Rivista lasalliana 3-2011

Page 1

TASSA RISCOSSA TAXE PERÇUE ROMA

Rivista lasalliana Direzione e redazione: 00165 Roma - Via Aurelia, 476 Amministrazione: 10131 Torino - Strada Santa Margherita, 132

Rivista lasalliana

2011

Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/AC - ROMA - “In caso di mancato recapito inviare al CMP Romanina per la restituzione al mittente previo pagamento dei resi”

3

ISSN 1826-2155

Rivista lasalliana

3

trimestrale di cultura e formazione pedagogica

✓ La catechesi liturgica in Isidoro di Siviglia ✓ Adulti, adolescenti e disagio: una diagnosi psicologica ✓ Se la scuola scoprisse la bellezza della matematica ✓ Parabole e miracoli nel NT: guida alla lettura ✓ Reims, Nicolas Roland e la peste del 1668 ✓ L’associazione lasalliana da reinventare nella post-modernità ✓ Roberto Sitia, un lasalliano di frontiera tra matematica e umanesimo ✓ Jeffrey Gros, teologo ecumenista e catecheta: una testimonianza ✓ Verso un catalogo mondiale delle pubblicazioni scolastiche FSC

LUGLIO - SETTEMBRE 2011 • ANNO 78 – 3 (311)


Rivista lasalliana trimestrale di cultura e formazione pedagogica 78 (2011) 3


RL

Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole cristiane da lui fondate. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie della Regione lasalliana euro-mediterranea.

Anno 78 • numero 3 • luglio-settembre 2011

Direzione Rivista lasalliana, Via Aurelia 476, 00165 Roma, tel. 06665231-0666523305. Gli articoli vanno inviati esclusivamente via e-mail all’indirizzo: fpajer@lasalle.org. Riviste in cambio e libri per recensione vanno inviati a: Rivista lasalliana, Casella postale 9099-Aurelio, 00167 Roma Gruppo redazionale 2011 Roberto Alessandrini, Mario Chiarapini, Gabriele Di Giovanni, Mariachiara Giorda, Anna Lucchiari, Marco Paolantonio, Nicolò Pisanu, Francesco Pistoia, Lorenzo Tébar Belmonte, Francesco Trisoglio, José María Valladolid Collaboratori e consulenti Bruno Bordone, Ernesto Borghi, Emilio Butturini, Robert Comte, Sergio De Carli, Paulo Dullius, Pedro Gil, Edgar Hengemüle, Alain Houry, Léon Lauraire, Herman Lombaerts, Matteo Mennini, Patrizia Moretti, Diego Muñoz, Israel Nery, José María Pérez Navarro, Gerard Rummery, Giuseppe Tacconi Editore Associazione culturale lasalliana, Strada Santa Margherita 132, 10131 Torino Amministrazione e diffusione Associazione culturale lasalliana, gabriele.pomatto@gmail.com, cell. 3471033855, tel. 0632294503, fax 063236047 Abbonamento 2011 Ordinario in Italia e 24 - docenti lasalliani e 18 - Paesi dell’Unione europea e 30 - altri continenti Usa $ 50 - sostenitori e 50 - un fascicolo separato, anche arretrato, e 6,50. A richiesta sono disponibili annate arretrate per biblioteche e ricercatori. Il versamento della quota si effettua mediante bonifico bancario sul codice Iban IT51N076000000012378113 oppure mediante modulo ccp n. 12378113 intestato a «Associazione culturale lasalliana». L’abbonamento ai 4 numeri annui decorre dal 1° gennaio e si intende continuativo, salvo disdetta scritta Progetto grafico Federico Fiorini, cell. 3384583313 Stampa e spedizione Stabilimento Tipolitografico Ugo Quintily spa., V.le E. Ortolani, 149/151, Zona Ind. di Acilia, 00125 Roma - quintily@quintily.com tel. 0652169299. ISSN 1826-2155. Registrazione del Tribunale di Torino n.353, 26.01.1949 (Tribunale di Roma n.233, 12.6.2007) Periodico associato alla USPI, Unione stampa periodica italiana - Responsabile a termine di legge F. Pajer - Spedizione in abbonamento postale: Poste italiane DL 353/2003 (conv. in L n.46, 27.02.2004) art.1 c. 2 - DCB Roma.


Rivista lasalliana 78 (2011) 3 Sommario

RICERCHE • STUDI • PROPOSTE 395 Francesco Trisoglio La catechesi liturgica: il De ecclesiasticis officiis di Isidoro di Siviglia Figura chiave della simbiosi tra cultura romano-cristiana e culture barbare nella Spagna del VII secolo, l’erudito Isidoro fornì una mole cospicua di strumenti storici e filologici per amalgamare le culture emergenti con l’eredità classica della romanità. Da vescovo operò per una sistematica ristrutturazione della teologia dogmatica, sacramentaria e morale; in particolare si distinse nell’illustrare presupposti, criteri, funzioni e modalità dei riti liturgici, definendo le condizioni della loro amministrazione e le figure dei ministri ecclesiali. Nello sviluppo cronologico della catechesi liturgica, Isidoro si colloca in uno stadio ormai notevolmente avanzato della tradizione dottrinale patristica e della formalizzazione rituale delle pratiche sacramentali nel vissuto delle comunità cristiane.

411 Nicolò Pisanu Adultità, adolescenza e disagio. Percorsi psicologici La tesi (psicologica): è lecito adottare quale chiave interpretativa dell’adolescente il soggetto stesso, con la sua storia e con il patrimonio di relazioni instaurate dalla nascita in poi con le persone che lo educano. La sintesi (pedagogica): «la nostra conoscenza degli adolescenti rimarrà frammentaria – per loro come per noi – se non sappiamo cosa vogliamo che essi diventino, o persino che cosa vogliamo essere (o essere stati) noi stessi».

419 Mario Ferrari La bellezza della matematica Sfidando un diffuso preconcetto, un professionista della didattica della matematica illustra con adeguate esemplificazioni come certe dimostrazioni matematiche, certe formule e persino il linguaggio stesso della matematica – lungi dall’essere inappetibili – risultino invece esteticamente piacevoli e razionalmente seducenti. Merita che la scuola, fin dal ciclo primario, sappia far apprendere la matematica facendo (ri)scoprire in essa la libertà di un linguaggio rigoroso ma non ingessato, il fascino dell’ignoto che stimola il pensiero congetturale, l’appeal della regolarità da non confondere con la ripetitività, la gratuità del gioco che non è solo passatempo...

433 Ernesto Borghi Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth [2] A seguito del primo saggio (RL 2011, 2, 255-292), l’oggetto del presente intervento è la figura di Gesù letta nelle sue parole didascalico-kerigmatiche e nelle sue azioni taumaturgiche, le une e le altre analizzate in base ai testi dei vangeli canonici ma con qualche motivata incursione nella letteratura apocrifa. Parabole e miracoli hanno subìto, nella volgarizzazione della


comunicazione pastorale, vistose derive semantiche e alterazioni teologiche. La disamina filologica - qui sviluppata con ampiezza di informazione e in un’ottica intenzionalmente ‘pedagogica’ - aiuta a recuperare il senso originario dei testi evangelici e la portata messianica delle parole e dei gesti del Nazareno.

457 Anna Lucchiari Chiaroscuri Una storia così – Una parola da perdere, una da ritrovare – Facebook? Se questa è amicizia…

MISCELLANEA LASALLIANA 465 Bernard Pitaud Nicolas Roland et la “Peste” à Reims en 1668 Uno spaccato storico che porta nuova luce su una calamità che funestò la città natale di JeanBaptiste de La Salle, e che ha visto tra i protagonisti della carità e della penitenza il beato Nicolas Roland. Il saggio ricostruisce le circostanze che causavano il ripetersi delle pestilenze urbane, le iniziative intraprese dalle pubbliche autorità e soprattutto dai responsabili religiosi per scongiurare i mali maggiori per la popolazione. In particolare si dà conto della controversa processione propiziatoria con le reliquie di san Remigio, e della testimonianza della domestica di N. Roland circa l’eroica dedizione del canonico verso gli appestati.

485 Herman Lombaerts “Ensemble et par association” – L’actualisation de la ‘mission canonique’ affrontée aux transitions irréversibles Il contesto socio-culturale nel quale il La Salle « associò » i primi Fratelli per la missione educativa a favore dei ceti poveri non è paragonabile al contesto odierno in cui l’Istituto propone ai propri educatori laici di “associarsi” al fine di sostenere la continuità delle opere educative lasalliane. Sono cambiate oggettivamente le condizioni del servizio dell’istruzione pubblica. Lo stesso appello evangelico ha oggi risonanze inedite dentro i nuovi segni dei tempi, al punto da dover considerare la vocazione battesimale come un primum spiritualmente e teologicamente preminente rispetto alla consacrazione votale della vita religiosa tradizionale. Superata infatti una certa visione essenzialista e canonicista dei voti religiosi, anche il concetto di ‘associazione’ caro alla tradizione lasalliana ma non per questo irreformabile - può e deve transculturarsi nelle nuove condizioni dell’impegno educativo laicale. In tal senso le prospettive d’avvenire dell’istituzione lasalliana restano apertissime se lette nella dinamica creativa del vangelo anziché nel segno di una pretesa fedeltà a uno statuto canonico ideato in un contesto per noi tramontato.

515 José María Valladolid Juan Bautista de La Salle, catequista. Una tesis doctoral Presentazione di una voluminosa ricerca bibliografica, tesa a provare la piena legittimità della qualifica non solo di catechista ma anche di catecheta, attribuibile al La Salle, peraltro già universalmente noto per i suoi eminenti meriti pedagogici. L’indagine procede per approcci complementari sulla vita e le innovazioni educative del La Salle, sulla documentazione relativa al suo insegnamento, sulla rilevanza specifica dei suoi scritti catechistici.


521 Marco Paolantonio Roberto Candido Sitia, FSC (1922-2002). Scienze matematiche e umanesimo integrale Profilo umano, intellettuale e professionale di un Lasalliano di frontiera. Una vocazione riuscita nell’impegno diuturno e trainante in mezzo ai giovani, nel rigore esigente della ricerca e della divulgazione scientifica, nell’investimento innovativo nel campo della didattica matematica. Una professionalità declinata in competenze scientifiche ma sempre in dialogo anche con la cultura umanistica e teologica del tempo.

539 Jeffrey Gros The Challenge of the Lasallian Catechist in the late 20th Century United States: one Lasallian Journey Su invito della direzione della Rivista, l’A. offre una testimonianza ampiamente documentata della sua attività come esponente della teologia ecumenica americana nel periodo postconciliare, in particolare come saggista, come formatore del laicato adulto e del clero, come docente e animatore dentro e fuori l’ambito delle istituzioni lasalliane. Responsabile del Segretariato per gli affari ecumenici e interreligiosi presso la Conferenza dei Vescovi Usa, si è adoperato e si adopera per una coerente e coraggiosa applicazione degli orientamenti del Vaticano II relativi al dialogo tra le chiese, alla teologia delle religioni, alla pedagogia dell’interreligiosità.

559 José María Valladolid Retazos lasalianos [36-40] Los dos polos de una larga crisis – Las dos palancas en la conversión de Juan Bautista de La Salle - ¿Cuánto tiempo duró el voto heroico de 1691 ? – Para convocar el Capítulo general de 1717, ¿era necesario que alguien recorriera todas las comunidades ? – Relación de La Salle con los párrocos de San Sulpicio.

573 CRONACHE LASALLIANE El Nobel a Vargas Llosa antiguo alumno de La Salle (Álvaro R. Echeverría) Vers un catalogue mondial des manuels scolaires des FSC (Paul Aubin) L’anniversario di due riviste lasalliane : Sussidi (Italia) e Sinite (Spagna) Guillermo Dañino Ribatto, FSC, promotore della cultura cinese in Occidente

BIBLIOTECA 581 Alunni e docenti tra scuola e vita (rassegna a cura di F. Pistoia) 589 Recensioni e segnalazioni M. Chiarapini 589 – P. Bianchini 590 – M. Gecchele e P. Dal Toso 591 - G. Codrignani 591 – V. Pieroni e A. S. Fermino 592 – M. Giorda e A. Saggioro 593 – R. Alessandrini 594.

595 Riceviamo e segnaliamo


Hanno collaborato a questo numero: Paul Aubin, FSC, ricercatore presso la Biblioteca dell’Università di Laval, Québec Ernesto Borghi, docente universitario in materie bibliche a Lugano, Trento, Torino Mario Ferrari, professore emerito di Matematica, Università di Pavia Jeffrey Gros, FSC, teologo ecumenista, Seminario Teologico di Memphis, Usa Herman Lombaerts, FSC, già docente di Antropologia, Università Catt. di Lovanio Anna Lucchiari, scrittrice, Roma Marco Paolantonio, FSC, docente di materie letterarie e dirigente scolastico, Torino Nicolò Pisanu, preside dell’Istituto universitario Progetto Uomo, Vitorchiano VT Francesco Pistoia, dirigente scolastico, saggista, Cosenza Bernard Pitaud, PSS, storico, Provinciale della Compagnia di S. Sulpizio, Parigi Francesco Trisoglio, FSC, docente em. di Storia e Letteratura Patristica, Torino José María Valladolid, FSC, ricercatore e saggista in Studi lasalliani, Madrid


RivLas 78 (2011) 3, 395-410

La catechesi nei Padri della Chiesa / 14

La catechesi liturgica: il De ecclesiasticis officiis di Isidoro di Siviglia FRANCESCO TRISOGLIO

I

sidoro fu la figura più illustre del cristianesimo iberico durante il primo millennio: Dante lo pose nel quinto cielo, sede degli spiriti sapienti, dove vide “fiammeggiare l’ardente spiro / di Isidoro” (Par. X,130-131); Elipando, arcivescovo di Toledo nell’VIII secolo, lo celebrò liricamente come iubar (splendore) Ecclesiae, sidus Hesperiae, doctor Hispaniae.

1. La persona e gli scritti Nacque verso il 560 a Siviglia, ultimo di quattro fratelli tutti proclamati santi. Il maggiore di essi, Leandro, fu da Papa Pelagio II inviato, con un incarico diplomatico, a Costantinopoli, dove conobbe il futuro Gregorio Magno, che vi si trovava ugualmente in missione di rappresentanza (579-585). Tornato a Siviglia, Leandro si adoperò per la conversione, dall’arianesimo visigotico al cattolicesimo, del re Recaredo (587). Alla sua morte (600-601), a sostituirlo fu eletto vescovo della città Isidoro, che resse la Chiesa, quale metropolita della Betica, fino alla morte, avvenuta il 4 aprile 636. Nel 633 aveva presieduto il quarto concilio nazionale di Toledo, nel quale fu redatto un simbolo di fede che espone la teologia trinitaria e cristologica di Isidoro, eccellente per la sua sicurezza, per cui fu ripreso per un lungo periodo anche da altri concili. Isidoro non fu né un valente scrittore, né un profondo filosofo, né un teologo originale; fu il provvidenziale maestro del suo secolo e di parecchi altri successivi; si era reso conto della povertà culturale delle nuove popolazioni barbariche che avevano occupato l’Europa, ignoranti ma desiderose di apprendere, e si assegnò l’urgente missione di trasferire la cultura classica alla nuova età; curò pertanto di ricuperare


396

Francesco Trisoglio

l’antico impedendone la dispersione e di fecondare il moderno fornendogli gli strumenti necessari. Così avviò a quella rinascita carolingia che avrebbe avuto in Alcuino il suo vigoroso animatore. Scrisse, in base alle esigenze del momento, essenzialmente dei prontuari, nei quali però non difettavano bagliori di una vivida intelligenza anche speculativa. Fu il benemerito traghettatore dalla classicità al Medio Evo; impedì che l’una morisse e propiziò la nascita dell’altro. Assai varia fu la sua offerta culturale. Come scrittore: - nel campo della teologia dogmatica compose Sententiarum libri tres, norme di morale pratica, largamente detratte da Agostino e soprattutto da Gregorio Magno, che diedero l’avvio alla copiosa e variegata serie delle Summae teologiche medioevali. Quest’opera costituisce il suo capolavoro letterario, per organicità di struttura, sicura scioltezza di stile, ricchezza di illuminanti direttive psicologicomorali, inaugurazione di un prospetto sistematico dei doveri delle autorità sia civili che ecclesiastiche; - in ascetica scrisse Synonymorum libri duo sulla penitenza; - nelle scienze profane ci lasciò Differentiarum libri duo, dei quali il primo elenca una copiosissima serie di sinonimi ed il secondo presenta concetti di teologia dogmatica e morale. Il De natura rerum è un compendio di questioni cronologiche, meteorologiche, astronomiche, geologiche, cosmologiche, sismologiche; - in storiografia compose una Chronica maior, dove, seguendo tracce precedenti, percorre il succedersi degli eventi dall’inizio del mondo fino al 615; una Historia Gothorum, alla quale si connette un’appendice sui Vandali e sugli Svevi, ed un De viris illustribus, che continua i noti modelli di Girolamo e di Gennadio. Però l’opera di gran lunga più celebre, che lo qualifica tanto nell’ambito degli specialisti quanto in quello della media erudizione, è costituita dalle Etymologiae, dette anche Origines, in 20 libri, ampia raccolta di nozioni sui temi più vari, unificata dalla tecnica di fondare la conoscenza delle idee e delle cose sulle etimologie delle rispettive denominazioni, ovviamente spiegate in base all’elementarità delle competenze glottologiche e delle metodologie critiche correnti al suo tempo. Isidoro offerse un po’ di tutto, perché di un po’ di tutto c’è bisogno per vivere. Era un rifornimento attinto dalla romanità e messo a disposizione dei barbari, perché i barbari in terra romana erano ormai arrivati e vi si erano stabiliti; avevano scoperto che, al di là delle loro rudimentali tradizioni, si apriva un’area di splendida attrattiva, della quale avvertivano il fascino, nel desiderio di parteciparvi. La situazione socio-politica si era ormai consolidata; nessuna delle due etnie pensava di potere espellere l’altra; non rimaneva che accettarsi e collaborare. Isidoro ebbe la lucida intelligenza di capirlo e la nobile magnanimità di catalizzare il processo. All’incontro aperse tutti i sentieri; ma, come uomo e come vescovo, capì che a fondere le razze giova certo l’assimilazione dei costumi e delle istituzioni, ma che agiscono più in profondità i sentimenti, ai quali ha accesso soprattutto la religione; essa, da iniziale barriera divisiva, era ormai diventata ponte di transito, da quando l’in-


La catechesi liturgica: il De ecclesiasticis officiis di Isidoro di Siviglia

397

gresso dei due popoli nell’unica catechesi aveva contribuito a sopire rivalità ed antipatie accomunando le due parti nell’unica Chiesa nella condivisione dei medesimi riti. In conseguenza Isidoro spiegò a tutti, oltre alla fede della Chiesa, anche la sua struttura. Il comprendere il ruolo e la missione dei ministri ed il significato delle cerimonie era un importante coefficiente di intesa; agevolava il cogliere con chiarezza il valore dei dogmi. In mezzo alle altre trattazioni di divulgazione culturale, Isidoro non credette quindi di poter trascurare una puntuale illuminazione liturgica. Quei personaggi che si muovevano nel presbiterio potevano sembrare esotici e quei gesti potevano apparire ermetici; dovevano pertanto venire spiegati e rivitalizzati per conferire accettabilità al loro messaggio, che aveva l’urgenza estrema di una salvezza eterna. Perciò Isidoro si accinse al De ecclesiasticis officiis. Si proponeva di impartire un insegnamento elementare nell’impianto didattico, ma preciso per i valori ai quali apriva l’accesso; non era la verità nella sua completezza sistematica, erano percorsi che le agevolavano l’arrivo.

2. Il De ecclesiasticis officiis Chi lo legge1 non incontra un trattato; non riceve una catechesi nel suo impianto tradizionale; si trova come issato su una specola, sulla quale contempla dall’alto un’ampia area, a confini ben delimitati, disseminata di cippi,2 omogenei nella materia ma distinti nella forma, sopra i quali è stata impressa una sigla a doppia valenza: origine e funzione.3 Gesti, pratiche, attori sono oggetti autonomi, considerati ciascuno per sé; quando vengono designati dei rapporti, questi non valgono tanto come relazioni quanto come motivazioni dell’esistenza di quell’ente dal quale partono. Questa prospezione dall’alto facilita una sensazione di isolamento; la comune qualifica di ‘ecclesiastico’ crea bensì un’atmosfera di unitarietà che sventa il frammentarismo, lascia però

Testo in CCL 113 ed. Chr. Lawson, il quale ne colloca la composizione tra il 598 ed il 615 (pp. 13*14*). Siglario: CCL: Corpus christianorum, series latina - CSEL: Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum - CUF: Collection des Universités de France - DThC: Dictionnaire de Théologie catholique - PL: Patrologia latina di Migne - REL: Revue des Études latines - SC: Sources chrétiennes 2 La disseminazione non implica disordine di collocazione; Isidoro aveva uno spiccato senso dell’architettura compositiva, che gli tornava opportuna, non solo per un’esigenza estetica di euritmia, ma soprattutto per l’interna interconnessione delle funzioni. 3 W. Nagel, Geschichte des christlichen Gottesdienstes, Sammlung Göschen, Bd 1202-1202A, W. de Gruyter, Berlin 1962, dichiara che al De eccl. off. di Isidoro siamo debitori di preziose notizie. Esso appartiene al periodo nel quale la Chiesa ispanica, dopo la vittoria sull’arianesimo visigotico, raggiunge la sua piena fioritura. Al suo consolidamento contribuì la nuova sistemazione rituale della Messa, impostata nel IV sinodo di Toledo, del 633, nel quale Isidoro ebbe una parte preminente. 1


398

Francesco Trisoglio

all’unione il carattere del servizio personale; non scende ad un’anima che a questi gesti infonda un palpito di vita. Ne risulta un meccanismo perfettamente congegnato, che permette la decorosa esecuzione della cerimonia senza però stimolare nello spettatore un’emozione che lo attiri a parteciparvi. La funzione ridotta a servizio immediato nello sviluppo del rito ristagnerebbe alla superficie, ingenerando un sentore di esterno, se mancasse la profondità della dimensione storica, che, con la sua fuga a ritroso nella ricerca dell’origine, apre spazi cronologici ricchi di suggestione. Dietro a quel ministero si delineano figure; ci sono azioni che motivano una vita; emergono investiture divine ed esigenze umane che fissano una vocazione. Quel portare in scena personaggi biblici, che erano diventati domestici per la frequenza della loro riproposizione nell’abitualità delle letture liturgiche, ma che apparivano sacrali per la loro dimestichezza con Dio, evocava sfondi stimolanti dietro alla modesta elementarità di incombenze che avevano il grigiore della quotidianità. Isidoro, che ha raramente avvertito il pathos delle cerimonie affidate al presente, ha invece percepito il richiamo misterioso della lontananza nel tempo; la funzione, arrivata burocratica, era partita nell’emozione di una designazione nella quale, a varia immediatezza, si vedeva, o si intravedeva, l’iniziativa di Dio.

3. L’origine Isidoro si inserisce nella sensazione, presente ed operante in molte tradizioni religiose antiche, di una ‘sacralità dell’origine’ dovuta all’immediatezza del progetto operativo divino, dal quale il processo storico di allontanamento non poteva che comportare un progressivo scadimento.4 Ovviamente in Isidoro non c’era un pessimismo prodotto da un deterioramento insito nel tempo; l’Incarnazione elevava totalmente al di sopra di ogni inevitabilità degenerativa. Depurò ogni fatalismo, ma conservò l’impressione di una genuinità iniziale poi esposta, lungo il deflusso delle età, a qualche inquinamento: le acque di tutti i fiumi, seppure in varia maniera, si impregnano dei sali dei terreni per i quali transitano. La risalita al principio fu per Isidoro un’esigenza intima che divenne prevalente; prima la seguì, poi vi si dedicò, impegnandovi l’ultima parte della sua vita e la vita concluse lavorando al compimento di quelle Etimologie che furono poi definitivamente completate dall’amico Braulione di Saragozza. L’aggancio all’origine era tutela da contaminazioni, quindi autenticazione; Isidoro nel De eccl. off. vi si sentì obbligato per tutte le istituzioni; gli sembrò che, in sua

4 È l’impostazione d’analisi proposta da Mircea Eliade, secondo il quale le religioni tendono a riprodurre l’archetipo divino per neutralizzare l’azione peggiorativa del tempo. Cfr. Aspects du Mythe 1963; Le sacré et le profane 1965.


La catechesi liturgica: il De ecclesiasticis officiis di Isidoro di Siviglia

399

assenza, esse mancassero di autorevolezza e di valore. Subito all’inizio di questo trattato annota che ad Antiochia i seguaci di Cristo cominciarono ad essere definiti cristiani; era cosa ovvia, ma, nella naturalezza della notizia, Isidoro imbastisce un aperto plauso (I,1,1 p.4). Il collegamento, che talora potrebbe apparire pretestuoso, supera la pura informazione per farsi messaggio; per quanto concerne il Tempio, Isidoro rammenta che Davide ne edificò uno ed un altro Salomone, mentre il cristianesimo ha consacrato sacrari in tutto il mondo (I,2,5 p.5): da una debolezza esangue si passa ad una vigoria conquistatrice.

4. L’origine delle istituzioni Ricordando che i cantici inseriti nella liturgia furono inaugurati da Mosè dopo la vittoria sugli Egiziani, Isidoro suggerisce con quale spirito essi vadano eseguiti in chiesa; la loro esecuzione, soggetta a scadere ad adempimento di una rubrica, si anima di un fervore che ha una risonanza trionfale.5 E, al di sopra dei cantici, c’è “lo scrigno dei salmi”, che, introdotti da Mosè e sublimati da Davide, per la Chiesa costituiscono un “grande mistero”. Nella dolcezza della loro melodia Isidoro non scorge i valori estetici né gli effetti spettacolari delle loro esecuzioni corali, ma solo l’avvio alla compunzione del cuore (I,5,1 p.6). Nell’intreccio tra letture bibliche e preghiera egli sottolinea il vicendevole effetto di arricchimento: “La preghiera diventa più feconda, quando la mente, riccamente nutrita dalla recente lettura, corre attraverso alle rappresentazioni, che ha poco prima ascoltate” (I,10,3 p.9,15-17): in tranquilla pacatezza d’accento, l’esortazione assume il tono della spiegazione. Il collegamento con l’Antico Testamento non gli appare una sovrapposizione erudita, con la gratuità di un ornamento, gli risulta invece la continuità di un flusso ideale: La legge antica è come la radice; questa nuova è come il frutto della radice” (I,11,2 p.9,9-10). Era una continuità che era però anche una salita; cambiava di piano: “A quelli che operavano nell’antica legge si promettevano i beni della terra, qui invece, a quelli che vivono sotto la grazia, alla fede si assegna il regno dei cieli” (I,11,3 p.10,16-17). Isidoro non discute dogmi, presenta realtà; è un susseguirsi di nozioni delle quali non dà motivi; i fondamenti li presuppone. Se l’Antico Testamento non si elevava all’altezza del Nuovo, non era però destituito di dignità; parlando delle ‘lodi’ dell’ufficiatura liturgica, rileva che alleluia ed amen non vengono tradotti dall’ebraico, non perché non sia possibile, ma per conservare “la loro sacra

5 F. Cabrol, Liturgie, in DThC IX,1 (1926) afferma che la liturgia cristiana prese elementi dalla religione di Mosè, dal servizio della sinagoga e del Tempio; i salmi ed i cantici dell’Antico Testamento costituirono l’essenza stessa della preghiera cristiana (col. 790); tuttavia la liturgia cristiana ebbe un accentuato carattere di originalità con cantici ed inni proprii (col. 791). Prima del IV secolo ci fu una grande varietà liturgica; nella forma di preghiera era il periodo dell’improvvisazione; dal IV all’VIII si accentuarono le differenze, secondo le situazioni ecclesiastiche (col. 794).


400

Francesco Trisoglio

autorità” (I,13,2 p.15); dal canto dell’alleluia emana infatti “una speranza futura” (I,13,4 p.16). Dai valori generali si passa alle singole feste liturgiche che li incarnano: • Del Natale Isidoro manifesta la sublimità mostrandone l’essenza: nell’Incarnazione Cristo “assunse l’umanità ma non perdette la divinità; così la medesima persona era Dio ed era uomo; nella natura divina era uguale al Padre, nella natura umana si è fatto mortale in noi, per noi, attingendo da noi; rimase ciò che era ed assunse ciò che non era per liberare ciò che aveva fatto” (I,26,1-2 pp.29-30). Ha l’incisività d’un’epigrafe scolpita al di fuori del tempo; spira un’assolutezza che sa di eterno; quella scarna essenzialità è assolutezza; quelle parole nude emanano il senso di epicità propria degli eventi supremi. Isidoro non li dimostra, perché hanno una maestà che si documenta nell’atto stesso di presentarsi.6 Le feste fondano la loro solennità sulla suggestione che promanano. • Nel giorno delle palme (I,28,1 p.31,6-9) quei rami diventano l’emblema della vittoria con cui il Signore avrebbe vinto la morte e della croce con la quale egli avrebbe trionfato sul diavolo. Dall’anniversario degli eventi trae spunti di precisazione dogmatica: la parasceve, giorno della crocifissione, lo induce ad ammonire, a scanso di confusioni generatrici di smarrimenti, che “la sostanza della divinità non subì l’oltraggio della croce; lo subì invece la natura umana che Cristo aveva assunta” (I,30,2 p.33,10-12); sembra che questa sia una sua osservazione personale, indipendente da fonti, decorosa tanto nella sua verità teologica quanto nella pacatezza della sua espressione. • Il Sabato santo, nel quale il Signore riposò nel sepolcro (ed in ebraico ‘sabato’ indica il riposo), intervallo tra la morte e la risurrezione, gli suggerisce il riposo dell’anima da ogni sofferenza dopo la morte, grazie a quella risurrezione che Cristo ci ha destinata con la sua (I,31 p.35). • L’Ascensione gli offre l’opportunità, sull’autorità di S. Agostino, sua perenne guida e fonte, di rammentare che la carne umana assunta è stata collocata alla destra del Padre; ma quella carne di Cristo era carne umana; Cristo le diede l’immortalità senza mutarne la natura (I,33 p.38,11-13). • La Pentecoste ad Isidoro sembra che sia stata inaugurata da Mosè sul Sinai e realizzata dallo Spirito santo sugli Apostoli nel cenacolo (I,34 pp.39-40); sono grandi arcate che scandiscono la storia con una grandiosità che diventa ammonimento. Dalle solennità liturgiche Isidoro passa poi alla serie dei digiuni che talora le preparano e talora se ne autorizzano, in un loro particolare intento formativo: così, il digiuno del ‘settimo mese’, collocato il 24 settembre, nel solstizio d’autunno, quando il giorno diminuisce mentre la notte cresce, induce a pensare che la nostra vita

6

Il passo è comunque tratto da Agostino, Contra Felicem 2,9 CSEL 25 p. 838. Indicaz. Lawson.


La catechesi liturgica: il De ecclesiasticis officiis di Isidoro di Siviglia

401

viene meno all’arrivo della morte ma che viene ricuperata dalla risurrezione. Particolarmente impegnativo è il digiuno delle calende di gennaio, finalizzato ad espiare le aberrazioni pagane, che profanavano con varie degradazioni le feste di capodanno (I,41 pp.46-47), così tenacemente combattute da molti Padri della Chiesa. Se dalla prassi liturgica Isidoro passa alle abitudini sociali, illustra specifici usi domestici: afferma infatti che dalla lavanda dei piedi dell’ultima Cena è sorta la consuetudine di lavare in quel giorno gli altari, le pareti ed i pavimenti delle case (I,29,2 p. 32); comunica che, nel periodo che intercorre tra la Pasqua e la Pentecoste, non si piega più il ginocchio, perché quel gesto ha un significato di penitenza e di tristezza, non adatto al momento (I,34 p.40,40-45). Trova opportuna la collocazione del digiuno quaresimale in contiguità con la domenica di Passione, che simboleggia questa vita faticosa, la quale ha bisogno di temperanza per resistere agli allettamenti del mondo (I,37,2 p.43,14-18).

5. L’origine dei ministri Il piano costruttivo del De ecclesiasticis officiis è strutturato su un dittico, che assegna alla prima facciata le istituzioni ed alla seconda gli operatori che le pongono in atto. Nell’iniziare il libro II dichiara: dopo che abbiamo spiegato le ‘origini’ e le cause degli uffici della Chiesa, tratteremo gli ‘esordi’ dei ministri del culto divino. Il baricentro dell’interesse di Isidoro è inesorabilmente spostato sugli inizi; pensa di poter capire il fiume essenzialmente individuandone le sorgenti e di giudicare l’albero esaminandone le radici. Non soltanto lo fa (praticamente), lo proclama (programmaticamente); dice: veniamo adesso agli ordini dei chierici e mostriamo individualmente la loro origine (II,5,1-2 p.56,6-20): prima di essere la sua consuetudine è il suo metodo. L’aggancio alle origini gli fornisce distinzioni fondamentali: Aronne fu sacerdos (vescovo), i suoi figli presbyteri (sacerdoti), con diversità di vesti che segnalavano distinzioni di compiti e di poteri (II,5,3 p.57,21-30); nel Nuovo Testamento tutto l’ordine sacerdotale si concentra in Pietro, che ricevette il supremo potere di legare e di sciogliere (II,5,5 p.57,39-49); su un parallelismo si innesta una distinzione fondamentale. Da Pietro e dagli Apostoli derivano i vescovi (II,5,6 p.58), che della Chiesa costituiscono il fulcro. Su di essi Isidoro indugia, specificando che ‘episcopato’ è nome di azione e non di onore, in quanto in greco designa chi sopraintende prendendosi cura dei sottoposti (II,5,8 p.59,67-72); della consacrazione mediante imposizione delle mani scorge un augusto precedente in Isacco (II,5,9 p.59,73-84) e nella partecipazione di tutti vescovi della provincia alla consacrazione di un nuovo vescovo vede un prudente accorgimento per evitare l’intrusione di un qualche eretico (II,5,11 p.60,97-102); del pastorale e dell’anello ricorda l’evidente simbolismo (II,5,12 p.60,103-109); denunzia la quantità di elezioni corrotte (II,5,13 p.61,118127). Non parla tanto la teologia quanto l’esperienza; ai suoi contemporanei del-


402

Francesco Trisoglio

l’episcopato vuole presentare soprattutto le grandi linee portanti, che poi sintetizza richiedendo al vescovo la scienza delle Scritture (II,5,16 p.62,159-164) ed un linguaggio semplice e chiaro (II,5,17 p.62,165-170). Sono le attitudini professionali a carattere fondamentalmente tecnico, sulle quali si elevano le grandi doti dello spirito che le animano: “(Il vescovo) spiccherà insieme per umiltà e per autorità: per l’eccessiva umiltà non lasci che si rinforzino i vizi dei sottoposti, ma neppure eserciti il potere con un eccesso di severità autoritaria;7 si comporti con una circospezione tanto maggiore con quelli che gli sono affidati quanto più teme di essere giudicato con maggiore durezza da Cristo” (II,5,17 p.63,176-180). Le varie categorie dei ministri8 sfilano come in una processione ieraticamente solenne nella loro calma; emergono, ritmici, compiti ed azioni, oggetti simbolici ed acconciature, consigli di saggezza e norme protocollari. Particolarmente ricco di un suo insito dinamismo è l’ordine dei diaconi (II,8), i quali, dall’abbozzo mosaico (Num 3,5-26), avanzano alla fondazione apostolica (Atti 6,2-7), resa augusta anche dall’aureola simbolica che evocano i 7 angeli dell’Apocalisse, che, ritti dinanzi a Dio, suonano la loro tromba (Ap 8,2) ed i 7 candelabri d’oro (Ap 1,12); su questo sfondo intensamente allusivo, appare tanto più logico e tanto più sacro il loro incarico di ammonire, con chiara voce, a guisa di araldi, i fedeli a partecipare con fervore alle cerimonie liturgiche ed alle preghiere (II,8,3 p. 67,25-35). Assistono all’altare vestiti di bianco, ad emblema della loro vita celeste, e si accostano candidi alla vittima, mondi nel corpo ed incorrotti nella loro dignità morale (II,8,4 p.68,46-48). Isidoro rappresenta ed insieme trasfigura; la cerimonia, mentre rimane rito, s’illumina di una proposta che si fa esortazione. Isidoro nel gesto ama la voce; oltre ai diaconi, si sofferma quindi ad osservare i lettori (II,11 pp.70-71)9 che “sono quelli che annunciano la parola di Dio”; da loro non

Isidoro, Sentenze III,46,3, dà come regola di comportamento ai vescovi verso i trasgressori: “Nella loro brama di correggerli, i vescovi debbono compiere un’indagine approfondita sui comportamenti dei loro sottoposti, nell’intento di emendarli e quindi di guadagnarseli; però, come è opportuno che il peccatore venga rimproverato, così è giusto che non venga esasperato”. 8 L. Duchesne, Origines du culte chrétien. Étude sur la liturgie avant Charlemagne, Paris 1903, presenta le ordinazioni, citando le formule di consacrazione, secondo il rito gallicano, di ostiari (p. 364), lettori (364-366), accoliti (366-367), suddiaconi (367-368), diaconi (368-370), sacerdoti (370-372), vescovi (372-376). 9 R. Lesage, Lettore, in Dizionario pratico di liturgia romana, diretto da R. Lesage, Studium, Roma 1956, pp. 225-226, ne traccia la storia: Tertulliano verso il 300 menzionò i lettori, ma incisioni sepolcrali mostrano che erano anteriori al 200; furono molto numerosi nel secolo IV. Un collegio di lettori fu organizzato molto presto ed aveva a capo un primicerio, che rivestiva una grande importanza nella Chiesa di Roma. I Papi spesso confidavano loro compiti delicati e spesso molti rimasero in quest’ordine per tutta la vita. Nel VII secolo si trasformarono in scholae cantorum, poiché il canto del Vangelo era passato in proprio al diacono e quello dell’ Epistola al suddiacono; praticamente allora i lettori ebbero solo più l’incarico del canto. 7


La catechesi liturgica: il De ecclesiasticis officiis di Isidoro di Siviglia

403

esige cultura, brama piuttosto conoscenza dei significati delle parole, così da far coincidere l’onda vocale con quella concettuale, incisività di pronunzia e sollecito adattamento al diverso pathos dei singoli luoghi, in esplicitazione del loro messaggio (§§ 2-3), esclude però ogni teatralità d’intonazione: vuole che la voce sia chiara, ricca di sapore virile, aliena dalla rozzezza; non sia frammentata ma neppure molle con inflessioni femminee; si eviti ogni atteggiamento melodrammatico; il lettore deve badare alle orecchie ed al cuore non agli occhi; non deve fare del suo pubblico degli spettatori piuttosto che degli ascoltatori (§ 5). Isidoro mira al buono spirito anche attraverso al buon gusto; percepisce che il bello è un provvidenziale alleato del vero.10 Accanto al bello della voce che legge, Isidoro apprezza quello della voce che canta; dopo diaconi e lettori pone quindi i salmisti (II,12 pp.71-72), che, anch’essi in abiti bianchi, cantavano i salmi di Davide o di Asaf, eccitando “le menti degli ascoltatori all’amore di Dio; avevano lo scopo di attirare gli animi con la piacevolezza d’una voce che non doveva essere aspra o rauca o stonata, ma armoniosa e gradevole, fluida, con un suono melodioso consono con la santità della religione; dovevano mostrare, con la stessa intonazione fonica, la semplicità cristiana” (§ 2) L’eruditissimo Isidoro, il re delle schede dotte, non si lasciava inaridire dalla ‘notizia’; al di là della nozione sentiva che all’anima arriva, con una trascinante forza emotiva, anche la musica; anch’essa ha un’efficace forza di rivelazione.11 Ed un’altra più spirituale armonia Isidoro rileva nella santità, che si esplica nella vita cenobitica (II,16,11-16); la osserva in un inno di fervorosa ammirazione, contemplando una comunità ideale: quella del suo progetto, quella dove si fissano gli occhi nella consapevolezza della distanza ma anche nell’aspirazione a camminare in quella direzione.12

10 Accanto alla proposizione dell’ideale, Isidoro non trascura di riferire anche la piccola curiosità di costume:i cantori dei salmi, nel giorno precedente alla loro prestazione, digiunavano; tuttavia, per incrementare la voce, si servivano con assiduità di legumi, per cui i pagani li chiamavano ‘favari’ (mangiatori di fave). Non è un’informazione che costruisca la storia, tuttavia la può spalmare di una simpatica originalità… 11 A proposito dei Salmi, in I,5,2 p. 6, Isidoro osserva che, nella Chiesa primitiva, il canto non era blandimento del gusto, ma stimolo ad un moto di pentimento; infatti il grande valore cristiano è il riscatto dalla colpa, la conversione; il canto vi risultava positivo in quanto “i nostri animi vengono mossi con più vivo ardore alla fiamma della pietà quando si canta che quando non lo si fa”; il canto è applicazione di una reazione psicologica innata: “Tutti i nostri sentimenti infatti, per una loro misteriosa connaturalità, vengono maggiormente eccitati dalla diversità e dalla novità dei suoni, quando si canta con una voce piacevole e ben modulata” (ancora 5,2). Isidoro non approfondisce analisi emotivo-estetiche, si accontenta di rilevare l’effetto, che però coglie con sicurezza. 12 Anche nella relazione sulla comunità monastica femminile (II,18 pp.83-87) ci sono la storia, la motivazione, la norma, la celebrazione ed insieme una presenza critica ammonitrice: “Non serve a nulla essere liberi dalle attività della carne, quando si è legati dalle preoccupazioni mondane” (II,18,11 p.87).


404

Francesco Trisoglio

Isidoro vede, riferisce, spiega, motiva, ammira, esorta: temi diversi in diversa disposizione di spirito, e quindi in diversa intonazione espositiva.

6. Il linguaggio È generalmente caratterizzato da un’asciuttezza che non è il risultato di un’atonia del sentimento; è essenzialità; sono le cose che parlano; Isidoro le vede pacatamente nella loro nudità integrale; evita qualsiasi fronda ornamentale; non inserisce aggettivi coloristici; procede scarno, senza nessuna concessione né alla fantasia né al sentimento; non c’è ombra di enfasi celebrativa. È asciutto ma non è arido, poiché del rigoglio lessicale non sente il bisogno; il respiro alle sue frasi lo danno quelle aperture su lontananze che possiedono la misteriosa attrazione dell’esotico ed insieme la maestà del sacro. La sua pagina è scandita dalla fuga in tempi remoti, che conferiscono alla sua esposizione un sentore di pittoresco; quei personaggi biblici che si affacciano un istante come misteriosi punti di partenza verso il presente reale, suggeriscono un’atmosfera miticamente lontana dalla nostra; quasi più luminescenze che luci. Parallelo allo slontanamento delle istituzioni è quello dei vocaboli che le indicano; in base alla sua ben radicata, e ben motivata, mentalità, Isidoro spiega le cose con l’etimologia delle loro designazioni; così, l’ermetico e sordo vocabolo ‘Chiesa’ s’illumina e si vivifica nella sua interpretazione di “chiamata universale a raccogliersi in unità” (I,1,2 p.4); l’informazione glottologica ne introduce subito una dottrinale; dalla parola passa al fatto; il messaggio però, invece di trasmetterlo egli personalmente, con un inevitabile sospetto di soggettivismo, lo fa emanare dalla cosa stessa. E continua motivando ‘cattolica’ “perché stabilita in tutto il mondo, perché è generale, perché comprende nella sua dottrina le cose visibili ed invisibili, celesti e terrestri, perché guida alla vera fede tanto i grandi quanto i piccoli, o anche perché guarisce tutti i mali del corpo e dell’anima” (I,1,3 p.4). È scarno, ogni parola apre uno spazio; i concetti vengono distinti nella ricchezza delle loro componenti; Isidoro, quasi più che dire, mostra; nutre l’intelligenza con l’evidenza delle sue esposizioni, non di rado, così salde da apparire quasi ovvie, con un conseguente senso di ineluttabilità. La sua è una semplicità che sfida l’intelligenza mentre la alimenta; non indugia, procede. Con il richiamo alle origini i riti acquistano una motivazione; nascono per un naturale adeguamento alle situazioni. Isidoro non s’inoltra in analisi psicologiche; fa un’esposizione che contiene all’interno la sua lezione. E ritorna sempre quell’apertura su uno sfondo remoto; emergono successivi quegli scampoli di una vita storica tuffata in un clima di leggenda. Alita il fascino di un esotico che arriva fino al presente facendosi domestico. Le letture liturgiche che riportano quelle scene vanno ascoltate in un silenzio raccolto, che stringa in “un’unità” tutti i presenti (I,10,8-9 p.9) in modo che ne nasca un’unione di spiriti.


La catechesi liturgica: il De ecclesiasticis officiis di Isidoro di Siviglia

405

La sicurezza delle sue formulazioni non mira tanto a riscaldare il sentimento quanto a chiarire in precisione le idee; non si propone di convertire gli estranei, ma piuttosto di trasferire i fedeli da un’adesione meccanica ad una convinzione saldamente fondata. Quella di Isidoro è una catechesi che guarda più al tema che all’uditore. Spiega i riti dirimendone anche le contestazioni che investono più la curiosità civettuola che non la drammaticità della coscienza: “Perché gli Apostoli fecero la comunione senza essere digiuni?” E motiva: essi dovevano prima mangiare la Pasqua rituale antica per poi passare a quella vera; ora si digiuna per rispetto al Corpo di Cristo, che deve essere assunto prima degli altri cibi (I,18,2-3 p.20). E perché alla domenica preghiamo stando in piedi? Perché di domenica Cristo risorse e noi, stando in piedi, alludiamo alla nostra risurrezione (I,24,2 p.27). Il testo di Isidoro è una rete di citazioni agostiniane; Isidoro non ha preoccupazioni di originalità; presenta al suo pubblico quello che egli crede che gli possa giovare; attinge dove trova; traendo da Agostino si assicurava autenticità di dottrina ed acutezza di penetrazione. Se non aveva il pregio della novità culturale, aveva però il merito di aver cercato e di aver trovato. La sua è una dignitosa catechesi a tessitura centonica; è un mosaico abilmente connesso di molti tasselli, soprattutto agostiniani e gregoriani con insieme altri che fanno da contorno; ma la struttura è sua, è suo lo spirito animatore ed è suo l’impianto concettuale nel quale i ritagli altrui sono inseriti. È pacato nei traslati, anche se non disdegna i tradizionali simbolismi numerici (I,37,3-4 p.43,19-39); nella tonsura clericale, connessa con la pratica dei Nazarei (II,4,1 p.55,2-6), egli interpreta un tagliare i vizi ed uno spogliarsi delle cose terrestri in un rinnovamento del pensiero (II,4,3 pp.55,17-24). Isidoro si avvia alla conclusione del suo trattato ponendo il ‘simbolo’, vocabolo in cui egli scorge un richiamo all’unità dei fedeli, un segno dell’adesione al magistero degli Apostoli e ‘la parola d’ordine’ che, secondo l’uso militare, distingue l’amico dal nemico (II,23,3 p. 98). Riporta poi la regula fidei, cioè il simbolo apostolico, che egli esplicita nelle singole verità: è un’eccellente lezione di teologia, scandita in completezza e densità di sostanza, in limpidissima chiarezza ed in incisività di stile epigrafico (II,24 pp.99-102). Il passo costituisce un’opportuna indicazione della caratteristica di tutto il trattato, che ha una fisionomia di asciuttezza operativa, estraneità al sentimento ed alla fantasia, dottrina nella sua nuda consistenza. Nel De ecclesiasticis officiis Isidoro pone davanti allo sguardo ‘come stanno le cose’.

7. I predecessori Nello sviluppo cronologico della catechesi liturgica Isidoro si colloca in uno stadio ormai notevolmente avanzato. Data l’importanza vitale della prassi liturgica nella comunità cristiana, che si radicava nel battesimo e nella Eucaristia e viveva nella preghiera, era naturale che sorgesse presto un filone normativo, destinato ad un’evo-


406

Francesco Trisoglio

luzione suggerita dall’esperienza nel succedersi delle generazioni. L’ordinamento più antico è contenuto nella Didachè o Dottrina dei dodici Apostoli (ediz. SC 248), che è suddivisa in quattro sezioni: insegnamento morale (§§ 16), insegnamento liturgico (7-10), ordinamento della comunità (11-15), insegnamento escatologico (16). La prima parte, con la dottrina delle due vie (1-6), illustra la vita virtuosa e quella peccaminosa; la seconda spiega il battesimo, nell’esecuzione del rito mediante l’acqua e la formula (7,1-4) e nell’accompagnamento della preghiera (recita del Pater tre volte al giorno) e del digiuno (8,1-3); presenta poi il banchetto, probabilmente eucaristico (9,1-5), con un ringraziamento a Dio per i suoi doni (10,1-7). La terza parte, di carattere disciplinare, tratta dei predicatori della fede (maestri, apostoli, profeti) e dei criteri per distinguere quelli autentici da quelli falsi (11), delle norme per accogliere estranei che vogliono entrare nella comunità (12), del salario da versare a profeti e dottori (13), della riconciliazione necessaria per la sinassi domenicale (14), dell’elezione di vescovi e diaconi (15). La quarta sezione concerne l’attesa escatologica, con l’invito a vegliare e ad essere sempre pronti (16). È un abbozzo normativo redatto in un’estrema schematicità; formalmente arido; nella sua arcaicità possiede però l’intimo palpito proprio di tutte le partenze. La Traditio apostolica è la fonte più importante sull’ordinamento della Chiesa antica e dubbiosa ne è l’attribuzione ad Ippolito di Roma; la sua composizione pare risalire alla fine del II secolo e lascia ancora molti interrogativi irrisolti.13 Nei suoi 43 §§ contiene un materiale assai disparato: preghiere per la consacrazione di vescovi (3), presbiteri (7), diaconi (8) e per la benedizione di derrate (5-6); disposizioni sul catecumenato e sul battesimo (15-21), sulla distribuzione della comunione (22), sul digiuno (23), sul servizio ai malati (24), sulla benedizione delle lucerne (25)... È stata molto citata nei testi del Vaticano II (cfr. B. Steiner, Diz. Döpp -Geerlings pp.837-840). Le Costituzioni apostoliche forniscono il primo ampio ordinamento disciplinare della Chiesa antica. Comprendono 8 libri: 1-6 sono una versione accresciuta della Didascalia; 7,1-32 è un ampliamento della Didachè; 8 è basato sulla Traditio apostolica; l’opera si conclude con 85 canoni apostolici. B. Steiner (s.v. op.cit. a p.233) pensa che siano state redatte in Siria, forse ad Antiochia, tra il 375 ed il 400. M. Metzger (SC 320 p. 57) fissa il 380, in concomitanza con il concilio di Costantinopoli (ediz. M. Metzger SC 320, libri I-II; 329 libri III-VI; 336 libri VII-VIII).14 Furo-

H. Schmidt, Introductio in liturgiam occidentalem, Herder, Roma 1960, della Traditio apostolica di Ippolito, che egli colloca all’inizio del III secolo, dichiara che è un documento della massima importanza, non soltanto per la sua venerabile antichità, ma perché contiene ormai tutti gli elementi essenziali dell’iniziazione cristiana. Siccome non ci sono ancora gli ornamenti posteriori, la sua struttura, sobria e chiara, conduce di per se stessa la gente al nucleo del mistero (p. 230). 14 J. M.Hanssens, La liturgie d’Hippolyte. Les documents. Son titulaire. Ses origines et son caractère, Orientalia Christiana Analecta 155, Roma 1965, quanto alle Costituzioni apostoliche, tende a considerarle alquanto più tarde della data comunemente accolta degli anni 380-400 (p. 52). 13


La catechesi liturgica: il De ecclesiasticis officiis di Isidoro di Siviglia

407

no diffuse sotto il nome di Clemente, successore di san Pietro a Roma. Per Metzger rappresentano l’apogeo dell’antica letteratura canonica (I p.39) e pseudepigrafica (p 49). La tematica è variamente sparpagliata ed in connessione lo sono gli ammonimenti di sapienza; ad esempio: “Donne, con il vostro pudore e la vostra mitezza mostrate la vostra religione a tutte le donne e gli uomini che ci sono estranei, per indurli alla conversione ed alla fede” (I,10,3). Il libro II illustra i vescovi, presbiteri e diaconi nei loro doveri e nelle loro dignità. In larga parte è un trattato di morale pratica; occupano uno spazio assai maggiore i problemi di comportamento che non i diritti ed i doveri dei singoli dignitari ecclesiastici; talora appare come un prontuario di cortesia sociale, un galateo sulle relazioni comunitarie (§ 58). Il libro III tratta delle vedove in quanto singole persone ed in quanto partecipi di un ordine ecclesiale, al quale erano ammesse ad opera del vescovo e nel quale dovevano bandire ogni gelosia (“Quando una vedova riceve da qualcuno abiti, denaro, cibo, le altre, vedendo la loro sorella riconfortata, debbono benedire il Signore”, § 12). Il libro IV discute sugli orfani; il V sui martiri e sul dovere di accogliere i perseguitati per il nome di Cristo che fuggono di città in città (§ 3); il VI sugli scismi, che sono un separarsi, non dagli empi, ma dai santi (§ 4); il VII sulla condotta personale (le due vie) e sul ringraziamento dopo la comunione, per il quale offre formule (§§ 25-26), come le offre su temi diversi (§§ 33-49); l’VIII sui carismi, le ordinazioni, i canoni ecclesiastici. È un prontuario di formule di preghiera preconfezionate per le situazioni più varie.15 È una congerie di materiale difforme, messo insieme alla rinfusa, fors’anche alla mercé di stimoli occasionali; sa di una baraonda priva di qualsiasi struttura e piano compositivo. Isidoro, con la sua lucida organizzazione, metodica, anche se talora un po’ monotona, gli è lontanissimo; guida per una via ben tracciata il lettore, che nelle Costituzioni apostoliche è trascinato alla deriva. La Peregrinatio Aetheriae è il resoconto di un viaggio che l’autrice, nobildonna dell’Aquitania o della Galizia, animata da una profonda convinzione religiosa, fece negli anni 381-384, percorrendo i Luoghi santi da Costantinopoli a Gerusalemme, alla Galilea, all’Egitto, al Sinai, ad Edessa e ad Harran (ediz. in Itinera Hierosolymitana saec. IV-VIII, CSEL 39 pp.35-101). Oltre a possedere anche una certa sensibilità paesistica, Eteria vivifica i luoghi facendovi emergere gli eventi biblici connessi. Descrive la Messa all’Anastasis di Gerusalemme con la sfilata del clero e dei monaci, le preghiere e la benedizione del vescovo (cap.24 § 1) ed il canto di inni e di salmi per tutta la notte; al sorgere dell’alba incominciano i salmi mattutini (§ 2); all’ora decima tutta la gente si raccoglie all’Anastasis con vescovo e clero al canto di inni (§ 4); questa procedura si ripete per sei giorni (§ 7), nel settimo si raccoglie

A. Hamman, Du symbole de la foi à l’anaphore eucharistique, in Festschrift J. Quasten, Münster Westf. 1970, vol.II pp.835-843, segnala che nelle Costituzioni apostoliche è particolarmente sensibile l’influsso della liturgia e della letteratura giudaica, e che il libro VIII ci dà il più antico formulario della celebrazione eucaristica detta clementina (p. 840). 15


408

Francesco Trisoglio

tutta la moltitudine per la Pasqua (§ 8). Il cap. 25 narra che al sorgere del giorno ci si raccoglie nella Chiesa costruita da Costantino sul Golgota per una monotona serie di cerimonie; il 26 riferisce sulla celebrazione dell’Epifania. L’interesse dell’autrice è limitato alla monotona relazione sulla cerimonia liturgica, senza mai elevare lo sguardo ad orizzonti più ampi. Va però tenuto conto che il testo, interrotto, non ci riporta la conclusione, che avrebbe anche potuto porgere una sintesi più mossa e più viva. Subito a ridosso nel tempo (388 o 389) ma lontanissimo nella impostazione e nello spirito è il De officiis di S. Ambrogio.16 Diverso da Eteria, è ugualmente diverso da quello che sarebbe stato il criterio di Isidoro. Ambrogio non s’interessa delle singole strutture giuridiche, non si occupa della loro storia; è tutto proteso allo spirito che le deve pervadere nella loro totalità indifferenziata. Da I,24,111 a 50,246 si stende un immenso sviluppo generale sui doveri dei chierici, concludendo: “Se dal Vangelo del Signore il popolo stesso è stato formato al disprezzo delle ricchezze, quanto più bisogna che voi, leviti, non siate legati dalle cupidigie terrestri” (50,246).17 In II,6,22-29,148 abbiamo un’amplissima trattazione di filosofia morale appoggiata sulla Bibbia. Anche in III,2,13-4,28 la prima tesi, che non si potrebbe esitare tra il bello e l’utile, è una lezione di filosofia morale; come lo è la seconda, che si deve cercare solo il bello, 5,29-22,139; il tono qui è generale senza nessun riferimento specifico al clero.

8. I successori C. Vogel18 trova che i secoli VI-VII siano stati un’epoca di revisione piuttosto che di produzione originale; la vera impresa di reincrementare il patrimonio liturgico nazionale incomincia solo dopo la morte di Isidoro con i tre grandi vescovi di Tole-

Ediz. in CUF di M. Testard, il quale avverte che Ambrogio pensò di ispirarsi al De officiis di Cicerone solo in epoca relativamente tarda, perché ciò avvenne solo al momento di scrivere il suo trattato, nel quale ci sono anche elementi anteriori non ciceroniani, provenienti da fonti greche, quali Didimo ed Origene (pp.22-26). Ambrogio si dirige ai chierici, ma inserisce anche considerazioni generali (pp.26-28). - H. Savon, Pourquoi saint Ambroise a-t-il écrit le De officiis? Intentions et structure, in REL 85 (2007), pp.192-203, sostiene che il titolo è fonte di confusione, in quanto ci si immagina che Ambrogio abbia voluto imitare Cicerone, mentre l’esame dell’introduzione e delle definizioni obbliga a pensare che egli abbia giudicato sorpassato il De officiis di Cicerone. Il parallelo che Ambrogio stabilisce mira a sottolineare il contrasto tra i principi dell’etica pagana e quelli della morale evangelica. 17 Non isola però il clero dalla gente comune: in I,17,65 - 20,88, parlando della modestia, si rivolge a chiunque; in 18,73-75 presenta il galateo nella maniera di camminare. Ancora a tutti è diretta la trattazione sulla collera (21,90-97) ed altrettanto quella sul conveniente (22,98-24,114). 18 C.Vogel, Introduction aux sources de l’histoire du culte chrétien du Moyen Âge, riediz. anastatica, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1975. Epoca della improvvisazione creatrice orale e scritta dalle origini a Gregorio I (590-604): Spagna, pp. 26-27. 16


La catechesi liturgica: il De ecclesiasticis officiis di Isidoro di Siviglia

409

do, Eugenio († 657), Ildefonso († 667), che compose il formulario della Messa, e Giuliano († 690). - Tra le opere dubbie di Beda (672/673-735) si trova un trattatello sulla domenica (PL 94,531-540) di settuagesima, sessagesima, quinquagesima, quadragesima, sulla loro ufficiatura liturgica e sulla loro istituzione da parte dei Papi (coll. 532534); poi sul digiuno quaresimale e sul valore simbolico del numero 40, emblema della vita (534-535), sulla Pasqua, gli Azzimi e le Litanie (535-537), sulla Pentecoste e sul suo digiuno (537-538), sul digiuno delle Quattro tempora, cioè delle quattro stagioni (538-539) e sulle calende di gennaio con le loro strenae diaboliche (538-540). È tutto centrato sulle feste e sui digiuni, in schematica aridità di notizie. - Nell’Epistola 12 dello Pseudo-Girolamo (PL 30,148-162) l’autore, forse dell’VIII secolo, attinge da Isidoro. Enuncia, in un linguaggio burocraticamente cerimonioso, consigli ovvi e generici (coll.148-150). In un tono fortemente imbibito di una spiritualità predicatoria, elenca i vari gradi della gerarchia ecclesiastica: i fossori, che seppellivano i morti, gli ostiari, i lettori, i suddiaconi, i diaconi, “che sono l’altare di Cristo, sul quale si compiono i sacramenti” (col.153): li celebra con una verbosità sonante che straripa nella superficialità. Vengono poi i presbiteri ed il vescovo, che l’autore assimila a Cristo (col.162). - Chr. Lawson19 ricorda (p.303) che Rabano Mauro nel suo De institutione clericorum, dell’819, usò il De officiis di Isidoro. - I. Beleth20 al capitolo 18 b, p.40 cita la definizione di officium che Isidoro diede in Etym. VI,19,1 e procede nella successione dei 165 §§ tenendosi sul tipo dell’interpretazione di Isidoro.21 Al centro tra predecessori e successori, Isidoro acquista un vigoroso rilievo; non si tratta infatti soltanto di una centralità cronologica, ma da una preminenza nel valore della sua prestazione. Gli altri all’organizzazione ecclesiastica hanno dedicato accenni, l’hanno sfiorata, l’hanno considerata sotto specifiche angolature morali; sono stati frammentari o marginali; hanno in qualche modo giocato di sponda. Isidoro ha invece posto a suo fulcro la struttura operativa ecclesiale in organicità e completezza; con la risalita sistematica alle origini veterotestamentarie apre spaziosi orizzonti, crea un’atmosfera di sacralità, dimostra una consapevole responsabilità compositiva; mette in atto un progetto ben definito.

Chr. Lawson, Notes on the De ecclesiasticis officiis, in Isidoriana. Estudio sobre San Isidro de Sevilla en el XIV centenario de su nacimiento, León 1961, pp. 299-303. 20 I. Beleth, Summa de ecclesiasticis officiis, edita da H. Douteil in CC continuatio mediaevalis 41 e 41A, Turnholti 1976. 21 H. Douteil comunica che sappiamo pochissimo della vita di Beleth, né l’anno della nascita né quello della morte; nacque comunque nella seconda decade del XII secolo e ricevette la sua formazione nel chiostro benedettino di Tiron, nella diocesi di Chartres (p. 29*); il suo influsso fu grande nel secolo XII e XIII (p. 34*). 19


410

Francesco Trisoglio

La schematicità nella trattazione, che si inibisce deviazioni e ristagni, attesta un’austerità di propositi; la sua è un’offerta ufficiale a contemporanei ed a posteri; c’è l’impegno consapevole di una missione. In quella struttura ecclesiale, così accuratamente compaginata, aleggia una sacralità che, se viene da lontano, scende soprattutto dall’alto. Prossimo e ultimo articolo della serie: 15. La catechesi ai vescovi: la Regula pastoralis di san Gregorio Magno


RivLas 78 (2011) 3, 411-417

Adultità, adolescenza e disagio Percorsi psicologici NICOLÒ PISANU

I

l mio intervento vuol tentare, in chiave prevalentemente psico-pedagogica, una ricognizione dietro le linee del binomio “adolescenti-sostanze psicoattive”, che oggi affrontiamo su diversi fronti. Di questo binomio, oggi è forse più facile conoscere e descrivere le “sostanze psicoattive” che non “l’adolescente”. Soprattutto l’adolescente contemporaneo. Proprio perché una definizione dell’adolescenza e dell’adolescente fuori da un contesto culturale specifico rimane sospesa, come una melodia mai trascritta sul pentagramma, la trama del discorso consta nel capire chi è e da dove proviene l’adolescente perso in percorsi di disagio che possono adire condotte tossicomaniache. Come ben sappiamo alla pubertà si arriva a seguito di passaggi evolutivi: per diventare un individuo, l’uomo deve prima transitare attraverso un’altra persona. Un transito da non ridurre al solo meccanismo del parto, ma da estendere per un tempo molto più lungo e che comprende diverse accezioni, passando dall’allevamento all’accudimento1. Recenti studi, aggiungono, che nell’interazione con la madre o il caregiver, la visione del volto di uno di questi “da un punto di vista neurobiologico innesca nel cervello del bambino il rilascio di endorfine, sostanze che agiscono direttamente sulle regioni cerebrali sotto-corticali del cosiddetto ‹circuito della ricompensa›, che utilizzano come neurotrasmettitore la dopamina” 2. In tal senso, lo spessore di prossimità che il bambino avverte nel rapporto con la madre3, funge da imprinting, cioè da apprendimento al vivere tramite la prima esperienza del vivere.

N. Pisanu, Psicobiologia dell’educazione. Chimica della mente e alchimie relazionali, Ed. IPU, Vitorchiano, 2010. 2 Mundo Emanuela, Neuroscienze per la psicologia clinica: le basi del dialogo mente-cervello, R. Cortina Milano 2009, p. 69. 1


412

Nicolò Pisanu

Le prime relazioni (familiari) sono, infatti, prototipiche delle relazioni future, come illustrato dalla teoria dell’attaccamento e dal concetto di “sentimento sociale”4, quale istanza innata nell’uomo che determina un bisogno di cooperazione e di compartecipazione emotiva con i suoi simili. Se un antico detto afferma che il nascere ed il morire sono momenti di estrema solitudine per l’uomo, possiamo aggiungere come corollario che il vivere è invece un momento di comunione, al di là degli esiti della stessa, in quanto quella chimica che ha originato lo sviluppo del feto, ora per entrare nella costruzione della mente deve confrontarsi con le alchimie del mondo e dell’alterità laddove il soggetto se ne mostra già predisposto. “Prendendo come punto di riferimento la dimensione intersoggettiva, la nostra vita mentale viene teorizzata come la risultante di un dialogo continuo con le menti degli altri, una sorta di co-creazione di contenuti mentali nuovi, che è stata definita ‹matrice intersoggetiva› (…) che diventa il terreno nel quale le menti dei due individui si modellano plasticamente in maniera reciproca (…) per cui i bambini nascono con un apparato psichico predisposto a sintonizzarsi con la mente ed il comportamento degli altri esseri umani” 5. La neurobiologia pare dirci che l’alterità costituisce una costante per la crescita dell’uomo e la mente evolve contestualmente all’apprendimento sociale, sulla base di una struttura nervosa ereditata che, con la sua chimica, sostiene le attività cerebrali, quelle cognitive, il comportamento e le emozioni. Non solo: i meccanismi cognitivi trovano nei neuroni specchio6 una classe di neuroni che si attivano selettivamente nei confronti di un’azione compiuta o osservata, offrendoci nuove chiavi di comprensione delle azioni e dell’apprendimento per esperienza e per imitazione. Sono localizzati in diverse aree cerebrali e “nell’uomo si attivano nell’osservatore non solo quando le azioni vengono effettivamente compiute dall’osservato, ma anche quando vengono mimate, e sembrano essere sensibili anche all’intenzione dell’atto che viene compiuto e non solo all’atto motorio o alla sequenza di atti motori in quanto tali”7. Senza, quindi, scadere in un affrettato determinismo è lecito adottare quale chiave interpretativa dell’adolescente il soggetto stesso, con la sua storia e, soprattutto, con la qualità di relazioni instaurate dalla nascita in poi (se non già prima) con la o le persone che lo educano.

Va detto comunque che non necessariamente si debba trattare della madre biologica (in termine tecnico si parla di un “caregiver” ). 4 Concetto coniato da Alfred Adler. 5 Mundo E., op. cit., pag. 111 e 113. 6 Rizzolati G., Sinigaglia C., So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, R. Cortina, Milano 2006; Iacoboni M., I neuroni specchio, Bollati Boringhieri, Torino 2008. 7 Mundo E., op. cit., p. 125. 3


Adultità, adolescenza e disagio. Percorsi psicologici

413

Questo ragazzo, oggi, può essere paragonato ad un orfano, in quanto esito socio-culturale ed educativo della precedente società “senza padri né maestri”8, che chiuse il XX secolo, poiché egli approda in un limbo sociale a-progettuale e anonimo dove la “liquefazione”9 del tempo e dei rapporti nonché le paure del presente e le ipoteche sul futuro, tendono a modificare il profilo dell’adolescenza stessa e il suo compiersi nell’adultità. Oggi, si denota un grado d’impalpabilità fra le generazioni, che coinvolge i modelli che regolano la vita sociale e politica, laddove vengono esaltate le differenze, le interpretazioni dell’individualità, la conflittualità. Decade, infatti, il concetto di territorio e subentra quello di “comunità virtuale”, mentre scuola e famiglia perdono di centralità educativa e le ideologie politiche “evaporano”. La trasmissione di contenuti culturali ed etici, che prima avveniva verticalmente da generazione a generazione, nel nostro tempo, appare svilupparsi orizzontalmente fra “pari”, secondo linee autonome e con strumenti nuovi. “Agenti di socializzazione mediatica, come la televisione, la pubblicità e Internet, (che) propongono modelli di comportamento sociale ed emotivo a cui i giovani fanno riferimento”10 e declinano nuovi stili di vita, in diversi ambiti “aggregativi” gli adolescenti sono esposti a molti rapporti interpersonali, però superficiali, e gli interessi sono orientati verso il mondo esterno. A differenza dei suoi coetanei delle generazioni passate, il ragazzo oggi dispone di una mole impressionante e mutevole d’informazioni ma a tale “vantaggio” non corrisponde né una piena capacità di metabolizzazione delle stesse da parte del soggetto né un sistema di autenticazione da parte dell’adulto, in grado di garantirne la qualità: ne deriva un ulteriore elemento di disagio che la società trasmette ai già “incasinati” adolescenti. Il ragazzo contemporaneo entra in un territorio sconosciuto e destrutturato dove la norma e la regola morale vengono relativizzate, quasi a scomparire, lasciando “orfano” quel ragazzo che, per divenire adulto, dovrebbe, appunto, confrontarsi e belligerare con l’adultità e il bagaglio normativo ad essa conseguente. L’adolescente del secolo scorso lottava contro l’autoritarismo, mentre quello di oggi si trova a contrastare l’anomia, secondo l’accezione di E. Durkheim, che descrive la mancanza di norme sociali e di regolazione morale, che creano dissonanza cognitiva fra la realtà e le aspettative “morali” dell’individuo11. La presenza di un contesto anomico può portare il ragazzo a mimare, anziché iden-

Ricolfi L., Sciolla L., Senza padri né maestri, De Donato, Bari 1980. Baumann Z., Modernità liquida, Laterza, Bari-Roma 2002. 10 Croce M., Gnemmi A. (a cura), Peer education – Adolescenti protagonisti nella prevenzione, Franco Angeli, Milano 2003, p. 114. 11 Durkheim E., Il suicidio. Studio di sociologia, Rizzoli, Milano 1987. 8 9


414

Nicolò Pisanu

tificarvisi, l’adulto, secondo schemi replicanti, non supportati né dalla piena consapevolezza né da responsabilizzazione adeguata. Per comprendere tale situazione, bisognerebbe interrogarsi preliminarmente su quale sia lo “status” dell’adulto oggi, se non stia anch’esso perdendo d’identità a tal punto da non saper più contenere e delimitare l’adolescenza, in quanto la stessa psicobiologicamente si presenta con i tratti ineludibili della pubertà mentre l’individuazione dell’adultità non può contare su passaggi biologici bensì corre, principalmente, su binari psicologici e sociali. Non possiamo non accorgerci dell’arresto di un processo socio-culturale di maturazione, per cui, in assenza dell’adulto, cioè di colui che sancisce il passaggio dell’adolescenza, ci troviamo di fronte ad un gap generazionale ben diverso da quello con il quale si definivano, nelle precedenti generazioni, le divergenze fra il mondo dei genitori e il mondo dei ragazzi. Una possibile interpretazione, in termini psicoanalitici, di questa impasse si potrebbe individuare in un diverso accadere, soprattutto nei suoi esiti, del complesso edipico che, di per sé, permette la contrapposizione simbolica tra figlio e genitore, pubere e adulto, dando di conseguenza accesso alla formazione dell’identità e dell’autonomia personale. Metabolizzare e superare il complesso edipico presuppone l’adeguatezza, almeno, della coppia genitoriale, nonché un’adeguatezza della stessa tale da permettere un confronto tra i ruoli. “Deve cioè esistere: un rapporto privilegiato tra i genitori; un’asimmetria tra le generazioni e cioè che sia chiaro sul piano psichico chi sono i genitori e chi sono i figli. Inoltre occorre che le frontiere tra i vari sottosistemi e tra gli individui siano ben definite senza tuttavia essere rigide”12. Secondo Mâle, “l’evoluzione dei costumi si insinua nella vita stessa del gruppo familiare, pervade i comportamenti, svia le relazioni oggettuali. La famiglia appare così, nella sua organizzazione mutevole ed oscillante, per le tradizioni o le credenze che mantiene o da cui si separa, il riflesso dello stato sociale attuale. (…) Vediamo inoltre (nei nostri trattamenti) le difficoltà che incontrano le generazioni allevate senza padre. (…) La vita cellulare in spazi insufficienti per molti adolescenti che, non trovando sbocchi al loro bisogno di affermazione, di differenziazione, si gettano nella delinquenza (la banda) e sprofondano in nevrosi silenziose. (…) Il mondo edipico, colto da Freud a Vienna verso il 1900 intorno al patriarcato, persiste. Ma la dominazione matriarcale riporta in primo piano il mondo nutrizionale dell’inizio della vita. (…) Anche l’uomo è più spezzettato nei suoi impegni, più distante dalla famiglia”13. Nella misura in cui il confronto con ambo le figure genitoriali e con le identità adul-

12 13

Castellazzi V. L., Il test del disegno della famiglia, LAS, Roma 1996. Mâle P., Psicoterapia dell’adolescente, Raffaello Cortina, Milano 1982, pp. 16-17.


Adultità, adolescenza e disagio. Percorsi psicologici

415

te, maschile e femminile, da esse rappresentate, si rivela labile, per l’impalpabilità delle stesse, si formano nell’individuo in crescita delle lacune, compensate da un massiccio investimento narcisistico del soggetto. Senza, poi, il passaggio dalla libido narcisistica a quella oggettuale, l’adolescente attorcigliato su se stesso elabora una concezione utilitaristica della vita finalizzata alla sopravvivenza, “con conseguente affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali”14. “Anche i giovani di oggi devono fare il loro Edipo, devono cioè esplorare la loro potenza, sperimentare i limiti della società, affrontare tutte le situazioni tipiche dei riti di passaggio dell’adolescenza, tra cui uccidere simbolicamente l’autorità, il padre. E siccome questo processo non può avvenire in famiglia dove, per effetto dei rapporti contrattuali tra padri e figli, l’autorità non esiste più, i giovani finiscono col fare il loro Edipo con la polizia, scatenando nel quartiere, allo stadio, nella città, nella società la violenza contenuta in famiglia”15, cioè “faticano a vivere secondo il principio di realtà. Faticano a collocarsi entro aree-limite. Conseguentemente, restano in balìa del principio del piacere, per cui sono intolleranti e distruttivi nei confronti di qualsiasi ostacolo (persone o situazioni) che frena o che impedisce il soddisfacimento delle loro pulsioni”16. Se il mondo degli adulti difende tesi minimaliste e i propri personali interessi; devitalizza la norma, proibendo negli assunti ma concedendo nei fatti; disimpegna gli educatori dai loro compiti precipui per ridurli a “longa manus” delle aspettative dei genitori, fino a giungere a relativizzare la devianza o, al contrario, a proiettare cause e conseguenze del disagio sul’adolescente o sulla società deve, altresì, considerare che ciò facendo rinforzerà la trasgressione o cronicizzerà il disagio, soprattutto in coloro che, per età e opportunità, provocano con tali azioni l’adulto stesso a rendere ragione di una realtà che pare essere virtuale. La metafora televisiva dei Simpson17, illustra con ironia e crudo esame di realtà il mondo della classe media occidentale. Bart (il figlio) “scavezzacollo impenitente” è “un modello incorreggibile che si ficca coram populo le dita nel naso, passa ore incollato alla tivù e mente spudoratamente di fronte all’evidenza dei fatti (…); leader della bricconaggine” a scuola; educarlo “più che impossibile è inutile”. “Homer suo degno genitore, velleitario ma incapace di un vero sogno, impaurito dal presente ma indisponibile a cambiare per costruire un futuro diverso”, che può rappresentare l’uomo della standardizzazione contemporanea “nell’ingenua fiducia nel consumismo, nel suo tentativo reiterato di sgattaiolare lontano dai doveri lavorativi, nella

Galimberti U., L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2008, p. 28. Galimberti U. , op. cit., p. 29. 16 Castellazzi V.L., La violenza in età adolescenziale e giovanile. Condotte auto ed eterodistruttive come difese patologiche del Sé, in “Orientamenti Pedagogici”, 57 (2010) 5, 1069-1084. 17 Cartoons di Matt Groening. 14 15


416

Nicolò Pisanu

ricerca continua di un quarto d’ora di celebrità, nella bulimia di fronte al frigorifero o alla scatola della tele”. “Marge (la madre) casalinga perbenista”: gli altri figli: “Lisa saputella ecologista”, studentessa modello, e “l’ancor bebè Maggie”. La morale lapalissiana l’ha fornita lo stesso Autore: ”se volete che i vostri figli la smettano di comportarsi come Bart, smettetela di comportarvi come Homer !”.18 La situazione appare più critica quando la mal-educazione adulta trova in alcune espressioni della società una cassa di risonanza. Blandin19, citando Meltzer, afferma che questi descrive l’adolescenza come “processo di elaborazione della confusione”20, data, appunto, la confusione e l’insicurezza di questo stadio evolutivo, e segnala come pericolosa l’idealizzazione della confusione, qualora venga apprezzata e avvalorata dal ragazzo e/o, peggio, dall’adulto. “Quando tale idealizzazione della confusione è ratificata esplicitamente o implicitamente dagli adulti: genitori, insegnanti, opinion makers, leader vari o figure di riferimento o, infine mass-media, ne conseguono effetti a dir poco disastrosi dove, nelle migliori delle ipotesi, c’è una collusione, da parte degli adulti, con l’adolescente, a dimostrazione di come gran parte del mondo adulto sia ancora adolescenziale. Molti problemi sociali odierni nascono proprio da questa confusività che, in questa luce appare espressione di una società adolescenziale o di modalità adolescenziali di gestire il potere o di vivere nel sociale. Essa (…) costituisce una delle principali cause del malessere sociale e giovanile in particolare. Malessere, si badi bene, spesso esperito e vissuto dagli adolescenti senza consapevolezza e coscienza, ma solo come una forma di disagio esistenziale, estrinsecato magari attraverso disagi fisicosomatici (anoressia, bulimia), comportamenti tossicomanici, antisociali o autodistruttivi”.21 Gatti22 afferma che oggi viviamo in una cultura dell’additività, sempre più diffusa, tollerata e implicitamente condivisa. Contraddistinta da un consumo consapevole, diffuso e generalizzato di sostanze di varia natura (legali o no) finalizzato al sostenimento dei modelli individuali e sociali e all’adozione di comportamenti additivi, quali riposte ai bisogni funzionalmente indotti dal consumismo. Di conseguenza, il fenomeno droga è strettamente legato all’evoluzione sociale: ne condivide i tempi e gli spazi ormai fuori dalle sottoculture. In tal senso si rivolge, almeno potenzialmente, alla maggior parte dei cittadini, che assistono, senza comprendere appieno, ad una progressiva normalizzazione sociale del fenomeno “droga”.

18 Le citazioni sono tratte da: B. Salvarani, Strani maestri. Anarchie educative dai Peanuts ai Simpson, Ed. IPU, Vitorchiano 2009. 19 Blandino G., Adulti adolescenti. Confusioni e ambiguità nel mondo degli adulti come cause del malessere giovanile, in “Orientamenti Pedagogici”, 57 (2010) 5, 806. 20 Meltzer D., Teoria psicoanalitica dell’adolescenza, in “Quaderni di psicoterapia infantile”, vol. 1, p. 22. 21 Blandino G., pp. 806-807. 22 Gatti R. C., Droga. Architettura e materiali per le nuove reti di intervento, F. Angeli, Milano 2004.


Adultità, adolescenza e disagio. Percorsi psicologici

417

Ne deriva che il disagio, quale malessere individuale di varia natura, si accentua con fattori esterni generati artatamente da questa cultura e traslati acriticamente oppure irresponsabilmente dall’adulto nel mondo dei fanciulli e degli adolescenti: si pensi all’abuso negli ambienti giovanili. Come il consumo legale di un elevato numero di prodotti, non necessari se non alla lunga anche nocivi, fa da volano al consumo illegale di sostanze psicotrope, creando e legittimando il bisogno, così il comportamento additivo dell’adulto diventa chiave di lettura per l’adolescente ai fini del suo situarsi nel mondo dei “grandi”. Mutuando da studi condotti su animali, “la separazione dalla madre in fasi precoci dello sviluppo, produrrebbe delle reazioni molecolari in grado di modulare la produzione di recettori in alcune aree cerebrali (tra cui l’ippocampo), rappresentando quindi il substrato biologico dell’alterata risposta allo stress”23. Così, nella compagine sociale, l’assenza di figure genitoriali o adulte autorevoli, capaci di relazioni significanti e gratificanti a livello emotivo-affettivo, può indurre la ricerca di una risposta fuori dalla relazione interpersonale, stimolando neurologicamente il “circuito della ricompensa” mediante le sostanze, quali protesi sostituive delle persone e dei sentimenti. Si tratta di una reazione possibile e in linea con l’età, che sottolinea “che troppo spesso agli adolescenti non vengano offerti esempi di funzionamento mentale adeguato, ma vengano presentati esempi di funzionamento superficiale o difensivo, evacuatorio di tutto ciò che può creare pensiero”24. Eludendo un saggio monito di Erikson: “Ma, ditemi, quando comincerà il secolo dell’adulto? Qui, mi sembra, alcune domande rimangono senza risposta. E tuttavia la nostra conoscenza dei bambini oltre che dei giovani rimarrà alquanto frammentaria (per essi come per noi) se non sappiamo cosa vogliamo che essi diventino, o persino che cosa vogliamo essere oppure, essere stati – noi stessi”25. In definitiva, i percorsi che accomunano adulti e adolescenti sfociando poi, con ruoli e responsabilità differenti, nel disagio risultano capillarmente presenti nel tessuto socio-culturale odierno, nonostante la messa in opera, da parte della società adulta, di meccanismi difensivi a carattere proiettivo che stigmatizzano il disagio (e i suoi esiti) come sintomo a sé stante del soggetto portatore, secondo un gioco di rimbalzi dove nessuno si percepisce, in ultima istanza, responsabile.

Mundo E., op. cit., p. 73. Blandino G., op. cit., p. 816. 25 Erikson E. H., Aspetti di una nuova identità, Armando, Roma 1975, p. 129. 23 24



RivLas 78 (2011) 3, 419-432

Riflessioni di un docente

La bellezza della matematica MARIO FERRARI Università di Pavia Tu, solingo augellin, venuto a sera del viver che daranno a te le stelle certo del tuo costume non ti dorrai; ché di natura è frutto ogni vostra vaghezza.

C

osì cantava Giacomo Leopardi nell’indimenticabile Il passero solitario (lo si studia ancora oggi nelle nostre scuole?). Io non sono certamente un “solingo augellin” perché la mia vita è sempre stata, e lo è tuttora, ricca di tante relazioni di amicizia. Certamente, però, sono ormai “venuto a sera del viver”, anche se le stelle non c’entrano niente. Me lo dice la mia età e me lo conferma il fatto di essere ormai un pensionato. Proprio per questo ho pensato di scrivere alcune riflessioni sulla matematica. E’ il destino degli anziani di riflettere sulla propria vita passata e di proporre delle meditazioni che possano servire anche agli altri (a qualcuno almeno). Questa prima riflessione riguarda un argomento non molto consueto, ma che, ritengo, possa avere un suo interesse, anzi, un suo fascino. Si tratta della bellezza della matematica. Non voglio convertire nessuno e, forse, neppure convincere qualcuno, ma solo invitare tutti a non essere troppo sbrigativi nell’eliminare la matematica dai propri orizzonti estetici.

Introduzione 0. Questo articolo è la rielaborazione, senza troppi cambiamenti per la verità, di una conferenza tenuta in diverse località (Fano, Vimercate, Varese). Della conferenza mantiene anche lo stile colloquiale, appesantito forse un po’, dalle citazioni bibliografiche.


420

Mario Ferrari

1. Ci sono diversi libri ed articoli che parlano di “matematica e arte”, “matematica e musica”, “matematica e cinema” ecc., mettendo in risalto il contributo che la matematica dà a “costruire cose belle” al di fuori della matematica stessa. Si possono utilmente leggere, tanto per fare un esempio, gli interessantissimi volumi della collana Matematica e Cultura curati da Michele Emmer e pubblicati dalla Springer a partire dal 1997. Io non parlerò della bellezza della matematica in questo senso. Mi limiterò a guardare dentro la matematica, a non uscire dal suo campo sperando di trovare anche in esso qualcosa di bello. 2. Un detto popolare afferma che “ bello non è ciò che è bello, ma ciò che piace”. Il significato ovvio è che la bellezza è qualcosa di soggettivo. E carattere soggettivo ha anche la bellezza in matematica. Con questo voglio mettere le mani avanti. Si sa che la matematica non è molto popolare e che l’opinione pubblica, obtorto collo, la accetta come una necessità e la sua elaborazione e comprensione è volentieri delegata a pochi “patiti” che hanno un buon cervello. A nessuno, o quasi, verrebbe in mente di pensare che la matematica può essere anche bella, può procurare un senso di piacere, può soddisfare un gusto estetico. Forse l’opinione pubblica è più disposta a seguire il consiglio del grande Fénelon: “Diffidate delle malie e delle attrattive diaboliche della geometria”(Le Lyonnais, 437). Per fortuna che i matematici la pensano diversamente ed hanno tentato, senza molto successo, di comunicare le loro idee anche ad un pubblico di non matematici. 3. Incomincio, però, citando un non matematico, il poeta francese Paul Valéry. Rispondendo per lettera, nel 1932, ad una persona che gli aveva chiesto informazioni su letture di carattere matematico, conclude di non essere uno specialista, ma solo “un ammiratore ed un amante infelice della più bella delle scienze” (la lettera completa è riportata da Le Lyonnais,10-11). 4. Il matematico di origine francese, ma vissuto quasi sempre negli Stati Uniti, Serge Lang ha riunito tre conferenze di matematica per un vasto pubblico di non matematici tenute a Parigi negli anni ottanta e sei incontri con studenti delle scuole medie superiori, in un libro dal titolo accattivante: La bellezza della matematica (Bollati Boringhieri, 1991). Egli inizia la prefazione con queste parole: “L’affermazione che la matematica è bella, potrebbe anche sorprendere. E’ un fatto, però, che alcune persone si occupano di matematica per tutta la vita, creano matematica, proprio come un compositore crea musica. Di solito, la risoluzione di un problema ne solleva molti altri, nuovi e altrettanto belli. Certo, questi problemi sono spesso molto difficili, e, come accade anche per altre discipline, possono essere compresi solo da coloro che hanno studiato a fondo la materia e la conoscono bene”(Lang, 5). La pensa allo stesso modo Morris Kline, fisico matematico e storico della matematica. Nella sua bella, ma ormai introvabile, opera La matematica nella cultura occidentale (Feltrinelli, 1978) scrive: “ Di fatto, la ricerca di un pensiero estetico ha sempre influenzato e promosso lo sviluppo della matematica. Da una gran quantità di temi e di modelli che si presentano al matematico, questi sceglie quelli che sod-


La bellezza della matematica

421

disfano un suo consapevole o inconsapevole senso della bellezza. I greci del periodo classico investigarono la geometria perché le sue forme e la sua struttura logica erano belle ai loro occhi. Copernico sostenne la nuova concezione dei moti planetari perché l’aspetto matematico della sua teoria gli diede un piacere estetico. Anche Keplero apprezzò la teoria eliocentrica per questa ragione. “L’ho sentita vera nel profondo della mia anima”, egli scrisse, “e ne contemplo la bellezza con un piacere incredibile e affascinante”.[…] Purtroppo per padroneggiare le idee matematiche ci vogliono anni di studio e non esiste alcuna via regia che accorci materialmente il processo” (Kline, 431-432). 5. Io, invece, farò un discorso terra terra che non va al di là della cultura matematica di una qualunque scuola media superiore. Certamente meno noto del volume di Lang e di quello di Kline, anche perché non pubblicato in italiano, è il libro Les grands courants de la Pensée Mathématique curato da François Le Lyonnais e pubblicato, in seconda edizione, da Blanchard nel 1962. Nella terza sezione del volume, intitolata “Influences” vi è un lungo articolo di Le Lyonnais su “La beauté en Mathématique”. Un articolo di non facilissima lettura, forse con qualche punta di retorica, ma interessantissimo e che potrebbe essere adeguatamente sviluppato. Mi piace riportare quanto scriveva un matematico, Gösta Mittag-Leffler (1846-1927), a proposito dei lavori di Niels Henrik Abel (1802-1829): “I migliori lavori di Abel sono dei veri poemi lirici d’una bellezza sublime, dove la perfezione della forma lascia trasparire la profondità del pensiero.”(p. 455-456). Ancora una citazione, ma da un matematico inglese, Godfrey H. Hardy (1877-1947), che nella sua Apologia di un matematico (ed. it. Garzanti,1989) scrive: “Il matematico, come il pittore ed il poeta, è un creatore di forme.[…] Le forme create dal matematico, come quelle create dal pittore o dal poeta, devono essere belle; le idee, come i colori o le parole, devono legarsi armoniosamente. La bellezza è il requisito fondamentale: al mondo non c’è un posto perenne per la matematica brutta.[…] E’ senza dubbio molto difficile definire la bellezza matematica, ma questo è altrettanto vero per qualsiasi genere di bellezza. Possiamo anche non sapere che cosa intendiamo per “bella poesia”, ma questo non ci impedisce di riconoscerne una quando la leggiamo”(Hardy, 67 sg). Per finire questa introduzione riporto il pensiero di Bertrand Russell (1872-1970), logico e filosofo inglese: “La matematica, considerata nel modo giusto, possiede, oltre alla verità, una bellezza suprema: una bellezza fredda e austera, come quella della scultura, priva di richiamo per le parti della nostra natura più debole, priva degli sgargianti ornamenti della pittura o della musica, eppure di una bellezza sublime, e capace di una severa perfezione quale solo l’arte più grande può rivelare. Il puro spirito di gioia, l’esaltazione, il senso di qualcosa di più che umano che è la pietra di paragone della massima eccellenza, si trova nella matematica non meno che nella poesia”(Russell, 81 sg). Ora incomincio ad esporre alcune mie riflessioni, ma ripeto: siamo nel regno della soggettività e del gusto personale.


422

Mario Ferrari

La bellezza delle dimostrazioni Delle dimostrazioni studiate a scuola abbiamo spesso dei ricordi tristi o perché ci sembrava inutile dimostrare “cose” evidenti, lapalissiane, o perché troppo complicate e non riuscivamo a capire come fossero venute in mente al loro autore. Le dimostrazioni ora sono contestate anche nel mondo dei matematici, soprattutto a livello di insegnamento preuniversitario, ma è certo che la matematica non può fare a meno delle dimostrazioni: se una affermazione non è un assioma o non è dimostrata in base ad essi non può essere qualificata come “verità matematica”. Certamente ci sono dimostrazioni che costringono all’assenso, ma sono noiose, barbose, privo di ogni fascino estetico. Ma ci sono anche “dimostrazioni che allettano e affascinano l’intelletto. Suscitano gioia e un desiderio intenso di dire: così sia, così sia. Una dimostrazione eseguita con eleganza è un poema in tutto tranne che nella forma in cui è scritta.” (Kline, 431-432). Ci sono dimostrazioni semplici, belle, eleganti, comprensibili all’età di 14-15 anni, che raggiungono risultati profondi; purtroppo difficilmente esse sono presentate a scuola. Vi presento la dimostrazione di un teorema antichissimo - ha più di duemila anni che risale ad Euclide. E’ il teorema che risponde alla domanda: “Quanti sono i numeri primi?”. Tutti sappiamo che primi sono i numeri naturali maggiori di 1 che hanno esattamente due divisori, come 2, 3, 5, 7, 11, ecc. Essi sono estremamente importanti perché ogni numero naturale maggiore di 1 o è primo o è divisibile per qualche numero primo. Questo risultato, che si trova già in Euclide, viene chiamato “teorema fondamentale dell’aritmetica”. La risposta che noi diamo alla domanda è semplice e secca: i numeri primi sono infiniti. E’ la risposta che dava anche Euclide, ma formulata in modo un po’ diverso. Non voglio addentrarmi sull’infinito matematico. Dico semplicemente che i numeri primi sono di più, ma molti di più, che non, per esempio, il debito dello stato italiano. A parte i debiti dello stato italiano, era questa la risposta di Euclide: i numeri primi sono di più di qualunque quantità di numeri primi mi potete proporre. La dimostrazione è quella di Euclide. Eccola. • Supponiamo che i numeri primi siano in numero finito e disponiamoli in ordine crescente. Per non far intervenire il sistema di numerazione chiamiamoli, come fa Euclide, A, B, C,… D. • Con essi costruiamo un nuovo numero: N = (A x B x C…xD) + 1. Esso è certamente maggiore di tutti i numeri A, B, C,… D e, quindi, non fa parte della lista. Per N si possono verificare due casi: a.N è primo. La dimostrazione è conclusa perché N non fa parte della lista dei numeri primi da cui siamo partiti. b.N è composto. Allora deve essere divisibile per almeno un numero primo della lista. Ma questo non può succedere perché dividendo N per qualunque numero


La bellezza della matematica

423

della lista si ottiene 1 come resto. Quindi deve esistere un numero primo che divide N e non appartiene alla lista. E la dimostrazione è conclusa. Prendo a prestito da Dunham (Viaggio attraverso il genio, Zanichelli 1992, 90-91) la conclusione: «Il ragionamento di Euclide è un vero classico, un autentico grande teorema ed è citato a volte come il più bell’esempio di teorema matematico a un tempo semplice, elegante e profondo». Il già citato Hardy ha scritto che questa dimostrazione di Euclide «conserva la freschezza e l’importanza di quando è stata scoperta: duemila anni non vi hanno lasciato una ruga»(Hardy, 71-72).

La bellezza delle formule I matematici sono grandi inventori di formule. Se possono cristallizzare una idea o concentrare un pensiero in una formula lo fanno volentieri. Ci sono formule molto semplici che catturano una infinità di enti matematici: • 2n esprime la totalità dei numeri pari • 2n + 1 descrive tutti i numeri dispari • 3n ci dà tutti i multipli di 3 • 3n + 1 abbraccia tutti i numeri naturali che divisi per 3 hanno resto 1. Non sempre i matematici riescono nel loro intento. Tutti gli sforzi per esprimere con una formula semplice, tipo polinomio in una sola variabile, tutti e soli i numeri primi si sono rivelati inutili. Delle formule imparate a scuola spesso abbiamo un ricordo poco piacevole: non sempre comprensibili nella loro origine, non sempre chiare nel loro significato ci sono sembrate un inutile tormento per la nostra memoria. Certo non sono esaltanti, per fare un esempio, le formule di prostaferesi che abbiamo studiato in trigonometria. Capita anche ai più grandi artisti: non tutte le loro opere sono dei capolavori. Ci sono, però, delle formule che sono degli autentici capolavori e che meritano di essere conosciute e contemplate come vengono ammirate e contemplate opere come la Gioconda di Leonardo. Ve ne propongo una che riunisce con mirabile semplicità tutti i grandi protagonisti della matematica. Essi sono: Il numero 0. E’ il prototipo dell’elemento neutro additivo. E’ il mattatore dei sistemi di numerazione posizionali. E’ il grande boss della moltiplicazione perché trasforma in sé ogni prodotto in cui compare. I matematici hanno solennizzato il suo comportamento con la “legge di annullamento del prodotto”. E’ lo schizofrenico della divisione perché il suo comportamento varia a seconda della posizione occupata nella divisione. La sua invenzione, nel secolo VII dopo Cristo, è dovuta agli Indiani. Essi lo chiamarono “sunya” che significa “vuoto”. Gli Arabi lo tradussero con “sifr” che in Italia fu latinizzato con “zephirum” da cui deriva il nostro “zero”.


424

Mario Ferrari

Il numero 1. E’ il prototipo dell’elemento neutro moltiplicativo. E’ il grande costruttore di numeri nella addizione perché partendo da 0 e aggiungendo 1 si possono ottenere tutti i numeri naturali. E’ il punto di partenza di ogni attività di conteggio. E’ il più vecchio di tutti i numeri. Eppure i primi che cominciarono a riflettere sulla matematica ed a trasformarla in scienza razionale, i Greci, non lo considerarono un numero. Per Euclide, infatti, “Unità è ciò secondo cui ciascun ente è detto uno”, mentre “numero è una pluralità composta di unità”. E’ vero che Euclide non sempre è stato coerente dato che considera l’unità come l’unico divisore dei numeri primi e per costruire i numeri perfetti parte sempre dall’unità. Queste definizioni sono state ripetute per secoli dai matematici e bisognerà aspettare la fine del secolo XVIII per vedere l’1 stabilmente accettato come numero. Il numero “i”. E’ meno noto dei primi due, ma è quello che ha aperto il mondo dei numeri complessi, il mondo numerico nel quale i matematici si trovano più a loro agio. E’ l’unità complessa. Fra tutti i numeri è il più rivoluzionario perché la sua invenzione ha comportato il sacrificio di un mito della matematica e cioè che solo i numeri positivi potevano avere una radice quadrata. Il numero i, infatti, è uguale alla radice quadrata di -1: i = √–1. Il simbolo “ i ” è stato inventato da Leonhard Euler (1707-1783). I numeri complessi appaiono per la prima volta nell’Ars Magna (1545) di Girolamo Cardano (1501-1576). Egli non li rifiuta completamente, ma li bolla come “quantità sofistiche” e “quantità silvestri”. Pochi anni dopo Rafael Bombelli (1525?-1573) nella sua Algebra (1572) fornirà le regole di calcolo con questi numeri. Il numero “e”. E’ la base dei logaritmi naturali e gioca un ruolo essenziale nel calcolo differenziale ed integrale. La sua definizione è un po’ complicata, perché fa intervenire il concetto di limite, ma fu scelto per semplificare i calcoli. Il nome “e” è dovuto ad Euler. Nel 1873 Hermite (1822-1901) dimostrò che “e” è trascendente. Deve aver fatto una fatica boia se scriveva in una lettera a Wilhelm Borchardt (18171880) : “Io non mi arrischierò a tentare di dimostrare la trascendenza di π. Se altri l’intraprenderanno, non ci sarà nulla di meglio della loro riuscita; ma, credetemi, mio caro amico, questo costerà sicuramente loro un po’ di sforzi.” Il numero π. E’ il numero più celebre della storia della matematica e lo si ritrova nei settori più diversi della matematica. Definito come rapporto costante fra la lunghezza della circonferenza e la lunghezza del suo diametro, questo numero ha affascinato le più diverse civiltà. Lo troviamo, calcolato con diverse approssimazioni, nella Bibbia, nella civiltà babilonese, in quella egiziana. Archimede (287- 212) iscrivendo e circoscrivendo ad una circonferenza un poligono regolare di 96 lati, riuscì ad imbrigliarlo in una doppia disuguaglianza: “La circonferenza di ogni cerchio è tripla del diametro e lo supera ancora di meno di un settimo del diametro e di più di dieci settantunesimi”. In simboli:


La bellezza della matematica

425

3 + 10/71 < π < 3 + 1/7. Molti matematici, sulla scia di Archimede, si divertirono a calcolare le sue cifre decimali, altri, invece, inventarono algoritmi infiniti per calcolarlo. Questo numero continua ad affascinare i matematici perché “nonostante le conoscenze accumulate, questo numero scintillante resta misterioso e certi problemi elementari che lo riguardano sembrano addirittura fuori dalla portata della matematica attuale” (J-P. Delahaye, L’affascinante numero π, 2003, p. 7). Il simbolo “π”, fu introdotto nel 1706 dal matematico inglese William Jones, ma solo dopo l’adozione da parte di Eulero divenne di uso comune. Nel 1882 Ferdinand Lindemann (1852-1939) dimostrò la trascendenza di π. Tutti questi cinque numeri furono riuniti in una splendida formula da Eulero. Eccola.

eiπ + 1 = 0 Questa viene considerata generalmente la più bella formula della matematica. Sarà una questione di gusti, ma non si può non rimanere meravigliati davanti alla potenza espressiva, alla semplicità assoluta, alla eleganza incredibile di questa formula. Secondo Tobias Dantzig (Il numero linguaggio della scienza, p.195) a questa formula qualche contemporaneo di Euler “incline alla metafisica, attribuì addirittura un significato mistico. Invero, essa contiene i simboli più importanti della matematica moderna e fu considerata come una specie di unione mistica, in cui l’aritmetica era rappresentata da 0 e da 1, l’algebra dal simbolo i, la geometria da π e l’analisi dal numero trascendente e.” En passant dirò che questa è la formula attorno alla quale ruota il romanzo La formule préférée du professeur della giapponese Yoko Ogawa recensito nel numero di settembre 2006 della rivista del Centro Morin. A questo romanzo la Società Matematica Giapponese ha attribuito un premio “per aver rivelato al pubblico la bellezza di questa disciplina”. Vi devo confessare che a me piace moltissimo anche la formula di Pitagora: x2 + y2 = z2 nella quale sono racchiusi tutti e soli gli infiniti triangoli rettangoli caratterizzati non dall’angolo retto evocato nel nome, ma dalle aree dei quadrati costruiti sui lati o dai quadrati delle misure delle lunghezze dei lati, a seconda di come si legge la formula. Voglio riportare quanto scrive Richard Trudeau in La rivoluzione non euclidea (Bollati Boringhieri, 1991, p.116): “Il teorema di Pitagora non manca mai di stupirmi profondamente; sebbene i manufatti umani siano pieni di angoli retti, io concepisco questi ultimi come entità originariamente naturali, simile al fulmine o all’Or-


426

Mario Ferrari

sa Maggiore: in piedi in mezzo a un campo formo un angolo retto con il suolo; se inizialmente sono rivolto a est, devo ruotare di un angolo retto per avere di fronte il sud; una ghianda che cade segue un percorso ad angolo retto con l’orizzonte. D’altra parte, la formula “c2 = a2 + b2” non evoca alcun ricordo profondo: i numeri non sono parte della natura, e se anche lo fossero sarebbe improbabile imbattersi in tre di essi che soddisfino tale relazione. L’equazione, così astratta e precisa, ci è estranea, e non riesco a immaginare come possa aver a che fare con qualcosa di quotidiano come gli angoli retti: per questo, quando, caduto il velo dell’abitudine come a volte accade, considero il teorema di Pitagora come se lo studiassi per la prima volta, ne rimango sbalordito.”

La bellezza del parlare La letteratura, nelle sue varie espressioni, è indubbiamente uno dei modi nei quali si manifesta la bellezza. Gli stili, anche nello stesso genere, sono diversissimi. Si va, tanto per fare delle semplificazioni: - dallo stile ampolloso, violentemente immaginifico dei poeti barocchi come il Marino (se non vado errato) secondo il quale Maria Maddalena ai piedi di Gesù “bagnava con i soli [gli occhi] e asciugava con i fiumi [i lunghi capelli neri]” - allo stile secco, asciutto, ma denso di pensiero di un Cesare (veni, vidi, vici) e di un Manzoni che sintetizza il dramma della monaca di Monza nella celebre frase: la sventurata rispose. Anche la matematica ha un suo linguaggio, anzi vi è chi sostiene che essa è essenzialmente un linguaggio. Fin qui siamo nella normalità. Ogni scienza, sperimentale o sociale, ha un suo proprio linguaggio. Il guaio, o la fortuna, è che quello matematico è una mescolanza continua di linguaggio quotidiano e di linguaggio simbolico. I rapporti fra linguaggio comune e linguaggio usato in matematica sono abbastanza complessi. Basti pensare, per esempio, al fenomeno della “monosemia” cioè alla scelta di un solo significato, adeguatamente precisato, di parole che nel linguaggio comune sono plurisemiche. Si pensi, per esempio, alla parola “ordine”. Basti pensare al fenomeno della “estremizzazione semantica” di parole del linguaggio comune. La parola “trasformazione”, in matematica, viene usata anche per indicare l’identità nella quale non si cambia niente. Basti pensare al fenomeno del “cambiamento di categoria” con il passaggio da aggettivo a sostantivo. E’ quello che si verifica con la parola “integrale”. Basti pensare al fenomeno del “caricamento di nuovi significati” di parole del linguaggio comune. E’ il caso, per esempio, di parole come “gruppo”, “anello”, “campo”. La caratteristica della matematica nell’uso del linguaggio comune, è la essenzialità: nell’enunciare un teorema o nel dare una definizione si devono usare tutte e sole le parole necessarie. E’uno stile alla Cesare e alla Manzoni. Questo stile raggiunge il


La bellezza della matematica

427

suo acme nella traduzione simbolica dei concetti. Mi limito ad un solo esempio. Tutti noi conosciamo la proprietà distributiva della moltiplicazione rispetto alla addizione, una proprietà che collega le due strutture, additiva e moltiplicativa, presenti in ogni insieme numerico. Ebbene, dal punto di vista simbolico, tralasciando i quantificatori, la proprietà si esprime così: a x ( b + c ) = (a x b) + (a x c) E’ lo stile alla Cesare, se non proprio alla Tacito. L’espressione della stessa proprietà mediante le parole del linguaggio comune, anche se molto sorvegliato, assomiglia allo stile del Marino. La riporto da un libro di testo della scuola media inferiore: il prodotto di un numero per una addizione di due numeri è uguale alla somma dei prodotti di quel numero per ciascun addendo. Vi prego di notare l’abbondanza delle parole: prodotto, addizione, somma, addendo. Certo per gustare l’espressione simbolica, la sua economicità, la sua scarna bellezza, bisogna conoscere il significato dei simboli. Questo, però, è necessario per gustare ogni espressione artistica. Se non si hanno gli strumenti necessari per la comprensione, un quadro, una scultura, una sinfonia, una poesia rimangono incomprensibili.

La bellezza della libertà Parlare di libertà in matematica può essere pericoloso perché la gente pensa che tu sia schizzato, fuori di testa. La matematica, si pensa, è il prototipo della disciplina dogmatica, rigida, ingessata nella quale è impossibile ogni libertà di movimento. Eppure Georg Cantor, che di matematica se ne intendeva, ha affermato che “l’essenza della matematica è la sua libertà”. E non si tratta solo delle grandi scelte che il matematico può fare nel formulare assiomaticamente una teoria; si tratta, anche, di libertà di scelta all’interno di teorie codificate, tradizionali, elementari, accessibili a tutti. Voglio dare un esempio molto semplice relativo alla definizione di quadrato, il re dei quadrilateri. Di solito si pensa che per caratterizzare il quadrato bisogna far intervenire la congruenza dei lati e gli angoli retti. Questa è una delle tante possibilità che ora elenco. Se conosco già i parallelogrammi posso definire il quadrato come • un parallelogramma con due lati consecutivi congruenti e un angolo retto oppure • un parallelogramma con le diagonali congruenti e perpendicolari. Se so che cosa è un rettangolo posso definire il quadrato come • un rettangolo con due lati consecutivi congruenti


428

Mario Ferrari

oppure • un rettangolo con le diagonali perpendicolari. Se conosco i rombi posso definire il quadrato come • un rombo con un angolo retto oppure • un rombo con le diagonali congruenti. Se conosco solo i quadrilateri convessi posso sbizzarrirmi ancor di più e definire il quadrato come • un quadrilatero con due lati consecutivi congruenti e 3 angoli retti (2 soli non sono sufficienti per via del trapezio rettangolo) oppure • un quadrilatero con le diagonali congruenti, perpendicolari e che si tagliano nel punto medio oppure • un quadrilatero con 4 assi di simmetria (in realtà ne bastano 3 o anche 2 bene scelti) oppure • un quadrilatero con 4 lati congruenti e 4 angoli congruenti. Le ultime 3 definizioni valgono anche nella geometria non euclidea iperbolica; le precedenti no. Davvero in matematica si ha l’ebbrezza della libertà e la gioia di poter scegliere consapevolmente tra tante possibilità.

La bellezza dell’ignoto E’ opinione diffusa che in matematica ogni problema sia stato risolto, che non ci siano terreni nuovi da esplorare, che tutto sia fisso, immutabile, eterno. Quante volte mi sono sentito ripetere: ma due più due non fa sempre quattro? Ovviamente questa opinione è errata. Per confutarla non è necessario citare congetture magari intriganti per i matematici, ma assolutamente incomprensibili per la gente comune. Ci sono problemi semplici, belli, comprensibili in una quinta elementare e che attendono ancora una soluzione. E’ il fascino dell’ignoto, l’attrazione del semplice con aspetti quasi di impossibilità, il gusto dell’avventura intellettuale o, più prosaicamente, la gioia di constatare la debolezza della matematica. 1. Il primo problema che vi ricordo è la congettura di Goldbach (1690-1764). Giocando con i numeri egli si era accorto che i numeri pari maggiori di 2 potevano essere scritti, talvolta in più modi, come somma di due numeri primi. E’ la constatazione che può fare anche un bambino di quinta elementare usando il Crivello di Eratostene. Nel suo gioco Goldbach si era spinto molto avanti “saggiando” moltissimi numeri pari e sempre gli era riuscito di scriverli come somma di due numeri primi.


La bellezza della matematica

429

Gli venne, allora, l’idea che tutti i numeri pari si potessero scrivere come somma di due numeri primi. Questa affermazione di carattere universale doveva, però, essere dimostrata. Tutti i suoi esperimenti, perfettamente riusciti, erano un buon viatico, ma non una dimostrazione. Non riuscendo nel suo intento sottopose il problema ad Euler, il più grande matematico del suo tempo con il quale Goldbach era in relazione epistolare. Anche Euler non riuscì a produrre una dimostrazione. L’interesse per la affermazione di Goldbach è continuato e continua tuttora e sembra non lontano il momento in cui la meta sarà raggiunta. Ad ogni modo finora nessuno è riuscito a trovare un numero pari maggiore di 2 che non si possa scrivere come somma di due numeri primi, ma nessuno ancora è riuscito a dimostrare che ogni numero pari maggiore di 2 si può scrivere come somma di due numeri primi. L’affermazione di Goldbach, quindi, continua ad essere una congettura e non un teorema. 2. Il secondo problema riguarda i numeri primi gemelli cioè le coppie di numeri primi che differiscono di 2 come 3 e 5, 5 e 7, 11 e 13, ecc.. Oltre ai numeri primi gemelli ci sono i numeri primi trimelli (termine non ufficiale) cioè terne di numeri primi che differiscono di 2. La situazione è la seguente: i numeri primi sono infiniti, di trimelli c’è solo la terna ( 3, 5, 7 ). E il gemelli quanti sono? Già con il Crivello di Eratostene ci si può accorgere che proseguendo nella successione dei numeri, essi diventano sempre più rari; tuttavia sono stati trovati numeri primi gemelli molto grandi, come <1 000 000 009 649> e <1 000 000 009 651>. Qual è il destino dei numeri primi gemelli? Sono più vicini ai trimelli, cioè sono in numero finito, oppure preferiscono la compagnia dei numeri primi cioè sono infiniti? Ai posteri - è proprio il caso di dirlo - l’ardua risposta, perché finora non siamo in grado di dire niente. Sui numeri primi ci sono altri problemi irrisolti come - quanti sono i numeri primi di Fermat, cioè i numeri primi del tipo 2ª + 1 con a potenza di 2; - quanti sono i numeri primi di Mersenne, cioè i numeri primi del tipo 2ª - 1 con a numero primo. Quanto detto, però, può essere sufficiente.

La bellezza della regolarità La regolarità, la ripetizione delle proporzioni, i ritmi che si rinnovano, la presenza di simmetrie sono fra gli elementi fondamentali della bellezza classica. Nella matematica ci sono certamente fenomeni di irregolarità. Basta pensare a come si distribuiscono i numeri primi nella successione numerica: in modo imprevedibile. Basta consultare la tavola dei numeri primi che si trova in fondo ad un testo di scuola media per rendersene conto. I matematici, dopo molti sforzi sono riusciti a delineare le linee di tendenza della distribuzione dei numeri con un teorema, intuito da


430

Mario Ferrari

Gauss e dimostrato nel 1896 contemporaneamente ed indipendentemente da Jacques Hadamard (1865-1963) e da Charles-Jean de La Vallée-Poussin (18661962), chiamato orgogliosamente Il teorema dei numeri primi. I fenomeni di regolarità sono moltissimi ed elementari. - Nella successione numerica ogni due numeri c’è un multiplo di 2, ogni tre numeri c’è un multiplo di 3, ecc. - Le diagonali di un poligono sono in progressione costante regolata dalla formula d = n(n-3)/2. - Ogni poligono regolare ha un numero di assi di simmetria uguale al numero dei lati ed uguale è il numero delle rotazioni che lo trasformano in sé. - La somma dei primi n numeri dispari a incominciare da 1 è uguale ad n2 cioè ad un quadrato di lato n. - La somma dei primi n numeri pari ad incominciare da 2 è uguale ad n(n + 1) cioè ad un rettangolo di lati n ed (n + 1). - Tutti e soli i numeri primi che divisi per 4 danno resto 1, cioè i numeri primi del tipo 4n + 1 si possono scrivere come somma di due quadrati. Ci sono, inoltre, delle regolarità più riposte e, per questo, più sorprendenti. Eccone alcune. 1 x 9 + 2 = 11 12 x 9 + 3 = 111 123 x 9 + 4 = 1111 1234 x 9 + 5 = 11111 e così via. 12 = 1 112 = 121 1112 = 12321 11112 = 1234321 e così via. Nei fenomeni di regolarità c’è sempre un aspetto di prevedibilità, e quindi di monotonia, ma anche un aspetto di previsione soddisfatta, di attesa verificata, di gusto estetico adempiuto.

La bellezza dei giochi Pensando alla matematica non si può fare a meno di sottolineare due aspetti che possiamo chiamare “drammatici”. Il primo è questo: mentre la matematica sta diventando sempre più pervasiva, sempre più necessaria alle scienze sperimentali e sociali che utilizzano strumenti matematici in dosi sempre più massicce, i cultori della matematica, anche coloro che semplicemente la studiano per poterla insegnare, stanno diminuendo in modo quasi esponenziale. Il secondo è questo: la matematica con-


La bellezza della matematica

431

tinua ad essere ritenuta una disciplina arida, noiosa, generatrice di ansia; eppure nessuna disciplina ha un “parco giochi” così vario, interessante, divertente ed intelligente come la matematica. La letteratura sulla matematica ricreativa e giocosa è quasi sterminata e vende anche bene. Uno dei giochi che ha entusiasmato matematici professionisti e dilettanti è quello dei quadrati magici. Io voglio limitarmi al quadrato magico di ordine tre classico. Si tratta di disporre i numeri naturali da 1 a 9 in nove caselle distribuite in modo da formare un quadrato. I modi di disporre questi nove numeri in gruppi di tre senza ripetizioni sono molti, ma il gioco consiste nel disporli in modo che la somma nelle quattro direzioni principali del quadrato, righe, colonne e le due diagonali, sia costante. E’ facile trovare la costante magica, un po’ meno trovare la disposizione esatta dei numeri. Ne esistono diverse (8 per la precisione), ma, e qui interviene la regolarità del quadrato, le possiamo ridurre ad una sola. Possiamo anche divertirci a cercare le condizioni di “costruibilità” di un quadrato magico inserendo una specie di “deregulation” sui numeri. Per esempio possiamo cercare di costruire un quadrato magico con costante magica uguale ad 1, a 2, a 3, ecc.; possiamo studiare i rapporti fra costante magica ed elemento della casella centrale del quadrato. Possiamo anche chiamare i numeri a, b, c, ecc. (purché numeri interi relativi), definire in modo naturale una addizione tra quadrati magici e scoprire che essi possiedono una struttura di gruppo commutativo. Questa è matematica bella, seria, divertente, ma poco praticata a scuola. Visto che abbiamo parlato di numeri primi e di quadrati magici può essere divertente, ma anche impegnativo, costruire un quadrato magico di costante 111 usando solo numeri primi (per l’occasione considerare 1 numero primo). Per finire vi propongo un gioco nel quale entrano simmetrie, e quindi regolarità, gusto estetico ed un po’ di audacia nel vincere lo sconcerto iniziale: Il giardino di Boboli: piantare 9 gerani, su 10 file mettendo 3 gerani su ogni fila, ma in modo che due delle dieci file siano assi di simmetria di tutta la configurazione.

Conclusione Quello che vi ho proposto è solo un “assaggio” della bellezza della matematica. Con strumenti matematici meno elementari si possono gustare bellezze anche maggiori. Ricordo, per fare un esempio, che la cicloide, una curva studiatissima nel secolo XVII, è stata chiamata “la belle Hélène de la mathématique” e che Jacques Bernoulli (1654-1705) ha voluto scolpita sulla sua tomba una spirale logaritmica con l’iscrizione “eadem numero mutata resurgo” perché questa curva l’aveva “così prepotentemente colpito con le sue proprietà singolari ed ammirabili che io difficilmente mi sazio della sua contemplazione”. Certo noi non arriveremo a tanto, ma nessuno può


432

Mario Ferrari

impedirci di contemplare certi “oggetti” matematici per la loro bellezza, gustarli e goderne. Ho iniziato con un poeta francese e voglio terminare con uno tedesco, il Novalis (pseudonimo di Friedrich Leopold von Hardenberg,1772 -1801), che scrisse: “ L’algebra è la poesia”.

Bibliografia Bagni G.T., Matematica e bellezza, bellezza della matematica, Riv. Mat. Univ. Parma (6) 3* (2000). Betti R., Le più belle formule della matematica, Lettera Pristem,16, giugno 1995. Delahaye J-P., L’affascinante numero π, Ghisetti e Corvi, Milano 2003. Devlin K., Dove va la matematica, Bollati Boringhieri, Torino 1994. Driver A., Orio L., La formula più bella, Progetto Alice, vol. VIII, 2007, n. 22. Dunham W., Viaggio attraverso il genio, Zanichelli, Bologna 1992. Euclide, Elementi, a cura di A. Frajese e L. Maccioni, Utet, Torino 1970. Hardy G.H., Apologia di un matematico, Garzanti, Milano,1989. Kline M., La matematica nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 1976. Lang S., La bellezza della matematica, Bollati Boringhieri, Torino 1991. Le Lyonnais F. (a cura di), Les grands courants de la pensée mathématique, Blanchard, Paris 1962. Russell B., Misticismo e logica e altri scritti, Longanesi, Milano 1964. Scimone A., La sezione aurea, Sigma Edizioni, Palermo 1997. Stewart I., Com’è bella la matematica, Bollati Boringhieri, Torino 2006. Trudeau R.J., La rivoluzione non euclidea, Bollati Boringhieri, Torino 1991.


RivLas 78 (2011) 3, 433-455

Proporre la lettura biblica nella formazione culturale oggi

Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth [2] ERNESTO BORGHI

L’

oggetto di questo secondo saggio è la figura di Gesù di Nazareth nelle sue parole didascalico-kerygmatiche e nelle sue azioni taumaturgiche, per quanto ci è stato trasmesso dalle versioni evangeliche canoniche senza trascurare, in misura diversa e variamente complementare, numerosi testi apocrifi. Cercherò di delineare la rilevanza dei due registri fondamentali dell’attività del Nazareno, offrendo, mi auguro, un contributo seriamente divulgativo anche al dissipamento di luoghi comuni più o meno apologetici su vari aspetti in proposito. Tutto ciò è pensato nell’interesse della formazione culturale di qualsiasi lettrice e lettore e, in particolare, di coloro che nelle scuole e nelle comunità cristiane svolgono i due importanti e doverosamente distinti ruoli di docenti di qualsiasi materia e, in primis, di cultura religiosa e di operatori della catechesi in vista della fede nel Dio di Gesù Cristo. Che cosa ha fatto realmente Gesù “da grande”? Ancora una volta, se si compie una lettura approfondita di Mt-Mc-Lc-Gv e si fanno alcuni sondaggi in vari testi apocrifi1, si può cogliere quanto già Papia, vescovo di Gerapoli (Asia Minore), all’inizio

Cfr., a titolo sintetico, A. Piñero, Gesù nei vangeli apocrifi, tr. it., EDB, Bologna 2010. Per quanto attiene ad un confronto globale con le versioni evangeliche apocrife e gli apocrifi neo-testamentari in generale si vedano, per esempio, il classico Tutti gli Apocrifi del Nuovo Testamento, 3 voll., a cura di L. Moraldi, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1999 e i più recenti saggi di M. Pesce-M. Rescio (eds.), La trasmissione delle parole di Gesù nei primi tre secoli, Morcelliana, Brescia 2011; E. Norelli – C, Gianotto – F. Nuvolone – E. Noffke, Gli apocrifi del Nuovo Testamento e le origini cristiane: possibilità, difficoltà, chiarificazioni, a cura di E. Borghi, “Parola&parole – Monografie” 4 (2008). Per avere quest’ultima pubblicazione ci si rivolga all’Associazione Biblica della Svizzera Italiana (= www.absi.ch).

1


434

Ernesto Borghi

del II secolo2, aveva registrato: una distinzione contenutistica, nell’ambito dei testi evangelici, tra cose dette da Gesù e cose fatte da lui.

1. Cose dette Questa ampia categoria comprende i lòghia (= massime sentenziose, paragonabili alle sentenze classiche antiche) di taglio dichiarativo, imperativo o interrogativo, le parole profetiche (ad es. le beatitudini o le predizioni apocalittiche), le parole legali (cfr. per es. Mc 3,28ss; Mt 18,18; 5,23-24) e le affermazioni in cui Gesù parla di sé come l’inviato di Dio (cfr. per es. Mc 8,31; 9,9-12.31; 10,33.45; Mt 28,18-20; Lc 24,49). In questo novero ricordiamo anche le parabole e i discorsi frutto del lavoro di assemblaggio redazionale tra parole del Maestro e interpretazioni successive di coloro che hanno redatto le versioni evangeliche. Per quanto concerne quest’ultimo ambito, che trova, tra le versioni canoniche, gli esempi più ragguardevoli nei cinque discorsi del Gesù matteano (cfr. capp. 5-7; 10; 13; 18; 23-25) e del Gesù lucano in Lc 6, rinvio alla sterminata bibliografia disponibile3. In queste pagine desidero occuparmi dei racconti parabolici che vedono Gesù quale narratore.

1.1. Le parabole: riferimenti generali Il significato fondamentale del termine4 (dal gr. parabàllein = confrontare) è quello, in origine (nella cultura greco-latina) di similitudine, comparazione, per mezzo della quale si chiarisce un argomento difficile avvicinandolo ad uno più chiaro e più noto. Da qui, nella letteratura biblica, si raggiunse questo valore: la narrazione di un fatto immaginario, ma appartenente alla vita reale, con il quale si vuole adombrare una verità o illustrare un insegnamento morale o religioso. Se si considera anche un secondo valore dello stesso verbo greco parabàllein, ossia

«E questo diceva l’anziano: Marco, che era l’interprete di Pietro, scrisse con accuratezza quanto ricordò, benché non ordinatamente, delle cose dette e fatte dal Signore. Egli, infatti, non aveva ascoltato il Signore né era stato suo compagno, bensì, più tardi, come ho già detto, fu compagno di Pietro; costui, secondo le necessità, dava le sue istruzioni, ma non facendo un’esposizione ordinata dei detti riguardanti il Signore; cosicché nessuna colpa ebbe Marco scrivendone in questa maniera alcune; di una cosa sola infatti si preoccupò: di non tralasciare nulla delle cose che aveva ascoltato, e di non alterare niente di esse» (Papia, Esegesi delle parole del Signore, in Eusebio, Historia Ecclesiastica, III, 39:15 - il corsivo è opera mia). 3 Per Mt 5-7 e Lc 6, per es., si veda, tra le moltissime possibilità, E. Borghi, La giustizia per tutti. Lettura esegetico-ermeneutica del Discorso della montagna, Claudiana, Torino 2007. 4 Cfr. Vocabolario della lingua italiana, III, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1989, p. 669. 2


Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth

435

gettare accanto si può immaginare un significato aggiuntivo ossia racconto che ha una finalizzazione narrativa precisa che occorre scoprire, al di là di qualsiasi altra valutazione del lettore, per comprenderne l’effettivo contenuto essenziale. Per quanto concerne le parabole evangeliche si tratta di qualche decina di racconti, alcuni in tre versioni (per es. i vignaioli assassini in Mt 21,33-40; Mc 12,1-9; Lc 20,9-16 oppure il seme che spunta da sé in Mt 13,31-32 – Mc 4,30-32 – Lc 13,1819), altri in due (i cagnolini e i figli in Mt 15,21-27 e Mc 7,24-28 oppure Le due case in Mt 7,24-27 e Lc 6,47-49), altre ancora in un racconto specifico per una singola versione evangelica (per es. il grano e la zizzania in Mt 13,24-30 oppure Il fariseo e il pubblicano in Lc 18,9-14). Vediamone un prospetto globale: Parabole e similitudini

Mt

Mc

Lc

1. il seminatore 2. il seme che spunta da sé 3. i vignaioli assassini 4. le due case 5. il grano e la zizzania 6. il lievito 7. il tesoro e la perla 8. la rete 9. la pecora perduta 10. il servo spietato 11. gli operai della vigna 12. i due figli 13. il banchetto nuziale 14. il buono e il cattivo intendente 15.le dieci vergini 16. i talenti/le mine 17. i due debitori 18. il buon samaritano 19. il ricco dissennato 20. la porta chiusa

13,1-9 13,31-32 21,33-40 7,24-27 13,24-30 13,33 13,44-46 13,47 18,12-13 18,23-34 20,1-15 21,28-32 22,1-13 24,45-51 25,1-12 25,14-30

4,1-9 4,30-32 12,1-9

8,4-8 13,18-19 20,9-16 6,47-49

21. la torre e la guerra 22. la dracma smarrita 23. un padre, due figli 24. l’amministratore disonesto 25. il ricco e il povero 26. il padrone e lo schiavo 27. il giudice e la vedova 28. il fariseo e il pubblicano

25,10-12; 7,22-23; 8,11

13,20-21

15,4-7

14,15-24 12,42-46 19,12-27 7,41-43 10,30-37 12,16-20 13,25-29

14,28-32 15,8-10 15,11-32 16,1-8 16,19-31 17,7-10 18,1-8 18,9-14

Presento, in breve, le caratteristiche qualificanti del discorso parabolico di Gesù: • l’attenzione fondamentale non a idee o a verità presentate in se stesse e in modo teorico, bensì alla prassi degli esseri umani. La verità che le parabole propongono


436

Ernesto Borghi

può essere accolta soltanto nel quadro di un comportamento rinnovato e trasformato; • la tendenza ad indirizzarsi spesso a interlocutori che avevano visioni della realtà e mentalità differenti rispetto al narratore: le parabole sono per Gesù lo strumento del dialogo con cui spera di far loro cambiare parere, ossia servono ad istituire un dialogo formativo autorevole e libero; • il radicamento nell’esperienza esistenziale dei destinatari e la capacità di tradurre verbalmente questo multiforme universo. Tutto ciò significa che una parabola di Gesù non può essere ridotta ad una frase didattica o ad un appello etico, così che sia possibile dimenticare, per così dire, «archiviarla» nella mente, persuasi di averla ora compresa e di essersene appropriati interiormente. Da tutti questi testi emerge un Nazareno acuto e grintoso, penetrante e responsabilizzante, che chiede a chi l’ascolta di essere presente a se stesso e di avere cuore e mente aperti a cambiare il proprio modo di pensare, guardando gli altri anzitutto come compagni di strada nell’avventura della vita, non come avversari o, peggio, nemici5.

1.2. Le parabole: un esempio di lettura (Lc 15,11-32) La parabola del cap. 15 che mi accingo a esaminare da vicino si situa nell’ambito di un dibattito: Gesù e alcuni farisei discutono circa la priorità delle norme della Torà o la priorità dell’essere umano nelle sue esigenze, specificamente per quanto concerne la questione dell’atteggiamento rispetto ai peccatori (15,1-10). È particolarmente significativo un fatto: l’anticonformismo radicale di Gesù. Egli accosta a membri dell’élite socio-culturale giudaica l’eventualità di essere pastori o, comunque, soltanto di svolgere qualche funzione in quell’ambito. È noto, infatti, quanto il mestiere di pastori fosse ritenuto impuro e guardato con disprezzo6. Gesù è coerente con il discorso fatto nei capitoli precedenti della versione lucana: massima accoglienza “familiare” (con continuità nel tempo) verso chi ha una vita più lontana da quella che egli ha proposto. Nella prima parabola si parla di un pastore che ha perduto una sua pecora (v. 4a). La sua attenzione è massima: tale perdita non è sopportabile. La ricerca dell’unica che

Per alcuni approfondimenti sulle parabole evageliche si vedano in seguenti possibili riferimenti bibliografici: B. Maggioni, Le parabole evangeliche, Vita&Pensiero, Milano 2003; A. Kemmer, Le parabole di Gesù. Come leggerle, come comprenderle, tr. it., Paideia, Brescia 2003; A.J. Hultgren, Le parabole di Gesù, tr. it., Paideia, Brescia 2004; C. Caldelari, Gesù, parte seconda: le parabole, Istituto Bibliografico Ticinese, Bellinzona 2009 (www.istitutobibliograficoticinese.ch). 6 Si veda, ad esempio, sulla disonestà dei pastori, una fonte rabbinica come Trattato Sanhedrin, 25b nella versione del Talmud babilonese. 5


Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth

437

è venuta a mancare è obiettivo degno di un grande rischio: mettere in pericolo la sorte di se stesso in quella delle altre novantanove, visto che il gregge è la sua risorsa di vita. Il deserto (v. 4b) non è certo un ambiente sicuro, ma l’attenzione individualizzata del pastore è per lui essenziale. Questo atteggiamento è presentato come comune: diversamente non si comprenderebbe l’uso della forma interrogativa retorica. Il ritrovamento della pecora suscita una reazione immediata: una gioia totale che sente il bisogno di essere manifestata. Tale invito a godere collettivamente del ritrovamento è direttamente proporzionale alla persuasione che la perdita potesse essere durevole e definitiva7. La sanzione del racconto è l’esplicitazione della logica del Regno dei cieli: l’attenzione prioritaria al cambiamento della propria mentalità, fosse anche un solo individuo ad essere coinvolto in questo processo (cfr. Ez 18,23; 33,11). Quale pendant umano del primo racconto eccone, mutatis mutandis, un secondo. La forma interrogativa retorica si ripete: l’eventualità di aver perduto un8 oggetto di valore molto concreto (= il salario giornaliero di un operaio) mobilita le energie della protagonista che non cessa di darsi da fare sino al suo rinvenimento (v. 8). L’obiettivo raggiunto la spinge alla medesima condivisione ricercata dal pastore dei vv. precedenti. E se l’espressione della gioia è la stessa (synchárête), l’ammissione diretta della propria responsabilità nello smarrimento (cfr. apôlesa - v. 9) rende, implicitamente, lo stesso livello di gioiosità che la donna invita a condividere con lei. La chiusa tende a sintetizzare il contenuto del discorso gesuano: la gioia si produce immediata e permane, in cielo, di fronte ad una sola persona che cambi vita con un processo di conversione in sviluppo durevole9. Pertanto, due sono gli elementi discorsivi comuni alle due parabole: la ricerca inesausta e diretta di quanto perduto personalmente (apôllymi è il verbo pregnante della situazione); la gioia del ritrovamento, grande e da condividere con quanti sono più familiari10. Detto tutto questo, Lc propone immediatamente la pericope 11-32. Se si considera Lc 15,11-32 nella sua globalità, si nota, abbastanza agevolmente, la suddivisione della parabola in quattro quadri: 11-13a; 13b-20a; 20b-24; 25-32.

Cfr. il valore di azione compiuta nel passato dagli effetti ancora sensibili nel presente che viene espressa dal participio perfetto apolôlós. 8 «Le cento pecore rappresentano la moltitudine d’Israele, le dieci dracme (ndr.: hapax neotestamentario) i pagani, che pure fanno parte della famiglia di Dio. Non c’è più differenza tra giudei e gentili, perché tutti gli uomini sono suoi figli» (S. Fausti, Una comunità legge il vangelo di Luca, EDB, Bologna 1994, p. 539). Questa interpretazione pare assai interessante anzitutto come primo riferimento simbolico-parabolico rispetto ai due diversi destinatari delle parole del Gesù lucano sin dall’inizio di Lc 15: giudei e pagani sono messi sin dall’inizio sullo stesso piano. 9 Cfr. il presente participio metanoûnti. 10 «Le due parabole acquistano tutto il loro significato solo se si tiene presente la coscienza che Gesù aveva di sé. Esse illustrano come egli abbia inteso la sua missione; egli non deve cercare opere di pietà, ma ricercare i componenti traviati del suo popolo fino a ritrovarli» (K.H. Rengstorf, Il Vangelo secondo Luca, Paideia, Brescia 1980, p. 311). 7


438

Ernesto Borghi

(a) L’inizio è rispettoso della libertà (vv. 11-13a) 11

12

E disse: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: “Padre, dammi la parte che mi spetta delle (tue) sostanze”. E il padre divise il patrimonio tra loro. 13 E dopo pochi giorni il più giovane, riunite tutte le sue ricchezze, partì per un paese lontano. Il terzo racconto parabolico comincia in modo diverso dagli altri fin dalle prime due parole, del tutto anonime (v. 11: E disse), che, al massimo, sottintendono i destinatari del discorso in avvio. La differenziazione di questa narrazione gesuana rispetto alle due precedenti apparirà sempre più evidente nel corso della lettura. L’inizio vero e proprio del racconto è estremamente laconico: basta registrare l’utilizzazione dell’anonimo ànthropos (essere umano), in luogo di anér (uomo in quanto tale, maschio). Il soggetto portante è senz’altro il figlio minore, il quale desidera qualcosa: si tratta almeno del mutamento della sua condizione e tale impulso è così forte da condurlo a chiedere al padre la propria parte di eredità. Egli, infatti, non soltanto vuole i beni che gli sono di norma destinati. La possibilità concreta di raggiungere questo suo obiettivo gli è fornita dal genitore, sul quale il figlio ha influito persuasivamente con la sua richiesta e che, senza opporsi alla libera scelta del secondogenito, senza indugio alcuno e definitivamente (la laconicità iniziale continua) spartisce i suoi beni tra i due figli. Il figlio minore, d’altra parte, ha fatto una richiesta di ordine giuridico-formale e il padre replica secondo norma di successione, direi, protocollarmente, senza aggiungere alcunché a questo livello della relazione. Chi ha fatto scattare la dinamica della vicenda è anche il destinatario dell’azione che egli ha suscitato. Il risultato perseguito viene perfettamente raggiunto al termine della sequenza: il figlio parte verso un paese lontano, quindi pagano11, con i nuovi mezzi economici da lui acquisiti tramite la vendita della propria parte di eredità.

(b) L’esercizio egocentrico della libertà (vv.13b-20a) «E là sperperò rovinosamente e completamente le sue sostanze vivendo da incosciente. 14Dopo che egli ebbe perso tutto, in quella regione si produsse una grave

11 Il verbo apodêméin (lett. essere lontano da casa, dove casa è il dêmos, vale a dire la più piccola circoscrizione di cui facevano parte i cittadini dell’Attica classica - cfr. H. G. Liddell - R. Scott, A GreekEnglish Lexicon, Clarendon, Oxford 1968, p. 196) esprime questo senso di allontanamento totale ed estraniante. D’altro canto, anche nell’ambiente culturale primo-testamentario, parlare di un paese lontano significa riferirsi ad un mondo del tutto esterno a quello dell’Israele popolo di Dio (cfr. A. Serra, La fuga e il ritorno del figlio prodigo [Lc 15,11-32], in R. Fabris [ed.], La parola di Dio cresceva, EDB, Bologna 1997, pp. 234-235).


Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth

439

carestia ed egli cominciò a trovarsi in notevole difficoltà. 15Andò allora da uno dei cittadini di quel paese e si sottomise alle sue complete dipendenze. Costui lo spedì nei suoi campi a fare il guardiano di porci. 16Ed egli bramava di riempirsi la pancia con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gli(ene) dava. 17Allora entrò in se stesso e disse: “Quanti salariati di mio padre abbondano di pane, mentre io qui sto morendo di fame! 18Mi alzerò e andrò subito da mio padre e gli dirò: ‘Padre, ho commesso moltissimi errori anche verso di te 19e non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi salariati’”. 20Si alzò e si avviò sulla strada del ritorno verso suo padre». Anche in questa seconda sequenza il protagonista della narrazione è il figlio minore. Egli vive il primo scacco della sua esperienza di allontanamento dall’ambiente paterno. Infatti il rapido venire meno delle sostanze di cui era entrato in possesso (13b-14a) e la concomitante grave penuria alimentare, verificatasi in quella zona (14b), costituiscono due ostacoli gravi e contestuali nel quadro del suo obiettivo, implicito nel testo ma reale: raggiungere, partendo, una condizione migliore di quella vissuta accanto a suo padre (14c). La modalità della vita condotta nel paese straniero, quando egli aveva grande disponibilità di mezzi economici, è connotata attraverso un avverbio, asôtôs (insalvabilmente, senza speranza), che esprime la catastroficità di quella conclusione, viste le premesse (sperperò rovinosamente e completamente le sue sostanze = dieskòrpisen ten ûsìan autû), e non tanto la negatività intrinseca della domanda fatta al padre. Circa il verbo diaskorpízein la traduzione non è semplice: esso deriva, infatti, dal sostantivo skórpios, una macchina da guerra che lanciava pietre secondo il movimento d’attacco proprio dell’animale omonimo (forse la resa dilapidare rovinosamente potrebbe essere una soluzione migliore)12. La fame, conseguenza della carestia, è il primo fattore che lo costringe a modificare il livello dell’obiettivo iniziale13. Insomma, colui che si era riccamente divertito essendo al centro dell’attenzione di molti, comincia ad essere relegato in secondo piano, in disparte, non riveste più l’interesse di prima: questo è uno dei sintomi fondamentali della piega dolorosa che sta assumendo la sua vita. Si tratta, a questo punto, solo e soltanto di garantirsi le condizioni necessarie alla sopravvivenza. Tale cambiamento di programma porta con sé un ridimensionamento della qualità della sua vita, ridimensionamento che è ricco d’implicazioni. Egli si aggrappa con tutte le sue forze alla possibilità di lavoro ivi fornitagli da un abitante

12 Più efficace è, talora, la traduzione del genitivo assoluto «dapanêsantos dè autû» e segnatamente del verbo dapanân: avendo consumato tutto è una buona soluzione se si tiene conto del fatto che quest’espressione verbale è spesso associata a spese di entità pazzesca. 13 L’inizio delle difficoltà del secondogenito è reso da un verbo semanticamente notevole: ysteréisthai significa, infatti, letteralmente venire dopo, essere dietro, essere inferiore. Inoltre la carestia in oggetto è limòs, ossia fame estrema derivante da mancanza totale di cibi.


440

Ernesto Borghi

del luogo, un pagano14: essere guardiano di animali e, per di più, di maiali (v.15), tradizionalmente sede e veicolo d’impurità15. E lo scadimento della sua condizione non è ancora arrivato al culmine. Infatti, nonostante lavori in quella maniera, che, in mancanza d’altro, egli ha dovuto accettare, non riesce neppure a perseguire l’obiettivo minimo per sopravvivere, che è riempire la propria pancia di cibo (v. 16a), perché neanche un cibo infimo come le carrube gli viene concesso (v. 16b). La tristissima condizione professionale e la drammatica situazione alimentare, simultaneamente attive e contemporaneamente considerate, stimolano una presa di coscienza del protagonista: «Invidioso del nutrimento dei maiali, egli rischia di diventare l’antitesi del figlio. Il fatto che questo nutrimento non gli venga concesso evita questa trasformazione negativa: peggio nutrito dei porci e contro la sua volontà, egli si distingue dagli animali»16. A partire da questa situazione, dove la frustrazione della brama materiale è pesante, egli inizia a comprendere di aver fallito anche nel secondo scopo propostosi (la mera sopravvivenza) ed è condotto a sancire personalmente questa défaillance ulteriore, riconoscendo il suo status oggettivo attuale. Questo processo di autocoscienza, che pone fine al degrado iniziato al v. 13b, avviene, nella narrazione, tramite un dialogo intimo così articolato: • egli rientra in se stesso17, si rende pienamente consapevole della propria condizione miserevole, in senso relativo (17b: confronto con lo status materiale dei salariati del padre, a lui ben noto) ed in senso assoluto (17c: la propria terribile indigenza alimentare); • egli si convince e decide di abbandonare la personale situazione e di far ritorno subito all’ambiente di vita precedente al decadimento vissuto, ma secondo il livello che gli compete nella contingenza attuale (19b). Il protagonista giudica, infatti, a sé conveniente questa nuova declinazione del suo obiettivo esistenziale (vivere materialmente tranquillo), perché gli consente, comunque, di sopravvivere secondo parametri superiori a quelli che egli conosce nel momento in cui parla tra sé e sé. Oltretutto sa bene quale sia la condizione di rapporto da lui creata con suo padre (19a). Questa seconda fase della parabola si conclude con l’inizio dell’attuazione di quanto deciso: egli ritorna di fatto verso l’ambiente di partenza (20a), sancendo personalmente e definitivamente la negatività dei processi precedenti. In At 10,28 si nega la liceità di un rapporto stretto, quale quello in questione, tra un giudeo ed un pagano (e ad essere usato è sempre il verbo kollásthai). 15 Egli fa il custode di porci, l’animale impuro per eccellenza (Lv 11,7). 16 Groupe D’Entrevernes, Il fallait faire la fête... Controverse e paraboles (Lc 15), in Id., Signes et paraboles. Sémiotique et texte évangélique, Seuil, Paris 1977, p. 121. 17 In opposizione allo spostamento peccaminoso del centro di gravità, il raccogliersi dell’uomo in se stesso significa il ristabilimento della condizione normale. Il ritorno del figlio minore comincia quando egli entra in sé, ritorna a se stesso. 14


Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth

441

(c) Dal rispetto della libertà all’affetto profondo della riconciliazione (vv. 20b-24) «Mentre egli si trovava ancora lontano, il padre lo vide e, dominato da una commozione viscerale, gli corse incontro e si abbandonò gettandogli (le braccia) al collo e lo baciò affettuosamente. 21Il figlio, però, gli disse: “Padre, ho commesso moltissimi sbagli anche verso di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio...”. 22Ma il padre disse ai suoi schiavi: “Presto, tirate fuori la (sua) veste e fategliela indossare e mettegli un anello al dito e i calzari ai piedi e 23portate il vitello, quello ingrassato, e uccidetelo e, mangiando, facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed ha deciso di tornare alla vita, era perduto senza speranza e si è lasciato ritrovare”. E cominciarono a far festa». Il protagonista cambia: ora è il padre, che, attraverso le sue decisioni ed azioni, conduce, operativamente e per interposta persona, le fila dell’intera vicenda. Costui, lo ricordo, non aveva ostacolato, in alcun modo, la libertà del figlio minore ed aveva avuto con lui, secondo quello che appare dal testo, uno stile di rapporto puramente formale. Il suo obiettivo è, comunque, chiaro: che il figlio viva. Ben altra però è la configurazione relazionale in questo nuovo frangente. Il figlio stesso diviene subito, prima che possa dire una parola e solo per il fatto di essersi di nuovo profilato all’orizzonte del padre, il destinatario dell’azione di quest’ultimo, un agire scandito efficacemente da un’incalzante serie di frasi coordinate. Il denominatore comune di tutti i primi gesti del padre (la non casuale presenza “di vedetta” - il sommovimento interiore - il correre pieno di slancio immediato18 - l’abbraccio19 - il bacio teneramente affettuoso) è palesemente l’affetto appassionato e disinteressato per il secondogenito. Il padre ha raggiunto il suo scopo. Il figlio, grazie all’opportunità, offertagli inaspettatamente, può portare avanti subito il processo di emancipazione dalla distruttiva sequenza precedente. Tale svolgimento compie solo una parte del percorso preventivato dal suo attore: egli non riesce a fare altro che dichiararsi peccatore e, conseguentemente, indegno di riacquistare la personalità originaria, l’essere figlio (v. 21). Il padre ha ottenuto ciò cui mirava (la vita del figlio) e, successivamente, fa soltanto azioni collocabili in questa prospettiva. L’intera serie di gesti di cui il figlio è fatto oggetto per suo ordine e che concernono la veste, l’anello, i calzari e l’uccisione ed

Nell’antichità, tanto greco-latina quanto semitica, un pater familias avrebbe perso moltissimo in dignità personale e sociale, se si fosse messo a correre, atteggiamento tutt’altro che consono alla sua autorità ed età. 19 Letteralmente l’espressione greca corrispondente significa cadde sul suo collo. È esplicitato così un’altra volta lo slancio con cui il padre finisce la sua corsa verso la sua “destinazione”, impedendo al figlio qualsiasi tipo di gesto diverso. 18


442

Ernesto Borghi

imbandigione del vitello fatto ingrassare per le grandi occasioni (vv. 22-23) sono, insieme alla rapidità20 in cui tutto ciò deve avvenire, la conferma di questa dinamica. La sanzione definitiva dell’intero processo è fornita sempre dal protagonista della vicenda, il quale dà forma alla consapevolezza generale in proposito. Analizziamo le quattro voci verbali che caratterizzano 24a: • era morto è predicato nominale e il verbo esprime l’azione durativa nel passato; • ha deciso di tornare alla vita (aoristo indicativo di valore ingressivo): l’azione ha la caratteristica della puntuatività definitiva che sorprende21; • era perduto senza speranza dà, contemporaneamente, tre indicazioni: l’anteriorità dell’azione, la sua “risultatività conclusa” e la sua concentrazione assoluta nel soggetto); • si è lasciato ritrovare (aoristo indicativo di forma passiva): l’azione è momentanea, compiuta una volta per tutte, nel passato. Queste notazioni inducono alla seguente interpretazione: non vi era più alcuna speranza, visto che il figlio era venuto meno alla presenza del padre; tale fatto si era verificato nel passato ed i suoi effetti, interamente dipendenti dall’agire libero del figlio, continuavano senza possibilità di remissione. Tuttavia questa situazione è mutata radicalmente con la decisione del figlio di ritornare ed il padre intende dimostrare in ogni modo, anche nella spiegazione delle condizioni d’accoglienza, che egli considera sostanzialmente definitivo questo ritorno. “Mentre lo stesso figlio prodigo parla il linguaggio della legge che è «il linguaggio di casa, l’idioma che ha imparato”, il padre, cambiato nel dolore dell’avventura, parla il linguaggio della profezia, non dice: “Sì, hai peccato e io ti perdono» ma: «Mettetegli l’abito di festa, i sandali, l’anello perché il morto è risuscitato”22. Il risultato finale dell’agire del padre è la festa23 generale (v. 24b), che sospende la serie delle attività quotidiane in corso e fa entrare tutti nel quadro delle relazioni paterna e filiale. Il tipo di rapporto in cui il figlio minore aveva sperato ritornando a casa è del tutto superato. Anche il livello relazionale padrone-schiavo è sospeso: si generalizza quello padre-figlio. L’ambiente “impresa familiare” diviene famiglia in festa.

Presto: ecco l’unica indicazione temporale che il testo offre. Questo avverbio di tempo è omesso da alcuni manoscritti, i cui redattori hanno evidentemente giudicato superflua, se non perniciosa quest’indicazione circostanziale. 21 Cfr. Rm 7,9 per il verbo, 1Cor 1,21b per la valenza temporale di questo aoristo. 22 A. Paoli, La radice dell’uomo, Morcelliana, Brescia 19946, pp. 127-128. 23 Cominciarono a far festa: forma sintetica ed efficace per concludere questo terzo quadro. Particolarmente rilevante mi pare la presenza del verbo far festa (euphráinesthai): attestato 8 volte nel NT, in tre delle quattro ricorrenze lucane (12,19; appunto 15,24 e 16,19) è costantemente associato a momenti conviviali, a significare che quelle sono occasioni di gioia particolarmente rilevante, fatto comune, come è riscontrabile in una sterminata bibliografia, alla tradizione di moltissimi popoli, segnatamente quelli mediterranei. 20


Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth

443

(d) La responsabilità della gioia è esigente (vv. 25-32) Il figlio maggiore era nei campi; e, tornando, si avvicinò alla casa e sentì musica e danze. 26Chiamò un servo e gli chiedeva che cosa fossero questi (suoni). 27Ed egli gli rispose: “Tuo fratello è tornato e tuo padre ha fatto uccidere il vitello, quello delle grandi occasioni, perché l’ha riavuto sano e salvo”. 28Allora il fratello maggiore) si irritò profondamente e non aveva alcuna intenzione di entrare (in casa). D’altro canto suo padre, uscitone, lo invitava insistentemente (a farlo). 29Egli, allora, disse, in tutta risposta, a suo padre: “Ecco, da tanti anni sono al tuo servizio e non ho mai mancato di adempiere un tuo comando e a me non hai mai concesso neppure un capretto affinché facessi festa con i miei amici; 30quando, invece, questo tuo figlio, che ha fatto fuori il tuo patrimonio con prostitute, è arrivato, hai fatto uccidere per lui il vitello delle grandi occasioni!”. 31Ma (il padre) disse: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto quello che è mio è tuo; 32ma si doveva far festa ed essere pieni di gioia, perché questo tuo fratello era morto ed ha deciso di tornare alla vita, era perduto senza speranza e si è lasciato ritrovare». 25

Entra in campo il terzo personaggio fondamentale di questo racconto: il figlio maggiore. Egli, protagonista di questa quarta sequenza, esprime esplicitamente l’oggetto della sua azione, il suo non ingiustificato desiderio di una vita meritatamente agiata. Lo fa solo censurando quello che il padre concede al fratello “debosciato” che è ritornato. Il soggetto di questo quadro rientra dalla sua attività quotidiana e i suoni che sente (25b), ma particolarmente le parole del servo da lui interpellato (26-27) catalizzano la sua immediata reazione collerica (28a). Perché la replica del servo è tanto importante? Ci si soffermi un istante sulla sua costruzione: l’acme del discorso è raggiunta immediatamente tramite la concentrazione sullo strumento principe della festa (il vitello quello ingrassato, espressione enfatizzata dalla particolare posizione attributiva dell’articolo in greco). Ecco, molto probabilmente, le “gocce” che hanno fatto traboccare il “vaso”: l’ira del primogenito ha modo così di manifestarsi. Efficacissimi sono i due verbi a lui relativi. Infatti • «si irritò profondamente» esplicita tutta la rabbia propria del soggetto, sviluppatasi subitaneamente24; • «non aveva alcuna intenzione» esprime la volontà non sottoposta a riflessione previa, ma spontanea ed immediata25.

24 Mi sembra significativo, per capire il livello della tensione emotiva espressa e l’immediatezza della risoluzione pratica conseguente, un confronto con gli altri passi delle versioni sinottiche in cui l’aoristo passivo di orghízein è attestato, ossia Mt 18,34; 22,7; Lc 14,21 e, molto probabilmente, Mc 1,41. Nell’intero NT i passi interessati dal fenomeno sono quelli citati e Ap 11,18; 12,17, questi ultimi non comparabili al versetto che stiamo esaminando. 25 Al contrario, l’altro verbo greco che significa volere, ossia bûlesthai esprime non di rado anche nel NT, la volontà vagliata da riflessione.


444

Ernesto Borghi

La continuità nel tempo del suo rifiuto di partecipare alla festa (cfr. v. 28a) si confronta con un’uguale e contraria duratività: la determinazione del padre ad uscire dalla gioia del banchetto per invitare insistentemente il figlio maggiore ad esserne compartecipe (28b). Proprio quest’esortazione dà al protagonista il destro per esprimere il proprio rimprovero nei confronti del padre: si tratta di una reprimenda che ha il padre come destinatario formale, ma, in realtà, mira al fratello, su cui si concentrano gelosia e disprezzo (29-30). Il testo è altamente espressivo. Infatti il primogenito manifesta sin dall’incipit del discorso (si veda il tono di quell’ecco iniziale) la sua profonda indignazione. Infatti parla di suo fratello con la locuzione da rendersi letteralmente così: questo tuo figlio quello che ha divorato le tue sostanze con prostitute, in cui risaltano tre elementi: • la prima definizione del fratello che è fatta soltanto rispetto al padre, in termini di distacco spregiativo; • la connotazione (sintatticamente enfatizzata) del fratello come il consumatore distruttivo “per eccellenza” dei beni del padre; • la stigmatizzazione morale dello sperpero completo del denaro con donne di malaffare, senza che si capisca da dove abbia attinto questa informazione. È palese che egli non cerca di essere giusto e, ancor meno, generoso verso chi è ritornato. L’apice polemico del discorso è raggiunto in due punti: la locuzione (lett. il vitello ingrassato) e il pronome personale autôi, un dativo di vantaggio che esprime quello che è il colmo per il fratello maggiore, cioè che la “consacrazione” festiva del vitello ritenuto migliore sia fatta proprio per quel lui! Il padre, a seguito delle dure parole del primogenito, è messo nella condizione di perseguire completamente il suo costante obiettivo: la vita del figlio, quindi di ambedue i figli. Nulla è mai cambiato nell’affetto che prova per chi è rimasto accanto a lui26: l’atteggiamento di rispettosa giustizia che l’ha ispirato nella divisione dei beni all’inizio (v.12) non è assolutamente mutato (v.31). In questo v. 31 la formula Figlio, tu offre due indicazioni: • l’interlocutore cui il padre si rivolge è, anzitutto, un figlio. E il pronome personale qui non sarebbe sintatticamente e semanticamente necessario: si tratta di una ridondanza significativa, perché dimostra che l’oggetto del discorso del padre non è un figlio in generale, ma proprio quello che gli sta di fronte e con cui tutto è comune (sempre con me sei, è forma che riecheggia chiaramente il termine tecnico per designare la vita di condivisione globale della famiglia); • «Il padre non esprime recriminazioni e non dice che il figlio maggiore è in errore;

È sufficiente considerare lo scarto di tono esistente tra lo slancio critico del primogenito e la forma con cui egli è “apostrofato” dal padre: «Il padre e il figlio maggiore non si intendono più perché parlano un linguaggio diverso. Uno parla di vitelli, di capre, di beni, di giustizia e di ingiustizia. Il padre ha scoperto la persona che gli viene incontro» (A. Paoli, La radice dell’uomo, p. 123). 26


Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth

445

egli non fa commenti sulla rettitudine o sulla fedeltà del figlio maggiore. Tutto ciò è dato per riconosciuto. Invece, egli mette l’accento soltanto sull’intimità del loro rapporto: “Tu sei sempre con me” (= tu non sei mai venuto meno; tu non sei stato mai perduto)»27. E come il padre aveva mirato allora a favorire pienamente la libertà di vita dei figli nei rapporti con lui (dal maggiore non percepita chiaramente come tale28), così, per dare al proprio agire un esito del tutto coerente con lo scopo perseguito, si deve29 giungere ad una manifestazione di gioia piena (32a). E il verbo édei (imperfetto indicativo = lett. bisognava, era necessario) ha certamente una portata teologica: il dispiegamento del piano di Dio nella storia è la necessità superiore che suscita il verificarsi di molti fatti. Questo sfondo esiste anche per la nostra parabola: tuttavia, restando alla narrazione in sé, la doverosità della gioia e della festa si fondano sull’atteggiamento d’amore radicale del padre. Egli, a fronte della ricomparsa del figlio creduto ormai inattingibile, non può che manifestare questo suo stato d’animo condividendolo chiaramente con tutti quelli che gli sono vicini, quindi, in primis, con il primogenito, che è da sempre con lui. E sul fatto che questa festa sia destinata a non finire non vi è dubbio: il tempo verbale di édei, come ho già ripetutamente detto, ne garantisce la continuità. E ciò è possibile soltanto se la festa è completa in tutto e per tutti (v32b).

(e) Cenni conclusivi Al termine della lettura, è possibile dire che il desiderio di vita muove tutti i personaggi essenziali della narrazione: Il padre non dichiara illegittima l’aspirazione di suo figlio alla vita. Dio è il Dio dei vivi, di coloro che vogliono vivere. Questo desiderio di vita è accompagnato da un’assenza totale di argomenti validi. Il figlio mino-

J. Fitzmyer, The Gospel according to Luke, II, p. 1091. Tutto il linguaggio utilizzato dal primogenito per descrivere il suo rapporto con il padre non ha pressoché nulla di affettivo-filiale: (lett. sono al servizio assoggettato di te) è il verbo, tra l’altro, proprio dello stato servile (cfr., senza risalire alla copiosissima messe di passi della LXX, le 25 attestazioni neo-testamentarie, dirette e/o metaforiche, come, ad es., Mt 6,24; Lc 16,13; Gv 8,33; Rm 7,25); ûdépote entolên sû parêlthon (lett. mai una tua disposizione non osservai) è locuzione di chiara ascendenza giuridico-contrattualistica. 29 Nel v. 32 è da sottolineare certamente il rilievo dato, forse con una punta, ad un tempo, di energia polemica e accoramento affettivo, al legame fra i fratelli. Il padre utilizzando la locuzione questo tuo fratello, riprende l’aggettivazione scelta sprezzantemente dal primogenito, questo appunto, ribaltandone il tono tramite l’associazione del pronome di seconda persona: il figlio maggiore deve ricordarsi che si sta parlando di chi è, chiaramente e doverosamente, suo fratello. Aspetto ancora più importante è la cosiddetta necessità della gioia festosa (cfr., a puro titolo esemplificativo, alcune attestazioni di déi’, presente indicativo, quali Mt 16,21; 24,6; 26,54; Mc 13,7; Lc 4,43; 19,5; 24,7; Gv 12,34; 20,9, oppure dell’imperfetto in questione, come Lc 13,16; 22,7; 24,26; Gv 4,4). 27 28


446

Ernesto Borghi

re non ha alcuna carta vincente da mettere sul tavolo. Gli restano così pochi diritti che egli non spera più nulla. Il figlio si attende al massimo una sopravvivenza che associ la punizione alla vita. Egli riceve non quello che merita, ma quanto il padre dona senza calcolo, senza tenere conto della colpa. L’originalità cristiana della relazione tra Legge e Vangelo appare qui. L’atteggiamento del padre trascende il rispetto della Legge senza svalutarne l’esigenza. E se consideriamo il contesto immediato del nostro racconto, la dinamica perdita/ritrovamento (con la conseguente alternativa tristezza-dolore/felicità-gioia) è del tutto presente anche nei vv. 4-9, ma con due importanti differenze: • nelle parabole della pecora e della moneta è l’individuo perduto ad essere oggetto della ricerca di Dio che salva, mentre, nella terza narrazione, la salvezza perduta è l’oggetto della ricerca da parte degli esseri umani30; • nelle prime due parabole si parla di animali e cose, nella terza di un essere umano: la libertà, per non essere fittizia, deve essere concessa realmente ed il ritorno può e deve essere una scelta personale. Pertanto il pastore e la donna cercano con affannata determinazione; il padre attende pieno di amore. D’altra parte, la qualità della vita di tutti, anche quella paterna, raggiunge l’acme, quando i personaggi della vicenda si ritrovano entrambi, ossia ritrovano autenticamente la propria identità umana di fondo. Infatti, passando per una frattura dolorosa il figlio minore acquista il senso, autonomo ma affettivamente autentico, della propria vita: torna a casa ad essere quello che è, spogliato delle illusioni precoscienti, insomma torna ad essere creatura, ma con la consapevolezza di esserlo 31. Così facendo, la paternità diviene una relazione vera, cioè appassionata e coinvolgente, una paternità donata, restituita, cioè scelta. Muore il padre come datore di vita, nel senso di colui che, anzitutto, conferisce valore, avere e potere ad un proprio destinatario, anche al più caro per lui (= un figlio) e rinasce una nuova paternità. Perde l’identità dell’origine. Non è più colui che dà, ma colui che riceve32. A questo punto padre e secondogenito si incontrano come due familiari realmente adulti. Questa inversione di soggetti e di oggetti deve essere compresa in una prospettiva additiva e non esclusiva. La nostra parabola incita essa stessa ad operare l’aggiunta: l’uomo trova la salvezza quando Dio diviene il soggetto della ricerca, cioè quando il padre trova e reintegra suo figlio. 31 Soprattutto un lettore giudaico o cristiano ex-giudaico di questa parabola poteva e può fondatamente vedere nella vicenda del figlio minore e nella terminologia utilizzata da Lc quelle del popolo d’Israele nella sua relazione con Dio fatta di allontanamenti e riconciliazioni molteplici: «a seguito del “ritorno-conversione” del popolo verso il Signore, ha termine la “dispersione” dell’esilio e ha luogo il “ritorno” del popolo alla propria terra. Ed è sintomatico che anche il “raduno-ritorno” dei dispersi d’Israele sia annunciato, fra l’altro, in termini di “risurrezione” e di “ritrovamento”» (A. Serra, La fuga e il ritorno del figlio prodigo, p. 248). 32 «Un incontro che è un epilogo e un punto di partenza, perché non è più sulla base di beni da compartire, ma è un viaggio di due poveri. Nello sperpero del figlio se ne sono andati i beni del padre e si rinnova una relazione. I due, nell’impoverimento che hanno sofferto, riscoprono un valore nuovo, quello del ‘toccarsi come persone’» (A. Paoli, La radice dell’uomo, p. 123). 30


Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth

447

E ad una coscienza sociale e psicologica adulta fa appello il padre, ora che è rinato alla relazione umana profonda, anche nei confronti del primogenito, la cui possibile replica non trova spazio nel testo evangelico33. Proprio in merito a questa sorta di “conclusione sospesa” ed agli interrogativi che essa suscita, è ovvio che una possibile risposta deve tener conto del quadro testuale in cui la parabola è inserita, sia esso il cap. 15 come anche l’intera versione lucana. Il narratore nella narrazione, Gesù appunto, proclamatore esistenziale ineguagliabile del suo annuncio di salvezza, mira, credo evidentemente, all’identificazione tra i Farisei ed il primogenito, invitandoli ad avere verso il secondogenito ritornato (= i collettori delle imposte) lo stesso comportamento che egli, esattamente come il padre del racconto, dimostra a loro riguardo. Se, da un lato, questo è, certamente un riconoscimento religioso positivo, visto che i Farisei, a differenza di chi si è allontanato (pubblicani), sono quelli che sono sempre stati col Padre, dall’altro viene messa a nudo la vacuità, la dinamica ripetitiva e servile del loro rapporto con Dio. Questa spiegazione non è certo l’unica possibile. È legittimo pensare anche che Luca non evochi, in questa parabola, semplicemente una tensione che appartiene al passato, l’opposizione tra i discepoli ingloriosi e spesso fuorilegge di Gesù e il corpo sociale dei Farisei benpensanti. Egli attesta un conflitto presente, segnalato parecchie volte nel libro degli Atti, tra la chiesa nascente, fratello minore, scelto e beato, e la Sinagoga, fratello maggiore che si rinchiude nella sua autogiustificazione e nella sua gelosia. Comunque, quali che siano gli elementi determinanti nell’interpretazione della parabola, è indiscutibile almeno un fatto: tutti i ritrovamenti di Lc 15, secondo un crescendo esistenziale straordinario dall’inizio alla fine, suscitano gioia profonda, la quale è effettivamente completa, quando tutti i possibili partecipanti sono coinvolti nel viverla. Gli amici e i vicini convocati a festeggiare nelle prime due parabole “diventano” nella terza il nucleo familiare in senso ampio in cui i due figli hanno il posto d’onore: l’obiettivo del vangelo di Gesù è donare la felicità a tutti gli esseri umani, secondo la gerarchia di relazioni proprie dell’esperienza di tutti, ma senza esclusivismi. Si tratta, infatti, di una felicità che è piena solo se è responsabile della gioia di ogni donna e di ogni uomo. Se qualcuno ne è privo, la gioia non è veramente se stessa34. Questa lettura non può che terminare con un interrogativo che lascia aperto il discorso così come ha deciso di fare chi ha redatto la versione lucana: «Il figlio maggiore ha infi33 Comunque, «il personaggio del figlio maggiore è indispensabile alla manifestazione del ruolo di “fratello”. Da un lato, egli completa la manifestazione figurativa della “voglia” attraverso il “rimpianto” della ricompensa, dall’altro, egli porta a compimento la manifestazione figurativa della reintegrazione del fratello minore senza soddisfacimento di quanto a lui manca: un fratello vivo dovrebbe far dimenticare il capretto» (Groupe d’Entrevernes, “Il fallait faire la fête”, p. 141 n.18). 34 «La condotta degli uomini, anche se apparentemente risulta ineccepibile, spesso lo è soltanto in maniera formale. Dietro questa perfezione o giustizia si nasconde un rapporto spesso interessato e strumentalizzato con Dio. È per questo motivo che la salvezza gratuita viene a sopperire anche gli inevitabili errori umani» (S. Grasso, Luca, p. 423).


448

Ernesto Borghi

ne accettato l’invito del padre? Non si sa: l’ultima parabola resta «misteriosamente aperta»35. Ciò vuol dire che indubbiamente la domanda resta posta ad ogni essere umano: accetta di rallegrarsi con Dio dell’ingresso nel regno di un suo fratello peccatore?36.

2. Cose fatte: i miracoli In questo ambito, molto esteso, ci sono le storie di miracoli. Pur avendo punti di contatto con analoghe tradizioni elleniche e giudaiche, molto ricche ed inclini al meraviglioso, al favoloso e al taumaturgico, le narrazioni di miracoli del NT sono cronologicamente ben precedenti a molti dei testi profani che vengono loro paragonati e, soprattutto, hanno un obiettivo diverso. Infatti esso non è mai l’evento in sé, nella sua eccezionalità, ma il risultato salvifico suscitato, in termini spirituali e materiali, nell’oggetto dell’azione di Gesù o dei suoi apostoli e nello Sitz im Leben in cui il miracolo viene operato. Se si considerano, a livello complessivo e preliminare, le decine di racconti di miracoli delle versioni evangeliche, si possono fare le seguenti puntualizzazioni.

2.1. I dati testuali dall’esegesi all’ermeneutica Anzitutto Marco, la Quelle e i materiali specifici di Matteo e Luca sono le quattro fonti in cui sono riscontrabili racconti di miracoli: tale ampia e diversificata attestazione può essere già una prova del valore storico-documentale complessivo di queste narrazioni, ferma restando la necessità di esaminarle una per una anche allo scopo di valutarne la storicità. La figura di Gesù annunciatore evangelico è inseparabile dalla cornice del taumaturgo che opera le azioni più diverse di liberazione dal male e dai limiti di ordine psico-fisico. Non si può cioè parlare di una giustapposizione di queste due dimensioni della sua fisionomia terrena. La tradizione cristiana successiva al 30 d.C. dà testimonianza di questo fatto nelle narrazioni dirette degli eventi miracolosi, nei commenti ad essi relativi pronunciati da Gesù o scritti da coloro che predisposero le redazioni finali delle versioni evangeliche.

«Come narratore di questo insieme, Luca non vuole impedire al suo lettore d’identificarsi con il figlio perduto e ritrovato, ma il suo racconto è anzitutto un’interpretazione destinata ai cristiani fedeli: quale accoglienza riservano a coloro che ritornano verso Gesù e la comunità?» (Y. Saoût, Évangile de Jésus Christ selon saint Luc, CE 137 [2006], 68). 36 G. Antoine, Les trois paraboles de la miséricorde: explication de Luc 15,1-32, in Aa.Vv., Exegesis, p. 132 «Quando noi proviamo personalmente la possibilità dell’annientamento, dunque la minaccia della morte, i due fratelli della parabola sorgono nella nostra coscienza. Come loro, noi abbiamo voglia di vivere, di sopravvivere. Ma come? Un riflesso ci spinge ad assicurare a noi stessi la nostra sussistenza, a portare con noi un poco di noi stessi, per garantire una continuità tra la nostra vita e la nostra sopravvivenza... Dio fa nuove tutte le cose. La nuova identità di figli che egli ci conferisce, la dobbiamo a lui ed a lui solo» (F. Bovon, La parabole de l’enfant prodigue: deuxième lecture, p. 305). 35


Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth

449

D’altra parte solo queste ultime parlano diffusamente di Gesù quale taumaturgo e soltanto il libro degli Atti collega fatti di ordine portentoso all’azione degli apostoli del Dio cristiano. Il resto della tradizione neotestamentaria, da Paolo all’Apocalisse, non ne fa menzione e questo fatto non può essere trascurato. Le ragioni possono essere numerose: un contatto con fonti della predicazione di Gesù che non davano grande rilievo ai fatti miracolosi? Un evidente disagio nei confronti delle «gesta» terrene dell’uomo Gesù? La volontà di evitare ogni concorrenza con altri missionari? Forse tutti questi elementi sono contestualmente veri37. Comunque Gesù aveva certamente annunciato che i suoi discepoli avrebbero compiuto miracoli, ma il miracolo ha senso solo in rapporto con il regno di Dio da proclamare e da instaurare. Al vertice di questi carismi, Paolo non pone i doni straordinari, ma l’amore fraterno (1Cor 13). La storicità dei miracoli gesuani appare ancora come una questione importante. Dal XVIII secolo ad oggi si è passati, a fasi alterne e con varie proporzioni, dalla convinzione della loro globale fantasiosità ed infondatezza ad una difesa apologetica del loro valore oggettivo38. Comunque la missione profetica di Gesù implicava l’insegnamento di parola e i fatti di evidente potenza: le versioni evangeliche lo affermano ripetutamente. I racconti di miracolo sono, come è noto, «il frutto di una memoria comunitaria che riporta tradizioni orali attraverso i canali diversificati delle comunità giudeo-cristiane ed elleno-cristiane, prima che questi trovino la loro espressione evangelica (anch’essa diversificata poiché ci sono quattro vangeli)»39. Distinguere nettamente il dato dall’interpretazione, come si è già visto nelle versioni evangeliche, non è praticamente possibile, anche perché non esistono fonti extraevangeliche che ci diano resoconti di questi eventi. D’altronde «la predicazione di Gesù di Nazareth e la predicazione evangelica non avrebbero potuto convertire né giudei né greci se Gesù non avesse avuto e non fosse stato presentato con un potere miracoloso uguale - o maggiore - a quello di altri taumaturghi considerati tali dai suoi contemporanei. Certo oggi non si considerano più i miracoli biblici come fatti che infrangono le leggi della natura; d’altra parte, non servono più come prove apologetiche per fondare la divinità di Gesù. Ma non esiste neppure una posizione radicale che neghi la possibilità del fatto miracoloso»40.

Cfr. G. Theissen - A. Merz, Il Gesù storico, tr. it., Queriniana, Brescia 1999, pp. 369-370. Per avere almeno un’idea del dibattito storiografico in merito, cfr. G. Theissen - A. Metz, Il Gesù storico, pp. 353-360 e la bibliografia ad esso relativa che il saggio in questione riporta. 39 C. Perrot - J.-L. Souletie - X. Thévenot, I miracoli, S.Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, p. 110. 40 P.-R. Tragan, La preistoria dei vangeli, Servitium, Sotto il Monte (Bergamo) 1999, pp. 118-119. «La finzione non sembra meno impegnata rispetto alla vita reale di quanto lo sia la storia. Quest’ultima mira alla verità come a ciò che è “realmente” avvenuto; l’altra si riferisce a quello che avrebbe potuto capitare. In questo modo esse raggiungono, ciascuna a suo modo, gli strati più impenetrabili e più celati della nostra esperienza temporale. Pertanto il romanziere non si sente meno in debito verso la realtà di quanto non lo sia lo storico» (P. Ricoeur, Temps et récit, in Études phénoménologiques [11/1990] 37). 37 38


450

Ernesto Borghi

• Dal momento che la tradizione dei miracoli è stata tramandata non soltanto nei racconti specifici - esorcismi, guarigioni, azioni sugli elementi naturali, interventi al di là delle prescrizioni religiose, manifestazioni soprannaturali - ma anche da sommari redazionali41, massime in contesti narrativi42 o parole attribuite strettamente a Gesù43, appare chiaro che vi sono differenze, anche sotto il profilo della storicità delineato, tra i fatti che compaiono sia nel filone narrativo particolare quanto negli altri generi letterari appena menzionati e quelli che, invece, non fanno parte di questi ultimi, che sono - particolarmente per quanto riguarda apoftegmi e loghia - testimonianze più dirette del Gesù storico. Se, dopo queste notazioni d’insieme, si vuole considerare la globalità dei racconti di miracolo evangelici, il discorso si fa molto interessante. Questa è una tabella che intende fornire gli elementi di base per una considerazione del fenomeno: Miracoli 1. cieco di Betsaida 2. cieco di Gerico 3. due ciechi 4. cieco nato 5. suocera di Simone 6. nozze di Cana 7. donna cananea/sirofenicia 8. centurione di Cafarnao 9. ragazzo “epilettico” 10. donna curva 11. donna fortemente emorragica 12. idropico 13. paralitico di Betesda 14. figlia di Giàiro 15. Lazzaro 16. un lebbroso 17. dieci lebbrosi 18. mano inaridita 19. Gesù cammina sulle acque 20. figlio della vedova di Nain 21. ufficiale reale 22. taglio dell’orecchio 23. condivisione dei pani (I) 24. condivisione dei pani (II) 25. paralitico di Cafarnao 26. pesca miracolosa 27. indemoniato cieco e muto 28. spirito immondo a Cafarnao 29. indemoniato di Gèrasa 30. indemoniato muto 31. sordomuto 32. tempesta sedata

Mt 20,29-34 9,27-31

Mc

Lc

8,22-26 10,46-52

18,35-43

8,14-15

1,29-31

15,21-28 8,5-13 17,14-27

9,14-29

9,20-22

5,24-34

9,1819.23-26

5,2123.35-43

8,4042.49-56

8,1-4

1,40-45

12,9-14 14,22-23

3,1-6 6,45-52

5,12-16 17,11-19 6,6-11 6,12-21 7,11-17 (7,1-10) 22,50-51 9,10-17

Gv

9,1-41 4,31-37 2,1-11

7,24-30 7,1-10 9,37-43 13,10-17 8,43-48 14,1-6

(4,46-54)

5,2-18

11,1-44

(8,5-13) 14,13-21 15,32-39 9,1-8

6,30-44 8,1-10 2,1-12

1,21-28 5,1-20

5,17-26 5,1-11 11,14 4,31-37 8,26-39

7,31-37 4,35-41

8,22-25

12,22 8,28-34 9,32-34 8,23-27

4,46-54 6,1-15

21,3-14


Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth

451

Questi 63 racconti di miracolo sono giunti a far parte delle redazioni finali delle versioni evangeliche attraverso tutto il lavoro di raccolta, confronto e scrittura compiuto dalla fine degli anni 20 del I secolo d.C. alla seconda metà dello stesso secolo e derivano dalle varie fonti che compongono le quattro versioni evangeliche44. Essi compaiono nei numerosi generi letterari presenti nelle versioni evangeliche stesse. E se si considerano i testi a partire da tutti questi elementi di ordine storico e letterario risulta chiaro anzitutto un fatto: guarigioni ed esorcismi - che sono, come si vede nella tabella appena presentata, la grande maggioranza degli eventi miracolosi di Gesù - sono presenti sia nella tradizione narrativa dei racconti tout court sia nei sommari, negli apoftegmi e nei loghia. Questa duplice attestazione dà un contributo significativo alla tesi della storicità gesuana di questi eventi. Se poi si confrontano le narrazioni di questi due tipi di miracolo con quelle degli altri, appare evidente la maggiore probabilità che questi ultimi avvenimenti risentano molto più da vicino della lettura apostolica post-pasquale. Ecco alcuni esempi: • la condivisione dei pani di Mc 8,6-10 appare molto vicino al racconto dell’istituzione eucaristica (14,22-25); • il camminare di Gesù sulle acque (Mc 6,49-50) è facilmente accostabile al racconto di un’apparizione del Risorto (Lc 24,37-39); • Anche la pesca straordinaria di Lc 5,1-11 ha più di un motivo di contatto con la tradizione di Gv 21,1-14. Queste poche osservazioni legittimano l’ipotesi che i miracoli che coinvolgono gli elementi naturali siano assai più intrisi di elementi pasquali di quanto non siano esorcismi e interventi terapeutici. Questi ultimi sono riconducibili al Gesù storico, come farebbe credere anche un altro fatto: «non era affatto normale che nell’ambiente di Gesù ogni carismatico attirasse su di sé tradizioni taumaturgiche. Di Giovanni Battista non vengono narrati miracoli di sorta... È ancora più

Cfr., ad esempio, Mc 1,32-34; 3,7-12; 6,53-56. Sono i cosiddetti apoftegmi,che, nel caso specifico (cfr., ad esempio, Mc 6,4-5; Mt 11,2-6), mostrano un lato che, se non si fosse realmente verificato, non avrebbe avuto ragione di essere riportato. 43 Si tratta dei loghia di Gesù (cfr., ad esempio, Mt 12,28; Lc 10,9; Mt 11,20-24; Mc 11,22-24), che «ricollegano i miracoli di Gesù a quei tratti caratteristici del suo messaggio che, invece, mancano proprio nella tradizione narrativa: insieme al regno di Dio, alla conversione e all’annuncio della salvezza ai poveri. in sintonia con la tradizione narrativa, viene posta in risalto l’importanza della fede» (G. Theissen - A. Merz, Il Gesù storico, pp. 371-372). 44 L’elenco seguente riporta, invece, i racconti di miracolo del libro degli Atti degli apostoli: 1. Lo storpio del Tempio (3,1-10); 2. Scarcerazione degli apostoli (5,19-20); 3. Il paralitico di Lidda (9,33-35); 4. La risurrezione di Tabita (9,36-42); 5. Scarcerazione di Pietro (12,3-19); 6. Il paralitico di Listra (14,8-10); 7. L’esorcismo di una schiava (16,16-18); 8. La scarcerazione di Paolo e Sila (16,23-40); 9. La risurrezione di Eutico (20,9-12); 10. Salvezza dal naufragio (27,9-44); 11. Paolo resta immune dal veleno (28,3-6); 12. Guarigione del padre di Publio (28,8). 41 42


452

Ernesto Borghi sorprendente il fatto che anche il fratello del Signore, Giacomo, attorno al quale crebbe un’abbondante tradizione leggendaria, non abbia attratto a sé alcun miracolo»45.

I racconti di miracolo compresi nella tradizione dei loghia corrispondono «all’autocomprensione di Gesù. Solo qui troviamo un’escatologia e un’etica, la sua predicazione nel regno di Dio e l’appello alla penitenza, il suo messaggi salvifico ai poveri e la consapevolezza della sua realizzazione»46. Tutte queste notazioni di carattere storico sono importanti, necessarie, ma non sufficienti. Resta viva la domanda forse più significativa di fronte ai racconti di miracolo di Gesù. Infatti, se pare assai probabile che numerosi eventi strabilianti abbiano avuto Gesù come protagonista, chiedersi perché egli li abbia realizzati appare, anche alla luce delle poche letture condotte in modo approfondito, essenziale.

2.2. Perché Gesù di Nazareth ha fatto dei miracoli? Gesù di Nazareth, per quanto esprimono anzitutto le versioni evangeliche canoniche, è andato alla ricerca anzitutto di membri del popolo di Israele. Egli ha incontrato anche persone non giudee, ha operato guarigioni anche a favore di non giudei. Queste guarigioni appaiono, comunque, come delle eccezioni, presentate come tali. L’obiettivo di Gesù è quello di indurre anzitutto i membri del popolo di Israele «ad assumere un atteggiamento che avrebbe permesso loro di far parte della nuova realtà che stava per iniziare. Annunciava il “regno di Dio” in cui credeva e che attendeva»47.

G. Theissen - A. Merz, Il Gesù storico, pp. 375-376; cfr. anche G. Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea, EDB, Bologna 2005, pp. 252-253. «Miracolo e parola si integrano: la parola accompagna sempre il miracolo e ha la preminenza su di esso, in quanto gli conferisce senso specifico e lo fa diventare un segno salvifico dei benefici del regno di Dio. Anche se il miracolo dà attendibilità alla parola, la parola è all’origine della fede nei miracoli stessi; essa è il ministero abituale, quotidiano di Gesù, la sua missione, mentre il miracolo è solo evento occasionale. Il miracolo è, in definitiva, la parola visibilmente efficace dell’identità di Gesù e del regno di Dio» (M. Mazzeo, La spiritualità del Nuovo Testamento. Ascolto e sequela, EDB, Bologna 2011, p. 239). 46 G. Theissen - A. Merz, Il Gesù storico, p. 373. «I miracoli di Gesù invitano a ridare al male fisico la sua neutralità morale, sganciandola cioè dalla colpa e da Satana, per considerarlo solo come una delle lacune che circondano l’esistenza umana, al pari della povertà, dell’igonranza, della vulnerabilità che la creatura ragionevole è tenuta con tutto il suo ingegno e impegno a eliminare, come è tenuta a liberare la terra dai triboli e dalle spine. Il male è destinato a scomparire perché il disegno contempla un’esistenza che alla fine ignorerà il dolore, la sofferenza, ma finché i cieli nuovi e la terra nuova non compariranno, esso rimarrà come un impaccio, un banco di prova per ogni essere umano» (O. Da Spinetoli, Gesù di Nazaret, Meridiana, Molfetta 2006, p. 138). 47 A. Destro – M. Pesce, L’uomo Gesù. Giorni, luoghi, incontri di una vita, Mondadori, Milano 2008, p. 98. Circa l’interpretazione dei miracoli evangelici e le varie ipotesi e teorie anche recenti e recentissime si veda utilmente il riepilogo costituito da B. Kollmann, Storie di miracoli nel Nuovo Testamento, tr. it., Queriniana Brescia 2005, pp. 155-192. 45


Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth

453

D’altra parte, per giudei e non giudei, se si valuta il significato dei miracoli in cui Gesù evidenzia il potere del Padre e suo per ragioni inerenti alla manifestazione di sé agli esseri umani, ogni suo agire sorprendente è rivelazione di una potenza di cui egli stesso, da terrestre e mortale, è, ad un tempo, tramite e fonte. A buon diritto si può affermare che la fede posta in Gesù taumaturgo non coincide con la credulità suscitata da uno sbalordimento derivante da stravaganza. I soggetti di questa fede nelle diverse pericopi hanno fiducia in Gesù nel quadro di un impegno personale ben al di fuori del gusto per il sorprendente e il meraviglioso in sé specifici della letteratura ellenistica. La risposta gesuana considera costantemente la globalità della condizione umana secondo quelli che sono, sin dalla Creazione, i suoi due assi basilari: l’uno verticale (Dio√uomo) e l’altro orizzontale (uomo√uomo). Il suo fine, variamente espresso, appare costantemente quello di porre gli individui in grado di trovare un equilibrio tra le due istanze decisive della loro vita. L’azione straordinaria di Gesù intende veicolare l’idea concreta che il piano di Dio verrà attuato nella sua creazione e l’umanità conoscerà ogni bene, dunque anzitutto giustizia e pace48, a cominciare dalla dimensione terrena, nonostante le sofferenze di varia provenienza che si sono abbattute o incombono e di cui, in modo solidaristico, Gesù Cristo si occupa. Ogni miracolo rinvia all’identità di Gesù, cioè di colui che è Dio in prima istanza nell’attenzione a tutto quanto può essere bene per ogni essere umano colto nella sua quotidiana parabola esistenziale. E tanto nella tradizione sinottica che in quella giovannea i racconti di avvenimenti straordinari non sono disseminati lungo l’intero arco delle versioni evangeliche relative49. Quando la vita di Gesù si avvicina alla fase culminante, non vi è traccia di tutto questo, «come se la Croce del risorto esaurisse ogni miracolo. La morte ingloriosa di Gesù consuma ogni scopo di liberazione legato ai gesti di salvezza fatti precedentemente»50. Ogni ambiguità ermeneutica cade, ogni fraintendimento è impossibile di fronte agli eventi, tra loro indissolubili, della Croce e della Risurrezione.

48 Cfr. H.C. Kee, Medicina, miracolo e magia nei tempi del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1993, p. 132. 49 Nel vangelo secondo Marco l’ultimo miracolo è la guarigione del cieco Bartimeo (10,46-52) e in quello giovanneo tale ruolo è ricoperto dalla risurrezione di Lazzaro al cap. 11. 50 C. Perrot - J.-L. Souletie - X. Thévenot, I miracoli, p. 106. D’altra parte «il corpo di Gesù è percepito dalla gente che lo cerca e da lui stesso, come il luogo principale in cui trova origine, si manifesta e si svolge la sua vicenda. Un corpo comune, ma svincolato dalla preoccupazione del cibo e del vestito [ndr: dall’angoscia per questi beni e non semplicemente dalla preoccupazione per essi], delle apparenze sociali, e nello stesso tempo assolutamente unico perché pieno di dynamis taumaturgica, radiosa, purificatrice. Con lucidità e accortezza strategica è sul corpo di Gesù che l’autorità politica è intervenuta, degradandone l’immagine pubblica e arrestandone l’opera umana. Ciò ha un esito del tutto chiaro: è nel corpo risuscitato che i suoi seguaci hanno visto la sua vittoria» (A. Destro – M. Pesce, L’uomo Gesù, pp. 186-187).


454

Ernesto Borghi

Gesù è vissuto per indicare, attraverso di sé, la via della vita che non tramonta, perché può anche mettersi in discussione in forma estrema, se è necessario farlo perché altri possano arrivare a condurre questo tipo di esistenza. E il suo agire per segni portentosi non ha altro significato che questo: sancire, in modo anche sorprendente, il rapporto tra Dio e l’uomo, nell’incontro tra due libertà, per il bene costante degli esseri umani51. Gesù non sempre poté operare miracoli: «un segno che proviene da una libertà, non è a sua volta compreso che da una libertà. Un segno non si impone brutalmente alla mente. Chiede di essere identificato, deve essere capito... Quando il segno viene da Dio, richiede non soltanto un’interpretazione attiva, ma anche un impegno della libertà. Il miracolo provoca la fede, ma non può essere riconosciuto se non in un’apertura alla fede, perché è precisamente un appello alla fede»52. Il miracolo non è una forma di riparazione dell’agire talvolta malvagio di un Dio che si diverte ad essere il burattinaio del mondo. L’evento sorprendente è soltanto la chiave per aprire una nuova forma di vita in cui la libertà degli individui può impegnarsi in modo più vantaggioso. È il sigillo benevolo di Dio ad un processo di cambiamento esistenziale richiesto da donne e uomini. Vuole essere già, in piccolo, nuova cielo e nuova terra53. Il Dio di Gesù Cristo manifesta la propria bontà verso gli esseri umani secondo una molteplicità di forme che non possono essere irregimentate dalle semplici aspettative degli individui o delle collettività. Pellegrinaggi a santuari, che sono stati magari sedi, in passato, di eventi di liberazione dal male fisico o psichico oppure degli atti di culto protratti e reiterati non danno garanzie sull’intervento divino così come non ne davano all’epoca di Gesù. Al di là di fatti prodigiosi, che possono sempre succedere nel nome di Colui che ha donato la piena salvezza a tanti esseri umani durante la sua vita e all’intera umanità con la sua morte, il vero miracolo costantemente vero è quello possibile a ciascun uomo ogni giorno: portare un soccorso concreto, materiale, sanante ai propri simili in difficoltà secondo la logica dell’agire di Gesù che era anche «una protesta contro la miseria umana. I miracoli di Gesù sono la contestazione della validità in sé della sofferenza e affermano il diritto della persona che questa miseria umana sia elimi-

«Le fonti presentano Gesù non mentre cammina per la Galilea in cerca di peccatori per convertirli dai loro peccati, bensì mentre si avvicina ad ammalati ed indemoniati per liberarli dalle loro sofferenze. La sua attività non è propriamente orientata a riformare la religione giudaica, bensì ad alleviare la sofferenza di quanti trova oppressi dal male ed esclusi da una vita sana. Nel suo operato è più determinante eliminare la sofferenza che denunciare i diversi peccati della gente; non che il peccato non lo preoccupi, ma – per Gesù – il peccato più grave e che oppone maggiore resistenza al regno di Dio consiste appunto nel causare sofferenza o tollerarla con indifferenza… Questo fu il suo impegno fondamentale: destare la fede nella vicinanza di Dio lottando contro la sofferenza. Per questo quando affida ai discepoli la loro missione, li incarica dello stesso compito: “Li inviò a proclamare il regno di Dio e a curare”» (A. Pagola, Gesù: un approccio storico, tr. it., Borla, Roma 2009, pp. 196-197). 52 B. Sesboüé, Credere, tr. it., Queriana, Brescia 2000, p. 222. 53 Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, tr. it., Garzanti, Milano 1994, p. 1508. 51


Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth

455

nata. Là dove saranno raccontati questi episodi non ci si rassegnerà al fatto che c’è troppo poco pane, che per molti malati non si dà guarigione alcuna, che per molti disorientati non si trova una patria adatta in questo nostro mondo... I racconti di miracolo vanno letti sempre anche “dal basso”, come protesta contro la sofferenza umana»54.

Quello che il Gesù della storia ha operato - e che al lettore di ieri e di oggi non può che arrivare attraverso la mediazione multipla dei testi evangelici - resta esposto alla problematicità di una storia aperta al trascendente e alla rischiosità del discernimento: «non si dica tuttavia che Gesù non ha detto o fatto nulla e che ci lascia senza segni. Ha operato a sufficienza perché sappiamo quale direzione prendere, ma non abbastanza per essere costretti a prenderla»55. Nella certezza, scientificamente documentata, che solo in una prospettiva storico-salvifica i miracoli del Cristo possono essere colti nella loro formidabile potenza teologica ed antropologica, dal I secolo d.C. all’ultimo giorno della storia umana (cfr. Mt 28,20).

54 G. Theissen – A. Merz, Il Gesù storico, p. 387. «Gesù compie soltanto un pugno di guarigioni e di esorcismi… Gesù non pensò mai ai “miracoli” come a una maniera facile per sopprimere la sofferenza del mondo, ma soltanto come a un segno per indicare la direzione in cui i suoi seguaci devono agire per accogliere il regno di Dio… Questo è il regno di Dio che egli desidera tanto: la sconfitta del male, l’irruzione della misericordia di Dio, l’eliminazione della sofferenza, l’accoglienza degli esclusi dalla convivenza, l’instaurarsi di una società liberata da ogni afflizione. Non si tratta ancora assolutamente di una realtà compiuta; bisogna continuare a porre segni della misericordia di Dio nel mondo. Sarà appunto questa la missione che Gesù affiderà ai suoi seguaci» (A. Pagola, Gesù: un approccio storico, pp. 197-198). 55 A. Maillot, I miracoli di Gesù, tr. it., Claudiana, Torino 1990, p. 171.



Chiaroscuri

457

perché nel corso di vela c’era il famoso “recupero dell’uomo in mare” ma l’uomo era un salvagente e nessuna indicazione avevamo ricevuto sul pronto soccorso ad eventuali naufraghi.

CHIAROSCURI di Anna Lucchiari

Una storia così

D

i ritorno dalla Tunisia dopo un breve soggiorno, navigavamo alla volta delle coste italiane. Avevamo ritardato la partenza per il mare agitato dato che non avevamo nessuna voglia di arrivare come statue di sale. Ci trovavamo forse a meno di dieci miglia dalla costa tunisina quando S. gridò: ”Ma quella è una testa!” Quattro paia di occhi si puntarono nella direzione indicata e dalla testa che si agitava arrivò un chiaro “Aiuta!” pronunciato evidentemente per aver riconosciuto la bandiera italiana. Le vele furono ammainate in gran fretta e con ordini concitati furono lanciati in mare una lunga cima, un salvagente e non ricordo cos’altro, ma fu necessario un intervento più complesso per tirare verso la barca un giovane chiaramente allo stremo. Era un ragazzo e quando comprese che lo avremmo aiutato, cercò anche di collaborare. Quando fu finalmente dentro la barca, cadde all’indietro con gli occhi rovesciati e i brividi che lo scuotevano. Non riuscivamo a pensare tanto era stato lo choc del salvataggio. Ci sentivamo impreparati a fronteggiare la situazione

Dopo averlo asciugato e coperto, gli preparai un latte caldo ma avevo timore che si sentisse male e, siccome non avevo nozioni mediche sufficienti, mi attaccai alla radio e chiesi lumi a chiunque mi potesse rispondere. Non mi rispose nessuno e allora, in preda all’angoscia, lanciai un may day al quale rispose immediatamente la marina tunisina. Spiegai che avevamo raccolto un naufrago e che pensavo fosse necessario l’intervento di un medico e loro mi chiesero la posizione e mi dissero che in meno di un’ora sarebbero arrivati. Intanto, con le coperte e il latte caldo e piccoli pezzetti di formaggio, il ragazzo si era un po’ ripreso e mi ringraziò chiamandomi “maman”. Aveva diciotto anni e voleva tentare la sorte in Italia e mi raccontò di essere partito con dodici compagni che erano tutti morti nel naufragio del gommone. Lui si era salvato perché era stato campione di nuoto della sua scuola. Mentre ascoltavamo la storia del giovane, interrotta ogni tanto da “Tutti morti! Tutti morti!”, udimmo un altro richiamo e vedemmo un altro uomo a cavalcioni di una tanica vuota che chiedeva aiuto. Accostammo e l’uomo fu caricato. Non aveva niente a che vedere col ragazzo che avevamo raccolto prima, che si era mostrato molto bene educato, che parlava un ottimo francese e che ci raccontava dei suoi sogni e del dolore per i compagni morti. Salito a bordo, dopo che gli furono procurate coperte e altro, offersi anche a lui del latte, ma lo sputò e chiese birra. Ma io risposi che noi eravamo tutti astemi e allora chiese di fumare. Non stava male


458

come il ragazzo, probabilmente perché era rimasto relativamente a galla sopra la grossa tanica. Pensammo immediatamente che si trattasse dello scafista perché tra l’altro i rapporti tra i due da subito sembrarono molto distanti. Parlarono poco, in arabo, ma il tono dell’uomo non era affatto amichevole.Quando arrivò la motovedetta della marina tunisina, i due furono sbarcati e ci preoccupammo che il ragazzo accettasse alcuni generi di conforto. Dell’altro ci preoccupammo meno. Il comandante ci disse che dovevamo tornare a Sidi Bu Said per la deposizione e altre formalità e ci disponemmo perciò a tornare in Tunisia. Quando arrivammo al porto, ci venne incontro una delegazione per ringraziarci e ci diedero appuntamento l’indomani per parlare. Noi eravamo molto provati. Il giorno seguente l’incontro si svolse attorno al tavolino di un bar davanti ad un profumato bicchiere di tè e c’erano tra gli altri il comandante del porto e il capo della polizia locale. Spiegammo che il ragazzo era stato molto gentile, che era quello che secondo noi stava peggio perché aveva trascorso quasi due giorni in mare senza aiuti. Siccome parlavamo sempre del ragazzo ed evitavamo di parlare dell’altro, il capitano ci trasse d’impaccio e disse che quello era lo scafista, proprio come avevamo pensato e che la motovedetta, sulla base delle indicazioni che avevamo loro fornite, aveva trovato un altro superstite, con una gamba rotta, ma ancora in vita. Ci furono portati poi a bordo i giornali locali che davano notizia del “coraggioso salvataggio dei naufraghi da parte di una barca italiana che aveva cambiato rotta proprio per salvarli”. Eravamo molto lusingati dei tanti ringraziamenti ricevuti ma non riuscivamo a spiegarci la meraviglia che tutti

Anna Lucchiari

dimostravano per il fatto che ci fossimo fermati e avessimo modificato i nostri programmi per salvare dei naufraghi. Tra l’altro il ragazzo ci aveva raccontato che altre barche erano passate e che lo avevano visto ma che avevano tirato dritto. Ricordava anche le bandiere. Come se avessero pensato che non valeva la pena di salvare un tunisino. Noi ci stupivamo che i vari membri delle autorità e persone comuni, si ripetessero l’un l’altro “Ils ont dérouté!”. La Tunisia mi aveva fatto l’impressione di un paese in emergenza, pieno di artigiani bravissimi, con una agricoltura simile alla nostra, anche se non ancora provvista di mezzi tali da poter fare un salto di qualità. Come mi spiegò il comandante del porto, i giovani tunisini guardano la televisione italiana e pensano che l’Italia sia un mondo incantato dove tutto è possibile e dove i loro sogni potranno trovare una pronta realizzazione.Un po’ come i nostri emigranti dei primi del Novecento immaginavano l’America, un luogo dove la vita sarebbe stata diversa e soprattutto migliore. Non sempre è stato così, qualcuno ha pagato duramente, altri invece sono riusciti. Il capo della polizia tunisina ci raccontava che di quelli che scappavano nel nostro paese, un trenta per cento finiva nelle maglie della criminalità, un altro trenta non ce la faceva e il rimanente riusciva ad integrarsi. Da quella esperienza sono passati dieci anni ed ecco che si ripropongono con dolorosa cadenza le notizie di fughe disperate come se il tempo non avesse fatto altro che peggiorare la situazione. Penso con dolore alle centinaia di donne e uomini che negli ultimi tempi hanno perso la vita nella speranza di sfuggire al bisogno ed alla fame, alla miseria ed alla guerra. Credo che nessun essere umano, nel nostro come in ogni altro paese, possa permettersi


Chiaroscuri

di ignorare simili richieste di aiuto. Non dovrebbero esistere uomini e istituzioni che fingono di non sentire le richieste di soccorso e sono felice ed orgogliosa di essere italiana, nata e cresciuta in una nazione che si è sempre distinta nell’aiutare persone e paesi. Magari il senso della sacralità della vita potesse diffondersi come una epidemia!

Una parola da perdere, una da ritrovare

U

na parola da eliminare? La prima che mi viene in mente e che dovremmo cancellare, almeno per l’uso che se ne fa oggi, è la parola intellettuale. Mi disturba; mi sembra l’attributo del “vorrei ma non posso”, anche perché mi risulta che gli esseri umani usino solo una minima parte dell’intelletto di cui potrebbero disporre. Se lo si intende come “la facoltà di istituire rapporti di ordine squisitamente razionale”, riguarda per forza ogni attività umana e, quindi, ogni persona. Ma mi disturba tanto più quando viene coniugato con “di sinistra”. E questa combinazione è talmente entrata nel lessico comune da aver assunto il valore di dogma. Comprendo e condivido l’indignazione del dott. Vespa dinanzi ai rigurgiti totalitaristici della sinistra o di certa nomenclatura che ancora crede in un dogma inesistente e ridicolo. E pure avvilente per i comuni mortali, però succede continuamente che il dogma faccia le sue vittime. Se un esponente del mondo industriale, culturale o scientifico dichiara anche solo di simpatizzare con la sinistra, è rispettato, perché ritenuto capace di leggere la verità delle cose: uno di sinistra è comunque un illuminato! Se viceversa è di destra, non

459

può aver fatto una scelta di testa sua perché può essere solo un leccapiedi di Berlusconi, che viene chiamato in causa sempre e comunque come prodotto esemplare del degrado culturale italiano. Degrado culturale che non è certo ascrivibile al ministro Gelmini, dato che è appena arrivata, ma semmai ai cinquant’anni precedenti nel corso dei quali nessuno, né la Diccì né l’onnipotente Piccì, ha mai fatto nulla per migliorare o ammodernare la scuola italiana. Anzi si potrebbero elencare le vergogne che si sono succedute, ma ci vorrebbe un libro a parte. Basti ricordare la massiccia immissione in ruolo ope legis, di docenti di cui nessuno ha mai valutato la preparazione, la riduzione dell’orario di lavoro che è un caso unico in Europa e forse nel mondo che per anni è stato l’unico obiettivo dei sindacati, per non dire della guerra cinquantennale con morti e feriti che ha avuto come unico obiettivo quello di appiattire verso il basso la scuola statale e di eliminare con mezzi leciti e non una scuola non statale che avrebbe fatto ombra. Meglio eliminare le pietre di paragone! Mi fermo perché la passione che non ho mai perduto per un settore in cui ho combattuto per trent’anni, mi può portar fuori tema. Una parola perduta da ritrovare? La prima cui penso spesso, sarà per via dell’età che avanza, è Saggezza. La intendo come la capacità (che si acquisisce solo col tempo) di usare prudenza nel valutare le situazioni, di lavorare alla ricerca dell’equilibrio necessario a distinguere tra il bene e il male, di adoperarsi per usare con cautela il parlare, l’agire, il decidere. La saggezza dovrebbe essere un’aspirazione, un ideale, capace di guidare al meglio ogni attività e di aiutarci a gestire con accortezza ogni situazione. E’ una virtù che, come dice


460

Socrate, ha origine dalla esperienza e meditazione sulle cose. Altra parola perduta è meditazione. Oggi non c’è tempo per meditare, perciò si parla a vanvera. Le parole camminano da sole per l’aria, mosse da venti che hanno lasciato la riflessione negli spazi intersiderali. Eppure un tempo “saggio” era un attributo ambito, un aggettivo che si usava con parsimonia e anche una virtù che si cercava di conseguire. Inevitabilmente, si poteva e si può essere saggi solo dopo aver immagazzinato molta esperienza, dopo aver esercitato a lungo la capacità di osservazione e di discernimento. Quindi solo un vecchio può essere saggio, ma oggi, la parola vecchio è considerata un insulto e nessuno vuole più esserlo, al punto da diventare, spesso, ridicoli. Eppure c’era un tempo in cui acquisire saggezza era irrinunciabile obiettivo di una vita se perfino Wodan si è inchinato ad essa. Avvolto nei veli del mito, vedo il re degli dèi nordici dolersi della sua poca saggezza e chiederla a Mimir il saggio in cambio del suo occhio sinistro… I miti spesso ci lanciano dei messaggi che prima o poi qualcuno un po’ più illuminato, potrebbe cogliere.

Facebook? Se questa è amicizia…

L

a lingua è un corpo vivo che si muove, cresce, si trasforma e le parole come le usiamo oggi, non sono quelle che si usavano in passato. Sembra un’osservazione banale, ma pensavo all’amicizia su facebook. Un fenomeno che serve scopi diversi, che probabilmente rende accostabili tante realtà che altrimenti non si sarebbero conosciute ma dove le

Anna Lucchiari

parole vengono usate in modo almeno improprio. Uno dei vocabolari da me consultati, alla parola amicizia attribuisce il seguente significato: “sentimento vicendevole di affetto, comprensione o fiducia (conciliato da consuetudini di vita in comune o da affinità di carattere, interessi, aspirazioni) fra persone che sono, o in forza di questo sentimento si considerano, pari, riconoscendosi gli stessi diritti e doveri reciproci.” “Conciliato da consuetudini di vita in comune” mi sembra che sia una indicazione molto chiara alla luce della quale, l’amicizia data e chiesta su Fb diventa qualcosa di molto diverso. I giovani utenti offrono amicizia ad un numero incredibile di persone che non hanno mai visto né incontrato, sulla base di immagini e parole affascinanti ma che non vanno al di là di banalità più o meno spettacolari. Un giovane d’oltre oceano, si vantava con me di avere 3500 amici. Bisognerebbe indagare presso i giovani per sapere come definiscano loro l’amicizia perché nelle nostre società più che un valore, pare un tesoro di cui si è persa la mappa. Ogni giovane è il prodotto di una famiglia che non ha radici molto profonde, sia nel territorio che fra le persone. La mobilità, che ha pure molti lati positivi per l’ampliamento d’orizzonti che offre, presenta spesso come rovescio della medaglia una certa difficoltà a stabilire legami col territorio e con le persone con le quali si condivide la vita, perché assieme possano tessere quel filo d’oro in grado di ospitare l’amicizia. Si conoscono molte persone, alcune sono frasi e firme su un foglio elettronico che portano a galla solo qualche aspetto della personalità di coloro che così si incontrano: con alcuni si condivide l’amore per la musica, con altri la difesa dell’ambiente, con altri ancora la passione


Chiaroscuri

per i viaggi… Ma quello che mi è sembrato di rilevare nel corso della mia lunga frequentazione di giovani (ad età più mature diventa patologicamente evidente), è che tutta la loro vita non è impostata per favorire la nascita di affetto, stima e fiducia fra pari. Fin dai primi passi nel mondo, i rapporti dei bambini con i coetanei vengono impostati, talvolta dagli stessi genitori sotto la bandiera della competizione cosicché invece di trovarsi “compagni” i bambini finiscono coll’incontrare “rivali”. Questa competitività esasperata investe tutte le attività di studio, di sport e perfino di divertimento. Gli stessi compagni di studio, ad ogni livello, vengono frequentati quasi esclusivamente entro contenitori di tempo e spazio molto limitati. La classe è il primo luogo dove il bambino e poi il ragazzo, dovranno dimostrare di essere di più di qualcun altro: più veloci, più capaci, più informati… Non è un caso che oggi si parli molto di solidarietà e poco di amicizia. La solidarietà non richiede un rapporto paritario: viene offerta da chi ha qualcosa di più a chi ha qualcosa di meno. Molto più facile, meno coinvolgente, meno compromettente. Siamo pieni di iniziative di solidarietà, peraltro benvenuta, ma continuo a ritenere che non sia facile incontrare le condizioni per coltivare sentimenti di amicizia proprio per l’elevato livello di competitività che si riscontra in ogni segmento e in ogni settore della vita. La competitività poi, non è di per sé un disvalore, anzi. Senza di essa molti risultati non si sarebbero potuti conseguire ma mi pare che sia ormai diventata l’unico sentimento che pervade vita e persone. - Sono più giovane - sono più bello - sono più intelligente - sono più fortunato… si respirano in ogni ambiente, in ogni

461

momento dell’esistenza. Decisamente troppo perché si possano instaurare sentimenti d’affetto, comprensione e aiuto reciproco in condizioni di parità. Spesso manca perfino quello che si può definire “comportamento amichevole” un po’ meno dell’amicizia ma sempre qualcosa di molto positivo. Ma quanto più sfugge, tanto più è rincorsa la parola quasi fosse un talismano. Il suo fascino è intramontabile malgrado le distorsioni della vita moderna. E allora ecco che un signore geniale ha inventato l’amicizia elettronica, virtuale dove il termine viene usato al posto di quello meno friendly di “contatto”. So che molti guardano con diffidenza a Fb, perché può portare qualche guaio e aprire le porte anche ad intrusioni non lecite: il buon senso in questi casi va usato con generosità. Girando su Fb ho trovato una perla di saggezza: meglio perdere tempo con un amico che perdere un amico nel tempo. L’amicizia è un sentimento necessario per vivere e per tutta la vita la si cerca sperando di trovarla. Quando se ne parla però, ho l’impressione che traspaia una grande nostalgia per un sentimento che è diventato sempre più difficile da costruire e da nutrire, che deve farsi strada nel cuore di percorsi di guerra, tra persone che spesso hanno instaurata una vera e propria inimicizia latente… Non è un caso se i giovani spesso lamentano la difficoltà di trovare un amico vero e d’altra parte, se la rete è un universo sconfinato da esplorare, loro vi si dedicano con impegno, per ore e ore, da soli davanti ad uno schermo che apre orizzonti altrimenti irraggiungibili, visti i quali, tutto il resto sbiadisce. - No, non esco spesso - ho sentito dire da una ragazza - ma sto molto su Fb almeno tre ore, o anche più, al giorno - Odissea nel web: soli, sempre più soli. Io e lui, dove lui parla con la sua tastiera.


Pubblicità

LA SALLE : BIOGRAFIA FRÈRE BERNARD Vita di Giovanni Battista de La Salle trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 153 L’autore ha vissuto in comunità con il La Salle ed ha attinto dalla viva voce dei primi Fratelli le testimonianze che trasmette. Più che biografo è un testimone che offre con limpidità il La Salle nella sua veste di fondatore di una comunità di uomini affascinati da un giovane prete e votati a tenere insieme e in associazione le scuole gratuite.

FRANÇOIS-ELIE MAILLEFER Vita di Giovanni Battista de La Salle trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 301 Nipote del La Salle, l’autore scrisse su incarico della famiglia La Salle. Suo scopo è delineare il volto dello zio in tutta la sua autenticità attingendo a fonti sicure e trattandole con competenza. Con esemplare incisività presenta il giovane Jean-Baptiste alla ricerca della sua vocazione, teso a realizzare il piano di Dio tra l’affetto dei suoi figli spirituali e le resistenze di quanti non capivano il valore profetico delle sue scelte.

ELIO D’AURORA Monsieur de La Salle – una fedeltà che vive Editrice A&C, Torino 1984, pp. 275 La vita del La Salle si svolge nell’irriducibile realismo di una società dibattuta da crisi di coscienza, statolatria, ambizioni del potere, sete di ricchezze, necessità di rigenerarsi. La Salle non colloca la sua pedagogia nelle belle lettere, ma nelle arti e nei mestieri, presagendo il travaglio di un rivolgimento politico e sociale che l’Europa stava covando. Nella Francia del Re Sole, tra guerre miserie e pestilenze, ad onta dello splendore del Grand Siècle, La Salle rovesciò le concezioni pedagogiche di una società che nutriva solo disprezzo o falsa pietà per i ceti popolari. D’Aurora mette tutto questo in risalto con una brillante e documentata biografia.

MICHEL FIÉVET Giovanni Battista de La Salle maestro di educatori trad. it. di Serafino Barbaglia, Città nuova, Roma 1997, pp. 190 L’autore è un professore, sposato, che ha collaborato a lungo con i Fratelli scoprendo poco a poco il loro Fondatore. Affascinato dalla personalità del La Salle ne ha approfondito il profilo come santo e come pedagogista, tanto da riuscire a svelare agli stessi Fratelli aspetti inesplorati della fisionomia del loro Padre e Fondatore. •••

Informazioni e ordinazioni: 06.32294503 - gabriele.pomatto@gmail.com


MISCELLANEA LASALLIANA Nicolas Roland et la “peste” à Reims en 1668 (Bernard Pitaud) «Ensemble et par association» - L’actualisation de la mission canonique (Herman Lombaerts) La Salle catequista – Retazos lasalianos [36-40] (José María Valladolid) F. Roberto Sitia tra scienze matematiche e umanesimo integrale (Marco Paolantonio) The Challenge of the Lasallian Catechist in USA (Jeffrey Gros) Cronache lasalliane



RivLas 78 (2011) 3, 465-484

Nicolas Roland et la «Peste» à Reims en 1668 BERNARD PITAUD, p.s.s.

L

es travaux des Frères Yves Poutet et Léon Marie Aroz sur Nicolas Roland, par leur précision dans l’exploration des sources, semblent n’avoir laissé de côté, du point de vue historique, aucun élément accessible de la vie et de l’oeuvre du fondateur des Soeurs de l’Enfant-Jésus de Reims1. Et en effet, pour qui revisite aujourd’hui les sources, l’impression se dégage très vite que les documents en notre possession dans les diverses archives (aussi bien celles de la ville de Reims que les archives départementales de la Marne et celles des Soeurs de l’Enfant-Jésus) n’ont plus grand chose à nous dire. Il faut bien souligner qu’il s’agit ici seulement du point de vue historique, car du point de vue spirituel, aucun des deux historiens n’a réalisé une étude approfondie pour mettre les textes de Nicolas Roland en perspective, faire apparaître leurs sources bibliques et patristiques, les situer dans l’histoire des doctrines spirituelles. Le Frère Y. Poutet l’a simplement amorcé pour ce qui concerne les relations avec les textes de saint Jean-Baptiste de La Salle. Depuis de longues années, je poursuis cette recherche (commencée dans le petit livre: Nicolas Roland et les Soeurs de l’Enfant-Jésus2) avec les Soeurs qui connaissent très bien les textes de leur fondateur et sont la mémoire vivante de la congrégation; cette recherche s’est concrétisée dans l’édition de petits livrets à usage interne. Elle fait apparaître entre autres: une vraie affinité des textes avec l’Ecole Française de spiritualité et surtout un enracinement biblique qui montre en Nicolas Roland un homme pétri de la Bible, dont les

1 Nous pouvons citer en particulier: du Frère Aroz: Nicolas Roland, Jean-Baptiste de La Salle et les Soeurs de l’Enfant-Jésus de Reims, Reims 1972; et La Succession de Nicolas Roland, chanoine théologal de l’église Notre-Dame de Reims, Cahiers Lasalliens, n° 53, Rome 1995; et du Frère Poutet: Origines Lasalliennes, T.1, en particulier, pp. 535-607, Imprimeries réunies, Rennes 1970; sans oublier l’énorme travail accompli pour la rédaction de la Positio en vue de la béatification de Nicolas Roland. 2 Ed. du Cerf, 2001.


466

Bernard Pitaud, p.s.s.

citations explicites ou implicites ne cessent d’affleurer sous sa plume. Elle soulève aussi des questions plus historiques: par exemple, les Constitutions données en 1683 par Mgr Le Tellier, archevêque de Reims, sont-elles bien celles que Nicolas Roland avait préparées? Malgré la réponse affirmative assez catégorique donnée à cette question par les Frères Poutet et Aroz, la critique interne laisse planer un doute très sérieux sur l’origine de ce texte des Constitutions (même si l’hypothèse que j’avais avancée en 2001 et selon laquelle le Petit Traité des Vertus les plus nécessaires aux Soeurs pourrait constituer une partie de la préparation des Constitutions par Nicolas Roland, ne paraît guère pouvoir aujourd’hui être retenue.) Mais surtout, elle montre l’intérêt majeur d’un texte jusqu’ici très peu étudié: les Usages, de 1689. Rédigé pour garder le premier esprit de la congrégation, après plusieurs années d’existence de celle-ci (les premiers balbutiements datent de l’arrivée à Reims de Françoise Duval et d’Anne-Marie Lecoeur, envoyées de Rouen par le Père Barré en 1670), et pour compléter les Constitutions, ce texte pose un certain nombre de questions non résolues sur les premières années de l’Institut (surtout si on le lit en parallèle avec certaines conférences des premiers supérieurs ecclésiastiques). L’histoire de ces débuts reste à écrire. On sait combien les Soeurs eurent alors partie liée avec le jansénisme, sous l’influence de leurs supérieurs ecclésiastiques et de nombreux prêtres et chanoines de Reims, en particulier les membres de l’Université. Si nous revenons maintenant au plan strictement historique évoqué plus haut, malgré l’apparente exhaustivité des travaux accomplis par les Frères Aroz et Poutet, il semble qu’au moins deux dossiers pourraient être examinés à nouveaux frais. Le premier est celui de la peste de 1668 dont il est question dans les Témoignages des contemporains de Nicolas Roland après sa mort. Ce qui a attiré mon attention sur ce point est la thèse de Robert Benoit: Vivre et Mourir à Reims au Grand Siècle, publiée déjà depuis 1999. Ce remarquable travail permet de lire autrement les passages des Témoignages des contemporains où il est question de l’attitude de Nicolas Roland durant la peste de 1668. D’autre part, l’examen des sources utilisées par Robert Benoît rend attentif à des aspects qu’il n’avait pas envisagés parce que marginaux par rapport à son sujet, en particulier autour de la procession organisée par l’archevêque pour obtenir de Dieu la fin de l’épidémie. Le deuxième dossier est celui du voyage à Beaune de Nicolas Roland. Contrairement au dossier de la peste, nous l’avions déjà évoqué dans Nicolas Roland et les Soeurs de l’Enfant-Jésus; mais la publication par les Soeurs du Carmel de Beaune (aujourd’hui fermé) des lettres adressées au Carmel au sujet de Marguerite du SaintSacrement de son vivant et après sa mort (jusqu’en 1761) a mis à la disposition des historiens de nouveaux documents que personne n’avait encore extraits des archives. Il ne serait donc pas sans intérêt de reprendre l’ensemble de ce dossier qui concerne non seulement Nicolas Roland lui-même, mais aussi la congrégation après la mort du fondateur. Pour l’instant, arrêtons-nous à la question de la «peste» de 1668.


Nicolas Roland et la « Peste » à Reims en 1668

467

La Peste à Reims en 1668 Parmi les témoignages recueillis par les Sœurs de l’Enfant-Jésus après la mort du fondateur, un témoin rapporte l’attitude de Nicolas Roland durant la peste qui affligea la ville de Reims en 1668. Il s’agit d’une personne qui a servi chez lui comme domestique durant plusieurs années3. Celle-ci après avoir décrit les mortifications impressionnantes auxquelles il se livrait, déclare: On le voyait redoubler ces sortes de macérations selon le besoin du public, ainsi qu’il arriva en temps de la peste, où on portait le corps du grand saint Remi en procession par plusieurs reprises; on voyait cet homme de Dieu, comme si c’eût été lui seul qui était cause de ce fléau, jeûner, prier, gémir et soupirer; tant il faisait pitié à voir tout le temps de cette dévotion qui dura neuf jours. On ne transportait pas ce saint corps d’une église en une autre, que ce, que ce bon prêtre ne s’en chargeât les épaules, revêtu de sa haire, et ce fardeau lui donna tant de fatigues que son linge et même ses habits étaient teints de la sueur qui sortait de son corps au travers de cette haire. Sa charité redoubla en ce temps envers les pauvres, et je ne pouvais comprendre comment le grain qu’il recueillait y pouvait suffire, car tant plus je mesurais, plus je trouvais la maie peu diminuée, il semblait que ce fut une source qui faisait qu’on ne refusait personne, non pas même ceux qui étaient dans le danger, ce que j’ai vu de mes propres yeux, ce qui m’a même donné une furieuse peste pour avoir empli les sacs de ces pauvres gens. Je dirai sur cet article qu’il me promit de m’assister en tout jusqu’à la mort, si Dieu disposait de moi. Comme de fait, il fut lui-même chercher un chirurgien pour me guérir, avec grosse somme d’argent secrète, cela sans s’en faire de la peine de ce qui en dût arriver, et me consola dans ce mal avec une bonté que je ne peux expliquer.

La suite de ce texte semble dépasser la période de la peste et concerner sa manière d’accueillir les pauvres en général. Une partie de ce témoignage est reprise presque mot pour mot dans les Mémoires sur la vie et les vertus4: […] ils l’ont vu redoubler ces sortes de macérations selon les besoins du public, ainsi qu’il arriva en ce temps de peste où on portait le corps de Saint Remi en procession à plusieurs reprises, on voyait cet homme de Dieu comme si c’eût été lui seul qui était cause de ce fléau, jeûner, gémir, prier et soupirer pendant les neuf jours que dura cette dévotion; on ne transportait ce saint corps d’une église à l’autre, que ce pieux chanoine ne s’en chargeât sur ses épaules, revêtu de son cilice, et ce fardeau lui donna tant de fatigues, que son linge et même ses habits étaient teints de la sueur qui sortait de son corps au travers de cette haire.

Ce deuxième texte est nettement plus court. Il emprunte le témoignage de la domestique de Nicolas Roland, mais uniquement en ce qui concerne les macérations de celui-ci durant le temps de la procession du corps de Saint Remi. De ce point de vue, il est évidemment moins intéressant. Pour les quelques phrases retenues, les différences avec le témoignage de la servante sont mineures: la première mention du mot haire est remplacée par le mot cilice. Les mots gémir et prier sont inversés. 3 4

Guide spirituel et fondateur, p. 184. Idem, p. 231.


468

Bernard Pitaud, p.s.s.

La peste dans le contexte de la ville de Reims au 17ème siècle Après la Grande Peste de 1348, cette maladie contagieuse est demeurée à l’état endémique en Europe. Les épidémies sont nombreuses depuis le XIVe siècle. A Reims, selon Pierre Coquault et ses Tables chronologiques, il y eut entre 1467 et 1595 dix épidémies: 1467, 1476, 1483, 1494, 1502, 1519, 1544, 1563, 1581, 1595. D’autres «pestes» sont signalées dans d’autres documents. Mais il est possible qu’elles n’aient pas été très mortifères; pour cette raison, Coquault les aurait passées sous silence ou bien parce qu’il ne s’agissait pas de pestes avérées, d’autres épidémies étant possibles, comme la typhoïde par exemple. On a en effet l’habitude à cette époque de désigner sous le nom de peste toute maladie épidémique; et quand la servante de Nicolas Roland dit qu’elle a contracté une «furieuse peste», il peut très bien s’agir d’une autre maladie. De nombreux éléments facilitent la contagion à Reims, comme d’ailleurs en bien d’autres villes. On le sait, la peste proprement dite est propagée par les rats et les puces des rats. A cette époque, les rats sont très nombreux dans les villes. Il n’y a pas de services de voirie et les immondices s’accumulent dans les rues. A Reims, chacun est pourtant tenu de balayer devant sa porte, mais cette obligation demeure souvent sans grand effet. Il n’y a pas non plus de tout à l’égout. Ce sont les grandes pluies qui nettoient les rues, mais les ordures vont s’accumuler devant les obstacles naturels ou construits, au bas des pentes. On a peine à imaginer aujourd’hui cette situation, alors considérée comme normale. La rivière la Vesle où l’on va facilement déverser des ordures est extrêmement polluée, et les poissons y périssent parfois. On boit surtout l’eau des puits qui se trouvent dans les cours derrière les maisons. Mais les latrines se trouvent également dans les cours et il y a des infiltrations. Les morts sont enterrés près des églises (ils sont censés en effet être protégés par la proximité du lieu saint), en pleine ville, et là aussi des infiltrations ont lieu qui répandent des odeurs pestilentielles. Jean Maillefer, dans ses mémoires, à la date du 27 juillet 1672, déclare: «Le 27 j’ai retourné de l’enterrement de Mr le capitaine Lespagnol du bourg Saint-Denis … Il a été enterré à St Michel où il faisait une puanture (sic) horrible, et nos anciens avaient meilleure raison de placer les cimetières hors des villes». Globalement, l’hygiène est donc à peu près nulle dans la ville (les notions médicales répandues dans la population sont pour le moins sommaires et floues; le même Maillefer déclare quelques années plus tard: «Je crois que ce qui contribue à la brièveté de la vie en ce pays, c’est que l’air y est très subtil, que nous n’avons que des eaux de puits qui sont froides et qui tirent leurs sources des crayères et nos vins qui sont délicats et fumeux). Ces textes disent assez le côté empirique et pour le moins fantasque des conceptions du temps sur la contagion. Pour ces hommes et ces femmes du XVIIe siècle, c’était l’air qui était responsable de la propagation des épidémies: d’où la nécessité de purifier l’air en brûlant certains produits, et aussi d’empêcher, en période d’épidémie, la


Nicolas Roland et la « Peste » à Reims en 1668

469

circulation des textiles qui étaient censés retenir l’air. Ainsi, les chanoines de Reims sont-ils invités par le grand vicaire, dès l’apparition de la maladie, à ne pas porter leurs «aumusses», parce que la fourrure retient l’air5. Plus étonnant encore, le cardinal archevêque conseille d’éliminer les «cresseilles» (ou crécerelles, race particulière de faucons qui nichent dans les tours, et non pas les corneilles comme l’écrit Louis Paris dans son édition de 1854 des mémoires du chanoine Maucroix) parce qu’ils font circuler le mauvais air; ce que le chapitre refuse, d’abord parce que les chanoines trouvent cette proposition ridicule, ensuite parce que les crécerelles montent si haut que les arquebusiers ne peuvent les atteindre6. Nous sourions aujourd’hui de ces opinions pré-scientifiques, mais les connaissances médicales de nos ancêtres du 17ème siècle en étaient truffées. Et lorsque Nicolas Roland, s’exprimant au plan spirituel, parle de «l’air empesté7» du monde, c’est bien dans ce genre de conceptions qu’il prend sa comparaison. Au manque d’hygiène, il faut ajouter le passage fréquent des troupes de guerre que le roi ordonne d’héberger. On sait que durant une grande partie du siècle, les guerres se sont succédé en France et qu’elles ont particulièrement affecté les régions des marches dont la Champagne faisait partie: la guerre de 30 ans, la Fronde, la guerre contre la maison d’Espagne. Les régiments passent et repassent sans cesse dans ces régions. Reims est une ville solidement fortifiée qui n’est pas mise en état de siège (seules les agglomérations fortifiées portaient à cette époque le nom de «ville»). Mais les troupes ennemies battent la campagne qu’elles pillent et où elles commettent les pires méfaits. Quant aux troupes amies, si elles restent dans la campagne, elles y «picorent» souvent, selon une expression consacrée à l’époque, et provoquent parfois autant que les troupes ennemies la fuite des paysans qui se réfugient dans la ville quand le danger se fait trop menaçant. Mais il faut souvent héberger ces troupes dans la ville où elles séjournent pour se restaurer et se reposer. Quand le roi l’exige, les autorités de la ville ne peuvent pas s’y opposer. L’hébergement est alors à la charge des villageois; c’est une sorte d’impôt masqué. Les documents ont gardé mémoire des régiments qui ont pris leurs quartiers dans la ville de Reims. Leur nombre est considérable. Un régiment, c’est environ mille hommes qu’il faut nourrir et loger, souvent pendant plusieurs semaines, ce qui grève considérablement le budget de la ville. Une compagnie correspond à environ entre 100 et 150 hommes. Prenons un seul exemple: en 1647, Reims a hébergé en mai 3 compagnies de cavalerie du Sr de Cannonge, en octobre 300 prisonniers de l’armée de Lorraine et 900 prisonniers espagnols, en décembre le régiment de cavalerie de Mazarin, celui de Nerlieu, plus 4 compagnies de Chevau-Légers et 4 Bibliothèque Carnegie, Ms 1709, f. 57. Au sens strict, l’aumusse était le capuchon de fourrure porté par les chanoines par dessus leur camail. 6 Idem. 7 Guide spirituel, Lettres de direction, Lettre 2, p. 50; LD,2T1. 8 Robert Benoit; o.c.; p. 160. 5


470

Bernard Pitaud, p.s.s.

compagnies de Carabins (carabiniers8). Sans compter les troubles qu’ils peuvent provoquer, les soldats sont en général affaiblis par les campagnes qu’ils viennent de mener et porteurs de maladies qu’ils communiquent à la population. Les différents manuscrits que nous citerons attribuent clairement à un troc de vêtements portés par un soldat le début de la peste de 1668 à Reims. Dans les périodes troublées, les enfants, abandonnés ou orphelins, affluent en masse dans la ville. Leurs parents ont été tués dans la campagne ou sont morts dans une épidémie. L’œuvre des orphelins que reprendra Nicolas Roland après Mme Verlet ne pouvait évidemment suffire, car on n’avait le droit d’y accueillir seulement des enfants originaires de la ville de Reims, et encore leur nombre était-il limité. A la lumière de ces quelques indications sommaires, il est facile de comprendre que, pendant les guerres et les épidémies, la ville était particulièrement menacée par la pauvreté. On sait que Reims vit essentiellement du commerce du vin et du commerce du textile. Les vignes sont hélas souvent saccagées par les troupes. Quant au commerce des textiles, il s’arrête en principe dès que la peste est annoncée dans une ville avec laquelle Reims est en communication. Si par exemple la ville de Rouen subit la contagion, on interdit l’entrée de Reims aux peaux et aux stocks de laine qui se présentent aux portes de la ville en provenance de Rouen. Il y a certes beaucoup de passe-droits, et lorsque le sieur Lecointre réputé pour avoir sauvé Soissons de la peste grâce à des mesures énergiques, vient à Reims en visite d’inspection, en juillet 1668, à la demande du Conseil de Ville, il reconnaît la valeur des mesures prises mais déplore le laxisme des autorités pour les faire appliquer. Malgré tout, le commerce est désorganisé et l’argent manque. Les foires sont interdites. La vie s’arrête.

Le témoignage de la servante de M. Roland Revenons au témoignage de la servante de Nicolas Roland. Durant le XVIIe siècle, il y a à Reims deux grandes épidémies de peste, la première en 1635 et la seconde en 1668. C’est évidemment de cette dernière dont il est fait mention dans ce témoignage, repris partiellement, comme nous l’avons dit, dans les Mémoires sur la vie et les vertus. La question que nous nous posons est celle de l’interprétation de ce texte à la lumière de ce que nous connaissons. Que peut-il nous révéler? Deux points vont retenir particulièrement notre attention: tout d’abord, la procession décidée par le cardinal archevêque, pendant laquelle Nicolas Roland s’exerce à des macérations particulièrement importantes et déploie un zèle remarquable pour porter la châsse de saint Rémi, ce qui est chez lui à la fois un acte de dévotion et de charité, puisque sa fatigue et ses pénitences sont une manière d’implorer Dieu pour le peuple de Reims. Le deuxième point est la maladie de la servante elle-même et sa guérison, à laquelle Nicolas Roland contribue en faisant venir un chirurgien.


Nicolas Roland et la « Peste » à Reims en 1668

471

La procession Prenons les différents éléments les uns après les autres. Tout d’abord la procession du corps de saint Remi. Dès le jour de la Pentecôte 1668, le suaire de saint Remi avait été porté en procession à la cathédrale sur l’ordre de l’archevêque, le cardinal Antoine Barberini «afin qu’il plût à Dieu de détourner ce fléau tant à craindre … et d’en préserver la ville de Reims9». La peste était en effet menaçante; elle venait des Pays-Bas par les villes du nord: Boulogne, Arras, Amiens et Soissons, atteintes les unes après les autres. Mais le suaire de saint Remi et les précautions prises: arrêt des échanges avec le nord en particulier, ne suffirent pas. Les premiers cas de «peste» sont signalés à Reims au début de juillet 1668. Le Conseil de ville engage tout de suite des «airieurs», c’est-à-dire des désinfecteurs, des gens dont la tâche est d’aérer, ce qui signifie faire partir le mauvais air par des produits divers que l’on répand ou que l’on fait brûler, comme l’encens, le soufre, l’arsenic, le salpêtre, le cinabre et l’opiment (sulfure jaune d’arsenic). On engage également un médecin et un chirurgien de peste, ici Pierre Oudinet et Claude Lebrun, dont le rôle est de porter les diagnostics, d’ordonner le transport des malades à la Buerie (bâtiment situé au sud de la ville vers la route de Paris où travaillaient les buandières). Comme nous l’avons déjà indiqué, on attribue l’entrée de la peste à Reims à des vêtements achetés à des soldats venant du nord ou à des laines entrées en fraude provenant de lieux interdits10. Les notables et les médecins agissent avec leurs moyens. L’Eglise agit avec les siens: le cardinal archevêque, rentré de Saint Thierry où il s’était retiré, pour vivre avec son peuple la menace de la peste, décide d’organiser à travers la ville une grande procession de la châsse de saint Remi. Le Conseil de Ville obtempère rapidement et prend les mesures nécessaires; mais des objections s’élèvent sur lesquelles nous reviendrons. Le cardinal Barberini s’obstine et promulgue finalement le mandement par lequel il ordonne la procession, le 20 septembre 166811: ce document reconnaît d’abord que le mal contagieux est causé par les «péchés et les ingratitudes» commis par les habitants de Reims. Mais on peut être délivré de ce fléau du ciel en implorant le secours de la Sainte Vierge et des saints. Aussi le cardinal a-t-il décidé une procession de 5 jours pendant laquelle le corps de saint Remi sera transporté à travers les rues de la ville, avec les châsses de tous les autres saints qui l’accompagnent habituellement dans ces circonstances. Participeront à la procession les chanoines, le clergé, les religieux et les responsables civils de la ville de Reims. Les habitants sont priés de se tenir dans leurs maisons et de ne pas apparaître à l’exté-

Cité par Robert Benoit in Vivre et mourir à Reims au grand siècle; Artois Presses Université; 1999; p. 170. Bibliothèque Carnegie, Ms 1824, Livre des choses mémorables... f° 33 V°. 10 Toutes ces notations sont reprises au livre de Robert Benoit. 11 Ordonnance pour la procession à l’occasion de la peste 20 septembre 1668. Placard. Cabinet de Reims, 370; portefeuille A, liasse 4, pièce b. 9


472

Bernard Pitaud, p.s.s.

rieur. On craignait en effet les débordements qui ne feraient qu’accroître la propagation de la maladie. Des indulgences sont bien sûrs accordées dont les conditions sont énumérées dans le mandement. Enfin, l’ordre de la procession est indiqué: le premier jour, la châsse du saint rejoindra la cathédrale où elle passera la nuit; le deuxième jour elle gagnera l’église saint Hilaire; le troisième jour on la transportera à saint Jacques et le quatrième jour à l’église des Augustins; enfin, le cinquième jour, la procession regagnera l’abbaye de saint Remi (Notons que la station qui eut lieu aux Augustins était d’abord prévue à l’église des Carmes, rue du Barbâtre.) Dans les archives de la Bibliothèque Carnegie, nous disposons de six documents qui parlent de cette procession12. Ils émanent trois par trois de deux sources. La première source est un texte écrit par Dom Claude Bretagne (ou Bretaigne), prieur de l’abbaye de saint Remi. Ce texte, rédigé avec soin dès le mois d’octobre, donc aussitôt après la procession, était destiné à l’impression. De fait, une vingtaine d’exemplaires furent imprimés, puis saisis, et la brochure retirée. Des notations marginales dans le document principal13 nous expliquent pourquoi on a stoppé l’impression et la diffusion. Elles sont précédées par une «note instructive» ainsi libellée: «Cet imprimé devait être dédié à son Eminence le cardinal Barberini. M. de Boissy, prieur de Saint-Denis m’a dit être l’auteur de l’épitre dédicatoire, et c’est lui qui fut cause de la suppression, car il vint me trouver dans Notre-Dame, comme j’étais doyen de Saint Symphorien et me montrant ce livret, en disant que nous ne devions pas souffrir qu’il parût davantage.- pour lors, il n’y avait pas 20 exemplaires distribués. Nous allâmes ensemble chez M. Thuret, grand vicaire. Là il fut résolu de faire saisir les exemplaires, après qu’on en aurait parlé à son Eminence, ce qui fut fait le même jour, et on les apporta tous au palais de Monseigneur, qui commanda qu’ils fussent tous enfermés et qu’on n’en donnât à personne. Il m’en donna un. Le Père de Bretagne en avait donné un autre à M. de Boissy qui veut bien s’en servir.» Et le doyen du chapitre de saint Symphorien ajoute: «Ce présent livre a été censuré par Mgr l’archevêque, le cardinal Antoine et condamné par sentence de son official, comme ayant été imprimé sans son autorité et contenant des choses très fausses.» Quelles sont donc ces «choses fausses» que contient le document? A la première lecture, il paraît inoffensif; il est au contraire écrit tout à la gloire de l’archevêque et de la pleine réussite de la procession. Il souligne le courage du cardinal revenu de la campagne pour vivre l’épidémie au milieu de son peuple. Il consonne pleinement avec le mandement sur l’origine du fléau. Le prieur a évidemment tendance à se donner le beau rôle en indiquant sa relation privilégiée avec l’archevêque au moment de l’organisation de la procession, ce que ne manque pas de contester l’au-

12 Nous laissons de côté les feuillets enlevés du fond chanoine Lacourt, intitulés Mémoires curieux et qui se retrouvent dans le Ms 1835, 32 bis, 251; ils rapportent simplement l’itinéraire de la procession. 13 Ms 1833, 17.


Nicolas Roland et la « Peste » à Reims en 1668

473

teur des notes marginales, qui rappelle que le chapitre a été nécessairement consulté (le mandement lui-même en porte mention, comme il se doit), en la personne du chantre et du sous-chantre, députés par le chapitre «pour l’ordre le temps de ladite procession.» Vient ensuite une longue description de la procession avec ses différentes stations et les lieux où ont été dressés des reposoirs à travers la ville où le cortège s’arrête quelque temps. La châsse de saint Remi était extrêmement lourde. Elle était portée au départ de l’abbaye par seize personnes: à droite huit chanoines de Notre-Dame, «les dignités du chapitre»: Monsieur Dy de Séraucourt, grand archidiacre, M. Boucher, prévôt, M. Le Large, doyen, M. Bernard, chantre, M. Thuret, écolâtre, M. Audry, grand pénitencier, auxquels étaient adjoints «les deux plus anciens chanoines» ; à gauche il y avait huit religieux de l’abbaye. Nicolas Roland ne faisait donc pas partie de ceux qui avaient l’honneur d’être désignés pour porter la châsse, la charge de théologal ne figurant pas parmi les premières dignités du chapitre. Mais il est évident qu’il eut largement l’occasion de le faire dans la suite de la procession; les divers documents disent en effet qu’il fallut remplacer les porteurs, étant donné le poids que représentait la châsse, surtout pour des hommes dont certains étaient peu préparés à cet exercice: «Ce qu’il y eut de singulier durant ces jours-là, c’est que, comme chacun s’empressait à l’envie de porter la châsse, il y eut toujours des personnes députées à cette fin, et dès qu’elle entrait sur les terres de quelque paroisse, ils venaient se présenter avec joie et ne la quittaient point jusqu’à ce qu’ils fussent relevés par d’autres qui s’en chargeaient avec le même empressement14.» C’est là sans doute, si l’on en croit la servante, que Nicolas Roland put à loisir déployer son zèle, en se glissant parmi les porteurs. Les notes marginales15, dès que l’occasion s’en présente, soulignent les entorses au cérémonial (et même en ce qui concerne la procession elle-même; il semble bien en effet qu’une procession de 5 jours était exceptionnelle et qu’on ne faisait pas habituellement sortir la châsse de saint Remi de l’abbatiale plus d’une journée.) Mais ce qui est au coeur de la contestation, ce sont surtout les miracles qui se seraient produits sur le parcours de la procession. Dom Claude Bretagne les décrit à plaisir sans aucun esprit critique: «Le bon Père Bretagne en a ouï parler, lit-on dans la marge, mais s’il avait lu les informations faites par l’ordre de Monseigneur le cardinal l’archevêque, il ne s’avancerait pas. Son grand zèle l’emporte16.» Ainsi, à plusieurs reprises, on fait remarquer que le prieur de saint Remi s’est laissé emporter par son enthousiasme. Le Ms 1835 qui se présente comme composé d’extraits du texte de Dom Bretagne a modifié le texte original, probablement pour atténuer les critiques.

Ms 1835, f. 251 et sq. Ces notes ont-elles été rédigées par le doyen de saint Symphorien lui-même, auteur de la « Note instructive », ou bien par quelqu’un d’autre? Il n’est pas évident que l’écriture soit de la même main. 16 Ms 1833, 17, f.24. 14 15


474

Bernard Pitaud, p.s.s.

A propos de la guérison de la religieuse de la Congrégation Notre-Dame, l’auteur de ces extraits fait remarquer à propos du Te Deum qu’elle demande de faire entonner: «le cardinal était trop sage pour paraître approuver par une permission donnée légèrement un miracle qu’il n’avait pas encore eu le loisir d’examiner: il fait réponse qu’il ne fallait pas s’expliquer si légèrement sur un article de cette importance...» Et s’il permet de chanter le Te Deum, cela ne signifie nullement pour lui une caution donnée à la guérison, mais dans le but de remercier Dieu que la procession se soit arrêtée devant le monastère. Dans le document donné à l’impression (Ms 1833), Dom Claude Bretagne ne dit absolument rien de cette réticence dont nous ne savons pas si elle a été ou non inventée par le rédacteur des extraits (Ms 1835) pour dédouaner l’archevêque. De même la relation des miracles dans ce document est plus distanciée que dans le texte du prieur: on prend garde de ne pas se laisser aller à un enthousiasme excessif; on acquiesce certes à tel ou tel miracle pour lequel on dispose de témoins fiables; on déclare que certaines personnes atteintes de la peste ont été guéries, mais en même temps on dit que d’autres sont mortes aussitôt après la procession et ainsi punies de leur témérité. On souligne qu’aucune personne qui portait la châsse et qui fut pressée par des gens atteints par la contagion n’a été contaminée, ce qui montre la réalité de la protection du saint; mais on insiste sur le fait que bien d’autres miracles, d’ordre spirituel, se sont produits dans le peuple gagné par la piété et la ferveur. On voit donc que le rédacteur du Ms 1835 a pris des libertés avec le texte de Dom Bretagne qu’il est censé reproduire. Ce dernier gomme en effet toutes les aspérités, dénie tout conflit avec l’archevêque, et laisse entendre que celui-ci a été favorable aux miracles, en insistant simplement sur la demande du prieur, conjointement avec le lieutenant de ville au cardinal Antoine «d’employer son autorité pour faire informer de toutes ces guérisons qui faisaient tant d’éclat.» Mais les notes marginales le contredisent avec force: en réalité, expliquent-elles, l’archevêque a réuni un conseil composé de ses grands vicaires et de quelques docteurs en théologie et en médecine, en vue d’examiner les miracles. C’est le grand vicaire M. Pinguenet qui fut chargé de faire la synthèse de leurs conclusions: «et son Eminence n’a rien prononcé sur ces informations, car elle alla à Rome, et depuis, son successeur, Mgr son successeur à l’archevêché, l’archevêque Mgr Charles-Maurice Le Tellier n’a aussi rien prononcé et ainsi le bon Père devait attendre quelque prononciation devant que d’écrire aucune chose de ces prétendus miracles. Le dit P. Prieur envoya deux de ses religieux chez Pinguenet pour savoir de lui ce qui avait été dit de ces miracles, auxquels il fit réponse qu’il avait la bouche fermée jusqu’à ce que son Eminence ou M. son Grand Vicaire eussent prononcé sur les prétendus miracles, ce qui n’a pas plu au dit Père Prieur.» Dans un autre document17 signé de Dom Claude Bretagne, écrit probablement après l’interdiction du premier, et qui relate également la procession, mais de manière plus

17

Ms 1824, f. 35-39.


Nicolas Roland et la « Peste » à Reims en 1668

475

sobre, le prieur atténue légèrement ses certitudes, sans cependant se renier: «Le R.P. Prieur de saint Remi au nom de son abbaye et M. le lieutenant de l’Hôtel de Ville au nom de la ville, ayant présenté requête à son Eminence à ce qu’il lui plût d’examiner les guérisons qu’on disait avoir été opérées miraculeusement par les mérites de saint Remy, son Eminence ayant assemblé un conseil exprès composé de ses grands vicaires, de plusieurs docteurs en théologie et en médecine a trouvé des dépositions très fortes de plusieurs témoins irréprochables qui prouvaient la vérité de plusieurs opérations miraculeuses18.» Qu’aurait décidé finalement l’archevêque s’il n’était pas parti pour Rome? Son départ ne lui permettait-il pas d’éviter de trancher dans une matière délicate qui soulevait des polémiques et révélait de multiples conflits latents, comme nous allons le voir? Le chanoine Maucroix lui-même19 qui n’est pas suspect de sympathie envers l’archevêque ni d’attrait particulier pour les miracles, ne dit-il pas que le cardinal a signé quelques-uns des procès-verbaux émanant de la commission qu’il avait constituée, mais que ces procès-verbaux n’ont pas été publiés «quand on est revenu à la raison, c’est-à-dire quand le nombre des miracles a diminué, on n’a plus osé les donner au public.» Ces paroles sont pour le moins ambiguës: qu’est-ce que revenir à la raison? Admettre qu’il n’y a pas eu de miracles, c’est-à-dire s’en tenir au scepticisme du chanoine Maucroix lui-même. Mais le cardinal avait quand même signé pour quelques guérisons! Avec ce passage du Ms 1645, nous arrivons à la deuxième source concernant la peste de 1668 et la procession ordonnée par l’archevêque Barberin, les «Mémoires» du chanoine Maucroix. Cette source irrigue aussi trois documents, comme la première: le Ms 1645, f.152-153, que nous venons de citer, le Ms 1708, f. 45-46, et le Ms 1709, f. 57. Ils ne diffèrent pas très notablement; cependant certains détails ne figurent pas dans les trois documents et certains accents très marqués dans l’un sont atténués dans les autres. Il est probable que le Ms 1645 est le plus proche de la source; les expressions y révèlent le style libre et brillant de ce poète, ami de la Fontaine, traducteur réputé d’auteurs anciens, au demeurant très galant homme, amoureux impénitent, devenu chanoine pour des raisons qui avaient sans doute peu à voir avec une véritable vocation. Il met l’accent sur l’opiniâtreté de l’archevêque dans la décision au sujet de la procession. Malgré les objections qui lui sont faites, il maintient sa position. Maucroix est le seul à signaler que les religieux de saint Remi étaient défavorables à une procession aussi longue. Comme il leur était impossible de laisser le corps du saint en dehors de leur présence, ils savaient qu’ils devraient le veiller jour et nuit durant les cinq jours que dureraient la procession, et ils craignaient les fatigues supplémentaires que cela leur occasionnerait. Jamais, dans sa relation le prieur du monastère ne

18 19

Idem, f. 34. Ms 1645, f. 152-153.


476

Bernard Pitaud, p.s.s.

dit mot de cette objection. Maucroix ajoute que le cardinal mettait cette opposition des religieux sur le compte des chanoines qu’il estimait frondeurs par rapport à son autorité: «car telle était la situation de ce prélat injustement prévenu, il regardait son chapitre comme un corps qui donnait son mouvement à tout, et dès qu’on formait la moindre opposition à ses desseins, il s’en prenait aussitôt à quelques chanoines qu’il croyait n’être pas bien intentionnés pour lui20.» Autrement dit, le cardinal Barberini jugeait, à tort ou à raison, le chapitre de sa cathédrale très puissant et peu bienveillant à son égard. Quant aux guérisons, sa position est sans appel: «Depuis la procession, le mal contagieux augmenta considérablement. Dieu voulant faire connaître peut-être aux hommes qu’il n’approuve pas les dévotions inconsidérées, et qu’il faut le prier avec sagesse. Les personnes sensées avaient prévu les suites fâcheuses d’un zèle aussi peu prudent...Dans le nombre de ceux qui se mettaient sous la châsse du saint, on sut qu’il y en avait déjà atteints de la peste, et qui avaient eu grand soin de le taire dans l’espérance d’une guérison miraculeuse...Plusieurs se sentirent frappés du mal à la procession. Un homme qui demeurait près des Augustins se sentit attaqué dans l’église même de ces religieux21.» Jamais Dom Claude Bretagne ne fait la moindre allusion à cette propagation de la peste occasionnée par la procession elle-même. Il admet bien que l’épidémie ne s’est pas immédiatement arrêtée, mais il tempère cette observation en disant qu’elle a été en diminuant et que ceux qui portaient la châsse n’ont pas été contaminés, ce qui eût été la parfaite négation de l’effet miraculeux attendu. Il faut savoir que les mesures sévères prises pour empêcher un trop grand concours de peuple furent dépassées dès le deuxième jour. On parvint à les appliquer à la cathédrale où le chapitre avait pris soin de bien faire fermer les portes de l’édifice. Mais dès le lendemain sur le chemin de saint Hilaire, la foule commença à sortir sur le passage de la procession et il ne fut plus possible de la contenir. En tout cas, l’ironie de Maucroix se donne libre cours: «Dieu fut honoré, le saint invoqué, M. le cardinal satisfait, et la peste plus répandue qu’auparavant22.» Cette phrase qu’on peut attribuer de fait à cet habile lettré qu’était Maucroix n’est pas reprise dans les Ms 1708 et 1709. Sans doute, ceux qui ont repris son texte n’ont-ils pas osé aller aussi loin. On lit dans le Ms 1708: «Beaucoup de personnes prévirent bien que il arriverait un grand mal de la communication qui était inévitable. Durant les processions cependant, M. le cardinal croyant que son autorité était engagée à les faire, ne voulut jamais s’en départir. On dit que des personnes atteintes de la peste, se mirent sous la châsse, espérant d’y recouvrer leur guérison. Plusieurs se sentirent frappés du mal à la procession. Un homme d’auprès les Augustins fut atteint dans

Idem, f. 153. Idem 22 Idem. 20 21


Nicolas Roland et la « Peste » à Reims en 1668

477

l’église même de ces religieux. Voilà le succès de la procession qu’on avait bien prévu et qu’on ne put éviter par l’opiniâtreté seule de son Eminence23.» La charge est moins sarcastique, elle n’est pas moins sévère24. Qu’en était-il de Nicolas Roland dans cet imbroglio? Nous n’en savons rien. Ce que sa domestique a observé n’a pas été retenu par les témoins. Il a évidemment disparu dans la foule. Ce que nous savons par cette brave femme, c’est qu’il n’a pas ménagé sa peine et qu’il s’est pleinement engagé dans la procession. Cette attitude signifiet-elle une pleine et entière adhésion à l’archevêque, à ses conceptions? Là encore, il convient de rester prudent. Il est évident qu’il croyait à la puissance de la prière, ce qu’il manifesta par son zèle. Sans doute se tenait-il en dehors des multiples conflits qui se font jour à travers le déroulement de cette procession, et partageait-il davantage la supplication générale. Mais nous ne pouvons pas aller au-delà. Que nous révèlent tous ces documents que nous venons d’analyser en les comparant? Tout d’abord, le conflit ouvert entre le cardinal Barberini et le chapitre de la cathédrale. Bien d’autres documents montrent l’opposition que les chanoines, tenants des coutumes de l’Eglise de Reims et de son cérémonial, attachés fortement à leurs droits (que l’archevêque, au cours de sa prise possession du siège, jurait de respecter), entretenaient envers un archevêque, très lié à Rome, italien lui-même, peu au fait des habitudes de l’Eglise gallicane, et par ailleurs autoritaire. Celui-ci exagère peut-être lorsqu’il attribue à quelques chanoines malveillants les réticences des moines de l’abbaye à processionner durant 5 jours, mais le soupçon dont il fait preuve a quelques excuses. Les Mémoires de Maucroix racontent avec force détails les conflits qui s’élèvent autour de questions de préséance et de liturgie; conflits que l’archevêque fait une fois remonter jusqu’au roi, ce qui vaut au chapitre une sérieuse remontrance royale, parce qu’un chanoine avait entonné le Te Deum alors que l’archevêque entrait seulement dans la cathédrale et avant qu’il fût installé à son siège25. Nous trouvons aujourd’hui ces conflits ridicules, mais ils disent l’attitude d’un chapitre cathédral arcbouté sur ses prérogatives et qui entend ne pas en être dessaisi. Et

Ms 1708, f. 46. Nous pouvons noter que dans l’édition imprimée des Oeuvres du chanoine Maucroix: Oeuvres diverses, publiées par Louis Paris sur le manuscrit de la bibliothèque de Reims, T.2, Paris, chez l’éditeur, 27 rue d’Angoulême-Honoré et chez J. Techener, Place du Louvre, 1854, Louis Paris ne reprend pas les propos de Maucroix qui montrent clairement son opposition à l’archevêque, ce qui dénature la teneur du document. 25 On attribue à Maucroix cette épitaphe à la mort du cardinal Barberini: Ci gît un fou qui porta mitre, Qui fit enrager son chapitre Et son clergé diocésain. Dieu nous garde d’un tel maître! Jamais homme ne fut si vain Et n’eut si peu sujet de l’être. 23 24


478

Bernard Pitaud, p.s.s.

ceci d’autant plus que, depuis la nomination du cardinal Barberini, le siège avait été vacant de fait pendant 10 ans: nommé en 1657, l’archevêque n’obtient ses bulles de Rome qu’en 1664; il prend alors possession de son Eglise par un procureur, mais ne vient en personne à Reims qu’en 1667. Il semble bien que le clergé rémois ait mal vécu cette absence prolongée, même si elle ne pouvait être entièrement attribuée à l’archevêque. Maucroix lui-même n’écrira-t-il pas à Mgr Le Tellier, successeur du cardinal Barberini: «Ne voyons-nous pas avec combien de soin vous réparez les brêches qu’une longue vacance avait faites à la maison du Seigneur qui vous est commise?26» Il y a en tout cas vis-à-vis de Rome et de ceux qui la représentent une réserve bien ancrée dans le clergé de Reims et qui se poursuivra plus tard jusque dans l’opposition marquée des membres les plus éminents parmi les prêtres de Reims à la réception de la Bulle Unigenitus. On peut d’ailleurs se demander si la décision de l’archevêque d’ordonner la procession n’était pas pour lui une manière de «reconquérir» son clergé et son peuple en stimulant l’unité de la cité autour du corps du saint qui la symbolisait. D’autant plus que les châsses des autres saints de la ville, et particulièrement celle de saint Nicaise devaient aussi sortir en procession. Pourrait-on aussi déceler un conflit latent entre religieux et clergé séculier dans la manière dont l’auteur des notes marginales sur la relation de Dom Bretagne traite les prises de position de ce dernier. Il l’appelle «le bon Père « avec condescendance. Tous ces chanoines, cultivés, pourvus pour la plupart d’un doctorat, ne regardent-ils pas d’un peu haut ces religieux qui sombrent dans la crédulité? Il faut rester très prudent quant à ce genre d’interprétation. Le conflit autour de la procession ne met en cause, d’après les documents en notre possession, que peu de protagonistes. Or à Reims, le clergé était nombreux et les religieux ne l’étaient pas moins. Il faut donc bien se garder d’attribuer à tous ce qui est circonscrit à quelques-uns dans les textes dont nous disposons. Ce qui est sûr, c’est que les habitants de Reims avaient une haute idée de leur clergé. En 1666, les jésuites, établis à Reims depuis 1606, firent une demande pour ériger une deuxième maison. Une réaction, dont l’auteur est anonyme27, fait valoir l’inutilité de cette demande, et pour cela montre la qualité du clergé de la ville: «Il y a à Reims treize maisons de religieux, quatre chapitres considérables, dont l’un qui est celui de la cathédrale est composé de plus de cent ecclésiastiques. Il y a treize paroisses que les curés, la plupart docteurs en théologie, gens de lumière et de probité et de charité exemplaire, desservant en personne28. Ces paroisses ont un grand nombre de vicaires et de prêtres habitués, qui tous, avec les religieux et les ecclésiastiques dont nous venons de parler vaquent sous la conduite des curés à l’administration des sacre-

Oeuvres diverses, o.c., T.2, Lettre 31, p. 85. Ms 1642, 183-198. 28 Contrairement à l’habitude fréquente selon laquelle les curés ne résidaient pas et gouvernaient leur paroisse par un vicaire qu’ils payaient à cet effet. 26 27


Nicolas Roland et la « Peste » à Reims en 1668

479

ments, à la consolation des malades et des affligés, avec tant de vigilance et d’édification qu’en nul endroit on ne manque de secours. Aussi voit-on dans Reims plus qu’en aucune ville de France les peuples instruits dans les principes solides de la religion, les paroissiens assidus à la messe du dimanche et aux offices de dévotion.» Ce tableau idyllique ne devait pas correspondre tout-à-fait à la réalité; on sait combien cette attitude de rejet vis-à-vis des religieux était fréquente, tout simplement parce que leur établissement était toujours perçu comme une menace financière pour la ville et pour les paroisses. Ce qui est intéressant ici, c’est l’argument utilisé de la qualité du clergé séculier, qu’on savait si bien mettre en doute en d’autres occasions. De manière plus générale, on peut dire que dans les documents étudiés deux manières de vivre l’événement s’affrontent. Pour la première, la plus largement partagée, la «peste» est un fléau envoyé par Dieu pour punir les péchés du peuple (c’est ce que dit explicitement l’archevêque et qui est repris par le prieur de l’abbaye); on croit profondément que les prières vont fléchir Dieu, et par conséquent, on entre pleinement dans le projet de procession, et on célèbre avec éclat les miracles qui se sont produits, sans se poser plus de questions; ce courant est représenté par l’archevêque (qui cependant reste circonspect et mesuré par rapport aux miracles), par les moines de l’abbaye, et tous ceux qui participent avec ferveur et enthousiasme à la procession; l’autre conception est représentée par le chanoine Maucroix et par le rédacteur des notes marginales du Ms 1833; ils sont plus conscients des risques que la procession elle-même fait courir à la population et donc de son caractère déraisonnable dans la forme qu’elle prend; du coup, ils interprètent avec beaucoup de distance les miracles qui sont à leurs yeux de «prétendus miracles»; ils soulignent que la procession n’a pas arrêté l’épidémie; ils insistent sur le miracle le plus important à leurs yeux qui est d’ordre spirituel; ce qu’affirme le rédacteur du Ms 1835. Ce qui n’empêche pas le chanoine Maucroix et l’auteur des notes marginales de remettre l’archevêque dans leur camp, puisqu’il n’a finalement confirmé officiellement aucun miracle. S’agit-il de deux conceptions de la foi? Il ne faut probablement pas aller jusque là. Il s’agit plutôt de deux jugements différents sur la grande manifestation de la foi que fut la procession, chacun cherchant à se justifier ensuite par sa propre interprétation des faits. Il est probable que Maucroix était proche des milieux libertins, même s’il devait être prudent depuis qu’il était devenu chanoine29. On le voit déployer son iro-

29 Nous employons ici le mot libertin au sens du XVIIe siècle, c’est-à-dire quelqu’un qui introduit sinon le doute, du moins un certain scepticisme, dans les certitudes philosophiques et religieuses et qui prend ses distances vis-à-vis des institutions, sans aller nécessairement jusqu’à l’irréligion. Le sens moral qui prévaut aujourd’hui n’était pas alors le sens premier, même si certains libertins en prenaient à leur aise avec les convenances, ce qui apparaît surtout dans leurs poésies. Quant à l’appartenance du chanoine Maucroix aux milieux libertins proprement dits, elle ne peut être établie avec certitude. Les recherches que nous avons menées sur ce point n’ont pas abouti jusqu’ici. Les Mémoires sur la Vie et les Vertus parlent clairement des « libertins » qui fêtèrent bruyamment en 1678 la mort de Nicolas Roland. Mais nous n’avons pas pu déterminer s’il existait à Reims à cette époque un milieu libertin caractérisé.


480

Bernard Pitaud, p.s.s.

nie et son scepticisme vis-à-vis de ce qu’il considérait comme des manifestations intempestives (il parle lui-même de «dévotions inconsidérées») de la foi. Pour autant, il insiste surtout sur le côté dangereux pour la santé de la procession et sur l’entêtement de l’archevêque. Maucroix et le doyen de saint Symphorien, étaient-ils représentatifs de la majorité des chanoines, voire du clergé séculier de Reims? Et Dom Claude Bretagne auraitil eu derrière lui la majorité des moines et des autres religieux? C’est fort peu probable. N’oublions pas que c’est le prieur de l’abbaye de saint Denis, M. de Boissy (l’abbaye de Saint-Denis était tenue par les Génovéfains), qui fait avorter la tentative d’impression du document? Cependant, un indice nous montre que les chanoines étaient bien considérés comme les principaux opposants à la procession: le Ms 1835, dont nous avons dit déjà qu’il prend ses distances avec le texte de Dom Bretagne, tout en le reproduisant pour l’essentiel, déclare dans une incise au 4ème jour de la procession, que celle-ci passe par le cloître des chanoines et souligne: «où ces messieurs marquèrent bien par les soins qu’ils avaient eus de l’orner, qu’ils ne cédaient en rien à personne dans le zèle qu’ils avaient pour la gloire du plus saint et du plus illustre de leurs archevêques.» Il semble bien qu’ici, l’auteur de cette copie très remaniée éprouve le besoin de dédouaner les chanoines d’un reproche qu’on leur fait. Evidemment, Dom Bretagne lui-même ne dit mot de cet empressement du chapitre. Ces incertitudes font ressortir davantage le caractère inutile d’une recherche purement factuelle de la vérité historique, comme a essayé de le faire par exemple Louis Paris dans son édition des Oeuvres du chanoine Maucroix en 1854. Il met bout à bout un certain nombre de passages des manuscrits pour aboutir à un seul texte, donnant ainsi l’illusion d’établir une certaine vérité historique dans la succession des faits. Mais il gomme complètement la subjectivité des auteurs et copistes, ce qui dans le cas est le seul point de vue vraiment intéressant. Celle-ci permet certes de viser une certaine vérité factuelle, jamais atteinte cependant avec certitude, mais elle montre surtout les intérêts en présence, ce qui donne de mieux situer les groupes sociaux engagés, sans oublier naturellement les personnes qui en émergent.

La maladie de la servante de Nicolas Roland Arrêtons-nous maintenant à la maladie de la servante. Ce qui conduit cette dame aux confidences sur sa propre maladie, c’est l’admiration qu’elle a pour la charité de Nicolas Roland envers les pauvres. Cette charité se traduit par le fait qu’il distribue du grain, et la domestique s’étonne de voir que, malgré les grandes quantités qu’il donne, la masse de grain ne semble guère diminuer dans la réserve. Les pau-

30

Voir Robert Benoit, o.c. p. 150.


Nicolas Roland et la « Peste » à Reims en 1668

481

vres en effet étaient très nombreux à Reims durant les épidémies. L’activité économique était au ralenti, les gens ne gagnaient plus leur vie; d’autre part, les vagabonds et les mendiants, toujours en nombre important dans la ville, avaient beaucoup plus de difficultés à subsister. Les mendiants qui n’étaient pas à Reims depuis au moins trois ans étaient censés être expulsés, mais comment contrôler? Et il y avait beaucoup de négligence dans les contrôles. Comme l’avait constaté M. Lecointre, de Soissons, l’exercice de la police à Reims paraît avoir été assez débonnaire, d’une façon générale. Il y avait aussi pour la municipalité une tradition de subvenir aux besoins des pauvres. Ainsi, au cours de la peste de 1635, on avait décidé de lever une taxe sur les habitants jusqu’à concurrence de 7200 Livres tournois, dont le clergé devait payer le tiers. C’était une habitude à Reims que le clergé fournissait 28% des aumônes faites aux pauvres, ce qui correspond en effet presque à un tiers. Nicolas Roland habitait la rue du Barbâtre, une des rues populaires de Reims, et il avait tout le loisir d’y exercer sa générosité. Comment avait-il du grain ou du pain? Il l’achetait tout simplement. Mais comment se fait-il que la réserve ne s’épuisait pas, aux dires de la servante? Plutôt que de penser tout de suite au miracle classique que le témoin ne fait que suggérer, nous pouvons estimer qu’il recevait des provisions de sa famille. Les documents de l’époque disent que les gens aisés avaient d’importantes réserves. En 1649, alors que la ville est en pleine disette, en raison de la guerre, et que le Conseil de ville a interdit l’exportation des grains, il sort de la ville environ 500 setiers de seigle, c’est-à-dire une cinquantaine de tonnes30. On peut donc supposer que Nicolas Roland sollicitait l’aide de sa famille ou de familles amies pour nourrir les pauvres. Naturellement, les communautés religieuses de Reims, et elles étaient très nombreuses, pratiquaient de la même manière la charité. La servante de Nicolas Roland l’aidait dans ce service. Elle le dit elle-même: elle remplissait les sacs. Il n’est pas étonnant qu’elle ait été contaminée par la maladie et qu’elle ait attrapé une furieuse peste, comme elle dit. En effet, les pauvres étaient beaucoup plus vulnérables que les riches à la contagion, à la fois parce qu’ils souffraient de malnutrition et parce qu’ils habitaient en des lieux plus insalubres où ils vivaient plus entassés, même si là n’était pas la cause première de la propagation de la maladie31. Jusqu’ici rien de particulièrement surprenant. Mais voici que la dame se met à louer ce qu’elle estime être l’extraordinaire charité de Nicolas Roland à son égard. Celui-

Une émission de télévision a fait récemment état d’une hypothèse « scientifique », disait-on dans l’émission, formulée, après de longues recherches sur des descendants de familles soumises aux épidémies au XVIIe siècle. Certaines parmi les personnes qui ont échappé à la contagion auraient été protégées par un gêne qui serait le même que celui qui protège aujourd’hui certains individus d’autres maladies. Nous ne savons rien sur la valeur scientifique de cette hypothèse. Nous l’évoquons sous toutes réserves, y compris celle du risque de la simplification à outrance qui habite parfois certaines émissions de ce type. Si elle s’imposait, on serait obligé de nuancer l’hypothèse classique de l’appartenance aux classes les pauvres comme facteur principal de la propagation de la maladie.

31


482

Bernard Pitaud, p.s.s.

ci fait venir un chirurgien pour la guérir, moyennant une grosse somme d’argent secrète, et cela sans s’en faire de la peine de ce qui en dût arriver. Naturellement, cette brave femme pense que le chirurgien l’a guérie. Or que faisaient les chirurgiens? Ils constataient la maladie, et pratiquaient une incision sur le ou les bubons, ce qui, nous le savons aujourd’hui, était sans effet thérapeutique. Si elle avait vraiment la peste, elle a guéri à cause de sa bonne constitution qui lui a permis de résister à la maladie et non pas par la science du chirurgien. Les chirurgiens étaient moins estimés que les médecins; ils étaient surtout des praticiens, moins savants. Les médecins, formés dans «la très salubre faculté de médecine» de Reims, faculté très renommée, ne se précipitaient pas pour soigner les malades de la peste, car ils ne pouvaient plus dès lors approcher leur clientèle ordinaire et perdaient ainsi une bonne partie de leurs revenus. Quand l’épidémie apparaissait, on nommait un médecin et un chirurgien de peste, qui vivaient dans une maison isolée. En 1668, deux chirurgiens vécurent même à la Buerie32 avec les malades; ils y contractèrent la maladie et ils y moururent. On fut obligé de nommer plusieurs chirurgiens en raison de l’ampleur de l’épidémie (le chiffre monta jusqu’à 8. Mais trois seulement s’engagèrent auprès des pestiférés. Les cinq autres embauchés par le Conseil de ville n’étaient pas rémois). Certains furent très courageux: la ville de Reims a particulièrement gardé le souvenir du chirurgien Nicolas Colin qui mourut en soignant les malades; il a une place à son nom avec un petit monument et une plaque, à l’endroit approximatif de la Buerie. A la fin de l’épidémie, «Reims comptera 17 chirurgiens, ou en tout cas, dix-sept personnes se sont prétendues tels33». Seul un médecin offrit ses services comme «médecin de la santé». Revenons à la «peste» contractée par la servante de Nicolas Roland. Normalement, dès que la maladie était constatée, on évacuait le malade vers la Buerie où il mourait habituellement dans de grandes souffrances et un grand isolement moral. Il y avait cependant un curé de peste qui était nommé par l’archevêque, payé et nourri pour assister les malades et les mourants. Les habitants de la maison d’où l’on expulsait le malade étaient mis en quarantaine, avec interdiction de sortir de chez eux. Comme on peut l’imaginer, il y avait beaucoup d’exceptions, surtout chez les gens aisés. Moyennant une certaine somme d’argent, le chirurgien acceptait de signer un certificat de non-contagion, quitte à devoir ensuite payer une amende si l’affaire était découverte. Naturellement, on n’avait pas l’intention de mal faire tout en se sachant dans l’illégalité. Chacun évaluait les risques à sa manière. On peut penser que Nicolas Roland voulait échapper à la quarantaine pour continuer son service envers les pauvres. De toute façon, comme chanoine, il aurait sans doute été

Il y avait aussi deux autres lieux qui pouvaient accueillir les malades; deux anciennes léproseries désaffectées: Sainte Anne et Saint Ladre aux Hommes. 33 Robert Benoit, o.c. p. 173 32


Nicolas Roland et la « Peste » à Reims en 1668

483

évacué vers l’espace que le chapitre avait prévu pour ses membres s’ils avaient été atteints par la maladie34. En tout cas, le caractère secret de la grosse somme d’argent nous oriente vers quelque chose d’illégal, car le chirurgien n’avait aucune raison d’exiger une forte somme s’il pratiquait au grand jour; il n’y avait donc pas que la somme qui était secrète, mais aussi très probablement la venue du chirurgien luimême. Cela est d’autant plus vraisemblable que la dame ajoute naïvement: et cela sans s’en faire de la peine de ce qui en dût arriver. Mais que devait-il arriver? La contagion pour Nicolas Roland lui-même et les autres habitants de sa maison? La découverte de son subterfuge s’il était dénoncé ou si la servante venait à décéder? Ce qui frappe aussi dans la manière dont la femme interprète l’attitude de Nicolas Roland, c’est la bonté dont il a fait preuve à son égard: Je dirai sur cet article que sa charité fut si grande envers moi dans cet accident qu’il me promit de m’assister en tout jusqu’à la mort, si Dieu disposait de moi. Et plus loin: et me consola dans ce mal avec une bonté que je ne puis expliquer. On comprend qu’elle lui ait été particulièrement reconnaissante. Mais on voit aussi se dégager une autre raison de l’attitude de Nicolas Roland, c’est sa bonté envers cette femme qu’il essaie de sauver de l’antichambre de la mort qu’était la Buerie. On peut donc tout à fait imaginer à partir de ces phrases qui ne livrent leur secret que si l’on connaît les pratiques de l’époque à Reims par temps d’épidémie que Nicolas Roland a agi comme l’ont fait alors beaucoup de gens de son milieu, comme les documents le rapportent. Pour continuer leurs activités, pour protéger leurs familles, pour éviter peut-être aussi à leurs domestiques, auxquels ils étaient souvent très attachés, une mort assez atroce, parce qu’ils ne croyaient pas toujours non plus à l’efficacité des mesures préconisées, ils ont préféré braver la contagion, mais aussi la risquer pour les autres. Ils sont ainsi frôlé l’illégalité, en utilisant leurs relations et leur argent, avec la complicité des médecins et chirurgiens eux-mêmes. Plusieurs d’entre eux, découverts, ont été condamnés à des peines, assez légères cependant, tant la tolérance entre gens du même milieu était grande.

Conclusion L’étude des documents nous permet de mieux comprendre l’admiration de cette femme pour celui qu’elle a longtemps servi et de la regarder de manière plus simple. L’attitude de Nicolas Roland n’en apparaît pas moins belle pour autant, sur les deux plans de la piété et de la charité. Pour la piété, on le voit se tenir en dehors des conflits entre le chapitre et l’archevêque et participer à la procession avec la fougue

Ms 1709, f. 57: « Le chapitre songea à sa conservation: il retint de bonne heure un confesseur et un chirurgien, et désigna un jardin pour les malades au cas que quelque chanoine fût attaqué du mal. »

34


484

Bernard Pitaud, p.s.s.

et la générosité qu’on lui connaît, faisant pleinement sienne la prière des chrétiens de Reims qui imploraient Dieu par l’intercession de leur saint protecteur. Pour la charité, sa maison devient un lieu où les pauvres peuvent venir quêter de quoi se nourrir. Ils savent qu’ils ne seront pas repoussés. D’autre part, sa bonté envers sa domestique est finalement assez émouvante: il risque la contagion et même une amende ainsi que le regard réprobateur de ses concitoyens, parce qu’il ne se résout pas à envoyer cette femme à une mort certaine. Sous ces deux points de vue, son attitude est peut-être moins héroïque qu’on pourrait le croire. D’autres ont eu probablement la même. Mais à travers ces textes apparaît un Nicolas Roland très mêlé au peuple de Reims, très proche des pauvres et très attentif à l’angoisse et à la souffrance d’une personne qui le servait. Les témoignages de ses contemporains soulignent sa simplicité et sa bonté. Nous en avons ici de beaux exemples.35

35

Je remercie M. Bruno Maes, professeur à l’Université de Nancy, de ses précieux conseils.


RivLas 78 (2011) 3, 485-514

«Ensemble et par association» L’actualisation de la «mission canonique» affrontée aux transitions irréversibles1 HERMAN LOMBAERTS

1. Orientation L’école lasallienne s’est fondée sur la base d’un accord entre frères pour s’associer en communauté, de par une consécration, afin de tenir des écoles à destination d’un public bien spécifique. Cette association, stable et ordonnée, est considérée comme élément fondateur du projet, garant de sa réalisation et de sa continuité. Un élément circonstanciel semble avoir mis en cause cette logique: l’intégration de laïcs dans la communauté éducative. Dans un avenir assez proche, ils seront les seuls à assurer la continuité des établissements lasalliens. C’est ce qui a fait émerger une dissociation dans l’Institut, une sorte de rupture dont l’importance devient de plus en plus décisive au fur et à mesure qu’il y a moins de frères. D’abord elle a ébranlé la représentation de la fidélité à une tradition bien établie. Ensuite elle a érodé progressivement l’identité même d’un modèle historique de l’école lasallienne. Il n’était plus possible de maîtriser la logique propre et la pratique ritualisée et standardisée du ‘tenir des écoles’. Il s’agissait avant tout d’une nécessité. Suite à l’expansion du nombre d’établissements, la dispersion de certains d’entre eux à cause des développements politiques, et la diminution des vocations, il était impossible d’assurer un nombre suffisant de frères pour gérer l’encadrement des écoles. Une question se pose dès lors: que devient l’association lasallienne identifiée, dans le cas des frères, à une « consécra-

Ce texte fait suite à l’article La «mission canonique» et les districts vieillissants paru dans Rivista lasalliana 78 (2011) 2, 295-312.

1


486

Herman Lombaerts

tion», alors que les laïcs, en règle générale, mènent une vie conjugale et familiale. Ils ne sont pas tenus par les exigences formelles et ascétiques d’un modèle de vie religieuse. Ils disposent d’une indépendance personnelle pour gérer leur vie. L’engagement des laïcs par rapport à l’école lasallienne se conçoit avant tout en termes de contrat de travail. Cela leur garantit un emploi salarié. Que cette profession rejoigne leur intérêt, voire leur passion pour l’enseignement, centré sur un public bien particulier, sous-entendu inspiré par la foi chrétienne, reste un élément très personnel. Quant à assumer les exigences propres à l’appartenance à l’Institut, c’est à chacun de discerner dans quel sens et jusqu’à quel point il ou elle veut bien s’associer au charisme de J.-B. de La Salle et s’inspirer de sa spiritualité. Et quand on interprète éventuellement leur engagement comme une «vocation» - comme c’était le cas dans nos contrées pour la profession enseignante en général jusqu’il y a peu il ne s’agit plus d’une vocation aboutissant à une consécration comme c’est le cas dans la vie religieuse apostolique. Dès lors, une dissociation assez fondamentale concernant la participation à une mission éducative chrétienne s’est installée au cœur même de l’Institut. Comme ce changement affecte toutes les congrégations et ordres religieux, il ne s’agit pas d’un accident de parcours, d’un phénomène passager dans une congrégation en particulier. Le glissement au niveau des acteurs d’un modèle historique est symptomatique d’une transition bien plus globale. Sans aucun doute peut-on essayer de comprendre le processus qui a surpris et qui a progressivement renversé l’édifice d’une Europe chrétienne. Les conséquences pour les institutions éducatives ou hospitalières basées sur les présupposés d’une société chrétienne se traduisent dans la disparition progressive des personnes supposées assurer la continuité, et dans le démantèlement de leurs établissements. Le propos de ce texte est de dresser une cartographie des dissociations qui ont pu émerger au sein de l’Institut, surtout au cours de la deuxième moitié du XXème siècle. Une pareille observation pose le problème du sens et de la nécessité éventuelle d’une association entre frères, entre frères et laïcs, entre laïcs, au nom d’une mission éducative inspirée par l’Evangile et en continuité avec l’engagement tel que De La Salle et ses frères l’avaient conçu au point de départ. Plan de travail - Pour bien cerner l’actualité du sujet, nous évoquons d’abord la divergence au sujet de l’association lasallienne telle qu’elle s’est exprimée au sein d’un établissement scolaire (2). Cela nous amène à repérer à un niveau plus global «les signes des temps» qui se manifestent dans un certain nombre de dissociations (3), et à écouter plus attentivement le discours «associatif» tel qu’il se pratique dans l’Institut actuellement (4). Revisitons donc ce qui est à l’origine de ce trait identitaire: quels sont les éléments constitutifs des vœux émis par De La Salle et ses frères? (5). Deux instruments d’analyse sont évoqués pour mieux comprendre le fondement anthropologique, historique et socio-politique d’une tradition


L’actualisation de la « mission canonique » affrontée aux transitions irréversibles

487

ecclésiale: le statut du serment, et la «vie nue» (6). Ces clarifications nous amènent aussi à pressentir de nouvelles perspectives concernant l’enjeu d’une association (7).

2. Perceptions de l’identité lasallienne Le directeur d’une école a réuni son conseil pour accueillir un groupe de visiteurs et pour leur présenter la façon dont l’école s’acquitte de sa mission éducative. C’est une grande école. Avec de nombreux élèves, de la maternelle au cycle complet du lycée, et peu ou pas d’enfants de familles allochtones. L’encadrement représente un élément crucial pour assurer le bon fonctionnement de l’école. Un souci éminemment propre à la pédagogie de J.-B. de La Salle. Après une présentation mutuelle et une description de la structure de l’école, les collègues décrivent leur responsabilité et leur fonction par rapport aux autres professeurs et aux élèves. Quand une question est posée concernant leur façon de réaliser la mission éducative lasallienne, il semble qu’ils se sentent quelque peu interpellés. Un professeur s’empresse d’expliquer que pour lui, cela ne se fait pas par des actions spécifiques. Car il s’agit d’un esprit qui anime le personnel, d’une disponibilité continue au service de l’établissement et des jeunes. C’est dans la façon concrète de rencontrer les collègues et de travailler avec les élèves que cette mission s’actualise. Il n’est pas nécessaire même d’en parler ou de déclarer que l’on est mobilisé par un projet aussi spécifique. Si cette mission ne se perçoit pas à travers le comportement concret, il est probable qu’elle n’existe même pas. Là-dessus, plusieurs collègues réagissent en témoignant de leur expérience personnelle. Lors des sessions de formation, ils ont été touchés personnellement par le contact avec des frères ou par des personnes reflétant l’authenticité de leur engagement. Pour eux, connaître la personne de Jean-Baptiste de La Salle et ses œuvres, avoir bénéficié d’une certaine initiation à la pédagogie et la spiritualité du fondateur représente une plus-value pour leur travail quotidien. Il est important de vivre cette spiritualité, d’en parler, de se reconnaître entre collègues comme associés à cette mission éducative. Du coup, le corps reflète une double sensibilité: d’une part, les «lasalliens», ayant profité d’une formation appropriée, et d’autre part, les autres, c’est-à-dire ceux qui ne se sont pas investis explicitement dans le développement d’une culture spécifique, repérable dans le discours, dans des rites ou des signes extérieurs. Ils n’ont pas l’intention de s’associer de façon formelle à une tradition institutionnalisée. Bien entendu, ces deux «camps» ne reflètent pas toute la réalité. Le positionnement de quelques-uns s’est polarisé autour de deux formulations concernant leur implication dans la mission éducative. Il faudrait une exploration auprès de tout le person-


488

Herman Lombaerts

nel de l’établissement pour dresser la carte «idéologique» concernant les affinités des uns et des autres par rapport à l’identité lasallienne. Le discours du personnel de cette école reflète manifestement plutôt une dissociation qu’une association, ou plutôt une association diversifiée, entendue de manières différentes, quelque peu conflictuelle. Apparemment il y a un désaccord par rapport à ce qui constitue «le lasallien». A première vue, ceci n’a rien d’anormal. On devine que cette dissociation s’y est installée, justement parce que l’Institut s’est efforcé d’organiser (à Paris, à Rome par exemple) des cycles de formation afin de susciter un intérêt pour J.-B. de La Salle et la mission éducative, pour approfondir la motivation et les compétences afin d’assurer la continuité de l’association. D’une part, le personnel laïc exprime par ce fait même une prise de distance par rapport au concept historique de l’association (consécration) des frères. Ils se situent ailleurs et autrement. D’autre part, on observe une assez grande diversité parmi les laïcs quant à la religion, l’éthique professionnelle, le style de vie plus ou moins ascétique. A tout instant, ces formes de dissociation se manifestent, se répercutent et colorient l’engagement concret de la vie quotidienne. C’est dans l’acceptation d’une telle diversité non clarifiée, mais qualifiée de «lasallienne», qu’une clé d’interprétation de l’identité de l’école risque de s’installer dans l’établissement: le «faire comme si», le semblant. Le changement progressif de la composition du personnel, de sa mentalité, de sa culture (frères / laïcs, plus chrétien / moins chrétien, voire athée, plus sensible au lasallien / plutôt à distance) évide le sens du concept d’«association» tel que choisi comme élément constitutif de la fondation de l’Institut à la fin du XVIIème siècle. Ce paradoxe est inhérent à la transition qui se vit actuellement. Par rapport à certaines composantes, il y a une rupture irréversible. En quoi héritons-nous donc d’une continuité, importante au point de nous y accrocher à n’importe quel prix, et de façon héroïque? Cette constitution paradoxale de la réalité scolaire actuelle est le terrain où la séparation par rapport à un modèle révolu a le potentiel de faire apparaître un projet éducatif à la fois traditionnel et inespérément nouveau. Retenons en premier lieu que fort probablement «association» ne va pas sans «dissociation». Serait-ce imaginable que l’association ouvertement professée camoufle en même temps une dissociation? Il est possible que ce soit une des raisons pour lesquelles les collègues «indifférents» justifient leur distance par rapport à une profession religieuse trop apparente. Ils ne se sont peut-être pas installés dans un refus ou une indifférence par rapport au «lasallien» quand ils assument leur travail éducatif avec passion et assiduité. Il se peut que leur réserve exprime la préoccupation sincère d’organiser un milieu éducatif authentique. Peut-être se sentent-ils obligés de prendre distance par rapport à ce qu’ils perçoivent comme une main mise idéologique préjudiciable de la part d’une institution vis-à-vis du personnel, les élèves et


L’actualisation de la «mission canonique» affrontée aux transitions irréversibles

489

leurs parents. Manifestement, les différentes sensibilités observées reflètent une problématique bien plus ample.

3. Les signes des temps L’expression renvoie à la réception par l’Eglise des changements du monde moderne tels qu’éprouvés au milieu du XXème siècle. Le Concile Vatican II se proposait de repérer ces signes, d’y discerner une invitation de Dieu à revoir sa présence et son témoignage au sein de la réalité sociale. Inévitablement un projet aussi ambitieux impliquait une mise à jour de sa tradition. Encore faut-il se mettre d’accord sur ce que sont ces «signes des temps». C’était probablement l’aspect le plus difficile, le plus problématique de toute l’entreprise conciliaire. Et jusqu’à ce jour, on peut se tromper quant au repérage, au discernement et à la réponse à proposer. En donnant suite à l’invitation du Concile, l’Institut de son côté, a organisé un examen de conscience lors du Chapitre Général de 1966-1967, et, en fait, ne s’est jamais arrêté à stimuler un approfondissement de la MEL et une spiritualité renouvelée. Malgré ces efforts, les mutations, qui deviennent de plus en plus manifestes depuis quelques décennies, ne manquent pas de rendre perplexe. De quel côté fautil regarder pour identifier ce qui importe réellement et pour comprendre l’évolution incontournable qui s’annonce? - La baisse de vocations, soudaine et générale. Elle est perçue comme un symptôme d’une évolution, non seulement d’un modèle de vie religieuse apostolique, en premier lieu en Europe, mais aussi d’un modèle ecclésial, voire même d’une mise en question de l’identité de l’Eglise occidentale. - La reprise en masse des établissements scolaires des Frères par des laïcs. Ce fait comme tel introduit une nouvelle phase dans l’histoire des écoles chrétiennes. Mais quelle en est la dynamique profonde? - La diversité d’interprétations de l’appartenance à un établissement lasallien. Comme évoqué plus haut, cette diversité illustre à quel point l’univers scolaire s’enracine avant tout dans une société mondialisée et pluraliste. D’où la difficulté pratiquement insurmontable de se mettre sur la même longueur d’ondes au sein d’un même établissement. L’enjeu de cette confrontation ne peut être sous-estimé.

Mais il y a des glissements moins spectaculaires qui, pris dans leur ensemble, font apparaître une discontinuité, voire une rupture. Ils affectent à leur tour et dans le même sens l’idée d’une association en tant que présupposé du projet éducatif lasallien. Il n’y a pas seulement un manque de vocations. Il y a eu de nombreux frères qui ont quitté l’Institut. On peut aussi observer une certaine «banalisation» de la vie religieuse parmi ceux qui restent (reproduction peu réfléchie, ennui, accommodation, manque d’inspiration ou de créativité, le nombre d’abus ou d’erreurs fatales…). Une certaine perplexité s’est installée, souvent semi-consciente, devant la lente découverte qu’un projet se vide de son contenu. Parallèlement, de nombreux chrétiens s’interrogent sur bon nombre d’aspects de leur appartenance chrétienne: le sens exact et l’importance des dogmes, le pourquoi des prescriptions ecclésiales, la fréquentation d’une vie sacramentelle et liturgique, les positions éthiques de l’Eglise, etc. Cela semble difficile de prendre en compte les contradictions entre une


490

Herman Lombaerts

visée chrétienne, les discours officiels, et l’action sur le terrain. Il y a des malentendus concernant le contenu même de la foi, le dépassement des dysfonctionnements ou des conflits. Les laïcs se plaignent souvent qu’il ne se sentent pas pris au sérieux; qu’ils se voient exclus du service pastoral; déçus aussi de ne pas être sollicités pour assumer des responsabilités. Il est important, au sein de l’Institut et de nos établissements, de se retrouver dans cet effort d’identifier les signes des temps, tels que perçus par les personnes impliquées. Il est vital d’apprendre à les écouter, à se laisser saisir par ce qu’ils peuvent nous révéler, à travailler ensemble pour créer une réalité nouvelle. Bien qu’on ne se réalise pas quelle figure pourrait émerger de cet engagement dans une confiance réciproque.

4. Le discours actuel sur l’association lasallienne: le récit continue L’idée de l’association constitue en quelque sorte l’épine dorsale de l’Institut. L’initiation des laïcs à la spiritualité selon J.-B. de La Salle trouve son élan dans l’histoire de la fondation de l’œuvre, et dans la rencontre des nouveaux acteurs qui s’incorporent dans cette même mission pour l’enrichir, attirés par la mission2. Fr. A. Botana cite la lettre pastorale du Fr. Johnson (1 janvier 2000): «…nous, Frères des Ecoles Chrétiennes, avons besoin d’écouter, de méditer, de dire et célébrer notre histoire de fondation, l’histoire de la façon dont nous sommes venus à l’existence et comment nous avons commencé à nous percevoir et à nous considérer comme originaux, différents et distincts. … Nous devons accueillir avec enthousiasme ceux qui veulent devenir Associés lasalliens et les aider à créer des façons nouvelles et originales de vivre le charisme lasallien. Eux-mêmes, cependant, doivent être les protagonistes de leur recherche»3.

Le message est donc clair: le récit continue. Fr. Botana cite les moments décisifs où, depuis 1967 ce nouvel élan autour de l’association a pu se consolider. Face à la transition éprouvée depuis le milieu du XXème siècle, le nouveau rassemblement autour de l’association pose ses exigences. Mais l’Institut engage aussi à de nouvelles formes d’association et encourage à se donner ‘une période de liberté pour la promotion et l’accompagnement des structures et des formes d’association’ …. L’Association lasallienne est le résultat d’une communion de certaines personnes animées par le charisme du Fondateur et engagées dans le service éducatif des pauvres. Et désormais il est question d’un engagement de «frères ET laïcs», qui sont encouragés à se former ensemble selon cette perspective d’une continuité sous d’autres modalités, avec des collaborateurs non-frères, hommes et femmes, parfois non-croyants (?) ou non-chrétiens (p. 10-11).

2 3

A. Botana, L’association lasallienne: Le récit continue, Cahiers MEL 2, Rome 2003, p. 7. Ibid., p. 5-6.


L’actualisation de la «mission canonique» affrontée aux transitions irréversibles

491

Un sens existentiel Cinq approches sont proposées pour découvrir les divers aspects de l’association. S’associer, c’est participer à l’identité collective (1); c’est le message central de l’histoire de fondation (2); c’est un processus de communion pour la mission (3); c’est engager la vie dans l’association lasallienne (4), unis pour la mission lasallienne dans l’Eglise-communion (5). Fr Botana offre une première exploration de ces différents aspects. Le Vocabulaire thématique situe l’idée de l’association dans ses rapports avec la visée globale de la MEL: quelles sont les caractéristiques fondamentales de ce que J.-B. de La Salle a institué et autour desquelles l’association peut se réaliser aujourd’hui parmi tous ceux et celles qui s’y sentent appelés? Le document permet de se donner une idée claire de l’association telle que proposée actuellement en s’inspirant des écrits du fondateur et de la tradition de l’Institut. Le lecteur y trouve aussi une bibliographie de base, riche et variée, permettant de se rendre compte de la cohérence interne de l’idée d’association en tant que facteur mobilisateur d’une mission. L’Institut offre donc, à tous ceux qui se sentent proches de la MEL, la visée et les instruments pour intérioriser une spiritualité bien spécifique pour enseignants et éducateurs. En réponse aux transitions qui se sont imposées depuis la deuxième moitié du XXème siècle, un modèle historique d’engagement pour l’éducation des pauvres s’est ouvert, justement pour en assurer la continuité. Désormais, frères et laïcs s’inspirent du même charisme. «Lorsque nous parlons «d’association» au sens de participation au charisme lasallien, la dimension d’organisation, l’aspect juridique, même la reconnaissance canonique, passent au second rang tout comme son aspect contractuel. Par contre, tout ce qui concerne la communion entre les personnes et la communion à un même charisme, pour participer à la mission justifiant cette association, vient au premier plan. C’est quelque chose de très «existentiel» et qui se rattache à des concepts aussi essentiels tels que «processus ou itinéraire», «vocation», «identité», «relation entre personnes», «engagement», et y compris «consécration», c’est-à-dire se référant explicitement à Dieu. Toutes ces nuances sont présentes dans le terme «association» quand la perspective fondamentale est de participer au charisme lasallien4».

Une portée universelle Une présentation aussi claire et explicite suit une approche linéaire. Selon cette logique, l’idée de l’association serait valable au-delà du temps, indépendamment du statut des personnes (frère ou laïc, célibataire ou marié…). L’association serait la 4

Vocabulaire thématique, p. 17.


492

Herman Lombaerts

même partout. Elle reproduirait le même dynamisme dans des contextes socio-culturels, politiques et religieux, différents de ceux du moment de la fondation, en France, vers la fin du XVIIème siècle. Promouvoir l’association, malgré cette immense diversité, est dès lors l’expression la plus évidente d’une fidélité à la tradition. On ne peut oublier toutefois que «La formule votale prononcée par les frères a bien gardé depuis trois siècles une promesse d’association. Mais quand il s’agit d’expliciter le contenu de la consécration religieuse, le vœu d’association s’était estompé dès 1726»5. M. Sauvage n’hésite pas à exprimer sa crainte qu’un retour à l’idée de l’association, prise au sens littéral, voile certains aspects de son caractère original, et empêche que l’association fondatrice se réinvente dans le contexte scolaire d’aujourd’hui, radicalement distinct de celui d’il y a trois siècles. Ce qui se passe aujourd’hui requiert un renouvellement profond et courageux. Les professeurs, tout comme les élèves et leurs parents, aujourd’hui, vivent une réalité sociale marquée par de multiples formes d’association. On emploie plutôt l’expression «être connecté». Le cadre de référence socio-culturel et linguistique est avant tout centré sur les multiples réseaux de communication, sur le fait d’être lié à des centaines, des milliers de personnes ou d’institutions. Vivre le deuil d’une (jeune) personne décédée ne se limite plus au lieu physique où se célèbrent les funérailles, le lieu de l’enterrement ou de la crémation. Etre en deuil de quelqu’un est un événement social qui se construit via l’Internet en rassemblant des milliers de personnes, instantanément. L’équipement électronique, est l’élément constitutif d’une conscience personnelle, d’une identité individuelle et sociale, du monde dont on veut faire partie. Le contexte existentiel des collaborateurs laïcs s’est réorganisé de fond en comble. Il représente un autre monde culturel. Adultes et jeunes, aujourd’hui, s’en servent en tant que clé herméneutique. Elle leur donne l’équipement pour déchiffrer ce qui émerge au sein de la communication mondiale et pour en découvrir le sens. Cette nouvelle sensibilité, cette nouvelle attention de l’esprit induit aussi une autre perception de la religion institutionnalisée et l’interroge sur sa pertinence par rapport à la vie, la société, l’avenir de notre planète. Elle suscite de multiples dispositions par rapport à l’une ou l’autre forme d’association. Quand donc un établissement invite les professeurs à «s’associer» au sens lasallien du terme, on ne peut s’étonner que cette proposition comme telle suscite déjà une certaine dissociation.

La consécration Prenons l’aspect de la consécration. C’est un critère historique permettant de distinguer l’association telle que vécue par les frères consacrés, de l’association vécue par M. Sauvage, Mieux comprendre l’association lasallienne? Id., Jean-Baptiste de La Salle et la Fondation de son Institut, CL 55, Rome 2001, p.309. 5


L’actualisation de la «mission canonique» affrontée aux transitions irréversibles

493

les laïcs «non-consacrés». Tous ceux qui ont été baptisés et confirmés, sont «consacrés» sacramentellement; ils s’inspirent d’un même charisme lasallien, mais une diversité liée au contexte social et un itinéraire de vie personnel introduit différentes sortes de dissociation. Est-il possible de gérer cette différence, sous l’apparente égalité, dans un contexte aussi complexe que l’école contemporaine? Ou faut-il un discernement plus exigeant pour comprendre le sens et la complémentarité des différentes sensibilités? Au nom de quel critère juger de l’authenticité des multiples formes de se sentir «connecté»? Le propos de cet article est d’amorcer une interrogation sur ce qui est en jeu dans certaines dissociations qui se manifestent à travers les changements mentionnés. Il ne s’agit pas de phénomènes secondaires. Il y a eu des événements tellement perturbateurs dans notre société occidentale, européenne en particulier, qu’il est difficile d’imaginer que cette histoire n’affecterait pas le contenu de l’association telle que conçue dans l’Institut. Pensons à la question de la vérité, de la souveraineté de l’autorité, de l’indépendance des personnes, du rapport entre le monde occidental et les populations d’autres continents, des religions non-chrétiennes, des enjeux d’une sécurité sociale universelle, des camps et des institutions pénitentiaires... Une approche complémentaire, contextuelle, plutôt systémique que linéaire, aurait l’avantage de nous confronter avec des changements parfois surprenants au niveau des présupposés d’une mission éducative.

5. Quels sont les éléments constitutifs des vœux émis par De La Salle et ses frères? 5.1 Les vœux introduits par De La Salle Assez tôt dans le développement du projet, les acteurs principaux se sont rendus compte de la nécessité de consolider leurs relations réciproques afin de faire face à l’échec possible, aux menaces venant tant de l’environnement que de l’intérieur6. Il y avait trop d’insécurités pour que ce soit viable au jour le jour de par la simple bonne volonté des personnes impliquées. C’était trop innovateur pour que les premières initiatives soient assurées d’une durée indispensable. La fiabilité de la fondation se jugeait à sa stabilité, tant des frères que de la qualité de l’éducation fournie. C’est ainsi que De La Salle et ses frères ont conçu l’idée d’émettre des vœux7. 6 M. Sauvage, Le Statut votal des Frères des Ecoles chrétiennes en France au ‘temps de la sécularisation’, Id., La Vie religieuse: esprit et structure, Etudes Lasalliennes 10, Rome 2002, p. 1-93, ici p. 43. 7 Pour une étude approfondie cf. Fr. Maurice-Auguste (Alphonse Hermans), Les vœux des Frères des Ecoles chrétiennes avant la bulle de Benoît XIII, CL 2, Rome 1960; en ce qui concerne l’évolution de l’interprétation des vœux de religion dans le Droit Canon de 1917 et par Vatican II, voir M. Sauvage, Le Statut votal, p. 49-93.


494

Herman Lombaerts

D’abord par trois d’entre eux, en secret, le 28 novembre 1691, réputé comme le «vœu héroïque»8. Ensuite, après une délibération, par douze frères le 6 juin 1694, selon l’accord «que la noble ardeur de faire des vœux perpétuels serait restreinte à ceux d’obéissance et de stabilité» tel que Blain le souligne9. Le «vœu héroïque» veut avant tout assurer «l’établissement de la Société des Ecoles Chrétiennes». La formule ne laisse aucun doute à ce sujet. Il s’agissait de faire réussir l’œuvre. Comme il le stipulait dans les Règles Communes, De La Salle estimait que «cet Institut est d’une très grande nécessité parce que les artisans et les pauvres étant ordinairement peu instruits et occupés pendant tout le jour pour gagner leur vie à eux et à leurs enfants ne peuvent pas leur donner eux-mêmes les instructions qui leur sont nécessaires et une éducation honnête et chrétienne10». Devant les risques que son œuvre n’aboutisse pas, De La Salle a dû concevoir un «plan d’urgence». Les frères étaient fatigués, ils étaient désemparés, il n’y avait pas de nouveaux candidats. Dès lors, il achète une maison à la campagne pour que les frères se reposent, il réunit les frères dans une longue retraite pour réanimer leur élan, il ouvre un noviciat pour assurer une formation adéquate. Ces mesures courageuses s’appuient sur une décision surprenante: celle de constituer avec 2 frères un embryon de la «Société» à laquelle il vise d’aboutir. Et pour cela, de s’engager avec eux par vœu, sans réserve et en tant que collectif: ensemble ils promettent la fidélité11. Cette première formulation est donc marquée par un contexte bien précis qui réclamait une réponse innovatrice, émanant d’une lecture nouvelle de la responsabilité assumée déjà depuis une dizaine d’années. La formule utilisée l’atteste explicitement: «Très Sainte Trinité, Père, Fils et Saint-Esprit, prosternés dans un profond respect devant votre infinie et adorable Majesté, nous nous consacrons entièrement à vous pour procurer de tout notre pouvoir et de tous nos soins l’établissement de la Société des Ecoles chrétiennes en la manière qui nous paraîtra vous être la plus agréable et la plus avantageuse à ladite Société». «Et pour cet effet … nous, dès à présent et pour toujours, jusqu’au dernier vivant, ou jusqu’à l’entière consommation de l’établissement de la dite Société, faisons vœu d’association et d’union pour procurer et maintenir ledit établissement sans nous en pouvoir départir, quand même nous ne resterions que nous trois dans la Société et que nous serions obligés de demander l’aumône et de vivre de pain seulement»12. (formule de 1691)

La formule de 1694, tout en présupposant cette perspective, met l’accent surtout sur la «consécration», assumée par chacun personnellement, en son propre nom, en vue

8 Texte cité par Blain, I, p. 313; reproduit dans Fr. Maurice Auguste (Alphonse Hermans), Les vœux des Frères des Ecoles chrétiennes avant la bulle de Benoît XIII, CL 2, 1960, p. 40; et dans H. Bédel, Initiation à l’histoire de l’Institut des Frères des Ecoles Chrétiennes. Origines 1651-1726, Etudes Lasalliennes 5, Rome, 1995, p. 92. Cf. aussi Le voeu héroïque, germe de vitalité, Bulletin de l’Institut des Frères des Ecoles Chrétiennes n° 235, 1991. 9 CL 7, 343. 10 RC, 1,4, Œuvres Complètes, p ; 3. 11 M. Sauvage, Le statut votal, EL 10, p. 43-44. 12 CL 2, p. 40 ; H. Bédel, Op. Cit., p. 92.


L’actualisation de la «mission canonique» affrontée aux transitions irréversibles

495

de réaliser le but de la Société13: « … je me consacre tout à vous pour procurer votre gloire autant qu’il me sera possible et que vous le demanderez de moi.»

Comme H. Bédel le souligne: se consacrer à Dieu, c’est se mettre «totalement et exclusivement à part pour (sa) gloire, et l’idée d’émettre des vœux voulait assurer la pérennité de l’œuvre des «écoles gratuites»14. L’engagement personnel d’un frère (je promets) met en évidence le caractère radical de «ensemble et par association, de stabilité et d’obéissance». La formule des vœux porte là-dessus: «… pour tenir ensemble et par association les écoles gratuites en quelque lieu que ce soit quand même je serais obligé pour le faire de demander l’aumône et de vivre de pain seulement… c’est pourquoi je promets et fais vœu d’obéissance tant au corps de cette société qu’aux supérieurs, lesquels vœux tant d’association que de stabilité dans ladite société et d’obéissance, je promets de garder inviolablement pendant toute ma vie.»15

Dans l’histoire de l’Institut ces premières initiatives d’émettre des vœux sont considérées comme un moment historique de la fondation. Prononcer ces paroles d’une promesse marque l’appartenance à l’Institut16.

5.2 La consécration du baptême radicalisée A l’origine, la consécration constitue le cœur d’une spiritualité d’association propre à la communauté des frères. Les composantes apparaissent clairement: un abandon au Dieu Trinité; une consécration sans réserve, sans considération humaine; un engagement définitif au service de l’établissement des écoles gratuites; l’association et l’union de solidarité entre frères; un style de vie et une ascèse au service de l’œuvre, écartant toute ambigüité. En arriver à s’engager de la sorte, ce n’est pas le résultat d’un calcul volontariste ni d’une ambition personnelle. Il faut une «grâce» reçue et bien élucidée pour émettre ce vœux et le vivre au jour le jour durant toute une vie. Les personnes qui s’y impliquent, en premier lieu Jean-Baptiste de La Salle lui-même, commencent leur récit par «il m’est arrivé que…». Se consacrer, c’est d’abord reconnaitre qu’on a été «touché au cœur», converti par la force transformante de l’Esprit, agissant dans le tissu de l’Histoire, pour nous faire, dans l’Eglise, Ministres de la Nouvelle Alliance en faveur de ceux qui en étaient exclus»17.

CL 2, p. 42; H. Bédel, Op. Cit., p. 92. Ibid. p. 93. 15 H. Bédel, p. 92.. 16 L’engagement est renouvelé chaque année tel que prévu dans les Règles Communes, Oeuvres Complètes, p. 39. 17 M. Sauvage, Le statut votal, p. 45. 13 14


496

Herman Lombaerts

L’intérêt pour une vie vécue en association, au service gratuit de l’éducation, émane d’une sensibilité particulière au Dieu de la vie, présent dans les enfants laissés pour compte et à risque. On s’y découvre impliqué par surprise. Aller aussi loin dans l’abandon de ses propres projets et ambitions résulte d’une visite inattendue et inoubliable. C’est «l’annonciation» actualisée dans la vie des chrétiens. La venue de Dieu, l’invitation à permettre que la vie s’épanouisse pleinement selon les intentions de Dieu, se découvrir comme le lieu même où cela se passe, bouleverse la personne qui ait pu s’en rendre compte. Une attention nouvelle permet d’entendre autre chose, une autre voix, disant des choses surprenantes, jamais entendues auparavant. Tel que c’est arrivé à «Marie», la figure archétype de l’émergence du mystère de Dieu dans la personne humaine. Cela n’arrive pas de l’extérieur. Cela se vit dans une prise de conscience, dans le fond de l’âme, dans le fond du cœur, dans la sensibilité la plus fine et la plus attentive de la personne. La reconnaissance surprenante de Dieu dans l’autre (pauvre et démuni) met en route sur des chemins différents, non tracés d’avance. Une nouvelle forme d’implication «consacrée» dans l’éducation se construit. L’association envisagée dans la formule des vœux concerne cette aventure.

5.3 Les vœux dans les Ordres religieux, les Congrégations apostoliques et chez De La Salle18 Pour bien comprendre le sens des vœux introduits par De La Salle et leur lien intrinsèque avec l’association entre frères, pour tenir ensemble des écoles gratuites, il est important de bien distinguer deux plans. M. Sauvage le formule ainsi: «D’une part, pour La Salle, le vœu est indispensable à l’Institut, mais pas d’abord à la personne de chaque frère. Il atteint les individus qui le prononcent, mais il est constitutif plutôt de la «Société». C’est la raison pour laquelle, jamais, dans son comportement concret, La Salle n’a mis en avant la question des vœux pour les individus. Et les Règles ne font aucune différence entre les frères selon qu’ils ont fait des vœux ou non. Mais d’autre part, pour La Salle, tous les frères sont appelés à vivre en «consacrés». Qu’ils fassent un vœu ou non, c’est la même Règle qu’ils doivent vivre, le même ministère qu’ils sont appelés à exercer»19.

Dans la religion catholique, la notion d’ordre religieux est diverse. Il faut distinguer entre l’ordre séculier qui regroupe les prêtres diocésains, l’ordre régulier qui compte parmi ses membres des prêtres qui vivent sous la règle et prononcent des vœux religieux , et le tiers-ordre qui est une association religieuse de laïcs ayant fait un choix de vie s’inspirant de la règle d’un ordre régulier. Les congrégations ou Instituts de vie consacrée sont des sociétés érigées, approuvées et organisées avec sagesse par l’Eglise au moyen d’une législation générale et particulière (Règles, Constitutions, Statuts) pour qu’on puisse y professer l’état de vie consacrée d’une façon officielle et complète. Les Instituts de droit pontifical sont ceux qui sont érigés et approuvés par le Saint-Siège avec un décret formel (une bulle par exemple). Les Instituts de droit diocésain sont érigés par les Evêques; ils n’ont pas le décret d’approbation du Siège Apostolique. http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccscrlife/documents/rc_con_ccscrlife_profile_fr.html. 19 EL 10, p. 48-49. 18


L’actualisation de la «mission canonique» affrontée aux transitions irréversibles

497

Les vœux introduits par De La Salle ne coïncident pas avec ce qui est entendu par les «vœux de religion20». Il n’estimait sans doute pas nécessaire que les Frères les prononcent pour être considérés comme membres d’une Société religieuse. Il n’était peut-être pas contre, mais il a voulu avant tout que les frères soient et restent des hommes laïcs (hors cléricature) totalement consacrés à Dieu. Pour bien manifester leur statut particulier, ils portaient un habit distinctif, différent de celui des clercs et des autres maîtres. Il n’était pas d’avis que pour vivre cette orientation originale, il soit nécessaire que les frères adoptent la triade des vœux d’obéissance, de pauvreté, et de chasteté, imitant ainsi les religieux ‘réguliers’. Et Fr. Maurice-Auguste spécifie: «Et les vœux ne jouent certes pas dans la société nouvelle, le rôle indispensable d’une «profession»: dès leur entrée, en tout cas, dès le terme de leur probation, les nouveaux venus prennent, dans la communauté, un rang qui les distingue à peine de leurs aînés. Entre eux, les Règles établissent une fraternité qui ne tient compte que de leur appartenance au même corps; et celle-ci se définit par une simple formalité d’admission, sans autre engagement.» Pour le Frère Maurice-Auguste, la Société des Ecoles Chrétiennes, en ce qui concerne son profil des années 1705 à 1720, n’était pas un ordre religieux, ni un institut séculier, même pas une congrégation à vœux simples et publics. Il l’appellerait plutôt une société de vie commune sans vœux, bien que certains frères émettent des vœux d’obéissance, d’association et de stabilité21. C’est ce qui explique qu’en France, jusqu’au début du XXème siècle, il y avait toujours un certain nombre de frères sans vœux. L’intuition de La Salle s’est donc maintenue pendant deux siècles22.

5.4 Vers une lecture essentialiste Tout en mettant au point les qualités caractéristiques de l’engagement des Frères laïcs, De La Salle se rendait bien compte de la nécessite d’encadrer leur vie dans une forme institutionnelle. Il lui fallait trouver à l’Institut une place dans la structure ecclésiale qui réunirait à la fois l’originalité de cette nouvelle fondation et les traits de l’état religieux canonique. Il a abordé cette démarche avec beaucoup de prudence et de tact, sans qu’il l’ait pu achever lui-même formellement durant sa vie. Dès 1721 les Frères ont amorcé les négociations officielles pour obtenir la reconnaissance de l’Institut. Elle leur a été octroyée par le pape Benoît XIII le 26 Janvier 172523. La

La triade des vœux en religion: le vœu d’obéissance, de pauvreté, de chasteté. Fr. Maurice-Auguste (Alphonse Hermans), L’Institut des Frères des Ecoles chrétiennes à la recherche de son statut canonique: des origines (1679) à la Bulle de Benoît XIII (1725), CL 11, 1962, p. 107. 22 Voir les statistiques rassemblées par M. Sauvage dans EL 10, p.5-20. 23 Pour une étude détaillée de ce dossier voir CL 11. 20 21


498

Herman Lombaerts

bulle d’approbation approuve donc l’identité originale de la vie apostolique des Frères. Au cours de l’histoire de l’Institut, trois événements ont embrouillé l’option du Fondateur concernant les vœux. Ils ont déconstruit tant le sens profond que le statut institutionnel et canonique de l’identité des laïcs consacrés à l’éducation des pauvres.24. - Les frères ont perçu la bulle25 d’approbation de façon erronée. Cette bulle se limitait à «reconnaître et approuver l’authenticité chrétienne et ecclésiale du visage propre que l’Institut avait pris selon les initiatives attribuées à Jean-Baptiste de La Salle»26. Les frères, apprenant qu’il fallait émettre la triade des vœux de religion pour obtenir l’approbation du Saint-Siège, s’y sont accommodés en toute bonne foi, admettant que, par ce fait même, l’Institut était désormais une congrégation religieuse à vœux simples. - Dès le début du XXème siècle, un double mouvement s’imposait aux multiples initiatives innovatrices dans l’Eglise. D’une part, l’Eglise s’appropriait le contrôle centralisé de la vie religieuse. D’autre part, et comme conséquence inévitable, la vie religieuse souffrait d’une uniformisation rigide. Une action de mise en règle au sein de l’Institut, selon les exigences de la Curie romaine de 1901, a mis fin à une appartenance à l’Institut sans émettre des vœux27. - Le nouveau Code de Droit canonique de 1917 exigeait de tous les «groupements» religieux qu’ils définissent leur statut d’Ordre, de Congrégation ou de Société de vie commune (sans vœux publics). Par manque de discernement concernant les intentions originales du fondateur, les frères se sont inscrits dans la deuxième catégorie. A la suite de cette exigence, l’Institut n’admettait plus des frères sans vœux, puisqu’ils étaient des religieux au sens canonique du terme, conception due à une interprétation erronée de la bulle d’approbation, opinion largement propagée dans l’Institut.

M. Sauvage souligne que l’intervention du Saint-Siège est marquée par une pensée essentialiste. De par le système des vœux de religion, un dualisme se met en place. Il s’agit d’abord d’assurer une sanctification personnelle dans la vie religieuse. C’est le sens profond de la triade des vœux, modèle standard pour tous les groupements religieux, qui par ce fait même, vivent la séparation du monde. Ensuite, cette «consécration» exclusive peut se traduire dans des œuvres particulières de charité envers Dieu et envers le prochain. Il y a donc deux dimensions, hiérarchiquement placées l’une par rapport à l’autre. Etre d’abord, agir ensuite; mais l’apostolat est secondaire. Il n’appartient pas à l’essentiel de la «vie religieuse», qui de toute façon est supérieure à la vie des chrétiens laïcs. Ce développement est contraire à ce que La Salle et ses frères ont élaboré comme modèle de consécration au service de l’éducation des enfants laissés pour compte. Il avait entrevu une place unique et originale pour les laïcs dans un dévouement gra-

24 M. Sauvage, Le “système” auquel semble se rattacher le Frère Louis de Poissy, in Le statut votal, EL 10, p. 33-49. 25 Une bulle (que l’on appelle pontificale ou papale) est un document, originellement scellé (du latin bulla, le sceau), par lequel le pape pose un acte juridique important tel que par exemple une canonisation. 26 Fr. Maurice Hermans, CL 11, p. 291. 27 Cf. l’analyse par M. Sauvage de la position du fr. Louis de Poissy, EL 10, p. 52-57.


L’actualisation de la «mission canonique» affrontée aux transitions irréversibles

499

tuit et total pour le salut de ces jeunes. Parce que cet engagement était perçu comme une pratique de sanctification à la fois des enfants et des éducateurs, il voyait bien qu’il était indispensable pour la communauté d’y introduire la possibilité de se lier par un vœu d’obéissance, d’association et de stabilité. Mais seulement pour ceux qui se croyaient appelés dans ce sens, et sans en faire un élément discriminatoire parmi les frères. Car tous se consacraient à l’œuvre de Dieu au sein des écoles gratuites. Il a fallu attendre le renouveau de Vatican II pour que la pratique lasallienne des origines soit reprise en considération grâce à une étude historique rigoureuse. La fin de l’Institut telle que conçue par De La Salle est remise au centre: «que la communauté des maîtres d’école devienne un foyer évangélique d’hommes saisis par Dieu, et décidés à vivre en disciples de Jésus-Christ, associés ensemble pour que les enfants ‘loin des promesses’ aient accès à la Bonne Nouvelle et deviennent eux-mêmes disciples»28. Ensemble, les frères cherchent à suivre Jésus-Christ DANS leur ministère. Le charisme spécifique du frère laïc consacré constitue le cœur même d’une spiritualité éducative pour aujourd’hui, renouant ainsi avec les intentions de J.-B. de La Salle d’avant l’interprétation maladroite de la Bulle de 1725 donc29. Pourtant le renouveau qui s’en est suivi dès 1966-1967 jusqu’aujourd’hui ne s’est pas restreint à une étude historique des origines. Ce n’était qu’un élément, bien qu’indispensable parce qu’inspirant à lire les «signes des temps», dans une évolution globale et universelle aussi surprenante que bouleversante. C’est l’entrée en masse des collaborateurs laïcs, hommes et femmes, qui a perturbé de fond en comble les circonstances historiques d’une vocation à l’éducation des jeunes à risque, des populations estudiantines impatientes de trouver leur place dans un monde globalisé et de découvrir le sens chrétien de leur vie.

6. Deux instruments d’analyse 6.1 La crise du serment et de l’association et ses implications pour les engagements en religion Arrêtons-nous un instant à ce mouvement apparemment irrésistible de marquer des moments décisifs par un acte solennel d’engagement. Comme si l’on voulait maîtriser et conjurer toute insécurité à ce sujet et surtout pouvoir compter les uns sur les autres. L’étude du serment peut aider à mieux comprendre le sens de l’initiative d’émettre des vœux à un moment donné, en fonction d’un contexte bien particulier. M. Sauvage, EL 10, p 41. J.-B. de La Salle, Méditation 201/3 (9e méditation pour le temps de la retraite), Œuvres Complètes, p. 479-480. 28 29


500

Herman Lombaerts

6.1.1 Serments et vœux, hier et aujourd’hui - L’acte de prêter serment rejoint une très ancienne tradition du monde occidental quand il s’agit d’établir un ordre particulier entre humains, de s’engager pour des fins délicates, à risque, et d’en assurer la continuité. La fonction principale du serment est de garantir la vérité et l’efficacité du langage, de ce qui a été prononcé. Il est perçu comme un remède contre l’infidélité à la parole donnée, contre le mensonge ou l’erreur dans les formules rituelles, invoqué pour combattre les parjures et obtenir la crédibilité (adapter le langage humain au modèle divin en le rendant crédible)30. L’origine du serment remonte jusqu’aux peuples indo-européens, jusqu’au stade de la langue non attestée historiquement mais enracinée dans un événement mythicoreligieux. Pour en comprendre la logique, on ne peut se passer du sens qu’il a eu dans les sociétés hébraïques, grecques et romaines. Et, bien entendu, dans le monde occidental le serment rejoint à la fois une racine magique et religieuse et une dimension juridique. Les études le confirment: «le serment, placé à l’articulation entre religion et politique, la spécificité et la vitalité de la culture occidentale chrétienne, a été aussi en réalité la base du pacte politique dans l’histoire de l’Occident»31. Si le serment a joué un rôle aussi important dans la constitution du monde occidental, d’un point de vue anthropologique, qu’est-ce qu’il implique s’il définit et met en question l’homme lui-même, dans la vie comme dans la mort? G. Agamben n’hésite pas à établir un lien entre le caractère anachronique du serment admis actuellement et l’émergence de nouvelles formes d’association dans notre société. C’est un signe d’une transition vers une autre conscience sociale et politique. «Si nous sommes aujourd’hui ‘les premières générations qui, malgré la présence de certaines formes et de certaines liturgies du passé […] vivent leur vie collective sans le serment comme lien solennel et total, sacralement ancré, à un corps politique’, cela signifie alors que nous nous trouvons sans en avoir conscience au seuil de ‘nouvelles formes d’association politique’, dont il nous reste à penser la réalité et le sens»32. Historiquement, avec le serment apparaît aussi le parjure. Organiser institutionnellement un lien organique entre les membres d’une société, inclut aussi la précision des avantages et des bénédictions dont ils pourront jouir, en même temps que les sanctions et malédictions dans le cas où le serment n’est pas respecté. Le serment trouve son origine dans le pouvoir souverain: Dieu et les autorités ou supérieurs qui Le représentent, ou le roi et le droit juridique établi par les autorités légales.

G. Agamben, Le sacrement du langage. Archéologie du serment (Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, 2008), Paris 2009, p. 9-12. 31 G. Agamben, Le sacrement du langage, p. 7, citant P. Prodi, Le Sacrement du pouvoir, 2008. 32 Ibid, p. 7-8. 30


L’actualisation de la «mission canonique» affrontée aux transitions irréversibles

501

De La Salle se sert de ce modèle pour solidifier sa société privée non reconnue encore à la fin du XVIIème siècle, et s’assurer de sa stabilité. Il s’adresse au Dieu Trinitaire pour Lui exprimer la promesse. De par une consécration il veut éviter toute ambigüité quant à l’appartenance et l’engagement. Ce modèle était en pleine vigueur dans la société (catholique), hiérarchisée et stable. Il s’en est servi pour s’approprier un droit d’existence, un lieu spécifique et unique dans cette société. Par les vœux, il réalise ses intentions: invoquer le Dieu trinitaire institue ce qu’il préconise pour les personnes qui prononcent la formule rédigée à cette intention. Emettre des vœux a pour intention de garantir que les paroles prononcées, la pensée et l’action coïncident sans faille. L’association, en tant que consécration est donc inhérente au concept de l’Institut du temps du Fondateur. C’est ce qui peut assurer que les Frères, dans leur mission, soient vrais, que leur engagement et leur parole exprime une vérité. Les élèves et leurs parents peuvent leur faire confiance: ils ne seront pas trompés, la promesse sera honorée. C’est Dieu qui sanctionne si l’on s’en dégage. Citons les écrits de J.-B. de La Salle: «Par lesdits vœux, on s’engage à toutes les choses ci-dessus, sur peine de péché mortel; d’où il s’ensuit, qu’après les avoir faits, on ne peut, pendant le temps pour lequel on a fait vœu, ni sortir, ni vouloir absolument sortir de soi-même de la Société, ni vouloir obliger à être renvoyé, sous quelque prétexte que ce soit, sans violer son vœu, et commettre un péché mortel et un sacrilège33». 6.1.2 L’association planétaire - Aujourd’hui, le concept législatif d’un lien sacré se banalise. S’associer s’est établi comme style de la vie quotidienne. Les associations se démultiplient et adoptent un statut provisoire, pour des raisons fonctionnelles la plupart du temps. Elles prennent fin si les circonstances ou l’évolution le requièrent. Les membres se retirent impunément. Le fonctionnement et la mobilité de la société présupposent une souplesse extrême afin d’assurer une plus grande efficacité tant en ce qui concerne la carrière professionnelle ou privée des personnes, que le fonctionnement des organisations. Le rapport entre membres et organisation se négocie. Le recrutement du personnel représentant des compétences spécifiques est géré comme un marché, soumis à l’offre et la demande. Le monde scolaire actuel évolue aussi dans cette direction. Le serment existentiel, aujourd’hui n’a pas disparu pour autant. Il garde toute sa

33 Recueil de différents petits traités à l’usage des Frères des Ecoles chrétiennes, R 2,5, Œuvres Complètes, p. 67. Il est frappant aussi que le Fondateur, à part une formulation franchement positive de la finalité de son projet et l’ énumération des bénédictions abondantes, utilise des formulations négatives tant dans les Règles Communes que dans le Recueil pour indiquer ce que les frères ne peuvent pas faire, doivent éviter ou fuir. Serait-ce une expression concrétisée de la malédiction qui accompagne la bénédiction du vœu?


502

Herman Lombaerts

force, il se présente encore comme acte sacré, engagé par rapport à des valeurs absolues. Mais il se déplace et se restructure en cherchant les situations où l’humanité, des populations, des minorités dévalorisées, la planète … sont en danger imminent. Nombreux sont les personnes qui, suite à une analyse performante et une prise de conscience personnelle, «se consacrent» et s’associent dans un réseau vaste et pluraliste, pour sauvegarder ce qui est perçu comme sacré. M. Serres34 par exemple rejoint cette mission dans notre société contemporaine. Il veut prêter deux serments par rapport à la situation de notre planète actuellement. Serments «séculiers» n’invoquant pas le nom de Dieu trinité directement, mais bien proche des interpellations qui nous affectent en ce moment. Il rejoint à sa façon le projet de La Salle. Deux serments, l’un émanant des préoccupations éthiques, l’autre s’en suit. 1/ «pour ce qui dépend de moi, je jure: de ne point faire servir mes connaissances, mes inventions et les applications que je pourrais tirer de celles-ci à la violence, à la destruction ou à la mort, à la croissance de la misère ou de l’ignorance, à l’asservissement ou à l’inégalité, mais de les dévouer, au contraire, à l’égalité entre les hommes, à leur survie, à leur élévation et à leur liberté». 2/ que les savants puissent parler au nom de la Biogée35 exige qu’ils prêtent d’abord un Serment dont les termes les libèrent de toute inféodation aux trois classes précédentes (la religion, l’armée et l’économie). Pour devenir plausibles, il faut que, laïques, ils jurent ne servir aucun intérêt militaire ni économique»36. La transition annoncée par Agamben ne concerne pas la disparition d’un engagement ferme, sacré comme tel. La réalité humaine et sociale s’est réorganisée à la suite de ce qui s’est mis en place comme oikos, le lieu (la maison) où 7 milliards de personnes ont besoin les uns des autres pour survivre. C’est une mission qui requiert une immense inventivité et une solidarité planétaire. Ce ne sera pas possible sans une confiance mutuelle, assurant des engagements crédibles et stables. Si la scolarisation s’est généralisée dans le monde occidental, la société intellectuellement épanouie ne peut laisser pour compte les populations dont les enfants n’ont pas accès à l’alphabétisation élémentaire.

Professeur à Stanford University, membre de l’Académie française. Il propose une vision du monde ouverte et optimiste, fondée sur une connaissance des humanités et des sciences. Il est ancien élève des Frères. Il est intervenu lors du quatrième Colloque International, à Barcelone en 1997, sur les nouvelles technologies de l’information et de la communication, Bulletin de l’Institut n° 245 (1999), p. 6175. 35 La Biogée: une institution mondiale où la Vie et la Terre auraient enfin la parole (l’eau, l’air, le feu, la terre et les vivants), M. Serres, Le temps des crises, p. 40ss; texte cité p. 72. 36 M. Serres, Le temps des crises, Paris, 2005, p. 71. 34


L’actualisation de la «mission canonique» affrontée aux transitions irréversibles

503

6.2 Les pauvres et la «vie nue» De La Salle et l’éducation des pauvres L’étude approfondie de la vie du fondateur, de ses écrits, de sa spiritualité ont inspiré les frères et leurs collaborateurs laïcs à redynamiser leur engagement apostolique. La mission éducative a pu se ressourcer et s’enrichir afin de faire face aux interpellations d’un monde de plus en plus complexe. Le but de l’Institut exigeait, dès le départ, un engagement sans réserves: l’éducation humaine, professionnelle et chrétienne des enfants de familles pauvres, exposées à une précarité fatale, incapables de s’occuper de leurs enfants. L’enjeu était d’une importance capitale, au point que les frères étaient prêts à risquer leur propre vie. Le terme sémantique, les «pauvres», situé au cœur de cette justification, a la réputation d’impressionner tous les chrétiens bien intentionnés. Continuellement, au cours des siècles, des personnes affectées par ces situations insupportables ont pris des initiatives pour éduquer les enfants pauvres. L’hypothèse étant que l’éducation scolaire leur permettrait de sortir du cercle vicieux, d’échapper à la pauvreté, et de s’épanouir du bon côté de la société. Et comme «les pauvres, il y en aura toujours»37, les conditions pour maintenir ces initiatives garantissaient leur continuité. Même si les établissements mis en place dans ce but s’occupent surtout de la classe moyenne, voire d’une élite, les pauvres, terme clé du but invoqué, justifient l’existence de toutes les œuvres. Rares sont les cas où les acteurs impliqués s’intéressent aux conditions socio-économiques responsables de la continuation apparemment irrémédiable de la pauvreté comme telle, voire qu’ils constituent des alliances avec d’autres institutions, mieux équipées, pour éradiquer la pauvreté. Sous l’Ancien Régime du XVIIe siècle, où la politique et l’Eglise s’étaient enlisées dans une entente équivoque et inextricable, tout le monde se référait à la conviction que l’ordre établi dans la société correspondait à l’ordre divin. Et la vie nue naturelle (non protégée par la citoyenneté inhérente à la naissance) était politiquement insignifiante et appartenait à Dieu comme vie de la créature. Bien qu’ayant quitté son statut privilégié, ecclésial et familial, pour s’identifier à la population en difficulté, De La Salle s’est toujours soumis à la réalité d’une société hiérarchisée. C’était impensable, à l’époque, que quelqu’un envisage de changer cet ordre. La Révolution Française en a forcé la transition. Jusqu’à quel point les grandes mutations, qui se sont opérées dans la société occidentale depuis le XVIIIème siècle, affectent-elles le contenu même du but de l’Institut? De quoi parle-t-on quand le même langage sémantique est utilisé pour identi-

Des pauvres par dizaines de millions, A. Gresh, Ce que change le réveil arabe, Le Monde Diplomatique, mars 2011, p. 1, 14-15.

37


504

Herman Lombaerts

fier le public privilégié, susceptible d’être accueilli dans les établissements de l’Institut? C’est ici qu’une deuxième catégorie peut être prise en considération, notamment «la vie nue», pour identifier une autre dissociation camouflée derrière le langage standard propre à l’Institut, et pour la dépasser. Retournons un instant à ce qui est arrivé au Fondateur. Des circonstances l’amènent à découvrir une couche de la population rémoise, non connue, non fréquentée par lui. Bien sûr qu’il s’agissait de familles pauvres, incapables de s’occuper de leurs enfants, avec des conséquences fâcheuses. Mais le terme «pauvres» nous empêche d’en discerner quelques caractéristiques bien spécifiques38. Les villes, au XVIIème siècle, représentaient un havre pour les gens des régions rurales, souvent ruinées par les guerres, les violences locales, les villages détruites, la famine, les maladies, les moissons ratées. Si, dans les villages, ils faisaient partie d’un réseau social, d’une tradition, d’un système économique permettant de survivre sous des conditions normales, en ville, ils étaient des migrants livrés à une insécurité totale. Ils n’avaient pas de statut, ne jouissaient pas d’une protection sociale, économique ou juridique. Ils étaient souvent embauchés au jour le jour, sans défense aucune par rapport aux circonstances fortuites. En fait, leur vie disparaissant dans la contingence. La société citadine, organisée, pouvait en disposer à sa guise. Il se peut que De La Salle ait été profondément touché par ce qui était arrivé à ces familles et leurs enfants, qu’il se sentait désemparé devant les situations dramatiques causées par les conditions de vie déshumanisantes. Créer un modèle scolaire avec une très haute qualité d’encadrement et d’engagement de la part des frères offrirait la chance de toucher les familles et leurs enfants dans leur expérience d’apatride, de non appartenance sociale, de non protection. Une sensibilité pareille dépasse la condition matérielle d’être pauvre, possiblement passagère, et se rend attentive à l’aspect déshumanisant, destructeur de la personne, et conduisant à la mort.

La vie nue Cette perception du pauvre désemparé rejoint une réalité politique très ancienne39. D’une part, suite aux contingences de la vie, on peut être exclu de la société à la suite d’événements malencontreux, d’accidents, d’erreurs. De la sorte, toute forme d’intégration dans la communauté ou de protection légitime a disparu. On est simplement livré, impunément, à l’exploitation ou à la violence par quiconque. Cf. Le monde des artisans et des pauvres, L. Lauraire, La Conduite, Approche contextuelle, CL 61, p. 31-41; Survivre aux «malheurs du temps», Ibid. p. 133-156.. 39 G. Agamben, Homo sacer. Le pouvoir souverain et la vie nue, Paris, 1997 (Homo sacer. I: il potere sovrano e la nuda vita, 1995), p. 81ss. 38


L’actualisation de la «mission canonique» affrontée aux transitions irréversibles

505

D’autre part, l’autorité souveraine peut mettre au ban une personne, une catégorie de gens, un peuple, et les mettre hors la loi. Ils sont alors mis dans un état d’exception. Au nom de cette décision de la souveraineté, ces personnes sont sans protection. Si quelqu’un (n’importe qui) les tue, le meurtre n’est pas considéré comme un homicide, ni comme l’exécution d’une condamnation, et le meurtrier ne sera pas condamné ni puni. En outre, le hors-la-loi ne peut être sacrifié pour une cause noble ou religieuse, alors que, dans la visée de l’antiquité ou de certaines civilisations non occidentales, la vie peut être immolée; elle est «sacrifiable». Agamben rappelle que pour la personne mise hors la loi, la loi est suspendue. La personne est réduite à la «vie nue», soustraite aux formes sanctionnées du droit humain et du droit divin. On peut disposer de cet «homo sacer», de cet homme appelé «sacré» au sens restrictif du droit romain de l’antiquité. Il est vraiment réduit à rien: il est exposé au meurtre et il ne peut même pas être immolé; il est «insacrifiable». Une vie nue est une vie qui est le contenu premier du pouvoir souverain; elle a donc une dimension éminemment politique. Dans le droit romain d’antan, le dogme du caractère sacré de la vie signifie que la vie est dans le ban du souverain40.

Continuité de la vie nue Aujourd’hui, le terme «sacré» recouvre un sens différent. Le caractère sacré de la vie est un droit humain fondamental et s’affirme contre le droit souverain. A l’origine, au contraire, le caractère sacré de la vie signifie l’assujettissement de la vie à un pouvoir de mort, son exposition irrémédiable dans la relation d’abandon. Avons-nous donc dépassé ce concept de «l’homo sacer»? Avons-nous purifié notre société d’une violence insupportable, pratiquée simplement au nom d’une souveraineté arbitraire? Hélas, le concept de «l’homo sacer» se prolonge, au XXème et XXIème siècle, dans la violence de la biopolitique moderne. Que la sacralité se situe au-delà de l’idéologie sacrificielle n’explique pas la violence telle qu’elle apparaît dans le monde contemporain. Ce que nous avons sous les yeux aujourd’hui, affirme Agamben, c’est en effet une vie exposée comme telle, impunément, à une violence sans précédent sous des formes profanes et triviales. «Le juif, sous le nazisme, est le référent négatif privilégié de la nouvelle souveraineté biopolitique et, comme tel, un cas flagrant «d’homo sacer», au sens où il représente la vie qu’on peut ôter impunément mais qu’on ne peut pas sacrifier. Son meurtre … ne constitue ni une exécution ni un sacrifice, mais seulement l’actualisation d’une simple «tuabilité» inhérente à la condition de juif comme tel… Les juifs ne furent pas exterminés au cours d’un holocauste délirant et

40

Ibid., p. 93, 123..


506

Herman Lombaerts

démesuré, mais littéralement, selon les mots mêmes de Hitler, «comme des poux», c’est-à-dire en tant que vie nue»41. La bio-politique 42 concerne l’implication croissante de la vie naturelle de l’homme dans les mécanismes et les calculs du pouvoir, tel que cela apparaît dans la politique des grands Etats totalitaires du XXème siècle. Agamben de s’exclamer: «C’est seulement parce que la politique, à notre époque, s’est entièrement transformée en biopolitique qu’elle a pu se constituer à tel point en politique totalitaire, qu’on ait pu concevoir le principe des camps de concentration». C’est parce que la vie biologique et ses besoins sont devenus le fait politiquement décisif que les démocraties parlementaires se sont transformées en Etats totalitaires et que les Etats totalitaires se convertissent presque sans solution de continuité en des démocraties parlementaires. C’est parce que, la politique s’était transformée depuis longtemps déjà en biopolitique et où l’enjeu, désormais, ne consistait plus qu’à déterminer la forme d’organisation politique la plus efficace pour garantir le contrôle, la jouissance et le souci de la vie nue43.

Les Droits de l’homme et citoyenneté par naissance La déclaration des Droits de l’homme constituait une transition importante. Le sujet se transforme à travers elle en citoyen; la naissance devient ici pour la première fois le porteur immédiat de souveraineté et sera donc la base pour constituer l’Etatnation. Dans l’ Ancien Régime, où la naissance donnait lieu seulement au sujet, le principe de naissance et le principe de souveraineté étaient séparés. De La Salle était bien conscient du statut civil insignifiant de cette partie du peuple qu’il venait de découvrir. C’est pourquoi il a manifesté un immense respect pour ces familles et leurs enfants et qu’il s’est mis avec eux, socialement, pour susciter un espoir inattendu en offrant une scolarisation adaptée à leur situation. Après la Révolution Française les deux principes s’unissent dans le corps du «sujet

Ibid., p. 125. Terme introduit par M. Foucault pour identifier les systèmes politiques qui pratiquent le pouvoir biologique; cf. La Volonté de savoir, Paris, 1976. Michael Hardt et Antonio Negri ont repris ce terme en parlant des mécanismes de production de la société post-industrielle; la culture et la politique y vont de pair dans la production de la vie sociale. L’analyse de la biopolitique a fait émerger non seulement la résistance au système capitaliste mais aussi au pouvoir biologique qui se sert du corps et la vie comme arme. Les états modernes s’octroient non seulement le droit traditionnel de menacer la vie des populations, mais aussi de préserver et de réguler la vie à leur guise. Exemples de l’exercice du pouvoir biologique: l’eugénique et le génocide, la migration à cause de la pauvreté en allant vivre ailleurs et en affaiblissant ainsi les frontières des nations. Le terrorisme suicidaire en est une forme extrême: engager (et perdre) sa propre vie comme arme. 43 Homo sacer, p. 130, 132. 41 42


L’actualisation de la «mission canonique» affrontée aux transitions irréversibles

507

souverain», ayant droit à un enseignement adéquat. L’école devient l’instrument socio-politique de la formation de tous les citoyens, indépendamment de leur situation familiale ou socio-économique. C’est ce qui va affecter fondamentalement les présupposés des œuvres des Frères, en France, en Europe et progressivement dans le monde entier. Au XXème siècle, suite aux bouleversements géopolitiques après la Première Guerre mondiale, l’Etat-nation entre en crise. C’est à cause de l’émergence d’un nouvel écart entre naissance et nation que le fascisme, l’idéologie nationale-socialiste (sang et sol) et le nazisme ont pu surgir. Ce sont deux mouvements biopolitiques au sens propre du terme qui font de la vie naturelle le lieu par excellence de la décision souveraine. La réorganisation géopolitique du monde après la Deuxième Guerre mondiale, des guerres de l’Extrême Orient, et actuellement du Moyen Orient, et de différents pays du monde Arabe44, ont radicalisé la crise. Les formes de «vie nue» se sont multipliées, le nombre des personnes impliquées n’a cessé d’augmenter. Sémantiquement, le concept «les pauvres» s’est donc élargi et englobe toutes les conditions et lieux où des personnes, voire des populations entières, sont réduites, fortuitement et sans défense, à la vie nue.

Exemples de l’actualité 1/ Les réfugiés sont un exemple type de la brisure entre naissance et nationalité, entre l’homme et le citoyen. Parce que les Etats-nations réinvestissent massivement dans la vie naturelle (la nation pure: la vie d’un peuple est garantie uniquement si les qualités raciales et la santé héréditaire du corps populaire sont préservées45), une vie pour ainsi dire authentique est discriminée de la vie nue, privée de toute valeur politique. En même temps on fait appel aux droits de l’homme en dehors du contexte de la citoyenneté (la vie nue rejetée aux marges des Etats-nations). 2/ L’impuissance de nombreuses ong’s, organisations ou campagnes philanthropiques est en grande partie due à la séparation entre l’humanitaire et le politique, à la séparation entre droits de l’homme et droits du citoyen. Les organisations humanitaires intègrent la vie humaine à l’intérieur de la figure de la vie nue. Elles entretiennent ainsi, malgré elles, une solidarité secrète avec les forces qu’elles devraient combattre. Par exemple, en ce qui concerne différents pays Africains, pour être objet d’aide, la vie humaine au Rwanda, au Burundi, au Soudan, en Somalie… est consi-

S. Kawakibi et B. Kormani, Les armes, le peuple et les autocrates. Espoirs et embûches des révoltes arabes, Le Monde Diplomatique, mars 1993, p. 11-12. 45 Texte de Verschuer, cité par Agamben, Homo sacer, p. 161. 44


508

Herman Lombaerts

dérée exclusivement comme vie exposée au meurtre et «insacrifiable». Séparé du politique, l’humanitaire ne peut que reproduire l’isolement de la vie sacrée sur lequel se fonde la souveraineté. 3/ Le concept de la vie sans valeur. Le suicide et l’euthanasie renvoient à «une vie qui ne mérite pas d’être vécue» dont l’homme, citoyen, a le droit de disposer librement. L’Etat n’estime pas avoir le droit de l’interdire. Cette «liberté» peut-elle être étendue au meurtre d’un tiers dont la vie serait définitivement privée de toute valeur? 4/ Les sujets d’expérimentation acceptant librement de se prêter à une recherche (médicale, militaire) dangereuse, voire au risque de leur vie, sans que les personnes concernées soient mises au courant des conséquences éventuelles. 5/ les critères basés sur la biopolitique invoqués actuellement pour constater qu’une personne est décédée induisent une certaine banalisation et une politisation de la vie nue. Cela se remarque dans la façon d’aborder la mort cérébrale, le néomort46, le comateux, le faux vivant… (cf. le cas de Karen Quinlan et de bien d’autres). 6/ Le «camp», en tant qu’espace d’exception, comme nomos de la modernité (résidence, matrice cachée de l’espace politique dans lequel nous vivons). Le camp de concentration en tant que conditio inhumana. Exclu, pris dehors, inclus à travers sa propre exclusion, le camp est la structure dans laquelle l’état d’exception est réalisé normalement. Le camp crée une condition «juridique» qui réduit les prisonniers à une vie nue. Par le fait même ils deviennent des non-sujets dont on peut disposer, impunément, pour leur infliger des atrocités inimaginables, jusqu’à les mettre à mort. Ces exemples justifient un élargissement du concept de camp: «Si tout cela est vrai, si l’essence du camp consiste dans la matérialisation de l’état d’exception et dans la création qui en résulte d’un espace où la vie nue et la norme entrent dans un seuil d’indistinction, il faudra alors admettre qu’on se trouve virtuellement en présence d’un camp chaque fois qu’est créée une telle structure, indépendamment de la nature des crimes qui y sont commis et quelles qu’en soient la dénomination et la topographie spécifiques»47. Evoquons encore quelques exemples tels qu’on les retrouve dans la presse quotidienne. Les lieux d’hébergement où l’on entasse provisoirement les immigrés clandestins avant de les renvoyer dans leur pays. Les zones d’attente dans les aéroports internationaux où sont retenus les étrangers désireux de se voir reconnaître le statut

Le “neomort” évoque que chez une personne, considérée comme morte selon les critères traditionnels (le coma dépassé ou la mort cérébrale) certains organes sont maintenus «en vie» grâce aux nouvelles technologies médicales. 47 Homo sacer, p. 187 46


L’actualisation de la «mission canonique» affrontée aux transitions irréversibles

509

de réfugiés. Un lieu apparemment anodin (un hôtel par exemple) délimite, en réalité, un espace où l’ordre juridique normal est en fait suspendu et où commettre ou non des atrocités ne dépend pas du droit, mais seulement du degré de civilité et de sens moral de la police qui agit provisoirement comme souveraine. La façon dont les Etats-nations traitent les peuples Roms, les gens du voyage. Le Camp de Guantanamo. Le commerce des esclaves modernes, le trafic d’êtres humains (la traite des femmes en particulier) et l’isolement des victimes dans un no man’s land, entièrement livrées à un pouvoir arbitraire et illégitime. Les cas d’une redéfinition de l’ancien système politique selon de nouvelles assises ethniques et territoriales (l’exYougoslavie par exemple), affectant les Etats-nations européens. Il s’agit là plutôt d’une rupture irrémédiable de l’ancien nomos (résidence) et d’un déplacement des populations et des vies humaines suivant des lignes de fuite entièrement nouvelles. D’où l’importance décisive des camps où des groupes ethniques sont soumis à des humiliations violentes telles que le viol des femmes. Les quartiers bidonvilles de plus en plus nombreux dans les mégalopoles.

L’Institut à un carrefour historique C’est ce qui amène G. Agamben à conclure: «A présent, ce principe [du camp] entre dans un processus de dislocation et de dérive, laissant prévoir non seulement de nouveaux camps, mais aussi de nouvelles définitions normatives de plus en plus délirantes de l’inscription de la vie dans la Cité. Le camp, qui s’est désormais solidement implanté en elle, est le nouveau nomos biopolitique de la planète. Le camp devient ainsi le nouveau régulateur caché de l’inscription de la vie dans l’ordre politique – le signe de l’impossibilité où se trouve le système de fonctionner sans se transformer en une machine létale»48. D’un autre point de vue de nouveaux territoires, plutôt virtuels, se créent. Le même mécanisme risque de s’y installer. Le critère des connexions l’emporte dans la vie sociale actuellement (i-phone, i-pad, face book, …). Il se crée un territoire entièrement ouvert, susceptible de changer à chaque instant, où l’on peut intervenir personnellement et directement à chaque instant. Le réseau capte l’attention continue pour guetter le moindre changement qui s’annonce afin d’entrer en interaction. C’est l’environnement de vie des jeunes générations. Leur vie sociale s’organise autour de ces canaux de communication. Preuve époustouflante du potentiel, non seulement économique, mais surtout sociopolitique, investi dans ces connexions, si bien que des chefs d’état, des gouvernements, des systèmes idéologiques risquent d’être renversés, outrepassant les éviden-

48

Homo sacer, p. 190-191.


510

Herman Lombaerts

ces du pouvoir établi depuis des décennies. Les masses se mobilisent sans qu’un leader particulier en prenne l’initiative, sans que des accords négociés et écrits, approuvés et votés n’interviennent. Le sursaut émerge et produit ses effets inattendus, cassant les oppressions immobilisant de vastes populations. Dans le même ordre, des traditions religieuses établies depuis des siècles sont abrogées dans la confrontation avec une communication de masse où toute personne impliquée dispose de son propre jugement et l’énonce ouvertement. Le consensus émerge sans appui d’une prédication ou d’un enseignement quelconque. M. Serres argumente que «la crise des temps» - on pourrait y associer «les signes des temps» - doit être lue à un niveau planétaire, prenant distance des modes de représentations territoriales du passé. «… l’écart entre la situation réelle de la nature et de la société telle qu’elle muta et continue aujourd’hui de muter, entre la nouveauté des corps, leur rapport au monde, leurs relations de nouveaux voisinages, l’écart, dis-je, entre ce réel nouvellement advenu et des organisations instituées à une époque où l’humanité vivait tout autrement, cet écart n’a cessé de croître pendant les cinquante dernières années. Comment le mesurer encore? Par la distance qui sépare les pays riches et les pauvres, que La légende des anges compare à la différence que nos aïeux grecs ou romains établissaient entre les mortels et les dieux. Rien de plus risqué que de vivre cet écart-là. Il ressemble étrangement à la tension entre deux plaques tectoniques, tension dont la croissance prépare, en silence, un séisme d’une intensité proportionnelle à la longueur de cette attente. Du coup, les institutions encore dominantes, vieillies brutalement comme les dinosaures d’antan, se réfugient dans la drogue du spectacle. Du pain, certes, économie, pouvoir d’achat, chômage …, du pain, certes, mais surtout des jeux, pour faire oublier le pain: jeux télévisés, radiophoniques, sportifs, voire électoraux. Nous assistons, navrés, à la distribution permanente de la drogue des spectacles en tout genre. Occidental, toxicomane»49.

C’est donc de la responsabilité cruciale et décisive, pour un organisme comme l’Institut, disposant d’un réseau scolaire réparti sur 80 pays à travers le monde, d’examiner en permanence le sort des personnes et des peuples étant réduits à la vie nue. Le chiffre «80» ne peut figurer comme argument de fierté en premier lieu. Il devrait renvoyer plutôt à la responsabilité écrasante de mettre l’éducation scolaire en rapport avec les interactions meurtrières entre régimes totalitaires et peuples victimes, «entre d’un côté, le Peuple comme corps politique intégral des citoyens intégrés et souverains, et de l’autre le sous-ensemble peuple comme multiplicité fragmentaire de corps nécessiteux, des misérables, des opprimés, des vaincus et exclus» (Agamben), entre continents, cultures, civilisations et systèmes religieux affectés par les pratiques de souverainetés arbitraires. D’autant plus que «Aujourd’hui, le projet démocratico-capitaliste d’une élimination des classes déshéritées grâce au développement économique, reproduit non seule-

49

M. Serres, Le temps des crises, Paris 2009, p. 28-29.


L’actualisation de la «mission canonique» affrontée aux transitions irréversibles

511

ment au sein de son système le peuple des exclus, mais transforme en vie nue l’ensemble des populations du tiers monde. Seule une politique qui aura su prendre en compte la scission biopolitique fondamentale de l’Occident pourra arrêter cette oscillation et mettre fin à la guerre civile qui divise les peuples et les cités de la terre»50. L’ennemi à combattre se cantonne dans le néo-libéralisme. Cette idéologie affecte de plus en plus la politique de l’enseignement. Il s’impose que les éducateurs, solidaires de la mission éducative lasallienne, s’appliquent à repérer ces influences, tantôt subtiles et camouflées, tantôt ouvertes et agressives, afin d’en interpeller les présupposés et d’introduire une politique scolaire différente. «Le néo-libéralisme, c’est cette idée que (1) tout se marchandise, tout ! la culture, la santé, le loisir, le corps, et (2) que le marché sait toujours mieux que le politique, le marché ne se trompe pas et quand il se trompe c’est moins grave que quand le politique se trompe, (3) l’individu doit être traité comme épargnant, producteur, consommateur, mais pas comme citoyen. Il est individualisé et ciblé par les entreprises, le marché et les médias dans ces trois dimensions, très réductrices de ce qui fait un être humain. Or, cet individu est d’abord quand-même une personne qui a un projet de vie, des valeurs, des convictions. Cet individualisme exacerbé n’empêche d’ailleurs pas que tous ces soi-disant individus sont très peu individualisés et finissent par se ressembler. C’est le paradoxe de ce type d’individualisme néolibéral, c’est un individualisme de clones ! Individualisme et clonification vont aujourd’hui de pair. Evidemment cet individualisme empêche les gens de poursuivre des idéaux sociaux, politiques, moraux et d’agir collectivement51».

7. Conclusion: pressentir les perspectives d’avenir Matériellement, la formulation du but de l’Institut reste tout à fait valable et garde son intégrité pédagogique et spirituelle. En même temps, on ne peut oublier que l’identification du public privilégié visé par J.-B. de La Salle était marqué par la séparation du principe de naissance du principe de souveraineté. D’où une certaine immobilité d’une société hiérarchisée. Mais, se mettre du côté des pauvres, dans ce contexte, pour les faire évoluer par une éducation scolaire honnête et chrétienne, représentait un nouveau défi sans égal. Première observation. Avec la reconnaissance du «sujet souverain» - on devient citoyen par naissance - la situation sociale a changé de fond en comble. Il était dès

Ibid., p. 193; Cf. aussi le dossier Intolérable pauvreté. Ensemble pour agir, dans «En question», n° 96, mars 2011. 51 Pierre Defraigne, Intolérables inégalités Approche macroéconomique des causes de la pauvreté, ibid. p. 23-28. 50


512

Herman Lombaerts

lors, pour les Frères, indispensable de repenser le contenu même du but de leur Institut. Cela s’est fait dans la pratique, progressivement et forcément, d’abord en s’adaptant à la séparation entre Eglise et Etat, ensuite en réagissant de différentes manières à la sécularisation, et finalement par l’inculturation à travers le monde. Mais déjà au XVIIIème siècle, ils ont constaté assez vite qu’il était impossible de maintenir les exigences établies au départ, notamment celle de «l’école gratuite» et de la reproduction standardisée du «tenir les écoles». Depuis, la trame sémantique s’est restructurée au rythme des changements d’une société de plus en plus complexe. C’est pourquoi, en se limitant à l’expression «les pauvres» pour étiqueter la spécificité de l’Institut, et pour en expliciter la spiritualité, sans tenir compte du sens restrictif du terme à l’époque, on risque de se cantonner dans un mouvement de restauration. Une élucidation des présupposés historiques en fonction de la situation actuelle est inéluctable. Deuxième observation. Les mutations socio-économiques, politiques et philosophiques du XIXème siècle exigeaient déjà une analyse approfondie de la réalité sociétale afin que les intentions de l’Institut soient resituées par rapport à ce nouveau cadre de référence. C’est durant la deuxième moitié du XXème siècle qu’il est apparu que le modèle historique – le but de l’Institut coïncidant avec la vie religieuse – avait perdu le contact avec la nouvelle prise de conscience chez les populations du monde Occidental. On assiste, aujourd’hui, à une implosion de l’Europe chrétienne du passé. Même la représentation des grands mystères de la foi chrétienne est perçue par la majorité des baptisés comme un anachronisme. Rien ne sera plus comme avant. Les efforts de l’Institut à se renouveler et se ressourcer vont-ils assez loin dans l’analyse de cette transition historique, au XXème siècle, afin de pouvoir s’impliquer dans l’émergence du Dieu de la vie, tellement proche des masses désemparées? Désormais, chaque micro-projet situé dans un contexte local et limité, rassemblant des enfants ou des jeunes en difficultés se doit de se situer aussi sur l’échelle planétaire. Tous les besoins de notre monde se tiennent; toutes les populations de tous les âges se conditionnent de par une économie et une communication mondialisée. Troisième observation. En ce qui concerne la mobilisation des laïcs engagés dans nos établissements, l’option stratégique de tout miser sur le terme historique de «l’association» pour sauvegarder le projet – le récit continue – risque d’amplifier certaines difficultés. Comme constaté au début de cet article, la proposition aux enseignants de consolider leur implication dans l’aventure de l’Institut en se rapprochant de la personne de J.-B. de La Salle et de son charisme, suscite un enthousiasme nouveau chez un bon nombre d’entre eux. On ne peut espérer mieux. En même temps ce mouvement risque d’introduire une certaine polarisation chez le personnel des établissements. Ni


L’actualisation de la «mission canonique» affrontée aux transitions irréversibles

513

l’expérience forte et personnelle dont témoignent les «lasalliens», ni les argumentations, ni les ressources mises en circulation n’arrivent à faire bouger l’implication de l’ensemble du corps professoral vers une adhésion qui unifie telle qu’évoquée par le concept de «l’association». La question de fond préalable est plutôt: qu’est-ce qui peut affecter les enseignants au point qu’ils s’en trouvent «bouleversés» pour ainsi dire? Quelle nouvelle perception de leur engagement professionnel pourrait bien les mobiliser de sorte qu’ils élaborent ensemble une vision partagée, prêts à payer le prix requis par l’enjeu de ce qu’ils ont entrevu? C’est précisément ce type de prise de conscience qui a ému De La Salle au point d’avoir décidé d’y consacrer sa vie. Il y a discerné la volonté de Dieu (un autre visage du Dieu qu’il avait rencontré auparavant). L’association, entendue comme une consécration, a émergée à partir d’une confrontation avec la réalité sociale de son temps. Quatrième observation. Depuis l’Antiquité les philosophes Grecs et Romains s’affrontaient au sujet de la question du vrai dans le gouvernement de la cité, dans l’éducation, dans la pratique de la vie quotidienne, au prix même, pour certains, de préférer la mort au mensonge, au semblant, à la sécurité. Certains ont vécu l’expérience d’être mis au ban, d’être l’objet de la honte, et de perdition. Le sort de la «vie nue» était connue; les Romains ont conçu le statut de «l’homo sacer».. Le sort de l’exclu, du persécuté, de l’homme mis à nu, du serviteur souffrant constitue un thème absolument central de la tradition Hébraïque et dans la Bible. Jésus de Nazareth était proche des foules errantes, des aveugles, des sourds-muets, des paralytiques, des lépreux, tous d’une façon ou d’une autre repoussés en marge de la société. Il reste la figure type de l’expérience crucifiant de la «vie nue». Et ces conditions continuent à se reproduire sans cesse dans tous les coins du monde. Ce sont les paradoxes observés qui méritent toute notre attention. Et tout d’abord, dans le monde Occidental, tout en améliorant notre confort de vie, tout en devenant plus performants à tout point de vue, tout en créant des écoles prenant soin de l’épanouissement de la personnalité des jeunes, nous y parvenons aux frais d’une exploitation inadmissible des peuples de plus d’un continent. Et puis, repérer les «dissociations» qui ont pu s’installer dans nos mentalités et dans notre fonctionnement en «pilote automatique» peut nous entrainer dans des conditions qui risquent d’appauvrir, et finalement de neutraliser notre entreprise. La survie d’une «vie nue» sous de nouvelles formes, d’une façon de plus en plus subtile, pourrait nous garder éveillés la nuit, mais devrait avant tout capter notre attention durant la journée. Ce serait là l’objet primordial d’une «initiation» des nouveaux professeurs de nos établissements afin de les rendre compétents dans l’interprétation de notre projet éducatif. Cette forme d’existence, sans avenir, à laquelle tant de personnes sont condamnées, constitue la raison d’être de l’Institut. C’est un


514

Herman Lombaerts

projet planétaire. Qu’une telle inquiétude arrive à mobiliser les professeurs constituerait une base fiable pour s’associer, pour s’épauler et s’entraider, pour mettre sur pied un établissement compris comme biotope, nomos, où l’on apprend la vraie vie, vécue au service des autres, préoccupé d’amener à la vie ceux qui s’en sentent exclus. En tant que «sujets souverains», au XXIème siècle, nous avons la responsabilité de suivre de près ce qui arrive aux multiples populations du monde, conscients que désormais nous sommes sept milliards. Qu’est-ce qui nous «bouleverse» quand nous nous intéressons à ceux qui se trouvent réduits à une «vie nue», ou quand nous sommes l’objet d’un traitement semblable? D’un certain point de vue, les médias nous rendent un grand service en nous amenant auprès de cette réalité dans le journal télévisé, dans la presse quotidienne, dans les films documentaires… Elles nous offrent de multiples occasions à être bouleversés. Comme cela se reproduit de jour en jour de par des images spectaculaires ou des événements choquants, il y a un risque de s’y accoutumer. A part l’attention et la sensibilité requises pour être affecté par ce qui arrive aux autres, un travail assidu de documentation, de discernement et de réflexion est indispensable pour se faire interpeller en profondeur, pour concevoir un engagement soucieux d’assumer les nouvelles formes de solidarité. Se retrouver ensemble dans une pareille aventure peut bien impressionner tant les adultes que les jeunes, à l’intérieur comme à l’extérieur d’une institution. C’est une manière de vivre la gratuité, c’est le but primordial d’une école selon l’intuition de La Salle. C’est en s’y appliquant de tout cœur et avec tous ses talents et compétences qu’on réalise aussi «la consécration», vouée à l’épanouissement final de toute vie. Le croyant y discerne le mystère de Dieu tout en y reconnaissant l’invitation du Christ: qui veut sauver sa vie la perdra, mais celui qui perd sa vie à cause de moi la trouvera52.

52

Mt 16,25.


RivLas 78 (2011) 3, 515-519

Juan Bautista de La Salle, catequista Una tesis doctoral JOSÉ MARÍA VALLADOLID

En el mes de octubre de 2006 tuve la suerte de defender, en la facultad de Teología San Dámaso, de Madrid, la tesis doctoral titulada San Juan Bautista de La Salle, catequista, que en 2007 apareció publicada por Ediciones San Pío X, de Madrid 1. El trabajo comprende tres tomos. En el primero se presenta al santo Fundador como catequista según los “testimonios de su vida y de sus obras” (437 pp.); el segundo tomo se subtitula “El testimonio de sus enseñanzas” (516 pp.); y el tercero “El testimonio de sus catecismos” (328 pp.). Escribo esta presentación de dicho estudio para Rivista lasalliana, a petición de su director, Hno. Flavio Pajer, y lo hago con sumo gusto.

1. Razones del estudio La realización de esta tesis doctoral germinó en Roma, cuando estuve encargado del Secretariado para la Misión Educativa (1988-1992), primero, y luego, el encargo de director de las publicaciones (1992-2001). Me encontré con una dificultad que tuve que resolver, y fue que cuando era necesario citar al santo Fundador en alguna ficha de Lasalliana o en el Boletín del Instituto, era fácil encontrar el texto exacto en francés, y también en inglés; pero para el texto en español resultaba muy difícil ofrecerlo, porque se encontraban diferentes versiones, según el país que hubiera hecho la traducción. Por lo cual veía necesario tener en español una versión autorizada, bien

José María Valladolid, San Juan Bautista de La Salle, catequista, I. II. III. Ediciones San Pío X, Madrid 2007, pp. 437 + 516 + 328. 1


516

José María valladolid

traducida, que sirviera de forma generalizada para todos los países de habla española. Este fue el motivo por el cual, con la aprobación de la Conferencia de Visitadores de la ARLEP (España y Portugal), emprendí la traducción al español de las Obras Completas de San Juan Bautista de La Salle2, que se habían publicado en francés en 1993. Én español aparecieron, en tres tomos, en 2001. El trabajo de traducción, que forzosamente hubo de ser lento, me permitió leer y releer todos los escritos del santo Fundador, y me llamó la atención la riqueza de doctrina que tenía sobre la educación cristiana de los alumnos, y especialmente sobre su evangelización. Revisé toda la bibliografía que sobre este tema había en la Biblioteca y en los Archivos de la Casa Generalicia y no encontré mucho material. Tan sólo algunos estudios sencillos, más bien cortos, escritos en revistas de distintos países, pero no encontré un estudio sistemático y amplio sobre el aspecto de «catequista» en el santo fundador. En cambio, comprobé que había unos trabajos excelentes sobre diversos aspectos del Fundador como pedagogo. Por este motivo, cuando regresé a España, haciéndolo compatible con el trabajo que me asignaron, seguí los cursos necesarios para el doctorado, y preparé la tesis sobre este tema concreto: La Salle, catequista. Trataré de sintetizar lo más brevemente posible, cada uno de los tres tomos que formaron la tesis.

2. El testimonio de la vida y de las obras de Juan Bautista El primer tomo, como ya indiqué al principio, presentaba el testimonio de su vida y de sus obras. Se trataba de analizar las iniciativas que tuvo el santo para evangelizar a los niños. Dividí la materia en cinco capítulos: - en el primero se analiza la etapa en que La Salle descubrió la llamada providencial para dedicarse a la escuela cristiana, y abarca hasta el momento en que se encontró con Adrián Nyel; - el segundo capítulo tiene dos secciones. En la primera se estudia el primer compromiso de La Salle con la escuela evangelizadora, y los medios que puso para conseguir que la escuela estuviese al servicio de la evangelización y de la formación plena, en lo religioso y en lo natural, del niño. En la segunda sección se analiza el compromiso de Juan Bautista con la pobreza para poderse dedicar a los pobres. Abarca la etapa de Reims, hasta 1688, cuando La Salle se estableció en París; - el capítulo tercero es un estudio de la lucha de Juan Bautista contra el sistema tradicional para defender la libertad de enseñanza y la libertad de escoger el tipo de educación del niño que desean los padres. Se repasan los pleitos que hubo de afrontar para defender sus escuelas;

2

San Juan Bautista de La Salle, Obras completas, I. II. III. Madrid 2001.


Juan Bautista de La Salle catequista Una tesis doctoral

517

- el capítulo cuarto trata de la consolidación de las escuelas cristianas como instrumentos de formación del niños, como hombre y como cristiano; - el capítulo quinto, en fin, es la presentación de las tres grandes innovaciones de La Salle con relación a la formación cristiana de los niños, que son las siguientes: la transformación de la escuela tradicional en escuela cristiana, la creación de un nuevo tipo de maestro, que fue el Hermano, laico consagrado a Dios por medio del ministerio de la educación; y la fundación de un Instituto nuevo, totalmente original, que hasta entonces no existía en la Iglesia; estaba formado por laicos, separados del mundo, dedicados totalmente a la educación de los niños.

3. El testimonio de sus enseñanzas El segundo tomo, o segunda parte de la tesis se titula: San Juan Bautista de La Salle, catequista: el testimonio de sus enseñanzas. La finalidad de esta sección consiste en exponer una síntesis de cuanto el Fundador escribió sobre la formación cristiana de los niños, sobre la escuela cristiana como instrumento de evangelización y del maestro cristiano en cuanto educador de la fe. Comprende también cinco capítulos: - el primero versa sobre la doctrina del santo en las Meditaciones para el tiempo de retiro; se completa con el análisis de las claves teológicas que se plasman en dichas Meditaciones, y con el valor catequístico que tuvieron en su tiempo y que tienen actualmente; - en el segundo se estudia el plan salvífico de Dios y el papel del maestro, de los padres y de la Iglesia en el mismo. Se completa con una reflexión sobre la evangelización en general, y más concretamente de la catequesis, en la escuela cristiana. Todo ello siguiendo y explicando las enseñanzas del santo fundador; - el tercer capítulo analiza el mensaje cristiano que se transmite en la escuela cristiana y en la formación religiosa que en ella se imparte: las fuentes del mensaje evangélico, los criterios y normas que rigen su exposición, y el aspecto liberador del mensaje cristiano; - el cuarto capítulo estudia al niño como sujeto de la evangelización y de la catequesis, tanto en su dimensión humana como en su dimensión sobre natural. Del concepto del niño en las enseñanzas de La Salle se deriva la actitud que ha de tener el maestro catequista y el papel que ocupa el niños en la educación cristiana y en la escuela cristiana; - el capítulo quinto es el más largo, y se centra en la persona del catequista, a cuya formación se entregó de manera especial La Salle. La riqueza del pensamiento en este punto concreto es extraordinaria, pues el santo habla de la vocación del catequista, en su preparación y formación, del ejercicio de su ministerio catequístico y en la espiritualidad que debe animarle.


518

José María valladolid

4. El testimonio de sus catecismos En la tercera parte de la tesis, que es también el tercer tomo de la misma, se analizan los cinco catecismos que compuso el santo Fundador. Se comienza por situarlos en el ambiente de su época y se confrontan con los numerosos catecismos que por aquel tiempo se publicaron y utilizaron. Los cinco catecismos de la Salle llevaban un título común: Deberes del cristiano para con Dios y medios para cumplirlos. Pero los cinco eran distintos en su forma y redacción, y cada uno tenía su finalidad concreta de acuerdo con los tipos de enseñanza religiosa que se daba en las escuelas cristianas. Este tomo comprende sólo una introducción y tres capítulos. En la introducción se analiza el impulso catequístico surgido del concilio de Trento y se da una visión de los catecismos existentes en tiempo de La Salle. En los tres capítulos que siguen se hace un análisis de conjunto de los cinco catecismos, que respondían a la programación de la enseñanza religiosa en las escuelas de La Salle. El director de la escuela, que lo era también de la comunidad, señalaba semanalmente, el domingo por la tarde, la materia que se tenía que explicar durante la semana. Para la distribución de los temas se servía del Catecismo por preguntas y respuestas, conocido como «catecismo de las Escuelas Cristianas»; el que se designa tradicionalmente como Deberes II. El texto de este libro era lo que explicaba el profesor en su clase. La Guía de las Escuelas indicaba que los niños repasaran el catecismo cuando entraban en clase, hasta que llegara el maestro. Para ello se servían del «Compendio breve», que probablemente fue el primero que compuso el santo. Pero este catecismo se sustituyó muy pronto por el catecismo de cada diócesis, hasta el punto de que en las Escuelas Cristianas cayó en desuso y hasta casi se ignoró su existencia. También mandaba la Regla que los días de asueto y en las fiestas se diera media hora de catecismo sobre los principales misterios. El catecismo que se utilizaba para estas sesiones era el llamado «Compendio amplio», que se limita a repasar los principales misterios de nuestra fe y las obligaciones que impone. Al final del mismo se hace una síntesis de esos llamados «principales misterios». También prescribían, tanto la Regla como la Guía de las Escuelas, que los días de fiesta se diera media hora de catecismo explicando la solemnidad que se celebraba. Se aprovechaban también los tiempos litúrgicos y las ceremonias de la Iglesia. Se empleaba para este menester el llamado Deberes III, que está redactado también por preguntas y respuestas, y que se subtitulaba, «Del culto exterior y público», o tercera parte de los Deberes del cristiano para con Dios. En fin, el conocido como Deberes I, que es el más extenso y que está redactado en texto seguido, fue, probablemente, el último de los cinco catecismos redactados por La Salle. Algunos estudiosos han sostenido que los otros cuatro catecismos eran como un resumen de éste. No es cierto. Un análisis pormenorizado demuestra que no se trata de resúmenes, sino más bien que éste catecismo es el desarrollo de Debe-


Juan Bautista de La Salle catequista Una tesis doctoral

519

res II, y con finalidades distintas de las que tenía dicho manual. Sobre todo, el santo quiso que sirviera a los Hermanos para documentarse para las materias que tenían que explicar en la clase. Muy pronto serviría también como libro de lectura en los órdenes más elevados de la clase de lectura. Y, como los alumnos llevaban este libro a sus casas, pronto lo usaron los padres, porque en él encontraban unas orientaciones religiosas que quizás nunca habían recibido. Y ésta sería, en fin, la razón del éxito que tuvo este libro, del cual se conocen hasta 301 ediciones distintas, a lo largo de los siglos XVIII y XIX. La claridad de la doctrina que expone, y el hecho de estar en texto seguido, movió, sin duda, a diversas diócesis y parroquias de Francia a editarlo por su cuenta, aunque muy pocas veces indicaban el nombre del autor.

5. Juan Bautista de La Salle fue catequista y catequeta Normalmente, llamamos catequista a la persona que explica el catecismo, y catequeta a la persona que imparte orientaciones y criterios para hacer adecuadamente la catequesis. Podemos afirmar que La Salle es al mismo tiempo catequista y catequeta. Catequista porque él mismo, personalmente, explicó la religión a los alumnos en diversos centros de los que él estableció. Sabemos que dio clase en la escuela de Santiago, en Reims; también en París, en Dijón, en Grenoble, en Ruán, y probablemente en otros lugares; y tanto los escolares como sus padres quedaban muy edificados de sus enseñanzas y de su celo. Merece también el título de catequeta por la riqueza de orientaciones que dio, no sólo para la enseñanza de la doctrina cristiana, sino también por el esfuerzo que hizo para preparar personalmente a los Hermanos y a los maestros de sus seminarios de maestros para el campo, en las tres tentativas que hizo a lo largo de su vida. La Guía de las Escuelas es un tesoro de valor inigualable para la educación cristiana de los niños y jóvenes. No es sólo un monumento de la pedagogía universal, sino también de la catequesis. Es lástima que a pesar de este inmenso esfuerzo realizado por La Salle en el ámbito de la catequesis, los más notables historiadores de los catecismos en la Iglesia no le hayan tenido en cuenta, y le consideren más como pedagogo que como catequista. Y cuando pretenden incluirle en esta categoría, en vez de citar sus cinco catecismos se inclinan por aludir a las Reglas de urbanidad y cortesía cristiana.


JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE

OPERE COMPLETE in 6 volumi, rilegati con sovracoperta, 22 x 15 cm. Prima edizione italiana a cura di SERAFINO BARBAGLIA

1. Scritti Spirituali / 1 Raccolta di vari Trattati brevi – Regole – Scritti personali Presentazione di A. HOURY – Introduzione di M. SAUVAGE e M.-A. HERMANS pagine 544

2. Scritti Spirituali / 2 Meditazioni – Spiegazione del metodo di orazione Presentazione di J. JOHNSTON pagine 1194

3. Scritti Pedagogici Guida delle Scuole cristiane – Regole di buona creanza e di cortesia cristiana Edizione italiana a cura di R. C. MEOLI pagine 480

4. Scritti Catechistici I doveri del cristiano verso Dio Traduzione e note a cura di G. DI GIOVANNI e I. CARUGNO pagine 862

5. Istruzioni e Preghiere Istruzioni e preghiere – Esercizi di pietà – Canti spirituali Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA e I. CARUGNO Presentazione di Á. RODRIGUEZ ECHEVERRÍA pagine 470

6. Le Lettere Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA Introduzione di R. L. GUIDI pagine 560

CITTÀ NUOVA EDITRICE Via degli Scipioni, 265 – 00192 Roma tel. 063216212 – comm.editrice@cittanuova.it


RivLas 78 (2011) 3, 521-537

Roberto Candido Sitia, FSC (1922-2002) Scienze matematiche e umanesimo integrale MARCO PAOLANTONIO

F

ratel Roberto stesso ha tracciato di sé un sintetico profilo biografico: Sono profondamente orgoglioso di essere cattolico e di essere un religioso laico, docente di fisica, dei Fratelli delle Scuole Cristiane, che a Dio e ai giovani ha consacrato, senza rimpianti, tutta la vita e considero questi miei interventi testimonianza pubblica per la Verità che mi sforzo di amare e di vivere.1 A questi rapidi tratti pare opportuno aggiungere alcuni dati anagrafico-professionali e l’affettuosa epitome di chi lo conobbe a fondo e lo stimò.

1. Coordinate biografiche Candido Sitia nasce a Torino nel gennaio del 1922. Quattordicenne entra all’aspirantato dei Fratelli a Grugliasco (To). Nel 1939 consegue l’abilitazione magistrale a Torino e nell’ottobre dello stesso anno veste l’abito religioso assumendo il nome di fratel Dino Roberto. Dopo due anni di scolasticato è inviato nella comunità del Convitto Biellese. Vi giunge dopo aver ottenuto, come privatista, la maturità classica al Liceo Gioberti di Torino. A Biella, con incarico di assistente di convitto e insegnante, rimarrà dal 1942 al 1954, impegnandosi anche nell’animazione del gruppo di

Il senso delle ultime frasi va considerato alla luce di un ‘quaderno’ che fr. Roberto si proponeva di pubblicare; in esso ‘sono raccolte tutte le lettere che sonno state scambiate, in privato e in pubblico, tra me e il prof. Odifreddi [il noto matematico che fa professione di ateismo] nei riguardi dei suoi due libri Il Vangelo secondo la Scienza e Dio e il computer’. 1


522

Marco Paolantonio

Azione cattolica “Pier Giorgio Frassati”. Nel frattempo frequenta la facoltà di Scienze dell’Università di Torino, dove si laurea nel 19542. Anni dopo3 conseguirà a Roma l’abilitazione per l’insegnamento di Matematica e Fisica nelle secondarie superiori. Nel 1954 è destinato agli Istituti Paritari Filippin di Paderno del Grappa (Treviso), dove vive i successivi quarantasei anni. Docente nei licei, unisce a quello di Matematica e Fisica l’insegnamento di Informatica (1984) con la direzione dei corrispondenti laboratori4. Dal 1974 all’81 ricopre anche la carica di Preside. Nel quasi mezzo secolo di vita trascorso al Filippin attua numerose iniziative di rilievo, che associa al consueto lavoro in classe. Stages e convegni frequentati con assiduità per una quindicina d’anni5 gli procurano le conoscenze e la competenza necessarie per creare, a partire dal 1969, il Centro Ricerche Didattiche, le cui attività gli procurano, insieme con la notorietà6, non poche difficoltà. Rilevanti le attività che fanno capo al Centro: la pubblicazione di periodici Quaderni didattici, la collaborazione con gli IRRSAE regionali, con varie università e nuclei di ricerca, la realizzazione dei corsi di formazione per insegnanti formatori in collaborazione con l’Università Cattolica di Brescia (primi in Italia: 1974), i corsi domenicali e gli incontri mensili di aggiornamento per insegnanti di matematica. A questo va aggiunta l’attività di pubblicista, considerevole quanto impegnativa. I guai fisici, e in particolare quelli dovuti a ricorrenti disturbi cardiaci, che lo avevano obbligato a soste più o meno lunghe, si riacutizzarono a metà del 2001. Nel gennaio dell’anno seguente un improvviso aggravamento lo costrinse prima al ricovero in ospedale, poi a una degenza riabilitativa al Centro La Salle di Torino, dove si spense nel maggio dello stesso anno.

2 L’età, 32 anni, può apparire avanzata quando non si tenga conto che nella Congregazione l’iscrizione all’università era consentita solo dopo la professione perpetua, a 25 anni. Discusse la tesi Sulla ricerca in fisica elementare mediante i raggi cosmici ed uno studio sulla termodinamica dei fenomeni irreversibili. 3 Furono 18. La nota 11, che dà ragione di un altro lungo periodo di ‘anticamera’, offre alcuni interessanti elementi biografico-professionali. 4 Il laboratorio di fisica venne ristrutturato ‘in senso moderno’ dopo che fr. R. ebbe frequentato per due anni i corsi di perfezionamento didattico per l’insegnamento della Fisica all’Università di Göttingen. 5 Il Curriculum del prof. Roberto Sitia (v. Archivio FSC di Torino, fald. 556), ricorda: Dal 1968 ha partecipato a quasi tutte le attività nazionali ed internazionali concernenti la didattica della matematica; in particolare è stato presente a tutti i congressi ICMI fin qui celebrati (1980). Nei tre congressi ICMI di Exeter (1972), Kalsruhe (1976), Berkeley, California (1980). E’ stato presente come invitato dal Comitato organizzatore internazionale, e vi ha tenuto rapporti sia sotto forma di Poster Sessions sia sotto forma di Comunicazioni e di Tavole rotonde (ed i suoi interventi sono stati pubblicati negli atti dei vari congressi). 6 Nel 1985, ad es., fu designato, su proposta dell’Unione Matematica Italiana, a far parte del gruppo di ricerca sul tema Informatica e Scuola al congresso internazionale ICMI di Adelaide (Australia).


Roberto Candido Sitia, FSC (1922-2002) Scienze matematiche e umanesimo integrale

523

Un’affettuosa epitome È quella offerta dal prof. Mario Ferrari dell’Università di Pavia7, legato a fr. Roberto ‘da un’amicizia profonda oltre che da una trentennale frequentazione di lavoro’. Pone in evidenza diverse caratteristiche della personalità e dell’attività di fr. R., su alcune delle quali sarà opportuno ritornare. - Curiosità scientifica: Non amava studiare sulle dispense dei suoi professori, sui ‘bigini’; preferiva i trattati ponderosi, pur essendo uno studente-lavoratore e pendolare. Quando potè permetterselo non esitava a comprare le opere in lingua originale di diversi autori. Questa sua curiosità lo spinse, lui giovane studente, anche a scrivere una lettera a Einstein, ottenendo una risposta il cui originale, purtroppo, è andato perduto, ma che egli commentò in un breve scritto dal titolo ‘Limiti della scienza e suo superamento’. - Riflessione sulla scienza e sui rapporti con la fede: Le questioni epistemologiche, il ‘riflettere su’, il pensare, e non semplicemente il fare lo accompagneranno per tutta la vita, sfociando, talvolta, in qualche garbata polemica.8 - Interesse per la letteratura e la filosofia: Con un obiettivo preciso, naturale in una congregazione religiosa dedita esclusivamente all’insegnamento: attrezzarsi sempre meglio per essere un efficace educatore, un reale maestro dei suoi studenti. - Passione per le lingue: La maturità magistrale prima e quella classica poi gli ispirarono la passione per le lingue antiche (leggeva normalmente il Nuovo Testamento in greco); la necessità di intessere rapporti e di approfondire le conoscenze del mondo attuale lo spinsero allo studio delle lingue moderne, studio che gli permise di parlare correntemente il francese, l’inglese e il tedesco. - Coraggio: Manifestatosi anche quando si trattò di superare le molteplici difficoltà d’ordine organizzativo, economico e relazionale9 imposte dalle attività del Centro; fra le quali è doveroso ricordare la Biblioteca ‘creatura esclusiva di fr. Roberto. In quel locale passava molte ore al giorno intento a leggere, studiare, catalogare in via informatica i libri che acquistava o gli venivano mandati in saggio da case editrici, soprattutto straniere…’10

7 In L’insegnamento della Matematica e delle Scienze integrate, Volume 25, luglio 2002, Sez. A, pp. 322-331. 8 Altro riferimento alla corrispondenza di fr. R. con il prof. Odifreddi, di cui ci si occuperà più avanti. 9 Il complesso di impegni lo portò talora a trascurare la ‘regolarità’ connessa con alcuni aspetti della vita religiosa comunitaria; di qui nacquero dissapori e, talora, accuse che lo ferirono profondamente. 10 Nell’articolo citato alla nota 7, il prof. Ferrari precisava: La biblioteca del Centro conta ormai più di 7000 volumi e una settantina di riviste in cambio o in abbonamento. È un patrimonio non trascurabile, una biblioteca confrontabile, penso, con quella di diversi Dipartimenti di matematica di università italiane…. È oggi possibile consultarla nel sito internet www.filippin.it/morin/biblioteca/


524

Marco Paolantonio

2. L’umanesimo delle scienze matematiche Fratel R. si era laureato in Fisica teorica, ma non appena si trovò a lavorare a contatto con i ragazzi capì subito che non poteva limitarsi all’insegnamento ex cathedra: per essere efficace doveva anche essere avvincente. Ciò presupponeva la capacità di creare con gli esperimenti in laboratorio il supporto ai principi, alle leggi e ai corollari da far apprendere. Per questo realizzò all’Istituto Filippin un laboratorio ricco di strumenti, spesso costruiti da lui. In netto anticipo sui tempi, introdusse l’insegnamento e la pratica informatica in ambito curricolare, suscitando l’interesse di moltissimi allievi.

Nascita di una seconda vocazione Non fu solo la curiosità intellettuale, dote che ebbe spiccatissima, a spingerlo poi a interessarsi di matematica in modo genialmente operativo11. Il colpo di fulmine gli venne durante le vacanze pasquali del 1968 quando, abilitato anche all’insegnamento della matematica, partecipò in Spagna al 21° convegno della Commissione Internazionale per lo Studio e il Miglioramento dell’Insegnamento della Matematica (CIEAEM). ‘Arrivato a Playa – raccontò – mi trovai come trasportato su un altro pianeta: ebbi modo di conoscere e fare amicizia con ragguardevoli figure di matematici e di didatti, quali, tra gli altri, i coniugi Papy, Brousseau, Varga, Gattegno […] e le nostre prof.sse Emma Castelnuovo e Lina Mancini’. Lo colpirono in particolare due cose: la novità dei contenuti e dei metodi didattici proposti in tante nazioni per l’insegnamento della matematica; e la scarsezza dell’apporto italiano al proposito. ‘Fui affascinato dal primo aspetto e disturbato dal secondo’, concluse. E decise di agire: a) aprendosi alla realtà e alle amicizie internazionali; b) muovendo alla scoperta della matematica e della sua didattica.

In una lettera dell’ottobre 1972, indirizzata al Visitatore provinciale fr. Vittorino Ratti, dopo aver sottolineato con amarezza il disinteresse che la Comunità del Filippin e l’intera Provincia religiosa mostravano verso l’attività del Centro, fr. R. scriveva: ‘Tutto questo l’ho affrontato con la speranza, col desiderio di essere al servizio del nostro Istituto per la causa del suo rinnovamento pedagogico didattico, per trasformare le nostre scuole e principalmente il Filippin in istituti di avanguardia per questo rinnovamento, in quanto la matematica - e chiunque ci metta il naso dentro se ne accorge subito - costituisce solo il punto di partenza che trascina ineluttabilmente con sé la riforma dell’insegnamento in tutte le altre discipline. Ed è proprio questo ruolo di motore della riforma che mi ha fatto scegliere la matematica, mentre avrei potuto tranquillamente continuare a lavorare nella fisica, dove mi ero specializzato e dove avevo realizzato delle esperienze pedagogiche discretamente riuscite. Chi, altrimenti, me l’avrebbe fatto fare a studiare disperatamente un campo di discipline che avevo pressoché abbandonato 18 anni fa e di cui possedevo soltanto le strutture tradizionali; chi mi avrebbe potuto indurre a passare notti e giorni su questioni a cui non sono direttamente interessato, in quanto non insegno matematica?’.

11


Roberto Candido Sitia, FSC (1922-2002) Scienze matematiche e umanesimo integrale

525

‘Nel giro di pochi anni – annota M. Ferrari – entreranno negli orizzonti e nelle amicizie di fr. Roberto i soci fondatori del GRP (Gruppo internazionale di pedagogia della matematica) appartenenti a differenti Paesi (Francia, Belgio, Lussemburgo, Canada, Jugoslavia) e altri matematici e didattici della matematica tedeschi, ungheresi e cecoslovacchi, parecchi dei quali collaborarono con articoli pubblicati dalla rivista del Centro Ugo Morin e/o parteciparono ai convegni internazionali organizzati a Paderno. […] Il progetto di creare un gruppo di studio e di informazione a disposizione di tutti gli insegnanti italiani per la loro formazione continua sembrava piuttosto audace – ammise poi fr. R. – viste le nostre piccole forze e la mia incontestabile ignoranza dei problemi della didattica della matematica.’ La cosa prese però corpo durante le vacanze natalizie di quello stesso 1968, quando, insieme con un gruppetto di amici, docenti universitari, insegnanti di matematica, direttori didattici e presidi, diede vita al Centro di pedagogia della Matematica, che assunse poi il nome di Centro Ricerche Didattiche Ugo Morin (v. scheda informativa in fondo a questo articolo).

Per un umanesimo integrale Attento a tutti gli aspetti riguardanti l’apprendimento, fr. R. aveva approfondito gli studi condotti dalla psicologia sperimentale scientifica e, in quell’ambito, della psicologia dell’educazione. Oltre a quello del rapporto sviluppo psicofisico-apprendimento, ricordava12, occorre dare risposta al problema della comunicazione, intimamente legato a quelli del linguaggio, che lo strutturalismo aveva affrontato in modo specifico e coerente. A fr. R. non si può certo rimproverare la supponenza che alcuni specialisti dimostrano quando si tratta della loro materia; riconosceva senza riserve mentali che indirizzi diversi dai suoi offrissero interessi culturali e professionali altrettanto validi, senza perciò stesso entrare in collisione. Lamentava però ‘la tenace opinione che divide le materie in umanistiche e scientifiche, quasi che queste ultime nulla avessero di umano, e quindi di educativo, continua a persistere.’ E proseguiva: ‘Sono convinto che lo studio della storia e della pedagogia della matematica rivelerebbero la ricchezza umana di questa disciplina ed il suo incredibile potenziale educativo, finora, purtroppo, mai o malamente usato nelle scuole e nelle università.’13

In questo capitoletto si fa ricorso abituale al ‘quaderno’ di fr. R.: La sorgente culturale della riforma moderna dell’insegnamento della matematica, Quaderni Didattici, nr. 3.B, Paderno del Grappa, gennaio 1980, 51-74. 13 Anche in questo ben lontano dal riduzionismo assiomatico del prof. Odifreddi il quale aveva stabilito che ‘la vera religione è la matematica, e il resto è superstizione’ . Con lui, come vedremo, fr. R. ebbe un vivace, nutrito scambio di opinioni proprio sui rapporti tra scienze matematiche e religione. 12


526

Marco Paolantonio

Sono queste le premesse e le linee-guida del lavoro teorico-pratico poi svolto dal Centro, che si rifà, come si è accennato, allo strutturalismo14. ‘È necessario che il programma di ogni disciplina, e, a maggior ragione della matematica, sia finalizzato alla comprensione la più approfondita possibile dei concettichiave che costituiscono la struttura della disciplina stessa. L’insegnamento di abilità specifiche (ad es. il saper scrivere e far di conto tradizionale) disgiunto dalle chiarificazioni del loro contesto nella più vasta struttura fondamentale di un campo di conoscenza è il blocco di partenza per procedere a conoscenze superiori. […] ‘L’insegnante deve pensare ed operare sulla base dell’ipotesi che la mente sia un complesso di capacità – capacità di osservazione, attenzione, memoria, ragionamento, ecc – e che ogni miglioramento di una qualsiasi capacità significa il miglioramento di tutte le capacità, in generale di tutto lo sviluppo; insomma l’influenza dell’apprendimento non è mai specifica. La cosiddetta ‘nuova matematica’, erroneamente presentata spesso come ‘insiemistica’, insegnata nelle scuole condivide con Bourbaki il desiderio di sostituire idee al posto dei calcoli, sostenuta oltre tutto dal fatto che le strutture matematiche si sono rivelate isomorfe a molte strutture psicologiche e dall’altro fatto che consiste nella sempre più estesa utilizzazione dei calcolatori e degli ordinatori. […] Nell’apprendere una qualsiasi operazione particolare, l’alunno acquista la capacità di costituire una certa struttura, indipendentemente dai differenti elementi che costituiscono tale struttura. […] Sulla base delle conoscenze del passato è possibile prevedere, almeno nelle linee generali, che cosa ci riserva il futuro. […] Dobbiamo guardare verso un nuovo ‘Umanesimo’, in cui la persona umana ha sviluppato al massimo tutte le sue possibilità e si presenti con tutta la flessibilità adeguata ad affrontare i rapidi cambiamenti che il futuro preannuncia. In questo complesso sviluppo integrale della persona umana la matematica ha oggi una posizione estremamente importante, non solo per la possibilità di applicazioni ramificate e sempre più importanti che essa offre, ma anche per l’importanza che essa ha assunto nello sviluppo del pensiero umano, nella ricerca delle strutture di fondo, dell’onestà intellettuale che esige, nella razionalità che impegna e nel fascino delle forme che ci disvela nelle sue strutture.’ Parafrasando Bertrand Russel, ribadiva: ‘La matematica è una disciplina che, anche a partire dall’aspetto più semplice, può essere sviluppata in due direzioni opposte. La direzione più familiare è quella costruttiva che si sviluppa con una complessità gradualmente crescente; dai numeri interi alle frazioni, ai numeri reali, ai numeri complessi; dall’addizione e dalla moltiplicazione alla differenziazione ed alla integrazione, fino alla matematica superiore. L’altra direzione, che è meno comune, procede, per analisi, ad una nascente astrazione e semplicità logica; invece di ricer-

Con particolare riguardo per quello del gruppo di matematici francesi che pubblicarono le loro opere sotto lo pseudonimo Nicolas Bourbaki. 14


Roberto Candido Sitia, FSC (1922-2002) Scienze matematiche e umanesimo integrale

527

care quel che può essere definito e dedotto dalle asserzioni iniziali, cerca i concetti ed i princìpi più generali, nei cui termini quello che era il punto di partenza può essere definito o dedotto. È proprio il fatto di percorrere questa opposta direzione che distingue la filosofia matematica dalla matematica ordinaria.’ Tutte le sue numerose pubblicazioni si attengono con naturale coerenza a questi indirizzi.15

3. Scienze matematiche e fede Una vivace corrispondenza In una delle lettere alla redazione del giornale Avvenire del 17 dicembre 2000 fr. R. aveva scritto: ‘No. Non ci sto!... Spesso, troppo spesso, la definizione di cattolico diventa dispregiativa, usata per coloro che sono oscurantisti, retrogradi, pessimisti, lenti a capire il progresso, ostacolatori della scienza, coloro che sono pieni di tabù, di complessi, di proibizioni, ecc. ecc. Ma chi autorizza certi, troppi, intellettuali e non, a definirci così?... Avrò pure la libertà di andare in chiesa, la mia Chiesa, di studiare e imparare la storia del mio fondatore e del mio creatore, avrò pure la libertà di ispirarmi ad esperti testimoni, fino ad ora non smentiti, che duemila anni fa hanno visto e creduto nelle Croce. O no?... No, non ci sto ad essere di serie B. Il mio Maestro è sulla Croce, quindi è ancora più in alto. E ciò mi esalta. Mi fa gioire, e cerco di imitarlo. Con la Croce e sulla Croce.’ È l’incipit del Quaderno che fr. R. si proponeva di pubblicare16. Vi aveva raccolto le lettere che si erano scambiate, in privato e in pubblico, lui e il prof. Odifreddi. Oltre allo scopo apologetico, fr. R. si proponeva di chiarire il rapporto tra scienza e fede e di opporsi in modo argomentato al riduzionismo materialista che mira alla dissoluzione dei valori di altri mondi, come quello etico-religioso. Alle considerazioni personali aveva aggiunto quelle di docenti universitari con cui era in costante rapporto professionale. Il confronto dialettico era nato in seguito a una recensione di fr. R., pubblicata sul Bollettino Bibliografico del Centro17, riguardante un libro dell’Odifreddi, Il Vange-

In particolare su Rivista lasalliana, fr. R. ha pubblicato: Educazione e insegnamento della matematica (1969, 3, 194-218); Ruolo dell’insegnamento della matematica e dell’insegnante (1978, 3-4, 204217); Formazione giovanile alla statistica (1979, 4, 323-334); L’insegnamento della matematica, (1981, 3, 220-230); Insegnamento della matematica: istruzione o educazione? (1982, 3, 195-218). L’intera bibliografia, compilata dall’a. stesso nel 1997, elenca 90 scritti pubblicati su Quaderni del Centro Ugo Morin, riviste specializzate, Atti di convegni e congressi. 16 Si trova nell’Archivio FSC di Torino, faldone 556. L’archivista vi ha annotato: da fr. Roberto Sitia, 3 febbraio 2001. 17 Bollettino Bibliografico n. 34 15


528

Marco Paolantonio

lo secondo la Scienza. Le religioni alla prova del nove18. Il recensore aveva fatto notare che il titolo più appropriato avrebbe dovuto essere Le religioni secondo Odifreddi, perché l’a. condannava gli errori commessi nel passato da esponenti religiosi, e in particolare da quelli della Chiesa cattolica, con un criterio antistorico – giudicando cioè i fatti e comportamenti con la mentalità d’oggi –, ignorando inoltre che il Papa (Giovanni Paolo II) stava operando al riguardo un esame di coscienza pubblico e lacerante. Esaminata poi l’affermazione finale dell’Odifreddi; ‘…che sarebbe problematico nel mondo moderno occidentale anche solo come provvisoria ipotesi assurda19 la credenza della religione cattolica’, fr.R. concludeva: ‘ L’autore è, lo ripetiamo, un brillante matematico, ma sarebbe stato opportuno (è solo un consiglio, per carità) che le sue opinioni, prima di pubblicarle, avesse cercato di approfondirle con i problemi connessi, senza pretendere di scrivere ‘in nome della scienza’, pontificando in campi a cui con evidenza è del tutto estraneo.’ Il prof. Odifreddi, che aveva avuto notizia della recensione di fr. R. da un’amica, gli rispose con una lettera personale, precisando che il titolo da lui posto, modificato dalla redazione, in origine era Dalla Galilea al Galileo; il vocabolo vangelo era stato usato nel suo valore etimologico di ‘buona novella’, ‘e il fatto che fosse stato usato da qualcuno per annunciare la propria, non significa che non possa essere usata da altri per fare altrettanto.’ Commentando il giudizio di ‘brillante matematico’ che fr. R. gli aveva attribuito, si chiedeva: ‘da dove deriva la sua opinione sulle mie qualità matematiche, se poi ritiene che io sia soltanto in grado di ripetere banalmente critiche vecchie di secoli?’. Dopo aver citato le proprie analisi sulle prove dell’esistenza di Dio20, contestava un’affermazione di fr. R. (vedi nota 21) chiedendogli: ‘Ha mai sentito parlare di una dimostrazione per assurdo (!), in cui una falsità viene assunta come ipotesi appunto per refutarla, deducendo da essa una contraddizione?; e commentava sarcastico: ‘non ha forse esordito dicendo, oltre che religioso e cristiano, anche fisico e matematico?’ Infine, a proposito del cattolicesimo, ribadiva che non si può essere cattolici senza credere a dogmi; che il comandamento ‘non avrai altro dio all’infuori di me’ è contraddetto dalla quantità di pitture e di sculture che si trovano in ogni chiesa; che Einstein21 aveva recisamente escluso di credere in un dio personale. Concludeva:‘Non è colpa mia se questa particolare

Einaudi, Torino 1999, pp. 222 Chiosava fr. R.: Com’è possibile assumere, anche solo provvisoriamente, un’ipotesi ’assurda’, ossia contraddittoria? Non andiamo decisamente contro i sacri canoni del rigore logico matematico? 20 ‘Quali precedenti storici lei ha in mente riguardo alle mie analisi della prova cosmologica in termini del teorema del Curry, o della scommessa di Pascal in termini di teoria dei giochi, o della prova ontologica di Gödel in termini di una logica senza l’uso delle modalità, o della prova ontologica di Anselmo in termini di lemma di Zorn...?’ 21 A proposito del quale e dello Schrödinger fr. R. aveva detto ‘non condividerebbero le opinioni del Nostro!’. 18 19


Roberto Candido Sitia, FSC (1922-2002) Scienze matematiche e umanesimo integrale

529

fede [il cattolicesimo] è incompatibile con la ragione, al punto che l’unico modo di fingere una loro compatibilità è dimenticare l’intera storia del pensiero moderno, da Cartesio a Wittgenstein…’. Fr. R. rispose, facendo notare innanzitutto che attribuire al termine vangelo un’accezione tanto vasta quanto vaga significava dimenticare che solo nel cristianesimo ha un significato preciso e univoco. ‘A proposito di Einstein22 e di Schrödinger, aggiungeva poi, va notato che nessuno dei due si è mai sognato di decostruire le religioni come Odifreddi ha tentato di fare.’ Affrontando il nucleo centrale della questione, obiettava: ‘Tutte le sue osservazioni, le sue analisi, le sue critiche e i suoi teoremi matematico-teologici non mi hanno impressionato né mi hanno messo in crisi. Anni fa in un congresso dell’ICMI mi trovai a pranzo con Dieudonné, Papy 23 e Kolmogorof. Mai nella mia vita ho vissuto momenti di così intensa commozione, discutendo, per tutto il pranzo, di Dio. La conclusione cui arrivammo era che ciascuno di noi rifiutava tanti aspetti antropomorfi di cui avevano rivestito l’idea di Dio, ma che la Sua esistenza non era da mettere in discussione.’ 24 E aggiungeva: ‘Lei ha fatto un’analisi abbastanza estesa e oggettiva del fatto che ciò che sappiamo dell’universo e ciò che vediamo della Terra ed ha condotto tutta la sua analisi con paradigmi (attuali!) del matematico e dello scienziato. Ma nascita, vita, morte, amore, sofferenza, immanenza e trascendenza si ribellano a questi paradigmi.’

La necessaria distinzione epistemica La corrispondenza con il prof. Odifreddi continuò, con toni più temperati25, sia pure senza cedimenti o concessioni. Fr. R. si riprometteva di incontrarlo a Torino per un

Col quale, di passaggio, ricorda di aver avuto, quand’era universitario, una breve corrispondenza sul concetto di verità, come espresso dalla Scuola di Vienna. 23 Col celebre matematico fr. R. ebbe una costante corrispondenza. In una lettera (7.9.1998) il Papy gli scriveva, a proposito della traduzione di un suo articolo pubblicato nei ‘quaderni’:’J’ai lu le texte italien avec une grande émotion. Il me semble bien meilleur que l’original et plus fidèle à la pensée de son auteur.’ 24 E proseguiva: ‘Non ho quindi paraocchi di nessun genere, né religiosi né tanto meno scientifici o filosofici. E non ho problemi nel conciliare l’essere ‘religioso e cristiano’ con l’essere ‘fisico e matematico’ né addosso al prof. Odifreddi la colpa di avermene creati, citandomi i teoremi di Curry, di Gödel, i modelli non standard e le varie teorie cosmogoniche che cozzano tra loro alla ricerca di un’improbabile e del tutto teorica verità.’ 25 Anche fr. R. non usò sempre il fioretto. Nella replica al primo intervento dell’Odifreddi, aveva scritto: ‘Quello che più mi ha colpito nel suo volume, non è quindi tutto l’insieme di argomentazioni e di fatti riportati (volumi come il suo ne sono stati scritti a iosa nei secoli), ma è la sua mancanza (vorrei dire: totale) di introspezione, di insight del fatto religioso in genere e del cristianesimo in particolare. Lei ha buttato in un gran pentolone tutto quanto senza distinzioni rimestando, col mestolo della sua logica, cristianesimo, buddismo, tantra, confucianesimo, islam,…per schiumare, alla fine, la dimostrazione (per assurdo) che l’unica religione non accettabile, oggi, è il cristianesimo, nella sua forma soprattutto di cattolicesimo.’ 22


530

Marco Paolantonio

colloquio, ma l’occasione non gli si presentò. Ritenne però provvidenziale la possibilità di approfondire il tema dei rapporti tra fede e scienza, accogliendo gli apporti di eminenti colleghi del mondo scientifico. Francesco Lerda gli fornì una lettura critica del Vangelo secondo Odifreddi26; Guido Zappa27 un paio di acute osservazioni; il Ferrari28, annotò tra l’altro: ‘Dopo aver riportato alcune opinioni di rispettabilissimi scienziati che riducono tutto l’universo e la scienza ad una equazione differenziale,[l’Odifreddi] conclude in modo apodittico: ‘La vera religione è la matematica, il resto è superstizione’29. La teoria del sillogismo che l’a. dovrebbe conoscere bene, ci insegna che la conclusione segue sempre la parte peggiore. Da opinioni, quindi, si può trarre al massimo un’opinione. L’affermazione categorica di Odifreddi è una tipica manifestazione della ‘superbia intellettuale’ dei matematici (vivo anch’io nell’ambiente accademico matematico): ciò che non è matematico è disprezzabile. Mi piacerebbe chiedere, a questo punto, l’opinione non dico di uno storico, di un filosofo o di un poeta, ma di un biologo o di un geologo. Il dubbio, però, non sfiora ovviamente Odifreddi. Anzi rincara la dose affermando che ‘la religione è la matematica dei poveri di spirito’, cioè dei fessi (secondo Odifreddi). Mi viene il dubbio, a questo punto, che la religione non sia una superstizione perché è pur sempre matematica. Non sarà matematica di una persona sublime, come si ritiene Odifreddi, ma è pur sempre matematica. Non c’è nell’affermazione del nostro autore qualche contraddizione?’ Ricordando la fede illuminata di Ennio De Giorgi30, altro illustre matematico con cui era stato in frequente contatto, fr. R. citava quanto aveva detto E. Visentini, matematico pure lui ma non credente: ‘Per Ennio il quadro di coerenze matematiche era soltanto una piccola porzione di un mosaico assai più ampio di certezze, che abbracciavano tutti gli aspetti della vita dell’uomo, dominato dalla fiducia incrollabile nella ragione umana e della convinzione che la buona fede e, appunto, la ragione avrebbero avuto la meglio, se l’opera di convinzione fosse stata portata avanti con umiltà, con pazienza, e soprattutto con tenacia. Queste certezze si componevano e trovavano la loro giustificazione, ad un livello più alto, nella fede cattolica, che Ennio sentiva profondamente e praticava senza esibizionismi, senza infingimenti o atteggiamento da crociato, ma dando l’impressione di ricercare e ritrovare il candore con cui alla religione si era accostato da fanciullo.’ Dagli appunti del Quaderno rimasto inedito vale la pena di trascrivere un’ultima citazione che chiarisce le ragioni di una necessaria separazione di metodo: ‘La

26 F. Lerda (ordinario di Teoria delle Macchine Calcolatrici al Politecnico di Torino): recensione del volume Il vangelo secondo la scienza, su “Nuova civiltà delle macchine”, 1/200, 111-115. 27 G. Zappa, ordinario del Dipartimento di Matematica dell’Università di Firenze. 28 Associato del Dipartimento di Matematica dell’Università di Pavia. 29 Il Vangelo secondo la scienza, p. 211. 30 Dal 1976 al 1996 ordinario di Matematica alla Normale di Pisa.


Roberto Candido Sitia, FSC (1922-2002) Scienze matematiche e umanesimo integrale

531

scienza nel suo studio dell’universo registra fatti e dà un’interpretazione del reale. Davanti a questi risultati la teologia non può far altro che prenderli seriamente in considerazione, cosciente che anche questi dati contribuiscono a meglio comprendere non solo la struttura dell’universo, ma anche la realtà fisica attraverso la quale la rivelazione si è manifestata. Per l’uomo di fede Dio esiste indipendentemente dal modello cosmologico applicato, perché la sua esistenza non necessita di nessuna dimostrazione matematica. La presenza del Dio creatore resterà compatibile con qualsiasi teoria cosmologica perché: ‘Dio è creatore oggi come nel momento dei Big Bang.’ (John Polkinghorne).

4. Il Centro di ricerche didattiche ‘Ugo Morin’ Come si è accennato, fr. R. diede inizio nel dicembre del 1968 31 al Centro di Pedagogia della Matematica, chiamato in seguito Centro Ricerche Didattiche Ugo Morin32. All’inizio del 1970 prese vita la rivista L’insegnamento della matematica 33. L’editoriale del primo numero enunciava principi ispiratori e scopi della pubblicazione: - un servizio, sia pur consapevolmente umile, alla scuola italiana; - una testimonianza intesa a rinnovare la scuola per offrire ai giovani mezzi più efficaci per affrontare la vita d’oggi; - la libertà: una rivista senza idee preconcette, senza esclusivismi, aperta a tutti coloro che vogliono proporre/condividere esperienze e ricerche, confrontarsi, dibattere temi di metodologia e di didattica. Gli inizi furono difficili, sia per la scarsità di abbonati sia per una certa irregolarità nella stampa e nell’invio dei numeri. Nel giro di pochi anni la situazione migliorò al punto che fu possibile la diversificazione in due serie: la rossa, destinata a raccogliere contributi culturali, e la verde, a carattere specificamente didattico. Nel 1978 il titolo mutò in L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate, iniziò da capo la numerazione dei volumi, si arricchì il contenuto, divenne regolare la stampa e la distribuzione dei sei numeri annuali. L’ultimo cambiamento risale al 1986

31 Su Rivista lasalliana fr. R. pubblicò, sotto il titolo di Educazione e insegnamento della matematica (1969, 3, 194-218) un’ampia relazione sulla ‘due-giorni’ del convegno, che pose le basi del Centro, già 25 docenti facevano parte del gruppo e il maggior numero di essi costituì il primo nucleo di Soci. 32 Il prof. U. Morin, docente di Geometria all’Università di Padova in quegli anni si era prodigato moltissimo per l’aggiornamento degli insegnanti di matematica. In Studi in onore di Ugo Morin nel centenario della nascita, fr. R. precisò: Non ho avuto la fortuna di conoscere il prof. Morin. La decisione di dedicare proprio alla sua memoria questo Centro venne dal fatto della sua recente scomparsa e dalla presenza tra i fondatori di numerosi allievi ed estimatori del professore.’ 33 I primi due numeri uscirono ciclostilati, il terzo (ottobre-dicembre 1970) ebbe una decorosa veste tipografica.


532

Marco Paolantonio

quando, nell’imminenza dei nuovi Programmi ministeriali per la scuola elementare, si decise di raddoppiare la rivista: sezione A, destinata ai maestri della scuola primaria (e poco dopo anche agli insegnanti della scuola media inferiore) e sezione B, per insegnanti delle secondarie superiori. Alla rivista si affiancarono ben presto altre attività editoriali, denominate ‘collane’: nel 1978 ‘Quaderni didattici’, nel 1989 ‘Formazione professionale’, nel 1990 ‘Quaderni di lavoro’, nel 1991 ‘Aggiornamento didattico-professionale’, nel 1998 ‘Quaderni di ricerca’. Inoltre nel 1998 è stato riformulato e approvato lo Statuto dell’Associazione ‘Centro Ricerche Didattiche Ugo Morin’ con le modifiche approvate dall’Assemblea dei soci. ‘Il Seminario nazionale tenuto annualmente, la rivista e le altre attività editoriali hanno fatto conoscere il Centro Morin in tutti gli ambienti scolastici italiani, in tutta la comunità dei ricercatori in didattica della matematica ed in molti ambienti didattici internazionali. Non è esagerato affermate che quella del Centro Morin è la più quotata rivista italiana di ricerca in didattica della matematica.34 I Corsi domenicali di aggiornamento in matematica, organizzati fin dai primi anni di attività del Centro, fanno ormai parte integrante della sua storia. Impegnano una volta al mese oltre un centinaio di operatori scolastici. L’informazione bibliografica, che fr. R. ritenne sempre della massima importanza, assicurata per decenni dal Bollettino bibliografico cartaceo, è oggi consultabile sul sito internet che è anche testimonianza della vitalità attuale del Centro: consultando la voce Centro ricerche didattiche ‘Ugo Morin’ si accede ad almeno 180 link, parte dei quali offrono materiale scaricabile di sicura utilità35. ‘Naturalmente Roberto non ha fatto tutto da solo36. È stato coadiuvato da molti docenti universitari italiani e stranieri, da molti insegnanti di scuola secondaria e primaria. Pur nella diversità di preparazione culturale, di interessi scientifici, di convinzioni religiose, una caratteristica accomunava tutti: la gratuità, il volontariato. Era l’esempio di Roberto e noi l’abbiamo seguito volentieri. Un esempio di non poco valore in tempi come i nostri. Per sviluppare tutta questa attività è necessario il coraggio, serve la collaborazione di molte persone, ma occorrono anche, prosaicamente, i soldi. Soldi per tenere continuamente aggiornata la biblioteca, per comprare la strumentazione informatica (hardware e software), per pagare le spese vive (fax, telefono, internet). Donde traeva (e trae) il Centro i finanziamenti necessari? Uno dei principali finanziatori è stato l’Istituto Filippin, il quale ha sempre ospitato gratuitamente il Centro nei suoi

M. Ferrari nel già citato ricordo di fr. R. in L’insegnamento della Matematica e delle Scienze integrate. 35 V. www.filippin.it/morin/ - informazioni - rivista - biblioteca - Bollettino Bibliografico - Seminari. 36 Sono ulteriori informazioni fornite dal prof. Ferrari. 34


Roberto Candido Sitia, FSC (1922-2002) Scienze matematiche e umanesimo integrale

533

locali con ciò che ne consegue (luce, riscaldamento). Per parecchi anni ha pagato le spese telefoniche e postali e, all’inizio, almeno parzialmente, credo anche le spese della rivista37. Di questo Roberto è sempre stato grato: senza l’Istituto Filippin il Centro non sarebbe sopravvissuto e men che meno sviluppato. Questo non gli impediva di sentire una specie di solitudine, di avvertire che la sua opera non era valorizzata come doveva soprattutto in relazione alla scuola, di provare la sensazione di essere quasi un corpo estraneo.38 Un altro finanziatore, fin che non ha cambiato completamente politica verso le riviste sospendendo ogni finanziamento, è stato il Consiglio Nazionale delle Ricerche. Quella del Centro era una delle riviste maggiormente finanziate, anche confrontandola con prestigiose riviste nazionali di matematica. Segno evidente della stima che essa godeva presso questo primario organo di ricerca. E poi i Soci. Le loro quote permettono, da una quindicina d’anni, di pagare completamente le spese vive della rivista: impaginazione, stampa, rilegatura, spedizione. E non si può dimenticare il lavoro umile, costante, indispensabile, gratuito prestato dai soci nella segreteria, nella biblioteca, nella stampa delle etichette, nelle spedizioni, nella organizzazione dei Seminari, dei corsi di aggiornamento, ecc. Roberto, posso dirlo tranquillamente, era commosso per tanto impegno e sinceramente riconoscente.’

5. Ologramma conclusivo La parte finale dell’affettuosa commemorazione si presta alla riflessione sulle ragioni che stanno alle radici dei comportamenti e delle realizzazioni di fr. R.‘ Forse viene spontaneo domandarsi: perché Roberto ha fatto tutto questo pur continuando nelle sue normali attività di insegnante e, per un certo periodo, anche di preside del liceo scientifico? Io penso che la risposta sia da cercare, oltre che nella sua vocazione di Fratello delle Scuole cristiane, anche nella sua fede profonda, seria, discreta che non aveva molte manifestazioni esteriori, ma che trapelava nelle sue conversazioni, nei rapporti con le persone più diverse. Proprio questa fede era anche sorgente del suo servizio disinteressato, della sua generosità talvolta eccessiva, della sua umanità, della sua capacità di amicizia. Roberto ricercava amicizie profonde alle quali era costantemente fedele in modo commovente.’

37 La corrispondenza di fr. R. con i suoi superiori religiosi rivela, nei primi anni di attività del Centro, situazioni di gravi difficoltà al riguardo. 38 Anche a questo proposito sono numerosi i motivi di sconforto confidati per lettera soprattutto a fr. Vittorino Ratti, già suo direttore al Filippin e in quel periodo Superiore provinciale. In momenti di particolare scoramento fr. R. gli confidò di essere tentato di accettare l’incarico d’insegnamento che gli era stato offerto anche dalle università di Pisa, di Brescia, di Bruxelles e da altre istituzioni.


534

Marco Paolantonio

Al commosso ricordo dell’amico e collaboratore può sembrare bizzarro accostare quello, giovanilmente sbarazzino, con qualche pennellata di impertinente goliardia, di un ex-allievo del Filippin. Ma la cifra, come si vedrà è fondamentalmente la stessa: stima venata d’affetto, passata al vaglio della feriale quotidianità dei rapporti. ‘…In quegli anni riuscii anche a guadagnare la fiducia di un personaggio molto particolare, cioè del professor Candido Sitia, alias fratel Roberto. Era un matematico di tutto rispetto; circolava la voce che avesse avuto un intenso scambio epistolare con Einstein circa il calcolo di alcuni integrali attinenti alle ricerche sulla relatività. A quei tempi non esistevano i computer e tutti quei complicatissimi calcoli li facevano i cervelli dei matematici. Da noi insegnava fisica ed era il responsabile, con il suo assistente – che tutti chiamavano ovviamente Frankenstein, dal momento che di nome faceva Franco ed era piuttosto brutto e un po’ gobbo –, delle due aulelaboratorio dell’Istituto. Fratel Roberto era uno scienziato con tutte le caratteristiche della categoria; viveva sempre un po’ tra le nuvole, camminava senza guardare dove metteva i piedi e aveva continuamente un sorrisino cortese che, in realtà, celava un totale disinteresse per quello che gli stava intorno. Se qualcuno gli chiedeva qualcosa che lui riteneva banale, ci pensava un po’ su e poi ti rispondeva in latino o con una battuta tagliente stile ‘british’, facendoti sentire un idiota. Ma sempre con quel sorrisetto. A me piaceva da matti. In quelle aule di fisica ricevetti le prime nozioni scientifiche di informatica, vidi per la prima volta un computer e la televisione a colori, ma soprattutto mi accorsi di quanto l’immaginazione potesse essere importante. Misurammo gli attriti, l’energia inerziale, la gravità e un sacco di altre cose; fratel Roberto cominciò a tenermi d’occhio e io me ne accorsi. Un giorno riuscii a sbalordirlo39 e da quel momento fu amore, mai dichiarato ma cieco.40’ Logico e conveniente, come si è fatto all’inizio, lasciare le parole finali a fr. R. . Sono quelle della sua Preghiera-testamento. Offrono un ulteriore, importante tassello per la ricomposizione di un profilo che, inevitabilmente, risulta qui solo abbozzato. Signore, al termine del mio lungo pellegrinare dentro il cuore dell’uomo alla ricerca della sapienza che viene dall’alto, rimetto nelle tue mani i talenti che mi hai affidato perché li facessi fruttificare: la passione per il sapere, il fervore della mente, la vocazione religiosa vissuta come sanità di sale

Risolvendo ‘uno dei problemi di matematica che si divertiva a darci da fare a tempo perso per verificare se dentro le nostre ‘zucche’ci fosse ‘qualcosa o solo vuoto.’ 40 Marco Boglione e Adriano Moraglio, Piano piano che ho fretta. Imprenditore è bello!, Basic Edizioni, Torino 2009, pp. 57-58. M. Boglione, diplomatosi al Filippin nel 1974 (con un 58/60 …’merito di fr. R.’) è un affermato industriale nel settore dell’abbigliamento sportivo e casual. 39


Roberto Candido Sitia, FSC (1922-2002) Scienze matematiche e umanesimo integrale

che non lascia corrompere la carne, come fiaccola sotto il moggio. Ho coltivato la fede senza contraddire alla ragione ritenendo questa come la più nobile facoltà concessa all’uomo, e interpretando quella come il dono sommo per elevarmi a te. Ho avversato la confusione delle idee e dei sentimenti, ritenendola la negazione di ogni evangelizzazione delle menti. Ho sviluppato per linee sobrie il carisma del La Salle, come lui me l’ha trasmesso. Ho diffuso la tua Parola così com’è: chiara, limpida, illuminante perché non ha bisogno di essere rischiarata per essere compresa, ma solo di essere vissuta in semplicità. Mi sono prodigato anche tra gli ex-alunni che ho accompagnato per lunghi anni, con l’affetto che convince e non impone, cercando di guidare tutti alla salvezza rendendo le mie parole chiare e intelligibili. Tu che scruti il mio cuore nei suoi abissi di bene e nel suo vortice di debolezze e per questo mi ami e mi perdoni, accogli la mia vita giunta finalmente al di là di tutto in Cristo, e concedi che si espanda in benedizione sui miei Confratelli e sull’intera comunità educativa del Filippin; sulle persone che si sono profuse in cure e in simpatia per alleviare il mio soffrire. Effondi le tue benedizioni su mio fratello Luigi Che ha onorato grandemente l’amicizia che va oltre il sangue, sulla sorella Assunta e sui parenti tutti che hanno contraccambiato tutto il bene che ho voluto loro. Affido tutti alla premura della Vergine Maria Perché faccia sentire loro la tenerezza infinita del Padre E prepari anche per loro un posto sotto il suo sguardo materno. Amen

535


La rivista del Centro Ricerche Didattiche “Ugo Morin”

L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate 1 – Il Centro Ricerche Didattiche “Ugo Morin” è stato fondato da Fratel Roberto Sitia degli Istituti Filippin, insieme ad altri insegnanti, alla fine del 1968. Il nome iniziale era “Gruppo di pedagogia della matematica”. Già all’inizio del 1970 il nome diventa “Gruppo di pedagogia della matematica Ugo Morin” come si legge nella copertina del primo numero della rivista “L’insegnamento della matematica - Organo interno del Gruppo di pedagogia della matematica Ugo Morin”. Con il 1975 il Gruppo assume l’attuale nome di “Centro Ricerche Didattiche Ugo Morin” come si legge nella copertina del numero di gennaio-marzo 1975 della stessa rivista. 2 – La rivista L’INSEGNAMENTO DELLA MATEMATICA nasce nei primi mesi del 1970. Nell’Editoriale del numero 1, ciclostilato come il secondo, la Redazione fissa le parole chiave: Servizio: servizio che il Consiglio di Presidenza rende ai Soci e servizio che i Soci si rendono reciprocamente; Testimonianza: della “nostra” presenza nel mondo della scuola in un momento tanto critico e importante qual è quello che stiamo attraversando; Libertà: di intervento per tutti i Soci, senza idee preconcette e senza pretese di esclusivismi di ogni genere. A queste parole chiave la rivista è rimasta fedele anche quando, con il terzo numero, iniziò ad essere stampata e, sia pure con qualche incertezza, ad uscire con una certa regolarità. 3 – A partire dal 1978 la rivista del Centro Morin assume l’attuale nome: L’INSEGNAMENTO DELLA MATEMATICA E DELLE SCIENZE INTEGRATE a periodicità bimestrale. I destinatari sono sempre i docenti di matematica senza distinzione di livello scolastico. Nel 1985 escono i nuovi programmi per la scuola elementare e la rivista si scinde in due sezioni: sezione A per docenti della scuola elementare (poi sarà inviata anche ai docenti della scuola dell’obbligo) e sezione B per i docenti della scuola secondaria (poi diventerà per docenti della secondaria di secondo grado). Naturalmente anche i numeri raddoppiano: sei per ogni sezione. Cambiamenti minori sono la pubblicazione, come numero a se stante, del Bollettino Bibliografico e l’edizione degli Atti dell’annuale Seminario Nazionale come numero doppio della rivista mandato indistintamente a tutti i Soci.


4 – La situazione attuale (2011). La crisi economica generale si è fatta sentire anche nelle riviste di didattica matematica. Nel 2009 ha cessato le pubblicazioni la rivista “La matematica e la sua didattica” e nel 2010 la rivista (editrice la Scuola) “Didattica delle scienze e informatica nella scuola”. La rivista del Centro Morin ha soppresso, nel 2010, l’edizione cartacea del Bollettino Bibliografico, pubblicato però sul sito del Centro, e nel 2011, ha deciso, adeguandosi agli standard esteri delle riviste di didattica, di non pubblicare nei mesi di luglio e agosto. Nel 2011, quindi, la situazione è la seguente:

Sezione A: vengono pubblicati i numeri di gennaio, marzo e settembre. Sezione B: vengono pubblicati i numeri nei mesi di febbraio, aprile e ottobre. Numero di maggio – giugno: è un numero doppio contenente gli Atti del Convegno in ricordo di Giorgio Tomaso Bagni tenuto a Treviso il primo di ottobre 2010. Viene inviato a tutti i Soci. Numero di novembre – dicembre: è un numero doppio contenente gli Atti del Seminario Nazionale del Centro, che si celebra in agosto. Viene inviato a tutti i Soci. Ogni Socio della sezione A riceve, quindi, 5 numeri di cui 2 doppi. Lo stesso vale per i Soci della Sezione B. I Soci che sono abbonati ad ambedue le Sezioni riceve 8 numeri di cui 2 doppi. Le quote associative, ferme dal 2004, sono di 23 euro per ciascuna sezione (27 euro per le Istituzioni) e di 40 euro (46 euro per le Istituzioni) per le due sezioni insieme. 5 – Informazioni pratiche. Il Centro Morin ha sede presso Istituti Paritari Filippin di Paderno del Grappa (Treviso), che forniscono, gratuitamente, la sede del Centro e della Biblioteca, la luce ed il riscaldamento. Il Centro è retto da un Consiglio di Presidenza eletto dai Soci ogni 5 anni. Anche la rivista del Centro ha sede presso gli Istituti Filippin. Ha un Direttore responsabile, un Comitato di redazione ed una Commissione scientifica. L’indirizzo email del Centro e della rivista è: segreteria@centromorin.it ma anche crdm@filippin.it. Telefono e fax: 0423.930549. Il sito web del Centro è : www.filippin.it/morin. Alla voce “Rivista” sono consultabili e scaricabili (utilizzando una password che viene pubblicata sulla rivista) tutti gli articoli pubblicati dal 1978 al 2009. Alla voce “Biblioteca” si possono vedere i libri (circa 8 000) presenti nella biblioteca del Centro e l’elenco delle riviste con specificazione degli anni e dei numeri posseduti. Il Centro, da oltre trent’anni, organizza nella sede degli Istituti un Corso domenicale di aggiornamento per insegnanti della scuola dell’obbligo (aggiornarsi sul sito del Centro), mentre diversi suoi membri sono impegnati in analoghe attività presso varie scuole e università. Altre attività editoriali del Centro (Quaderni didattici, Quaderni di formazione professionale, Quaderni di ricerca) sono reperibili nel sito del Centro. (mf)



RivLas 78 (2011) 3, 539-557

The Challenge of the Lasallian Catechist in the late 20th Century United States: One Lasallian Journey JEFFREY GROS*

W

e have been richly blessed in the catechetical ministry of the Church and the Lasallian tradition since the time of John Baptist de La Salle. American Lasallians especially pass on a noble heritage of handing on the faith inspired by the vision, creativity and professionalism of Brothers John Joseph McMahon (†1942 ) and Alphonsus Pluth (†1986). I feel privileged to have had the opportunity to study with Alphonsus, to have read the works left behind by John Joseph in the Midwest District (then St. Louis) and to listen to skilled practitioners who embody in our vocation the gift of the Lasallian heritage to the Church for half a century. Alphonsus founded St. Mary’s Press in 19431 and John Joseph founded The La Salle Catechist in 1934. For those of us who joined the Institute in the 1950s and began teaching in the 1960s, these were our regular nourishment, and preparation for the Council. The U.S. Brothers replaced the question and answer catechisms

* Brother Jeffrey Gros, FSC, is currently Distinguished Professor of Ecumenical and Historical Theology at Memphis Theological Seminary, and recently finished a year as Kenan Osborne visiting professor at Franciscan School, Graduate Theological Union, Berkeley, California. He is president of the Society for Pentecostal Studies. He has taught secondary school biology for seven years, served ten years as Director of Faith and Order for the National Council of Churches in the USA, and then 14 years as Associate Director of the Secretariat for Ecumenical and Interreligious Affairs at the United States Conference of Catholic Bishops, in addition to 15 years of seminary and university teaching. He also serves as Dean for the Catholic Institute for Ecumenical leadership, a program for diocesan ecumenical officers. He received a Bachelor of Arts degree and a Masters (Biology Education) degree from St. Mary’s University of Minnesota. He earned a Masters degree from Marquette University and a Ph.D in Theology from Fordham University. 1 Brother Raphael Erler, Beginnings: The Founding of St. Mary’s Press, Winds of Change, Winona: St. Mary’s Press, 1993, 1995. Jerry Windley-Daoust, Touching the Heart of Teens: St. Mary’s Press, 19432001, Winona: St. Mary’s Press, 2009.


540

Jeffrey Gros

in the 1940s with narrative texts much influenced by the Kerygmatic Catechetical renewal. I was assigned to graduate study in 1965, the last year of the Council. The visitor moved me out of biology studies which I had taught for six years, and for which I was enrolled in doctoral studies at Northwestern University. Since that time I continued in high school, college and eventually graduate school and seminary teaching of religion; catechist and deacon formation; and finally national and international leadership in what turned out to be a catechetical and theological specialty: Christian ecumenism. In the early days of the Council, especially during the 1970s, the trained Brother had to be available for a variety of formation work; with the new rites of the Catholic Church, social teaching of the Church, and new developments in ecumenical relations; almost week by week it seemed – in addition to novitiate, juniorate and continued formation for the brothers. When I was assigned to Memphis, Tennessee after 1971, where Catholics are a small minority (then less than 5%), I was the only acceptable Ph D in theology (the others in the diocese were former priests). This was a context where schools, clergy and the early generation of lay leadership all needed to be brought on board. Specialization was a luxury that trained Catholic educators could not afford. In fact, even during graduate school, when I was working as a director of religious education in a New York parish and Lasallian school, I would fly back to the Midwest regularly to work with the visitor, Brother John Johnston, to provide workshops for the Brothers on the 16 documents of Vatican II and the 12 documents of the 39th General Chapter, especially the Declaration. Yes Lasallian, Catholic and ecumenical renewal has been a challenging task and rich blessing since the Council’s call in 1959, my year of graduation from the scholasticate. These very personal reflections will touch on three points: 1) my own catechetical calling, 2) Lasallian catechetical identity, and 3) the present moment in the Church’s catechetical mission in the U.S.

1. Reflections on my own personal catechetical ministry I have returned (in 2005) to the classroom after 24 years of a more specialized Lasallian catechetical ministry: ecumenical formation, research and administration. It is great, again, to be applying my learnings, both grassroots and research, in an environment characterized by the Lasallian values of justice, community and faith, in an ecumenically oriented Protestant seminary in the religiously conservative south of the United States. I have been teaching for a year at the Franciscan faculty in the Graduate Theological Union in California, but I am professor at Memphis Theological Seminary of the Cumberland Presbyterian Church, which serves 30 denominations, 45 % African American, 30 % women, where there was a Master of Arts in


The Challenge of the Lasallian Catechist

541

Roman Catholic Studies in the 1970s, before our Christian Brothers College became a University. I also teach in the latter’s Master of Arts in Catholic Studies.

A. My Journey The relevance of my comments is both a witness to the zeal and passion for Christian learning engendered by Alphonsus and other Lasallians; and a comment on strategies for implementing a Lasallian vision in our U.S. cultural context. All of our students worldwide of whatever religious background will live in a pluralistic world, no matter how homogeneous our school or parish. The Catholic Church is irreversibly committed to the full visible unity of the Christian Churches. The late Pope John Paul challenged us with the catechetical task of making the last (now) 45 years of ecumenical progress a “common heritage.”2 I have been blessed to serve the Lasallian catechetical enterprise from the specialty of ecumenical formation, within our larger Lasallian and ecclesial calling. When we graduated from Saint Mary’s University in 1959 some of us were energized by the commitment to bring the worship and social justice dimensions of Catholic catechesis alive. We found that this vision was yet to be shared by all Lasallians. My master’s work was done under Brother Alphonsus on liturgical catechesis for high school Living With Christ texts in the early 60s, still pre-Vatican II. From this high school teaching in the 1960s, I was called by the visitor to change disciplines into theology at the time of the Council, eventually go into college teaching, which expanded into catechist, deacon, lay ecclesial ministry and Protestant seminary formation. My catechetical formation specialized in liturgical education, my theological work was first in sacramental theology and then in interdisciplinary work with sociology and theology, focusing on ecclesiology. In building a new diocese, in Memphis, Tennessee in the 1970s, it fell to me to take up the ecumenical leadership, since there were already competent liturgists and social justice workers at the service of the diocese. After ten years of college teaching and service to the local church in Memphis following a suggestion by the brother visitor, I was called in 1981 to minister in theological administration at the U.S. National Council of Churches in New York, where I served the U.S. ecumenical dialogues and followed the World Council dialogues as an observer. In 1991 I was called to work with the U.S. bishops, for 14 years, also in an ecumenical capacity: administering dialogues, helping educators and other colleagues in the ecumenical dimension of their work, monitoring Vatican and World Council dialogue progress, and following developments among the churches, especially in the

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_25051995_utunum-sint_en.html 2


542

Jeffrey Gros

Latin American church. In this work I found marvelous Lasallian hospitality and colleagueship around the world. Indeed, from Rhodes to Kuala Lumpur, from Porto Alegre to Newcastle there were always Lasallians to receive me, which would amaze my Orthodox and Protestant colleagues; and more important there were Lasallian catechetical and pastoral experiences on the ground to fill out the ecumenical learning of the scholars who serve the churches’ unity with their research and dialogue. One of my more recent publication uses exactly the same model used for those 1960s liturgy lessons I did for my master’s thesis under Alphonsus: providing the busy catechists with primary texts – in this case ecumenical; organized around the themes: in that case the lectionary — in this book: the Catechism of the Catholic Church.3 If catechists are to teach the results of the dialogues to make them, as Pope John Paul recommends, a common heritage, these technical theological texts must be harvested in such a form that they can become “teachable” resources. Since the publication of this project, Cardinal Walter Kasper has promoted the “harvesting” of the 45 years of dialogue as a Catholic ecumenical priority.4 I use this illustration from my own story to make four points: a) the importance of adapting the resources of the tradition to the experience and needs of catechists and their students; b) the enduring importance of quality content; c) the importance of not pitting the grassroots practicality and age-appropriate methodologies against the content of the faith; and d) the importance of persistence in catechetical renewal. These values apply to the liturgical, social and ecumenical aspects of our catechetical task and many other dimensions as well. They are all well attested in the Meditations for the Time of Retreat, if these are read in light of the imperatives of the present age. In the 1950s and early 60s it seemed almost fruitless initiating high school students into the liturgical reforms: providing Masses facing them, teaching the lectionary each week, holding out the values of lay participation, even acknowledging the possibilities of vernacular liturgies in the future. Indeed, the majority of the Brothers were unsympathetic to what some of us were teaching. Yet these were the values with which we were inculcated in our Lasallian formation, and that have become priorities since the Council a few years later. By Alphonsus pressing me to provide teachable, “bite sized,” texts for the busy catechist, I learned that building a firm and deep foundation is key to the catechetical enterprise, even if it is not valued by all ecclesiastical leadership or even by many of the teachers themselves. Now we provide ecumenical experiences; understanding

Daniel Mulhall, Jeffrey Gros, eds., The Ecumenical Christian Dialogue and the Catechism of the Catholic Church, New York: Paulist Press, 2006. 4 Walter Kasper, Harvesting the Fruits: Basic Aspects of Christian Faith in Ecumenical Dialogue, New York: Continuum, 2009. 3


The Challenge of the Lasallian Catechist

543

of history, the sacraments and the core doctrines of our faith from an ecumenical point of view; and keep commitment to full communion on the horizon of our students’ faith in the Church. In serving the ecumenical catechetical dimension of the Lasallian vocation, I have found it remarkable how the magisterium and its directives for ecumenical formation reinforce the educational needs of the U.S. Church as documented by social science research. Sociologists identify four things young U.S. Catholic adults in this generation need in their formation: 1) Knowledge of Vatican II. (44% of confirmed non-Latino, and 68% of Latino Catholics claim not to have heard of the Council!) 2) Preparation for Catholic identity in an ecumenical context, 3) Adult faith formation, and 4) Education for interfaith settings.5 It is essential to have a core of competent trained catechists with a strong faith and transparent zeal, who can field the questions, provide the resources, and inform the authorities and parents as well as generate enthusiasm among the students. This was true of the liturgy in the 1950s and 60s, social justice in the 1970s and 80s, ecumenism in the 1980s and 90s, and remains true for the Lasallian catechesis of the future. In the 1970s the leadership the Regional Conference of the Christian Brothers for the United States and Anglo-phone Canada supplied input and advice on the bishops assigned to the Roman Synod on Catechesis, and on the National (U.S.) Catechetical Directory, through its committee on catechesis. Before the Synod, a brother visited each bishop who elected to go to Rome, and shared the reflections of our students with them. This committee provided resources for training lay colleagues in the Lasallian vision of education, before the region had programs of Lasallian formation available to the laity in our ministries. In recent years much consultation has gone into the new National Directory for Catechesis and the National Adult Catechism, but without focused Lasallian input. Service of the poor remains a Lasallian priority, but seeing catechesis as central to the vocation of all Lasallians is still a challenge. Many skilled catechetists and potential Lasallian catechetical leaders have been called into administration. For many this has been seen as an opportunity to widen the catechetical vision, build supportive faith communites, and to enable a strong commitment to recruiting all faculty, even in the secular disciplines, for the Lasallian Catholic mission of the school. For some administration is an easier and a better supported ministry than that of religious education in the classroom. Not all

Dean Hoge, et al., Young Adult Catholics: Religion in the Culture of Choice, Notre Dame: University of Notre Dame Press, 2001, 146. 5


544

Jeffrey Gros

are called to second level catechetical leadership and very few of us are called to the sort of catechetical specialization I have experienced, but the leadership, publication and specialization are all important services. Indeed, the Lasallian presence in the forefront of U.S. catechetical leadership that was the hallmark of the movement in the 1940s through the 1960s is hardly to be found today.

B. Reception of the Council Secondly, some of the current tensions in catechetical work in the U.S. are unfortunate, but inevitable dimensions of the reception of Vatican II. As with every council, the resistance, reception and inculturation of all of the conciliar reforms vary. Certainly this was De La Salle’s experience with the reception of the Council of Trent, and the contrast between his education at Saint Sulpice and that of some of his more “traditional,” pre-Tridentine colleagues. Many of our Catholic leaders, Brothers included, did not have the theological background to understand the shifts of Vatican II. Many were overwhelmed by the concurrent social and sexual revolutions that occurred in the late 1960s in the U.S. on the heels of the Council, and some could not distinguish between them. It was particularly difficult in the southern United States, so identified with the U.S. military and segregationist social policy, and surrounded by biblical fundamentalism. Certainly, De La Salle’s France is an historical example of the slow process of reception, where the reform decrees of Trent were only promulgated with the 1801 Concordat with Napoleon, and the Gallican liturgy only suppressed finally in the late 19th century.6 I have tried to follow the reception of religious liberty and ecumenism in Latin America as closely as I can.7 I received a Lilly grant for study on Hispanic ecu-

I took a 2006 Lasallian pilgrimage through southern France, retracing the Founder’s steps of his late-life discernment retreat, in order to reflect on the transitions, calling and steps to be taken in my own life, as the Church, Institute and US ecumenical context moved forward in its challenge to incarnate the vision of the Church renewed by the Council, and to draw on Lasallian spiritual resources to renew and redicate my own spiritual life to faith in the Church’s ideals and to zeal for the Institute’s service of this mission of education, unity and service. I remain grateful to both the Lasallian hospitality and readings that continue to sustain, as the transition continues. It was at Parmenie that I began to read and reflect on the contributions of Brotehr Robert Comte. http://www.lasalle.org/media/pdf/mel/cahier_mel/25cahier_mel_en.pdf 7 See, for example, Jeffrey Gros, “Struggle and Reconciliation: Some Reflections on Ecumenism in Chile,” International Review of Mission, Vol 97, No 384, 385 January/April 2008. “The Challenge of Pluralism and Peace: The Changing Relationships among the Churches in Colombia,” International Review of Mission, (August/October 2009). “Ecumenism in the Western Hemisphere: The Witness of the Catholic Synod,” Ecumenical Review, 51:4, October, 1999. “Koinonia in America,” One in Christ, Vol. 36, 2000. Philippe Thibodeau, Florencio Galindo, Jeffrey Gros, eds., Ecumenism: The 1997 Roman Catholic Synod for America: Ecumenical Perspectives, 32:127, September, 1997. 6


The Challenge of the Lasallian Catechist

545

menism, one which had a very intentional youth component.8 The relationship of culture, religious freedom in Latin America, and education for pluralism in the Hispanophone community in the reception of the Council is little known and appreciated in North America, but very important for our catechetical ministry. Likewise, teaching Hispanic theology in a Protestant seminary is a real priority, given the U.S. immigration debates and the global collaboration necessary for Christian ministry. I find this gradual reception particularly evident in ecumenical catechesis.9 There have been many teachable moments in the last 45 years, which have given me many splendid opportunities for interpreting the magisterial texts and ecumenical agreements: agreed texts on the sacraments, justification, authority, and history focal among them. It has also helped to affirm the grassroots developments in interchurch marriages, diocesan initiatives and ecumenical models for a variety of parish renewal programs. In the U.S. there are still those who do not see zeal for the unity of Christians as central to our catechetical ministry. As catechetical leaders we learn as much from the students and grassroots catechists, their challenges, attention to cultural shifts and needs and questions, as we do from the magisterium, the theological heritage, and – in my case – from the ecumenical research, agreements and international initiatives. While we know that a robust and confident sense of Catholic identity is necessary to enter into dialogue and to be an authentically ecumenical Catholic, it has taken some time for this vision to inform Catholic catechesis.10 In the U.S. we have the particular challenge of a denominational understanding of the Church, on the one hand, that marginalizes truth claims; and a sectarian fundamentalism or integrism on the other, that sees ecumenism as a threat.11 While neither of these positions is the Roman Catholic understanding of church and ecumenism, they have major cultural

Jeffrey Gros, “Reconciliation and Hope: The Contribution of the US Hispanic Community: Recovering a Reconciling Heritage I, Building A Common Future II,” Ecumenical Trends 35:10, 11 (November, December, 2006) 1 – 6 9 Without going into a lengthy discussion of ecumenical formation, one US statistic that indicates how far we have to go in this dimension of catechesis is the figure that 48 % of confirmed non-Latino, and 64% of Latino Catholics believe that “the Catholic Church is the one true Church,” a position that was definitively put aside in 1964 for the affirmation that the one true Church “subsists in” the Catholic Church. Hoge 57. 10 As sociologists note: “…the Church cannot function as a lazy monopoly…Catholicism will need to present itself as distinct, vital, relevant, and worthwhile – as a living tradition of discipleship, community, and sacramental consciousness.” Ibid 238. In the debate on Religious Freedom in the Council, several Latin American fathers and Yves Congar recognized the catechetical challenge of the new image of society being proposed for the Catholic Church. 11 Jeffrey Gros, “Reception in American Culture: Tendencies and Temptations”, in Twelve Tales Untold A Study Guide for Ecumenical Reception, edited by John T. Ford and Darlis J. Swan, 1993. 8


546

Jeffrey Gros

impact on our students and people. It is significant to note that both the grassroots sociological studies and the directions of the Holy See identify the same needs in different language:1) Being clear about the core elements of the faith (Hierarchy of Truths),12 2) Being clear about the setting of boundaries (knowing common faith, differences, and results of the dialogues),13 and 3) Helping people interpret the elements of their faith and the moral teaching of the Church. For the Holy See’s directives in ecumenical formation this interpretation also entails understanding the tradition of fellow Christians and their churches in the light of the hierarchy of truths, and the issues we now share and those that still divide us.14 Most pastoral agents are not able to keep up with the details of ecumenical progress. Therefore, a receptive spirituality and attentiveness to the lines of ecumenical development are needed to nourish the ecumenical ideals of the Church at every level. For this reason, when I was at the bishops’ conference, we did our best never to turn down a bishop’s request to provide a priests’ retreat or a catechetical congress. The U.S. bishops’ catechetical leadership and most of the publishers have been otherwise engaged in recent years, but I have been able to provide ecumenical catechetical resources through National (U.S.) Conference on Catechetical Leadership, National Catholic Educational Association and Paulist Press – and on the Lasallian circuit, through the MEL series.15 I have also been blessed to edit the major international and U.S. ecumenical research which has been sponsored by the Catholic Church and its ecumenical partners; to edit the results of dialogues with Anglicans, Lutherans, Methodists, Reformed, the Peace Churches, Pentecostal, Baptist and U.S. African American churches; to write numerous articles attempting to make the results of this research available to the wider Christian community; to teach seminars and courses adapting these results to the whole people of God. Before we can provide “teachable” materials for our catechists we have needed to codify and publish the technical agreements, to harvest

Ibid 196, 208. Pontifical Council for Promoting Christian Unity, “The Ecumenical Dimension in the Formation of Pastoral Workers,” Origins, 27:39, March 19, 1998, 653-661. # 12 http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/chrstuni/documents/rc_pc_chrstuni_doc_1603 1998_ecumenicaldimension_en.html (hereafter EF) 13 Hoge 205, EF # 13, 16-19. 14 Hoge 198, EF # 11, 25-26. 15 Jeffrey Gros, Handing on the Faith in an Ecumenical World: Resources for the Catholic Administration and Religious Educators in Serving Christian Unity in School and Parish, Washington, DC: National Catholic Educational Association, 2005. That All May Be One: Ecumenism, Chicago: Loyola University Press, 2000. “The Ecumenical Component to Catholic Identity in Higher Education,” Association of Catholic Colleges and Universities, Washington, January, 2002. 12


The Challenge of the Lasallian Catechist

547

and synthesize the theological results, and to translate the implications of these agreements into sound pedagogical models. We have only begun this task of harvesting, translating and receiving these gifts of the Holy Spirit into Catholic catechetical life. I have also been called into leadership among the Catholic diocesan ecumenical officers, and most recently as president of the Society for Pentecostal Studies. Finally, perseverance in the attentiveness to the needs of the people of God, a fidelity to our marvelous Lasallian Catholic heritage, and the horizon of the Holy Spirit’s ever evolving future, makes the journey a most exciting pilgrimage. As the Declaration exhorts us: Societies, like individuals, grow old and die once habits inherited from the past outweigh the will to renewal in the light of a twofold fidelity both to the institutions that sparked our origins and the demands of life today. In the long run the future of the Institute is in the hands of the Brothers. [and one might add: The future of Lasallian catechesis is in the hands of all Lasallians.] They must not wait for ready-made solutions from those in authority for the new problems that come from a world in evolution. (D 53:2)16

Models like Brother Luke Salm, and the ever refreshing research of Michel Sauvage and Miguel Campos have provided a continued enrichment on the pilgrimage.

2. Lasallians as Catechist by Vocation Lasallians can be justly proud of a long heritage of U.S. catechetical leadership in the classroom, in special creative leadership, and in publication. Lasallians pioneered lay involvement in the catechetical movement and in lay theological education in the U.S. New York District’s Brothers Luke Salm and Stephan Sullivan were the first lay S.T.D. graduates of the Catholic University of America; Luke was the first lay member of the Catholic Theological Society and its first lay president. They were both involved in the renewal of catechesis and theology, even before the Council.In U.S. history, schools have been a primary instrument of evangelization, as a prominent missiologist comments: Many feel that the reason for the vitality of the U.S. church, which is not matched in any other industrialized nation, comes from the socialization – and we would add, evangelization – carried on through this school system. Today, in many of the poor sections of our cities, it is the Catholic schools that provide the hope of a better life for many children including those who are not Catholic.17

De La Salle Christian Brothers, A Declaration: The Brothers of the Christian Schools in the World Today, Lincroft, NJ: La Salle Provincialate, 1997, (original 1967). #38:1. (hereafter D) 17 Robert Schreiter, CPPS, “The New Evangelization,” in Steven Bevans, SVD, Roger Schroeder, SVD, eds., Word Remembered, Word Proclaimed, Nettetal: Steyler Verlag, 1997, 52. 16


548

Jeffrey Gros

It is always important to recount the primacy of the catechetical mission in Lasallian identity: The Brothers [today we would say Lasallians] make known the divine mysteries by exercising the ministry of the Word of God. The [Lasallians] are catechists by vocation; this is their “principal function.” (D 38:1)

In this generation in the United States where in both secondary and tertiary education specialization is the order of the day, it is important to help lay Lasallians to understand how we are all called to embody this charism, whether in the religion classroom or not.18 An important part of the catechetical mission of the Brothers is to enable lay participation in the Church and Institute and empower Lasallian leadership in catechesis, administration and education.19 I have not been personally involved in this Lasallianization formation program, though we have provided some resources.20 Brother Pérez Navarro’s 10 challenges give a solid foundation for any Lasallian formation program.21 The Lasallian educator, following De La Salle’s directions in the Meditations for the Time of Retreat identifies with the students’ struggles, their stage of development and the cultures from which they come, seeing Christ through the physical and cultural limitations of the children. Lasallians teach students first, and subject matter – including the conceptual dimension of the faith – second, depending very much on the stage, readiness and disposition of the student who is being accompanied. This often means that those who are driven to evaluate the Lasallian educational process by behavioral results and conceptual orthodoxy of doctrine are disappointed. As one seasoned brother puts it: Religious education purports, I believe, to create an awareness of the spiritual dimension of the human person and at a later time in life a person may even come to an appreciation for a particular religion and moral code to be lived by. He/she may even embrace a commitment to religion as a support to one’s spiritual life. Religious education opens the student to an awareness of the possibility of a relationship with God, a higher being. Awareness of the spiritual can lead to a relational life. Relating to others and God through prayer, in its varieties, study, and service to others.

John Baptist de La Salle, Meditations for the Time of Retreat, (Romeoville, IL: Christian Brothers Conference, 1975). Álvaro Rodríguez Echeverría, “Associated with the God of the Kingdom and the Kingdom of God: ministers and Servants of the Word,” Rome: Brothers of the Christian Schools, December 25, 2004. (herafter A) 19 Kevin M. Tidd, O.S.B , “The Evolution of ‘Association’ as a Model for Lay/Religious Collaboration in Catholic Education, Part I: From ‘One and Only Masters’ to the Lasallian Family, 1719-1986; Part II: The Emergence of Shared Mission as a Ministry Paradigm, 1986-2000.” Catholic Education: a Journal of Inquiry and Practice, Vol 12, March, 2009, pp. 320-338, Vol 13, June, 2009, pp. 439-456. 20 Jeffrey Calligan, Carl Koch, Jeffrey Gros, eds., John Baptist de La Salle: The Spirituality of Christian Education, Mahwah, New Jersey: Paulist Press, 2004. Jeffrey Gros, Lasallian Ministry and the Unity of Christians, Rome: Brothers of the Christian Schools, 2004. 21 José Pérez Navarro. FSC. The Teaching of Catechism in Lasallian History, Rome: Brothers of the Christian Schools, 2005, (MEL Bulletin 17), 64. http://www.lasalle2.org/English/Resources/Publications/PDF/Education/Cahier17.pdf 18


The Challenge of the Lasallian Catechist

549

Characteristic of the charism of the Lasallian catechist are: a) a lay orientation, b) creative inculturation, c) the schools of whatever type as the preferred vehicle, and d) the option for the poor. More challenging dimensions of the charism as we inherit the commitments of Vatican II are: a) the commitment to a critical service of the Church’s wider mission beyond just the Lasallian school, b) the collaborative transition from a Brother-centered to a Lasallian-centered catechetical identity, and c) a collegial style of mission in a Church centered on baptism and Eucharist, to which the ordained ministry and religious give appropriate - but not exclusive - service.22

3. The Catechetical Situation in the US Church Today The characteristics of the present challenge can be seen from a variety of points of view. These are very personal observations about challenges faced by the U.S. Catholic catechetical community. A. Future Trends The Catholic catechetical future in the U.S., it seems to me, will be marked by: 1) lay leadership; 2) informed by the Council: a) Christocentric: focusing on Christ and grace, the biblical message and the sacraments, the unity of Christians, recognizing the primary image of the Church as a community (koinonia) of the baptized – a pilgrim people; b) Oriented to the Church’s mission in the world in proclamation, dialogue, social justice and service; c) Recognizing the centrality of the person; with the educators and church leadership, and the Christian heritage as resources for witnessing to the Gospel; 3) continued polarization in the interpretations of Vatican II; 4) parish and family rather than school centered, for demographic more than theological reasons.23 While many Brothers have pioneered parish and diocesan minThis is not the place to go into how De La Salle’s theology of the Church and the human person, unpopular in Gallican Jansenist France, served to save the Institute in 1801 and 1904, see Pedro María Gil, Three Centuries of Lasallian Identity, Rome: Brothers of the Christian Schools, 1998. 23 Catholic schools in the U.S. are totally funded from the voluntary contributions of believers, so it is always a challenge to keep a focus on the Lasallian option for the poor. In the 19th century the Church decided to give a priority to parish schools, usually staffed by religious, frequently concentrated in ethnic neighborhoods inhabited by immigrants. These communities were very generous in support of their schools which were protectors of both religious and national heritage. With the suburbanization, acculturation and affluence of Catholic communities, there has been less attention to Catholic schools, so they are no longer the vehicles of Catholic identity or primary sources for passing on the Catholic heritage that they once were. The liturgy, parish educational programs and other forms of outreach must carry this educational task for the majority of Catholics. Schools account for only 12% of the education of Catholic youth. 22


550

Jeffrey Gros

istries, some directing lay ecclesial ministry, campus ministry, liturgical and catechist formation programs; the majority of Lasallians find the school the focus of ministry, as acknowledged already in the Declaration. This has meant, however, that catechetical leadership has also shifted to those who have the whole Church and the majority of Catholics as their horizon. St. Mary’s Press has followed this shift more effectively than other Lasallian ministries; 5) multicultural, and therefore multi-ideological with a rich variety of Catholic spiritualities. B. US Cultural Context The Catholic Church in the U.S., it seems to me, will be marked by these continuing realities: 1) continued clerical governance structures, even as the quantity and quality control of the ordained decreases; 2) increased emphasis on discipleship, parish community and recognition of a diversity of family situations; 3) decreased religious literacy on the part of Catholics and other Christians.24 Of course, over simplified sociological surveys need to be used critically.25 However, some studies have shown Catholics among the weakest U.S. religious bodies in their teen religious education. In the U.S. belief is strong, unlike the European situation, however institutional commitment is weakening, so loyalty to the churches is often secondary in the popular piety of many. Parents’ religion is a greater predictor of religious knowledge and practice than parish or school. To what extent might this be due to the shift from school based to parish based catechesis without the concomitant shift of resources or pastoral priority setting? Certainly the transitions of the 1960s and 70s, and the continuing polarization in the institutional church are also factors. The 1992 publication of the Catechism of the Catholic Church and the subsequent initiative of the U.S. bishops to implement the CCC by monitoring text book publishers, was seen by the bishops as a way of dealing with this religious illiteracy. However, it has also enhanced the polarization of catechetical emphases in this country, and often placed teachers and schools in the midst of tensions.26 As one Lasallian puts it: “it was impossible to escape the reality that the [US Catholic]

24 Stephen Prothero, Religious Literacy: What Every American Needs to Know and Doesn’t, New York: Harper One, 2008. 25 See Christian Smith, et al., Soul Searching. The Religious and Spiritual Lives of American Teen Agers, Oxford: Oxford University Press, 2005, 65, 193-217. For a more nuanced and detailed exploration of this theme, see Hoge. 26 Windley-Daoust, 149 -164. Jeffrey Gros, FSC, with Steven Bevans, SVD, Evangelization and Religious freedom: Ad Gentes, Dignitatis Humanae, New York: Paulist Press, 2008, 228 - 234.


The Challenge of the Lasallian Catechist

551

Church was undergoing a major cultural shift on the same scale of what it had experienced in the postconciliar years – but in the opposite direction.”27 Some suggest that the concern about censoring text books might be better placed in encouraging attendance at parish religious education, and in adult faith formation for parents and catechists. Lasallian catechists and institutions are not absent from these tensions. In the larger Lasallian picture, the option for the school as the priviledged focus of our catechetical ministry in the Church challenges us to face the building of a faith community beyond the religious education program or the catechetical curriculum, as Lasallian Shirley Kelter notes about the mission of St. Mary’s Press: “We felt that while SMP might produce wonderful textbooks, if there wasn’t a sense of faith community in the schools, the books weren’t going to build faith in the students;”28 4) increased intellectual (but not necessarily religious) sophistication among Catholic elites. Some of the disaffiliation with the institution may come from the disconnect between the education of some church members and the quality of some Catholic leadership; 5) receding experience of, and possibly even knowledge of, Vatican II by Catholics and even some of their leadership;29 6) decreased ethnocentric cultural Catholicism and increased “denominational” cultural Christian Catholicism, and consequent continued drain of Catholics to the right and left into communities where they feel “more comfortable.”30 This polarization in society, reflected in the churches, is often characterized as the “culture wars.” One can see this in the selective support of Catholic teaching on sexuality on the one hand, or on the Gulf Wars and immigration on the other. Even the bishops show divided public strategies on some of these issues; 7) the universal-catholic vision in ecclesial, political, economic and social life is becoming increasingly marginal to the individual Catholic. Their own particular parish and understanding of their Catholic identity is the point of view through which they view their church commitment and Christian values. The difference between the Catholic bishops and their people on the Mexican immigration debate following the regional economic restructure of the North American Free Trade Agreement (1993) is a current example;

Windley-Daoust, 162, 203 - 207. Ibid. 175. 29 Hoge, 146. 30 Hoge and his sociological colleagues identify this as a “culture of choice.” See also Thomas Rausch, Being Catholic in a Culture of Choice, Collegeville: Liturgical Press, 2006. Catholicism is the largest Church in the United States, but it is a minority among Christians. Protestantism is represented by a wide variety of churches, some ecumenical and committed to unity with the Catholic Church, other sectarian and anti-ecumenical. Ecumenism itself means different things for different Christian groups, both those who are committed to the ecumenical movement and those who oppose it. 27 28


552

Jeffrey Gros

8) continuing encroachment of the anti-intellectualism of American culture into Catholic life, even for the devout. Piety may continue to outweigh a serious attention to the content of the faith and the quest for a deeper, critical knowledge of the tradition; 9) as to the theological and pastoral competence of those being appointed bishops, the future is not at all clear. The ecumenical work is made more challenging, in the U.S. because of the number and prominence of bishops appointed on the basis of their service in the Roman Curia rather than demonstrated pastoral competence in the local church they are called to serve. The polarization caused by the variety of interpretations of Vatican II will continue for many years, as will the traditional and necessary tensions about emphases on method and/or content in catechesis; propositional vs relational emphases in our understanding of revelation; and approaches to dealing with religious and theological pluralism. These strains in our catechetical mission can be seen as Godgiven opportunities for deepening our skills at dialogue and our quest for more knowledge of the tradition in our Lasallian identity as “catechists by vocation.�31 C. Lasallian Challenges Some implications for Lasallian catechetical leadership in the U.S. seem to me: 1) In the new, lay catechetical context Lasallian leaders (principals, directors of parish religious education, department chairs, university presidents, etc.) will need to be more theologically trained because there are no religious community structures of formation, support and continuing education. In the U.S. the catechist’s position is subject to the change of pastor, principal, or bishop, no matter what the competence, qualifications, contractual agreements or lack thereof, that are in place. The positions of Lasallian school teachers are more secure, but there need to be leaders in the schools skillful enough to manage conflicts with parents, diocese and local clergy, and to recruit and retain competent religious educators. Therefore, there need to be support structures provided for those with the catechetical vocation; spiritual, economic and political; so that lay catechists can minister with security, hope and enrichment. This will entail support systems enabled by the Lasallian system and its mission & ministry councils, which are newly forming in the U.S. and whose leadership skills are yet to be tested. It will also entail Lasallian structures which will recruit, provide for the training, gather and advocate for Lasallian catechitsts in the Lasallian systems and in the Church. The

See Bradford E. Hinze, Practices of Dialogue in the Roman Catholic Church: Aims and Obstacles, Lessons and Laments, New York: Continuum, 2006. 21-25, US Conference of Catholic Bishops, National Directory for Catechesis, Washington: US Conference of Catholic Bishops, 2005.

31


The Challenge of the Lasallian Catechist

553

catechetical leader needs to know as much if not more than the bishop or clergy about handing on the tradition, in order to make clear the position of the Church, and to be able to clarify where programs serving the particular needs of students are supported in the magisterium and tradition. In the U.S. there are many good text book resources out there as Peter Steinfels comments.32 The major question will be: do we have the competent educators who have both the pedagogical expertise and the theological knowledge to adapt the message to the needs of the people being served? Do we have vehicles for bringing adults and young people into a context where there can be a credible witness to the tradition? Most of our U.S. Lasallian Catholic colleges and universities were founded to train prospective brothers, including in their catechetical vocation. When scholasticates disappeared from campus, often the professional catechetical formation programs dried up as well; sometimes because of survival, marketing and cultural forces, rather than through specific missional decisions. Likewise, when the residential religious market dried up, many of the theology or catechetical masters’ degree programs were terminated in Lasallian universities as well. It is encouraging to see some of our U.S. Lasallian universities reviving or initiating programs designed specifically for the lay ecclesial ministers and catechists of the future.33 It has been my point of view for years that we should be no less rigorous in our selection of catechists in Lasallian schools than in the selection of physics or language teachers. However, our systems, Lasallian or academic, need to be as intentional about the recruiting, training and support of these prospective catechists, as we once were for religious. The U.S. Church leadership provides a disproportional set of resources for clerical formation, often in isolation from lay ecclesial ministers in formation; compared with the resources allocated for the formation of Catholic educators. In the U.S. we are still benefiting from the residual religious, the former priests and religious who have continued their catechetical calling while changing their life style; and from schools with theologically formed and catechetically experienced administrators at the helm. We are now challenged

Peter Steinfels, A People Adrift: The Crisis of the Roman Catholic Church in America, New York: Simon & Schuster, 2003. 33 See for example, http://www.lewisu.edu/academics/theology/pdf/ps-theology.pdf, Lewis University has a full Pastoral Ministry formation program: http://www.lewisu.edu/academics/catalog/courses.htm? pcollegeid=1&pstudyid=66&pdegreeid=163&pdegree=Theology%20Program%20Three:%20Concentration%20in%20Pastoral%20Ministry, Of course, Lasallian Universities are not the only creative initiatives for lay catechists underway. Universities like Dayton, Marquette, Boston College etc. have shown important leadership. Gerald Baumbach’s program at Notre Dame for prospective religious educators, ECHO, is particularly instructive http://www.nd.edu/~cci/ 32


554

Jeffrey Gros

to ask how we can project the next twenty years to see that these dedicated catechists are succeeded by people of equal competence who can be as intentionally supported and mentored into Lasallian catechetical leadership. As Brother Álvaro says: Looking over our three-hundred years of history, we come across the fact that our Founder dedicated himself more to teacher formation than to the direct education of children (A p.5).

It will be useful to reflect on the implications of this fact for our Lasallian life and future. 2) The governance structures in the Church will call for deeper sensitivity and collaboration on the part of educators, especially those who are catechetically trained. The bishop has the canonical responsibility as teacher in the local church. The called, trained and experienced catechist has the pedagogical charism. The wisest bishops are those who inform their responsibilities with the wisdom and experience of those who do the work of handing on the faith. It is instructive to see Brother Alvaro holding up the Latin American bishops’ models for evangelization education rather than some operative in the U.S. bishops’ conference, or even emphases evident in some Vatican documents (p. 44). There are stories of how parishes, schools and programs across the U.S. have been changed with the change of leadership. We need to find ways of building roots for quality Lasallian catechetical programs so that they can endure the ups and downs of changes in clerical leadership and pressures that these bring on catechists. Lasallian catechists, when they have developed security and seasoning, have important resources to share with dioceses and parishes, not to mention national structures – of the Lasallian networks and of the Church. In the U.S. we need to learn how appropriate leadership is exercised in a clerically governed, often polarized, Church by competent and visionary Lasallian catechists. 3) Catechesis for the future will continue to work in an environment that is increasingly pluralistic for the students and their families. As Brother Álvaro notes, the ecumenical and the interreligious dialogue are key elements in Lasallian pedagogy (p.59)34. However, possibly more urgent is the dialogue within the Church, with its variety of cultures, interpretations of Vatican II, and expectations of the catechetical programs. With the increasing new U.S. Hispanic populations as well as the regional, ideological, economic and cultural diversities traditional in our American multicultural Church, we are challenged not to allow our Lasallian catechetical programs to become the captive of the devotional or ideological preferences of par-

34

See also Hoge, 143.


The Challenge of the Lasallian Catechist

555

ticular dimensions of Catholic life. Ecumenical formation is particularly urgent in the U.S. Hispanic community and among recent immigrants from Eastern Europe. Newcomers may be dealing with pluralism for the first time. We will need to help them understand how to move beyond popular religion as the primary vehicle for handing on the faith and reliance on a cultural hegemony often presumed from countries of origin, to an informed and articulate faith that is personal and internalized. Commitment to the Catholic community will need to become a conscious decision and not something for which the culture or the hierarchy is primarily responsible. We have to interpret and help students interpret to one another the rich variety of forms of Catholicism, not to mention the variety of Christian churches with which we share communion – even if yet imperfect, and those of other faiths with whom we must work out our common life in society. 4) Finally, a realistic historical perspective is an important resource in Lasallian spiritual lives. We are a few years away from Vatican II and the General Chapters since the 39th, so their catechetical and Lasallianization ideals are only slowly filtering into the lives of our people and institutions. De La Salle and his mentors at St. Sulpice were among the French minority leadership who supported the reforms of the Council of Trent. He served with many bishops and fellow clergy who were quite resistant to these changes, and were quite comfortable with the leadership and the Gallican principles of the French church and Louis XIV. We need to see the touching of the hearts and minds of each individual in each class as building the ground work for the future of the Church. Yet we know that each era of reform, each council, and each movement – like the Lasallian movement – has had its ups and downs, its gradual process of reception; a reception that entailed many rejections along the way. Therefore, the Lasallian catechist is sustained by the Holy Spirit in his or her vocation, and not deterred by the challenges placed before us in our educational task. When, in my ecumenical work, ministers are discouraged by the volume of ignorance they encounter among the people, pews to bishops, I can only say that this ignorance is a verification of our calling to educate the Church to its heritage and its calling to unity, and the theological and pastoral resources we have for responding to Christ’s prayer that they all may be one. *** The Lasallian calling to handing on the faith, especially with the poor with special preference for schools, is a noble and challenging vocation. I have found all of its aspects fascinating in my calling, often mirroring De La Salle’s view of providence – recognizing God’s gradual hand only in retrospect at the end of his life. For me it has moved: from a beginning in science; to theological study and a life of implementing the Council: through specialization in ecumenical formation and theologi-


556

Jeffrey Gros

cal dialogue; to a return to the classroom in these last years; as an ever deepening faith in God’s Word and call to a united Church, and zeal for sharing this faith and pilgrimage with ever new generations of young and adult Christians.35 De La Salle’s Method of Interior Prayer has been a great source of support, in discerning God’s presence in the events of life, the calling of the Lasallian vocation, and the needs of the Church as the pilgrimage of history moves forward. Revitalized biblical scholarship, the call to see God acting in the divided Christian churches and in the events of the world, and the renewed sacramental sensibilities which came with the midcentury liturgical reforms; provided us with rich resources for helping fill out De La Salle’s multi-act, disciplined approach to listening to God’s action through the signs of the times, the hopes and joys of the human community, and the love of God for and presence with all of his creation. An understanding of the rich contemplative resources of the Eastern religions demonstrated his great insight in developing a prayer life through imagination, rational simplicity to a simple attention, a mindfulness of God’s absolute presence in every aspect of life. Bibliographical References Specific to Religious Education - Introduction to Ecumenism, coauthored with Eamon McManus, Ann Riggs, Mahwah, New Jersey: Paulist Press, 1998. - That All May Be One: Ecumenism, Chicago: Loyola University Press, 2000. - Handing on the Faith in an Ecumenical World: Resources for Catholic Administration and Religious Educators In Serving Christian Unity in School and Parish, Washington, DC: National Catholic Educational Association, 2005. - The Ecumenical Christian Dialogues and the Catechism of the Catholic Church, coedited with Daniel Mulhall, New York: Paulist Press, 2006. - Evangelization and Religious Freedom: Ad Gentes, Dignitatis Humanae, with Steven Bevans, SVD, New York: Paulist Press, 2008. - “The Roman Catholic View,” in Gordon Smith, ed., The Lord’s Supper: Five Views, Downers Grove: Intervarsity Press Academic, 2008, 13 – 30. - “One Table of the Lord: The Goal of Ecumenism”, Living Light, Fall, 1999, 36:1, 26-43. ”Our Hunger for Communion at the One Table of the Lord,” Midstream, 41:1, January, 2002, 1-16. - “Learning the Ways of Receptive Ecumenism—Formational and Catechetical

Jeffrey Gros, “A People on Pilgrimage – In Christ’s Prayer,” Ecumenical Trends, December 2008, 37:11, 1 – 4; “The Ecumenical Calling of the Academic Theologian to Spiritual Pilgrimage in Service of Gospel Unity,” Journal of Ecumenical Studies, 44:3 (Summer, 2009); “The Unity of Christians: The United States Catholic Witness.” U.S. Catholic Historian, 26: 2 (Spring 2010).

35


The Challenge of the Lasallian Catechist

-

-

557

Considerations,” in Receptive Ecumenism and the Call to Catholic Learning Exploring a Way for Contemporary Ecumenism, ed. Paul D. Murray, Oxford: Oxford University Press, 2008, 442 - 456. “The Ecumenical Calling of the Academic Theologian to Spiritual Pilgrimage in Service of Gospel Unity,” Journal of Ecumenical Studies, 44:3 (Summer, 2009). DVD “Handing on the Faith in a Pluralistic World,” Diocese of Richmond, 2009. “Catechesis for Catholic Identity in an Ecumenical Context: A Conversation,” in Diana D. Raiche, ed., Catechetical Scholars III: Perspectives on Evangelization and Catechesis, Washington: National Cath. Educational Association, 2005, 1-10. “The Catholic School and the Quest for Unity,” Catholic Education: A Journal of Inquiry and Practice, 2:4, June 1999, 380-397. “Ecumenism and the Catholic High School”, Ministry Management, 7:1 (October, 1986).

Significant for Religious Education - Growth in Agreement III, coedited with Thomas Best, Lorelei Fuchs, Geneva/Grand Rapids: World Council of Churches/Eerdmans, 2007. - Growth in Agreement II, coedited with William Rusch, Harding Meyer, Geneva: World Council of Churches, 2000. - The Fragmentation of the Church and its Unity in Peacemaking, coedited with John Remple Grand Rapids: Wm B Eerdmans, 2001. - John Baptist de La Salle: The Spirituality of Christian Education, coedited with Jeffrey Calligan, Carl Koch, Mahwah, New Jersey: Paulist Press, 2004. - The Church as Koinonia of Salvation: Its Structures and Ministries, coedited with Randall Lee, Washington/Chicago: US Conference of Catholic Bishops/Augsburg-Fortress, 2005. - Growing Consensus II, coedited with Lydia Veliko, Washington: US Conference of Catholic Bishops, 2005. - “Ecumenism 2007: The Challenges: By Grace Alone Are We Made Whole,” Origins 36:34 (February 8, 2007), 541 – 547. http://www.nwcu.org/Documents/JeffGros2007NWCU-keynote.pdf


Conduite des Écoles dans la série «Cahiers lasalliens» par Léon Lauraire, FSC

1. Approche contextuelle - L’école lasallienne est née dans un contexte social, ecclé-sial et scolaire particulier: celui de la France de la fin du 17e siècle, encore mal exploré dans les textes antérieurs sur la Conduite des Écoles. Ce contexte explique en grande partie l’organisation et la pédagogie de l’école lasallienne. Cahier lasallien n. 61, 2001, pp. 246.

2. Approche pédagogique - A la clientèle particulière de leurs écoles, Jean-Baptiste de La Salle et les Frères voulaient offrir des structures, des apprentissages et des méthodes adaptés à leurs besoins humains, professionnels et religieux. Le second volume essaie de dégager les principaux aspects de cette réponse. Cahier lasallien n. 62, 2006, pp. 263.

3. Approche comparative - Les 16e et 17e siècles constituèrent une période dynamique et novatrice dans le domaine de l’éducation et de la pédagogie; en France, ils sont connus comme la Renaissance et le Classicisme. Mr. de La Salle est considéré comme le dernier grand éducateur français de cette période. Il a bénéficié des apports de ses prédécesseurs. Il eut des contacts directs avec quelques grands personnages, ses contemporains: Jacques de Batencour, Charles Démia, Nicolas Barré, Nicolas Roland. Ce troisième volume identifie les convergences et les différences entre ces auteurs. Cahier lasallien n. 63, 2011, pp. 162.

4. Approche diachronique - Dès le début, la Conduite des Écoles a été considérée comme un projet éducatif en évolution, condition inévitable d’une adaptation aux besoins évolutifs des jeunes. La révision du texte 1706, demandée par la Chapitre général de 1717, et réalisée par J.-B. de La Salle lui-même, témoigne de ce souci d’évolution. Perspective confirmée par la vingtaine d’éditions ultérieures de la Conduite, jusqu’en 1916. Ce quatrième volume essaiera d’identifier les changements intervenus, leurs motifs internes à l’Institut et les facteurs externes. Cahier lasallien en préparation.

* * *

Cahiers lasalliens CASA GENERALIZIA FSC • VIA AURELIA 476, I-00165 ROMA • atesfai@lasalle.org


RivLas 78 (2011) 2, 559-572

RETAZOS LASALIANOS [36-40] JOSÉ MARÍA VALLADOLID

Los dos polos de una larga crisis [36]

1.

El asunto de la Escuela Dominical - El santo Fundador abrió, en la Casa Grande, la Escuela Dominical, o “Academia Cristiana”, en 1700, a petición del párroco de San Sulpicio, el señor de La Chétardie. Puso al frente de ella a dos Hermanos muy competentes, y en pocas semanas llegaron a contar con más de doscientos jóvenes que acudían las tardes de los domingos y días festivos. Pero, desgraciadamente, las mismas buenas cualidades de aquellos dos Hermanos los perdieron, pues algunos de sus alumnos les convencieron de que, con lo que ellos enseñaban, si se establecían por su cuenta, podrían ganar mucho dinero. Y cayeron en la tentación. Ambos abandonaron la Sociedad, y la Escuela Dominical no pudo continuar; se cerró en 1702. La Salle no encontró entre los Hermanos ninguno que quisiera preparar las materias que daban los dos que habían salido. Este cierre fue el origen de la animosidad del párroco contra La Salle, a quien comenzó a considerar incapaz de dirigir la Sociedad de los Hermanos. 2. Los severos castigos impuestos a dos novicios - Esta actitud del párroco, que iba a mantener hasta su muerte, en junio de 1714, tuvo un punto álgido en los meses de octubre a diciembre de 1702, cuando, durante una ausencia de París del fundador, dos Hermanos directores, el Hno. Miguel, director del noviciado, y el Hno. Poncio, director de las escuelas, impusieron dos severas penitencias a dos novicios, aunque con unas semanas de diferencia. Las disciplinas que habían recibido dejaron en sus espaldas señales de la dureza del castigo. Al no poder acudir al Fundador, fueron a quejarse al párroco, que comprobó la severidad de los dos directores. El párroco se persuadió de que tan rigurosos castigos provenían de las orientaciones dadas por el Fundador, y remachó su convicción de que era inepto para dirigir a los Hermanos. Y así, mandó a los dos novicios que pusiera por escrito lo que les había ocurrido.


560

José María Valladolid

3. Intento de destitución del Fundador - El resultado de todo ello fue un informe que elaboró el párroco y que llevó al arzobispo, cardenal de Noailles, sugiriéndole que sería conveniente cambiar a La Salle por otro superior con más dotes para dirigir el Instituto. El cardenal se tomó algún tiempo para pensar sobre el asunto, y en el mes de noviembre encomendó a su Vicario Mayor que hiciera una especie de visita canónica a la Casa Grande para verificar la verdad del informe de La Chétardie. El Vicario, señor Pirot, de 70 años, así lo hizo, acudiendo a la casa un día durante varias semanas, y se entrevistó con todos los Hermanos de la casa y con los novicios. Nadie supo qué le habrían dicho, pero el resultado fue que el cardenal nombró al abate Bricot como superior de la Casa Grande. El modo con que se pretendió hacer tal nombramiento es un hecho conocido. Los Hermanos se negaron a admitir un superior que no fuera Juan Bautista de La Salle. Al final, el 8 de diciembre se llegó a un acuerdo entre el Vicario y los Hermanos, por el cual el abate Bricot sería el superior, pero sólo en el título, y La Salle seguiría con los Hermanos. Para llegar a este acuerdo pidieron la mediación del párroco, que delegó en el abate Madot. Con ese arreglo, todo parecía solucionado, pero las cosas no volvieron a ser igual que antes. Lo que buscaba el párroco, que era quitar de en medio a Juan Bautista, para poder él gobernar el Instituto de otra manera, no lo había conseguido. ¿Cuál fue su reacción? Desde ese momento quiso ignorar al santo fundador en todo, y se oponía de forma frontal a cuanto hacía... El párroco se convirtió en el «adversario» o «enemigo» de La Salle, del que hablan los biógrafos. 4. El primer polo de la crisis - Aquí comenzó un angustioso calvario para Juan Bautista, que no pudo calmar ni superar la enemistad de quien había sido un amigo y protector entrañable. Y en todos estos hechos de finales de 1702 está el primer polo de la larga crisis que atravesó La Salle y que duró 12 años, hasta 1714, y que le obligó a alejarse de París, «huyendo de sus adversarios». Tuvo que esconderse en el Sur de Francia y fue pasando de una casa a otra, hasta que los Hermanos le mandaron regresar, mediante la carta firmada el 1 de abril de 1714. Pero entre 1702 y 1714, y mientras La Salle sufría por aquella «persecución», ocurrieron cosas importantes. Hubo que dejar la Casa Grande; en París, el fundador tuvo que peregrinar por diversas residencias, fuera de la parroquia de San Sulpicio, y estuvo en la calle Garonne, luego en San Honorato... Y hasta pasó un buen tiempo en Ruán, desde 1705 y 1706. Los maestros calígrafos asaltaron impunemente las escuelas de los Hermanos en París, sin que el párroco saliera en su defensa; el segundo intento de abrir una escuela de maestros rurales se hundió, por la traición de Nicolás Vuyart. Y sobre todo, sucedió todo lo relacionado con el abate Clément, que terminó con un pleito contra La Salle, en el cual todos le traicionaron y le vendieron, y que, a causa de los comentarios y críticas, indujo a algunos Hermanos a dudar de que hubiera procedido con prudencia. 5. El alejamiento de París - La clara previsión de que dicho pleito iba a terminar con su condena, alentada y promovida por sus perseguidores ocultos, fue lo que le


Retazos lasalianos

561

forzó a alejarse de París antes de que se dictase la sentencia. Y el 18 de febrero de 1712 Juan Bautista salió de la casa de la calle de La Barouillère camino de la Provenza, para que al estar lejos de sus enemigos, éstos le olvidaran y le dejaran en paz, a él y a sus discípulos. Esta decisión de Juan Bautista era sencillamente la continuación del largo calvario que sufría con la actitud y el proceder del párroco, señor de la Chétardie, desde 1702. 6. El segundo polo, o final de la crisis - Esta ausencia de casi treinta meses fue el segundo polo de esa larga crisis. Todo el esfuerzo de Juan Bautista, en ese tiempo, fue conseguir que en París se olvidasen de él, comenzando por el párroco de San Sulpicio. Pocos Hermanos de la capital sabían dónde estaba y por dónde pasaba. Le escribían cartas que él no contestaba. Seguramente, algunas ni siquiera le llegaron. Pero el Hermano Bartolomé sí sabía dónde estaba el fundador, y ciertamente le había informado de bastantes de las cosas sucedidas en su ausencia. En octubre de 1714, Juan Bautista, que estaba en Grenoble, envió a París al Hermano director de la escuela, para que se informase de forma directa de lo que estaba sucediendo. Era el momento en que los «adversarios» del santo, en París, intentaban cambiar la forma de gobierno del Instituto, aislando a unas casas de otras, poniendo «superiores eclesiásticos» nombrados por los obispos, y cambiando algunas reglas, que habían asegurado la unidad de todos los Hermanos. El fundador ya lo sabía, pues se lo comentaban los Hermanos en algunas de aquellas cartas que sí le llegaron. Cuando el Hermano director de Grenoble regresó de París, le confirmó como cierto lo que ya conocía, pero él ponía al Instituto en manos de la Providencia. Por eso no se movió de su retiro de Grenoble. En enero de 1714 cayó enfermo, atenazado por el reuma, y tuvo que someterse de nuevo al remedio de años atrás: le tendían en una especie de parrilla, debajo de la cual encendían unas ramas, cuyos vapores le penetraban en el cuerpo, y le hacían sufrir terriblemente. Así estuvo la mayor parte de la Cuaresma, y al acercarse la Semana Santa, ya repuesto, fue invitado por el abate de Saléon a terminar su convalecencia en una casa que él poseía cerca de Parmenia. Fue así como pudo entrevistarse con sor Luisa d’Ours, la solitaria que vivía en aquella montaña, que le aseguró que Dios quería que siguiese al frente de la Sociedad. Y fue entonces cuando los cuatro Hermanos, directores de París, Versalles y San Dionisio le escribieron la carta del día de Pascua, 1 de abril de 1714. 7. El regreso a París - La Salle regresó de Parmenia a Grenoble y probablemente muy poco después le llegaría esa carta, que le manifestaba claramente la voluntad de Dios. Para entonces ya sabía La Salle que el abate de la Chétardie estaba muy delicado de salud, lo cual sería un motivo para animarle a cumplir el mandato de la carta. Así, este segundo polo de la crisis también estaba marcado por la persona del párroco... La Salle salió de Grenoble, pero no se sabe la fecha. Llegó a París el 10 de agosto de 1714. Habían pasado cuatro meses desde que le mandaron regresar. La Chétardie había fallecido en 29 de junio..., pero había dejado un emisario en la casa


562

José María Valladolid

de los Hermanos, el abate Brou, que se hacía llamar “superior”. Aquella crisis de Juan Bautista, aunque superada, dejaría unas secuelas para los años sucesivos.

Las dos palancas en la conversión de Juan Bautista de La Salle [37]

1.

Antes de la conversión - Todos sabemos que Juan Bautista de La Salle mostró, desde niño, una bondad natural, que le inclinó a seguir la vocación sacerdotal. El 9 de abril de 1678 coronó su camino de consagración a Dios con la ordenación sacerdotal. Contaba casi 27 años y era licenciado en Teología; además tenía a su cuidado, como tutor, a tres de sus hermanos. Y fue poco después cuando la Providencia le puso en contacto con Adrián Niel para enfrentarse con la obra de las escuelas. Hasta entonces Juan Bautista había vivido como un buen sacerdote, pero instalado en una vida cómoda y muy llevadera. En efecto, era canónigo y no tenía obligaciones pastorales, sino tan sólo acudir a los oficios del Cabildo. Era rico, y no tenía preocupaciones materiales. Tenía en casa un criado que cuidaba de él y de su familia, y que tenía que despertarle cada mañana, porque le costaba dejar las sábanas. A veces debía insistir dos y tres veces - lo dice él mismo - para que se levantara... En cuanto a la comida, tampoco tenía problemas, porque en la cocina de su casa se confeccionaban buenos manjares, como era propio de su acomodada familia. Una vez que regresó de París, del Seminario de San Sulpicio, ordenó y reguló el funcionamiento de la vida familiar, y dada su formación y su temperamento, seguro que impuso un reglamento muy exigente para su quehacer diario y el de sus hermanos.

2. Convivir con los maestros - Pero en 1680 y 1681, la responsabilidad que adquirió sobre los maestros que había buscado Adrián Niel, y que eran poco disciplinados, le forzó a ser más exigente consigo mismo. En 1680 los llevó a comer a su casa; en 1681 los llevó a vivir con él; y en 1682 pasó a convivir con ellos en la casa alquilada en la Calle Nueva. Este nuevo modo de vivir, con los maestros y con sus tres hermanos, le obligó a replantearse sus costumbres. Al principio, parece ser, que, cuando todavía estaban en la calle de Santa Margarita, a él y a sus hermanos le servían unos manjares distintos que a los maestros. Pero luego, al vivir junto a los maestros, ya sin sus hermanos, esto no pudo durar. En efecto, en julio de 1681 el Consejo de familia le había separado ya de dos de sus hermanos, Pedro y Juan Remigio, pues Juan Luis no aceptó separarse de él. A finales de 1681 y comienzos de 1682 ocurrió que algunos maestros se desanimaron y a otros hubo que despedirlos; pero la Providencia envió a otros que tenían buenas disposiciones para ser maestros y para la convivencia. No habían pasado muchos meses cuando aquellos nuevos maestros —más numerosos de los que se


Retazos lasalianos

563

habían marchado—, se habían imbuido ya del estilo de enseñar que, con Juan Bautista, habían iniciado los anteriores, y que les había parecido demasiado exigentes. Estos nuevos maestros estaban persuadidos de que su tarea consistía en enseñar a los niños pobres. El mismo Juan Bautista se lo había inculcado. 3. Las dos palancas de la conversión - De aquí surgieron las dos palancas que al excelente siervo de Dios que era Juan Bautista le llevaron a dar un paso adelante; un paso que supuso una conversión radical de su existencia tranquila y acomodada, que hubiera podido quedarse ya instalada en la «buena vida» para lo sucesivo. La primera palanca fue la vida de comunidad con aquellos maestros, que habían sido capaces, en muy poco tiempo, de asumir el ideal de la obra de Dios a través de la escuela, y habían introducido en el modo de enseñar unos cambios muy importantes, casi radicales, que hacían que sus escuelas, hasta entonces tradicionales, se fueran perfilando día a día como «escuelas cristianas». Por servir a la escuela cristiana ellos vivían juntos, renunciaban a la ganancia personal, y llevaban una disciplina en su comportamiento... Juan Bautista estaba al frente de ellos, y tenía que acomodarse a su modo y ritmo de vida... ¡Cuántos sacrificios le supuso cumplir el reglamento que con ellos había elaborado! ¡Cuántos esfuerzos acomodarse a su alimentación, que a veces le repugnaba! Y dicen los biógrafos que su lucha llegaba, a veces, a tomar de nuevo lo que su estómago no admitía... Y que el camino por donde había pasado se conocía por los vómitos que en él se encontraban... ¡Y qué sacrificios para estar siempre con ellos, a pesar del poco tiempo que le dejaban sus obligaciones de canónigo! Era un vencimiento constante, que culminó con una profunda conversión. Pero no fue menos importante, para su conversión, la segunda palanca, que fue el trato con los pobres. ¿Cómo ocurrió esta conversión? Pues muy sencillo: aquellos maestros, que ya atendían a los niños pobres, se atrevieron a decirle que si él quería dedicarse, como ellos a las escuelas cristianas, no podía hacerlo si primero no se hacía pobre. «Usted tiene una canonjía y bienes patrimoniales... Nosotros, en cambio no tenemos nada, y si un día fallan las escuelas, ¿qué será de nosotros? Nosotros somos pobres, y precisamente por ello podemos acercarnos a los niños pobres...». No son las palabras textuales que le dijeron, pero equivalen al razonamiento que hicieron... Venían a decirle: «usted no puede acercarse a los pobres mientras no se haga pobre...» Estas palabras fueron como un latigazo que le obligaron a replantearse toda la vida que llevaba... Se retiró a hacer un retiro él solo... Luego, en un viaje que tuvo que hacer a París, consultó con el padre Barré, que le aconsejó que tenía que utilizar aquellas dos palancas: la vida comunitaria —tiene que vivir con los maestros—, y la pobreza —tiene que dejar la canonjía y desprenderse de todas las riquezas, dárselas a los pobres y luego encomendarse a la Providencia. 4. La conversión - Cuando Juan Bautista regresó a Reims, ya había resuelto en su interior la auténtica conversión: tenía que vivir con los maestros y como ellos; tenía


564

José María Valladolid

que dejar la canonjía y los bienes patrimoniales... Y aquella conversión fue el inicio de su santidad, la que le permitió ser pobre para evangelizar a los pobres, y la que le enseñó a vivir en absoluta austeridad, buscando y abrazando las limitaciones de la vida, en la convivencia, en el trabajo, en sus proyectos, en la entrega a los demás. Con esas dos palancas, la vida de comunidad y la pobreza, Juan Bautista realizó su profunda conversión y quedó totalmente liberado para realizar la obras que Dios le pedía, para ser el fundador de las Escuelas Cristianas, para ser el promotor de una nueva familia religiosa en la Iglesia y para ser, en definitiva, santo. Y, ¡oh Providencia!, habían sido aquellos pobres maestros el instrumento de que Dios se valió para promover tal maravilla en el alma escogida de La Salle.

¿Cuánto tiempo duró el voto heroico de 1691? [38]

U

no de los hechos mejor conocidos en la vida del santo Fundador es lo referente al llamado Voto heroico, que hizo con los Hermanos Nicolás Vuyart y Gabriel Drolin el 21 de noviembre de 1691. Siempre nos ha llamado la atención la radicalidad de este voto. Los Hermanos que convivieron con ellos no lo conocieron, y sólo se enteraron cuando lo vieron relatado en la biografía del santo escrita por Blain; es decir, después de 1733. El mismo Blain lo desconocía, y supo de él después que el Hermano Gabriel Drolin regresó de Roma, en 1728, y se lo mostró al Hermano Timoteo, Superior General. Él lo había conservado cuidadosamente como testimonio de un compromiso que le ligaba de por vida con el Instituto. Afortunadamente conservamos la fórmula del voto, porque tuvo la precaución de no entregárselo a Blain, pues lo habríamos perdido como otros muchos documentos que se prestaron al biógrafo. Sin duda Blain se enteró de ello a través del Hermano Timoteo, y el Hermano Gabriel le permitió copiarlo para incluirlo en la biografía del fundador. Pero ya a estas alturas, cabe preguntarnos ¿cuándo se pudo considerar como cumplido este voto? Tratemos de respondernos acudiendo a la fórmula del voto y las circunstancias que estaba viviendo la Sociedad.. La fórmula del voto dice así: «Santísima Trinidad... Nos consagramos enteramente a Vos para procurar con todas nuestras fuerzas y con todos nuestros cuidados el establecimiento de la Sociedad de las Escuelas Cristianas del modo que nos parezca más agradable a Vos y más ventajoso para dicha Sociedad...Y a este fin yo, Juan Bautista de La Salle, sacerdote; yo, Nicolás Vuyart, y yo, Gabriel Drolin, desde ahora y para siempre, y hasta el último que sobreviva, o hasta la completa consumación del establecimiento de dicha Sociedad, hacemos voto de asociación y de unión, para procurar y mantener dicho establecimiento, sin podernos marchar, incluso si no quedáramos más


Retazos lasalianos

565

que nosotros tres en dicha Sociedad, y aunque nos viéramos obligados a pedir limosna y a vivir de solo pan. En vista de lo cual, prometemos hacer unánimemente y de común acuerdo todo lo que creamos, en conciencia y sin ninguna consideración humana, que es de mayor bien para dicha sociedad... Hecho en...» En la intención de los tres interesados está claro que se comprometían de por vida y sin limitar la duración del voto. Sin embargo, al decir en la fórmula «o hasta la completa consumación del establecimiento de dicha Sociedad, cabe preguntarnos si alguna vez el Instituto llegó a esa «completa consumación» en vida de los tres firmantes. Pero hay otras pistas que pueden ilustrarnos. La decisión de emitir ese voto partió de Juan Bautista de La Salle en 1691, al salir de una enfermedad que le puso al borde de la muerte. Y Blain dice que «si hubiese muerto en aquella ocasión, la Sociedad hubiera sido sepultada con él». En efecto, durante su convalecencia reflexionó mucho sobre el porvenir de la Sociedad, y llegó a varias conclusiones. Una de ellas fue que tenía que comprometer en el desarrollo de la Sociedad a algunos de sus compañeros. Veía que la sociedad no estaba plenamente establecida porque quienes tenían votos sólo lo habían emitido por tres años. Ningún Hermano estaba comprometido «por toda la vida». Al comprometer a dos de sus discípulos «de por vida» reconocía dos cosas. La primera, que la Sociedad no había llegado aún a un desarrollo satisfactorio, ya que no había nadie con votos perpetuos; y lo segundo, que la Sociedad alcanzaría su consumación cuando hubiera un número suficiente de miembros comprometidos con ella por toda la vida. En la mente de Juan Bautista este paso estaba previsto, pero en aquel momento no era la hora. Por eso la fórmula del voto alude a la «completa consumación», es decir, al momento en que la Sociedad descansara sobre un número suficiente de miembros totalmente comprometidos, por toda la vida, con la finalidad de la Sociedad. En la asamblea de 1686, doce Hermanos habían hecho voto de asociación y de obediencia por un año, que en realidad era por tres, porque los votos se renovaban anualmente, pero por tres años. Aquellos fueron los primeros votos, pero eran temporales... El Voto heroico, en cambio, era, simplemente un voto de asociación, pero sin límite, hasta que pudiera considerarse que la Sociedad estaba afianzada con seguridad. Si este momento no se hubiera alcanzado nunca, la validez del voto hubiera valido hasta la muerte de las tres personas que lo emitieron. Pero, ¿pudo considerarse alguna vez que la Sociedad estaba realmente consolidada, o «completamente consumada»? Creo que Juan Bautista pensó que la Sociedad había asegurado su existencia el día en que los Hermanos emitieron por primera vez los votos perpetuos, y esto ocurrió el 6 de junio de 1694, al final de la asamblea que en el Instituto se ha considerado desde aquel momento como el primer Capítulo General. Al día siguiente, 7 de junio, los Hermanos eligieron como superior a Juan Bautista de la Salle, y elaboraron el acta en que se decía que en el futuro no habría


566

José María Valladolid

ningún superior que no fuese Hermano, y elegido por los Hermanos. Era la mejor prueba de una Sociedad consolidada. Por eso me atrevería a decir que en aquel momento los tres firmantes del voto heroico pudieron considerar como cumplido su compromiso. Es cierto que entre los Hermanos que emitieron votos perpetuos hubo deserciones. El mismo Hermano Nicolás Vuyart, y el Visitador, Hermano Ponce, abandonaron la Sociedad. Pero otros les reemplazaron y, año tras año, se fueron sumando nuevos Hermanos que emitían los votos perpetuos. Pero el gesto de los tres miembros de la Sociedad que se atrevieron a dar el paso de la consagración definitiva, perpetua, sirvió para consolidar un Instituto que se estaba formando y todavía no había llegado a su «completa consumación». Acabemos con una circunstancia curiosa. Blain nos dice, cuando habla de la salida de Nicolás Vuyart, que tuvo el cuidado de pedir la dispensa de sus votos. En aquella época, puesto que se trataba de votos privados, no públicos, la dispensa la podía conceder el confesor. Fue dispensado de los votos de asociación y de obediencia. Nada se dice del «voto heroico», pues Blain, desconocía su existencia. Pero además, si es cierta mi conjetura, Nicolás Vuyart, cuando salió, podía haber pensado que, a pesar de su deserción, la Sociedad estaba plenamente consumada, y por lo tanto su voto heroico ya había terminado. A pesar de estas reflexiones, sea o no realidad que este voto terminó en algún momento, lo que sí es magníficamente aleccionador para todos los Hermanos que Juan Bautista de La Salle, Nicolás Vuyart y Gabriel Drolin, en un momento en que la Sociedad no había llegado a su madurez, comprometieran toda su vida para lograr que aquella obra, que era de Dios, llegara a su plenitud.

Para convocar el Capítulo general de 1717, ¿era necesario que alguien recorriera todas las comunidades? [39]

1.

Cuando La Salle regresó a París - Una circunstancia llamativa en la vida del santo Fundador es que lograra que los Hermanos acordaran convocar el segundo Capítulo General, el de 1717, mediante la visita personal del Hermano Bartolomé a todas las comunidades. Dice Blain que cuando La Salle llegó a París, desde su «escondite» del sur de Francia, el 10 de agosto de 1714, en la casa de la calle de la Baroullière había una persona, que no residía en la casa, el abate Brou, a quien los Hermanos llamaban «superior». Este sacerdote, algunos meses antes, había pedido a los Hermanos que su título fuera reconocido de manera práctica por los Hermanos, mediante una acta que se pusiera en el registro de la casa. Y el Hermano Bartolomé, director del noviciado,


Retazos lasalianos

567

que de hecho era tenido por el sustituto del señor De La Salle, accedió a ello. Este abate Brou era el emisario del párroco de San Sulpicio, el señor de La Chétardie. Éste había fallecido el 29 de junio de 1714, antes de la llegada de La Salle, pero seguía visitando la comunidad y aplicando el pensamiento del citado párroco. Ambos habían sintonizado perfectamente, y el abate trataba de gobernar la casa de los Hermanos según los criterios del fallecido señor párroco. En principio, él decidía quiénes eran admitidos o despedidos en el noviciado, y era también quien daba los permisos para desplazarse e incluso para salir de casa. Algún tiempo después de llegar el Fundador tuvo un conflicto con él, pues mediante una memoria que elaboró, preguntó a La Salle, con orden de que le contestara por escrito, quién tenía que mandar en el Instituto. Las preguntas estaban formuladas de tal modo que eran una trampa, que el Fundador no podía responder. El abate Brou, a quien La Chétardie entregaba el dinero que correspondía a los Hermanos que daban clase, dejó de pasarlo a la comunidad, y dijo que no daría ni un céntimo hasta que La Salle respondiera a su memoria. Los Hermanos sufrieron una pobreza terrible por algún tiempo, pues carecían de fondos para comprar provisiones. Al final, quienes dieron la respuesta fueron los mismos Hermanos, y el abate no tuvo más remedio que aceptarla; y hubo de soltar el dinero. 2. El noviciado vuelve a San Yon - Cuando en 1715 La Salle vio necesario que el noviciado volviera a San Yon, el abate Brou pensó que él tenía que autorizarlo, hasta el punto que permitió que fueran a Ruán el Hermano Bartolomé con los pocos novicios que qujedaban; pero no se lo permitió al señor De La Salle, que aceptó la decisión y se quedó en París. Menos mal que los Hermanos, también en esta ocasión, le hicieron ver al abate la arbitrariedad de su decisión, y ponderaron la virtud del santo, que se sometía a su decisión. El abate Brou recapacitó y autorizó a Juan Bautista que se trasladara a San Yon. Juan Bautista fue a Ruán en noviembre de 1715, y desde entonces ya se quedó a residir allí. Todas estas situaciones, que parecen de poca importancia, incidían en una de las pretensiones del abate Brou y de lo que había ocurrido en el Instituto durante la ausencia de La Salle; y esto iba a condicionar también la celebración del Capítulo General. Conviene echar una mirada a estas circunstancias. 3. Las razones para celebrar un Capítulo General - La Salle tuvo siempre la preocupación de solucionar de forma clara y definitiva el gobierno de la Sociedad primero, en 1686, y luego del Instituto, desde 1694. Desde que regresó a París y vio lo que ocurría allí con el «autonombrado» superior eclesiástico, la necesidad de solucionar este punto era un pensamiento casi obsesivo. Blain da a entender que habló de este asunto en varias ocasiones, pero sobre todo, cuando se trasladó a San Yon. Trató de convencer a los directores de la zona de lo importante que era elegir cuanto antes un sucesor suyo. Dice Blain que estos directores de Ruán llegaron a convencerse de la necesidad de esa elección. Pero yo creo que las razones que apunta el biógrafo no son las más


568

José María Valladolid

importantes que aportó el santo. En efecto, él habla de la salud delicada y de la avanzada edad, lo que era cierto. Sin embargo, las razones más profundas serían las que trataban de solucionar el problema de los superiores eclesiásticos que habían sido nombrados en diversas casas del Instituto; y la necesidad de reforzar los vínculos y la unión entre todas las comunidades, que se había visto mermada por el afán de separar a las casas unas de otras. Blain no podía aludir a estas razones en su biografía, pues él era el superior eclesiástico de los Hermanos de Ruán y se veía implicado en la situación. 4. Razones para enviar a un Hermano a las comunidades - Pues bien, Juan Bautista De La Salle, después he haberse reunido en varias ocasiones con los Hermanos, llegó a la conclusión de que la forma de proceder a la elección de un Superior que le sucediera, era convocar un Capítulo General con ese fin. Pero aquí venía la dificultad: ¿estarían todos los Hermanos de acuerdo?, ¿habría alguna casa que se opondría?, ¿los superiores eclesiásticos lo consentirían? En el tiempo pasado hubo Hermanos que se rebelaron contra el fundador, y también contra el Hermano Bartolomé durante el tiempo que le reemplazó. ¿Se habrían sosegado los ánimos? ¿Cuál era, por ejemplo, la situación de Mende, donde los dos Hermanos habían creado una especie de cisma con el resto del Instituto? ¿Y los nombrados superiores eclesiásticos, ¿se avendrían a abandonar su cago y su autoridad? Éstas eran las dificultades reales que movieron a aquellos Hermanos directores a tomar la decisión, en el mes de noviembre, de enviar a un Hermano que pasara por todas las comunidades y recabara el consentimiento de todos y cada uno de los Hermanos. Los Hermanos reunidos en Ruán, y que tomaron esta decisión, fueron Dositeo, director de Ruán, Ambrosio, encargado de los reclusos de San Yon, Francisco, director de San Yon, Esteban, educador, Carlos y Bartolomé, director del noviciado. Delegaron para este viaje en el Hermano Bartolomé, y en el acta que hicieron, el fundador escribió: «Me parece oportuno lo que los Hermanos han resuelto», y firmó. También el superior eclesiástico, que era Blain, como ya dijimos, añadió: «Permito al H. Bartolomé... lo que los Hermanos han juzgado necesario, que yo también, como ellos, considero necesario». Después de elaborar este sencillo documento, tuvieron cuidado de darle valor y acudieron, para que lo autenticasen, a los notarios Luce y Sanadón, de Ruán. 5. El viaje del Hermano Bartolomé - El H. Bartolomé comenzó el viaje el 6 de diciembre de 1716 y lo terminó el 7 de mayo de 1717, cuando regresó a San Yon. Él era quien mejor podía explicar todo lo ocurrido durane la ausencia del fundador, y exponer las terribles presiones que había sufrido para invitar a los directores a que pidieran a sus respectivos obispos el nombramiento de un superior eclesiástico. Podría también informar sobre el revuelo que se levantó en muchas casas y en numerosos Hermanos, que escribieron a Juan Bautista, con la esperanza de que le llegasen las cartas, porque no sabían exactamente dónde estaba.


Retazos lasalianos

569

Conocemos perfectamente el itinerario que siguió el Hno. Bartolomé, pues se conservan en los Archivos del Instituto las actas levantadas en cada casa, con la fecha y la firma de todos los Hermanos. Pero lo que no sabemos son las explicaciones que dio para convencer a todos de la necesidad de celebrar el Capítulo. 6. El Capítulo General - El caso es que el 16 de mayo de 1717, domingo de Pentecostés, se comenzó la asamblea, con dieciséis directores presentes. Uno de cada comunidad, menos los de Moulins, Mende, Les Vans, Marsella, Dijón y Troyes, porque sólo había dos Hermanos en esos lugares, y no podían dejar la escuela. Juan Bautista no quiso presidir la asamblea ni asistir a ella. El martes, 18 de mayo, fue elegido Superior General el Hno. Bartolomé. El día 23 de mayo, fiesta de la Santísima Trinidad, los Hermanos capitulares cerraron la asamblea con la renovación de los votos. Previamente, el día 22, se eligieron dos Asistentes que ayudaran al Hno. Bartolomé en sus funciones. El Capítulo encomendó al fundador la revisión de las Reglas y de la Guía de las Escuelas, y él lo hizo en los meses que siguieron. 7. Consecuencias para el Instituto - La consecuencia de la elección de un Superior General era, de forma inmediata, doble. Por un lado, quedaba patente que todas las casas formaban el Instituto, y ninguna se separaba de las demás: se salvaguardaba la unidad. Y por otro lado, los directores eclesiásticos se fueron dando cuenta de que su misión había terminado, y que el Superior General lo era para todas las casas: su autoridad estaba por encima de la que ellos ostentaban. Poco a poco se fueron retirando, pues ya no había razón para que se inmiscuyeran en la marcha del Instituto. Juan Bautista de La Salle pudo descansar tranquilo, pues había terminado el largo tormento, comenzado en 1702, que le causaron quienes querían alejarle de París con el fin de meterse a gobernar a los Hermanos. La confianza del santo en la Providencia había triunfado.

Relación de La Salle con los párrocos de San Sulpicio [40]

D

esde que La Salle llegó a París, el 24 de febrero de 1688 hasta su salida definitiva a San Yon, en noviembre de 1715, tuvo que relacionarse con cuatro párrocos de San Sulpicio: La Barmondière, Baudrand, La Chétardie y Languet de Gergy. Salvo este último, los demás le plantearon serios problemas. 1. Claude Bottu de La Barmondière - En 1683 La Salle viajó a París y se entrevistó con este párroco, que había sido profesor suyo cuando estudió en la Sorbona. La Barmondière se interesó por el trabajo que La Salle hacía con las escuelas en Reims y le pidió algunos Hermanos. Juan Bautista se los prometió, sin fijar fecha,


570

José María Valladolid

pero como señal de que cumpliría su palabra dejó en la casa del párroco el hatillo de ropa que llevaba. Tardó cinco años en cumplir su palabra, pues Juan Bautista, con dos Hermanos, llegaron a París, a la parroquia de San Sulpicio, el martes 24 de febrero de 1688. Después de saludar al párroco, se alojaron en el piso alto de la escuela, en la calle de la Princesa. Los Hermanos encontraron muchas dificultades en su trabajo, pues el director de la escuela era el abate Compagnon, y se encontraron con un taller de tejidos y ningún orden en la enseñanza. La escuela no funcionaba. Antes de Pascua, que fue el 18 de abril, el párroco visitó la escuela con el abate Le Mettais. Notó el desorden y La Salle le manifestó la insuficiencia de maestros. En abril encomiendó la dirección de la escuela de la calle de la Princesa a La Salle y Compagnon quedó apartado, lo que le molestó bastante y despertó su envidia hacia La Salle. Por eso, Compagnon levantó una calumnia contra él en una reunión de damas de la parroquia. Todos le creyeron, incluido La Barmondière, y desde entonces se enfrió la relación de éste con La Salle, hasta el punto de que pensó en despedirle, a él y a los dos Hermanos. Esto se lo comentó el vicario, que era Baudrand, a La Salle, y se ofreció a acompañarles para despedirse del párroco. En septiembre, Juan Bautista y los Hermanos, recogidas sus cosas, fueron con Baudrand a despedirse del párroco, pero éste, que había recapacitado y sospechaba de la calumnia, le dijo al santo que esperasen, que tenía que pensarlo. Baudrand, al acompañarles a la puerta, comentó a La Salle: «Dice que va a pensarlo, eso quiere decir que pasarán años...» La Barmondière: cesó como párroco de San Sulpicio el 7 de enero de 1689. Así pues, el tiempo que La Salle se relacionó con este párroco ni siquiera fue de un año. 2. Henri Baudrand de la Combe (1637-1699) - Le sucedió su vicario, que tomó posesión de la parroquia el 7 de enero de 1689. Había sido confesor del santo en el año anterior y apreciaba al fundador y a los Hermanos. Por eso le propuso abrir una segunda escuela, en la calle du Bac, que comenzó a funcionar en 1790. En este mismo año de 1790 surgió el primer conflicto serio: la cuestión del hábito de los Hermanos. El párroco deseaba que vistieran como los sacerdotes, y el H. director se lo comunicó a Juan Bautista, quien viajó de Reims a París. Después de hablar con el párroco, escribió el «Memorial sobre el hábito». Lo sometió al criterio de diversas personas de autoridad y le recomendaron que no lo cambiase. El párroco tuvo que aceptar las razones que Juan Bautista daba en su escrito. En diciembre de 1790 La Salle fue a Reims y cayó enfermo. Fue en esta ocasión cuando le quiso visitar su abuela en su habitación, y él no lo consintió. En París había dejado como director de la comunidad al Hermano Enrique L’Heureux. Cuando Juan Bautista estaba aún convaleciente le avisaron desde París de que el Hermano Enrique estaba a punto de morir. Viajó a pié a París y cuando llegó, en los primeros días de enero de 1791, el Hermano ya estaba enterrado. Baudrad celebró por él un funeral y un entierro solemnes. Días después La Salle viajó de nuevo a Reims, y regresó a París. Llegó muy cansa-


Retazos lasalianos

571

do y se le declaró una retención de orina que le puso al borde de la muerte. El párroco Baudrad le administró la extremaunción. Pero se curó gracias al remedio que le proporcionó el doctor Helvecio. Durante la convalecencia adoptó una serie de decisiones para dar más vigor al Instituto. Una de esas decisiones fue buscar una casa que favoreciera la salud de los Hermanos, y el párroco Baudrand se lo aprobó. Así vino el alquiler de Vaugirard, casa muy pobre, pero con jardín. En ella pudo reunir a todos los Hemanos y hacer un retiro muy serio, lo que renovó el fervor de todos ellos. Otra decisión fue abrir un noviciado, y aquí surgió el segundo conflicto serio con el párroco, pues éste no quería el noviciado, pensando que los gastos de los novicios los tendría que pagar él. La Salle inició una etapa de durísimas penitencias para que Dios cambiara el ánimo de Baudrand. Y lo consiguió, pues gracias a diversas circunstancias e mediaciones, el noviciado se abrió el 1 de noviembre de 1692. Pero el párroco, al ver que Juan Bautista había triunfado, le tachó de testarudo y su afecto hacia él cambió bastante, hasta el punto de que en diversas ocasiones retuvo el dinero que tenía que dar a los Hermanos que enseñaban en las escuelas. Esto originó gran penuria para los Hermanos, especialmente en los años del hambre, 1694 y 1695, en que se vieron forzados a pedir limosna, por medio del Hermano encargado de la despensa. Baudrand presentó su dimisión en febrero de 1696. 3. Joaquín Trotti de la Chétardie - Fue el tercer párroco con quien se relacionó La Salle. Tomó posesión de la parroquia el 13 de febrero de 1696. Al principio sentía gran afecto a La Salle, pero después se convirtió en su «adversario», convencido de que La Salle no valía para gobernar el Instituto; y pretendía, de mil maneras, inmiscuirse en los asuntos internos, cosa que el fundador nunca le consintió. Su cambio de actitud se remonta al año 1702. Y ocurrió como sigue. En 1700 sugirió a La Salle que abriera la Escuela Dominical, para jóvenes trabajadores menores de 20 años. Pero la escuela, después de funcionar con éxito durante casi dos ños, se tuvo que cerrar, a causa de la deserción de los dos Hermanos que la atendían. La Chétardie achacó a La Salle la culpa del cierre, y desde ese momento pretendió imponer sus criterios para el gobierno del Instituto. Se agravó la situación cuando en 1702, dos novicios fueron duramente castigados por los dos directores: el H. Miguel, del noviciado y el H. Poncio, de las escuelas. Fueron a quejarse al párroco, que consideró que eran consignas dadas por La Salle. La Chétardie, con las declaraciones de los castigados elaboró una Memoria que presentó al Cardenal de Noailles, proponiéndole que La Salle fuera relevado como superior. El cardenal, muy extrañado, ordenó a su Vicario General que hiciera una visita de inspección a la casa de los Hermanos, y como resultado nombró un nuevo superior, el abate Bricot, a quien los Hermanos se negaron a aceptar. A duras penas se avinieron los Hermanos a un arreglo, por el cual consiguieron que les dejaran a La Salle como superior efectivo, y Bricot lo lo fuera sólo en el título. El párroco no se lo perdonó a Juan Bautista, pues había quedado desautorizado ante el cardenal, y


572

José María Valladolid

desde este momento se opuso frontalmente a cuanto realizaba el santo, hasta el punto de que éste tuvo que cambiar de residencia, procurando estar lejos del párroco para no perjudicar a las escuelas ni a los Hermanos. Todo esto ocurrió en noviembre y diciembre de 1702. Aunque el superior propuesto por el cardenal no ejerció como superior, de hecho, el párroco se las arregló para tener siempre algún emisario suyo en la comunidad de Hermanos. Con el tiempo, en 1713, lo fue el abate Brou, que en cierta ocasión pidió que a los Hermanos le reconocieran oficialmente el título de superior. En este tiempo también se enconaron las persecuciones de los maestros de escuelas menores y de los calígrafos contra las Escuelas Cristianas, sin que el párroco las defendiera; y, al contrario, en ocasiones alentando, activa o pasivamente, a los perseguidores. Por lo cual, La Salle, en 1705, optó por retirarse a Ruán y trasladar el Noviciado a San Yon, a las afueras de esa ciudad. En 1706, como continuaban las agresiones de los maestros a los Hermanos y a las escuelas, La Salle, desde Ruán, tuvo que cerrar, durante tres meses, las escuelas de París, hasta que el párroco se comprometió a defender las escuelas. En 1709, a causa de la carestía en Ruán, La Salle hubo de llevar de nuevo el noviciado a París, y residieron en la misma comunidad de los Hermanos, que estaba en la parroquia de San Sulpicio. Con este traslado resurgió la animosidad contra La Salle. Mientras tanto, desde 1708, comenzó el asunto del abate Clément, que quería establecer con La Salle una escuela para formar maestros. En 1711 La Salle realizó una visita de las casas del Sur de Francia, y tuvo que interrumpirla a causa de las malas noticias que le llegaban sobre el proceso Clément. Este pleito lo había interpuesto la familia Clément contra La Salle. Durante el mismo, todas las personas que tenían que defenderle, le traicionaron. La sentencia del proceso estaba prevista para febrero y mayo de 1712. Al no tener otra solución, Juan Bautista prefirió alejarse de París, convencido que de esa manera sus enemigos se calmarían. Y, en efecto, salió de París hacia el sur de Francia el 18 de febrero de 1712. Desde esta fecha hasta el 10 de agosto de 1714, cuando regresó el santo, sustituyó al fundador, sin tener un encargo expreso, el Hermano Bartolomé. Juan Bautista se quedó en el Sur de Francia hasta que los Hermanos directores de las casas de París le mandaron, por carta fechada el 1 de abril de 1714, que regresara para hacerse cargo del gobierno del Instituto. El párroco Joaquín Trotti de la Chétardie falleció el 29 de junio de 1714. Juan Bautista de La Salle llegó a París el 10 de agosto de 1714. El emisario del párroco, el abate Brou, se había autonombrado superior de la casa y ejercía su autoridad en todo lo que afectaba a la comunidad de Hermanos. 4. José Languet de Gergy - Vicario de La Chétardie, le sucedió como párroco de San Sulpicio en julio de 1714. Siendo Vicario, fue el responsable de elaborar el listado de pobres de la parroquia, pero el santo tuvo poca relación con él debido a su traslado a San Yon.


RivLas 78 (2011) 3, 573-580

CRONACHE LASALLIANE

El Premio Nobel a Mario Vargas Llosa antiguo alumno de La Salle Carta del Hno Álvaro Rodríguez Echeverría, Superior general FSC, al Premio Nobel 2010 de Literatura Mario Vargas Llosa, antiguo alumno de los colegios La Salle en Cochabamba y en Lima (cf. RL 2011, 1, p.112). Apreciado Señor Mario Vargas Llosa: Reciba mi cordial saludo y felicitación desde Roma por la concesión del Premio Nobel de Literatura en este año 2010. Es un merecido reconocimiento al trabajo, esfuerzo y creatividad con que usted ha vivido el “arte de escribir” y la noble profesión de ser “portador de ideas y ficciones” a través de sus numerosas obras y artículos literarios, en este mundo necesitado de referencias. Me hago portador del sentir de multitud Hermanos y lasalianos de todas las latitudes del mundo que me han expresado, en diversos mensajes y comunicaciones, su agrado y satisfacción por la cercanía de su persona a nuestra Institución y por el emocionado recuerdo a sus educadores lasalianos. Quiero agradecer sus sentidas palabras de evocación y reconocimiento a su querida escuela de La Salle de Cochabamba, donde usted se educó, y hacia el buen H. Justiniano, quien le encaminó en el sendero de las letras y la lectura, de un modo tan particular. Su gesto de aprecio a nuestra Institución Lasaliana ha calado hondamente en nuestros corazones. Nos hemos sentido aludidos y emocionados con su discurso de aceptación del Premio Nobel de Literatura. Un texto pleno de lucidez y compromiso que ayudará a multitud de generaciones de jóvenes a encontrar en la lectura y en las grandes obras de los autores consagrados un sentido y una afición para sus vidas. Usted lo ha expresado maravillosamente con este tinte entrañable y personal que acompañan todas sus obras. Los educadores tenemos en su discurso “una carta de navegación” una vasta cartografía geográfica y sentimental para ejemplificar nuestras enseñanzas. Nuestros jóvenes tienen en sus palabras atinados consejos para adentrarse en ese fantástico mundo de la literatura, pero también para asumir en sus vidas incipientes -como muy bien Usted nos recuerda en el discurso- “el heroísmo y ía épica para vencer definitivamente en todos los países el fanatismo y las dictaduras, el terrorismo y el nihilismo que son las peores amenazas de nuestra civilización”.


574

Cronache lasalliane

El ejemplo de su vida, comprometida en la lucha por la libertad, ía convivencia pacífica, el pluralismo y los derechos humanos, nos alienta a seguir educando a nuestros alumnos en estos valores esenciales e irrenunciables. Con ese sano orgullo de “sentirle lasaliano”, queremos respaldar su proyecto. Le aseguramos que nuestros centros escolares serán plataforma para hacer viable cuanto usted nos recomienda en su conferencia. Sr. Vargas Llosa, reciba nuestro respeto y admiración por su trayectoria literaria y artística, unido al afecto entrañable que esta Institución de los Hermanos de las Escuelas Cristianas le profesa. Cordialmente le saluda Roma, 14 de diciembre de 2010. Hno Alvaro Rodríguez Echeverría, FSC

Lima, 24 de enero de 2011 Estimado Hermano Álvaro Rodríguez Echeverría: Mucho le agradezco su cariñosa carta, que sólo ahora puedo contestar por la abrumadora correspondencia y por los múltiples compromisos a los que he debido hacer frente por la concesión del Premio Nobel. Sus líneas me conmovieron profundamente y me recordaron los años felices de mi infancia, en Cochabamba y en Lima, que pasé en los colegios de La Salle de ambas ciudades. Fue un acto de justicia recordar al Hermano Justiniano, un hombre sabio y santo, que me enseñó a leer y gracias a ello, me abrió las puertas maravillosas de los libros y sus aventuras interminables. Me alegra mucho que mi palabras de gratitud hacia el colegio de La Salle hayan llegado hasta quienes, en la Institución de los Hermanos de las Escuelas Cristianas, dedican su vida a una vocación tan admirable. Estoy seguro que muchos miles de antiguos lasallistas tienen el mismo recuerdo agradecido y nostálgico de su paso por el Colegio de La Salle. Reciba un cordial saludo de Mario Vargas Llosa

Vers un catalogue mondial des manuels scolaires FSC Fr. Paul Aubin, canadien, travaille depuis de longues années, pour compte de la Bibliothèque de l’Université de Laval au Québec, à la réalisation d’un Catalogue des manuels scolaires édités par les FSC depuis l’origine de leur Institut dans les différents pays. Il nous envoie ce premier bilan de ses enquêtes. Nous signalons entre autres l’étude qu’il a publiée chez nous Per una storia del manuale scolastico. Il caso tipico dei FSC canadesi nell’OttoNovecento, in «Rivista lasalliana» 75 (2008) 4, 435-452 (ndr). Chers confrères1, Vous m’avez tous, d’une façon ou d’une autre, aidé dans le projet


Cronache lasalliane

575

de constitution d’un catalogue des manuels scolaires publiés par les Frères des écoles chrétiennes depuis la fondation de l’institut. Comme je viens de franchir une étape importante dans cette compilation, j’ai pensé que la meilleure façon de vous exprimer ma reconnaissance était de dresser un bilan de ce qui a été réalisé, en bonne partie grâce à votre aide, et de vous en faire part.

Nature du projet - Le projet avait - et a toujours - comme but de dresser un inventaire le plus exhaustif possible des manuels scolaires publiés par les FSC dans le monde. On entendra par manuel scolaire les imprimés publiés par les FSC, soit à titre d’auteurs soit à titre d’éditeurs et destinés aux élèves pour leur faciliter l’acquisition et la compréhension des connaissances dispensées en classe; les «livres du maître» qui sont leur complément obligatoire sont également inclus dans le projet. Je n’ai pris en compte, habituellement, que les manuels dont j’ai vu un exemplaire, oubliant volontairement ceux mentionnés dans des dizaines de listes mais dont il ne semble pas subsister de témoins ou dont la description soulève des doutes. J’ai aussi consulté les catalogues en ligne des principales bibliothèques nationales qui offrent ce service, soit, en ce qui nous concerne, le Canada/Québec, la France, la Belgique et l’Argentine; j’y ai glané des centaines de références de manuels que je n’ai pas vus mais le professionnalisme de ces institutions est une garantie de l’exactitude des informations qu’elles nous fournissent. Un grand nombre de références inscrites au catalogue sont en fait des réimpressions mais il faut tenir compte de ce facteur extrêmement important dans la perspective de l’analyse de cette masse documentaire. Par contre, ont été systématiquement omis tous les autres imprimés publiés par les frères qui ne répondaient pas aux deux critères, soit imprimés destinés aux enfants pour l’apprentissage en milieu scolaire. Ne font donc pas partie de cet inventaire les publications de littérature pieuse sous toutes formes (hormis les catéchismes qui sont un des symboles des manuels scolaires), la littérature générale, les travaux pédagogiques dont le lectorat visé se retrouve dans les universités, les publications destinées aux frères dans l’accomplissement de leurs tâches, etc. Étapes - Ce projet est né d’un autre projet entrepris lorsque je me suis retrouvé à la retraite, soit produire un site internet sur les manuels scolaires québécois (tous éditeurs confondus et pas seulement les FSC) et dans lequel la pièce maîtresse serait le catalogue des manuels québécois. Ce projet, toujours en voie de réalisation, offre, entre autres avenues de recherche, un catalogue en ligne de 25 000 titres2. 1 Ce document a été expédié (mars 2011) aux confrères suivants: Hno Santiago Rodriguez Mancini (Argentine), F. Jean-Pierre Van de Put (Belgique), Hno Francisco Cilleruelo (Espagne), FF. Alain Houry et Francis Ricousse (France), F. Flavio Pajer et Gabriele Pomatto (Italie). Copie conforme expédiée à: Hno Álvaro Rodríguez Echeverría, sup. gén.; F. Fernand Lambert visiteur du district du Canada francophone, et aux Frères visiteurs de France, de Belgique, d’Italie et d’Espagne. 2 On peut le consulter à l’adresse url: http://www.bibl.ulaval.ca/ress/manscol


576

Cronache lasalliane

Pour le catalogue qui nous concerne, j’ai d’abord commencé par les manuels publiés au Canada/Québec, il va de soi. J’ai ensuite pu dépouiller sur place les collections de France, de Belgique, d’Italie, d’Espagne et, tout récemment, j’ai profité d’une invitation de la Biblioteca nacional de maestros d’Argentine pour faire l’inventaire de la collection conservée Via Monte, Buenos Aires. Aux collections de ces cinq pays, il faut ajouter le dépouillement de la collection conservée à la Bibliothèque de Via Aurelia, Rome, qui a permis d’ajouter des recensions de nombreux autres pays.

État actuel du catalogue - On peut consulter le résultat du travail en cours en cliquant sur «diaspora» dans le site dont l’adresse url est signalée en note. Le dernier versement porte le compte à 19 823 manuels publiés par les FSC un peu partout dans le monde, soit 37 pays dans l’état actuel des connaissances. Les plus productifs ont été l’Espagne (7755), la France (5088), le Canada/Québec (2257), la Belgique (1863), l’Argentine (1109) et l’Italie (904). Il va de soi qu’il s’agit des pays qui furent les gros producteurs et qui, de plus, sont ceux pour lesquels j’ai pu faire l’inventaire des collections sur place. A titre d’exemple, avant de voir la collection de Buenos Aires, le site recensait une centaine de titres publiés par les confrères d’Argentine - manuels repérés dans les collections de France, d’Espagne et de Via Aurelia - alors que l’inventaire fait sur place a permis de multiplier ce chiffre par dix; il y a donc forcément des pays sous-représentés. Pour ce qui est de la langue, l’espagnol vient en tête de liste avec 8266 titres, suivi par le français (8030), le catalan (1025), l’italien (891), le flamand (576) et l’anglais (537). La dynamique des manuels scolaires repose essentiellement sur les disciplines; à cet effet, on peut interroger le catalogue par l’une ou l’autre des 140 et quelques disciplines dans lesquelles se répartissent nos productions. Le catalogue permet également de faire des recherches par année ou par périodes plus étendues. Ainsi, par exemple, j’ai recensé 177 manuels durant la décennie 1850, 673 durant la décennie 1900 et 1419 durant la décennie 1950.

Étape suivante - Dans son état actuel, le catalogue illustre à la fois l’importance de la production des FSC dans ces instruments de travail que sont les manuels et la pérennité de son action: si dans certains pays on a cessé tout récemment d’éditer des manuels (l’Espagne en 2001), ailleurs - l’Argentine pour n’en nommer qu’un - on continue toujours. Cependant, le catalogue pourrait servir de tremplin à des analyses beaucoup plus poussées. Il n’est pas inutile de rappeler que nous avons été, pendant plus de deux siècles, la principale multinationale au monde dans le domaine de la pédagogie scolaire. Notre action a été centrée sur l’implantation et le développement des écoles depuis la France jusqu’en Extrême-Orient. Pour remplir la mission que nous nous sommes donnée, nous avons formé des dizaines de milliers de professeurs, soit dans nos rangs, soit chez les laïcs rejoints à la fois par le biais de nos écoles normales ou par association dans nos écoles. A partir de méthodes


Cronache lasalliane

577

pédagogiques qui nous étaient propres ou que nous avons adaptées à notre vision de l’école, nous avons tenté d’initier des centaines de milliers de jeunes aux valeurs chrétiennes par le truchement de l’enseignement, toutes disciplines confondues. Or, le manuel scolaire demeure le principal témoin de cette activité et pourrait devenir un extraordinaire champ d’analyse de notre influence pédagogique et idéologique dans le monde pendant deux siècles. Non seulement pourrait-on y voir l’évolution de la pratique pédagogique - il y a loin entre les exercices sur les quatre opérations de calcul des années 1850 et les manuels récents en mathématique - mais aussi, certains diront surtout, on pourrait, par leur truchement, analyser la vision humaniste et chrétienne qu’on y retrouve, soit directement dans les catéchismes et dernièrement dans les manuels de «culture religieuse», soit en filigrane dans tous les autres. De plus, et entre ici en ligne de compte l’universalité de notre présence, on pourrait analyser le transfert d’un pays à un autre à la fois des méthodes pédagogiques dont les manuels témoignent et des valeurs communes à l’humanité qu’ils présentent. Lorsqu’ils émigrent - à partir de la France d’abord et ensuite à partir de d’autres pays - les Frères emportent dans leurs bagages des manuels de leur pays d’origine avant d’en produire de nouveaux plus adaptés au nouveau champ d’apostolat. A titre d’exemple, les Devoirs du chrétien ont connu plus de soixante rééditions au Québec. Autre exemple: pendant un certain temps la Procure de rue de Sèvres a imprimé des manuels en espagnol pour la péninsule ibérique et certains de ces manuels se sont ensuite retrouvés en Amérique latine. Mais surtout, et le présent catalogue en témoigne éloquemment, les FSC sont devenus auteurs et éditeurs de manuels dans des dizaines de pays. Il y aurait donc lieu de lancer un vaste programme de recherche autour de l’édition du manuel scolaire par notre Institut. Cette opération pourrait s’amorcer simultanément sur deux fronts: à la fois par des études par pays et par une première vue d’ensemble de l’action de l’institut dans ce champ d’activité, cette dernière opération serait forcément incomplète à ce stade-ci mais permettrait d’ouvrir des pistes de recherche. Depuis une vingtaine d’années, le monde de la recherche universitaire, tout au moins en Occident, s’est ouvert à l’histoire du manuel scolaire dans pratiquement tous les pays où nous oeuvrons; il y a là un bassin de collaborateurs qui ne demanderaient pas mieux que de participer à des projets communs si on en prenait l’initiative, car un tel projet aurait des retombées très intéressantes pour l’histoire de l’éducation et de l’édition dans chaque pays concerné.

Diffusion de l’information - Le site assure déjà une première forme de diffusion. De plus, j’ai eu l’occasion de participer, depuis plusieurs années, à plusieurs congrès internationaux où j’ai présenté certains aspects de notre production. Ainsi, tout récemment, j’ai exposé aux professionnels de la Biblioteca nacional de maestros d’Argentine - la production des FSC dans le monde hispanophone et tout particulièrement en Amérique latine (voir le site: http://www.bnm.me.gov.ar/novedades/?p=1041).


578

Cronache lasalliane

Notre production commence donc à être connue dans le monde de la recherche. Mais qu’en est-il des Frères? Deux questions se posent ici: 1) Y a-t-il intérêt à faire connaître cette production à l’ensemble des Frères? 2) Si la réponse est positive, quel serait le meilleur médium? Et encore une fois, chers Confrères, merci de l’aide que vous m’avez apportée jusqu’ici et sur laquelle je sais pouvoir compter si le projet connaît encore quelque développement sous quelque forme que ce soit. Frère Paul Aubin

L’anniversario di due riviste lasalliane Sul finire del 2010 ha celebrato il proprio 25° il bimestrale Sussidi per la catechesi - Seconda serie. In realtà la rivista è nata 75 anni fa, nel 1936, a Torino, fondata da fr. A. Luigi Trisoglio, come “foglio interno di animazione per la riflessione e il catechismo”, e diventata dal 1942 la rivista mensile della Commissione catechistica lasalliana, e come tale diffusa a livello nazionale per la formazione dei catechisti parrocchiali e degli insegnanti di religione nelle scuole, anche pubbliche. Accanto alla rivista si sviluppò l’omonima editrice, che nell’arco di un trentennio pubblicò oltre un centinaio di titoli distribuiti tra saggi di pedagogia pastorale, testi scolastici, materiali didattici. Il declino della rivista e dell’editrice si avvertì, paradossalmente, mentre prendeva avvio, in Italia come in tutta la chiesa, la grande stagione postconciliare del rinnovamento della catechesi. Cessava le sue pubblicazioni nel 1977 con la morte del direttore fr Agilberto Gatti (cf. Rivista lasalliana 2011, 1, 145160). Ma dopo qualche anno di interruzione, fr. Mario Presciuttini, a Roma, diede una seconda vita al periodico instradandolo sulla scia delle applicazioni dei “nuovi catechismi” nazionali che nel frattempo erano stati sperimentati ed editi dalla Conferenza episcopale italiana. L’attuale direttore fr Gabriele Di Giovanni, nella giornata di studio organizzata in occasione del 25°, ha affermato che in questa seconda serie «Sussidi ha accolto esperienze collegate alla catechesi parrocchiale, alla pastorale dei piccoli gruppi impegnati, una certa attenzione al mondo adulto, una attenzione verso l’educazione alla giustizia e alla realtà multiculturale che stiamo vivendo. Nel tempo ha preso sempre più consistenza l’esigenza di offrire una formazione un po’ più solida ad un personale docente che progressivamente svestiva i panni del Fratello per prendere quelli del laico cristiano impegnato. Così da una decina di anni Sussidi ha una prima parte dedicata ai temi della formazione e una seconda parte di contributi didattico/ esperienziali. Da qualche anno la rivista pubblica anche un inserto monotematico, generalmente apprezzato, nell’intento di offrire ulteriori occasioni di formazione, nonché spunti per dialogare con i giovani.» (in La proposta religiosa della scuola cattolica lasalliana tra passato e futuro. Atti della giornata di studio, speciale di Sussidi n. 3, maggio-giugno 2011, pp. 64, qui p. 14). Il fasci-


Cronache lasalliane

579

colo speciale riporta i testi integrali delle relazioni di G. Di Giovanni, D.Biju-Duval, S.Lanza, e gli interventi di S. Currò, J.M.Pérez Navarro e E. Sommadossi in Tavola rotonda. Anche la rivista quadrimestrale iberoamericana di Pedagogia della religione Sinite, edita a Madrid da “La Salle Centro Universitario – Área de Ciencias de la Religión”, ha celebrato nel 2010 il suo giubileo. Riprendiamo dal settimanale di informazione Vida nueva la scheda di presentazione del numero commemorativo 154155 della stessa rivista. «Sinite celebró en diciembre su cincuentenario y, con tal motivo, ha publicado un numero especial (doble) donde, de la mano de Teódulo García Regidor y José Ma Pérez Navarro, directores en distintas etapas, recuerda el camino recorrido. La veterana cabecera editada por La Salle se detiene aquí en tres temas siempre presentes en sus páginas a lo largo de este tiempo: la escuela cristiana, la enseñanza religiosa escolar y la catequesis. Del futuro de la primera, y de los interrogantes que se le plantean, habla en su articulo el superior general de los Hermanos de las escuelas cristianas, Álvaro Rodríguez Echeverría. A la enseñanza religiosa escolar en el último medio siglo dedican los suyos el profesor lasaliano Flavio Pajer (en Europa) y el director de Religión y Escuela, Carlos Esteban (en España), mientras que Rafael Artacho, profesor de la Complutense, presenta las fortalezas y debilidades de la materia en el marco educativo actual y futuro. Por su parte, el salesiano Álvaro Ginel, director de Catequistas, rememora “una década crucial” (los 70) para la catequesis en España; análisis que se completa con los “nuevos ritmos en catequesis” que propone el profesor jesuita André Fossion del Centro internacional ‘Lumen Vitae’ de Bruxelles. En suma, mas de 400 paginas para homenajear a la revista que, junto al Instituto Superior de Ciencias Religiosas y Catequéticas ‘San Pío X’, es todo un referente de la pedagogía religiosa en España. (R.C, Vida nueva, 4-8 de enero de 2011, p. 49).

Guillermo Dañino Ribatto, FSC promotore della cultura cinese in Occidente Fratel Guillermo Dañino Ribatto (n. a Trujillo, Perú, 1929, ma vanta anche lontane origini genovesi) è stato di recente decorato dall’ambasciatore del Perù in Cina con l’“Ordine al Merito del Servizio Diplomatico José Gregorio Paz Soldán” con il grado di Commendatore, a motivo dell’alto contributo che il religioso peruviano ha dato alla conoscenza e alla diffusione degli studi orientali nel mondo occidentale, specialmente ispanofono, e per aver collaborato a stringere rapporti accademici tra l’Università del Perù e quelle della Cina. Entrato da giovane nel noviziato lasalliano di Arequipa, studente di filosofia e teologia alla Pontificia Università cattolica del


580

Cronache lasalliane

Perú, completò gli studi di linguistica alla Sorbona di Parigi. Verso la fine degli anni ‘70, venne richiesto dalle autorità cinesi come professore di letteratura e linguistica nelle Università di Pechino e Nanchino. Durante la sua residenza più che trentennale in Cina, ha maturato il suo talento di scrittore, di traduttore dal cinese allo spagnolo, e persino di attore cinematografico. Come scrittore ha al suo attivo una ventina di opere, tra cui romanzi, racconti cinesi, poesie3. Come traduttore ha introdotto per il grande pubblico e per le scuole del continente sudamericano alcuni grandi capolavori della narrativa, della poesia e della mitologia cinese. Ha pubblicato articoli nella prestigiosa rivista colombiana di poesia Arquitrave, in China Hoy (Pechino) e in programmi speciali di Radio Sol Armonia di Lima. L’editrice Hyperion ha pubblicato in Spagna varie sue traduzioni di poesia cinese classica. Le sue edizioni bilingui hanno il pregio di presentare l’originale cinese trascritto in caratteri moderni e con la lettura in pinyin a piè di pagina. La colonia cinese del Perù lo ha onorato del titolo di Cinese honoris causa. Come attore, fr. Dañino ha partecipato a una trentina di pellicole4, cortometraggi e documentari relativi alla storia e alla cultura cinese, nonché a programmi televisivi delle reti cinesi. Ha impersonato via via ruoli e figure come quella del presidente della Associazione mondiale di scherma, della Associazione italiana dei paracadutisti, del missionario francese, dell’istruttore di piloti d’aviazione, del capomafia, del poliziotto; si è prestato a fare il Matteo Ricci in un documentario, e l’ambasciatore degli Stati Uniti nella Repubblica Popolare in un film … - Mi sono innamorato della Cina a motivo della sua gente, della sua cultura, delle sue filosofie – ha detto nella conferenza pronunciata all’Istituto Cervantes di Pechino dopo aver ricevuto l’onorificenza. Confessa, ora ottantaduenne, di sentirsi al tempo stesso cattolico e taoista, dopo che per anni, oltre ad aver insegnato cultura occidentale in Cina, ha insegnato taoismo, semiotica, filosofia e letteratura cinese alla Pontificia Università Cattolica del Perú.

Alcuni titoli tra altri: Desde China. Un país fascinante y misterioso, ed. Universidad Católica del Perú, Lima 1990 (22002); Esculpiendo Dragones, 2 tomos, ibid, 1996 (è la prima grande antologia in spagnolo della Letteratura cinese); Cuentos chinos, 2 vol., Lluvia editores, Lima 1999; La abeja diligente. Mil proverbios chinos, ed. Bruño, Lima 2000; La Danza de las Cometas. Cuarenta cuentos chinos, Breña, 2001; Bosque de Pinceles. Poemas de Tu Fu, ed. Universidad Católica, Lima 2002; ¿Y ahora quien soy yo? Experiencias de un actor peruano en China, Universidad de San Martín de Porres, Lima 2005; Leyendas del Lago del Oeste, ed. Filarmonía, Lima 2006; El maestro de los cinco sauces. Poemas de Tao Yuanming (antologia), 2007; Trílabus. Juguete literario en la línea de James Yoyce, ed. Bruño, Lima 22010; El Reino del Centro, enciclopedia de la cultura china en español (in edizione simultanea in Perú e in Spagna), 2010. 4 Alcune pellicole cui ha partecipato come attore: Una jóven moderna, 1990; Da jue Zhan, 1993; Negociaciones en Chongqing, 1999. 3


Biblioteca

581

quando ciascuno di essi potrà dire: il discepolo cui ho dato formazione progredisce sulla via del bene; per ottenere questo risultato, sul piatto della bilancia ho posto ogni mia risorsa” (Gandhi). Alestra legge i grandi maestri del passato e del passato prossimo alla luce dei maestri del presente. E il suo viaggio è un invito a ripensare il lavoro educativo e farne un impegno forte e convinto, un impegno tutto proteso alla crescita dell’uomo.

BIBLIOTECA

Alunni e docenti tra scuola e vita Rassegna a cura di Francesco Pistoia Un viaggio nell’educazione: Da Socrate ad Obama1. Impresa difficile. Non per Laura Alestra, pedagogista ed esperta di progetti educativi. La sua antologia presenta brani di maestri dell’educazione con brevi saggi introduttivi e brevi commenti, semplici pensieri, frammenti, versi. E il libro si legge come un racconto. Avvicina ad autori noti e meno noti, di cui si sottolinea l’essenziale. L’Epilogo (che ha per titolo 20 parole di oggi per i viaggi educativi di domani) potrebbe svelare la filosofia, ossia la pedagogia, della nostra Autrice. Leggiamo la voce “Maestro”: “Fare largo al maestro pieno di fede nella sua missione, e che, giorno per giorno, concepisce e riconcepisce il lavoro che dovrà affidare agli scolari. Che una nuova generazione d’insegnanti si levi e si metta all’opera! Il compito sarà esaurito

1 L. Alestra (ed.), Da Socrate a Obama. Il viaggio dell’educazione, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2011, pp. 138.

Bruna Grasselli (Università di Roma Tre) e Chiara Palazzini (Università Lateranense) così presentano Educare: una passione originaria2, che raccoglie scritti in onore di Sira Serenella Macchietti, docente di pedagogia nell’Università di Siena e presso Istituti superiori di Scienze religiose: ”Questo lavoro nasce dal desiderio di colleghi, amici e allievi, di continuare a dialogare con Serenella Macchietti su temi educativi” di rilevante interesse. L’illustre studiosa, che ha dedicato la vita agli studi pedagogici, pone l’uomo al centro dell’azione educativa e mira all’educazione integrale della persona. Caratterizza la sua ricerca e il suo impegno l’attenzione alla spiritualità educativa, alla ricerca di uno stile educativo, alla valenza educativa dell’insegnamento della religione cattolica. Temi che sono illustrati da Lanza, Curatola, Chang, Mazzarello, Asolan, Moretti, Palazzini, Grasselli, esponenti della cultura pedagogica contemporanea. Da queste pagine emerge la figura di una protagonista del dibattito che nel corso degli anni ha interessato la scuola e anche il mondo della comunicazione suscitando pressanti domande di natura etica e sul senso dell’agire umano.

B. Grasselli, C. Palazzini (edd.), Educare:una passione originaria. Scritti in onore di Sira Serenella Macchietti, Stampa: Przemyslaw Hausen, Poznan 2010, pp. 120.

2


582

Biblioteca

di vignette da Giovanni Beduschi e Athos Careghi, attrae col suo procedere allegro, che allegro non è: è un grido, una denuncia, un manifesto. In Italia “ci sono 734 corsi di laurea con meno di 10 iscritti”. Ci sono discipline che servono solo a moltiplicare le cattedre (p.47). C’è appesantimento burocratico, disaffezione, e ci sono libri in buona parte inutili. Don Mazzi ricorre alla parola dei ragazzi, dei genitori, degli insegnanti; ricorda soprattutto educatori e maestri veri. Il senso profondo del suo lavoro – questo libro e altri libri – potrebbe essere espresso in sintesi così: “A scuola va il ragazzo intero: corpo intelligenza cuore sentimenti. Non esiste la scuola del cervello, delle nozioni, delle promozioni ma la scuola della crescita armonica, di tutta la persona” (p.79). E don Mazzi accenna a una scuola ideale, invita a costruire una scuola che sia davvero strumento di educazione integrale.

La scuola “narrata”. Un fenomeno che non è di oggi. Forse risale a Cuore o forse ai molteplici “ricordi di scuola” di tanti noti scrittori. Starnone e Mastrocola (che però si ripetono), in ogni caso, insegnano. Non tutti i titoli è possibile passare in rassegna: citiamo Cuanta pasión! di Giulia Alberico, I liceali di Elena e Daniele, diari (della II B e della II A); citiamo soprattutto il romanzo di Alessandro D’Avenia, Bianca come il latte rossa come il sangue, coronato da successo di vendita, ma non dall’entusiasmo dei critici. I tre libri mondadoriani raccontano avventure di vita scolastica, spesso effimere, intrise di sentimenti e sogni. Il linguaggio giovanile è forse all’origine del successo, ma non agevola la formulazione di un giudizio. Rivolgiamo piuttosto l’ attenzione al genere narrativo-saggistico, che permette di cogliere momenti di un qualche interesse. Si racconta, si discute, si fa umorismo, si esprimono pareri. Si addita alla gente di buon senso una situazione, una vicenda. E nel discorso, quasi sempre intriso di amarezza, c’è sempre un filo di speranza. La scuola educa alla speranza. Ecco Di squola, si muore?! Lo scrive don Antonio Mazzi3 con la sua scrittura pungente e riflessiva, carica di sapienza e di tranquillo spirito polemico. Don Mazzi, sacerdote dell’Opera don Calabria, non è solo il benemerito fondatore e conduttore di Exodus, che con le sue strutture in Italia e nel mondo mira a liberare tanti giovani dalla droga, dal disagio, dall’ emarginazione . E’ anche giornalista, impegnato in quotidiani, periodici e reti televisive: impegnato a educare, prevenire, seminare parole di vita. E’ anche scrittore di pagine godibili e significative (si pensi a Come rovinare un figlio in dieci mosse o a Come salvare un figlio dopo averlo rovinato). Il “racconto” che si segnala, arricchito

Scrive Emiliano Sbaraglia4 nella dedica: “Questo libro è dedicato a tutti gli studenti a cui ho fatto supplenza, anche solo per un’ora”. Incipit: “Dopo la tesi di laurea l’estate passa in fretta, e ai primi di settembre inizio il giro delle scuole munito di tutta la documentazione necessaria per accedere alle graduatorie: stavo entrando nella grande famiglia degli insegnanti precari, e mai avrei pensato che dieci anni dopo ne avrei fatto ancora parte”. Sbaraglia, dottore di ricerca in letteratura italiana, pubblicista, attento studioso dei fenomeni socio-culturali del Novecento. Forse soprattutto scrittore: una prosa semplice, tutta dialogo; storie vivaci attraversate da malinconia, riflessioni, riferimenti al tempo presente sempre carico di preoccupazioni. In questo romanzo, dedicato agli studenti, Sbaraglia è professore (precario) di italiano e latino. Vive

3 A. Mazzi, Di squola, si muore?!, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009, pp. 112.

4 E. Sbaraglia, La scuola siamo noi, Fanucci, Roma 2009, pp. 184.


Biblioteca

per intero e con dignità i problemi di cui è sempre carico il precariato, nonostante momenti vivaci e anche sorprendenti. La scuola, i giovani, i docenti, i presidi, i bidelli. Alunni scontrosi, ribelli, non interessati allo studio; alunni educati, bravi, assetati di novità. Innamoramenti, fidanzamenti, sogni, aspirazioni. Gite e passeggiate scolastiche, visite guidate, esami, commissioni, incontri coi genitori. Famiglie in frantumi. E poi graduatorie, supplenze, attese, scioperi, stress. Il professore pare non perdersi d’animo, affronta ogni situazione con impegno. Conversa con gli alunni, dei quali cerca di catturare e mantenere viva l’attenzione con agganci all’attualità, agganci necessari quando si insegna latino o greco. Ed ecco il discorso sui gay, sui transessuali, sugli scandali. Peccato che questi riferimenti all’attualità non siano occasioni di attualizzazione del mondo latino. E portino invece a parlare con una certa superficialità di papa Ratzinger e del crimen sollicitationis, del viaggio apostolico in Africa e dell’aids… Gianni Conti è un fine letterato. Nelle sue pagine, terse e godibili, c’è storia, creatività, psicologia. E’ professore, conosce la scuola e va oltre la scuola (come ogni buon educatore), conosce il mondo giovanile e ne scruta segreti, misteri, immaturità, tensioni. Il romanzo Il professore5 è vero. Vero nel senso che rispecchia tanta parte della vita e della scuola dei nostri giorni: si respira nel leggerlo aria fresca. Si coglie il senso del presente che si consuma come attesa del futuro. Ma quando il protagonista della vicenda narrata, insegnante bravo e consapevole, giunto a una certa età, quando ci si contorce in una crisi inevitabile (e tuttavia gestibile), approda su lidi non ben definibiG. Conti, Il professore, Polistampa, Firenze 2007, pp. 192.

583

li, intrisi di erotismo e di attimi anche scabrosi, che coinvolgono le giovani alunne, quelle pagine terse e godibili si trasformano in pagine faticose e finiscono col trasmettere un senso di pesantezza e di fastidio. “Novecento letterario” è una fortunata iniziativa della milanese Isbn Edizioni: ospita classici contemporanei (Oreste del Buono, Massimo Bontempelli, Domenico Rea, Riccardo Bacchelli…) sulle cui opere, attentamente vagliate, richiama l’attenzione delle nuove generazioni. E il romanzo di Angelo Fiore (1908-1986) Il supplente6 è davvero un gioiello: Giorgio Barberi Squarotti e Geno Pampaloni lo dicono a chiare lettere nei due brevi saggi che fanno da postfazione. Scrive Pampaloni, convinto suo sostenitore: “Angelo Fiore mi fu presentato da Mario Luzi e Romano Bilenchi, che gli avevano pubblicato, presso Lerici, un volume di racconti. Da Vallecchi gli pubblicai il primo romanzo nel 1964, e da allora la mia stima per lui è andata crescendo. La sua opera ha avuto qualche premio, qualche buona recensione, una scarsa eco…” (p.252). Riportare l’autore nello scenario letterario significa riconsiderarne la statura. Palermitano, insegnante negli istituti tecnici, amante delle lettere e riflessivo, Fiore si rispecchia ne Il supplente, che narra vita e disavventure di Attilio Forra, supplente d’inglese in un paesino di Sicilia, che lo rifiuta. Nel romanzo c’è la scuola, ma c’è soprattutto la società. La scuola coi suoi problemi e con la sua povertà e una comunità fatta di elementi diffidenti e meschini. Profilo di una vita interiore; biografia di un uomo che soffre: solitudine, malintesi, incomprensione. Non ci si soffermi tuttavia alle traversie del personaggio. Lo si segua nel suo percorso interiore, pieno di riflessioni: “Ho notato che un contrattempo, un urto,

5

6

A. Fiore, Il supplente, Isbn Ed., Milano 2010, pp. 256.


584

una causa qualunque di eccitazione e d’irritazione momentaneamente ridanno vigore ai nervi e scioltezza alle membra. E io cerco codeste cause, finanche nella memoria, esumando motivi e pretesti di sdegno, d’ira, di lotta” (p.151). Un supplente? Un supplente, un uomo, un mondo.

Biblioteca

degli altri, evidenzia storture del nostro ordinamento. Sviluppa a più riprese un discorso ampio sul rapporto scuola-politica, che si trasforma in discorso sui tempi scolastici, sulle vacanze, sulla settimana corta, sui viaggi d’istruzione, sui libri di testo, sugli esami, sulla valutazione, sugli scrutini… e sulle riforme annunziate e mai realizzate, sul reclutamento degli insegnanti e dei presidi, sui concorsi e sui corsi di aggiornamento… e sulla demagogia di politici, di partiti, di movimenti sindacali. Il Cremaschi fa riferimento ad articoli di esperti, a dati statistici, a diretta esperienza. E tutto questo dovrebbe bastare. Dovrebbe: ma non è così. Su singoli temi egli è in grado di suggerire e formulare proposte credibili. Sulla scuola nel suo complesso e nel suo rapporto con la società riesce difficile seguirlo: non si può parlare dei mali della scuola prescindendo dai mali della società (eppure la stessa Piemme pubblica, nel 2009, l’indagine di Carmelo Abbate e Sandro Mangiaterra su L’onorata società. Dal commercio alla sanità, dai trasporti alle professioni, caste e baroni dell’”Italia che lavora”); ma il tormentato tema del rapporto scuola-società (per scuola si intende anche l’università) è solo occasionalmente accennato. Peccato. Ma succede quando il discorso non è esente da riferimenti a uomini e cose che non suscitano gradimento, da risentimenti, da toni polemici.

E c’è altro. C’è Malascuola7. Titolo completo: Malascuola. Ovvero: se io fossi il ministro dell’Istruzione raddoppierei lo stipendio agli insegnanti (e altri rimedi meno piacevoli). Non ci si lasci impressionare dal titolo, che esprime condanna, e nemmeno dalla prima parte del sottotitolo, che non esprime allegria. Il senso del libro sta forse nella parentesi del sottotitolo. L’autore è Claudio Cremaschi, nato a Bergamo nel 1947 da madre insegnante e da padre insegnante e impegnato in politica. Tutta la sua vita è impregnata di cultura scolastica: scolaro, studente, docente, autore di libri per la scuola, sindacalista. Malascuola è una denunzia forte, ma anche un messaggio degno di attenzione. Cremaschi conosce tutto della scuola italiana: strutture, organismi, docenti, alunni, personale Ata, orari. Conosce i problemi degli insegnanti e le loro difficoltà economiche, le esigenze delle famiglie, il mondo dei giovani. Sa dell’esistenza di professori distratti e demotivati e di professori che amano la scuola e la cultura, i giovani e il lavoro educativo. Sull’insegnamento del latino e della matematica e sull’insegnamento alternativo a quello della religione Cremaschi dice parole anche amare, ma volte a sottolineare diritti e aspettative degli alunni, alla cui crescita umana le istituzioni educative dovrebbero dedicare impegno e risorse. Parla da professore e da sindacalista: condanna gli sprechi, che sono elevati anche nell’ambito scolastico. Analizza situazioni, legge la realtà scolastica

Il pianeta scuola è ricco di sorprese. Ci duole accennare a sorprese negative. Ce le riserva la scuola al più alto grado: ché è scuola, è istituzione educativa, anche l’università. Non entriamo nel merito di Parentopoli 8, indagine condotta da Nino Luca, giornalista del Corriere e di altre testate, impegnato in inchieste difficili, che conduce in spirito di adesione alla Costituzione.

C. Cremaschi, Malascuola, Piemme, Milano 2009, pp. 304.

8 N. Luca, Parentopoli, Marsilio, Venezia 2009, pp. 318.

7


Biblioteca

Quando l’università è affare di famiglia (sottotitolo del libro), quando ci si trova di fronte a fenomeni abnormi, quando si assiste impotenti a scenografie allestite da potenti e ci si ricorda dei precari delle scuole medie, sottoposti a concorsoni, corsi di abilitazione e di aggiornamento, a ore di lavoro malpagato, ci si domanda: e il compito nobile (la missione) dell’insegnante ha ancora uno spazio? Nino Luca forse non si meraviglia; preferisce ricordare il quadro tracciato 80 anni fa da un ministro della pubblica istruzione: in Parlamento “parlava di commissioni pilotate, favoritismi e logiche spartitorie nel sistema di selezione”. Diceva Benedetto Croce: “C’è persino, tra i professori universitari, qualcuno che si vanta di possedere la più esatta pianta morale e psicologica dei vari interessi individuali e di scuola degli insegnanti universitari, e di sapere come si debba formare, caso per caso, una commissione per far prevalere tale o tal altro candidato…” (p. 13). L’entusiasmo di Tullio De Mauro o di Benedetta Tobagi per La scuola è di tutti 9 è un po’ esagerato, ma in buona parte comprensibile. Docente, scrittore, giornalista, Girolamo De Michele (Taranto, 1961), residente e in servizio a Ferrara, scrive pagine che coinvolgono: stile brillante, discorso scorrevole, argomentazione vivace. Soprattutto sincerità sino al coraggio: pane al pane, vino al vino. Uomo certamente di sinistra, ma fornito di robusto spirito d’indipendenza. Si leggano i tratti che si riferiscono al ministro Berlinguer: la scuola-azienda è un concetto da dimenticare. Ma a Berlinguer rimprovera pure il compromesso Chiesa-Stato siglato con una politica favorevole, come non era mai accaduto, alle scuole paritarie. Se si parte da qui ci si accorge che, avuto riguardo per uno spirito inquieto e G. De Michele, La scuola è di tutti, Minimum fax, Roma 2010, pp. 334.

9

585

forse ribelle, il libro è tutto impostato su atteggiamenti polemici che non permettono di individuare la linea su cui si vorrebbe “ripensare, costruire e difendere” la scuola italiana (parole nel sottotitolo). De Michele aspira certamente a una scuola seria, che contribuisca in modo efficace a formare l’uomo e il cittadino, una scuola democratica, fondata su e per valori veri. Da qui qualche cenno in positivo al ’68 e un atteggiamento di ripulsa del “mastrocolismo” (Paola Mastrocola, insegnante “di letteratura” e autrice di romanzi d’ambiente scolastico), il “citatismo” (Pietro Citati, critico, campione -nostalgico- di una “scuola lontana”, p. 124), lo “sgarrupatismo” (del maestro Marcello D’Orta, che diffonde “un’immagine falsa e patinata dell’analfabetismo meridionale”, p.125), il “lodolismo” (Marco Lodoli, maestro e scrittore, “coscienza lacerata e infelice”, p.127). Da qui anche il discorso nobile sulla Costituzione, sui diritti dei ragazzi, su don Milani e sui suoi detrattori. La scuola è di tutti è un libro da leggere. Per la passione che lo nutre e per la passione che trasmette. Ma non si può non sottolineare aspetti che lasciano perplessi. E’ sacrosanto il grido contro i tagli delle leggi finanziarie alla scuola, ma appare del tutto superficiale la polemica contro le scuole paritarie, soprattutto quelle gestite da istituzioni religiose, e contro l’insegnamento della religione cattolica di cui l’Autore non coglie l’impianto e la motivazione. Ed ecco due volumi sulla scuola nel ventennio: Dalla scuola fascista alla lotta antifascista 10 e Gli scolari del regime11. Il primo è il frutto di una ricerca condotta dagli alunni del Liceo classico “Romagnosi” di Parma Liceo classico G.D. Romagnosi, Dalla scuola fascista alla lotta antifascista, MUP Monte Università, Parma 2007, pp. 268. 11 G. Paroni, Gli scolari del regime, Kappa Vu, Udine 2007, pp. 222. 10


586

sotto la guida di Cristina Quintavalla, docente di Storia e filosofia; il secondo (che ha per sottotitolo L’ombra del duce sulle scuole di Tavagnacco) documenta il progressivo espandersi della “dottrina” mussoliniana in ambito educativo e scolastico: una “microstoria”, frutto dell’impegno di Guglielmo Paroni, già docente negli istituti udinesi, studioso di storia contemporanea. Due libri per le biblioteche scolastiche. L’uno e l’altro presentano in fotocopia documenti, lettere circolari, pagelle, rapporti polizieschi, delibere municipali, ritagli di giornali, fotografie. Dalla scuola fascista alla lotta antifascista contiene anche una serie di brevi biografie di personaggi che hanno lasciato tracce indelebili nella storia del Novecento (da Pilo Albertelli a don Giuseppe Cavalli) e il Manifesto per la difesa e lo sviluppo della scuola nazionale. Ne Gli scolari del regime si leggono pagine di cronaca e di storia intrise di dolore: da Libro e moschetto (parte prima) a Dall’ impero alla fine della guerra, passando attraverso riti e celebrazioni, canti fascisti, feste (si pensi alla miseria della “Befana fascista”), manifestazioni di massa, opere di indottrinamento, retorica roboante, violenze. Un semplice sguardo ai due libri ti trasporta in un clima, in un mondo, in un’epoca che appare inverosimile. Un’Italia impazzita. Una storia che i giovani ignorano, una storia senza la quale non c’è cultura civica. E non c’è quindi educazione alla solidarietà e alla cittadinanza attiva. Figure di alunni e docenti. Le condizioni della scuola nei tempi tristi. Ragazzi e insegnanti che gridano il loro ideale, che vivono e insegnano a vivere con coerenza. Anche Noi nei lager 12 narra vicende che hanno per protagonisti giovani, professori, uomini di 12 L. Frigerio, Noi nei lager, Paoline Editoriale Libri, Milano 2008, pp. 304.

Biblioteca

lettere. Luca Frigerio, giornalista, presenta una galleria di figure, una serie di testimonianze, documenti anche fotografici che aiutano a ricostruire la dolorosa avventura di 600mila militari italiani che, come scrive nella Prefazione lo storico Alfredo Canavero, “rifiutarono di aderire alla Repubblica sociale italiana e decisero di rimanere nei campi di prigionia tedeschi, dove erano stati deportati” (p.7). Frigerio ricostruisce quindi la storia dei Militari italiani internati, IMI (1943-1945), che è fatta di patimenti, fame, malattie, stenti, violenze, crudeltà, di lavori forzati, di pesanti umiliazioni, di negata assistenza religiosa… Tra i ritratti: Giovannino Guareschi, giornalista e scrittore, Giuseppe Lazzati, docente di letteratura cristiana antica, Vittorio Vialli, fotoreporter, Alberto Trionfi, generale trucidato dalle SS. Le quindici testimonianze sono racconti vivi: i testimoni si raccontano non solo sul filo del ricordo quanto anche con pagine di diario e con riferimento a ricerche effettuate una volta restituiti alla libertà. Un libro da leggere in classe, da cui i ragazzi possono trarre spunti per imparare a fare storia. Anche Storia dell’Azione Cattolica negli anni settanta 13 parla di giovani. L’Associazione, che è stata palestra di educazione religiosa e di impegno sociale e civile, non attraversa un momento felice nell’arco di tempo preso in considerazione: referendum sul divorzio, lacerazioni all’interno del mondo cattolico, terrorismo. I contrasti sono spesso anche oltre misura e oscurano l’impegno di fondo del laicato cattolico che si riconosce nell’AC. Mario Agnes si rivela attento osservatore dei fermenti in atto e li governa con prudenza e cautela. Le pagine del libro documentano tensioni, ansie, volontà di ben operare. E se non lo dicono V. De Marco, Storia dell’Azione Cattolica negli anni Settanta, Città nuova, Roma 2007, pp. 250.

13


Biblioteca

in modo diretto, fanno capire con sufficiente chiarezza che la missione specifica dell’AC è quella educativa: missione sociale, al servizio del prossimo nell’ispirazione e nella luce del Vangelo e del Magistero. Paola Dal Toso, ricercatrice di storia della pedagogia e impegnata in movimenti giovanili, e Ernesto Diaco, insegnante e pubblicista, attivo in organismi educativi e culturali, ripropongono, non a caso, la figura di Mario Fani e di Giovanni Acquaderni14, fondatori della Società della gioventù cattolica italiana. Andare alle radici non nuoce: giova al necessario aggiornamento di strutture e di programmi. Se si legge l’antologia degli scritti di Fani e Acquaderni (in particolare le pagine tratte dai Ricordi ai suoi amici) e delle Lettere e discorsi dei Sommi Pontefici da Pio IX a Leone XIII alla Società della Gioventù Cattolica Italiana dal 1868 al 1879, o altre lettere e testimonianze che il libro regala ai lettori, ci si convince che se non si è sorretti da valori e prospettive coerenti non si costruisce storia. Dal loro insegnamento viene un messaggio anche per il nostro tempo: un laicato che si disperde in mille rivoli perde i giovani, non va lontano, non costruisce futuro. La scuola attraversata da una crisi enorme. Giovani indifferenti, svogliati, senza ideali. Ma c’è gente che ama la scuola, che pensa ai giovani. Il libro di Matteo Lusso e quello di Rita Dietrich ridonano speranza. Lusso, docente nei licei, dopo aver pubblicato Quello che ai genitori non diciamo (Libereedizioni, Brescia 2007), riprende e continua il discorso sui giovani, sulla scuola, sull’educazione. Si muove con slancio e sotto la spinta di un’esperienza viva. Da educatore, da letterato, anche da poeta (è

587

autore delle poesie Non morire dentro, Libereedizioni, Brescia 2008). E Voci dall’aula. I giovani oltre il nichilismo 15, che si affianca a I ragazzi di via Sandri di Pier Luigi Bartolomei e a Un varco nel muro di Ester Capucciati (l’uno e l’altro editi da Ares), è un’espressione di fiducia nei giovani. Non tutto è bullismo, non tutto è droga, non tutto è sesso. La sofferenza dei giovani nasce dalla solitudine. Gli adulti li abbandonano alla solitudine, non comunicano coi giovani, che invece dagli adulti attendono segnali positivi. Lusso riflette su una questione così complessa: “Il nocciolo della questione educativa, a mio parere, sta anzitutto qui: educare è diventata una occupazione ‘professionale’, che riguarda gli educatori, non gli uomini in quanto tali. L’educatore vede una certa situazione in un ambiente frequentato da minori e se ne occupa; l’adulto, invece, la evita, non lo riguarda, se non in quanto possa implicare se stesso o i propri cari” (p.19). Si scivola nel nichilismo man mano che ci si allontana da un impegno che il contesto adulto fa sentire come inutile (p.20). Lusso ha analizzato il mondo dei ragazzi attraverso i loro componimenti (vedi il primo libro), sa che quanto viene dai mass media non è sempre vero o lo è solo in parte, penetra nel profondo delle loro istanze e risale all’ “insopprimibile struttura dell’io”. Un discorso antropologico e spirituale mirato a distruggere l’apatia, a guardare al futuro, a uscire dallo scetticismo, a uscire “a riveder le stelle”. Fede e poesia fanno di tale discorso un invito alla vita. Nel mondo che faremo 16: un seme di speranza. Rita Dietrich, giornalista (“L’Osservatore romano” e altre testate), conduce un’inchiesta attenta su “i giovani e la fede” e ne M. Lusso, Voci dall’aula, Ares, Milano 2010, pp.140, pref. di Luigi Negri, vescovo. 16 R. Dietrich, Nel mondo che faremo, Città nuova, Roma 2008, pp. 212. 15

P. Dal Toso, E. Diaco, Mario Fani e Giovanni Acquaderni. Profilo e scritti dei fondatori dell’Azione Cattolica, Ave, Roma 2008, pp. 240. 14


588

approfondisce non pochi aspetti. Il libro è “dedicato a chi non ha rinunciato a credere”, è un manuale vivo di storia e problematica dei movimenti ecclesiali contemporanei, considerati nel loro complesso ma soprattutto nelle loro dimensioni giovanili: dai Salesiani al Rinnovamento carismatico, dall’Azione Cattolica alla Comunità di Sant’Egidio alla Caritas, dal Sermig al Gam. Comunione e Liberazione, il Movimento di giovani donne “Turris Eburnea”, i Focolarini e il Movimento Gen: tante realtà vengono esplorate e chiarite nella loro genesi e nelle loro finalità. Il movimento di Kiko Arguello e di Carmen Hernández, conosciuto come Cammino neocatecumenale, tanto contrastato e tanto diffuso, fa riferimento a “persone che vogliono riscoprire e vivere pienamente la vita cristiana e le conseguenze del loro battesimo attraverso un neocatecumenato, diviso in differenti tappe, simile a quello della Chiesa primitiva” (p.114). La festa dei giovani, ogni primo maggio, a Loppiano, “città dell’ideale concretizzato” (p. 60), è un inno alla vita: “Loppiano, ben lontano dall’essere un eremo o un centro di spiritualità isolato dal resto del mondo, accoglie anche giovani che hanno trovato nella Mariapoli la loro dimensione personale, dopo aver attraversato diverse controversie esistenziali” (p. 62). La Dietrich dà la parola ai giovani e dai giovani apprendiamo storie e avventure ricche di senso. L’ultimo capitolo, “Come fiumi verso un unico mare”, con lo sguardo alle iniziative del Servizio nazionale per la pastorale giovanile, affronta il tema dell’identità dei singoli gruppi e della loro armonizzazione. Tema non semplice e forse irto di difficoltà e malintesi, ma non lacerante. “Nonostante i movimenti siano dotati di una loro identità marcata, non sono indipendenti dalla Chiesa” e sono incamminati sulla via del dialogo, della collaborazione, delle missioni collettive” (p.201) e della piena integrazione nella realtà della parrocchia e della diocesi.

Biblioteca

Affascinante infine la figura di Gianfranco Polimeno (1937-2006). Ne racconta la vita Bruno Adelco Bordone17, della Congregazione dei Fratelli delle Scuole Cristiane, studioso di storia e pedagogia lasalliana. Una Congregazione ”segnata dal sigillo della santità” (p.5). Il Polimeno, figura di spicco della stessa Congregazione, esalta “la sua vocazione di ‘fratello’ attingendo vigore da un nuovo carisma, quello di Chiara Lubich”: così scrive nella prefazione Álvaro Rodríguez Echeverría, superiore generale dei Lasalliani (p.6). Il Bordone ricostruisce la vita del Fratello attraverso documenti, lettere, testimonianze. Lo presenta alunno delle scuole primarie e medie, frequentate a Parma presso l’Istituto La Salle, lo segue nel percorso liceale; si sofferma sul diplomato (maestro), sullo studente universitario, sul laureato in pedagogia, sullo psicologo, sull’esperto di orientamento professionale, sull’educatore attento ai movimenti sociali e alle inquietudini dei giovani, sul docente di lettere, sul preside, sull’ammalato, il lottatore, l’obbediente. Per Polimeno la scuola è vita, palestra di educazione alla vita, e la vita è tensione a Dio. Il profilo spirituale di Polimeno emerge da ogni gesto, da ogni parola, emerge soprattutto dalla corrispondenza epistolare con Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, tutta impostata sull’ ideale dell’unità. Su due momenti è opportuno richiamare l’attenzione. Primo: in una lettera da Genova del 5 gennaio 1968 confessa alla Lubich: ”Le esprimo quanto desidero essere membro vivo dell’Opera di Maria, proprio perché mi sento tanto ‘sinistrato’ e qui ho trovato la maniera di amare Dio” .”Forse con quel ‘sinistrato’ fr. Gianfranco voleva esprimere il suo coinvolgimento al disagio di tanti giovani Fratelli coinvolti nella contestazione, che portò alcuni in seguito ad 17 B. A. Bordone, Amò sino alla fine, Città nuova, Roma 2008, pp. 146.


Biblioteca

589

abbandonare la congregazione” (p.39). Secondo: scrive nel gennaio 1968: ”Sarei tanto contento che raccomandasse a Dio la mia congregazione, composta esclusivamente di laici”, dediti all’educazione della gioventù e ancora incompresi (p.63). Prima di partire per la Mariapoli celeste fr. Gianfranco ribadisce “Io credo nell’unità” e affida ai religiosi del suo istituto tale ardente messaggio (p.110). Estimatore di Igino Giordani, ne venera la memoria e ne trasmette la passione per il bene. La sua vita è stata un donarsi continuo e incessante, sincero e pieno: ai ragazzi (come non ricordare i chiassosi aspiranti di Azione Cattolica, così pieni di entusiasmo?) e al prossimo attraverso l’opera educativa e l’apostolato. Incrollabile la sua fede, che lo sostiene in ogni circostanza e che nutre la sua azione. Una fede limpida nel Dio della vita e della misericordia. Francesco Pistoia ***

MARIO CHIARAPINI Non date le dimissioni Genitori alle prese con l’educazione dei figli Edizioni Paoline, Milano 2011, pp. 240. E’ un tascabile compatto come una monovolume, ma con tutti gli accessori e gli optional di serie. Certamente non è la macchina illustrata in copertina: vecchia, piena di cose forse inutili, che arranca asmatica e sbilenca verso orizzonti sconosciuti. Edito dalle Paoline nella collana “Aria di famiglia”, sono 240 pagine vaporose organizzate in 39 capitoli e un’appendice dove sono recuperati tre articoli, scritti in altre occasioni, ma adatti al tema. Il linguaggio, più giornalistico che accademico, è agile, divulgativo e accessibile. Scoppiettante per gli argomenti. Urticante per i quesiti. Si rivolge al vasto pubblico

dei genitori alle prese con l’educazione dei figli. Grande problema, grandi difficoltà. Con uno schema lineare il libro offre uno spazio per ragionare sugli argomenti più abituali dell’educazione e da degli input per riflessioni agrodolci. Aiuta anche a riordinare il grande disordine che c’è sull’argomento. Lo stile semplice è godibilissimo, le argomentazioni così attuali da far venire la voglia di leggerlo tutto d’un fiato. L’autore, però, molto saggiamente consiglia di leggere a piccole dosi per non zavorrare i pensieri, e di farlo in luoghi e momenti rilassanti per avere il gusto di un sano “ri-pensamento”con l’aiuto delle brevi ma folgoranti considerazioni di agire e reagire, che accompagnano ogni capitolo. E’ un libro attuale per il tema che tratta: l’emergenza educativa. E’anche un libro controcorrente: dire oggi “non date le dimissioni” è fuor di ogni logica. Tutti sono attaccati alla poltrona anche se in ogni occasione viene strillato, in maniera becera e violenta, di dare le dimissioni. Nelle scorrevoli pagine c’è il profumo di vita vissuta da un educatore che da sempre ha avuto un osservatorio privilegiato, quello della scuola. Ogni giorno, in presa diretta, si è incontrato con i ragazzi e con le loro problematiche. Ha sentito i loro timidi SOS. Ha colto la loro confusione alimentata dal cibo guasto del nostro tempo e ha sperimentato l’impari lotta con i modelli di vita che la seducente tv propone. La tv la gomma da masticare degli occhi. L’autore è Mario Chiarapini, religioso dei Fratelli delle Scuole Cristiane, dirigente scolastico e professore della scuola La Salle di Parma. Esperto di problematiche giovanili e familiari, da tempo esplora nei pensieri e negli umori: è collaboratore di diverse riviste del settore ed ha un certo credito anche come conferenziere. Con questa opera, da educatore sensibile, ha avvertito il bisogno di rivolgere un invito, accorato e discreto ai genitori. Dice loro: per favore, non date le dimissioni.


590

Tanti i motivi per leggerlo. Ve ne elenco, a sensazione, alcuni in rigoroso ... disordine. L’Autore non sale mai in cattedra ma, in punta di piedi e con passione, ci invita a sedere nel banco accanto a lui per regalarci il gusto impagabile della ri-scoperta dell’impegno educativo. Senza fare l’occhietto a facili scorciatoie ci fa capire cose importanti in modo semplice. La bellezza di un fiore dipende anche dal cuore che lo dona. L’emergenza educativa. L’arte di educare è un’arte sublime. I genitori sono i primi educatori dei figli. L’appello è quello dì non abdicare al proprio ruolo e a riscoprirne la bellezza. Un ruolo difficile, oggi, da reinventare, non essendo possibile ripetere i modelli del passato. Un tesoro da gestire con cura per non rischiare di fallire. Mario Chiarapini non è un ingegnere di sogni ma uno che crede nei ruoli e nell’impegno di quello che si fa. Tutto diventa importante se lo si fa con amore. E quindi niente è impossibile, malgrado le difficoltà, le delusioni e le amarezze, a genitori amorevoli e consci, capaci di accendere nei figli l’interesse, le passioni e farli sentire al centro del progetto: magicamente unici, irreperibili. E’ il modo per lanciarli verso alti traguardi nell’amore, nella pazienza e nel dialogo. Questi benedetti ragazzi, storditi da internet, dai cellulari, da un lassismo strisciante, colpiti al cuore dalla decadenza morale, culturale e di ideali sembrano refrattari a qualsiasi stimolo educativo. Eppure, anche se omologati in modo deprimente come irrecuperabili, hanno un confuso desiderio di essere protagonisti della propria vita che bisogna sapere far emergere. Hanno bisogno del profumo pulito di una carezza per fiorire. La strada per diventare adulti non esclude dubbi, è lastricata di fatica, di tanti “no”, di crisi adolescenziali. Tutti sono forniti di ali per volare, ma vola solo chi osa farlo. Osare è da coraggiosi e solo osando si possono realizzare i sogni. I sogni non svaniscono finché le persone non li abbandonano, basta essere

Biblioteca

determinati a perseguirli. Molti adolescenti oggi non si sentono spinti a camminare da soli. A rischiare, a provare emozioni, responsabilità. L’azione insostituibile della famiglia e della scuola possono far raggiungere gli obiettivi di qualità. Educare significa sacrificarsi, testimoniando con la vita quanto si intende trasmettere. In ogni capitolo, l’Autore usa un tono discorsivo, propositivo senza nessuna concessione allo scoramento. Le argomentazioni che fornisce profumano di speranza e di visioni ottimistiche. Non dice che le stelle sono morte solo perché il cielo è nuvoloso. Cerca anche, sommessamente, di suggerire dei possibili rimedi. Consigli pratici di buon senso, pillole di saggezza che costringono comunque a riflettere e a lavorare sul modo di comportarsi dei genitori e degli educatori. Urge un orizzonte più ampio per sguardi non atrofizzati. Questo libro ha un grande merito: quello di costringerti a pensare. La mente è come un paracadute: funziona solo se si apre. Lorenzo Filippi

PAOLO BIANCHINI (ed.) Le origini delle materie Discipline, programmi e manuali scolastici in Italia Sei, Torino 2010, pp. 257. Storia, geografia, latino, pedagogia e tutte le altre materie insegnate tradizionalmente nelle nostre scuole: come sono nate queste discipline? Come si sono evolute nel corso del tempo? Quando hanno assunto il loro profilo attuale? Il libro parte proprio da queste domande e ricostruisce i passaggi più significativi della storia di alcune di queste materie, analizzando molte fonti come manuali scolastici, dibattiti tra insegnanti e scienziati, programmi, leggi e regolamenti e utilizzando non solo metodi qualitativi, ma anche innovative metodologie informatiche,


Biblioteca

come software per il trattamento automatico lessicale e testuale. Ne risulta una storia vivida, vista dall’interno delle classi, nella loro applicazione quotidiana, che non sempre coincide con quella ricostruita esclusivamente attraverso le fonti ufficiali, come le leggi e i curricula o in relazione con lo sviluppo della ricerca a livello scientifico e accademico, ma che è probabilmente più realistica e senz’altro più facile da apprezzare anche dai non addetti ai lavori. Che è anche la storia del sorgere di un’unità e di una identità nazionale che nasce primariamente proprio fra i banchi di scuola, dalla condivisione di un sapere diffuso e di quegli strumenti, i libri, che ne veicolavano i contenuti.

MARIO GECCHELE PAOLA DAL TOSO (edd.) Educazione democratica per una pace giusta Armando editore, Roma 2010, pp. 192. Il presente volume, “provocato” da un convegno in onore del prof. Emilio Butturini tenutosi presso l’Università di Verona nel novembre 2009, oltre ad accogliere le relazioni proposte in quell’occasione, si è aperto ad altre testimonianze e riflessioni di noti pedagogisti italiani. Tra questi figurano contributi non convenzionali di Luciano Corradini su Giovani e scuola a partire dal ‘66, di Egle Becchi sui tre concetti di democrazia pace e solidarietà, di Luciano Pazzaglia sull’insegnamento della religione, di Franco Cambi sulle ricerche in ambito di educazione alla pace, di suor Rachele Lanfranchi sul rapporto tra eventi storici e pedagogia della pace, di Guido Petter sugli aspetti psicologici dell’educazione alla cittadinanza. Il filo conduttore rimane l’educazione democratica per una pace ‘giusta’, che i sin-

591

goli autori approfondiscono con la competenza che li contraddistingue. Le pagine, dopo la presentazione dell’impegno educativo-pedagogico di Emilio Butturini, in cui sono sintetizzate le varie tematiche presenti nella sua ricerca scientifica (l’educazione giovanile, la storia di pedagogisti e fondatori), si aprono su tematiche legate soprattutto all’educazione alla pace come educazione alla democrazia, attraverso la nonviolenza, fra precisazioni di termini e di concetti e approfondimenti storici, psicologici e pedagogici: pace e democrazia, due concetti, che si richiamano a vicenda e che stanno fra di loro in un rapporto dialettico. Una pace che sia ‘giusta’ (ed è il titolo di un fortunato volume del professore) può partire da una educazione alla complessità delle situazioni in cui viviamo tornando, come afferma Butturini “a fare riassaporare il gusto della ricerca e dell’avventura intellettuale”, accentuando, oggi soprattutto in una società pluralistica, la ricerca, il confronto e la cooperazione sui valori, seguendo l’esempio di persone che hanno realizzato e che realizzano nella fatica del vivere quotidiano la coerenza con i valori in cui credono. Un traguardo, la democrazia, nel raggiungimento del quale ogni uomo deve sentirsi responsabile e partecipe, in modo da non essere come gli schiavi che, afferma Platone, debbono accettare da altri gli scopi che determinano la propria condotta. Chiude il volume l’elenco delle principali pubblicazioni dell’emerito prof. Emilio Butturini (pp. 178-185).

GIANCARLA CODRIGNANI Ottanta, gli anni di una politica Servitium edizioni, Milano 2010, pp. 221 Se qualcuno chiede a Giancarla Codrignani di descrivere la sua attività, risponde di essere in primo luogo una docente e precisa


592

“di greco e latino”; poi che è giornalista, qualifica che l’ha divertita soprattutto quando dava la firma a giornalini e riviste “alternative”, e anche “politologa”, termine gradito perché finalmente usato anche al femminile; infine dice che l’hanno eletta al Parlamento della Repubblica per tre volte (sottolinea “nel gruppo della Sinistra Indipendente”). Però, poi, chiede a sua volta se è abbastanza, se non sia più importante aggiungere che ha avuto dei genitori splendidi; che adora studiare; che ha amici veri, e uno più di altri; che, da donna, sente forte l’impegno “di genere”, punto di riferimento di tutte le politiche intenzionate a cambiare il mondo; che è laicissima, anche perché i credenti dovrebbero essere i più laici di tutti (la fede, come l’amore, è gratis). Soprattutto tiene a dire che, siccome nessuno può vivere senza con-vivere in società, tutti debbono “fare politica” (parola per lei bellissima e pulita) per rispetto dei grandi principi - la libertà, la giustizia sociale, la democrazia, la pace... - e dei diritti, finalmente scritti nelle Carte fondamentali e non solo sulle ginocchia di Zeus per la disperazione di Antigone. Urge renderli effettivi, i diritti, senza timidezze ma anche senza massimalismi (viviamo solo all’inizio del terzo millennio), perché in tempi complessi e di crisi conta soprattutto occuparsi del futuro per prevenire guai ai giovani e costruire prospettive positive. Forse neppure lei è ottimista, ma continua a guardare avanti... La Codrignani, arrivata a un’età che altri non lei - direbbero veneranda, ha recuperato dalla caterva di carte del suo archivio alcuni commenti a vicende che sono state di tutti, pubblicati su giornali a cui ha collaborato. Rappresentano una testimonianza di impegno e di personale coerenza di vita attraverso spezzoni di pensiero e critiche a eventi vissuti molto individualmente, ma con la presunzione di dare senso a valori che o diventano sociali o lasciano inquieti anche chi ama studiarli. « Non sono nel mio

Biblioteca

stile né la memorialistica né l’autobiografismo – scrive nella prefazione-. Per questo non c’è traccia del molto della vita che riserviamo all’intimità. Ho creduto tuttavia che una donna faccia bene a dichiarare il suo contributo alla storia del sé degli umani, perché la storia non è mai solo nostra, soprattutto se si è consapevoli di volerla condividere».

VITTORIO PIERONI ANTONIA SANTOS FERMINO La valigia del ‘Migrante’ Per viaggiare a Cosmopolis Cnos-Fap, Roma 2010, pp. 202. Se Cosmopolis è la città che accoglie in sé tutte le culture, abitarla da cittadini liberi e responsabili non è per nulla scontato. Nonostante le valanghe di retorica “interculturale” che ormai invadono le circolari ministeriali e i testi di scuola, gli editoriali dei quotidiani e i talk show televisivi. Un libro come questo è benvenuto perché è scritto apposta per mettere paletti pedagogici, per precisare concetti filosofici e dare consegne operative. Termini come alterità e pedagogia dell’alterità, educazione inter/transculturale, identità come ombelico del mondo e identità come processo e come ponte, differenza delle culture e cultura della differenza, cittadinanza etnocentrica e cittadinanza cosmopolita… sono l’alfabeto e la grammatica dell’educazione del migrante se per migrante smettiamo di intendere pigramente solo l’extracomunitario, in quanto nell’era della globalizzazione planetaria tutti ridiventiamo in qualche modo necessariamente migranti, esuli, altri, e persino stranieri a noi stessi.. Un libro nato nella scuola e pensato per la nuova educazione, non solo scolastica. Un libro che chiede una conversione mentale per abbandonare una quantità di stereoti-


Biblioteca

pi, di cui la scuola stessa si fa, irresponsabilmente, facile cinghia di trasmissione. Si prenda l’esempio di una materia scolastica, la storia. Dove sta l’illusione “etnocentrica” che essa alimenta, forse inconsapevolmente, ma proprio per questo è tanto più pericolosa? “Sebbene si fondi sul principio che essa insegni, in realtà non ha fatto altro che tramandare gesta e immagini di eroi e di potenti il più delle volte mitizzati per aver messo a ferro e fuoco l’umanità. Quando poi una forma mentis così educata a tifare per il più forte, si troverà a confrontarsi e/o a schierarsi in merito ai rapporti di forza che si istaurano lungo la storia tra chi ha potere e chi lo subisce, tra paesi ricchi e poveri, tra oppressori e oppressi, tra sviluppo e sottosviluppo, tra nord e sud del mondo, tra aventi diritti e no ..., essa non farà altro che assecondare l’istintivo bisogno di andare in soccorso del “vincitore” il quale, non a caso, nella scala bipolarizzata dei valori verrà messo sempre per primo, attribuendogli un significato positivo, per contrapporlo al secondo (l’”altro”, l’avversario, il nemico...) che, essendo il suo “diverso-inverso”, in quanto tale verrà ad assumere inevitabilmente la dimensione opposta/negativa. Un contributo fondamentale a una “rivoluzione mentaleculturale copernicana” nei confronti di una tale devastante mentalità è venuto da una schiera di studiosi di vecchia data e di varia estrazione disciplinare (sociologi, antropologi, pedagogisti...), grazie all’apporto che essi hanno dato alla cosiddetta pedagogia dell’alterità, basata sul principio della reciprocazione, su un asse simmetrico di parità. Secondo tale principio, infatti, all’origine delle culture umane non esiste un io come terreno recintato, ma c’è l’io-tu fondato, fin dall’inizio, su una piattaforma di inter-soggettività. È da questo rapporto, appunto, che trae sostegno e fondamento l’etica della reciprocazione, ossia da un io che è insieme auto ed etero-relazione” (p.183).

593

MARIACHIARA GIORDA ALESSANDRO SAGGIORO La materia invisibile Storia delle religioni a scuola. Una proposta Emi, Bologna 2011, pp. 240. Più che invisibile, la materia è tuttora assente dalla scuola italiana. Anche se alcuni esperimenti puntuali tentati qua o là sul territorio nazionale possono lasciar intravvedere reali possibilità per domani. La nostra rivista ha già informato, e proprio a firma di M. Giorda, su un paio di tali esperimenti tuttora in corso, uno nella scuola secondaria e un altro nella scuola primaria (cf. RL 2009, 4, 663-674; RL 2011, 2, 243-253). In Italia però i dibattiti sulla opportunità e necessità di introdurre lo studio storico – o comunque aconfessionale – delle religioni risale a decenni addietro, ben prima persino dell’ Accordo e dell’Intesa del 1984-85. Sarebbe stato sommamente auspicabile che in concomitanza con il corso facoltativo concordatario di Irc nascesse almeno, come opzione parallela di pari dignità disciplinare, una seria materia di supplenza, sotto piena responsabilità statale o, meglio, scolastica. Si sono “persi” invece altri trent’anni in vaghi auspici retorici, volontaristici e inconcludenti. Una delle debolezze strutturali dell’Irc, è noto, proviene dal fatto che i contenuti disciplinari di tale insegnamento sono legittimati unilateralmente dallo statuto epistemologico delle scienze teologiche di chiesa, e non anche dalla plausibilità accademica di altre scienze della religione, tra cui la Storia delle religioni, che nell’università italiana vanta punte di eccellenza difficilmente uguagliabili a livello europeo e persino mondiale. Il libro ricostruisce il filo dei dibattiti e delle (mancate) delibere legislative in ordine alla “materia alternativa” (cap.1), ma si diffonde soprattutto a illustrare la consistenza della


594

tradizione accademica italiana in fatto di storia delle religioni con i relativi presupposti teorici (cc. 2-3), per avanzare infine la proposta di un possibile insegnamento di storia delle religioni nella scuola italiana, proposta supportata da un vasto ventaglio di ragioni di natura epistemologica, sociologica, pedagogica e didattica (cc. 4-6), nonché da esperimenti e progetti ancora sotto collaudo (c. 7). La formula conclusiva degli autori è lapidaria: “la proposta fondamentale che lanciamo è questa: la scuola deve avere, insieme e accanto a tante altre materie tutte importanti, anche un’ora di formazione alla conoscenza del fatto religioso, che sintetizziamo con la formula di un’ora di Storia delle religioni” (p. 237). Gli aa., con quella dose di sano realismo critico che li contraddistingue, non si nascondono le difficoltà di ogni genere di simile proposta, ne intravvedono però le condizioni di praticabilità, e stanno operando di fatto nell’insegnamento universitario perché alcune condizioni si realizzino, almeno a medio e lungo termine.

ROBERTO ALESSANDRINI (ed.) Sagome inquiete Ombre e silhouette dalle figurine al cinema F. C. Panini ed., Modena 2011, pp. 146. Dalla tradizione orientale delle ombre cinesi alle lanterne magiche, dal mito della

Biblioteca

caverna di Platone al cinema espressionista tedesco, da Peter Pan ai “cattivi” dei fumetti di Dylan Dog, Corto Maltese e Topolino. Si intitola “Sagome inquiete: ombre e silhouette dalle figurine al cinema” la nuova mostra del Museo della figurina di Modena, che esplora il tema del doppio e dell’oscurità con oltre 180 tra figurine e bolli chiudilettera, esposti accanto a teatrini d’ombre, lanterne magiche, sagome balinesi e opere d’arte tridimensionali. L’esposizione comprende anche giornalini d’epoca, stampe antiche, album completi di figurine e venti fumetti, da Corto Maltese a Batman, nei quali antagonisti e cattivi sono rappresentati sotto forma di ombre e creature dell’oscurità. La cultura di massa e la piccola stampa non sono rimaste immuni al fascino delle ombre: la quantità e la diversità di materiali esposti documentano quanto le storie popolari, gli indovinelli, i proverbi, le fiabe infantili abbiano inciso nell’immaginario di intere generazioni. La mostra, curata da Roberto Alessandrini e da Paola Basile, è accompagnata da questo elegante catalogo edito dalla Panini di Modena: una composizione affascinante che intreccia testo critico (a firma dello stesso Alessandrini) e splendide immagini a colori e in b/n, e che non cessa di incuriosire e stupire chiunque sia capace di uno sguardo innocente da bambino e di una fantasia creativa da artista. R.L.


Biblioteca

RICEVIAMO E SEGNALIAMO Libri pervenuti Carmelo ABBATE, Sandro MANGIATERRA, L’onorata società. Caste e baroni dell’“Italia che lavora”, Piemme, Milano 2009, pp. 301, e 17,50. ISBN978-88-566-1061-1. Roberto ALESSANDRINI, Paola BASILE (edd.), Sagome inquiete. Ombre e silhouette dalle figurine al cinema, Catalogo della mostra omonima del Museo della Figurina di Modena, Franco Cosimo Panini editore, Modena 2011, ill. a colori, pp.146, e 20,00.

595 Mariagrazia GIORDA, Alessandro SAGGIORO, La materia invisibile. Storia delle religioni a scuola. Una proposta, Emi, Bologna 2011, pp. 240, e 14,00. ISBN 978-8830-7195-90. Giuseppe GOISIS, Gianfranco MAGLIO, Orioldo MARLaicità possibili. Fondamenti e prospettive, Nuovadimensione ed., Portogruaro 2007, pp.172. ISBN 978-88-89100-42-4. SON,

Bruna GRASSELLI, Chiara PALAZZINI (edd.), Educare: una passione originaria. Scritti in onore di Sira Serenella Macchietti, Tipografia Ikograf, Poznam 2010, pp. 120. ISBN 978-83-922882-4-4.

Stefano ALLIEVI, La guerra delle moschee. L’Europa e la sfida del pluralismo religioso, Marsilio, Venezia 2011, pp. 186, e 12,00. ISBN 978-8831-706-773.

Iván C. IBÁN, Europa, diritto, religione, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 294, e 23,50. ISBN 978-88-1513991-7.

Matias AUGÉ, Miscellanea di Studi su Liturgia e Vita consacrata, Claretianum 51 (2011) 3-366. ISSN 05784182.

Jacqueline LAGRÉE, Philippe PORTIER (edd.), La modernité contre la religion? Pour une nouvelle approche de la laïcité, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2010, pp. 260, e 16.00. ISBN 978-2-7535-1116-3.

Paolo BIANCHINI (ed.), Le origini delle materie. Discipline, programmi e manuali scolastici in Italia, Sei, Torino 2010, pp. 258. ISBN 978-88-05-07193-7. Bruno Adelco BORDONE, Fsc, Appunti di spiritualità lasalliana. Principi, sottolineature, devozioni, Tipografia Gallo Arti Grafiche, Vercelli 2011, pp. 128. Bernardo G. BOSCHI, La formazione della Bibbia. Un’introduzione inter-disciplinare ai due Testamenti, Studio Domenicano, Bologna 2010, p.192, e 26. ISBN 978-88-7094-774-8. Francesco CAPRETTI, La chiesa italiana e gli ebrei. La recezione di Nostra aetate 4 dal Vaticano II a oggi, pref. di P. De Benedetti, postfazione di P. Stefani, Emi, Bologna 2010, pp, 282, e13,00. ISBN 978-88-307-1965-1. Michele CASSESE (ed.), Alla riscoperta di Giovanni Calvino e del suo messaggio a cinquecento anni dalla nascita, Istituto S. Bernardino editore, Venezia 2011, pp. 182 (suppl. al n. 3/2010 di “Studi Ecumenici”). Mario CHIARAPINI, Non date le dimissioni. Genitori alle prese con l’educazione dei figli, Figlie di San Paolo, Milano 2011, pp. 246, e 12,00. ISBN 978-88315-3902-9. Mario GECCHELE, Paola DAL TOSO (edd.), Educazione democratica per una pace giusta, Armando editore, Roma 2010, pp. 192. ISBN 978-88-6081-737-2. GENERALITAT DE CATALUNYA, Guia per a la gestió de la diversitat religiosa als centres educatius, Editorial Mediterránia, Barcelona 2010, pp.112. ISBN 978-848334-999-1.

Léon LAURAIRE, FSC, La Conduite des écoles. Approche comparative, “Cahiers lasalliens” n. 63, Maison St Jean-Baptiste de La Salle, Rome 2011, pp. 162. Grazia LE MURA, Arcobaleni di speranza, “Quaderni di esperienza missionaria” 1, Tipografia Formecolori, stampato in proprio, Giugliano in Campania 2010, pp. 100. Stefano MARTELLI (ed.), I saperi della/sulla religione nella scuola e nella società, Atti del 1° workshop svoltosi all’interno del Convegno La religione come fattore de dis/integrazione sociale, Università di Bologna, Clueb (Cooperativa Libraria Universitaria Ed. Bologna), Bologna 2009, pp. 116, e 15,00. ISBN 978-88491-3466-3. Elzbieta ˙ OSEWSKA and Józef STALA (eds.), Religious Education / Catechesis in the Family. A European Perspective, Wydawnictwo Universytetu Kardynala Stefana Wyszyƒskiego, Warszawa 2010, p.277. ISBN 97883-7072-638-6. Corrado PASTORE (ed.), “Viva ed efficace è la parola di Dio”. Linee per l’animazione biblica della pastorale, Miscellanea in onore di don Cesare Bissoli, Elledici, Leumann (To) 2011, pp. 334, e 25.00. ISBN 978-8801-04567-3. Vittorio PIERONI, Antonia SANTOS FERMINO, La valigia del ‘Mignate’. Per viaggiare a Cosmopolis, Ministero del Lavoro- Cnos-Fap, Roma 2010, pp. 202. ISBN 978-88-95640-34. Proposta religiosa della scuola cattolica lasalliana tra passato e futuro. Atti della giornata di studio 25


596 novembre 2010, in “Sussidi per la catechesi” 26 (2011) 3, pp. 1-63, con interventi di G. Di Giovanni, D. BijuDuval, S. Lanza, J.M. Pérez Navarro, S. Currò, E. Sommadossi. Riscoperta del Decalogo, di G.Piana, P.Stefani, A.N.Terrin et aa., numero monografico di “Credere oggi”, n. 180, 30 (2010) 6, pp.128, e 7,50. ISBN 97888-250-2574-3 Anthony ROGERS, FSC, Cultures et Justice: une perspective de Mission pour la Vie consacrée, Cahiers MEL 42, Supplemento a Rivista lasalliana n.4, 2010, La Salle, Roma 2010, pp. 56. Giuseppe RUTA, Catechetica come scienza. Introduzione allo studio e rilievi epistemologici, ITST-Elledici, Messina-Leumann 2010, pp. 448 + CD, e 30,00. ISBN 978-88-01-04620-5. Afonso M.L. SOARES, Religião & educação. Da Ciência da Religião ao Ensino Religioso, Paulinas, São Paulo 2010, pp. 152. ISBN 978-85-356-2689-6. Stefano ZURLO, La legge siamo noi. La casta della giustizia italiana, Piemme, Milano 2009, pp.223, e 16,00. ISBN 978-88-566-0215-9.

Dalle riviste CONDIZIONE GIOVANILE Enfants et Jeunes en danger. Une réponse lasallienne, «Bulletin FSC» n. 253, Roma 2011, pp. 76. La condizione adolescenziale in Italia, di Renato Mion, “Docete” gennaio 2011, 14-32.

EDUCAZIONE E SCUOLA Educare alla legalità, di GianPaolo Salvini, “Civiltà cattolica” 19 marzo 2011, q. 3858, 571-581. Libertad religiosa y enseñanza de la religión: especial atención al caso islámico, di J. Rodríguez Torrente, “Estudios eclesiásticos”, 85(2010)4, 787-815. Costruire culture a scuola, di Luisa Molinari, “Il Mulino”, 1/2011, 39-47. Rieducarci al desiderio, di Giacomo Costa, “Aggiornamento sociali”, genn. 2011, 5-10. La sfida educativa in un mondo che cambia, di Nunzio Galantino e Armando Matteo, “Rassegna di Teologia” 52(2011)1, 19-38.

Biblioteca

PEDAGOGIA DELLA RELIGIONE Costruire il volto di Dio a scuola, di Roberto Romio, “Catechesi”, 5/2011, 21-32. Dire Dio. Le condizioni del linguaggio religioso nella scuola, in uno Stato costituzionale-democratico, di Michele Marchetto, “Orientamenti pedagogici” 57 (2010) 6, 1135-1150. Educare al rispetto del Creato: educazione, sviluppo sostenibile e ambiente, di autori vari, monografico di “Seminarium” della Congregazione vaticana per l’educazione cattolica, 50 (2010) 2, 227-385. Fare i cristiani, lettera pastorale di mons. Francesco Lambiasi, vescovo di Rimini, “Regno-documenti”, 1 gennaio 2011, 41-52. Liberi di credere, di Stefano Bittasi sj e Camillo Ripamonti sj, “Aggiornamenti sociali”, febbraio 2011, 85-90. Ma cos’è, veramente, l’annuncio? Di Virginio Spicacci, sj, “Rassegna di Teologia” 51 (2010) 4, 638-650.

RELIGIONI E SCIENZE RELIGIOSE Dalla missione al mondo alla testimonianza interreligiosa, di Autori vari, monografia di “Concilium” 47(2011)1, pp. 106. Dio incita alla violenza? Dossier de “Il mondo della Bibbia”, 21 (2010) 5, 11-30 Newman y la teología de las religiones, di A. Mong, “Studium” 50 (2010) 3, 355-392. Postmodernità, ateismo e immagini di Dio, di Francesco Cosentino, “Rassegna di Teologia” 51 (2010) 4, 549-564. Il dialogo ecumenico e interreligioso in Emilia-Romagna, Convegno della facoltà teologica di Bologna, “Rivista di teologia dell’evangelizzazione” 14(2010)2, 7-253. L’Islam in Italia, di Renzo Guolo, “Il Mulino” 1/2011, 56-63. A 150 anni dall’Unità d’Italia (dossier e antologia a c. di M.Truffelli), con contributi di Alberto Monticone, Paolo Pombeni, Bartolomeo Sorge, Maurilio Guasco, Pietro Scoppola, Giorgio Campanini, Luciano Caimi, “Dialoghi” , dicembre 2010, 13-67.


Revista Digital de Investigación Lasaliana http://revista_roma.delasalle.edu.mx/actual.php?lan=es

Año 1 (2011) N° 2 ASOCIACIÓN Y FAMILIA LASALIANA: CUANDO LOS ITINERARIOS SE ENTRECRUZAN La Revista Digital de Investigación Lasaliana, en su segundo número, continúa profundizando en el tema de la Asociación y la Familia lasaliana. Con este fin, ofrece una serie de artículos que deseamos sean motivo de lectura, reflexión y debate comunitarios. Este segundo número está estructurado en tres partes: 䊳 La PRIMERA PARTE, que lleva por título Tres perspectivas, ¿un itinerario común?, presenta documentos oficiales de tres Institutos Religiosos – comprometidos con la educación católica - que tratan el tema de los Laicos y sus procesos de identificación, participación y pertenencia institucional. Cada uno, visto como una familia religiosa ampliada, tiene una manera original de expresar su propio itinerario; no obstante, en su conjunto dan fe de una experiencia eclesial común que nos hace interrogarnos acerca de las invitaciones del Espíritu hoy, sobre todo frente al presente y futuro de los cristianos que asumen con radicalidad el seguimiento de Jesucristo, sea cual sea su condición de vida. Una breve introducción da algunas pistas para la lectura de los documentos que se ofrecen: - Adhesión, compromiso, vinculación y pertenencia, de los Hnos Maristas de la Enseñanza; - Hermanas y Laicos nos reconocemos como Familia Teresiana, del Instituto de las Hermanas de la Compañía de Santa Teresa; - Asociados para la Misión Lasaliana - un acto de esperanza, de los Hermanos de las Escuelas Cristianas. 䊳 La SEGUNDA PARTE recoge algunos artículos sobre la Asociación lasaliana, recibidos de nuestros Colaboradores de todas las Regiones del Instituto. En su conjunto, dan cuenta de una reflexión que sigue madurando en el tiempo: - El Hno. GERARD RUMMERY, del distrito de Australia/Nueva Zelanda/ Papúa-Nueva Guinea, en Asociación, antes y ahora, expresa de manera sintética lo que el Instituto había reflexionado previo al último Capítulo General de 2007. Su aporte ayuda a valorar si el Instituto hoy ha dado pasos hacia adelante en esta compleja dinámica asociativa.


- El dr. JUAN MANUEL TORRES SERRANO, de la Universidad La Salle de Bogotá, diserta sobre el Caminar y crecer juntos en la unidad para la historización del Reino. Su trabajo es expresión de un académico seglar que desea reflexionar en comunión con los consagrados, con quienes se siente invitado a construir un itinerario de Iglesia. - Del Hno. ANTONIO BOTANA, del distrito de ARLEP (España-Portugal), conocido dentro y fuera de La Salle por su impulso a la reflexión eclesiológica actual desde la realidad de los Institutos religiosos laicales, presentamos el artículo: De “compartir la misión” a “vivir el carisma” en familia. Seguramente, su aporte ayudará a abrir nuevas perspectivas en la reflexión actual. - El Hno. DIEGO MUÑOZ, del Servicio de Investigación y Recursos Lasalianos (Roma) presenta el informe: Los lasalianos cómo comprenden la asociación desde su experiencia personal. Estudio de testimonios de Hermanos y Seglares de la RELEM. Es una continuación de la investigación que desarrolla junto al Secretariado de Familia lasaliana y Asociación. - Un artículo de conjunto permite pulsar la realidad de la asociación en diferentes regiones del Instituto: Tres visiones de la asociación: África, Oceanía y América Latina. Los Hermanos MARC SOMÉ (África del Oeste) e IGNATIUS KENNEDY (Australia/Nueva Zelanda), junto al dr. JUAN MANUEL TORRES (Colombia), disertan sobre valores y propuestas de la asociación desde cada uno de sus espacios eclesiales y culturales. 䊳 La TERCERA PARTE presenta el resumen de dos investigaciones lasalianas realizadas en Instituciones de Educación Superior y que hoy tenemos el gusto de ofrecer, no sólo como un reconocimiento a sus autores sino también como un incentivo para que otros Lasalianos encuentren en nuestra Revista un espacio para dar a conocer sus propias búsquedas, recordando que el trabajo científico requiere la comunicación y el compartir de las experiencias. Por ello, presentamos: - el resumen de la tesina de licenciatura del Hno. ÁNGEL RAMÓN POVEDA MARTÍNEZ, del distrito ARLEP, que lleva por título: La originalidad educativa lasaliana en los siglos XVII y XVIII; - el resumen de la tesis doctoral de José MARTÍN MONTOYA DURÀ, actual Novicio, también del distrito ARLEP, que trata de un Plan de educación ambiental para el desarrollo sostenible de los Colegios de la Institución La Salle. Esperamos que ambos aportes alienten en otros el deseo de compartir sus trabajos desde la plataforma que ofrece esta Revista. Feliz lectura en asociación para todos. Contact: digitaljournal@lasalle.org




TASSA RISCOSSA TAXE PERÇUE ROMA

Rivista lasalliana Direzione e redazione: 00165 Roma - Via Aurelia, 476 Amministrazione: 10131 Torino - Strada Santa Margherita, 132

Rivista lasalliana

2011

Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/AC - ROMA - “In caso di mancato recapito inviare al CMP Romanina per la restituzione al mittente previo pagamento dei resi”

3

ISSN 1826-2155

Rivista lasalliana

3

trimestrale di cultura e formazione pedagogica

✓ La catechesi liturgica in Isidoro di Siviglia ✓ Adulti, adolescenti e disagio: una diagnosi psicologica ✓ Se la scuola scoprisse la bellezza della matematica ✓ Parabole e miracoli nel NT: guida alla lettura ✓ Reims, Nicolas Roland e la peste del 1668 ✓ L’associazione lasalliana da reinventare nella post-modernità ✓ Roberto Sitia, un lasalliano di frontiera tra matematica e umanesimo ✓ Jeffrey Gros, teologo ecumenista e catecheta: una testimonianza ✓ Verso un catalogo mondiale delle pubblicazioni scolastiche FSC

LUGLIO - SETTEMBRE 2011 • ANNO 78 – 3 (311)


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.