal) pidió a La Salle, casi seguro ue por medio de la Chétardie, que acogiera a un grupo de jóvenes irlandeses, desterrados en Francia con su rey, Jacobo II. Con esto sí se explica la rapidez para alquilar y arreglar la Casa Grande. Es lógico que el Jacobo II hubiera hablado con Luis XIV de la necesidad de dar una educación adecuada a los niños de padres irlandeses que desde hacía años le habían estado siguiendo en su destierro; y eso no lo habrían hecho en 1698, sino bastante antes... Luis XIV se lo habría comentado a monseñor de Noailles, asegurándole toda la ayuda económica necesaria... Y Luis Antonio de Noailles lo hablaría con La Chétardie, que pensaría en La Salle, que en aquellos momentos atendía cuatro escuelas, con casi 1000 alumnos, en la parroquia. Todas estas consultas y peticiones requerían su tiempo. No es de extrañar que antes de que La Chétardie hablara con Juan Bautista, pensara dónde podría acoger La Salle a aquellos niños, por añadidura nobles o de familias selectas, si ni siquiera tenía sitio en Vaugirard para los novicios y los Hermanos. Él sabía que la Casa Grande se ofrecía en alquiler, aunque algo elevado (1600 libras) y aunque era impensable que La Salle tuviera tal dinero, sin dificultad lo puso él. Claro, si tenía en la cabeza pedirle a La Salle que acogiera como internos a los niños irlandeses, y tenía por detrás el apoyo de monseñor de Noailles y de Luis XIV... y todo ello como prioridad..., ¿dónde los iban a alojar? La señora Voisin, importante bienhechora de la parroquia de San Sulpicio, era amiga de la señora de Maintenon, la segunda esposa de Luis XIV. Si Juan Bautista tenía que acoger en la Casa Grande a un grupo de muchachos irlandeses, en general de familias nobles o acomodadas, en régimen de internado, y darles una formación adecuada, necesitaba, por lo menos, un dormitorio, con camas, mesillas, armarios, lavabos para el aseo; ropa de cama, mantas, colchones, sábanas almohadas; servicios higiénicos en los dormitorios y en los patios; comedores con su vajilla y cubiertos; instrumental de cocina y servicio de comedor; mesas y sillas; clases con mesas o pupitres, o sillas para el estudio, etc. Si los Hermanos ocuparon la Casa Grande el 18 de abril de 1698, los arreglos de la misma se tuvieron que realiza entre enero (si es que el alquiler se hizo en enero) y abril. ¿Quién encargó los arreglos, La Chétardie o La Salle? Lógicamente, La Salle, que era quien iba a ocupar la casa con sus discípulos. Ello nos lleva a pensar que al mandar arreglar y acomodar la casa, el fundador ya conocía el destino que iba a tener, y que, además de acoger a su comunidad, tenía que acomodar a los jóvenes irlandeses. Y así se explica lo que sugieren los biógrafos, que los Hermanos entraron el 18 de abril y los niños irlandeses en mayo; y que la señora Voisin diese primero 400 libras y después las siete mil. Éstas, casi con certeza, tenían como finali-
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dad adquirir el mobiliario para los irlandeses. Lo cual exigiría también una explicación: que las 400 libras se las dio como donativo o limosna para la comunidad; pero las otras 7000 las daba ella, pero como intermediaria de la Casa Real. ¿Cuánto tiempo estuvieron los irlandeses residiendo en la Casa Grande? No lo sabemos, en absoluto, pero tal vez fue poco tiempo, porque tendrían que aprender, sobre todo, la lengua francesa, que en buena parte ya conocerían. Y hay que recordar que desde mayo de 1700 en los locales de la Casa Grande funcionó la Escuela Dominical, que llegó a contar con 200 jóvenes entre 16 y 20 años. Fácilmente podemos pensar que ocuparían las clases y locales que utilizaron los irlandeses unos meses antes. ¿Y la famosa visita que hizo Jacobo II con monseñor de Noailles a los niños irlandeses acogidos en la Casa Grande, cuándo ocurrió? Pudo tener lugar pocos meses después de la acogida. Los biógrafos la sitúan en junio o julio de 1688. En efecto pudo tener lugar, pues Jacobo II vivía en aquel momento, ya que falleció el 16 de septiembre de 1701, a los 67 años, en Saint-Germain-en-Laye. Lo que ya es más dudoso es lo que sugiere Maillefer II, que algunos Hermanos, sin que lo supiera La Salle, trataron de pedir a Jacobo II su intercesión para obtener la aprobación del Instituto por el Papa.
La programación catequística en la escuela cristiana de los orígenes [32]
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n los orígenes del Instituto los Hermanos tenían dos reglas que debían cumplir escrupulosamente: una era la Regla de comunidad, o Reglas Comunes, y la otra era la Guía de las Escuelas cristianas, o Regla de la escuela. Estudiando al mismo tiempo ambas reglas uno se dará cuenta de que muy pronto, en el Instituto, existió una verdadera programación de la catequesis en las escuelas fundadas por La Salle, y que esta programación fue obra conjunta del Fundador y de los Hermanos. Merece la pena analizarla y encontrar el modo como se llegó a ella.
Distribución del catecismo para la semana. Todos los domingos por la tarde, el Hermano director debía poner en el tablero de la Comunidad los temas que habían de explicarse durante la semana: Dice la Guía (9,1,16): «El domingo, el Hermano Director dará e indicará el tema del que se ha de comenzar a hablar el lunes en el catecismo y que se continuará durante el resto de la semana». Los temas señalados por el Hermano Director, consistían en dos o tres preguntas para cada día de la semana. Los escogía en el libro Deberes del Cristiano, II, por preguntas y respuestas, que por eso se le llamaba Catecismo de las Escuelas Cristianas. En otra parte (9,1,15) la Guía dice: «los domingos y fiestas, o los miércoles víspera de asueto por todo el día, se dará el catecismo sobre un tema particular señalado para la semana». Este tema particular es distinto de las preguntas que se explican en el
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catecismo de la semana. ¿De qué tratan? Lógicamente de la liturgia del domingo o de la fiesta, o de alguna cuestión litúrgica. También los señala el Hermano Director. ¿De qué libro se sirve para este tema particular? De la tercera parte de Deberes del cristiano, que lleva como subtítulo «Del culto exterior y público», todo él en preguntas y respuestas. Lo que hayan de aprender en cada clase o lección cada día de la semana se lo indicará el Hermano Director (GE 2,2,2). Preparación del catecismo por los Hermanos. Una vez que el Hermano sabe lo que debe explicar durante la semana, debe emplear todo el tiempo posible para preparar los temas. Todos los días, RC 27,18; «Después de clase, se estudiará el catecismo» (RC 27,18). «Después de la escuela, estudiarán el catecismo, durante el tiempo que quede, hasta la lectura espiritual» (RC 27,28). Después de la cena, los Hermanos tendrán recreación todos juntos hasta las ocho. A las ocho, se reunirán los Hermanos en la sala de ejercicios, donde estudiarán el catecismo» (RC 27,35). «A las nueve y media, estudiarán el catecismo. Si no hubiere tiempo suficiente para escribir, preferirán el estudio del catecismo a la escritura» (RC 28,4). «Si hay Hermanos que quedan en casa mientras los demás explican el catecismo, deberán estudiar y recitar el catecismo». (RC 28,10). «Después de Vísperas, los Hermanos rezarán las tres decenas del Rosario, y el tiempo que quede hasta las cuatro, lo emplearán en estudiar el catecismo» (RC 28,13). Además del estudio del catecismo, en ciertos días también habrá «recitación», es decir, que se dará de viva voz lo que se haya estudiado: «A las ocho y cuarto, se estudiará el catecismo hasta las ocho y tres cuartos; y luego habrá repetición hasta las nueve» (RC 31,3) «A las tres y media, se estudiará el catecismo hasta las cuatro. A las cuatro, habrá repetición hasta las cuatro y cuarto» (RC 31,8).. Además del estudio del catecismo los Hermanos tendrán una lección práctica (o catecismo de formación). «Los domingos se tendrá el catecismo a las ocho de la noche, y los Hermanos a quienes se interrogue no dirigirán pregunta alguna al que explica el catecismo; y contestarán con mucha cordura y modestia» (RC 28,13); «Los Hermanos lo explicarán, por turno, después de haberse preparado al efecto» (RC 28,20). «Vueltos a casa, estudiarán el catecismo, y lo recitarán» (RC 30,19). ¿En qué libros prepara el Hermano los temas de catecismo? «Todos los libros, así catecismos como libros espirituales u otros, los dará el Hermano encargado, sin que ninguno pueda tomarse la libertad de escogerlos, ni mucho menos tomarlos para sí o leer en otros distintos de los que se le dieren». (RC 20,6). Cuando los Hermanos dispusieron del Deberes del cristiano en texto seguido, es decir Deberes I, lo empleaban para preparar sus catecismos. Le explicación del catecismo. «Para el catecismo, los alumnos de todas las clases se dividirán en seis clases: la primera clase será la de quienes leen en el primer cartel; la segunda, la de quienes leen en el segundo cartel; la tercera, la de quienes leen el silabario; la cuarta, la de quienes leen en el primer libro; la quinta, la de quienes leen en el segundo libro; y la sexta, la de quienes leen el tercer libro y todos los
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demás que están en lecciones superiores (GE, 1,6). «Con este fin, explicarán, todos los días, el catecismo durante media hora [el tema de la semana]; las vísperas de asueto por todo el día, durante una hora [el tema de la semana y los principales misterios]; y los domingos y fiestas, durante hora y media el tema de la semana, los principales misterios y el tema especial indicado]» (RC 7,6). «Los miércoles, víspera de los días en que se tiene asueto todo el día, y los domingos y fiestas ordinarias, se dará el catecismo en todas las clases; la primera media hora sobre el Compendio de los principales misterios [es el llamado Compendio Mayor], y el resto del tiempo sobre el tema señalado para la semana (GE 9,1,8). «Las fiestas solemnes, para las cuales haya un tema señalado en el catecismo [«Del culto exterior y público»], se dará el catecismo sobre el tema de la fiesta o del misterio, tal como está señalado en el catecismo (GE 9,1,9). «Cuando se dé asueto sólo por la tarde, se abreviarán las lecciones de la mañana, y se explicará el Catecismo durante la última media hora de clase... El catecismo versará sobre el asunto de la semana» (RC 29,2). «Cuando el jueves haya asueto por todo el día, el miércoles por la tarde habrá catecismo durante una hora, de tres y media a cuatro y media, durante la merienda; y en invierno, cuando se reza la oración a las cuatro, desde las tres hasta las cuatro, versando la primera media hora sobre los principales Misterios, y la segunda, sobre el asunto de la semana». (RC 29,1). El estudio del Catecismo antes de comenzar las clases del día. Los alumnos, antes de comenzar la clase, y mientras esperaban al maestro, repasaban el catecismo (GE. 1,1,13): «Desde que los escolares entren en la clase hasta la llegada del maestro, los que saben leer estudiarán el catecismo, y en voz tan baja que no puedan oírse unos a otros, ni se oiga en la clase ningún ruido». Los niños estudiarán en sus sitio el Catecismo. ¿A qué catecismo se refiere? Sería muy probablemente el Compendio Menor» que todos repasaban y terminaban sabiéndolo totalmente de memoria. También al estudio de este Compendio Menor se refiere este otro párrafo de la Guía (9,1,15): «En las clases en que sólo se estudie todos los días el Compendio del catecismo, los domingos y fiestas, o los miércoles víspera de asueto por todo el día...». Qué días eran esos en que sólo se estudiaba el Catecismo? RC 27,10: «Desde el día 15 de noviembre hasta el día 15 de enero inclusive»... Los dos primeros días de la semana en los que haya clase todo el día, los alumnos que leen sin deletrear, repasarán durante el desayuno la oración de la mañana, y durante la merienda, la de la tarde; y los dos últimos días de la semana en que haya escuela todo el día, repasarán durante el desayuno y la merienda lo que hayan aprendido del catecismo de la diócesis durante la semana (Con el tiempo, el Compendio Menor se fue sustituyendo por el de la Diócesis, hasta el punto de que el Compendio quedó casi olvidado en las escuelas de los Hermanos). «El maestro cuidará de que lo repasen todos, en esos dos días, sin excepción» (GE 2,2,2).
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Si en la misma clase hay alumnos que deben repasar el catecismo, lo repasarán solamente el sábado o el último día de clase de la semana; y si durante el desayuno y la merienda de ese día hubiera más tiempo del necesario para hacérselo repetir a todos, el tiempo que sobre se empleará en repasar las oraciones (GE 2.2.22). En resumen: 1. el Compendio Breve se usaba para repasar el catecismo todos los días antes de comenzar las clases; 2. el Compendio Mayor se empleaba dos días por semana, cuando se repasaba el Catecismo sobre los principales misterios; 3. el Catecismo de las escuelas cristianas, o Deberes del hombre para con Dios, por preguntas y respuestas, para explicar los temas señalados para la semana; 4. El libro titulado Del culto exterior y público, se empleaba las vísperas de los domingos y fiestas o para temas especiales (del culto); 5. El libro Deberes del Cristiano para con Dios, en texto seguido, se empleaba por los Hermanos para preparar sus catecismos. Con el tiempo también se uso como libro de lectura para los alumnos mayores.
La consagración del educador cristiano [33]
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¿Eran los Hermanos personas consagradas a Dios antes de emitir los votos religiosos? La Bula de aprobación del Instituto, en 1725, llevó a los Hermanos a emitir los votos de pobreza, castidad y obediencia, al modo como lo hacían las Órdenes y Congregaciones religiosas existentes en aquel momento. Blain se explaya ampliamente sobre lo que estos votos significaban, al menos en tres ocasiones, y en otras hace referencias más breves. Insiste en que era un anhelo de La Salle que sus hijos emitieran los tres votos de religión, y lo afirma a pesar de las repetidas negativas, del Fundador, sobre todo en 1686 y en 1694, para que los Hermanos no emitieran los votos de castidad y de pobreza, y se contentaran simplemente con el de obediencia. Y Blain se enzarza explicando cómo al emitir los tres votos, los Hermanos se sumaban a las numerosas familias religiosas de hombres y mujeres consagrados a Dios. Pero cabe preguntarse: ¿es que los Hermanos del Instituto, antes de emitir los tres votos de la vida religiosa, no eran ya personas consagradas a Dios? Nadie puede dudar de que lo eran, y las meditaciones del santo Fundador están llenas de referencias al Hermano como persona separada del mundo y dedicada por completo a Dios. La fórmula de votos de 1694 (y se puede asegurar que la de 1686) era una verdadera y total consagración: «Santísima Trinidad... me consagro enteramente a Vos...» Pero si el Hermano estaba ya plenamente consagrado a Dios antes de emitir los tres
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votos de religión, significa que al emitir esos votos realizaba una doble consagración. Si el fundamento de esta segunda consagración eran los tres votos de religión, ¿cuál era el fundamento de la primera consagración? 2. Fórmula de consagración anterior a 1725. La respuesta la tenemos en la fórmula de votos anterior a 1725. En ella dice el Hermano que se consagra a Dios asociándose a los Hermanos de las Escuelas Cristianas, que tienen las escuelas gratuitas juntos y por asociación, y manifiesta esa asociación mediante el voto de obediencia, para que pueda ser enviado a cualquier lugar con el fin de desempeñar su ministerio de educar cristianamente a los niños. Es decir, que el Hermano se consagraba a Dios ¡educando a los niños! En otras palabras, se consagraba a Dios para ejercer el ministerio de educador cristiano. Desentrañando la fórmula de votos se concluye que la primera consagración del Hermano tiene como fundamento el ministerio de educar cristianamente. Y de ello se deduce que el Hermano, antes de hacer los votos de religión, ya estaba consagrado a Dios por el ministerio de ser educador cristiano. Y esta es una de las ideas geniales de Juan Bautista de La Salle: darse cuenta de que el cristiano se puede consagrar a Dios de una forma muy distinta a como lo hacen los miembros de las órdenes y congregaciones religiosas; y que no son sólo los votos los que «consagran» al cristiano a Dios. 3. La consagración del educador cristiano a través de su ministerio. Creo que este «descubrimiento» de La Salle tiene en el momento actual de la Iglesia un valor excepcional, pues hay que darse cuenta que el ministerio de educar cristianamente a los niños y jóvenes es un ministerio «laical» y que los primeros discípulos de La Salle se consagraron a Dios como «laicos» y desempeñaban en la evangelización del mundo una actividad, un ministerio, laical. En suma: un laico en la Iglesia se podía consagrar a Dios realizando un ministerio apostólico. O de otro modo: un ministerio apostólico laical podía ser el medio de consagrarse a Dios. Esta idea de La Salle, tan profunda, está aún hoy casi sin desarrollar en la teología de los ministerios laicales. Esta intuición de La Salle es la que no captó Blain. Y creo que la idea de La Salle iba aún más lejos de lo que estamos diciendo, pues probablemente era también la idea que tuvo para los maestros de las zonas rurales en los tres seminarios que abrió para maestros del campo, donde se formaron los jóvenes que preparó para que dieran escuela en los pueblos y aldeas a donde no podía enviar a Hermanos. Los jóvenes que se formaban en aquellos Seminarios tenían una formación semejante a la de los Hermanos, pero separados de ellos. Iban a los pueblos y aldeas a ejercer el mismo ministerio laical que los Hermanos, y por lo tanto, el mismo ministerio de educar a los niños podía también consagrarles a ellos. Claro que no lo expresaban mediante una fórmula de consagración, pero ejercían el mismo trabajo, la misma función y el mismo ministerio. Y aunque no formasen un cuerpo, o una sociedad, individualmente, y sin hacer votos, eran personas que se consagraban a Dios
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mediante un ministerio eclesial laical. 4. Hoy, el educador cristiano laico, ¿no puede consagrarse a Dios por el ministerio? Nosotros podemos dar un paso adelante. Si los Hermanos quedan consagrados a Dios mediante el ministerio de la educación de los jóvenes, nuestros profesores seglares, si realmente ejercen el mismo ministerio, ¿no pueden, a través de él, consagrarse también a Dios? Claro que los Hermanos nos comprometemos además a formar sociedad con los demás Hermanos y a tener juntos y por asociación las escuelas, para ejercer el ministerio. ¿Y si ellos, los seglares, se comprometen a sostener un centro educativo junto con los Hermanos, y a desempeñar con ellos el ministerio de la educación cristiana, no están formalizando, implícitamente, una auténtica consagración a Dios, aunque no emitan votos?. ¿Qué faltaría para que esa consagración fuera explícita?
Florecillas de la santidad de Juan Bautista de La Salle [34]
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l 15 de mayo, en que celebramos a nuestro santo Fundador, me ha pedido el celebrante que diga unas palabras como homilía. Son muchos los aspectos que podríamos tomar como tema de reflexión, pero he escogido precisamente unos reflejos de su vida que nos muestran su profunda santidad. Alguien habrá pensado que en la vida de nuestro santo es difícil espigar, como ocurre con san Francisco de Asís, unas “florecillas”. Quien así piense es que conoce poco al santo. Voy a intentar hacer un recorrido y formar un ramillete de flores preciosas, aunque las vaya juntando en desorden. Quiero recordar aquel día de 1683, en Reims, cuando los nuevos maestros que Juan Bautista había ido acogiendo después de haberse quedado casi solo, se atreven a increparle de que es un miedoso, porque a ellos los anima diariamente s confiar en la providencia, y sin embargo él tiene las espaldas aseguradas, porque es rico y tiene una buena paga de canónigo. Si las escuelas fallan, ellos se quedarán a la intemperie, pero él tendrá asegurada la vida... Y con esa actitud, no puede encargarse de organizar escuelas para los pobres, porque no es pobre... Y él se deja evangelizar por aquellos maestros pobres, y siente que Dios le llama a desprenderse de todo... Y allí mismo comienza un itinerario que le llevará a practicar una santidad sincera y auténtica..., heroica, hasta el último momento de su vida. Quiero recordar aquel momento de 1690 en que llama a París al Hno. Henri L’Heureux y le pone como director de la comunidad que se va formando en París, en la calle de la Princesa, donde los Hermanos tienen a su cargo la primera escuela. Él había llegado el 24 de febrero de 1688 con dos Hermanos de los mejores que
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tenía. Eran buenos y competentes, y uno de ellos esperaba en su corazón que La Salle le pusiese a él de director cuando llegase el momento. Pero ve que sus esperanzas se disipan, pues La Salle ha nombrado director al Hermano Henri. Y en un arrebato de enfado, se encara con Juan Bautista y delante de los Hermanos le da una bofetada... Y La Salle, en silencio, apura la humillación en silencio. Quiero recordar aquel día de 1712 en que La Salle, haciendo por segunda vez la visita de las casas del Sur llega a Mende, y los dos Hermanos de la Comunidad se encaran con el y se niegan a admitirle en la casa, porque son tan buenos maestros y tan competentes que se sienten respaldados por el obispo y por el alcalde del pueblo, y con ellos se oponen, a que Juan Bautista les cambie de comunidad... Y si él quiere alojarse en la casa “deberá pagar la pensión”... Y La Salle tiene que alojarse en un cercano convento de dominicos durante varios días... Y aquella actitud de los Hermanos dio lugar a un cisma en la joven Sociedad, y durante varios años ellos y la escuela estuvieron separados del Instituto. Quiero recordar aquel día de 1705 en que yendo, al anochecer, Juan Bautista desde París a la Casa Grande, en el barrio de Vaugirard, dos ladrones se le echaron encima y le arrancaron el manteo. Echaron a correr y Juan Bautista entró en casa sin la capa habitual de los sacerdotes. Un poco de tiempo después llamaron a la puerta y el Hermano portero salió a abrir: Mire, aquí vive un cura a quien hace un rato le hemos quitado este manteo. Venimos a devolverlo porque está tan roto que no nos vale, y en cambio a él todavía le podrá servir... Quiero recordar aquel día en que viviendo en la calle Charonne, recibió a un guardia enviado por el alcalde de la Bastilla, para que fuese a confesar a un sacerdote que estaba preso desde hacía años, y en un estado deplorable. Su casa y la cárcel no estaban lejos. Debía de ser ya al atardecer cuando ocurrió esto, pues Juan Bautista estuvo con el sacerdote hasta que fue casi de noche. Y antes de salir cambió su sotana con la ropa llena de miseria de aquel pobre sacerdote. Al salir de la cárcel no lo notaron porque se envolvió en el manteo. El sacerdote murió pocos días después. Quiero recordar aquel día de 1715 en que Juan Bautista, acompañado de un Hermano, acudió al palacio arzobispal de Ruán, y allí había aun montón de sacerdotes y religiosos rodeando a monseñor de Sévigné. Pocos días antes el párroco de San Severo, el abate Dujarrier, había ido a quejarse al arzobispo de que el Señor De La Salle no llevaba a la misa parroquial al grupo de jóvenes, condenados por la justicia, que residían en San Yon. Y esto, para él era un desacato. Cuando monseñor de Sevigné vio entrar a Juan Bautista y al Hermano, sin dar ninguna explicación comenzó a reñir al señor De La Salle delante de todos los presentes, y él, al darse cuenta de que la reprimenda del prelado se dirigía a él, se postró de rodillas ante él, aguantando el chaparrón, hasta que el señor arzobispo le mandó que se marchara. “Este ha sido uno de los días más felices de mi vida”, dijo al Hermano acompañante mientras regresaban a San Yon.
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Quiero recordar aquel 3 de abril de 1719 en que, estando ya sin poderse mover en la cama, el mismo monseñor de Sevigné, instigado por el mismo párroco, el abate Dujarrier, mandó a un sacerdote de la curia a decir a Juan Bautista que le suspendía a divinis, porque no llevaba a los internos de San Yon a la misa parroquial. Y Juan Bautista, aquel lunes, último de su vida, se vio despojado de sus licencias sacerdotales, cuatro días antes de morir, sin otra reacción que decir: Bendito sea Dios... Quiero recordar... Serían centenares y centenares los momentos que podríamos recordar como reflejos de la santidad de Juan Bautista, como otras tantas florecillas lasalianas. Pero quiero terminar con una observación: toda la vida M. de La Salle fue un destello de santidad, que se alimentaba constantemente de la unión inseparable de la voluntad de Dios. Lo que dijo al final de su vida fue el fiel reflejo de cada instante: Adoro en todo la voluntad de Dios para conmigo.
No confundamos misión y ministerio [35]
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Una confusión teológica importante. Desde hace algunos años, concretamente desde que en el Instituto se ha está reflexionando sobre la Asociación de los laicos, la misión del Instituto, la misión del Hermano, etc., he notado que se está produciendo cierta confusión de términos teológicos que se recogen en diversas publicaciones y documentos, algunos de alto valor en nuestra Institución. Personalmente, agradezco el esfuerzo de reflexión de cuantas personas quieren profundizar tales temas, pero al mismo tiempo también agradecería que todos fuésemos muy precisos al emplear esos términos con el significado y valor que tienen en la teología de la Iglesia. A veces el equívoco proviene de que se emplean términos que son sinónimos en ciertos aspectos, pero no en su totalidad. Por ejemplo, la palabra «misión» se toma por finalidad, objetivo, etc. Pero en ese momento queda desprovista de la carga teológica que ha de llevar. Un ejemplo se refleja en el número 4 de nuestra Regla, que en el capítulo 1 habla «Del fin y espíritu del Instituto», pero no habla de la «misión del Instituto», aunque en el léxico final incluye el fin dentro de la misión. Dice el texto: «El fin de este Instituto es procurar educación humana y cristiana a los jóvenes...» Es correcto, pero estaría mal, si dijera que «la misión del Instituto es procurar educación humana y cristiana...» ¿Y eso por qué? Porque se está empleando mal el término teológico de misión. 2. La misión: anunciar la Buena Nueva a todas las gentes. Recuerdo que en mis años de estudiante de teología, me parece que fue en tercer año, faltó por unos días el profesor de eclesiología, y le sustituyó otro profesor que durante varias clases trató de explicarnos cuál era la misión de la Iglesia y de los cristianos en la Iglesia.
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Al principio se remontó a las procesiones de la tres divinas personas y a las misiones dentro del misterio trinitario. Pero, cuando aterrizó, nos había demostrado que la «misión» en la Iglesia es única, emanada de Dios a través de Cristo y del Espíritu Santo, y que se extiende a todos los miembros del Cuerpo místico, aunque muchos de ellos la ignoren o no la realicen. Y esa misión es: «Anunciar la Buena Noticia a todas las gentes». Nos explicó también cuál era la «Buena Noticia», y no dijo que el meollo del Evangelio es hacer saber a la gente que Jesucristo, enviado por (con la misión de) el Padre, había muerto por nosotros y con su muerte nos había redimido, es decir, nos había salvado; que una vez muerto, había resucitado y estaba vivo, con nosotros, para siempre. Y que saber este misterio y creerlo es la fuente y el motor de nuestra vida eterna en Dios. 3. No es lo mismo «misión» que ministerio. Anunciar este misterio es anunciar la Buena Noticia, y esa es la misión de la Iglesia, de sus pastores, de todos los miembros de la misma, y en consecuencia, es la misión, también, del Instituto. Si estamos de acuerdo con este principio, (y es difícil rechazarlo) habremos de reconocer que cuando hablamos de «la misión lasaliana: educación humana y cristiana, una misión compartida» (Cahiers lasalliens nº 6), no hablamos de la misión, sino del ministerio lasaliano; y lo que compartimos no es la misión (que tienen todos los cristianos), sino el ministerio (que es propio de nuestro Instituto). Ministerio es la forma concreta como cada cristiano cumple la misión común, de anunciar la Buena Nueva. En nuestro caso, de Hermanos de las Escuelas cristianas, lo hacemos a través «de la educación humana y cristiana». Y cuando se habla de «Asociados para la misión» (Coloquio ‘Eurocelas - 2000’), lo que se pretende decir es: «Asociados para el ministerio» de la educación humana y cristiana». Pues todos los cristianos están asociados para la misión «de anunciar la Buena Nueva», pero no todos están asociados en la «misión»- ministerio de educar. Nosotros, los Hermanos, estamos asociados a la misión de los demás cristianos, y anunciamos la Buena Noticia, pero yo no me considero asociado al «ministerio» de la sanidad, o de acoger a los abandonados, o de administrar los sacramentos. 4. Todos estamos asociados en la «misión»; pero no en el ministerio, que es distinto según el modo de realizar la misión. A mi modo de ver, toda esta confusión proviene de que la teología de los ministerios en la Iglesia está muy poco estudiada; y mucho menos aún la teología de los ministerios laicales. Invito a que se tomen los documentos del Vaticano II, y buscando en el índice temátivo misión y ministerio, se verá la enorme confusión que se crea. Y lo mismo ocurre con el Catecismo de la Iglesia Católica. 5. Importancia y consecuencia de la Asociación en el ministerio. Tal vez alguien considere que todo eso no tiene ninguna importancia en el orden práctico. Yo no lo creo así, pues estoy convencido fr que nosotros, los Hermanos, antes de tener los votos religiosos, ya estábamos consagrados a Dios por «el ministerio que ejercíamos». Es una preciosa intuición del santo Fundador. ¿Y por qué nuestros profesores
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seglares, en el momento actual, no pueden estar también consagrados por medio del mismo «ministerio» que realizan con nosotros, aunque no hayan firmado una fórmula concreta de «asociación»? Es éste un cauce de reflexión para todos los que están tratando en profundizar estos temas. 6. Todos recibimos de Cristo la misma misión. Benedicto XVI hablaba recientemente de la misión: «Se trata de un mandamiento (el de la misión “ad gentes”), cuyo fiel cumplimiento “debe caminar, por moción del Espíritu Santo, por el mismo camino que Cristo siguió, es decir, por el camino de la pobreza, de la obediencia, del servicio, y de la inmolación de sí mismo hasta la muerte, de la que salió victorioso por su resurrección” (Decr. Ad gentes, 5). Sí, estamos llamados a servir a la humanidad de nuestro tiempo, confiando únicamente en Jesús, dejándonos iluminar por su Palabra: “No sois vosotros los que me habéis elegido, soy yo quien os he elegido, y os he destinado para que vayáis y deis fruto, y vuestro fruto dure” (Jn 15, 16). ¡Cuánto tiempo perdido, cuánto trabajo postergado, por inadvertencia en este punto! En cuanto al origen y la eficacia de la misión, todo se define a partir de Cristo: la misión la recibimos siempre de Cristo, que nos ha dado a conocer lo que ha oído a su Padre, y el Espíritu Santo nos capacita en la Iglesia para ella. Como la misma Iglesia, que es obra de Cristo y de su Espíritu, se trata de renovar la faz de la tierra partiendo de Dios, siempre y sólo de Dios» (Homilía en Porto, 14.5.2010). Y Juan Pablo II, poco antes de morir, encomendó de manera especial a los responsables de la Curia Romana que estudiasen en profundidad y cuanto antes todo el tema de los ministerios laicales en la Iglesia, pues desde el Vaticano II no se había hecho.
RivLas 78 (2011) 2, 363-378
Un antesignano degli Studi lasalliani: Dante Fossati FSC (1902-1995) MARCO PAOLANTONIO
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el 1993 vennero pubblicate le Œvres complètes del La Salle1, risultato di studi condotti da decenni con rigore filologico e sicura esegesi da numerosi Fratelli e confluiti nei Cahiers Lasalliens. Il fervore di studi specialistici era nato per desiderio espresso del Capitolo Generale FSC nel 1956 ed aveva preso corpo a partire dal 1959, soprattutto per impulso del belga fr. Maurice-Auguste Hermans. Tuttavia, senza falsa modestia né tema di smentite, già trent’anni prima fr. Leone di Maria aveva potuto attribuire a Rivista lasalliana «il merito grandissimo e riconosciuto di aver dato l’avvio ai moderni studi lasalliani»2. Infatti fin dal primo numero della Rivista faceva spicco il contributo di fr. Dante3, innovativo nel tema e nel rigore della documentazione. Numerosi, come si vedrà, gli studi che aveva fatto precedere e che pubblicò in seguito; tutti dettati dall’assillo culturale di approfondire con scrupolo di studioso i meriti pedagogici del La Salle. Ma è doveroso non limi-
Saint Jean-Baptiste de La Salle, Œuvres complètes, Frères des Écoles Chrétiennes, Rome 1993, pp. XXIII+1575. 2 Trigesimo anno, RL 20 (1963) 1, 4-6. E proseguiva: Le frequenti citazioni nella nostra Rivista della monumentale Storia dell’Istituto composta da Georges Rigault hanno contribuito a far sì che oggi siano relativamente numerosi i Fratelli avviati, da diverse parti e in diversi idiomi, a severi studi lasalliani. Osservava, anzi, che alcuni studi pubblicati dalla Rivista avevano sollevato scalpore per la loro novità: Al fr. Goffredo fu imposto di non continuare la rubrica appena iniziata “Per un’esegesi storica delle nostre Regole” e come toccò proprio a lui, allora autorevole componente del Consiglio generale della Congregazione, di arginare le minacce di soppressione della Rivista, che si era permessa qualche critica a un volume del Rigault (ivi, pp. 4-6). 3 Il tirocinio scolastico secondo la Règle du Formateur di san Giovanni Battista de La Salle, RL 1(1934)1, 28-46. 1
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tare a questo aspetto il ricordo delle attività di fr. D., che con ugual impegno e qualità di esiti si dedicò alla difesa dei diritti della scuola libera in Italia, alla Fidae, di cui fu cofondatore, alla direzione delle tre maggiori istituzioni scolastiche della Provincia religiosa FSC di Torino, all’editoria lasalliana e a impegnative responsabilità amministrative.
1. Coordinate biografiche Nell’archivio della Provincia religiosa FSC di Torino si legge una memoria biografica autografa di 10 pagine4 da cui è possibile ricavare le tappe e gli avvenimenti principali dell’esistenza di fr. D. Non ci si affiderà unicamente ad essa, è ovvio, ma è doveroso precisare che risulta sempre un riferimento attendibile e stimolante. I primi anni. 28 aprile 1902, Dante5 nasce a Ochieppo Inferiore, paese presso Biella, città dove frequenta la Scuola elementare lasalliana S. Filippo (che muterà poi nome in Istituto Lamarmora). Appena undicenne entra nell’ aspirantato dei Fratelli e poco più che quindicenne (agosto 1917) veste l’abito religioso. L’anno successivo deve interrompere gli studi secondari, perché inviato, con molti altri giovani confratelli, a colmare i vuoti lasciati nelle istituzioni scolastiche dai Fratelli richiamati alle armi. Gli studi. Conseguita la licenza magistrale nel luglio del 1920, è assegnato al Collegio S. Giuseppe di Torino. Vi rimarrà, insegnante e poi direttore, per 35 anni. Comincia con il duro tirocinio diurno nella scuola elementare unito a quello serale nei corsi per operai. Nel 1925, primo anno della maturità classica disposta dalla Riforma Gentile, fr. D. è tra i candidati promossi (la metà dei 9000 presentatisi, annota)6. Nel 1929 si laurea in lettere; due anni dopo, con lode, anche in filosofia,
Faldone 370, cart. 1126: In ossequio all’invito che mi è stato rivolto, mi faccio un dovere di stendere queste rapide note autobiografiche nel quadro della storia della nostra Provincia Religiosa. È un periodo di tempo che include due guerre mondiali, le grandi riforme della Scuola, Gentile, Bottai e del dopoguerra; la fondazione della FIDAE, della quale sono stato cofondatore; la riproposta, dopo la guerra, della vexata quaestio della libertà dell’insegnamento, che mi vide in prima fila con pubblicazioni, articoli di giornale, conferenze; poi l’ affaire Filippin, nella cui soluzione fui largamente coinvolto […]. 5 Il nome di battesimo sarà anche quello in religione, caso piuttosto insolito fino alla metà del ‘900 nelle consuetudini della Congregazione. 6 Solo due anni prima era stato tolto ai Fratelli il divieto di accedere alle facoltà umanistiche, retaggio dell’arcaico veto posto, ai primordi della Congregazione, agli studi classici. 7 Archivio FSC di Torino, sezione Bibliografia lasalliana, 439. A p. 4 delle note autobiografiche commenta: La preparazione alla seconda laurea sull’opera pedagogica del Fondatore mi portava nelle vacanze estive 1930 e 1931, a trascorrere lunghi periodi in terra di Francia presso archivi e biblioteche, alla ricerca di documenti sulle origini lasalliane, i cui esiti furono, in larga misura, affidati alla Rivista lasalliana. 4
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discutendo la tesi Il Padre della scuola primaria moderna in Francia7. In questo periodo ‘sangiuseppino’ fa parte del gruppo di Fratelli che danno vita al bollettino Vita sociale8 e a Rivista lasalliana.9 Dopo i nove mesi di Secondo noviziato in Belgio, nel maggio del 1935 ritorna al San Giuseppe con l’incarico di ispettore agli studi, unito a quello di attendere alle pratiche per il riconoscimento legale dei corsi medi e superiori.10 Le opere e i giorni della maturità. Frutto dell’esperienza maturata nell’insegnamento e di una sicura conoscenza della normativa scolastica è il volumetto Che cos’è la scuola media, pubblicato nel 1941. Nel gennaio del 1945 il ministro dell’Educazione Nazionale lo chiama a far parte dell’ ENIMS (Ente nazionale per l’Insegnamento non statale). Nello stesso anno contribuisce alla nascita della FIDAE (Federazione degli Istituti dipendenti dall’autorità ecclesiastica), del cui Consiglio centrale sarà membro autorevole per un trentennio, fino al 1976. Nel 1946 pubblica lo studio La scuola libera e condivide con il giornalista Cenzato, apprezzata firma del Corriere della Sera, la direzione della rivista Educazione dell’Editrice La Scuola; è inoltre assiduo collaboratore della rivista Docete, organo ufficiale della FIDAE. Nel 1949 gli è affidata la direzione del Collegio S. Giuseppe di Torino. La terrà per sei anni, dando impulso anche edilizio a un’istituzione che sta registrando un vistoso incremento della popolazione scolastica. Nel 1955 è designato alla direzione dell’Istituto Gonzaga di Milano. Anche qui gli si impongono - e vengono risolti - urgenti problemi di rinnovamento dello stabile a fronte della crescente richiesta delle famiglie. L’Istituto viene insignito della medaglia d’oro della Presidenza della Repubblica al merito dell’istruzione; fr. Dante, in qualità di responsabile scolastico, riceve la Commenda al merito della Repubblica. 1958: l’obbedienza lo trasferisce agli Istituti Filippin di Paderno del Grappa, di cui diverrà direttore generale l’anno successivo. Vive con coraggio e gestisce con sagacia gli anni difficili11 del trapasso da una gestione educativa ed economica prossima al fallimento di cui la Provincia religiosa FSC deve farsi carico. Nel giugno del 1964 papa Paolo VI gli conferisce la croce d’oro Pro Ecclesia et Pontifice. 1966: lascia Paderno per Milano, dove, in via Botticelli, dirigerà la storica editrice scolastica lasalliana A&C. Nel contempo gli viene affidato il controllo amministrativo delle attività economiche della sua Provincia
8 Cui fr. D. contribuì curando, fra l’altro, la rubrica “In margine all’Annuario”, « che anche l’arcivescovo di Torino card. Fossati - testimonia l’a. - leggeva con divertito interesse». 9 Le firme di maggior prestigio furono, insieme con quella di fr. Dante, dei Fratelli Gottardo, Goffredo, Giocondo, Emiliano, Giocondino, Leone di Maria. 10 «…dando così inizio a quei rapporti personali con l’ufficio scolastico della Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi, che si fecero poi consuetudine con la fondazione della FIDAE, della quale fui tra i soci fondatori», in “Memoria autobiografica”, p. 5. 11 «Il periodo più stressante della mia vita», lo definisce nella “Memoria storica sugli Istituti Filippin”, del 1965.
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religiosa. Nel decennio 1966-1976, con delega del Superiore generale, è chiamato anche a far parte del Consiglio Economico generale della Congregazione. 1971: è nuovamente incaricato della direzione dell’Istituto Gonzaga, in anni resi difficili dalla contestazione studentesca e, con l’introduzione degli organi collegiali, da una nuova impostazione dell’organizzazione scolastica. Nel 1972 gli viene conferito il diploma di prima classe della Presidenza della Repubblica per i benemeriti della cultura, della scuola e dell’arte. Gli ultimi anni. Alla vigilia del 75° compleanno, nell’estate del 1976, ottiene dai superiori l’assenso alla rinuncia di responsabilità dirette nella gestione scolastica ed amministrativa. Nel dicembre del 1984 gli viene conferito il diploma di benemerenza civica della Città di Milano; nel gennaio del 1985, in occasione del 40° anno dalla fondazione della FIDAE, il diploma di socio fondatore. Lascia Milano nel 1989 per la casa di riposo del Centro La Salle di Torino e si spegne l’11 luglio 1995 nel soggiorno estivo di Pessinetto. Una sia pur rapida ricognizione dei dati biografici permette ora di individuare le quattro fasi dell’attività di fr. Dante, distinte anche cronologicamente: il fervore di studi lasalliani; la difesa dei diritti della scuola libera; la direzione delle tre principali istituzioni scolastiche della Provincia religiosa di Torino FSC; la cura dell’editoria scolastica lasalliana e gestione amministrativa a vari livelli.
2. Agli albori della filologia e dell’ermeneutica lasalliane Il periodo in cui fr. Dante si è dedicato prevalentemente agli studi lasalliani è la decade 1930-40. Ne è principale testimonianza la tesi con cui conseguì la seconda laurea: Jean-Baptiste de La Salle. Il Padre della scuola primaria in Francia. Per documentarsi, svolse un biennale lavoro di ricerca soprattutto nella Bibliothèque Nationale di Parigi «di gran lunga la più ricca di opere del e sul Fondatore che esista al mondo. Chi scrive ha avuto la pazienza di contarvi centonovantatrè indicazioni di opere che hanno per oggetto san Giovanni Battista de La Salle, computando una sola volta, si intende, quelle di cui esistono più esemplari di edizioni diverse, ed escludendo quelle che riguardano più l’Istituto che il Fondatore»12. A testimonianza di questo pazientissimo lavoro di ricerca, rimangono undici taccuini fittamente annotati.13 Il copioso materiale raccolto verrà variamente utilizzato anche sul
In Messaggero delle Scuole Lasalliane, 1932, II, 51-52. Sullo stesso periodico aveva già pubblicato una densa testimonianza al riguardo, intitolata Bibliografia lasalliana alla Nazionale di Parigi (MSC 1931, 1,2, 51-52). 13 Cfr. faldoni 370 e 371 nell’archivio FSC di Torino. 12
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Messaggero delle Scuole Cristiane (MSC)14 e su Rivista lasalliana (RL).15 La scelta operata da fr. D. nel proporre con maggior frequenza argomenti trattati nelle tre sedi pare un buon criterio per stabilire le priorità e l’importanza che l’a. attribuì loro. Le scuole ‘normali’ per maestri laici. La creazione di scuola per la formazione dei maestri è il maggior merito pedagogico che fr. D. ritiene sia da attribuire al La Salle. Merito indiscutibile, argomenta, specialmente se comparato con le realizzazioni dei coevi Fourier, Barré16, Démia. Tale assunto e la dimostrazione della sua validità occupano un terzo delle 301 pagine della tesi (TL 92-207), sostanziano per almeno tre volte gli articoli su MSC e prevalgono (vedi alla nota 14) anche nelle pagine scritte per RL. La trattazione è impreziosita dal fatto che vi trova collocazione anche il più legittimo compiacimento del ricercatore: il ritrovamento del manoscritto delle Règles du Formateur des nouveaux maîtres, terza parte della Conduite des Écoles chrétiennes, scoperto da fr. D. negli archivi dipartimentali della Vaucluse17. Non è difficile appurare che si tratta di contributi filologici ed ermeneutici in netto anticipo sui tempi, anche se pressoché ignorati dalla successiva storiografia ‘ufficiale’ dell’Istituto.18 A questo proposito, almeno, fr. D. poté registrare le felicitazioni di un
Sul Messaggero (bollettino bimestrale dei FSC di Torino) erano comparsi gli articoli: Precursori di S. Giovanni Battiste de La Salle. Il Padre Nicola Barré (1931, I, 1, 2-4); e, con lo stesso titolo, una prima (1931, I, 2, 43-52) e una seconda (1931, I, 3, 82-88) Nota biografica; Una condanna del Parlamento di Parigi contro G.B. de La Salle (1931, I , 4, 109-113); A proposito di gratuità d’insegnamento (1931, I, 5, 129-141); Contributi allo studio del metodo didattico dei Fratelli delle Scuole Cristiane (1932, II, 1, 6-10); La scoperta più importante di un documento lasalliano (1932, II, 1, 35-40); Concetto della simultaneità lasalliana (1932, II, 3, 73-81); La riforma del Maestro nell’Ideale e nell’Opera di S. G.B. de La Salle (1933, III, 1, 10-17). 15 Indicati con * i contributi che consideriamo di maggior sostanza. * Il tirocinio scolastico secondo la Règle du Formateur di S. Giovanni Battista de La Salle (1934, 1, 28-43); Le Scuole Normali per Maestri laici secondo S. Giovanni Battista de La Salle (1934, 2, 189-193); * Il sistema correttivo nella pedagogia lasalliana (1934, 3, 407-428); * La Conduite des Écoles chrétiennes, Charta della scuola primaria lasalliana (1934, 4, 634-660); * Le Règles de la bienséance di S. G.B. de La Salle (1935, II, 2, 218-238); * Il canto nelle scuola primarie di S. G.B. de La Salle (1935, III, 1, 20-42); * Un eccezionale successo editoriale: I ‘Devoirs d’un chrétien’ di S. G.B. de La Salle (1953, III, 233-256); * Nota bibliografica sul Padre Nicola Barré (1936, IV, 40-54); Le preghiere delle Scuole Cristiane di S. G.B. de La Salle (1936, V, 1-2, 106-123); * Il libro delle Istruzioni e preghiere per la Santa Messa, per la Confessione e per la Comunione di S. G.B. de La Salle (1937, VI, 1, 55-72); * Il metodo catechistico di S. G.B. de La Salle (1937, VII, 1, 40-60); * Sul Metodo didattico delle scuole primarie di S. Giov. Batt. de La Salle (1939, X, 1, 46-67). 16 Il solo dei tre tuttora ‘vivo’ nel campo dell’educazione con la congregazione femminile delle Suore del Bambin Gesù. 17 V. sopra, alla nota 14. 18 Basti accennare alla laconica annotazione di fr. L. Lauraire che, in Cahiers Lasalliens 61 (p. 217, nota 14), ricordando come la formazione dei maestri fu per quarant’anni la principale preoccupazione pedagogica del La Salle, cita tra i precedenti studi al riguardo: «Rivista lasalliana, Turin, une vingtaine d’articles sur ce sujet depuis la création de la revue». Meno avari i cenni contenuti in Jean-Baptiste 14
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esperto del settore, come il tedesco fr. Willibald, che, comunicandogli il ritrovamento di due edizioni delle Règles nella biblioteca municipale di Breslau, gli scriveva: «Le due scoperte sono frutto di Rivista lasalliana. Devo ringraziare soprattutto Lei, fr. Dante, e i suoi articoli se ho potuto rivolgere l’attenzione su entrambe». La Conduite des Écoles chrétiennes, Charta della scuola primaria francese e lasalliana. Logico coronamento di ricerche e di studi sono le pagine che fr. D. dedica al testo fondamentale della pedagogia del La Salle.19 Su RL dà conto della prima edizione manoscritta20 consultata alla Biblioteca Nazionale di Parigi e su tale base ricostruisce l’intero trattato, integrandolo con il manoscritto da lui trovato ad Avignone. Espone quindi le caratteristiche della prima edizione a stampa e le riserve che una lettura filologicamente attenta impone al riguardo. Elenca infine le edizioni successive (fino al 1934). Contributi allo studio del metodo didattico lasalliano. Costituiscono il terzo capitolo della tesi e sono esposti anche in MSC 21 e in RL22. Logica successione e complemento del tema tratto sopra, analizzano i mezzi posti a disposizione dei maestri per svolgere in modo efficiente il loro ‘métier’, a partire dall’insegnamento simultaneo-misto, in cui l’insegnante esercita il personale e diretto controllo su tutti e i singoli alunni, attivando però la collaborazione tra i più capaci (i ‘ripetitori’) e i meno abili. La classe, abitualmente assai numerosa , è divisa in gruppi di abilità per materia (i ‘livelli’ di lettura, scrittura, aritmetica,…); siccome è possibile accedere a quello superiore mediante un esame, di norma mensile, ogni allievo è stimolato al miglior rendimento. L’ispettore, che presiede al funzionamento didattico di più classi, ne armonizza le attività, cura la composizione dei gruppi-classe (sulla scorta dell’aggiornato schedario personale di ogni alunno) e il rapporto con le famiglie. È proprio l’esame della metodologia che caratterizzò le prime scuole, Sul metodo didattico delle scuole primarie di S. G.B. de La Salle (RL 1939, X, 1, 46-67), che chiude la collaborazione di fr. D. alla Rivista su temi riguardanti la rivisitazione storica dell’insegnamento lasalliano. Un eccezionale successo editoriale: i Devoirs d’un chrétien. Su RL (1936, V, 1-2, 106-123; 1937, VI, 1, 55-72), come già su MSC (1935, III, 233-256), dopo l’attenta asseverazione dell’autenticità dell’opera, comparandone le prime edizioni, fr. D.
de La Salle. Annoncer l’Évangile aux pauvres, di M. Sauvage e M. Campos, Beauchesne, Paris 1977, che nelle note biografiche (p. 489), tra le Sources de la bibliographie, mettono: 1. La Rivista lasalliana (Collegio San Giuseppe - Torino (…) a publié à plusieurs reprises une Bibliografia lasalliana presque exhaustive: Fr. Dante, Bibliografia lasalliana (1935) fr. Dante e fr. Secondino (1958), Fr. Secondino Scaglione (1974). 19 In MSC 1932, II, 1, 35-40 e in RL 1934, 4, 407-428. 20 Priva della terza parte, quella scoperta da fr. Dante nell’archivio della Casa dei Papi ad Avignone.. 21 1932, II, 6-10; 1932, II, 3, 73-81. 22 1934, 4, 407-428.
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conduce un esame analitico delle parti e ne individua i destinatari. L’indagine si estende poi ai catechismi che il La Salle compose, rilevandone coincidenze e differenze. Segue infine, condotto con il consueto scrupolo filologico, l’elenco delle edizioni dei Devoirs di cui si conoscevano esemplari sicuri23. Precursori del La Salle: Nicolas Barré. Trattata con maggior ampiezza su MSC (1931, I , 1 , 2-4; 1931, I, 2, 43-52; 1931, I, 3, 82-88) l’indagine bibliografica sul Barré è ripresa in RL (1946, IV, 40-54). Diciotto le schede redatte con il rigore del ricercatore che nel contempo sa essere esegeta competente. «Offro - premette fr. D. senza scadere nell’enfasi24 - una bibliografia, la meno incompleta che si possa trovare tuttora sul P. Nicolas Barré, affinché chi volesse affrontare l’auspicato studio sulla di lui opera pedagogica trovi qui una base sicura alle lunghe ricerche che questa nota mi è costata». Le ‘lunghe ricerche’ sono attestate dai numerosi taccuini fittamente annotati che è possibile consultare25. Per altri campi di ricerca su temi meno ricorrenti o trattati con minor ampiezza si veda la nota 15. Di novità e interesse indubbi sono le due raccolte di Bibliografia lasalliana, la prima uscita nel 193526, l’altra curata con fr. Secondino Scaglione nel 196327. Entrambe trovano il primo posto - a conferma di una riconosciuta validità nell’analisi linguistica e testuale degli scritti presi in esame - nelle Sources de la bibliographie, in Jean-Baptiste de La Salle. Le saint qui a démocratisé l’école di M. Sauvage e M. Campos28
3. A scuola di libertà: cofondatore della FIDAE Il periodo dell’attività professionale e pubblicistica di fr. D. contrassegnato dal prevalere degli interessi per la scuola, e in particolare per quella libera, può essere collocato tra gli anni ’40 e ’80 del Novecento.
Concisa l’annotazione di fr. Albert Valentin sulla Édition critique des Règles de la Bienséance et de la Civilité Chrétienne, Ligel, Paris 1956 (p.149). Riferendosi al ritrovamento dell’edizione del 1729, scrive: «Elle servit au C.F. (article de Rivista Lasalliana, juin 1935), à M George Rigault, au C.F. Willibald…». Fr. Dante compare anche in auteurs et ouvrages consultés ou cités (p.179). 24 Per appurare la veridicità dell’affermazione basta consultare la modesta bibliografia oggi disponibile, ad es. http://www.amazon.fr/ŒvrescomplètesNicolasBarré/dp/2204049964/ref. 25 Archivio FSC, Torino, fald. 370, cart. 1125 e 371, cart. 1130. 26 RL 1935, II, 1, 30-48: ‘Il più considerevole sforzo verso il raggiungimento della completa Bibliografia lasalliana.’. La ‘Nota’ elenca le biografie del Fondatore e gli studi sulla sua opera pedagogica fino al 1929 nelle lingue francese, italiana, inglese, tedesca, olandese e fiamminga (e altre).] 27 RL 1963, 4, 271-333, Bibliografia lasalliana, dalle origini al 1963. Attento censimento di Biografie del La Salle (in 16 lingue), studi pedagogici lasalliani (8 lingue), spiritualità lasalliana (4 lingue), studi storici (2 lingue), Monumenta lasalliana (edizioni critiche). 28 Beauchesne, Paris 1977, a p. 489. V. anche nota 18. 23
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La prima testimonianza scritta è il volumetto Che cos’è la scuola media29, nato a commento e illustrazione della riforma Bottai del 1939. La prefazione chiarisce che «rivoli dalla cui confluenza scaturirono queste pagine sono stati un articolo e due relazioni dell’a. tenute in convegni regionali ed interregionali della Scuola, stampate e diffuse in migliaia di copie». Se l’a. pare non rilevare con sufficiente acribia le insidiose commistioni tra i dogmi di uno Stato etico, quale quello fascista, e i programmi didattici, è giusto precisare che a questi ultimi sono riservate 80 delle 84 pagine della trattazione. I tre capitoli si occupano dello spirito30, delle forme31, dei programmi32 e dimostrano una sicura competenza professionale nata dalla necessità di affrontare concretamente e con efficacia i quotidiani problemi della gestione scolastica. L’impegno più consistente e documentabile a difesa della scuola libera nasce nel primo dopoguerra, quando la lettura strumentale dell’art. 33 della Costituzione non aveva ancora condannato all’autarchia economica la scuola non statale. Nel 1946, in La scuola libera33, fr. D. dimostra di antivedere le difficoltà e i rischi cui sono esposte le scuole ‘libere perché non statali’ a causa della subdola dittatura statalista, stavolta di stampo ‘democratico’, che sembra volersi affermare. Punto d’avvio sono i diritti della scuola: quelli che, per diritto naturale, competono alle famiglie e quelli che, abitualmente condizionati dalle vicissitudine storiche, lo Stato avoca a sé; sono questi ultimi a dover essere limitati in un Paese davvero rispettoso della libertà personale. Francia e Spagna, documenta fr. D., offrono valide soluzioni al riguardo. Una rapida indagine storica retrospettiva gli consente di appurare che le intenzioni dei primi legislatori, Casati e Mamiani, favorevoli a una sempre maggiore libertà di insegnamento, cozzarono contro i successivi sviluppi della normativa scolastica, connotata da un sempre più rigido monopolio statale, che, dopo il 1976, nei confronti delle scuole gestite dalle congregazioni religiose assunse forme di vero arbitrio. Croce34 e, almeno nelle dichiarazioni programmatiche precedenti la riforma, Genti-
Editrice A&C, Torino 1942, pp. 95. Il pensiero politico -Scuola di formazione e di orientamento - L’umanesimo nella SM - Il compito del lavoro - Il clima - Unità e continuità didattica - Libertà didattica dell’insegnante - Il preside. 31 Ordinamento - Il registro - Il sistema di classificazioni - I giudizi - Esami - La lezione - Compiti e lezioni - Didattica della nuova scuola. 32 Le avvertenze generali - Religione - Italiano: l’antologia - Biblioteca di classe - Grammatica - La cronaca - Come avviare la ‘cronaca’ - Di fronte alla cronaca - Latino - Storia - Geografia - Matematica Disegno - Lavoro. 33 Editrice La Scuola, Brescia 1946, pp. 107. Nelle memorie autobiografiche fr. D. annota: «fu il primo, nel dopoguerra, dei molti studi che sarebbero successivamente apparsi sulla famosa ‘querelle.» 34 «Ho ferma e profonda convinzione che solo la valida concorrenza della Scuola privata possa risanare e rendere robusta ed efficace la Scuola di Stato», dal discorso alla Camera dei Deputati, 7 luglio 1920. 29 30
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le, presero posizione contro il monopolio statale dell’istruzione. Fu l’esame di Stato, con i riconoscimenti legali che ne erano alla base35, ad assicurare un’accettabile parità di trattamento agli allievi delle scuole non statali, sia pure entro certi limiti e finché vennero rispettati i criteri stabiliti inizialmente. La stagione che si aprirà con i dettati della Costituzione repubblicana - ragiona fr. D. - dovrà tener conto di quale servizio pubblico può offrire la scuola libera, per concorrere alla realizzazione del servizio sociale dovuto ai cittadini, a partire dalla scuola di base. «Perché la libertà sia effettivamente garantita - conclude - è necessario che a tutte le Scuole, statali e non statali, che la legge considera degne, siano assicurate condizioni di parità giuridica ed anche economica, senza pretendere un livellamento dell’istruzione libera, che condurrebbe alla soppressione pratica delle libertà che si intendono tutelare» (p. 85). Il volumetto ebbe un’accoglienza lusinghiera36. Le argomentazioni là sviluppate furono riprese e approfondite nel trentennale lavoro che fr. D. svolse all’interno e per conto della FIDAE37, di cui, come si è già detto, fu cofondatore e autorevole rappresentante nazionale. A pag. 88 di La scuola libera l’a. riportava la dichiarazione del Comitato centrale (5 gennaio 1946) che egli aveva concorso a formulare. Sono auspici che ancor oggi attendono la realizzazione. La legislazione scolastica italiana, in un regime che vuol essere democratico, cioè veramente rappresentativo della volontà nazionale, deve attenersi alle seguenti norme: 1) La scuola deve essere libera, entro i limiti, però, dell’ordine pubblico e del bene comune, secondo le tradizioni cristiane del paese; 2) L’istruzione pubblica viene impartita non solo nella scuola di Stato, ma altresì nelle scuole di Enti morali che abbiano l’effettiva possibilità di farle funzionare regolarmente; a queste perciò sarà riconosciuto il pieno valore legale degli studi e degli esami; 3) Lo Stato, inoltre, favorirà anche economicamente tali scuole, in proporzione all’effettivo contributo da esse arrecato alla pubblica istruzione; in ogni caso dovrà almeno esimerle da qualsiasi gravame fiscale; 4) Lo Stato dovrà rendere economicamente possibile il proseguimento degli studi ai meritevoli, lasciando però loro libera scelta degli istituti ai quali intendono iscriversi.
35 Di questo si occupa il 5° capitolo del volumetto - La parificazione delle scuole libere e l’E.N.I.M.S. - che tratta delle vicende di cui, come si è visto nelle brevi coordinate biografiche iniziali, fr. D. fu tra i protagonisti. 36 Il prof. V. Chizzolini, direttore editoriale dell’editrice La Scuola, trascrisse a fr. D. (giugno 1946) un passo della lettera in cui mons. Margreth, preside di una scuola magistrale di Udine e noto paladino della scuola pubblica non statale, gli aveva scritto: «Ho ricevuto la bozza dell’opuscolo di fr. Dante. Non mi resta che rallegrarmi di tutto cuore per un lavoro riuscitissimo: è sostanzioso, chiaro, ordinato, convincente, sereno. Segnerà una vera pietra miliare per la lotta della scuola libera.» 37 Comparvero anche su Docete. Rivista lasalliana pubblicò al riguardo: La disputa sulla libertà della scuola (1947, 1, 3-16); Fondamenti del diritto educativo (1948, 2, 3-20); Attività intellettuale del religioso educatore (1949, 3, 124-134); La scuola religiosa in Italia (1954, 4, 291-298); Problemi della scuola negli Istituti FIDAE (1954, 2, 6-19); L’educatore esterno nella scuola cattolica (1962, 3, 126149); Nel ventennale della FIDAE: storia di un anno (1966, 3, 167-179).
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4. Responsabile di grandi istituzioni scolastiche Il terzo ‘capitolo’ della vita di fr. D si riferisce agli anni che vanno dal 1949 al 1976 e riguarda le fatiche affrontate, con competenza e tatto non disgiunto da fermezza, nelle tre maggiori istituzioni scolastiche della sua Provincia religiosa. Vi esercitò la funzione di direttore, vale a dire di responsabile in toto della gestione educativa e nel contempo di quella economica. Come per le precedenti e le successive ‘tappe’, attingeremo ai ricordi autobiografici che fr. D. ha lasciato. Scelta che può legittimare qualche perplessità sotto l’aspetto di un’oggettività formale, ma sicuramente più sapida e - anche a giudizio di chi ne fu ed è tuttora a conoscenza dei fatti narrati - di provata veridicità. Carrellate di amarcord, d’autore anche queste, che spaziano su settant’anni di vita della Provincia religiosa e, sia pure dai set di tre sole istituzioni, ripropongono scene di indubbio interesse. Collegio S. Giuseppe di Torino38 (vi fu insegnante dal 1925 al 1949 e ne fu direttore dal 1949 al 1955). Nel 1925 vi giunge «poco più che ragazzo negli anni torbidi del primo dopoguerra: si sparava per le strade e la Guardia Regia forzava con le autoblinde i cancelli delle fabbriche occupate dagli operai. A noi, che ci recavamo ogni sera a fare scuola agli spazzacamini in Arcivescovado, giungeva ogni tanto l’invito a non muoverci perché si sparava. Poi il Fascismo. […] Il film di quegli anni dal ’25 al ’40, sfumato nei colori della lontananza e della tenerezza, mi riporta alla memoria volti di ragazzi, di genitori, di gente cui si vuol bene; figure di educatori, quelli della generazione prebellica - Quilico, Biletta, Germano…, - e quelli della nuova più viva e fresca, segnata dal marchio di forti personalità alle quali si deve il grande S. Giuseppe di una stagione irripetibile: Leone, Goffredo, Giocondo, il vice Clemenzio, il vice Luigi, Emiliano, Giocondino. 500 gli alunni, di cui 150 qui rifluiti dalla campagna.[…] Tra il ’37 e il ’39 arriva la parificazione dei corsi e l’esplosione della popolazione scolastica da 600 a 1000 alunni. Poi un giorno, il 10 giugno 1940, è la guerra, la seconda39 […] Con l’ottobre del 1945, Dio sa come, gli alunni sono 1500. Si organizzano l’Azione cattolica e la Conferenza di S. Vincenzo. Il fr. Amerigo si dà da fare per scarcerare i ‘suoi’ carcerati. A cura di fr. Emiliano riprende la pubblicazione di ‘Rivista lasalliana’ e fr. Giocondino darà di lì a poco vita alla terza generazione di ‘Vita sociale’. Gli ex-allievi si ritrovano e si organizzano nell’attesa del fratel Giulio e del Sangip Club. Fr. Cecilio fonda al S. Giuseppe la scuola
Il collage è tratto da Il S. Giuseppe nel mio ricordo, intervento di fr. Dante nella commemorazione del centenario del Collegio S. Giuseppe, Torino 24 maggio 1975. Archivio FSC di Torino, fald. 370, cart. 1125. 39 Dopo il bombardamento del novembre 1942 trecento convittori e la maggior parte delle classi si trasferiscono al Palace Hôtel di Merano; fr. Dante resta a Torino a dirigere alcune classi e ad assicurare il funzionamento del Collegio. 38
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serale gratuita per operai alla quale danno gratuitamente la loro opera Fratelli ed ex-allievi, mentre il venerando fr. Teodoreto, che qui ha trasferito la sua residenza, offre le ultime sue forze all’opera dell’Associazione del SS. Crocifisso da lui fondata e alla Casa di carità Arti e Mestieri che ne è l’iniziativa di maggior rilievo sociale. […] Giugno 1949. Sono passati quattro anni dal termine della guerra ed il San Giuseppe mette in cantiere un vasto programma di rinnovamento: si costruiscono la palestra e le sale da pranzo sotto il giardino, si corona di un intero piano tutto l’edificio40. Alla ‘Villa’ sorge un nuovo pensionato universitario; a Marina di Massa una nuova colonia. […] I seicento alunni della fine degli anni Trenta, negli anni Settanta sono più che raddoppiati; diradato fin quasi a scomparire il convitto per una precisa scelta in funzione delle richieste dei nuovi tempi, si è moltiplicato il numero degli ‘esterni’, ossia di coloro che cercano nel S. Giuseppe non una scuola suppletiva, ma alternativa a quella di Stato. Ed è per rendere possibile questa alternativa, ossia questa libertà di scelta delle famiglie, non condizionata da ragioni di censo, che già nel 1945 siamo usciti dal chiuso impegnandoci in una battaglia che, purtroppo, in Italia e solo in Italia fra i Paesi del mondo occidentale, è ancora tutta da combattere. Anche per iniziativa partita dal S. Giuseppe si è dato vita alla Federazione degli Istituti cattolici (FIDAE), che qui ha la sua presidenza regionale. Questo è il S. Giuseppe del mio ricordo: una scuola serena e aperta a tutti i fermenti di vita, che non cerca la sua identità in fumose teorie o in cavillose insicurezze, ma la trova giorno per giorno nella sua fede in Dio e negli uomini, nella sua fiducia nell’opera educativa offerta con rispetto, comprensione ed amore. Istituto Gonzaga di Milano (ne fu direttore dal 1955 al 1958 e dal 1971 al 1976). Le annotazioni riguardanti questo doppio incarico rispondono a un criterio di esposizione in cui le connotazioni emotive, a differenza della ‘memoria’ precedente sono rare. Il collage qui offerto è tratto da L’Istituto Gonzaga in Milano tra il 1904 e il 1984, sette pagine di ‘appunti di cronaca’ firmati da fr. D. nel maggio del 198541. Le prime cinque, che tralasciamo, riassumono ‘con affettuosa obiettività’ le vicende del primo mezzo secolo di vita dell’istituzione. «Nel settembre del 1955 assume la direzione del Gonzaga l’estensore di questi appunti. Ancora una volta la popolazione scolastica, ormai al di là dei 1600 alunni, prospetta l’urgenza di nuovi spazi. […] L’ex-alunno architetto De Carli provvede al disegno del teatro, rifatto da capo a fondo con l’acquisto di otto nuove aule, e il ricupero di un’immagine più funzionale e decorosa del seminterrato e dell’atrio
40 Nel n. 11 di ‘Vita sociale’ (novembre-dicembre 1951, pp. 7-17), a firma di fr. D. e dell’ing. Provenzale, progettista e direttore dei lavori, si legge l’accurata descrizione delle realizzazioni. 41 V. Archivio FSC di Torino, fald. 370, cart. 1125. Ne esistono due versioni, qui combinate.
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d’ingresso con relativi uffici. A coronamento, nella vasta parete in cotto, la suggestiva ‘Pietà’ di Lucio Fontana42. Nel 1957 il doppio riconoscimento dello Stato e della Città di Milano premia il cinquantennale impegno del Gonzaga per la gioventù: la medaglia d’oro della Presidenza della Repubblica per i benemeriti della scuola e della cultura e la medaglia d’oro di benemerenza della civica amministrazione. Nel 1971 l’autore di queste note riprende la direzione: è il periodo più caldo della contestazione studentesca a Milano, vissuta al Gonzaga con serenità e fermezza43. L’associazione genitori con la sua giunta e i suoi rappresentanti di classe assicurano la responsabile e rassicurante presenza della famiglia nella scuola; le assemblee generali degli alunni, contenute nel limite del buon governo, e quelle delle singole classi sono anch’esse strumento di collaborazione. All’entrata in vigore dei ‘decreti delegati’ nell’anno 1974-75 il Gonzaga è già in grado di darsi un regolamento puntigliosamente discusso ed approvato dai rappresentanti dei diverso organismi ‘nella discrezionalità lasciata dalla legge alla scuola non statale, in una lettura sempre più attenta e impegnata della nostra esperienza’, come suggerisce il Direttore. Con le opere di ordinaria amministrazione prendono il via quelle di rinnovo delle attrezzature al terzo e quarto piano con le nuove camere e i servizi per la convivenza religiosa. L’Istituto si arricchisce di due laboratori linguistici, di un’ efficiente sala audiovisivi e di un Centro elaborazione dati, il Cedig, per l’insegnamento dell’informatica […]». Come è già stato accennato, fr. D. chiude al Gonzaga la sua ‘carriera’ di dirigente scolastico. E conclude così i suoi ‘appunti di cronaca’ milanesi: «Nell’estate 1976, alla vigilia del mio settantacinquesimo anno di età, ottengo dai Superiori l’assenso alla rinuncia alle responsabilità di governo e trovo il mio buon rifugio nella biblioteca dell’Istituto, al servizio di insegnanti ed alunni. […]. Nella pace della mia biblioteca, dove serenamente si dipana la vicenda dei miei quotidiani incontri con giovani e non più giovani amici, rivive la mia ultima giovinezza nell’attesa di quel Signore a cui ho consacrato la vita. Laus Deo.» Istituti Filippin di Paderno del Grappa (di cui fr. D. è Direttore generale dal 1959 al 1966). Frutto di ricerche alla Biblioteca Nazionale di Parigi, fr. D. aveva scritto
42 Il volume Istituto Gonzaga. Cento anni di presenza a Milano, (a cura di F: Zanzottera, Milano 2006) riporta alle pp. 160-169 una ricca documentazione anche fotografica al riguardo, sotto i titoli Ampliamento dell’edificio centrale (1955-1956) - La Pietà di Fontana (1956-1958) - Funzionamento orizzontale del cinema-teatro e creazione di otto nuove aule. 43 Negli appunti autobiografici (v. nota 4) racconterà con più concitazione: ‘Nel settembre del 1971 mi ritrovo alla direzione del Gonzaga mentre per le strade di Milano sono ancora attivi gli ultimi assalti della contestazione studentesca. In via Vitruvio si danno convegno, alla porta dell’Istituto, gruppi di esagitati. Un bel giorno, un commando sfascia a sassate la vetrata dell’ingresso. Telefonate alla questura annunciano bombe al Gonzaga. La vita della scuola non è turbata più di tanto.’
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un articolo in cui, con scrupolo e obiettività notarili riportava gli atti di Una condanna del Parlamento di Parigi contro S. G.B. de La Salle44. A distanza di quasi quarant’anni e per sette lunghe stagioni toccò a lui il compito di affrontare denunce e tribunali in una ‘querelle’ intricata e dolorosa, ottenendo però per sé e la sua Famiglia religiosa una completa riabilitazione. Si trattò del passaggio della proprietà e della gestione degli Istituti Filippin di Paderno, Asolo e Villa Fietta dal fondatore, mons. Erminio Filippin, alla Congregazione lasalliana. Fr. D., che la visse da co-protagonista, ne dipana le vicende - anche stavolta con scrupolo e obiettività notarili nella Memoria storica / Sugli istituti Filippin di Paderno del Grappa / Fino al dicembre 1965. Sono 62 pagine dattiloscritte, di puntigliosa documentazione, alle quali si rimanda chi volesse approfondire l’argomento45; qui ci limitiamo alle poche righe che fr. D. affidò alla ‘Memoria autobiografica’ del 1979: «L’affaire Filippin, esploso nella primavera del 1958, veniva nel frattempo a investire la mia tranquilla ‘routine’ milanese. Incaricato di assistere il Provinciale nella sistemazione della complessa situazione finanziaria, mi trasferivo nel settembre a Paderno del Grappa. Fu il periodo più stressante della mia vita. L’anno dopo assumevo la direzione generale degli Istituti: impegno delicato e non privo di insidie per il persistere di non ancora sopite tensioni ambientali e di reciproci sospetti. L’atmosfera veniva intanto via via rasserenandosi nella conquista di un clima di efficienza educativa di cui fa fede la lettera che il Provveditore agli studi di Treviso prof. Bruno Vigneri mi inviava nell’estate 1966 46 mentre mi accingevo a lasciare Paderno del Grappa:’ Nei sette anni in cui ha guidato le sorti degli Istituti questi hanno consolidato notevolmente il loro prestigio in una conquistata atmosfera di dignità, di serenità, di elevatezza culturale: tutto ciò è stato - io credo - il frutto della sua umanità e della sua sagacia, del suo spirito sereno e libero e anche della sua arguzia. Perciò Ella può ben dirsi soddisfatto del buon lavoro compiuto anche perché svolto in un periodo particolarmente difficile e assai delicato.» L’accenno alla serenità e all’arguzia, che furono una costante di fr. D. quando si trattò di affrontare anche i momenti più critici, è una delle rare annotazioni personali che si trovano nella Memoria storica citata sopra, là dove, parlando delle conseguenze gravi e penose della vicenda, è detto che «il Direttore Generale ebbe cura che esse non fossero di turbamento per i Fratelli, che egli tenne informati quanto era giusto e necessario a tempo opportuno, ma sempre rassicurandoli e sdrammatizzando presso di essi la situazione, che d’altro lato non tendeva mai a drammatizzare anche nella realtà» (p. 62).
MSC 1931, 4, 109-113. Era la conclusione della causa intentata contro La Salle e vinta dai ‘maestri scrivani’, che si erano ritenuti danneggiati dall’istituzione di scuole gratuite operata dal santo. 45 Archivio FSC di Torino, fald. 370, cart. 1125. 46 L’autografo si trova in Archivio FSC di Torino, nel faldone e nella cartella citati in n. 4. 44
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5. Direttore editoriale e amministratore Il decennio 1966-1976 segna la quarta e ultima fase dell’attività di fr. D.. Fu propiziata dal favore e dalla stima di avveduto amministratore che si era guadagnati nelle esperienze, maturate, come si è accennato, in circostanze talora assai difficili nella gestione anche economica delle tre principali istituzioni scolastiche della Provincia religiosa di Torino. Casa Editrice A & C. Subentrato nell’estate del 1966 al fr. Gioachino Gallo, già nel settembre fr. D. invia alle varie istituzioni il programma delle novità editoriali e delle riedizioni dei testi scolastici. Realisticamente, si rende subito conto che l’Editrice non è in grado di competere in questo settore con i colossi dell’editoria e propone ai superiori di concentrare energie intellettuali ed economiche in quello dell’insegnamento della religione, che nei precedenti decenni ha decretato un vero successo ai testi catechistici lasalliani. Anche a questo riguardo, però, il favore delle adozioni va gradatamente scemando; fr. D. è perciò costretto a vendere la sede centrale dell’editrice (Milano, via Botticelli), limitando l’attività a quelle di rappresentanza (Torino e Roma). Amministrazione. Già nel 1942, allorché gran parte degli alunni e degli insegnanti era sfollata a Merano per sfuggire ai bombardamenti, fr. D., rimasto a Torino per dirigere le superstiti attività scolastiche, aveva intrattenuto con il direttore del Collegio, fr. Goffredo Savoré una nutrita corrispondenza. In essa aveva esposto tempestivamente e con puntigliosa precisione i dati riguardanti la frequenza degli alunni, i danni subiti da cose e persone, la gestione finanziaria ed economica del S. Giuseppe. Uguale avvedutezza amministrativa ‘biellese’aveva dimostrato nella trentennale amministrazione, ordinaria e straordinaria, delle tre istituzioni di cui si è detto. Dal 1966. lasciata Paderno (ma gli impegni finanziari della successione Filippin perdurano), si vede affidare oltre alla conduzione dell’Editrice A & C, il compito del controllo dell’amministrazione e della contabilità delle case della Provincia religiosa di Torino. Dal 1971 al 1976 ai precedenti impegni si aggiunge il secondo periodo della direzione dell’Istituto Gonzaga. Già nel 1972, compiuti i settant’anni, aveva chiesto di essere esonerato da tali compiti; senza successo: infatti, gli si era fatto osservare che tutte le pratiche amministrative in essere e quelle prossime a diventarlo esigevano la sua consulenza o almeno il suo parere. E si trattava di situazioni impegnative: chiusura, dimensionamento o ammodernamento di istituzioni, alienazione o acquisizione di beni immobili, intricate controversie sindacali riguardanti il personale non religioso, studio per la realizzazione di un fondo di pensionamento per i Fratelli, ignorati per legge dalle misure previdenziali… Il riconoscimento della competenza nel settore amministrativo varca i confini della Provincia religiosa: con delega del Superiore generale è chiamato a far parte del Consiglio Economico generale della Congregazione nel decennio 1966-1976. È
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quest’ultima la data in cui, settantacinquenne, ottiene di rendersi comunque utile, dedicandosi però ad attività meno logoranti. *** Al testamento, datato 2 luglio 1979, fr. Dante affidava il riassunto e il bilancio della propria esistenza, concludendo: Giunto a quest’ultima tappa della mia vita in cui la comprensione dei Superiori mi ha concesso l’esonero dalle responsabilità di governo, ringrazio il Signore per la sua assidua assistenza, che mi ha conservato in ogni tempo e circostanza l’entusiasmo nell’adempimento dei compiti affidatimi, la retta intenzione ed il coraggio nell’assumermi le responsabilità, talvolta ingrate, che ne conseguivano. Non posso non rammaricarmi ora per la mia inadeguatezza nell’assolvimento dei miei doveri religiosi e professionali, per non aver amato di più le persone che il Signore mi ha affidato; per non aver loro dato di più. Ho coscienza di non aver mai intenzionalmente fatto del male a nessuno e chiedo perdono a quanti hanno dovuto soffrire per colpa o a causa mia. Non ricordo di aver mai coscientemente nutrito odio per alcuna persona. Chiedo perdono a Dio della mia insufficienza nel suo servizio, ed a quanti mi furono vicini, della disattenzione, superficialità e presunzione che m’impedirono una più profonda partecipazione e capacità di porgere il conforto che attendevano da me. Così mi affido al Padre che è nei cieli e alla sua Madre celeste, che mi è stata presente nei momenti difficili della vita. Temi ed espressioni fin qui insoliti solo perché nel profilo tracciato si è dato spazio quasi unicamente alle tante cose che fr. D. ha saputo realizzare. Giusto perciò almeno un riferimento alle energie morali alle quali attinse per operare.
JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE
OPERE COMPLETE in 6 volumi, rilegati con sovracoperta, 22 x 15 cm. Prima edizione italiana a cura di SERAFINO BARBAGLIA
1. Scritti Spirituali / 1 Raccolta di vari Trattati brevi – Regole – Scritti personali Presentazione di A. HOURY – Introduzione di M. SAUVAGE e M.-A. HERMANS pagine 544
2. Scritti Spirituali / 2 Meditazioni – Spiegazione del metodo di orazione Presentazione di J. JOHNSTON pagine 1194
3. Scritti Pedagogici Guida delle Scuole cristiane – Regole di buona creanza e di cortesia cristiana Edizione italiana a cura di R. C. MEOLI pagine 480
4. Scritti Catechistici I doveri del cristiano verso Dio Traduzione e note a cura di G. DI GIOVANNI e I. CARUGNO pagine 862
5. Istruzioni e Preghiere Istruzioni e preghiere – Esercizi di pietà – Canti spirituali Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA e I. CARUGNO Presentazione di Á. RODRIGUEZ ECHEVERRÍA pagine 470
6. Le Lettere Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA Introduzione di R. L. GUIDI pagine 560
CITTÀ NUOVA EDITRICE Via degli Scipioni, 265 – 00192 Roma tel. 063216212 – comm.editrice@cittanuova.it
RivLas 78 (2011) 2, 379-388
La « Grande Chapelle » de Passy-St-Nicolas et le mouvement catéchétique au 20è siècle NICOLAS CAPELLE
I
l y a cinquante ans - c’était l’année 1960 - les Frères du district de Paris inauguraient une « grande chapelle » au collège de Passy-Saint-Nicolas de Rueil, près de Paris. Collège illustre par ses fondateurs : ceux-ci, dans les années 1850, venaient du Pensionnat du Pic de Béziers lequel perpétuait les meilleures intuitions pédagogiques des œuvres du 18è siècle lasallien. En ce mois de septembre 2010, nous nous souvenons de cette inauguration. Mais pourquoi ? Pour plusieurs raisons: - cette chapelle est une œuvre d’art qui ne vieillit pas ; elle est toujours, comme au premier jour, un concentré d’intériorité et une porte offerte sur le Sens et la transcendance ; - elle est le témoin d’un moment de l’Eglise de France, peu de temps avant Vatican II ; - elle marque un sommet dans la réflexion catéchétique et en donne une expression symbolique et artistique du mystère de la Foi et de l’Eglise ; - enfin elle nous fait passer, par l’acte culturel qu’est un collège, à l’acte cultuel qui s’épanouit en prière et en action de grâce. C’est tout ceci que je veux exprimer dans les lignes qui suivent. Dans mon propos, il y aura cinq parties inégales: quelques indications sur le terme catéchèse, afin de comprendre les enjeux habituels qui se jouent autour de ce mot ; quelques notes sur ce qu’un élève de Passy-St-Nicolas vivait comme catéchisé, entre les années 1953-59, période de construction de la chapelle ; le mouvement catéchétique dans l’Eglise de France au 20è siècle ; les Frères des écoles chrétiennes et la catéchèse au 20è s. ; le mouvement catéchétique en France, après 1945.
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1. Le mot catéchèse, et sa pratique Il est utile de connaître l’origine du mot et son évolution: cela explique la tension permanente qui existe dans l’Eglise autour de ce mot et les approches pédagogiques qu’il génère : - le verbe grec signifie proprement: «faire retentir un bruit, un son, l’écho de la voix humaine» ; - l’étymologie évoque une parole qui résonne à l’oreille d’un auditeur qui est aussi un interlocuteur. L’énoncé catéchétique revêt, dès l’origine, la forme d’une communication orale et dialoguée ; - mais le mot va aussi prendre la signification suivante: aviser, notifier, informer, enseigner, instruire. Ainsi on voit se développer, en même temps et tour à tour, deux approches: - catechese: l’ensemble des discours didactiques (énoncés et processus d’énonciation) destinés à favoriser chez les baptisés une intelligence globale et méthodique de leur foi ; - catechese: la proposition d’une bonne nouvelle capable de changer la vie et non pas, d’abord, une transmission de contenus - chez notre Fondateur nous retrouvons cela sous deux mots distincts: «les instruire des mystères (les contenus) et des maximes (la pratique) du saint Evangile». A partir des années 1880, ces deux approches vont être en tension. Pourquoi? Parce que certains sont plus attentifs aux changements sociaux (christianisme battu en brèche, pratique religieuse qui commence à s’effilocher) et cherchent un nouveau chemin de catéchèse; alors que d’autres sont préoccupés par le maintien du dépôt de la foi et sa transmission dans la fidélité à tout son contenu, dans le respect d’un langage traditionnel. Ce sont ces deux approches que l’on va voir se choquer au cours du 20è siècle.
2. Un élève des années 1953-59, période de la construction de la chapelle Que vivent, au cours de leurs semaines scolaires, les 1000 pensionnaires de PassySt-Nicolas, alors que se construit la chapelle ? Une éducation chrétienne soutenue et construite, grâce aux éléments suivants : - Catéchèse deux fois par semaine, prières du matin et du soir, une messe en semaine, chapelet possible pendant la récréation, « réflexion » du matin, rappel régulier de la présence de Dieu (toutes les 1/2 h), messe du dimanche matin avant le départ en famille ; - la catéchèse est: christocentrique, biblique (chant de psaumes en français), eucharistique, liturgique (les temps liturgiques ponctuent l’année avec les cérémonies préparées, mélodies de Gélineau), sacramentelle, ecclésiale (histoire de l’Eglise, ency-
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cliques, événements de Lourdes 1954- 1958, mort et élection du pape 1958-59) ; - une pédagogie catéchétique: avec initiatives, dessins, constitution de dossiers, interviews, photos, débats, collages. Pédagogie active et participative que l’on retrouvait moins dans la pédagogie profane ! - catéchèse missionnaire: propositions de mouvements: Chevalier du Christ, croisade eucharistique (MEJ), liens avec les Frères missionnaires (Haute Volta 1948, par ex.) ; - Liturgie: service d’autel, maîtrise ; - Pèlerinages: Lourdes 1954, 1958. Finalement le jeune vivait un acte catéchétique global, synthétique, complet pour lequel la chapelle de Passy-St-Nicolas devenait un élément obligé et comme le couronnement visualisé de la démarche d’éducation de la foi. Or, pour bien expliquer cette situation et en saisir l’impact comme l’originalité, il est nécessaire de comprendre les recherches, les tensions et les luttes dont a été l’objet le « catéchisme » au cours du 20è s. français, tant dans l’Eglise que dans l’Institut des Frères. Car la question de fond qui va traverser la réflexion de l’Eglise et de l’Institut, alors, sera la suivante: s’agit-il de transmettre l’héritage de la foi dans un langage véhiculé par et pour une société globalement chrétienne ou s’agit-il de former des baptisés, jeunes et adultes, à vivre leur foi et ses expressions dans un monde largement sécularisé et changeant?
3. Que se passe-t-il dans l’Eglise de France au XXè siècle ? L’ère du catéchisme avait imposé une méthode traditionnelle en trois temps: - le contenu clair de la Foi (présenté d’abord par questions/réponses); texte intangible ; - son explication par le maître en vue d’une intelligence du texte; comprendre, mémoriser ; - son application dans la vie de tous les jours. Méthode déductive, donc, qui part du contenu et non des jeunes qui sont là. C’est en Allemagne que ce modèle didactique subit les premiers assauts. Dès 1887, fut élaborée une méthode qui aboutissait au texte au lieu de partir de lui: méthode inductive que l’on appellera plus tard «méthode catéchétique de Munich» qui prenait appui sur la psychologie de l’enfant et de l’adolescent. On partait d’une expérience concrète (imagination, affectivité, volonté) et non d’un corps de doctrines. Dès 1903 il y eut publication de matériaux pédagogiques. Cette méthode fut diffusée en Europe et en Amérique. On en trouve l’ultime illustration dans le catéchisme publié par les évêques allemands en 1955. Sous l’influence de John Dewey, pédagogue américain (1859-1952), la méthode de
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Munich intégra la pédagogie de «l’école active», vers 1920: pour lui les connaissances étaient secondes par rapport à la priorité pédagogique du développement de la personnalité et des capacités de l’enfant. Les principes de «l’école active» influencèrent les travaux du chanoine Camille Quinet, auteur du Carnet de préparation d’un catéchiste en 3 volumes (1927-1930). Quand parut en 1937 le Catéchisme à l’usage des diocèses de France, le Carnet de Quinet fut utilisé comme livre du maître du nouveau manuel national. Cependant ces innovations ne purent tout de suite s’affranchir du cadre institutionnel imposé: l’innovation n’était que méthodologique n’affectant pas la définition préalable des contenus donnés ; elle servait en définitive à mieux expliquer et faire assimiler les «réponses» du catéchisme. Le schéma tripartite: dogme/morale/sacrements demeurait la clé de voûte de la formation religieuse des enfants. Au point que le catéchisme national de 1947 est un catéchisme de questions/réponses. Le renouveau catéchétique franchit une nouvelle étape grâce à Marie Fargues (1884-1964). Enseignante, jardinière d’enfants à l’Ecole des Roches, disciple de Maria Montessori (1870-1952), elle est une adepte des méthodes actives, influencée par les travaux de Binet-Simon (étude du développement psychologique et mental en fonction de l’âge). Elle appliqua à l’éducation religieuse les découvertes de la psychologie enfantine: l’enfant n’est pas un adulte en miniature, il a ses «périodes sensibles» (Jean Piaget, 1876-1980), son «expérience spirituelle». Dans le même temps Françoise Derkenne développe la catéchèse liturgique qui suit le temps liturgique. On peut aussi mentionner l’apport de Mme Lubienska de Lenval. Mais c’est notamment le mérite du chanoine Joseph Colomb prêtre de St-Sulpice (1902-1979) d’avoir recueilli, analysé, critiqué l’apport des nouvelles sciences de l’homme et de l’éducation tout en dotant le mouvement catéchétique français des structures qui allaient assurer son rayonnement international. En 1946 il fonde, à Lyon, la première Ecole de catéchistes. Il pose la problématique des années 50 qu’il résume dans la formule «catéchisme progressif». Qu’entend-il par là? Dans un livre intitulé Plaie ouverte au flanc de l’Église paru en 1954, il définit les contours de son catéchisme, qui couvre les âges de sept à quatorze ans. Il définit cinq lois pour un véritable « enseignement didactique éducatif » : 1. tenir compte des possibilités de l’enfant et du jeune ; 2. tenir compte de la nature propre du message transmis ; 3. tenir compte du but poursuivi qui est la foi vive, capable d’agir par la charité ; 4. avoir la conscience claire de ce qu’est ou doit être l’expérience religieuse de l’adulte ; 5. la question des manuels, de mémoire et de contrôle, est secondaire. Mettant à profit les acquis de la psychologie génétique, il préconisa une présentation progressive des divers aspects du mystère chrétien. Ainsi on ne proposerait pas les
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vérités de la foi de la même manière aux 7-9 ans, aux 11-12 ans. Bien plus, certaines notions (comme le péché d’origine, la divinité du Christ ou sa mission de rédemption) ne seraient pas enseignées aux enfants les plus jeunes. Nommé directeur du Centre national de l’Enseignement religieux en 1954, il organise à travers tout le pays des sessions de formation qui réuniront beaucoup d’éducateurs de la foi intéressés par la démarche pédagogique de l’abbé Colomb. Cependant, parce qu’il fait appel à l’expérience religieuse de l’enfant et qu’il ne délivre pas tout de suite tous les dogmes, le catéchisme de Joseph Colomb sera condamné par Rome en 1957 ; il lui est reproché l’omission de vérités surnaturelles fondamentales, ce que Colomb réfuta toujours avec juste raison. Toutefois, Joseph Colomb sera défendu par plusieurs personnalités de l’épiscopat français (notamment par les évêques Liénard, de Provenchères, Gerlier, Feltin, Villot). Ses positions catéchétiques seront ainsi vite réhabilitées par le Directoire de pastorale catéchétique (1963), écrit par le cardinal Jean Honoré, qui reprendra à son compte les grandes idées catéchétiques de J. Colomb. De même les options théologiques de ce dernier sur la Bible et la Liturgie se verront confortées par le concile Vatican (1962-1965), notamment dans la constitution Dei Verbum.
4. Quelle est l’histoire catéchétique lasallienne durant cette période? Dans l’Institut des Frères le catéchisme (entendu comme éducation de la foi ou catéchèse, et comme texte) eut toujours beaucoup d’importance. L’époque du Fondateur fut l’époque des Catéchismes (suite au Concile de Trente et à la Contre-réforme) que les diocèses promulguaient. Jean-Baptiste de La Salle, lui-même, écrivit aussi des catéchismes pour ses écoles. Ce fut une époque où l’on vit un effort important autour des contenus, des méthode et des manuels. La fin du XIXè s. voit ressurgir cet effort à cause, notamment, des luttes anticléricales mais aussi de l’expulsion, en France, du catéchisme hors des écoles. Par ailleurs le concile Vatican I (1869-70) avait déjà projeté un Catéchisme universel qui ne verra le jour qu’avec Jean-Paul II (1992). L’Institut est attentif à tout cela. Au point que le Chapitre général des Frères de 1894 va faire porter presque toute son attention sur la question de la formation religieuse des Frères et sur le catéchisme (les deux étant évi-demment liés) avec pas moins de 18 résolutions. Des débats, il ressort ceci: - l’étude du catéchisme est une obligation pour tous les Frères - cette étude se fait dans les livres de l’Institut; et non dans les livres de théologie, ni en universités - l’étude la plus importante est: l’Histoire sainte et l’histoire de l’Eglise - la récitation du catéchisme reste quotidienne et littérale.
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Les Frères sont encouragés dans cette voie par le pape Pie X qui leur donne publiquement le titre de « Apôtres du catéchisme» en 1903. Pourtant l’on remarque, là aussi, deux courants que les Supérieurs laissent vivre : le premier est représenté par le Frère Paul Joseph (1854-1923) qui compile tout ce qui est produit pour l’Exposition universelle de 1900. Il publie Les élémentsde la pédagogie pratique en 1901, qui sera suivi par une circulaire du Frère Supérieur intitulée Méthodologie de l’enseignement religieux. Selon la tradition lasallienne, une leçon se déroule ainsi: - un chant, une prière, un rappel de la leçon antérieure - la leçon: explication des questions, développement avec des interrogations socratiques, résumé rapide, questions d’appui, indications sur la pratique ; - puis indications pour un travail à réaliser. Ainsi donc: la méthode est déductive, c’est une instruction de vérités religieuses; l’élève est le réceptacle de la vérité exposée. Mais six ans plus tard, le Frère Bernard Louis (1847-1915) publie un ouvrage qui est sans doute le plus prestigieux de toute l’histoire catéchétique de l’Institut: Manuel du catéchiste, 1907. C’est un gros volume de 592 pages. Il semble que ce Frère ait eu contacts avec le mouvement de Munich lors d’une rencontre avec des catéchistes de Vienne. Il resta plusieurs mois là-bas pour faire une synthèse des approches lasalliennes et des découvertes autrichiennes. Son idée de base est la suivante: la catéchèse doit partir de la réalité et de l’expérience de l’enfant pour arriver à la notion abstraite pour ensuite être appliquée à la vie concrète. Il ne faut pas partir des idées théologiques et abstraites qui sont éloignées de la psychologie de l’enfant. Il ajoute que la catéchèse doit être cyclique (ce que Joseph Colomb appellera «progressif»): tenant compte des âges et de la maturité, on procèdera par répétition et ajouts progressifs de notions nouvelles, d’une année sur l’autre. Il insiste sur la mémorisation mais dans une démarche d’ensemble. Il est intéressant que les deux approches aient cohabité: l’une se référant au passé de l’Institut et à «l’objet de la Doctrine», l’autre intégrant les progrès des sciences pédagogiques par souci de rejoindre «les sujets de la Doctrine». Ceci est bien dans la manière de notre Institut qui est toujours en tension entre, d’une part, le respect de la Tradition et des orientations du Magistère et, d’autre part, la prise en compte des publics des enfants et des jeunes qui imposent, de façon pragmatique, les changements nécessaires. Ces deux courants vont donc cohabiter de 1901 à 1940 et seront ponctués par deux initiatives: - la première, la préoccupation de la formation de catéchistes volontaires que le Pape avait encouragée. Je cite : 1) la création d’un Institut séculier italien: l’Union des catéchistes de Jésus Crucifié et de Marie Immaculée. (début 1914; reconnaissance 1948) ; 2) la création de Centres catéchétiques, revues, congrès: aux Antilles, aux USA avec la maison d’édition St-Mary’s Press (1943), avec la première revue caté-
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chétique de l’Institut (1934), La Salle Catechist ; 3) mais, sans aucun doute, les Frères Italiens réalisèrent l’oeuvre la plus remarquable1. - La seconde: la Circulaire du F. Supérieur (la n. 300, 1938) écrite par le Frère Alcime-Marie (1883-1973) et qui réaffirme «la validité intouchable» de l’ancienne méthode des Frères, l’importance de l’art du questionnement et de l’explication des mots tout comme la nécessité de «noter les chiffres de présences, de baptêmes, de confessions et de communion qui démontrent les effets de l’action de la grâce». Pourtant cette circulaire même, par une considération pragmatique de la situation, n’ignore pas les procédés intuitifs, la présentation d’images, d’exemples de la vie concrète, la petite expérience des enfants, l’enseignement religieux comme Science et Vie (dogmes et maximes). Enfin cette circulaire insiste sur la formation d’équipes de catéchistes volontaires, sur la place de l’Action catholique spécialisée dans les établissements, reprenant ainsi une circulaire antérieure, la n.297 de 1937.
5. Et en France que se passe-t-il, alors? C’est surtout à partir de 1946 que les choses vont bouger de façon décisive et avoir un très grand retentissement, en France mais aussi au niveau international. Plusieurs noms sont à citer: les Frères Louis Falcombello2, Jean Baptiste Raynaud, André Fermet, Michel Sauvage, Bruno Prat, Paul Eugène Martin, Joseph (Louis) Guittard,
Dans sa thèse de doctorat (La catequesis lasaliana en los últimos 50 años, soutenue à l’Université salésienne de Rome en 2001, et publiée par Ediciones San Pio X, Madrid 2003), le Fr. José Maria Pérez Navarro informe: “El Hermano Candido Chiorra (1860-1941) fue el verdadero iniciador y promotor de la labor catequística de los Hermanos italianos, y el primero que tuvo una cátedra de Catequética en Italia, concretamente en el Seminario Mayor de Turín. Entre las realizaciones más importantes destacan: - Crearon, en 1936, la revista Sussidi per la riflessione e il catechismo - Ocuparon cátedras de Catequética en grandes seminarios como Turín, Parma, Lucca, Casale, Bobbio.... - Desde 1929 fueron los encargados, por el episcopado y por el ministerio de la instrucción, de la inspección de la enseñanza religiosa en las escuelas oficiales. - Estuvieron presentes y tuvieron un papel preponderante en congresos catequísticos diocesanos y regionales. - Desde 1934 a 1946 publicaron cerca de 70 libros catequísticos. - Crearon, en 1942, una Comisión catequística nacional para dar ánimos, reglamentar y controlar el trabajo, preparar exposiciones y encuentros catequísticos. Los nombres más destacados fueron en las décadas ’40-70: Fr. Agilberto Gatti, Angelino Guiot, Anselmo Balocco, Beniamino Bonetto, Dante Fossati, Giocondo di Maria, Leone Napione, Remo Re…” (p. 93-94). 2 Cfr. Alain Houry, F.Louis Falcombello et les débuts de Catéchistes, « Rivista lasalliana » 75 (2008) 1, 101-113. 3 Cfr. Léon Lauraire, Le frère Jacques Piveteau (1924-1986), « Rivista lasalliana » 75 (2008) 3, 459-466. 1
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Celse Pierre, et plus tard Michel Fiévet, Xavier Mulmann, Didier-Jacques Piveteau3, Robert Comte… Mais le Frère Vincent Ayel est le maître d’oeuvre de tout cela. En 1945, Vincent Ayel revient d’Allemagne, après de deux ans de STO (Service de travail obligatoire): il a constaté l’ignorance religieuse, la déchristianisation tout comme le désintérêt des jeunes qu’il a en classe à Langogne. Il est travaillé par la question: «Comment rejoindre les jeunes pour leur annoncer l’Evangile?». Alors il commence un cycle d’études: philosophie, catéchèse, théologie, Bible. Tout cela lui permet de rencontrer efficacement des hommes et femmes de réflexion et de pratique: Joseph Colomb, Albert Gelin, Vimort, Rétif, Duquoc, Françoise Derkenne, Marie Fargues, Elchinger, Roguet, Martimort, Babin, Coudreau, Moitel… Il va très vite s’attaquer à deux domaines qui sont interdépendants: la formation des catéchètes et la formation des jeunes Frères. Je ne parlerai ici que du premier domaine: la formation des catéchètes. A cet effet, il crée la revue trimestrielle Catéchistes en 1952. Elle obtient un succès immédiat avec 2000 exemplaires; elle déborde le cercle des seuls Frères à qui elle est primitivement destinée; elle va voir sa diffusion atteindre l’Amérique latine, les USA, l’Australie ainsi que l’Espagne qui lance aussi, dès 1950, un Centre lasallien de formation de théologie catéchétique à Salamanca (ensuite à Madrid). Une série de sessions d’été est proposée aux Frères et aux laïcs catéchistes4. Avec son numéro 100, la revue cesse en 1975, pour raisons financières mais aussi parce les changements sont tels qu’une autre revue semble nécessaire. Et symboliquement elle sera intitulée Temps et paroles car il s’agit de dire la Parole avec les paroles qui conviennent pour l’époque. Elle sortira 25 numéros trimestriels. Par ailleurs, de 1970-81, le Frère Vincent Ayel publie, avec le F. André Fermet, une série de 22 dossiers au titre toujours révélateur des intentions des auteurs: «Foi et Langages». Une fois de plus il s’agit d’écouter l’homme contemporain mis en contact avec le donné de la Foi et de trouver, avec lui, les langages appropriés pour rentrer en dialogue avec la Parole de vie. Les titres des fascicules témoignent d’un effort constant d’écoute des réalités contemporaines Cette dynamique française va encourager de nombreux jeunes Frères qui vont se former à Lyon, à Quimper, à Paris, à Rome, à Strasbourg. Beaucoup viendront d’Amérique Latine (Chili, Argentine, Colombie, Mexique, Pérou), d’Australie, des USA, d’Afrique. De retour chez eux ils auront un rôle leader non négligeable.
Dans l’ordre chronologique : 1956 à Montmagny: L’économie du Salut (Brunet, Martimort, Decourtray) ; 1957 à Beauvais: Le mystère du Dieu vivant (Fichelle, Soudreau) ; 1958 à Beauvais: Dimensions chrétiennes de l’homme (Gelin, Duquoc, Le Troquer) ; 1959 à Beauvais: La morale chrétienne (Augustin George, le P.Danet, le P.Russo).
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Pour conclure Ainsi donc vous avez là le contexte des préoccupations de pédagogies religieuses dans lesquels nos Frères et les laïcs de Passy-St-Nicolas ont «vécu et habité» leur catéchèse et la construction de cette Chapelle. - Chapelle dont Mme Dominique De La Rivière (dans son livre pour le cinquantenaire) a bien mis en évidence les aspects bibliques, ecclésiaux, symboliques (mobiliers, couleurs, orientations, iconographie, vitraux), et catéchétiques. - Chapelle, lieu de beauté de la Liturgie chrétienne (lumières, acoustique, bois, formes, mobiliers, vitraux). - Chapelle, à la fois, au sommet de l’acte éducatif, posé sur le travail, la connaissance, la vie ensemble, les rythmes quotidiens, codifiés, ordonnés ; et sommet unifiant de la vie des jeunes et des maîtres qui s’y retrouvaient, tous les dimanches, pour la célébration eucharistique, et sommet unifiant de la semaine. Enfin, il faut aussi rendre hommage aux efforts pédagogiques et catéchétiques des Frères du district de Paris qui, finalement, sans en avoir une conscience claire, ont su transmettre et faire partager leurs dynamismes biblique, liturgique, symbolique tout comme leurs conceptions éducatives, aux hommes de l’art (Architecte, Maître verrier et autres) qui ont mis leurs différents savoir-faire dans la réalisation d’une «oeuvre» qui exprime une vision globale de la Foi chrétienne, référée à un véritable souci pédagogique des jeunes à qui est faite cette proposition de la Foi, dans le contexte du lieu culturel qu’est un Collège lasallien d’éducation chrétienne.
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ISSN 1826-2155
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trimestrale di cultura e formazione pedagogica
✓ L’Oratio catechetica magna di san Gregorio di Nissa ✓ Quando l’homo religiosus si sublima nell’homo ludens ✓ Con i ragazzi delle scuole professionali: quale pedagogia? ✓ Educare alle religioni nella scuola primaria? ✓ Per un approccio storico-critico alla figura di Gesù nella scuola secondaria ✓ Missio canonica dei religiosi educatori e rilettura del servizio educativo dei poveri nel tempo presente ✓ Uno spaccato storico della nascente istituzione lasalliana nello Stato Pontificio del primo Ottocento ✓ Dante Fossati FSC, antesignano degli Studi lasalliani e promotore della Scuola libera in Italia
APRILE - GIUGNO 2011 • ANNO 78 – 2 (310)