La mia Francigena

Page 1

La Mia Francigena

“Questo fine settimana ci facciamo un pezzo di Francigena?” Ero talmente preso dal lavoro che nemmeno mi accorsi che c’era qualcuno seduto accanto a me. Quella frase mi riportò alla realtà, alzai un attimo gli occhi dal monitor e vidi sulla sedia vicino alla mia scrivania Antonio, che mi fissava con un sorriso smagliante. Di fronte al mio sguardo smarrito, ancora sospeso tra le mille cifre colorate che facevano capolino dal mio monitor, si grattò la pelata, avvicinò la sedia alla scrivania e si levò gli occhiali. A quel punto, quando fu certo di avere la mia attenzione, scandì nuovamente la frase, stavolta con un’espressione un po’ più seria. “Questo fine settimana ci facciamo un pezzo di Francigena?” Conoscevo Antonio da anni, ed ero in qualche modo abituato alle sue proposte strampalate: che si trattasse di idee innovative nel campo dell’elettronica o di attività culturali, lui partiva sempre con progetti folgoranti, visionari, che nella maggior parte dei casi rimanevano sulla carta, ma il suo modo di raccontarli, disegnarli come se fossero già realtà, era qualcosa di unico. Lo conoscevo, ma ogni volta riusciva a spiazzarmi, e anche quella volta rimasi totalmente allibito. “Un pezzo di che?!?” Ovviamente era già preparato alla mia risposta e insinuandosi con la sedia da ufficio dietro la mia scrivania, mi spostò delicatamente con un gomito e cominciò a digitare sulla tastiera. Accennai una timida reazione. “Ma… veramente stavo lavorando…” “Finisci dopo, è roba di due minuti!” Dopo aver buttato un’occhiata in corridoio per vedere che non arrivasse il capo, cominciai a osservarlo mentre apriva con mano sapiente decine di pagine web, ovviamente aveva già preparato la lezione da giorni. Si alzò di scatto, lasciando disseminate sullo schermo finestre con itinerari, spiegazioni, storie. “Qui c’è tutto quello che devi sapere, poi ti mando una mail con gli orari e con quello che c’è da portare. Vengono anche Pietro e Fabiana”. Non mi lasciò neanche il tempo di aprire bocca, non riuscii a far altro che seguirlo con lo sguardo mentre si allontanava. Riportando gli occhi sullo schermo, su una pagina a caso tra le tante aperte, vidi spuntare foto di chiese, croci, il nome di un vescovo, tale Sigerico… “Antò, ferma un attimo… ma questa Francigena, sarà mica un pellegrinaggio?” Antonio si bloccò, lentamente si girò verso di me, senza dir nulla. Non faceva mistero di essere credente, un paio di santini stazionavano con discrezione sulla sua scrivania, ma, per quella tacita forma di rispetto che si crea negli ambienti di lavoro, la religione, assieme alla politica e al calcio, era tra gli argomenti tabù, da tenere fuori dalle discussioni. “E quindi?” “Niente, un pellegrinaggio è una cosa seria, bisogna crederci… cioè, ci vuole una motivazione, qualcosa da espiare magari, non è che uno prende il sabato mattina e parte…” La mia paura di aver dato il via ad una nuova crociata fu subito spazzata via dal sorriso che illuminò il suo volto. “Certo, è un pellegrinaggio, ma è anche una bella passeggiata… ne facciamo un pezzo, mica andiamo a piedi dal Papa!” Effettivamente non andammo a piedi dal Papa, furono solo due tiepide giornate d’autunno trascorse passeggiando nel cuore della Toscana. E comunque, anche continuando a camminare, in quel mese di novembre di sette anni fa, dal Papa non ci saremmo mai arrivati; questo per la semplice ragione che, secondo il minuzioso programma di Antonio, quei due giorni sulla Francigena li facemmo contromano.


La simpatica iconcina gialla del pellegrino, che negli anni mi sarebbe diventata sempre più familiare, parlava chiaro: la freccia che indicava Roma, la mèta che mai ci saremmo sognati di raggiungere in un weekend, comunque, quella freccia diceva sempre di andare dall’altra parte. Sia chiaro, non era nostra intenzione nemmeno arrivare a Canterbury, la scelta fu dettata da questioni puramente logistiche. Almeno questo fu quello che ci disse Antonio, che il sabato mattina ci arringò ripetendo le cose già scritte nelle sue numerose mail: “Si parte con due macchine, una la lasciamo all’arrivo, poi torniamo tutti insieme con l’altra alla partenza”. Disse anche un sacco di altre cose che ricordo vagamente, visto che passai buona parte del viaggio a sonnecchiare sul sedile posteriore. Il mio primo impatto con la Francigena non fu esattamente ortodosso, fino alla proposta di Antonio non l’avevo mai sentita neanche nominare; al massimo conoscevo, ma giusto per sentito dire, il suo “fratello” più famoso, il Cammino di Santiago, ma lo vedevo come una cosa lontana, irrealizzabile, sicuramente qualcosa di non adatto a me. Roba da esaltati, una tortura per dei pazzi che devono rimediare chissà quali sbagli o farsi perdonare chissà quali colpe. Scoprire che anche qui in Italia, anzi a due passi da casa, avevamo anche noi il nostro “cammino” fu un’autentica sorpresa. Purtroppo, il piacere della scoperta e della vicinanza si accompagnò alla consapevolezza di poter fare il percorso solo a pezzi, nei fine settimana, al massimo approfittando di qualche ponte. Tuttavia, come ho avuto modo di capire poco alla volta, un cammino non è fatto solo di passi, ma anche e soprattutto di incontri; e gli incontri ti portano in luoghi dove non sei stato e dove forse non sarai mai, attraverso gli occhi di chi te li racconta. Incrociare un camminatore della Francigena, non importa se alle sue spalle abbia dieci o mille chilometri, vuol dire aver percorso quei chilometri con lui. Ognuno nel suo zaino porta un carico di gioia, di fatica, di speranza, a volte anche di sofferenza: spesso, oltre a qualche metro su una strada polverosa, si condivide proprio questo carico con chi ha voglia di ascoltare, o semplicemente con chi si trova lì per caso accanto a te. Dei tanti chilometri macinati nel corso degli anni, ricordo poco i percorsi: quelli passano e, male che vada, si ritrovano anche in fotografia. La “mia” Francigena è fatta più di incontri e di persone, qualcuno mi è rimasto impresso e forse vale la pena ripescarlo nella memoria per provare a dare un senso al mio cammino, se mai si può trovare un senso ad un cammino che non sia semplicemente percorrerlo. Proprio in quel venerdì di novembre del 2011, passeggiando sotto un tiepido sole, sbuffando sotto il peso di uno zaino in cui scoprii di aver infilato un sacco di roba inutile, vidi per la prima volta quello che nella mia testa divenne la materializzazione del “pellegrino” moderno. Cioè, l’avevo letto nei libri che c’erano i pellegrini, ma per me era roba da medioevo, gente vestita di sacco, col bastone intagliato. Invece, nel ventunesimo secolo, ti appare questo ragazzino, un paio di sandaletti dalla suola praticamente liscia, magliettina e pantaloncini, e uno zainetto buono per tenerci al massimo due bottigliette d’acqua. Ci sorpassò in un istante, lanciandoci un allegro “bonjour”, pronunciato senza il minimo cenno di affanno o fatica. Lo ribeccammo in paese, qualche chilometro più avanti, mentre discuteva con una barista. Dalla conversazione capimmo che non aveva i soldi per pagare il panino appena mangiato. La questione fu risolta da una coppia di clienti, probabilmente due olandesi, che allungarono una banconota da 5 euro sul bancone, facendo cenno al ragazzo che era tutto ok. Il francese ci riconobbe. Vedendo le nostre facce preoccupate, ci spiegò, in un italiano stentato, che era partito in estate da casa sua, nel nord della Francia, per andare a Roma. E ora stava ritornando. “Anche tu contromano, eh?” La mia battuta forse era troppo difficile per uno straniero, infatti fu accompagnata da una timida risata di circostanza. Michel, questo il suo nome, aveva ventun anni, e la sua Francigena voleva farla come un vero pellegrino: uno zaino minuscolo, una borraccia, un paio di sandali e soprattutto niente denaro. Nel 2011, tremila e passa chilometri a piedi senza soldi né carta di credito. E noi ci lamentavano per due


giorni zaino in spalla, cenando magari al ristorante! Eppure era possibile, era arrivato ben oltre la metà del cammino. Ci spiegò che chiedeva accoglienza a parrocchie e conventi, offrendo lavoro in cambio della cena, di una doccia calda e di un letto. Lui la chiamava "provvidenza" e a volte si manifestava anche sotto forma di turista olandese che ti offriva il pranzo. Salutò e ripartì, noi rimanemmo a chiacchierare davanti ad un buon caffè. A un certo punto, tirai fuori la questione del pernottamento, più che altro per curiosità. “Antò, ma quindi dov’è che dormiamo stanotte? Cioè mi fido, so che hai sistemato tutto…però, qualche anticipazione?” “Quante ne vuoi sapere… più tardi chiamo il parroco per confermare l’orario. Tranquillo, un letto ce l’abbiamo!” Alle parole “il parroco”, tutti reagimmo con una certa esitazione, ma come al solito toccava a me fare le domande scomode. “Ma non è che ci fai dormire in una chiesa?!?” Antonio non si scompose minimamente. Aveva la straordinaria capacità di affrontare qualsiasi questione con quel tocco di ottimismo e la giusta dose di diplomazia. “A parte che non ci sarebbe niente di male, io c’ho dormito in una chiesa! Comunque don Gianni ci mette a disposizione un locale della parrocchia, non dormirete sull’altare!” Anche quella volta tutto si stemperò in una risata e il cammino proseguì tranquillo. Purtroppo, il generoso don Gianni (che tra l’altro si intascò 20 euro di offerta “libera”) non sapeva che si sarebbe ritrovato 4 pellegrini a suonargli il campanello alle dieci di sera, mentre stava tranquillamente sonnecchiando in poltrona. Il programma della giornata era perfetto: l’arrivo era previsto nel tardo pomeriggio, giusto il tempo di una doccia, cena e poi una sana dormita. Tutto studiato, ed eravamo in perfetto orario. Poi, nel pomeriggio, un’improvvisa intuizione di Fabiana di fronte ad un cartello. “Di qui si va a Montalcino, ma se facessimo una piccola deviazione?” Non so se fu più stupida la proposta o noi che l’accettammo, forse abituati ai viaggi in macchina. Cosa potevano mai essere 4 o 5 chilometri in più? E così ci ritrovammo ad un’ora improbabile attaccati al campanello di una parrocchia di un paesino sperso nelle colline senesi. Alla porta, dopo alcuni minuti, si affacciò don Gianni, occhio semichiuso e pantofole ai piedi, che dissimulò l’evidente incazzatura con un richiamo al silenzio. “Ma cosa suonate a quest’ora!?! Di sopra ci sono i pellegrini che dormono!” L’accento che pose sulla parola “pellegrini” trasmetteva un messaggio chiarissimo: quelli sono pellegrini, arrivano a un’ora decente, mangiano e vanno a dormire. Noi evidentemente non rientravamo in quella categoria. Dopo interminabili e fantasiosi tentativi di scuse, ci accolse nel suo studio. La coperta buttata alla rinfusa sulla poltrona testimoniava il sonnellino appena interrotto; don Gianni si sedette alla scrivania e cercò, per quanto lo permettessero la sua capigliatura arruffata e gli occhi cisposi, di accoglierci cristianamente. "Siete partiti da Siena?" La domanda era più che altro di circostanza, visto che ci aveva già classificato come camminatori del weekend e quindi non potevamo venire da tanto lontano. Data la situazione, avremmo potuto prudentemente rispondergli di sì, chiedere dove fossero i letti e terminare quella serata nel modo migliore per tutti. Invece Antonio si sentì in dovere di puntualizzare. "No, a Siena ci arriviamo domani sera!" Questa frase ottenne quantomeno l'effetto di svegliare il prete. "Ma la fate al contrario?" Provai a recuperare buttandola sul ridere. "Non ho visto cartelli di senso unico" Battuta simpatica. Sipario. Don Gianni sorrise, potevamo chiuderla lì e congedarci per la notte.


Ma Antonio decise di fare il brillante e, approfittando di una cartina sulla parete, si produsse in una memorabile dissertazione del programma che aveva preparato per quei due giorni. "Certo, saremmo partiti da Siena per seguire il percorso, ma dovendone fare solo un pezzo... Così, per far prima, siamo andati tutti in macchina a Siena, poi con una macchina siamo tornati indietro, così la macchina la riprendiamo al ritorno! Certo, potevamo farla in treno, ma poi prendere il treno la sera, gli orari... " Ora voi dovreste immaginarvi la faccia di un parroco, un po' sovrappeso e mezzo addormentato, che cerca di star dietro a questo rigiro di auto, treni e spostamenti. Alla fine don Gianni annuì e cambiò discorso per evitare ulteriori spiegazioni. "Ma voi non avete cenato? A quest'ora non so se..." Aprì un cassetto della scrivania, approfittandone per allungare un braccio e spostare prudentemente Antonio dalla cartina, e ne tirò fuori un mazzetto di bigliettini. Saranno stati una cinquantina, praticamente don Gianni bazzicava tutti i ristoranti della zona e, a giudicare dalla sua silhouette, lo faceva con una certa assiduità. Da come maneggiava il mazzo, non escludo che tra le attività extrapastorali del “don” ci fosse anche un pokerino settimanale. Alla fine pescò un bigliettino e ce lo porse. "Forse questo lo trovate aperto, dite che vi mando io" Non so se sia vero che il nome del Signore apre tutte le porte, ma di sicuro quella sera il nome di don Gianni ci aprì quella del ristorante, comprensiva di sconto, caffè e limoncello. La nottata trascorse tutto sommato serenamente, al mattino seguente non trovammo traccia del prete, probabilmente ancora a letto, e dei fantomatici pellegrini dal sonno leggero, probabilmente già partiti. L’emozione del primo timbro sul libretto delle credenziali, dipinta da Antonio come una specie di cerimonia di iniziazione, si ridusse ad un self-service nell’ufficio di don Gianni. Ma, come i chilometri, non erano i timbri che facevano il cammino. Nell’aria limpida del mattino la strada scorreva tranquilla sotto le nostre suole, due chiacchiere in allegria, qualche lamentela sul programma. A un certo punto, in lontananza scorgemmo due sagome imponenti, scure. Alla sommità di queste figure si intravedevano delle strutture di forma regolare, che riflettevano la luce del sole. Il fatto di essere tutti e 4 miopi ed occhialuti non facilitò il compito di identificare quegli oggetti misteriosi. Dopo numerose ipotesi anche di natura aliena o paranormale, arrivammo con prudenza ad una distanza tale da risolvere l’arcano. Erano due ragazzi dalla corporatura robusta, vestiti di nero, con sulle spalle due zaini di dimensioni mastodontiche, neri anch’essi. Procedevano a passo lento, erano appena ripartiti da una sosta. In cima agli zaini le superfici lucide, rettangolari, divise in riquadri, che avevano attirato la nostra attenzione. Allungammo il passo per affiancarli. Spontaneamente mi venne di chiedere a quello più vicino: “Ma sono pannelli solari quelli?” I due ragazzi erano davvero giovani, una certa somiglianza indicava che erano fratelli, forse cugini. “Certo!” Il mio sguardo spaesato spinse l’altro ragazzo a continuare la spiegazione. “Li usiamo per caricare cellulari e tablet” Le domande dipinte sul mio viso cominciarono moltiplicarsi: senza che io aprissi bocca i due raccontarono una storia che forse gli toccava ripetere ogni giorno. “Facciamo la Francigena in completa autosufficienza, abbiamo la tenda, cibo per un mese, risotti, roba liofilizzata, fornelletto da campo. Prendiamo in giro acqua per bere e lavarci. Una volta a settimana ci fermiamo in ostello per una doccia, ma solo per non puzzare troppo!” Strinsi loro la mano con ammirazione, anche se avvicinandomi capii che il giorno della doccia era quasi arrivato. Avevano un diario con le firme e le dediche delle persone incontrate, scrissi due righe, come sul libro dei visitatori di un museo. Quel giorno ripensai al giovane francese coi sandali lisci, a come il concetto di pellegrino possa essere interpretato da qualcuno col non portarsi dietro niente ed aver bisogno di tutto, e da altri col portarsi dietro tutto per non aver bisogno di niente. Probabilmente non esiste un approccio giusto o


sbagliato, mi sarebbe piaciuto assistere ad un incontro tra queste persone che confrontano le proprie idee di cammino, scoprendo magari che non sono così distanti come sembra. La serata di quel sabato mi fece scoprire il luogo dove davvero si può trovare il concentrato di umanità che caratterizza la Francigena, l’ostello. Intorno al tavolo di un ostello, ti può capitare di trovare persone che vengono da dietro l'angolo, come noi, oppure dall'altra parte del mondo, gomito a gomito, che mangiano insieme come una vera famiglia. Gente spinta dalle motivazioni più disparate, che spesso ha alle spalle una storia che vale da sola più di mese di cammino. Una storia che non necessariamente deve essere di penitenza o di sofferenza. Mi è capitato di trovarmi a cena con una signora sulla cinquantina che faceva la Francigena con le due figlie poco più che ventenni. Andavano da Lucca a Siena, e alla domanda sul perché, la mamma mi rispose semplicemente: "Per festeggiare, mia figlia è appena tornata dalla Colombia, è stata via un anno per studiare" Camminare sette ore al giorno con dieci chili di zaino sulle spalle, col sole e con la pioggia, e tutto questo per festeggiare. Sì, la Francigena è anche questo. E, sempre nella stessa serata, ti può succedere di sorseggiare una birra con un olandese, e parlare di Van Basten e di come era forte la nazionale in maglia arancione negli anni ‘70. Ovviamente mi limitai a confermare, vista anche la stazza del simpatico signore biondo, partito con la moglie da Eindhoven e diretto, manco a dirlo, a piedi a Roma Oppure beccare nel cuore della notte un anziano signore rintanato in una stanzetta dell'ostello a digitare sul tablet. "Il WiFi funziona solo qui” fu la sua risposta, in inglese. Ovviamente non scriveva in chat ai nipotini, teneva un regolare diario di viaggio su un blog. Invece di godersi la meritata pensione nella sua casa in riva al lago in Canada, questo simpatico sessantacinquenne dalla lunga barba bianca stava facendo due mesi di cammino fino a Roma. Tutto quotidianamente pubblicato online per sostenere un'associazione benefica, ed aveva già fatto lo stesso lungo il cammino di Santiago l'estate prima. Tra l’altro mi chiese pure se avessi idee di viaggio da proporgli per l'anno successivo. Mi guardai bene dal dirgli che il suo cammino di un anno io non lo farò probabilmente in tutta una vita! Tra tante persone che ho incontrato sul cammino, qualcuno è riuscito a superare l’asticella e ad assumere, a mio parere, il ruolo di “personaggio”. Quello che ho scritto nelle pagine precedenti, la storia del francese che viaggia senza denaro, del prete buongustaio e di tutti gli altri, sono storie bizzarre ma tutto sommato banali. Nessuno ci farebbe mai un film o un romanzo, tuttalpiù potrebbe venirne fuori, mettendo insieme e ritagliando qua e là, un buon documentario sull’umanità che popola questo piccolo mondo di pazzi pellegrini. Invece, d’un tratto, mentre sei al tavolino nel giardino dell’ostello, a piedi scalzi dopo una lunga giornata di cammino, tra la gente appena conosciuta che arriva alla spicciolata in attesa della cena, si presenta questo tizio. Barba rossa e accento emiliano, racconta cose. Tra le frasi che spara a mitraglia, che presumibilmente riguardano il suo cammino, qualcosa all’improvviso ti colpisce. “Nel film di Ligabue, quello che esce l’anno prossimo, c’è la mia bicicletta. In due scene.” Sicuramente l’attività di regista di Ligabue non rientra tra i miei primi interessi, ma il mondo che stava dietro quella frase non poteva rimanere inesplorato. Gli chiesi qualcosa su questa bicicletta, così particolare da finire al cinema. Mauro, così disse di chiamarsi, accostò la sedia al tavolino, si passò le dita nella folta barba e cominciò a parlarmi. Voce calma e suadente, sguardo perso nel vuoto, in un film avrebbe potuto entrarci anche lui secondo me, nella parte del serial killer. “Si, la mia bici al mio paese, in Emilia, la conoscono tutti. Quando è arrivato il Liga, lui sta a 5 chilometri, il film l’ha girato praticamente a casa sua, mi voleva nel film, me e la bicicletta. Però io quel giorno non c’ero e un mio amico gli ha portato la bici. Va bene uguale, almeno la gente va e se la guarda al cinema!” Si prendeva delle lunghe pause nei discorsi, facevo fatica a capire quando un pensiero era compiuto. Di punto in bianco si alzò, dopo un po’ tornò con una birra e riprese il racconto.


“Cioè, la bici la conoscevano perché ci avevo fatto un giro, l’anno scorso…” “E dove sei stato di bello?”, mi venne spontanea la domanda. “Ah niente, avevo lasciato il lavoro, un po’ di casini a casa… ho detto ai miei ‘vado a fare un giro’, e son partito in bici…” Altra pausa, due sorsi alla birra, sguardo sempre più smarrito. “Niente, son partito, a un certo punto ero in Francia! Visto che c’ero, ho sempre voluto fare Santiago… certo, a piedi il Cammino è un’altra cosa!” “Cioè, sei partito per fare un giro e sei arrivato a Santiago in bici?” “Sì, ma così, con calma, poi mi sono fatto la costa del Portogallo a scendere, volevo vedere dov’era partito Colombo…” Non sapevo più se avevo di fronte un mitomane o semplicemente un matto. “Ah ecco! E poi sei partito per l’America?” Lo sguardo di Mauro, finora perso nel nulla, per un attimo puntò dritto verso i miei occhi: non stava scherzando. “Poi la costa spagnola, Siviglia, Malaga, Valencia. A Barcellona mi sono scocciato, mi sono imbarcato per Genova e son tornato a casa” “E questo giretto, quanto ci hai messo a farlo?” “Boh, quattro mesi più o meno, considera che mi sono fatto qualche giorno in ospedale, poi una volta due portoghesi m’hanno fregato la bici. Duecento euro di riscatto, poi dice che i mafiosi stanno in Italia…” Stavo per chiedergli se gli avessero mandato un pezzo di copertone come avvertimento, ma mi trattenni. “E ora, la Francigena?” “Sì, ora basta bici, cammino un po’… Vado fino a Roma, poi non so, ci tenevo a passare da Padre Pio. Poi quando son lì decido…” Quattromila chilometri in bici, la Francigena, poi, visto che c’era, una capatina in Puglia. Mauro mi colpì soprattutto perché non mi disse mai una motivazione concreta per il suo continuo camminare: come Forrest Gump si è messo a pedalare, a percorrere sentieri, a macinare chilometri, di punto in bianco, senza una vera mèta. Santiago, Roma, tutti i posti che per altri sono punti di arrivo, per lui sono diventate semplici tappe: la vera mèta per lui era interiore, quella dove un giorno arrivi e dici “basta, per ora non cammino più”. Se è vero che in ogni viaggio la mèta è soltanto la metà, spesso ci concentriamo troppo sull’arrivo trascurando l’importanza del cammino; ogni buon pellegrino dovrebbe dimenticare la mèta e pensare al pezzo di strada sotto i suoi piedi. Ogni albero con la sua ombra, ogni fonte d’acqua fresca in una giornata assolata, ogni sasso su cui sedersi, può diventare una mèta del nostro cammino, e possiamo trovarne una ogni giorno anche quando non siamo sulla Francigena. In realtà, col passare degli anni, spesso è stata la Francigena a trovare me: mi sono imbattuto in cartelli col simbolo del pellegrino nei punti più disparati, girando in macchina per lavoro, o passeggiando per caso in vacanza. L’ultima volta è stata pochi giorni fa, nel mezzo della Pianura Padana, in pausa pranzo durante una trasferta: sulla parete del ristorante, proprio accanto al mio tavolo, vedo la freccia e l’indicazione “via Francigena”. Per scherzare chiedo al cameriere se la Francigena passasse accanto al mio tavolino . Lui mi risponde sorridendo, indicandomi il corridoio. “Certo, qui prima c’era un sentiero, poi vent’anni fa hanno fabbricato questo pezzo. Vabbè, i pellegrini passano dalla strada, ma il cartello ce l’abbiamo messo per ricordo…” Probabilmente dalle mie credenziali non risulterà, ma la settimana scorsa ho fatto una tappa di Francigena, dal mio tavolo al bagno del ristorante; la mèta non era delle più nobili, ma è valsa la pena percorrere quei pochi metri: al mio ritorno mi attendeva un piatto di tortelli fumanti, che ho mangiato alla salute del buon Sigerico.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.