e 12,00
02
Marzo Aprile 2019
anno VIII n.02
FOTO
IMAGING
VIDEO
FINE ART
STORIE DI FOTOGRAFI E DI FOTOGRAFIA
IMAGE MAG MARZO n APRILE 2019
Carlo
Mari
ESTRATTO
Pianeta donna Mentre la redazione sta completando il prossimo numero di Image Mag ricorre l’8 marzo, la festa della donna. Al di là degli auguri (dovuti), qualche riflessione deve essere fatta. Il “Pianeta Donna” si sta sviluppando sempre più, e lo si nota nei corsi, durante gli incontri, alle mostre. Oltretutto sono tante le fotografe che bussano alla ribalta della professione: con garbo e insistenza; dimostrando sensibilità, intimità, desiderio di raccontare. È bello ricordare come da sempre il mondo femminile abbia primeggiato nell’ambito dell’autoritratto, dietro al quale viveva comunque una storia, quella dei grandi temi; ma anche il tentativo continuo per cercare: un’esperienza, potremmo dire. E
questo è importante: la fotografia, diventa (per fortuna) modo di vivere e per vivere, terapia che sostiene, sistema più o meno ortodosso per far proprio il tempo. E spiegarlo. Le donne l’hanno capito e non mentono alla vita. Conoscono già le risposte, al di là dei presentimenti. Fotografarsi, per loro, vuol dire raccontarsi, non per dipanare un come, bensì svelandone il perché; un passo più lungo della gamba alla ricerca dell’interiorità, quella dell’io e non della referenza. E dopo? Dopo lo scatto? Ancore domande; e poi sussurri, suggerimenti, preghiere, lacrime e gioia. Felicità.
COVER STORY
EDITORIALE
Mosè Franchi
1.PIANETA DONNA
Riflessioni sulla fotografia al femminile.
QUESTIONE DI LIBRI
68. LA BIBLIOTECA CHE VORREI I testi che non dovrebbero mai mancare nei nostri scaffali.
CAFÉ FOTOGRAFICO EVENTI&MOSTRE 14. PERSONE, FATTI, CURIOSITÀ Notizie da non perdere.
CONOSCIAMOLI MEGLIO
Carlo Mari 4. L’ETERNO RACCONTO
L’ALTRA COVER STORY
HI-END
PORTFOLIO
Un genio delle cose semplici. Kertész viene riconosciuto universalmente come un maestro del novecento.
COMUNITÀ FOTOGRAFICA
Comitato editoriale Mosè Franchi, Roberto Mazzonzelli, Francesco Cito, Stefano Messina, Massimo Reggia, Lido Andreella
www.imagemag.it Direttore responsabile Mosè Franchi Direzione artistica Massimo Reggia
Progetto grafico Visiva S.r.l. - www.visiva-adv.it Realizzazione grafica Gino Durso Davide Lanzino, Ilaria Nigro
UNO DI NOI
72. JOHNNY COME NOI
La nuova Olympus OM-D E-M1X si propone per un uso massiccio. Tecnologia, qualità e cura costruttiva la collocano tra le fotocamere top.
16. IL VALORE DEL GESTO, TRA IRONIA E INTELLIGENZA
Mostre, eventi, manifestazioni, fiere, workshop e seminari.
60. ANDRÉ KERTÉSZ, LO STUPORE DELLA REALTÀ
64. OLYMPUS OM-D E-M1X
Claudio Scaccini
70. DA VEDERE & PER PARTECIPARE
66. SETTIMIO BENEDUSI. AAA. RICORDI STAMPATI OFFRESI
Settimio Benedusi è passato all’azione, come sempre nella sua vita di fotografo, proponendo dei ritratti stampati alle persone.
Stampa Cortona Moduli Cherubini S.r.l.
Distributore esclusivo per l’Italia Consorzio Gruppo Immagine
Image Mag è una pubblicazione Consorzio Gruppo Immagine
Periodicità bimestrale
Redazione Consorzio Gruppo Immagine Viale Andrea Doria, 35 - 20124 Milano Tel. 02/23167863 e-mail: info@imagemag.it
Johnny Depp si calerà nei panni del fotografo William Eugene Smith, ripercorrendo il periodo nel quale realizzò uno dei suoi reportage più riusciti.
24. GIORGIA BELLOTTI
AUTORITRATTI, DOVE & PERCHÈ
30. EUGENIO BENESPERI
MAROCCO, CHEFCHAOUEN: LA CITTÀ BLU
36. GIANCARLA PANCERA ILLUSIONI MANIFESTE
42. ELISABETTA ZANCHETTA MARINA
48. MASSIMO BATTISTA
TANGO, UN PENSIERO TRISTE CHE SI BALLA
54. TEA GIOBBIO
RITROVARSI, TRA PRESENZA E ASSENZA
Image Mag è una testata registrata presso il Tribunale di Milano con autorizzazione n. 237 del 1 Giugno 2012
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pagina uno
Image Mag è la prestigiosa rivista bimestrale interamente dedicata alla fotografia e ai suoi interpreti. È l’espressione del desiderio di parlare ad appassionati di fotografia usando la lingua degli appassionati di fotografia. Una rivista che presenta immagini stupefacenti realizzate da celebri professionisti e lavori di appassionati che compongono gli epici portfolio, cuore e anima di questo straordinario magazine.
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L’ETERNO RACCONTO
MARI
pagina quattro
Š foto di Carlo Mari
paginacinque
COVER STORY I GRANDI PROTAGONISTI DEL PALCOSCENICO FOTOGRAFICO
A
bbiamo parlato più volte con Carlo Mari, al telefono e di persona. Siamo anche andati a trovarlo presso il suo studio. Le domande, alle quali Carlo rispondeva con calma e precisione, non bastavano mai a esaudire la nostra curiosità: c’era sempre dell’altro da conoscere, afferrare, comprendere. Il “fotografo Mari” sfuggiva di continuo alla nostra lettura fotografica, alla sintassi d’osservazione. Di fronte a noi si parava un muro d’immagini straordinarie, differenti tra loro, auto contaminate addirittura: il mare da un lato, l’Africa dall’altro; in mezzo volti, ritratti, donne, sensualità. C’è voluto tempo per capire, sempre per mano al “Mari fotografo”: ora amico, altre volte insegnante, spesso anche maestro di vita. Lui è un narratore per immagini e le sue storie trovano respiro dove lo spazio si allarga: in fondo al mare, nelle savane della Tanzania, persino tra le spire della seduzione e dell’eros. Lì il racconto si accende tra tagli e dettagli, per diventare velo, coltre d’istinti che si esaltano, seduzione.
Modella: Ryiane Grey
pagina sei
Per i ritratti è un po’ la stessa cosa: l’incontro col soggetto diventa già una storia, perché Carlo non chiede nulla in più di quanto non sappia di poter esigere, con delicatezza. Non meravigliano, a questo punto i suoi inizi giovanili: prima da stampatore, dopo come fotografo. È sulla carta che il racconto prende vita, tanto valeva leggerne di altri autori, con la curiosità di chi, vista l’età, divora tutto con domande semplici. Siamo ancora nello studio di Carlo. Guardiamo una volta di più le immagini appoggiate qua e là. Abbiamo sfogliato alcuni suoi libri. Lui, in silenzio, lavora, controlla, scruta, cerca. È forte di una consapevolezza antica, maturata nel tempo: tra i flutti o gli orizzonti della savana. Nel film “La mia Africa” Karen Blixen dice: “Forse lui sapeva, al contrario di me, che la terra è stata fatta rotonda perché non potessimo guardare lontano”. E spesso è proprio all’orizzonte che finiscono o iniziano le storie, come i sogni del resto, o le stesse aspirazioni. Carlo Mari
riesce a guardare oltre, al di là dell’ultimo spicchio di luce della giornata. Come il suo animale preferito, il Leopardo, scruta il tempo dal ramo di un albero e i suoi racconti si fondono in un’unica eterna storia: di gente, luoghi, mari, fotografia. Carlo, quando hai iniziato a fotografare e perché? Da bambino. Devo dire che ho imparato prima a stampare, nella Camera Oscura di un amico. Ricordo le fidanzate dei ragazzi più grandi di me, nude; apparivano lentamente, poi si fissavano sulla carta in maniera definitiva. Fu una folgorazione. Compresi che dovevo anche scattare. Arrivarono così le foto subacquee (me ne sono occupato per dodici anni) e prima ancora quelle adolescenziali, in Africa. La famiglia risultò importante: fu mio fratello ad avvicinarmi al sub, mentre i viaggi di lavoro di mio padre costituirono un’ottima occasione per dare sfogo a quella che ormai era diventata una passione. A lui devo anche i primi scatti in assoluto: gli
L’ALTRA COVER STORY NUOVE TENDENZE ALLA RIBALTA DELLA FOTOGRAFIA
CLAUDIO SCACCINI
IL VALORE DEL GESTO, TRA IRONIA E INTELLIGENZA Josef Koudelka (il fotografo ceco) diceva: “In ogni foto deve accadere qualcosa”. Su questo tema si muove la ricerca fotografica di Claudio Scaccini: in ogni evento cerca il gesto, l’elemento caratterizzante; del resto lo sport vive di attimi riconoscibili ed è lì che deve iniziare il racconto fotografico. Scaccini si sofferma sul “come” e sul “quando”, dimostrando che spesso si può prevenire l’accadimento successivo. Ciò che più ci sorprende nelle immagini di Claudio sta nella semplicità. Lo scatto potrà sembrarci spettacolare, emozionante, persino ironico; ma nel contempo ci apparirà facile, quasi scontato. Pare quasi che gli atleti lavorino per lui, dedicando alcuni istanti a una posa plastica, che ci faccia sorprendere o addirittura sorridere. Crediamo che tutto derivi da un’esperienza coltivata con assiduità: quella maturata nei tempi eroici della fotografia, quando l’immagine fissa veicolava la notizia e l’emozione che ne derivava. Ci rendiamo conto di aver iniziato un discorso antico: quello che idealizza un passato migliore, fatto di benessere, mulini bianchi, mezze stagioni (che non esistono più). Un po’ è così però, nella realtà: è lo stesso fotografo a confessarcelo. Sta di fatto che lui aggiunge al lavoro doti senza tempo: la conoscenza (e la passione) per lo sport, una cultura fotografica ragguardevole, una formazione pratica di tutto rispetto e anche una visione sulle cose non omologata. Gli studi di Architettura devono aver contribuito in questo, preparandolo a guardare “largo”, oltre al consueto. Attenzione, non è facile; perché occorre innanzitutto consapevolezza di sé, la stessa che si traduce in prontezza e capacità di previsione. E poi, alla fine è il carattere a vincere: sempre gioviale e generoso quello di Claudio. Lui è capace di dedicare allo sport tutte le capacità, perché è stato in grado di forgiarle con cura. È una questione di intelligenza, quindi, che si tramuta in ironia quando necessario; e che è bello poter riconoscere.
pagina sedici
Š foto di Claudio Scaccini
paginadiciassette
PORTFOLIO Giorgia Bellotti
Autoritratti, dove & perchè
Guardiamo più volte gli autoritratti di Giorgia Bellotti. Ci sono piaciuti: per l’intimità svelata, peraltro con un costrutto fotografico tutto particolare. Andiamo con ordine: quella dell’autoritratto è un’indagine tutta al femminile. É la donna fotografa a ritrarsi spesso, anzi: quasi sempre. Ne sono degli esempi: Francesca Woodman, Cindy Sherman, Wanda Wulz, Dora Maar; ma anche Claude Cahun, Ilse Bing, Lisette Model, Imogen Cunningham. Generalmente nelle opere più conosciute compare il fattore tempo: quello che non c’è, perché scompare subito dopo. Lì ne emerge l’ansia della presenza - assenza, l’ossessione della scomparsa, il significato della vita. Giorgia (brava) ha percorso una strada diversa. Lei colleziona momenti vissuti in totale armonia con la natura: dove, quindi, prima di quando. L’ambiente che la circonda rappresenta lo stimolo per la creazione delle sue immagini: mai pensate e studiate in anticipo, bensì frutto della parte più intima e istintiva di sé. Ne nasce un viaggio nell’inconscio alla ricerca della propria identità. Ci piace chiudere con una frase di Concita De Gregorio, tratta dal suo libro “Chi sono io?”. “Non esistono autoritratti inutili: raccontano tutti una storia”. E poi: “Non dicono cosa è successo, raccontano perché”. Un po’ come fa Giorgia. pagina ventiquattro
Š foto di Giorgia Bellotti
paginaventicinque
PORTFOLIO Eugenio Benesperi
MAROCCO, CHEFCHAOUEN: LA CITTÀ BLU Chefchaouen è un nome affascinante, esotico. Eugenio l’ha ripetuto più volte, ma noi non ne ricordiamo la pronuncia. Siamo altresì incuriositi dalle sue fotografie: esiste realmente un paese simile? Dove predominante è il colore blu? Sì, si trova nel nord del Marocco, tra le montagne del Rif. Pare che la singolare tinta dei muri di Chefchaouen non nasca per fini estetici, ma pratici e tradizionali: c’è chi dice che il colore blu respinga zanzare e moscerini, mentre è risaputo come siano stati gli ebrei, rifugiatisi qui negli anni 30, a donare alla città il colore del cielo e del paradiso, come da tradizione. Veniamo alle fotografie di Eugenio. Al di là della dominante blu, veniamo colpiti dal rigore compositivo e dal senso narrativo. Le immagini che vediamo farebbero bella mostra di sé in un rotocalco sui viaggi. Ci è piaciuto anche l’utilizzo dell’elemento umano: sempre atteso o cercato, quando necessario, a restituire tempo all’istante e movimento alla prospettiva. C’è competenza, negli scatti di Eugenio: una ricerca che parte da lontano, un viaggio dopo l’altro. Da buon narratore, lui si trova spesso ad aspettare l’istante che desidera. Un po’ come disse PaulValery durante il discorso inaugurale alla Sorbona, in occasione del Centenaire della Photographie. Era il 7 gennaio 1939: “La fotografia abituò gli occhi ad aspettare ciò che questi devono vedere, e dunque a vederlo”. Lo sguardo di Eugenio ne è capace.
© foto di Eugenio Benesperi
pagina trenta
paginatrentuno
PORTFOLIO Giancarla Pancera
ILLUSIONI MANIFESTE
L’evoluzione tecnologica che consente di realizzare fotografie pubblicitarie di dimensioni tali da occupare l’intera facciata di un palazzo, crea strane interazioni fra le figure umane lì riprodotte e l’ambiente urbano. Giancarla Pancera ha deciso di studiarle come oggetti da analizzare senza subirne passivamente il messaggio, per dar vita a un lavoro che con abile gioco di parole ha intitolato “Illusioni Manifeste”. La fotografa inquadra i suoi soggetti isolandoli dal loro contesto, gira loro attorno con l’occhio fisso al mirino alla ricerca di una situazione che la soddisfi, si abbassa per esasperare una prospettiva, sfrutta una successione di piani, si sposta di lato fino a sovrapporre fra di loro diversi elementi dando infine vita a qualcosa di insolito, spiazzante, sorprendente. Non ricorre mai a rielaborazioni, a fotomontaggi, alla magia artefatta di Photoshop, perché ama cogliere quanto la realtà sa proporre a chi sa osservarla. Il risultato è un florilegio di sorprese: un uomo colpisce non un pallone ma la sfera di un lampione, una ragazza sdraiata sembra inghiottire una lampada stradale, un’altra è zittita da un segnale di divieto che le si stampa sulla bocca come un bacio, un’altra danza sui fili del tram mentre lo schiacciamento prospettico fa sì che la sagoma di un aereo punti, enorme e minacciosa, un edificio. Se la prima reazione è un sorriso, dietro il tono garbato di Giancarla Pancera si coglie una critica a questa invasione pubblicitaria a cui contrappone l’arma acuminata dell’ironia per creare un cortocircuito semantico che trasforma le immagini e le inserisce in un teatrino dell’assurdo.
pagina trentasei
Š foto di Giancarla Pancera
paginatrentasette
PORTFOLIO Elisabetta Zanchetta
MARINA “Ogni vita ha un suo percorso, che si sviluppa dentro e fuori di noi; sento l’esigenza di immortalarlo”. A dirlo è Elisabetta Zanchetta, la fotografa di “Marina”, il portfolio che vediamo. Nel dialogo, Lei approfondisce il tema e aggiunge: “L’esistenza subisce emozioni altalenanti, eventi di ogni tipo; e si cerca di non affondare mai, tra alti e bassi, nel mare della banalità o della mancanza di vitalità”. Ne scaturisce una domanda: “Come catturare quegli attimi preziosi dove ognuno di noi scrive la propria storia, attendendo che qualcuno sia in grado di leggerla?”.
pagina quarantadue
Š foto di Elisabetta Zanchetta
paginaquarantatre
PORTFOLIO Massimo Battista
UN PENSIERO TRISTE CHE SI BALLA “Non saprei definire il tango. So, però, quello che certamente non è: non è solo creare uno spazio dentro dei movimenti, ma è abitare quello spazio.” MASSIMO BATTISTA
pagina quarantotto
Š foto di Massimo Battista
paginaquarantanove
PORTFOLIO Tea Giobbio
Ritrovarsi, tra presenza e assenza
© foto di Tea Giobbio
pagina cinquantaquattro
La SCELTA
Franco Fontana
di Siamo soli, passeggiamo lungo le rive di un lago. Il bavero alzato ci isola maggiormente. Un bambino correndo ci urta, e quasi riesce a svegliarci. La mente vaga su domande indefinite, dove alla fine è sempre un “perché” il quesito fondamentale. Ci appoggiamo a una ringhiera, guardiamo verso il basso. L’acqua lambisce la riva del lago, mostrando sul fondo oggetti melmosi e deformati: ora questo, ora quello. Osservarli dipende solo da noi, così come capirli, riconoscerli. E in mezzo a quella presenza - assenza forse possono emergere le risposte: quelle appena rifiutate con una passeggiata solitaria e il bavero alzato. Le fotografie di Tea sono un po’ questo: una realtà ritagliata che emerge a pezzi, in un surrealismo delicato ed elegante. Vien voglia di guardarle più volte, quelle immagini; per ricercarne rinnovati centri d’attenzione, oltre che ulteriori percorsi di lettura. Ciò che emerge, però, è un messaggio urlato: la realtà è così e spesso sta a noi farla a pezzi. Serve per capire il senso delle cose, ritrovando se stessi.
Da anni Franco Fontana tiene workshop in ogni angolo de mondo: delle avventure “tutta in salita”, dove gli studenti vengono spinti a essere liberi, a “rendere visibile l’invisibile che è dentro di loro”. È l’identità di ciascuno a saltar fuori, l’autonomia creativa che appartiene a tutti. Sono nati così “Quellzi di Franco Fontana”; che sicuramente rappresentano un movimento nuovo, un’ondata d’energia nel panorama della fotografia. Hanno seguito i Workshop del Maestro: alcuni di loro compiendo i primi passi, altri affermandosi; di sicuro tutti prendendo coscienza di se stessi. Il progetto parte da lontano, ma il proselitismo ha convinto il Maestro, ed anche tanti alunni, a rischiare; perché senza una posta in gioco non si arriva a nulla. Sono così nate tante mostre, tenute su tutto il territorio nazionale. Da questa volta, e per ogni uscita di Image Mag, Franco Fontana ci proporrà un autore tra “Quelli di …”. I fotografi che impareremo a conoscere hanno cercato di mostrare un loro mondo, viaggiando fuori e dentro loro stessi. Da parte nostra rimarrà la sensazione nell’aver allungato un viaggio, testimoni a nostra volta di quando gli autori erano lì, di fronte al loro “vedere”, col tempo che si è fermato per le ragioni dell’anima.
paginacinquantacinque
CONOSCIAMOLI MEGLIO GLI AUTORI, IL LINGUAGGIO, LO STILE
ANDRÉ KERTÉSZ
LO STUPORE DELLA REALTÀ “TUTTO QUELLO CHE ABBIAMO FATTO, KERTÉSZ L’HA FATTO PRIMA” Cartier Bresson
PREMESSA Non è facile parlare di Kertész, anche perché ci si rende conto di affrontare un genio delle cose semplici. Lui non si è mai occupato di grandi temi: né politici, tantomeno sociali; eppure viene riconosciuto universalmente come un maestro del novecento. Lo stesso successo lui l’ha raggiunto in maniera discontinua, particolarmente nel periodo americano, probabilmente perché le sue immagini lo proponevano come innovatore o forse per il fatto che ogni sua fotografia raccontava troppo (come gli dissero in LIFE). Considerato da Henry Cartier-Bresson come il padre della fotografia contemporanea e da Brassai il proprio maestro, Kertész ha dimostrato come qualsiasi aspetto del mondo, dal più banale al più importante, meriti di essere fotografato. I costanti mutamenti di stile, temi e linguaggio, se da un lato ci impediscono di collocare il lavoro del fotografo ungherese in un ambito preciso, dall’altro ne dimostrano la versatilità e l’incessante ricerca comunicativa. LA MOSTRA Abbiamo visitato la mostra di André Kertész presso la Sala Espositiva del Centro Culturale di Milano (Largo Corsia dei Servi, 4). Là erano esposte novanta opere del “maestro dei maestri”, tra queste alcuni inediti a colori, realizzati a New York agli inizi degli anni ’80. La visita non ha tradito le attese, sapevamo che avremmo incontrato la personalità di un genio,
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vero riferimento della fotografia contemporanea. L’allestimento ci ha condotto attraverso un viaggio che ha ripercorso la vita e l’attività fotografica di Kertész: Ungheria, Parigi, New York e Stati Uniti, la fama internazionale. La mostra, curata da Roberto Mutti e ideata da Camillo Fornasieri, ci fa conoscere un fotografo, ma anche un intellettuale che attraversa e abbraccia due mondi, l’est e l’ovest del novecento. Abitante cittadino delle metropoli dei due mondi, da Budapest a Parigi, da New York al mondo globale, coglie e racconta la promessa e lo spaesamento, l’illusione e la disillusione. NOTE BIOGRAFICHE André Kertész nasce a Budapest nel 1894, il 2 luglio, e già da bambino sognava di fare il fotografo. La famiglia di provenienza apparteneva alla media borghesia ebraica. Nel 1912 si diploma all’Accademia commerciale di Budapest e compera la sua prima fotocamera, una ICA 4.5x6. Partecipa alla prima guerra mondiale come volontario e venne ferito alla mano. Anche durante il conflitto scatta fotografie, senza però interpretare i momenti più cruenti. Trascorse la sua convalescenza prima a Budapest poi a Esztergom. Continua a fotografare e tra i suoi soggetti preferiti compaiono spesso il fratello e la madre. Nel 1919 conobbe Erzsébet Salamon, che diverrà poi sua moglie.
Finita la guerra è impiegato alla borsa, nel 1925 decide di trasferirsi a Parigi. È un drappello di nomi quello che emigra tra Berlino e Parigi: László Moholy-Nagy, Robert Capa, Germaine Krull e Brassaï. Per lui la fotografia è un diario visivo, strumento per descrivere la vita: le strade della metropoli, parchi, tetti, la riva della Senna. Nel ’27 alla Galerie Au Sacre du Printemps espone la sua prima mostra e nel ‘29 è alla mostra internazionale “Film und Foto” a Stoccarda e a Berlino. Dal ‘28 Kertész lavora con una Leica. VU gli pubblica più di 30 importanti saggi fotografici. Nel ‘33 presenta “Distorsioni”, nudi femminili in specchi deformanti e in questo anno l’agenzia Keystone lo chiama a New York, dove si trasferisce. Anni economicamente difficili, quelli in USA. Dal ‘49 al 1962 Kertész lavora per la rivista House and Garden. Durante il suo viaggio a Parigi nel 1963 riscopre gran parte dei suoi negativi, che lo ispirano a nuove attività artistiche che gli ottengono un riconoscimento internazionale. Nel 1964 presenta le sue opere al Museum of Modern Art di New York: si sprecano gli elogi. Da quel momento Londra, Parigi, Stoccolma, Melbourne, Tokyo, Buenos Aires, Venezia ospiteranno i suoi lavori. Il famoso “On Reading” è pubblicato nel 1971 e Steve MC Curry gli rende omaggio col suo libro “Leggere”. Nel 1977 muore Elisabeth, l’adorata moglie, la sua più grande sostenitrice.
© André Kertész - Nuage perdu, New York, 1937
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