Rivista lasalliana 4-2011

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Rivista lasalliana Direzione e redazione: 00165 Roma - Via Aurelia, 476 Amministrazione: 10131 Torino - Strada Santa Margherita, 132

Rivista lasalliana

2011

Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/AC - ROMA - “In caso di mancato recapito inviare al CMP Romanina per la restituzione al mittente previo pagamento dei resi”

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ISSN 1826-2155

Rivista lasalliana

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trimestrale di cultura e formazione pedagogica

✓ San Gregorio Magno e le sue regole per la gestione pastorale ✓ Giorgio La Pira o l’utopia politica della pace ✓ Ripensare la mediazione educativa nella pedagogia dell’apprendimento ✓ Presupposti esegetici per una didattica dei fatti pasquali secondo i Vangeli ✓ “Storia delle religioni” a scuola? Dieci parole per cominciare ✓ Alle origini lasalliane: Nicolas Roland e le Soeurs de l’Enfant-Jésus ✓ F. Regolo Agnez, protagonista della formazione religiosa dei Lasalliani italiani tra Sette e Ottocento ✓ Figure del XX secolo: F. Giocondo Ronco, filosofo ed educatore di giovani; Br. Gerard Rummery, un itinerario di ricerca catechetica postconciliare

OTTOBRE - DICEMBRE 2011 • ANNO 78 – 4 (312)


Rivista lasalliana trimestrale di cultura e formazione pedagogica 78 (2011) 4


RL

Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole cristiane da lui fondate. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie della Regione lasalliana euro-mediterranea.

Anno 78 • numero 4 • ottobre-dicembre 2011

Direzione Rivista lasalliana, Via Aurelia 476, 00165 Roma, tel. 06665231-0666523305. Gli articoli vanno inviati esclusivamente via e-mail all’indirizzo: fpajer@lasalle.org. Riviste in cambio e libri per recensione vanno inviati a: Rivista lasalliana, Casella postale 9099-Aurelio, 00167 Roma Gruppo redazionale 2011 Roberto Alessandrini, Mario Chiarapini, Gabriele Di Giovanni, Mariachiara Giorda, Anna Lucchiari, Marco Paolantonio, Nicolò Pisanu, Francesco Pistoia, Lorenzo Tébar Belmonte, Francesco Trisoglio, José María Valladolid Collaboratori e consulenti Bruno Bordone, Ernesto Borghi, Emilio Butturini, Robert Comte, Sergio De Carli, Paulo Dullius, Pedro Gil, Edgar Hengemüle, Alain Houry, Léon Lauraire, Herman Lombaerts, Matteo Mennini, Patrizia Moretti, Diego Muñoz, Israel Nery, José María Pérez Navarro, Gerard Rummery, Giuseppe Tacconi Editore Associazione culturale lasalliana, Strada Santa Margherita 132, 10131 Torino Amministrazione e diffusione Associazione culturale lasalliana, gabriele.pomatto@gmail.com, cell. 3471033855, tel. 0632294503, fax 063236047 Abbonamento 2011 Ordinario in Italia e 24 - docenti lasalliani e 18 - Paesi dell’Unione europea e 30 - altri continenti Usa $ 50 - sostenitori e 50 - un fascicolo separato, anche arretrato, e 6,50. A richiesta sono disponibili annate arretrate per biblioteche e ricercatori. Il versamento della quota si effettua mediante bonifico bancario sul codice Iban IT51N0760101000000012378113 oppure mediante modulo ccp n. 12378113 intestato a «Associazione culturale lasalliana». L’abbonamento ai 4 numeri annui decorre dal 1° gennaio e si intende continuativo, salvo disdetta scritta Progetto grafico Federico Fiorini, cell. 3384583313 Stampa e spedizione Stabilimento Tipolitografico Ugo Quintily spa., V.le E. Ortolani, 149/151, Zona Ind. di Acilia, 00125 Roma - quintily@quintily.com tel. 0652169299. ISSN 1826-2155. Registrazione del Tribunale di Torino n.353, 26.01.1949 (Tribunale di Roma n.233, 12.6.2007) Periodico associato alla USPI, Unione stampa periodica italiana - Responsabile a termine di legge F. Pajer - Spedizione in abbonamento postale: Poste italiane DL 353/2003 (conv. in L n.46, 27.02.2004) art.1 c. 2 - DCB Roma.


Rivista lasalliana 78 (2011) 4 Sommario

RICERCHE • STUDI • PROPOSTE 607 Francesco Trisoglio La catechesi ai vescovi: la Regula pastoralis di san Gregorio Magno Funzionario governativo a Roma, ambasciatore a Costantinopoli, monaco e fondatore di monasteri, consigliere spirituale di imperatori e di papi, papa lui stesso a cavallo tra il VI e il VII secolo, la figura di Gregorio giganteggia per la quantità e robustezza di scritti tra cui eccelle la Regula pastoralis. Opera che precisa le condizioni per accedere ai vertici delle chiese locali, che delinea il profilo del pastore illustrandone le competenze umane etiche spirituali, che indica una gamma di modalità per istruire differenti categorie di persone. Un riferimento quasi normativo per tutta la chiesa medioevale.

621 Emilio Butturini Giorgio La Pira, un cristiano per la pace nel mondo Il “sindaco santo” di Firenze viene rievocato come esponente spirituale e politico di un pacifismo profetico, ma tutt’altro che retorico, che da una parte ha sprovincializzato la neonata Repubblica italiana del dopo-guerra immettendola nel fervore di iniziative transnazionali, e per altro verso ha contribuito a innervare la vecchia cattolicità italiana nello spirito della Pacem in terris e del Vaticano II.

633 Lorenzo Tébar Belmonte Cualidades de una “buena” mediación educativa Perno dell’educazione è l’apprendimento personalizzato. Creare una situazione di apprendimento comporta pianificare tutte le attività che l’educando deve realizzare per conseguire le mete previste. L’articolo sintetizza in dieci “precetti fondamentali” la pedagogia della mediazione, motivandone ad ogni tappa la base teorica, le esigenze metodologiche e le condizioni d’esercizio nell’ambito del contesto scolastico attuale.

643 Ernesto Borghi Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth [3] A completare i primi due saggi apparsi in precedenza, l’oggetto del presente intervento è la fase culminante dell’esperienza terrena del Nazareno: l’ultima cena, passione e morte, le apparizioni. Centrale nell’analisi testuale l’assunto di mostrare quanto fede cristiana e verifica storica non entrino in collisione, né si elidano l’un l’altra, né debbano necessariamente e letteralmente coincidere per soddisfare mal riposti concordismi. Innegabile la rilevanza antropologica, oltre che ovviamente cristologica, di tale indagine filologica ed esegetica per verificare la pertinenza della pratica didattica, sia in sede di iniziazione catechistica che di insegnamento curricolare.


669 Mariachiara Giorda, Elisa Ferrero Insegnare Storia delle religioni a scuola? Dieci parole per cominciare Dieci concetti fondamentali per introdurre l’attenzione a una nuova dimensione dell’ istruzione religiosa quando la società e la scuola pullulano sempre più di presenze religiose diverse e di presenze dichiaratamente non religiose. Un inizio di lessico di base per non fraintendere e capire nozioni come Intercultura, Laicità, Scienze delle religioni, Storia delle religioni, Approccio comparato, Neutralità, Aconfessionalità…

683 Roberto Alessandrini Le visage criminel. Identité psychologique et appartenance sociale dans la photographie judiciaire Morfologia facciale, antropometria, impronte digitali, immagine frontale e profilo laterale, giochi di luci e d’ombre, magia della foto e sue manipolazioni: tutto un vocabolario che richiama primordi e sviluppi di una antropologia positivista che ha inciso in vari campi dell’esperienza: dalla psicologia empirica alla criminologia, dalla mimica teatrale e cinematografica alla creazione artistica. Non senza risvolti sulle teorie e la prassi dell’educazione.

691 Anna Lucchiari Chiaroscuri. Per un mondo meno violento – Non credere ai tuoi occhi – I diritti del bambino.

MISCELLANEA LASALLIANA 699 Bernard Pitaud Les relations de Nicolas Roland et des Sœurs de l’Enfant-Jésus avec le Carmel de Beaune Una saggio di ricognizione storica per verificare le date e le circostanze di uno o più viaggi del Roland al Carmelo di Beaune, in particolare per indagare sull’origine della introduzione della devozione al Bambino Gesù presso la congregazione di religiose fondata dallo stesso Roland. In appendice, a titolo di documento, il testo finora inedito delle cinque lettere che hanno fornito la base per la presente indagine.

721 Matteo Mennini La formazione religiosa e culturale dei Fratelli delle scuole cristiane in Italia tra Sette e Ottocento. L’opera di Fratel Regolo (1757-1838) Figura di riferimento nello sviluppo dell’opera lasalliana nell’Italia prerisorgimentale, F. Regolo (F.Rieul, al secolo Joseph Agnez) si adopera per la traduzione in lingua italiana degli scritti maggiori del La Salle e dei suoi successori alla guida dell’Istituto; nel contempo realizza un Compendio della dottrina cristiana ad uso dei maestri e degli alunni delle scuole dello Stato Pontificio, avvalendosi selettivamente di autorevoli manuali teologici e catechistici in voga all’epoca. L’A. documenta i ‘debiti’ letterari del Compendio rispetto alle fonti utilizzate come Bellarmino, Boriglioni,Turlot, Ferreri.


751 Marco Paolantonio Giovanni Maria Ronco (Fratel Giocondo): una vita spesa per e con i giovani Docente di filosofia ‘perché ricercatore di verità’ («Se dubitate che la filosofia possa darvi la verità, perché filosofate? Per amore dell’errore?»), trovò nella fede fondamento e orientamenti per dedicarsi all’insegnamento e all’animazione di gruppi giovanili. In sintonia elettiva con il Rosmini (quando ancora sul Roveretano pesava la parziale condanna della Chiesa), ne fu profondo conoscitore e agguerrito paladino. Collaborò con il prof. Gedda e mons. Sargolini alla formazione delle strutture organizzative nazionali di Aspiranti, Juniores e Seniores dell’AC e ne fu diretto responsabile a livello regionale. Ha lasciato scritti tuttora attuali, ricchi di suggestioni per chi lavora per e con i giovani.

767 Gerard Rummery My catechetical Journey Su invito della direzione della Rivista, l’A. ripercorre le tappe della sua lunga e ricca traversata postconciliare come ricercatore, saggista, conferenziere e responsabile istituzionale nel campo della catechesi e della formazione dei docenti a livello nazionale e prevalentemente internazionale, sia nel quadro delle strutture della congregazione lasalliana che in quelle della educazione cattolica in generale e del dialogo tra culture e religioni. Conclude declinando le sue “sei basilari convinzioni”.

783 José María Valladolid Retazos lasalianos [41-46] Los estudios de Juan Bautista de La Salle – Pasos de Juan Bautista de La Salle hacia el sacerdocio – Las enfermedades que sufrió Juan Bautista de La Salle – ¿Cuál era el papel del abate Brou, en 1714, en la comunidad de los Hermanos de París? – El fantasma de la Casa Grande ¿Tuvo La Salle relación personal con Luis XIV?

BIBLIOTECA 797 Rosmini e Rebora - Itinerario di un filosofo: Michele Federico Sciacca (a cura di Francesco Pistoia) 803 Recensioni e segnalazioni: L. Bettazzi - L. Caimi - G. Chiosso L.M.Musso - M.C. Nussbaum - L. Pati - L. Prenna Libri ricevuti 810 Indice dell’annata


Hanno collaborato a questo numero: Roberto Alessandrini, docente dell’Istituto universitario “Progetto Uomo”, Modena Ernesto Borghi, docente universitario in materie bibliche a Lugano, Trento, Torino Emilio Butturini, emerito di Storia dell’educazione e della scuola, Università di Verona Mariachiara Giorda, ricercatrice in Storia delle religioni, Università di Torino Anna Lucchiari, scrittrice, Roma Matteo Mennini, dottorato in Storia del Cristianesimo e delle Chiese, Roma Tor Vergata Marco Paolantonio, FSC, docente di materie letterarie e dirigente scolastico, Torino Francesco Pistoia, dirigente scolastico, saggista e notista, Corigliano Calabro Bernard Pitaud, PSS, storico, Provinciale della Compagnia di S. Sulpizio, Parigi Gerard Rummery, FSC, catecheta e formatore, Australian Catholic University, Melbourne Lorenzo Tébar, FSC, pedagogista, conferenziere, segretario della Regione Las. Europa Francesco Trisoglio, FSC, docente em. di Storia e Letteratura Patristica, Torino José María Valladolid, FSC, ricercatore e saggista in Studi lasalliani, Madrid

Congedo - Con questo quarto e ultimo fascicolo dell’annata 78 (2011), concludo il mio mandato di sei anni come redattore responsabile della rivista. Dalla prossima annata la responsabilità passerà, per normale avvicendamento e per scelta delle competenti autorità della Provincia religiosa, ad altre mani. Non è tempo di bilanci retorici; è solo un consueto e previsto passaggio di consegne. Nella continuità di intenti, pur nella evidente precarietà di mezzi. Ringrazio i numerosi e qualificati Collaboratori, in particolare coloro che hanno assicurato, con esemplare fedeltà e in totale gratuità, sequenze continuative di articoli nel corso di una o più annate. Senza di loro la rivista non avrebbe retto la sfida. Ringrazio i membri attivi del Comitato di redazione e i Consulenti at large, da cui ho avuto spesso il supporto di utili indicazioni. La mia gratitudine va alla amministrazione e al personale tecnico delle tipografie per la solerte puntualità del servizio reso in questi anni. Auspico infine a chi subentrerà nell’incarico [mentre licenzio alla stampa questo numero, è attesa come imminente la sua nomina] di guadagnarsi una altrettanto fedele e generosa collaborazione, e insieme una udienza sperabilmente più larga e attenta presso i lettori. 15 luglio 2011

Flavio Pajer, FSC


RivLas 78 (2011) 4, 607-620

La catechesi nei Padri della Chiesa / 15

La catechesi ai vescovi: la Regula pastoralis di san Gregorio Magno FRANCESCO TRISOGLIO

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regorio I è stato l’ultimo Papa ad essere denominato ‘Magno’ e fu anche quello che lo meritò nella sua massima ampiezza per la sua titanica grandezza spirituale esplicatasi in un corpo minato dalla malattia.

1. Traccia biografica Nacque intorno al 540 da una famiglia patrizia di Roma profondamente cristiana1. Studiò con eccellente profitto grammatica, dialettica e retorica e si procurò anche una buona conoscenza del diritto, in vista della carriera amministrativa alla quale si avviava; è una competenza che traspare chiara dai documenti e dalle direttive che emanò durante il suo pontificato. Divenuto funzionario del governo bizantino di Roma, salì ai vertici della carriera verso il 572-573 con la carica di prefetto della città, magistratura che curava le finanze, il vettovagliamento, la manutenzione degli edifici pubblici e l’efficienza delle fortificazioni. Ma intime aspirazioni lo indussero a lasciare quelle incombenze per dedicarsi alla vita ascetica, che egli attuò trasfor-

La struttura fondamentale della sua personalità, nelle sue varie componenti, è stata affidabilmente presentata, in ricchezza e precisione di documentazione ed in acutezza di penetrazione, da V. Monachino, Bibliotheca Sanctorum, VII, 1966, coll. 222-278; completata dall’iconografia di P. Cannata coll. 278287. Assai pregevole è anche il precedente prospetto, lucido nell’incisiva puntualità della sua ricostruzione, di B. Pesci, Enc. Catt. VI, 1951, coll. 1112-1124, completato, per la presenza di Gregorio nell’arte, da K. Rathe col.1125.

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mando la sua casa di Roma in un monastero, che dedicò a S. Andrea, e fondandone altre sei in Sicilia, che dotò con i suoi beni di famiglia. Le sue esigenze spirituali si trovarono subito in piena sintonia con la proposta monastica di S. Benedetto. In un anno non determinabile, il Papa Pelagio II lo elevò al diaconato e, per l’integrità del suo carattere, lo inviò quale apocrisiario (ambasciatore) alla corte di Costantinopoli, dove continuò a condurre vita monastica in una sua piccola comunità e dove dimostrò un saggio equilibrio nella comprensione delle persone e delle situazioni; la sua duttilità comprendeva però anche la risolutezza, come testimoniò nel suo dissenso da talune posizioni teologiche sostenute da Eutichio, patriarca di Costantinopoli, il quale si dichiarò poi convinto dalle sue argomentazioni e aderì alle sue impostazioni. Le sue alte doti intellettuali e morali gli conciliarono vaste simpatie negli ambienti dell’alta società, dove fu, non di rado, scelto come direttore spirituale; lo apprezzarono, in cordialità di rapporti, anche gli imperatori Tiberio II e Maurizio. Nel 585-586 il Papa lo richiamò per servirsene quale consigliere, particolarmente opportuno quando, nel 587, si riaccese la guerra con i Longobardi e gravi calamità si abbatterono su Roma con straripamento di fiumi, che produssero allagamenti, distruzioni e connessa carestia, che introdussero la fame e successivamente la peste, nella quale morì anche Pelagio II (febbraio 590). La scelta di clero, senato e popolo fu unanime nell’indicare quale successore Gregorio; egli si mostrò inizialmente riluttante, giudicandosi impari all’alta missione, ma, dinanzi alla comune designazione, finì per accettare2, proponendosi di comporre la vita attiva con quella contemplativa. Operò subito attivamente per riparare i danni delle calamità naturali che avevano colpito Roma e per risollevare la popolazione dalla fame che infieriva; a tale scopo procurò abbondanti arrivi di grano dalla Sicilia. Per la difesa di Roma dagli assalti dei Longobardi, predispose un valido sistema di sentinelle notturne, che egli controllava con ispezioni personali. Esplicò un’intensa opera di riorganizzazione della Chiesa in Italia, nell’Africa, nell’Illiria, dove s’impegnò alacremente per ricucire lo scisma che era sorto come conseguenza del dissenso sulla questione dei Tre Capitoli; sostenne efficacemente Teodolinda, regina dei Longobardi, la quale, inducendo il marito, re Agilulfo, a convertirsi al cattolicesimo, favorì quella dell’intero popolo longobardo; intrattenne cordiali rapporti con Recaredo, re dei Visigoti, che, a Toledo, si era convertito dall’arianesimo, conducendo con sé tutta la sua gente; patrocinò una missione per la conversione dell’Inghilterra che si svolse con promettenti successi; conservò serene relazioni con i quattro patriarchi orientali di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e

P. Godet, Grégoire le Grand, Dict. Théol. Cath. VI,2, 1947, coll.1776-1781, in col.1776, rileva che Gregorio fu il primo monaco a salire sulla Cattedra apostolica ed uno dei quattro dottori per eccellenza della Chiesa d’Occidente.

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Gerusalemme, dei quali, con delicatezza di tatto, rispettò l’autonomia pur nel loro riconoscimento delle prerogative della Sede Apostolica nelle questioni di fede3. Morì il 12 marzo 604, dopo essersi proclamato servo dei servi di Dio ed aver esercitato un profondissimo influsso, oltre che sul suo tempo, sulla cultura e sulla spiritualità di tutto il Medio Evo4. Grazie alla sua sapienza organizzativa, alla forza del suo carattere, al lucido equilibrio delle sue idee, alla sua penetrante percezione psicologica, all’illimitata disposizione alla dedizione personale, agì in una straordinaria ampiezza di area.

2. Gli scritti Stupisce che in una così intensa attività diplomatica, organizzativa e caritativa, sia riuscito a trasmettere una così ampia eredità letteraria. P. Godet, col.1777, precisò che, tra tutti i Papi, con la sola eccezione di Benedetto XIV, è quello che ci ha lasciato la più grande quantità di scritti. La sua prima opera, iniziata già a Costantinopoli, con istruzioni orali ai monaci che erano con lui, è l’Expositio in beatum Job libri XXXV, più nota come Moralia in Job, dove interpreta il testo biblico seguendo, in alternanza o in compenetrazione, i tre sensi letterale, allegorico e morale. Le Homiliae in Evangelia sono una raccolta di 40 omelie nelle quali Gregorio, in semplicità e naturalezza, commenta il passo evangelico che era stato letto, traendone insegnamenti morali. Le Homiliae in Ezechielem prophetam costituiscono una raccolta di 22 allocuzioni, distribuite in due libri. Abbiamo anche un commento ai primi otto versetti del Cantico dei cantici ed un altro, in sei libri, ai primi sedici capitoli del I libro dei Re. Un grande successo riscossero i quattro libri dei Dialoghi, nei quali, a scopo di edificazione, si raccontano molti prodigi operati da santi italiani di epoca recente. V. Monachino avverte che Gregorio riporta i fatti quali gli erano stati riferiti, senza sottoporli ad un esame critico di autenticità, nell’adesione alla tendenza dei tempi a vedere dappertutto meraviglie e prodigi, per cui “vanno letti con quel candore d’animo con cui furono scritti e con cui furono letti nel Medio Evo” (col. 268). Di grandissima rilevanza storica è poi il suo Regesto di 848 lettere, che però non rappresentano il totale di quelle scritte da Gregorio durante il suo pontificato.

3 P. Godet, col.1777, dichiara che nessuno ha mai avuto del sommo pontificato un’idea più alta e che, nella realtà, Gregorio del pontificato fu la più nobile personificazione. B. Pesci, col.1123, afferma: “Il suo pontificato fu una vera provvidenza per la Chiesa e per l’Italia. La cristianità in Occidente usciva appena dal caos della disorganizzazione barbarica [scompigli in Gallia, Spagna, Inghilterra, Italia]. L’unica forza capace di agire tra tendenze così varie e disparate, armate l’una contro l’altra allo scopo di distruggersi a vicenda, era la Chiesa, elemento di centro e di moderazione morale. Gregorio inaugura l’opera medioevale di questa forza di produzione e di rigenerazione civile e religiosa”. 4 B. Pesci, col.1122, dichiara ancora: “Si può dire che fu l’ultimo dei romani e il primo del Medio Evo, come pure fu l’ultimo dei classici maestri della Chiesa e il primo degli scolastici”.


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Ed infine il Liber regulae pastoralis, redatto in quattro libri nei primi anni del suo pontificato: R. Manselli, p.33, fissa la seconda metà del 390. V. Monachino, col.264, lo giudica “una delle opere migliori e più organiche di Gregorio”; B. Pesci, col.1121, ricorda “il successo straordinario di quest’operetta, che, ancora vivente l’autore, fu fatta tradurre da imperatori e da re nella loro lingua e dai concili venne imposta ai sacerdoti come codice di vita”; V. Monachino, col.267, riferisce che, assai presto, il patriarca Anastasio di Antiochia ne fece una traduzione greca; H. Grisar5 aveva già asserito che il Liber regulae pastoralis divenne il libro spirituale più universalmente letto dall’episcopato e dal clero e che in tutto il Medio Evo lo si tenne in conto di codice proprio dei vescovi e dei sacerdoti, come le Regola di S. Benedetto era il codice dei monaci” (p.51). O. Bardenhewer6 dichiara che Alfredo il Grande d’Inghilterra († 901) fece tradurre la Regula in anglosassone, che in Francia parecchi sinodi del secolo IX stabilirono che tutti i vescovi dovevano fare della Regula di Gregorio la linea direttiva della loro vita e della loro azione e che, in base ad una comunicazione di Incmaro di Reims († 882), il vescovo, nella sua consacrazione, giurava, oltre che sui canoni, sulla Regula di Gregorio (p.292).

3. La Regula pastoralis, motivazione e natura7 È una trattazione formativa che si differenzia intimamente dalle altre: le catechesi battesimali, rivolte ai catecumeni, miravano a fornire a chi era ancora esterno i fondamenti essenziali della fede; erano introduttive, aprivano orizzonti; operavano al livello di base; l’omelia liturgica intendeva nutrire, intellettualmente e moralmente, i laici che avevano accettato la fede e che la dovevano conseguentemente vivere in una progressiva consapevolezza ed integrità, agiva quindi sul piano medio, sul quale si attestava la generalità dei fedeli; la Regula saliva invece all’altezza dei formatori, che, se non avevano bisogno di essere essi stessi formati, avevano quello di venire riformati, ripotenziati, rianimati. Lo scompiglio che le molteplici invasioni barbariche avevano prodotto, dissolvendo l’organizzazione, e la connessa disciplina, dell’Impero romano, avevano diffuso una penombra di disorientamento operativo e di abbassamento culturale che era urgente ricuperare in chiarezza di motivazioni e di metodi8. Gregorio intervenne con l’umiltà del monaco, con la pacatezza di un’intelligenza che penetra limpida nelle situazioni e nei temperamenti e con l’autorevolezza della Sede apostolica. Segnò mete, precisò percorsi ed ammonì sui rischi; fu

H. Grisar, San Gregorio Magno (590-604), trad. A. De Santi, Roma 1904. O. Bardenhewer, Geschichte der altkirchlichen Literatur, fünfter Band, Freiburg i. B. 1932, rist. Darmstadt 1962. 7 Testo: Gregorio Magno, Regula pastoralis, Sources chrétiennes, voll. 381-382; intr., note, indice di Br. Judic; testo critico di Fl. Rommel; trad. di Ch. Morel; anche in PL 77,13-128. 5 6


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magnanimo nello stimolare e riguardoso nel criticare, per cui si agevolò l’adesione, riducendo al massimo le renitenze. Possedeva infatti la delicata arte, psicologica e politica, di esprimere un dissenso soppesando l’opportunità della parola e la convenienza del silenzio, in modalità suggerite da un tatto solerte. Infatti consiglia: “Bisogna anche sapere che talora conviene fare prudentemente finta di non vedere i vizi degli inferiori, ma far capire che si fa finta di non vederli; talora bisogna, a tempo opportuno, tollerare dei vizi che tutti conoscono, talora vanno acutamente investigati dei vizi segreti, talora vanno rimproverati con indulgenza, talora vanno invece biasimati con impetuosa risolutezza” (II,10). La gamma della sua metodologia spazia in un’ampiezza che non viene determinata dall’astrattezza di norme teoriche ma dalla realtà di situazioni effettive. Ha un’elastica mobilità di valutazioni che non implica però una tentennante incertezza di costruzione. Nella lettera a Giovanni, arcivescovo di Ravenna, che gli aveva rimproverato la fuga dalle responsabilità episcopali, gliene mostra il peso, che è tale da spaventare. Ma non fa una scontata affermazione generica; gli presenta infatti le vibrazioni con le quali quella dignità scuoteva il suo animo. Gli porge quindi, con la Regula, un trittico operativo concluso dall’indicazione dell’anima che all’azione deve conferire autenticità, tutelandola dagli inquinamenti (l’umiltà). Pone innanzi lo schema in una nettissima consapevolezza di trattazione ed in un’incisività di stile che testimoniano la profonda serietà con la quale aveva sentito il problema.

4. Parte prima: condizioni per accedere al culmine del governo Esordisce subito con un assioma che, nella sua indiscutibilità, denunzia l’irrazionalità di arrivisti spregiudicati: nessuno presuma di insegnare una disciplina, se non l’ha prima imparata mediante un allenamento impegnativo. All’ovvio, che ha un fondo di sdegno, fa seguire una sentenza che ne ha uno di pensosa serietà: “Quella di guidare le anime è l’arte delle arti” (§ 1)9. L’impudenza della pretesa di arrogarsi competenze inesistenti, facilmente percepibile in sede logica, lo è meno in quella della sensibilità corrente, per cui Gregorio la concretizza con un parallelo che conduce all’esperienza pratica, nella quale la repulsione emerge intuitiva: “E tuttavia, dice, ci sono di quelli che, pur non avendo nessuna conoscenza delle regole spirituali, non hanno paura di proclamarsi medici delle anime, mentre arrossirebbero di farsi vedere quali medici del corpo senza conoscere gli effetti delle medicine” (ancora §

8 Br. Judic dichiara: “Si trattava di riorganizzare un episcopato smarrito, di sostenere vescovi inferiori ai loro compiti” (p. 87); “La Regula pastoralis è un manuale per riformare e restaurare una Chiesa duramente provata” (p. 88). 9 Reminiscenza diretta di Gregorio Nazianzeno, Or. II,16: “In realtà, mi sembra che sia l’arte delle arti, la scienza delle scienze, quella di condurre l’uomo, che è di gran lunga il più mutevole ed il più complicato degli esseri”.


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1). Stimolo ad usurpare una vana perizia è la vacuità dello spirito, che si lascia invadere dall’ambizione: Gregorio denunzia che, all’interno della Chiesa, ci sono individui che aspirano a posti di comando solo per soddisfare l’ambizione di ricoprire dignità brillanti; di questo carrierismo egli fa sentire l’inanità quasi più che con parole che esprimano un giudizio formale con un senso di riluttanza del gusto; prima ancora che male, lo sente sgradevole (§ 1 p.130,12-20). L’ambizione può però anche schermare questa evidente negatività combinandosi con la prospettiva di compiere, una volta arrivato, pregevoli opere buone: taluni infatti, sebbene, in realtà, desiderino questa elevazione, insistono nell’asserire che attueranno eccellenti iniziative: “E così avviene che l’intenzione relega una cosa nel profondo della coscienza, mentre la superficie del pensiero ne nutre un’altra in chi sta ragionando; infatti spesso la mente s’inganna da se stessa e finge di amare, per quanto concerne un’opera buona, ciò che non ama, e, per quanto concerne la gloria del mondo, finge di non amare ciò che ama” (§ 9). Emerge un’acutezza psicologica che è un valore in se stessa, ma che è, più ancora, un pregevolissimo requisito per chi comanda, il quale deve quindi saper bene valutare quelli su cui governa e quelli con cui governa. Gregorio integra quest’osservazione sulla dirittura della coscienza dinanzi al mascheramento dell’ambizione con un’altra sulle peculiarità della sua correzione: “Generalmente, quando si è alla scuola dell’avversità, il cuore viene trattenuto sotto un austero controllo. ma, se riesce a sfondare, arrivando al culmine del potere, rapidamente si cambia, giungendo all’esaltazione per aver provato la gloria” (§ 3). È un deterioramento che proviene dall’estroversione insita nell’esercizio del governo: “Quando l’anima s’immette più del necessario nelle occupazioni esterne, come tutta presa dal pensiero del viaggio, dimentica quale sia la meta” (§ 4). L’impegno amministrativo assorbe, ottundendo la cura degli autentici valori dello spirito e rinchiudendo in un mondo fittizio: “Chi è al culmine del potere non è capace di imparare l’umiltà, se, quando era in basso, non ha cessato di nutrire pensieri d’orgoglio; non sa fuggire la lode, quando c’è, colui che ha imparato a bramarla quando non c’era” (§ 9). Ma Gregorio non si rinchiude, un po’ angustamente, sulla persona del capo; percepisce quanto, nel proprio ambiente, ciascuno sia un reattore rice-trasmittente, per cui ne subisce ed insieme ne crea l’atmosfera; la vita pubblica è determinata da una corresponsione: “Spesso l’incompetenza dei pastori corrisponde a quanto si meritano quelli che da loro dipendono” (§ 1 p.132,39-40). Rileva la facilità con la quale si instaura un clima di connivenza: “Nessuno ha il coraggio di riprendere colui che manca; così la colpa si estende irresistibilmente, ad esempio, quando si onora il peccatore per riguardo alla sua carica” (p.134,28-30). Gregorio ha un’ampiezza obiettiva di sguardo; non parteggia; ha un’equanimità che si riflette in autorevolezza. Al capo richiede, fondamentalmente, il decoro della coerenza, che costituisce la manifestazione più immediata dell’onestà; per la legittimità del governo, dice, è richiesta la correlazione tra teoria morale proclamata e tenore di vita praticato (§ 2 p.132,1-


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2)10. La discrepanza comporta effetti rovinosi: “Nessuno, nella Chiesa, reca un danno maggiore di colui il quale riveste un incarico di santità, mentre si comporta in maniera distorta” (§ 2 p.134,26-27). Accanto a chi brama, immeritatamente, il potere c’è però anche chi, immotivatamente, lo rifiuta. Gregorio osserva che ci sono alcuni i quali hanno straordinarie virtù morali e culturali, ma rifiutano di assumere la sommità del potere, quando vi vengono chiamati: “Siccome pensano ai loro vantaggi e non a quelli degli altri, si privano proprio di quei beni che desiderano possedere in privato” (§ 5). E, come gli è abituale, arreca puntualmente esempi biblici, i quali, oltre a garantire la dottrina, gli offrono l’occasione per puntuali precisazioni specifiche; così passa dall’astrazione della teoria alla concretezza della pratica. Disapprova chi, salendo alla luce della notorietà, potrebbe giovare al prossimo, ed invece antepone la propria ritiratezza all’utilità degli altri. Sostiene che la vera umiltà si mostra, non fuggendo il peso del governo, ma non mostrandosi renitente ai giudizi divini: “Quando uno possiede, già prima, i doni che lo mettono in condizione di essere utile agli altri, quando gli si impone il più alto grado del potere, attenendosi alle disposizioni divine e tenendosi fuori dal vizio dell’ostentazione, deve fuggire con il cuore, ed insieme ubbidire, anche se controvoglia” (§ 6). Sugli esempi di Isaia e di Mosè, annota che alcuni, plausibilmente, desiderano l’investitura alla predicazione, mentre altri, ancora plausibilmente, vi si sono sottratti (§ 7). E, del suo capo ideale, Gregorio disegna il ritratto: “Deve essere sospinto, in ogni modo, ad essere modello di vita [e cioè ad assumere il governo] colui che, morendo a tutte le passioni della carne, vive ormai secondo lo spirito, si è lasciato dietro i successi del mondo, non ha nessuna paura di nessuna avversità e desidera soltanto i valori interiori” (§ 10). E, in evidenza logica, domanda: “Con che disposizione d’animo uno può arrogarsi il ruolo di intercessore presso Dio in favore del popolo, se non sa guadagnarsi la sua simpatia con una vita meritoria?” (ibid.). Rinforza poi il profilo positivo contrapponendogli quello negativo: chi non deve salire al governo: “Ognuno si misuri dunque con impegno per evitare la sfrontatezza di assumere una posizione di governo, se in lui domina ancora il vizio che lo condanna; se una grave colpa personale lo sfigura, non brami farsi intercessore per le colpe altrui” (§ 11). Il suo magistero ha la forza persuasiva di una consequenzialità che nasce dall’interno.

10 R. Manselli, Gregorio Magno, Giappichelli, Torino 1967, specifica che per Gregorio il rector, che ha il compito di dirigere la vita dei fedeli, è anche pastor nell’affetto, nella premura, nello spirito di sacrificio, ma è pure sacerdos, quale esempio di vita e santità (p. 32). Gregorio lo affianca al magistrato romano, del quale deve avere la preparazione, la prudenza nel giudizio, la romana gravitas (p. 42); supera però il magistrato, in quanto vi aggiunge la santità. Radice psicologica di Gregorio era che egli si sentiva speculator, sentinella che vigila dall’alto di una torre; sta desto per assicurare agli altri il riposo (p. 43).


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5. Parte seconda: la vita del pastore Gregorio nella Regula non si occupa dell’aspetto teologico-sacramentale del vescovo, ma di quello pastorale che si esplica nel governo Nella varietà dei vocaboli che lo designano11 predomina in maniera tanto assoluta da diventare ufficiale quello di rector: il vescovo è colui che deve sostenere e dirigere, missione essenziale che implica e coordina tutte le altre. Subito all’esordio (§ 1) Gregorio ne pianta davanti allo sguardo il quadro sinottico delle richieste: purezza di pensiero, straordinaria efficacia nell’azione, discrezione nella pratica del silenzio, utilità nella parola, affettuosa compartecipazione alle sofferenze di ciascuno, elevatezza di contemplazione superiore a quella di tutti gli altri, umiltà che lo renda compagno di tutti quelli che si comportano bene, salda risolutezza contro i vizi dei trasgressori ispirata dallo zelo per la giustizia, sollecitudine a non diminuire la premura per i valori interiori occupandosi negli interessi esteriori, ma insieme oculatezza nei valori esteriori, che non vanno trascurati per la diligenza verso quelli interiori. È lo schema che si propone di sviluppare nella successiva più ampia trattazione. Si ammira l’equilibrio con cui salva tutti i valori, coordinandoli in una cooperazione che li potenzia singolarmente, producendo un complesso di grande efficienza operativa. E sempre la sua spiritualità rivela un carattere di razionalità che la autentica e la raccomanda. La soprannaturalità in lui si fa accettabile e convincente anche perché spontaneamente inserita nella nostra intelligenza con forti dosi di buon senso. Pertanto esige dal direttore della comunità ecclesiale purezza di pensiero, in quanto “è necessario che cerchi di essere pura quella mano che si dedica a dilavare le sozzure, per evitare che inquini in grado peggiore tutto quello che tocca, se, mentre persegue quello che è sporco, è insozzata di fango” (§ 2). È una purezza che, alla propria eccellenza interna, unisce un’efficace valenza didattica esterna: “Il rector spicchi su tutti nel suo modo di agire per mostrare ai suoi sudditi12 con la sua vita la via della vita, ed il suo gregge, seguendo la voce ed il costume del pastore, procederà meglio sotto lo stimolo degli esempi che sotto quello delle parole... il suo posto gli impone di enunciare valori altissimi, ma non gli impone meno di farli vedere” (§ 3). E, con il modo di vivere, quello di parlare, che deve essere regolato da una lucida discrezione, in modo che “non abbia da esprimere quello che va taciuto e da tacere quello che va espresso, poiché un parlare sconveniente trascina nell’errore ed un silenzio inopportuno abbandona nell’errore” (§ 4). Sì, parlare, ma bene, per rispetto al messaggio e per riguardo al pubblico; il rector “deve quindi stare molto attento a non enunciare ciò che è errato, ma anche a non presentare quello che è vero in un

Br. Judic ne ha redatto un prospetto: pastor si riferisce alla direzione delle anime; doctor all’insegnamento; praedicator al carattere tecnico della predicazione; sacerdos al rituale liturgico; praepositus al rapporto coi soggetti; rector alla funzione direttiva all’interno della funzione pastorale (p. 63). 12 Non dice ‘fedeli’, la sacralità è implicita nei rapporti sociali. 11


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profluvio di parole disordinate, perché spesso va perduta l’efficacia delle affermazioni, quando una loquacità incontrollata, con la sua importunità, ottunde l’attenzione degli ascoltatori”, (§ 4) ai quali deve stare vicino nella condivisione dei sentimenti (§ 5). Questa cordialità di rapporti è anche importante perché apre alla direzione spirituale: “Che i superiori si mostrino tali, che i loro inferiori non arrossiscano di svelare loro anche le proprie manchevolezze nascoste, cosicché quando i piccoli sono oppressi dalle ondate delle tentazioni, si rivolgano fidenti alla sensibilità del pastore come al seno di una madre” (§ 5). Sorprende questo scorcio per il suo spiccato colorito monastico; si sembra passati dalla diocesi al monastero; il vescovo ha assunto i tratti dell’abate. Ma Gregorio, il primo monaco diventato Papa, anche da Papa restò monaco e combinò le direttive universali che emanò come Papa per tutta la Chiesa con la direzione riservata impartita ai monaci di S. Andrea. Questo risvolto interno ci manifesta forse anche il segreto della sua forza. Promulga infatti la norma che il rector “attraverso alla sua umiltà, si dimostri compagno di quelli che si comportano bene e, attraverso al suo zelo per la giustizia, si erga risoluto contro i vizi dei malfattori” (§ 6 p.201) e prosegue (p.204): “È tuttavia necessario che i rectores siano temuti dai loro sudditi, quando constatano che essi non temono affatto Dio, affinché abbiano paura di peccare almeno per un timore umano quelli che non temono i giudizi divini”. Però l’usare la forza può facilmente ingenerare l’orgoglio del proprio potere; Gregorio richiama il pericolo: “Il rector in nome della sua stessa preminenza, spesso si gonfia nell’esaltazione del suo pensiero; tutto è a sua disposizione, può farne quello che vuole; i suoi ordini vengono rapidamente eseguiti, come non potrebbe meglio desiderare; se qualche sua iniziativa riesce bene, lo esaltano con le celebrazioni; se riesce male, non hanno autorità per contraddirlo e sovente lodano anche ciò che avrebbero dovuto disapprovare; sedotto da quanto gli viene fornito dal basso, l’animo si esalta al di sopra di se stesso. Mentre è circondato dall’esterno da un immenso favore, all’interno si vuota della verità e, dimentico di se stesso, si sparpaglia seguendo queste voci estranee; si crede di essere quale si sente dire al di fuori e non quale avrebbe dovuto individuarsi all’interno... “ e l’analisi continua (§ 6 p.206). È un ritratto incisivo, realistico; felice tanto nella immaginazione quanto nella formulazione; Gregorio dirige la realtà cogliendola nella sua condizione effettiva. Il suo magistero formativo si tutela dalle generalità scontate per operare nella sostanza psicologica autentica. È una diagnosi che si apre, automaticamente, in terapia. Analizza, in perspicuità, i temperamenti, come ne osserva, in lucidità, le leggi di funzionamento: “Sa dominare bene il senso del potere chi sa, insieme, esercitarlo e criticarlo; e lo esercita bene chi sa servirsene per ergersi contro le colpe e chi sa assimilarselo per disporsi in identità di uguaglianza con gli altri” (§ 6 p.208). Il potere è quindi una funzione che si esercita in identità di natura, a tutela della morale: “Il posto più alto viene rettamente impiegato quando chi lo occupa esercita il suo potere sui vizi piuttosto che sui suoi fratelli” (§ 6 p.210).


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La preminenza di potere può venire salutarmente concordata con l’uguaglianza di natura solo se vissuta nell’umiltà, virtù che Gregorio ritorna instancabilmente ad inculcare, evitando però, anche qui, ogni semplicismo: umiltà è obiettività di visione, non depauperamento né avvilimento; in chi governa umiltà è esclusione della iattanza non infiacchimento dell’azione; il riconoscimento dei propri limiti non implica un loro restringimento, con conseguente abdicazione dalle proprie responsabilità. Gregorio ammonisce: “Bisogna usare una sveglia attenzione perché, mentre si conserva esageratamente la virtù dell’umiltà, non si abbiano da vanificare i diritti del compito direttivo e che il superiore, mentre si abbassa più di quanto sia conveniente, perda la capacità di trattenere saldamente la vita dei suoi sudditi nell’ambito della legge morale” (§ 6 p.212). Entra nell’ammonimento, già espresso da moralisti antichi, a cautelarsi, nella pratica di una virtù, dallo scivolare nel vizio antagonista. Però l’affievolimento della vigoria nel censore morale, più che all’eccesso di un’umiltà male equilibrata, è facile che venga causato dall’aspirazione a blandire una rilassatezza pubblica nella brama di popolarità: “Il rector deve vegliare con alacre sollecitudine a non lasciarsi spingere dal desiderio di piacere agli uomini”. (§ 8) Ma, anche al di fuori di collusioni compiacenti, l’immersione nella folla produce, di per stessa, un’estroversione che dissipa la vita interiore; Gregorio ammonisce del pericolo ed offre la cura: “Il vivere abitualmente nelle relazioni con la gente distrugge un’oculata contemplazione della vita celeste; a ricostruirla debbono intervenire le parole degli avvertimenti divini” (§ 11).

6. Parte terza: Metodi variati nell’istruire i differenti tipi di persone13 Gregorio parte dal presupposto che bisogna ammonire in maniera diversa le diverse persone in rapporto alla varietà dei loro temperamenti e delle loro situazioni (§ 1). Cl. Dagens14 afferma, risoluto, che l’essenziale del Liber regulae pastoralis si trova nei 40 capitoli della terza parte (p.124), nei quali Gregorio si rivolge a 39 specie di ascoltatori, in una casistica che ci stupisce, ma che era conforme al gusto dell’epoca e dello stesso Gregorio. Vi si avverte, nota Dagens, uno spirito monastico “ed era naturale che Gregorio, ex monaco, si ispirasse alla regola monastica nel comporre una regola per il clero secolare; Gregorio usa infatti la parola regula nel senso preciso di regola monastica” (p.125); “insomma egli si occupa dell’educazione dei pastori, come l’abate si occupa dell’educazione dei suoi monaci” (p.126). Gregorio redige un catalogo che si dispiega in un ventaglio meticolosamente distinto in base al sesso, allo stato sociale, al temperamento ed alle propensioni individuali. Le suddivisioni, nelle loro distinzioni, sono talvolta tenuissime e scendono

13 14

In vol. II, Sources chrétiennes 382, Paris 1992. Cl. Dagens, Saint Grégoire le Grand. Culture et expérience chrétiennes, Paris 1977.


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nelle pieghe di sottili predisposizioni interiori, come la differenziazione tra quelli che non capiscono rettamente il testo della legge sacra e quelli che lo capiscono ma non ne parlano con umiltà (§ 24). Penetra nella coscienza evidenziando vibrazioni che possono sembrare impalpabili, ma che introducono in valori ed in meriti morali; con accurata diligenza d’indagine mette pertanto in guardia dinanzi ad un pericolo latente: “Bisogna ammonire le persone pazienti a non dolersi all’interno di ciò che sopportano all’esterno; non corrompano dentro, con la peste di una cattiva disposizione, il sacrificio di una così grande virtù che hanno offerto in pienezza all’esterno” (§ 9). In tutta questa classificazione Gregorio procede filtrando i sentimenti e le loro spinte ed osservando il grado di autocoscienza, che è poi quello della responsabilità; proietta la morale sulla psicologia, determinando così il livello di imputabilità. Suo orizzonte di confronto e di valutazione è sempre ed unicamente la Scrittura, che è la sola storia e la sola filosofia che egli prenda in considerazione. Commisura la sua didattica, non su canoni scolastici, ma sulla reattività della persona, nella quale pone in risalto la razionalità, ma non meno l’emotività, a cui riconosce un’efficacia nel determinare l’azione non inferiore alla riflessione intellettuale. A tale scopo, ritrae i meccanismi psicologici che producono la condotta: “Il pigro sovente, mentre trascura di fare ciò che è necessario, si colloca davanti agli occhi alcune difficoltà; alimenta certi timori immotivati, e, quando ha trovato qualche cosa che sembra possa offrire un buon motivo di timore, fa vedere di avere una buona ragione per abbandonarsi ad un’indolenza inattiva” (§ 15)15. Speculare è il congegno che muove gli iperattivi:” Talora i collerici credono che l’impeto della loro ira sia uno zelo per la giustizia, e siccome il vizio viene giudicato virtù, la colpa si accresce senza ingenerare paura. Spesso i miti si illanguidiscono nella noia dell’ignavia ed i collerici si ingannano sullo zelo della rettitudine morale” (§ 16 p.354). Nella sua introspezione coglie inoltre con sicurezza la diversità delle radici che si celano sotto l’uniformità delle loro manifestazioni: “Molto diverse sono la collera che si nasconde sotto l’apparenza di zelo e quella che sconvolge un cuore già perturbato, senza neppure avanzare il pretesto della giustizia; la prima va disordinatamente troppo avanti in quello che è un dovere; la seconda s’infiamma sempre fuori di quello che è il dovere” (§ 16 p.358). È plastico nella sua interpretazione dei fenomeni psicologico-morali; visualizza l’astratto conferendogli un’evidenza che si fa immediatamente persuasività. Di fronte ad una rassicurazione speciosa, ma non priva di efficacia nel sedurre e nell’addor-

Sono lampi caratteriali, squisiti nella loro precisione di rilievo psicologico e nella loro lucidità di espressione verbale. Richiamano assai da vicino i Caratteri di Teofrasto; identica la felicità evocatrice del ritratto, diverso lo scopo, e quindi l’estensione dei tocchi. Per Teofrasto il tipo era finalizzato a se stesso; valeva in quanto tersa analisi di un temperamento colto in vivezza di osservazione; per Gregorio l'atteggiamento aveva un significato morale, che richiedeva una specifica cura pastorale. 15


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mentare la coscienza, evoca un’esperienza che s’impone nella sua universale possibilità di controllo da parte di tutti: “Quelli che commettono peccati piccoli ma frequenti, non considerino la qualità ma la quantità di quello che commettono. Se trascurano di temere quando pesano questi loro atti, debbono avere paura quando li contano; sono piccole, ma innumerevoli, le gocce di pioggia che riempiono le profonde cavità dei fiumi; la sentina che sale di livello produce in silenzio il medesimo effetto di una tempesta che infuria apertamente” (§ 33 p. 498). Gregorio ha la didattica di far constatare. A quelli che incominciano il bene, ma poi se ne disamorano prima di portarlo a compimento, fa notare che “l’anima umana rassomiglia ad una barca che risale la corrente di un fiume; non le è possibile stare ferma in un posto; rifluisce in basso, se non si sforza di arrivare alla cima” (§ 34). Il quadro talora si vivifica muovendosi in una scena ricca di pittoresco: “Il riccio simboleggia la duplicità dell’anima falsa che si difende con astuzia; quando si sta per prendere un riccio, se ne vedono la testa, i piedi e tutto il corpo; ma, non appena viene preso, esso si raccoglie in una palla; ritira dentro i piedi, nasconde la testa e sfugge tutto intero nella mano di colui che lo tiene” (§ 11). L’allegorismo di Gregorio diventa volentieri immagine colta in osservazione diretta. La sua area di esplorazione psicologica si estende per uno spazio ad amplissima circonferenza ed è contrassegnata da quell’intelligenza pratica che ha la quadratura di un pregevole buon senso.

7. Parte quarta: conclusione È una conclusione brevissima, che s’incentra in quell’ammonimento che fa da anima unificatrice a tutta la Regula: “Il predicatore non si inorgoglisca”. Al predicatore eloquente, esposto al compiacimento dell’ostentazione, richiama il timore che “mentre egli riporta gli altri alla sanità, curando le loro ferite, non abbia da trascurare la propria salvezza gonfiandosi d’orgoglio; non gli capiti che, mentre aiuta i vicini, abbandoni se stesso; che non abbia da cadere mentre solleva gli altri” (p.534). Ad epilogo pone, come sigillo finale che deve imprimersi duraturo nello spirito del lettore: “È necessario che, quando l’abbondanza delle nostre virtù ci lusinga, il nostro spirito getti uno sguardo sulle sue debolezze e si abbassi con un’umiltà salutare. Guardi, non a quello che ha fatto di bene, ma a quello che ha omesso di fare, e, mentre il cuore viene colpito dal ricordo della sua debolezza, venga più robustamente rafforzato nella virtù presso l’autore dell’umiltà” (p.538). Gregorio fu meritamente ‘Magno’ perché operò in grandezza senza credersi grande, esercitò un grande potere riportandone il merito, non alla sua bravura personale, ma alla grazia di Dio che lo aveva scelto ed investito di una grande missione; comandò a tutti con autorità perché di tutti sentì servo, in genuina sincerità.


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8. Lo stile Nella lettera di presentazione a Giovanni, Gregorio incide la situazione in una schematicità epigrafica di stile che conferisce evidenza alla problematica esposta nella Regula e all’obbligo nel quale si è trovato di assumersi la responsabilità episcopale. Nella Regula c’è, abitualmente, un’austerità di formulazioni che irradia subito l’importanza e la serietà del messaggio. L’incisività, che scandisce in nettezza i concetti, precisandone natura e ambito, viene ancora rilevata dal frequente ritmo commatico, il quale, oltre ad essere sovente impiegato in serie apposite, emerge anche all’interno di periodi complessi, nei quali le singole frasi tendono a preservare la loro fisionomia specifica pure nell’onda di una cadenza più ampia. In genere la sua formulazione è improntata ad una pacatezza e ad un’austerità che gli sorgono naturali; la sua competenza retorica si manifesta nell’agevole scorrevolezza di un linguaggio che ignora fatiche ed impacci e che si esime da ogni puntigliosa ricerca di figure e di accorgimenti tecnici quali erano codificati nei manuali. La sua espressione è asciutta, essenziale; tutte le parole portano; non ci sono aggettivi ornamentali né pleonasmi che servano soltanto a fluidificare l’enunciato. Il tono è sempre regolarmente dignitoso, né teso per la consapevolezza della propria autorità, né familiarmente e colloquialmente dimesso, per riguardo alla dignità dei suoi destinatari. Parla a vescovi; non ha quindi bisogno di ricorrere ad accorgimenti stilistici che ne tengano desta l’attenzione, come soleva avvenire con i catecumeni e, non di rado, anche con un pubblico generico. Non gioca sulle parole come faceva spesso S. Agostino; non fa assegnamento sui riflessi che il loro urto vicendevole può suscitare; usa i vocaboli nella loro esatta valenza semantica. Il suo tono è costante, senza essere monotono; nella sua calma c’è la pressione interna di chi ha chiara coscienza di trattare valori che si prolungano in un ambito eterno. La sua pedagogia nasce dall’elevatezza dei suoi ideali e la sua didattica dalla chiarezza con cui li propone. V. Monachino, col.271, afferma: “Gregorio riacquistò alla Sede Apostolica una posizione di preminenza nel mondo cristiano d’Oriente e d’Occidente [... ] e pose le basi perché il papato potesse, a suo tempo, raccogliere in Italia la successione dell’Impero”. Questo non fu il risultato d’una, inesistente, forza politica; fu l’effetto della sua, ben presente, straordinaria grandezza spirituale. La catechesi nei Padri della Chiesa / 15. Fine*

*NdR – Abbiamo il piacere di segnalare fin d’ora ai nostri lettori che i 15 articoli “La catechesi nei Padri della Chiesa” pubblicati in originale nel corso delle ultime 4 annate di Rivista lasalliana, saranno prossimamente ampliati e riediti in volume unico presso la editrice Elledici.



RivLas 78 (2011) 4, 621-632

Un protagonista della storia dell’Italia unitaria

Giorgio La Pira un cristiano per la pace nel mondo EMILIO BUTTURINI

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l 17 marzo 2011 papa Benedetto XVI ha mandato un messaggio al presidente Giorgio Napolitano in occasione dei 150 anni dell’unità politica d’Italia, con varie significative considerazioni sul processo di unificazione italiana, visto come «il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima», a partire dall’età medievale, con riferimento non solo alle «istituzioni educative ed assistenziali» della Chiesa o alle «numerose esperienze di santità», ma anche alla «ricchissima attività artistica e della letteratura» di grandi italiani, che «nei secoli hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell’identità italiana». Fra i primi nomi indicati (dal Trecento al Settecento) può colpire l’assenza di Galilei o anche di Boccaccio (con cui – come osserva Piero Stefani1 – lo spirito italiano si è identificato più che col Petrarca), oppure di Savonarola e Giordano Bruno o Lodovico A. Muratori, mentre nel secondo elenco (dall’Otto al Novecento), si può notare l’assenza di Sturzo o di La Pira, pure – come scrive giustamente Fulvio De Giorgi introducendo una raccolta di suoi scritti – «uno dei protagonisti della storia d’Italia nel secolo XX e uno dei cattolici più originali e più stimati nel mondo contemporaneo», anche se proprio Sturzo lo qualificava criticamente come «statalista della povera gente»2.

1 P. Stefani, L’apporto dei cattolici allo stato unitario. Piccole e grandi verità, «il foglio», maggio 2011, p.3. 2 G. La Pira, Fermento educativo e integralismo religioso, a c. di F. De Giorgi, La Scuola, Brescia 2009, p.5. Gli scritti di La Pira in questo testo altro non sono che gli articoli apparsi sui numeri 15 e 31 ottobre e 15 novembre 1947 di Cronache Sociali, di commento della pastorale dell’arcivescovo di Parigi Emanuele Suhard dell’11 febbraio 1947, apparsa in Italia col titolo Agonia della Chiesa? nel Primo


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Emilio Butturini

Può lasciare perplessi nel documento papale anche il silenzio non solo sulle cosiddette guerre di indipendenza, ma sulle stesse terribili stragi delle due guerre mondiali e sulla dittatura fascista, pur citando a più riprese positivamente la Conciliazione del 1929, ma senza evocare il nome dell’allora capo del governo Benito Mussolini. Non viene invece dimenticato «l’apporto fondamentale dei cattolici italiani alla elaborazione della Costituzione repubblicana del 1947», anche se Aldo Moro viene ricordato, insieme con Vittorio Bachelet, solo per «la loro testimonianza di sangue negli anni dolorosi ed oscuri del terrorismo». Viene inoltre valorizzato puntualmente l’insegnamento conciliare ed apprezzato l’Accordo di revisione del Concordato lateranense del 1984/85, che ha «segnato il passaggio ad una nuova fase di rapporti tra Chiesa e Stato in Italia» e impegnato i cattolici a favore di quella «promozione dell’uomo e del bene del Paese che, nel rispetto della reciproca indipendenza e sovranità, costituisce principio ispiratore ed orientante del Concordato in vigore». Ma affrontiamo ora il nostro personaggio, che ha avuto una significativa funzione per l’Italia e per il mondo negli anni di una più profonda unificazione politica e culturale del Paese.

Profilo biografico nel contesto storico del Novecento Siculo come Sturzo, ma più giovane di una generazione, Giorgio La Pira nasce il 9 gennaio 1904 a Pozzallo (Ragusa), nel sud dell’isola, sulla sponda del mare che s’affaccia verso l’Africa. Primo di sei figli, apparteneva a una famiglia di modesta estrazione sociale. Di lui si prese cura particolarmente il fratello della madre, Luigi Occhipinti, padrone di un’azienda commerciale. Frequentò a Pozzallo i primi due bienni delle scuole elementari (1909-13), trasferendosi poi presso lo zio a Messina, ancora segnata dalle conseguenze del terremoto del 1908, dove, dal 1914 al ‘17, negli anni della I guerra mondiale, frequentò le tre classi di scuola tecnica commerciale, e, dal 1917 al ‘21, l’analogo istituto tecnico, divenendo ragioniere e perito commerciale e stringendo amicizia con vari coetanei, fra cui Salvatore Quasimodo, col quale intrecciò un carteggio, pubblicato da Scheiwiller (Milano 1980) a cura di Alessandro Quasimodo. Preparava intanto da privatista l’esame di maturità classica, che sostenne a Palermo nel 1922 (l’anno della marcia su Roma), aiutato dal prof. Federico Rampolla Del Tindaro, già suo docente all’istituto tecnico di Messina, fra-

Quaderno di Cronache Sociali del gennaio 1948. L’attacco di Sturzo a La Pira apparve su Il Giornale d’Italia del 13 maggio 1954. Il sindaco di Firenze rispose dieci giorni dopo, ricordando la critica al capitalismo già di Pio XI nella Quadragesimo anno (1931) e ribadendo che la vita dei lavoratori non può essere «affidata alla instabilità della ‘congiuntura’ o ai venti infidi della ‘libera iniziativa’». Vedi E. Balducci, Giorgio La Pira, Ed. Cultura della Pace, Firenze 1986, pp.51-52.


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tello di don Mariano, di cui pure divenne amico e che lo avrebbe messo in contatto con Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI. Dal 1922 al ‘25 frequentò Legge all’Università di Messina per poi seguire il prof. Emilio Betti a Firenze, con cui si laureò il 10 luglio 1926 con una tesi in diritto romano3. Dopo un periodo di ‘borsista’, come diremmo oggi, nell’anno accademico 1927/28, presso le Università di Vienna e Monaco, divenne l’anno seguente incaricato di Istituzioni di diritto romano all’Università di Firenze e successivamente di Storia del diritto greco-romano, mentre frattanto aderiva all’istituto dei “Missionari della regalità di Cristo” di p. Agostino Gemelli, con i relativi voti di castità, povertà e obbedienza, nell’ambito del Terz’ordine francescano, rinnovando i voti fino all’ultimo anno di vita. In questo contesto si legò in particolare a Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani e Giuseppe Lazzati, avendo anche i primi incontri con Montini. Nel 1933 vinceva la cattedra di Istituzioni di diritto romano, stimato e ammirato da studenti e colleghi, anche “laici”, come Piero Calamandrei, che diverrà poi suo rettore o Eugenio Garin. Quest’ultimo fu colpito dalla sua intensa fede religiosa, che vedeva però non disgiunta da «sottilissima abilità di politico», fino a considerarlo come «l’ultimo seguace della profezia savonaroliana […], ma senza nessuna durezza austera, con una capacità di incontro umanissimo con tutti»4. Intanto cominciava a divenire assiduo frequentatore del vescovo di Firenze card. Elia Dalla Costa (1872-1961), già parroco di Schio e vescovo di Padova (19231932), piuttosto inviso al regime fascista. Si legava anche, con profonda amicizia, a don Giulio Facibeni (1884-1958), che nel 1924 aveva fondato l’opera “Madonnina del Grappa” per i figli dei caduti nella guerra mondiale5. Diranno più avanti i fiorentini che nella loro città c’erano tre santi, Elia Dalla Costa come campione della fede, Giorgio La Pira della speranza e Giulio Facibeni della carità. Per tutti e tre è in corso la causa di beatificazione. Un altro santo prete fiorentino, Raffaele Bensi (18961985), a cui Montini l’aveva indirizzato, divenne suo padre spirituale ed amico e insieme con lui fondò nel 1934 la “Messa di san Procolo” per l’assistenza spirituale e materiale dei poveri, a cui affiancò l’anno seguente la Conferenza di S. Vincenzo per l’assistenza di scrittori, artisti e artigiani, della quale fecero parte, fra altri, Piero Bargellini, Carlo Bo, Nicola Lisi e Giovanni Papini.

3 La tesi, premiata con la lode e il diritto di pubblicazione, uscirà presso le Pubblicazioni dell’Università di Firenze col titolo La successione ereditaria intestata e contro il testamento nel diritto romano, Vallecchi, Firenze 1930 (pp. XXVIII, 598). E’ dedicata «A Contardo Ferrini che per tutte le vie mi ricondusse alla casa del Padre», alludendo alla sua “conversione” del 1924. Il Ferrini (1859-1902) sarà beatificato da Pio XII il 13 aprile 1947. Cfr., in particolare, G. La Pira, Lettere a casa, a cura di D. Pieraccioni, Vita e Pensiero, Milano 1981, specie pp. 38-39 e relativa n.1. 4 Cfr. La Pira, Fermento educativo, cit., p.13 e 17, con riferimenti a D. Bernabei, P. Giuntella, Giorgio La Pira «venditore di speranza», Città nuova, Roma 1985. 5 Il card. Silvano Piovanelli ha scritto su di lui: Don Giulio Facibeni facchino della Divina Provvidenza, Libreria Ed. Fiorentina, Firenze 2008.


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Nel 1936 fu accolto nella Comunità domenicana di S. Marco (cella n. 6, luminosa e silenziosa, ma fredda e disadorna), dove approfondì tra l’altro lo studio di san Tommaso d’Aquino, cogliendovi la centralità della concezione dell’uomo e del valore della persona, che è «al centro della crisi ed incide sull’etica e sulle strutture giuridiche, politiche ed economiche», come ha scritto Vittorio Possenti introducendo la nuova edizione di un’importante opera di La Pira6. Nel 1937 promuoveva una seconda Conferenza di S. Vincenzo presso la Libreria Ed. Fiorentina di magistrati e avvocati, mentre fra il gennaio 1939 e il febbraio 1940 faceva uscire, fino alla soppressione voluta dal regime, la rivista Principi, a difesa del «valore della persona», come supplemento di Vita cristiana dei Domenicani di S. Marco. Seguirono gli anni della II guerra mondiale e della necessità di sottrarsi agli ultimi colpi del regime, ormai del tutto screditato, specie dopo l’estensione delle leggi razziali all’Italia (1938), dopo il “Patto d’acciaio” fra Roma e Berlino (1939) e l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista (giugno 1940). Il 29 settembre 1943 vi fu una perquisizione nel convento di S. Marco e la fuga di La Pira verso Siena, dove venne ospitato dalla famiglia Mazzei, divenendo amico di Fioretta Mazzei (1923-1998), che sarà, dal 1945, sua preziosissima segretaria7. Dal dicembre 1943 si rifugiò a Roma in varie case, compresa quella di Montini, che lo fece collaborare a L’Osservatore Romano, per tornare nel settembre 1944 al convento di S. Marco e poi presso la clinica dell’amico prof. Palumbo, con le Suore della Misericordia, che lo assisteranno per oltre 25 anni. Eletto il 2 giugno 1946 all’Assemblea Costituente, come indipendente nelle liste della Dc, di cui non prese mai la tessera, operò con Moro, Dossetti, Fanfani, Lazzati, ma anche con i “laici” Basso, Calamandrei e Togliatti nella “Commissione dei 75” per elaborare i principi fondamentali della Costituzione. Alla Costituente propose, fra l’altro - il 22 dicembre 1947, il giorno stesso della approvazione della Carta - di introdurre il documento con la formula «In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione», ma dopo gli interventi contrari di Togliatti, Marchesi e Calamandrei, decise di ritirare la sua proposta8. Frattanto, insieme con Dossetti, Fan-

G. La Pira, Il valore della persona umana, Polistampa, Firenze 2009, p.12. Il volume, pronto già nel 1943, uscì in diverse edizioni: 1947?, 1954? e 1962?. 7 Ad essa scriverà 400 lettere, pubblicate poi in un volume recentemente ristampato: F. Mazzei, Cose viste e ascoltate, Libreria Ed. Fiorentina, Firenze 1980 (rist. 2005). Cfr. anche della stessa La mia storia sacra. Dai «Diari spirituali», a cura di G. Carocci, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 2004. 8 Cfr. la Cronistoria nel testo sopra cit. di E. Balducci, Giorgio La Pira, p. 176. Vedi a questo proposito anche il ricordo di Giulio Andreotti, che, evidenziando il contributo tecnico-giuridico di La Pira alla stesura della Carta, ne riconosceva pure la capacità di creare un clima particolare con la «fede trasparente, comunicativa», che rendeva difficile dirgli di no, come invece quella volta alla fine avvenne. Cfr. P. A. Carnemolla, Rassegna degli studi su G. La Pira in C. Vigna, E. Zambruno (a cura), Giorgio La Pira. Un San Francesco nel Novecento, Ave, Roma 2008, pp.347-348. 6


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fani e Lazzati nel settembre 1946 diede vita all’associazione “Civitas humana” e alla rivista Cronache Sociali9. Nelle elezioni politiche dell’aprile 1948 venne eletto deputato e nominato sottosegretario al Lavoro (ministro era Fanfani) nel V governo De Gasperi (maggio 1948-gennaio 1950). Superando varie perplessità, accolse poi la proposta di essere capolista della Dc per le elezioni amministrative del giugno 1951, venendo eletto per la prima volta sindaco di Firenze, come successore di Mario Fabiani, che aveva guidato nel quadriennio precedente una giunta di sinistra10. Nel discorso di investitura La Pira rivolse una breve parola di saluto come parola di pace, usando «la bella espressione francescana pax et bonum»11, ben conoscendo la specificità di questa espressione, tesa a superare la limitatezza del termine latino (pax, dalla radice di pango, paciscor si ricollega a “patto” che pone fine ad una guerra) e a ricuperare, attraverso l’endiadi, la ricchezza del termine ebraico, arabo o russo (shalòm, salàm, myr), che allude ad una pienezza armonica di beni e di valori. Si può ricordare che nell’estate del 1951 si era nel cuore di una crisi generalizzata del mondo cattolico, che portò, fra l’altro, alla riduzione al silenzio di don Mazzolari e per nove mesi della sua rivista Adesso, al ritiro dalla politica di Lazzati, allo scioglimento del gruppo della sinistra democristiana ad opera di Dossetti (che si dimise anche dalla direzione del partito, dove era vicesegretario nazionale), alla chiusura di Cronache Sociali, alle gravi difficoltà incontrate dalla milanese Corsia dei Servi di p. David Maria Turoldo e di p. Camillo Da Piaz. Frattanto, a partire dal 1952, in piena “guerra fredda”, La Pira indiceva i primi grandi convegni internazionali per la pace, su cui torneremo più avanti, non senza impegni precisi da sindaco della città e inviti prestigiosi come quello del Comitato internazionale della Croce Rossa a Ginevra nell’aprile 1954, dove, prendendo netta posizione contro le armi nucleari, affrontò per la prima volta un tema per lui fondamentale, quello de «l’epoca storica delle città», «unità viventi», che «gli Stati non hanno il diritto di uccidere», dove «si concentrano valori essenziali della storia passata e

Esiste una ristampa anastatica della rivista a c. di A. Melloni, Istituto per le Scienze Religiose, Bologna 2007, pp.IX-XL per il suo importante saggio introduttivo. Nella rivista La Pira pubblicò tredici articoli, fra cui, già nel primo numero del maggio 1947 (quando si consumava l’esperienza del governo tripartito di Dc, Pci e Psi) il saggio L’attesa della povera gente, riedito in un volumetto della LEF, Firenze 1978 (rist. 1983). Numerosi gli interventi su questo articolo, come quelli di Di Vittorio, Fanfani, Riccardo Lombardi, Malvestiti, Mazzolari, Sturzo e di altri, analiticamente indicati fin dalla prima pagina della II parte del volumetto sopracitato, col titolo Difesa della povera gente, p. 47. 10 Cfr. la Scheda biografica elaborata per il centenario della nascita, Fondazione G. La Pira, Firenze 2004. Vedi anche il “Profilo biografico” nel volumetto su La Pira di G. Dall’Asta, QuattroVenti, Urbino 1996, pp.8-11. 11 Cfr. M. Toschi, Giorgio La Pira e il volto della pace, Opuscula “Pax Hominibus”, 1, Firenze 2007, p.16. 9


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centri di irradiazione di valori per la storia futura»12. La risonanza mondiale di quel discorso lo portò a convocare a Firenze il “Convegno dei sindaci delle capitali del mondo”, con una messa solenne del card. Dalla Costa il 4 ottobre 1955 (festa di san Francesco), alla presenza, fra altri, dei sindaci di Mosca e di Pechino. Dopo il grande successo personale delle elezioni comunali del 27-28 maggio 1956, venne rieletto sindaco, salvo a dimettersi con tutto il Consiglio dopo poco più di dieci mesi, mentre la città veniva commissariata per tre anni. Eletto deputato alle elezioni politiche del 25-26 maggio 1958, convocava a Firenze nell’ottobre di quello stesso anno il primo dei 4 “Colloqui Mediterranei”13, a cui sarebbe seguito l’invito in URSS dell’agosto dell’anno successivo, che in qualche misura avrebbe preparato il viaggio del card. G. Willebrands a Mosca, da cui sarebbe stata assicurata la presenza al Concilio (annunciato da Giovanni XXIII già il 25 gennaio 1959) di rappresentanti del Patriarcato russo. Il 24 gennaio 1960 poi poté incontrare il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Atenagora, che fu preludio di altri colloqui, come sarebbe stato il primo incontro di Atenagora con Paolo VI a Gerusalemme del 5 gennaio 196414. Erano anni nei quali «miracolosamente Dio diede alla Chiesa e al mondo Giovanni XXIII, il Concilio, la Pacem in terris e il moto irreversibile verso l’unità»15. Dalle elezioni amministrative del 6-7 novembre 1960 divenne sindaco di Firenze per la terza volta, con una delle prime giunte di centrosinistra, lasciando il suo seggio in parlamento, ma continuando i grandi convegni e incontri internazionali, come quelli fatti prima dell’apertura del Concilio (11 ottobre 1962), con la partecipazione di noti teologi italiani, come lo stesso Balducci, o stranieri come Jean Daniélou, Yves Congar o Henri-Marie Féret, il teologo dell’Apocalisse, caro a La Pira. In particolare, egli aveva fatto in quel tempo di Firenze il centro nazionale di riflessione e mobi-

12 Cfr. l’Antologia del testo citato di Balducci, Giorgio La Pira, pp. 152-154. Vedi anche l’introduzione di Giuseppe Tognon ad una riedizione di un testo del 1957 di La Pira, Le città sono vive, La Scuola, Brescia 2005, p.5, dove osserva che «nel XX secolo nessun cristiano meglio di La Pira riuscì a fare della Città la metafora del processo di liberazione dal bisogno e dall’odio, offrendo una sponda politica al rinnovamento conciliare e un esempio non ideologico alle lotte per l’emancipazione sociale». 13 Vedi a questo proposito R. Castellani, Giorgio La Pira e la pace. Il dialogo interreligioso nei “Colloqui Mediterranei”, Pro Sanctitate, Roma 2009. 14 Nel suo saluto Paolo VI ricordò, fra l’altro, il desiderio espresso da Atenagora di incontrare il Papa fin dal tempo di Giovanni XXIII, per il quale egli non aveva «nascosto stima e simpatia, applicandogli, in una stupenda intuizione, le parole dell’evangelista “Vi fu un uomo inviato da Dio, chiamato Giovanni”». Per il testo del saluto vedi M. Gozzini (a cura), Il Vaticano II nella parola di Giovanni e Paolo (1959-1965), Vallecchi, Firenze 1967, pp. 182-183. 15 Cfr. M. P. Giovannoni (a cura), Il grande lago di Tiberiade. Lettere di Giorgio La Pira per la pace nel Mediterraneo (1954-1977), Polistampa, Firenze 2006, p.184. La Pira aveva ben presente l’alienum a ratione dell’uso della guerra in un’età quae vi atomica gloriatur (Pacem in terris, 67), come indicava a chiare lettere nello “scritto introduttivo” della enciclica nell’edizione Morcelliana, Brescia 1963, pp. 15-19, spec. pp. 16-17.


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litazione sul tema dell’obiezione di coscienza al servizio militare, con la provocatoria proiezione in anteprima del film Non uccidere di Claude Autant-Lara (1961) e l’appoggio da lui offerto ai primi obiettori cattolici italiani come Fabrizio Fabbrini e Giuseppe Gozzini16. Nelle nuove elezioni amministrative del 22-23 novembre 1964 fu per la quarta volta capolista, rinunciando però a fare ancora il sindaco, anche per l’insofferenza del gioco delle correnti interne della Dc. Non tralasciava però l’impegno internazionale per la pace, con attenzione particolare alla guerra nel Vietnam, e continuava ad interessarsi di Firenze, specie per la grande alluvione del novembre 1966, in occasione della quale promosse importanti iniziative di solidarietà internazionale. Nel 1967 veniva eletto presidente della Federazione mondiale delle città gemellate (FMYJ), riconosciuta dall’Onu, carica che gli sarebbe stata confermata nei due congressi successivi: nel 1970 a Leningrado, dove rilanciò il motto «unire le città per unire le nazioni», e nel 1973 a Dakar. Frattanto, con la Guerra dei sei giorni tra Israele e Stati Arabi (giugno 1967), aveva preso piena consapevolezza della centralità del problema palestinese - a tutt’oggi drammaticamente aperto - e fatto viaggi in Medio Oriente per collaborare a risolverlo. Il 1968 - anno della grande contestazione giovanile negli USA e in altre democrazie occidentali, dove maggiori spiragli di libertà consentivano di vedere i tanti condizionamenti che ne vincolavano l’effettivo esercizio - si era diffuso in molti altri paesi, anche dell’Europa orientale e di quello che allora si chiamava Terzo mondo. Di qui il viaggio a Tunisi al convegno mondiale dei giovani della FMYJ di quello stesso anno e i ripetuti viaggi a Parigi (in uno dei quali parlò ad un’assemblea giovanile alla Sorbona, insieme con Roberto Rossellini) o a Praga, dove andò invitato dal sindaco per seguire gli sviluppi della “primavera cecoslovacca”, incontrando anche il ministro degli Esteri Hayek. Continuavano poi i viaggi in varie capitali europee e del Medio Oriente per promuovere conferenze di pace per il Vietnam e per Israele e Palestina, mentre dal 1970, essendosi chiusa a Firenze la clinica Palumbo, egli si era trasferito presso l’Opera per la Gioventù, dove aveva sede anche “Cultura”, centro di attività politica e culturale, diretto dai fratelli Gianni e Giorgio Giovannoni, editori di molti suoi scritti, sempre con la collaborazione della Mazzei. Nel 1971-73 affrontava nuovi viaggi in Europa e nel mondo, anche per incontrare Salvador Allende, da poco eletto presidente del Cile, ma destinato ad essere vittima nel settembre 1973 del golpe militare, guidato da Augusto Pinochet. Famoso, in quegli anni, anche il suo “pellegrinaggio” – così lo volle chiamare – alla laura (mona-

Cfr. di La Pira Prefazione al libro a cura di F. Fabbrini, Tu non ucciderai, Ed. Cultura, Firenze 1966. Per la vicenda di Gozzini e l’impegno di La Pira per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza vedi il testo più volte citato di Balducci, Giorgio La Pira, p. 106 e, più in generale, con precisi riferimenti ai processi contro La Pira, lo stesso Balducci e don Milani, vedi l’intero cap. VII del medesimo testo di Balducci, pp.97-111.

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stero) della Santa Trinità e di San Sergio a Zagorsk (80 km da Mosca), dove incontrò il patriarca della Chiesa russa Pimen e il capo dipartimento per gli affari esteri Nikodim per riproporre il tema dell’unità delle Chiese cristiane. Nel 1974 e 75 fu a Parigi per la conclusione degli accordi di pace per il Vietnam, mentre seguiva in Italia la vicenda del referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio, accettando “la linea del sì” della Chiesa e della Dc, il cui segretario era allora l’amico Fanfani, non schierandosi con i “cattolici del no”, così come avrebbe fatto, con ancor più decisione, nel 1976 per il referendum sull’aborto17. Nonostante i problemi di salute (che l’avrebbero portato negli ultimi mesi ad una grave forma di afasia), accettava l’invito di Zaccagnini a fare il capolista della Dc nelle elezioni politiche anticipate (1976), risultando eletto sia al Senato che alla Camera, per la quale decise di optare. Il 5 novembre 1977, infine, morì a Firenze e il giorno seguente, durante l’Angelus in Piazza san Pietro, fu ricordato da Paolo VI che lo definì «persona che aveva senso dei fini e non solo dei mezzi», invitando tutti a cambiare mentalità sul suo esempio18. Il 9 gennaio 1986, nell’anniversario della nascita di La Pira, il card. Piovanelli, arcivescovo di Firenze, apriva il processo diocesano per la causa di beatificazione.

Sindaco della «povera gente» e artefice di pace a Firenze e nel mondo Quando fu eletto sindaco la prima volta, il 5 luglio 1951, La Pira non fece altro che procedere, come aveva sempre fatto, sulla via di un “vangelo sine glossa”, camminando sul sentiero della giustizia e della pace, non di un potere da raggiungere e conservare ad ogni costo e ponendosi decisamente dalla parte dei più poveri, con primaria attenzione, come aveva scritto fin dal primo numero di Cronache Sociali, alla «attesa della povera gente», per garantirle il lavoro anzitutto e poi la casa. In quel testo egli era partito dalla parabola dei vignaioli (Mt 20, 1-16), che «oziavano forzatamente nella piazza» e che furono tutti ingaggiati dal padrone, con un «esempio caratteristico di ‘pieno impiego’», fra l’altro, retribuiti tutti con la stessa paga, da quello chiamato alla prima ora fino all’ultimo dell’undicesima19. Doveva trattarsi, 17 Vedi l’articolo di grande spessore culturale e religioso apparso su «L’Osservatore Romano» del 19 marzo 1976. 18 Vedi F. De Giorgi, Introduzione a G. La Pira, Fermento educativo, cit. p.5. 19 Cfr. L’attesa della povera gente, cit., p.15. Il discorso era già stato fatto chiaramente dall’inglese John Ruskin (1819-1900) in Unto this Last, 1862 (vol. XII dei Works, J. Wiley & Sons, New Jork 1885). L’a. doveva essere conosciuto da La Pira, che lo cita, ad es., nel discorso del 1969 su Gandhi, in parte ripreso da Balducci, Giorgio La Pira, p.168. Il sindaco fiorentino insisteva sul pieno impiego, mentre Ruskin sottolineava la logica di “A ciascuno secondo i suoi bisogni” piuttosto che quella di “A ciascuno secondo le sue prestazioni”. Cfr. V. Possenti, Giustizia, in E. Butturini e aa., Cinque parole per la pace, a c. di L. Toschi, LEF, Firenze 1998, pp.112-113.


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secondo La Pira, non di un impegno caritativo dei singoli, ma di un impegno che investiva «l’intiera struttura e l’essenziale finalità del corpo sociale», secondo l’insegnamento dei Papi e dei Vescovi (c’era il riferimento alla lettera pastorale di Suhard) o di grandi pensatori cristiani, come Toniolo o Maritain, in modo da garantire «il lavoro a tutti, il pane quotidiano a tutti»20. Così egli ricordava l’invito del Vangelo a “non tesaurizzare”, con la condanna degli avari risparmiatori (Mt 6, 1921), ma piuttosto a «risparmiare per spendere o far spendere», non sotterrando talenti (Mt 25, 14-30 o Lc 19, 11-26), perché «il risparmio non speso equivale a lavoro mancato, a disoccupazione aumentata» e perché non si deve accettare di «fare una pace separata con i mali sociali»21. Di qui, nel 1953, la sua lotta in prima persona per i duemila operai della Pignone e il suo impegno con Enrico Mattei (1906-1962), allora presidente dell’Eni, per salvare l’azienda aprendola ai mercati internazionali. Nel 1954 farà un intervento simile, anche se con diverse connotazioni giuridiche, trasformando in cooperativa la “Fonderia delle Cure”, messa in liquidazione dai proprietari. Analogamente farà da deputato, nel 1958, con le Officine Galilei, presentando un disegno di legge per il riconoscimento erga omnes dei contratti di lavoro. Così per l’altra priorità, quella della casa, sempre nel 1953, vi era stata la costruzione di centinaia di “case minime”, anche per far fronte all’emergenza dei tanti alluvionati che venivano dal Polesine. Grande, in quello stesso anno, fu pure l’impegno per il nuovo quartiere dell’Isolotto, a favore di migliaia di cittadini in cerca di più dignitose abitazioni. Naturalmente non mancavano importanti opere pubbliche, occasione di numerosi nuovi posti di lavoro, come quelle per la ricostruzione dei ponti delle Grazie e di santa Trinita, per la realizzazione del nuovo ponte Vespucci, della Centrale del latte, del nuovo Teatro Comunale, del Mercato Ortofrutticolo o per l’ammodernamento dei servizi tranviari, idrici e della nettezza urbana. Di fronte poi a qualche richiamo del Segretario nazionale della Dc, in quello stesso 1955, egli rispondeva con fermezza: «Fino a quando voi mi lasciate in questo posto mi opporrò con energia massima a tutti i soprusi dei ricchi e dei potenti. Non lascerò senza difesa la parte debole della città: chiusura di fabbriche, licenziamenti e sfratti troveranno in me una diga non facilmente abbattibile. La vera politica sta qui: difendere il pane e la casa della più gran parte del popolo italiano. Il pane e quindi il lavoro è sacro; la casa è sacra: non si tocca impunemente né l’uno né l’altra…e che essere senza casa e senza lavoro è la peggiore delle calamità. Questo non è marxismo, è Vangelo»22. La Pira, convinto della radice evangelica dei tre “Immortali Principi” del 1789, pure sbeffeggiati dalla cultura reazionaria degli anni della sua

L’attesa della povera gente, pp.16-18. L’attesa della povera gente, pp.32-33, con un’ennesima citazione di W.H. Beveridge (1879-1963), politico ed economista inglese della scuola di Keynes (1883-1946). 22 Cfr. La Pira oggi. Atti del I Convegno di studi sul messaggio di Giorgio La Pira, Ed. Cultura, Firenze 1983, pp.23-24. 20 21


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formazione, li sosteneva con forza, a partire dal principio di fraternità, l’unico in grado di riconciliare «le due sorelle nemiche: libertà e uguaglianza», come aveva scritto nel 1932 il maestro di Maritain, a lui ben caro, Henry Bergson (1859-1941)23. Continuava intanto il suo impegno internazionale per la giustizia e per la pace, convocando a Firenze, il primo dei quattro Colloqui Mediterranei (3-6 ottobre 1958, anno della sua elezione a deputato), per riunire i popoli della triplice famiglia di Abramo: ebrei, cristiani e musulmani. I primi tre Colloqui, dal 1958 al 1961, sarebbero stati vissuti come una sorta di prologo degli Accordi di Evian del 1962, che avrebbero portato alla indipendenza dell’Algeria24. Balducci ha sottolineato il grande significato del carteggio tra La Pira e Kruscev dell’autunno 1961. «Nessun uomo di potere […] ha mai degnato La Pira di una pubblica risposta così circostanziata, così rispettosa e così impegnata come quella che il capo del Cremlino scrisse al sindaco di Firenze. Egli, d’altronde, meritava tanta attenzione, perché sapeva rivolgersi all’URSS senza nessun cedimento ideologico, ma con un profondo rispetto, oserei dire con una profonda simpatia per ciò che l’Unione Sovietica significava nella sua visione dinamica della storia»25. Nella terza amministrazione comunale, dal 1960 al 1964, oltre a numerose nuove abitazioni e alla costruzione di 17 nuove scuole («la scuola elementare – scriveva, riecheggiando Maria Montessori – è la casa dei bambini […] deve essere la cura prima di un sindaco»26), La Pira si impegnava per i grandi sottopassaggi della stazione di S. Maria Novella e, soprattutto, per il nuovo piano regolatore per salvare la città dalle speculazioni edilizie. Nel contempo manteneva l’impegno internazionale a sostegno dei nuovi Stati africani (famosa la visita a Firenze del poeta e presidente del Sénegal Léopold Sédar Senghor!) e faceva un importante viaggio negli USA in appoggio delle minoranze razziali e della legge sui diritti civili. Riceveva anche a Palazzo Vecchio il genero di Kruscev Ajubey con la moglie, che poi avrebbero incontrato Giovanni XXIII. Seguirono gli anni del suo impegno per la pace nel Vietnam in stretta collaborazione con l’amico Fanfani, allora ministro degli Esteri. Così, nell’aprile 1965, indiceva a Firenze un Symposium internazionale che si concludeva con un appello inviato ai governi garanti degli Accordi di Ginevra del 1954. A questo appello avrebbe risposto il Presidente della Repubblica del Nord Vietnam, conosciuto con lo pseudonimo

H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione, Comunità, Milano 1962, p. 276. Un altro filosofo francese, da lui più volte citato, Maurice Blondel (1861-1949), aveva osservato che la fraternità umana non fiorisce né produce i suoi frutti se non grazie alla convinzione della paternità divina. Cfr. Blondel, Lotta per la civiltà e filosofia della pace, Leonardo, Roma 1946, p.146. 24 Cfr., Castellani, La Pira e la pace, cit., pp.89-120 e p.42 per lo specifico riferimento agli Accordi di Evian. 25 Balducci, Giorgio La Pira, cit., p. 126. Vedi anche la frase successiva: «Egli credeva sul serio alla promessa della Madonna di Fatima che la Russia si sarebbe convertita». 26 La Pira, Le città sono vive, op. cit., p. 182. 23


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di Ho Chi Minh (1890-1969). Con lui La Pira si incontrò l’11 novembre 1965, stipulando una proposta di pace, che sarebbe stata trasmessa agli USA, tramite Fanfani, allora presidente dell’Assemblea generale dell’ONU. Purtroppo il tentativo di La Pira fallì per varie ragioni (anche per improvvide anticipazioni in vari giornali europei e americani), ma otto anni dopo, nel 1973, la pace sarebbe stata stipulata più o meno alle stesse condizioni dell’accordo raggiunto fra Ho Chi Minh e La Pira, ma dopo immense devastazioni e massacri di centinaia di migliaia di persone27. Anche negli anni successivi fino al 1968, La Pira mantenne l’impegno di numerosi viaggi internazionali perché si aprisse una conferenza per la pace nel Vietnam. Analogamente fino al 1971-73 promosse le cosiddette «conferenze di convergenza» indette per la fine dei conflitti vietnamiti e medioorientali, visitando varie capitali specie dell’Europa orientale o anche dell’Africa e del Medio Oriente, fino all’invito a Parigi nel 1974-75 per la conclusione degli accordi di pace nel Vietnam e a quello dell’agosto 1975 per l’Atto finale di Helsinki, dove fu fissato il decalogo sul rispetto dei diritti umani, fra cui la libertà religiosa. Della politica di La Pira avrebbe detto Michail Gorbaciov, Nobel per la pace nel 1990 - ma costretto a ritirarsi a vita privata nel 1991, all’età di sessant’anni, in seguito allo scioglimento dell’URSS, dopo i fatti del 1989 -: «Leggendo gli scritti del professor La Pira, ho capito una verità molto semplice: quelli che professano valori universali non possono non essere vicini gli uni agli altri. Scegliere di far politica alla luce della cultura e della morale è, di regola, molto difficile […] ma è una cosa obbligata. Ed è su questo punto che sono pienamente d’accordo con La Pira […]. E’ importante che oggi egli abbia molti più amici di quanti ne aveva nella sua vita terrena: è il verdetto della storia che ha confermato la bontà e le giustezza delle sue scelte di fondo»28.

27 Vedi nella Scheda biografica cit. della Fondazione La Pira del 2004 le note relative al 1965, riprese anche dalla Castellani, cit., pp.45-47. Cfr. di quest’ultimo lavoro le pp.185-186 per la Conferenza di Helsinki e il viaggio di Sadat a Gerusalemme per proporre ad Israele la “pace di Abramo” il 20 novembre 1977, a quindici giorni dalla morte di La Pira. 28 Cfr. G. La Pira, Il sentiero di Isaia. Scritti e Discorsi 1965-1977, a cura di G. e G. Giovannoni, con Introduzione di W. Veltroni, San Paolo, Milano 2004, pp. 6-10.



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Cualidades de una “buena” mediación educativa LORENZO TÉBAR BELMONTE «Educación y formación necesitan siempre una orientación integral, pues conciernen a todo el hombre. Nuestros problemas globales necesitan respuestas globales, y se debe facilitar a toda persona el acceso a las técnicas y a los métodos.» UNESCO, Éducation et développement durable, Paris, abril 2011 GLOSARIO: enseñanza-aprendizaje – abstracción – adaptación – complejidad – conflicto cognitivo – desarrollo – evaluación – habilidades de pensamiento – insight – mediación – método – metacognición – modalidad – motivación – paradigma – potencial de aprendizaje - transfer.

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oda transmisión cultural es un gesto de mediación. Somos seres necesitados de los demás. Llegamos a ser lo que somos gracias a las mediaciones de los demás (Vygostski, 1995). La educación es una experiencia mediadora imprescindible para el ser humano. La máquina jamás podrá sustituir al educador. Tenemos un potencial de aprendizaje que se desarrollará por las oportunidades de mediación que hayamos tenido a lo largo de nuestra vida. Hay innumerables educadores que están dotados del auténtico arte de enseñar y que realizan modélicas mediaciones, incluso sin conocer una teoría de la mediación. Pretender designar como “buena” una mediación, debe entenderse desde una serie de criterios y en unas circunstancias concretas que permitan valorar positivamente una experiencia de aprendizaje mediado -EAM-, por el logro de unos objetivos. El proceso de mediación implica una serie de interacciones, en las que el mediador se interpone entre el educando y los contenidos (objetivos), para organizar, amplificar, adaptar, secuenciar los pasos metodológicos, que tienen su raíz en el paradigma de la mediación sociocognitiva (Feuerstein, 1980). La mediación es la levadura que transforma el estilo de interacción del docente.


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Aunque es imposible desglosar los elementos culturales de los actitudinales, cognitivos, axiológicos y pedagógicos que pueden intervenir en cada proceso de enseñanza-aprendizaje, aquí nos vamos a ceñir específicamente a los que se referieren a la didáctica de una determinada materia, pues en todo momento estaremos aludiendo a una situación de enseñanza-aprendizaje hipotética, acompañada por un buen mediador. Crear una “situación de aprendizaje” implica una planificación de todas las actividades que el educando debe realizar para conseguir con éxito unas metas previstas, pero desarrollada en un clima dialógico de permanente adaptación al ritmo del educando. Sintetizamos en estos diez pasos esenciales la Pedagogía de la Mediación, queriendo recoger los aspectos esenciales de una teoría integral, capaz de adecuarse a los distintos niveles de edad y madurez intelectual, y a los contenidos disciplinares que se deseen transmitir. 1. Adaptar la mediación al educando - La adaptación tiene sus condicionantes específicos, pero no podemos nunca prescindir del primer determinante de la armonía relacional, cual es el sujeto que aprende, centro y protagonista del aprendizaje. Mediar a un educando exige tener en cuenta los aspectos antropológicos más elementales: conocer el carácter y personalidad del educando, su edad, su contexto sociocultural, su nivel de conocimientos previos, su maduración intelectual, su estilo cognitivo, motivación, etc. Sólo controlando todas estas variables podríamos conseguir el ensamblaje más elevado en el momento de nuestra intervención, para atravesar la puerta del aprendizaje significativo (Ausubel, 1989)). Si quisiéramos ahondar en el estilo de relación personal, podríamos insinuar la conveniencia de lograr la empatía y conquistar la plena confianza del alumno que nos pide la ayuda, la mediación, como recurso potenciador. No menos importante es la contextualización de los contenidos y significados de los aprendizajes, a fin de encontrar el nexo que permita una relación estructurante con los conocimientos que el educando posee. Estamos en la corriente óptima para lograr un clima saludable de enseñanza-aprendizaje. La adaptación tiene también sus ritmos, su tiempo y adecuación a los intereses del educando, que se deben tener en cuenta. Aunque resulte paradójico, en la propuesta mediadora, el primer modificado es el propio mediador, para poder realizar con eficacia cualquier cambio o modificación en el educando. 2. Diversificar las modalidades al presentar los contenidos - Saber seleccionar la modalidad que más conecta con el estilo cognitivo del educando y que mejor despierta su interés e implicación, es una primera muestra del arte mediador. Crear sintonía con las formas o ropajes que transportan la información es ya una gran herramienta de trabajo. La creatividad es el móvil que inspira al docente en la selección de la forma de presentación de contenidos, sin excluir los posibles cambios posteriores y su transformación, a medida que el educando supera etapas básicas de aprendizaje. El uso de códigos nuevos o lenguajes extraños exige un cuidado en presentar esta novedad, para asegurar el éxito del aprendizaje. En ningún momento podemos perder el empeño de ahondar en la enorme potencialidad simbólica que tie-


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nen los distintos ropajes en que aparecen disfrazados los contenidos y la permanente actividad transformadora con que desafían al trabajo del educando. Este es uno de los grandes justificantes de la tarea imprescindible del profesor mediador. Si iniciamos por escoger aquellos códigos más familiares al estilo cognitivo del alumno, desde lo más simples lenguajes (pictórico, figurativo, verbal, numérico, gráfico…) iremos intercambiando estas modalidades para que descubra la riqueza trans-formadora de nuestra mente y sepa afrontar cualquier forma de expresión de los contenidos. Es importante saber detectar las necesidades y disfunciones que impiden aprender al educando, para focalizar nuestra intervención en la fase donde encontremos la causa del problema (input, elaboración o output). 3. Combinar y controlar los niveles de realización - La función inicial del mediador se debe centrar en programar la situación de aprendizaje y pensar las actividades que deberá realizar el educando en el proceso de interacción. Se trata de una serie de combinaciones que revelan la atención del mediador para adecuar convenientemente los dos elementos esenciales que le lleven a conseguir plena eficacia o éxito en los aprendizajes. Nos referimos al: a) Nivel de complejidad. Desde la profesionalidad y conocimiento de la disciplina correspondiente, el mediador selecciona el contenido más o menos fácil, según las metas de la mediación: facilitar, provocar el conflicto o el cuestionamiento que lleve al hallazgo, para avanzar con otras actividades más novedosas, extrañas, difíciles, con mayor número de elementos. La falta de familiaridad en la modalidad de trabajo –por ejemplo la representación gráfica de datos de población- es un elemento que eleva la complejidad de una tarea poco habitual, pues exige del educando un adiestramiento en la lectura e interpretación de las gráficas o el dominio de cualquier expresión simbólica. El buen mediador no puede nunca prescindir del arte de cuestionar para llevar al educando a la verbalización precisa, que hace que cristalice el pensamiento y consigamos una comprensión exacta de los aprendizajes. b) Nivel de abstracción. Es un punto crucial en el proceso de aprendizaje, pues aquí vamos a combinar las actividades mentales que el educando tiene que poner en acción para resolver los problemas. El dominio de estas habilidades cognitivas u operaciones mentales, por parte del docente, es un punto clave, pues todo crecimiento está condicionado a la progresiva elevación de la abstracción- actividad interiorizada- que exige del alumno total implicación. Se busca la agilidad mental del atleta de la inteligencia. Es necesario crear un dominio de los conceptos que se emplean en la metodología (comparación, clasificación, inferencia, síntesis, inducción, analogía, razonamiento, etc.) y conseguir un automatismo mental que permita al alumno el disfrute en la expansión de su mente y en la capacidad para elaborar cada día con mayor precisión y profundidad. La abstracción exige concentración de la atención, autodominio, silencio, esfuerzo, pero también un buen dominio de estrategias que le permitan crear sus imágenes mentales y el control de los procesos representacionales que siga.


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c) Nivel de eficacia. Es la meta de todo aprendizaje. Si combinamos bien los dos niveles de actividad anteriores, estamos en el auténtico camino de la formación de competencias y, al mismo tiempo, en el momento más gratificante de todo acto de aprendizaje: la autoestima, el descubrimiento de que es capaz de aprender, el alza de la autoestima. Y con estos diversos elementos logramos que se incremente la motivación intrínseca, el talismán que lleva a invertir cada vez más energía en el logro del éxito. No podemos olvidar la importancia que tienen los “microcambios” en los alumnos, cuando se trata de adecuar nuestras mediaciones a las posibilidades de cada uno, pues cada alumno, según sus posibilidades, debe llegar a comprobar y ser consciente de cómo consigue avanzar en su itinerario de aprendizaje. 4. Seleccionar los criterios de mediación - La buena mediación debe ajustarse a las necesidades que en cada momento vamos descubriendo en los educandos. En el clima de interacciones permanentes que se libran en toda experiencia de aprendizaje mediado (EAM), sea con referencia a la impulsividad, al compartir, al sentimiento de competencia o a los valores, sean culturales o sociales-, no debemos olvidar los tres criterios esenciales de la mediación que deben presidir toda experiencia de aprendizaje, pues son los que elevan el sentido de la intervención, para que el alumno adquiera plena conciencia de su trabajo bien hecho: a) Intencionalidad-reciprocidad. No puede olvidar el docente mediador que con su interacción se propone conseguir algún objetivo concreto -sea actitud, estrategia, valor, concepto, etc-. Para que el alumno tome conciencia de la actividad que está realizando, debe conocer la meta a la que hay que llegar. Para ello se precisa la explicitación del mediador, que garantiza, al mismo tiempo, que el alumno sepa de qué tendrá que evaluarse y si ha tenido éxito o no en su tarea de aprendizaje. La reciprocidad viene a demostrar y confirmar la disposición e implicación del alumno en la tarea. b) Significatividad. Se revela este criterio cuando el mediador consigue que el alumno descubra las relaciones de los nuevos conocimientos con otros anteriores o con disciplinas cercanas a su mundo de saberes. En este ámbito de relaciones debemos evocar el enfoque multidisciplinar de los aprendizajes, para que los alumnos vean patentes las conexiones y la armonía de guarda el mundo del saber. Tampoco podemos olvidar que la primera condición de la significatividad se halla en la adecuación de los contenidos propuestos a la capacidad de comprensión -madurez del alumnopara poder aprender dichos contenidos. El docente debe conocer, cuando propone un problema, cuál es el nivel de abstracción que exige esa actividad al educando. En este criterio esté la mayor dificultad de todo el proceso de comprensión. c) Trascendencia. Los alumnos se desmotivan, no llegan a aprender, por no ver el sentido de los aprendizajes ni saber para qué sirven ni dónde van a poderlos aplicar algún día. Pero tampoco podemos olvidar la enorme carga que todo pensamiento trascendente posee, ya que este salto a situaciones futuras – a veces desconocidas-, pues no caen en el campo de las experiencias vividas por los alumnos, exigen una


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enorme carga de abstracción, ya que en ningún caso se visualiza esa situación previsible. El fallo en la trascendencia de los aprendizajes incide en la toma de decisiones y revela el nivel de elaboración mental o la carencia de desarrollo lógico en las personas. Se puede afirmar que la falta de trascendencia denuncia un bajo nivel de desarrollo de la abstracción mental del sujeto. El mediador amplía el campo mental del alumno abriendo el horizonte de posibilidades que aporta todo aprendizaje, pero que no llega a ver el alumno, por su falta de experiencia y por no tener imágenes de la nueva realidad. 5. Mediar el conflicto cognitivo - Si acostumbramos a definir al buen mediador como un buen provocador -de conflictos cognitivos- es porque su mejor arma pedagógica es el arte de preguntar. El arte de convertir un problema en preguntas es una forma de traducir en cuestiones graduales las dificultades que queremos ir sorteando. Es la primera forma de despertar la duda, las distintas formas de contemplar un tema, ampliar el campo mental y despertar la sed de aprender. El desequilibrio es un recurso permanente de mediación, que debe inducir al alumno a la búsqueda, a elaborar su propia pregunta que le saque de esa situación transitoria ineludible para aprender, como propone Piaget-Inhelder (1996). Contrastar dudas, cuestiones de otros alumnos, es también una forma de provocar la mediación entre iguales, para que surja el debate o se aclaren los dilemas. El manejo del conflicto cognitivo resulta de enorme eficacia para el aprendizaje comprensivo y para despejar dudas. Podemos recurrir a cualquiera de las etapas de nuestro método para descubrir los conflictos que se van provocando, pues el simple salto de una tarea que exige un pensamiento inductivo a otra de carácter deductivo, requiere del alumno un esfuerzo de acomodación a las exigencias de dicho proceso: adaptación del sujeto al objeto de aprendizaje. El desafío de este recurso exige atención y arte regulador en cantidad y calidad del mediador, para ajustar la dosis de dificultad conveniente a las capacidades y a otras peculiares diferencias de los alumnos. Nos proponemos llegar a la fase de asimilación o reestructuración de los esquemas mentales: adaptación del objeto o contenido al sujeto que aprende. 6. Elevar progresivamente el nivel de potencial de aprendizaje - El trabajo exigente de ir elevando el listón de los procesos de aprendizaje compete al profesor mediador, que debe contar con el conocimiento personal del educando, así como de sus conocimientos previos. La constatación de cada alumno de su potencial oculto es uno de los elementos más ricos para ayudarle a la toma de conciencia de lo que es capaz y de cómo se incrementa nuestra posibilidad de aprender con mayor rapidez y eficiencia, ahorrando tiempo y energía para adquirir conocimientos que, de otra manera, tardaríamos un tiempo ilimitado y sin la calidad que aporta un buen mediador. Siempre nos debe quedar la “audacia” de avanzar por nosotros mismos, para profundizar en aquellas razones implícitas, aquellos pasos ocultos que una fórmula o una síntesis han ido sembrando a medida que el saber se ha ido acumulando. Al seguir los pasos de los programas para enseñar a pensar descubrimos las


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cimas, los procesos cognitivos superiores (Vygotski, 1995)) a los que está llamado todo educando: resolución de problemas, toma de decisiones, pensamiento crítico, etc., y a los que todo alumno debiera acceder. Toda intervención mediada se sitúa en la ZDP (zona de desarrollo próximo), que contribuye a acelerar y potenciar la capacidad de aprender del alumno. Y, definitivamente, al conocer, adquirimos una capacidad para medir lo poco que sabemos, en relación a lo mucho que nos queda por aprender, para llegar al nivel de desarrollo potencial (NDP) que seríamos capaces, si tuviéramos todas las oportunidades y todos los medios -y la voluntad- para aprender de la forma más eficiente y experimentar la audacia y el gozo de saber. Todo educando debe escuchar en algún momento de labios de sus profesores la frase del Nobel de Física polaco, George Charpak (2005): Sed sabios, convertíos en profetas. 7. Proponer un método eficaz de aprendizaje - Se incurre en muchos casos en el reduccionismo de los métodos, como si fueran una combinación más o menos secuenciada de técnicas y estrategias. El método es el camino que nos lleva a una meta, como indica su origen etimológico. Pero los docentes no podemos olvidar que un método es la síntesis y aplicación de una teoría pedagógica que nos permite seleccionar unos pasos concretos para lograr unos objetivos, que en cada didáctica son distintos en cantidad y en orden. No hay un método único, aunque la prevalencia del método científico constituya un paradigma aplicable a cualquier disciplina, por lo que tiene de reproducible en todo tiempo y lugar, siempre que cumpla sus condiciones esenciales y dentro de una constatación empírica. El método pedagógico en las aulas es uno de los temas de más urgente revisión y de mayor complejidad, hoy, al encontrarnos con la diversidad imperante en la educación: culturas, niveles, disciplinas, lenguajes, etc. (Maclure, 1991). La importancia del método surge de la necesidad de que cada alumno consiga disponer de un método de estudio, síntesis de los elementos comunes de su experiencia de aprendizaje en el aula. ¿Qué elementos comunes puede aprender un alumno de cada uno de sus profesores? ¿Acaso no hay elementos esenciales en la enseñanza que nos permitan hablar de la pedagogía de un Centro educativo? La demanda de los padres de los alumnos de un Manual de instrucciones, para ayudar a sus hijos a aprender, en la línea del centro escolar, entra en la lógica de saber cuál es la forma mejor y más adecuada para el aprendizaje de cualquier disciplina. Los conflictos lectores están poniendo al descubierto a diario las lagunas de los docentes sobre la metodología más idónea para aprender a leer y para ser más eficientes con la primera herramienta en su vida escolar. El debate sobre las causas y la remediación de la dislexia, fracaso escolar o abandono, lo ponen al descubierto en muchos países. Reuven Feuerstein sintetiza su propuesta en los siete pasos del mapa cognitivo, que posteriormente ampliamos a diez etapas en nuestra investigación, justificando y conjugando en dicha síntesis, los rasgos del perfil del profesor mediador (Tébar, 2003 y 2008) con los diez peldaños que responden a esa forma de ser profesor hoy, conforme a la Pedagogía de la Mediación. 8. Despertar insight - La tarea mediadora se orienta constantemente a hacer cons-


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ciente al alumno de cada uno de sus procesos de aprendizaje. Ser consciente es avanzar un paso hacia la responsabilidad, sabiendo pesar el alcance de cada uno de nuestros actos (Morin, 2002). Es ésta una experiencia analítica y, a la vez, clínica, que sirve para diagnosticar la causa de los éxitos y de los fracasos de cada alumno. Esta experiencia puede entenderse como una aventura imposible en determinados ambientes. Todo es cuestión de ser capaz de comprobarlo con distintos alumnos, desde los primeros momentos en los que descubrimos las necesidades de intervención, con los medios adecuados y de una forma sistemática (Hargreaves, 2003). Que el alumno tome conciencia de su forma de aprender, de controlar su impulsividad y ser sistemático, de saberse capaz, de ser crítico, de descubrir el sentido de los aprendizaje…, es una prueba de nuestro sistema de creencias, de nuestras convicciones profesionales. Si el profesor no ha comprendido las aportaciones de la Experiencia de aprendizaje mediado (EAM) para sí, es muy difícil que pueda hacer esta experiencia con otros. La resistencia al cambio de los docentes tiene su causa fundamental en las teorías implícitas que guían su forma de entender la enseñanza-aprendizaje, condicionada siempre por sus propias vivencias: son las “teorías implícitas”. También hay que hacer notar que éste es uno de los saltos más notables y más ausentes en las experiencias de los docentes, conforme se comprobó en las hipótesis que guiaron nuestra investigación. Justamente porque el insight es un salto en el vacío hacia la abstracción, hacia un nivel mayor de interioridad en el educando, pues el insight implica una doble operatividad interiorizada: por una parte la capacidad de globalizar, elaborar principios generales que abarquen conceptos que sólo la capacidad lógica nos permite (Gardner, 2005); traducir una experiencia de aprendizaje en un principio general es una actividad fruto de la madurez mental. Pero también el insight es la capacidad de saltar, de extrapolar y descontextualizar los aprendizajes, ya que se logra la iluminación o el discernimiento de otros alcances superiores, que conectan con los conocimientos que acabamos de incorporar. No podemos olvidar en este ámbito las interesantes aportaciones que nos ha transmitido John Flavell en un concepto tan rico como pertinente como es la metacognición. Podríamos afirmar que no se da auténtico aprendizaje sin metacognición, sin ser conscientes de cómo aprendemos, cómo organizamos nuestras representaciones y cómo recuperamos los conocimientos para servirnos de ellos. Es una convicción poco extendida que la auténtica metacompetencia es la de aprender a aprender y aprender a pensar, desarrollar la inteligencia, ya que esta actividad consciente está en la base de cualquier tipo de aprendizaje y regula todos los procesos que intervienen en ella (Lipman, 1987). 9. Ejercitar el transfer o la aplicación de los aprendizajes - El argumento de que los alumnos no saben para qué aprenden ni para qué sirven sus aprendizajes es una velada denuncia de la falta de sistema y método en las aulas. Justamente nos hallamos ante una de las lagunas más sinceramente reconocidas por los docentes. El aprendizaje memorístico y repetitivo ha minado el potencial de aprendizaje de los


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alumnos, pues se ha enseñado sin sentido y se ha aprendido para olvidar. El salto de la enseñanza al aprendizaje marca uno de los aspectos más revolucionarios del paradigma que estamos intentando sintetizar. El transfer es difícil de realizar cuando la falta de comprensión y de madurez del alumno no le permite conocer el campo semántico ni el de aplicaciones de sus aprendizajes. La ausencia de formación humanística de los alumnos de hoy les ha desprovisto de la fuente de interpretación de nuestro léxico. No es fácil que un alumno puede llegar a saber el significado etimológico de ciertos vocablos, comúnmente usados: fotografía, agropecuaria, canódromo o hipopótamo, etc., porque no tiene un vocabulario básico grecolatino. Pero aún, a sabiendas de las tendencias positivistas y utilitaristas de los aprendizajes actuales, no podemos dejar de subrayar que estos mismos mecanismos se producen a todos los niveles en el desarrollo de las habilidades de pensamiento que nos sirven para todas las disciplinas, cuando realmente hemos aprendido a pensar. Las actividades de aprendizaje pueden ser diversas, pero finalmente todas ellas se repiten con unos u otros contenidos en todas las operaciones mentales que debemos realizar. En conclusión, todos los docentes debieran llegar a esta convicción: A través del trabajo intelectual que exigen las actividades de cada una de las disciplinas, cada docente contribuye a la construcción de la mente de los alumnos (Claxton, 2001). Las distintas materias curriculares son un medio, con el que se desarrolla una idéntica taxonomía de habilidades de cognitivas, que constituyen el auténtico armazón de la formación intelectual de los alumnos. En el transfer, en el salto a las diversas realidades de la vida en las que se pueden proyectar la aplicación de los aprendizajes es donde se ve más imprescindible el rol del profesor mediador, que amplifica y la utilidad y la validez de los aprendizajes (Hargreaves, 2005). 10. Preparar para una evaluación diversificada - Tal vez sea el punto de conflicto más crítico para los docentes, pues en él se revisan y prueban los frutos de su trabajo. Evaluamos para obtener la información que precisamos para ir tomando decisiones que mejoren nuestros resultados. La característica más importante de la evaluación es su condición de mecanismo de retroalimentación, mediante el cual readaptamos las mediaciones. La evaluación diagnóstica trata de comprender el problema o la necesidad, para asignar la intervención adecuada. Debemos reconocer que la evaluación es el elemento inductor del orden en la educación. La evaluación nunca nos da la respuesta de una actividad compleja, como es la educación -no exclusivamente una instrucción reduccionista y aséptica-. Todo proceso de evaluación debe estar en relación con nuestros métodos de enseñanza-aprendizaje, conforme a la forma como el alumno ha aprendido. Las evaluaciones de PISA, promovidas desde la OCDE son la prueba más fehaciente de la distancia entre una forma de evaluación y la falta de conocimiento de ese nuevo paradigma (Martí-Moreno, 2007). Resulta paradójico someter a los alumnos a ciertos exámenes, para los cuales no han sido preparados, fórmulas que nunca han practicado o problemas en los que no se han ejercitado. Las evaluaciones están condicionadas a saber previamen-


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te qué queremos obtener de ellas, pues las diversas formas, cualitativas, cuantitativas, según criterios o selectivas, apuntan a unas determinadas cuestiones o a formulaciones abiertas, donde más se espera descubrir la capacidad analítica y crítica del alumno que unos datos matemáticos, por la aplicación de una fórmulas aprendidas. La experiencia de intervención mediada nos ayuda a entender cómo se realiza la auténtica evaluación, basada en el conocimiento de los procesos conscientes del educando y no en los productos, que son simples indicadores que informan si estamos siguiendo el buen camino para lograr los objetivos educativos.

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CHARLES LAPIERRE, FSC Giovanni Battista de La Salle - cammina alla mia presenza Città Nuova, Roma 2006, pp. 234 L’autore ricostruisce l’itinerario del La Salle nel realizzare la vita che Dio gli ha chiesto “camminando alla sua presenza” e risponde a quanti desiderano conoscerlo come pedagogista e istitutore di grande attualità, ma anche a genitori ed educatori, che vedono in lui un modello da incarnare e un ideale da trasmettere ai giovani.

TERESIO BOSCO, SDB Giovanni Battista de La Salle – la forza di donare la vita Elledici, Leumann (To) 2004, pp. 44 Tratteggia la figura e l’opera del La Salle, pioniere dell’educazione in un tempo decisamente diverso dalla nostra epoca, specie in ambito scolastico ed educativo. La lettura del breve ritratto rende attuale la passione che il santo ebbe per la gioventù dell’epoca. E che i Fratelli delle scuole cristiane continuano a vivere oggi.

MANUEL OLIVÉ, FSC Giovanni Battista de La Salle – una vita per i giovani Istituto Gonzaga, Milano s.d., pp. 96 Biografia agile, incisiva, essenziale. Ricca di illustrazioni, è quanto mai adatta anche ai preadolescenti per iniziare un percorso di conoscenza di un santo educatore che per dedicarsi alla promozione dei ragazzi più poveri ha lasciato il ceto dei benestanti coinvolgendo nell’avventura altri giovani generosi per istituire le scuole gratuite.

LEO C. BURKHARD, FSC Un birichino di Parigi trad. it. di Camillo Coffano, Editrice A.&C., Milano 1961, pp. 160 Una storia romanzata alla gloria del pioniere e santo protettore delle scuole popolari. Tutte le vicende richiamano dei fatti storici. Al fine di garantire l’unità del racconto, l’autore ha ideato il personaggio del narratore attribuendogli dei fatti accaduti a molti. È lui – questo birichino di Parigi trascinato nella scia dell’eroe – che vi parla.

Giovanni Battista de La Salle Fondatore dei FSC e Patrono degli educatori fumetto di G. Signori e F. Pescador – Prov. Italia FSC, Roma 2008, pp. 207 I disegni, il testo e la sceneggiatura del fumetto, mentre non impediscono l’accostamento degli adulti alla vicenda storica e all’opera del La Salle, favoriscono invece un interessante e attento approccio all’opera del santo anche ai più piccini. ••• Informazioni e ordinazioni: 06.32294503 - gabriele.pomatto@gmail.com


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Proporre la lettura biblica nella formazione culturale oggi

Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth [3] ERNESTO BORGHI

L

’ oggetto di questo terzo saggio è la fase conclusiva e culminante dell’esperienza terrena del Nazareno, dall’ultima cena alle apparizioni terrene del Risorto. Dagli eventi capitali di questi tre-quattro giorni è dipesa la consapevolezza dei discepoli contemporanei a Gesù di aver fatto parte di un’esperienza esistenziale straordinaria. Senza tale coscienza le testimonianze veicolate, anzitutto, dalle lettere paoline e dalle versioni evangeliche canoniche, verosimilmente non sarebbero giunte. Cerchiamo ancora una volta di fare un discorso testualmente serio e che mostri quanto fede cristiana e riflessione storica non siano necessariamente in collisione né alternative tra loro. I livelli di profondità esegetica saranno diversi, dai testi dell’ultima cena ai riferimenti alle apparizioni del Risorto, ma spero che queste pagine permettano a lettrici e lettori di farsi un’idea seria della rilevanza teologica ed antropologica delle questioni in esame.

1. Le parole dell’ultima cena1 I passi neo-testamentari relativi all’Ultima Cena sono suddivisibili in tre categorie, in relazione alla loro diretta relazione con l’evento in questione: • le rievocazioni dei momenti reputati essenziali di questo avvenimento, quindi Mc 14,22-25 – Mt 26,26-29 – Lc 22,14-20 e la narrazione paolina in 1Cor 11,23b-26; 1 Alcune osservazioni contenute in questo paragrafo sono già state pubblicate in Per un cristianesimo contemporaneo davvero eucaristico: fondamenti neo-testamentari ed osservazioni ecumeniche, in “Annali di Studi Religiosi” 9 (2008), 215-242.


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• a stretto contatto, anzitutto di sostanza sia teologica che antropologica, occorre considerare Lc 24,13-35 (in particolare i vv. 31-32) e Gv 6,35-59 (in particolare i vv. 51-58); • di interesse eucaristico risultano anche, sia pure in forma “complementare”, altri passi neo-testamentari, e segnatamente, 1Cor 10,1-4.14-22 e At 2,42.46-47 e, in forma diversa, Gv 13,1-20.31-35. Mi occuperò qui dei quattro passi più direttamente fondativi circa il tema in esame.

1.1. I testi “fondamentali” 2 Prima di iniziare la lettura dei testi più fondamentali circa l’ultima Cena (v. tabella sinottica a lato), occorre precisare tre dati di fatto. • Il primo: i quattro brani appena citati e, in particolare i racconti evangelici non vanno considerati diversamente rispetto a qualsiasi altro testo biblico e, specificamente, evangelico: si tratta di mediazioni ermeneutiche dell’evento “Ultima Cena” che non è più possibile cogliere nella sua totale effettualità storica. D’altra parte non è più possibile cogliere come una persona che ci sta accanto oggi il Gesù effettivo, di cui anche le versioni evangeliche canoniche sono nulla di più e nulla di meno che interpretazioni. Che la sacramentalità eucaristica cristiana in questi passi abbia trovato sino ad oggi il suo fondamento storico è altrettanto sicuro. Ciononostante il campo delle parole realmente pronunciate da Gesù quella sera dell’aprile dell’anno 30 «ci sfugge quasi completamente. Anche se è storicamente lecito immaginarlo in buona parte, non saremmo in grado di comprenderlo nella sua completezza e di riprodurlo nella sua singolarità iniziale. Non possiamo fare altro che immaginarlo, oggettivamente, a partire dalle diverse mediazioni comunitarie che ne sono i diversi echi»3, cioè considerando proprio le narrazioni specifiche contenute nelle versioni evangeliche e in altri testi neo-testamentari, a cominciare dai passi che sto per analizzare. • Secondo dato: nel giudaismo rabbinico il pasto ha potuto essere concepito, dalla vita del Tempio di Gerusalemme alla sfera domestica, dall’altare alla tavola, come il luogo privilegiato di un rapporto di comunione con Dio. E, dal I secolo a.C. in poi, tale attuazione domestica fu sempre più favorita dalla difficile raggiungibilità per molti del Tempio, dall’aumento progressivo d’importanza di culti misterici o di culti spiritualizzati e dalla presa di distanza, sotto il profilo ideologico (si pensi, per esempio, alla comunità di Qumran) dal Tempio stesso4. 2 La traduzione di questi brani neo-testamentari è opera mia. In grassetto sono segnalate le parti peculiari di ognuno dei passi presentati rispetto al testo marciano e in corsivo una utilizzazione specifica del testo paolino di una locuzione presente anche in quello lucano. 3 C. Perrot, L’eucaristia nel Nuovo Testamento, in M. Brouard (ed.), Eucharistia. Enciclopedia dell’Eucaristia, tr. it., EDB, Bologna 2005, p. 72. 4 Cfr. C. Grappe, Le repas de Dieu de l’autel à la table dans le judaïsme et le mouvement chrétien naissant, in Id. (ed.), Le repas de Dieu - Das Mahl Gottes, Mohr Siebeck, Tübingen 2004, pp. 69-113.


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Marco 14,22-25

Matteo 26,26-29

Luca 22,14-20

1Cor 11,23b-26

«[22] Mentre mangiavano, (Gesù), preso il pane e pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro e disse: “Prendete, questo è il mio corpo”. [23] E, dopo aver preso un calice e aver reso grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. [24] E disse: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per la moltitudine. [25] In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio”».

«[26] Ora, mentre essi mangiavano, Gesù preso il pane e pronunziata la benedizione, lo spezzò e, datolo ai discepoli, disse: “Prendete,mangiate; questo è il mio corpo”. [27] E dopo aver preso un calice e aver reso grazie, (lo) diede loro dicendo: “Bevetene tutti. [28] Infatti questo è il mio sangue dell’alleanza, versato riguardo alla moltitudine, in remissione di peccati. [29] E io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio”»

«[14] Quando fu l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, [15] e disse: “Ho deside-rato ardentemente mangiare questa Pasqua con voi, prima del mio patire. [16] Infatti vi dico: non la mangerò più, finché essa non sia compiuta nel regno di Dio”. [17] E dopo aver preso un calice e aver reso grazie e disse: “Prendetelo e distribuitelo tra voi stessi, [18] poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non sia giunto il regno di Dio”. [19] Poi, dopo aver preso un pane e aver reso grazie, (lo) spezzò e (lo) diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo, dato per voi; fate questo in memoria di me”. [20] Allo stesso modo dopo aver cenato, (prese) il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, versato per voi”».

«[23] Io ricevetti da parte del Signore quello che trasmisi anche a voi: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese un pane [24] e, dopo aver reso grazie, (lo) spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. [25] Allo stesso modo, dopo aver cenato, (prese anche) il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogniqualvolta ne beviate, in memoria di me”. [26] Ogniqualvolta infatti mangiate di questo pane e beviate il calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli sia giunto».


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• Terzo dato: durante la sua vita pubblica Gesù prese parte sovente a dei conviti dove confluivano persone religiosamente, socialmente e culturalmente eterogenee, in cui gli esclusivismi erano assenti o banditi (cfr., per es., Lc 7,36-50; 14,1224; Mt 9,11; 11,19): «chi è in comunione con Gesù, chiunque egli sia, entra nel regno di Dio e dispone di una nuova possibilità di vita. La solidarietà di cui si fa esperienza sedendo insieme alla mensa è un segno che prefigura il banchetto eterno (Mt 22,1-14; 25,1-13; 8,11)»5.

1.2. Aspetti ricorrenti nei quattro testi essenziali Vediamo da vicino, sia pure per cenni fondamentali, tanto i contesti precedenti quanto i brani specifici. Punto di riferimento per l’analisi è il testo di Mc 14,12ss. In Mc 14,22 e nei paralleli di Mt 26 e Lc 22 la serata, iniziata in termini di familiarità serena, procede: si è oltrepassato l’antipasto, si è entrati nel vivo della cena. Mentre la fase preparatoria, avviata dai discepoli, è ampiamente sovrapponibile nei tre racconti (cfr. Mc 14,12-16; Mt 26,17-19; Lc 22,7-13), il testo di Luca 22,15-16 risulta del tutto peculiare. In linea con molti altri suoi passaggi, emotivamente assai connotati, la versione lucana manifesta, in modo rilevante, il trasporto appassionato di Gesù in un quadro di estrema elevatezza teologica e culturale. Si vedano, infatti, in particolare, il raccordo tra la celebrazione imminente (= il momento centrale dell’Ultima Cena), la sofferenza incombente (= la Passione e Morte) e la pienezza dell’evento evocato (= Risurrezione), interconnessione raggiungibile soltanto nel luogo della completa realizzazione della sovranità divina (= il Regno). Si considerino sinotticamente i versetti successivi nelle tre versioni6 (su Lc 22,17 tornerò dopo) e in 1Cor 11 anzitutto dal punto di vista morfologico-semantico: si riscontrerà che tutte le azioni di ordine tradizionale (benedizione, rendimento di grazie e condivisione delle vivande tra i commensali) sono espresse in modo istantaneo. Esse appaiono del tutto concrete, la loro portata è d’indubbio rilievo culturale, ma non sono il cuore del discorso. Gesù, che ha messo a disposizione la sua esistenza sin dall’inizio della sua attività pubblica7, proclamando l’evangelo della vita attraverso parole efficaci, non si limita a fare il capofamiglia della situazione, il portavoce degli uomini verso e presso il Padre. Proietta tutti, avvalendosi delle categorie culturali del passato, dal presente al futuro8. Il nucleo di tutto sta nell’estrema sem-

F. Courth, I sacramenti. Un trattato per lo studio e la prassi, tr. it., Queriniana, Brescia 1999, p. 206. Cfr. Mc 14,17ss; Mt 26,20ss; Lc 22,14ss. 7 Un esempio davvero complessivo di questa sua scelta a favore degli esseri umani e dell’educatività di essa è costituita da Mc 6,30-44. 8 Le espressioni verbali duratività nel presente e nel futuro, anche quando presentano successioni diverse, per esempio tra Mc-Mt e Lc, delineano una progressività molto interessante, di evidente tensione escatologica. 5 6


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plicità strutturale di due brevi enunciazioni (questo è il mio corpo… questo è il mio sangue)9, presenti ambedue e in modo uguale in Mc e Mt, solo in parte in Lc e 1Cor. In queste poche parole Gesù riassume tutto il significato essenziale del suo esistere. • Questo è il mio corpo: è l’intera persona del Maestro ad essere chiamata in causa10. Prendere dalle mani del capotavola il pane spezzato è abituale per un giudeo. Ricevere il pane in questione come simbolo della persona del Figlio di Dio, del Messia è sconvolgente. Soprattutto quando si coglie che cosa significhi il verbo essere di questa frase: per Gesù e per i suoi interlocutori, un ebreo di fronte ad altri ebrei, il pane acquisiva un nuovo valore obiettivo, legato alla sua funzione nuova, ossia rendere presente la persona di Gesù stesso in mezzo a quanti credono in lui. La spartizione del pane della misera schiavitù e della partenza liberante (cfr. Es 12,15-20) diviene la condivisione del massimo nutrimento di liberazione possibile all’essere umano: la persona stessa di Gesù che si dona. • Questo è il mio sangue: lo sconvolgimento non può che aumentare. Infatti i presenti, dopo aver bevuto secondo il rito loro consueto, si sentono dire qualcosa che per un ebreo era del tutto sacrilego: bere il sangue di un essere vivente (la Torà è inequivocabile in proposito: cfr. Gen 9,4-6; Lv 17,10-14). Non è quindi pensabile che Gesù intendesse operare in proprio o far agire i suoi in un senso così chiaramente censurabile11. Egli cambia quindi completamente la prospettiva esistenzial-culturale vigente sino a quel momento. Egli parla del proprio sangue. Questo fatto pone in evidenza contemporaneamente due aspetti: - solo Dio può disporre dell’esistenza dei viventi e Gesù dispone di quanto rappresenta la sua vita; - gli esseri umani non possono sacrificare a Dio sangue di viventi: Gesù è quindi al di fuori dell’ambito degli umani. La portata straordinaria del tutto non finisce qui. Infatti questo sangue è quello dell’alleanza, quindi è, secondo le categorie bibliche ben note a tutti i presenti, lo strumento della relazione fondativa tra Dio e il popolo d’Israele (cfr. Es 24,6). Inoltre questo sangue è versato12 per molti13, dunque è consapevolmente finalizzato alla Per analizzarne il retroterra targumico e filoniano, si veda M. Philonenko, «Ceci est mon corps – ceci est mon sang». La préhistoire d’une formule cultuelle, in C. Grappe (ed.), Le repas de Dieu, pp. 177-186. 10 «Il corpo contiene il sangue e tanto in greco (soma) quanto in aramaico (gufa’) il termine corpo indica la persona totale composta contemporaneamente da carne e sangue» (J.M. Van Cangh, Peut-on reconstituer le texte primitif de la Cène? [1 Cor 11,23-26 par. Mc 14,22-26], in Aa.Vv., The Corinthian Correspondance, ed. R. Bieringer, University Press, Leuven 1996, p. 632). 11 Anche nel I sec. d.C. tale obbligo era rigorosamente osservato dai giudei (cfr. At 15,20-29; 21,25). 12 La densa locuzione il sangue di me dell’alleanza l’essente versato per molti esprime tre valori concomitanti: 1. la particolarità di quel sangue (l’essere versato); 2. la continuità dell’azione stessa, che parte nell’attualità presente, ma non ha, a differenza della maggior parte delle forme verbali di questi versetti, limiti temporali; 3. La forma è passiva: i “riflettori” sono quindi puntati sul soggetto sintattico (= il sangue), anche se tutti sanno che il soggetto attivo reale è un altro (= Gesù). Per l’equivalenza versare il sangue = distruggere la vita, uccidere, cfr., ad es., Gen 9,6; Ez 18,10. 9


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donazione volontaria di colui cui appartiene a vantaggio non solo dei presenti, ma dell’insieme degli esseri umani. E anche quando, in Lc si parla in modo verbalmente meno esplicito di esso, è palese l’idea che il contenuto di quel calice sia destinato al bene dei discepoli («Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, versato per voi»). È quindi certamente anche una sostituzione, ma con il valore della massima solidarietà di Dio nei confronti e a vantaggio dell’essere umano. Mc 14,25 e i paralleli evangelici variamente accostabili rafforza ulteriormente la prospettiva di “rivoluzione” che Gesù realizza nella continuità culturale. Infatti egli, non pronuncia termini equivoci e giudaicamente inaccettabili sul sangue, ma utilizza la formula tipica della benedizione giudaica, sempre obbligatoria prima di bere una coppa di vino14, per annunciare che da quel momento cesserà di partecipare ai banchetti terreni. E l’offerta del calice sottolinea il dinamismo del gesto eucaristico: nella formula di consacrazione (cfr. Mc 14,23-24; Mt 26,27-28; Lc 22,20; 1Cor 11,25) si parla sempre di calice, e non di vino: «il calice è la vita di Gesù regalata ai discepoli e a tutti gli uomini: e tutti a loro volta sono chiamati a fare della propria esistenza un dono gratuito agli altri»15. Gesù proietta tutti verso i tempi ultimi connotandoli con il senso della gioia festiva che il banchetto ed il vino simboleggiano. Essa è realizzata dalla concretizzazione del quadro di valore da lui presentato sin dall’inizio del suo ministero, quadro definitivamente nuovo rispetto alle condizioni di vita unicamente terrene: il regno di Dio, a quel punto non solo divenuto vicino (cfr. Mc 1,15), ma pienamente attuato. A questo proposito la versione lucana presenta il testo più inequivocabilmente esplicito (cfr. 22,18). E, come ribadisce anche 1Cor 11,26, «l’economia divina trova il suo senso soltanto alla fine dei tempi. La celebrazione cristiana della frazione del pane

Nell’espressione per molti il pronome indefinito molti appare, nel greco neo-testamentario, un semitismo per indicare la moltitudine, dunque tutti, proprio perché ebraico ed aramaico non possiedono il termine che corrisponda alla totalità (cfr., per es., F. Blass - A. Debrunner, Grammatica del greco del Nuovo Testamento, tr. it., Paideia, Brescia 1982, § 2451). Tra gli ascendenti primo-testamentari di quest’espressione, cfr. assai utilmente Is 52,13 - 53,12 e, titolo rafforzativo dell’interpretazione universale in questione, si vedano testi neo-testamentari quali, per es., Rm 5,18-19. Per avere un’idea precisa di come si possa interpretare letteralisticamente questa locuzione si veda, per esempio, il recente saggio di M. Hauke, Versato per molti, Cantagalli, Siena 2008. Lo studioso tedesco sottolinea (cfr. in particolare pp. 22-32) la possibilità di una traduzione per molti e cita, con innegabile precisione, tutta una serie di riferimenti neo-testamentari letti a vantaggio di tale interpretazione “restrittiva”. Egli, però, sembra non considerare la progressività di estensione della missione gesuana, per esempio proprio nella versione matteana, tra l’inizio del testo e il suo sviluppo (cfr. per es. Mt 8,10-12; 15,21-28; 28,16-20) secondo un’universalità sempre più marcata e al di fuori di esclusivismi e limitazioni etniche o religiose. 14 «I saggi dicono: che esso (ndt: vino) sia puro o mescolato ad acqua, si dice: benedetto colui che crea il frutto della vigna» (Talmud Yerushalmi. Berakot, 5,10a). 15 C. Miglietta, L’Eucaristia secondo la Bibbia, Gribaudi, Milano 2004, p. 81; «con la parola sul calice deve essere rivista la nozione stessa di sacrificio: l’eucaristia è essenzialmente un “sacrificio di lode” per mezzo del quale i discepoli del Cristo glorificano Dio perché in Gesù ha fatto trionfare la vita sulla morte» (X. Léon-Dufour, Il pane della vita, tr. it., EDB, Bologna 2006, p. 65). 13


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che si ripete come liturgia terrestre diventa, quindi, un’azione cultuale valida soltanto nel tempo intermedio, mentre i discepoli sulla terra seguono ancora con fatica l’itinerario del Maestro»16, in attesa che arrivi la fine della Storia con il secondo e definitivo manifestarsi di Gesù Cristo. Comunque l’affinità con i convivii comunitari di varie confraternite ellenistiche a fini commemorativi è soltanto esteriore, in quanto qui si tratta di una cena che è la memoria di Gesù, il Signore risorto e vivo. Proprio quest’ultimo riferimento al regno divino, collocato al termine del racconto dell’Ultima Cena, ha un grande valore riassuntivo. In Mc 1-13 / Mt 3-25 / Lc 3-21 il concetto di regno resta aperto a varie interpretazioni17. L’enfasi è data, di volta in volta, alla sua vicinanza (cfr. Mc 1,15), al suo sviluppo cfr. (Mc 4,26-29; 4,30-32) e alla sua improvvisa irruzione (9,1). Mc 14 / Mt 26 / Lc 22 collegano tutte queste immagini del regno ad un centrale tema cristologico. Il regno del Figlio dell’Uomo nel regno di Dio è preceduto dal tradimento e dalla morte del Figlio dell’Uomo a Gerusalemme. Di conseguenza le varie immagini del regno apparse nei capitoli precedenti delle versioni sinottiche assumono una nuova, decisiva interpretazione attraverso l’angolo visuale della passione nei capitoli indicati, e, anzitutto, nei vv. in esame.

1.3. Tradizioni diversificate? I quattro brani considerati sinora sono evidentemente apparentabili soprattutto a due a due: quelli marciano e matteano da un lato e quelli lucano e paolino dall’altro. (a) I testi marciano e matteano - La sovrapponibilità lessicale tra i passi di Mc e Mt è certo notevole (49 parole marciane su 69, ossia oltre il 71%, sono identiche a oltre il 62% di quelle matteane, che, complessivamente sono 79). Nei casi di vocaboli o di strutture non congruenti, vi sono espressioni semanticamente non rilevanti (cfr., per es., la fine del v. 23c di Mc 14 e del v. 27 di Mt 26) oppure discendenti in misura notevole da una più marcata attenzione matteana alla regolarità sintattica della lingua greca. La presenza del tema della benedizione appare in tutta la sua connotazione giudaica. E l’insistenza duplice dei due testi sul binomio di azioni costituito dal donare storico di Gesù (= diede) e dagli imperativi rivolti ai discepoli (prendete… mangiate… bevete) esprime con particolare rilievo il carattere relazionale e conviviale della cena in corso: «Gesù non mira tanto agli elementi che lui distribuisce, ma cerca piuttosto il rapporto con i commensali chiamati a condividere il dono che egli fa di se stesso»18. P.R. Tragan, La cena del Signore negli scritti sinottici e paolini, in Aa.Vv., L’eucaristia nella Bibbia, Borla, Roma 1998, p. 92. 17 Per una considerazione sintetica del tema si veda, per esempio, il mio saggio La giustizia per tutti. Lettura esegetico-ermeneutica del Discorso delal montagna, Claudiana, Torino 2007, pp. 30-32. 18 P.R. Tragan, La cena del Signore negli scritti sinottici e paolini, p. 97. 16


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E se si considera la precedenza cronologica di Marco su Matteo e si reputa il secondo testo dipendente dal primo, si noti ancora come il passo matteano presenta alcune importanti peculiarità. Infatti, anzitutto, circa il sangue dell’alleanza versato (v. 28), fermo restando l’oggetto di tale destinazione (i molti) al complemento di vantaggio marciano si sostituisce un complemento di argomento e la finalizzazione riconciliatoria del perdono degli errori nelle relazioni fondamentali della vita. Quale significato hanno questi due elementi? «La cena eucaristica celebrata dalla comunità diventa, nel tempo, il mezzo perenne del perdono dei peccati. L’alleanza che commemora la cena del Signore è l’impegno che Dio assume di perdonare i peccati e di acquistarsi a tutti i costi un nuovo popolo»19. D’altra parte questo riferimento matteano è in linea con una sensibilità già riscontrabile in precedenza in questa versione evangelica. Infatti in Mt 1,21 l’etimologia del nome di Gesù è indicata secondo la seguente formulazione: «egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». E in Mt 4,3 - differentemente da quanto avviene in Mc 1,4 e Lc 3,3 - viene escluso che possa essere Giovanni il Battezzatore a perdonare i peccati: il perdono può essere ottenuto soltanto tramite Cristo20. In secondo luogo si riprenda Mt 26,29: «Ma vi dico, d’ora innanzi non berrò più di questo frutto della vita, fino a quel giorno, quando lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio». Due sono le differenze rispetto al testo marciano: • con voi: «il pasto escatologico è necessariamente un pasto comunitario. Dopo aver annunciato ai Dodici la provvisoria interruzione della comunità di tavola, Gesù annuncia contemporaneamente la sua ripresa nel regno di Dio»21. In Mc invece la profezia concerne per il momento solo la sorte di Gesù Figlio dell’Uomo, che affronta la morte e verrà innalzato da Dio; • del Padre mio: la marcata attenzione alla paternità di Dio attraversa l’intera versione matteana22. Si consideri, anzitutto, l’intero discorso della montagna (cc. 5-7) e il suo culminare nella preghiera del “Padrenostro”. Il Gesù matteano invita i discepoli a guardare a Dio in particolare nella sua caratteristica di padre. (b) I testi lucano e paolino - Certamente il passo lucano presenta, come si è detto in precedenza, vari aspetti di stretta somiglianza con i brani corrispondenti delle due altre versioni sinottiche. La sua tradizione manoscritta, tra l’altro, è tormentata23.

Ivi, p. 91. G. Barbaglio, L’istituzione dell’eucaristia, in “Parola Spirito e Vita” 7 (1/1983), 138. 21 J.-M. Van Cangh, Peut-on reconstituer le texte primitif de la Cène?, p. 636. 22 Cfr., per es., Mt 5,16.45.48; 6,4.6.8.9.14.18.26.32; 11,25.26.27; 15,13; 18,10.14; 23,9; 26,42.53. 23 Infatti vi sono almeno quattro altre lezioni di questo passo oltre a quella che ho proposto: una lettura del Codice Beza e di alcune versioni latine antiche che riportano soltanto i vv. 17-19a; due altre che mostrano il solo v.19 seguito dai vv.17-18; la versione siriaca antica che, nel manoscritto curetoniano, trasmette il v.19 e i vv.17-18 e, in quello sinaitico, la sequenza 19-20a.17.20b.18. 19 20


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I due punti sovrapponibili tra Lc 22 e 1Cor 11 sono, comunque, di notevole rilievo. • Anzitutto l’identità simbolica del calice condiviso tra i presenti. Non si tratta, come nelle due altre versioni sinottiche, del sangue dell’alleanza versato… ma della nuova alleanza nel mio sangue. Quello che i presenti si sono passati è il segno di un patto nettamente diverso da quello storico tra Dio e il popolo d’Israele e il sangue di Gesù ne è il contesto e lo strumento sanzionatorio. • In secondo luogo la proposizione fate questo in memoria di me, in cui sia la valenza durativa del verbo all’imperativo, la fisionomia semantica generale del sostantivo e il valore del complemento di fine sottolineano l’intensità dell’invito che i discepoli ricevono da Gesù a rivivere successivamente questi gesti secondo due prospettive: - come collegamento affettivo con lui24; - come opportunità di testimoniare la sua persona nella sua globalità, dunque vivere cercando di realizzare con gli altri e per gli altri l’amore testimoniato dall’intera vita gesuana. La chiusa del brano paolino25 («Ogniqualvolta infatti mangiate di questo pane e beviate il calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli sia giunto») appare una vera e propria vetta ermeneutica nella sua grande capacità di sintesi tra parola e azione di Gesù: «il pasto comunitario, in cui è espressa una parola risuscitata, è designato come il luogo della presenza reale del Signore, a condizione di restare il luogo di un vivo richiamo alla croce e di essere anche il luogo di una continua attesa della sua venuta»26.

1.4. Linee di sintesi I quattro testi esaminati testimoniano, nelle loro differenze, comprese le varianti proprie del passo lucano, come la comprensione dell’Ultima Cena sia stata contemporaneamente unitaria e diversificata. Assai probabile è il fatto che questo pasto d’addio di Gesù sia stata una cena pasquale: tanti elementi di questi racconti lo fanno pensare e il fatto che non vi sia traccia né dell’agnello né delle erbe amare né di altri ingredienti propri del pasto della Pasqua ebraica, non è incomprensibile: i momenti conviviali di Gesù, ampiamente riportati nelle versioni evangeliche, sono,

Si veda, anche rispetto all’espressione in memoria di… la continuità con quanto espresso, per esempio, in Es 12,14: «la liberazione dei padri, continuamente commemorata dalla cena pasquale, garantisce ai figli d’Israele, la liberazione escatologica. Per i cristiani il dono di sé di Gesù simboleggiato dalla condivisione eucaristica garantisce il loro proprio passaggio pasquale futuro e il banchetto finale» (X. Léon-Dufour, Il pane della vita, p. 91). 25 Nonostante siano del tutto singolari dei riferimenti biografici alla vita di Gesù nelle lettere paoline, questo esplicito richiamo in 1Cor 11,23-25, è del tutto comprensibile. 26 C. Perrot, L’eucaristia nel Nuovo Testamento, p. 71. 24


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nella loro assenza di esclusivismi di qualsiasi genere, il punto di partenza che trova nella cena d’addio, intrisa di elementi pasquali, il culmine dal punto di vista teologico e antropologico. E l’eucaristia delle comunità cristiane primitive, che è certamente la prassi riassunta in questi racconti, si rifaceva anzitutto, come lo stesso contesto di 1Cor 11,23b-26 testimonia, alle cene consumate da Gesù con i discepoli e la gente, non esclusi i peccatori pubblici e i pubblicani. Si è insistito molto sul carattere pasquale dell’Ultima Cena, perché si tratta di un contesto cultuale in cui il sorprendente comportamento di Cristo assume la sua piena rilevanza, un comportamento di donazione piena agli esseri umani, a cominciare dai suoi discepoli, che costituisce lo sviluppo definitivo coerente con la sua esperienza esistenziale: «alla vigilia della morte Gesù si dona ai suoi amici che, mangiando il pane da lui spezzato e offerto, partecipano effettivamente alla realtà salvifica del suo gesto oblativo... Se la pasqua ebraica costituiva la viva e vivificante memoria dell’evento salvifico dell’esodo, la cena pasquale di Gesù è il vivo e vivificante preannuncio dell’evento salvifico della croce... Certo, in croce Gesù è finito per la nequizia degli uomini, ma egli ne ha fatto un atto personalissimo di donazione della sua vita»27.

È probabile che, intorno all’anno 70, il redattore marciano abbia unito due elementi distinti ricevuti dalla tradizione: il gesto della cena e i motivi del banchetto messianico (Mc 14,23-25). L’azione simbolica di Gesù, che annunciava la sua morte, s’illumina allora di un’immensa speranza nella novità del Regno. L’incontro tra queste due tradizioni - il motivo del sangue dell’alleanza e quello del vino del Regno – ha probabilmente chiarito il racconto in modo positivo, proprio alla luce del pasto messianico. In questo quadro di probabile ricostruzione storico-testuale, in cui le diverse sequenze di parole restano non sovrapponibili, si riesce a capire adeguatamente il valore basilare dell’Ultima Cena per la fede cristiana, dalle origini in poi. Infatti, nella prospettiva della morte che si profila imminente, Gesù di Nazareth ha vissuto l’ultimo momento di vita direttamente per e con i suoi discepoli in un convito che da momento pre-festivo/festivo tradizionale, memoria dell’evento storico fondamentale per gli ebrei, assume una configurazione sostanzialmente nuova. «la celebrazione ecclesiale della cena del Signore condensa in se stessa un’esperienza religiosa complessa, rievocatrice del passato, cioè della cena e della morte di Cristo, partecipativa al presente dell’efficacia salvifica della croce e fiduciosamente protesa al compimento ultimo del progetto di Dio»28.

Il momento decisivo in cui rivelare la logica del proprio vivere associa il clou della ritualità religiosa liberante con la familiarità e la quotidianità più esplicite e gioiose: la cena d’impianto pasquale, centrata sulla condivisione di pane e vino, in cui Gesù

27 28

G. Barbaglio, L’istituzione dell’eucaristia (Mc 14,22-25; 1Cor 11,23-24 e par.), pp. 132-133. Ivi, p. 135.


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identifica se stesso e il suo amore disposto ad andare incontro alla morte. I discepoli sono invitati a prendere parte integralmente a questo evento, perché da lì, per tanti versi, tutto quanto è vita vera comincia, a partire dalla presenza nuova «di colui che se ne va e che affronta la morte, affidando la sua causa a Dio suo Padre»29. Questa straordinaria ricchezza, che dal rito religioso dovrebbe trasfondersi in tutta la vita precedente e successiva alla celebrazione quotidiana e/o domenicale, è, come si è appena detto, quella di un sacramento nel senso più ricco e intenso del termine («segno di una cosa sacra, in quanto è in grado di rendere santi gli esseri umani» come diceva Tommaso d’Aquino30). E questo perché, come si è visto chiaramente anche nell’esame dei testi biblici condotto, l’eucaristia discende dalla tradizione liberatoria propria della Pasqua giudaica allargata e universalizzata dallo spirito di apertura transculturale propria dei conviti a cui il Nazareno partecipò durante il suo ministero terreno. E, comunque, alla luce dei testi neo-testamentari presi in esame, il cuore della logica eucaristica appare questo: «Non basta affermare che nel pane e nel vino è presente il Cristo: occorre scorgervi la presenza di una vita in dono, e occorre prendervi parte. Si noti allora come il testo parli di sangue bevuto, condiviso. Dalla prima comunione (quella di Dio con noi) scaturisce la seconda (quella fra noi): la via del Cristo (una vita in dono) definisce la sequela»31.

E i rischi più gravi, che minano alla base questo discorso sono i due che Giovanni Calvino ricorda: «uno è che indebolendo la portata dei segni, li si allontani dai misteri ai quali essi sono in qualche modo legati, e di conseguenza non si indebolisca l’efficacia. L’altro, che magnificandoli oltre misura, non si oscuri la virtù interiore»32. I racconti neo-testamentari eucaristicamente basilari sono narrazioni interpretative che istituiscono e propongono una logica di azione che può essere attiva33, se chi le ascolta, le assume come eticamente impegnative. È un invito all’interpretazione esistenziale personale e comunitaria delle interpetazioni che le prime due generazioni dei discepoli di Gesù Cristo hanno dato dell’Ultima Cena e dei valori etico-religiosi da essa espressi.

2. La Passione e la morte I racconti della passione di Gesù di Nazareth e delle apparizioni del Risorto costituiscono il culmine delle quattro versioni evangeliche canoniche, a cominciare dal

X. Léon-Dufour, Il pane della vita, p. 42. Summa Theologiae, III, q. 60 a2. 31 B. Maggioni, Il racconto di Marco, Cittadella, Assisi 19792, p. 198. 32 OC II,1005 in F.D. Tosto, Calvino, punto di convergenza. Simbolismo e presenza reale nella Santa Cena, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2003, p. 60 nota 122. 33 Cfr. L. Panier, Il pane e il calice: parola data per un tempo di assenza, in “Concilium” (2/2005), 66. 29 30


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vangelo secondo Marco. E questo discorso è del tutto coglibile, se si tengono presenti, in contemporanea, tutti i passi in cui si manifesta l’ostilità a Gesù degli avversari che saranno poi i mandanti ed esecutori della sua fine terrena.

2.1. I presupposti Si veda la sequenza di passi qui sotto proposta: Mc 2: «19Gesù disse loro: “Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. 20Ma verranno i giorni quando lo sposo sarà loro tolto : allora in quel giorno digiuneranno»; Mc 3: «6E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui, in che modo farlo morire»; Mc 8: «27Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo; e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: “La gente, chi dice che io sia?”. 28Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti”. 29Ed egli domandava: “Ma voi chi dite che io sia?”. Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”. 30E ordinò loro severamente di non parlare di lui a nessuno. 31E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare»; Mc 9: «30Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. 31Istruiva infatti i suoi discepoli e diceva loro: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risorgerà”»; Mc 10: 32bPresi di nuovo in disparte i Dodici, si mise a dire loro quello che stava per accadergli: 33“Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani; 34lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; e dopo tre giorni risusciterà”... 42Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: “Voi sapete che coloro i quali sono ritenuti i governanti delle nazioni dominano su di esse, e i loro capi esercitano su di esse il potere. 43Tra voi non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, 44e chi vuol essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. 45Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”»; Mc 11: «17Ed insegnava loro dicendo: “Non sta forse scritto: ‘La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni?’ Voi invece ne avete fatto un covo di ladri!”. 18Lo udirono i capi dei sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui, perché tutta la folla era stupita del suo insegnamento»; Mc 12: «12E cercarono di catturarlo, ma ebbero paura della folla... 13Gli mandarono però alcuni farisei ed erodiani per coglierlo in fallo nel discorso».


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Complementari a questa serie di passi direttamente legati a Gesù, troviamo anche quelli riferiti alla figura di Giovanni Battista (cfr. per es. Mc 6,14-29): l’intera narrazione della passione e morte di colui che è stato il precursore del Cristo, è, una volta per sempre, la dimostrazione che egli è l’uomo che ne anticipa e “prepara” la vicenda, non anzitutto nei singoli fatti, pur anche analoghi, ma negli eventi fondanti e nel senso complessivo. Egli infatti sacrifica coerentemente se stesso per la fedeltà alla sua parola di conversione. In questi termini si manifesta, attraverso - lo ripeto - l’intera trama dell’evangelo secondo Marco, il gioco paradossale del piano di Dio e della decisione degli esseri umani: Gesù si consegna alla morte e l’essere umano lo consegna alla morte. E sorgono, spontanee non poche domande. La storia di Gesù non è un gigantesco disprezzo o, perlomeno, il suo racconto non assomiglia ad un’abile mistificazione? Davvero, nella mentalità dell’epoca, Gesù avrebbe potuto essere riconosciuto come Figlio di Dio al di fuori di una cerchia di privilegiati? Marco e le altre versioni evangeliche mostrano, in varia misura, i discepoli lenti e ottusi tanto quanto la folla, duri e chiusi tanto quanto gli oppositori. La morte del loro rabbi beneamato ha procurato loro lo choc salvifico decisivo? Nella condanna del loro maestro quale fu la loro responsabilità reale e quale fu quella degli altri? Queste domande si affollano nella nostra testa come in quella dell’evangelista: egli le aveva raccolte dai suoi contemporanei e sentiva il dovere di misurarsi con esse. Gesù ha insistentemente cercato di impedire ogni fraintendimento sulla sua natura di Messia e Figlio di Dio. Lettrici e lettori dovranno cercare di cogliere, leggendo i racconti evangelici di Mc 14-16, Mt 26-28, Lc 22-24, Gv 18-21 come, di fronte al destino di Gesù, ci poniamo dinanzi alle questioni fondamentali della morte e della vita e ai misteri del peccato e della grazia. Prima di esaminare brevemente qualche brano di questi momenti epocali dell’esistenza del Nazareno, occorre ricordare due aspetti essenziali che concernono il racconto della passione e morte gesuana. Anzitutto, è necessario avere un’idea delle fasi del suo sviluppo letterario. I discepoli hanno dapprima raccontato in poche frasi il sunto essenziale della vicenda come si vede, ad esempio, in 1Cor 15,3-5 34, testo che fa parte di una lettera paolina redatta circa venticinque anni dopo la morte di Gesù. Successi-

Si consideri l’intero passaggio paolino di 1Cor 15,1-8: «1Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi annunciai e che voi riceveste, nel quale restate saldi, 2e attraverso il quale anche siete salvati, se lo mantenete secondo quella parola con cui ve lo annunciai. Altrimenti, sareste stati credenti solo in apparenza! 3Trasmisi infatti a voi prima di tutto quello che anche io avevo ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture 4e fu sepolto ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture 5e si fece vedere da Cefa, quindi dai dodici; 6poi si fece vedere da più di cinquecento fratelli in una volta sola, la maggior parte dei quali è ancora in vita, mentre alcuni morirono; 7inoltre si fece vedere da Giacomo, dunque a tutti gli apostoli; 8e per ultimo tra tutti esattamente come ad un feto abortito si fece vedere anche da me». Si tratta di un brano composito, in particolare nei vv. 3-8, che secondo molti studiosi può presentare la seguente serie di apporti che ho così esplicitato: in tondo: tradizione pre-paolina; in corsivo: intervento paolino; sottolineato: tradizione extra-evangelica/intervento paolino. 34


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vamente sarebbe stato composto, da coloro che hanno scritto le versioni evangeliche, un vero e proprio racconto narrativamente ben articolato, e non una semplice serie di pericopi indipendenti (l’Ultima Cena, l’agonia nel Getsemani, il rinnegamento di Pietro, ecc.). Facendo un confronto, per es., con Mc 8,27-33, possiamo notare che nei testi più antichi del NT (le lettere sicuramente paoline e, successivamente, l’evangelo secondo Marco) si sottolinea la novità radicale della passione del Figlio di Dio, con tutta la rivelazione di un amore che non ha paura di abbandonare la propria eccellenza divina a favore degli esseri umani (cfr. Fil 2,6-11; Mc 14,65; 15,21-39). Sotto il profilo tematico occorre sottolineare che nel racconto marciano della passione si punta a sottolineare la regalità di Gesù e, per contrasto, proprio la sua spoliazione e la sorpresa generale dinanzi all’evento inaudito di un Figlio di Dio che si umilia sino alla morte in croce. Non ptendo entrare nel dettaglio esegetico-ermeneutico di brani tutti di grande rilievo, facciamo alcuni esempi offrendo una lettura globale del percorso marciano che va dall’espisodio del Getsemani alla sepoltura del Nazareno.

2.2. Mc 14,32 – 15,47: linee orientative La parte conclusiva e culminante del vangelo secondo Marco presenta una serie assai articolata di brani (14,32-52; 53-72; 15,1-20; 21-47; 16,1-8), variamente suddivisibili in pericopi più circoscritte, in cui l’itinerario di sofferenza gratuita percorso da Gesù Cristo giunge sino all’apice degli annunci della risurrezione. Vediamo alcuni elementi qualificanti di questa eccezionale sequenza testuale. (a) 14,32-52 - Nel cap. 14 il testo dice: «32Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: “Sedetevi qui, mentre io prego”. 33Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia». La compagnia che Gesù si sceglie è quella delle occasioni importanti di rivelazione del suo ruolo “evangelico” terreno, divino e umano: i tre discepoli, infatti, l’hanno seguito in occasione della risurrezione della figlia di Giairo (cfr. 5,37-40) e sul monte della trasfigurazione (cfr. 9,2). L’identità umana di Gesù è così autentica che chiede la solidarietà dei suoi compagni, la loro presenza non lontano da lui, e manifesta tutta la tragicità del momento con due sentimenti del tutto comprensibili. La paura come uscita da se stessi in senso terribilmente negativo e l’angoscia frutto del senso di solitudine dominano il suo cuore. Colui che sta entrando nella fase più tragica della sua vita, non è un eroe: è un essere umano che, consapevole delle cocenti ed amare delusioni che ha vissuto (Giuda) e di quelle che vivrà (cfr. i riferimenti all’abbandono dei discepoli e al rinnegamento petrino nei vv. 27-31), sa di andare incontro al dolore solitario della morte. Egli, comunque, ha preso con sé i tre amici che sente storicamente più vicini a sé e che sono stati testimoni di altri momenti epocali della sua vita. Gesù, proseguendo, invita loro tre a mantenere un atteggiamento responsabile, a


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partire dalla solidarietà con lui e dalla loro condizione di credenti in Dio: «34“La mia anima è triste da morire. Restate qui e vegliate”. 35Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora. 36E diceva: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu”». Nell’individualità della sua vicenda, Gesù implora di essere esentato da questo terribile passaggio di vita. Lo fa in due momenti successivi, in cui ricerca la piena intimità di relazione con il Padre e ribadisce, ad ogni costo, la volontà di essere fedele a tale rapporto. Lo fa a partire dalla piena familiarità con Dio che gli viene dalla sua figliolanza divina dimostrata in tutta la sua vita, con tutto quanto ha detto e fatto nel suo ministero. Chiama Dio Abbà, ossia papà, dice di sapere che il Padre può realizzare tutto, gli chiede con insistenza, in modo durativo, di non farlo morire così, ma ritiene quello che pensa e vuole Dio più importante della propria, particolare esigenza. La divinità di Gesù è tutta qui: affermare che l’amore per gli esseri umani che il Padre ha dimostrato da sempre deve trovare realizzazione definitiva al di là della convenienza egocentrica che Gesù stesso ne può immediatamente avere. L’ultima parola di questa implorazione è un pronome personale: tu, proprio per sottolineare quale sia il punto d’arrivo ineludibile cui Gesù affida la sua esistenza: la volontà del suo interlocutore per eccellenza, così come egli per tutta la vita ha voluto fosse per ogni essere umano, ossia Dio Padre. Egli potrebbe rimuovere anche in extremis la morte di Gesù, ma il Figlio di questo Padre si mette “nelle sue mani” perché, nella sua piena umanità, ha in lui una fiducia totale. A partire da questa consapevolezza, lettrici e lettori possono capire il senso di quanto segue, subito dopo, nella versione di Marco: «37Tornato indietro, li trovò addormentati e disse a Pietro: “Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola? 38 Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole”. 39Allontanatosi di nuovo, pregava dicendo le medesime parole. 40Ritornato li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano appesantiti, e non sapevano che cosa rispondergli». Gesù, in questo momento decisivo della sua vita, è dilacerato nel suo profondissimo dialogo con il Padre e, ciononostante, continua ad essere attento ai suoi discepoli, tornando varie volte da loro per farli restare fedeli ad una logica di vita del tutto umana perché è sempre in rapporto con Dio. A fronte di questo atteggiamento, ancora una volta di piena, totale generosità, i discepoli si dimostrano come un vero e proprio anti-modello. Infatti non partecipano minimamente alla sorte del loro Maestro. Il testo evangelico testimonia ancora una volta quanto essi non siano ancora all’interno della dinamica della salvezza. Il sonno indica chiaramente quanto essi restino lontani dalla prospettiva di vita del Dio che Gesù ha loro manifestato. Essi non sanno neppure dar conto della condizione di abbandono che stanno vivendo. Non perché “la carne sia sempre e necessariamente debole”, ma perché quanto viene da Dio è pieno di slancio e forza interiori, mentre ciò che non ha ascendenze divine è pieno di debolezza e si lascia prendere dalla tentazione più importante: accettare la separazione da Dio.


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La persona dei tre discepoli, se non è animata dall’amore di Dio, è dominata da tutto ciò che toglie all’essere umano la sua fisionomia vera. Mentre Gesù è assolutamente sveglio, perché ha scelto di morire per loro, i discepoli dormono perché non hanno ancora scelto di vivere se non per se stessi. E se il contrasto tra Gesù e i suoi discepoli, da Pietro agli altri, risulta particolarmente evidente, ciò non suscita alcuna reazione da parte di Gesù: «41Venne la terza volta e disse loro: “Dormite ormai e riposatevi! Basta, è venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. 42Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino”». Il conflitto interiore di Gesù si è risolto. L’agonia della fede è stata superata nel prevalere di uno slancio consapevole: quello dell’amore. L’invito è rivolto, a questo punto, attraverso i tre dormienti, alla globalità dei Dodici. La realizzazione del piano di Dio si avvicina al culmine e nella solitudine anche necessaria delle scelte fondamentali della vita, Gesù ha deciso. Che cosa? Di portare sino in fondo la sua passione per la vita degli altri. A partire da tre elementi molto chiari: • un’umanità piena che crede nella potenza benefica del Padre perché mantiene dei rapporti stretti con lui (non a caso può chiamarlo Abbà); • un’umanità che cerca il rapporto personale e che sa di dover essere sola nel momento decisivo della sua piena realizzazione; • una divinità che non ha paura di mostrarsi umana per essere modello di schiettezza e di decisione verso gli esseri umani. La vicinanza e lontananza tra Dio e l’uomo sono espressi in questo brano dalla coppia dinamismo/staticità rispetto alla tristezza e all’angoscia del momento tragico che Gesù sta vivendo. Infatti al vigilare teso di Gesù fa riscontro il sonno dei discepoli, al parlare dell’uno il mutismo degli altri, alla debolezza piena di forza del primo la forza evidente della debolezza dei suoi “compagni”. «43E subito, mentre ancora parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni mandata dai sommi sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani. 44Chi lo tradiva aveva dato loro questo segno: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta». 45Allora gli si accostò dicendo: «Rabbì» e lo baciò. 46Essi gli misero addosso le mani e lo arrestarono. 47Uno dei presenti, estratta la spada, colpì il servo del sommo sacerdote e gli recise l’orecchio. 48Allora Gesù disse loro: «Come contro un brigante, con spade e bastoni siete venuti a prendermi. 49Ogni giorno ero in mezzo a voi a insegnare nel tempio, e non mi avete arrestato. Si adempiano dunque le Scritture!». 50Tutti allora, abbandonandolo, fuggirono. 51Un giovanetto però lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. 52Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo».

I vv. 43-52, nell’estrema drammaticità dell’arresto, indicano quanto il Nazareno sia ritornato padrone della situazione: niente avviene senza che egli ne sia consapevole soggetto e si riferisca alla volontà divina espressa nelle Scritture: «implicitamente l’evangelista fa risaltare come sia stata proprio la preghiera a dargli la forza di andare sino in fondo nella strada indicatagli dal Padre e da lui liberamente accettata»35. 35

Cfr. A. Sacchi, Un vangelo per i lontani, Paoline, Milano 2000, p. 280.


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(b) 15,21-47 - Nel corso del cap. 15 viene narrata la passione e morte di Gesù Cristo. I vv. 21-47 trattano la crocifissione e, se la si guarda dal punto di vista degli “spettatori” si nota come si scontrino due generi di fede e quanto proprio il Crocifisso ne sia lo spartiacque: da una parte, la fede di chi richiede che il Messia abbandoni la croce e compia i miracoli; dall’altra quella di chi coglie la divinità di Gesù proprio sulla croce. Il centurione incarna questa seconda tipologia, in modo definitivo e assai più sapiente di tanti capi giudei, che in nome, tra l’altro, della loro conoscenza di Dio, l’hanno condannato a morte. Quest’uomo pagano, assai più sensibile di tanti credenti ufficiali, dice: «Veramente quest’essere umano era Figlio di Dio!». Questa affermazione è importante per vari motivi36: • un pagano come chi l’ha pronunciata avrebbe potuto parlare così, confrontando l’assenza di rivolta di Gesù nei confronti della condanna a morte. Egli avrebbe potuto spiegare i segni meteorici straordinari spiegati come l’ostilità scontenta degli dei nei confronti dell’azione degli uomini. Comunque, il fatto che il testo marciano sottolinei il ruolo rivelatore di un pagano a fronte della cecità globale giudaica, significa che qualsiasi preferenza evangelizzatrice e salvifica nei confronti di Israele è definitivamente tramontata; • i destinatari della versione marciana – dei credenti degli anni 70 del I secolo – e qualsiasi lettore attento del testo sanno quanto importante sia per l’evangelista il titolo “Figlio di Dio” sin dall’inizio (cfr. 1,1.13). Il fatto che la relazione intima tra Padre e Figlio sia universalmente pubblica nel momento della morte infamante di Gesù dimostra un fatto: la massima identificazione tra loro due avviene nel momento della massima sofferenza gratuita per gli altri37. In un racconto come questo, costruito interamente con la tecnica narrativa del capovolgimento, le diverse sequenze sono disposte in modo tale da mettere in evidenza il contrasto tra quanto avviene prima della morte del Nazareno e quello che capita subito dopo: «prima della morte tutto è contro Gesù e tutto, compresa la sua morte, sembra dar ragione a coloro che deridono le sue pretese. Ma appena morto la prospettiva si capovolge. Marco non attende la risurrezione per mostrarci la forza vittoriosa della croce. Gia nel cuore stesso dello scandalo si fa strada il trionfo, come mostrano la rottura del velo del tempio (15,38) e il riconoscimento da parte del centurione»38.

Cfr. E. Cuvillier, L’évangile de Marc, Labor et Fides, Genève 2002, pp. 304-305. Essere figlio significa dunque avere un rapporto unico, intimo e tenero con Dio, condividerne la potenza, identificarsi con la sua volontà, realizzarla, proclamarla e difenderla; comporta perciò una missione agli uomini tra i quali rendere presente la volontà potente e amorosa di Dio, il suo regno, nel modo proprio al divino, cioè nella debolezza che rivela la forza dell’autodonazione divina. Circa la considerazione di questo titolo nell’insieme del NT, come anche di altri titoli (in particolare Messia e Figlio dell’Uomo) cfr. R. Penna, Il DNA del cristianesimo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2004, pp. 87-94. 38 B. Maggioni, Passione e croce nel vangelo di Marco, in Marco e il suo vangelo, a cura di L. Cilia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1997, p.75. 36 37


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Proprio questi due ultimi eventi testimoniano che si apre una nuova forma di vita religiosa possibile per tutti. In essa la tradizione precedente non ha più un valore decisivo. Quello che conta è il valore universale dell’avvenimento compiutosi sul Golgota, una morte che costituisce uno dei due fatti essenziali per la vita dell’umanità da qui in poi (cfr. 14,9). Non i Dodici, ma delle donne erano state fedeli a Gesù sin oltre la sua morte di croce. I vv. 40-41 del cap. 15 mostrano come esse intendessero andare anche oltre la sepoltura, secondo un’attenzione intrisa di amore: «40c’erano là alcune donne, che stavano ad osservare da lontano, tra le quali Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, 41che lo seguivano e servivano quando era ancora in Galilea, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme».

Tutte queste donne galileiane, la cui sequela e servizio nei confronti di Gesù ha una continuità notevole dal passato a questo momento, intendono persistere in questa linea, tributando omaggio a colui che aveva dato un senso nuovo e decisivo alla loro vita. Rispetto ai discepoli e alla loro presunta sicurezza di sé, queste donne si sono spinte sin lì e la loro presenza espressa in modo così essenziale ed asciutto dal testo marciano è in sé eloquentissima. Da persone culturalmente escluse quali erano da tanti momenti della vita socio-culturale ufficiale (la loro testimonianza, per esempio, non aveva validità giuridica) hanno il coraggio di seguire, sia pure, da lontano, quanto è avvenuto e sta capitando. Anche Giuseppe di Arimatea, una figura di primo piano del Sinedrio, dimostra un ardire rilevante, dal momento che (vv. 43-46) si espone al punto da preoccuparsi della sepoltura di Gesù39. Infatti a fronte della norma romana che stabiliva di lasciare i crocifissi sulle croci e dinanzi alla sua appartenenza socio-religiosa che l’avrebbe normalmente invitato a non farsi notare per attenzione verso il Nazareno, egli ottiene quanto desidera, non prima che Pilato si sia sincerato dell’effettiva morte di chi veniva richiesto. Il testo marciano, tramite una serie di verbi all’aoristo (vv. 43.46) che sottolineano la storicità puntuativa delle azioni di Giuseppe, fa rimarcare chiaramente – già il dubbio e la domanda posta da Pilato lo dimostrano (cfr. vv. 44-45) - l’oggettività della morte di Gesù, di colui cioè che viene sepolto da un ebreo che appariva comun-

Ai piedi della croce la testimonianza più significativa circa il ruolo di Gesù è quella di un uomo, il centurione. Insieme alle donne, dopo la morte di Gesù, un uomo si assume una responsabilità di rilievo verso il defunto: Giuseppe di Arimatea. D’altra parte uomini come Pietro e i suoi compagni abbandonano o rinnegano Gesù al momento dell’arresto e della condanna e la loro assenza ai piedi della croce è indubbia, mentre varie donne hanno coerentemente seguito Gesù dalla Galilea sino all’epilogo della sua sofferenza. In un contesto piuttosto marcatamente maschilista come quello dell’antichità mediorientale il fatto stesso che le donne siano complessivamente presentate all’altezza degli uomini, anzi, per certi versi, al di sopra (si pensi ad esempi come la sirofenicia del cap. 7 o la vedova della fine del cap. 12) appare già sufficientemente importante e deriva anche, probabilmente, dal particolare rilievo che un testo redatto per una comunità prevalentemente ex-pagana intendeva dare all’eguaglianza maschile-femminile (cfr., in proposito, il già trattato Mc 10,10-12). 39


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que particolare tra i suoi per una ragione assai importante: «era in attesa del regno di Dio» (v. 43).

3. Verso la risurrezione La centralità della risurrezione di Gesù per le origini cristiane è del tutto evidente: per capirlo basta leggere trasversalmente l’intero Nuovo Testamento e vari testi apocrifi. D’altra parte le versioni evangeliche di Marco, Matteo, Luca e Giovanni e anche la prima lettera ai Corinzi non raccontano l’avvenimento della risurrezione, ma parlano delle apparizioni del Risorto e degli effetti di esse nella psicologia e nella vita delle donne e degli uomini coinvolti. Consideriamo un brano significativo in proposito (Lc 24,36-53) e facciamo poi alcune osservazioni globali di sintesi.

3.1. Un esempio: Lc 24,36-53 Lc 24,36-53, ai fini dell’analisi, si presta ad essere legittimamente ripartito in tre momenti: vv. 36-43; 44-49; 50-5340. Esaminiamone soltanto la prima parte. «36Mentre essi parlavano di questi fatti, Gesù in persona si stagliò in mezzo a loro e dice: “Pace a voi!”. 37(Essi) però, spaventatisi e divenuti pieni di paura, credevano di contemplare uno spirito. 38Ma egli disse loro: “Perché siete agitati, e perché salgono sragionamenti nel vostro cuore? 39Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; uno spirito non ha carne e ossa come contemplate che io ho”. 40Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. 41Ma poiché per la gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse loro: “Avete qui qualche cosa da mangiare?”. 42Essi gli offrirono una porzione di pesce arrostito; 43 (egli) lo prese e lo mangiò davanti a loro».

Dopo aver constatato che il sepolcro di Gesù era inequivocabilmente vuoto, Pietro era rimasto assai stupito di quanto aveva visto (v. 12), ma aveva riscontrato un fatto oggettivo; egli stesso ne aveva tratto la convinzione che il Signore fosse risorto (v. 34). I due viandanti di Emmaus, reduci dalla loro straordinaria esperienza, avevano fatto una “relazione” di quanto avevano vissuto: essi avevano visto il Signore risorto. Di più, si erano resi conto della sua identità nel momento in cui egli aveva riproposto il gesto della condivisione del pane. Per loro questo gesto non era necessariamente significativo, mentre lo era certamente per gli Undici a cui questo fatto veniva riferito. I presenti a questo incontro di ex-seguaci di Gesù si stavano confrontan-

Circa la storia della formazione di questo brano, cfr., per es., J.-A. Fitzmyer, The Gospel according to Luke, II, Doubleday, New York 1985, p. 1573.

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do proprio su quello che era loro accaduto41, quando Gesù irrompe in mezzo a loro (v. 36), in un contesto, quindi, non limitato al gruppo di coloro che da lui erano stati chiamati per nome a seguirlo, ma più ampio42. Il suo approccio è la formula di saluto consueta nella cultura giudaica: un augurio di felicità, benessere e serenità, che a questo punto della versione lucana assume un significato ulteriore: «Shalôm è il baciarsi di ogni desiderio dell’uomo con la promessa di Dio... Cantata dagli angeli sul presepio, è ora donata dal Crocifisso risorto a tutti gli uomini. L’annuncio della pace fa da inclusione alla sua vita, che ne è la rivelazione e il dono pieno»43. Questa apparizione, che è certamente improvvisa44 e che è di Gesù in tutta la sua persona, suscita (v. 37) una reazione piuttosto ingiustificata tra gli astanti, in considerazione del fatto che la risurrezione di Gesù avrebbe dovuto essere ormai chiara per loro. Quello che succede è presto detto: il terrore si impadronisce di loro ed essi non sanno andare al di là di un’impressione emotiva, che cancella tutto quanto sino ad allora avevano evocato: quello che essi pensano soggettivamente (cfr. il valore del verbo dokéin) di avere dinanzi è un impalpabile spirito. La replica di Gesù denota perlomeno sbalordimento: egli non riesce a capacitarsi dello stato d’animo dei discepoli45 e delle considerazioni che essi stanno facendo dentro di loro (v. 38). Immediatamente offre loro più di una prova assolutamente concreta della sua identità (v. 39): la sua corporeità tangibile non può che fugare ogni dubbio, secondo l’articolazione triplice del discorso gesuano. Anzitutto vi è l’invito istantaneo46 a rendersi conto de visu delle sue estremità. «Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io»: tra i discepoli e Gesù vi sono, anzitutto retoricamente e sintatticamente, le mani e i piedi di Gesù. Attraverso questi due elementi essi sono orientati a rendersi coscienti della presenza reale del Signore. Comunque non si può dar torto a chi fa la seguente considerazione: «per tale identificazione appare curioso l’invito a guardare le mani e i piedi. Si riconosce più facilmente una persona guardandola in faccia, nel volto! O l’evangelista nomina le parti visibili del corpo che poi possono essere toccate; o c’è un riferimento nascosto alle pia-

Importanti sono il valore di base e la posizione nella frase del pronome táuta: si tratta, infatti, di un dimostrativo che si riferisce essenzialmente a quanto è già avvenuto e qui si trova al primo posto nel periodo. Il significato è chiaro: la globalità degli eventi capitati è al centro della vita di coloro che li stanno affrontando verbalmente, insomma «la gioiosa eccitazione per l’incontro con il risorto non si è ancora placata» (J. Ernst, Il vangelo secondo Luca, 2, tr. it., Morcelliana, Brescia 1987, p. 933). 42 Sulla storicità dell’apparizione agli Undici non vi sono dubbi: cfr. anche il già citato 1Cor 15,5. 43 S. Fausti, Una comunità legge il vangelo di Luca, EDB, Bologna 1994, p. 800. 44 È il valore dell’aoristo attivo éstê. 45 L’espressione perifrastica tetaragménoi éste indica, morfologicamente, una condizione del passato che permane nel presente: il grande turbamento perdura anche dopo la prima visione di Gesù. 46 Cfr. i tre verbi ídete - psêlaphêsate - ídete: sono tutti aoristi imperativi ed esprimono nient’altro che l’immediatezza del comando. 41


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ghe dei chiodi (implicito nell’espressione “mani e costato” di Gv 20,20; esplicito in Gv 20,24ss)»47. E nell’affermazione esplicita della sua identità (lett. Io sono in persona) un ascoltatore o lettore di formazione giudaica avrebbe potuto ben cogliere anche il riferimento al tetragramma sacro (cfr. es 3,14), dunque ad una continuità culminante con il Signore Dio, dalla rivelazione del roveto ardente, inizio del processo di liberazione del popolo da parte divina, alle parole del Risorto presente tra i suoi dopo la “liberazione delle liberazioni”, quella dalla morte. E, comunque, «se il Gesù che è morto, appartiene alla storia passata, e quello che i discepoli ora seguono è il Cristo eterno, allora la vita cristiana potrebbe assumere forme di spiritualità che sono senza sofferenza per gli altri, sono senza croce, senza un qualche impegno in problemi della vita di questo mondo, esprimendo per tutto il tempo devozione a un Cristo vivente, spiritualizzato. I Vangeli dicono no ad una tale definizione del discepolato»48.

In secondo luogo Gesù fa la considerazione complementare che un essere immateriale non potrebbe possedere la fisicità di cui egli oggettivamente gode e che essi possono non soltanto vedere, ma contemplare49. Infine Gesù mette subito in condizione gli interlocutori di procedere alla rilevazione da lui invocata. Nonostante queste parole e questi gesti, gli astanti non sono ancora convinti di quello che vedono (v. 41). L’atmosfera e il movente di questa loro incredulità è, però, profondamente mutato: essi non sono più terrificati, ma gioiosi. Proprio a partire da una entusiastica stupefazione non riescono ancora a credere, hanno bisogno di qualcosa che li rassicuri50 e li aiuti a dare peso specifico alla contentezza che hanno iniziato a sentire dentro di loro e a manifestare al di fuori51. E Gesù soddisfa questa loro “esigenza” (v. 42). Formulando la richiesta più concreta possibile (poter mangiare qualcosa) e dando realizzazione al desiderio in questione dinanzi a loro52 (v. 43), egli sancisce il processo di visibilizzazione del suo essere realmente risorto: «così Luca

G. Rossé, Il Vangelo di Luca, Citta Nuova, Roma 1995, p. 1037. F.B. Craddock, Luca, tr. it. Claudiana, Torino 2002, pp. 373-373. 49 theôréin indica non la mera visione, ma anche l’osservazione prolungata del suo oggetto (C. Rusconi, Vocabolario del Greco del Nuovo Testamento, p. 154). In questo brano questo verbo ricorre due volte e, mentre nel v.37 la sua valenza specifica non appare particolarmente apprezzabile, qui, a confronto con il verbo orán, esso risalta maggiormente. 50 «Si può non credere per delusione, come i due di Emmaus. Ma anche per paura di illusione, come questi: “È troppo bello per essere vero!”. Il mestiere di Dio è proprio fare quell’impossibile che all’uomo risulta necessariamente incredibile» (S. Fausti, Una comunità legge il vangelo di Luca, p. 801). Cfr. una testimonianza analoga nello storiografo latino Tito Livio (Ab urbe condita, XXXIX,49): «Vix sibimet ipsi prae necopinato gaudio credentes» (= loro stessi ci credevano appena a causa della gioia improvvisa). 51 Il sostantivo charà esprime notoriamente un tipo di gioia subitanea e subito palese: si può cogliere questo fatto semplicemente leggendo il testo in esame. Infatti, senza questa manifestazione del loro stato d’animo, quale significato avrebbe il v. 41? 52 Mangiare dinanzi sottolinea il valore dimostrativo del gesto, il quale è segno di risurrezione già per la figlia di Giàiro (cfr. 8,55). 47 48


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sviluppa la sua specifica forma di una tradizione del cristianesimo antico: è un altro modo per aumentare la solidità per il lettore Teofilo (1,3-4)»53. Vediamo soltanto il testo del resto della pericope: «44Poi disse loro: “Sono queste le parole che vi avevo detto mentre ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Torà di Mosè, nei Profeti e nei Salmi”. 45 Allora aprì loro la mente alla comprensione delle Scritture 46e disse loro: “Così sta scritto: ‘Il Cristo (deve) patire e risuscitare dai morti il terzo giorno 47nel suo nome (devono) essere proclamati a tutte le genti il cambiamento di mentalità e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi (siete) testimoni. 49E io mando su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi dovete rimanere in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”. 50Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. 51E accadde che, mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato in alto verso il cielo. 52Ed essi, dopo essersi prostrati davanti a lui, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; 53 e stavano sempre nel tempio benedicendo Dio».

La lettura di Lc 24,36-53 offre una serie particolarmente nutrita di elementi sia in ordine ai versetti in esame sia in riferimento all’intera versione lucana come espressione emblematica del senso della fede cristiana. Lc mostra chiaramente che la risurrezione di Gesù Cristo è un evento storico, radicato nello sviluppo del rapporto tra Dio e l’umanità: il vero e proprio “crescendo” di concretezza delle prove circa la presenza del risorto sta a evidenziare che l’evento clou dell’incarnazione di Dio nell’umanità è del tutto tangibile. Insomma la storicità di Gesù è autentica sino all’ultimo: «la nostra epoca ha giudicato con severità il vecchio modo apologetico di accostare testi e tematica della risurrezione. Ma proprio la sensibilità apologetica pur con i pericoli di indebite accentuazioni e parziali alterazioni metodologiche offre la dimostrazione più evidente dell’incalcolabile posta in gioco che accompagna i nostri testi. La concretezza storica ha mostrato come la continuità organica tra il fatto letterario e le conseguenze vitali non permettono una distinzione metodologica rigida nel procedimento concreto di ricerca»54. D’altro canto, il testo afferma anche che cogliere la presenza del Signore risorto non è subito facile, anche di fronte a molte prove a favore, e non avviene soltanto a partire da rilevazioni puramente sensoriali. Infatti la vittoria sulla morte non si pone come una circostanza magica, ma come il punto di arrivo di una logica di vita che è

J.-A. Fitzmyer, The Gospel according to Luke, II, p. 1575. «L’intonazione del racconto è fortemente apologetica. Viene infatti sottolineata la realtà della risurrezione del corpo di Gesù contro tendenze ereticali docetiste. La medesima tendenza antidocetica qui menzionata è presente in Gv 20,27 e 1Gv 1,1. 54 G. Ghiberti, Le «grandi» apparizioni del risorto nei racconti sinottici, in Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, a cura di M. Laconi, p. 428. «La risurrezione indica una novità reale del Cristo rispetto al Gesù storico, ma una novità che è anticipata nei segni storici del Gesù prepasquale. C’è continuità nella novità. La risurrezione compie la novità del Regno che Gesù anticipava nei suoi gesti salvifici. Ne deriva che il “sovvertimento” realizzato dall’avvenimento pasquale deve essere inscritto nell’azione prepasquale di Gesù» (A. Cozzi, Ripensare la risurrezione, in ATI, Ripensare la risurrezione, a cura di F. Scanziani, Glossa, Milano 2010, p. 194). 53


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superiore al male e si pone come paradigma divino per gli esseri umani in quanto sceglie, quotidianamente e incessantemente, il bene degli altri. Questa opzione di fondo ha avuto nella passione, morte e risurrezione la fase culminante, la quale non si è data se non per diffondere la salvezza e riconciliazione a vantaggio di tutta l’umanità. Non vi è distinzione, in ultima analisi, tra giudei e pagani, tra ex-giudei ed ex-pagani. La colpa è la stessa: non aver riconosciuto e non riconoscere, nella loro vita, il Messia. Gli uni non sono arrivati a questo perché Gesù era al di fuori delle loro categorie di comprensione messianica; gli altri, invece, per ignoranza. Nessuno è comunque stato in grado di riconoscere il vero Dio. La proclamazione incessante in proposito è, dunque, necessaria. Gli stessi discepoli riconoscono il Messia solo al termine di tutto il percorso di rivelazione di cui il Signore li rende destinatari: • la visione dei segni della sua evidente fisicità, la stessa da loro sperimentata per anni durante la loro convivenza con lui sino alla crocifissione; • l’ascolto della storicità complessiva della sua esistenza e missione terrena: la Parola di Dio, che egli spiega loro, dalla creazione del mondo sino a Lui; • la sottolineatura del loro ruolo di testimonianza in ordine ai fatti della vita di Gesù e la salvificità di cui la loro azione futura è destinata ad essere tramite in rapporto diretto con l’ispirazione divina; • la conferma soprannaturale del processo così articolato attraverso l’ascensione del Cristo al cielo. La fede è, ancora una volta e definitivamente, la chiave d’accesso al rapporto con Dio ed è raggiunta secondo una strada di convincimento personale che si snoda lungo la storia dell’uomo e ad essa fa continuo riferimento. La vita con Dio è, quindi, adorazione benedicente che giunge soltanto dopo l’ascensione al cielo, non prima e la gioia dell’uomo è piena dopo la chiarificazione diretta dell’essere in una grande avventura esistenziale, in cui si è incaricati ed inclusi da Gesù. Tutto questo in un quadro che vede la conversione a Dio come lotta continua, durante un’intera vita, quale che sia il percorso esistenziale da cui si viene prima dell’incontro con il Dio di Gesù Cristo crocifisso e risorto.

3.2. La risurrezione del Nazareno morto sulla croce: linee generali tra storia e fede, tra fede e storia Proprio le narrazioni evangeliche canoniche presentano delle peculiarità interessanti rispetto sia ai racconti della vita di Gesù sino alla sua sepoltura sia a molti altri testi neo-testamentari: • non vi sono riferimenti alle Scritture ebraiche precedenti, che sono invece numerosi in particolare nei vangeli secondo Matteo e Luca; • non si parla assolutamente della risurrezione degli altri esseri umani dopo Gesù e


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della loro presenza con lui in un’esistenza post mortem, ma essenzialmente del loro compito di annunciare la signoria definitiva del Risorto e di riaffermare i valori etici da lui predicati e praticati nella sua vita; • Gesù risorto non è mai presentato come un essere celeste raggiante e luminoso e gli incontri con lui non hanno alcuna delle caratteristiche proprie delle visioni celesti o divine presenti in tante opere letterarie antiche; • la presenza delle donne, ritenute in genere, anzitutto nei tribunali, non credibili – proprio come testimoni prime dell’annuncio della risurrezione e quali – Maria di Magdala in particolare – interlocutrici del Risorto. La storia che gli evangelisti «raccontano è anteriore a Paolo e risale al primissimo periodo, prima ancora che chiunque potesse pensare: “Sarebbe bene raccontare qualche cosa su Gesù che risorge dai morti; che cosa è più utile per i nostri scopi apologetici?”. È molto, ma molto più facile presupporre che le donne ci fossero fin dal principio, così come, tre giorni prima, c’erano state alla fine»55. Riassumendo, è legittimo affermare che al Gesù effettivo si può giungere, allo stadio attuale degli studi e delle ricerche storiche tout court, in forma notevolmente frammentaria. D’altra parte è altrettanto indiscutibile, fonti alla mano, che la fede nel Dio di Gesù Cristo crocifisso e risorto è stata il movente fondamentale che ha condotto alla redazione degli scritti neo-testamentari e che senza tener conto di questo dato è impossibile cogliere molto, forse moltissimo di quanto è avvenuto nei primi decenni successivi alla morte del Nazareno. E comunque, visto • il quadro desolante delle “reazioni” dei Dodici alla cattura di Gesù, • il ruolo originariamente secondario di alcuni degli Undici di fronte alle apparizioni del Risorto e quello invece primario di testimoni ritenuti tradizionalmente inaffidabili come le donne, chi avrebbe avuto interesse a raccontare anche dell’avvenuta risurrezione del Maestro, visti i fatti obbiettivamente disdicevoli per l’entourage stesso di Gesù, se essa non fosse stata effettiva? Certo: questo è un argomento che risulta paradossale, forse di primo acchito in-credibile, soprattutto per chi si è sentito raccontare per secoli della risurrezione e degli eventi precedenti della vita del Nazareno come se le versioni evangeliche canoniche ne fossero stata la cronaca completa e se chi gliene parlava, magari nel XX o XXI secolo, fosse stato un testimone oculare di tutti questi avvenimenti… D’altra parte, di fronte a tutto quello che Marco-Matteo-Luca-Giovanni narrano di Gesù, dall’inizio della sua vita sino al congedo dai discepoli dopo la risurrezione (cfr. il già esaminato Lc 24,36-53; Mt 28,16-20), si è liberi di fidarsi come di rifiutare di credervi, cioè di aver fiducia o meno che l’amore testimoniato dal Nazareno morto e apparso risorto sia comunque più importante della morte. Le versioni evangeliche, ma anche gli altri libri neo-testamentari a cominciare dalle lettere direttamente paoline non si preoccupano di costringere a credere. Propongo-

55

N.T. Wright, Risurrezione, tr. it., Claudiana, Torino 2007, pp.703-704.


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no, esortano, pregano, invitano a riflettere sulla veridicità radicale di questo amore – quello crocifisso e risorto – per la vita di tutti. E se, oltre all’esperienza della morte di croce, anche solo considerassimo – vari studi scientifici orientano da tempo in questa direzione - come elementi direttamente gesuani – ferma restando la mediazione anche solo linguistica degli evangelisti alcuni racconti parabolici, taluni esorcismi e certe guarigioni, il dettato del Padre Nostro e l’Ultima Cena, ciò non sarebbe abbastanza propedeutico a fondare la continuità tra Gesù della storia e Cristo della fede, ferma restando la rilevanza fondamentale della fiducia nel fatto che il Nazareno sia stato risuscitato?

4. Per concludere... Le osservazioni contenute nelle pagine di questo e dei due articoli che l’hanno preceduto56 non sono certo un ritratto di Gesù di Nazareth. Non sono neppure un saggio scientifico sulla figura del Nazareno né uno status quaestionis sulle tendenze fondamentali della ricerca contemporanea in proposito. Esse hanno voluto fornire a lettrici e lettori, in particolare coloro che sono impegnati, a vario titolo, nella formazione culturale di carattere religioso, tutta una serie di elementi che li aiutassero a proporre ai loro destinatari una prospettiva su Gesù di Nazareth che sia radicata nei testi delle origini e guardi al futuro della formazione culturale storico-religiosa. Dal passato delle fonti, al di fuori da qualsiasi archeologismo e tradizionalismo, verso l’avvenire di una crescita culturale che potrà essere antropologicamente sempre più degna se avrà nozione precisa delle radici della cultura comune, di cui il cristianesimo delle origini è parte importante anzitutto nell’Occidente euro-mediterraneo ed americano. Per accostarsi alla figura del Nazareno crocifisso e risorto non è necessario condividere la fede sua nel Padre e di moltissimi altri nel Padre stesso, in lui e nell’amore che li lega (= lo Spirito). È indispensabile tener conto che le narrazioni neo-testamentarie in vista di tale fede sono state redatte e di questa fede esistenziale sono intrise. E che la storia che delineano non vuole essere semplicemente una fedele ricostruzione di eventi, ma una profonda testimonianza d’amore dal Dio di Gesù Cristo all’uomo, dall’uomo al Dio di Gesù Cristo. Spetta a ciascuno, se lo reputa interessante per la propria cultura e la propria vita, compiere tutti gli itinerari di letture necessari per confrontarsi nel modo più adulto possibile con il predicatore galilaico che ha proposto, secondo quanto tramandato dagli scritti neo-testamentari, un’esistenza di grande impegno psico-fisico e socioaffettivo e di enorme significato interiore e sociale. Cercando di stare alla larga dagli

56

Cfr. “Rivista lasalliana” 78 (2011) 2; 78 (2011) 3.


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stereotipi apologetici e dai laicismi irreligiosi, nella persuasione che sia più che possibile farsi, senza illusioni di esaustività e senza troppe remore e incertezze, un’idea seriamente fondata su chi sia stato Gesù di Nazareth57.

Al di là delle indicazioni bibliografiche fornite nel corso di questi tre articoli mi pare utile proporne alcune altre di tipo globale, di varia portata scientifica e divulgativa: M. Pesce, Le parole dimenticate di Gesù, Mondadori, Milano 2004; G. Barbaglio G., Gesù ebreo di Galilea, EDB, Bologna 20055 (quest’ultima edizione presenta un’importante documentazione finale – pp. 665-676); G. Jossa, Il cristianesimo ha tradito Gesù?, Carocci, Roma 2008; J.A. Pagola, Gesù: un approccio storico, tr. it., Borla, Roma 2009; G. Gaeta, Il Gesù moderno, Einaudi, Torino 2009. L. Poli, Gesù ebreo. Dalla negazione al riconoscimento, Pazzini, Villa Verucchio (RN) 2010; P. Bertalotto, Il Gesù storico. Guida alla ricerca contemporanea, Carocci, Roma 2010; C. Caldelari, Gesù. La vita, Messaggero, Padova 2010; E. Borghi, Gesù di Nazaret tra storia e fede, Cittadella, Assisi 2011. Per ulteriori informazioni su questo e altri temi biblici si può consultare anche www.absi.ch 57


RivLas 78 (2011) 4, 669-682

Insegnare Storia delle religioni a scuola? Dieci parole per cominciare MARIACHIARA GIORDA e ELISA FERRERO Un mini-lessico dei ‘fondamentali’ per ripensare l’istruzione religiosa in termini di disciplina curricolare integrata all’interno dei saperi della scuola, per una formazione ai valori della cittadinanza democratica, in tempo di pluralismo religioso.

A

pproccio storico-comparativo - L’uso di una metodologia storico-comparativa è tradizionalmente estraneo alla scuola italiana: eppure, nei diversi settori di studio accademico, di carattere umanistico e scientifico, esistono e operano in maniera incisiva discipline definite proprio sulla base di procedimenti di confronto, di comparazione. Uno studio delle religioni scolastico dovrebbe essere effettuato in chiave storica, a partire dalla religione cristiana cattolica (nel caso specifico del sistema educativo italiano): ciò significherebbe seguire la ricostruzione dell’origine storica del cristianesimo nell’ambito della civiltà occidentale, con uno studio approfondito delle situazioni culturali e religiose in cui si innestò, dei motivi di contrasto e di quelli di assimilazione, degli aspetti del reciproco interscambio e della permanenza storica dei meccanismi e delle strutture di tipo religioso. Lo studio storico-religioso comparativo è, dunque, intrinseco ed indispensabile a un tentativo di conoscenza scientifica della religione cristiana; la comprensione dell’eccezionalità del messaggio cristiano si capisce e si spiega sullo sfondo della cultura in cui il cristianesimo si è diffuso ed affermato, che è la cultura della società occidentale, articolata in un crogiuolo di culture e innestata in un’idea di fluire lineare del tempo, secondo il criterio del vero storico. Se lo studio dottrinale deve trasmettere, spiegare, propugnare i valori cristiani, la comprensione di quei valori improntati al divenire storico in chiave storica non è rischiosa da un punto di vista religioso. Al contrario, una equiparazione interreligiosa omologante, che in sostanza ripropone in chiave fideistica i risultati di uno studio fenomenologico delle religioni, costituisce un rischio ben grave: quello di vedere diluite nel mare magnum delle culture umane, ognuna dotata di un proprio sistema


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tradizionale di trasmissione di valori e di una propria individualità storica, la peculiare storicità dei propri valori, l’esclusività del proprio messaggio, l’eccezionalità del proprio slancio universalistico. Sul piano formativo e didattico l’insegnamento storico delle religioni – cioè tanto della religione cristiana quanto delle religioni del mondo antico, tradizionali e contemporanee – restituisce alla storia contesti, valori, tradizioni, prospettive. In termini più semplici: solo studiando, insieme alla storia della società occidentale prevista dai programmi ministeriali, anche l’evolversi prima delle religioni del Mediterraneo antico, poi del cristianesimo nel suo intersecarsi inscindibile con gli eventi e le trasformazioni della nostra società, e, infine, prendendo coscienza della ricchezza e articolazione della situazione attuale delle religioni (almeno in Italia), si potrebbe fare intendere la necessità del legame fra la società stessa e quella ben definita concezione religiosa. La comprensione delle infinite, incalcolabili articolazioni del legame stesso fra cristianesimo e Occidente non limita la proiezione universalistica del messaggio cristiano. Contemporaneamente, sul fronte del rapporto con le religioni non cristiane o con le derivazioni storiche dal ceppo del cristianesimo, la definizione di un diversa modalità di studio e trasmissione didattica, ovvero l’acquisizione dell’approccio storico nello studio delle religioni, permetterebbe di affrontare i temi e i rischi dell’evasione dalla realtà – storica e religiosa! – della propria formazione, del proprio bagaglio culturale tradizionale, del proprio mondo, pur, sempre, nel rispetto dei sistemi di valori altrui. → approccio diacronico - approccio sincronico - comparazione - storia

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ittadinanza, educazione alla - Il concetto di cittadinanza si trova ad essere in via di continua ridefinizione in funzione delle variazioni del contesto sociale e politico. Bisogna, cioè, superare la concezione di cittadinanza come iscrizione puramente giuridica di un soggetto allo Stato, per renderla una concezione attiva e capace di guardare alla cittadinanza ex parte populi privilegiando la titolarità dei diritti civili, politici e sociali e del loro godimento effettivo da parte dei cittadini. In questo quadro, l’educazione deve essere lo strumento per passare dalla semplice dichiarazione della titolarità dei diritti, alla effettiva possibilità del loro esercizio. Un’educazione alla cittadinanza così intesa deve tenere in conto le dinamiche e le relazioni extrascolastiche, per ragionare anche sulle reti, sui contesti in cui il legame sociale si esercita attivamente e in cui si è coinvolti nelle scelte politiche. Questa affermazione chiama in causa direttamente la centralità dell’insegnamento della storia delle religioni: la molteplicità di religioni che convivono sui nostri territori non può diventare in alcun modo un ostacolo all’esercizio della cittadinanza, ma per evitare che ciò avvenga serve innanzitutto la conoscenza delle caratteristiche e delle differenze presenti. L’educazione alla cittadinanza si concentra così sull’esercizio della cittadinanza, cioè, sulla consapevolezza dell’importanza di un legame sociale all’interno della comunità nazionale. La società si costruisce nel rispetto delle norme e delle leggi, valide per tutti, ma anche dall’incontro delle diversità e dal superamento di pregiu-


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dizi e ostacoli concettuali che, di fatto, impediscono di sentirsi accettati e riconosciuti come cittadini. Tuttavia, non si può intendere l’educazione alla cittadinanza solo come modello difensivo, che utilizzi la conoscenza del diritto per ridurre le trasgressioni. Occorre quindi lavorare sia sulla conoscenza delle regole e del diritto, ma anche sull’adesione personale e sulla responsabilità individuale. L’educazione alla cittadinanza può, così, essere intesa come un percorso di legalità che metta insieme il diritto ad un’idea di società democratica ed inclusiva, di cui sono tutti responsabili: si viene, così a parlare di educazione alla cittadinanza attiva, responsabile e aperta, che superi la dimensione locale per aprire la riflessione sulla globalità. A partire dalle riflessioni fin qui considerate, si può infatti affermare che il contesto entro cui deve collocarsi l’educazione alla cittadinanza, deve essere globale e transnazionale. In questo scenario, le norme del diritto internazionale diventano centrali perché permettono di fare riferimento ad una serie di valori condivisi, al di là delle peculiarità di carattere personale, culturale e religioso. Concentrarsi sui diritti umani permette di superare i rischi di intendere la cittadinanza come un fattore escludente, dal momento che si intende l’essere umano in quanto tale come portatore dei diritti; il cittadino è il soggetto originario dei diritti fondamentali, al di là di ogni provenienza nazionale, culturale o religiosa: è a questo modello di cittadino che bisogna fare riferimento nel percorso educativo. → democrazia – diritti – legalità – legame sociale

C

ompetenze (culturali e didattiche) - Per quanto concerne le competenze, in una prospettiva di dialogo e formazione interdisciplinare, ve ne sono alcune che sono requisiti indispensabili e che possono essere sviluppate e migliorate grazie ad uno studio delle religioni; si tratta di competenze basilari nella scuola di oggi, trasversali ai cicli di apprendimento. • Competenze testuali/semantiche: il linguaggio è la mediazione essenziale per la comprensione della realtà, dell’uomo, e della storia. La religione si serve di linguaggi propri della condizione umana e dunque se la scuola ha il compito di leggere la realtà mettendo a contatto gli studenti con i vari linguaggi dell’esperienza umana, l’insegnamento delle religioni dovrebbe aiutare a cogliere il linguaggio religioso inserito nel tessuto dei vari linguaggi umani e decodificarlo in funzione della comprensione del reale. • Competenze storiche: le espressioni culturali situate in una dimensione storica sono il punto di partenza per lo studio delle religioni, che non sfuggono allo spirito del tempo che attraversano. Inserita nel solco di una solida tradizione accademica, lo studio delle religioni a scuola potrebbe insegnare le tradizioni religiose, la loro nascita e i loro sviluppi, attraverso il metodo storico-critico e la comparazione, occupandosi del presente in un’ottica di analisi delle opzioni religiose che animano la società di oggi.


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• Competenze antropologiche: la dimensione dell’esperienza religiosa matura entro determinate esperienze umane; l’uomo si pone l’interrogativo di Dio, della trascendenza, del senso della propria vita, della libertà, dell’eternità, della speranza e dei limiti in una ricerca dell’assoluto. Studiare la religione come fenomeno storico ed umano dovrebbe anche tenere in considerazione l’esperienza, la ricerca di senso, le risposte ad un bisogno -senza tempo- di interrogarsi sulle ragioni del vivere e sul destino dell’uomo e del mondo. • Competenze filosofico-fenomenologiche: un’ottica di ermeneutica filosofica aiuta ad inquadrare l’oggetto “religione” come fenomeno onnipresente nella cultura e nella storia dell’umanità. Come base metodologica di partenza per indagare l’esperienza religiosa, concepita come autonoma, si possono citare i tre metodi interconnessi propri della fenomenologia della religione: il metodo della epoché, della sospensione dei giudizi previ e degli a-priori; il metodo della comprensione che tende a cogliere il nucleo profondo dell’esperienza religiosa rendendone comprensibili le manifestazioni storiche; il metodo della classificazione che descrive le “forme” ma anche i “tipi”, basati sui tratti caratterizzanti e distintivi del fenomeno religioso. • Competenze psicologiche: la psicologia considera la condotta religiosa come un vissuto psichico razionale, riferito ad un soggetto orientato al riconoscimento dell’altro, del reale; come attività che rientra nel quadro dell’attività umana mitopoietica, rivolta ad una comprensione significativa della realtà; come una risposta possibile, ma totalizzante alla domanda di senso della vita; come linguaggio simbolico capace di raccontare di una esperienza di “fede”. Nel contesto di una educazione ai valori intesi come risposte significative alle problematiche esistenziali sembrano trovare una corretta sistemazione scolastica l’educazione ad una lettura critica in chiave problematizzante ed euristica del fenomeno religioso, come è stato ed è vissuto dai singoli e dalle comunità, e lo sviluppo di una capacità di approfondimento scientifico e critico della condotta religiosa e del suo specifico messaggio salvifico per l’esperienza umana. • Competenze sociali, etiche e civiche: l’insegnamento dovrebbe orientare gli studenti a comprendere i fondamenti delle leggi legate alle diverse tradizioni religiose, ad approfondirne i concetti chiave, le scelte pratiche, i condizionamenti culturali e storici; un altro obiettivo dovrebbe essere l’acquisizione di un atteggiamento attivo e maturo rispetto a temi che riguardano l’agire morale individuale e collettivo. → interdisciplinarietà – obiettivi – orientamenti – pratiche

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ocente, formazione del - Le persone che operano nella società, nella scuola, nella università devono tornare a porsi il problema del loro ruolo rispetto alla comprensione del fatto religioso ed è questo il momento per provare a risolvere gli equivoci di un sistema di ricerca e formazione in materia religiosa lontano dalle esigenze o dalle domande reali della società contemporanea. Chi sono i formatori e quali sono le loro competenze è una questione centrale che deve porsi chi ragiona


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sull’insegnamento delle religioni a scuola. La circolarità di intenti fra ricerca, didattica universitaria, formazione dei docenti e didattica scolastica dovrebbe essere ripensata daccapo tanto in Italia -cosa che è totalmente estranea a qualsiasi livello nel dibattito main streaming sulla riforma universitaria da almeno un decennio a questa parte- quanto, in maniera comparativa e costruttiva, in Europa. Il primo passo per preparare il terreno ad un lavoro sulla formazione e selezione dei docenti riguarda un rinnovamento del sistema università/ scuola e quindi della ricerca/didattica; in questa direzione si potrebbe: 1. avviare un sistema di consolidamento delle strutture didattiche e di ricerca dell’area storico-religiosa all’interno delle università: individuare le cattedre delle scienze delle religioni, costruire un coordinamento dei corsi di laurea, rafforzare il lavoro, anche di didattica, degli organismi esistenti (ad es. l’associazione di storia delle religioni, di sociologia delle religioni); 2. avviare uno studio articolato e programmatico dei programmi di insegnamento storico-religioso, sia ripensando progetti di docenza, sia concependo strumenti, materiali, good practices: un primo passo potrebbe essere l’adozione di un manuale standard adottato dai docenti di storia delle religioni; 3. concepire un coordinamento della ricerca e della didattica storico-religiosa, con evidente risvolto sul piano attuativo o sperimentale. I soggetti privilegiati della ricerca e della didattica, dovrebbero essere i laureati dei corsi di laurea di Scienze delle religioni presenti in Italia, nonché i laureati in materie umanistiche che abbiano frequentato master, dottorati o corsi di formazione nelle scienze delle religioni. Anche i docenti che lavorano nella scuola adeguatamente aggiornati e formati potrebbero essere sia docenti attenti alle tematiche storico-religiose in modo trasversale, nelle loro discipline, sia potrebbero diventare i docenti di un’eventuale materia relativa al sapere religioso introdotta nella scuola italiana. D’altro canto le università, i dipartimenti e i corsi di laurea in scienze religiose potrebbero diventare quegli enti atti a accreditare e verificare il percorso di formazione, aggiornamento e approfondimento anche in un’ottica interdisciplinare; si potrebbero ipotizzare gradi diversi di formazione, da una più generica, a una differenziata a seconda delle materie scolastiche: es. geografia e religioni, scienze e religioni, storia e religioni, filosofia e religioni. → aggiornamento - docenti (coordinamento) - formatori (formazione, competenze)

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ducazione interculturale - L’insieme dei processi migratori hanno dato origine a mutamenti evidenti nella composizione sociale delle nostre città, in cui risiedono generazioni di migranti, che possono essere di prima o seconda generazione, e che presentano problematiche educative totalmente differenti: per lingua, cultura, socializzazione, aspettative, stili di vita e pratiche di consumo, coscienza dei propri diritti rispetto alle generazioni precedenti. I sistemi educativi, in primis la


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scuola, hanno fatto propri temi come l’accoglienza e processi di innovazione anteposti a quelli della segregazione, consapevoli del fatto che l’uguale possibilità di riuscita scolastica ponga le basi per attivare politiche di uguaglianza e di emancipazione. E’ per questo che, con sempre maggiore frequenza, è stato introdotto il concetto di educazione interculturale, ad intendere un approccio capace di andare oltre le semplici strategie di integrazione o di incontro, per proporre il pluralismo e la diversità come paradigmi della scuola stessa, come occasione per aprirsi alle differenze culturali, sociali e religiose. L’interculturalità cerca di evitare la ghettizzazione, per costruire una condivisione capace di fare dialogare soggetti sociali diversi, stranieri e italiani, che a partire dalle diversità, interagiscono e si arricchiscono reciprocamente. Un approccio interculturale alla cittadinanza significa, quindi, costruire un quadro di riferimento tracciato dai diritti fondamentali dell’uomo: in quest’ottica, non la si può intendere come status ma come patrimonio stesso degli uomini, uguale per tutti, dal momento che tutti si riconoscono come titolari degli stessi diritti inalienabili, tra cui il diritto alla libertà religiosa. In questo contesto, non ha più senso ragionare in termini di culture dominanti o di cultura unica legata ad un determinato territorio o ad una popolazione. Il costante flusso di informazioni e di uomini porta ad una identità culturale aperta, in continuo dialogo e contaminazione con le altre. Il concetto di cittadinanza interculturale deve, quindi delinearsi sempre più come dialogo aperto che include in sé l’appartenenza, la collaborazione nazionale e la tensione planetaria etico-politica. Il concetto di intercultura, così intesa, mette al centro il pluralismo e il dialogo, sia a livello di forme di cittadinanza possibili all’interno di uno Stato, sia a livello di identità, religioni, culture che devono essere riconosciute e integrate in un contesto democratico. Questo pluralismo deve essere inserito in contesti di dialogo, di incontro costruttivo nelle differenze: ogni cittadino deve riscoprire una nuova coscienza di sé, e degli altri, essendo consapevole di vivere contemporaneamente più livelli di cittadinanza e di doverli vivere dialetticamente. Se dialogo e pluralismo rappresentano due elementi centrali per la costruzione dell’approccio interculturale, l’obiettivo di fondo, in campo educativo, deve essere la creazione delle condizioni per l’esercizio universalistico dei diritti fondamentali e per la promozione della consapevolezza di esserne portatori. L’educazione interculturale può essere pienamente democratica perché non rappresenta lo spartiacque tra chi è dentro e chi è fuori, ma, invece, riesce ad essere plurale perché la dimensione universale non cancella quelle individuali ma le collega in un dialogo permanente. Questo discorso appare ancora più chiaro quando si parla di religioni: affermare l’eguale valore alle religioni comporta il bisogno di riconoscere e di essere accettati, di educare, cioè, alla reciprocità e all’interdipendenza. La reciprocità si può ottenere all’interno di una relazione simmetrica e interscambiabile, che comporta la conoscenza diretta delle dinamiche di uguaglianza, giustizia e dignità. L’incontro tra


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le religioni non può che avvenire attraverso la mediazione, la capacità di creare ponti, nel confronto aperto. → dialogo - differenze - pluralismo - reciprocità

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aicità - Le religioni hanno un diverso ma pur fondamentale ruolo sociale e civico. Conoscere tale ruolo, conoscere la storia dei loro rapporti con la politica e tutti gli approdi possibili di rapporto con la politica può essere utile ad analizzare e gettare le fondamenta teoriche dei nuovi rapporti tra religioni e democrazia, con un approccio laico e pluralista. L’insegnamento relativo alle religioni deve essere aconfessionale, per essere laico: • aconfessionale vuol dire che è impartito non assumendo né la prospettiva né le finalità di una singola confessione. Non subisce né può subire i controlli che su di essa può avere titolo ad esercitare una qualunque confessione; • aconfessionale non significa pluriconfessionale, per cui ogni singola confessione impartirebbe un insegnamento conforme al proprio singolo orientamento; • aconfessionale non significa interconfessionale per cui, a seguito di accordi per intervenire tra varie confessioni, si tenderebbe ad un insegnamento ecumenico, una sorta di religione neutrale, universale o naturale o di etica religiosa generale; • aconfessionale non significa anti-confessionale, per cui si criticano le differenti caratterizzazioni storiche confessionali, nella ricerca di una autentica comprensione della religione generale; • aconfessionale non significa, infine, un insegnamento di contenuti in forma non catechetica, ma comunque espositiva-teologica dei contenuti di fede della confessione stessa. Una laicità nei confronti delle religioni e del religioso, parte dal singolo cittadino e si allarga a diversi strati del contesto politico e sociale, legato indissolubilmente al principio pluralista di cui condivide complessità e tensioni: è in gioco la garanzia della libertà di religione, in un regime di pluralismo culturale e religioso. Secondo un modello operativo recente, la libertà e eguaglianza religiosa o non religiosa a livello individuale, sono anche la garanzia dell’autonomia delle organizzazioni religiose e collaborazione tra Stato e religioni, laddove Stato è definizione in parte superabile: si pensi al caso dell’Europa e in un’ottica cha complica ancora di più, la realtà della globalizzazione del religioso. Il principio di collaborazione non è scontato, neppure a livello di interesse, da parte di tutte le religioni presenti sul territorio: vale la pena ripensare ad un termine o ad una formula il più adeguata possibile che leghi la dimensione religiosa e quella politica. L’educazione alle religioni, l’indagine scientifica del fatto religioso è, a livello didattico, uno strumento fondamentale di educazione alla cittadinanza globale ed è un antidoto contro derive teoriche ma anche pratiche fondamentaliste e violente. L’analfabetismo religioso diffuso, diventa un ostacolo nella costruzione della cultura alla cittadinanza responsabile. → cittadinanza - laicità - pluralismo - sapere aconfessionale


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etodologia didattica - Vi sono alcuni temi comuni che possono costituire degli elementi di interesse per la didattica relativa alle religioni: • Narrazioni conflittuali: gli studenti devono essere formati a gestire le differenze in un’ottica di dialogo; le grandi e le piccole narrazioni e rappresentazioni delle religioni, sia che provengano da una maggioranza, sia da una minoranza, sia dai singoli individui, devono essere prese in considerazione, analizzate criticamente nello stesso modo, secondo un approccio capace di ascolto e di rispetto... • Elementi discriminatori: occorre che siano affrontati gli elementi discriminatori presenti in tutte le religioni, cercando di non ridurre questa operazione agli stereotipi presenti nell’opinione pubblica o nei dibattiti sui media (es. la discriminazione della donna nell’islam, o viceversa, la tolleranza del buddismo). • Terminologia: è necessario lo sviluppo di un’adeguata terminologia per parlare di religioni; è necessario cioè, sviluppare un meta-linguaggio comune che travalichi i confini del linguaggio tecnico di ogni singola confessione e che riesca a soppiantare alcune vulgate diffuse da un’ottica occidentale e cristiano-centrica (es. “gli imam sono i preti musulmani”) • Approccio storico alla storia del cristianesimo: studio della storia del cristianesimo e analisi delle sue evoluzioni storiche fino al ruolo sociale e politico che questa religione ha nel mondo odierno. La sfida è trattare il cristianesimo al pari delle altre religioni, senza che sia il punto di partenza e il termine di confronto per un’apertura alle altre religioni, come invece avviene nei programmi di Irc attualmente vigenti. • Rappresentazioni delle religioni e delle culture: occorre non tralasciare l’apporto che la critica al colonialismo, all’orientalismo/occidentalismo, svolta nei dibattiti accademici e pubblici, ha fornito alla storia delle religioni. L’obiettivo è un approccio nuovo al tema degli stereotipi, del senso comune e delle rappresentazioni collettive diffuse concernenti le religioni. I punti di ricaduta più importanti di questi aspetti trasversali sono dunque i concetti di religione/religioni e della loro rappresentazione, che dovranno essere sviluppate nella disciplina relativa alle religioni sia da un punto di vista tematico (diversi temi, all’interno di diverse religioni) sia sistematico (le diverse religioni, studiate una per una), in fasi successive che concorrono ai medesimi obiettivi: - riflettere sulla propria identità ed esperienza religiosa - riflettere e stabilire collegamenti tra il senso di alcune esperienze religiose e la propria vita - porre domande sul senso e sul significato della vita - ragionare su questioni etiche - riflettere sulla presenza e sul ruolo delle religioni nel proprio sviluppo culturale - riflettere sulla pluralità di valori e di risposte - riferire i principi etici alle religioni - riflettere ed esprimere le visioni del mondo differenti - esprimere un proprio punto di vista partendo da fonti diverse e fedi differenti. → contenuti - concetti - didattica - obiettivi - terminologia


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eligione - Nel linguaggio corrente il termine “religione”, al singolare o al plurale, usato nelle lingue europee, si riferisce ad un “complesso delle narrazioni mitiche, delle norme etiche e salvifiche e dei comportamenti culturali che esprimono, nel corso della storia, la relazione delle varie società umane con il mondo divino” (Zingarelli). Proviamo a semplificare e a allineare a parametri più generali la definizione data dal vocabolario della lingua italiana. Con “religione” si può indicare un insieme di fatti relativi al rapporto dell’uomo con il divino. Al di là della semplificazione, che banalizza il concetto ma permette ai più diversi contesti - religiosi e non religiosi di varia provenienza - di individuare un comune denominatore, le scienze delle religioni hanno in maniera più o meno critica rigirato e complicato la questione, individuando i numerosi risvolti di una definizione del concetto di religione. Il fenomeno religioso non è solo molto variegato, ma spesso contraddittorio, di difficile individuazione e interpretazione. La religione è stata ora definita, ora descritta, ora concepita, ora compresa: esiti differenti di un problema che accompagna la storia dell’uomo. Il termine “religione” deriva dal latino religio: nella sua storia millenaria il termine si è caricato di tanti significati. Già gli antichi avvertivano l’ambivalenza del termine e ne fornivano due spiegazioni basate su due differenti etimologie, in qualche modo contrastanti e complementari: si sottolineava l’aspetto oggettivo di religio, in quanto termine che rimanda ai rapporti stabiliti tra gli uomini e gli dèi mediante il culto; si sottolineava però anche l’altro aspetto, quello soggettivo, secondo cui religio indica l’osservazione scrupolosa di queste pratiche. In effetti, il sostantivo religio è legato a due verbi: religare, “legare”, “fissare”, “annodare” e religere/relegare, “raccogliere di nuovo”, “rileggere”. In un’opera dal titolo De inventione, Cicerone (106-43 a.C.) definisce la religione come la cura, il timore e la venerazione di una qualche natura superiore, denominata divina; in un passo del De natura deorum lo stesso autore si pronuncia per una dipendenza del termine dal verbo relegare: la religione è agita da individui che compiono diligentemente gli atti del culto divino e pertanto li “rileggono”. Oggi diciamo che la religione, nella nostra tradizione culturale, non può non essere considerata sotto diversi punti di vista. Ciò che si suole denominare “religione” costituisce, come il linguaggio e l’arte, un aspetto fondamentale della storia dell’uomo e dei rapporti culturali e sociali che legano tra loro gli individui. La religione ritiene di gettare le sue radici in qualcosa -il sacro- o in qualcuno -esseri sovrumani, dèi, un Dio- che trascende la dimensione umana, ponendosi insieme come il suo fondamento e il suo significato più profondo. I sistemi religiosi sono dunque un tentativo di dare un senso al mondo e si presentano come una delle radici, o più spesso la radice, del pensiero e dell’azione degli uomini. La religione è un prodotto umano culturale, sociale, storico, ma è anche ciò che fonda e giustifica una società o permea di significato i rapporti tra gli uomini: tutte le religioni sono profondamente umane e, nel medesimo tempo, provengono e riconducono a un essere sovrumano. Da un punto di vista sociale, è importante ricordare che le religioni possono unire o dividere, possono portare alla vita o alla morte, possono essere veicolo di cambiamenti, rinnovamenti, speranza,


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ma anche di conservazione e di immobilità: hanno una natura sfaccettata e possono avere conseguenze concrete anche molto differenti. Se vogliamo provare a interpretare, comprendere e definire le religioni, sono proprio le manifestazioni storiche della religione che hanno fornito e continuano a fornire un punto di partenza per l’interpretazione della categoria “religione”. Attualmente, la storia delle religioni deve continuare a occuparsi e a preoccuparsi del suo oggetto, poiché interrogarsi sulla definizione di religione è una sfida culturale, ma anche sociale e politica, del tutto aperta; ancora di più perché oggi, sempre più spesso, abbiamo l’occasione di incontrare forme religiose differenti dalla tradizione cristiana che ha caratterizzato la storia italiana e dunque la possibilità di un confronto reale con altre religioni. → cultura - religione individuale e sociale - definizione di r. - etimologia di r. sacro/profano

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cienze delle religioni - Nel panorama contemporaneo dell’università italiana, campi disciplinari specifici e metodi di ricerca differenti concorrono a mettere a fuoco l’oggetto “religione”: dai primi passi dello studio scientifico della religione, mossi su un terreno più limitato, abbiamo assistito ad un moltiplicarsi dei settori di indagine e dunque numerose scienze umane si sono accostate ai temi religiosi, quali la storia, la psicologia, la sociologia, la filosofia, l’antropologia, la geografia, ma anche storie di tradizioni religiose particolari, quali la storia del cristianesimo, delle religioni antiche, delle religioni orientali. Sorta verso la metà del XIX secolo, la storia comparata delle religioni fu la disciplina più antica a muoversi entro il quadro dello studio accademico delle religioni: il suo obiettivo era uno studio comparato delle differenti tradizioni religiose, spesso considerato a questi livelli pionieristici, come una ricerca delle “forme elementari” della religione. Nel tentativo di assimilazione e composizione di esigenze non soltanto storiche, nella metà dell’Ottocento nacque una “scienza della religione” che tuttavia presentò numerosi limiti: in alcuni casi perché tentava di dimostrare l’esigenza della scomparsa della religione dal mondo, in un’ottica scientista, in altri perché non riusciva ad allentare il legame con la filosofia e la teologia. Dalla seconda metà dell’Ottocento si svilupparono nuovi approcci dello studio relativo alle religioni, in linea con l’affermazione contemporanea di altre scienze umane. Le evoluzioni successive della filosofia della religione possono essere ricondotte al tema generale dell’autonomia della esperienza religiosa; la filosofia della religione ha uno statuto differente dalle altre discipline, rispetto alle quali spicca da subito il suo peculiare carattere di scientificità che è ermeneutica. La ricerca di un metalinguaggio comune che dovrebbe permettere la costruzione di modelli e di teorie che individuino l’oggetto della religione, è ciò che accomuna questa disciplina alle altre scienze delle religioni. La psicologia delle religioni nacque negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento, con l’intento di applicare il metodo psicologico allo studio del vissuto psichico dell’esperienza religiosa: si inseriva dunque nell’ambito della scienza delle religioni, ma anche come un ramo particolare della psicologia generale; dopo


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anni di alterna fortuna, la disciplina gode oggi di un rinnovato successo dovuto al tentativo di applicare i metodi dell’indagine psicologica, dalle teorie dinamiche alle teorie cognitive, al vissuto psichico del credente. La sociologia delle religioni nacque come disciplina autonoma a livello accademico solo negli anni Trenta-Quaranta del secolo scorso benché anche la sociologia classica della metà del XIX secolo si fosse già posta delle questioni relative al fenomeno della religione. Lo scopo originale di questa disciplina era lo studio delle funzioni sociali della religione e cioè dei contenuti sociali, del reticolato religioso, degli apparati di potere e delle dottrine che lo reggono. Un posto particolare occupa l’antropologia delle religioni, la cui fase pionieristica deve essere collocata nell’Ottocento, all’epoca di studiosi come Tylor e Frazer, che inaugurarono lo studio delle religioni dei popoli primitivi, interrogandosi su temi quali le origini e l’evoluzione. L’approccio funzionalistico successivo fu poi superato dall’indagine sulla natura della religione, sui simboli e sui processi rituali. Dopo gli sviluppi del Novecento, il panorama delle scienze delle religioni è sottoposto oggi a continuo rinnovamento, in primis a causa della diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione che hanno cambiato le vie della conoscenza e che hanno introdotto metodi di tipo quantitativo più facilmente verificabili, soprattutto nelle ricerche sociologiche ed antropologiche. In parte nuovo è l’interesse particolare per le religioni viventi, mentre alcune tradizioni che hanno caratterizzato il panorama della seconda metà del Novecento permangono, e si fa sentire più che mai l’esigenza dell’interdisciplinarietà. Continuano a sussistere gli studi storici (e storicistici) con un interesse per le questioni metodologiche e storiografiche e un rinnovamento dell’approccio comparativo; vi sono stati alcuni tentativi di rifondare la fenomenologia e non si è esaurito il filone dell’antropologia del mondo antico come del mondo contemporaneo. → antropologia - fenomenologia - filosofia - interdisciplinarietà - psicologia sociologia - storia

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colarizzare lo studio delle religioni - Progettare un corso curricolare di storia delle religioni per la scuola significa considerare i fatti religiosi e la loro interpretazione nei loro aspetti antropologici, sociologici, storici, psicologici, gli aspetti specifici delle religioni, con particolare attenzione ai testi fondanti, la necessaria attenzione pedagogica e didattica in riferimento alle varie età degli alunni e in sinergia con le altre discipline scolastiche. La religione porta con sé alcuni problemi di definizione che si riversano nella didattica: la religione infatti coinvolge la persona e la cosa è ancor più complicata se si pensa che la persona è un bambino o un giovane; questo insegnamento tratta spesso di religioni vive, diffuse nella società in cui insegnanti e studenti vivono, e quindi è impraticabile la via dell’osservazione neutrale ed asettica. Il punto di partenza, di matrice cristiana, con cui guardiamo gli altri dalla nostra cultura è uno schermo ineliminabile; tutte queste riflessioni pongono una serie di que-


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stioni che devono essere tenute in considerazione nella riflessione sullo statuto epistemologico della storia delle religioni. Lo iato tra la dimensione del sapere (cognitiva) e del saper essere (esistenziale), che in uno studio accademico della religione non è un problema da risolvere, è invece una questione da affrontare quando l’obiettivo è la conciliazione delle due dimensioni in un contesto educativo scolastico. Infatti, l’insegnamento di storia delle religioni deve tenere conto dei più recenti dibattiti sull’educazione, volti a promuovere lo sviluppo dell’individuo, incentivare le sue domande sul senso della vita e la sua capacità critica e partecipazione nell’affrontare scelte che riguardano temi culturali, economici, politici e sociali. L’educazione, che non si risolve nella didattica curricolare, è l’ambito in cui deve svilupparsi la storia delle religioni per la scuola: secondo le più recenti riflessioni sull’educazione, diventa necessario partire da un livello profondo della biografia di ciascun individuo, attraverso un processo indefinito che concerne le storie personali e da cui promana la capacità di costruire delle buone pratiche anche in contesti collettivi. L’approccio della storia, della sociologia, della filosofia, della geografia, delle neuroscienze, non deve e forse non può neppure ridurre la religione ad altri campi dell’esperienza e della conoscenza umana, nel tentativo di sviluppare uno studio oggettivo del religioso. In altri termini non è vero che lo statuto epistemologico dello studio delle religioni è definito, una volta per tutte, con il ricorso ad alcune discipline accademiche. Conservando una certa libertà di ridefinizione, non occorrerà partire da zero nell’“inventarsi” una disciplina, ma è possibile sperimentare quali caratteristiche assuma nella scuola ciò che si insegna in Università da oltre un secolo, vale a dire le scienze delle religioni e in particolare la storia delle religioni. La storia delle religioni insegnata a scuola dovrebbe avere una prospettiva culturale e scientifica, nel senso di una sua autonomia dalla teologia, di un’apertura alle scienze fenomenologiche, sociali, storiche; in questa prospettiva essa dovrebbe approfondire i linguaggi umani che hanno utilizzato le religioni dell’umanità e la conoscenza della religione che ha plasmato la cultura del proprio ambiente. L’università dovrebbe contribuire con l’apertura di nuove e ricche frontiere dello studio e della ricerca che possa tener insieme in un virtuoso continuum, la società e i luoghi dove si produce sapere e dove questo circola, la scuola in primis. → didattica - educare - insegnare - scuola - università

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LA SALLE : PEDAGOGIA JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE Itinerario educativo. Un’antologia Arti Grafiche S.Rocco, Grugliasco (To) 2002, pp.190 Educare è arte sempre più difficile e complessa, al punto che gli educatori più avvertiti sentono l’esigenza di attingere a quei maestri che nel passato hanno dato il frutto migliore. Un segno positivo che rischia però di vanificarsi se il percorso non è guidato da chi è ricco di dottrina e di esperienza, di spiritualità e di saggezza pedagogica. In tale ottica si colloca questa raccolta che offre, in una struttura articolata, l’itinerario educativo lasalliano tratto dall’ampia saggistica pedagogica e ascetica del Fondatore dei Fratelli.

NICOLAS CAPELLE, FSC (a cura) Voglio venire nella tua scuola! La pedagogia lasalliana per il XXI secolo Editions Salvator, Paris 2006, pp. 320

Testimonianze sorprendenti di esperienze educative a servizio dei giovani, sui cinque continenti, in contesti culturali molto differenti. Racconti che coinvolgono il lettore: sottolineano sfide dimenticate e nuove, tracciano cammini di speranza. Gli educatori che raccontano vivono sul campo, spesso in situazioni limite: immersi tra le popolazioni aborigene di Australia, con i Gitani di Francia, nelle bidonville di Nairobi, sfidati dalla violenza in Colombia, guide all’incontro interreligioso in Asia, promotori delle minoranze maya o papua sulle Ande, mediatori culturali di giovani migranti di Chicago o di Filadelfia, docenti universitari che militano per la trasformazione sociale. Educatori lasalliani in situazioni di frontiera, in una dinamica educativa sempre fragile ma sostenuta da un umanesimo e da un senso civico ispirati alla fede cristiana.

ALDA BARELLA Essere per educare: attualità della pedagogia lasalliana Alle sorgenti della lasallianità per essere educatori oggi e insegnare con successo

Effatà editrice, Cantalupa 2009, pp. 222 Essere per educare è il punto prospettico da cui cogliere il senso e la sostanza degli argomenti proposti. Far scuola, oggi come ai tempi del La Salle, significa impegnarsi senza riserve, in un ruolo etico che, nel rispetto di chi impara, chiede a chi insegna coerenza di comportamento ed evangelica schiettezza di ideali. Le pagine qui riedite hanno il merito dell’indagine condotta con rigore filologico su testi ed esperienze di tre secoli fa unito alla giusta esigenza di verificarne il senso e il valore oggi. Alda Barella, insegnante e dirigente del MPI, è stata per decenni a contatto con i problemi della scuola avvertendo il dovere di trovare risposte pertinenti a problemi reali.


RivLas 78 (2011) 4, 683-690

Le visage criminel Identité psychologique et appartenance sociale dans la photographie judiciaire ROBERTO ALESSANDRINI

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n 1854, à Lausanne, la photographie permet pour la première fois de résoudre un cas judiciaire; en Angleterre et en Allemagne on prend en photo les malfaiteurs; les chemins de fers de la Chicago and Milwaukee Railway Co. demande à ses abonnés une photographie comme document d’identité et en 1866 le lanterniste fantasmagore Robin dépose un brevet pour un procédé d’identification individuelle. Le couple sémiotique “regard de face-regard de profil”, fera, au XIXe siècle, un remarquable pas en avant en ce qui concerne les efforts de lisibilité du corps individuel comme signe d’une identité psychologique et d’une appartenance sociale. L’appareil policier commence à photographier les criminels ou les suspects à partir de l’idée que seule une double perspective - face et profil - peut être considérée une garantie d’identité. Une peinture attribuée à Pier Maria Pennacchi (1464-1514/15), conservée à la Galerie Nationale de Parme, représente un Christ qui bénit de la main droite et tient un livre de la main gauche. Oeuvre d’un peintre secondaire certainement inspiré de Giovanni Bellini et Antonello da Messina, ce portrait a les caractéristiques d’une image votive, mais sa fonction et l’endroit où il se trouvait à l’origine sont inconnues. Le Christ bénisseur pourrait être classé, sans trop de souci, parmi les images les plus conventionnelles de la peinture, n’était-ce un élément assez caractéristique qui force, consciemment pense-t-on, les règles de la géométrie et de la perspective. Le Rédempteur, en effet, est représenté de face, mais il projette derrière lui l’ombre d’un visage perçu de profil. Ce pourrait-être, comme l’a interprété Stoichita1 une

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Victor Stoichita, Brève histoire de l’ombre, Genève, Droz, 2000, pp.84-85.


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référence à la nature théandrique du Christ dont le caractère divin est symbolisé par le livre et le caractère humain par la chair qui projette une ombre. Nous ne connaissons pas précisément la volonté de l’auteur, mais le couple sémiotique “regard de face – regard de profil” est certainement un élément “structurant de la spatialité et de la narration de l’image” 2. Toutefois, ces remarquables observations de Tefnin - qui, à propos des civilisations anciennes, oppose la dimension dynamique et active de l’homme de profil (filiforme, armé, actif, violent et prédateur) à celle, statique, de la femme frontale, passive, en attente de mise au monde ou de fécondation – ne nous aident pas. Néanmoins ce couple sémiotique fera, au XIXe siècle, un remarquable pas en avant en ce qui concerne les efforts de lisibilité du corps individuel “comme signe d’une identité psychologique et d’une appartenance sociale”3 et l’exigence d’identifier précisément les personnes à des fins de contrôle et d’ordre public. Les criminels des bas-fonds des Mystères de Paris d’Eugène Sue assument les traits dégénérés que Lavater4 et Gall avaient décrits: le “visage criminel”, dans ce nouveau genre romanesque qu’est le policier, devient le texte où l’enquêteur sait lire les symptômes du crime, et parallèlement les luttes politiques et sociales se traduisent par des conflits d’apparences où l’amplification grotesque des visages des adversaires indique les traits cachés de leur personnalité et de leur moralité corrompue. Dans le cadre de la “morphologie faciale” du XIXe siècle, la physionomique laissera place à l’anthropométrie de Bertillon et à l’anthropologie criminelle de Lombroso.

Cf. Roland Tefnin, «Regard de face – regard de profil. Remarques préliminaires sur les avatars d’un couple sémiotique», in Annales d’Histoire de l’art et d’archéologie, Université Libre de Bruxelles, 1995, XVII, 7-25. 3 Jean-Jacques Courtine et Claudine Haroche, Histoire du visage, Paris, Payot, 1994, p. 269. 4 Dans les Essais on Pshysiognomy (Londres, 1792) le pasteur zurichois Johann Caspar Lavater décrit une nouvelle machine pour la reproduction mécanique de la silhouette. Une femme est assise sur une chaise spéciale entre un écran placé sur un chevalet et une chandelle allumée. De l’autre côté de l’écran un dessinateur fixe le profil de l’ombre du modèle. La “machine à faire les silhouettes” ressemble, en effet, plutôt à un confessionnal, sauf qu’ici la vie intérieure ne prend pas la forme du discours mais est plutôt projetée à l’extérieur, grâce à la médiation de l’ombre. Image minimale de l’homme, Urbild, le profil est, pour Lavater, une sorte de hiéroglyphe riche en informations physionomiques, “texte” privilégié d’une herméneutique caractéristique selon laquelle ce n’est pas le visage, mais son ombre qui est l’authentique reflet de l’âme; ce ne sont pas les expressions momentanées, mais les traits qui renvoient à la structure profonde et morale de l’individu. Le profil est une extériorisation directe de l’âme, l’ombre dévoile ce que la personne peut cacher. Ceci peut également expliquer le succès d’un jeu de société qui gagne bientôt toute l’Europe, et même les salons, et qui consiste à découper des “silhouettes”, du nom du ministre des finances de Louis XVI, Etienne de Silhouette, qui dans son château de Brie sur Marne avait lui-même exécuté des portraits d’ombre pour décorer quelques pièces. Entre la fin du XVIIIe et le début du XIXe siècle, en dépit de toute critique, le système lavatérien devint une pratique bien connue, et pratiquée entre exercice ludique, expérience scientifique et divination déguisée. Lavater suppose une correspondance bilateral, une “relation essentielle” entre extériorité et intériorité parce que ce qui est extérieur n’est que la terminaison, la limite de ce qui est intérieur; il considère les contours des silhouettes comme des signes psychophysiques valides et il établit des liaisons entre les éléments d’un même corps. 2


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Dans le même temps, la toile peinte, la figure sculptée ou la silhouette de Lavater seront lentement remplacées par des images produites en série au moyen de la daguerréotypie, procédé moderne mis au point par Louis Daguerre et illustré en 1839 par Louis Arago à l’Académie des Sciences et à l’Académie des Beaux Arts réunies en séance commune5. “Aujourd’hui la peinture est morte”, s’était exclamé le peintre Paul Delaroche à la fin de la présentation. Par rapport aux documents du passé, remarquablement caractérisés par la subjectivité de l’artiste, la photographie semble, en effet, offrir plus d’adhérence aux phénomènes naturels ainsi que l’illusion d’une meilleure objectivité, deux notions associées à la possibilité de fixer l’instantanéité de l’expression et d’assurer la reproductibilité des visages. En 1854, à Lausanne, la photographie permet pour la première fois de résoudre un cas judiciaire; en Angleterre et en Allemagne on prend en photo les malfaiteurs; les chemins de fers de la Chicago and Milwaukee Railway Co. demande à ses abonnés une photographie comme document d’identité6 et en 1866 le lanterniste fantsmagore Robin dépose un brevet pour un procédé d’identification individuelle. Paolo Mantegazza, titulaire de la première chaire italienne d’Anthropologie (instituée à Florence en 1869), président de la Société photographique italienne (fondée en 1889) et auteur de l’Atlante delle espressioni del dolore (Atlas des expressions de douleur, 1876), écrit que “aucun artiste, si habile qui soit, aucune phototypie, même de bonne qualité, ne pourra jamais répondre aux exigences des sciences, comme les poses de face et de profil par lesquelles on saisit les individus”7. L’appareil policier commence à photographier les criminels ou les suspects de différents points de vue divergents de 90 degrés, à partir de l’idée que seule une double perspective peut être considérée une garantie d’identité8. La double perspective - face et profil - commence à se configurer comme “calque” et ce n’est pas un hasard si l’on associe cette technique au relevé des empreintes digitales. Dans son livre La Photographie Judiciaire9 Alphonse Bertillon – qui en perfectionnant le système anglais créa en 1882 le casier judiciaire, subordonnant les procédures d’identification à l’adoption de mesures anthropométriques10 - explique les raisons pour lesquelles chaque sujet doit être photographié de face et de profil: dans le profil réside en effet la structure physique du sujet, sa morphologie, tandis que dans

Luis Arago, “Rapport à la Chambre des Députés, lu le 3 juillet 1839”, in A. Rouillé, La Photographie en France, 1816-1871, Paris, Macula, 1989, p. 37. 6 Jean-A.Keim, Histoire de la photographie, Paris, Presses Universitaires de France, 1970. 7 Lucia Rodler, Il corpo specchio dell’anima. Teoria e storia della fisiognomica, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 110-111. 8 Victor Stoichita, Brève histoire de l’ombre, op. cit., p. 241. 9 Alphonse Bertillon, La Photographie Judiciaire, Paris, Gauthier-Villars, 1890. 10 Cf. Christian Phéline, L’image accusatrice, Les Cahiers de la Photographie, 17; Brax, Association de critique contemporaine en photographie, 1985. 5


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la figuration frontale se trouvent les émotions et les rituels expressifs, le “drame psychologique” et “sociologique”11. Marcel Duchamp joua sur cette idée. En 1923, pour l’exposition du Pasadena Art Museum de Californie, il utilise l’avis de recherche d’un criminel et remplace les deux cadres vides par des photos de son visage en ordre inversé. L’image de profil précède donc l’image de face et, c’est là ce qui est remarquable, elle l’ignore, puisqu’elle se tourne vers l’extérieur de l’affiche, à gauche plutôt qu’à droite (Wanted: $ 2000 Reward, 1923, Philadelphia, Museum of Art, collection Louise and Walter Arensberg). C’est sur ces mêmes éléments que joue également Laszlo Mololy-Nagy dans son Malerei Fotografie Film (1925) lorsqu’il propose comme “photos d’un amateur”, avec pour commentaire “formes initiales de portrait simultané”, la superposition de la photo de face et de la photo de profil de Hanna Höch12. L’autoportrait de Duchamp With my Tongue in my Cheek (collection Robert Lebel, Paris, 1959) explicite une idée importante sur la ressemblance et l’identité. L’œuvre combine moulage et dessin: avec le crayon l’auteur trace son profil droit comme une silhouette et en fait un moulage de plâtre qui couvre sa joue et même une partie de la bouche, comme pour restituer le volume à l’autoportrait grâce à un relief et à une ombre curieusement prononcés. A l’époque où s’affirme l’usage judiciaire du portrait ainsi que son expansion commerciale, une nouvelle figure de magicien, le médium photographique, se présente sur scène aux environs de 1870 et se propose de fournir les preuves d’une vie postmortem à partir des principes du spiritisme, science de l’invisible13. Le Spectrum, évoqué par Roland Barthes comme référent de l’image – “cette chose un peu terrible qu’il y a dans toute photographie: le retour du mort” - apparaît en effet sur le fond de photographies posées de sujets vivants et donne frauduleusement l’impression d’une matérialisation surnaturelle des esprits des morts. Il s’agit d’images d’hommes, de femmes ou d’enfants assez sombres, qui, en se transformant en objets de l’image photographique, peuvent veiller tels des anges gardiens modernes et visibles, sur ceux qui les évoquent. Ce sont en fait, dans leur insolite spécificité, des ombres – comme les appellent les clients - qui sont produites dans les ateliers de ces nouveaux artisans de la lumière capables de manier les substances chimiques et de “saisir les esprits”. Ce phénomène remarquable se diffuse à Paris, Londres, St Petersbourg, Turin, Gênes et Naples. Nous avons à faire ici aux épigones de tous ceux qui par le passé ont cher-

Merci à M. Jacques Leenhardt (Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales de Paris) de m’avoir permis de consulter le texte de sa conférence Changing Body, publié par la suite sous le titre “Les ambivalences de l’identité corporelle”, in Modern Art, Review of Taipei Fine Art Museum, n.103, août 2002, pp.60-67. 12 Laszlo Moholy-Nagy, Malerei Fotografie Film, Mainz, Florian Kupferberg Verlag, 1967, première édition 1925 comme volume VIII de la collection Bauhausbücher. 13 Giordana Charuty, “La ‘boîte aux ancêtre’. Photographie et science de l’invisible”, in Terrain 33, septembre 1999, pp. 57-80. 11


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ché à accéder à la visibilité des êtres de l’au-delà, un pouvoir reconnu à toutes les nouvelles machines optiques, depuis la camera obscura de Della Porta, au XVIe siècle – employée également pour réaliser des spectacles d’”enchantement” – jusqu’à la lanterne magique, dite également “lanterne de peur”, qui réveille les fantômes de l’ancien monde au lendemain de la Révolution française. L’originelle fabrique de la matérialisation de l’invisible préoccupe le Service photographique de la Préfecture de Paris, qui, juste après la répression de la Commune, emploie le portrait photographique à des fins de surveillance sociale. Les clichés publiés par la Revue spirite alertent le préfet. Les 16 et 17 juin 1875 s’ouvre un procès devant la VIIe chambre du tribunal correctionnel de Paris: un photographe, le directeur de la revue et un jeune Américain identifié comme “médium” sont poursuivis pour escroquerie et complicité d’escroquerie. La véritable accusation ne concerne pas la production de ces images des ressemblances, mais la volonté de persuasion “que la ressemblance pouvait être due à des moyens surnaturels”. De précédentes enquêtes de la Police avaient, en effet, abondamment documenté le mystère: “La technique – raconte Giordana Charuty – est relativement simple. Sur une poupée articulée en bois, de 45 centimètres de hauteur, au corps recouvert de gaze bleue et d’étoffe noire, on fixe une tête réalisée à l’aide d’une photographie agrandie, découpée et collée sur du carton. Deux grandes caisses proposent un vaste choix de portraits ainsi préparés: trois cents têtes d’hommes, de femmes, d’enfants, à tous les âges et aux coiffures diverses, que l’on peut encore modifier à l’aide de perruques et de fausses barbes. Les ‘spectres’ d’enfants son réalisés de la même façon, avec une poupée plus petite, enveloppée de gaze verte. Une lyre, une guitare, des masques en carton figurant des têtes de mort complètent cette impressionnante panoplie d’accessoires. Une première photographie est prise, dans une semi-obscurité, avec un temps de pose très court. La plaque impressionnée sert, ensuite, à la seconde photographie de la personne vivante, toute l’habilité de l’opérateur résidant dans le cadrage des deux images en surimpression”14.

Ombre et silhouette A la fin du XIXe siècle, de nombreux artistes des avant-gardes représentent l’ombre comme un élément pictural autonome dans le cadre de la composition et parfois arrivent même à restituer la figure humaine sous la forme d’une simple silhouette noire, comme pour réagir à l’évanescence de l’Impressionnisme et rendre visible “l’appréhension de l’intérieur par l’artiste”. C’est le cas de quelques toiles de Georges Seurat, Émile Bernard, Édouard Vuillard, Pierre Bonnard et Maurice Denis15. À l’intérieur Giordana Charuty, “La boîte aux ancêtres”, op. cit., pp. 65-66. Nancy Forgione, “The Shadow Only”: Shadow and Silhouette in Late Nineteenth-Century Paris”, in Art Bulletin, 1999, 81, p. 493.

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d’un jeu dialectique avec la lumière, l’ombre donne ainsi corps à l’une des principales métaphores de la civilisation. Entre les années 1880 et 1890 les silhouettes prolifèrent dans la peinture, sur les affiches, dans les illustrés ou encore au théâtre expérimental, ainsi que dans les autres formes de figuration. Les thèmes romantiques de la nuit, du rêve et de l’inconscient passent dans la culture symboliste, anticipant les motifs qui seront propres à l’expressionnisme, à la métaphysique et au surréalisme. Dans les premières années du nouveau siècle, l’ombre du corps commence à entrer, par la volonté de l’artiste, dans l’espace de la photographie. Il ne s’agit pas d’ombres quelconques, d’ombres involontaires, mais de “portraits” recherchés, incorporés consciemment, plongés dans l’image. La première de ces photographies est de Claude Monet (L’ombre de Monet dans le lac des nymphéas, Paris, collection Philippe Piguet). Elle fut prise en 1905 d’un pont japonais qui décorait le jardin du célèbre lac aux nymphéas de Giverny. Dans la partie inférieure de l’image, la surface de l’eau réfléchit la silhouette de la tête du peintre et de son appareil. Signe d’une présence évanescente la silhouette de Monet se “perd” dans l’eau comme pour remplacer le “paradigme narcissique de la mimesis occidentale par l’éloge oriental de l’évanescence de l’ombre”16. Trois ans après paraîtra la première photographie comprenant aussi l’ombre d’un trépied: il s’agit de Newboy, Indianapolis de Lewis Hine. Toutefois pour des expériences plus audacieuses il faudra attendre 1916 et les Ombres sur le lac d’Alfred Stieglitz, où les ombres se projettent et bougent sur la surface de l’eau, et occupent, au contraire de la discrète présence statique de la silhouette de Monet, presque toute l’image. La continuité absolue entre la lumière la plus claire et l’ombre la plus profonde constitue l’élément technique qui, selon Walter Benjamin, permet de saisir chez les personnages des premières photographies l’aura, le médium qui les entoure et confère au regard sa “plénitude et assurance”17. Si pour Pline l’ombre est signe / empreinte de l’individu et si au XVIIe siècle c’est une modalité capable de restituer “le général de la personne”, devant la photographie sa valeur indiciaire est obligée de changer de statut: pour approcher la ressemblance physique, elle doit en effet assumer la forme de profil. Et c’est précisément le profil qui offre la seule voie pour réaliser un “autoportrait fait d’ombre”, comme le démontre une photo d’André Kertész – Autoportrait, précisément– réalisée en 1927. C’est dans cette même période que l’auto représentation au moyen de la forme symbolique de l’ombre de profil fait son apparition dans la peinture occidentale, d’abord avec Munch et puis avec Picasso, comme en témoigne la Silhouette avec jeune fille accroupie de 1940 (collection privée), où le profil noir d’un homme occupe toute la partie droite de la peinture. La Jeune fille triste de 1939 illustre ceci de façon plus convaincante encore: sont exprimés ici dans une même peinture trois points de vue Victor Stoichita, Brève histoire de l’ombre, op. cit., p. 114. Walter Benjamin, “Petite histoire de la photographie”, in Oeuvres, Tome II, Paris, Gallimard, 2000, pp. 306-307. 16 17


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différents, la chaise sur laquelle la fille est assise est perçue de haut, l’ovale de son visage est de face, tandis que les autres parties du visage et du nez sont de profil, comme si le visage projetait sur lui-même sa propre ombre. “Ce procédé est sans précédent dans toute la tradition figurative de l’Occident”, observe Stoichita. “Picasso marque ainsi la fin de la vieille tradition qui voyait dans l’ombre le complément indispensable de l’”incarnat”. Pour lui, l’ombre, plus qu’un moyen de ‘faire’ le volume, est un moyen de le dé-faire”18. Envers et doublure du réel, l’ombre se rapporte au phénomène de la répétition parce qu’elle produit une réplique, une duplication qui se produit une seule fois et qui se répète sans succession, à la différence de l’empreinte, productrice d’exemplaires. Mais les faits réels s’articulent de manière différente dans l’univers artistique. Andy Warhol, se faisant le promoteur du procédé de sérialisation des ombres, exposa en 1979 à la Heiner Friedrich Gallery de New York soixante-six toiles résumées sous le titre collectif Shadows. La série fut réalisée sur la base de photos qui reproduisaient le jeu formé par les ombres portées de nombreuses silhouettes en papier mâché. C’était l’artiste qui imposait dans un deuxième temps la variété et le rythme au moyen des couleurs synthétiques. Un procédé qui provient de l’esthétique hyperréaliste mais qui dépasse les expériences des avant-gardes historiques. L’Autoportrait de 1979, L’ombre de 1981 et le Double Mickey Mouse qui date de la même année permettent à Warhol d’approfondir un sujet qui, comme on l’a vu, traverse toute la représentation occidentale: la dialectique entre d’une part la frontalité (et le miroir), représentation symbolique du rapport entre soi et l’autre, et d’autre part le profil (et l’ombre)19. Dans les années 1920 les avant-gardes ont abordé ce rapport sous la forme d’un schize, comme en témoigne l’emblématique Physiongnomicher Blitz de Paul Klee (1927), où l’unité de la personne se défait et l’ombre ne se libère pas du visage, mais le commente, pour ainsi dire, de l’intérieur. Un demi-siècle plus tard, dans son Autoritratto de 1979 (Autoportrait, Reggio Emilia, collection Ida et Achille Maramotti), Claudio Parmiggiani reproduit sur la toile la photographie de son ombre projetée sur un mur, image en même temps exacte et dépourvue de détails, un “absolu archétypal de la présence de l’absence, humaine surtout”20. Image indicielle, l’autoportrait propose une émanation visuelle du corps de l’artiste, ineffable et constamment en fuite, soumise à la lumière et à l’ombre et donc à un devenir de l’image. L’artiste renverse le modèle traditionnel de la photographie, qui délivre une image fidèle de la réalité et se situe du côté de la procédure du Sindone, qui révèle le corps christique comme un négatif photographique, une image inversée. “L’ombre est vue de face: contrairement à toute la tradition identi-

Victor Stoichita, Brève histoire de l’ombre, op. cit., p.124. Victor Stoichita, Brève histoire de l’ombre, op. cit., p. 236. 20 Véronique Mauron, Le signe incarné. Ombres et reflets dans l’art contemporain, Paris, Hazan, 2001, p. 64. 18 19


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ficatoire de la silhouette – l’ombre de profil dont se sont servis Pline le Vieux, Lavater ou, bien plus tard, Andy Warhol - l’ombre envisagée de face apparaît comme une image non identifiable (...). Ce n’est pas l’ombre de n’importe qui, puisque c’est l’image d’un être singulier; mais cette singularité est donnée comme inaccessible dans son impersonnalité même” 21. C’est justement par le jeu de ce rôle littéralement matriciel – de matière à image autant que de matière à dévisagéification – que l’autoportrait “en fumée” de Parmiggiani semble matérialiser une ambiguïté nouvelle: incapable de le révéler au regard du spectateur, on montre le visage ou le dos de celui qui est en portrait. Ceci est encore plus évident pour l’ombre dans le portrait photographique (l’eau du lac de Giverny nous restitue le profil de la tête et du chapeau de Manet qui est en train de prendre la photo): le déplacement de l’ombre de la photographie à la peinture laisse au peintre la possibilité de jouer avec l’ombre du visage et avec celle de son verso. Cette incertitude est la marque d’une sensibilité qui vient d’abandonner l’idée romantique et inquiète de l’individu qui perd des parties de son corps ou sa projection – le nez du gogolien Kovalev, la jambe-relique écharnée et desséchée d’Eugène dans le conte de Iginio Ugo Tarchetti, l’ombre ou le reflet dans le miroir – pour l’ambition de comprendre une personnalité en rapprochant la face et le profil et la conscience moderne d’identités fragmentaires et polymorphes que l’on peut représenter seulement en confrontant des perspectives différentes. Ici, c’est le visage même qui est le lieu où se concentre et se synthétise le potentiel de l’expressivité humaine, pour subir une évaporation substantielle dans le contexte plus général de la dématérialisation des images auquel, dans les années 1980, Jean Otth donnera de nouveaux développements. Entre 1981 et 1984 il réalise en effet une série de peintures au spray. Il sélectionne des traces vidéo de corps féminins qu’il projette sur un écran de toile ou de papier et à l’aide d’un spray noir, il esquisse des silhouettes incomplètes, désarticulées. “Les images de Jean Otth – écrit Véronique Mauron – disent véritablement une absence, celle d’un corps qui aurait été là et dont l’image, maintenant, se déduit”22. Dans le cadre d’un moderne aniconisme, le référent de l’image de l’ombre “est présent dans l’absence”, il se trouve momifié telle une relique. On en termine ainsi avec l’ombre conçue comme un double, puisque cette altérité menaçante, ayant abandonné le rôle de co-protagoniste, est devenue l’objet central de la représentation.

Georges Didi-Huberman, Génie du non-lieu. Air, poussière, empreinte, hantise, Paris, Les éditions de Minuit, 2001, p. 106. 22 Véronique Mauron, , op. cit., p. 84. 21


Chiaroscuri

CHIAROSCURI di Anna Lucchiari

Per un mondo meno violento

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rescere i figli è sempre stato un impegno gravoso affidato per lo più alle donne ma nei confronti del quale molti uomini illuminati si sono pronunciati, intuendo come il vero progresso della società possa essere garantito solo da persone meglio educate, più colte ecc. ecc. Ma se volessimo ripercorrere la storia dell’infanzia, (cfr. L’evoluzione dell’infanzia, in Storia dell’infanzia di Lloyd de Mause, P. Press, New York, ed. it. Emme edizioni, Milano 1983) ci accorgeremmo con orrore che essa è un incubo dal quale solo di recente abbiamo cominciato a svegliarci. Fino a tutto il diciottesimo secolo il bambino in famiglia aveva pochi più diritti di un cane e subiva per lo più il medesimo trattamento. Qualche autore ritiene che la scarsa affezione al neonato fosse un modo per difendersi dai dolori delle perdite causate da una altissima mortalità infantile. Può darsi, ma l’appello accorato di sant’Agostino “Datemi altre madri e vi darò un altro mondo” sta sempre lì come un lampioncino abbandonato sul mare,

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perché né madri né padri per millenni hanno mai cessato di maltrattare i figli. Ci sono documentazioni spaventose di bambini malnutriti, picchiati, torturati e la cosa sconvolgente è che questo non capitava solo tra le masse ignoranti, ma anche in ambienti che si potrebbero ritenere “acculturati”. Per esempio, i bambini venivano allontanati dai genitori e soprattutto dalla madre fin dalla nascita e rientravano in famiglia solo dopo una certa età quando non avrebbero più causato grandi fastidi. Montaigne soleva ripetere: “Non ho mai tollerato di buon grado che i miei figli venissero allevati vicino a me (Saggi, Adelphi, Milano 1976). I primissimi anni di vita dei bambini trascorrevano lontani da casa, per scelta nel caso dei ceti abbienti e per necessità nei ceti poveri. Poi cominciava l’addestramento alle regole sociali che per millenni è stato conseguito a suon di frustate e a questi metodi “correttivi” che erano di pertinenza dei padri, dei maestri e degli istitutori, si attenevano anche le madri, benché qualcuna, per sua ammissione, soffrisse alle urla dei picchiati. “La moglie di Milton non sopportava le urla del nipote percosso dal marito, Beethoven picchiava i figli con un ferro da calza e a volte li mordeva….(ibidem)”. Anche i figli dei re subivano durissime punizioni e non solo quando facevano qualcosa di sbagliato, ma anche solo per routine. Possediamo un prezioso documento storico -la cronaca a cura di Soulier “Héroard”- dove viene descritta l’educazione riservata al futuro Luigi XIII. Cito testualmente: “Già a due anni aveva imparato a non piangere quando veniva frustato” e comunque veniva frustato quasi sempre al risveglio. Ebbe numerose frustate anche la mattina precedente la sua incoronazione avvenuta al compimento del


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suo ottavo anno di età e lui ebbe ad esclamare:”Farei a meno di tanti omaggi pur di non essere frustato”. La ricerca di Lloyd de Mause, terribile nella sua accuratezza, ha risvegliato, in me come in molte altre persone, sentimenti di ribellione ma anche un senso di vergogna per far parte comunque di una umanità tanto disumana. Altri autori hanno trattato il tema, come Marie Winn (Bambini senza infanzia, pubblicato in ed. italiana da Armando Armando), Postmann (La scomparsa dell’infanzia), e, all’inizio del Novecento, Ellen Key (Il secolo dei fanciulli) auspicava che una nuova era si aprisse nella quale i bambini fossero finalmente rispettati come persone. Ma non è bastato, credo, per cancellare millenni di barbarie se ogni tanto la cronaca presenta orrori come abbandoni, maltrattamenti, “dimenticanze” davanti alle quali le parole di commento grondano indignazione e dolore. Mi sono trovata a pensare che probabilmente quella che consideriamo infanzia, età dell’oro, tempo spensierato dei giochi e della gioia e del pieno di tenerezze, di fatto non c’è stata mai. Neil Postmann ha parlato di “scomparsa dell’infanzia” ma io credo che si tratti di una parola vuota, che niente ha a che fare con certe rappresentazioni zuccherose. Quell’infanzia non c’è mai stata, c’è stata una condizione di minorità grigia e insidiosa dove la legge era peggio di quella del taglione. D’altra parte, le stesse favole, fanno memoria di abbandoni, maltrattamenti e angherie varie. Il figlio è considerato una proprietà con diritto d’uso e di abuso. Ancora oggi il comportamento nei confronti dei piccoli non è molto diverso, malgrado ci si ritenga un popolo civile, ma non lo siamo molto se si finisce col dare poco più di una tirata d’orecchie al genitore che picchia, che maltratta, che

Anna Lucchiari

abbandona il figlio causandone la morte, che lo massacra in preda al furore per il sonno perduto, per la stanchezza o altro, che lo vende senza scrupoli… Ma altrettanto violenta è l’educazione che non educa, che non dà regole, che lascia i bambini in balia di se stessi, che permette loro di trasformarsi in persecutori degli adulti e della società che essi hanno prodotta. C’è da capirli, ma usando gli stessi metodi che contestano agli adulti, non potranno produrre nella società alcun miglioramento. Bisogna ricominciare, pensare e ripensare l’educazione, il ruolo dei genitori, dei maestri, della scuola e dei media che filtrano atteggiamenti e comportamenti truculenti e prevaricatori dove il meglio non ha spazio, l’onestà è relegata nei regni della fantasia e in quelli ultrasiderali, la serietà irrisa e la fedeltà ai principi morali e religiosi addirittura considerata un intralcio. Il mondo è cambiato grazie agli effetti speciali della moderna tecnologia ma i protagonisti sono gli stessi: barbari sanguinari, guerrafondai, terroristi, pescicani del mondo crudele dell’economia, tutto come prima. “Datemi altre madri e vi darò un altro mondo!”. Anche altri padri, ovviamente, anche altre leggi dove non si parli di potestà come potere intoccabile rivendicato per il solo fatto d’aver generato, che non sia una semplice pretesa che resiste all’usura del tempo e della memoria, ma che sia una facoltà che si merita, almeno per buona condotta. Essere padri e madri non è facile perché richiede maturità e senso di responsabilità, perché impone equilibrismi complicati giorno dopo giorno, perché non consente congedi, pause, perché non ha una scadenza, perché non prevede un pensionamento. Quello che può veramente educare è un comportamento attento, empatico che spieghi la vita umana,


Chiaroscuri

culturale e sociale, come realmente dovrebbe essere: una vita di azioni e di passioni, di domande e di risposte, di tensioni e di soluzioni, dove ci sia spazio per i sentimenti e per la morale. Non è la legge che può dare autorità a genitori ed a maestri, ma lo può invece l’autorevolezza che derivi esclusivamente da un comportamento coerente, da un impegno onesto e costruttivo. Solo se si riuscirà a spezzare la violenza nei confronti dei bambini, si potrà sperare in una società meno violenta, anche perché i bambini maltrattati diverranno facilmente aguzzini una volta cresciuti. C’è molto da fare.

Non credere ai tuoi occhi

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a copertina del romanzo di Umberto Eco Il cimitero di Praga è straordinaria. Chiedo scusa al professore, ovviamente son andata oltre la copertina, ma quella immagine tocca delle corde particolari della mia memoria, mi riporta il profumo di ricordi antichi, di antiche paure, di sogni e di incubi. Non posso fare a meno di guardarla ogni tanto e, una volta letto, ho riposto il libro con la copertina girata su uno scaffale davanti al quale passo di frequente. La sagoma nera intabarrata che sale da una scala che mi ricorda quelle sempre un po’ umidicce che scendono nei canali o nelle grotte, e che procede nel cuore di una notte verso un bianco che acceca e che per questo nasconde o protegge qualcosa di molto importante, mi affascina: un’ombra che procede verso l’ignoto, il futuro forse, certamente la verità. Ed è la verità che è così difficile da trovare a costituire il soggetto del libro. Anche Nel nome della rosa, certo, che tuttavia è ambientato nell’atmosfera torbida di un medioevo di cui ci è stato

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tramandato tutto il male possibile, che sentiamo comunque lontano e che riteniamo definitivamente superato, e che ci preoccupa certamente di meno di questo strano diario non diario, che va avanti e indietro nel tempo, che vive un doppio inquietante di bianchi e neri, di realtà che è invenzione e di invenzioni che sono reali perché fatte accadere. L’impressione che rimane è uno scoramento profondissimo da cui emerge un cupo: diffida anche di quello che i tuoi occhi vedono. I quali occhi poi, è risaputo, ricostruiscono una loro verità, diversa per ciascuno, perché spesso vediamo solo quello che vogliamo vedere. “Ma sono fatti”, dopo questa lettura, è diventata una battuta da cabaret. Ci si domanda sconcertati: quali fatti? Quelli costruiti sapientemente secoli or sono o anche quelli che si svolgono ai giorni nostri? Prendiamo piazza TienAnMen. Siamo sicuri che i giovani teneri studenti che in nome di un ideale purissimo si sono fatti stritolare dai carri armati, non siano stati indotti e indottrinati con paziente e segretissimo lavoro da potenze straniere, da gruppi oscuri come la figura intabarrata e irriconoscibile che volta sempre le spalle? Siamo sicuri che le donne lapidate e lapidande non siano che normali vittime sacrificali immolate per sbattere davanti agli occhi di tutti la barbarie medievale di una legge inegualitaria e vendicatrice? E via di questo passo, come nei films di spionaggio che sono così di moda e la paura ci assale quando ci domandiamo di ogni fatto, evento, mostro o mostruosità da prima pagina, il classico “cui prodest?”e ci sentiamo defraudati di ogni certezza. Come dire che Garibaldi era un manigoldo, che quello che abbiamo letto nei libri di storia è solo una bella favole ecc. ecc. In quest’ottica, Bin Laden era la Spectra e l’ombra cupa sempre di spalle e depositaria del segreto dell’ignoto, è il dott. No o il dott. Destino.


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Anche le proteste, le manifestazioni, i moti spontanei del popolo sono rappresentazioni sceniche funzionali a qualcos’altro e a qualcun altro? Certo una piazza urlante si deve organizzare: bisogna convocare le persone, trasportarle, prepararle, talvolta remunerarle per il proprio disturbo, riportarle a casa dopo aver loro garantito qualche passaggio in televisione e quindi nella storia: non è cosa da poco. Figuriamoci se i movimenti non si limitano a passeggiate per le vie delle città ma contemplano anche atti di vandalismo e di violenza. Che magari non sono propriamente “suggeriti” ma solo resi possibili, facilitati dal fatto di aver invitato espressamente nel mucchio, gruppi particolari ed esperti guastatori. Insomma, il complotto del complotto del complotto mi intriga e mi sgomenta perché ho l’impressione che più di qualche volta proprio così debba essere andata. E mentre qualcuno intabarrato e in ombra, come in un gioco perverso, rifinisce i piani e modifica le strategie, noi gente comune ci beviamo le notizie che ci presentano fatti autentici. “Autentici” perché realmente accaduti ma mossi da un grande o piccolo burattinaio per motivi che nemmeno possiamo immaginare. Una sensazione decisamente spiacevole quella che mi è rimasta, dopo che mi ero smarrita tra perseguitati che sono persecutori e maschere che nascondono orrori che inquinano cuori e cervelli. Ci ho pensato molto e ho deciso che dal mio punto di vista di persona comune, non è un libro che faccia bene allo spirito perché a furia di pensarci si rischia il tilt. E poi penso che la diffidenza sia un sentimento che non aiuta affatto a vivere bene: spesso fa del male e fa star male. E poi, non credere a niente rende la vita indegna di essere vissuta. Meglio qualche sana “fregatura” che il rovello micidiale del “sarà vero o non sarà vero”. O no? Se

Anna Lucchiari

le ambientazioni nel cupo clima medievale le gustavamo con distacco e anche con un certo senso di superiorità, man mano che le sentiamo più vicine a noi nel tempo, possono diventare pericolose perché alla fine, qualche rogo lo possono sempre suscitare.

I diritti del bambino

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gni volta che si parla di diritti del bambino, ho sempre l’impressione, forse maturata in tante esperienze, tutte rigorosamente raccolte nel corso di sessioni istituzionali che dovevano occuparsi e preoccuparsi dei diritti dei bambini, che il “professorese” la faccia sempre da padrone e che i luminari di turno si lancino in splendidi esercizi di stile di cui i bambini sono solo un generico pretesto. Per conoscere i bambini la teoria non basta, occorre averli frequentati assiduamente e non solo letti sui libri, occorre proprio la defatigante esperienza quotidiana la sola che può consentirci di comprenderli, di amarli di un amore indiscutibile e intramontabile, di aiutarli a crescere sani nel corpo e nella mente. C’è troppo spesso il vezzo di riferirsi genericamente ai “bambini”, senza rendersi conto di farlo in modo asettico e talvolta perfino estraneo ai “bambini veri” e ai loro reali interessi. A volte ho l’impressione che si sia costruito un bambino virtuale che poco ha in comune con quello reale. Il bambino ha diritto ad essere amato, accudito e cresciuto da due genitori, quei due che l’hanno messo al mondo. E’ una cosa talmente ovvia che mi pare perfino ridicolo richiamarla. Per fare un bambino ci vogliono (per adesso, in futuro non si sa!) un uomo e una donna e dovrebbero essere loro a guidarlo alla scoperta del


Chiaroscuri

mondo. Ma se, per sua sfortuna, un bambino ha un genitore violento, maniaco depressivo, schizofrenico, deve frequentarlo malgrado questo genitore metta a repentaglio lo sviluppo fisico e psichico di suo figlio, di quello stesso che dovrebbe aiutare nel modo migliore a crescere. Le cronache antiche e recenti sono piene di bambini sacrificati come vittime innocenti ai diritti degli adulti. E questo perché c’è un diritto dell’adulto nei confronti del figlio che è simile al diritto di proprietà: in alcuni dialetti del nord Italia, nei vecchi è rimasta ancora memoria dell’antico “ti ho fatto e ti disfo” che spiega bene come il figlio sia sempre stato percepito come una componente del “patrimonio” personale. E non per niente il proletario è stato chiamato così perché in possesso della sola prole. Se il bambino rischierà la salute fisica o mentale o addirittura la vita, non importa, purché non venga leso il diritto dell’adulto madre o padre padrone. Ma il diritto elementare del bambino, che è persona e come tale va considerato, a vivere, a crescere in un ambiente sereno, accanto a un genitore che lo possa amare, rispettare ed aiutare a conoscere e comprendere il mondo in cui andrà a vivere, dove lo mettiamo? Ho scritto intenzionalmente “accanto ad un genitore” perché è un argomento che la recente sentenza della Cassazione ha riportato all’attenzione dei media, e speriamo che le sue sollecitazioni vengano adeguatamente raccolte. E’ ovvio che il padre e la madre biologici

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sono il massimo, che sono la famiglia naturale, che una buona famiglia è il luogo migliore dove crescere al sicuro, dove far maturare i doni ricevuti per preparasi ad affrontare la vita ben equipaggiati. Ma che si neghi ad una persona perché sola la possibilità di occuparsi di un bambino, al giorno d’oggi è quasi ridicolo. Oggi sono in netta minoranza le così dette famiglie complete, con padre, madre e figli. Quasi sempre sono le donne (ma ci sono dei padri meravigliosi!) che si prendono cura in solitario dei figli. C’è un superiore diritto dei bambini ad essere in primo luogo amati, rispettati e accompagnati con garbo nel mondo. Un diritto che deve passare sopra a chiunque: genitori o istituzioni. Questa preoccupazione è certamente quella che ha ispirato gli estensori della dichiarazione di Strasburgo, e che dovrebbe consentire di modificare in questo senso anche le nostre leggi sull’adozione. Non prendiamoci in giro e soprattutto non prendiamo in giro i bambini. E’ madre a pieno titolo la donna che si prende cura di un bambino, che si alza per lui la notte, che lo rassicura quando ha paura o semplicemente cerca la sua mano per dirgli ci sono e ci sarò sempre. Come non è padre quello biologico, ma solo quello che con senso di responsabilità sta a fianco della madre almeno nei momenti più difficili del percorso di crescita del bambino e che contribuisce offrendo un onesto esempio di vita. “O tutto o niente” è il modo migliore per disattendere i superiori interessi dei bambini.


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LA SALLE : BIOGRAFIA FRÈRE BERNARD Vita di Giovanni Battista de La Salle trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 153 L’autore ha vissuto in comunità con il La Salle ed ha attinto dalla viva voce dei primi Fratelli le testimonianze che trasmette. Più che biografo è un testimone che offre con limpidità il La Salle nella sua veste di fondatore di una comunità di uomini affascinati da un giovane prete e votati a tenere insieme e in associazione le scuole gratuite.

FRANÇOIS-ELIE MAILLEFER Vita di Giovanni Battista de La Salle trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 301 Nipote del La Salle, l’autore scrisse su incarico della famiglia La Salle. Suo scopo è delineare il volto dello zio in tutta la sua autenticità attingendo a fonti sicure e trattandole con competenza. Con esemplare incisività presenta il giovane Jean-Baptiste alla ricerca della sua vocazione, teso a realizzare il piano di Dio tra l’affetto dei suoi figli spirituali e le resistenze di quanti non capivano il valore profetico delle sue scelte.

ELIO D’AURORA Monsieur de La Salle – una fedeltà che vive Editrice A&C, Torino 1984, pp. 275 La vita del La Salle si svolge nell’irriducibile realismo di una società dibattuta da crisi di coscienza, statolatria, ambizioni del potere, sete di ricchezze, necessità di rigenerarsi. La Salle non colloca la sua pedagogia nelle belle lettere, ma nelle arti e nei mestieri, presagendo il travaglio di un rivolgimento politico e sociale che l’Europa stava covando. Nella Francia del Re Sole, tra guerre miserie e pestilenze, ad onta dello splendore del Grand Siècle, La Salle rovesciò le concezioni pedagogiche di una società che nutriva solo disprezzo o falsa pietà per i ceti popolari. D’Aurora mette tutto questo in risalto con una brillante e documentata biografia.

MICHEL FIÉVET Giovanni Battista de La Salle maestro di educatori trad. it. di Serafino Barbaglia, Città nuova, Roma 1997, pp. 190 L’autore è un professore, sposato, che ha collaborato a lungo con i Fratelli scoprendo poco a poco il loro Fondatore. Affascinato dalla personalità del La Salle ne ha approfondito il profilo come santo e come pedagogista, tanto da riuscire a svelare agli stessi Fratelli aspetti inesplorati della fisionomia del loro Padre e Fondatore. •••

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MISCELLANEA LASALLIANA Les relations de Nicolas Roland et des Sœurs de l’Enfant-Jésus avec le Carmel de Beaune (Bernard Pitaud) La formazione religiosa e culturale dei Fratelli delle scuole cristiane in Italia tra Sette e Ottocento. L’opera di Fratel Regolo (Matteo Mennini) Giovanni Maria Ronco (Fratel Giocondo): una vita per i giovani e con i giovani (Marco Paolantonio) My catechetical Journey (Gerard Rummery) Retazos lasalianos [41-46] (José María Valladolid)



RivLas 78 (2011) 4, 699-720

Les relations de Nicolas Roland et des Sœurs de l’Enfant-Jésus avec le Carmel de Beaune BERNARD PITAUD, p.s.s.

Dans le numéro précédent de cette revue, nous avons ouvert un premier dossier concernant Nicolas Roland, fondateur des Sœurs de l’Enfant-Jésus de Reims et directeur spirituel de Jean-Baptiste de La Salle. Il s’agissait de la question de l’attitude de Nicolas Roland durant la peste de 1668 à Reims. Nous nous proposons aujourd’hui de faire le point sur un deuxième dossier, celui des relations de Nicolas Roland et de la Communauté des Sœurs de l’Enfant-Jésus avec le Carmel de Beaune.

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n sait que dans la première moitié du XVIIe siècle, en France, la dévotion à l’Enfant-Jésus propagée au Carmel de Beaune par la sœur Marguerite du Saint-Sacrement sous le mode du «petit Roi de grâce» (ou de gloire), suscita la venue à Beaune de hauts personnages de la société et aussi de prêtres ou de laïcs connus pour la qualité de leur discernement; la personnalité de la petite sœur, les manifestations psychosomatiques qui accompagnaient ses initiatives spirituelles interrogeaient en effet son entourage. C’est ainsi que Gaston de Renty, mystique normand, laïc, directeur spirituel de la prieure du Carmel, Mère Élisabeth de la Trinité, Jean-Jacques Olier, fondateur de la Compagnie des Prêtres de Saint-Sulpice, plusieurs oratoriens et bien d’autres prêtres, établirent des relations ponctuelles ou plus suivies, avec le Carmel et avec la sœur Marguerite qui gagnait les cœurs par sa simplicité et l’authenticité de sa vie. Après la mort de cette dernière, survenue en 1648, toutes ces relations s’intensifièrent, et le Carmel de Beaune devint un véritable lieu de pèlerinage et un foyer de communication intense avec beaucoup de Car-


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mels en France et avec des groupes spirituels et des personnes très divers. Ce rayonnement donna lieu à une intense circulation de reliques, à un échange de prière impressionnant, et à une importante correspondance soigneusement conservée dans les archives du monastère. C’est dans ce mouvement que s’inscrivit Nicolas Roland dans la deuxième moitié du XVIIe siècle. Il fit lui-même le pèlerinage à Beaune; la Communauté de l’Enfant-Jésus de Reims, après la mort du fondateur, reprit contact avec le Carmel. Elle possède aujourd’hui des objets (un petit tableau, une statuette en bronze, un voile de Marguerite du Saint-Sacrement qu’elle considère comme ayant été donnés par le Carmel à Nicolas Roland ou plus tard à la Communauté). L’ensemble de la question a déjà été largement étudié par le Frère Léon-Marie Aroz1 et surtout par le Frère Yves Poutet pour la rédaction de la Positio en vue de la béatification. Mais la publication récente de la correspondance2 dont nous venons de parler permet aujourd’hui de se faire une idée plus juste et surtout plus complète des relations entretenues par Nicolas Roland et par les Sœurs de l’Enfant-Jésus avec les carmélites de Beaune, même si l’essentiel en était connu. L’objet des pages qui suivent est donc de préciser l’ensemble des éléments qui sont à notre disposition sur ce sujet dans l’état actuel des recherches.

Le pèlerinage de Nicolas Roland à Beaune: questions de dates; un ou deux voyages? Concernant le voyage à Beaune de Nicolas Roland, nous disposons de trois documents: - le premier est une lettre de Nicolas Roland lui-même; non datée, elle est adressée à la sous-prieure du Carmel, Mère Thérèse de Jésus. Non publiée par Leflon3 qui l’ignorait, cette lettre était connue dès avant la béatification de Nicolas Roland (16 octobre 1994); le Frère Yves Poutet, fsc, en fit état dans la Positio; les carmélites en avaient aimablement envoyé une copie aux Sœurs de l’Enfant-Jésus à cette occasion; malheureusement, elle n’a pas été reprise dans la nouvelle édition de 19994; - le second document est le témoignage de la domestique de Nicolas Roland dans «Témoignages des contemporains5»: Il fit, du temps que j’eus le bonheur d’être avec lui, un long voyage à Beaune, pour se consacrer à l’Enfance de Notre-Seigneur, et, à son retour, on vit un avancement tout visible dans la vertu, car il parut à toutes les

Nicolas Roland, Jean-Baptiste de La Salle et les Sœurs de l’Enfant-Jésus de Reims, Reims 1972. Marguerite du Saint-Sacrement; Correspondance (Lettres reçues à son sujet); ed. Forelle; présentée par Sr Marie-Françoise Grivot; 1997-2004. 3 Un précurseur méconnu, Monsieur le chanoine Roland, fondateur de la Congrégation des Sœurs de l’Enfant-Jésus de Reims, 1642-1678, Reims 1963. 4 Guide spirituel et Fondateur; Sœurs de l’Enfant-Jésus de Reims, Lethielleux. 5 Guide spirituel et fondateur, p. 185-186 1 2


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personnes qui le connaissaient comme un homme de l’autre monde, quoi qu’il n’eût pour lors que 26 ans ou environ; - le troisième document se trouve dans les «Mémoires sur la vie et les vertus6»: Étant de retour à Reims, accablé des fatigues que lui avaient causées ces deux missions7, il résolut de faire encore un voyage à Beaune, à dessein de se dévouer d’une manière toute particulière aux mystères de l’Enfance du Sauveur, et en fit dans cette ville un vœu exprès sur le tombeau de la vénérable Sœur Marguerite surnommée du Très Saint Sacrement, à laquelle il portait une grande vénération, ce qui fut d’une grande édification pour tout le couvent et d’une particulière consolation pour les religieuses qui le conversèrent, principalement la supérieure qui en parle avec estime, comme d’un homme rempli de l’esprit de Dieu; elle lui donna une figure de Jésus-Enfant que la vénérable Sœur Marguerite honorait dans ses stations. Il est facile de remarquer que le deuxième et le troisième document se contredisent, ou bien ne parlent pas du même voyage; le texte de la servante de Nicolas Roland dit qu’il avait 26 ans quand il se rendit à Beaune, ce qui situerait le voyage vers 1668; le texte des «Mémoires» déclare au contraire que le voyage eut lieu après les deux missions de Fismes et de Sompy, qui se déroulèrent très probablement en 1676. Le premier document, la lettre, nous permet-il de trancher? À moins qu’il n’y ait eu deux voyages, hypothèse qu’on ne peut pas complètement écarter. La lettre de Nicolas Roland est adressée à la Mère sous-prieure du Carmel de Beaune, Mère Thérèse de Jésus (Richard). D’après le «Livre des Élections»8 (qui commence en 1629), le «Livre des Décès» (qui commence en 1641) et les «Notices nécrologiques», Mère Thérèse de Jésus a été élue sous-prieure en 1664, et réélue en 1667. Elle fut remplacée en 1670 par Mère Françoise de la Mère de Dieu dont il est question dans la lettre. Elle fut élue prieure en 1673, et Mère Françoise de la Mère de Dieu fut reconduite dans sa fonction de sous-prieure. Mère Thérèse de Jésus fut prieure jusqu’en 1679, date à laquelle elle fut remplacée par Sœur Claude du SaintEsprit (elle-même déjà prieure de 1667 à 1673). Elle mourut le 18 janvier 1683 à l’âge de 56 ans et quelques mois. Elle était arrivée au monastère à l’âge de 15 ans. Elle était née en 1626. Il est donc sûr, d’après cette lettre que Nicolas Roland s’est rendu à Beaune entre 1664 et 1670, dates entre lesquelles se déploient les deux mandats de sous-prieure de Mère Thérèse de Jésus. Mais, il signe la lettre P.I. (prêtre indigne). Il était donc prêtre quand il fit ce voyage. Si l’hypothèse formulée par le Frère Yves Poutet dans la Positio9 d’une ordination en 1667-1668 est juste, le voyage devrait donc être situé

Idem, p. 204 Les deux missions de Fismes et de Sompy. 8 Archives du Carmel de Beaune. 9 Positio, p. 34-39. 6 7


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entre 1668 et 1670, selon l’hypothèse déjà faite par le Frère Poutet et reprise dans Nicolas Roland et les Sœurs de l’Enfant-Jésus10 (mais 1670 est improbable, car c’est l’année où Nicolas Roland va prêcher le Carême à Rouen.) De son côté, Mr le chanoine Hannesse11 avait préféré la version de l’auteur des «Mémoires» à celle de la domestique de Nicolas Roland. Il envoie le chanoine théologal à Beaune après les missions de Fismes et de Sompy. La lettre de Nicolas Roland à la sous-prieure de Beaune le contredit clairement. Mais Hannesse, à sa décharge, ne disposait pas de cette lettre. Le Frère Poutet, qui la connaissait au moment de la rédaction de la Positio, avait tranché en faveur de 166812. Il convient tout de même d’élargir un peu la «fenêtre possible»; c’est pourquoi nous disons: 1668-1669, à condition qu’il n’ait pas eu de dispense pour être ordonné avant 25 ans, ce qui obligerait à avancer la première date possible. Mais nous verrons plus loin qu’un autre élément invite à pencher de fait du côté de 1668, probablement avant le déclenchement de l’épidémie de peste, donc avant juillet. Résumons-nous: dans l’hypothèse d’un seul voyage, le témoignage de la fidèle domestique doit donc être privilégié sur celui des «Mémoires». En effet, la domestique déclare que, lorsqu’il se rendit à Beaune, il avait «vingt-six ans ou environ». Cela nous renvoie effectivement autour de 166813. Les «Mémoires» reportent l’événement après les missions de Sompy et de Fismes, donc en 1676 ou au plus tard début 1677. Les dates des sous-priorats de Mère Thérèse de Jésus rendent cette hypothèse impossible. D’autre part, la relation des «Mémoires» met l’épisode du don de la statue à cette même époque, ce qui est également impossible, étant donné que Nicolas Roland qui parle abondamment de la statue dans sa lettre, ne fait pas du tout allusion à la Communauté des Sœurs de l’Enfant-Jésus. Si le voyage avait eu lieu à ce moment-là, il est évident qu’il en parlerait.

Bernard Pitaud, Le Cerf, 1998, p.78-80. Auteur de la première biographie de Nicolas Roland: Vie de Nicolas Roland, Reims 1888. Ouvrage sérieux et qui peut encore être consulté, mais qui ne cite pas ses sources. 12 Il faut tout de même signaler que le Frère Poutet n’utilise pas l’argumentation à partir des dates du sous-priorat de Mère Thérèse de Jésus Richard. En effet, il estime dans la Positio que Mère Thérèse de Jésus à laquelle écrit Nicolas Roland ne peut être Thérèse de Jésus Richard; celle-ci, dit-il, était prieure entre 1648 et 1651. Il se contredit d’ailleurs immédiatement en disant qu’elle fut élue prieure vers 1653. Mais surtout, il se trompe de Thérèse de Jésus. En 1648, c’est Mère Thérèse de Jésus Languet, ancienne prieure du Carmel de Dijon qui est élue prieure à Beaune (voir Positio, p.241). Les lettres envoyées à cette religieuse par Gaston de Renty en 1648 le montrent à l’évidence (voir les lettres 410 et 412 de l’édition de la Correspondance de Gaston de Renty par Mr Raymond Triboulet, DDB, 1978). Et même si Thérèse de Jésus Richard avait été prieure en 1648 (ce qui paraît difficile puisqu’elle n’avait que 22 ans), cela ne l’aurait pas empêchée d’être sous-prieure en 1668. Yves Poutet pense que la Thérèse de Jésus à laquelle Nicolas Roland écrit est Sœur Thérèse de Jésus-Christ Guinot (16061686). Or d’après le livre des priorats et les notices nécrologiques, celle-ci n’a jamais été sous-prieure. Elle est d’ailleurs toujours mentionnée avec le titre de Sœur et jamais avec celui de Mère. 13 Cf. Nicolas Roland et les Sœurs de l’Enfant-Jésus, p. 98. 10 11


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Pour la datation, il convient de tenir compte également de ce que dit Nicolas Roland dans sa lettre à la sous-prieure sur sa volonté de fonder une confrérie de l’Enfant Jésus. Or il n’a pas fondé de confrérie, mais une Communauté de Filles séculières, selon l’expression de l’époque. Le fait qu’il ne dise rien, comme nous venons de le souligner, de la fondation de la Communauté, invite à avancer la date de son voyage, puisque Françoise Duval et Anne Le Cœur, les premières Sœurs de l’Enfant-Jésus, arrivent à Reims en 1670. 1668 devient donc de plus en plus vraisemblable14. Quelques autres détails de la lettre. A propos de la statuette, le Frère Aroz déclare, dans Nicolas Roland, Jean-Baptiste de La Salle et les Sœurs de l’Enfant-Jésus de Reims15, que c’est Gaston de Renty qui a envoyé la statuette de l’Enfant-Jésus, roi de gloire, à Nicolas Roland. Affirmation qui relève certainement d’une simple maladresse d’expression dans un exposé par ailleurs si bien documenté, où l’auteur indique lui-même la date de la mort de Gaston de Renty (1649). Il confond sans doute avec le fait que, selon la tradition, c’est Gaston de Renty qui aurait envoyé au Carmel de Beaune la statue du Petit Roi de Gloire16. La prieure de l’époque que Nicolas Roland salue est Claude du Saint-Esprit qui fut prieure de 1667 à 1670, puis de 1680 à 1686. Née en 1622, elle entra au Carmel en 1641 après son veuvage d’un certain Bataille. Elle mourut en 1690 à 80 ans. La lettre fait également allusion à une autre carmélite: sœur Françoise de la Mère de Dieu. Cette religieuse, de son nom de famille: Loppin, était née en 1614; entrée au Il est intéressant de noter que, cette même année 1668, avant le Carême, Vincent de Meur, premier supérieur des Missions Étrangères, fit lui-même le pèlerinage à Beaune (AMEP 4, n° 9). Or Nicolas Roland avait connu Vincent de Meur, à la communauté de la rue Saint-Dominique, avec le Père Bagot, jésuite, où Nicolas Roland résida probablement de 1660 à 1665. La présence de Nicolas Roland y est en effet attestée parmi les laïcs pensionnaires du Séminaire dans un document datant environ de 1681 (AMEP 8, p. 189). Ce document est une copie d’un manuscrit des Archives Nationales: Ms 501, 502). Puisqu’il n’est pas daté, on a tendance à ne pas le faire remonter en-deçà de 1663, date de la fondation du séminaire de la rue du Bac. Mais le Frère Poutet fait remarquer que l’un des pensionnaires (M. Chevreul prêtre du diocèse de Rennes) a quitté la communauté en 1661. Il s’agirait donc plutôt d’une liste dressée de mémoire et qui comprendrait des noms de pensionnaires aussi bien du séminaire que des communautés de le rue Saint-Dominique, de Saint-Josse, de la rue saint Étienne des grès, où les responsables des Missions Étrangères souhaitaient que soient formés les futurs missionnaires avant la fondation du séminaire proprement dit en 1663, et peut-être aussi de ce séminaire même. Les archives du Carmel de Beaune gardent deux lettres de Vincent de Meur à la prieure du Carmel: la première date du 8 décembre 1667 (lettre 1335; livre V; p. 2271-2272.) Il y fait part de son intention d’aller faire retraite pendant quelques mois à Beaune auprès du tombeau de Sœur Marguerite à partir de Noël 1667. De Meur se trouve alors à Autun. La seconde, datée du 6 février 1668 (lettre 1341; p. 2282), informe la prieure qu’il a été retardé dans son projet et qu’il pense venir pour le carême. Les éditeurs des lettres disent prudemment (p. 2283): «Nous ne savons pas s’il a pu réaliser son projet de retraite à Beaune près du Carmel (Mémorial des Missions Étrangères, p. 49, article: Meur De Vincent.) En fait, d’après AMEP cité plus haut, la retraite eut lieu finalement à la Chartreuse de Dijon, mais il fit tout de même le pèlerinage à Beaune. Vincent de Meur devait mourir en Bourgogne le 26 juin 1668. 15 p. 128, note 2. 16 «Le Carmel de Beaune», J. Roland-Gosselin, Rabat, 1969, p. 170. 14


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Carmel à 13 ans et demi en 1628, y mourut en 1694, à 80 ans. Elle fit partie des 9 religieuses qui, dès 1636, décidèrent de suivre Marguerite du Saint-Sacrement dans la dévotion à l’Enfant Jésus, en faisant partie de la «Famille de l’Enfant-Jésus», au sujet de laquelle nous donnerons plus loin quelques précisions. Comme nous l’avons dit, elle succéda à Mère Thérèse de Jésus comme sous-prieure en 1670. Quant à sœur Claire, il s’agit, d’après les notes de l’édition des lettres, de sœur Claire Marguerite du Saint-Sacrement Parisot, nièce du Père Parisot, de l’Oratoire, supérieur de l’Oratoire de Beaune de 1637 à 1643, puis supérieur de l’Oratoire de Dijon en 1643, puis de l’Oratoire d’Aix en 1652. Celui-ci revint mourir à Beaune en 167817. Il fut le confesseur de sœur Marguerite du Saint-Sacrement, rédigea sa biographie et resta un grand ami du Carmel de Beaune. Y a-t-il eu un deuxième voyage de Nicolas Roland à Beaune à la fin de sa vie? On peut en faire l’hypothèse à partir du texte des «Mémoires»18. Yves Poutet nie l’authenticité de ce voyage à cette date parce que M. Martin, doyen de Fismes, dans le témoignage qu’il écrivit sur Nicolas Roland, à la demande des Sœurs de l’EnfantJésus, ne le mentionne pas après la mission de Fismes.19 Comme ce n’est pas M. Martin, qui a rédigé les «Mémoires», il faut, selon Yves Poutet, privilégier son témoignage, car il était très bien placé pour savoir si Nicolas Roland avait fait le voyage de Beaune à cette époque. Il dit en effet que Nicolas Roland a fait la mission de Fismes après celle de Sompy (signalons en passant qu’il se contredit sur ce point quelques lignes plus loin, en plaçant au contraire la mission de Fismes avant celle de Sompy; il s’agit sans doute d’une maladresse de style; en tout cas c’est cette deuxième version que les «Mémoires» ont retenue;) 20 et qu’ensuite il se rendit aussitôt à Paris, pour revenir à Reims et y mourir car il était épuisé par tous ces travaux. L’argument du Frère Poutet est séduisant. Est-il dirimant? On est en droit de le penser. On peut aussi demeurer sur un doute. L’auteur des «Mémoires» était forcément un proche de Nicolas Roland. Pourquoi a-t-il commis une erreur aussi grossière? Et si la mission de Fismes se déroule bien en 1676, il resterait un temps suffisamment long pendant lequel Nicolas Roland aurait pu faire le voyage à Beaune après la mission de Fismes, avant de partir à Paris, pour confier au Petit Roi de gloire l’avenir de sa Congrégation naissante dont on sait combien de difficultés elle rencontrait pour son établissement. En effet, Nicolas Roland n’arrive à Paris qu’au temps de l’Avent 1677 pour solliciter auprès de l’archevêque, Mgr Le Tellier l’établissement de sa Communauté 21. En outre, l’auteur des «Mémoires» qui a «recousu» les témoignages évoque la supérieure du couvent des carmélites de Beaune qui parle de Nico-

Correspondance, Gaston Jean-Baptiste de Renty, publiée par Raymond Triboulet, p. 933. Guide spirituel et Fondateur, p. 204 ; MV, 1 T 6, 5. 19 Idem, p. 164 ; TC, 8, T 3. 20 Idem, p. 165 ; TC, 8, T 4. 21 Guide spirituel et Fondateur, p. 212-213. 17 18


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las Roland avec estime. Il est vrai que les «Mémoires» sont écrits après 1693, donc longtemps après les faits. Mais nous savons que la Communauté est restée en contact avec le Carmel de Beaune: un des frères Rogier a fait le voyage de Beaune en 1682; il a donc pu rencontrer Thérèse de Jésus, décédée en 1683, qui était la sousprieure à laquelle Nicolas Roland envoie sa lettre de remerciements, et qui fut prieure de 1673 à 167922.

La statuette et le tableau Nous avons parlé de statuette. Nicolas Roland parle d’image. Mais son texte laisse entendre qu’il s’agit d’une reproduction de la statue qui se trouvait à Beaune. Il parle de «niche sculpture», ce qui convient évidemment à une statue; il parle également d’une couronne, d’un sceptre d’argent et d’une robe de brocart d’or. Tout cela ne peut correspondre qu’à une sculpture. On sait par ailleurs qu’à l’époque, le terme d’«image» était employé pour désigner une petite statue. La communauté a longtemps pensé qu’elle possédait depuis ce temps-là la statue envoyée à Nicolas Roland par le Carmel. Or rien n’est moins évident. De quels objets dispose aujourd’hui la communauté? D’une petite statuette en bronze et d’un petit tableau sur toile, avec un cadre assez rudimentaire, au dos duquel (sur le bois) est marqué: «rapporté de Beaune par Nicolas Roland.» Pour la statuette en bronze, il ne peut pas s’agir de celle pour laquelle Nicolas Roland remercie le Carmel. La couronne, le sceptre, et la robe sont dans la masse. On pourrait à la rigueur ajouter une robe, mais pas une couronne ni un sceptre. De quand date cette statuette? Impossible pour l’instant de le dire puisqu’elle n’a pas encore été expertisée. Dans quelles circonstances est-elle arrivée à Reims? C’est une énigme. Mais qu’en est-il du tableau? De quand date l’inscription au dos? Nicolas Roland ne fait aucunement allusion à une «image» de ce type rapportée par lui de Beaune (rappelons que l’image dont il parle est celle de la statuette qui lui a été envoyée.) Un tableau comme celui-là voyage moins bien qu’une statue. Il est probable en effet qu’il est venu de Beaune en mains sûres. Nicolas Roland aurait-il rapporté ce tableau de son voyage? Il n’y ferait pas allusion dans sa lettre et remercierait seulement de

Y aurait-il là un indice pour penser que l’auteur des «Mémoires» pourrait être un des Frères Rogier? La question du ou des rédacteurs des «Mémoires» demeure une des nombreuses énigmes non résolues en ce qui concerne Nicolas Roland. Un autre indice cependant semble avoir échappé jusqu’ici aux historiens: dans son témoignage, Monsieur Prévôt, curé du Chesne déclare que «Messieurs Camuset et Noiron vous en pourront dire plus que moi, puisque c’est pour votre communauté que l’on dresse un abrégé de sa vie». (Guide spirituel et Fondateur, p. 169). Cela veut-il dire que ces deux prêtres, qui eux-mêmes ont témoigné en faveur de Nicolas Roland (p. 154-156 et 176-177), seraient les rédacteurs des «Mémoires»? 22


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la statue reçue après, voyant surtout l’importance de celle-ci? C’est une hypothèse, mais on en voit bien la fragilité. Ce tableau semble avoir été copié sur une toile, assez fréquemment reproduite à l’époque, de Simon François de Tours. Commandée par Bérulle, elle fut gravée par différents graveurs, comme Jean Boulanger, Nicolas Pitau, Claude Duffos, Pierre Mariette, G.I. Adam et d’autres. Les graveurs donnèrent différentes versions, «interprétations assez libres du thème bérullien23.» Cela a donné naissance à diverses versions de la toile dont deux furent exposées à l’exposition du Petit Palais sur «l’Art du XVIIe siècle dans les Carmels de France.» Le tableau qui figure dans les archives des Sœurs de l’Enfant-Jésus est manifestement une copie (assez grossière) d’une de ces versions, copie totalement inconnue jusqu’ici, parce qu’elle n’a pas retenu l’attention des historiens. Il s’agit de la copie de la gravure du graveur Jean Boulanger. Le catalogue de l’exposition déclare24, à propos de l’œuvre exposée: «Jusqu’ici, on ne connaissait aucune peinture représentant ce thème. L’œuvre ici exposée copie très exactement la planche de Boulanger». Le petit tableau des archives des Sœurs de l’Enfant-Jésus qui simplifie cette version pourrait donc se révéler un document précieux par son intérêt historique (plus que sa qualité artistique.) Mais il faut alors se résoudre à dire: la statuette envoyée par le Carmel à Nicolas Roland et dont il remercie dans sa lettre n’est plus à Reims. Par contre il existe ce tableau dont il faudrait étudier de près la provenance, les caractéristiques, et qui pourrait nous apporter des surprises. Ceci est corroboré par une note de la lettre 1575 (celle envoyée par Françoise Duval, première supérieure des Sœurs de l’EnfantJésus, au carmel de Beaune, le 18 février 1682 et que nous étudierons plus loin.) Voici ce que dit cette note 5: «Actuellement, les Sœurs de l’Enfant-Jésus n’ont plus rien qui ressemble à la statue de l’Enfant-Jésus de Beaune, mais un «petit tableau» offert par la prieure de Beaune à M. Roland et une toute petite statue en bronze que l’archiviste suppose en venir» [juillet 1990]. Pour progresser vers plus de certitude, il faudrait une expertise du tableau et de l’inscription qui figure au dos sur le cadre de bois: «Donné à Nicolas Roland par le Carmel de Beaune». Lorsque les carmélites de Beaune envoyèrent à la Communauté de l’Enfant-Jésus la lettre de Nicolas Roland à la sous-prieure, à l’occasion de la béatification, elles prirent contact avec l’archiviste du moment (sœur Michèle). Et c’est à partir de l’échange avec elle qu’elles conclurent que la statuette en bronze n’était pas celle envoyée à Nicolas Roland par le Carmel de Beaune. Une autre hypothèse est encore possible: ce tableau serait-il le présent envoyé par le Carmel et par l’intermédiaire de Nicolas Roland à la sœur de ce dernier, présent dont il parle dans sa lettre de remerciement? A Beaune, mais aussi semble-t-il à Besan-

23 L’art du 17ème siècle dans les carmels thérésiens, Exposition du Musée du Petit Palais, 1982-1983; Catalogue de l’exposition, Paris, p.136-137. 24 Idem, p. 136.


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çon et peut-être dans d’autres Carmels, on fabriquait des petits Jésus en cire ou en plâtre, à l’aide de moules (on utilisait aussi le papelon, c’est-à-dire un mannequin en tissu bourré recouvert de cire25); il s’agissait plutôt, semble-t-il, d’enfants Jésus de crèche. Mais à Beaune on fabriquait des statuettes du Petit Roi de Gloire. C’est l’une d’elles, en plâtre peint probablement, ou en cire, ou en papelon, qu’avait reçu Nicolas Roland. Une note qui accompagne une lettre adressée au Carmel par la duchesse de Montpensier, déclare: «Il est rarement question de statuettes en métal précieux, or ou argent, ce qui supposerait une fabrication que les carmélites ne semblent pas avoir réalisée26». Pourtant, dans cette lettre, Mlle de Montpensier dit elle-même: «Je trouve le petit Jésus très joli. Faites m’en faire six grands à l’ordinaire et douze petits avec des reliques de la bonne sœur, et qu’ils aient été sur le tombeau. Je les veux d’argent. Faites m’en faire un seulement d’or, de la grandeur ordinaire, afin qu’il puisse y avoir des reliques de la bonne Sœur et celles que je vous ai laissées». On façonnait donc bien à Beaune des statuettes en métal précieux (on peut penser qu’il ne s’agissait pas d’argent ou d’or massif). Cela suppose que les religieuses sous-traitaient les commandes chez un artisan de Beaune. Nous connaissons le nom d’un orfèvre de Beaune: M. Viérot, auquel les sœurs auraient pu s’adresser. D’autres correspondants, essentiellement des personnes de familles de haute noblesse commandaient des statuettes en or ou en argent; ainsi Marie de Lorraine d’Elbeuf, le 30 mai 1674: «J’ai reçu les deux petits enfants Jésus d’or que vous m’avez faits. Que l’on me fasse encore de me donner et vous prie de les faire toucher et demande quelque chose de la Bienheureuse Sœur27.» On signale aussi parfois des statuettes en cuivre28. Il est possible qu’il y en ait eu aussi en bois29. Le Carmel de Beaune envoyait beaucoup d’autres objets: chapelets, couronnes, médailles, images gravées de Marguerite du Saint-Sacrement elle-même. Mr Gautherot, un ami du monastère, que remercie Nicolas Roland dans sa lettre, s’occupait beaucoup de ces envois. Ceux qui écrivaient pour obtenir ces objets demandaient souvent qu’ils aient été placés auparavant en contact avec le tombeau de la Sœur Marguerite. Mais il y avait surtout les reliques diverses: morceaux d’étoffe provenant de vêtements ayant appartenu à la Sœur, souvent trempées dans de l’eau rougie de son sang (celui-ci avait été prélevé lors des dernières maladies de la Sœur, ce qui indique que le monastère s’attendait à devenir un centre important de pèlerinage). Parfois, on envoie de Beaune des pièces d’étoffe importantes; on reste étonné par leur nombre. En 1682, les sœurs de l’Enfant-Jésus de Reims recevront un voile de

25 Ce mot, resté dans la mémoire des sœurs du carmel de Beaune, ne figure pas dans les dictionnaires, ni modernes, ni de l’époque (en tout cas pas dans le Furetière que nous avons consulté.) 26 Note 1; lettre 1460, livre V, p. 2456. 27 Lettre 1459, Livre V, p. 2454. 28 Lettre 238, Livre I, p. 380; ACB vol. 36, p. 279 –Tr n° 215, p. 542. 29 Lettre 126, note 2; Livre I, p. 262.


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Sœur Marguerite que la Communauté possède toujours. Il faut dire que, du vivant même de la Sœur, on traitait ce qu’elle portait comme des reliques. Ainsi, en profitant d’un changement d’habit, on projetait de faire des scapulaires avec l’habit qu’elle laissait30.

La dévotion à l’Enfant-Jésus Le Carmel de Beaune n’est évidemment pas à l’origine de la dévotion à l’EnfantJésus. Celle-ci est profondément enracinée dans la tradition spirituelle de l’Eglise31. Elle arrive à Beaune sous la forme où elle y a été répandue, avec le vénération d’une statuette, par l’intermédiaire des Carmels thérésiens espagnols. Une exposition organisée en Lozère avec la participation du Carmel de Mende, intitulée: «L’humour pour l’Amour chez Thérèse d’Avila», présentait les choses ainsi: «Pour encourager ses sœurs carmélites à vivre leur quotidien avec et en compagnie de leur Maître et Ami, Thérèse léguait à chaque monastère fondé une statuette de l’Enfant-Jésus, chaque fois différente, quant à l’attitude, le vêtement, la dénomination. En fait tout le message de l’Incarnation rédemptrice est vénéré à travers ses multiples statuettes». Thérèse d’Avila emmenait avec elle dans tous ses voyages une statuette de l’EnfantJésus. Voici quelques exemples des appellations données aux statuettes: Le Fils aîné, l’Héritier du Royaume; Le Petit fiancé; l’Enfant pèlerin; le Petit Pleurnicheur; le Gentil portier; le Pasteur; le Sauveur; le Silencieux; le Petit docteur; le Petit Jésus qui parle. Les mères espagnoles arrivèrent en France en 1604 transportant dans leur bagage plusieurs de ces statuettes. Bérulle les trouvait quelque peu «folkloriques», sans doute trop sentimentales. Il demanda au peintre français Simon François de Tours de «représenter l’Enfant-Jésus emmailloté, en total état de dépendance, les bras en croix, annonçant le sacrifice du Golgotha32.» Anne de Jésus dont les relations avec Bérulle étaient difficiles, était venue dès 1605 fonder le Carmel de Dijon. Elle gardait avec elle 5 statuettes. Elle les avait réparties dans le monastère et en gardait une dans sa cellule. Bérulle, un jour, la lui enleva. L’une des statues fut envoyée à Beaune en 1619, lors de la fondation. Mais c’est une autre statue, dont la tradition veut qu’elle aurait été donnée par Gaston de Renty, qui était particulièrement vénérée au Carmel de Beaune, sous le nom de «Petit Roi de Grâce» (Marguerite du SaintSacrement qui était très attachée à cette appellation toléra sa transformation en «Roi de Gloire».)

Idem. La meilleure synthèse sur l’histoire de la dévotion à l’Enfant-Jésus est celle de M. Irénée Noye, p.s.s. dans le Dictionnaire de Spiritualité, fasc. XXVI-XXVII, col. 652-682, Beauchesne, 1959. 32 Catalogue de l’Exposition du Petit Palais, o.c., p. 136. 30 31


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C’est le 24 mars 1636 que commença officiellement la dévotion à l’Enfance de Jésus au Carmel de Beaune33. Nicolas Roland considère, dans sa lettre à la sousprieure, que ce Carmel est «l’origine et le berceau de la dévotion à l’enfance de Jésus en France.» La particularité du Carmel de Beaune, sous l’impulsion de Marguerite du Saint-Sacrement, c’est la fondation de la «Famille de l’Enfant-Jésus» qui comprenait neuf membres, désignées comme «les domestiques de l’Enfant-Jésus pour servir et le suivre en tous les états de sa vie et de son enfance, lesquelles honorent, en une sainte union de cœur et d’esprit, toutes les actions, paroles et mystères que Jésus-Christ a opérés sur la terre pour accomplir l’œuvre de notre rédemption». De ce petit groupe naquit une association, devenue confrérie (le mot confrérie apparaît pour la première fois en 1672, dans la lettre 1416), puis archiconfrérie qui accueillait prêtres, religieux, religieuses et laïcs34. Le chiffre de 9 membres pour la Famille de l’Enfant-Jésus était symbolique. Il représente les 9 mois de la grossesse. On admit plus tard cependant un dixième membre. Il y avait un office particulier composé par le Père Parisot, des indulgences attachées à certaines conditions35. On envoyait de Beaune beaucoup de statuettes qui n’arrivaient pas toujours en bon état. Ainsi, le 28 avril 1645, Gaston de Renty signale que les petits Jésus sont arrivés tout brisés. Ils étaient probablement en cire36. D’où la remarque de Nicolas Roland que la statuette est arrivée en bon état, seulement avec un peu d’ordures sur le visage.

La dévotion à l’Enfant-Jésus chez Nicolas Roland Paradoxalement, les écrits de Nicolas Roland ne parlent pas souvent de la dévotion à l’Enfance de Jésus. Dans deux lettres de direction, il invite ses correspondantes à s’unir aux dispositions du saint Enfant (LD1; T1) et à entrer dans un esprit de simplicité et d’obéissance … c’est le moyen de contenter le Saint Enfant Jésus (LD2; T1). Dans les Avis et Maximes, il évoque, à propos de la vertu de pauvreté, la pauvreté de l’Enfant Jésus: le tien et le mien ne peut convenir avec la pauvreté de Jésus Enfant (AM1; T15), et à propos du renoncement à soi-même, la parole de Jésus: si vous ne renoncez à vous-mêmes, si vous ne devenez petits comme des enfants, vous n’entrerez point dans le Royaume des Cieux (AM 2, T10).

Roland-Gosselin, o.c., p. 143. Voir Lettre 8, Livre I, p. 68. 35 Voir «L’ordre des devoirs et obligations des domestiques et associés de la famille de Jésus Enfant établi durant la vie de notre Très honorée Sœur Marguerite du Saint-Sacrement et dont elle a fait usage de ce livre», Roland-Gosselin, Appendice n° 3, p. 497. 36 Lettre 240, Livre I, p. 382. 33 34


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Ce sont les témoignages recueillis après sa mort et le livre des «Usages37» qui nous révèlent le mieux la place que tenait la dévotion au mystère de l’Enfance chez Nicolas Roland. Le provincial des Carmes, dans le couvent desquels il logeait quand il venait à Paris, déclare (TC9, T1): C’est lui qui a, le premier à Reims, inspiré la pratique de l’oraison mentale et de la dévotion à l’enfance de Jésus, qui lui a fait établir cette sainte Communauté de filles pour l’éducation des petits orphelins et l’enseignement des petits enfants par les écoles, qui est le grand et saint ouvrage particulier que Dieu a béni si abondamment. Ce texte laisse deviner que, pour lui, les enfants et les orphelins étaient l’image de l’Enfant-Jésus. C’est ce que confirment les «Mémoires sur la Vie» et aussi les Constitutions de 1683, de Mgr Le Tellier: il voulait aussi que les petits orphelins y fussent bien élevés, d’autant, disait-il, que c’est l’origine de la maison et qu’ils nous représentent Jésus-Christ en l’état de son enfance, et c’est à cette fin qu’il a donné pour titre à cette maison, la Communauté du Saint Enfant-Jésus (MV1, T8,5). Elles s’adresseront à Lui (le Saint Enfant-Jésus) avec confiance dans leurs besoins, et particulièrement pour se bien acquitter de leurs emplois dans les écoles, et envers les petits orphelins, qui le leur représentent incessamment dans l’état de son enfance (C,oT2, 7). Ailleurs, les Constitutions de 1683 parlent de ces enfants abandonnés de tout le monde et qui appartiennent si particulièrement au Saint Enfant-Jésus (CO T6,8)38. Le texte des «Usages» va dans le même sens dans un texte à tonalité très bérullienne: Elles (les Sœurs) se sont mises particulièrement sous la protection du Verbe incarné, et elles se proposent de l’honorer principalement dans sa sainte Enfance. Ce n’est pas qu’elles ne doivent avoir une très grande dévotion pour les autres Mystères, mais elles auront une dévotion particulière à celui-ci; tant parce que JésusChrist nous y a donné des exemples de toutes les vertus chrétiennes, que pour s’exciter au zèle qu’elles doivent avoir pour l’instruction des enfants, en considérant que le Fils de Dieu a bien voulu, pour l’amour d’elles, se réduire à cet état de l’enfance (Guide spirituel et Fondateur; U,oT10,1; voir également: U,oT1,2). Ainsi la dévotion à l’enfance de Jésus chez les Sœurs de l’Enfant-Jésus est fondée sur le mystère même de l’Incarnation par lequel le Verbe incarné s’est lui-même réduit à l’état d’enfance; c’est bien à ce mystère qu’elles se sont consacrées (U,oT10,1 et U,oT49,1,1); et leur dévotion se manifeste pleinement dans le soin qu’elles prennent des orphelins et des petites filles qui représentent pour elles l’image vivante de Jésus enfant. A ce mystère, les Sœurs doivent initier les enfants (U,oT 61,1). Les «Usages» détaillent par ailleurs la manière dont la dévotion à l’en-

Comme son nom l’indique, le livre des Usages a été écrit (sans doute en rassemblant et unifiant des notices diverses), pour garder les Usages établis au temps du fondateur et en même temps l’esprit de celui-ci. Le texte date de 1689 et a été rédigé probablement dans une période de crise traversée par la Communauté. 38 Voir également MV2 T1, 15. 37


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fance de Jésus s’exprimait chaque 25ème jour du mois par des exercices particuliers dont faisaient partie les litanies en l’honneur de l’enfance de Notre-Seigneur (voir spécialement: U, oT10, 2, et U,oT 10,2).

J. Le Febvre Cependant, d’autres données interviennent que révèle l’édition de la correspondance reçue à Beaune du vivant de Marguerite du Saint-Sacrement et après sa mort et qui concernent Nicolas Roland. Le 19 septembre 1678, un certain J. Le Febvre, prêtre, curé de Saint Livier à Metz, écrit à la Mère supérieure des carmélites de Beaune une lettre où il parle de Nicolas Roland dont il a appris la mort en passant à Reims, après un pèlerinage à Beaune. Il en transmet la nouvelle à la Communauté du Carmel. Ainsi, voilà qu’apparaît pour la première fois, dans l’environnement de Nicolas Roland, le nom de ce prêtre de Metz, J. Le Febvre. Il parle de Nicolas Roland comme étant son bon ami et il dit qu’il avait l’honneur d’être «uni avec lui». De quel ordre étaient ces liens? Nous n’en savons rien pour l’instant. Ce qui est sûr, c’est que J. Le Febvre professait une grande dévotion à l’Enfant-Jésus, au point de lui faire entreprendre le pèlerinage à Beaune. C’est en remerciant les carmélites de leur accueil qu’il leur signale le décès de Nicolas Roland qu’elles connaissaient et auquel il était lié. Pourquoi ce prêtre passe-t-il par Reims pour retourner à Metz? Il y avait d’autres possibilités pour retourner à Metz. Il est possible que la route par Reims ait été plus sûre, bien que plus longue. Mais J. Le Febvre n’avait-il pas de la famille à Reims? Il existe des Le Febvre à Reims à cette époque, y compris dans la parenté de Nicolas Roland, selon les généalogies dressées par le Frère Aroz39. Il est très possible qu’il soit passé par Reims pour voir sa famille. D’autre part, il était lié à un certain M.Beuvelet, dont il parle dans sa lettre. On sait que les Beuvelet étaient une grande famille de Reims. La mère de Nicolas Roland était une Beuvelet. Son oncle, Matthieu Beuvelet, avait appartenu à la communauté de M. Bourdoise à saint Nicolas du Chardonnet et avait laissé des écrits appréciés. Le M. Beuvelet dont parle J. Le Febvre est-il de cette famille? Pour l’instant, aucun élément ne nous permet d’aller plus loin dans la réponse à ces questions. Dans les «Documents généalogiques, armée, noblesse, magistrature» de Metz, on trouve la trace d’un H. Lefebvre de Ladonchamps, prêtre, curé de Saint-Livier, pro-

La seconde épouse de Jean Maillefer, célèbre mémorialiste rémois de l’époque, cousin de Nicolas Roland, s’appelait Le Febvre de son nom de jeune fille. Il y avait des Le Febvre de cette même famille à Château-Thierry et à Châlons. Curieusement, en août 1678, Jean Maillefer indique dans ses Mémoires: «M. Le Febvre, chanoine, est venu le 4 et a couché deux nuits au logis.» Mais il semble bien qu’il s’agisse du chanoine de Châlons dont il a déjà parlé dans ses Mémoires; le Le Febvre de Metz n’est jamais désigné comme chanoine..

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moteur de l’évêché, licencié es-lois, décédé le 26 septembre 1708, âgé de 73 ans, à la paroisse de Saint-Livier, «qu’il avait administrée l’espace de 43 ans». Ce prêtre est donc né en 1635 et il a été curé de Saint-Livier de 1665 à 1708. C’est donc bien lui qui est curé de Saint-Livier en 1678 quand il annonce au Carmel de Beaune le décès de Nicolas Roland. Mais l’initiale du prénom diffère. Dans les «Documents généalogiques», il s’agit de H. Le Febvre; dans les lettres envoyées à Beaune, il s’agit de J. Le Febvre. Il est possible qu’il ait eu un double prénom ou qu’il y ait eu erreur de transcription. Il n’y a pourtant guère de doute qu’il s’agisse de la même personne. Une lettre précède celle que nous avons retranscrite: elle peut être datée de juin 1676; elle est écrite en effet juste avant une lettre de la sœur Anne des Anges du Carmel de Metz, datée du 2 juillet, et qu’il s’excuse le 17 juillet, dans une autre lettre, d’avoir retenue (elles devaient partir dans le même envoi). Il a fait une consécration à l’Enfant-Jésus dont il a confié la formule écrite aux Sœurs du Carmel de Metz. Mais il a pensé que cette consécration ne serait pas totale «si elle n’était portée jusqu’à Beaune, d’où ce mouvement prenait sa source». On voit ici que les carmélites de Beaune ont en quelque sorte un rôle d’intercession par rapport à la «médiation» de sœur Marguerite. C’est aux religieuses qu’il revient de porter les demandes, les consécrations qui sont faites à l’Enfant-Jésus, cela en raison de leur lien étroit avec celle qui a instauré la dévotion à l’Enfant-Jésus à Beaune40. Une lettre des carmélites de Metz, datée du 7 avril 1676, avait déjà prévenu le monastère de Beaune des bonnes dispositions de M. Le Febvre. Celui-ci, ayant lu la Vie de Sœur Marguerite et celle de M. de Renty, a été tout «embrasé d’amour vers le saint enfant Jésus» et il demande aux Sœurs de Beaune de faire une neuvaine sur le tombeau de la Sœur Marguerite. Les carmélites de Metz servent d’intermédiaire; elles en profitent pour demander des reliques, et pour signaler qu’une religieuse de saint Augustin, à Metz, (nous ne savons rien de plus sur cette religieuse) imite la Sœur Marguerite. La lettre est signée Anne des Anges. En fait, J. Le Febvre n’écrira sa lettre que fin juin. Le 17 juillet (date où il envoie en même temps la lettre de la sœur Anne des Anges), il remercie les carmélites de Beaune d’avoir eu la bonté de présenter à l’Enfant Jésus son billet de consécration. Il estime avoir en effet besoin d’une protection particulière parce qu’il se sent très exposé dans son ministère. Il évoque l’idée d’écrire «une composition sur les mystères de notre sainte foi et spécialement sur la très sainte eucharistie»., et il se recommande aux religieuses pour que Dieu l’assiste dans ce travail qu’il appelle une «folle entreprise». Il partira en pèlerinage à Beaune l’été suivant et c’est au retour de ce pèlerinage qu’il préviendra les carmélites de Beaune de la mort de Nicolas Roland.

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Lettre 1506, Livre VI, p. 2518.


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Le Carmel de Metz J. Le Febvre était donc très lié au carmel de Metz. Celui-ci avait été fondé par le Carmel de Paris en 1623. le 31 août 165841, nous trouvons une première lettre de la prieure Sr Madeleine de Saint Joseph qui profite du passage d’un Père de l’Oratoire pour faire parvenir à Beaune ce courrier (il s’agit du Père Sonois qui connaissait bien le Carmel de Beaune et qui avait à Metz une cousine germaine carmélite, la sœur Jeanne de saint Augustin). La lettre est assez banale: elle recommande toute la communauté à la Sœur Marguerite; elle souhaite avoir quelques images; elle aurait aimé écrire plus tôt, mais n’a pas voulu importuner la communauté de Beaune. Il ne peut pas être question ici de J. Le Febvre, puisqu’il n’est sans doute pas encore prêtre. Une seconde lettre est datée du 10 janvier 1659, écrite par la même Madeleine de Saint Joseph demande des reliques et des images. Il y a 18 ans, «une Mère de l’Ordre» demanda à la prieure de l’époque les noms de toutes les Sœurs pour les envoyer à la Sœur Marguerite qui les lui avaient demandés, l’Enfant Jésus lui ayant communiqué qu’il était «bien honoré dans le couvent de Metz». Cela avait étonné à l’époque, car on s’était demandé comment la Sœur Marguerite pouvait connaître le monastère de Metz. Mais on négligea de répondre. Depuis, les Sœurs ont été heureuses «d’avoir trouvé quelques petites conformités de leur dévotion au saint enfant Jésus à celle de sa bienheureuse servante, touchant le chapelet et la confrérie de neuf sœurs pour honorer les neuf mois qu’il a reposé au sein de sa divine mère». Depuis plus de 20 ans, le Carmel de Metz a donc une dévotion particulière à l’Enfant Jésus. Tous les premiers dimanches du mois, la communauté fait une procession, chante les litanies de l’Enfant Jésus en allant vers un ermitage où se trouve une image en relief de l’Enfant-Jésus à l’âge de 12 ans, qui leur a été donnée «miraculeusement». Cette dévotion a été approuvée par le Père Gibieuf. Cette lettre sonne un peu étrangement. C’est comme si le Carmel de Metz cherchait à s’excuser de ne pas avoir communiqué avec celui de Beaune, en montrant que la communauté professait une dévotion à l’Enfant-Jésus pratiquement aussi ancienne. Le 28 janvier 165942, une nouvelle lettre remercie pour les reliques et les images reçues. Sœur Madeleine de Saint Joseph demande une neuvaine pour une des sœurs de Metz qui est gravement malade et qui ne peut pas recevoir l’Eucharistie parce qu’elle est sans cesse obligée de rompre le jeûne eucharistique. Beaucoup plus tard, le 7 avril 167643, la sœur Anne des Anges écrit à Beaune pour recommander le Père J. Le Febvre, «un vertueux ecclésiastique, curé d’une des principales paroisses de cette ville»; celui-ci va leur écrire pour faire oblation à l’enfant

Lettre 790, Livre III, p. 1638. Lettre 814, Livre III, p. 1408. 43 Lettre 1502, Livre VI, p. 2511. 41 42


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Jésus et demande une neuvaine au tombeau de Sœur Marguerite. Nous avons déjà parlé de cette lettre. Sœur Anne des Anges écrit de nouveau le 2 juillet pour accompagner la lettre de J. Le Febvre. Elle précise qu’elle n’est pas prieure (celle-ci s’appelle Catherine de Jésus Marie), ce que les carmélites de Beaune ont cru par erreur; elle remercie encore des reliques envoyées; elle remercie de la neuvaine faite pour J. Le Febvre qui en est très heureux et demande de nouveau des prières pour la malade dont il est question dans la lettre précédente. Le 24 juin 167744, une nouvelle lettre, signée cette fois de la prieure. Elles transmettent de nouveau un acte de «donation et consécration au saint enfant Jésus» d’un vertueux ecclésiastique de la ville. S’agit-il toujours de J. Le Febvre? Mais pourquoi recommencer cet acte? S’agit-il de M. Beuvelet? Il est difficile de se prononcer. Enfin, le 24 juin 1679, une simple circulaire signée de la prieure de Metz, sœur Catherine de Jésus Marie, envoie «un particulier souvenir à la Sainte famille de NSJC qui est à Beaune». Les éditeurs signalent qu’«en 1678, une association: «La Famille de NSJC» fut établie par bulle pontificale au Carmel de Metz «pour honorer spécialement la vie conversante de Jésus opérant le salut du monde et remplir les places de la Famille qu’il avait lors». De son côté, le curé de Saint-Livier écrit de nouveau au Carmel de Beaune le 1er janvier 1679, à la prieure Thérèse de Jésus. Il la remercie de lui avoir écrit. Il lui dit que son voyage à Beaune lui a été très profitable; il était beaucoup plus calme alors qu’il était très agité avant. Il attribue ce changement à la protection de la Vénérable Sœur Marguerite. Il se reconnaît pécheur, mais grâce à la miséricorde de Dieu, il a en lui un peu de bonne volonté. Comme la prieure lui a parlé de M. Beuvelet, il a communiqué à ce dernier ce qu’elle lui a dit, et M. Beuvelet lui en est très reconnaissant. Preuve de la relation de grande proximité qui devait exister entre les deux hommes. Quant à M. Beuvelet lui-même, nous avons une lettre de la même époque, le 4 janvier, où il dit à la prieure (dont il croit qu’elle a changé alors qu’elle ne cédera la place à Claude du Saint-Esprit que le 30 avril) sa reconnaissance pour les bienfaits reçus à Beaune et pour avoir été reçu dans l’association. Il fait allusion à ce que lui a dit le curé de Saint-Livier. Il émet une belle protestation d’union spirituelle avec le Carmel et termine en demandant à la prieure sa bénédiction.

Après Nicolas Roland Les relations entre les Sœurs de l’Enfant-Jésus et le Carmel de Beaune ne s’arrêtèrent pas avec la mort de Nicolas Roland. Le 18 février 1682, Françoise Duval, encore supérieure de la Communauté, écrit à la prieure du Carmel, Claude du SaintEsprit, la même que du temps de Nicolas Roland, pour lui dire qu’elle a demandé à 44

Lettre 1529, Livre VI, p. 2549.


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la prieure du Carmel de Reims de lui faire une lettre de recommandation et pour lui annoncer la visite d’un des meilleurs amis de la Communauté. Elle demande aussi des reliques, des indulgences pour la maison et la chapelle de la Communauté. Elle rappelle que leur fondateur avait reçu de la prieure un des enfants Jésus que la Sœur Marguerite honorait45. Dans cet ensemble, plusieurs remarques s’imposent. Tout d’abord, nous savions l’existence de la lettre de recommandation de la prieure du Carmel de Reims, puisque le Frère Poutet en parle dans la Positio (p. 381), mais elle n’avait jamais encore été produite. Elle figure dans l’édition récente des lettres envoyées au Carmel de Beaune du vivant et après la mort de la Sœur Marguerite. Nous la faisons suivre en appendice aussitôt après celle de Françoise Duval. D’autre part, celui qu’elle désigne comme étant un des meilleurs amis de la Communauté est le signataire d’une autre lettre datée du 28 juin, envoyée au Carmel de Beaune après sa visite au tombeau de Sœur Marguerite. Or il signe Rogier sans indiquer son prénom. La question se pose: s’agit-il de Guillaume ou de Nicolas? Guillaume était alors supérieur ecclésiastique de la Communauté, successeur direct de Nicolas Roland. Mais rien ne permet de pencher pour lui plutôt que pour son frère, d’autant plus que le voyage à Beaune est effectué par dévotion personnelle. Les éléments dont nous disposons ne permettent pas vraiment de trancher46. Quoi qu’il en soit, Rogier remercie chaleureusement le Carmel du très bon accueil qu’il a reçu à Beaune. Mais il parle d’un «nouveau miracle» qui s’est accompli à Reims (par l’intercession de sœur Marguerite.) Ce nouveau miracle reste une énigme; il dit que la supérieure en parle dans sa lettre; or ce n’est pas le cas. Quant au Père Carmagnole dont il est question et auquel il amène un courrier de la part du Carmel, il s’agit d’un familier du Carmel de Beaune. Né en 1617, entré à l’Oratoire à Aix en 1637, il fut professeur au collège de Beaune, prédicateur estimé à Lyon et Dijon, chanoine théologal à la collégiale de Beaune, confesseur au Carmel. Père spirituel des sœurs de l’Hôtel-Dieu, il s’y fixa, dévoué aux sœurs et aux malades. Rappelé à Paris en 1663, il est nommé supérieur à Rouen en 1669; de nouveau rappelé à Paris comme conseiller du général, le Père de Sainte-Marthe, supérieur de la maison de la rue saint-Honoré, puis fondateur d’une communauté de l’Oratoire à Soissons. Confesseur de Marguerite du SaintSacrement, il fut un de ceux qui l’assista durant son agonie et dressa l’un des récits les plus complets de sa mort47.

Lettre 1575, Livre VI, p. 2618-2619; ACB vol. 39-7, f° 309. Le Frère Poutet tranche clairement en faveur de Nicolas. Il estime que la fonction de supérieur ecclésiastique de la Communauté des Sœurs de l’Enfant-Jésus aurait empêché Guillaume de se rendre à Beaune. Il est vrai que le voyage semble se poursuivre ensuite à Paris. Nous préférons quand même rester dans le doute sur l’identité du pèlerin. 47 Voir lettre 421, Livre II, p. 651-663; ACB vol. 16, f° 155-163. Renseignements pris dans la lettre 383, Livre II, p. 565. 45 46


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Rogier parle du voile que lui a donné le Carmel de Beaune. Ce voile est conservé encore chez les Sœurs de l’Enfant-Jésus. D’autre part, contrairement à ce que dit Françoise Duval, la statuette de l’enfant Jésus reçue par Nicolas Roland n’est pas une des statuettes qu’honorait dans le Carmel Marguerite du Saint-Sacrement, mais, comme on l’a vu plus haut, une des multiples reproductions fabriquées par les Sœurs. Dernière remarque: les indulgences que Françoise Duval réclame sont en fait la copie des indulgences accordées à la confrérie du saint Enfant Jésus, comme le précise la prieure du Carmel de Reims dans sa lettre de recommandation. Françoise Duval pensait-elle agréger la Communauté à la confrérie ou bien demander pour la Communauté des Sœurs de l’Enfant-Jésus le même type de privilège? Enfin, Françoise Duval rappelle les liens de Nicolas Roland avec le Carmel de Beaune, mais déclare en même temps que la Communauté de l’Enfant-Jésus était inconnue du Carmel de Beaune. Il n’y avait donc pas de relations suivies.

APPENDICE Les Lettres Lettre de Nicolas Roland à la sous-prieure du couvent des Carmélites de Beaune, à l’occasion de l’envoi par les carmélites d’une statuette de l’Enfant-Jésus (lettre 1512, ACB vol. 39-3, f° 244). Cette lettre n’est pas datée. Suscription: A la Révérende / la Révérende Mère Thérèse de Jésus, sous-prieure du monastère des Carmélites de Beaune. Cette lettre est autographe. En voici la transcription (ndr): Ma Révérende Mère, Que l’amour du St Enfant Jésus et de sa Ste Mère soit toujours dans nos cœurs. Je vous suis si obligé à votre Rde Mère et à toute votre communauté du beau présent qu’il vous a plu me faire que je n’ai point de paroles pour vous exprimer la reconnaissance de mon cœur. Je prierai donc le saint Enfant qu’il soit lui-même mon remerciement et encore plus qu’il soit votre récompense. Son image a été trouvée admirablement belle et je l’ai reçue sans qu’il lui soit arrivé accident qu’un peu d’ordures attachées à son visage qu’on a ôtées facilement. Vous l’aviez si proprement accommodé qu’il ne pouvait pas se gâter; j’espère établir en cette ville une confrérie en son honneur qui l’exposera48 tous les 25èmes49. J’ai cru que c’était le dessein de Mr Gauterot que je n’ai pas le bonheur de connaître et que je remercie affectueusement de ses couronnes50. J’en ai déjà distribué plusieurs aux confrères futurs. S’il avait une

Le mot est difficile à déchiffrer. Il est difficile de discerner s’il s’agit de 25 ou de 24. Il faut lire naturellement 25. 50 Forme de chapelet dont la composition était diverse. 48 49


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autre intention, il fera bien de me la mander au plus tôt d’autant que personne ne voit l’image qui n’emporte une couronne avec ordre et promesse de la dire tous les jours; elle est à présent dans un oratoire qui lui était préparé depuis longtemps; mais pour le placer avec plus de décence, je fais faire une niche-sculpture qui sera toute dorée, de laquelle je vous enverrai le dessein; on lui donnera aussi une couronne et un sceptre d’argent et une robe de brocart d’or afin qu’il n’ait pas sujet d’envier la condition de son petit frère qui est chez vous, quoi qu’en qualité d’aîné et d’original je crois que le vôtre sera beaucoup plus riche. J’ai rendu votre présent à ma sœur qui a envoyé le manteau à la Ste Vierge; elle l’a reçu avec bien de la joie et elle vous en remercie cordialement. Je vous conjure, votre Rde Mère et toute votre Communauté de ne me pas oublier devant le St Enfant et au tombeau de son épouse. Priez le aussi, je vous en prie, qu’il me fasse quelque part des vertus de son enfance et qu’il lui plaise répandre la dévotion à cet aimable état de sa vie et l’imitation de ses vertus dans les cœurs des fidèles de ce pays. Je me promets qu’il produise cet effet par son51 image que vous m’avez envoyée, si vous me secourez de vos prières, m’imaginant que votre monastère pouvant être appelé l’origine et le berceau de la dévotion à l’enfance du Fils de Dieu en France, tout ce qui en vient a vertu particulière pour porter à cette dévotion. Souvenez-vous donc toujours, ma Rde Mère des misères d’un pauvre pécheur qui ose néanmoins se dire dans le sacré Cœur de Jésus et de Marie52, ma Rde Mère, votre très humble et très obéissant serviteur N. Roland, P.I. Mes remerciements particuliers s’il vous plaît à votre Rde Mère, à ma chère sœur Françoise de la Mère de Dieu, à la sœur Claire et à toutes les ouvrières qui ont travaillé à l’image du St Enfant, les assurant que j’aurai un souvenir particulier d’elles au st sacrifice.

Lettre de J. Le Febvre à la prieure du Carmel de Beaune (lettre 1539, Livre VI, p. 2566; ACB vol. 39-3, f° 97) Ma révérende, la Révérende Mère supérieure des dames religieuses carmélites de Beaune à Beaune. A Metz, le 19ème septembre 1678 Ma Révérende Mère, + Loué soit à jamais le très Saint sacrement de l’autel. Je suis enfin de retour de mon voyage. J’y ai eu un peu de peine, mais Dieu m’a fait la grâce de me donner de la santé et des forces. Je désirerais une chose: qu’il en fût glorifié. C’est donc pour vous rendre mille actions de grâce de toutes vos honnêtetés et principalement de la charité singulière que vous avez eue à mon endroit. Je prie le très saint enfant Jésus, qui est la couronne des saints, qu’il soit la vôtre et qu’il vous comble de sa grâce. Je vous supplie, et cette bonne mère que j’eus

Il semble qu’il y ait un mot ou une abréviation à cet endroit, difficile à déchiffrer. NR aurait-il ajouté ste en oubliant de rectifier son en sa. 52 Cette expression marque-t-elle une influence de St Jean Eudes? 51


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l’honneur de voir avec vous au parloir et qui a fait son noviciat avec ma très chère Sœur Marguerite du Saint Sacrement, de vous souvenir de moi devant le très saint enfant Jésus. Souvenez-vous que j’ai fait un contrat avec vous et avec votre sainte Communauté pour y être uni dans le très saint enfant Jésus. Et lorsque vous saurai que je suis décédé de me faire la charité de demander à Dieu sa miséricorde comme je me suis obligé de satisfaire de ma part à ce devoir pour chacune des religieuses de votre Monastère qui viendra à décéder. En passant à Reims et m’informant de M. Roland théologal, notre bon ami, j’appris qu’il était décédé depuis trois mois. J’ai satisfait à mon devoir. J’avais l’honneur d’être uni avec lui. Je vous recommande son âme quand vous aurez la commodité de communier pour lui. Le jeune homme qui m’a accompagné durant mon voyage est entré aux capucins et y a pris l’habit. M. Beuvelet vous est très obligé. Il a reçu avec une très grande joie et consolation de son cœur la lettre que vous lui avez fait l’honneur de lui écrire. J’espère que le très saint enfant Jésus aura en cette ville bien des adorateurs. La vie de la bienheureuse Sœur Marguerite se communique ici à plusieurs personnes de piété. J’en espère quelque chose de grand pour notre diocèse. Priez la Bienheureuse Sœur d’en recommander le bon gouvernement au très saint enfant Jésus, qu’il y envoie de bons ouvriers et des fidèles serviteurs. Je me répands un peu trop, mais j’ai de la joie et de la consolation de vous écrire, regardant en vous notre très chère et Vénérable Sœur Marguerite, cette bienheureuse épouse du saint enfant Jésus dans lequel je suis, Ma Révérende mère, Votre très humble et très obéissant serviteur J. Le Febvre, ind. Prêtre et curé de Saint Livier __________________________ Lettre de Françoise Duval à la prieure du Carmel de Beaune (lettre 1575, Livre VI, p. 2618-2619; ACB vol. 39-7, f° 309) A La Révérende mère, La Révérende mère Prieure des Religieuses Carmélites du Couvent de Beaune, A Beaune. J.M. J. ✞ De Reims, ce 18 février 1682 Madame Ma très Révérende mère, N’ayant pas l’honneur de vous connaître, je me suis adressée à la Révérende Mère Prieure des Carmélites de cette ville de Reims, la suppliant de nous donner une lettre pour vous, ce qu’elle a fait très volontiers, vous suppliant de nous accorder ce qui est contenu en sa dite lettre. Et moi, ma très Révérende mère, [j’appuie cette demande] vous conjurant d’obtenir, pour toute notre Communauté du St-Enfant Jésus, par l’intercession de la Bienheureuse Épouse la Sœur Marguerite du très Saint-Sacrement, toutes les grâces dont nous avons plus de besoin, notamment la vertu d’humilité, de simplicité, d’obéissance, de douceur et de charité, et en un mot toutes les autres qui nous sont les plus nécessaires et à toute notre Communauté. Je vous supplie aussi, ma très Révérende mère, de nous offrir souvent à cette âme bienheureuse, et de nous accorder la grâce que nous ayons part à vos saintes prières et à celles de votre sainte Communauté. Voici un de nos meilleurs amis qui sera bien aise d’avoir l’honneur de vous saluer et de vous entendre un peu parler sur les merveilles qui s’opèrent tous les jours par l’intercession et sur le tombeau de notre très chère et très honorée mère la bienheureuse Sœur Marguerite du très


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St-Sacrement. Je vous supplie aussi, ma très Révérende mère, de lui donner tous les éclaircissements afin que nous puissions avoir, par votre moyen, des Indulgences pour notre maison et Chapelle qui est dédiée à la Ste Enfance de Notre Seigneur. Je vous supplie, ma très Révérende mère, de nous accorder cette grâce; et, s’il y a moyen, de nous donner, pour l’amour de l’amour, quelque sainte relique de notre très honorée mère; nous avons la consolation d’avoir ici un des Enfant-Jésus qu’elle honorait chaque jour [et] que la Révérende mère Prieure qui était en ce temps-là chez vous a bien voulu donner à feu Mr Roland, théologal de cette ville, lequel était le fondateur de notre maison. Et ainsi, il nous l’a donné, ce que nous estimons plus que je ne puis jamais vous dire. J’espère bien, ma très Révérende mère, que vous n’aurez pas moins de bonté pour nous, et qu’ainsi vous nous ferez la grâce de nous envoyer quelque chose de la bienheureuse et très honorée Sr Marguerite du très St-Sacrement. Toute notre Communauté, quoique inconnue de la vôtre, prend la liberté de la saluer très humblement et de la supplier qu’elle ait part dans ses saintes prières, et qu’elle offre chaque jour au St-Enfant Jésus, par les mains de la bienheureuse Sr Marguerite, les cœurs de chacune en particulier, et surtout celui de celle qui est, avec un très profond respect, en l’amour de Notre Seigneur et de sa Sainte Mère, Madame Ma très Révérende Mère, Votre très humble, très soumise et très obéissante Servante Françoise Duval, Supérieure de la Communauté du St-Enfant Jésus. ________________________ Lettre de la prieure du Carmel de Reims à la prieure du Carmel de Beaune (lettre 1574, Livre VI, p. 2617; ACB vol. 39-6, f° 204) On notera simplement que la prieure appelle Françoise Duval: «cette bonne dame». Elle utilise donc le langage officiel: la Communauté du Saint Enfant-Jésus n’est pas une communauté religieuse. D’autre part, la lettre est datée du 20 janvier. Françoise Duval a donc écrit la sienne ensuite avec un important délai (ndr). + A la Révérende mère, la révérende mère prieure des Religieuses carmélites du couvent de Beaune à Beaune. Ihs + Ma. des carmélites de Reims, ce 20 janvier 1682 Ma révérende et très chère Mère, Très humble salut en Notre-Seigneur. Nous profitons de l’occasion d’un bon ecclésiastique qui, allant par dévotion visiter le tombeau de notre Bienheureuse Sœur Marguerite, a souhaité une de nos lettres pour avoir l’occasion de vous saluer. Ce nous en est une très favorable pour vous rendre mes devoirs et vous demander, ma très chère mère, la grâce de nous rendre participante de vos saintes prières et de celles de votre Sainte Communauté que nous saluons ici très humblement avec votre permission, étant bien aise de vous marquer l’estime que nous avons toujours eue de votre sainte maison en particulier pour votre chère personne que nous honorons parfaitement, soyez-en persuadée, je vous supplie, ma Révérende mère, et permettez-nous, Révérende mère, de vous supplier de vouloir faire bon accueil à ce bon Monsieur. C’est la supérieure de la Maison du Saint-Enfant Jésus qui nous a priée instamment de vous demander cette grâce avec celle de nous envoyer par lui la copie des indulgences que vous avez obtenues pour la confrérie de l’Enfant, dont cette bonne dame a besoin. Elle vous en supplie très humblement et de lui donner part à vos saintes prières et à celles de votre sainte Communauté. Elle vous en sera infiniment obligée et nous pareillement. Si nous


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osions, nous vous demanderions aussi quelque relique de la Bienheureuse Sœur Marguerite du saint-Sacrement. Ce sera un surcroît d’obligation que nous aurons à votre bonté, ma Révérende mère, vous suppliant de plus de nous favoriser d’une petite prière devant le saint enfant Jésus pendant ce saint temps. Je suis en lui avec respect, Ma Révérende et très chère mère, Votre très humble et très obéissante Sœur et servante Sœur Magdeleine Thérèse de Saint Joseph, Rse. Car. indigne. _______________________ Lettre de (?) Rogier à la prieure du Carmel de Beaune (lettre 1580, Livre VI, p. 2626; ACB vol. 39-9, f°231) A la Révérende, la très Révérende mère prieure des religieuses carmélites à Beaune. + Vive Jésus. A Reims, le 28 juin 1682. Ma très Révérende Mère, Vous voulez bien que j’aie l’honneur de vous écrire pour vous témoigner ma gratitude et la reconnaissance que je dois à votre charité à mon égard. Je vous suis bien obligé de m’avoir reçu avec tant de bonté: ce que vous m’avez fait la grâce de me donner de l’Incomparable Épouse du St Enfant, ne me réjouit pas peu, aussi bien que les Personnes à qui j’en ai fait part tant à Paris qu’à Reims: je vous en remercie très humblement et j’en fais toute l’estime possible. Je salue, avec votre permission, la Révérende Mère Thérèse et la remercie beaucoup de m’avoir entretenu avec tant de patience, et de m’avoir raconté les merveilles de cette grande Sainte que vous avez vue de vos yeux et que vous êtes encore si heureuses de posséder avec vous. Le voile de la Sainte, que vous m’avez fait la grâce de me mettre en mains pour le rapporter ici, a causé une grande joie à toute la communauté du St-Enfant Jésus, et le nouveau miracle dont la Supérieure vous parle dans sa lettre est assurément fort considérable. J’ai porté moi-même votre lettre au Révérend Père Carmagnole dès que je suis arrivé à Paris. L’application à Dieu que j’ai ressentie au tombeau de cette Sacrée amante de Jésus m’a laissé une envie d’y retourner, et je vous assure que j’ai quitté Beaune avec douleur. Je vous prie très humblement, et la Révérende Mère Thérèse, de la prier quelquefois pour ce pécheur qui est, avec toute sorte de respect, Ma très Révérende Mère, Votre très humble et très affectionné Serviteur Rogier.


RivLas 78 (2011) 4, 721-750

La formazione religiosa e culturale dei Fratelli delle Scuole Cristiane in Italia tra Sette e Ottocento. L’opera di Fratel Regolo MATTEO MENNINI

I

n un saggio recentemente pubblicato su «Rivista lasalliana», la figura e la portata storica di Frère Rieul, nato a Gap in Francia nel 1757 e morto a Roma nel 1838, sono state prese in considerazione attraverso uno studio complessivo della sua corrispondenza, come possibilità di indagine delle dinamiche e delle relazioni all’interno del gruppo dei Fratelli delle Scuole Cristiane di origine italiana nello Stato Pontificio1: incaricato dal Superiore Generale Frère Gerbaud alla fine del 1813 di ristabilire la regolarità nelle comunità religiose romane di Trinità dei Monti e San Salvatore in Lauro, Frère Rieul - che ormai da 25 anni in Italia veniva chiamato “Fratel Regolo” - avviò, non senza resistenze, un’intensa serie di interventi tesi alla normalizzazione di quello scenario che era stato sconvolto da questioni interne alle stesse comunità, prevalentemente per ragioni di tipo economico connesse alle condizioni di instabilità sociale del periodo di dominazione napoleonica a Roma. L’ incarico di Vicario del Superiore Generale, richiestogli direttamente dal cardinal vicario Giulio Della Somaglia subito dopo il rientro di Pio VII a Roma nel maggio

M. MENNINI, Contributo per una storia sociale della componente italiana dei Fratelli delle Scuole Cristiane negli anni della Restaurazione. La corrispondenza di Fratel Regolo fra il 1815 e il 1830, in «Rivista lasalliana», 78 (2011) 2, 323-350. Cfr. M. CHIARAPINI, Fratelli francesi ed italiani in Roma nella prima metà dell’Ottocento, in «Rivista lasalliana» 45 (1978) 3-4,165-189; M. LUPI, Religiosi francesi a Roma tra Rivoluzione e restaurazione: il caso dei Fratelli delle Scuole Cristiane, in Les échanges religieux entre l’Italie et la France (1760-1860). Regards croisés – Scambi religiosi tra Francia e Italia (1760-1850). Sguardi incrociati, textes réunis par F. MEYER ET S. MILBACH, Chambéry, Presses de l’Université de Savoie, 2010, pp. 145-174. 1


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del 1814, richiedeva una profonda conoscenza degli uomini a lui sottoposti e una consolidata capacità nella gestione dei rapporti esterni, in vista di un rilancio della stessa attività scolastica; Regolo corrispondeva a tale profilo, essendo stato dal 1795, in qualità di direttore del noviziato di Orvieto, il formatore della prima generazione di Fratelli italiani che, a partire dagli anni della Restaurazione, divenne protagonista della gestione delle istituzioni. A tale scopo Regolo si era dedicato, sin dai suoi primi anni in Italia, a mettere a disposizione dei religiosi diverse opere spirituali e catechistiche, traducendole dal francese o sintetizzando opere maggiori, come nel caso dei catechismi; dalle fonti consultate presso l’Archivio della Casa Generalizia dei Fratelli delle Scuole Cristiane2, e specialmente dalle lettere, emerge un impegno notevolissimo di Regolo per consentire alle comunità religiose un costante aggiornamento sulle tematiche della catechesi e della spiritualità, ma soprattutto per fornire ai Fratelli gli strumenti indispensabili al lavoro pastorale e didattico. Il significato di tale impegno, in un momento di grandi trasformazioni sociali e della mentalità, va ricercato in una duplice direzione: da una parte è necessario valutare la portata dell’attività di adattamento dei modelli formativi francesi che Regolo dovette realizzare, rintracciabile nelle iniziative che intraprese per la formazione delle comunità, nelle letture suggerite ai Fratelli e nella corrispondenza con i diversi Superiori Generali relativamente alle traduzioni delle opere più significative dell’Istituto; dall’altra, specialmente in rapporto alla produzione catechistica, va compreso e studiato il lavoro di sintesi che Regolo effettuò utilizzando quelle opere da lui stesso considerate indispensabili nella formazione della comunità religiosa. L’ipotesi di ricerca in questione riguarda il tentativo di approssimarsi alla mentalità e al profilo culturale del Fratello delle Scuole Cristiane in Italia nel periodo della Restaurazione, quando si verificò una rottura con il centro francese dell’Istituto3: l’opera di Fratel Regolo costituisce, a tale scopo, il punto di interesse principale a cui si rivolge il “questionario” che esprime la direzione della ricerca stessa4.

La traduzione in lingua italiana delle opere lasalliane Quali opere dell’Istituto i Fratelli italiani potevano leggere nella loro lingua? Quando iniziò la traduzione dei testi lasalliani dal francese? Con quale scadenza e ordine? Tra le fonti consultate il primo riferimento significativo che troviamo in ordine cronologico è in una lettera del Superiore Generale Frère Frumence, dell’8 gennaio 1810, che loda lo zelo di Regolo nel voler tradurre la vita del Fondatore, manifestando, allo stesso tempo, preoccupazione per le veglie notturne che tale attività com-

D’ora in avanti AMGFÉC (Archives Maison Généralice des Frères des Écoles Chrétiennes, Roma). M. LUPI, Religiosi francesi a Roma…., loc. cit. 4 Cfr. M. BLOCH, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino, 1998, pp. 51-52. 2 3


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portava, nocive per la sua salute; ma la reale motivazione di tanta apprensione da parte del Superiore pare piuttosto essere contenuta nella richiesta, con cui si chiude la stessa lettera, che i Fratelli italiani apprendessero la lingua francese, proprio perché, scrisse, “sottomessi all’impero”5. Ma col passare degli anni, strutturandosi la presenza dei Fratelli italiani nelle comunità, si fece sentire in modo pressante l’esigenza di poter disporre dei testi dell’Istituto più utili alla vita spirituale e alla gestione della scuola, non solo tradotti, ma stampati in lingua italiana: da una lettera del 3 maggio 1823 a Frère Guillaume, divenuto nel frattempo Superiore Generale, apprendiamo che, in tal senso, esisteva un permesso accordato dal suo predecessore Frère Gerbaud a Regolo e di cui quest’ultimo chiedeva conferma al neoeletto6. Nella lettera successiva, del 12 novembre 1823, poco posteriore all’elezione al soglio pontificio di Leone XII, per far comprendere meglio al suo interlocutore Frère Guillaume l’entità della richiesta, Regolo scrisse: La buona memoria del V. Fr. Gerbaud mi aveva dato licenza, o permesso, di fare stampare in lingua italiana i libri della nostra Congregazione; e chiamato da Dio agli eterni gaudi, pregai Lei suo successore, di volermela confermare: mi diede per risposta, che quanto a’ libri scolastici mi dava licenza di stamparli, ma degli altri si poteva far di meno con copiarli manoscritti. Ora io le pongo in considerazione, ch’è una gran vergogna, che da tanto tempo che stiamo in Italia, i libri dell’Istituto non siano stati ancora stampati in q[uesto] idioma, neppur la Regola, la Raccolta de’ nostri Obblighi, la Condotta […] metodo delle scuole. Le persone sensate ne fanno le meraviglie. La [prego] dunque di volermi confermare la già data permissione del prelodato fr. Gerbaud, procurerò di trovare de’ Benefattori per supplire alla spesa, senza che la Casa ne patisca7.

La richiesta di Regolo non trovò risposta e venne replicata ben due volte durante l’anno successivo8, contestualmente agli incontri avuti con Leone XII per l’apertura di una scuola a Spoleto, momento che significò una svolta nell’affidamento agli italiani non solo della gestione di singole case, ma anche dei rapporti con la Santa Sede, come effettivamente avvenne con Fratel Paolo che a partire da quel momento svolse l’ufficio di Procuratore. L’11 febbraio 1829, a distanza di cinque anni, Regolo ancora ricordava al Superiore Generale l’esistenza di un permesso accordato da Gerbaud9: si intuisce dalla lettera successiva, del 16 maggio, che finalmente Guillaume rispose, vietando, tuttavia, la stampa delle opere che Regolo aveva da poco finito di tradurre10. Non conoscendo direttamente la risposta di Guillaume, non è possibile risalire alle motivazio-

“Brouillons de lettres, cah. n° 5” 1810, in AMGFÉC, EE 273, d.18. Lettera di Fr. Regolo a Fr. Guillaume, Roma 3 maggio 1823, in AMGFÉC, ND 106/1, d.5. 7 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Guillaume, Roma 12 nov. 1823, in AMGFÉC, ND 106/1, d.5. 8 «J’attends aussi la permission de faire imprimer nos Livres en italien que m’avait déjà accordée le vén. frère Gerbaud» (lettera di Fr. Regolo a Fr. Guillaume, Roma, 6 giugno 1824 [copia dattiloscritta], in AMGFÉC, ND 106/1, d.5). Le stesse parole anche nella lettera del 23 settembre 1824 (ibidem). 9 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Guillaume, Roma 11 febbr. 1829, in AMGFÉC, ND 106/1, d.5. 10 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Guillaume, Roma 16 maggio 1829, in AMGFÉC, ND 106/1, d.5. 5 6


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ni specifiche che lo portarono a ignorare per sei anni tale esigenza che gli giungeva periodicamente da Roma; allo stesso tempo non si è confortati da nessun elemento chiaro che possa indicare dove sorgesse la difficoltà di avallare tale progetto improntato alla maturazione dei religiosi italiani, di cui lui stesso Guillaume, è bene ricordarlo, nel periodo tra il 1804 e il 1813, era stato diretto responsabile in qualità di Vicario nello Stato Pontificio. Un quanto mai immediato tentativo di interpretazione suggerisce, come risposta, l’ipotesi di una pressione di conformità esercitata dal centro francese dell’Istituto su qualsiasi velleità di autonomia, tanto più se non appartenente alla sua area geografica e quindi fuori dal suo diretto controllo; va in questa direzione lo svolgersi stesso delle relazioni tra le due componenti e la difficoltà di coniugare stili di vita e abitudini divergenti, fino allo scontro che sarebbe avvenuto con i Fratelli francesi che a partire dal 1828 formeranno una comunità al Rione Monti. Nonostante tutto, Regolo non smise di perseguire il fine per cui si era impegnato e portò a termine l’opera di traduzione in lingua italiana delle principali opere dell’Istituto, informando puntualmente il Superiore Generale riguardo lo stato d’avanzamento del suo lavoro, la cui scansione cronologica, pertanto, è ricostruibile grazie alle sue lettere. Il 13 dicembre 1828 informò Guillaume che nell’estate precedente aveva tradotto le «Lettere istruttive» di Frère Agathon11 e che da circa un mese aveva iniziato la «Vita» di Frère Barthélemy e il compendio sui primi Fratelli, dopo aver quasi terminato la «Vita» del Fondatore scritta dal Blain; la priorità per Regolo era quella di offrire ai Fratelli italiani un’idea complessiva riguardo la nascita dell’Istituto: Alors sera finie la traduction des deux tomes in 4° de la grand Vie. Après quoi s’il plaira à Dieu je traduirai la petite in 12 que vous nous avez envoyée. L’année dernière je traduisis la fin du second tome depuis la dernière maladie de notre cher Père, jusqu’à la fin du livre, pour donner une idée à nos frères Italiens de ce qui est arrivé depuis la mort de notre Vén. Fondateur jusqu’à nos jours touchant notre Institut. Pour pouvoir faire quelque chose je me lève le matin une heure avant que je sonne la cloche. Je vois par expérience que cela ne nuit point à ma santé; au contraire je suis plus robuste que jamais. Notre confesseur me l’a permis, je vous prie de vouloir bien l’approuver aussi12.

Nella lettera dell’11 febbraio successivo informò Guillaume di aver portato a termine la «Vita» di La Salle composta da Blain13 e di accingersi a iniziare il Metodo di Orazione e una breve vita del Fondatore, un’opera che il Superiore Generale aveva

La traduzione, in forma manoscritta, è tuttora conservata in AMGFÉC, CK 576, d.10 col seguente titolo: Lettere istruttive del Venerabile Fratello Agatone Superior Generale de’ fratelli [sic] delle Scuole Cristiane (Melun 1 gennaio 1785). 12 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Guillaume, Roma 13 dicembre 1828, in AMGFÉC, ND 106/1, d.5. 13 Compendio della Vita del Pio Servo di Dio Giovanni Battista della Salle Canonico della Metropolitana di Reims e Istitutore de’ fratelli delle Scuole Cristiane. Tradotto dal francese, in AMGFÉC, BC 202/2, d.2. L’originale (J. B. BLAIN, La vie de M. J.-B. De La Salle Instituteur des Frères des Ecoles Chrétiennes, Rouen 1733) in CL, 7-8. 11


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inviato anche a Roma e a cui faceva riferimento lo stesso Regolo nella lettera precedente con l’espressione «la petite in 12». Un documento importante per avere un quadro completo delle traduzioni effettuate è la prima lettera che il Vicario scrisse al neo eletto Superiore Frère Anaclet, il 16 dicembre 183014, informandolo, prima di tutto, che da circa tre settimane si attendeva l’approvazione del Maestro del Sacro Palazzo per poter stampare il libro delle Preghiere e la «Raccolta», le uniche due opere per cui era stata avanzata una formale ed esplicita richiesta a Guillaume, un anno prima15. Nella lettera ad Anaclet, Regolo affermò di aver tradotto la Regola, la Raccolta, la Conduite16, le «Dodici Virtù del buon maestro», le «Lettere Istruttive» le due biografie del Fondatore e quelle dei primi Fratelli, le «Sentenze», le Meditazioni per il tempo di ritiro17, i Decreti dei Capitoli Generali del 1777 e del 1810, le circolari di Frère Agathon e di Frère Gerbaud18 e la Regola del Direttore19, mentre aveva iniziato la traduzione della Regola del Governo («j’en suis au 13° Chapitre»20). Dopo sei mesi mise mano ai Devoirs, l’opera catechistica di La Salle21, con l’ausilio di Fratel Sebastiano dato che i suoi incalzanti problemi di salute gli rendevano difficoltosa la scrittura: in realtà quest’opera era l’unica già in circolazione in lingua italiana, stampata nel 1797 per la traduzione dell’abate Gaetano Tanursi22, un’edizione che Regolo conosceva e che riteneva mal fatta a causa del suo linguaggio aulico e poco fruibile23. L’ultima informazione in ordine cronologico riguardante le traduzioni si ricava da una lettera a Fratel Paolo dell’aprile del 1835, una testimonianza dell’impe-

Lettera di Fr. Regolo a Fr. Anaclet, Roma 16 dic. 1830, in AMGFÉC, ND 106/1, d.5. Nella lettera dell’11 febbraio 1829 si chiede di poter ristampare le Preghiere della comunità e in quella del 16 maggio dello stesso anno Regolo sostiene che stampare le Recueil sia indispensabile (entrambi in AMGFÉC, ND 106/1, d.5). 16 La Conduite era stata tradotta da Regolo nel 1805 ad Orvieto dove circolava in forma manoscritta. Vedi S. SCAGLIONE, Un manoscritto inedito della traduzione italiana della Conduite des écoles, in RivLas 64 (1997) 1, 23-31. 17 Meditazioni per gli Esercizi Spirituali che fanno i fratelli delle Scuole Cristiane durante le vacanze, composte dal Ven. Servo di Dio D. Giovanni Battista della Salle, Sacerdote, ed Istitutore della medesima società. Tradotte dal francese, in AMGFÉC, CK 576, d.9. Il dossier comprende anche le Meditazioni per li tre ultimi giorni dell’Anno. 18 AMGFÉC, CK 576, d.9. L’ultima è del 13 maggio 1816. 19 Regola del fratello Direttore d’una Casa dell’Istituto, in AMGFÉC, CK 576, d.9. 20 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Anaclet, Roma 16 dic. 1830, in AMGFÉC, ND 106/1, d.5. 21 La traduzione in italiano, stampata nella tipografia di Santa Maria degli Angeli nel 1842, è conservata in AMGFÉC, BL 607. In AMGFÉC, ND 106/4, d.10 è conservato un manoscritto, non integro, iniziato da Regolo e terminato da un’altra mano il 25 settembre 1850 con la traduzione della terza parte dei Devoirs. 22 De’ Doveri di un cristiano verso Iddio e de’ mezzi di poter ben adempirli, opera del sacerdote Gian Battista de La Salle, Dottore di Teologia, Canon. di Reims ed Istitutore de’ Fratelli delle Scuole Cristiane, tradotta dal francese dall’abate Gaetano Tanursi, Patrizio della Città di Ripatransone e di Campli, Roma 1797 (AMGFÉC, BL 607). 23 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Anaclet, Roma 18 giugno 1831, in AMGFÉC, ND 106/1, d.5. 14 15


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gno profuso da Regolo sui testi lasalliani nel periodo conclusivo della sua vita: Sento che ogni giorno divento più vecchio, che le gambe crescono di peso, che quando si tratta di salire, mi assalisce l’affanno; e questi sono tanti segni forieri della morte che tacitamente m’intimano che mi prepari alla partenza. Debbo ringraziare Iddio d’avermi conservata la vista per la quale posso occuparmi nel tradurre e trascrivere i nostri libri dal francese. Ho tradotto la Regola del Governo, le Meditazioni del nostro Ven. fondatore per tutte le Domeniche e feste dell’Anno, le lettere Circolari de’ nostri Superiori Generali e adesso traduco il libretto d’Istruzioni circa la S. Messa, la Confessione e la S.ma Comunione24.

La figura di La Salle nel progetto formativo di Regolo Le ragioni che spinsero Regolo a cimentarsi in un’opera così complessa e a sostenerla anche negli ultimi anni quando, risiedendo presso la comunità “francese” di Madonna dei Monti, aveva diminuito i contatti istituzionali con i Fratelli italiani, si possono ricavare dall’introduzione che lui stesso aggiunse alla traduzione italiana della biografia di La Salle composta dal canonico Blain: Ad istanza di alcuni de’ nostri carissimi Confratelli mi sono indotto ad estrarre questo Compendio della Vita del nostro Venerabile Istitutore e Patriarca, Giovanni Battista della Salle, dalla Vita Grande in due tomi in 4°, stampata in Rouen nel 1733. Da essa ho cavato fedelmente quello che principalmente alla Storia le s’appartiene, lasciando da banda le lunghe e prolisse digressioni, contentandomi di pigliare soltanto alcune sentenze più dottrinali, dove l’ho giudicato opportuno, per istruzione de’ giovani. Di molta buona voglia ho intrapresa questa fatica, principalmente per procurare a’ nostri Novizi, e giovani fratelli Italiani che ignorano l’idioma francese, il mezzo di esser informati mediante la lettura di questo Compendio della Vita del loro glorioso Istitutore e Padre. Non dubbito [sic] punto che in leggendo una Vita così edificante e fregiata delle più eroiche virtù, non ne restino infervorati, e vieppiù incoraggiati a dedicarsi generosamente alla bell’Opera dell’Educazione cristiana e civile della povera gioventù. Allorché leggeranno quei nobili e molteplici sacrifici che convenne fare al loro santo fondatore per condurre a perfezione l’Opera addossatagli da Dio; le grandi violenze ch’ei fece a se stesso per accingersi a sì ardua impresa; l’invitta sua costanza nel proseguirla a fronte delle più fiere persecuzioni, e non mai interrotte contraddizioni ch’egli ebbe da sostenere contro l’inferno, e il mondo tutto contro di lui congiurati per mandare in rovina il suo nascente Istituto. Non dubbito punto, torno a dire, che ne restino molto edificati, ed insieme avvalorati dalla di Lui costanza a proseguire generosamente la carriera incominciata della vita religiosa, se fisseranno gli occhi al valore e bravura del Capitano sotto le cui bandiere hanno intrapreso di militare dato loro da Dio per uno de’ più compiti modelli di santità da doversi imitare25.

Che i Fratelli italiani leggessero nella propria lingua la vita di Jean-Baptiste de La Salle, per Regolo significava una duplice strategia: da una parte motivarli a svolge-

Lettera di Fr. Regolo a Fr. Paolo, Roma 27 aprile 1835, in AMGFÉC, ND 106/1, d.15. Le opere citate nella lettera, fatta eccezione per la “Regola del Governo” di cui non si è trovata traccia, sono tutte presenti nell’Archivio: la traduzione delle Meditazioni per le Domeniche e le Feste è in AMGFÉC, ND 106/4, d.10; ND 106/6, d.1, mentre le “Istruzioni per la confessione” in AMGFÉC, ND 106/4, d.4. 25 Compendio della Vita... 24


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re l’attività educativa in favore dei poveri, dall’altra incentivare la perseveranza dei religiosi più giovani offrendo modelli significativi; sta di fatto che Regolo operò una selezione dei brani, tralasciando le “digressioni” di Blain, come lui stesso le chiama, e favorendo un’esposizione dei fatti volta a mettere in luce come l’Istituto delle Scuole Cristiane fosse sopravvissuto alle “persecuzioni” che il suo Fondatore dovette sopportare. Era in gioco dunque, nel progetto formativo approntato da Regolo, la promozione di un profilo ben determinato del religioso lasalliano nel suo rapporto con la Chiesa e la società: una completa analisi storica di questo dinamismo non può prescindere dalla ricostruzione dell’iter di ridefinizione dello statuto del Fratello delle Scuole Cristiane percorso dall’Istituto in Francia prima della Rivoluzione, sotto il generalato di Frère Agathon, negli stessi anni, cioè, in cui Regolo ricevette la sua formazione e in cui vennero composte opere di notevole rilevanza per la continuità del progetto di La Salle. In tal senso è da chiedersi se fosse una semplice coincidenza che le prime opere tradotte da Regolo in lingua italiana, insieme alla biografia del Blain, furono quelle composte in francese nel periodo pre-rivoluzionario, quali le Lettere istruttive o la riedizione della Conduite. Per rimontare alle fonti del progetto formativo messo a punto da Regolo nello Stato Pontificio e per delineare i caratteri principali della visione di religioso lasalliano da lui stesso promossa, è opportuno risalire al Capitolo Generale del 1777, che dedicò gran parte dei suoi lavori all’organizzazione del noviziato, analizzando e definendo le caratteristiche per valutare l’idoneità di un candidato alla vita religiosa26: quella stessa organizzazione, presumibilmente, entrò in vigore esattamente con l’ingresso di Regolo al noviziato nel 177927. Vi troviamo preziosi indicatori che ci permettono di accedere al progetto che caratterizzò la formazione di Regolo: colpisce innanzitutto l’accento posto sulle qualità umane che consentono al novizio di integrarsi nella vita comunitaria in modo equilibrato, doti caratteriali ritenute indispensabili per apprendere gli elementi fondamentali della vita religiosa, ovvero, quegli adempimenti interiori che sono la premessa della perseveranza. Pochi anni dopo (1784-1785) Frère Agathon, Superiore Generale, indirizzò ai Fratelli tre circolari, conosciute come Lettere istruttive28: Regolo non solo decise di tradurle insieme ai testi principali dell’Istituto, ma ordinò che le comunità le leggessero due volte l’anno29. Nelle intenzioni del Superiore Generale, le prime due Lettere assumevano un carattere apologetico dell’Istituto, a fronte delle accuse ricevute in

26 Capitoli Generali…, pp. 31-34. Già il Capitolo Generale convocato a Saint-Yon nel 1761, si era occupato della selezione da mettere in atto nei riguardi dei Fratelli che richiedevano di essere ammessi alla professione religiosa, sottolineando l’importanza della loro istruzione catechistica (Ibidem, pp. 24-25). 27 M. MENNINI, Contributo per una storia sociale dei Fratelli..., cit., pp. 326-327. 28 Gli originali sono conservati in AMGFÉC, CD 260. 29 L’indicazione è contenuta in una lettera di Fr. Regolo a Fr. Anaclet, spedita da Roma il 16 dicembre 1830 (in AMGFÉC, ND 106/1, d.5).


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Francia dai “signori” della Sorbona i quali, nel 1777, avevano dichiarato che i Fratelli, emettendo solamente voti semplici, non potessero considerarsi una congregazione religiosa a tutti gli effetti30; Agathon ne approfittò sia per rispondere alle accuse giunte dall’esterno, sia per ammonire i Fratelli relativamente ad alcune tendenze che rischiavano di compromettere la regolarità del progetto lasalliano. Le prime due lettere presentavano una riflessione dettagliata sui cinque voti previsti dalla Bolla di approvazione dell’Istituto del 1726, specificando le differenze a seconda dell’entità del vincolo, se temporaneo o perpetuo, ed evidenziando la peculiarità del ruolo giocato dalle motivazioni individuali come garanzia di solidità dell’Istituto. La terza circolare, del febbraio 1785, meglio conosciuta come Dodici virtù del buon maestro, fu l’occasione per ampliare un testo di La Salle e offrire una visione pedagogica della missione del Fratello, che integrasse a pieno non solo la funzione didattica, ma anche quella religiosa. Dopo pochi anni un altro documento dell’Istituto tornò sul problema del profilo del Fratello delle Scuole Cristiane, analizzando le cause che determinavano le uscite dall’Istituto: si tratta di un manoscritto intitolato Idées sur les causes de désertion de nos jeunes Frères et sur les moyens de les prévenir; du moins en partie, firmato da Frère Paschal, assistente del Superiore Generale, il 6 giugno 1785, indirizzato al direttore del noviziato di Saint-Yon, Frère Prudence31. Questo documento ci consente di comprendere più a fondo il contesto in cui si formò Regolo e la visione che nel periodo pre-rivoluzionario andava maturandosi nell’Istituto riguardo al rapporto tra la vita religiosa e la società: i casi analizzati da Paschal sono molteplici, si va dai Fratelli che desideravano fare ingresso in comunità per avere un tenore di vita migliore rispetto a quello della propria famiglia, fino a coloro che, pur mostrando maturità e buone intenzioni, non ricevevano adeguato sostegno dal proprio Direttore. L’analisi delle cause di “diserzione” lascia poi il passo alle proposte in merito alla formazione dei novizi, di cui colpisce l’assenza di riferimenti sistematici a La Salle, proposto come modello da imitare, ma sostituito sia nel linguaggio adottato che nell’elaborazione teologica e spirituale da altre fonti a cui non è semplice risalire, ma che certamente hanno a che fare con la tradizione gesuitica, testimoniando una decisa attenzione culturale, ponendo un forte accento sul carattere dell’individuo e dando risalto a indicazioni ascetiche che valorizzavano la mortificazione personale32. Anche il Capitolo Generale del 1787 dovette recepire tale preoccupazione, se la prima decisione adottata fu la seguente: Si procederà con grande precauzione per non ammettere nell’Istituto se non coloro, i quali a una buona vocazione uniscano le doti necessarie al fine di esso, le disposizioni convenienti ad

H. BEDEL, Initiation à l’histoire de l’Institut des Frères des écoles chrétiennes, Rome, Maison généralice FÉC, 2002 (ET [Études lasalliennes], 6), pp. 158-159. 31 AMGFÉC, CF 359/22. 32 Idées sur le cause de la désertion… 30


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acquistar le attitudini di cui fossero privi, e un vero desiderio di correggersi di quei difetti che non si possono tollerare nella Società33.

L’opportunità di far risaltare questi aspetti risiede nella consonanza di idee che troviamo con lo stesso Regolo, preoccupato, da una parte, di offrire ai suoi novizi di Orvieto prima e ai Fratelli italiani poi, gli strumenti adatti a una formazione spirituale e culturale idonea per il compimento della loro missione; in seconda analisi, il continuo invito alla regolarità e al rispetto degli obblighi della Regola, segnala una notevole preoccupazione per l’uniformità delle pratiche e del vivere quotidiano. L’introduzione alla “Vita” scritta dal Blain, riportata più sopra, ci dà conferma che per Regolo proporre la figura di La Salle aveva come unico scopo quello di motivare i Fratelli, come lui stesso scriveva, a «proseguire generosamente la carriera incominciata della vita religiosa»; per il resto furono altri i testi ritenuti determinanti per la formazione delle comunità, fatte salve la Regola e la Conduite per la gestione delle scuole, e la vicenda relativa alla formazione catechistica costituisce un eccellente esempio.

I Fratelli e l’insegnamento catechistico nello Stato Pontificio Fin dalla sua fondazione, l’Istituto delle Scuole Cristiane considerò l’insegnamento del catechismo come un elemento irrinunciabile della propria missione educativa34: negli scritti di La Salle e nelle regole dell’Istituto il catechismo occupa un posto

Capitoli Generali…, p. 37. Nello stesso Capitolo l’istruzione catechistica dei giovani Fratelli venne elevata a condizione di ammissione alla professione perpetua: «I giovani Fratelli saranno obbligati, com’è prescritto nelle Regole comuni, a ripetere ogni giorno, dopo la santa Messa, la parte del catechismo loro assegnata dal Fratel Direttore, fino a tanto ch’egli giudichi che sia saputa sufficientemente. Essi non potranno scrivere né far di conto, ogni giorno, quando ne avranno ottenuto il permesso, se prima non abbiano soddisfatto a questa ripetizione, abbiano o no studiato il catechismo la sera innanzi. Impareranno da prima il catechismo della Diocesi, poi quello che sarà determinato dal Fratello Superiore per tutto l’Istituto. […] I giovani Fratelli saranno esaminati ogni trimestre dal Fratel Direttore o da qualche altro Fratello da lui a ciò destinato, davanti alla Comunità o ad alcuni dei principali Fratelli; verranno interrogati ogni volta sopra una parte differente del catechismo, e sopra le altre materie ch’essi devono studiare. Nessun Fratello verrà ammesso ai voti, se i Superiori non abbiano, su tal punto, giusti motivi di esser contenti di lui […]. Il fine dell’Istituto essendo l’educazione cristiana dei fanciulli, i Direttori devono vegliare, acciocchè [sic] tutti i Fratelli di cui sono incaricati, siano puntuali a fare il catechismo agli scolari, per tanto tempo e nella forma prescritta dalla Bolla di Benedetto XIII, dalle Regole comuni e dalla Norma delle Scuole, e affinchè [sic] siano in grado di bene adempire questo dovere principale» (Capitoli Generali…, pp. 37-38; vedi anche Ibidem, pp. 47-48). 34 Per una storia del catechismo nel periodo della fondazione dell’Istituto: P. BRAIDO, Lineamenti di storia della catechesi e dei catechismi: Dal “tempo delle riforme” all’età degli imperialismi (1450-1870), Leumann (To), 1991; J.-C. DHOTEL, Les origines du catéchisme moderne, d’après les premiers manuels imprimés en France, Paris, 1967. G. DI GIOVANNI, Leggere gli scritti catechistici lasalliani oggi, in J.-B. DE LA SALLE [Opere, 4], Roma, 2004, pp. 5-45. 33


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importante e sono innumerevoli i passaggi in cui vi si fa riferimento: il capitolo IX della Conduite35 presenta in maniera dettagliata le modalità in cui doveva essere insegnato il catechismo nelle Scuole Cristiane, sia in relazione alla frequenza degli alunni che alle indicazioni pedagogiche per il maestro, un quadro che verrà ripreso anche nella Regola, codificando la finalità stessa dell’Istituto36. La metodologia catechistica lasalliana si prefiggeva il superamento del carattere mnemonico dell’apprendimento nella comprensione, da parte degli alunni, dei contenuti insegnati, prediligendo dunque la spiegazione sintetica mediante lo schema a domanda-rispostasottorisposta, per permettere un maggiore approfondimento degli argomenti e garantendo una rigorosa disciplina nella gestione della classe37; ma ciò che per il contesto romano appariva come un elemento di discontinuità, era il divieto, esplicito nella tradizione lasalliana, di fare il catechismo in parrocchia nel giorno di domenica, prescrivendo, invece, che si facesse mezz’ora tutti i giorni38 a scuola39. La regola dell’Istituto prevedeva anche un tempo congruo per lo studio del catechismo da parte dei Fratelli40 che, se per la scuola adottavano il testo in vigore nella diocesi di appartenenza, nelle ore di studio usavano i Devoirs di La Salle e altri scritti minori41, dando spazio, probabilmente, anche a letture diversificate che all’epoca del Fonda-

35 SAINT JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE, Œuvres complètes, Roma, FEC (Études Lasalliens) 1993, pp. 638-644. D’ora in avanti: LASALLE OC. 36 «La fin de cet Institut est de donner une éducation chrétienne aux enfants, et c’est pour ce sujet qu’on y tient les écoles afin que les enfants y étant sous la conduite des maîtres depuis le matin jusqu’au soir, ces maîtres leur puissant apprendre à bien vivre en les instruisant des mystères de notre sainte religion en leur inspirant les maximes chrétiennes et ainsi leur donner l’éducation qui leur convient» (LASALLE OC, p. 3). Gli studi di fr. Michel Sauvage hanno messo in luce che già nel francese usato da Jean-Baptiste de La Salle, la parola “istruzione”, così come il verbo “istruire”, avevano una chiara connotazione religiosa (M. SAUVAGE, Catéchèse et Laïcat, Ligel, Paris 1962, p. 599). 37 «L’un de principaux soins que le maître doit avoir pendant le catéchisme, est de faire en sorte que tous les écoliers soient fort attentifs et qu’ils retiennent aisément tout ce qu’il leur dira. Pour cet effet, il aura toujours tous ses écoliers en vue, et veillera sur tout ce qu’ils feront. Il aura égard de beaucoup interroger et de parler fort peu; il ne parlera que sur la matière qui est proposée pour ce jour, et prendra garde de ne pas s’éloigner de son sujet. Il parlera toujours d’une manière et qui puisse inspirer du respect et de la retenue aux écoliers, et ne dira jamais rien de bas, ni qui puisse exciter à rire» (LASALLE OC, p. 640). 38 «On fera tous les jours le catéchisme pendant une demi-heure, depuis quatre heures jusqu’à quatre heures et demie; depuis le 15 novembre jusqu’au 15 janvier, on fera le catéchisme depuis trois heures et demie jusqu’à quatre. Les mercredi, veille des jours de congé, on fera le catéchisme pendant une heure, depuis trois heures et demie jusqu’à quatre et demie; et, en hiver, depuis trois heures jusqu’à quatre: une demi-heure sur l’abrégé, et une demi-heure sur le sujet marqué pour la semaine» (LASALLE OC, p. 638). 39 In una lettera del 12 maggio 1710 a Frère Gabriel Drolin, unico religioso lasalliano a Roma in quegli anni, La Salle scrive: «Sans doute qu’il faudrait faire tous les jours le catéchisme à vos écoliers» (LASALLE OC, p. 527). 40 «Après l’école, on étudiera le catéchisme» (LASALLE OC, p. 28). 41 J. PUNGIER, J.-B. de La Salle et le message de son catéchisme, Roma, 1982.


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tore riscuotevano successo, come il Catéchisme de Bourges di De La Chétardie e il Catéchisme de Montpellier, quest’ultimo proibito dal Capitolo Generale del 1745 che si occupò di aggiornare i libri in uso nelle comunità epurando i testi considerati giansenisti42. Per quanto riguarda i Fratelli italiani nel periodo successivo alla Restaurazione, il materiale documentario riguardante Regolo ci consente di stabilire uno spaccato del modo in cui veniva svolta la catechesi all’interno delle comunità lasalliane dello Stato Pontificio: in due lettere al Superiore Frère Gerbaud del 1814 emerge un panorama complesso e di difficile gestione rispetto all’obbligo di insegnare il catechismo in parrocchia nella città di Roma. Nella lettera del 7 settembre a Gerbaud, in cui Regolo enuclea le maggiori criticità incontrate a San Salvatore in Lauro, scuola voluta da Papa Braschi nel Rione Ponte, tra le ragioni per cui quella casa era ritenuta “più nociva che utile”, troviamo due motivazioni legate alla catechesi. Innanzitutto il fatto che due Fratelli ogni domenica dovessero recarsi in parrocchia per fare il catechismo ai bambini davanti alla gente, non solo era contrario alla tradizione dell’Istituto, ma esponeva i religiosi alle critiche del pubblico; altro inconveniente era costituito dalla “disputa” che si svolgeva abitualmente a Roma, per cui i bambini dovevano gareggiare in pubblico sulle domande del catechismo e colui che risultava vincitore riceveva l’appellativo di “imperatore”, mentre i restanti migliori classificati, quello di “principe”43: Regolo nella sua lettera racconta con ricchezza di particolari come avveniva la disputa, concludendo che i maestri erano costretti a far esercitare i ragazzi per molto tempo durante la scuola «et cela au préjudice de l’explication que nous devons faire du Catéchisme selon nos usages»44. Pochi mesi dopo, la situazione provocata dal disagio vissuto dai Fratelli che si recavano in parrocchia per il catechismo doveva essere peggiorata se Regolo scrisse al Superiore: «Nos chers frères ne vont plus faire le Catéchisme à la Paroisse, cela est tombé»45. Nelle altre diocesi dello Stato Pontificio non si verificavano le stesse condizioni e le comunità dei Fratelli erano più libere nell’insegnamento del catechismo; ne abbia-

«Tutte le case dell’Istituto si procureranno l’elenco dei libri giansenisti per poter conoscere i libri proibiti. Non si farà più uso nelle nostre case del Catechismo di Montpellier, scritto dal Colbert, perché infetto di proposizioni giansenistiche» (Capitoli Generali…, pp. 20-21). 43 F. PASCUCCI, La disputa della Dottrina Cristiana, Roma, tipografia Cuggiani, 1908; IDEM, L’insegnamento religioso in Roma dal Concilio di Trento a oggi, Roma, Scuola tipografica Pio X, 1938; G. FRANZA, Il catechismo a Roma e l’Arciconfraternita della Dottrina Cristiana, Alba, edizioni Paoline, 1958; S. RIVABENE, L’insegnamento catechistico dell’arciconfraternita della Dottrina Cristiana a Roma nei secc. XVI-XVIII, in «Archivio della Società Romana di storia patria» 105 (1982), pp. 295313; M. CATTO, Un “panopticon” catechistico. L’arciconfraternita della Dottrina Cristiana a Roma in età moderna, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003 (Biblioteca di storia sociale, 29); 44 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Roma 7 sett. 1814, in AMGFÉC, ND 106/1, d.4. 45 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Gerbaud, Roma 17 dic. 1814, in AMGFÉC, ND 106/1, d.4. 42


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mo prova da una lettera di Regolo al Superiore Frère Guillaume subito dopo l’inizio dell’attività scolastica a Spoleto nel 1824: Nous fesons ici comme en france [sic] et à Orvieto et Bolsena les jours de Dimanche et fêtes, les Ecoliers viennent le matin à l’école où après quoi ils entendent la S. Messe et l’après dîner ils viennent au Catéchisme, après quoi ils chantent Vêpres à la Chapelle46.

Testi catechistici e spirituali in uso nelle comunità lasalliane Come si è visto, la regola dell’Istituto indicava ai Fratelli l’uso del catechismo della diocesi di riferimento e, solo per la formazione all’interno della comunità, il Direttore avrebbe previsto un testo apposito. Relativamente alla città di Roma, il catechismo usato nelle scuole era il Bellarmino47, testo ufficiale dal 1598 e sul cui utilizzo vigilava l’Arciconfraternita della Dottrina Cristiana: durante il XVIII secolo, soprattutto a partire dalla pubblicazione della Etsi minime di Benedetto XIV nel 1742 che avallava la possibilità di usare catechismi diversi, si intensificarono i controlli da parte del Sant’Uffizio sui testi in circolazione48. Inoltre la concessione della privativa di stampa del Bellarmino all’Arciconfraternita traduceva una volontà politica ben precisa, quella cioè di un controllo sempre maggiore del testo e un restringimento della divulgazione di altri catechismi49: come ha messo in luce Michela Catto, la Dottrina del Bellarmino divenne la “matrice” teologica e testuale di ogni produzione, a tal punto da rendere effettiva la frase: «si censura secondo il Bellarmino»50. Il catechismo del gesuita aveva reso pubblico ed esteriore nella pratica ciò che a Tren-

Lettera di Fr. Regolo a Fr. Guillaume, Roma 18 dicembre 1824 [copia dattiloscritta], in AMGFÉC, ND 106/1, d.5. Solamente in un’occasione si è trovato riscontro dell’uso della tecnica della disputa: è in una lettera di Regolo a Paolo, scritta da Orvieto il 22 ottobre 1825 : «Il C[aro] Fr. Sebastiano Direttore di Spoleto, la prega di preparargli 50 uffizi; 50 Bellarmini; 100 Dottrinelle; 200 Abbecedari; due Risme di carta suga. Il Fr. Ignazio la prega parimente di provvederlo di una cartella di cartone forte di farvi incolare [sic] sopra un foglio di cartapecora, e sopra questa la carta della disputa della Dottrina Cristiana». In calce alla lettera, però, Regolo annotava: «P.S. La cartella della disputa la sospenda sino a nuovo ordine» (lettera di Fr. Regolo a Fr. Paolo, Orvieto 22 ottobre 1825, in AMGFÉC, ND 106/1, d.8). 47 Nella traduzione manoscritta della Conduite, Regolo apporta una modifica al testo originale relativamente al testo catechistico da usare nella rispettiva diocesi, scrivendo: «Il Bellarmino grande dove si impara a leggere correttamente» (S. SCAGLIONE, Un manoscritto inedito…). 48 M. LUPI, Per una storia sociale della religiosità a Roma. La catechesi parrocchiale negli ultimi anni dello Stato Pontificio, in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 55 (2001), pp. 59-108; IB., L’istruzione religiosa a Roma tra Settecento e Ottocento, in Il mestiere dello storico tra ricerca e impegno civile, Studi in memoria di Maria Cristina Giuntella, a cura di L. PROIETTI, Roma, Aracne editrice, 2009 (AII, 468), pp. 35-56. 49 Cfr. P. STELLA, I catechismi in Italia e in Francia nell’età moderna. Proliferazione tra analfabetismo e incredulità, in “Salesianum”, 49 (1987), pp. 303-322. 50 M. CATTO, op cit.. 46


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to fu oggetto di dibattito teologico e che il catechismo romano aveva codificato con un linguaggio spirituale51; il suo linguaggio schematico traduceva in modo deciso l’esigenza di imparare a memoria i contenuti principali, con la conseguente perdita del carattere familiare dell’istruzione cristiana52. Coerentemente con quanto delineato dalle regole dell’Istituto e in continuità con le esigenze emergenti a Roma, relativamente alla diversificazione dell’uso del catechismo, Regolo fece adottare il Bellarmino nelle Scuole Cristiane dello Stato Pontificio, ma utilizzò altre opere per la formazione dei Fratelli fino a realizzare un compendio che rispondesse all’esigenza di preparare la lezione di catechismo e fosse esauriente nell’esposizione. Dalle lettere di Regolo è possibile risalire alle liste dei libri destinati a far parte del patrimonio delle comunità: in più di un’occasione, scrivendo ai vescovi interessati a ospitare nella propria diocesi una scuola dei Fratelli, presentava l’elenco dei testi che avrebbero dovuto costituire la base della formazione spirituale dei religiosi. In un quaderno che raccoglie alcune minute di Regolo, troviamo una lettera del 27 ottobre 1819 al vescovo di Narni in cui indica i libri che l’eventuale comunità di Fratelli ospitata in quella diocesi avrebbe dovuto ricevere in dote53; fra questi, al di là delle opere classiche che appartenevano alla tradizione spirituale dei grandi autori, quali Francesco di Sales, i santi carmelitani, Alfonso Maria de’ Liguori, Ribadeneira, Rodríguez, Royaumont, Segneri, Martini e Luis de Granada, meritano attenzione alcuni testi specifici, improntati alla formazione sia spirituale che catechistica. Un libro citato diverse volte da Regolo è il Direttorio Ascetico del gesuita Giovanni Battista Scaramelli54, che tracciava un percorso spirituale per giungere alla perfezione cristiana offrendo indicazioni e materia di riflessione a chi aveva il compito della cura delle anime, attraverso una elaborata ed erudita analisi introspettiva. In ambito catechistico il testo sempre presente nelle liste di Regolo è il Compendio della dottrina cristiana di Boriglioni55 pubblicato per la prima volta a Roma nel

“Laddove il Catechismo Romano parlava di fede, di adorazione con pietà e santità di Dio, di servire Dio con il cuore, Bellarmino parlava di battesimo, di fede, di obbedienza al sovrano pontefice” (M. CATTO, Un panopticon…, p. 74). 52 Circa la messa in discussione del metodo mnemonico durante il XVIII secolo, cfr. P. STELLA, I catechismi…, pp. 318-319. 53 Lettera di Fr. Regolo al Vescovo di Narni, Roma 27 ottobre 1819, in AMGFÉC, ND 106/1, d.5. Un’altra lista è segnalata nella lettera di Fr. Regolo al Vescovo di Nocera (Roma, 30 maggio 1818 [copia dattiloscritta], in AMGFÉC, ND 106/1, d.4). 54 Direttorio Ascetico, in cui s’insegna il modo di condurre le Anime per le vie ordinarie della Grazie alla perfezione cristiana, indirizzato ai Direttori dell’Anime, opera del P. Gio. Batista Scaramelli, della Compagnia di Gesù, (2 vol.), Napoli 1759. 55 Compendio della Dottrina Cristiana con un compendiolo per li Figliuoli piccioli cavato da S. Tomaso [sic], dal Catechismo Romano, dal Card. Bellarmino, e dal Ven. P. Cesare De Bus Fondatore della Congregazione della Dottrina Cristiana, opera del Padre Giuseppe Domenico Boriglioni della Dottrina Cristiana, e Paroco [sic] di S. Nicola degl’Incoronati di Roma, Torino 1771. 51


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1717 e che avrebbe conosciuto notevole fortuna durante tutto il secolo. È difficile stabilire quale peso reale ebbero questi e altri testi nella vita delle comunità: a parte Regolo, di nessun altro Fratello dell’epoca ci sono giunti scritti in grado di documentare il livello di maturazione culturale in ambito religioso, pertanto risulta difficile valutare quanto le sue liste di libri corrispondessero a ciò che effettivamente veniva letto nelle comunità.

Le fonti del Compendio di Regolo: un’analisi delle tematiche teologiche L’Archivio della Casa Generalizia dei Fratelli delle Scuole Cristiane, nella sezione dedicata a Fratel Regolo, conserva diversi esemplari di catechismi, la maggior parte manoscritti, fra cui alcuni non di suo pugno56: in questa sede, pur tenendo in considerazione tutto il materiale documentario preso in visione, si presterà attenzione al Compendio di Dottrina Cristiana in forma di dialogo per uso de’ Religiosi Fratelli delle Scuole Cristiane composta dal Fratello Regolo membro della stessa congregazione (318 pp.), pubblicato nel 1834, tentando di rintracciare le fonti usate dall’autore, come testimonianza diretta del modo di intendere la catechesi e della comprensione dei vari temi. È Regolo stesso a lasciare traccia del suo progetto in una lettera al Superiore Generale Frère Anaclet nel 1830: J’ai composé un Catéchisme avec son Abrégé pour nos frères d’Italie, tiré et recueilli des meilleurs Catéchismes que j’aie pu trouver, comme Bellarmin, Turlot, Montpellier, Ferrari, Boriglioni, etc. Présentement je le rédige, et le recopie au net. Quand je l’aurai fini, si vous l’approuvez, nous le ferons imprimer. Nos chers frères le désirent beaucoup. Ils trouveront dans un seul livre ce qu’ils seraient obligés de chercher dans plusieurs sans le trouver. Ce Catéchisme comprend aussi tous les Mystères et les fêtes principales de l’année57.

Regolo sosteneva l’importanza del suo progetto indicando quelle che erano le opere usate dai Fratelli per la preparazione delle lezioni e giustificando l’esigenza che le comunità avessero a disposizione un libro che facilitasse loro lo studio, offrendo una sintesi completa. La struttura del suo Compendio è divisa in cinque parti: 1. Fede: 18 lezioni sul Credo, l’inferno e il purgatorio; 2. Speranza: 13 lezioni sul Padre Nostro e le preghiere agli angeli e ai santi; 3. Carità: 17 lezioni sui Comandamenti, i “precetti della santa Chiesa” e la grazia; 4. Sacramenti: 19 lezioni; 5. 10 lezioni sul peccato e i vizi capitali; 17 lezioni su virtù teologali, doni e frutti dello Spirito Santo, otto beatitudini, opere di misericordia corporali e spirituali, novissimi.

Ad un primo sguardo la struttura del Compendio di Regolo riprende quella della

In AMGFÉC, ND 106/4, d.4, un quaderno manoscritto contenente un catechismo per fanciulli, sulla copertina reca la scritta: “Tutti scritti della B. M. di f. Regolo ex Vic. Gen.le”. In AMGFÉC, ND 106/5 è conservato un catechismo delle Feste. 57 Lettera di Fr. Regolo a Fr. Anaclet, Roma 16 dic. 1830, in AMGFÈC, ND 106/1, d.5. 56


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Dottrina cristiana breve di Bellarmino58, anche se da un’analisi più attenta emerge una forte consonanza con la struttura del catechismo di Colbert da lui stesso tradotto in italiano, anch’esso diviso in 77 lezioni59, di cui si è già detto che era stato proibito dal Capitolo Generale del 174560; un discorso a parte meritano le lezioni introduttive, dipendenti da altri due catechismi, Il Tesoro della Dottrina Cristiana di Turlot61 e le Istruzioni di Ferreri62. Le vray Thresor de la Doctrine Chretienne di Nicolas Turlot, pubblicato in francese nel 1635, fu una delle fonti principali del Catechismo dei Misteri e delle Feste di La Salle (Devoirs III)63; presenta un impianto dall’evidente carattere pastorale64 dettato dall’esigenza di offrire ai pastori uno strumento per combattere l’ignoranza sia dottrinale che pratica e per contrastare il calvinismo presente nella Vallonia, come riflesso nel testo seguente65: D. Chi deve esser chiamato Cristiano, e Cattolico? R. Colui che battezzato professa la Fede di Gesucristo [sic] nella sua Chiesa, e detesta tutte le Sette, ed opinioni contrarie alla Fede cattolica. […] D. Dunque non sono Cristiani i Calvinisti, e simili Innovatori moderni? R. Certo che no, perché sono Eretici, e non professano la Dottrina di Cristo. E come non merita il nome di Platonico chi non segue la Dottrina di Platone, e di Teologo chi non professa la Teologia, così né anche merita di esser nominato Cristiano, chi non professa la Dottrina di Cristo.

La struttura del Turlot segue quella del Catechismo Romano, cioè: Fede (Credo) Speranza (Preghiera) - Carità (Comandamenti) - Sacramenti. Prima della vera e propria esposizione della Dottrina, Turlot presenta un piccolo trattato sul catechismo a cui fa seguire cinque lezioni introduttive sulla Trinità, sull’uomo, sul cristiano, sul segno di croce e sui frutti che da esso derivano. In Turlot il catechismo è un obbli-

Dottrina cristiana breve composta per ordine di N. S. Papa Clemente VIII, dall’eminentissimo Roberto Bellarmino della Compagnia di Gesù, Cardinale di S. Chiesa, Napoli, 1840. 59 Catechismo di Monsignor Vescovo di Montpellieri [sic], in AMGFÉC, ND 106/4, d.12. 60 Capitoli Generali…, pp. 20-21. 61 Il Tesoro della Dottrina Cristiana opera esimia di Monsignor Niccolò Turlot Dottore di Sacra Teologia, Prevosto, e Vicario Generale nella Chiesa Cattedrale di Namur, ec. Scritta già in latino, indi tradotta in francese, e poscia in italiano utilissima non solamente a’ Parrochi, ed altri Ecclesiastici, ma anche a qualunque Persona che desidera di apprendere con chiarezza ciò ch’è necessario per credere, e vivere Cristianamente, Venezia, 1772. 62 Istruzioni in forma di catechismo per la pratica della Dottrina Christiana spiegate nel Gesù di Palermo da Pietro Maria Ferreri Palermitano della Compagnia di Gesù, Venezia, 1798. 63 LA SALLE OC, pp. 1117-1222. Un’analisi comparativa in J. PUNGIER, Le Catéchisme des Mystères et des Fêtes de Jean-Baptiste de La Salle. Ses sources, son message. Première partie, Maison St JeanBaptiste de La Salle, Roma, 2007 (Cahiers Lasalliens 64). 64 A. ACERBI, Il decreto tridentino sulla giustificazione e la sua ricezione nei catechismi da Canisio a Deharbe, in M. MARCOCCHI (a cura di), Il Concilio di Trento. Istanze di riforma e aspetti dottrinali, Vita e Pensiero, Milano, 1997, pp. 45-116. Su Turlot, vedi le pp. 92-97. 65 Il Tesoro della Dottrina Cristiana…, p. 17. 58


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go che va compiuto con grande responsabilità66 da parte dei genitori nei confronti dei loro figli, dei padroni verso la servitù, dei maestri verso gli scolari, un obbligo promosso dai magistrati secolari tenuti a vigilare che le persone deputate assistano alla Dottrina cristiana, definita come la Dottrina più salutare, ed insieme la più nobile, e la più degna Scienza di tutte, perché sola insegna all’Uomo la maniera di giungere al conoscimento di Dio, e di se stesso.[..] E per scienza di Dio deve intendersi, non solamente una scienza speculativa, ma insieme pratica, congiunta col timore, e col culto, coll’ubbidienza, e coll’amore di Dio, qual è la [sic] contenuta nella Dottrina Cristiana67.

Come Paola Vismara ha evidenziato in un suo saggio68, durante il XVIII secolo, soprattutto grazie al Ferreri che rappresentò una rilettura attualizzata del Bellarmino, si venne accentuando il rapporto suddito-sovrano in parallelo a quello figliogenitore, offrendo una nuova chiave di interpretazione del quarto comandamento, la cui trattazione, sia in Ferreri che in Boriglioni, per citare i testi usati da Regolo, presentavano tale visione in modo netto. Pur mantenendo come matrice lo schema del Bellarmino, Regolo prese da Turlot e Ferreri la struttura introduttiva presentando, prima dell’esposizione degli articoli del Credo, il mistero della Trinità, lo statuto del cristiano e il segno di croce, contenuti delle prime due lezioni, su Dio e sull’Incarnazione. Regolo dichiara la peculiarità del suo catechismo fin dalla sua prima domanda69: D. Perché venite alla Scuola? R. Per imparare a diventar uomo dabbene, cioè buon Cristiano.

La risposta richiama quel senso di profonda consonanza, maturato nel XVII secolo, tra educazione alla fede e buone maniere, di cui già La Salle, come lo storico John Bossy ha messo in evidenza, fu un importante teorizzatore70. Nelle prime due lezioni del suo Compendio, Regolo sintetizza quello che in Turlot e Ferreri è un percorso teologico complesso, centrato sulla presentazione del fine dell’uomo, idea centrale nella spiritualità ignaziana e che il gesuita Ferreri enuclea con precisione71: D. Cosa dunque molto superiore all’Uomo deve essere il suo ultimo Fine; che possa renderlo sazio, e felice?

«D. Devono dunque i Fanciulli intervenire frequentemente al Catechismo? R. Così è. E se nol fanno di elezione, o di genio, vi devono essere spinti anche per forza» (Il Tesoro della Dottrina Cristiana …, p. 2). 67 Ibidem. 68 P. VISMARA CHIAPPA, Educazione religiosa e educazione “politica”. La funzione del catechismo nella Lombardia Settecentesca, in «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», 1 (1997), pp. 37-57. 69 Compendio della Dottrina Cristiana…, p. 9. 70 J. BOSSY, L’Occidente cristiano. 1400-1700, Torino, 2001, pp. 142-143; cfr. M. TURRINI, “Riformare il mondo…”, pp. 436-437. 71 Istruzioni in forma di catechismo…, p. 11. 66


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R. Tanto è. Dio, il Creatore del Tutto, Egli è il nostro ultimo Fine. Badate come ce lo dichiara il mio Gran Patriarca Sant’Ignazio nella Meditazione fondamentale de’ suoi ammirabili Esercizi. Creatus est Homo ad hunc finem, ut Dominum Deum suum laudet, ac revereatur, eique serviens tandem salvus fiat. L’uomo è stato creato da Dio a questo fine di lodare, onorare, e servire il suo Signore Dio, e così servendolo, conseguire il suo ultimo Fine che è l’Eterna Salute. Sicché il Fine dell’Uomo è questo: servire, ed amare Dio in questa vita, e poi goderlo eternamente nell’altra.

Nel Compendio di Regolo, invece, l’introduzione, molto sintetica e semplificata rispetto alle sue fonti, è centrata sull’importanza della Dottrina cristiana, condizione essenziale per giungere alla salvezza72: D. Come s’impara a diventar buon Cristiano? R. Colla Dottrina Cristiana. D. Che cosa è la Dottrina Cristiana? R. È un breve compendio di tutte quelle cose che Gesù Cristo ci ha insegnato per mostrarci la via della salute. D. Chi potendo, non impara la Dottrina, può forse esser buon Cristiano? R. No, perché nella Dottrina s’imparano i Misteri della Fede, ed il timor Santo di Dio, senza di che niuno può salvarsi.

Il catechismo di Regolo, come già evidenziato sulla base delle sue stesse dichiarazioni contenute nelle lettere, fu imperniato sulla Dottrina breve del Bellarmino; un confronto tra i due testi fu già realizzato da Anselmo Balocco, religioso lasalliano, che, senza apportare valutazioni storico-critiche, si limitò a registrare la confluenza dell’uno nell’altro, auspicando un ulteriore approfondimento delle altre fonti utilizzate dal Vicario73. È opportuno, tuttavia, riprendere quel filone, sia per analizzare il modo con cui Regolo fece confluire, nel suo, il testo del Bellarmino, sia per valutare la portata dell’uso delle altre fonti, specialmente il Compendio del Boriglioni. La Dottrina cristiana del Bellarmino si divide in quattro parti corrispondenti alle quattro classi del catechismo: 1. Fine del cristiano: Il Credo 2. Padre nostro e Ave Maria 3. I comandamenti: Precetti della Chiesa e Sacramenti 4. Virtù cardinali e teologali, doni dello Spirito Santo, opere di misericordia, peccati, Novissimi e Rosario.

L’incipit del testo di Bellarmino è integrato nel testo di Regolo dopo le prime domande sull’importanza del catechismo; la tabella che segue mette a confronto i due catechismi con una delle fonti principali di Regolo, il Boriglioni:

Compendio della Dottrina Cristiana…, p. 9. A. BALOCCO, La “Dottrina breve” del Bellarmino nel “Compendio” di Fratel Regolo, in RivLas 38 (1971) 1,32-44.

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Compendio di Fr. Regolo

Dottrina breve del Bellarmino

Compendio di Boriglioni

D. Siete voi cristiano? R. Sì, per grazia di Dio. D. Che vuol dire Cristiano? R. Quello che fa professione della Fede, e Legge di Cristo. D. In che consiste principalmente la Fede di Cristo? R. In due Misteri principali, che sono rinchiusi nel segno della S. Croce, cioè nell’Unità e Trinità di Dio, e nella Incarnazione e morte del nostro Salvatore. D. Che vuol dire Unità di Dio? R. Vuol dire che non v’è che un solo Dio. D. Che vuol [sic] Trinità di Dio? R. Vuol dire che in Dio vi sono tre persone distinte, Padre, Figliolo, e Spirito Santo.

M.* Siete voi cristiano? D.* Sono per grazia di Dio. M. Che vuol dire cristiano? D. Quello che fa professione della fede e legge di Cristo. M. In che consiste principalmente la fede di Cristo? D. In due misteri principali, che sono rinchiusi nel segno della santa croce, cioè nell’Unità e Trinità di Dio, e nell’incarnazione e morte del nostro Salvatore. M. Che vuol dire Unità e Trinità di Dio? D. Vuol dire, in Dio ci è una sola divinità, o vogliamo dire essenza e natura divina, la quale è in tre persone divine, che si domandano Padre, Figliolo, e Spirito Santo.

D. Siete voi Cristiano? R. Lo sono per grazia di Dio, che mi fece cristiano, per mezzo del santo battesimo. D. Qual è il segno del Cristiano? R. Il segno della Croce. D. Il segno della Croce come è il segno del Cristiano? R. Perché li soli Cristiani lo fanno per distinguersi da tutte le altre nazioni. D. Vi è lungo tempo che li Cristiani fanno il segno della Croce? R. L’hanno sempre fatto, fin dal principio della Chiesa.

* M=Maestro, D=Discepolo

Il confronto proposto dalla tabella apre la strada a una riflessione critica sul grado di comprensione presente in Regolo relativamente alle tematiche teologiche fondamentali per la Chiesa post-tridentina: l’esplicitazione del ruolo del Battesimo nella teologia della grazia, presente nella prima domanda di Boriglioni, apre una necessaria analisi sulla ricezione del concetto di “giustificazione” da parte dei catechismi in questione, in modo da guardare al testo di Regolo con un rinnovato punto di vista critico. Già in Turlot la dottrina della giustificazione, come Antonio Acerbi ha evidenziato74, fu presentata con chiarezza75: D. Perché voi chiamate la Fede un dono di Dio? R. Perché per averla nulla vi mettiamo del nostro, ma è mero e puro dono, che gratuitamente ci viene da Dio per nostra salute. […]

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A. ACERBI, Il decreto tridentino sulla giustificazione… Il Tesoro della Dottrina…, p. 22.


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D. Spiegatemi questo con qualche similitudine? R. Nella stessa maniera che Iddio creò da principio l’Uomo di niente, così lo rimette in istato di salute, qual è come un’altra creazione, col dono gratuito della Fede senza alcun merito dell’Uomo.

Ferreri, nelle sue Istruzioni, riprende il dettato di Turlot appena esposto e aggiunge76: D. Ci spieghi ora come questo puro Dono di Dio, della Fede abbia proprio uffizio d’illuminare, e sollevare la nostra mente? R. Perché il credere le cose, che la Fede ci propone, è un tal dono di Dio, a cui la Natura non può giugnere con le sue forze naturali; ma vi si richede tanto nel suo principio, quanto nella sua perfezione, un’ajuto [sic] potente della sua Grazia divina, che è un gran lume, dice san Pietro I. Epist. 2. 9. Qui de tenebris, vos vocavit in admirabile lumen suum, qual lume, e santa illustrazione rischiara l’intelletto a credere per vere le cose, che Dio ci rivela, e riscalda la volontà, movendola con una pia affezione, e inclinazione a voler credere, e acconsentire, a quanto egli ci ha rivelato. E siccome i nostri occhi senza la luce non possono scoprire, e vedere gli oggetti visibili; così il nostro intelletto senza il lume della Fede non può conoscere né Dio, né i suoi sovrani Misteri.

Ma mentre Turlot si preoccupò di ribadire la profonda diversità tra la fede giustificante attraverso la carità, da quella predicata dai riformatori77, Ferreri optò per un’esposizione della materia che metteva al centro l’autorità della Chiesa78, depositaria della Parola di Dio, nella linea stessa segnata dal Bellarmino. In Regolo la lezione sulla fede è ridotta ad alcuni brevi passaggi introduttivi alla recita del Simbolo degli Apostoli79: D. Perché la fede è la prima parte della Dottrina Cristiana? R. Perché la fede è il fondamento dell’eterna salute, e senza la fede è impossibile di piacere a Dio. D. Che cosa è dunque la Fede? R. È la prima delle Virtù Teologali, la quale fa che noi crediamo tutte le Verità che Dio ha rivelate alla S. Chiesa. D. Ove si riceve la Fede? R. Nel S. Battesimo.

È solamente qui che compare, per la prima volta nel suo testo, un accenno al Battesimo, mentre negli altri catechismi, come già visto in parte in Boriglioni, era entrato a far parte della trattazione fin dalla definizione stessa dell’uomo come cristiano, una condizione imprescindibile per l’accoglienza della fede in quanto dono e realtà teologale. Così Turlot80: D. Sete [sic] voi Cristiano?

Istruzioni in forma di catechismo…, p. 18. Il Tesoro della Dottrina…, p. 23. 78 Istruzioni in forma di catechismo…, p. 19. 79 Compendio di Dottrina Cristiana…, p. 20-21. 80 Il Tesoro della Dottrina…, p. 15. 76 77


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Matteo Mennini R. Son Cristiano per grazia di Dio. D. Perché dite per grazia di Dio? R. Perché la sola grazia di Dio mi ha chiamato a questa fortunata condizione di esser Cristiano. Matth. 13. D. In qual tempo la grazia di Dio chiama l’Uomo a questa felice sorte? R. Quando nell’acque del Santo Battesimo vien rigenerato a Cristo.

Diverso, ma di rilevante portata teologica, l’insegnamento del Ferreri a questo punto81: D. Vorrei sapere prima, che vuol dire Uomo Cristiano? R. Vuol dire quell’Uomo, che battezzato professa la vera Fede, e Legge di Gesucristo nella sua Chiesa, e detesta tutte le Sette contrarie alla Fede Cattolica82 D. Ma perché i soli Cristiani possono avere queste tre Virtù, Fede, Speranza, e Carità? R. Perché essi soli ricevono i Santi Sacramenti della Chiesa, co’ quali si ricevono, conservano, e s’accrescono queste Virtù. D. Con quale Sacramento si ricevono queste Divine Virtù? R. Si ricevono col santo Battesimo, che è la porta di tutti gli altri, e in cui l’Uomo diventa Cristiano, e cogli altri Sacramenti si conservano […] D. Qual è l’Amore, che ci ha mostrato, dandoci il Santo Battesimo? R. Perché, oltre all’averci liberato dall’Inferno, ci dà col Battesimo il Jus e l’investitura alla gloria del Cielo, Fine ultimo per cui fummo creati: Salvum me fecit, quoniam voluit me. Psalm. 17.10.

Seguendo lo stesso percorso, è opportuno verificare come Regolo recepì la teologia della redenzione per poi confrontare le sue lezioni sui sacramenti con quelle dei catechismi da lui usati. In tal senso l’accostamento al Compendio di Boriglioni consente di mettere in risalto una carenza di argomenti nel testo di Regolo relativamente al piano di redenzione operato da Dio nella storia della salvezza che ha in Cristo la sua massima e più compiuta espressione; Boriglioni, infatti, prepara l’argomento dedicando quattro lezioni ad Adamo che culminano nella trattazione del peccato originale e costituiscono il nucleo della sua dottrina sull’uomo. Una struttura simile è presente nel catechismo di Colbert che leggiamo nella traduzione manoscritta dello stesso Regolo, dove la serie delle lezioni si presenta nel seguente modo: «lezione n° 6: Creazione dell’uomo - lezione n° 7: Di Adamo ed Eva e del loro peccato - lezione n° 8: Punizione d’Adamo e d’Eva. Peccato originale - lezione n° 9: Promessa del Messia e necessità di sua venuta»83.

In Regolo non si fa menzione di Adamo fuori dal capitolo sul peccato originale e,

Istruzioni in forma di catechismo…, pp. 12-13. La frase è comunque presente in Turlot, sempre nello stesso capitolo: “D. Chi deve esser chiamato Cristiano, e Cattolico? R. Colui che battezzato professa la Fede di Gesucristo nella sua Chiesa, e detesta tutte le Sette, ed opinioni contrarie alla Fede Cattolica” (Il Tesoro della Dottrina…, p. 17). 83 Catechismo di Monsignor Vescovo di Montpellieri [sic], in AMGFÉC, ND 106/4, d.12. 81 82


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inoltre, l’insegnamento sul mistero dell’incarnazione, posto nella seconda lezione, prima dell’esposizione degli articoli del Credo, è ridotto a una mera successione di eventi cronologici e spiegazioni terminologiche. Un confronto con Boriglioni sulla domanda riguardo l’identità di Gesù ci aiuta a prendere atto della diversità degli impianti strutturali e contenutistici fra i due testi: Compendio (fratel Regolo) D. Che vuol dire Gesù? R. Vuol dire Salvatore, perché ci ha salvati dall’eterna dannazione.

Compendio (Boriglioni) D. Che vuol dire Gesù? R. Salvatore, e Redentore, perché è venuto a salvarci colla sua morte, e redimerci col suo preziosissimo Sangue.

Più evidente ancora quanto emerge dal confronto sui passaggi riguardanti la funzione redentrice della morte di Gesù, dimensione assente in Regolo, che invece preferisce dare spazio alla discesa nel Limbo secondo la versione del Bellarmino: Compendio (fratel Regolo) D. Come morì Gesù Cristo? R. Morì crocifisso in mezzo a due Ladroni. D. In che giorno morì? R. Il Venerdì Santo, tre ore dopo mezzodì. D. Gesù Cristo patì come Dio, o come Uomo? R. Patì e morì come Uomo; perché come Dio non poteva né patire, né morire. D. Perché dunque diciam noi, che Dio ha patito, che Dio è morto? R. Perché patì nel corpo, e nell’Anima uniti alla Divinità. D. Ove fu seppellito? R. In un sepolcro nuovo. D. Dove andò l’anima di Gesù Cristo nel separarsi dal suo Corpo? R. Andò al Limbo de’ Santi Padri.

Compendio (Boriglioni) D. Come morì Gesù Cristo? R. In Croce, sul Monte Calvario in mezzo a due Ladri, alla presenza d’un Popolo infinito. D. Per chi morì? R. Per noi peccatori, spinto dall’infinito amore, che ci porta. D. Perché morì per noi? R. 1. Per portare la pena, che era dovuta alli nostri peccati. 2. Per riconciliarci col suo Eterno Padre. 3. Per liberarci dall’Inferno, e meritarci il Paradiso. D. La sua Divinità si separò dal corpo? R. Nò [sic]; l’anima si separò dal corpo, ma la Divinità stette, e starà sempre unita all’anima, ed al corpo; perché sono uniti assieme d’una maniera inseparabile.


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Nelle lezioni sul quarto e quinto articolo del Credo, Regolo, avendo sempre come base la Dottrina breve del Bellarmino, dedica una lezione introduttiva a integrare la serie degli eventi della vita di Gesù Cristo, non contemplati nell’elencazione del Simbolo degli Apostoli. Nella quarta lezione («Morì sotto Ponzio Pilato…»), alla domanda «Perché volle morire?», risponde: «Per liberarci dalla morte eterna», non facendo alcun accenno alla funzione redentrice della morte come liberazione dal peccato, mentre proprio questo tema aveva costituito un punto di notevole speculazione teologica in Turlot e Ferreri. Ne Il Tesoro della Dottrina Cristiana è sistematicamente ribadito il modo in cui il Battesimo opera nella remissione del peccato originale; è utile un confronto con il Compendio di Regolo:

Il Tesoro della Dottrina Cristiana (Turlot) D. In qual maniera si ottiene la remissione del peccato originale? R. […] si rimette per lo Battesimo. D. Dichiaratemelo, se vi piace, più diffusamente. R. La natura umana non avea forze, né vi era rimedio alcuno efficace per cancellare questo peccato, se Gesucristo non vi metteva la mano, e non ci riconciliava col suo Eterno Padre a prezzo del suo Sangue, col quale si fece nostra Giustizia, nostra Santificazione, e Redenzione, mediante i suoi meriti, che ci vengono applicati per mezzo del Battesimo, conferito indifferentemente, sì agli adulti, che a’ bambini, perché nella forma solita della Chiesa, la sua efficacia viene immediatamente da’ meriti di Gesucristo […] D. Nascono forse tutti gli Uomini nel Peccato originale? R. Tutti gli uomini, che discendono da Adamo per umana generazione, nascono e contraggono il Peccato originale. D. Perché dite voi: per umana generazione? R. Per eccettuarne Gesucristo, nostro Salvatore, che fu conceputo [sic] per opera dello Spirito Santo. […] D. Quali sono i mali, che ci provengono dal Peccato originale?

Compendio (fratel Regolo) D. Questo come ci viene cancellato? R. Col Santo Battesimo, e però chi muore senza Battesimo, và al Limbo, ed è privo in perpetuo della gloria del Paradiso.

D. Perché dite per umana generazione? R. Per eccettuarne G. C. che fu conceputo [sic] di Spirito santo, e Maria Santissima che ne fu preservata. D. Quali mali cagionò il peccato originale?


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Il Tesoro della Dottrina Cristiana (Turlot) R. Due: gli uni sono temporali, e per questa vita: altri eterni, per l’altra vita. D. Quali sono i mali temporali per questa vita? R. Il principale si è di privarci della giustizia originale […] un dono soprannaturale, che Dio aveva conceduto al primo nostro Padre Adamo, ed a’ suoi poteri, pel quale la parte inferiore dell’uomo restava soggetta, ed ubbidiente alla superiore, e la superiore a Dio, dal che nasceva una perfetta armonia di buon governo. […] D. E per l’altra vita, che mali incontrò per lo suo peccato? R. Incorse nell’ira di Dio, e nel reato dell’eterna morte. Restò sottoposto al potere del Demonio, che da quel punto s’investì della giurisdizione della morte. Grandissimi finalmente furono i dannii che Adamo patì, e nell’Anima, e nel corpo pel suo peccato. […] D. Dunque i Figliuoli di Adamo, eziandio bambini, debbono dopo la morte portar la pena del peccato del loro primo Padre? R. Senza dubbio. Se non sono rigenerati a Cristo per lo Battesimo, nascono figliuoli d’ira, ed incorrono l’eterna dannazione. […] D. Per qual ragione restano questi tali soggetti all’eterna dannazione? R. Perché non hanno (mediante il Battesimo) ricevuto la grazia di Gesucristo, senza la quale non si può entrare in Cielo. […] D. Se il Battesimo toglie da noi il peccato originale, perché non toglie insieme i suoi effetti, cioè a dire la privazione della Giustizia originale, le malattie, la morte? R. […] se con tutto ciò restano ne’ Battezzati il fomite della concupiscenza, e le altre miserie di questa vita, che sono l’infelice famiglia, e l’equipaggio del peccato originale, non vi restano che per esercizio della nostra virtù, con la quale virilmente combattendo, e con l’aiuto della Divina Grazia, che mai non manca, otterremo la vittoria de’ nostri nemici, e dipoi l’eterna corona.

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Compendio (fratel Regolo) R. Due principali: temporali, ed eterni. D. Quali sono i temporali? R. L’Ignoranza, la ribellione delle passioni, la perdita della grazia, un’infinità di mali durante la vita, e poi la morte del corpo.

D. Quali sono i mali eterni? R. Cadde sotto la tirannia del Demonio, perdette il Paradiso, e si meritò l’Inferno.

D. Dunque tutti anche i Bambini devono portare questa pena? R. Sì, se non vengono rigenerati a G. C. nel Battesimo. D. Perché i Bambini devono portar questa pena? R. Perché nascono da un padre prevaricatore. D. Se il Battesimo cancella il peccato originale, perché non toglie ancora la pena? R. Dio ha voluto che restasse la pena per esercizio della virtù.


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In quest’ultima risposta Turlot riprende il dettato del Concilio di Trento per cui l’uomo giustificato per la fede non è solo rigenerato interiormente, ma tutta la sua vicenda storica si pone sotto l’egida della grazia: ne consegue una visione della speranza come coscienza della fragilità, ma una coscienza illuminata dalla fede nella misericordia divina, che l’uomo incontra nella preghiera, soprattutto nel “Padre Nostro”, e fa l’esperienza di una vita nuova. Sul tema dell’orazione è utile un confronto tra il Compendio di Regolo e quello del Boriglioni84: nel capitolo IV della II parte del suo catechismo, dedicata alla virtù della speranza, Boriglioni presenta un insegnamento sulla qualità della preghiera, condensata in una domanda che in Regolo ritorna due volte a breve distanza: Compendio (Boriglioni) D. Come dobbiamo pregare per essere esauditi? R. Con fervore, umiltà, confidenza, e perseveranza.

Compendio (fratel Regolo) D. Come si deve dunque pregare per essere esaudito? R. Si deve pregare con rispetto, attenzione, e divozione, pensando che si parla a Dio85. […] D. Come dobbiamo noi pregare se vogliamo essere esauditi? R. Dobbiamo pregare in nome di G.C. con umiltà, attenzione, fiducia, e perseveranza86.

Segue, in ambedue i testi, una dissertazione sulle distrazioni volontarie e le modalità che il fedele deve mettere in atto per contrastarle durante la preghiera; in Regolo si tratta di una domanda-risposta, in Boriglioni di un capitolo intero: mentre quest’ultimo si preoccupa di indicare delle modalità di vincere le distrazioni volontarie, con un attento lavoro su se stessi (lettura, distacco interiore, desiderio di beni spirituali, frequentazione di occasioni religiose), Regolo si limita a sancire una situazione di peccato: D. Le orazioni fatte con distrazioni volontarie, senz’attenzione giovano? R. Nò [sic], e se fossero preghiere d’obbligo si peccherebbe.

“È un testo catechistico che presta particolare attenzione a districare ogni atteggiamento esteriore del cristiano con una dettagliata descrizione degli atti interiori. Ad esempio nella descrizione della preghiera si sofferma a descrivere le illusioni dell’orazione, i casi di aridità e gli ostacoli interiori alla sua pratica» (M. CATTO, Un panopticon catechistico…, p.256n). 85 Compendio…, p. 69. 86 Compendio…, p. 71. 84


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Un’ultima analisi, per completare la riflessione sulla ricezione in Regolo della sostanza dottrinale della teologia della giustificazione per la fede, presente nei catechismi che lui stesso usò come fonte per il suo Compendio, e che costituì l’elemento cardine della predicazione e della catechesi post-tridentina, specialmente nella definizione dell’identità del cristiano, confrontiamo la sua lezione introduttiva sui sacramenti, con i testi finora presi in considerazione. La parte del catechismo relativa ai sacramenti pone al centro la questione della grazia e della capacità umana di farne esperienza: Ferreri e Turlot, in questo senso, avvertono l’esigenza di rimontare al dettato conciliare in merito:

Il Tesoro (Turlot)

Istruzioni (Ferreri)

D. Per qual ragione si dee trattare de’ Sacramenti nel Catechismo? R. Perché questa è dottrina necessaria, ed utilissima a’ Cristiani. Imperocchè sono i sacramenti, come certi segni mistici, o strumenti instituiti da Dio, affinchè col loro mezzo ottenghiamo la Fede, la Speranza e la Carità, delle quali si è trattato finora, e per conservare, e per accrescere la Grazia, e la giustizia acquistataci per li meriti di Gesucristo, e per ricuperarla se l’avessimo perduta: Per quae omnis vera justitia vel incipit, vel coepta augetur, vel amissa reparatur: dice il Sacro Concilio di Trento.

[…] col loro mezzo otteniamo la Fede, la Speranza e la Carità, che sono le Virtù necessarie per salvarci; perché, come dice il Sacro Concilio di Trento, i Sacramenti sono le sorgenti, e i Canali della Grazia; né può esserci Virtù, e santificazione, se non per mezzo de’ Sacramenti. Imperocchè per essi s’acquista la Grazia, per essi si accresce, e per essi si torna a recuperare, se mai per nostra colpa l’abbiamo perduta.

L’insegnamento di Regolo sui sacramenti sviluppa lungamente quella che in Bellarmino, invece, è una breve trattazione alla fine della sua terza parte («De’ comandamenti di Dio»), limitata a descrivere gli effetti prodotti da ciascuno87: il Compendio di Regolo dedica all’argomento l’intero quarto capitolo, inglobando il dettato del Bellarmino sugli effetti dei sacramenti, eccezion fatta per due di essi:

87

Dottrina cristiana breve…, pp. 19-20.


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- la penitenza Dottrina breve (Bellarmino)

Compendio (Regolo)

M. Che effetto fa la penitenza? D. Rimette i peccati commessi dopo il battesimo, e fa ritornare all’amicizia di Dio quello che pel peccato gli era diventato nemico. M. Che bisogna fare per ricevere questo sacramento? D. Bisogna prima aver dolore de’ suoi peccati, con proposito di non commetterli mai più. Bisogna poi confessarli tutti al sacerdote approvato da’ superiori, ed in ultimo bisogna fare la penitenza, che dal sacerdote gli sarà imposta.

D. Che cosa è il sacramento della Penitenza? R. È un Sacramento istituito da G. C. per rimettere i peccati commessi dopo il Battesimo88, e far ritornare all’Amicizia di Dio, quello che per il peccato, gli era diventato nemico. D. Quante cose ci vogliono per far bene la confessione? R. Cinque. Primo. Esaminar bene la propria coscienza. Secondo. Pentirsi d’aver offeso Dio. Terzo. Fare un proponimento fermo di non mai più offenderlo. Quarto. Dichiarare tutt’i suoi peccati al confessore. Quinto. Far la penitenza imposta dal Sacerdote. D. Quali sono gli effetti di questo Sacramento? R. Sono tre principali. Primo. Rimette i peccati attuali commessi dopo il Battesimo quanto alla colpa; e muta la pena eterna in pena temporale. Secondo. Restituisce all’Anima la grazia santificante e fa rivivere il merito delle buone opere fatte prima di peccare. Terzo. Conforta l’Anima nel fare il bene, e resistere al male.

- l’ordine sacro Dottrina breve (Bellarmino)

Compendio (Regolo)

M. Che effetto fa il sacramento dell’ordine? D. Dà potestà e grazia ai sacerdoti, ed agli altri ministri della chiesa di poter fare bene gli offici loro.

D. Quali effetti produce questo Sacramento? R. Sono tre principali. Primo. Dà potestà di esercitare le funzioni dipendenti dell’Ordine ricevuto. Secondo. Dà la grazia di esercitarle degnamente, ed accrescere la grazia santificante. Terzo. Imprime nell’Anima il Carattere indelebile di Ministro di G.C.

Regolo riprende alla lettera le parole delle Istruzioni del Ferreri: “D. E il Sagramento della Penitenza, che cosa è? R. È un Sagramento istituito da Gesucristo S. N. per rimettere i peccati commessi dopo il Battesimo” (p. 247).

88


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Gli ultimi due esempi, ma soprattutto quello relativo al sacramento della penitenza, ci indicano come Regolo, pur non adottando in modo uniforme il Bellarmino, non recepì, dalle altre fonti che utilizzò, il linguaggio elaborato dalla teologia post-tridentina rispetto al tema fondamentale della giustificazione che, sdoganato dalla posizione periferica in cui si trovava confinato nella speculazione scolastica, acquistò centralità con la Riforma e il Concilio di Trento costituendo lo spazio del dibattito teologico e controversistico sullo statuto dell’esistenza cristiana. Il Tesoro (Turlot)

Istruzioni (Ferreri)

Compendio (Boriglioni)

D. Qual è dunque il fine principale di questo Sacramento? R. La giustificazione del peccatore battezzato, la risurrezione spirituale, e la sua riconciliazione con Dio. […] D. Datemi la Diffinizione del Sacramento della Penitenza. R. È’ un Sacramento, in cui il Sacerdote dona l’assoluzione di tutte le colpe a colui che l’avrà interamente confessate e detestate. Trid, sess.14 c.I. can. I. & sess.6. c. 14.

D. Passi ora a spiegarci, in che cosa consista il Sagramento della Penitenza. R. Il Sacro Concilio di Trento, sess. 14. cap. 5. dice, ch’è un Sagramento, in cui il Sacerdote, come ministro di Gesucristo, sente i peccati, ed assolve da essi coloro, che l’averanno interamente confessati, e si sono di essi veramente pentiti. Sicché v’intervengono due persone; Penitente, e Confessore; e queste due Persone somministrano tutte le parti, le quali formano questo Sagramento.

D. Che cosa è la Penitenza? R. E’ un Sacramento, nel quale il Sacerdote come ministro di Gesù Cristo, dona l’assoluzione de’ peccati a quelli, che fanno una buona Confessione.

Nei catechismi post-tridentini, la riflessione sulla grazia, come già visto, si veniva costruendo fin dalla domanda “Chi è il cristiano?”, la cui risposta, implicitamente, si connetteva ad un’altra questione di vitale importanza non solo per la teologia, ma per la pastorale e la società cristiana: è la grazia divina o la libertà umana che giustifica l’uomo? La fede o le opere? I catechismi più importanti, che Regolo conobbe, utilizzò e fece utilizzare nelle comunità dei Fratelli che stavano dando vita, nello Stato Pontificio, alla componente italiana dell’Istituto delle Scuole Cristiane, non erano stati il risultato di un tentativo di chiarificazione dottrinale, ma rappresentavano lo sforzo di definire e argomentare l’autenticità dell’essere cristiano89, una sfida posta dai Riformatori e accolta, da Trento in poi, dalla Chiesa cattolica. 89

A. ACERBI, Il decreto tridentino sulla giustificazione…, pp. 48-56.


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Ne offre ulteriore esempio l’insegnamento relativo alla grazia che troviamo nel catechismo di Montpellier, nella traduzione dello stesso Regolo90: D. Possiamo noi colle nostre proprie forze menar sulla terra una vita santa e cristiana? R. No, abbiamo bisogno per far questo dell’aiuto di Dio e della sua grazia. D. Qual grazia è necessaria per vivere santamente? R. Una grazia che illumini la mente e che tocchi il cuore. D. Possiamo meritare questa grazia colle nostre proprie forze? R. No. Noi non possiamo giammai meritare la prima grazia che Dio ci fa per cavarci dal peccato, ma corrispondendovi possiamo meritarne delle altre.

Conclusione Una valutazione conclusiva sulla produzione catechistica di Fratel Regolo deve tenere in considerazione due aspetti che ci aiutano a tracciare una panoramica ancora più ampia riguardo i caratteri generali della formazione dei Fratelli italiani e delle esigenze a cui tale progetto intendeva offrire un’adeguata risposta: la finalità didascalica delle sue opere è indicatore di un pubblico non colto, per l’appunto quei religiosi che preparavano la lezione di catechismo nella scuola e che, come già visto in occasione della lettera del 7 settembre 1814 al Superiore Generale frère Gerbaud, soffrivano il disagio dell’esposizione al giudizio del pubblico in parrocchia, rivelando un livello mediocre di preparazione; in seconda analisi è opportuna una riflessione sul valore assunto dalla risposta che Regolo offrì a questa situazione attraverso la scelta dei contenuti catechistici, finalizzati alla pubblicazione del Compendio. Va sottolineata la finalità contingente ed immediata che si prefiggeva il Vicario con il suo catechismo, motivata, più che dal desiderio di speculazione teologica, dall’esigenza pratica di semplificare il lavoro dei Fratelli, certamente non avvezzi alla lettura di complessi trattati, nella preparazione delle lezioni. Tuttavia il metodo lasalliano, in quel frangente storico e nel contesto della città di Roma, costituiva una possibile risposta a quanto si veniva discutendo negli ambienti curiali intorno alla catechesi: l’inadeguatezza del sistema di istruzione e di apprendimento di cui parlava il parroco Gabrielli di San Tommaso in Parione, nel suo Parere sulla istruzione cristiana da darsi ai fanciulli e fanciulle del 1828, si riferiva, per l’appunto, ad una critica netta sia del metodo ridotto alla memorizzazione di domande e risposte, sia dell’inefficiente cadenza temporale delle lezioni, una volta a settimana, auspicando, quindi, un maggiore coordinamento delle istituzioni educative, la scuola in prima linea91.

90 91

Catechismo di Monsignor Vescovo di Montpellieri [sic], in AMGFÉC, ND 106/4, d.12. M. LUPI, Per una storia sociale della religiosità a Roma…, pp. 67-73.


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Il Compendio di Regolo, che abbiamo analizzato dal punto di vista della ricezione del linguaggio teologico maturato nell’elaborazione post-tridentina sull’idea di giustificazione, da cui dipende in gran parte la definizione dello statuto del cristiano, così come nei catechismi che lui stesso usò, si presenta all’attenzione dello storico come uno strumento di mediocre valore testuale e speculativo, sommario nell’esposizione dei temi e incapace di riproporre quell’ispirazione biblico-patristica adattata al linguaggio corrente che aveva caratterizzato gli autori dell’epoca precedente; così come appare inconsapevole, soprattutto nel confronto con Boriglioni e Ferreri, l’utilizzo della terminologia diffusa dall’enciclopedismo e dal sensismo e recepita dai catechismi settecenteschi che parlano, per esempio, di anima razionale, esistenza di Dio, rivelazione92. Il valore storico del Compendio di Regolo va ricercato in altra direzione, non nella produzione testuale e contenutistica, ma nel suo porsi come prima opera destinata ai Fratelli italiani dell’Istituto delle Scuole Cristiane, per l’espletamento del loro dovere di istruzione religiosa dei poveri: resta da chiedersi se e quanto Regolo fosse consapevole della scarsa cultura dei religiosi a lui sottoposti o se piuttosto la mediocre preparazione teologica fosse un limite avvertito da lui stesso in primis e a cui tentò di ovviare con una produzione manualistica di facile consumo e utilizzo.

92

P. STELLA, I catechismi in Italia e in Francia…, pp. 310-312.


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JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE Confronti con Cristo a cura di Secondino Scaglione, Gribaudi, Torino 1976, pp. 115 Una malattia del nostro tempo è l’«orfanità». Ci siamo gettati il passato alle spalle come un sacco di rifiuti. Il presente, e un po’ meno il futuro, ci assorbono completamente. Alla luce di tali considerazioni è nato questo libretto. Il La Salle non è una cariatide sfiatata sotto il peso dei secoli. Chi leggerà anche solo alcuni di questi brani si accorgerà di imbattersi non in uno scoglio che ostacola la navigazione ma in una grande isola che offre ogni tipo di rifornimento spirituale. I temi oggi giustamente più cari alla gioventù: la vita povera, la gioia, il senso della vera libertà, la preghiera, la testimonianza vissuta, sono i gangli del messaggio lasalliano (Pietro Gribaudi).

GILLES BEAUDET, FSC Itinerario spirituale sui passi di Giovanni Batt. de La Salle Città Nuova, Roma 2001, pp. 112 È dedicato a quanti desiderano condividere la gioia di sentire il La Salle padre spirituale e maestro di vita. Il metodo usato dall’autore è semplice quanto efficace. Parte da pensieri del Fondatore opportunamente scelti e ne ricava spunti di preghiera e di vita. Il libro dunque non è una trattazione sistematica della spiritualità lasalliana, ma si offre quale strumento per crescere come Lasalliani accogliendo la lezione del Fondatore vivente tra di noi con la sua parola calda e convincente.

La vocazione del Fratello delle scuole cristiane e le altre vocazioni lasalliane, opuscolo pp. 32 Il Fratello è un battezzato che, rispondendo ad una chiamata del Signore, si consacra al suo servizio mediante la professione dei voti religiosi. Guidato dallo Spirito rende esplicita la propria consacrazione battesimale impegnandosi a vivere, con pubblica professione, in un Istituto esclusivamente laicale, si impegna in una missione per la gloria di Dio, vivendo in una comunità che testimonia la presenza del Regno di Dio, che lo annuncia agli uomini; assume in forma comunitaria una missione educativa, nel servizio preferenziale ai bisognosi, come dispensatore della parola di Dio e come educatore cristiano delle nuove generazioni; fa della scuola uno strumento singolare di apostolato, anche se non esclusivo, per dare una risposta alle sfide educative del proprio tempo. Dal carisma del La Salle sono nate, nel corso del tempo, altre vocazioni alla vita consacrata: l’Unione Catechisti di Gesù Crocifisso e di Maria Immacolata (Italia), le Hermanas Guadalupanas de La Salle (Messico), le Soeurs Lasalliennes (Vietnam) e le Servantes lasalliennes de Jésus (Haiti). ••• Informazioni e ordinazioni: 06.32294503 – gabriele.pomatto@gmail.com


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Profili di Educatori lasalliani

Giovanni Maria Ronco (Fratel Giocondo) una vita spesa per e con i giovani MARCO PAOLANTONIO

Un gemellaggio virtuale Chi lavora con e per i giovani ha ovviamente scelto di spendere la propria esistenza con e per loro. La differenza fra gli operatori sta nell’intensità, nella direzione e nella coerenza delle energie spese. In questo, fatte salve dimensioni e notorietà dei gruppi giovanili che seppero animare, fr. Giocondo può essere accostato a don Giussani1. Leggiamo alcune espressioni che, a parte considerazioni formali (un discorso colloquiale il primo, un trattato il secondo), paiono intercambiabili. 1. Tu, come tanti tuoi compagni, sei buono per te, ma la tua bontà non fa proseliti, non si espande, non sente il bisogno di irradiare attorno raggi luminosi e caldi, mancanza di spirito d’apostolato: bontà non cattolica. Ebbene, le organizzazioni giovanili cattoliche son fatte per foggiare anche questo lato del prisma che si chiama spirito cristiano, son fatte per colmare questa lacuna della tua educazione.2 2. Il cammino educativo è anche una capacità di compagnia o di condivisione: sentire dentro di sé il problema dell’altro nella sua concretezza, non applicarvi semplicemente una teoria. Una compagnia implica l’attività dell’altro, una compagnia vera fa lavorare il ragazzo, lo coinvolge creativamente nell’impresa della sua umanità e attivamente nell’impresa della storia.3

Con buone probabilità don Giussani non conobbe l’attività e, forse, il pensiero di fr. Giocondo. Questi morì nel 1951; don Giussani diede vita al movimento Comunione e liberazione a partire dal 1954. 2 Fr. Giocondo, Ai miei giovani del Liceo. Tenue ricordo sgorgato dal cuore nella serena e fiduciosa visione del vostro avvenire. Manoscritto litografato. Collegio S. Giuseppe, Torino 1933, p. 123-124. Si tratta di “qualcuno dei molti pensieri , consigli, ammaestramenti che vi ho dato con quell’amore che Dio mi aveva messo nel cuore per voi”, p. 2. Verranno riproposti nell’edizione di Fa (sic) questo e vivrai, 1936, p.159, e nelle tre successive. 3 Luigi Giussani, Il rischio educativo, Sei, Torino 1995, p. 93. 1


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Marco Paolantonio

Le due proposte di vita hanno in comune la radicale chiamata missionaria del cristiano impegnato, che sa coniugare i principi con la vita vissuta e si fa lievito che fermenta l’impasto. Fr. Giocondo parla ai suoi giovani di un’Azione cattolica tradizionale nell’organizzazione; don Giussani a quelli che aderiscono al suo movimento, innovativo sotto tanti aspetti, del mondo giovanile cattolico. L’incontro, virtuale in un’accezione stretta, è in realtà sostanziale, perché si basa sulla stessa scelta di vita: spendersi per i giovani e con loro, senza riserve.

Frammenti di vita A distanza di sessant’anni dalla scomparsa di fr. Giocondo non è agevole ricomporre i tasselli di un’esistenza che sopravvive nel ricordo (reverente ma inevitabilmente datato) di chi lo conobbe; non ha avuto, infatti, chi ne elencasse con ordine, illustrandoli, i principali avvenimenti biografici. Più facile ricostruirne personalità e carisma educativo con l’aiuto delle pagine (queste sì ancora attuali) che ci ha lasciato. Nessun apporto, invece, dalla corrispondenza, purtroppo andata dispersa. 15 settembre 1889: Giovanni Maria Ronco nasce a Biella. Rimasto orfano di padre, a quattro anni è ospite dell’ospizio del Vernato diretto dai Fratelli in quella città. A tredici entra nel loro ‘piccolo noviziato’di Grugliasco. Nel 1907 consegue la ‘patente’ per l’insegnamento nel corso elementare. Veste l’abito religioso nel settembre del 1908, assumendo il nome di fr. Giocondo di Maria. A Grugliasco insegna fino al 1913, quando è trasferito al Collegio S. Giuseppe di Torino. Allo scoppio della Guerra mondiale è chiamato alle armi4. Presterà servizio militare, anche in prima linea, dal maggio 1916 all’agosto 1919. Congedato, riprende l’insegnamento al S. Giuseppe mentre frequenta l’università statale. Laureatosi al Magistero in filosofia e pedagogia nel 1927 con una tesi su sant’Agostino, è incaricato dell’insegnamento nella Scuola tecnica (il livello di studi allora più elevato) del Collegio, di cui sarà vice-preside fino al 1935. Dopo tale data vi si dedica all’insegnamento nelle classi liceali. Nel 1929 aveva fondato al S. Giuseppe il Circolo Contardo Ferrini, federato alla Società della Gioventù Cattolica Italiana, di cui divenne, nel 1939, Consultore regionale e nazionale. Muore a Torino l’8 giugno 1951. Alle scarne notizie biografiche è possibile però aggiungere, con i contributi di confratelli5, ‘ferrinia-

Fino al primo Concordato (1929) i Fratelli prestavano regolare servizio militare. Il contributo maggiore venne da fr. Carlo Sebastiano (Carlo Ferraris), che nel 1951 scrisse 35 pagine In memoria di fr. Giocondo di Maria (prof. Ronco Giovanni Maria), poi tradotte e pubblicate nelle Notices nécrologiques dell’Istituto FSC (1951, n. 231, pp. 118-133). Ricchi di contributi Il Fratel Gicocondo ‘Fratello’, di fr. Leone di Maria e In ricordo di fr. Giocondo, di A. Morgando, pubblicati entrambi su Vita sociale, 1961, n. 49, 20-23. La seconda testimonianza fu ripubblicata (Vita sociale 1986, n. 131/44, 75-78) con il titolo Fratel Giocondo 35 anni dopo. 4 5


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ni’6, ex-allievi ed estimatori7, elementi che permettono di offrire un ologramma della personalità di fr.G. nelle dimensioni caratteriale, culturale e spirituale. Non sarà facile sfuggire alle insidie dell’aneddotica, ma non ci si è sentiti di escluderla del tutto, fidando nel buonsenso critico di chi legge. • La personalità - Nell’Aggiunta al mio testamento spirituale fr. G. ammetteva: Ho amato molto e fortemente. Ma non ho saputo dimostrarlo con esteriori segni; anzi, la mia fisionomia e il mio tratto furono piuttosto atti ad allontanare che avvicinarmi le persone. Perciò non fui sempre compreso, ma non ne faccio colpa ad alcuno e chiedo a tutti umili scuse. Il giudizio di chi lo conobbe concorda, ma solo in parte. Scrisse don Barra: C’era in lui soprattutto l’amore per i giovani, amore non fatto di tenerezze (ché rude lo fu un po’ sempre8) ma di comprensione, di fiducia, di studio delle singole personalità, dei gusti, delle abitudini: per cui spesso preveniva, aiutava, suggeriva, indovinava stati d’animo talora tragici, più spesso confusi e turbati.[…] Molti si chiedevano come un uomo così austero potesse trovare tanti amici fra i giovani. Ma essi lo amarono proprio per questo: perché trovavano in lui un educatore ‘vivo’ con tutti i suoi difetti ed i suoi pregi. Ai giovani non importa nulla che un uomo dal temperamento focoso batta un pugno sulla cattedra, se poi con lo stesso calore si preoccupa di un loro tormento spirituale e non ha pace fin quando il momento difficile non è superato. Con lui i problemi non si potevano eludere, né si poteva nascondere ciò che c’era nel profondo del cuore. Sia che ti affrontasse con una battuta di spirito, sia che a bruciapelo ti sbattesse là una domanda o che ti camminasse di fianco in silenzio con le mani dietro la schiena, capivi che con lui c’era poco da fare. Voleva penetrare nel tuo segreto non per violarlo, ma per aiutarti a capire te stesso, a ritrovare la tua strada9.

Primo e meno accomodante giudice di se stesso, nel Testamento spirituale scrisse: Ho lavorato, ma a sbalzi. La troppa facilità di riuscire in varie cose, mi ha conservato superficiale. Raccomando ai giovani l’approfondimento, la specializzazione, la costanza. Mi sono sfibrato nell’insegnamento profano e religioso, ma forse più per temperamento che per zelo. Però, per non essere insincero, devo dire che ho sempre rettificato le mie intenzioni. Come si è accennato, la prima guerra mondiale gli riservò esperienze durissime10,

Così designava affettuosamente i membri dell’Associazione, che lo ricordarono su Vita sociale: con gli articoli: Fratel Giocondo (1952, 12, 42-46); AC ’Contardo Ferrini’. (1965, 63, 50); Nel decennale della morte di Fr. Giocondo: riedizione di scritti spirituali (RL 1961, 2-3, 205-226). 7 Renzo Pezzani, nell’introduzione al volumetto Fa’ questo e vivrai (1936); mons. Evasio Colli, vescovo di Parma, nell’introduzione al volumetto Medita, vol.I (1938); don Giovanni Barra, Ricordando Fratel Giocondo, l’uomo che educò generazioni (“Il nostro tempo”, 2/11/1961, 5). 8 In una lettera del 1920 un ex-convittore del San Giuseppe lamenta metodi e forme degli interventi del “prof. Giocondo”. 9 A. Morgando, nella testimonianza citata sopra. 10 Fu in prima linea per diversi mesi e - scrive fr. Sebastiano - si offerse volontario al posto di un padre di famiglia che rischiava la fucilazione per non aver accettato una missione pericolosa. In un’altra occasione redarguì un graduato che bestemmiava... Echi delle esperienze vissute sotto le armi si trova6


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che lasciarono profonde tracce nella vita successiva, soprattutto un quasi patologico timore del pericolo e del dolore fisico, della morte e delle sofferenze connesse. • L’artista - Fr. Giocondo fu anche un musicista. Eccellente. L’aneddotica al proposito sfiora e talvolta trascende l’iperbole11. Se ebbe un rammarico fu di non aver potuto frequentare il Conservatorio e d’essersi quindi fatto da sé, regolandosi secondo una tecnica acquisita spontaneamente ed un innato buongusto. Molte delle laudi e dei mottetti sacri da lui composti divennero popolarissime non solo nelle scuole lasalliane. I suoi impromptus all’organo, giudicati geniali, non poterono essere catturati da un registratore (che ancora non ne esistevano) né li trascrisse lui (che candidamente ammetteva di averli dimenticati non appena lasciava la tastiera). Musicista e anche tecnico musicale. Quando l’11 novembre del 1948 il m° Surbone del Conservatorio di Torino inaugurò nella parrocchia torinese di S. Rita da Cascia l’organo costruito dalla ditta Vegezzi-Bozzi di Centallo, azionò tasti e tastiere di uno strumento con 2300 canne progettato da fr. G.12 Con la freschezza espressiva che lo caratterizzava, fr. Leone di Maria tratteggiò così le doti musicali del confratello (con il quale condivise due decenni di vita al Collegio S. Giuseppe): Fu musicista dalla vena melodica fluida e spontanea quanto mai, quasi sempre per via d’improvvisazione. C’era una funzione in vista, il ricevimento ufficiale di un Superiore maggiore, una celebrazione religiosa?Fr. Giocondo veniva fuori, d’ordinario all’ultimo momento, col suo pezzo, di gusto sempre eletto, originale, melodioso quanto mai, anche se arricchito di sapiente armonizzazione. Mi sento ancora frugare nell’anima certi suoi mottetti (penso a un Domine non sum dignus, a un In Paradisum) che affidava all’esecuzione di un solista, contralto o soprano, in grado di sentirlo profondamente e di renderlo quindi con efficacia. Non gli sarebbe certo mancata la vena per lo scherzo musicale, per canti d’accademia, ma le ‘cantate’ che preparò per le solenni premiazioni del Collegio furono tutte di soggetto sacro, sul tipo dell’Oratorio. Il che proclama a chiare note come in Fratel Giocondo la religiosità del fratello dominasse completamente l’artista, così da non lasciarlo mai uscire dall’orto concluso della musica sacra, diventata per lui un’altra forma di apostolato.

no nel citato volumetto Tenue ricordo…; alle pp. 20-22, accennando alle inevitabili discussioni sulla religione, scrive: Tu sarai stuzzicato da’ tuoi compagni d’arme che ti avranno riconosciuto sincero e convinto, a dire il tuo parere. E tu fa capire loro: a) che il più delle volte le discussioni non nascono da amor del vero, ma dall’intento di voler ad ogni costo far trionfare il proprio punto di vista […]; b) che di religione non si discute saltando di palo in frasca, in pochi minuti, e che la verità di chi, apparentemente, riesce a superare l’avversario gridando di più […]; c) che, invece, se si cerca davvero la verità, è ai maestri di religione che si deve ricorrere e non al primo Tizio che si incontra, come non andresti ad interrogare il primo pizzicagnolo sui satelliti di Giove o sulla periodicità della cometa di Halley…. 11 Fr. Sebastiano racconta: Il grande maestro Toscanini all’esecuzione di un Oratorio di fr. Giocondo ebbe a dire ad un Superiore: - In quel giovanotto vedo più di un Perosi, perché non lo fate studiare?. Ed il Maestro Alfano si dichiarò disposto a rinunziare a tutta la musica composta nella sua nobile carriera pur d’avere il vanto d’una delle melodie uscite dal cuore di fratel Giocondo. 12 M. e C. Paolino, Il Santuario dedicato a Santa Rita in Torino, Tip. F.lli Scaravaglio & C., Torino 1998, p. 41.


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• L’insegnante - Tranne che per un paio d’anni a ridosso della laurea, in cui insegnò anche lettere e storia, fr. G. fu per antonomasia l’insegnante di filosofia. La sua metodologia e la sua didattica sono riassunte nei consigli che dava ai suoi giovani13: Se continuerai a occuparti di filosofia nella tua vita (e faresti bene) ricorda queste poche cose che l’esperienza mi ha insegnato e che vorrei servissero a liberarti da qualche noia: a) Guardati da coloro che hanno (così essi pensano) il monopolio della verità filosofica. […] Li riconoscerai da questo: ti ascoltano con visibile pazienza di superuomini.- b) Bada che se il prossimo tuo si accorge che tu possiedi una verità che esso non possiede […] è fortemente tentato di odiarti e di perseguitarti. […].- c) Rispetta i diritti della ragione e trattali con sacrosanto rispetto.[…] Non rispetta la ragione chi vuol essere logico nelle deduzioni, ma non esamina le premesse: si produce allora la farsa di chi si trova capovolto il ragionamento e giunge ad affermare ciò che voleva negare.- d) Non aver feticci in filosofia. Non adorare nessuno, non giurare in modo assoluto sull’autorità di nessuno. […] La tua filosofia sia ripensamento personale della verità.

Si impose ed esigeva di esprimersi con proprietà di linguaggio, ma in modo accessibile a chi ascoltava, senza compiaciute astruserie. Maestra in questo, assicura don Barra, gli era stata la madre14. Le sue lezioni non erano mai uno sfoggio di erudizione, né una presentazione accurata dei sistemi filosofici previsti dal programma scolastico; erano uno sforzo costante per abituarti a ragionare e capire il perché delle cose. Forse più che di corsi di filosofia i suoi erano corsi di religione, in quanto ciò che gli interessava era che tu riuscissi a cogliere la verità attraverso la verità. Credo che gli riuscisse assai difficile dare il voto su ciò che avevi esposto nell’interrogazione, penso che fosse continuamente tentato di giudicarti per ciò che eri15.

Nutrì un’autentica passione per gli argomenti attinenti alla logica, all’etica e all’estetica; predilesse perciò tra gli antichi Platone e Agostino, Bergson e Rosmini fra i moderni. Del pensatore roveretano fu, per ammissione di specialisti del settore, conoscitore profondo e agguerrito apostolo16. Di eccellente chiarezza grafica e didattica sono gli schemi e gli appunti - assai numerosi - che a beneficio degli allievi scrisse di sua mano per la riproduzione in litografia.

In Fa’ questo e vivrai (1961) pp. 95-96 “Appena ebbe tra le mani stampato il suo primo articolo filosofico, volle leggerlo alla mamma. Questa lo ascoltò rassegnata, senza capirne nulla e alla fine obiettò: Non potevi scrivere chiaro e semplice così da farti capire come ti ha insegnato tua madre? Il figlio incassò il colpo; e suo cruccio, da allora, fu: voglio essere capito”. 15 A. Morgando, nella testimonianza citata. Il dott. Morgando, ‘sangiuseppino’ per tredici anni, fu per cinque allievo di fr. Giocondo, gli fu vicino come membro dell’AC ‘Ferrini’, e ne seguì l’esempio divenendo presidente della Giunta diocesana di AC. 16 Nel testamento spirituale fr. G. giustifica la sua predilezione: Ho sostenuto forse con seccante insistenza il Rosmini. L’ho fatto non per partito preso, o per antipatia verso i suoi avversari, ma per tre ragioni: 1. mi ha risolto profondi e gravi dubbi e mi ha portato fortemente e dolcemente a voler essere cristiano sincero; 2. scaldò l’anima mia di desideri santi e di amore all’apostolato; 3. oltre a tali debiti di riconoscenza, era doveroso riparare all’avversione avutane quando non ero ancora capace di discernere, per le ignoranti parole di maestri superficiali. 13 14


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• Il catechista - Il rapporto simbiotico tra filosofia e catechesi, che risultava con tutta evidenza nell’insegnamento di fr. G., era anzitutto l’indicatore di un personale itinerario morale e culturale. Egli stesso chiarisce tale rapporto. Se dovessi aggiungere qualche osservazione circa lo studioso che si prefigge di servirsi della filosofia per rendere razionale la religione, dovrei dire: Badate che sono tre le forme di rivelazione da Dio all’uomo. La prima è la rivelazione scritta; questa bisogna darla agli educandi come la diede Dio per mezzo dei Profeti e Cristo per mezzo degli apostoli. […] La seconda rivelazione è nella natura. Essa è il libro dove Dio ha scritto con segni che si presentano ai nostri occhi e che lo spirito deve interpretare.[…] La terza rivelazione è interiore nella storia di ognuno di noi e direi che è duplice: nella storia civile dei popoli e nella storia spirituale dei singoli. […] Bisogna dunque richiamare i giovani a riflettere non solo sulla prima, ma specialmente sulla seconda e ancor più sulla terza rivelazione. Per l’insegnamento della religione dovrei richiamarmi alla teoria dell’Assenso. Per sentirsi disposti a parlare di religione ai giovani –- non come si parlerebbe della mitologia –- bisogna che l’anima vibri a contatto delle questioni religiose. Bisogna sentirle come proprie.17

La catechesi trovava la sua naturale conclusione nel colloquio personale, specialmente con gli allievi che aderivano all’AC. Al riguardo scrisse: Un difetto che ho avuto io nel dirigere i giovani, e quando me ne sono accorto forse per reazione sono andato all’eccesso opposto, è questo: l’affannarmi per persuadere il giovane restio, per risolvergli tutti i dubbi, per vederlo convinto in quattro e quattr’otto,e, nella mia prima gioventù, per indurlo alla vita pura, ai sacramenti frequenti,ecc. No. Bisogna non essere intemperanti. Dio ha i suoi momenti. A noi basta buttar nell’anima un rimorso, rispondere a un’obiezione senza mostrarci affannati di frugare l’anima dell’educando. Quando ho fatto capire a uno che solo Cristo è il Mediatore fra noi e Dio, e l’ho indotto a pregare, devo saper attendere il momento della Grazia.

• L’animatore di AC - In “Orientamenti?, primo capitolo del volumetto Apostolato. Preparazione interiore, fr. G. ha espressioni che richiamano quelle che affiderà al testamento spirituale. Ogni uomo viene al mondo per essere un apostolo: per contribuire a far divampare il fuoco che Gesù Cristo portò in terra. Si può dire che è una necessità e una fatalità. Necessità, poiché nell’ordine delle ragioni non se ne vede alcuna perché l’uomo debba venire al mondo con altro compito se non di dar gloria al Creatore e contribuire all’Unità dell’Umanità, per Cristo, in Dio. Fatalità, perché nell’ordine reale dei fatti, che l’uomo voglia o no, contribuisce alla gloria di Dio direttamente o indirettamente, cercandola o combattendola. Pare dunque molto ragionevole il dirci così: Amico, fratello mio, accettiamo questa nobile missione.18

Esemplari al proposito sono, ad es., le pagine che riassumono organizzazione e sviluppo dei temi formativi in Schemi e formulari di formazione cattolica tenute al Collegio San Giuseppe di Torino dal Fratel Giocondo ai gruppi di A.C. (RL 1939, 2, 359-364). 18 E proseguiva: Se accettiamo ciò che è necessario noi siamo degli esseri logici […]. Se accettiamo ciò che è fatale siamo degli esseri reali che non cozzano vanamente contro l’assurdo. 17


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Anticipando alcuni caratteri della sua azione animatrice ricorriamo alle parole con cui fr. G. delineava il suo ideale di giovane della ‘Ferrini’19:’ Nel vero ferriniano, niente bigotteria, niente musoneria: giovane sano e allegro che il Cielo aiuta; giovane che ama il Collegio, così come il Collegio vuol essere: fucina di gente che sa vivere, non vivacchiare ma vivere, il che vuol dire: conoscere, amare, sperare, pigliar sul serio la morale che è rettitudine e dedizione. […] L’Associazione Ferrini è una scuola di cultura, di virtù, di sacrificio, di carattere. Giochi? Niente o quasi. Cultura e azione: quell’azione che si può richiede a studenti sempre in lotta col tempo e coi testi; e impegnati a formarsi un futuro, a forgiar l’animo per le battaglie della vita. A una certa età molti, tutti anzi, salutano il Ferrini e…se ne vanno per la loro strada, cioè a praticare nel loro stato, nella loro professione, ciò che hanno appreso nella scuola. Non si va a scuola per tutta la vita, e, se è vero che si può sempre apprendere qualcosa, ciò che si apprende nella vita ce lo insegna l’esperienza, e il ricordo della scuola serve a incasellare la realtà in quei principi che la scuola della giovinezza ci ha dati. Si sente allora il valore di ciò che si è appreso e proprio per questo si ritorna volentieri a ripensare quanta ragione ci fosse in quei principi che parevano astratti e lontani dalla vita. Non voleva dei mezzi preti o dei mezzi religiosi, ma dei laici che - come tali - si inserissero nella vita e nelle strutture sociali per vivificarle di profonda umanità e di luminoso senso cristiano. Ai soci del Ferrini chiedeva di prepararsi ad essere domani professionisti, sposi e padri esemplari e di attrezzarsi culturalmente, moralmente e religiosamente per incidere là dove le vicende della vita li avrebbero condotti.20

Temperamento e circostanze gli resero talora difficili i rapporti in Comunità e con altri gruppi21. Ne soffriva intensamente e gli capitava di reagire ruvidamente, salvo poi chiedere scusa in atteggiamenti e con parole convincenti. • Il ‘Fratello’ - Il titoletto d’apertura è lo stesso della commemorazione che nel 1961 fr. Leone di Maria fece di fr. G., tratteggiandone in particolare l’aspetto del religioso consacrato. Possedeva informazioni di prima mano, perché, come già si è accennato, ne aveva condiviso quotidianamente la vita di comunità per un ventennio. Fu Fratello ovunque, in tutte le sue manifestazioni. Fratello anzitutto nella vita di comunità. Intendiamoci bene: il conformismo non era davvero il suo forte; non lo poteva essere con la sua vigorosa originalità personale, con quel suo geniaccio di pensatore, con la sbrigliata fantasia che fioriva in imprevedibili battute di spirito, in epiteti gustosi, in paragoni strampalatissimi… Spesso il ‘far diverso’ gli era imposto dalla salute scossa, dalle veglie fino a tarda ora per le adunanze dell’AC, dalle insonnie e dagli incubi notturni cui andava soggetto. Ma voleva allora che l’ubbidienza sanzionasse il suo non alzarsi con la Comunità alle ore 4,30 del mattino; e non mancava mai di attendere per proprio conto alla meditazione, alla Comunione (tra parentesi, penso a certe Comunioni fatte nel tardo pomeriggio durante la vita militare; e allora bisognava accostarvisi digiuni dalla mezzanotte), alla S. Messa, dando l’esempio d’una pietà convinta, sincera e semplice, malgrado la sua forma mentis filosofica. Merita una nota particolare il suo frequente ricorso al padre spirituale, a vista e saputa di tutti, che notavano di quanto rasserenamento gli fossero fonte quei suoi ricorsi umili e fiduciosi.

Era il nome scelto da fr. G. per l’AC del Collegio S. Giuseppe “perché è quello di una bella figura di studioso, di professionista, di santo. I nostri giovani vogliono diventare professionisti in gamba, e, come professionisti vogliono essere cristiani integri. Santi dunque.” 20 A. Morando, testimonianza citata. 19


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Marco Paolantonio Amò teneramente la sua famiglia religiosa e ne diede prova nei fatti, soprattutto con il molto lavoro che fece per i Fratelli giovani. Presiedè più volte i loro lunghi Ritiri dei 20 e 30 giorni, durante i mesi estivi, per quanto affranto da un anno di fatica scolastica: e allora era ‘tutto per essi’, di giorno e di notte. Dico anche di notte, perché fu rubando sul sonno che, mentre preparava il Ritiro, compose e mimiografò di sua mano, nel 1939, un volumetto di 320 pagine, cui diede il modesto titolo di ‘Ricordo degli Esercizi’, ma che contiene pagine luminosissime, spunti quanto mai originali. Fu pure il Fr. Giocondo a dirigere, nei suoi inizi, il Lasallianum, benefica istituzione d’un corso estivo triennale, per giovani Fratelli, a carattere formativo, religioso e pedagogico: va da sé che l’insegnamento della filosofia vi era sua cura personale… E giova forse notare che, se il Professore si presentava talvolta in classe con una barba lunga di due o tre giorni – cosa non disdicevole ai filosofi e che gli accadeva soprattutto quando non stava bene – le sue lezioni, di barba non ne fecero mai crescere a nessuno, né ai giovani Fratelli, né ai più giovani liceisti.

Approfondimenti A questo punto pare doveroso riprendere, per meglio analizzarli, due dei temi brevemente presentati sopra. Il primo: lo studio e l’insegnamento della filosofia, che caratterizzarono culturalmente fr. G.; l’altro: l’animazione di gruppi giovanili, che costituì il fulcro e il senso della sua vita apostolica. La rassegna degli scritti di fr. G. che conclude questo profilo integra gli appunti bibliografici offerti di volta in volta, presentando quelli che ebbero maggior diffusione e che tuttora ci permettono stabilire un contatto vitale con la sua mente ed il suo cuore. Credo ut intelligam - Per fr. Giocondo l’aforisma di s. Agostino andava necessariamente completato con il conseguente intelligo ut credam. Il termine intermedio – intelligere = capire ragionando – sottolineava l’obbligo razionale e morale di chi vuol vivere consapevolmente la propria fede. I primi articoli a stampa che trattano di filosofia escono tra il 1930 e il 1933 sul Messaggero delle Scuole Cristiane (MSC)22. Non ne mancano di pura teoria23, ma qui ci limitiamo alle trattazioni operative, destinate cioè a chi vive nella scuola. Due in particolare si propongono di illustrare “una metodologia per l’insegnamento della Filosofia”, come precisa fr. G. nell’introdurre il primo Per uno studio della Filosofia24. L’ordine da seguire nell’in-

Lo si legge in una sua lettera indirizzata al visitatore provinciale nel 1937. In Comunità l’osteggiavano alcuni dei Fratelli più influenti; in Collegio c’era scarsa compatibilità di indirizzi tra l’AC di fr. G. e l’Unione del SS. Crocifisso, animata da fr. Teodoreto, alla quale aderivano parecchi altri giovani allievi. 22 Bollettino bimestrale della Provincia religiosa FSC di Torino. Uscì in 11 numeri dal novembre 1930 all’aprile 1933. 23 Philosophari necesse est (MSC 1930, I, n.1, 10-12); Il nuovo saggio sull’ Origine delle idee nel centenario della sua pubblicazione (MSC 1931, I, n. 2, 46-51); Dalla filosofia al soprannaturale (MSC 1931, I, n.3, 77-81). 24 MSC 1932, II, n. 3, 90-94. 21


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segnamento è quello naturale; deve cioè corrispondere al modo con cui la mente apprende quando affronta settori di conoscenza che sono essenzialmente semplici e indivisibili in sé – come la scienza, l’arte e la filosofia – ma che per necessità pratiche, dovute ai meccanismi della mente umana, devono essere sottoposti a processi di analisi e di sintesi che non si susseguono né si alternano, ma si compenetrano e si fondono assieme. A questo punto occorre fare i conti anche con i programmi scolastici, da cui non si può ovviamente prescindere. Il programma dovrebbe essere in funzione dello scopo formativo assegnato alla materia. Quale ‘sistema’ va scelto come base per lo studio della filosofia? Pare ovvio: l’unico che possegga la verità. “Per noi filosofi cristiani – afferma recisamente fr. G.25 – non esiste la difficoltà di fissare il sistema base, poiché noi siamo nella condizione ottima per filosofare. Perché è da considerare che non la filosofia sola ci dà la Verità; il filosofo cristiano può attingerla da due parti: dalla filosofia e dalla fede, e poiché questa ha base inconcussa, serve di provino a quella.” (p. 92). I programmi ministeriali, però, impongono anche per lo studio della filosofia percorsi metodologici obbligati. In molti Paesi si continua a seguire la triplice partizione della Filosofia in Psicologia, Logica ed Etica. In Italia, nelle scuole medie, si svolge la storia del pensiero filosofico nei diversi secoli. Il nostro studente si trova così di fronte a una quantità di sistemi che non sempre sono in linea di continuità, ma sovente sono contraddittorii. Egli passa da l’uno all’altro sistema, muta vocabolario o significato al medesimo vocabolo ad ogni scuola, anzi ad ogni filosofo, e riesce così ad una confusione che lo disgusta, e, quel che è peggio, si persuade che la Verità sia cosa dell’altro mondo, e, alla fine, o si foggia per proprio uso un sistema che è un accozzo di assurdità, o abbraccia il dubbio sistematico e fa professione di scetticismo (p. 91).

Nel secondo articolo, Per una formazione filosofica 26, risponde alle perplessità che fr. Dante Fossati aveva espresso, precisando le ragioni per cui accanto al metodo storico-cronologico vigente nei programmi italiani (da svolgere in classe) sia da attuare – almeno nelle libere scuole di formazione cristiana (seminari, istituti religiosi, gruppi giovanili cattolici) – quello di corsi sistematico-tematici, “brevi, chiari, precisi, non come studio filosofico fine a se stesso, ma come preparazione sicura allo studio della teologia”. E dopo la scuola? 27 Alcune riflessioni di fr. G. al riguardo sono già state riportate nel paragrafo in cui si è parlato di lui come insegnante. Quelle che seguono ne sono il logico complemento e nel contempo costituiscono un’interessante testimonianza

25 E annota: “E qui sento le risa dell’ottanta per cento dei filosofi. Quale ingenuità! E tu l’hai trovato il sistema della Verità? Io vi lascio ridere, cari enciclopedisti, e vi dico che se la Verità c’è ed è una, il sistema della Verità c’è ed è uno. Ma se voi dubitate che la filosofia possa darvi la Verità, perché filosofate? Per amore dell’errore?” 26 MSC 1933, III, n. 1, 20-25 27 In Fa’ questo e vivrai, 1961, pp. 95-98


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delle sue esperienze professionali: Se vorrai nella tua vita intavolare conversazioni filosofiche con qualcuno allo scopo di fortificarlo nei buoni pensamenti, ti dò le chiavi perché tu possa penetrare nella sua mente e giudicare se puoi sperare di far cosa utile o se ti accingi a perdere inutilmente il tempo. Osserva dunque: a) Se egli coglie senza fatica la natura dell’idea e se non confonde l’ideale col reale. b) Se coglie a volo la differenza tra l’idea pura d’una cosa e la sua rappresentazione fantastica. c) Se riesce a pensare l’essere dianoeticamente, cioè nella sua necessaria relazione con la mente. d) Se intende a volo che il voler togliere l’idea dalla sensazione o dal puro fantasma (chiamiamolo così per intenderci) è voler togliere sangue dalla rapa con la siringa. e) Se aborre dalle metafore in filosofia, pretendendo concetti e non parole, fatti e non supposizioni. f) Se intende la legge del sintetismo in modo che gli elementi sintetizzati non debbano essere assorbiti l’uno nell’altro fino all’unità assoluta che non è più sintesi, ma isolamento, anzi atrofizzazione dell’essere. g) Se è desideroso di sentire il parere altrui per apprendere; e se è disposto almeno a sottoporre a studio le altrui opinioni senza condannarle a priori. Se ha queste capacità è già filosofo almeno tendenzialmente. Se non le ha, piantalo. Se tali persone si intestano a far della filosofia, ci danno il panteismo, il soggettivismo, il sensismo, l’idealismo, con le relative morali. E di queste cose ne abbiamo già abbastanza 28.

“Una scuola di cultura, di virtù, di, sacrificio, di carattere” 29 - È questa la definizione della formazione-autoformazione che fr. Giocondo proponeva ai giovani della sua ‘Ferrini’. La prospettava, senza forzare consensi, nelle classi in cui insegnava30. E in lui l’inclinazione all’apostolato pare si fosse manifestata assai precocemente31. Il Circolo (come si diceva allora) federato alla Gioventù cattolica italiana nacque però solo nel 1929, in memoria e sull’esempio di Fratel Biagio, promotore dell’AC in Italia all’inizio del secolo e, come fr. G. amava definirlo, ‘martire dell’AC’. Ben presto venne chiamato ad occuparsi dell’AC anche nella diocesi di Torino e al Cen-

28 Annotazioni bibliografiche complementari sugli scritti di filosofia: Su “Rivista lasalliana”: Entificazione dei reali. Sintesi creativa in Dio e sintesi conoscitiva in noi, 1934, I, 1, 84-95; L’Essere nel pensiero comune e nel pensiero filosofico, 1934, I, 2, 204-212; Il Nono Congresso Nazionale di Filosofia (Padova, 20-23 settembre 1934), 1934, I, 4, 721-731; Appunti per un breve corso sui principi della morale, manoscritto litografato (Arti Grafiche Gili, Torino 1934) pp. 128; Filosofia e Religione, 1935, II, 1, 136-140; Insegnamento della Religione. L’assenso alla verità (I), 1935, II, 3, 337-347; (II), 1935, II, 3, 108-118; (III), 1936, III, 1, 84-96. Appunti delle lezioni di filosofia impartiti da fr. G., Magistero Lasalliano, Laveno agosto-settembre 1950, dattiloscritto litografato (Arti Grafiche Gili,Torino). 29 Le notizie provengono in gran parte, e spesso letteralmente, dall’articolo Fratel Giocondo, pubblicato anonimo su Vita sociale, 1952/12, pp. 42-46 e ripubblicato integralmente sulla stessa rivista, 1961/49, pp. 75-78. 30 Nel volumetto ‘Tenue ricordo…’. 31 Fr. Leone scrive, a conclusione del paragrafo in cui ricorda l’impegno profuso da fr. G. per l’AC: “E qui mi viene da ricordare, incidentalmente, che un’associazione di perseveranza egli aveva fondato all’età di …nove anni”.


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tro nazionale. Nel 1932 partecipò alla prima Consulta nazionale Aspiranti (il massimo organo per lo studio dei problemi riguardanti i soci più giovani dell’AC); nel 1938 fece parte della Consulta Juniores e qualche anno dopo a quella dei Seniores. Fu quindi tra i pochissimi, come il prof. Gedda e mons. Sargolini, a prender parte alla formazione e all’attività dei tre centri organizzativi a cui si deve la struttura dell’AC maschile fino al nuovo statuto del 1969. Fu notevole la fatica che il lavoro gli richiedeva, perché la partecipazione alla Consulta nazionale implicava anche la diretta responsabilità sulle attività del movimento regionale32. E alle numerose trasferte occorre aggiungere il lavoro preparatorio, la corrispondenza con le Diocesi e con Roma, per gli Junores prima, per i Seniores poi e, s’intende, il lavoro per la ‘Ferrini’. Tutto oltre le ore di scuola, per le quali evitava supplenze nel limite del possibile. Inevitabile il logoramento fisico, che raggiunse lo sfinimento proprio quando fr. G. stava per coronare un sogno vagheggiato da anni, quello di organizzare la federazione delle associazioni di AC delle istituzioni lasalliane, la GLAC, dotandola di una costituzione che la caratterizzasse. Fr. G. vedeva nell’AC giovanile una scuola di preparazione all’apostolato, specialmente per mezzo dell’istruzione religiosa, poiché era profondamente convinto che l’apostolato è tanto più proficuo quanto più completa è la formazione dell’individuo che lo svolge. A chi gli faceva notare quanto fosse meglio sostituire le parole all’azione, rispose: Noi vogliamo evitare l’azione non preparata, non illuminata, persuasi come siamo che una scuola (e il Ferrini è una scuola) dà le conoscenze che serviranno per la prassi della vita. Un giovane bene istruito nella santa religione, ben convinto della sua fede, che ha visto chiaramente Cristo come Via e Verità, non cercherà mai la Vita altrove, e sarà pronto – mercè la grazia di Dio che lo muoverà – ad assumere qualsiasi responsabilità a cui sarà chiamato a suo tempo.

Considerava l’AC un’opera d’élite, perché non riteneva che l’incremento numerico fosse di per sé indice di buona salute dell’associazione. In Fa’ questo e vivrai scrive: “Ad aumentare il numero dei soci si fa presto, anche a scapito del buono spirito; diminuirlo, invece, con coraggiose selezioni, è più difficile ma assai più utile”. Ben chiara anche la collocazione del giovane di AC “né un mezzo prete né un mezzo religioso, ma un laico che – come tale – si inserisce nella vita e nelle strutture sociali per vivificarle di profonda umanità e di luminoso senso cristiano.” Ai soci del Ferrini chiedeva di prepararsi ad essere domani professionisti, sposi e padri esemplari e di attrezzarsi culturalmente, moralmente e religiosamente per incidere là dove le vicende della vita li avrebbero condotti.33

In un suo taccuino si trova, per es., per gli ultimi due mesi del 1938 la seguente agenda dei suoi impegni come Consultore regionale per il Piemonte: novembre, 4-6, Varallo; 6, Torino; 13 Biella; 27 Ivrea (Delegati Ju e Seminario); dicembre 4, Condove; 8 Roma (Consulta); 18 Pinerolo; 28, Torino. 33 A. Morando, testimonianza citata. 32


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A. Morando sintetizza le condizioni che poneva a fondamento della accettazione e della perseveranza nel gruppo: - la sincerità: era questa la virtù che più gli interessava. La menzogna era un rinnegare se stessi, un andare contro l’essere, un sovvertire ogni valore. Impossibile capirsi e capire se manca la sincerità. - la meditazione: credeva nell’uomo che sa pensare perché era convinto che la verità tosto o tardi conquista. Però ammoniva soventissimo che non basta conoscere, bisogna anche e soprattutto amare la verità. - la direzione spirituale: sarà perché lui era un direttore spirituale nato e intuiva l’efficacia dei suoi insegnamenti, sarà perché sapeva quale bisogno l’uomo ha di un altro uomo per camminare, certo si è che voleva che ci scegliessimo una persona a cui fare riferimento in tutte le nostre vicende. - la vita eucaristica: riponeva tutta la sua fiducia nella grazia e diffidava delle sole forze dell’uomo. A contatto con il Corpo divino diceva che i dubbi cadevano e i sensi si acchetavano. - l’apostolato: i giovani non possono vivere senza ideali. O li si innamora di ciò che è grande e bello e sono salvi o li si lascia nel loro egoismo e certamente imputridiscono. Per questo voleva che ci proiettassimo fuori in un anelito di apostolato. Si dirà che queste sono le condizioni che da sempre la Chiesa ha suggerito per far camminare nella via del bene e che nulla c’era d’originale. Ed è vero. L’originalità sta nel modo con il quale egli, fr. G., cercava di convincerti di queste esigenze. Niente prediche sermoncini a sfondo moralistico ma proposizione di principi filosofici e approfondimento di verità teologiche. Niente abbandono a sentimentalismi ma raffronto continuo con le realtà della vita e soprattutto orientamento verso le prospettive future. Fiducia nel giovane, rispetto della sua libertà, e valutazione delicata della sua personalità.34

Gli scritti a) I lavori a stampa più conosciuti sono i tre presentati sotto (punto d). Tutti gli scritti elencati al punto c) risultano interamente scritti a mano da fr. G. e in quella forma consegnati alla riproduzione litografica. Una menzione particolare, come si è già accennato, meritano gli schemi e gli appunti, di chiarezza grafica e

Annotazioni bibliografiche complementari sull’AC. Su “Rivista lasalliana”: Primo Convegno catechistico delle Associazioni di Azione Cattolica appartenenti alle Opere dei Fratelli (Oropa, 21 maggio 1936), 1936, III, n. 2, 187-228; Dopo la recente riorganizzazione dell’Azione Cattolica Italiana, 1939, VI, n. 4, 208-236; Schemi e formulari delle lezioni tenute al Collegio San Giuseppe di Torino dal fr. Giocondo ai gruppi di A.C., 1939, 2, 359-364. Relazione delle adunanze di Formazione spirituale. Sezione Juiniores, Parte I. Collegio S. Giuseppe, Torino 1947, pp. 96, Parte II, 1948, pp. 78, manoscritti litografati (Arti Grafiche Gili, Torino); Riflessioni utili per un ritiro spirituale / per soci studenti di A.C. / o dirigenti aventi compito formativo, Collegio S. Giuseppe, Torino 1948, pp. 148, dattiloscritto litografato (Arti Grafiche Gili,Torino.) 34


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didattica davvero notevoli. La corrispondenza è andata persa. L’unica lettera di qualche rilievo è citata alla nota 20 e si trova nell’Archivio FSC di Torino, fald. 452. b) La quasi totalità degli scritti trae alimento dai 122 quaderni, taccuini, cartelle con appunti, schemi, riflessioni, tracce per conferenze e incontri, che è possibile consultare nell’Archivio FSC di Torino, fald. 452-454. c) Non appartengono ai due gruppi indicati sopra e sono reperibili nella Biblioteca lasalliana del Centro FSC di Torino, con collocazione ‘Ronco Giovanni Maria’: Tenue ricordo / sgorgato dal cuore nella serena e fiduciosa / visione del vostro avvenire’, manoscritto litografato, copertina a stampa (Collegio S. Giuseppe, Torino 1933, pp. 175). È lo scritto da cui verranno tratte le quattro edizioni a stampa del vol. Fa’ questo e vivrai. Ricordo degli esercizi, 3-23 luglio 1939, manoscritto litografato che riporta “alcune (le principali, veh! non tutte, ché certe cose restano tutte per noi soli che le abbiamo sentite) idee che furono espresse e meditate, e rimeditate durante le nostre conversazioni, o durante gli esami collettivi”. Appunti e tavole per lo studio della Storia del pensiero filosofico nei licei classico e scientifico, manoscritto litografato (Collegio S. Giuseppe, Torino 1941, pp. 185). Introduzione alla meditazione, manoscritto litografato (Arti Grafiche Gili, Torino 1943, pp. 112). Libretto in quattro parti: 1/Nozioni sulla legge morale, con applicazioni alla meditazione. 2/Sussidi alla meditazione e mezzi per renderla proficua. 3/Metodo di orazione mentale. 4/Schemi di meditazioni. Alcune parti, rimaneggiate al punto da non essere chiaramente identificabili, confluirono in Meditazioni, vol.1, e in Invito alla meditazione. d) opere a stampa: Fa’ questo e vivrai. È lo scritto più noto e diffuso. Ne sta alla sorgente il già ricordato libretto di 175 pagine Tenue ricordo… che fr. G. dedica ‘Ai miei Giovani del Liceo’. In quelle pagine c’è già tutto ciò che comparirà nelle due edizioni a stampa: Fa [sic!] questo e vivrai: Edizioni LICE, Torino 1936, pp. 204 (riedito nel 1938, e nel 1945); con titolo corretto ortograficamente, esce ancora nel 1961 (Edizioni Paoline, Milano, pp. 186). È quest’ultima l’edizione più conosciuta, curata da un gruppo di ‘ferriniani’. Giusto precisare che solo nelle due edizioni a stampa compare il capitoletto Filosofia, al quale abbiamo ampiamente attinto nelle pagine precedenti. È un testo vivo, nato dalla vita vissuta a contatto diretto con gli studenti, le loro aspirazioni e i loro problemi. L’esposizione, colloquiale, diretta e spigliata, accompagna i giovani interlocutori (ai quali, però, non è qui concessa la parola che fu di sicuro loro sollecitata in classe) nelle varie situazioni della vita quotidiana (Le ore del mattino - Le prime occupazioni - Al lavoro - Ai pasti - La sera) e in quelle frequenti (Il teatro - Il venerdì - Il sabato sera - Giorno di festa). Le riflessioni prendono poi in considerazione aspetti della pratica religiosa personale (Religione, Chiesa, Sacerdoti, Devozione, i Sacramenti, Confessione, il Papa, la preghiera), della vita morale (Combattimento spirituale – Scandalo - Massime e sentenze - Riflettere e meditare


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- Il dolore – Nostalgia - Il libro e il giornale – Atavismo - Compromettersi per non compromettersi – Sincerità – Morale - Massime mondane - Contraddizioni nella vita pratica – Superstizioni - La retta intenzione) e della vita associata presente e futura (Sopprimersi per la famiglia - Azione Cattolica - La seconda crisi - Genitori e figli). Le 24 Massime e sentenze del capitoletto finale (Ultimi ricordi) chiudono lo scritto. Nell’introduzione delle due edizioni a stampa l’a. chiarisce che “Questo libretto è nato nella intimità di un corso liceale, dove allievi e insegnante di Religione, di Lettere e di Filosofia erano un’anima sola”; e in entrambe troviamo una lunga lettera di Renzo Pezzani, che fra l’altro scriveva: “E del bene che è destinato a fare tra i giovani questo libro così limpido di parole e di intenzioni, ho approfittato anch’io. Perché dalla sua lettura m’è venuto l’incitamento a ripensare la mia vita intera per quello che fu e che è, inducendomi a più serie riflessioni su ciò che è la dissipazione dell’anima e di ogni momento; un coraggio nuovo di rifarmi giovane nella giovinezza perenne dei tuoi consigli”.

La sostanza è tutta concretezza; provocatorio talvolta il tono, ma senza asprezze; il frequente invito alla coerenza morale non scade mai nella parenesi. Invito alla meditazione. Nella premessa al volume, pubblicato a dieci anni dalla morte di fr. G.35 (Ed. Paoline, Milano 1961, pp. 259) i curatori, tutti ‘ferriniani’, avvertono che vi sono fusi suoi ‘libretti’ con i titoli: Medita (Ed. A & C, Torino 1938, pp. 205), Vette e conquiste (Edizioni Ave, Roma 1941, pp. 78 (ebbe tre edizioni), Luci eucaristiche (ivi 1941, pp. 191). Vi compaiono inoltre ad alcune preghiere, riportate nei capitoli III e IV, ritrovate nei manoscritti di fr. G., ‘colmando in tal modo una lacuna che l’Autore stesso aveva lamentato’. Il primo dei libretti fusi in questa edizione, Medita, aveva avuto nel 1938 la prefazione del vescovo di Parma, mons. Evasio Colli, in cui fra l’altro si legge: “L’Autore di queste pagine, che conosce a fondo l’animo giovanile, conduce con mano sicura il giovane cristiano e lo conduce a rientrare in se stesso, a rifare la sua coscienza, a mettersi a fuoco nella visione della vita, delle sue origini, dei suoi fini e dei suoi doveri.” Undici i capitoli, di cui citiamo la lunghezza per indicare il rilievo dato ai temi proposti: Pensieri sulla meditazione (pp. 19-39); Sii cristiano (40-73); Direzione spirituale (7794); Sincerità (96-116); Spirito di sacrificio (119-149); La s. messa 153-202); L’Eucaristia (206-231); Morte (234-245); Giudizio (247-258); Inferno (259-277); Paradiso (278-298). Nella premessa fr. G. ricordava al giovane cui dedicava il libretto: Devi abituarti a riflettere e approfondire (‘il grande difetto della gioventù è infatti la dissipazione dello spirito; quel portarsi da un’idea all’altra senza sostare mai ad approfondire’) E…risolvere efficacemente (‘altro difetto dei giovani - ma non solo di quelli - anche se riflettono, raramente propongono, oppure propongono in modo così generico che non dà frutto).

Motivazioni e criteri sono esposti nel già citato articolo Nel decennale della morte di Fr. Giocondo: riedizione di scritti spirituali (RL 1961, 2-3, pp. 204-226); scritto non firmato, ricco di notizie e di annotazioni esegetiche di sicuro interesse.

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Devi cercare una visione chiara e continuata della verità - E un pensiero solo (‘Prendi pure un libro, se vuoi, ma scegli da esso un pensiero, uno solo. Prendi il Vangelo e scegli una massima. Una sola’.) - Non riflettere solo, ma prega.

Preparazione interiore all’apostolato. Terza delle pubblicazioni edite a cura dei ‘ferriniani’ (Ed. Paoline, Milano 1961, pp. 271). Anche in questo caso, il libro nasce dalla fusione di precedenti scritti di fr. G.: Apostolato (ed. LICE, Torino 1942, pp. 136, con riedizioni nel 1943 e 1944); Riflessioni utili per un ritiro spirituale per soci studenti di AC o dirigenti aventi compito formativo, Associazione di AC ‘Contardo Ferrini’, Collegio S. Giuseppe; dattiloscritto litografato (Arti Grafiche Gili, Torino 1948, pp. 148) e, in maniera meno accertabile, di Relazione delle adunanze di formazione spirituale. Parte I, Associazione di AC ‘Contardo Ferrini’, Collegio S. Giuseppe, Torino 1947, pp. 96 e Parte II, ivi 1947, pp. 78 (dattiloscritti litografati, Arti Grafiche Gili). Nella prefazione, riedizione di quelle comparse in Apostolato l’a. chiarisce che il volumetto “vuol essere semplicemente un insieme di constatazioni fatte nell’esperienza spirituale mia, e nel contatto con altre anime; e lo scopo di esso è di non tenere nascosto quello che può essere in qualche modo utile ad altre anime”. Dopo gli Orientamenti, che la introducono, la trattazione si divide in due parti (tra parentesi si indica il numero dei temi di riflessione che sviluppano l’argomento): - Principi fondamentali (pp. 10-129): Conoscere se stessi (7) - La situazione dell’uomo (4) -Il piano di Dio (5) - Incorporazione e crescita in Cristo (8) - Alter Christus (2). - Preparazione interiore (pp. 131-258): Per l’aspra via (8) - Rivelazione ai piccoli (2) - Virilità cristiana (10) - Vocazione all’apostolato (2). Il volumetto si chiude con le due parti del Testamento spirituale di fr. Giocondo.


Conduite des Écoles dans la série «Cahiers lasalliens» par Léon Lauraire, FSC

1. Approche contextuelle - L’école lasallienne est née dans un contexte social, ecclé-sial et scolaire particulier: celui de la France de la fin du 17e siècle, encore mal exploré dans les textes antérieurs sur la Conduite des Écoles. Ce contexte explique en grande partie l’organisation et la pédagogie de l’école lasallienne. Cahier lasallien n. 61, 2001, pp. 246.

2. Approche pédagogique - A la clientèle particulière de leurs écoles, Jean-Baptiste de La Salle et les Frères voulaient offrir des structures, des apprentissages et des méthodes adaptés à leurs besoins humains, professionnels et religieux. Le second volume essaie de dégager les principaux aspects de cette réponse. Cahier lasallien n. 62, 2006, pp. 263.

3. Approche comparative - Les 16e et 17e siècles constituèrent une période dynamique et novatrice dans le domaine de l’éducation et de la pédagogie; en France, ils sont connus comme la Renaissance et le Classicisme. Mr. de La Salle est considéré comme le dernier grand éducateur français de cette période. Il a bénéficié des apports de ses prédécesseurs. Il eut des contacts directs avec quelques grands personnages, ses contemporains: Jacques de Batencour, Charles Démia, Nicolas Barré, Nicolas Roland. Ce troisième volume identifie les convergences et les différences entre ces auteurs. Cahier lasallien n. 63, 2011, pp. 162.

4. Approche diachronique - Dès le début, la Conduite des Écoles a été considérée comme un projet éducatif en évolution, condition inévitable d’une adaptation aux besoins évolutifs des jeunes. La révision du texte 1706, demandée par la Chapitre général de 1717, et réalisée par J.-B. de La Salle lui-même, témoigne de ce souci d’évolution. Perspective confirmée par la vingtaine d’éditions ultérieures de la Conduite, jusqu’en 1916. Ce quatrième volume essaiera d’identifier les changements intervenus, leurs motifs internes à l’Institut et les facteurs externes. Cahier lasallien en préparation.

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RivLas 78 (2011) 4, 767-781

My catechetical Journey GERARD RUMMERY1

A

s my father had been a pupil of the Brothers in their first Australian foundation in Armidale, he insisted that we attend the school of the De La Salle Brothers even though there were other Catholic secondary schools for boys which were closer. In my six years as a pupil of the Brothers I looked forward to the Reflection that was given first thing every day after the morning prayers. I still remember some of them. The catechism lessons always seemed to have been well prepared and given in a way that I found interesting. I was attracted to the Brothers’ life by the quality of the Brothers who taught me and who looked after sporting teams and other activities. When my father’s employment that the family would have to move away from the city, I entered the Juniorate for my final year of schooling. I was fortunate to be part of a large intake of 29 postulants to a two-year novitiate under the guidance of a forward-looking novice master from the Baltimore District.

Early influences During the teacher-training part of the scholasticate, I read and was greatly influenced by the English translation of the Institute’s Catechists’s Manual and develGerard Rummery, FSC, born 7th March 1931, in Australia. Pupil at De La Salle College, Ashfield, Sydney 1940-1945. Juniorate 1946, Novitiate 1947-1948, Scholasticate 1949-1950, at De La Salle Training College, Castle Hill. Teacher at De La Salle College, Malvern, Melbourne 1951-1964. Studies in Literature, Latin, History and Diploma of Education at University of Melbourne 1952-1960. Director of Scholastics at Castle Hill 1965-1969. Master of Education at Sydney University 1966-67. International Lasallian Centre (CIL, Rome) 1969. MA (Philosophy of Education) at London University 1969-70. Ph.D in Religious Studies Lancaster University 1971-1973. Staff member of CIL 1973. 1974-1977 Catholic College of Education, Castle Hill. Staff member of CIL 1978-1982. Director of CIL 1983-1985. Elected member of the General Council 1986-1993 and 1993 -2000. Foundation staff member of the Buttimer (1988) and Lasallian Leadership (1994) Institutes in USA. Presenter and researcher with what is now Lasallian Education Services in Australia (2000 - ). 1


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oped my religion teaching on its principles. In my first community of 20 Brothers where the Catechism of Formation was still practised, I learned from the older members of the community. One of the senior Brothers prepared a set of Reflections for each month and distributed them to all who wished to make use of them. The District’s publication Our Apostolate which began in 1953 was the only national catechetical publication. Its content was influenced in some aspects by the French journal Catéchistes, especially in the development of Australian Catechism Workbooks for primary and early secondary classes. These workbooks, used widely in most Catholic schools in Australia and New Zealand, made the Brothers leaders in offering another kind of methodology for catechetics, especially at primary and lower secondary level. In the early 1960’s, the Australian Catechisms, written largely by experienced teachers, some of whom had been sent to study at Lumen Vitae in Brussels, were edited by Monsignor John F. Kelly. These excellent new resources strengthened teaching in the primary schools, but in the excitement before, during and after the Second Vatican Council, I became increasingly conscious of the lack of adequate resources at the upper levels of the secondary school. This led me to bring in from USA the recently-published Saint Mary’s Press Living with Christ series for the last four years of the secondary school. Although it is difficult to assess the impact of these publications in the schools that used them, the positive aspect was that the students were introduced to a well-produced printed book that was in sharp contrast to the paper-covered Australian Catechism which was the same book as students had used in every class since they had first attended a Catholic school. Probably the most important ‘innovation’ that I experienced during my teaching in the secondary school was the impact made by the Young Christian Students movement, known simply as YCS. This was an application of the principles of “See, judge and act” enunciated by the great Canon Cardijn. This movement in schools, and the complementary organisation, the Young Christian Workers (YCW), had a great influence in Australia because of some Australian lay leaders who were trained in Belgium.

Catechetical seminars, weekends and camps By the early 1960’s a number of Brothers, dissatisfied with the general apathy of senior students to the formal religion lessons, began a number of practices which took the religion lesson outside of the classroom to late afternoon seminars that grouped all the students of the same level and frequently invited similar age groups, boys and girls, from neighbouring Catholic schools. The success of these innovations led to the development of occasional weekend residential activities, usually at holiday houses or camps by the seaside associated with religious congregations of Brothers. Many religious Sisters became enthusiastic participants of this movement


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in accompanying girls from their schools and this, in turn, influenced some communities of Sisters in the renewal that followed the diffusion of the documents of Vatican II. New music, provided by teachers and students, was a very important ingredient in the success of these activities. Sometimes the focus was to offer a more up to date catechesis especially on the sacraments of Penance and Eucharist and provide opportunities for the participants to receive these sacraments. Usually the weekend activities culminated in a Eucharist, carefully prepared over the whole period with as many students involved in various ways as much as was possible. Our Apostolate carried a number of articles that showed the content and activities of these seminars and weekends. A long-term development from this movement was the development by a number of Brothers’ Congregations of mobile pastoral teams operating out of a residential centre that conducted retreats for various levels of students.

Important influences from Europe As already mentioned, there was a significant European influence through the introduction of the Cardijn principles of “See, judge and act” into the YCS and YCW movements. Books based on the worker-priest movement in France, especially the book by Maisie Ward known in English as France Pagan, were being read and discussed as was a book called The Mass of the Future, which detailed experiments in the use of vernacular languages in the celebration of Mass in Southern Germany and Holland. I was greatly influenced by the presentations of Johannes Hofinger SJ, who gave summer schools in Melbourne on Kerygmatic Catechesis in 1959-60, and by Marcel Van Caster sj around 1962-3. The English-language version of Lumen Vitae offered a complementary international perspective to that of our local Our Apostolate. Around 1965 or 1966, at the time of the Second Vatican Council, I first met Brother Didier Piveteau, who having taught courses in New Caledonia, passed through Sydney and stayed in one of our communities. Didier’s inspiring presentations at the Scholasticate, where I was now Director, were so far ahead of anything else I had heard that I would have to rank them as a most significant part of my formation. I, and many teachers at this time, was greatly influenced by the writings of Gabriel Moran, especially his Catechesis of Revelation and God Still Speaks, so that the question of the personal freedom of students in religious matters was frequently discussed. Around 1966 I was asked to act as editor of Our Apostolate, a position I held until I left for overseas studies in 1969 and resumed when I returned to Australia in 1973. After the 25th year of Our Apostolate I changed the name of the periodical to Word in Life. In doing this, I was undoubtedly influenced by Didier Piveteau’s decision as editor of Catéchistes as it reached its 100th edition to change it into a journal better


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suited to the changes in European cultures and societies. The subsequent Temps et Paroles did not find an assured market and was eventually terminated for financial reasons. I continued to edit Word in Life until the end of 1982 when my appointment as Director of CIL meant that I could no longer return to Australia after the CIL session each year. The publication Word in Life was eventually taken over by the Catholic College of Education and subsequently by the Australian Catholic University. It continues today as the Journal of Religious Education, published four times each year.

CIL 1969 I attended the second three months session of the Institute’s International Lasallian Centre (CIL) from March to June 1969, a session intended for Brothers associated with Institute formation centres from around the world. This was my first experience of the international Institute and it broadened my understanding in very significant ways, especially as the Brothers from Latin America were excited about the new directions taken by the local churches at the Medellin Catechetical Week. As the Brothers called to the session were all involved in the formation of young Brothers in novitiates or scholasticates, there was a common interest in exchanging information and ideas about the new vision of Church resulting from Vatican II and from the document of the 1966-67 renewal Chapter, The Declaration of the Brother of the Christian Schools in the World of Today. French, Spanish and English were the three languages used so that Brothers, who were not fluent in one of these languages, had to find ways to communicate in the group sessions. All presentations were made in one of the official three languages. The dynamic of the session had been entrusted to an outside team which was given the task of creating a kind of ‘vacuum’ in which each participant was challenged to discover and experience a kind of ‘new beginning’, and develop a new approach to the initial formation of young members of the Institute. As the 70+ participants came from 43 different countries, there were significant differences in the level of education received, the nature of tertiary studies undertaken and the degree to which the teachings of the recent Vatican Council had been implemented. As I had only recently completed post-graduate studies in psychology and counselling, I was aware of the ‘non-directivity’ Carl Rogers techniques being used by the facilitators and gradually adjusted myself to it. This was not the case for some participants who, for various reasons, found it difficult even to consider discussing new approaches to formation into the Brother’s life, and this led them to leave the session by the end of the first week. I can now understand that some members of the General Council, the recently elected Assistants who were all graduates of the former nine-months Second Novitiate, did not support the approach taken in the session, and even actively opposed it by allowing Brothers from their Assistancies to depart after a few days or


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weeks. This was especially true of Brothers attending from certain Districts of Central and Latin America. It was here for the first time that I heard the presentations of Brothers MauriceAuguste and Michel Sauvage which made a lasting impression on me, especially in my coming to a much deeper understanding of the role of the Brother as catechist. Although I had not been able to continue my study of French at university after secondary school, I could read, write and speak it. My effort during the CIL session to make my way with great difficulty through Michel Sauvage’s Catéchèse et Laïcat transformed my life. My post-CIL studies had been originally planned to be in the field of education and arrangements had already been prepared for me to study at Cambridge (UK). My deeper understanding of the essential link between the Brother’s vocation and catechesis led me to change my field of study, even though I was initially uncertain as to where or how I would find the kind of studies that I felt I needed.

Study Years: 1969-1973 The insights into my own vocation and into that of the Brother as catechist during CIL led me to study in the Institute of Education at London University which had become a leader in the English-speaking world through its innovation in studies in the philosophy of education. Successful in a competitive entrance exam, I followed a seminar programme restricted to a small group and presented a Master’s thesis in Moral Education. During this time, I was invited to attend the Rome International Catechetical Week in 1971 as a delegate of the Institute. In this Congress, I was particularly impressed by the work of D.S. Amalorpavadass, whom I was later to recommend as a speaker to groups in Australia. I noted that the English-speaking group of which I was part made no distinction between the concept of catechesis i.e. faith based activities, and the concept of religious education in a more general sense. This important distinction was already part of my struggle in my thesis on Moral Education: what was the essential difference between a moral education based on a faith tradition and one which was based only on ethical principles? After the acceptance of my MA thesis, I had intended to continue doctoral studies at London University by examining the distinction between the concept of catechesis and the concept of religious education in a pluralist society. My supervisor, however, pointed out to me that continuing to work in a philosophy faculty would limit the scope of my research to philosophical principles only. After he had suggested that I would have much greater scope by working in a school of religious studies, he gave me a personal introduction to Professor Ninian Smart of Lancaster University who agreed to direct my thesis.


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Studies in Religion 1970-1971 - Lancaster University specialised in the study of religion in a inter-disciplinary manner: history of religion, philosophy of religion, sociology of religion, psychology of religion, but also intensive study of individual religions – Judaism, Islam, Hinduism, Buddhism, and Christianity from different historical perspectives. As I was required to be generally resident during my first year in the university in order to present my research plan, I was invited to follow any seminars that were of interest. It would be impossible for me to set down the importance of this year for me as I followed seminars given by world experts in all the major religions as well as taking part in various prayer and meditation groups. In retrospect I can see now that I was taken out of the ‘limited’ Catholic world in which I had been born and raised as I came to know and meet teachers and fellow students who introduced me into a much wider world where the underlying mystery of God appeared in so many diverse ways. It was an enlarged vision that still challenges me. 1971-1973 - To further my research on the European Post-World War 2 catechetical movement, I lived in Paris during two long periods, once at Rue de Sèvres and a second period with the community at École Rochefoucauld in Rue Sainte-Dominique. During this time I had access to libraries at the Institut Catholique and read most of the catechetical journals published in French, especially Catéchistes, Catéchèse, Vérité et Vie, Lumen Vitae. I read the work of Josef Jungmann and books and articles of Joseph Colomb, and followed the history of his dismissal as director of Institut supérieur de Pastorale catéchétique. I met a number of important persons who had contributed to the history of the modern catechetical movement, Jacques Bournique and François Coudreau and his Parish catechumenate groups. I visited the catechetical centres at Lumen Vitae (Brussels), and the Higher Catechetical Institutes at Nijmegen in Holland and at Munich in Germany. During this time I was in close touch with Donald Horder and the team that produced Working Paper 36 on Religious Education from Lancaster University. This group was looking at the practical implications of maintaining the provisions of the Great Britain 1944 Butler Education Act that required all government schools to have a “collective act of worship” at least once each week. The arrival of large numbers of people from India, Sri Lanka and Pakistan following the 1948 Partition of India, and the increasing presence of their children in large cities in Great Britain, raised important questions about the kind of “collective act of worship” which was appropriate when a large number of pupils were not followers of any form of the Christian religion. As part of the research work on this situation from Lancaster, I was able to visit a number of Catholic schools in London and Birmingham to interview the Principals and to hold discussions about religious education with Year 12 classes. This opportunity to see some very good Catholic schools, as well as some which were not very impressive, helped me to see that the thesis I was developing was certainly relevant and worth pursuing.


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The International Catechetical Commission 1972-1975 To address what was called the “malaise in the Institute regarding catechetics” noted by the Institute’s Inter-Capitular meeting in Rome in 1971, an international commission of 10 catechetical experts had been formed in 1972 to produce a document for the General Chapter of 1976. I was named to this Commission which met over four years in Rome. I have no hesitation in declaring that working with this Commission complemented my experience in CIL and eventually became the most important formation experience of my life, because of the quality of the Brothers who were named to the Commission. Not only was each continent represented, but the Brothers from Europe were all prominent researchers and authors. The members from Latin America, Vietnam and Africa had completed postgraduate studies in Europe. The two members from Latin America gave me a deeper understanding of the vision of the Medellin conference and introduced me to the development of liberation theology. As I was studying various aspects of the post-World War 2 catechetical and moral and religious education movements in Europe, I had a particular ‘outsider’s’ viewpoint which enabled me to understand most of the issues discussed. I had by this time enough competence in French to participate in the discussions and presentations and it was here that I first, tentatively, presented the proposed outline of my thesis, namely the importance of distinguishing the separate concepts of catechesis and religious education. I realised very soon that my own academic background was very different from practically all the other members of the Commission because all my studies were done, of necessity, in secular universities. My recent exposure at Lancaster University to the study of other religions, and my experience of coming from a society where Catholicism was in a minority position, challenged the European members of the Commission to have to try to understand perspectives from countries where Catholicism was in a minority position. By the time we had met on four occasions in Rome and finished our document for presentation to the 1976 General Chapter, I think we had all profited by the mutual enrichment that came from my own English language perspective, as well as from that offered by Brother Jeffrey Calligan from USA. Of course, we were all enriched by the particular issues brought from the delegates from Asia, Latin America and Africa. At the defence of my doctoral thesis in 1973, one of the examiners paid particular tribute to the rich background of reference, something for which I am indebted to the extraordinary formation I received through the International Catechetical Commission. As the work of the Commission continued until 1975, I was able to return to Europe each year from Australia and make presentations in the CIL groups of 1974 and 1975, as well as to attend the meeting Catéchèse 80 in Paris in 1975. My meeting there with Pierre Moitel, responsible for the aumôniers (chaplains) in Catholic schools, enabled me to invite him to present to the CIL groups in Rome in 1978 and 1979. My continuing contact with two members of the original commission, Herman Lombaerts and Jeffrey Cal-


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ligan, and my introduction of Damian Lundy to them both, created an important English language reference group which offered mutual support for all of us until Damian’s untimely death in 1997. During my fourteen years as a member of the General Council I was able to appreciate the pioneer work of another Catechetical Commission member, Flavio Pajer, in his development of excellent religious education (sic) courses for all schools in Italy, in spite of the misunderstanding and opposition of some bishops.

Australia 1973-1977 After I had submitted my doctoral thesis in October 1972, I accepted Brother Charles Henry’s invitation to appointment to the staff of the 1973 CIL session. The CIL sessions had run into difficulty for a number of reasons. To many members of the 16 strong General Council who had been formed through the traditional Second Novitiate, the whole concept of a “process” based session of only three months was outside their experience. They could not accept that Brothers would be free to wear, or not wear, the traditional habit of the Institute. There had been such strong criticism of the first two sessions from the Council that eventually the Spanish director was led to resign and eventually left the Institute. Michel Sauvage had taken over the direction of CIL himself but various Assistants refused to offer Brothers from their Assistancies as staff members or as participants. My acceptance of nomination and that of someone from Spain meant that although in theory there were to be five staff members, we began the work as three persons before Sister Claire Girardin joined us as secretary. I found my work as staff member a very rich experience because I was working closely with Brother Michel Sauvage, and now, freed from the burden of my own study, I had the time and energy to devote myself completely to this new task. I had already felt privileged in studying with my thesis supervisor, Professor Ninian Smart, but working closely with Michel Sauvage made me realise that I was again privileged to be working so closely with an outstanding scholar and presenter, whose integrity and scholarship so greatly influenced me and gave me the passion for Lasallian research that has become such an important aspect of my life. It is generally accepted that this particular CIL session ‘appeared’ to be more ‘successful’ from the viewpoint of a number of the Assistants who formed the General Council. The CIL programme continued to develop and became an important instrument of renewal for the Institute. When the CIL session concluded, it was Michel’s advice that I should now return to my District to share the fruits of my scholarship, so for the next 3-4 years I served on the staff of Polding College, later Catholic College of Education, and today, the Australian Catholic University, of which I remain an Adjunct-Professor. Once I had resumed the editorship of Our Apostolate, I had an important platform


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to share the fruits of my own research and to invite articles from other sources. This led to me being invited to join the Bishops’ national committee on catechetics and to participate in a number of plenary sessions. I was asked to be a presenter at the newly founded Pastoral Institute in Melbourne, a role I fulfilled for three years until my return to Rome at the end of 1977. I was also asked to serve twice as a consultant in the development of a new set of catechetical guidelines for the Archdiocese of Melbourne. My contact with Brother Herman Lombaerts, whom I first knew through CIL and membership of the International Catechetical Commission while he was responsible for the first year of the Lumen Vitae course, enabled me to invite him to make presentations in Australia and subsequently to become a regular presenter and visiting professor at the National Pastoral Institute. My friendship with Brother Damian Lundy and my experience of working with him in England on a number of occasions, enabled me to invite him to make three visits to Australia to present with me in a number of centres as well as in the National Pastoral Institute. After the publication in 1975 of a book, Catechesis and Religious Education in a Pluralist Society, based on my doctoral research, it became a prescribed text in Catholic teacher-training institutions and I had many opportunities to present its thesis. An edition, published by Our Sunday Visitor the following year in USA, won the religious book of the year award. I was requested to run a number of workshops for school teachers and catechists based on my doctoral thesis. I also wrote a number of articles for Our Apostolate drawing some of the implications of the thesis for schools. Of particular concern for me was something I had learned from Gabriel Moran’s writings: the importance of respecting the freedom of the students, especially in senior classes. I made appeal to the Vatican II document on Human Dignity, especially on its emphasis that the act of faith must be free… and that therefore this Synod forbids every act of coercion in matters religions. This led to vigorous discussions which all tended to centre on the thesis itself, namely the importance of distinguishing between matters of personal faith and general religious education. I was asked to act as a reader for the doctoral thesis of Graeme Rossiter who developed further implications from my own work. It is with some personal satisfaction that I note that curriculum in the vast majority of Catholic schools, primary and secondary, now distinguishes clearly between activities that presume a common faith in those who participate – catechesis, or the education of faith – and the more general activities that come under the title of religious education. As there was great interest in Australia at this time in the Moral Education movement which had grown up in England, Canada and the United States, I also ran a number of workshops with interested groups from government schools, at their request and published some articles as well.


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1977 Synod on Catechetics To prepare for the 1977 Synod on Catechetics, I made an appeal in an article in Our Apostolate to engage young people in writing a letter to the Pope and the Synod delegates. Teachers at individual schools were contacted by phone or letter to encourage their young people to participate. Accompanied by Brother Damian Lundy, with his rich experience with young people as one of the founders of the Pastoral Centre in Kintbury, England, I accepted to conduct a series of workshops with young people and parents in New Zealand and in Australia over nearly three months in order to formulate the important issues regarding religious education. The excellent response to young people writing letters enabled us to send nearly 800 examples to the two Australian bishops who were delegates to the Synod. The experience of the workshops with adults brought to the surface some of the difficulties and tensions about religious education being experienced by parents and teachers because of the changes in society and changes in the church that resulted from Vatican II.

Teaching about other religions As government education in Australia was founded on the Enlightenment principle of “free, compulsory and secular”, schools where religion is part of the curriculum have usually been founded by mainstream Christian groups, Catholics, Anglicans, Lutherans, Methodists and Presbyterians. There have been attempts to include the study of religion, understood as “teaching about religion”, in all government schools. My background from Lancaster University led me to be invited to work with a number of Anglican and Lutheran scholars who were interested in creating courses about religion that would be considered within the provisions of the Australian constitution. I was invited to speak at a bi-annual meeting of private religious schools at which the chief speaker was my thesis supervisor, Professor Ninian Smart, and to propose the vote of thanks to him at the end of the conference. It was through my conversations and recommendations with three Australian Catholic scholars that they eventually decided to complete their doctorates at Lancaster University.

Some major influences It is difficult to isolate individual incidents or particular writings which changed my way of thinking, although there are certainly some which had more influence than others. As I have noted earlier, it was the CIL experience of 1969 which took me very quickly from my limited Australian background to a much wider view of the


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world. There were many different aspects in this broadening but I can still recognise the following as very significant: I moved from a single-language English speaking world to live with a group of Brothers who came from over 45 different countries; I met for the first time a number of Brothers from different countries who moved easily across two, three or more languages, while I was struggling to express myself through my secondary-school French; I became aware of Brothers from Latin America whose lives were endangered by their concern for the poor; I found that the excitement I felt following the event and the documents of the Second Vatican Council and the new vision I had experienced through reading the Declaration of the Brother in the World of Today was not necessarily shared by all the Brothers following the session; As the Director of the first group of Scholastics following full-time university courses in Australia, I felt that our formation courses needed radical revision in some aspects, but I found that other Brothers were reluctant to make many changes; My communication through French with French Brothers showed me a deeply secularised society which I had never encountered before; My friendship with a Basque Brother, who was politically involved with strong political convictions about the independence of his homeland, was something I had never previously encountered; My ‘discovery’ through the presentations of Brothers Michel Sauvage and Maurice-Auguste of a much more ‘human’ John Baptist de La Salle than I had encountered in my formation in novitiate and scholasticate. A second major and life-changing experience, as already noted above, was my experience at Lancaster University when I had the opportunity to follow seminars in the major world religions. It was not only the intellectual challenge of understanding these religions but also of meeting and discussing with people whose lives were based on them. This was especially significant for me in the experiences of prayer and meditation. I remain very grateful for having this background when I was called to work with the Brothers in many different Asian countries.

Intellectual influences I know that the event and documents of Vatican II have been a lasting influence on my life in many different ways. I think it was the external changes – Mass in the vernacular facing the people, the wide range of new hymns including the ‘borrowing’ of great traditional hymns from the Anglicans, Methodists and Lutherans, the prac-


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tical social effects of ecumenism – that first excited and stimulated me. There was a second stage where I began to deepen my understanding of concepts such as “People of God”, the attention to a deeper understanding of God’s revelation, the vision of Nostra Aetate on other religions, the hopeful spirit of Gaudium et spes and the deeper understanding of ‘Church” in Lumen gentium. From a specifically intellectual viewpoint, it was my systematic reading of the literature of the post-war catechetical journals from France and from Lumen Vitae that made me aware that, although some of the recurring issues were not yet typical of the Australian society I knew, it was only a matter of time before they would be. I was greatly influenced by my reading of Joseph Colomb, especially as I became aware of the issues which had led to his dismissal from ISPC in Paris. The author to whom I feel I still owe most debt in changing my thinking about the importance of culture in a fundamental way is Jacques Audinet. I had come across Audinet’s presentation, Catechesis: The Church building the Church in a given Culture, given to the French Episcopal assembly in Lourdes in 1975 and this had drawn my attention to the importance of inculturation as distinct from acculturation. These two words were to dominate much of the discussion in the 1977 Synod of Catechetics. With the help of a colleague, the article had been translated and was published in English in Our Apostolate where it attracted a good deal of attention. I had devised a catechetical workshop based on Audinet’s article and had the opportunity to give the workshop many times in Australia and in New Zealand and once in the Philippines.. Audinet, the reporter for the 1977 Synod, published the reflection entitled Message to the People of God which developed the leading ideas from that Synod. I made extensive use of the ideas of this document as well and was therefore somewhat disappointed when the official document from the Synod, Catechesis in our Time, authored by the newly-elected Pope John Paul II, seemed to me to look backwards rather than forward.

«Catéchistes» and «Temps et Paroles» I can recall how puzzled I was as a young Brother in the 1950’s when I first began to read Catéchistes. This was not the kind of church which I knew in Australia and the editorials spoke of a world which seemed very different. Re-reading Catéchistes in Paris some fifteen years later was such a completely different experience that I began to realise just how much I had changed from living two years in Europe. This feeling was even stronger when I read Didier Piveteau’s editorial and content of the first edition of Temps et Paroles. The insight was brilliant. The whole catechetical approach had to be in ‘synch’, to be ‘relevant’ with the ‘times’, with what was happening in the society, and the ‘words’ used had to be words that could resonate in the society. I think this insight was brought home to me in a special way by the controversy sur-


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rounding the programme Pierres vivantes. While I did not understand all the aspects of the differing opinions, I did learn that the ‘condemnation’ of certain parts of the overall programme came from Rome. I found this failure to respect the particular cultural circumstances of France and the work of those who composed the programme an unwarranted intrusion, reminiscent of the condemnation of the WorkerPriest movement of the late 1940’s and of the dismissal of Joseph Colomb from the ISPC. The fact that Temps et Paroles eventually could not guarantee a readership that made it financially viable brought home to me the imposed limitations on the content and methodology of any forward thinking about catechesis. My subsequent experience has only confirmed that original impression.

My fundamental convictions about catechesis and religious education I feel that the best way for me to try to express my ‘fundamental convictions’ is to trace what I can recognise as important moments in my journey as a Brother. From my early training and from my experience as a pupil in a Brothers’ school, I have always believed in the importance of having a privileged moment in each day when I shared from my heart something that was important to me. This, of course, was the Reflection and I can look back honestly on all my years of teaching and know that I gave my reflection each morning in the class that was my particular responsibility. In my last seven years as a Senior teacher with graduating students, I not only gave this reflection myself but each week I invited anyone who wished to volunteer to give the reflection on Friday. While the quality of such presentations may not have been uniform, I was impressed not only by what certain students chose to say but also by the fact that they were always listened to attentively by their class mates. I think this kind of ‘faith sharing’ is always risky but it is one of those traditional Institute practices that can be a deep form of catechesis, ‘faith speaking to faith.’ A second conviction to which I came, largely through the writings of Gabriel Moran, was the importance of personal freedom. I came to see and appreciate that the traditional Latin expression, ‘oremus’ or ‘let us pray’, was always invitatory, so that in my last years of secondary school teaching, I would often point this out to students and invite them to think of class prayer as an invitation. If they themselves did not wish to pray, they should always respect others who were present and ensure that they could do so. The Council’s document Dignitatis humanae stressed that “the act of faith must always be free” and that “no one is to be forced to embrace the faith.” By stressing the importance of the direction that “every act of coercion in religious matters” is forbidden, I know that some of my graduate students have been


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able to change the culture of some Catholic schools with regard to the compulsory attendance of students at Masses or the reception of sacraments. A third conviction arising from my year of interreligious activities at Lancaster University has been to recommend and sustain the study of other religions by educating students to the beliefs and practices of the world religions as well as to their understanding of the different Christian groups in their country. While such studies inevitably have a certain ‘comparative’ aspect to them, I have always stressed the importance of meeting and listening to people who belong to other religious groupings. This is not to promote a certain ‘relativism’ but to help students appreciate the dignity of their Christian baptism and to understand the impossibility of containing the mystery of God within any particular set of definitions. A fourth conviction about the value of Catholic schools grew from my experience of visiting Brothers behind the Iron Curtain and later in Vietnam. Listening to the individual stories of brothers in Czech, Slovakia, Hungary and Romania was lifechanging. The Brothers’ communities were closed and in most cases the Brothers had to work in labour camps or spent many years in prison precisely because they were religious. Priests who were similarly detained, were usually released to return to parishes, but in none of these countries were the Brothers allowed to re-open their communities, and even less, their schools. The communists had a very clear perception about the strength and importance of Catholic schools. They also knew that a religious community was always stronger than its individual members. A fifth conviction is the importance of providing our students in secondary schools with various kinds of opportunities to be involved in different forms of Christian service. Often it is the de-briefing following such activities that can bring to light the strength of certain Gospel teachings, such as the parables of the Good Samaritan and the Prodigal Son, or of the Last Judgement as told in Matthew Chapter 25. A sixth conviction, and a continuing influence in my thinking, was the document Evangelii nuntiandi of Pope Paul VI. It offered the most comprehensive ‘vision’ of the task and duty of every Christian to share the gospel with others. It was particularly the sections on the crisis brought about by the separation of ‘faith’ and ‘culture’ which have had the most lasting impression on me. I see now why I found the Audinet article to which I have already referred so important because of the way in which the various ‘models’ proposed by the author were easy to grasp concrete examples of the interplay between faith and culture. Pope Paul’s emphasis throughout his document on the importance of ‘witness’ has always resonated strongly with me. * I can now look back and appreciate that the particular circumstances of my own studies led me to spend many years of my life as a Brother outside my own country.


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I think that I encountered ‘pluralism’ not as an abstract idea but through my experience of having to live in different countries and societies and, in particular, to learn and use other languages. This experience has helped me to realise that each language introduced me to another way of thinking and so relativised the limitations of one language and of one Catholic gradually through my years of doctoral research but I now see how important this understanding has become for me. As I have already mentioned, my appreciation of Audinet’s writings was that it made me realise the fundamental importance of ‘culture’ in any presentation of Catholic teaching or ritual celebration.

Publications BOOKS: Catechesis and Religious Education in a Pluralist Society, E.J.Dwyer, Sydney. ISBN 0 85574 297 6, Our Sunday Visitor, USA. Growing into Faith [with Damian Lundy] Darton, Longman & Todd London 1982. ISBN 0 232 51482 8. For Our Life is but a Song [with Benet Conroy]:Memories of Damian Lundy McCrimmons, Great Wakering, Essex, England 2000. ISBN 0 85597 624 1. The De La Salle Brothers in Australia: 100 Years of Presence, David Lovell Publishing 2006. ISBN 0 97511 481 6. In Memoriam. Brother John Johnston, General Council FSC, Rome, 2008. Brothers to One Another The De La Salle Brothers behind the Iron Curtain David Lovell Publications 2001 ISBN: 978 0 9751148 5 8 ARTICLES (a selection): The End of Childhood The Way Cavendish Square, London, Contemporary Christian Spirituality 1983. The Synodal Message to the People of God. Text and Commentary, “Word in Life” Vol. 26 No.1 February, 1978. Catechesis & Religious Education in a Pluralist Society Revisited. Keynote address to the biennial conference of the Australian Catholic University 18th April 2001. Catholic teachers for the New Millennium Victor Memorial Lecture for the Australian Catholic University 26th November 2001 A Religious Teaching Congregation encounters the Great Religions, The Australasian Catholic Record, October 2003, Vol. 80, No.4. Faith and Life Catholic Education Week Address 20th March 2007, Catholic Education Office, Archdiocese of Melbourne. ISBN 0 86407 345 3.


JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE

OPERE COMPLETE in 6 volumi, rilegati con sovracoperta, 22 x 15 cm. Prima edizione italiana a cura di SERAFINO BARBAGLIA

1. Scritti Spirituali / 1 Raccolta di vari Trattati brevi – Regole – Scritti personali Presentazione di A. HOURY – Introduzione di M. SAUVAGE e M.-A. HERMANS pagine 544

2. Scritti Spirituali / 2 Meditazioni – Spiegazione del metodo di orazione Presentazione di J. JOHNSTON pagine 1194

3. Scritti Pedagogici Guida delle Scuole cristiane – Regole di buona creanza e di cortesia cristiana Edizione italiana a cura di R. C. MEOLI pagine 480

4. Scritti Catechistici I doveri del cristiano verso Dio Traduzione e note a cura di G. DI GIOVANNI e I. CARUGNO pagine 862

5. Istruzioni e Preghiere Istruzioni e preghiere – Esercizi di pietà – Canti spirituali Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA e I. CARUGNO Presentazione di Á. RODRIGUEZ ECHEVERRÍA pagine 470

6. Le Lettere Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA Introduzione di R. L. GUIDI pagine 560

CITTÀ NUOVA EDITRICE Via degli Scipioni, 265 – 00192 Roma tel. 063216212 – comm.editrice@cittanuova.it


RivLas 78 (2011) 4, 783-795

RETAZOS LASALIANOS [41-46] JOSÉ MARÍA VALLADOLID

Los estudios de Juan Bautista de La Salle [41]

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racias a las intensas búsquedas de los investigadores, y de manera especial las de los Hnos. Yves Poutet y Luis Aroz, podemos establecer, con suficiente precisión, el calendario de los estudios que realizó el Santo. Fueron los siguientes:

Formación en casa: hasta los 10 años. Colegio de Bons Enfants: ingresa el 10 de octubre de 1661. Filosofía: 10 de octubre de 1667, comienza la filosofía, cursos de lógica y moral • 2 de mayo de 1666, sesión académica, en el domingo de Quasimodo, en el colegio de Bons Enfants. Participa Juan Bautista y está presente Pedro Dozet, canciller y secretario de la Universidad • 10 de octubre de 1668, comienza el último año de filosofía, física y metafísica • julio de 1669 Juan B.ta solicita el certificado de escolaridad del bienio de filosofía • 8 de julio de 1669, recoge las testimoniales escolares, como escolar jurado de la facultad • 10 de julio de 1669, pasa la prueba para Maestro en artes • octubre de 1669, comienza los estudios de teología: cursos de Miguel Blanzy y de Daniel Egan. Teología, 1670. Para obtener el bachillerato se requerían cinco años: tres de teología y dos de filosofía superior. Las clases se daban en San Patricio y en San Dionisio • 15 de julio de 1670, obtiene los certificados de haber seguido el año de teología •17 de octubre, llega a París para estudiar el segundo año de teología. San Sulpicio: 18 de octubre de 1670, ingresa en el Seminario de San Sulpicio • 1670-1671, estudia el segundo curso de teología • 27 de julio de 1671, obtiene los certificados de estudios del segundo año de teología en la Sorbona: De Incarnationis Mysterio, por el profesor Despériers y Sanctisimae Trinitatis Mysterio, por Lestocq • 19 de octubre de 1671, comienza el tercer curso de teología: De Sacramentis


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in genere, por Jacques Despériers; De Gratia, por Guillermo Lestocq • en San Sulpicio, por La Barmondière, casos de conciencia sobre las virtudes teologales • 12 de abril de 1672, termina los estudios en la Sorbona • 19 de abril de 1672, termina su estancia en el Seminario de San Sulpicio. Teología en Reims: mayo-agosto de 1672: sigue los cursos de teología en San Dionisio de los profesores Egan y Blanzy, en Reims • 10 de agosto de 1672, termina el curso del profesor Egan. Interrupción: 10 de octubre de 1672, decide suspender por un año los estudios, a causa de las obligaciones familiares • 6 de diciembre de 1672, fecha del certificado de estudios del tercer año de teología, hecho en París, desde octubre de 1671: De Sacramentis in genere, por Despériers, De Gratia, por Lestocq • 3 de julio de 1673, fecha del certificado de estudios del curso de teología, en Reims, del profesor Egan, seguido en el año 1672. Filosofía superior: 10 de octubre de 1673, reanuda los estudios, con el primer curso de filosofía superior • 10 de octubre de 1674, comienza el segundo curso de filosofía superior. Bachiller en Teología: agosto de 1675, obtiene el título de Bachiller en teología, Maestro en artes. Licenciatura: 1 de enero de 1676, comienza la licenciatura en teología • 15 de julio de 1676, en San Patricio, Reims, pasa la prueba Mayor ordinaria, o Patricia, para la licenciatura • 9 de octubre de 1676, es elegido elector, representando a la Universidad en la elección del Procurador de las naciones de Francia y Lorena • 31 de diciembre de 1676, termina el primer año de licenciatura en Reims • 9 de octubre de 1677, elegido elector, por segunda vez, para designar al Procurador de las naciones de Francia y Lorena • diciembre de 1677: pruebas académicas, Mayor ordinaria y Menor ordinaria, o Aulica, en San Patricio • 31 de diciembre de 1677, termina el segundo año de licenciatura • 26 de enero de 1678, obtiene el título de licenciatura en teología (a la 1 de la tarde, junto a cuatro compañeros: André Picotté, Jean-Baptiste de Y [Dey] de Séraucourt, Nicolás Bernard y Simon Aimé; profesor Pablo Picot. El cartel del acto se encontró en 1908) • 9 de octubre de 1678, elegido por tercera vez elector como representante de la universidad para la elección del Procurador de las naciones de Francia y Lorena • 9 de octubre de 1679, legido por cuarta vez elector como representante de la universidad para la elección del Procurador de las naciones de Francia y Lorena. Doctorado: abril de 1680: doctor en teología. Para obtener el doctorado, sostiene las pruebas llamadas Expectativa y Vesperinas; preside la sesión Aulica y recibe el título de doctor. [Blain pone 1681, pero Maillefer MR anota al margen 1680].


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Pasos de Juan Bautista de La Salle hacia el sacerdocio [42]

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n la cronología de los diversos pasos que dio Juan Bautista hacia el sacerdocio, a veces se encuentran inexactitudes, e incluso errores, que se han ido transmitiendo en las diversas biografías del Fundador. Tratemos de recoger los datos exactos. Tonsura: 11 de marzo de 1662, sábado, víspera del tercer domingo de Cuaresma, en la capilla del arzobispado de Reims. Conferida por Mons. Juan de Malevaud, franciscano recoleto, obispo “in partibus” de Valona (o Aulona, Albania), auxiliar de Clermont desde 1648. Recibe la canonjía: 7 de julio de 1666, cedida por Pedro Dozet; toma de posesión de la canonjía el 7 de enero de 1667 (Sitial n.º 21). La sede de Reims estaba vacante. Órdenes menores (ostiario, lector, exorcista y acólito): 17 de marzo de 1668, en la capilla del arzobispado. Por ausencia del arzobispo, las confiere mons. Carlos de Bourlon, 57 años, obispo coadjutor de Soissons desde 1652, sucesor de Simón Le Gros desde 1656. Falleció en 1685. Entrada en San Sulpicio: 18 de octubre de 1670. Salida de San Sulpicio: 19 de abril de 1672. Subdiaconado: mayo de 1672, Juan Bautista escoge a Nicolas Roland como director espiritual. Es canónigo y tiene 9 años más que él • 24 de mayo de 1672, autorización del arzobispo para recibir el subdiaconado • 27 de mayo de 1672, autorización del cabildo para recibir el subdiaconado • 11 de junio de 1672, recibe el subdiaconado en la capilla del palacio arzobispal de Cambrai, de manos de Mons. Ladislao Jonnart, arzobispo de Cambrai. Proyecto de permutar la canonjía por una parroquia, por consejo de su director espiritual, Nicolás Roland: 20 de enero de 1676, en Châlons-sur- Marne, entre Andrés Cloquet y Juan Bautista, ante el notario Rogier. La canonjía pasaba a Remigio Favreau, capellán de la Capilla de San Pedro y San Pablo, en la catedral, desde 1669; Andrés Cloquet se haría cargo de la capellanía y Juan Bautista recibía la parroquia de Cloquet, que era San Pedro el Viejo de Reims • 2 de marzo de 1676: Cloquet, en Châlons-sur- Marne deshace la permuta de la canonjía, ante el notario Lepicier. Envía copias del acta a Remigio Favreau, a J.-B. de la Salle y al Vicario general. Diaconado: 9 de marzo de 1676, obtiene las dimisorias (autorización) del arzobispado para recibir el diaconado, firmadas en París por el arzobispo Charles Maurice Le Tellier • 13 de marzo de 1676, obtiene las dimisorias del cabildo para recibir el diaconado • 21 de marzo de 1676, en París, en la capilla del palacio arzobispal, recibe el diaconado, de manos de mons. François de Batailler, obispo de Belén desde


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1664. Delegado por el arzobispo de París, Harlay de Champvallon. Certificado expedido en París. Sacerdocio: enero de 1678: retiro preparatorio de Juan Bautista, durante diez o doce días, en el Seminario de Reims. Probablemente dirigido por Jacques Callou, rector del Seminario, que estaba en la calle du Jard • 9 de abril de 1678, ordenación sacerdotal, por Charles-Maurice Le Tellier, en la catedral de Reims. Primera Misa: 10 de abril de 1678, en la capilla de Nuestra Señora de la catedral de Reims • 29 de junio de 1678, Juan Bautista obtiene los poderes para confesar •7 de agosto de 1678, desempeña el cargo de semanero en el cabildo; preside la misa canonical y los actos del coro • 11 de agosto de 1678, oficia la misa del Santísimo Sacramento •22 de diciembre de 1678, poder dado a Juan Bautista para recibir la abjuración de Susana Périeux, de 16 años; 29 de junio de 1680, obtiene poderes para predicar y confesar. Última Misa: 19 de marzo de 1714, en San Yon estaba enfermo, sin poder moverse, pero recobró la salud para poder celebrar la misa de San José.

Las enfermedades que sufrió Juan Bautista de La Salle [43]

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as principales enfermedades que sufrió La Salle, según se desprende de las biografías, la de Blain ante todas, fueron las que se reseñan a continuación. 1690. Hacia noviembre cayó enfermo en Reims. Tenía 39 años. Su abuela fue a visitarle, pero no permitió que subiera a su habitación, sino que se levantó y fue a verla a la sala de visitas.. Sin estar bien curado, regresó a pie a París. 1691. Residía en París y tuvo que ir a Reims. Sería hacia noviembre de 1690, aunque no es fecha segura. Llegó muy cansado. Al fin de año, le avisaron que el Hno. Enrique L’Heureux estaba muy grave; y otra vez viajó andando a París. Llegó cuando el Hermano Enrique ya estaba enterrado. Pocos días después regresó, también a pie, a Reims y volvió a París. Llegó agotado y tuvo que guardar cama. La enfermedad era gravísima. Se trataba de retención de orina. Recibió los últimos sacramentos de mano del párroco, señor Baudrand. Se salvó por el remedio que le aplicó el doctor Helvecio. 1694. Durante parte de 1694 hasta finales de 1695 se vio afectado por el reuma. El tratamiento fue durísimo, pues tuvieron que colocarle sobre una especie de parrilla, debajo de la cual quemaban unas hierbas, cuyos vapores penetraban en el cuerpo. Este tormento se lo tuvieron que aplicar repetidas veces. 1700. En este año Juan Bautista estuvo enfermo de un dolencia que no se precisa. 1705. Sufrió largo tiempo de una lupia en la rodilla. Después de diversos remedios, acudió a Fray Cosme, capuchino, que no le curó del todo y hubo que repetir la operación con la llamada «piedra infernal» (nitrato de plata).


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1707. Probablemente en el mes de febrero de 1707, Juan Bautista tropezó con un hierro saliente del suelo, al pasar por las Tullerías, y se le clavó en la rodilla. Tuvo que estar seis semanas en descanso total. Parece que en ese momento residía en San Roque. Allí fue a verle, mientras se reponía, el abate Clément por primera vez. 1708. Estando enfermo en San Yon, Juan Bautista recibió la visita del Intendente y del señor de Pontcarré, presidente del Parlamento de Normandía, muy amigo del santo. El motivo fue una denuncia de que no se trataba bien, en cuanto a alimentación, a los alumnos de San Yon. 1714. Durante su estancia en Grenoble, padeció de nuevo de reuma, y hubo que repetir el remedio de la parrilla con ramas encendidas debajo. 1716. Durante el año, ya en San Yon, pasó diez meses padeciendo en su salud, como dice él mismo en la carta 32, del 5 de diciembre de 1716. 1718. Durante su estancia en el seminario de San Nicolás du Chardonnet, sufrió de nuevo una crisis de reumatismo. 1719. Fue su última enfermedad, que comenzó a afectarle antes de llegar la Cuaresma. Luego sus males se agravaron. Además sufrió un caída al sentarse en una silla mal colocada, y una puerta le cayó encima y le causó un dolor enorme. Sólo se repuso la víspera de la fiesta de san José, por la tarde, y al día siguiente se pudo levantar y celebrar su última misa. Pero tuvo que volver a la cama, y ya no se repuso. Murió en la madrugada del 7 de abril, Viernes santo.

¿Cuál era el papel del abate Brou, en 1714, en la comunidad de los Hermanos de París? [44]

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ste episodio de la vida del Fundador tal vez sea poco conocido. Pero tiene relación con el intento de destitución del santo en la primera semana de diciembre de 1702. El Vicario del cardenal De Noailles, Pirot, acudió a la Casa Grande a lo largo de varias semanas e hizo una visita para comprobar la denuncia que el párroco, La Chétardie, había presentado en la curia de París contra el santo (Blain,I,404ss.). Sabemos que no consiguió su propósito de que La Salle fuera depuesto de su cargo de superior, porque los Hermanos se opusieron tenazmente, e incluso amenazaron con marcharse y abandonar las escuelas si se les ponía como superior al abate Bricot. Al final negociaron con el Vicario un acuerdo según el cual el fundador seguiría como superior efectivo, y el otro sólo como superior nominal. El abate de La Chétardie nunca se resignó, y siguió su personal oposición contra La Salle, tratando de que se alejara de París, con el fin de poder él influir en la marcha de la vida de los Hermanos. Lo consiguió cuando en 1712 la sentencia del pleito con Clément obligó a La Salle a marchar a la Provenza, para esconderse de sus enemigos y llevar vida retirada.


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El párroco, pasado algún tiempo, con mucho esfuerzo e insistencia, logró que el Hermano Bartolomé, que venía a ser como la cabeza de los Hermanos de París, ya que allí nadia sabía dónde estaba La Salle, escribiera a los directores de las casas, indicándoles que solicitaran de los obispos el nombramiento de un superior eclesiástico. No tenemos constancia de que él lo solicitara del arzobispo de París, cardenal de Noailles, pero el párroco, La Chétardie, por su cuenta, encomendó a un sacerdote, probablemente perteneciente a la comunidad de San Sulpicio, la dirección de las escuelas de la parroquia. Esto significaba que, a falta del señor de La Salle, este sacerdote, apellidado Brou, tenía a los Hermanos bajo sus órdenes. Como en aquella época la vida de comunidad y el ministerio escolar formaban unidad, el buen abate Brou pasaba la mayor parte del día, no en las escuelas, sino en la comunidad de los Hermanos, en la calle de La Baroullière. Allí se consideraba, más que como director de las escuelas, como el superior efectivo, eclesiástico, de los Hermanos, que no hacían nada sin su consentimiento. Su actuación estaba inspirada siempre en los deseos del abate de La Chétardie, a quien daba cuenta de cuanto hacía y de cuanto ocurría en la comunidad. Con tanta autoridad se consideraba que llegó hasta el punto, de común acuerdo con el párroco, de proponer al cardenal la modificación de las Reglas de los Hermanos, que en algunos puntos le parecían excesivamente rigurosas. Ocurrió que un día fue el cardenal de Noailles a administrar la confirmación en la parroquia de San Dionisio. Entre los confirmandos estaban algunos alumnos de la escuela de los Hermanos, acompañados por sus profesores. Al ver a los Hermanos se acercó a ellos para saludarlos. Les preguntó por el señor De La Salle, y le dijeron que estaba por el sur de Francia. «Hermanos, les dijo, tienen ustedes como superior a un santo. Cuando regrese salúdenle de mi parte». Cuando La Chétardie y Brou se enteraron de esta deferencia del cardenal, pensaron aprovechar esta buena disposición del prelado para proponerle los cambios de la Regla. Acudieron al palacio arzobispal, acompañados por el Hermano Bartolomé, a saludar al cardenal y agradecerle su interés. Días después volvieron al palacio y le entregaron un escrito con las modificaciones que deseaban introducir en las Reglas de los Hermanos. El señor cardenal lo recibió y les dijo que ya lo estudiaría. Al cabo de varios meses, mandó a su Vicario que lo devolviera al abate Brou, pero sin aprobar ningún cmabio. El Vicario se lo entregó con una nota que decía: «Al señor cardenal le parece que, por el momento, no se cambie nada de estas Reglas». La Chétardie y Brou lo consideraron como una contradicción para lo que se proponían. Muchos Hermanos se enteraron de estas maniobras de los dos sacerdotes, y sobre todo de haber pedido «superiores eclesiásticos» para las casas, y aunque no sabían a ciencia cierta el paradero del fundador, le enviaron numerosas cartas, temerosos de que, con sus tejemanejes, consiguieran cambiar la estructura del Instituto. Algunas de esas cartas llegaron al santo cuando estaba residiendo en Grenoble, y por ello envió, en el mes de octubre de 1713, al Hermano director, para que se informase de lo que ocurría por París. Durante los casi dos meses que el director estuvo ausente, La Salle le reemplazó en la escuela, y toda la ciudad quedó muy edificada, porque


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tanto los niños como sus padres se hacían lenguas de aquel sacerdote que formaba a sus alumnos con tanta maestría. En París todo se complicaba, hasta el punto que el Hno. Bartolomé reunió a los directores más cercanos, los de París, San Dionisio y Versalles y decidieron llamar al santo, para que volviera. Así lo hicieron mediante la carta del 1 de abril de 1714, día de Pascua, que el santo recibiría, tal vez, hacia el 15 o 20 de abril, cuando ya había regresado de Parmenia, ya totalmente repuesto de la enfermedad que le había atenazado durante los meses anteriores. Por la vida del Hermano Bartolomé, escrita por Blain al final del Espíritu y Virtudes, sabemos que el santo le escribió diciendo que quería saber si los demás Hermanos de las otras casas estaban de acuerdo en que regresase. El Hno Bartolomé consultó por carta con todas las casas del norte (Blain dice que consultó a las casas del Sur, lo cual no tiene sentido, porque en el Sur estaba ya estaba presente el santo). Esta consulta explicaría que La Salle tardase casi cuatro meses en presentarse en París, pues llegó el 10 de agosto de 1714. Cuando el fundador llegó a la comunidad de los Hermanos de la calle de La Baroullière, se presentó diciendo: «Ya estoy aquí, Hermanos. ¿Qué deseáis de mi?». Y se encontró que en la casa estaba como superior el abate Brou. ¿Quién le había nombrado para tal cargo? Nadie. Sin embargo todos los residentes en la casa dependían de él. Pocas semanas antes de la llegada del fundador había dicho a los Hermanos: «Vosotros me llamáis superior, pero sería conveniente que ese título figurara en el Registro de la casa». Y pidió al Hno Bartolomé que redactara un acta donde su dijra que se le reconocía como superior de los Hermanos. Y el Hno Bartolomé lo hizo, a pesar de aquella otra acta, del 7 de junio de 1694, en que firmaron los doce primeros Hermanos de votos perpetuos que nunca admitirían a un sacerdote como superior. Más tarde, cuando La Salle ya había regresado, el Hno Bartolomé o algún otro arrancó del Registro, donde figuraban las 13 fórmulas de los votos perpetuos, el acta relativa al abate Brou. En el cuaderno que hacía de Registro, guardado en los Archivos de Roma, aún se ven los restos de la hoja arrancada. Pues bien, este sacerdote, el abate Brou, desde 1712 a 1717, sin ningún nombramiento, estuvo ejerciendo como superior de los Hermanos de París, y él era quien disponía de los honorarios que recibían los Hermanos por su trabajo en las escuelas de la parroquia. El mismo La Salle le tuvo que pedir autorización cuando vio que el noviciado no podía seguir en París, y que tenía que trasladarlo a Ruán. El abate Brou se lo concedió, pero a él le negó el permiso para trasladarse a San Yon con el Noviciado. Menos mal que algunos Hermanos le hicieron ver que el santo le obedecía por deferencia, y sólo entonces accedió a que saliera de París. ¿Cuándo dejó este abate de ejercer sus funciones de superior? Cuando los Hermanos celebraron el Capítulo General de 1717, y fue elegido superior general el Hno Bartolomé. Fue entonces cuando tanto el abate Brou como los otros «superiores eclesiásticos», de las casas de provincias, se dieron cuenta de que su función ya no tenía sentido, y discretamente se fueron retirando.


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El fantasma de la Casa Grande [45]

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no de los episodios más curiosos en la vida de La Salle son los extraños sucesos que ocurrían en la Casa Grande, y que los Hermanos no sabían explicar. Es lo referente al fantasma que veían dos Hermanos en algunos momentos. La Salle alquiló la Casa Grande cuando tuvo que abandonar Vaugirard, que resultaba demasiado pequeño para todas las personas que vivían allí. Lo hizo en los primeros meses de 1698 y los Hermanos pasaron a ocuparlo en el mes de abril. Estuvieron en esta nueva y amplia casa hasta el 20 de agosto de 1703, cuando La Salle tuvo que dejarla porque los dueños la vendieron, y él, aunque le gustaba mucho, no tenía dinero suficiente para comprarla. Los nuevos propietarios, a ruegos de La Salle, le permitieron seguir ocupando la casa hasta que encontrara otra a la que trasladar su comunidad. Es decir, que los Hermanos ocuparon la Casa Grande durante cinco años y cuatro meses. Cuando La Salle la alquiló llevaba desocupada bastante tiempo. La razón era que nadie quería habitarla porque la gente creía que en ella había fantasmas. Los Hermanos no tenían tal prevención y pasaron a instalarse en ella con sumo contento, porque era mucho mejor que la paupérrima casa de Vaugirard. La mansión estaba vacía del todo, y los Hermanos transportaron a ella los pocos muebles que tenían. Tal vez para esta fecha el rey Luis XIV había pedido al arzobispo de París, Luis Antonio de Noailles (que no era aún cardenal, pues recibió el capelo el 21 de junio de 1700), que le buscase una persona competente para la formación de los jóvenes irlandeses que habían ido a París con el rey destronado en Inglatrra, Jacobo II. El prelado habló con el párroco de San Sulpicio, el señor de La Chétardie, y ambos pensaron en el señor de La Salle. La señora de Voisin, amiga de la señora de Maintenon, esposa de Luis XIV, había dado al Señor de La Salle 400 libras (unas 800.000 ptas), por indicación del párroco, para que comprara algunos muebles. No había transcurrido mucho tiempo cuando volvió a darle nada menos que 7000 libras (unos 14 millones de pesetas). Aunque los biógrafos no lo dicen, este dinero serviría. muy probablemente, para comprar los muebles y la ropa de los locales que habrían de utilizar los jóvenes irlandeses: clases, dormitorio, comedor, etc. A los dos años de estar en esta Casa Grande, o sea en 1700, La Salle abrió también la «Academia cristiana», es decir, la escuela dominical, que duró sólo dos años, a causa de la deserción de los dos Hermanos que la atendían. La escuela tuvo que cerrarse, y ésta fue causa del malestar que surgió en el señor de La Chétardie respecto del fundador de los Hermanos. En esta casa tuvo también lugar la investigación que ordenó el señor cardenal a su vicario, Pirot, y que se consumó con el intento de destitución del señor de La Salle como superior de los Hermanos, en la primera semana de diciembre de 1702. Pues bien, teniendo en cuenta todas estas circunstancias, hemos de situar aquí aque-


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llos hechos inexplicables, de un fantasma que rondaba por la casa. Eran dos los Hermanos de la comunidad que lo veían, y el espectro se comunicaba con ellos. Blain dice, en la vida del Hermano Juan Enrique, que éste era uno de los que tenía tales apariciones. La casa, en una época anterior, había sido convento de las religiosas de la Diez Virtudes. En la cripta de la capilla habían sido enterradas las monjas que fallecían, y cuando dejaron el convento las tumbas quedaron allí. Los dos Hermanos aseguraban, con toda seriedad, que el fantasma que les hablaba era de una de aquellas religiosas, que en vida se llamó Hermana Saint Fiacre, y que, según les dijo ella misma, estaba haciendo el purgatorio en aquella casa, por voluntad de Dios. Los Hermanos no daban mucho crédito a los dos visionarios, a pesar del prestigio que tenían, sobre todo el Hermano Juan Enrique. A éstos les molestaba que los demás tomaran a broma todo lo referente al fantasma. Pero incluso los más incrédulos tuvieron que admitir que algo había de especial, por los sucesos que ocurrieron hacia el mes de febrero de 1703. La casa se había puesto en venta, y La Salle no tuvo dinero suficiente para comprarla, como hemos dicho. La compró un señor que pensaba alquilarla, pero no encontró inquilinos. Por eso tuvo la bondad de permitir que los Hermanos siguieran en ella hasta que encontraran otro lugar, y así estuvieron durante seis meses, durante los cuales el nuevo propietario ni siquiera les cobró el alquiler. Tan sólo les puso dos condiciones: la primera, que admitieran en la casa al hortelano que había contratado y a su familia; y la segunda, que respetaran los productos de la huerta. Cuando el hortelano acudió con su reducida familia para alojarse en la Casa Grande, escogió para sí un lugar desde el cual podía vigilar toda la huerta. Resultó que aquel sitio contaba con los mejores locales de la casa, y esto exasperó al fantasma de Sor Saint Fiacre. Durante varias noches comenzó a producir extraños ruidos y fenómenos que causaban gran temor, pues no se sabía de dónde provenían. El hortelano y su familia, de manera especial, estaban aterrorizados, pero no dejaban los locales que habían escogido. Con todo, una noche el fantasma comenzó a mover los muebles de las habitaciones de aquella familia, y se apoderó del niño más pequeño, de pocos meses, y lo depositó en medio de la plazoleta cercana a los muros de la casa. Ante tal situación el hortelano y su esposa decidieron trasladarse a otro lugar de la propiedad, separado de la vivienda de los Hermanos, donde había unos locales muy sencillos encima de lo que fueron caballerizas. Desde aquel día el fantasma les dejó tranquilos, dando a entender que estaba satisfecho de que no hubiera personas extrañas en los locales que usaba la comunidad de los Hermanos. Sin embargo, los dos Hermanos que recibían sus comunicaciones siguieron encontrándose con el espíritu de sor Saint Fiacre. El santo pensó que había que poner fin a aquella situación, y dijo a los Hermanos que unos días más tarde celebraría una misa de difuntos por el eterno descanso de aquella Hermana, y les recomendó que en ella comulgaran todos por dicha intención. Esta fue la solución definitiva, pues el fantasma no volvió a aparecer por aquella casa.


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Pocas semanas después Juan Bautista había encontrado otra casa, en la calle Charonne, y se trasladó a ella con la comunidad. Los muebles comprados con el dinero dado por la señora Voisin pudo guardarlos en un almacén vacío que le prestó un conocido. Servirían, pocos años después, para amueblar la casa de San Yon, en Ruán. ¿Y de la historia del fantasma, qué? En el relato que hace Blain, en el primer capítulo de su segundo volumen, se nota cierta reticencia, como si él no creyese demasiado en semejantes asuntos. Lo cuenta, sin embargo, porque era parte de la historia, y ciertamente los Hermanos le habían hablado de aquellos fenómenos.

¿Tuvo La Salle relación personal con Luis XIV? [46]

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odos recordamos, sin duda, la escena de la película de El Señor de La Salle en que éste aparece en la sala del trono de Versalles, presentándose ante Luis XIV, llevando de la mano a niños de diversas razas. Es todo pura imaginación para el lenguaje cinematográfico. En la realidad nunca ocurrió algo así. Sin embargo, Luis XIV tuvo que oír hablar de Juan Bautista de La Salle en varias ocasiones, porque en algunos asuntos tuvo que intervenir el Rey; y si no fue él, personalmente quien aportó la solución, es razonable pensar que las personas de quien se sirvió le hablaran en algún momento del Señor de La Salle. ¿Cuáles pudieron ser esos momentos? Veámoslos, al menos algunos de ellos. 1. Cuando se necesitó acoger a los jóvenes irlandeses - Se trataba de muchachos, tal vez niños y adolescentes, que necesitaban encontrar un sitio donde aprender rápidamente la lengua francesa y los conocimientos elementales que necesitaban para integrarse en la sociedad francesa. Jacobo II, el rey depuesto en Inglaterra, sabía muy bien la situación de aquellos jóvenes que llegaban a París, miembros de las familias que se habían exilado con él. Lo más normal es que lo comentara con Luis XIV, y entre ambos vieran la necesidad de encontrar a la persona que pudiera atender a su formación. Luis XIV, es un suponer, lo hablaría con el cardenal de Noailles, y éste pensaría en el párroco de San Sulpicio, cuyas escuelas ya llamaban la atención. Tal vez esta búsqueda comenzó cuando los Hermanos estaban aún en Vaugirard. La Salle estaba buscando una casa más amplia y la encontró en la misma calle, pero más cerca de París, y era mucho más amplia. Se trataba de la Casa Grande. Juan Bautista quiso alquilarla, pero no tenía dinero suficiente. Tuvo que acudir a la generosidad del párroco, y ¡qué cosa más rara!, la Chétardie no le puso dificultad, y accedió, casi en seguida, a ayudarle para el alquiler, y le recomendó que se trasladara a ella. ¿Lo habría hecho así, si no le hubiera ya hablado el cardenal de la posibilidad de acoger a los niños irlandeses? Hay otro indicio que nos induce a pensar que en la Corte supieron que el Señor de


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La Salle se iba a hacer cargo de aquellos muchachos. Apenas trasladado a la Casa Grande, la señora Voisin, amiga de la señora de Maintenon, esposa de Luis XIV, dio dos donativos para que el señor De la Salle comprara mobiliario. La primera vez dio 400 libras (unas 800.000 pesetas), y la segunda 7000 libras (unos catorce millones de pesetas). Probablemente lo hizo por indicación directa de la Corte, quizás de la misma señora de Maintenon, y hasta podría ser que el dinero proviniera, indirectamente, de la misma Corte. Reconozco que en ninguna biografía del santo se ha relacionado este donativo con la acogida de los alumnos irlandeses, ni con la procedencia de la Corte..., pero todas las circunstancias señaladas dan que pensar. 2. La intervención directa de la señora de Maintenon - Los hechos anteriores ocurrieron en el segundo trimestre de 1698 y duraría varios meses. Pero la señora de Maintenon, que desde 1683 ya era esposa de Luis XIV, tuvo también relación con las escuelas del señor de La Salle por otros motivos. En efecto, en 1690 ocurrió la primera denuncia de los maestros de las escuelas menores contra las escuelas de La Salle. Este pleito lo ganó Juan Bautista de La Salle. Pero meses después vinieron la segunda y la tercera denuncias, con los consiguientes pleitos. Esta guerra entre escuelas era la comidilla de todo París, y llegó a la Corte. ¿Quién será este señor De La Salle, a quien los maestros de escuela le atacan con tanta saña? Pues es un sacerdote que atiende escuelas gratuitas para los niños pobres de San Sulpicio, y de todo París. Pero tanto los maestros como los calígrafos se enfrentan a él, porque dicen que les quita alumnos... Alguien se lo explicó a la señora de Maintenon, y ella, afectada por el perjuicio que se causaba a los niños pobres, escribió una carta al Presidente del Parlamento, Aquiles de Harlay, y en ella «le recomendaba las escuelas de San Sulpicio, que nunca las hubo más útiles ni más desinteresadas, pero los maestros de escuela las molestan...». Esta carta está fechada en Saint-Cyr, un 3 de julio (que puede ser de 1698 ó 1699). El efecto de esta recomenación fue despertar cierta simpatía entre las autoridades hacia la obra del señor De La Salle. ¿No es lógico pensar que Luis XIV conociera toda esta situación por boca de su propia esposa? 3. En la fundación de la escuela de Calais - La escuela de Calais se abrió en 1700, a petición del párroco, señor Ponthon, y los Hermanos fueron muy bien recibidos. A la muerte del párroco le sucedió un sobrino suyo, ambos llenos de celo por sus feligreses. Pero el sobrino falleció dos o tres meses después, y los Hermanos se vieron en gran necesidad. Antes de morir, el párroco había escrito al marqués de La Vrillière, que era responsable, en la Corte, de los asuntos de la región y solicitaba ayuda económica para la escuela y para los Hermanos. El señor de La Vrillière le respondió así: «Señor, he recibido la carta que usted me escribió el 5 de este mes, con relación a los maestros de escuela de Calais. Informaré de ello a Su Majestad en el primer consejo en que se hable de los asuntos referentes a los nuevos convertidos, y comunicaré al señor Bignon lo que resuelva Su Majestad; indíqueles que tengan paciencia hasta entonces, y que continúen cumpliendo bien su empleo. Quedo de


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usted, señor, muy afectuoso servidor. La Vrillière. En Versalles, el 12 de junio de 1701». En respuesta a la petición el rey envió 450 libras para los Hermanos y posteriormente hizo otros donativos. 4. En la apertura de la segunda escuela de Calais - El éxito de la escuela anterior suscitó en el párroco señor Le Prince, que atendía el sector de los marineros, en un barrio bastante alejado de la ciudad, el deseo de tener también una escuela. El sacerdote habló con el presidente de la ciudad, señor de Thosse, y éste con las autoridades. Puestos todos de acuerdo, escribieron al señor de Pontchartrain, a través del señor cura párroco, para exponerle la necesidad de contar, en la ciudad de Calais, con otros dos Hermanos para instruir a los hijos de los marineros, y para rogarle que obtuviese de Luis XIV, en el barrio de Court-Gain, un sitio que estaba vacío, donde hubo tiempo antes un batallón de militares. El rey concedió la petición, y el señor de Pontchartrain escribió al señor Bignon y le envió la disposición del rey, orden que se ejecutó de inmediato, con el complemento de una imposición económica que el señor intendente estableció para los habitantes de Court-Gain, con el fin de cubrir los gastos del edificio necesario para los Hermanos y la escuela. El señor de Pontchartrain tuvo también la bondad de dar respuesta al decano, para indicarle que el rey había aceptado su petición y la de la ciudad. El contenido de su carta de 4 de mayo de 1705 es el siguiente: «He recibido su carta del 24 de abril. He explicado al señor Bignon, intendente de Picardía y de Artois, las intenciones de Su Majestad con relación a los Hermanos de las Escuelas Cristianas para la instrucción de los hijos de los marineros de Court-Gain. No tiene que hacer usted otra cosa que dirigirse a él, y él proveerá a su subsistencia». 5. En el funcionamiento de la escuela de Versalles - La creación de esta escuela tuvo lugar en 1710, a petición del párroco, señor Huchon, religioso paúl, que tenía mucha relación con Luis XIV. En realidad fueron dos las escuelas de Versalles, pues primero pidió dos Hermanos, que dieron clase en el llamado Parque de los Ciervos, y luego otros dos, que abrieron una escuela cerca de la parroquia. La Salle envió, además, un quinto Hermano, para atender a los otros cuatro. Nunca pasaron apuros, pues el párroco obtenía del rey cuanto le pedía. El rey tuvo que interesarse necesariamente por los Hermanos en varias ocasiones. En aquel lugar, donde todo giraba en torno a la Corte, los grandes del reino que acudían a ella tuvieron que conocer a los Hermanos, y comentar sus eficaces métodos para formar a los niños. Tal vez también llegó a sus oídos lo ocurrido con el director de la escuela. Era un excelente maestro, pero pronto se contagió de los aires de la Corte, y adoptó actitudes mundanas. Juan Bautista, cuando se dio cuenta, quiso cambiarlo, pero el párroco se opuso, porque le apreciaba mucho. El fundador le hizo ver que era imprescindible el cambio, pero él no cedió. Juan Bautista se resignó. Pero pocos meses después el Hermano se dio cuenta de que así no podía vivir, y una mañana, temprano, se vistió de seglar y abandonó la comunidad. Cuando el párroco fue informado, envió tras él a


Retazos lasalianos

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otro padre paúl de su comunidad, que tuvo que correr por las calles de Versalles, hasta alcanzarlo. Consiguió que se detuviera y trató de convencerle para que no abandonase su vocación y empleo, pero fue inútil. El padre Huchón se dio cuenta de su equivocación al oponerse a la propuesta de La Salle. Pero el hecho fue la comidilla de muchas bocas en la ciudad. 6. Con ocasión de la escuela de Les Vans - La escuela de Les Vans se abrió en 1711. Fue una escuela misionera, ubicada en una zona montañosa, donde predominaban los herejes. Los Hermanos tuvieron muchas dificultades para ejercer su ministerio, porque hubo que obligar a los padres a que llevasen a sus hijos a la escuela de los Hermanos. La enseñanzas religiosas de los maestros eran contrarrestadas por los padres, que procuraban que sus hijos no hicieran caso de lo que oían en la escuela. A los Hermanos les hacían muy difícil la estancia en el pueblo, pues a veces les impedían salir de casa, formando barricadas delante de la puerta, o insultándoles por la calle. Un día, incluso, se amotinaron contra ellos. Rodearon la casa de los Hermanos, con ánimo de asaltarla y de matar a sus moradores. Los Hermanos se dieron cuenta de las intenciones y se juntaron en la capilla para encomendarse al Señor. Afortunadamente el intendente responsable de mantener el orden en la villa acudió con sus hombres armados, y consiguió disolver a los amotinados. Cuando los Hermanos informaron al fundador, que acababa de terminar su primera visita a las casas del sur, les felicitó por haber sido dignos de recibir ultrajes por el Señor y por desempeñar su ministerio con fidelidad. Aunque los biógrafos no lo digan, esta noticia tuvo que llegar hasta el rey, que se hacía informar de todo lo que ocurría en la región de los herejes. Éstas, al menos, y es probable que hubiera otras, fueron las ocasiones en que Luis XIV tuvo que oír hablar del Señor de La Salle y de los Hermanos.



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Rosmini e Rebora a cura di Francesco Pistoia 1. Eduino Menestrina, rosminiano e rosminista, presenta in due volumi (in arrivo un terzo) [1] il frutto di ricerche appassionate sul fondatore dell’Istituto della Carità, frutto di attaccamento e fedeltà all’insigne maestro. Sono testimonianze raccolte in vista del processo di beatificazione (celebrata il 18 novembre 2007), e ora messe a disposizione di storici, cultori e amici del Roveretano. Il primo volume accoglie testimonianze di religiosi rosminiani, di suore rosminiane, di ascritti all’Istituto della Carità, di religiosi d’altri istituti; il secondo, testimonianze di ecclesiastici e di laici. Ampia introduzione, un profilo di Rosmini, indice dei nomi. Rosmini visto dai contemporanei o da quanti ne hanno avuto notizia dai contemporanei: sacerdoti, vescovi, letterati, studiosi; testimonianze provenienti da amici del Rosmini e anche da avversari. Dalle quali emerge la santità del filosofo-teologo, la sua coerenza, la sua spiritualità fatta di amore alla Chiesa e di carità nei confronti del prossimo; dalle quali emerge la dimensione pedagogica del suo pensare e del suo agire.

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Un Rosmini catechista, promotore di istituzioni scolastiche, impegnato con rigore nella formazione di annunziatori del vangelo. Don Bosco rimane ammirato dell’umiltà del grande filosofo: “Qualche volta mi aiutava a fare il catechismo ai miei ragazzi, e io ammiravo come quel grand’uomo sapesse abbassarsi tanto e mettersi alla portata dei miei poveri ragazzi, con una semplicità che incantava. Talvolta si fermava a recitare il rosario con noi…” (I, 232). Più di un testimone riferisce con quanta partecipazione celebrasse l’Eucaristia. Commovente quanto scrive il Manzoni che, accanto a Rosmini morente, sente il bisogno di mettersi a contatto con la moglie Teresa per “divider con te tanto dolore” (I, 218). Ruggero Bonghi così si esprime: “S’è dileguato di quaggiù la più gran mente e la più santa anima che vivesse in Italia. Lascia eredità grande d’affetti e d’idee; spetta a noi confratelli ed amici di nutrire gli uni, ai giovani italiani di fecondare le altre. Tutti ci sentiremo migliori e più grandi nella sua memoria” (I, 220). Dalla preziosa documentazione raccolta dal Menestrina emerge il profilo di una comunità religiosa e sacerdotale tutta dedita a costruire il regno di Dio, a orientare al vero e al bene, a promuovere la carità; emerge il profilo di collaboratori e discepoli del Rosmini animati da spirito di dedizione e obbedienza. Emerge il profilo di un Rosmini sacerdote , parroco, educatore: Cesare Zandonati di Rovereto, “vir simplex et rectus”, lo ricorda impegnato nel riordinare l’istruzione della dottrina cristiana, come ricorda il fondatore dell’oratorio serale, che richiamava un grande concorso di cittadini, “e che fu interdetto dall’autorità politica, senza che si abbia potuto conoscere la causa del divieto” (II, 193). 2. In “Biblioteca di filosofia e scienze umane” dell’editore Bonomi, diretta da Giovanni Chimirri, appare uno studio su Diritto e stato in Rosmini di Ornella De Benedittis [2]. L’autrice, ordinario di reli-


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gione, già docente di filosofia e storia, si occupa di problemi morali e pedagogici. Il sottotitolo - Per una politica della personaè espressivo non solo del contenuto del libro, ma del suo orientamento ideale e della sua sensibilità cristiana e civile. Da qui l’attenzione alla storia e all’attualità. Il saggio denota una lettura attenta delle opere rosminiane (in particolare della Filosofia del diritto e della Filosofia della politica) nelle quali la filosofia politica e giuridica è ampiamente trattata, e anche di opere che studiosi di ieri e di oggi hanno dedicato al Roveretano. Il discorso sulla persona, “diritto umano sussistente”, andrebbe additato a scienziati e politici dei nostri giorni, spesso dimentichi dell’assoluto valore della persona umana. Rosmini “si rivela profondamente attuale: il rispetto per la persona e l’impegno per la ricerca della verità dovrebbero costituire l’incessante sforzo dell’uomo di tutti i tempi” (p.6). Libertà, famiglia, società, popolo, moltitudine: la De Benedittis accompagna il lettore nell’esplorare un territorio talvolta aspro ma sempre ricco di fascino. Diritto naturale (e razionale), concetto di persona, diritto sociale, società domestica, società civile, stato. Rosmini patriota, assertore di un “risorgimento morale e culturale dell’Italia” (p.5). Rosmini pugnace assertore dei “diritti della persona contro l’invadenza dello Stato” (p.91). Si coglie nelle pagine di Diritto e stato in Rosmini l’intima simpatia, che è entusiasmo e adesione sincera, dell’A. per il grande Roveretano, la cui filosofia è “profondamente realista”, lontana da “ogni forma di perfettismo e utopismo sociale”. Una filosofia che insegna “a subordinare l’istinto alla volontà morale, i beni economici al bene oggettivo, a porre ogni cosa al proprio posto, senza confondere l’ordine intrinseco naturale” (p.95). 3. Mario Pangallo studia il rapporto tra Rosmini e Rebora [3] e ne sottolinea, come recita il sottotitolo, l’armonia di pensieri e

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parole. Studioso di Rosmini e di storia rosminiana - sono suoi quattro volumi su Antonio Rosmini e il Collegio medico di San Raffaele [4] - , con le sue pagine terse guida alla lettura della spiritualità del Roveretano, che coglie con cuore di figlio e con intelligenza viva. Nativo di Domodossola, ne porta nell’anima il paesaggio tutto rosminiano: il lettore ne avverte la purezza, la bellezza, la grandezza. Rebora letterato e poeta, prima della conversione; Rebora pensatore e poeta, dopo la conversione: il nostro Autore ne segue lo sviluppo e ne interpreta momenti e valori. In tutto Rebora è presente una forte tensione spirituale verso il bello. La poesia è contemplazione del bello. Ma solo la santità compie il canto: la santità è il vertice della bellezza. Pangallo legge le pagine del Rebora alla luce della spiritualità e della filosofia del Rosmini: e aiuta a cogliere in Rebora l’influenza del Roveretano, l’assimilazione che Rebora opera del pensiero rosminiano, il suo originale e genuino pensare rosminiano. Se l’arte non è finalizzata alla santità, “essa non è più in grado di nobilitare e trascendere i limiti umani. Anche la poesia “non è un assoluto, ma ha il compito e il dovere di fare rientrare e accogliere in sé l’assoluto di Dio” (p.11). Un approccio alla poesia reboriana che prescinda dal tormentato pensiero reboriano-rosminiano è infecondo. Le pagine di Pangallo su filosofia e poesia, su poetica e metafisica, su linguaggio e spiritualità aiutano a cogliere i motivi essenziali e il senso profondo dell’itinerario poetico di Rebora, non sempre evidenziato da critici e storici della letteratura italiana del Novecento. Il Pangallo, ripercorrendo tale itinerario, richiama l’attenzione sulla “potenza evocativa della parola”, che in Rebora sacerdote e religioso diventa “atto amativo e salvifico” (p.101). Rosmini e Rebora è un contributo da tenere presente in ambito educativo e didattico, in ambito storico e in ambito letterario ed estetico. Ma è da tenere


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in somma considerazione anche sul piano della storia della spiritualità e della teologia. Di quella teologia che celebra la bellezza. 4. Che sia così appare anche dalle felici considerazioni che ispirano il saggio di Massimo Corsinovi [5]. L’autore è innamorato di Rebora, al quale ha dedicato pagine vive, dal quale trae alimento spirituale, col quale intreccia un colloquio che ha ragioni profonde. Lo legge da poeta, ma, nel fondo, lo scruta anche da filosofo. Il suo lavoro ha procedure inconfondibili, stile attraente, soprattutto valenza educativa. E questo chiarisce il senso di un’antologia poetica reboriana che egli presenta nel cinquantenario della morte del poeta e a ottant’anni dalla conversione al cattolicesimo. Le liriche selezionate sono lo specchio di Rebora convertito, cattolico, sacerdote, religioso rosminiano. Forse il Corsinovi vuole mettere in evidenza l’incessante cammino del poeta verso il bello e l’assoluto. Cammino incessante: prosegue e con intensità maggiore dopo la conversione a indicare che l’uomo è sempre sospinto dal desiderio - da un desiderio che è tormento - di Dio. Cercare Dio è maturarsi come uomo, riconoscersi creatura umile e nobilissima. “Rebora è, fin dal principio - dai Frammenti lirici del 1913 ai Canti dell’infermità del 1957- in modo via via più consapevole, un cercatore di Dio, un innamorato di Cristo” (p.16). La poesia come celebrazione della fede, l’arte al servizio della fede: la poesia come testimonianza del Vangelo. Non c’è enfasi in Rebora, e non c’è enfasi in Corsinovi quando fa riferimento alla reboriana filosofia della parola, sostanza limpida e luminosa di tanti suoi saggi e versi. Questo spiega la brevità del discorso, che diventa essenziale, che riflette sulla parola come anche sul silenzio. Corsinovi non si lascia sfuggire l’occasione per trarre dal tacere di Rebora un monito pedagogico: “Come dovrebbe risuonare dentro ciascuno di noi questo silenzio! Com’è lontano il gesto compiaciu-

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to o compiacente di chi dappertutto scrive, pronunzia, iperproduce parole. Di ognuna delle quali un giorno dovrà rendere conto alla Parola” (p.30). Un richiamo dunque alla vera sapienza, che - e il nostro cita Rosmini - è tutta nel Vangelo. Il volumetto del Corsinovi contiene un profilo bio-bibliografico, note che richiamano l’inscindibile nesso Rebora-Rosmini e qualche spunto polemico su certa critica relativa all’ultimo Rebora, poeta e santo. La preghiera di Rebora alla Madonna della pazienza, cui segue la preghiera degli amici di Rebora alla ss.Trinità, spiega l’intento del libro. Ma il libro è una ricchezza inesauribile: passi brevi ricchi di intuizioni elevate. Un libro da tener sul comodino, per immergersi nella poesia e nell’anelito a Dio, un libro per imparare a pregare accanto a chi di fede si è nutrito, a chi la fede ha vissuto e sofferto sino a desiderare di scomparire “polverizzato” nell’immenso amore di Dio. 5. Incontrare Rebora? E’ possibile attraverso la sua opera poetica e saggistica, leggendo i suoi pensieri umili e sublimi, le sue ardenti preghiere. E’ possibile incontrare Rebora e Rosmini attraverso l’epistolario [6] che il rosminiano Carmelo Giovannini ha ricostruito in anni di paziente fatica, con senso della storia. L’opera sostituisce Lettere di Margherita Marchione (2 voll., Edizioni di Storia e Letteratura, pref. di Carlo Bo, Roma 1976 e 1982) , e offre un quadro il più possibile completo della corrispondenza reboriana; introduce ogni singola lettera, anche una semplice cartolina, con una breve nota esplicativa. Pagine introduttive di Antonio Autiero, ordine cronologico attento, appunti di bibliografia, indice dei nomi. Un’opera importante, vanto dell’Istituto Trentino di Cultura-Isr, frutto di un “Progetto Rosmini” meritevole di plauso per le ricerche da tempo avviate e in buona parte condotte con esito felice. Il lettore dell’epistolario attraversa non solo una biografia ricca di motivi, di sofferenze, di insegna-


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menti, ma anche anni di storia della cultura e della spiritualità, di storia della scuola e delle istituzioni educative, di storia religiosa. Avventure e disavventure di un letterato inquieto e tormentato, incontri con poeti artisti pensatori, lo spettro della guerra, gli affetti familiari, il cammino verso la conversione e l’approccio a Dio, il sacerdozio, l’apostolato educativo condotto come membro della famiglia rosminiana, gli anni dell’infermità. E sempre, anche quando la cosa non sia evidente, anche nella solitudine e nel silenzio, l’obbedienza a una vocazione straordinaria alla poesia e alla preghiera. NOTE [1] Eduino Menestrina, Rosmini. L’uomo e il santo. I/Testimonianze di religiosi, Fede & cultura, Verona 2009, pp. 368, ? 25; II/ Testimonianze di Trentini, ivi 2010, pp. 362, ? 20. [2] Ornella De Benedittis, Diritto e Stato in Rosmini, Bonomi, Pavia 2009, pp. 112, ?10. [3] Mario Pangallo, Rosmini e Rebora, Fede & cultura, Verona 2008, pp. 116, ?10. [4] I tre voll. Antonio Rosmini e il Collegio medico di S.Raffaele. Errore di valutazione o progetto illusorio? e il vol. Rosmini e il fallimento della facoltà di medicina di S.Raffaele. Diffidenza della Curia romana o incompetenza giuridica rosminiana? sono editi da Fede & cultura, Verona. [5] Massimo Corsinovi, L’Infinito anelando. Clemente Rebora poeta e testimone di Cristo, Nerbini, Firenze 2010, pp. 92, ? 14. [6] Carmelo Giovannini (ed.), Epistolario Clemente Rebora, Edb, Bologna: I/1893-1928. L’anima del poeta, 2004, pp. VIII-722; II/1929-1944. La svolta rosminiana, 2007, pp. VI-482; III/1945-1957. Il ritorno alla poesia, 2010, pp. VIII-634.

Itinerario di un filosofo: Michele Federico Sciacca a cura di Francesco Pistoia “Il primo centenario della nascita di una figura del rilievo di Sciacca è evento che costituisce un’occasione di grande importanza anche per alimentare il filo aureo della diffusione della fecondità della sua opera,

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tanto ampia e preziosa, e degli studi relativi ad essa:tanto più in quanto continua ad essere considerata e stimata, ancor più all’estero che in Italia, fra l’altro in proporzioni uniche rispetto ad ogni altro filosofo italiano del Novecento, e nettamente fra le più rilevanti a livello mondiale”. Così scrive nella prefazione a Il centenario della nascita di Sciacca [1] Pier Paolo Ottonello, promotore del comitato scientifico per le iniziative del centenario. L’instancabile organizzatore di convegni ed eventi, nell’occasione dà inizio alla Fondazione Michele Federico Sciacca con l’intento specifico di promuovere studi sul “filosofo dell’integralità” e iniziative per favorire la diffusione del suo pensiero. Nel libro si possono leggere interventi pronunziati nel corso delle celebrazioni, da Silenzio e parola a La Scuola di Sciacca: Filosofia Oggi e Studi Sciacchiani. C’è il profilo di Sciacca, un discorso sereno sul suo pensiero, uno sguardo al suo dinamismo operativo, e poi notizie e spunti che introducono alla lettura dei due tomi degli atti del congresso di Bocca di Magra [2]: quasi mille pagine di riflessioni, interrogativi, puntualizzazioni. L’opera si compone di tre sezioni: profili, fondazione teoretica della filosofia dell’integralità, interpretazioni storiografiche. Il profilo dell’uomo, il ritratto del maestro, il percorso del filosofo. La prima parte richiama l’attenzione su aspetti e momenti della vita e della formazione filosofica e intellettuale di Sciacca. L’argentino Alberto Caturelli, autore dell’opera più completa sul pensiero di Sciacca [3], ricorda la presenza di Sciacca in Argentina. Vittorio Mathieu, muovendo da ricordi personali, delinea il ruolo esercitato nell’ambito universitario da Sciacca, che “contribuì a rovesciare, per qualche tempo, la situazione che l’Università italiana aveva ereditata dal laicismo risorgimentale. Lui stesso ricordava che, per contare i filosofi cattolici in cattedra prima dell’ultima guerra, bastavano le dita di una mano” (p.89). Il congresso orga-


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nizzato a Stresa nel 1955 su Rosmini è iniziativa rivoluzionaria, in ambito generale e in ambito cattolico. “Il successo di Sciacca nell’università italiana fu dovuto al suo temperamento combattivo: contro i laicisti, contro i neopositivisti” (p.90). “Sciacca fu sempre molto generoso con i suoi allievi.[…]. Non tutti gli furono grati (p.91). “Per aiutare meglio i suoi, Sciacca si trasferì dalla facoltà di Lettere di Genova alla neofacoltà di Magistero […]. E mi dicono che sul letto di morte si sentì idealmente circondato da tutti i suoi allievi, vicini e lontani” (p.92). L’itinerario filosofico di Sciacca è delineato in tutti i suoi aspetti con linguaggio limpido e criticamente costruttivo: il primo Sciacca, i rapporti con i suoi maestri e gli esponenti del pensiero contemporaneo, attualismo, spiritualismo, metafisica dell’esperienza interiore, fondazione-rifondazione della metafisica (Boghos L. Zekiyan), personalismo. Filosofi e docenti di filosofia leggono Sciacca con appassionata attenzione e ne rilevano, nel superamento di polemiche sorte in contesti accademici difficili, l’amore per la ricerca e per la verità. Gli interventi di Caturelli (La dissoluzione del pensiero occidentale e la metafisica dell’integralità), di Piero Vassallo (L’imperdonabile “colpa” di Sciacca:aver previsto la conversione del pensiero moderno all’irrazionalismo), di Félix R. Nagore sulla metafisica creazionista di Sciacca, di Carlo Lupi (Morte e immortalità), di Roberto Rossi (Sapere per capire: dalla Casa del pane al sepolcro vuoto), di giovani studiosi (Marco Damonte, Dalla teologia naturale alla metafisica teista; Annalisa Noziglia, L’uomo: vivente parola di Dio) vanno al cuore del discorso sciacchiano, fatto di fedeltà ai valori della tradizione cristiana e animato da un forte slancio innovativo che libera da incrostazioni, da stanchezza ripetitiva, da formule senza anima consacrate nei manuali, che conduce in spirito di libertà e servizio ad

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approfondimenti e nuove conquiste. L’itinerario intellettuale-filosofico di Sciacca è itinerario spirituale: è ricerca e biografia, è impegno radicale, ascensione, contemplazione. Scrive il Vassallo: “Grazie a una conoscenza perfetta delle contraddittorie oscurità, in cui si nasconde l’apostasia moderna, l’inattuale Sciacca ha costruito la bussola che è indispensabile a chiunque voglia attraversare le nebbie del postmoderno. Insieme con il tomismo essenziale di Cornelio Fabro, la bussola di Sciacca costituisce l’irrinunciabile e perciò vincente eredità filosofica del Novecento cattolico” (p.57). Ampio lo spazio (l’intero secondo tomo) dedicato alle interpretazioni storiografiche. Si va dall’analisi del rapporto Sciacca-Platone, agli studi su sant’Agostino, al rosminianesimo di Sciacca (Percivale, Muratore, Cioffi, Sfriso, Tadini), alle figure della cultura spagnola , alle correnti e ai protagonisti del pensiero europeo (interventi di Colonnello e Savignano, di Miccoli, De Lucia, Lasa, Azzaro Pulvirenti, Malusa). Enrico Berti, noto studioso di Aristotele, intervenendo su Il Platone di Sciacca, esprime verso Sciacca “l’ammirazione dovuta al filosofo e allo studioso, sicuramente tra i più significativi nell’Italia del secolo XX” (p.621), e delinea l’iter attraverso cui Sciacca approda a Platone, lo legge, lo rilegge e lo discute con passione ma anche con rigore. Dice Berti che da Platone sono derivate “due linee di pensiero totalmente opposte tra loro, il panteismo di Plotino, Scoto Eriugena, Spinoza e Hegel, che Sciacca tuttavia definisce enucleabile ‘da Platone contro Platone’, e il teismo di Agostino e dell’agostinismo autentico” (p.622). E si sofferma sui “tre bilanci del pensiero platonico” da Sciacca “scritti in tre momenti diversi” (ivi): diversi, ma sempre teoreticamente ispirati (come Sciacca scrive nella Premessa del 1967), pur nel rispetto delle esigenze filologiche e storiografiche (ivi).


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La filosofia dell’integralità è sguardo attento profondo e radicale sull’uomo. Sull’uomo intero. Sul suo mondo. Sulle sue attività creative. La filosofia di Sciacca celebra ed esalta la dignità dell’uomo, immagine di Dio. Va alla ricerca dell’uomo con una tensione incessante: da qui l’interesse, non sempre adeguatamente evidenziato, per l’arte, per l’educazione, per la società. Da qui l’impegno, in sede di elaborazione culturale ma anche in ambito operativo, per la soluzione di problemi urgenti che la vita di ogni giorno suscita e su cui la filosofia dell’integralità non può non diffondere luce. La linea della coerenza che Sciacca sceglie, sempre nutrita di prudenza e di equilibrio, non sempre è accolta e anzi è spesso contrastata, ma lascia segni indelebili. Berti sottolinea l’attenzione di Sciacca al pensiero politico di Platone, democratico “come può esserlo un aristocratico nello spirito” (p.627); sottolinea l’atteggiamento che Sciacca assume contro la demagogia dei partiti; ricorda i suoi rilievi fortemente critici nei confronti non solo di un marxismocomunismo ma anche di un capitalismo esasperato, che mortificano l’uomo (p.628). Luciano Malusa (L’impegno ‘europeo’ di Sciacca) conduce un discorso che chiarisce e approfondisce momenti biografici e filosofici: dalle pagine del Giornale di metafisica (con cenni sulla vicenda della rivista dopo la morte di Sciacca) ispirate al primato della verità, da cui ricevere “indicazioni per una ripresa della vita civile e personale”(p.902), alle riflessioni sulle ferite della guerra, che vanno curate “abbandonando la logica della vendetta e della pura affermazione ideologica” (ivi), alla dolorosa impressione che suscita in lui l’arresto di padre Bozzetti (ivi). Sciacca “aveva concepito un’Italia finalmente libera non solo dal nazi-fascismo, ma anche dalla faziosità e dall’intolleranza ideologica” (p.903) in continuità con la linea adottata durante il fascismo mirante a sollevare “il problema di

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un’autentica valutazione della filosofia italiana, nelle sue tradizioni e nel suo ruolo anche sociale, fuori dagli schemi ideologici e razzistici” (p.903). In tal senso la filosofia di Sciacca si fa pedagogia (Bonanati, Serenella Macchietti, Donati,), si fa pensiero sociale attento al messaggio evangelico e alla dottrina sociale della Chiesa (Chimirri, Borzone Morena), si fa protagonista di un dialogo attento con la cultura contemporanea, e si consolida nella sua struttura metafisica e nella sua tensione spirituale. Torniamo al Malusa: “Dopo l’immane conflitto mondiale è d’obbligo - scrive Sciacca, p. 904 - aspirare ad un miglior destino dell’uomo”. Da qui l’attenzione allo spiritualismo, che nell’Ottocento “aveva coniugato persona, verità e fede cristiana; Sciacca si riferiva al pensiero di Rosmini, il cui impegno politico e sacerdotale aveva avuto un ruolo decisivo nel riscatto politico del nostro paese. Sciacca pensava che l’esempio rosminiano avrebbe potuto giovare alla crescita della vita sociale e politica nel senso dell’onestà e grandezza delle persone”. Un nuovo spiritualismo metafisicamente fondato,rigoroso e dall’esito religioso e teologico. Filosofia ed epistemologia, filosofia e ricerca spirituale, filosofia e dibattito sui problemi della scienza , filosofia e umanesimo e impegno storico. Dalla ricerca come tensione viene in luce l’anelito al bello: e la sua espressione fa di Sciacca uno scrittore robusto e vivo (Bugossi), tutto da esplorare. NOTE [1] Pier Paolo Ottonello, Il centenario della nascita di Sciacca, Leo S. Olschki editore, Firenze 2009, pp.158. [2] P.P. Ottonello (a cura), Sciacca: la filosofia dell’integralità. Atti del congresso internazionale nel centenario della nascita, Bocca di Magra, 4-7 settembre 2008. Leo S. Olschki editore, Firenze 2010, pp. 954 (due tomi). [3] Alberto Caturelli, M.F. Sciacca. Metafisica dell’integralità, III edizione integrata e tradotta da P.P. Ottonello, Ares, Milano 2008, pp.648.


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LUIGI BETTAZZI Vescovo o laico? Una spiegazione per gli amici EDB, Bologna 2011, pp.106, e 8. Non solo si definisce “vescovo laico”, ma si è sempre sentito laico il pastore che guidò la diocesi di Ivrea dal 1966 al 1999. “Un vescovo può dichiararsi laico, anzi, sul piano sociale e politico forse “deve” professarsi laico. Nell’ambito della sua religione dovrà farsi messaggero e garante della soprannaturalità, ma sul piano civile potrà invocare la specificità della sua religione solo nella misura in cui questa è ormai entrata a far parte delle tradizioni storiche, culturali, artistiche del paese. In realtà, mentre contestiamo la posizione di quelle religioni (per es. l’islam) che trasferiscono sul piano civile le loro tradizioni religiose, creando la classe privilegiata dei cittadini che professano quella religione, spesso anche noi cristiani finiamo con l’imporre la nostra visuale religiosa appellandoci a una ‘legge naturale’ di cui ci sentiamo i soli garanti, senza tener conto che chi non è giunto a valutarla come ‘legge naturale’ dovrà accettarla per obbedienza religiosa?” (p.92). In questo opuscolo - confidenziale, ma di avvincente spessore ecclesiologico - Bettazzi approfondisce anzitutto la laicità di Gesù, nato “laico, cioè da famiglia non sacerdotale”, e vissuto laicamente per i primi trent’anni, per poi dedicarsi all’annuncio del Regno. Annuncio laico anch’esso, perché scaturito “dalla pienezza dell’umanità”. La lezione è chiara: due sono le strade possibili e ambedue legittime: quella che parte dalla laicità e va alla fede, e quella dalla fede alla laicità. Sono anzi due vie provvidenziali, perché contrastano la tentazione di chi ne volesse seguire una escludendo la validità dell’altra. “Sono provvidenziali proprio nella loro divergenza e vanno considerate come reciprocamente integrative.

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Perché il partire dalla laicità non diventi così appagante da dissuadere di giungere alla fede, e perché l’immersione nella fede e nei suoi corollari terreni non faccia perdere il contatto con l’umano”. Il principio teologico dell’incarnazione – riabilitato dal magistero del Vaticano II – è risuonato ieri nelle scelte pastorali del “vescovo laico” di Ivrea e continua oggi nelle pagine di un “emerito” che resta coraggiosamente fedele alla svolta conciliare. (f.p.)

LUCIANO CAIMI (ed.) Autorità e libertà. Tra coscienza personale, vita civile e processi educativi Studi in onore di Luciano Pazzaglia, Vita e Pensiero, Milano 2011, pp. XXXVIII + 509, e 50. Esistono almeno tre tipi di Festschrift: libriencomi di fine carriera, grondanti di servile piaggeria che i sudditi si sentono in dovere di esternare verso l’ex-capo o l’ex-collega; libri-antologia che assemblano materiali raccogliticci e casuali purché assecondino in qualche modo i gusti dell’emerito messosi in pensione; libri-sintesi che tentano di “commentare” metodicamente e criticamente, a tasselli di mosaico preordinato, il percorso culturale, scientifico e bibliografico del professionista da festeggiare. Questo libro appartiene decisamente al terzo tipo. A cominciare dal titolo e dal sottotitolo, che polarizzano con indubbia pertinenza la riflessione intorno a tematiche che hanno fatto e fanno da filigrana costante a tutta la pluridecennale ricerca storico-pedagogica del prof. Pazzaglia. Convergono a illustrare quest’area tematica ben trentasei interventi di specialisti; di questi un paio di dozzine esplorano protagonisti, episodi e istituzioni della “storia dell’educazione” italiana tra Otto e Novecento, e un’altra dozzina pun-


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tualizza invece aspetti della “teoria dell’educazione” in relazione sempre al binomio autorità-libertà, prescelto come perno intorno a cui ruota l’insieme dei contributi sollecitati dal Curatore. La prima sezione abbonda di ritratti, alcuni familiari altri inconsueti, presenti nella storia recente del pensiero pedagogico e della scuola. Rievocazioni di figure che, dai più diversi versanti, hanno fatto la scuola dell’Italia unitaria, come il Foscolo ‘pedagogista giacobino’ (a firma di Franco Cambi), o il Lambruschini rivisitato attraverso la storiografia prodotta su di lui (Angelo Gaudio), o il Gioberti ‘politico-educatore’ di una singolare idea etico-religiosa di nazione (Francesco Traniello). Altri contributi in questa sezione storica rovistano nelle pieghe inesplorate di protagonisti più recenti: così, solo per citarne alcuni, Emilio Butturini rievoca il suo mancato incontro con un don Milani che incarna nel suo radicalismo educativo il paradosso di una autorità che risulterebbe abusiva se priva di libertà, e di una libertà insussistente fuori dell’autorità; Giacomo Cives traccia un robusto profilo bibliografico di Lamberto Borghi, filosofo e pedagogista della libertà dell’individuo e della autonomia della scuola; Andrea Riccardi coniuga invece l’endiadi autorità-libertà ricostruendo le vicende e le lotte degli obiettori di coscienza, cristiani e non solo, di fronte alle guerre del Novecento; Guido Formigoni ripesca un discorso sconosciuto di Giuseppe Lazzati per smascherare la presunta contrapposizione tra Chiesa e democrazia. Altri nomi storici come quelli di Agostino Gemelli, Giovanni Battista Montini, Aldo Capitini, Maria Montessori, Pietro Scoppola, Pietro Stoppani… rimbalzano da un saggio all’altro quali operatori di una pedagogia della libertà-liberazione indissociabile dal principio dell’autorità-autorevolezza. Su questo stesso binomio, visto dunque non come un dilemma ma come dimensione intrinseca e strutturale di ogni educazione

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che voglia porsi a servizio della persona, è giocato l’intreccio dell’ultimo blocco di interventi, di natura più teorica, dove si alternano approcci di spessore filosoficopedagogico (Acone, Guasti, Lenoci) ed epistemologico (E.Damiano) con altri a colorazione politico-giuridica (Corradini, Galli, Santerini), e anche a tenore teologico-pastorale (Ghidelli, Quesnel, Nanni, Zani, Bertagna). In questa sezione non sorprende la frequenza degli interrogativi che segnalano non solo problemi congiunturali ma crisi di sistema. E’ ancora possibile insegnare? A quale libertà educare se si prescinde dalla verità? Come può ancora educare la scuola se la famiglia va alla deriva? Quale educazione ai diritti della persona in una società libertaria? E quale “cultura religiosa” a scuola in società secolarizzate e democratiche? E’ davvero ancora credibile oggi parlare di libertà cristiana? A tali interrogativi tutt’altro che retorici, alcuni elementi sicuri di risposta vengono certamente dalle riflessioni degli autori, ma non tutti i dubbi sono fugati. Non certo per difetto di argomentazione, ma per l’obiettiva ‘resistenza’ dei nuovi contesti socio-culturali, che da problematici, come potevano apparire ancora fino a un recente passato, rischiano di divenire oggi semplicemente proibitivi per chi assuma - per natura (genitori) o per professione (insegnanti) o per vocazione (educatori consacrati) - una responsabilità educativa. Non poteva mancare una presentazione del profilo biografico, accademico, professionale e scientifico del prof. Pazzaglia. L’ha firmata lo stesso curatore prof. Caimi, che ne ricostruisce con meticolosa puntualità il cospicuo “itinerario scientifico-culturale” (pp. IXL-LXXI). Piace rilevare col curatore, tra i tanti meriti, l’apporto significativo e quasi pionieristico dato dal Pazzaglia al dibattito nazionale sull’insegnamento della religione nella fase preliminare alla firma dell’Accordo di Villa Madama; dibattito di cui soprattutto la rivista “Religione e scuola”


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di quegli anni si è fatta vettore e stimolo, e che, com’è noto, propugnava l’ipotesi di un diverso ruolo e profilo curricolare da assegnare al corso di religione; anche per questo sorprende non poco che l’intervento di G. Bertagna in questa miscellanea (pp.347-365) - l’unico dedicato specificamente al problema - vada in tutt’altra direzione, sia speso cioè a esclusivo sostegno apologetico dell’assetto neo-concordatario, con l’aria di collocare le convenzioni di un patto diplomatico tra Stato e Chiesa all’altezza di “principi non negoziabili”. Posizione personale in sé legittima e rispettabile (se non altro perché è quella dell’ufficialità!), ma meno comprensibile risulta il fatto che quell’intervento ignori letteralmente (e inelegantemente) persino l’opportunità di entrare almeno in dialettica virtuosa e costruttiva con le posizioni sostenute dal Pazzaglia e, insieme con lui, da non poche voci del mondo cattolico di ieri e di oggi. (f.p.)

GIORGIO CHIOSSO Alfabeti d’Italia. La lotta contro l’ignoranza nell’Italia unita SEI, Torino 2011, pp. 319, e 15. L’unità dell’Italia si è fatta anche, e soprattutto, attraverso la progressiva diffusione della lingua italiana in tutto il territorio nazionale, là dove da secoli erano prevalse le parlate regionali, alcune con dignità di “lingua autonoma” altre come varianti dialettali dell’italico ceppo linguistico di base. Nel 1861 erano 17 milioni gli Italiani analfabeti e non più di sei milioni gli Italiani “alfabeti ” , ma altri calcoli – come quelli di Tullio De Mauro nella sua Storia linguistica dell’Italia unita (1963) – portano a una stima di un esiguo 2,5% gli Italiani davvero in grado di capire ed esprimersi in lingua italiana. Ma insieme alla lingua un ruolo decisivo nell’unire gli italiani l’ha avuto l’educazione ai valori

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comuni, e questo è avvenuto sostanzialmente attraverso la scolarizzazione pubblica di massa. E’ questa la tesi di questo volume, che raccoglie una serie di saggi che il Chiosso, docente di Storia della scuola all’università di Torino, è andato pubblicando nell’ultimo decennio in varie sedi. Dalla scuola del “leggere, scrivere e far di conto” alla scuola “formatrice della coscienza nazionale”, dalla figura mitica della “maestra del popolo” e “sacerdotessa del bene” all’azione corale di corpi sociali dediti all’educazione (ruolo delle congregazioni insegnanti femminili e maschili, proliferate anche in Italia alla vigilia della rivoluzione industriale), dalla nascente letteratura per ragazzi al potente sviluppo dell’editoria scolastica sollecitata dal “manuale obbligatorio”: l’autore focalizza temi, personaggi, modelli che hanno fatto da trama ai questi 150 anni della scuola italiana. Passano sulla scena, in filigrana, protagonisti noti e altri dimenticati della cultura italiana tra Otto e Novecento: politici e intellettuali, uomini di scuola e di chiesa, preti e massoni, socialisti e cattolici, ognuno geloso del proprio bagaglio di ideali, ma tutti convinti che l’Italia unita non potesse costruirsi con Italiani senza alfabeto. La scuola ha saputo trasformare un insieme di sudditi analfabeti degli antichi staterelli della Penisola in una comunità – ancorché imperfetta di cittadini italiani. (f.p.)

LEOPOLDO MARIA MUSSO, ofm “Detti” e annotazioni dagli scritti sulla Casa di Carità Arti e Mestieri raccolti e commentati da Vito Moccia, Torino 2011, pro manuscripto, pp.131. Il dossier raccoglie tutti gli scritti di fra Leopoldo, prevalentemente dal Diario, ma anche da biglietti e lettere, in cui viene menzionata la Casa di Carità, con commenti di inquadramento storico e riferimento ai vari


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promotori e artefici, ma altresì con analisi delle tematiche formative e spirituali, che apportano a questo Istituto un marcato carisma educativo e di ascesi a Dio. Il libro costituisce in primo luogo la testimonianza della fedeltà della Casa di Carità- ora eretta in fondazione - al messaggio dei servi di Dio fra Leopoldo e ven. fr. Teodoreto, come è stabilito in modo irrevocabile nello statuto della fondazione stessa, alla cui attuazione la presidenza dell’Opera è costantemente impegnata. Il libro risponde all’esigenza di formazione permanente del personale, come sussidio alla testimonianza e alle istruzioni impartite dai responsabili, con particolare riguardo verso i collaboratori di recente acquisizione. La raccolta di tutti i “detti” e degli scritti di fra Leopoldo concernenti la Casa di Carità è corredata di annotazioni e delucidazioni, a documentazione e approfondimento del carisma dell’Istituto. La missione dei Fratelli delle scuole cristiane in ordine all’istituzione e conduzione dell’Opera assume particolare rilievo in tali “detti”. Pur tra le complesse vicende che hanno contrassegnato il suo sorgere, con il ruolo determinante svolto dall’Unione Catechisti del Crocifisso e dell’Immacolata, sotto la guida del ven. fr. Teodoreto, per la sua realizzazione mantenendo integra la denominazione “Casa di Carità Arti e Mestieri”, secondo la formula risultante appunto dai “detti” del Francescano, i Fratelli si sono sempre associati nella gestione e nel provvidenziale sviluppo di tale ente di formazione professionale di proposta cristiana. E tale diretto coinvolgimento continua tuttora, segnatamente nell’animazione religiosa degli allievi e nella formazione spirituale degli insegnanti. Attraverso i “detti” si possono ripercorrere le varie fasi che hanno portato alla realizzazione dell’Opera, pur tra vicende e difficoltà, peraltro provvidenzialmente superate. L’aiuto provvidenziale - contrassegnato dai ruoli espressi di “protettore” e di “protettrice” che Gesù

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e Maria hanno inteso assumere - continua tuttora: diversamente non si spiegherebbe l’incremento della Casa di Carità in questi ultimi anni, articolata in più di venti Centri, di cui due in Perù, oltre alle sedi minori, e coinvolta altresì a prestare la formazione educativa e professionale all’interno di numerose carceri, continuando anche in questa singolare forma di carità la missione ai più diseredati particolarmente cara a san G.B. de La Salle e successivamente prestata dai Fratelli anche in Italia. La Casa di Carità è ritenuta dono della misericordia di Dio per l’elevazione umana e religiosa degli allievi e la dignità del lavoro, ed è certamente modello, anzi realizzazione di tale progetto di conversione culturale e operativa: tutti gli scritti di fra Leopoldo ridondano del carisma dell’amore misericordioso, e lui stesso, nelle ispirazioni del Crocifisso, è indicato come testimone della divina misericordia. Può essere pertanto preziosa questa raccolta di scritti, tanto più provvidenziale in quanto il lettore può sentirsi esortato a testimoniare ancor oggi quei valori che possono apparire indubbiamente in controtendenza rispetto a certa cultura contemporanea. (V.M.)

MARTHA C. NUSSBAUM Non per profitto Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica Il Mulino, Bologna 2011, pp. 160, e 14. “Distratti dall’obiettivo del benessere, chiediamo sempre più alle nostre scuole di insegnare cose utili per diventare uomini d’affari piuttosto che cittadini responsabili” (p.153). E’ la tesi che la filosofa americana (insegna Diritto ed Etica a Chicago) difende in questo libretto che ogni insegnante d’oggi – perplesso o entusiasta, soddisfatto o in crisi che sia – dovrebbe leggere prima di


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entrare in classe, prima di partecipare a un consiglio docenti, prima di valutare i propri alunni. E soprattutto dovrebbero leggerlo coloro che si candidano a diventare gli insegnanti di domani. Una carriera rischiosa, quella dell’insegnante, capace di combinar disastri, se alla radice mancasse una motivazione matura, una coscienza responsabile, un’etica professionale. La Nussbaum mette il dito sulla piaga di una scuola che si è venduta (“prostituita”, scrive lei) alla legge del mercato, alla logica del profitto. La proposta? E’ innovativa ed esigente, ma innegabilmente pertinente per il nostro tempo. Secondo la prospettiva dell’autrice, la scuola dovrebbe sviluppare negli studenti la capacità di vedere il mondo dal punto di vista di altre persone, di leggere la storia del proprio paese anche nell’ottica di altri paesi, di promuovere il pensiero critico e dunque la capacità di dissentire in base ad argomenti e non a sentimenti o pregiudizi. La scuola ha da confrontarsi con le fragilità dell’uomo, con i diritti delle minoranze, con i chiaroscuri della propria e delle altrui culture. Incrementare i saperi che favoriscono i valori della “cittadinanza globale e democratica”, come per es., i fenomeni della storia economica e dei colonialismi vecchi e nuovi, le lingue straniere e la storia delle religioni, lo studio comparato dei sistemi politici e la geografia antropica: tutte discipline urgenti per introdurre gli studenti d’oggi a saper vivere da responsabili nel mondo che li attende. (f.p.)

LUIGI PATI, LINO PRENNA (edd.) Ripensare l’autorità Riflessioni e proposte educative Edizioni Angelo Guerini e Associati spa, Milano 2008, pp. 224. La domanda di autorità sembra riemergere dopo una lunga stagione di permissivismo

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strisciante se non di anarchia irresponsabile. Decenni di letteratura pedagogica ci hanno imboniti (e intontiti) su dilemmi come autorità e autoritarismo, direttività e non direttività, autonomia ed eteronomia… Famiglia e scuola, combattendo in prima linea, hanno perso i loro connotati di un tempo, ma nemmeno hanno acquisito nuova credibilità. Molti educatori - e non si tratta certo di nostalgici o di frustrati - si chiedono se non sia gran tempo di risalire la china. Non per un impossibile ritorno all’ordine costituito di ieri, ma per un costituendo nuovo ordine per l’oggi nostro e il domani dei giovani. Gli obiettivi qui suggeriti sono ambiziosi, esigenti, ma tutt’altro che retorici. Un manipolo qualificato di educatori e pedagogisti fa da guida verso un orizzonte spazioso in vista di: superare con lucidità e autodisciplina l’attuale crisi educativa (Luigi Pati), saper esercitare l’autorità come esercizio ministeriale a servizio della libertà delle persone (Lino Prenna), adottare il governo di sé come principio e criterio di qualità di ogni educazione (Angela Chionna), ripensare l’educazione come capacità progettuale (Vanna Iori), diventare e restare “soggetti” responsabili assumendo l’esodo come paradigma biblico dell’esistere umano (Daniela Silvestri), saper ricostruire una relazione educativa autorevole mai surrogabile da mediazioni strumentali (Domenico Simeone), riscoprire nella genitorialità le specifiche e complementari qualità oblative del codice materno e di quello materno (Antonio Bellingreri), saper ritessere una rete di autorità condivise e solidali tra insegnanti e genitori nella scuola (Luisa Santelli Beccegato) e nel mondo del lavoro e della società in genere (Bruno Rossi, Giuseppe Elia), e ripensare infine una sostenibilità e una progettualità educativa nell’odierno regime di pluralismo valoriale (Pierluigi Malavasi). (f.p.)


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RICEVIAMO E SEGNALIAMO: Roberto ALESSANDRINI, Nicolò PISANU (edd.), Collana ‘Le Api’, Ed. Istituto Universitario ‘Progetto Uomo’, Vitorchiano (VT) 2011: 11/ R. Alessandrini, Il santo educatore. Don Bosco nelle figurine Liebig del ‘900, pp.34; 12/ U. Nizzoli, Vite a rischio. Crescere tra dipendenze e nuove droghe, pp. 30; 13/ P. Carlotti, Etica della virtù. Considerazioni sulla qualità della vita, pp.26; 14/ D. Zoletto, Educazione e spazi urbani. Interazioni e percorsi di cittadinanza, pp.12; 15/ V.L.Castellazzi, Bambino re, bambino martire. La violenza in età adolescenziale e giovanile, pp.16; 16/ A. Rizzacasa, Disincanto e re incantamento. Educazione alla bellezza e alla socialità, pp.14; 17/ B. Salvarani, L’esilio della memoria. Scritture, immagini e trasmissione della speranza, pp.16; 18/ A. Tonelli, Le vite degli altri. Politica, società e istituzioni sulla scena pubblica, pp.16; 19/ R. Alessandrini, L’educazione di Sancio. Metamorfosi dell’errato scudiero di Don Chisciotte, pp. 22. Luciano CAIMI (ed.), Autorità e libertà. Tra coscienza personale, vita civile e processi educativi. Studi in onore di Luciano Pazzaglia, Vita e Pensiero, Milano 2011, pp. LXXII + 509, e 50. ISBN 978-88-3432017-4. Attilio CARPIN, Il paradosso della fede. Tutto concorre al bene, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2011, pp.264, e 26,00. ISBN 978-8870-947823. Chiesa in Italia. Annale 2009 de «Il Regno», EDB, Bologna 2011, pp. 216, e 19.80. Europe. Utopie et réalisme, préface de Jacques DELORS, hors-série de la revue “Etudes”, Paris 2011, pp. 254, e 15. ISBN 326-0050-785-198.

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Roman GLOBOKAR (ed.), Religious Education in Slovene Schools – Evaluation and Perspectives. Proceedings of the International Symposium in St.Stanislav’s Institution 26th and 27th November 2009, Ljubliana 2011, pp. 365. ISBN 978-961-6650-09-0. Sérgio JUNQUEIRA, Raul WAGNER (eds), O ensino religioso no Brasil, ed. Champagnat, Curitiba 2011, pp. 198. ISBN 978-88572-921473. Vincenzo PAGLIA, Lasciate che vengano a Me. I nostri ragazzi e la fede, Lettera pastorale 2011, Tipografia Morphema, Terni 2010, pp. 56. Flavio PAJER, La Religione. Umanità in ricerca, 3 volumi + DVD, Società Editrice Internazionale, Torino 2011, pp. 204 + 200 + 200, e 9,20 cad. ISBN 978-88-05070763/770/787. Id., Materiali per il docente, pp.172, edizione f.c. ISBN 978-88-05880317. Angelo SCOLA, Aldo CAZZULLO, La vita buona. Dialoghi su laicità, scienza e fede, vita e morte alla vigilia del Redentore, Edizioni Messaggero, Padova 2009, pp.96, rilegato, e 9,00. ISBN 978-8825-019391. Dara TUMACA-RAMOS, Confiados a mi cuidado. La alegría de educar las mentes y de mover los corazones, “Cuadernos MEL” 43, Supplemento al n. 4 del 2010 di Rivista lasalliana, Segretariado a la Misión educativa FSC, Roma 2011, pp. 76 (anche in versione inglese e francese). Pierluigi VALSECCHI (ed.), Politiche di appartenenza. Lavoro, rappresentanza e cittadinanza in Africa, Asia America Latina, Rubbettino, Soveria Mannelli CZ 2011, pp. 244, e 20,00. ISBN 977-0032-325006.


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Dalle riviste Centralità dell’alterità, di Pietro Birtolo, “Sapienza. Rivista di Filosofia e di Teologia”, trimestrale dei Domenicani d’Italia, 64 (2011)1-2, 3-68. Annuncio del vangelo, intercultura e comunicazione nell’era digitale, focus a cura di L. Pandolfi, F. Lopes, S. Nuin Núñez, F. Mazza, “Euntes docete”, 54(2011)1, 11-97. Un decennio per l’educazione. La morale nell’educazione della persona, “Rivista di teologia morale”, n. 170, aprile-giugno 2011, 169-220, con contributi di P. Carlotti, S. Zamboni, M.T. Zattoni e G. Gillini, R. Vinerba, F. Compagnoni, A. Mariani, L. Lorenzetti.

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Paul, T. Römer, A. de Pury, E. Junod, P. Gibert. Vangelo del Regno e legami sociali (studio del mese), di Giuseppe Angelini, “Il Regnoattualità” , 8/2011, 273-281. Città e cittadinanza, forum di “Quaerite” rivista semestrale dell’ISSR S.Pietro di Caserta, n. 2, dicembre 2010, 13-184. Giuseppe Lazzati: uno stile ancora attuale, di Stefano Bittasi sj, “Aggiornamenti sociali”, maggio 2011, 363-365, con la ripubblicazione dell’articolo di G. Lazzati (1985), La Chiesa nella comunità politica. Riflessioni sui modi di una presenza, ivi, 366-378.

Monoteismi e religioni politiche, di Paolo Prodi, “Il Mulino”, 60(2011)2, 191-208.

Adolescenza: passaggio verso dove? di Daniele Novara, “Rocca” 10, 15 maggio 2011, 34-37.

Sul crocifisso e su molto altro. Le sentenze della Corte europea dei diritti umani, di Silvio Ferrari, “Il Regno-attualità” 6, 2011, 191-200.

La figura di Gesù tra analisi storico-critica e analisi narrativa dei vangeli, di Sergio De Marchi, “Credere oggi” 31(2011)1, 21-36.

Educare oggi: fra risorse, urgenze e speranza, dossier a c. di Luciano Caimi, con contributi di A. Canevaro, F. Russo, M. Colombo, M. Conte, M. Santerini, L. Ciotti, “Dialoghi”, gennaio 2011, 20-63. Ordinamenti senza Dio? L’ateismo nei sistemi giuridici contemporanei, “Quaderni di Diritto e Politica ecclesiastica” aprile 2011, Il Mulino, pp. 225, con contributi di G. Filoramo, F. Onida, G. Cimbalo, M. Parisi, C. Cardia e altri.

Narrare la storia di Gesù ai giovani, di J.-P. Lieggi, “Credere oggi” 31(2011)2, 114-132. L’Utopia e l’evento religioso, monografico della “Rivista di Studi Utopici”, anno V, n.8, novembre 2010, 3-262, con contributi di H. Gutierrez, A. Colombo, G. Lettieri, G. Mura, F. Pajer, M. D’Amato, R. Schérer, M. Campanini, A. Nesti, J. Zanardini, V. Roldan, C. Quarta, M. Moneti, D. Martina.

Le Scienze delle religioni nel mondo, monografico a c. di Giovanni Casadio e Carlo Prandi, “Humanitas” 66(2011)1, 5-162.

Modernità, moralità, religione. Le possibilità della credenza in un’era secolare, di Oreste Aime, “Archivio Teologico Torinese” 18(2010)2, 309-332.

La formazione della Bibbia, monografico de “Il mondo della Bibbia”, marzo-maggio 2011, 3-25, con contributi di R. Burnet, A.

Altri modi e forme di insegnamento. Nativi digitali e cervelli diversi, di Giuseppe O. Longo, “Rocca” 15 giugno 2011, 32-35.


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Indici

INDICI DELL’ANNATA 2011 ALESSANDRINI, Roberto 2, 217-228 Devota allegrezza. Forme di disciplinamento religioso del gioco 4, 683-690 Le visage criminel BORDONE, Bruno 1, 113-126 Come il La Salle ha risposto alla sfida educativa del suo tempo BORGHI, Ernesto 2, 255-292 Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth (1) 3, 433.455 Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth (2) 4, 643-668 Il Nuovo Testamento: la figura di Gesù di Nazareth (3) BUTTURINI, Emilio 1, 39-49 Dal ‘nuovo cristianesimo’ di Tolstoj alla sua ‘passione educativa’ 4, 621-631 Giorgio La Pira, un cristiano per la pace nel mondo CAPELLE, Nicolas 2, 379-387 La Grande Chapelle de Passy-St-Nicolas et le mouvement catéchétique au XXème siècle DE LAS HERAS MILLÁN, Juan Bautista 1, 87-94 La diversidad religiosa en los Centros La Salle en España DE VIDI, Arnaldo 1, 51-64 Le nuove chiese evangeliche. Una lettura pastorale dal Brasile FERRARI, Mario 3, 419-432 La bellezza della matematica FERRERO, Elisa 4, 669-681 Insegnare Storia delle religioni a scuola? Dieci parole per cominciare FONSECA SANCHEZ, Jorge Enrique 2, 313-322 Educacional Service of the Poor GIORDA, Mariachiara 1, 19-30 La paternità carismatica di Antonio 2, 243-253 Educare alle “religioni” nella scuola primaria. Esperienze in corso 4, 669-681 Insegnare Storia delle religioni a scuola? Dieci parole per cominciare GROS, Jeffrey 3, 539-557 The Challenge of the Lasallian Catechist in the late 20th Century United States: one Lasallian Journey LOMBAERTS, Herman 2, 295-312 La ‘mission canonique’ et les districts vieillissants 3, 485-514 Ensemble et par association – L’actualisation de la mission canonique affrontée aux transitions irréversibles


Indici

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LUCCHIARI, Anna 1, 101-109; 3, 457-461; 4, 691-695 Chiaroscuri MENNINI, Matteo 2, 323-350 Contributo per una storia sociale della componente italiana dei FSC negli anni della Restaurazione. La corrispondenza di Fratel Regolo 1815-1830 4, 721-749 La formazione religiosa e culturale dei FSC in Italia tra Sette e Ottocento. L’opera di Fratel Regolo PAOLANTONIO, Marco 1, 145-160 Una vita per la catechesi: Agilberto Gatti, fsc (1905-1977) 2, 363-377 Un antesignano degli Studi lasalliani: Dante Fossati, fsc (1902-1995) 3, 521-537 Scienze matematiche e umanesimo: Roberto C. Sitia, fsc (1922-2002) 4, 751-765 Una vita spesa con e per i giovani: Giocondo Ronco, fsc (1889-1951) PISANU, Nicolò 3, 411-417 Adultità, adolescenza e disagio. Percorsi psicologici PISTOIA, Francesco 3, 581-589 Alunni e docenti tra scuola e vita (rassegna bibliografica) 4, 797-800 Rosmini e Rebora 4, 800-802 Itinerario di un filosofo: Michele Federico Sciacca PITAUD, Bernard 3, 465-484 Nicolas Roland et la ‘Peste’ à Reims en 1668 4, 699-720 Les relations de Nicolas Roland et des Sœurs de l’Enfant-Jésus avec le Carmel de Beaune RUMMERY, Gerard 4, 767-781 My catechetical Journey RUTH, Kevin J 1, 95-100 Toward a Working Lay Model of Catholic Independent Schools SALZANO, Teresa 1, 31-37 Tradizione e cultura ebraica in Italia tra Otto e Novecento TACCONI, Giuseppe 1, 65-86 Pensare per insegnare. Come gli insegnanti pensano il proprio agire 2, 229-242 Tra rassegnazione ed ostinazione: logiche d’intervento con alunni di Ifp TÉBAR BELMONTE, Lorenzo 4, 633-641 Cualidades de una ‘buena’ mediación educativa TRISOGLIO, Francesco 1, 7-18 La catechesi battesimale a doppia intonazione: san Giovanni Crisostomo 2, 195-210 La catechesi al clero in san Gregorio di Nissa 3, 395-410 La catechesi liturgica: il De ecclesiasticis officiis di Isidoro di Siviglia 4, 607-619 La catechesi ai vescovi: la Regula pastoralis di san Gregorio Magno


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Indici

VALLADOLID, José María 1, 129-143 Retazos lasalianos [26-30] 2, 351-362 Retazos lasalianos [31-35] 3, 559-572 Retazos lasalianos [36-40] 3, 515-519 Juan Bautista de La Salle, catequista. Una tesis doctoral 4, 783-795 Retazos lasalianos [41-46] ZORBAS, Kostas 2, 211-216 Christian approach of the poverty: biblical, patristic and ethical approach CRONACHE LASALLIANE La Salle et le ministère de l’éducation (G.Routhier), 161 – The Faces of joy and hope in Asia, a book by A. Rogers fsc, 162 – Orfani del terremoto di Messina accolti dai FSC, 164 – El Nobel a Vargas Llosa antiguo alumno de La Salle, 573 – Vers un catalogue mondial des manuels scolaires des FSC (P.Aubin), 574 – L’anniversario di due riviste lasalliane, 578 – Guillermo Dañino Ribatto, fsc, promotore della cultura cinese in Occidente, 579.

LIBRI SEGNALATI * Alessandrini R., Sagome inquiete, 594 Berliner D., Transmettre, 177 Bettazzi L., Vescovo o laico?, 803 Bianchini P., Le origini delle materie, 590 Caimi L., Autorità e libertà. Studi in onore di L.Pazzaglia, 803 Chiarapini M., I sacramenti della fede, 179 Chiarapini M., Non date le dimissioni. Genitori alle prese con l’educazione dei figli, 589 Chiosso G., Alfabeti d’Italia. La lotta contro l’ignoranza nell’Italia unita, 805 Claris S., L’esperienza del pensare. Guida teorico pratica per la formazione di formatori, 175 Codrignani G., Ottanta, gli anni di una politica, 591 Comité Européen d’Experts, Carrefours d’histoire européenne, 178 Einaudi L.- Valitutti S., La libertà della scuola, 172 Gecchele M.- Dal Toso P., Educazione democratica per una pace giusta, 591 Giorda M.- Saggioro A., La materia invisibile. Storia delle religioni a scuola, una proposta, 593 La Torre G., Bibbia e Corano. Due mondi sotto un unico cielo, 166 Martini L., Chiesa e cultura cattolica a Firenze nel Novecento, 171 Mattioli Carcano F., Santuari à répit. Il rito del ‘ritorno alla vita’ nei luoghi delle Alpi, 173 Melloni A., Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, 165 Musso L.M., Detti e annotazioni dagli scritti sulla Casa di carità Arti & mestieri, 805 Nussbaum M.C., Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, 806 Pati L.- Prenna L., Ripensare l’autorità. Riflessioni e proposte educative, 807 Pieroni V.- Santos F.A., La valigia del ‘migrante’. Per viaggiare a Cosmopolis, 592 Savarese G.- Jannaccone A., Educare alla diversità. Per insegnanti, psicologi ed operatori, 176 Sisti R.- Martinetti n., Visto, si stampi. Viaggio nel mondo dell’informazione, 174 Trisoglio F., Basilio il Grande si presenta: la vita, l’azione, le opere, 166 Trisoglio F., Gregorio di Nazianzo: teologia e dogmatica, 167 Trisoglio F., San Gregorio di Nazianzo. Un contemporaneo vissuto sedici secoli fa, 169 *vedere anche le Rassegne bibliografiche a cura di F. Pistoia


Revista Digital de Investigación Lasaliana http://revista_roma.delasalle.edu.mx/actual.php?lan=es

Año 1 (2011) N° 2 ASOCIACIÓN Y FAMILIA LASALIANA: CUANDO LOS ITINERARIOS SE ENTRECRUZAN La Revista Digital de Investigación Lasaliana, en su segundo número, continúa profundizando en el tema de la Asociación y la Familia lasaliana. Con este fin, ofrece una serie de artículos que deseamos sean motivo de lectura, reflexión y debate comunitarios. Este segundo número está estructurado en tres partes: 䊳 La PRIMERA PARTE, que lleva por título Tres perspectivas, ¿un itinerario común?, presenta documentos oficiales de tres Institutos Religiosos – comprometidos con la educación católica - que tratan el tema de los Laicos y sus procesos de identificación, participación y pertenencia institucional. Cada uno, visto como una familia religiosa ampliada, tiene una manera original de expresar su propio itinerario; no obstante, en su conjunto dan fe de una experiencia eclesial común que nos hace interrogarnos acerca de las invitaciones del Espíritu hoy, sobre todo frente al presente y futuro de los cristianos que asumen con radicalidad el seguimiento de Jesucristo, sea cual sea su condición de vida. Una breve introducción da algunas pistas para la lectura de los documentos que se ofrecen: - Adhesión, compromiso, vinculación y pertenencia, de los Hnos Maristas de la Enseñanza; - Hermanas y Laicos nos reconocemos como Familia Teresiana, del Instituto de las Hermanas de la Compañía de Santa Teresa; - Asociados para la Misión Lasaliana - un acto de esperanza, de los Hermanos de las Escuelas Cristianas. 䊳 La SEGUNDA PARTE recoge algunos artículos sobre la Asociación lasaliana, recibidos de nuestros Colaboradores de todas las Regiones del Instituto. En su conjunto, dan cuenta de una reflexión que sigue madurando en el tiempo: - El Hno. GERARD RUMMERY, del distrito de Australia/Nueva Zelanda/ Papúa-Nueva Guinea, en Asociación, antes y ahora, expresa de manera sintética lo que el Instituto había reflexionado previo al último Capítulo General de 2007. Su aporte ayuda a valorar si el Instituto hoy ha dado pasos hacia adelante en esta compleja dinámica asociativa.


- El dr. JUAN MANUEL TORRES SERRANO, de la Universidad La Salle de Bogotá, diserta sobre el Caminar y crecer juntos en la unidad para la historización del Reino. Su trabajo es expresión de un académico seglar que desea reflexionar en comunión con los consagrados, con quienes se siente invitado a construir un itinerario de Iglesia. - Del Hno. ANTONIO BOTANA, del distrito de ARLEP (España-Portugal), conocido dentro y fuera de La Salle por su impulso a la reflexión eclesiológica actual desde la realidad de los Institutos religiosos laicales, presentamos el artículo: De “compartir la misión” a “vivir el carisma” en familia. Seguramente, su aporte ayudará a abrir nuevas perspectivas en la reflexión actual. - El Hno. DIEGO MUÑOZ, del Servicio de Investigación y Recursos Lasalianos (Roma) presenta el informe: Los lasalianos cómo comprenden la asociación desde su experiencia personal. Estudio de testimonios de Hermanos y Seglares de la RELEM. Es una continuación de la investigación que desarrolla junto al Secretariado de Familia lasaliana y Asociación. - Un artículo de conjunto permite pulsar la realidad de la asociación en diferentes regiones del Instituto: Tres visiones de la asociación: África, Oceanía y América Latina. Los Hermanos MARC SOMÉ (África del Oeste) e IGNATIUS KENNEDY (Australia/Nueva Zelanda), junto al dr. JUAN MANUEL TORRES (Colombia), disertan sobre valores y propuestas de la asociación desde cada uno de sus espacios eclesiales y culturales. 䊳 La TERCERA PARTE presenta el resumen de dos investigaciones lasalianas realizadas en Instituciones de Educación Superior y que hoy tenemos el gusto de ofrecer, no sólo como un reconocimiento a sus autores sino también como un incentivo para que otros Lasalianos encuentren en nuestra Revista un espacio para dar a conocer sus propias búsquedas, recordando que el trabajo científico requiere la comunicación y el compartir de las experiencias. Por ello, presentamos: - el resumen de la tesina de licenciatura del Hno. ÁNGEL RAMÓN POVEDA MARTÍNEZ, del distrito ARLEP, que lleva por título: La originalidad educativa lasaliana en los siglos XVII y XVIII; - el resumen de la tesis doctoral de José MARTÍN MONTOYA DURÀ, actual Novicio, también del distrito ARLEP, que trata de un Plan de educación ambiental para el desarrollo sostenible de los Colegios de la Institución La Salle. Esperamos que ambos aportes alienten en otros el deseo de compartir sus trabajos desde la plataforma que ofrece esta Revista. Feliz lectura en asociación para todos. Contact: digitaljournal@lasalle.org




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Rivista lasalliana Direzione e redazione: 00165 Roma - Via Aurelia, 476 Amministrazione: 10131 Torino - Strada Santa Margherita, 132

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2011

Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/AC - ROMA - “In caso di mancato recapito inviare al CMP Romanina per la restituzione al mittente previo pagamento dei resi”

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ISSN 1826-2155

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trimestrale di cultura e formazione pedagogica

✓ San Gregorio Magno e le sue regole per la gestione pastorale ✓ Giorgio La Pira o l’utopia politica della pace ✓ Ripensare la mediazione educativa nella pedagogia dell’apprendimento ✓ Presupposti esegetici per una didattica dei fatti pasquali secondo i Vangeli ✓ “Storia delle religioni” a scuola? Dieci parole per cominciare ✓ Alle origini lasalliane: Nicolas Roland e le Soeurs de l’Enfant-Jésus ✓ F. Regolo Agnez, protagonista della formazione religiosa dei Lasalliani italiani tra Sette e Ottocento ✓ Figure del XX secolo: F. Giocondo Ronco, filosofo ed educatore di giovani; Br. Gerard Rummery, un itinerario di ricerca catechetica postconciliare

OTTOBRE - DICEMBRE 2011 • ANNO 78 – 4 (312)


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