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Coco Chanel: l’intramontabilità del tubino nero
Una stilista rivoluzionaria, che ha ridefinito il concetto di eleganza femminile, arguta interprete della sua epoca grazie a capi pratici, dalle linee essenziali, liberando le donne da busti, lacci e corpetti attraverso una semplicità unica, resistente al tempo e alle mode
Coco Chanel, è stata la stilista che ha influenzato maggiormente il costume del secolo scorso, che ha rivoluzionato il concetto di eleganza femminile, rompendo di fatto gli schemi che avevano caratterizzato la moda ‘costrittiva’ della Belle Epoque, fatta di busti, lacci e corpetti. Sin dai primi decenni del XX secolo, questa stilista geniale e innovatrice, grazie al suo ‘genio’ creativo riuscì a imporsi nell’universo della moda femminile, proponendo capi pratici, dalle linee rigorose ed essenziali, puntando su colori sobri come il bianco, il nero, il grigio e il beige. Completamente scollegata dalle tendenze del momento, la giovane Coco intraprese presto la strada che l’avrebbe portata, nel giro di poco tempo, a raggiungere un successo planetario. Lo stile caratteristico e senza tempo di Chanel ha elegantemente contribuito a delineare i profili di un nuovo modello di donna, che proprio in quel periodo storico iniziava a liberarsi dalle vesti di ‘angelo del focolare’. La concezione stilistica di Coco, oltre a rappresentare un capitolo fondamentale nella storia della moda e del costume, continua a conquistare il pubblico femminile. La maison Chanel, fondata nel 1909 a Parigi, nel 2018 ha fatturato circa 11 miliardi di dollari, grazie anche alla genialità del
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fashion designer Karl Lagerfeld, che ne ha assunto la direzione artistica dal 1983 fino all’anno della sua scomparsa (2019), riuscendo a modernizzare i pezzi classici della maison senza alterarne lo stile. Attualmente, il logo formato dalle due ‘C’ intrecciate rappresenta il marchio del lusso forse più noto e amato al mondo.
LA VITA DI COCO E LE SUE LEGGENDARIE CREAZIONI Il 19 agosto del 1883 nasce a Saumur, in Francia, Gabrielle Bonheur Chanel. La sua non fu un’infanzia felice, bensì caratterizzata da privazioni e sofferenze. Di umili origini, dopo la morte della madre venne affidata dal padre alle suore della congregazione del Sacro Cuore, nel cui orfanotrofio trascorrerà il resto della sua adolescenza. Si narra che fu proprio durante questo periodo che Coco abbia appreso le prime nozioni di taglio e cucito. Sembra che siano state proprio le divise delle monache a ispirare le linee, rigorose ed essenziali, delle sue creazioni, di cui il bianco e il nero saranno sempre i colori più rappresentativi della Maison. Appena raggiunta la maggiore età, Coco lasciò l’istituto iniziando a lavorare come sarta. Successivamente, l’incontro fortunato con il suo primo finanziatore e compagno, Etienne De Balsan (figlio di imprenditori tessili), le permise di avviare la sua prima attività di vendita. Fu il primo ‘tassello’, che le consentì di affermarsi attraverso la realizzazione di cappellini di paglia semplici, a volte ornati di nastri di raso, in un momento in cui le tendenze prediligevano cappelli appariscenti e voluminosi, spesso sorretti da una struttura rigida. Iniziò così a prendere forma lo stile sobrio ed essenziale che avrebbe caratterizzato le creazioni a venire della stilista. Gli abiti sontuosi, dalle gonne ingombranti, i soffocanti corsetti e, più in generale, lo sfarzo e l’opulenza dell’epoca, non avrebbero più rappresentato l’idea di nuova femminilità che si stava già delineando. L’incontro che segnò il cuore di Coco - e che coincise con l’inizio della sua ascesa al successo - avvenne quando conobbe l’imprenditore Arthur Capel, considerato l’unico grande amore della stilista, con il quale tuttavia non si sarebbe mai sposata. Capel comprese subito le potenzialità di Coco, assecondandone il lavoro anche finanziariamente. Fu grazie al suo appoggio che la giovane Gabrielle potè aprire la leggendaria boutique in rue Cambon, a Parigi, a cui seguì l’apertura di un altro negozio nella località marittima di Deauville in Nornandia e di un altro a Biarritz, ai confini con la Spagna. Nel 1912, Coco iniziò a vendere anche altri capi d’abbigliamento e la sua attività imprenditoriale non venne fermata neanche dallo scoppio della
prima guerra mondiale. Di quell’epoca disse: “Finiva un mondo, un altro stava per nascere. Io stavo là; si presentò un’opportunità; la presi. Avevo l’età di quel secolo nuovo, che si rivolse dunque a me per l’espressione del suo guardaroba. Occorreva semplicità, comodità, nitidezza: gli ofrii tutto questo, a sua insaputa”. La Grande Guerra obbligò gli uomini al fronte, mentre le donne si trovarono improvvisamente a ricoprire un ruolo fondamentale nella società, iniziando a lavorare nei campi e in fabbrica. L’abbigliamento pratico e confortevole su cui puntava Coco trovò così la sua collocazione in un momento tragico. Il conflitto innescò dei cambiamenti significativi, che modificarono profondamente anche le abitudini delle donne, abbigliamento compreso. Il design proposto da Chanel non si limitò a rivoluzionare il costume dell’epoca, ma rappresentò uno stile di vita creato per una donna dinamica, lavoratrice, indipendente dall’uomo, senza per questo rinunciare alla propria femminilità. L’innovatrice Mademoiselle venne rinominata: “La regina del genere povero”. Coco riuscì perfettamente a mixare i classici elementi della moda maschile a quelli propri della moda femminile; distribuì le prime maglie realizzate a mano e confezionate industrialmente; propose i primi pantaloni da donna; accorciò l’orlo delle gonne sotto il ginocchio; promosse lo ‘stile alla marinara’ e utilizzò del jersey per gli abiti. Nel corso della sua carriera, Gabrielle non tradì mai il
suo ideale di design: “La moda passa, lo stile resta”, diceva. Al termine della prima guerra mondiale Coco era ormai un’imprenditrice affermata. Proprio i successi del suo lavoro le offrirono il rifugio che le servì per soffocare il dolore causato dalla tragica scomparsa del compagno, Capel, per un incidente d’auto. Il periodo più importante per l’affermazione della stilista è compreso tra il 1920 e il 1930, quando creò il ‘tubino nero’, (l’abito classico per eccellenza); il profumo Chanel N° 5 (fragranza iconica e decisa innovazione per l’epoca); il tailleur con la tipica giacca senza collo; abbinò elementi di bigiotteria agli abiti (perle, cristalli e catene); lanciò la moda dei capelli corti a la garçonne; fino a essere chiamata a Hollywood come costumista, per realizzare preziosi abiti per le star del cinema. Il fascino, l’audacia e la determinazione le consentirono, nel corso della sua carriera, di entrare in contatto con artisti e intellettuali (tra cui personaggi del calibro di Pablo Picasso e Igor Stravinsky) e di frequentare esponenti dell’alta nobiltà, come il Granduca Dmitrij Pavlovic (cugino dello zar Nicola II) e il duca di Westminster, Hugh Richard Arthur Grosvenor, con i quali ebbe delle relazioni. Lo scoppio della seconda guerra mondiale spinse Chanel a chiudere il suo atelier, mentre venne mantenuto aperto solo il negozio di profumi. In questo periodo venne coinvolta in storie di spionaggio dal carattere nebuloso. Ma nonostante le voci relative a un suo presunto coinvolgimento col Terzo Reich e sulle sue relazioni con esponenti a esso collegati, Chanel ha sempre negato di aver collaborato con il regime tedesco. Dopo un periodo trascorso in Svizzera e negli
Stati Uniti, lontana dalle scene modaiole, Coco tornò in Francia e, all’età di 71 anni, nel 1954, riaprì la sua maison, presentando una nuova collezione di cui faceva parte il suo famoso tailleur in tweed (capo emblema della casa di moda), proponendo uno stile in netto contrasto con le tendenze del momento, in cui imperavano le idee proposte da Christian Dior. La nuova collezione non ebbe un successo immediato, tanto da essere criticata dai suoi connazionali. Il mercato nordamericano, tuttavia, ne apprezzò lo stile. Malgrado la fredda accoglienza in patria, Chanel riuscì a tornare protagonista del mondo della moda. L’anno successivo creò l’iconica ‘2.55’: una bag in pelle trapuntata che, grazie all’aggiunta di una catenella in metallo, poteva essere indossata come una borsa a tracolla, lasciando le mani libere: ancora una volta il connubio tra ‘classe’ e ‘praticità’ si rivelò una scelta vincente. Nel 1957, lanciò la classica e leggendaria scarpa bicolore (beige con punta nera, a contrasto), che lasciava il tallone scoperto e, nello stesso anno, venne invitata a Dallas per ricevere il Neiman-Marcus Award (l’Oscar della moda). Morì all’età di 87 anni, il 10 gennaio del 1971.
LE NUOVE TENDENZE DEL FASHION BUSINESS Il pensiero, lo stile e la filosofia di Coco Chanel, le sue geniali intuizioni, la sua idea di donna libera da orpelli e costrizioni - che ebbe successo proprio nel periodo in cui l’universo femminile ‘schiacciò il pedale’ nella sua corsa verso l’emancipazione - continuano ancora oggi a influenzare stili, mode e tendenze. La
comprensione di questa alchimia è spesso stata oggetto di studio da parte di storici, sociologi, esperti di comunicazione e marketing. Le fedelissime riproduzioni (più o meno credibili) dei ‘pezzi’ più iconici della maison non sono mai riuscite a replicare un concetto che andasse oltre la moda: qualità, forme, materiali e funzionalità dei prodotti non sono gli unici elementi artefici del successo. La moda non si pone come mera rappresentazione di gusto nel vestire: al contrario, lo stile viene spesso utilizzato per esprimere l’appartenenza a un modello sociale, la condivisione di valori, comportamenti e stili di vita, attraverso un’identità ben definita. A causa della recente pandemia, il mondo sta affrontando una crisi economica e sociale di proporzioni non immaginabili, di cui ancora non sono prevedibili gli effetti. Tra i mille interrogativi sulle conseguenze a lungo termine che tutto questo potrà generare, anche il comparto moda sembra volersi rimettere in discussione. Anna Wintour, direttrice di Vogue America, ha sottolineato la necessità di un cambiamento, più sostanziale che legato a una precisa tendenza del momento: “Siamo tutti d’accordo che bisogna mostrare di meno, che bisogna puntare di più sulla sostenibilità, sulla creatività e meno sul lusso”. Giorgio Armani, leggenda vivente dello stile italiano, ha recentemente dichiarato al quotidiano ‘La stampa’: “La pandemia, con il forzato arresto delle attività, ci ha costretto a fare i conti con un sistema che ha rivelato tutta la sua fragilità e le sue distorsioni. Questo è il momento di rallentare la folle corsa, di fare meno e meglio, concentrandoci sul prodotto. In tutti i settori. Mi auguro che prevalgano l’intelligenza, il buon senso e il coraggio”. Secondo la rivista ‘The Business of fashion’, considerata la più autorevole e influente del settore, i fashion leader si sposteranno presto sulla re-immaginazione dell’intero settore: “La crisi è un catalizzatore che obbligherà l’industria a un cambiamento: è il momento di prepararsi per un mondo post-coronavirus”. Così Imran Amed, fondatore e Ceo della rivista. Forse siamo alle origini, come ai tempi di Coco Chanel, di una nuova rivoluzione della moda e dello stile: chi riuscirà a individuare e a interpretare le nuove esigenze attraverso un’attenta osservazione dei cambiamenti in corso, potrà contribuire al rilancio dell’intero comparto. Sulla stessa scia di pensiero sembra porsi Nicola Farneti, direttore di Vogue Italia: “La storia raramente sbaglia. Al termine della crisi del 1929, si scelsero abiti bianchi e pratici dopo il tripudio di paillettes degli anni venti. Credo che sarà lo stesso e saranno privilegiati capi che esprimano rispetto e funzionalità”. Per Giacomo Santucci, presidente di Camera Buyer Italia, le nuove ambizioni dovrebbero “ripristinare una catena valoriale, che comprenda le nuove esigenze degli acquirenti, i quali stanno sviluppando un’antipatia per la merce che produce spreco, eccesso, dispersione, in favore di una moda sostenibile e rispettosa dell’ambiente”. Secondo Santucci, “il mercato della moda futura è in mano ai più giovani e alla loro catena di valori”. Il recente appello contro un consumismo senza regole, pubblicato su ‘Le Monde’ il 6 maggio scorso e firmato da 200 persone tra attori, artisti e scienziati di tutto il pianeta, pone l’accento sulla necessità di una profonda revisione di obiettivi, valori ed economie. Un appello contro un “non ritorno alla normalità”, poiché “l’inquinamento, il riscaldamento globale e la distruzione degli spazi naturali stanno portando il mondo a un punto di rottura”. Se, come molti sostengono “nulla sarà più come prima”, è ormai chiaro che la vera innovazione sarà determinata da chi riuscirà a cogliere gli aspetti significativi delle necessità e dei desideri dei futuri consumatori, interpretandone gli ideali di vita e la filosofia di pensiero, aprendo le porte a un nuovo modo di vivere e di essere alla moda, coerentemente e in linea con i tempi a venire. Un’impresa e una rivoluzione in cui riuscì, nel secolo passato, Coco Chanel. Michela Diamanti
Una coppia che ha fatto la storia della performance art
Marina Abramovic - Anima Mundi, Pieta, Amsterdam, 1983
A quasi tre mesi della scomparsa di Uwe Laysiepen, Periodico italiano magazine ricorda gli indimenticabili ‘Relation Works’ ideati e ‘vissuti’ tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso insieme a Marina Abramovic
Correva l’anno 1975, quando Marina Abramovic e Frank Uwe Laysiepen, alias Ulay, si conobbero, cambiando le sorti della propria vita e segnando per sempre il mondo della Performance Art: Serba lei, tedesco lui, dal loro incontro nacque un sodalizio destinato a divenire vera e propria ‘icona’ dell’arte contemporanea: emblematico del clima sociale e artistico degli anni ’70 del secolo scorso e di una concezione dell’arte interamente proiettata
e focalizzata sul legame tra questa e la vita. Da quel fatale incontro, avvenuto per caso ad Amsterdam il 30 novembre 1976 - data di nascita di entrambi - dove la Abramovic, su invito della galleria de Appel di Wies Smals, si era recata per partecipare con una performance alla trasmissione ‘Beeldspraak’, i due vissero un rapporto simbiotico e totalizzante, che per molti anni alimentò e informò i loro percorsi artistici e, ancora oggi, a molto tempo di distanza, li unisce. Significativo, a proposito della forza attrattiva che la memoria di quel periodo ancora esercita nell’immaginario collettivo, quanto avvenuto a New York nel 2010, in occasione della performance ‘The Artist Is Present’, messa in atto dall’Abramovic durante la retrospettiva omonima, dedicatale al MoMA. L’artista stessa, nell’autobiografia ‘Walk Through Walls’ (Attraversare i muri) pubblicata nel 2016, ricordò l’episodio che colpì e commosse molti: “Fin dal primo giorno della performance, fuori dal MoMA si formò una coda lunghissima. Le regole erano semplici: ogni persona poteva sedersi davanti a me per tutto il tempo che voleva, breve o lungo che fosse. Ci saremmo guardati negli occhi. Non era permesso né toccarmi né parlarmi. Io ero lì, al cento per cento – anzi, al trecento per cento – per ogni persona. E divenni estremamente ricettiva”. Più avanti, “alla fine di quella spossante giornata, dopo che più di cinquanta persone si erano sedute davanti a me portandomi tutto il loro dolore, arrivò Ulay. Su mia richiesta, il MoMA aveva pagato il volo a lui e alla sua nuova fidanzata, che stava per sposare. Da parte mia era un segno di rispetto: dopotutto, rappresentava la metà di dodici anni di lavoro esposti ai piani superiori. Sapevo che era lì in giro. Era il mio ospite d’onore. Ma non mi sarei mai aspettata che si sedesse davanti a me. Fu uno shock. In un attimo, mi passarono davanti dodici anni della mia vita. Per me non era certo un visitatore come gli altri. Così, solo per quella volta, infransi le regole. Misi
The Artist Is Present, MoMA, 2010
le mie mani sulle sue, ci guardammo negli occhi e, prima di rendermi conto di quello che stava accadendo, ci ritrovammo in lacrime”. Leggendo queste parole, si può intuire facilmente a quale livello tale ‘rinnovato’ incontro abbia scosso i visitatori della mostra e, ancora oggi, riesca a toccare nel profondo chi assiste alla scena su Youtube (https://www.youtube.com/ watch?v=OS0Tg0IjCp4): indiscussi il fascino e l’empatia innescati dalla commovente - e per certi versi drammatica – coincidenza/confusione di piani che i due perseguirono ai tempi della loro relazione, coltivando una storia d’amore e d’arte nella quale furono abbattuti i confini dell’uno e dell’altra. Una profonda e vitale fusione artistica, che sfociò nei celebri ‘Relation Works’: la storica serie di performance realizzate tra il 1976 e il 1988, conclusasi con ‘The Lovers: The Great Wall Walk’, l’opera che epicamente ne sancì la separazione, segnata anche questa da un incontro, stavolta fatto dopo aver percorso (per tre mesi!) la Grande Muraglia cinese, partendo dall’estremità opposte – lui dal deserto, lei dal mare – e ritrovandosi a metà strada. Come l’artista stessa dichiarò a Cynthia Carr, critica del ‘The Village Voice’: “Prima c’era un forte legame emotivo. Camminare una verso l’altro aveva un certo impatto: era quasi la storia epica di due amanti che si incontravano dopo tante sofferenze. Poi questo aspetto è scomparso. Sono molto contenta che abbiamo, comunque, deciso di realizzare questo lavoro, perché avevamo bisogno di una qualche conclusione. E questa è rappresentata da tutta la strada che facciamo camminando l’una verso l’altro – e non per incontrarci gioiosamente, ma solo per pronunciare la parola ‘fine’. È una cosa molto umana, in un certo senso. Ed è molto più drammatica della semplice storia dei due amanti”. Con tale impresa, ideata anni prima con intenti decisamente diversi, si divise l’iconico duo. Ebbene, quella relazione ‘a più livelli’, durata dodici anni e chiusa con un abbraccio e una stretta di mano in Cina, fece la Storia dell’arte contemporanea e, in particolare, della Performance Art: “Espressione artistica”, recita la Treccani, “diffusasi nei Paesi occidentali negli anni ’60, che consiste nella messa in scena di una ‘azione’ programmata, entro uno spazio non necessariamente istituzionale, di solito alla presenza di un pubblico. Nell’uso corrente, la nozione di ‘performance art’ tende a coincidere con quella di ‘body art’, essendo spesso l’uso del corpo e delle prestazioni corporee il suo contenuto prevalente. Arte di forte contenuto esperienziale, volta all’estetizzazione del quotidiano, arte dell’aleatorio. La performance art, tuttavia, è espressione dell’era tecnologica: alleandosi con i moderni mezzi di riproduzione (fotografia, ripresa cinematografica e audiovisiva, etc. etc.) si sottrae solo in parte alla regola della conservazione e dell’eventuale commercializzazione del prodotto. Tipico esempio di fusione di più linguaggi artistici (intermedia), la ‘performance art’ tende a superare la distinzione tra le arti, come pure ad annullare la separazione tra arte e vita e tra artista e pubblico. Presente anche in altre manifestazioni affini della ricerca estetica del dopoguerra, come i ‘concerti-Fluxus’ e gli happenings, la ‘performance art’ può essere fatta risalire ai modelli storici del futurismo, del dadaismo e del surrealismo” (Enciclopedia Treccani).
RELATION IN SPACE
Alla luce di quanto finora rilevato, ricordiamo alcune delle performance che resero i due un’icona dell’arte contemporanea. Cominciamo con uno dei primi lavori: la performance di 58 minuti, intitolata ‘Relation in
Space’, messa in scena alla Biennale di Venezia del 1976 e ispirata da un pendolo di Newton arrivato a Ulay che rimase “ipnotizzato dall’oscillazione nei due sensi delle sferette di acciaio cromato, dal suono che facevano toccandosi, dalla perfetta trasmissione di energia cinetica” (Attraversare i muri). I due performer erano nudi, distanti 20 metri l’uno dall’altro, nello spazio vuoto di un magazzino della Giudecca. Nel catalogo si leggeva: “Due corpi passano ripetutamente uno vicino all’altro, toccandosi. Man mano che aumenta la velocità, si scontrano”. All’inizio si sfiorarono, poi cominciarono a venirsi incontro sempre più velocemente e con maggior forza, al punto che l’Abramovic, per due volte, precipitò a terra. Alcuni microfoni dislocati in prossimità dei punti di impatto “catturavano il rumore della carne che sbatteva sulla carne” (Attraversare i muri). Perché nudi? Diverse, le motivazioni: valorizzare il ritmo e la musicalità intrinseci nel rumore delle carni che si scontravano; rendere l’opera il più minimalista possibile; per il legame che li univa (sempre l’autobiografia racconta: “Eravamo innamorati, avevamo una relazione molto intensa – e gli spettatori non potevano non percepirla. Ovviamente, c’erano molte altre cose che ignoravano. E molte altre che si proiettavano su di noi mentre continuavamo a ripetere quella strana azione. Chi eravamo? Perché ci scontravamo? Nella collisione c’era ostilità? Oppure c’era amore, o pietà”)?
ART VITAL
L’anno successivo, Ulay e Marina – ‘Supercolla’ come amavano definirsi – decisero di rivoluzionare le loro vite: comprarono un vecchio furgone usato della Citroën e per tre anni vissero in viaggio, girando per l’Europa con dietro solo l’indispensabile: “Un materasso, un fornello, uno schedario, una macchina per scrivere, una scatola per i nostri vestiti” (Attraversare i muri). Ulay, in particolare, dipinse il veicolo di nero e scrisse il manifesto ‘Art Vital’, che recita: “Nessuna dimora stabile. Movimento permanente. Contatto diretto. Relazione locale. Autoselezione. Superare i limiti. Correre rischi. Energia mobile. Nessuna prova. Nessun finale prestabilito. Nessuna replica. Vulnerabilità estesa. Esposizione al caso. Reazioni primarie”.
BREATHING IN, BREATHING OUT
Nell’aprile del 1977, i due performer fecero tappa a Belgrado per eseguire la performance ‘Breathing In, Breathing Out’ agli incontri del Centro culturale studentesco ‘Skc’. Per questa, i due prima si inserirono nelle narici filtri di sigaretta che impedissero all’aria di entrare e attaccarono piccoli microfoni alle proprie gole; poi, s’inginocchiarono uno di fronte all’altra e, bocca contro bocca, senza staccarsi, cominciarono alternativamente a inspirare ed espirare, perdendo gradualmente l’ossigeno. La performance durò 19 minuti e i due la terminarono appena prima di svenire.
IMPONDERABILIA
Poco tempo dopo, fu la volta della celeberrima ‘Imponderabilia’: la performance di 180 minuti tenuta dal duo alla Galleria comunale d’arte moderna di Bologna nel giugno 1977. Per l’occasione, decisero di diventare ‘porta del museo’: Ulay restrinse l’ingresso attraverso due scatole verticali e i due, nudi, fecero da ‘stipiti’ della porta. Il risultato? Per entrare in galleria i visitatori furono costretti a scegliere, nel giro di pochissimi attimi e in preda all’imbarazzo, se attraversare il passaggio strusciandosi ‘alla donna nuda o all’uomo nudo’. La performance sarebbe dovuta durare sei ore, ma considerata ‘oscena’, dopo sole tre fu forzatamente interrotta dalla polizia.
LIGHT/DARK
Sempre in quell’anno arrivò ‘Light/Dark’, alla Internationaler Kunstmarkt di Colonia. In questa performance di 20 minuti, i due compagni, vestiti uguali (jeans e maglietta bianca) e con i capelli raccolti uguali, s’inginocchiarono l’uno di fronte all’altro e cominciarono a turno a schiaffeggiarsi, crescendo gradualmente di velocità. Questa volta, nulla di attinente con la loro relazione o con il significato del gesto: ciò che interessava era il ritmo binario prodotto dal suono degli schiaffi alternati. Come la Abramovic stessa affermò in seguito, “si trattava di usare il corpo come uno strumento musicale”. Nei loro piani, la performance avrebbe dovuto concludersi non appena uno dei due si fosse tirato indietro. Ciò, però, non avvenne. Ed entrambi interruppero l’azione quando divenne impossibile aumentare la velocità.
INCISION IN SPACE
Nuova da più punti di vista, la performance ‘Incision in Space’, messa in atto alla Galerie H-Humanic di Graz, in Austria, nell’estate 1978. Stavolta, Ulay era nudo e attivo, Marina vestita e passiva, al punto da sembrare
Breathing In, Breathing Out, Belgrado, SKC, 1977
una spettatrice più che una performer. Il primo, infatti, ‘lottava’ contro un elastico fissato per i due estremi alla parete, allontanandosi da questa di corsa fino a che non veniva spinto indietro. Nel mentre, Marina se ne stava in disparte con le spalle curve e lo sguardo perso nel vuoto, incurante del dolore e della fatica provati dal compagno. All’improvviso, dopo circa 15 minuti, comparve un uomo vestito da ‘ninja’, che con un calcio voltante la fece cadere per poi, tra lo sbigottimento generale del pubblico, andare via. La performer, atterrata e immobile, aspettò che qualcuno degli spettatori la soccorresse, ma invano. Interessante quanto emerse a conclusione della performance dal confronto con il pubblico: “Quando seppero che l’attacco del ninja faceva parte della performance, all’inizio furono increduli, poi arrabbiati, infine furibondi. Avevano la sensazione che avessimo manipolato le loro emozioni – ed era proprio così. Avevamo voluto saggiare la disponibilità – o la non disponibilità – di partecipazione da parte del pubblico” (Attraversare i muri).
REST ENERGY
La nostra performance preferita, tuttavia, è ‘Rest energy’, eseguita alla National Gallery of Ireland di Dublino nel 1980. Ancora una volta, risulta illuminante leggere quanto Marina raccontò nel 2016: “La rappresentazione più estrema possibile della fiducia. Io reggevo un grosso arco e Ulay ne tendeva la corda, reggendo tra le dita la base di una freccia puntata contro il mio petto. Eravamo entrambi in uno stato di tensione costante, ciascuno
tirando dalla sua parte, con il rischio che, se Ulay avesse mollato la presa, avrei potuto trovarmi con il cuore trafitto. Nel frattempo, al nostro petto era attaccato un piccolo microfono, di modo che il pubblico sentisse il battito amplificato dei nostri cuori. E questi battevano sempre più veloci. La performance durava quattro minuti e venti secondi, che sembravano un’eternità. La tensione era insopportabile”.
GOLD FOUND BY THE ARTISTS
L’ultima performance di questa nostra breve rassegna è ‘Gold Found by the Artists’, basata sul lungo viaggio di sei mesi che i due fecero nell’outback australiano tra il 1980-1981 ed eseguita, semrpe nell’81, all’Art Gallery of New South Wales di Sydney: “Cosa imparammo dal deserto e da chi viveva lì”?, si doma ancora oggi la Abramovic, ricordando quegli anni: “A non muoverci, a non mangiare, a non parlare. Metaforicamente, le nostre esperienze con gli aborigeni erano state oro puro. Avevamo scoperto l’immobilità e il silenzio. Nel deserto ce ne stavamo seduti, guardavamo, pensavamo – o non pensavamo. Entrambi avevamo avuto la sensazione di comunicare telepaticamente con gli aborigeni. Che cosa sarebbe successo se ci fossimo fissati a vicenda per il maggior tempo umanamente possibile e ancora di più? Avremmo raggiunto un nuovo stadio di consapevolezza? Saremmo arrivati a leggerci nel pensiero? Il nostro nuovo lavoro”, prosegue l’artista, “avrebbe funzionato così: per otto ore saremmo rimasti seduti a un tavolo, una di fronte all’altro, su sedie né troppo comode, né troppo scomode, guardandoci negli occhi senza fare un solo movimento. Sul tavolo mettemmo un boomerang laminato d’oro, le pepite che avevamo trovato nel deserto e, per la seconda volta, un serpente vivo: un pitone reticolato lungo un metro, che si chiamava Zen. Il serpente simboleggiava la vita e il mito aborigeno della creazione; gli oggetti, il tempo che avevamo passato nell’outback”.
CONNESSIONI FRA TRE CAPOLAVORI
Curioso, vero? Leggendo queste descrizioni, redatte dalla Abramovic in persona nel suo scritto autobiografico, come non notare una qualche somiglianza con ‘The Artist Is Present?’ Ironia del destino, infine, diremmo a proposito della connessione tra ‘Gold Found by the Artists’ e l’idea originale di ‘The Lovers’: “Una notte”, aggiunge la Abramovic, “stavamo attraversando l’outback, quando sorse la Luna piena: era enorme. Parlammo del fatto che, secondo gli astronauti, le uniche costruzioni umane visibili dallo spazio sono le piramidi e la Grande Muraglia cinese. Subito ricordammo entrambi il verso di una poesia cinese del secondo secolo, ‘Confessione della Grande Muraglia’: ‘La Terra è piccola e azzurra, io sono solo una piccola crepa su di essa’. Ci vennero i brividi: quell’antico poeta cinese, in qualche maniera, aveva previsto la visione della Grande Muraglia da parte degli astronauti. Fu allora che concepimmo un nuovo, ambizioso progetto: percorrere a piedi la Grande Muraglia partendo dalle estremità e incontrandoci nel mezzo. Nessuno l’aveva mai fatto prima, ne eravamo più che sicuri. E non solo ci saremmo incontrati a metà, ma lì ci saremmo sposati. Un’idea incredibilmente romantica”. A livello sentimentale ormai separati, a livello storico-artistico per sempre uniti.
Ulay e Marina davanti al furgoncino in cui vissero per tre anni
Light/Dark, Internationaler Kunstmarkt di Colonia, 1977