Flessibilità damiano

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Le proposte di legge del PD sulla flessibilitĂ del sistema pensionistico

Scheda riassuntiva Testi delle Proposte di Legge del PD all’esame della Commissione Lavoro: 857 Damiano ed altri 2945 Damiano ed altri 530 Gnecchi ed altri 728 Gnecchi ed altri 1881 Gnecchi ed altri 388 Murer ed altri 1503 Di Salvo ed altri Locandina dell’iniziativa


FLESSIBILITÀ IN USCITA

Si è riaperto il cantiere della previdenza per correggere le rigidità e le distorsioni provocate dalla riforma Fornero del dicembre 2011. Alla Camera dei Deputati, in Commissione Lavoro, sono depositati numerosi disegni di legge di vari gruppi politici di maggioranza e opposizione, che hanno in comune, seppur in modo diverso, l’obiettivo di introdurre la cosiddetta flessibilità in uscita, cioè la possibilità di scegliere il momento del pensionamento, avendo naturalmente una base minima di età anagrafica e anzianità contributiva. Possiamo suddividere i vari disegni in quattro gruppi:

gli addetti alle lavorazioni particolarmente faticose e pesanti di cui al decreto legislativo 21 aprile 2011, n. 67,(cosiddetti lavori usuranti), nonché le disposizioni in materia di esclusione dai limiti anagrafici per i lavoratori che hanno maturato il requisito di anzianità contributiva di almeno quarantuno anni (cosiddetti lavoratori precoci). Questi ultimi, al raggiungimento dei 41 anni di contributi, possono andare in pensione senza penalizzazioni, a prescindere dall’età anagrafica. Su tale impianto si innestano altre due proposte di legge abbinate nell’esame in Commissione Lavoro alla proposta Damiano (C. 3002 Fedriga ed altri e FLESSIBILITA’ IN USCITA 1) L’impianto centrale si può trovare nella Propo- C. 3144 Pizzolante ed altri). sta di legge del Partito democratico (857 Damiano altri) presentata all’inizioper della legislatura, ine le 2) Un secondo filone riguarda la cosiddetta “QuoSi è ed riaperto il cantiere della previdenza correggere le rigidità distorsioni provocate dalla riforma Fornero del quale dicembre Alla Camera dei Deputati, in Commissione sono depositati numerosi del PD e della Lega. Il base alla le2011. lavoratrici e i lavoratori che abbia- taLavoro, 100”, con le proposte disegni di legge di vari gruppi politici di maggioranza e opposizione, che hanno in comune, seppur in modo no maturato un’anzianità contributiva di almeno 35 Partito Democratico (2945 Damiano ed altri) prediverso, l’obiettivo di introdurre la cosiddetta flessibilità in uscita, cioè la possibilità di scegliere il momento anni possono accedere al pensionamento flessibile vede che al raggiungimento del pensionamento, avendo naturalmente una base minima di età anagrafica e anzianità contributiva. di “Quota 100” come Possiamo s uddividere i v ari d isegni i n q uattro g ruppi: al compimento del requisito minimo di 62 anni di somma di età anagrafica e anzianità contributiva si età fino al requisito 70Proposta anni didi età. possa usufruire pensione senza penalizzazio 1) L’impianto centrale si massimo può trovare di nella legge Alla del Partito democratico (857 della Damiano ed altri) presentata all’inizio della legislatura, in base alla quale le lavoratrici e i lavoratori che abbiano quota calcolata con il sistema retributivo si applica ni, fermo restando il requisito minimo di 62 anni di maturato un'anzianità contributiva di almeno 35 anni possono accedere al pensionamento flessibile al la riduzione o la maggiorazione di cui alla tabella A, età e minimo 35 anni di contributi per lavoratori dicompimento del requisito minimo di 62 anni di età fino al requisito massimo di 70 anni di età. Alla quota in relazione di pensionamento effettivo eaggiorazione agli pendenti e rprivati. calcolata con il sall’età istema retributivo si applica la riduzione o la m di cui alla pubblici tabella A, in elazione Per gli autonomi iscritti all'età di pensionamento effettivo e agli anni di contributi versati. Si va da una penalizzazione dell’8% con anni di contributi versati. Si va da una penalizzazione all’INPS la somma prevista è 101, con i requisiti 62 anni ad un premio dell’8% a 70 anni. dell’8% con 62 anni ad un premio dell’8% a 70 anni. minimi di 63 anni di età e 35 anni di contributi. La proposta della Lega (2955 Prataviera (ora al Misto) TABELLA A Fedriga ed altri) prevede che i lavoratori che ab(Articolo 1, comma 2). biano maturato un’anzianità contributiva di almeno Anni di contribuzione 35 anni ovvero un’anzianità anagrafica di almeno Età di pensionamento effettivo 35 36 37 38 39 40 58 anni possono accedere al pensionamento al 62 -8 -7,7 -7,3 -6,9 -6 -3 raggiungimento di quota 100 quale somma di età 63 -6 -5,7 -5,3 -4,9 -4 -2 anagrafica e contributiva. 64

-4 -3,7 -3,3 -2,9 -2

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-2 -1,7 -1,3 -0,9 -0,5 -0,3

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3) Un’altra proposta della Lega (Fedriga 2046) esprime l’opzione donna, che consente alle lavoratrici, in presenza di determinati requisiti anagrafici e contributivi, di accedere anticipatamente alla pensione calcolata interamente secondo il sistema contributivo.

Sono previste due deroghe a tale sistema. Sono 4) Numerosi disegni di legge si propongono di Sono previste due deroghe a tale sistema. Sono fatte salve, se più favorevoli, le disposizioni in materia di fatte salve, se apiù favorevoli,per legli disposizioni in ma-particolarmente individuare una enuova disciplina legislativa per l’acaccesso anticipato l pensionamento addetti alle lavorazioni faticose pesanti d i cui al decreto legislativo 21 aprile 2011, n. 67,(cosiddetti lavori usuranti), nonché le disposizioni in materia di teria di accesso anticipato al pensionamento per cesso al pensionamento delle lavoratrici nonché di esclusione dai limiti anagrafici per i lavoratori che hanno maturato il requisito di anzianità contributiva di almeno quarantuno anni (cosiddetti lavoratori precoci). Questi ultimi,al raggiungimento dei 41 anni di contributi, possono andare in pensione senza penalizzazioni, a prescindere dall’età anagrafica. Su tale impianto si innestano altre due proposte di legge abbinate nell’esame in Commissione Lavoro alla proposta Damiano (C. 3002 Fedriga ed altri e C. 3144 Pizzolante ed altri).


valorizzare i lavori di cura e assistenza familiare riconoscendo specifiche agevolazioni, soprattutto nei confronti delle lavoratrici madri, sulle quali maggiormente grava l’onere sociale dello svolgimento di tali attività (Misto minoranze linguistiche C.115 Gebhard ed altri, PD C. 388 Murer ed altri, PD

C.530 Gnecchi ed altri, PD C.728 Gnecchi ed altri, PD C.1503 Di Salvo ed altri, Fratelli d’Italia C.1879 Cirielli ed altri, PD C.1881 Gnecchi ed altri, Per l’Italia Centro democratico C.2430 Fautilli ed altri, Per l’Italia Centro democratico C.2605 Sberna e Gigli, M5S C.314 Ciprini ed altri).


PROPOSTA DI LEGGE N. 857 D’INIZIATIVA DEI DEPUTATI DAMIANO, BARETTA, GNECCHI, LENZI, BELLANOVA, LUCIANO AGOSTINI, ALBANELLA, ANTEZZA, ARLOTTI, BARGERO, BARUFFI, BOCCUZZI, BONOMO, CARELLA, CARRA, CENNI, CENSORE, COVA, CRIVELLARI, D’INCECCO, FABBRI, CINZIA MARIA FONTANA, FRAGOMELI, GANDOLFI, GIACOBBE, GINOBLE, GOZI, GREGORI, GULLO, IACONO, INCERTI, LAFORGIA, LATTUCA, LAURICELLA, LODOLINI, MAESTRI, MAGORNO, MALISANI, MANFREDI, MARANTELLI, MARCHETTI, M A R C H I , M A R I A N I , MARIANO, MOGNATO, MONGIELLO, MONTRONI, MURA, GIORGIO PICCOLO, SALVATORE PICCOLO, RAMPI, ROCCHI, GIOVANNA SANNA, SIMONI, TERROSI, TULLO, VENITTELLI, ZAPPULLA Disposizioni per consentire la libertà di scelta nell’accesso dei lavoratori al trattamento pensionistico Presentata il 30 aprile 2013 ONOREVOLI COLLEGHI ! — La drammatica crisi economica che ha colpito il nostro Paese negli ultimi anni ha comportato il succedersi di una serie di gravi crisi occupazionali e reso ancora più incerto il futuro di milioni di lavoratrici e lavoratori. Le sicurezze relative al proprio futuro pensionistico, che hanno accompagnato le generazioni precedenti, non esistono più. Molto spesso l’attività lavorativa delle persone è frammentata, intervallata da periodi di disoccupazione, solo nei migliori dei casi coperti da forme di ammortizzatori sociali. Le manovre pensionistiche del quadriennio 20082011, spostando l’età di pensionamento molto in avanti e aumentando il numero di anni di contributi necessari per il raggiungimento della pensione, hanno acuito lo stato di insicurezza e instabilità delle persone. La presente proposta di legge si pone l’obiettivo di ripristinare certezza nella possibilità di età di pensionamento effettivo di milioni di lavoratrici e lavoratori, restituendo loro quella serenità perduta nel corso degli ultimi anni, caratterizzati da un completo stravolgimento del sistema previdenziale.

Intendiamo, inoltre, garantire modalità omogenee di uscita dal mondo del lavoro a tutte le categorie di lavoratori, pubblici, privati e autonomi. Infatti, in un contesto di recessione così profondo e duraturo – che ha visto entrare in profonda difficoltà settori fino a pochi anni fa al riparo da ogni vento di crisi, quale il pubblico impiego, e che ha inferto colpi durissimi al mondo delle piccole imprese e del lavoro autonomo – riteniamo necessario prevedere forme di flessibilità di pensionamento, le quali, attraverso un sistema di penalizzazione e premialità in tema di assegno pensionistico, consenta alle lavoratrici e ai lavoratori di poter decidere, all’interno di un range variabile tra i 62 e i 70 anni di età, il momento della cessazione dell’attività lavorativa. Ciò contribuirà ad agevolare anche un ricambio generazionale, che le recenti riforme pensionistiche hanno contribuito a disincentivare. Il comma 1 del singolo articolo di cui si compone la presente proposta di legge dispone che, dal 1o gennaio 2014, le lavoratrici e i lavoratori – pubblici, privati e autonomi – tra i 62 e i 70 anni di età che abbiano maturato un’anzianità contributiva di almeno 35 anni possano accedere a forme di pensionamento flessibile, purché l’importo dell’assegno, secondo l’ordinamento previdenziale di appartenenza, sia almeno pari a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale. Il comma 2 prevede che la determinazione dell’importo della pensione si applichi considerando l’importo massimo conseguibile, secondo l’ordinamento previdenziale di appartenenza di ciascuno, al quale viene applicata una riduzione o maggiorazione sulla quota di trattamento pensionistico calcolata con il sistema retributivo, a seconda che l’età di pensionamento sia inferiore o superiore ai 66 anni e degli anni di contributi versati. Il comma 3 stabilisce che le disposizioni dei commi precedenti non si applichino, se meno favorevoli, ai soggetti impiegati nei cosiddetti lavori « usuranti ». Inoltre per le lavoratrici e i lavoratori che abbiano maturato almeno 41 anni di anzianità contributiva è prevista la possibilità di pensionamento prescindendo dall’età anagrafica. Il comma 4, infine, stabilisce che, fino al 31 dicembre 2016, derogando dalla disciplina in materia, l’incremento dell’età pensionistica dovuto all’allungamento della speranza di vita sia determinato nella misura di tre mesi complessivi.


PROPOSTA DI LEGGE ART. 1. 1. A decorrere dal 10 gennaio 2014, le lavoratrici e i lavoratori che abbiano maturato un’anzianità contributiva di almeno 35 anni possono accedere al pensionamento flessibile al compimento del requisito minimo di 62 anni di età fino al requisito massimo di 70 anni di età, purché l’importo dell’assegno, secondo i rispettivi ordinamenti previdenziali di appartenenza, sia almeno pari a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale. 2. Ai fini della determinazione dell’importo della pensione si calcola per ciascuna lavoratrice o lavoratore l’importo massimo conseguibile a requisiti pieni secondo i rispettivi ordinamenti previdenziali di appartenenza. Alla quota calcolata con il sistema retributivo si applica la riduzione o la maggiorazione di cui alla tabella A allegata alla presente legge, in relazione all’età di pensionamento effettivo e agli anni di contributi versati, al fine di conseguire l’invarianza dei costi tra i due sistemi. 3. Sono fatte salve, se più favorevoli, le disposizioni in materia di accesso anticipato al pensionamento per gli addetti alle lavorazioni particolarmente faticose e pesanti di cui al decreto legislativo 21 aprile 2011, n. 67, nonché le disposizioni in materia di esclusione dai limiti anagrafici per i lavoratori che hanno maturato il requisito di anzianità contributiva di almeno quarantuno anni. 4. In via transitoria, fino al 31 dicembre 2016, l’adeguamento dei requisiti anagrafici e contributivi di accesso al sistema pensionistico agli incrementi della speranza di vita è determinato nella misura di tre mesi complessivi, in deroga alla disciplina prevista dall’articolo 12 del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modificazioni.

PROPOSTA DI LEGGE N. 2945 D’INIZIATIVA DEI DEPUTATI DAMIANO, GNECCHI, ZAPPULLA, DI SALVO, GREGORI,MAESTRI, GIACOBBE, MICCOLI, CASELLATO,BARUFFI,GIORGIO PICCOLO, BOCCUZZI, INCERTI, ALBANELLA, SIMONI, ARLOTTI Disposizioni per l’introduzione di elementi di flessibilità nell’accesso dei lavoratori al trattamento pensionistico Presentata il 10 marzo 2015 ONOREVOLI COLLEGHI! — La drammatica crisi economica che ha colpito il nostro Paese negli ultimi anni ha comportato il succedersi di una serie di gravi crisi occupazionali e reso ancora più incerto il futuro di milioni di lavoratrici e di lavoratori. I timidi segnali di ripresa occupazionale registratisi negli ultimi mesi (12,6 per cento nel gennaio 2015), com’è stato opportunamente osservato, non possono indurre a facili ottimismi, stanti gli alti tassi di disoccupazione riferiti al 2014, pari al 12,7 per cento, che rappresenta il dato annuale massimo mai registrato dal 1977. Le sicurezze relative al proprio futuro pensionistico, che hanno accompagnato le generazioni precedenti, non esistono più. Molto spesso l’attività lavorativa delle persone è frammentata, intervallata da periodi di disoccupazione, solo nei migliori dei casi coperti da forme di ammortizzatori sociali. Le manovre pensionistiche del quadriennio 20082011, spostando l’età di pensionamento molto in avanti e aumentando il numero di anni di contributi necessari per il raggiungimento della pensione, hanno acuito lo stato di insicurezza e di instabilità delle persone, con il paradosso di vedere troppi lavoratori perdere l’occupazione pur essendo lontani dalla pensione e, allo stesso tempo, con l’innalzamento progressivo dell’età pensionabile, giunta ormai oltre i 67 anni, e il sostanziale blocco del turnover, di fatto si impedisce l’ingresso dei giovani, perché è del tutto ovvio che se i genitori rimangono vincolati nel posto di lavoro fino a tarda età, i loro figli e nipoti troveranno con maggiore difficoltà un’occupazione. Più che opportunamente, lo stesso Ministro del lavoro e delle politiche sociali ha riconosciuto che


se non si introduce uno strumento di flessibilità nel consentire l’accesso al trattamento pensionistico sistema pensionistico si rischia di determinare un al conseguimento di determinati requisiti anagrafici vero e proprio problema sociale. e contributivi. Laddove non si intervenisse, tale preoccupazione In dettaglio, si propone di introdurre un sistema non potrebbe essere scongiurata se non a fronte di flessibilità di uscita, a decorrere dal 1o gennaio di un’improvvisa e molto significativa impennata 2016 e fino al 31 dicembre 2021, per i lavoratori della produzione e del prodotto interno lordo, ipo- che, fatta salva la conferma del requisito di anziatesi che non trova riscontro in tutte le analisi pre- nità contributiva non inferiore a trentacinque anni visionali, anche tenendo conto del meccanismo di e di una soglia anagrafica non inferiore a 62 anni, incremento dell’età pensionabile previsto a legisla- possono conseguire, quale somma tra il requisito zione vigente, in base al quale, ad esempio, dal anagrafico e quello contributivo, la quota 100. 2016 l’aspettativa di vita aumenterà di altri 4 mesi. Da tale data si andrà in pensione di vecchiaia con PROPOSTA DI LEGGE 66 anni e 7 mesi e di anzianità con 42 anni e 10 mesi se uomini e con 41 anni e 10 mesi se donne, ART. 1. ovvero con soglie anagrafiche che non trovano riscontro nella gran parte degli Stati dell’Unione eu- In deroga a quanto disposto dall’articolo 24, comropea e con una dinamica di lungo termine della ma 6, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, spesa pubblica per le pensioni migliore di quella convertito, con modificazioni, dalla legge 22 didi altri Paesi. cembre 2011, n. 214, a decorrere dal 1o gennaio Per tali ragioni, la presente proposta di legge si 2016 e fino al 31 dicembre 2021, il diritto al tratpone l’obiettivo di ripristinare certezza nella pos- tamento pensionistico per i lavoratori dipendenti sibilità di età di pensionamento effettivo delle la- e autonomi iscritti all’assicurazione obbligatoria e voratrici e dei lavoratori, restituendo loro quella alle forme di essa sostitutive ed esclusive si conserenità perduta nel corso degli ultimi anni, ca- segue, fermo restando il requisito di anzianità conratterizzati da un completo stravolgimento del si- tributiva non inferiore a trentacinque anni, al perstema previdenziale, attraverso la previsione di un fezionamento dei requisiti indicati nella tabella A Atti Parlamentari — 4 allegata — Camera dei Deputati — 2945 alla presente legge. ampio periodo di transizione all’interno del quale

Tabella A (Articolo 1, comma 1) Lavoratori dipendenti pubblici e privati (1)

Età anagrafica minima per la

Somma di età anagrafica e anzianità contributiva

maturazione del requisito indicato in colonna 1

100

62

Lavoratori autonomi iscritti all’INPS (2)

Età anagrafica minima per la

Somma di età anagrafica e di anzianità contributiva

maturazione del requisito indicato in colonna 2

101

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PROPOSTA DI LEGGE N. 530 D’INIZIATIVA DEI DEPUTATI GNECCHI, CINZIA MARIA FONTANA, INCERTI, MAESTRI Disposizioni per la concessione di contributi previdenziali figurativi e di incrementi del trattamento di pensione per il riconoscimento dei lavori di cura familiare svolti dai genitori Presentata il 25 marzo 2013 ONOREVOLI COLLEGHI! — La presente proposta di legge si pone l’obiettivo di favorire l’occupazione femminile e la natalità agendo in particolare sulle pensioni delle donne in primo luogo perché esse sono sempre troppo basse e, in secondo luogo perché con il calcolo contributivo per la determinazione della misura della pensione non sarà più prevista l’integrazione al trattamento minimo e ciò comporterà per moltissime donne una pensione assolutamente insufficiente per condurre una vita dignitosa: siamo pertanto di fronte al rischio reale, per le future donne anziane, di condizioni di vera povertà. Gli articoli 3 e 4 della Costituzione riconoscono i seguenti princìpi fondamentali: articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»; articolo 4: « La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società ». L’Italia ha un buon livello di legislazione in favore della parità e contro la discriminazione fra i sessi, ma nonostante i buoni princìpi giuridici, sia nell’accesso

al lavoro, sia in termini di occupazione in generale, ma soprattutto di progressione di carriera e di retribuzioni, le disuguaglianze fra uomini e donne sono ancora notevoli. La pensione è la sintesi del percorso lavorativo e dimostra in modo evidente la durata e la consistenza della contribuzione versata durante tutta la propria attività lavorativa. È risaputo che l’integrazione al trattamento minimo è un fenomeno tipicamente femminile mentre le pensioni di anzianità un fenomeno tipicamente maschile. Purtroppo, anche verificando gli importi delle pensioni di nuova liquidazione si confermano i dati storici: mediamente le donne hanno pensioni che corrispondono alla metà dell’importo medio degli uomini. I motivi sono storicamente purtroppo sempre gli stessi: il percorso lavorativo delle donne registra molte interruzioni, il lavoro spesso è a tempo parziale, la progressione in carriera è scarsa, le retribuzioni sono più basse. In compenso però la società gode di tanto lavoro gratuito svolto dalle donne. Le «baby pensionate» del settore pubblico hanno garantito per anni un’economia di servizi parallela a quella istituzionale. I mille lavori invisibili delle donne hanno sostenuto, di fatto, il sistema di welfare. Purtroppo il lavoro in famiglia non viene rilevato dalle statistiche ufficiali e se non fossero le donne a occuparsi della pulizia della casa, della cura dei bambini e degli anziani e di tutte quelle mansioni invisibili, ma indispensabili, all’interno della famiglia, questi servizi dovrebbero essere acquistati sul mercato e quindi assumerebbero un preciso valore economico quantificabile (dal libro di Alberto Alesina e Andrea Ichino «L’Italia fatta in casa»). L’attuale sistema di servizi per la famiglia lascia vuoti che le donne, in modo particolare, si vedono costrette a colmare, sostituendosi all’offerta dei servizi per la cura dei figli, degli anziani e dei disabili. Si pensi, infatti, che solo per quanto riguarda i servizi di supporto alla prima infanzia (da 0 a 3 anni di età), l’Italia offre una copertura in media del 10 per cento contro il 33 per cento richiesto dall’Unione europea. In tal senso la scelta delle donne di stare fuori dal mondo del lavoro o di ripiegare forzatamente sul part time o su altre forme di lavori atipici, che consentano loro di conciliare al meglio l’impegno del lavoro di cura, risulta quasi una decisione obbligata, che però sicuramente non corrisponde al progetto di ideale lavorativo cui queste donne avrebbero aspirato. Se prendiamo a riferimento gli altri Paesi europei,


prescindendo dalla tutela della gravidanza e della maternità (cioè il periodo a ridosso della nascita) che esiste in tutti i Paesi europei, si nota che è presente una generosa forma di contribuzione figurativa per la crescita dei figli. In Francia, alle lavoratrici madri sono riconosciuti due anni di contribuzione figurativa per ogni figlio e fino a tre anni (a scelta tra madre e padre), oltre ad un eventuale supplemento di pensione (pari al 10 per cento in più) per chi abbia avuto almeno tre figli. La Francia è uno dei Paesi con tasso di fecondità più elevato in Europa. In Grecia sono riconosciuti da uno ad un massimo di quattro anni di contribuzione figurativa, in relazione al numero di figli avuti. In Germania sono previsti vari sostegni economici alla famiglia legati ai figli che permettono maggiore possibilità di scelta reale rispetto al lavoro e utilizzo dei servizi. La scelta quasi obbligata delle donne di assentarsi dal mercato del lavoro per brevi o per lunghi periodi, comporta un’ulteriore penalizzazione soprattutto per quanto attiene all’aspetto previdenziale. A differenza degli uomini, sono molte di più le donne che arrivano alla pensione di vecchiaia per la scarsità di contributi accumulati nel corso degli anni e sono poche le donne che maturano i requisiti per l’accesso al pensionamento per anzianità contributiva. Tralasciando il settore del pubblico impiego, nel settore privato, ancora nel 2011, l’importo medio di una pensione di vecchiaia liquidato dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) alle donne arrivava a malapena a 640 euro lordi mensili. Va considerato, inoltre, che sono ben 4,5 milioni le pensioni integrate al trattamento minimo, con un importo medio di integrazione di circa 3.100 euro annui per pensione. Su 4,5 milioni di pensioni integrate, di ben 3,5 milioni sono titolari le donne (dati del Ministero dell’economia e delle finanze – Ragioneria dello Stato, anno 2005). Si consideri, come già rilevato, che per le pensioni liquidate con il sistema contributivo non esisterà più l’integrazione al trattamento minimo e ciò comporterà un ulteriore reale peggioramento, per le donne in particolare. Le pensioni integrate al minimo nel 2011 sono invece 3.856.033 prevalentemente destinate a donne (81 per cento). Il Nord registra una maggiore presenza di trattamenti (circa il 44 per cento del totale), con una quota relativamente più consistente di pensioni di vecchiaia integrate (53 per cento). Questo dimostra che le pensioni sono basse e che l’integrazione

al trattamento minimo è una misura indispensabile per la sopravvivenza di chi lo percepisce. Il comma 40 dell’articolo 1 della legge 8 agosto 1995, n. 335 aveva previsto alcune agevolazioni proprio per attenuare la penalizzazione conseguente all’abolizione del trattamento minimo e all’aumento del requisito anagrafico (all’epoca era previsto il passaggio da 55 a 60 anni per la pensione di vecchiaia) e di quello contributivo (da quindici a venti anni di contributi necessari), ma non sono sicuramente sufficienti. Va rilevato però che la legge 22 dicembre 2011, n. 214 (la manovra cosiddetta «salva Italia») ha ulteriormente aumentato, senza prevedere un’equa gradualità, l’età di accesso alla pensione di vecchiaia per le lavoratrici del settore privato. Mentre nel 1995 era stata prevista una misura «compensativa» oltre alla gradualità, nel 2011 non è stato previsto nulla e non è possibile che una precisa fascia anagrafica di popolazione paghi personalmente le conseguenze di questa scelta molto più di tutti gli altri e le donne in misura ancora maggiore. La presente proposta di legge intende pertanto migliorare almeno le intuizioni e le buone intenzioni compensative già previste dalla citata legge n. 335 del 1995, quella che possiamo considerare, insieme alla normativa adottata nel 1992, la vera riforma previdenziale. La distribuzione per classi di anzianità contributiva nel territorio nazionale delle pensioni dirette di vecchiaia e di invalidità erogate dall’INPS (circa 8.439.000 pensioni – 2003 su dati INPS), evidenzia che il 52 per cento delle pensioni erogate a donne è liquidato con una contribuzione fino a venti anni (in particolare fino a quindici anni il 25 per cento delle pensioni e da quindici a venti anni il 27 per cento delle pensioni femminili) e solo il 9,9 per cento delle titolari donne raggiunge la fascia di contributi fra trentacinque e quaranta anni. Se alla precedente analisi si aggiunge la considerazione che la donna è maggiormente esposta con l’invecchiamento a divenire invalida e non autosufficiente, essendo la speranza di vita della donna pensionata senz’altro superiore a quella dell’uomo (la speranza di vita della donna è pari a 85,8 anni e quella dell’uomo è di 81,9 anni), si intuisce come questa generazione di popolazione femminile sia economicamente fragile e come sia sempre più esposta a un grave rischio di povertà e di indigen-


za. Dunque, se questa è la situazione, per la quale è difficile prevedere sostanziali mutamenti nel breve e medio periodo, rispetto all’offerta di servizi per la cura dei figli, crediamo sia un atto dovuto nei confronti delle donne e delle famiglie in generale dare un concreto riconoscimento da parte dello Stato al lavoro di cura prestato all’interno della famiglia. La presente proposta di legge intende quindi raggiungere l’obiettivo di garantire soprattutto alle donne il raggiungimento di una pensione dignitosa a fronte dell’impegno per lavori di cura nell’ambito familiare. Con l’articolo 1 viene ribadito che lo Stato riconosce il valore universale della maternità e dei lavori di cura familiari svolti dai genitori quali attività indispensabili per la vita della collettività. Con l’articolo 2 si riconoscono periodi di contribuzione figurativa per ogni figlio, naturale o adottivo, nonché un incremento del 10 per cento della pensione maturata per chi abbia avuto almeno due figli. Gli oneri relativi all’attuazione della legge sono posti a carico della fiscalità generale.

PROPOSTA DI LEGGE ART. 1. Lo Stato riconosce il valore universale della maternità e dei lavori di cura familiare svolti dai genitori quali attività necessarie e indispensabili per la vita della collettività. ART. 2. 1. Alle madri, o ai padri in caso di totale assenza della madre, sono riconosciuti: a) tre anni di contribuzione figurativa per ogni figlio naturale o adottivo; b) sei anni di contribuzione figurativa per ogni figlio, in caso di disabilità grave riconosciuta ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104; c) quattro anni di contribuzione figurativa per ogni figlio, nel caso di lavoro a tempo parziale a integrazione della contribuzione per raggiungere la misura che sarebbe spettata alla lavoratrice o al lavoratore qualora avesse avuto un rapporto di lavoro a tempo pieno;

d) un’integrazione pari al 10 per cento del trattamento pensionistico maturato in favore di coloro che hanno avuto almeno due figli, naturali o adottivi. Gli oneri derivanti dall’attuazione del comma 1 sono posti a carico della fiscalità generale.

PROPOSTA DI LEGGE N. 728 D’INIZIATIVA DEI DEPUTATI GNECCHI, DAMIANO, LENZI, MADIA, BOBBA, BERRETTA, BELLANOVA, MORANI, MANZI, MORETTI, CULOTTA, INCERTI, MAESTRI, GIACOBBE, BARUFFI, GIORGIO PICCOLO Norme in materia previdenziale in favore dei lavoratori che assistono familiari gravemente disabili Presentata l’11 aprile 2013 ONOREVOLI COLLEGHI! — La presente proposta di legge nasce dall’esigenza di aiutare tutte le famiglie alle prese con l’assistenza e la cura quotidiane di un familiare gravemente disabile. Se è pur vero che la legge 5 febbraio 1992, n. 104, sancisce il pieno rispetto della dignità umana e promuove i diritti di libertà e di autonomia delle persone disabili nonché la loro integrazione in tutti gli ambiti sociali, le difficoltà che incontrano le famiglie nell’assistenza di queste persone sono molteplici e non sempre i servizi offerti dall’assistenza pubblica sono sufficienti ad aiutare la famiglia nella gestione quotidiana del familiare disabile grave. Queste persone, se non vengono aiutate, non sono in grado di lavarsi, vestirsi, nutrirsi o partecipare alla vita sociale. Nella maggior parte dei casi il disabile in condizioni di gravità – e quando si parla di handicap grave questo non è mai un termine generico ma presuppone sempre una speciale condizione, certificata in base a una visita collegiale, che comporta per il disabile l’impossibilità di compiere «gli atti quotidiani della vita» – dipende completamente dal familiare che si occupa di lui. Questo perché, a tutt’oggi, la famiglia costituisce ancora il perno su cui ruotano l’assistenza e la cura della persona disabile. Infatti, nei nuclei familiari dove è presente un disabile grave, alla normale attività lavorativa esterna necessaria al sostentamento familiare si devono aggiungere la cura e l’assistenza


quotidiane a colui che non è in grado di badare a se stesso. Com’è evidente, quindi, il nucleo familiare costituisce, a un tempo, la collettività e il luogo nel quale il disabile èassistito prevalentemente e in modo continuativo, con notevoli oneri economici, e non solo, a carico dei conviventi che se ne prendono cura. Del resto, molto spesso, la presa in carico del disabile da parte della famiglia è dettata non solo da ragioni puramente affettive, ma anche economiche, soprattutto per i nuclei familiari che non versano in condizioni economiche tali da potersi permettere l’aiuto di professionisti del settore o semplicemente un aiuto esterno anche non qualificato. Questo con l’andare del tempo provoca, sicuramente, il logoramento fisico e psichico delle persone a cui è affidata la cura del disabile. L’articolo 1, comma 1, della presente proposta di legge prevede la possibilità di anticipare l’età per l’accesso alla pensione di vecchiaia di tre mesi per ogni anno dedicato alla cura e all’assistenza del familiare convivente disabile, fino a un massimo di cinque anni nonché il diritto alla pensione anticipata, indipendentemente dall’età anagrafica, a seguito del versamento di trenta anni di contributi previdenziali, di cui almeno cinque annualità versate nel periodo di costanza di assistenza al familiare convivente disabile. Inoltre, sempre all’articolo 1, al comma 2, si prevede, per il familiare lavoratore, una contribuzione figurativa di due mesi per ogni anno di contribuzione effettiva, per un massimo di cinque anni, purche´ anche questa sia versata in costanza di assistenza al familiare disabile. I benef`ıci previsti all’articolo 1 si applicano a condizione che, all’interno del nucleo familiare, non vi sia un componente maggiorenne che, pur abile al lavoro, non svolga alcuna attività lavorativa e indipendentemente dall’attività lavorativa svolta dal familiare lavoratore, purche´ questi sia stabilmente convivente con la persona disabile. All’articolo 2 si prevede una contribuzione figurativa per i genitori che, pur lavorando, prestano un’assistenza continua ai propri figli disabili. All’articolo 3 si prevede per il familiare che assiste la persona disabile e che non ha mai svolto un’attività lavorativa la possibilità di versare i contributi volontari fino al raggiungimento della contribuzione minima per il diritto alle pensione, secondo le modalità previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro del personale domestico. L’articolo 4, infine, reca la copertura finanziaria.

PROPOSTA DI LEGGE ART. 1. (Collocamento anticipato in quiescenza). 1. Alle lavoratrici e ai lavoratori che si dedicano al lavoro di cura e di assistenza di familiari disabili aventi una percentuale di invalidità uguale al 100 per cento, che assume connotazione di gravità ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e che necessitano di assistenza continua poiche´ non in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, ai sensi di quanto previsto dalla tabella di cui al decreto del Ministro della sanità 5 febbraio 1992, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 47 del 26 febbraio 1992, sono riconosciuti, su richiesta: a) un anticipo di età per l’accesso alla pensione di vecchiaia di tre mesi per ogni anno dedicato al lavoro di cura, fino a un massimo di cinque anni di anticipo; b) il diritto alla pensione anticipata, indipendentemente dall’età anagrafica, a seguito del versamento di trenta anni di contributi previdenziali, di cui almeno cinque annualità versate nel periodo di costanza di assistenza al familiare convivente disabile grave. 2. Le lavoratrici e i lavoratori di cui al comma 1 hanno diritto, inoltre, ai fini della misura del trattamento pensionistico, a una contribuzione figurativa di due mesi per ogni anno di contribuzione effettiva, per un massimo di cinque anni, purche´ versata in costanza di assistenza al familiare convivente disabile grave ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104. 3. I benefici di cui ai commi 1 e 2 del presente articolo al di fuori dell’ipotesi prevista dall’articolo 2, comma 1, della presente legge, possono essere godute da un solo familiare convivente per ciascuna persona disabile grave ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, presente all’interno del nucleo familiare, qualora all’interno dello stesso nucleo familiare non vi siano altri componenti maggiorenni che, pur abili al lavoro, non svolgono alcuna attività lavorativa. 4. Il beneficio di cui al comma 1 del presente articolo si applica alla lavoratrice o al lavoratore che presta assistenza al disabile grave ai sensi dell’ar-


ticolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, indipendentemente dalla sua età anagrafica e dalla sua appartenenza al settore pubblico, al settore privato, alle libere professioni, al commercio o all’artigianato, al lavoro autonomo. 5. Ai fini della presente legge, per lavoratore o lavoratrice si intende uno solo dei parenti o degli affini entro il quarto grado della persona assistita, ovvero chi con quest’ultima convive stabilmente avendo la medesima residenza anagrafica, e che svolge un’attività lavorativa. ART. 2. (Norme in favore dei genitori di figli disabili gravi). A uno dei genitori che assiste stabilmente il figlio disabile grave ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, è riconosciuta, oltre al diritto di cui all’articolo 1, comma 1, della presente legge, la possibilità di una contribuzione figurativa di un anno ogni cinque anni di contribuzione effettiva, versata in costanza di assistenza al figlio disabile grave, a condizione che all’interno dello stesso nucleo familiare non vi siano altri componenti maggiorenni che, pur abili al lavoro, non svolgono alcuna attività lavorativa. Nel caso di assistenza congiunta da parte di entrambi i genitori, l’agevolazione di cui al comma 1 è suddivisa al 50 per cento tra i medesimi. Qualora la presenza nel nucleo familiare di figli disabili gravi ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, sia superiore all’unità, i benef`ıci previsti dalla presente legge spettano a entrambi i genitori. ART. 3. (Contribuzione volontaria e figurativa). Per coloro che si sono dedicati al lavoro di cura e di assistenza di soggetti disabili gravi ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e che non hanno mai svolto un’attività lavorativa, è prevista la possibilità di versare i contributi volontari fino al raggiungimento della contribuzione minima per il diritto alla pensione, secondo le modalità previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro del personale domestico. Per coloro che hanno dovuto lasciare la propria occupazione lavorativa per assistere con carattere di continuità un familiare disabile grave ai sensi dell’ar-

ticolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, in possesso di almeno quindici anni di contribuzione al momento della cessazione dell’attività lavorativa, è riconosciuto il diritto a una contribuzione figurativa di due mesi per ogni anno di assistenza al familiare disabile grave ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, 104, per un massimo di cinque anni. ART. 4. (Copertura finanziaria). All’onere derivante dall’attuazione della presente legge, pari a 100 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2013, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2013-2015, nell’ambito del fondo speciale di parte corrente dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2013, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al medesimo Ministero. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.

PROPOSTA DI LEGGE N. 1881 D’INIZIATIVA DEI DEPUTATI GNECCHI, ROBERTA AGOSTINI, CUPERLO, INCERTI, MAESTRI, GIACOBBE, D’INCECCO, GHIZZONI, BARUFFI, LUCIANO AGOSTINI, TULLO, LODOLINI, RAMPI, MARIANI, COMINELLI, ZAMPA, MAZZOLI, BIONDELLI, MARANTELLI, ALBANELLA, FABBRI, BARGERO, MIOTTO, MURER, TERROSI, CASELLATO, BERLINGHIERI, VELO, SIMONI, CAROCCI, BRUNO BOSSIO, ROSSOMANDO, COCCIA, NARDUOLO Modifiche all’articolo 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, in materia di accesso delle lavoratrici alla pensione di vecchiaia, nonché concessione di contributi previdenziali figurativi per il riconoscimento dei lavori di cura familiare Presentata il 6 dicembre 2013


ONOREVOLI COLLEGHI! — L’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) hanno pubblicato, il 2 agosto 2013, un’analisi impietosa delle differenze di genere tra i pensionati italiani e i dati che riguardano le donne sono decisamente allarmanti. Emergono una realtà femminile fragile e un’uguaglianza di genere ancora decisamente incompiuta, con oltre la metà delle donne con meno di 1.000 euro al mese di pensione (dati del 2011) contro un terzo degli uomini e solo 204.000 donne titolari di pensioni oltre i 3.000 euro mensili, contro oltre 650.000 uomini, 7,4 milioni di pensionati non arrivano a 1.000 euro al mese. Le disuguaglianze più marcate si registrano al nord, per l’ovvia differenza tra nord e sud di possibilità di lavoro e, come ben si sa, la pensione è il riassunto della vita lavorativa. Più donne pensionate ma più povere. Secondo i dati dello studio diffuso dall’ISTAT e dall’INPS, nel 2011, degli oltre 23 milioni di trattamenti pensionistici il 56,4 per cento è stato erogato a donne e il 43,6 per cento a uomini. Ma le donne, pur rappresentando il 52,9 per cento dei pensionati (8,8 milioni su 16,7 milioni) e più della metà delle pensioni, percepiscono solo il 43,9 per cento dei 266 miliardi di euro erogati (il 56,1 per cento è, infatti, destinato agli uomini). Ciò comporta che l’importo medio annuo delle prestazioni godute da un uomo ammonta a 14.460 euro, il 65,6 per cento in più di quello delle pensioni di titolarità femminile, che si attesta ad appena 8.732 euro. Dipende evidentemente solo dalle diverse aspettative di vita tra uomo e donna il fatto che le donne pensionate sono più numerose degli uomini, oltre che perché vivono in media più a lungo, perché sopravvivono ai mariti e quindi aumenta il numero di pensionate grazie alla pensione di reversibilità del coniuge deceduto. Grazie a questo dato numerico il divario economico di genere si riduce al 43,8 per cento se calcolato sul reddito pensionistico, che risulta pari a 19.022 euro per gli uomini e a 13.228 euro per le donne. Nella precedente legislatura si è intervenuti più volte sul sistema previdenziale e sono state in particolare le donne ad essere più penalizzate. Il Governo Berlusconi nel 2009 ha innalzato a 65 anni l’accesso delle donne alla pensione di vecchiaia nel settore pubblico, utilizzando strumentalmente una sentenza della

Corte di giustizia dell’Unione europea. Il risparmio previsto dall’innalzamento a 65 anni dell’età di accesso alla pensione di vecchiaia delle donne del pubblico impiego ammontava a circa 3,7 miliardi di euro a regime entro il 2020, destinati a misure volte ad alleviare il carico di lavoro non retribuito e, in particolare, la legge prevedeva esplicitamente di dedicare i risparmi « ad interventi dedicati a politiche sociali e familiari con particolare attenzione alla non autosufficienza e all’esigenza di conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare delle lavoratrici » (articolo 22-ter, comma 3, del decreto-legge n. 78 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102 del 2009). Tali fondi in realtà sono stati utilizzati per altri scopi. A novembre 2011 è arrivato il Governo tecnico e con il decreto-legge n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, di seguito « decreto salva Italia », ha innalzato repentinamente l’età per l’accesso alla pensione di vecchiaia delle donne del settore privato, senza una gradualità reale. Di seguito si riporta parte della relazione tecnica (atto Camera n. 4829) relativa alla pensione di vecchiaia delle lavoratrici del settore privato: «In particolare, per quanto riguarda il pensionamento di vecchiaia delle lavoratrici del settore privato e, quindi, l’accelerazione dell’allineamento del requisito alla generalità dei lavoratori per le dipendenti, le valutazioni tengono conto, nel breve periodo, dei seguenti parametri: numero dei soggetti interessati in relazione alla maturazione dei requisiti minimi dal 1o gennaio 2012: circa 110.000 l’anno in media nel primo triennio. Di queste, circa 72.000 sono lavoratrici dipendenti (di cui circa 68.000 maturano i requisiti nel 2012) e 38.000 lavoratrici autonome, per una complessiva spesa media annua di circa 1.080 milioni di euro. I risparmi sono valutati in termini differenziali a quanto già previsto dalla normativa previgente; importo medio (2013): circa 10.200 euro per le lavoratrici dipendenti e circa 8.100 euro per le lavoratrici autonome». Tutti i risparmi sulle pensioni realizzati dal decreto «salva Italia», sono stati utilizzati unicamente per coprire il debito pubblico, come espressamente dichiarato dall’allora Ministro Fornero all’Assemblea della Camera dei deputati nel luglio 2012, in risposta all’interrogazione presentata dall’onore-


vole D’Antoni. Nessun risparmio sarà quindi utilizzato per garantire le future generazioni, né tantomeno per l’occupazione femminile. La banca dati dell’INPS ci offre la possibilità di verificare che le pensioni di vecchiaia liquidate nel 2012 alle donne del settore privato sono state circa 55.000, per un importo pro capite mensile lordo di 698 euro (19.000 pensioni di lavoratrici autonome per un importo mensile medio di 597 euro). Con la manovra «salva Italia» ad essere fortemente penalizzate sono state le donne nate nel 1952, che si sono ritrovate innalzato di due anni il requisito per l’accesso alla pensione nell’arco di una notte, dal 31 dicembre 2011 al 1o gennaio 2012, innescando un meccanismo di rincorsa che comporta un ritardo di accesso alla pensione di vecchiaia da quattro a sei anni. È inaccettabile che una fascia anagrafica paghi più di altre un tributo così elevato al debito pubblico. La scelta quasi obbligata delle donne di uscire dal mercato del lavoro, per brevi o per lunghi periodi, comporta un’ulteriore penalizzazione delle stesse donne, soprattutto per quanto attiene l’aspetto previdenziale. A differenza degli uomini, sono molte di più le donne che arrivano alla pensione di vecchiaia per la scarsità di contributi accumulati nel corso degli anni e sono poche le donne che maturano i requisiti per l’accesso al pensionamento per anzianità contributiva. Va considerato, inoltre, che erano ben 4,5 milioni le pensioni integrate al trattamento minimo, con un importo medio di integrazione di circa 3.100 euro annui per pensione, come si rileva dai dati del Ministero dell’economia e delle finanze – Ragioneria dello Stato, ultima rilevazione dell’anno 2005, mentre la relazione annuale dell’INPS fornisce l’indicazione sulle pensioni integrate ma non l’importo medio di integrazione, un dato interessante per capire cosa accadrà quando non ci sarà più l’integrazione. Nel 2011 erano quindi 4,5 milioni le pensioni integrate al trattamento minimo e le donne sono titolari di ben 3,5 milioni di queste. Si consideri, come già rilevato, che per le pensioni liquidate con il sistema contributivo non esisterà più l’integrazione al trattamento minimo e ciò comporterà un ulteriore reale peggioramento, per le donne in particolare. Le pensioni integrate al minimo nel 2012 (dati INPS) sono e sono prevalentemente destinate a donne (81 per cento). Il nord registra una maggiore pre-

senza di trattamenti (circa il 44 per cento del totale), con una quota relativamente più consistente di pensioni di vecchiaia integrate (53 per cento). Questo dimostra che le pensioni sono basse e che l’integrazione al trattamento minimo è una misura indispensabile per la sopravvivenza di chi lo percepisce. Per queste ragioni con questa proposta di legge si prevede anche l’abrogazione del comma 7 dell’articolo 24 del decreto «salva Italia», perché penalizza pesantemente le donne, prevedendo che qualora l’importo della pensione non superi di 1,5 volte l’assegno sociale il diritto a pensione si sposti a 70 anni di età. Negli altri Paesi europei, prescindendo dalla tutela della gravidanza e della maternità che esiste ovunque, si nota che è presente un riconoscimento oggettivo alle donne attraverso periodi di contribuzione figurativa per la crescita dei figli. In Francia, alle lavoratrici madri sono riconosciuti due anni di contribuzione figurativa per ogni figlio e fino a tre (a scelta tra madre e padre), oltre a un eventuale supplemento di pensione (pari al 10 per cento in più) per chi abbia avuto almeno tre figli. La Francia è uno dei Paesi con tasso di fecondità più elevato in Europa. In Grecia sono riconosciuti da uno a un massimo di quattro anni di contribuzione figurativa, in relazione al numero di figli avuti. In Germania sono previsti vari sostegni economici alla famiglia legati ai figli che permettono maggiore possibilità di scelta reale rispetto al lavoro e all’utilizzo dei servizi. Dati dell’Eurostat e della Commissione europea (2006-2007) e dell’ISTAT (2008) attestano che in media le donne italiane lavorano 60 ore la settimana: sono in Europa quelle che lavorano di più. Sulla somma incidono sia il lavoro retribuito svolto fuori casa che quello non retribuito prestato in ambito familiare. Questo lavoro gratuito, che gli indicatori economici non rilevano, tiene in piedi la società la quale, però, restituisce alle donne assai poco rispetto a quanto da loro riceve. Oggi, infatti, mancano i servizi di assistenza per l’infanzia e quelli per gli anziani. Le donne in Italia si prendono cura della famiglia, hanno spesso lavori precari, carriere intermittenti, redditi più bassi, scarsa disponibilità di servizi sociali e sono assenti nelle « stanze » che contano, anche in quelle in cui si decide di mandarle in pensione a 67 anni. Oggi le donne tra i 50 e 60 anni


hanno, nella gran parte dei casi, genitori ottantenni che hanno bisogno di assistenza da parte della famiglia. I dati sull’occupazione femminile in Italia sono i peggiori d’Europa: il 2009 ha visto interrompersi il trend di crescita dell’occupazione femminile (1564 anni) che aveva contraddistinto i precedenti anni, assestando il tasso di occupazione al 46,7 per cento, valore molto lontano sia dalla media europea del 58,6 per cento che dall’obiettivo europeo di raggiungere il 60 per cento di occupazione femminile per il 2010 (Strategia di Lisbona 2000). La crisi economica, sociale, culturale e ambientale causata dalle politiche dei Governi che si sono succeduti negli ultimi anni e aggravata dalle strategie del Governo Monti e dalle manovre del Ministro Fornero (permanenza al lavoro delle persone più anziane, blocco del turn over, riforma del lavoro e altro) ha peggiorato la situazione dell’occupazione giovanile, colpendo soprattutto le donne e, in particolare, quelle con lavori temporanei. Le situazioni di maggiore criticità si registrano fra le giovani donne che, pur dotate sempre più spesso di elevati livelli di istruzione, faticano più dei loro coetanei ad accedere al mercato del lavoro e per le over cinquantenni, la cui partecipazione è lontana dagli obiettivi di Lisbona non solo per la presenza di modelli di discriminazione ancora vincenti, ma anche per il sopraggiungere di nuove esigenze di conciliazione legate all’assistenza di parenti anziani non più autosufficienti, a cui il sistema di welfare pubblico fatica ad offrire risposte. Benché occorra più tempo per valutare a pieno gli effetti della riforma del Ministro Fornero, un primo rapporto del novembre 2012 (SeCo-Statistiche e comunicazioni obbligatorie) sui contratti di lavoro intermittente (modificato dalla legge n. 92 del 2012) fa rilevare che le assunzioni sono diminuite fortemente in tutte le aree (circa -30 per cento), rispetto sia al trimestre precedente che al medesimo trimestre dell’anno precedente (-70 per cento). Di converso sono ovunque aumentate le cessazioni (+40 per cento rispetto sia al trimestre che all’anno precedente), di cui solo il 15 per cento circa si è trasformato in un lavoro tempo indeterminato e quasi sempre part-time. Secondo il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) la situazione dell’occupazione femminile si è aggravata proprio a causa della scarsità

di servizi sociali di supporto alle famiglie, dei carichi di lavoro familiare, ancora appannaggio quasi esclusivamente femminile, del « tetto di cristallo » e delle retribuzioni inferiori rispetto a quelle maschili, con riflessi conseguenti anche sulla situazione pensionistica. L’aumento dei costi e la scarsità dei servizi sociali a sostegno della prima infanzia, riconosciuti in Europa come un forte fattore facilitante la crescita del lavoro femminile, sono una delle prime cause per cui le donne decidono di non lavorare o di smettere di lavorare o di non tornare a lavorare dopo la nascita del primo figlio. La probabilità di non lavorare 18-21 mesi dopo la nascita di un figlio è di quasi il 50 per cento. Ovviamente le donne con un titolo di studio più alto rientrano al lavoro dopo il parto e riescono a gestire meglio delle altre i problemi legati alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Un altro ostacolo al lavoro femminile è il tempo dedicato alla cura della famiglia e della casa, che risulta ancora a carico delle donne per il 77 per cento (Rapporto sulle donne in Italia, CNEL, 2010). Un altro motivo per cui le donne non possono iniziare o smettono di lavorare è quello di doversi sostituire alle assistenti domiciliari (badanti), a causa dell’impossibilità delle famiglie di sostenerne le spese, ma anche di dover supplire alla carenza dei servizi sanitari, caricandosi non solo delle attività tradizionali di cura ma anche di servizi nuovi e complessi che vengono delegati dal sistema sanitario ai familiari, come l’assistenza ai malati cronici (SLA, patologie psichiatriche, dipendenze, dialisi e altro). In questi casi le donne si vedono costrette ad accettare anche condizioni di pensionamento con abbattimenti in termini economici fino al 30 per cento (opzione contributiva prevista per le donne a 57 anni di età e a 35 anni di contributi, fino al 2015). Tale disposizione non può che contribuire al drammatico aumento della povertà per le donne, con inevitabili ripercussioni su tutta la società. Non a caso « l’opzione donna » viene utilizzata ora, da quando non esiste più la possibilità di pensione di vecchiaia a 60 anni e dal 1o gennaio 2012 essa è l’unica possibilità di pensione, seppur penalizzante: se, dal 2004 a oggi poche donne l’avevano utilizzata, ora diventa l’unica salvezza. Per contro, le donne che rimangono a lavorare


sono sottoposte a ritmi di vita frenetici per riuscire a coniugare impegni lavorativi e familiari e sono obbligate a confrontarsi con sistemi di gestione sempre più gerarchici, competitivi e punitivi, lontani dalla loro formazione e dalle loro competenze più orientate alla cooperazione, al lavoro orizzontale e all’inclusione. Le lavoratrici, schiacciate da tutte queste pressioni, soffrono di patologie psichiche in misura prevalente e crescente rispetto agli uomini, compreso lo stress lavoro correlato, aggravato dal rischio psico-sociale connesso al doppio o triplo carico di lavoro. Non mancano dati statistici in grado di descrivere il perdurante impatto dei tempi di lavoro (retribuito o no) sulla vita quotidiana delle donne (madri e figlie), con effetti sulle loro opportunità, sulla qualità della vita percepita e sulla salute. Dati epidemiologici rilevano che gli innegabili miglioramenti delle condizioni di sopravvivenza sono concentrati nelle fasce di età anziane (a 65 anni la differenza di sopravvivenza tra gli anni novanta e il 2009 è praticamente immutata per le donne). In generale all’aumento dell’aspettativa di vita non corrisponde un aumento dello stato di salute, come riporta il Libro verde sul welfare e, soprattutto in Italia, l’aspettativa di vita in buona salute è drammaticamente crollata per le donne negli ultimi anni. Molte patologie ad elevato impatto debilitante sono femminili, si pensi all’artrite reumatoide, all’osteoporosi, ai disturbi muscolo-scheletrici e ad alcuni tumori, in generale sempre più frequenti nonostante sia riconosciuto che le generazioni coinvolte abbiano assunto stili di vita più salutari degli uomini. L’allungamento dell’età pensionabile e la diminuzione delle pensioni in termini economici, insieme alla trasformazione degli ambienti di lavoro renderanno la situazione delle donne insostenibile, sia durante la fase lavorativa che dopo: a) le donne sono costrette a lavorare in condizioni di salute precarie; b) le difficoltà che già normalmente ostacolano una competizione alla pari sul posto di lavoro con i colleghi maschi sono aumentate; c) le possibilità di carriera sono minori e quindi le pensioni sono più basse a fine lavoro;

d) le necessità di smettere di lavorare o di andare in pensione con trattamenti minimi e quindi ad elevato rischio di povertà sono superiori. Inoltre si consideri che l’invecchiamento lavorativo fa perdere competitività al sistema, che il prolungamento dell’età pensionabile non consente l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e che gli anziani e i bambini sono sempre più senza servizi o cure familiari e in condizioni economiche precarie. Per i motivi esposti le donne lavoratrici del settore pubblico e privato, come operaie, medici, infermiere, insegnanti o tec-niche, non possono essere obbligate a lavorare oltre i 60 anni. La riforma del Ministro Fornero non ha considerato che proprio per raggiungere l’equità non è possibile stabilire criteri uguali per tutti, laddove si parta da condizioni discriminanti e da disuguali opportunità socio-economiche tra maschi e femmine: non dovrebbe essere difficile da capire. Anche l’alibi di adeguamento agli standard europei evidentemente non regge in considerazione della diversità del contesto socio-economico (maggiori servizi, ammortizzatori e altro) e della maggiore flessibilità nell’età pensionabile in altri Paesi membri. Si può, invece, impostare un sistema pensionistico che contempli flessibilità e libertà di scelta in modo da conciliare politiche di lavoro ed esigenze personali, insieme a misure organizzative favorevoli ad una maggiore flessibilità del lavoro. Questi dati ci costringono a intervenire, purché non si può rimanere spettatori di un’ingiustizia così evidente, soprattutto sapendo che nella realtà della vita quotidiana sono le donne a lavorare di più degli uomini e a reggere lo Stato sociale, sostituendosi spesso alla mancanza di servizi e garantendo il famoso welfare familiare su cui si basa tutto il nostro sistema sociale. Lo Stato deve riconoscere alle donne, quale atto risarcitorio dovuto per la mancata realizzazione di pari opportunità, con l’assenza di servizi sul territorio e per il mancato superamento delle differenze retributive, misure adeguate di miglioramento previdenziale. Con questa proposta di legge s’intende quindi raggiungere l’obiettivo di completare il quadro dei progetti di legge presentati per favorire l’occupazione femminile, occupandosi in particolare delle pensioni delle donne, poiché esse sono sempre


troppo basse e ciò comporterà per moltissime donne una pensione assolutamente insufficiente per una possibilità di vita dignitosa. Con l’articolo 1 viene sostituito il comma 6 dell’articolo 24 del decreto «salva Italia» al fine di introdurre gradualità per l’accesso alla pensione di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti e autonome del settore privato, eliminando quell’assurdo scalone che costringe le donne a rincorrere il requisito dell’età; sono abrogati anche i successivi commi 7, 8, 9 e il comma 15-bis, lettera b). Si riconosce il diritto delle donne del pubblico impiego ad andare in pensione a 64 anni dal 1o luglio 2013 al 31 dicembre 2017 e a 65 anni del 1o gennaio 2018, come per gli altri settori. Si mantiene la differenza perché, essendo stata aumentata l’età per la pensione di vecchiaia delle donne del pubblico impiego già dal 1o gennaio 2010, chi aveva compiuto 60 anni nel 2009 aveva mantenuto il diritto e quindi proporre 64 anni, come già previsto dal citato comma 15-bis per il settore privato, tiene conto che ormai quasi tutte le donne interessate hanno compiuto 64 anni (quindi è inutile la parificazione agli altri settori) ma dà alla Ragioneria dello Stato la possibilità di prevedere la copertura finanziaria delle nuove disposizioni. Con l’articolo 2 viene ribadito che lo Stato riconosce il valore universale della maternità e dei lavori di cura familiari quali attività indispensabili per la vita della collettività e che lo Stato non ha garantito alle donne reali pari opportunità, servizi adeguati e la parificazione delle retribuzioni, prevedendo quale atto risarcitorio dovuto misure a sostegno delle donne che consistono in contribuzione figurativa o, in alternativa, nell’anticipo all’accesso alla pensione di vecchiaia. Allo stesso scopo si dispone l’abrogazione della norma che impedisce la cumulabilità del riscatto dei periodi di assenza facoltativa collocati al di fuori del rapporto di lavoro con il riscatto del periodo di corso legale di laurea. PROPOSTA DI LEGGE ART. 1. 1. Il comma 6 dell’articolo 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, è sostituito dal seguente:

«6. Relativamente ai soggetti di cui al comma 5, a decorrere dal 1o gennaio 2012 i requisiti anagrafici per l’accesso alla pensione di vecchiaia sono ridefiniti nei seguenti termini: a) per le lavoratrici dipendenti e per le lavoratrici autonome la cui pensione è liquidata a carico dell’AGO e delle forme sostitutive, esonerative ed esclusive della medesima, nonché della gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, il requisito anagrafico è fissato in: 1) 61 anni a decorrere dal 1o gennaio 2012; 2) 62 anni dal 1o luglio 2013; 3) 63 anni dal 1o gennaio 2015; 4) 64 anni dal 1o luglio 2016; 5) 65 anni a decorrere dal 1o gennaio 2018; b) in via transitoria, dal 1o luglio 2013 al 31 dicembre 2017, in deroga alle disposizioni dell’articolo 22-ter del decreto-legge 1o luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, e successive modificazioni, per le lavoratrici del settore pubblico il requisito anagrafico è fissato in 64 anni. Dal 1o gennaio 2018 tale requisito è incrementato di un anno». 2. All’articolo 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, come da ultimo modificato dal presente articolo, sono apportate le seguenti modificazioni: a) i commi 7, 8 e 9 sono abrogati; b) il comma 15-bis è sostituito dal seguente: «5-bis. In via eccezionale, i lavoratori dipendenti del settore privato e del settore pubblico le cui pensioni sono liquidate a carico dell’assicurazione generale obbligatoria e delle forme esonerative e sostitutive della medesima che abbiano maturato un’anzianità contributiva di almeno 35 anni entro il 31 dicembre 2012 i quali avrebbero maturato, prima della data di entrata in vigore del presente decreto, i requisiti per il trattamento pensionistico entro il 31 dicembre 2012 ai sensi della tabella B allegata alla legge 23 agosto 2004, s243, e successive modificazioni, possono conseguire il trat-


tamento della pensione anticipata al compimento di un’età anagrafica non inferiore a 64 anni». ART. 2. 1. Lo Stato riconosce il valore universale della maternità e dei lavori di cura familiare quali attività necessarie e indispensabili per la vita della collettività e prevede misure e agevolazioni in favore delle donne volte a promuovere condizioni di pari opportunità. 2. Alle madri, o ai padri in caso di totale assenza della madre, sono riconosciuti: a) due anni di contribuzione figurativa per ogni figlio naturale o adottivo;

no e che risiedono nelle regioni del centro-nord; b) quindici mesi di contribuzione figurativa, fino a un massimo di settantacinque mesi, per ogni otto anni di contribuzione derivante da lavoro effettivo, riscatto o contribuzione volontaria, alle donne che lavorano e che risiedono nelle regioni del sud. 6. Le agevolazioni di cui al comma 5 sono concesse in assenza di altri redditi personali, fatta salva l’abitazione principale iscritta alla categoria catastale A/1, A/8, A/9, e fino a concorrenza di un reddito da pensione non superiore a due volte il trattamento minimo. 7. L’articolo 14, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, è abrogato.

b) tre anni di contribuzione figurativa per ogni figlio, in caso di disabilità grave riconosciuta ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104. 3. In alternativa a quanto previsto dal comma 2, è concesso ai soggetti di cui al medesimo comma: a) l’anticipo dell’età di accesso alla pensione di vecchiaia di due anni per ogni figlio naturale o adottivo fino a un massimo di cinque anni di anticipo, ferma restando l’età minima di 60 anni; b) l’anticipo dell’età di accesso alla pensione di vecchiaia di tre anni per ogni figlio naturale o adottivo con disabilità grave riconosciuta ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, fino a un massimo di sei anni, ferma restando l’età minima di 59 anni. 4. Sono valutati come possibilità di anticipo di età per la pensione di vecchiaia, fino a un massimo di tre anni e ferma restando l’età minima di 60 anni, i periodi di assistenza a parenti disabili certificati ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104. 5. Fatto salvo quanto previsto dai commi 2, 3 e 4, sono riconosciuti alle donne, anche in assenza di prole o di periodi dedicati all’assistenza a parenti disabili certificati ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104: a) dodici mesi di contribuzione figurativa, fino a un massimo di sessanta mesi, per ogni otto anni di contribuzione derivante da lavoro effettivo, riscatto o contribuzione volontaria, alle donne che lavora-

PROPOSTA DI LEGGE N. 388 D’INIZIATIVA DEI DEPUTATI MURER, CENNI, VELO, GARAVINI, MOSCATT, MARTELLA, BERLINGHIERI, CIMBRO, D’INCECCO, BIONDELLI, MARCHI Delega al Governo per l’introduzione di agevolazioni contributive per le lavoratrici madri nonché modifiche agli articoli 4 della legge 8 marzo 2000, n. 53, e 42 del testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, per l’elevazione del limite massimo di durata dei congedi lavorativi per gravi motivi familiari Presentata il 21 marzo 2013 ONOREVOLI COLLEGHI! — Alcuni recenti provvedimenti del Governo in ordine alla materia previdenziale sono stati volti al progressivo innalzamento dei requisiti anagrafici per il diritto all’accesso dei trattamenti pensionistici, con riferimento ai lavoratori pubblici e privati, uomini e donne. La riforma è stata decisa per due ragioni sostanziali: da una parte, adeguare i requisiti anagrafici per l’accesso al sistema pensionistico all’incremento della speranza di vita accertato dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) e convalidato dall’Ufficio statistico dell’Unione europea (EUROSTAT), con riferimento ai cinque anni precedenti, e dall’altra,


garantire la sostenibilità economica di lungo periodo del sistema che, oltre all’aggancio automatico dell’età pensionabile all’incremento della speranza di vita, ha previsto il posticipo della decorrenza dei trattamenti pensionistici (cosiddette « finestre ») e un generale incremento dei requisiti pensionistici. L’articolo 24 del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, ha attuato una revisione complessiva del sistema pensionistico. In particolare, sono stati ridefiniti i requisiti anagrafici per il pensionamento di vecchiaia a decorrere dal 1° gennaio 2012 (comma 6), disponendo l’innalzamento a 66 anni di età del limite minimo per accedere alla pensione di vecchiaia (sia per i lavoratori dipendenti sia per quelli autonomi), nonché l’anticipazione della disciplina a regime dell’innalzamento progressivo dell’età anagrafica delle lavoratrici dipendenti private al 2018 (in luogo del 2026). Più specificamente, sono stati ridefiniti i requisiti anagrafici per l’accesso alla pensione di vecchiaia nei seguenti termini: a) 62 anni per le lavoratrici dipendenti private, la cui pensione è liquidata a carico dell’assicurazione generale obbligatori (AGO) e delle forme sostitutive della medesima; tale requisito anagrafico viene ulteriormente innalzato a 63 anni e 6 mesi a decorrere dal 1° gennaio 2014, a 65 anni a decorrere dal 1° gennaio 2016; e a 66 anni a decorrere dal 1° gennaio 2018; b) 63 anni e 6 mesi per le lavoratrici autonome la cui pensione è liquidata a carico dell’AGO nonché della gestione separata dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) di cui all’articolo 2, comma 26, della legge n. 335 del 1995; tale requisito anagrafico è fissato a 64 anni e 6 mesi a decorrere dal 1° gennaio 2014, a 65 anni e 6 mesi a decorrere dal 1° gennaio 2016, a 66 anni a decorrere dal 1° gennaio 2018 e a 66 anni per i lavoratori dipendenti privati e per i dipendenti pubblici (lavoratori e, ai sensi dell’articolo 22-ter del decreto-legge 78 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102 del 2009, lavoratrici), la cui pensione è liquidata a carico dell’AGO e delle forme sostitutive ed esclusive della medesima. Il successivo comma 10 innalza, a decorrere dal 1° gennaio 2012 e con riferimento ai soggetti la cui pensione è liquidata a carico dell’AGO e delle forme sostitutive ed esclusive della medesima,

nonché della gestione separata dell’INPS, che maturino i requisiti a partire dalla medesima data, il limite massimo di 40 anni richiesto ai fini del riconoscimento del diritto al pensionamento in base al solo requisito di anzianità contributiva a prescindere dall’età anagrafica (cosiddetti «quarantesimi»). Sulla base delle nuove disposizioni, l’accesso al trattamento pensionistico è consentito esclusivamente qualora risulti maturata un’anzianità contributiva di: a) nel 2012, 42 anni e 1 mese per gli uomini e 41 anni e 1 mese per le donne; b) nel 2013, 42 anni e 2 mesi per gli uomini e 41 anni e 2 mesi per le donne; c) a decorrere dal 2014, 42 anni e 3 mesi per gli uomini e 41 anni e 3 mesi per le donne. In virtù di tale disposizione è soppressa, sempre a decorrere dal 2012, la possibilità di accedere al pensionamento anticipato con il sistema delle cosiddette «quote» introdotto dalla legge n. 247 del 2007, con un’anzianità minima compresa tra 35 e 36 anni di contributi. Inoltre, si prevede l’applicazione di una riduzione percentuale del trattamento pensionistico per ogni anno di pensionamento anticipato rispetto all’età di 62 anni (pari all’1 per cento, con elevazione al 2 per cento per ogni ulteriore anno di anticipo rispetto a 2 anni). Con la riforma previdenziale, sul fronte del trattamento delle pensioni per uomini e per donne, il Governo ha accolto i rilievi dell’Unione europea sull’uguaglianza tra donne e uomini, predisponendo un intervento legislativo che parifica l’età pensionabile delle lavoratrici del lavoro pubblico a quella dei colleghi maschi, passando, gradualmente, alla medesima età. Il provvedimento, giustificato dall’esigenza di riequilibrio dei conti, non tiene del tutto conto di una serie di specificità che investono, in particolare, le donne nella loro storia lavorativa e personale e, innanzitutto, del peso che deriva dalla mancanza di una vera politica di pari opportunità che investa nei servizi pubblici, che sostenga le donne nel mercato del lavoro, che dia risposte al lavoro di cura, che allievi le donne da un doppio lavoro obbligato in tutte le fasi della vita e che le discrimina di fatto per tutta la loro vita lavorativa, salvo saldare una paradossale «uguaglianza» quando si tratta della pensione.


Il medesimo discorso riguarda chi assiste familiari disabili gravi, un lavoro di cura che riguarda spesso le donne ma, a volte, anche gli uomini. In Italia ci sono milioni di persone non in grado di svolgere gli atti quotidiani della vita in modo autonomo o di non deambulare da soli eccetera, e quindi rientranti in una condizione di disabilità grave (articolo 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992). Soggetti che vivono una condizione che incide pesantemente sulla loro vita ma anche, almeno per chi ne ha una, sulle loro famiglie, che sono la risorsa vera, dal momento che i servizi pubblici, in questo senso, risentono di note carenze. A considerare gli ultimi dati dell’ISTAT si rileva che il 43 per cento delle donne italiane con età inferiore ai 40 anni (ma ben il 55 per cento di quelle che ne hanno meno di 30), se decidono di avere un figlio non accedono alla maternità con tutti i diritti previsti dalla legge: non ricadono infatti tra le lavoratrici dipendenti a tempo indeterminato che sono il « target » di riferimento della legge n. 53 del 2000. Oggi le giovani donne accedono in modo precario al mondo del lavoro, spesso con lavori autonomi, ma si muovono anche in un contesto molto cambiato dal punto di vista culturale, fatto di maggiore equilibrio nelle responsabilità di cura nelle coppie e di consapevolezza di non voler essere messe di fronte alla scelta di rinunciare al lavoro in presenza di un figlio. È necessario dunque un riconoscimento mirato – materiale ma anche simbolico – del lavoro di cura, ed è necessario intraprendere un percorso di riequilibrio del sistema di welfare che allarghi i diritti sociali e di cittadinanza a chi, senza distinzione tra donne e uomini, presta attività di cura: la cura – che è un’attività umana essenziale e ha un valore irrinunciabile – deve entrare nella polis, ridisegnando una nuova mappa del welfare. Un sistema di welfare a carattere strutturale, reso più urgente dall’attuale situazione di crisi, iniziando dalle seguenti considerazioni. La proposta del Governo di equiparazione dell’età minima della pensione di vecchiaia delle donne, a fronte della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea sulla normativa italiana del pubblico impiego, è accettabile solo se si accompagna a una sostanziale riforma del welfare che tenga conto del lavoro di cura. La possibilità di anticipazione, infatti, costituiva una sorta di « risarcimento », per

quanto generico e generalizzato, del ruolo di cura ricoperto dalle donne nella società. Averla cancellata contempla la necessità di individuare, comunque, una forma di riconoscimento per il lavoro di cura stesso. La nostra legislazione già prevede forme di riconoscimento per quelle categorie di lavoratori che hanno un’attesa di vita ridotta come disabili e lavoratori addetti a mansioni usuranti. Chi assiste in famiglia persone con necessità di assistenza continuata risente oggettivamente della medesima « usura » personale, nella propria esistenza, tale da giustificare un riconoscimento. La presente proposta di legge parte dal principio dell’indispensabilità del riconoscimento della cura, a cui va dato un corrispettivo materiale, che viene tradotto nel cosiddetto « credito di cura », un credito contributivo ai fini pensionistici che riguarda la maternità e il lavoro di cura. Un sistema di crediti che – secondo la proposta di legge – riconosce alle lavoratrici madri un credito di due anni di contribuzione figurativa, per ogni figlio, valido a tutti gli effetti di legge, ai fini della maturazione del requisito di anzianità contributiva. Inoltre si prevede un riconoscimento per i lavoratori e le lavoratrici impegnati, nell’ambito familiare, in un lavoro di cura verso familiari conviventi con disabilità grave. La formula è quella di aumentare il periodo di congedo straordinario, già previsto dalla normativa, da due a quattro anni. Un congedo retribuito a tutti gli effetti e con rilevanza ai fini pensionistici. Questa perequazione non solo va nella direzione di riconoscere alle donne quel diritto al riconoscimento di uno svantaggio oggettivo, relativo a tutto il lavoro svolto, non retribuito, relativo alle responsabilità familiari, di cura e della maternità, ma aiuta a riflettere anche sul fatto che, se è vero che l’età media e l’aspettativa di vita si sono innalzate, è anche vero che il lavoro di cura logora fino al punto di diminuire la durata dell’esistenza stessa. Appare, quindi, necessario destinare a misure di riconoscimento del lavoro di cura almeno una parte dei risparmi ottenuti con l’innalzamento dell’età pensionabile. La presente proposta di legge prevede, in conformità a queste considerazioni, una delega al Governo in ragione dell’estrema complessità del sistema previdenziale, che ha bisogno di interventi di varia


natura su più provvedimenti che possono essere attuati solo dopo un’analisi normativa e contabile preventiva del Governo. Per quanto riguarda la copertura finanziaria, non risultando possibile procedere in sede di conferimento della delega, a causa della complessità della materia trattata, all’esatta determinazione degli effetti finanziari derivanti dall’attuazione delle disposizioni delegate, secondo quanto previsto dalla legge di contabilità e finanza pubblica n. 196 del 2009, la quantificazione degli oneri è rimessa alla fase di adozione del decreto legislativo e l’individuazione dei relativi mezzi di copertura è condizionata all’adozione di specifici provvedimenti legislativi. Al decreto legislativo deve essere allegata una relazione tecnica che dia conto della neutralità finanziaria del medesimo decreto ovvero dei nuovi o maggiori oneri da esso derivanti e dei corrispondenti mezzi di copertura. Si prevede, infatti, che qualora derivino nuovi e maggiori oneri a carico della finanza pubblica, il decreto legislativo sia emanato successivamente alla data di entrata in vigore del provvedimento legislativo che stanzia le occorrenti risorse finanziarie. PROPOSTA DI LEGGE ART. 1. (Delega al Governo per l’introduzione di un credito contributivo ai fini pensionistici per le lavoratrici madri). 1. Il Governo è delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo per l’introduzione di agevolazioni contributive alle lavoratrici madri, in conformità al seguente principio e criterio direttivo: riconoscimento di un credito di due anni di contribuzione figurativa, per ogni figlio, in favore delle lavoratrici madri, valido a tutti gli effetti di legge ai fini della maturazione del requisito di anzianità contributiva. 2. Lo schema del decreto legislativo di cui al comma 1 è deliberato in via preliminare dal Consiglio dei ministri, sentite le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro maggiormente rappresentative a livello nazionale. 3. Lo schema del decreto legislativo è trasmesso alle Camere ai fini dell’espressione dei pareri da parte delle Commissioni parlamentari competenti

per materia e per le conseguenze di carattere finanziario, che sono resi entro trenta giorni dalla data di assegnazione dello stesso. Entro i trenta giorni successivi all’espressione dei pareri, il Governo, ove non intenda conformarsi alle condizioni ivi eventualmente formulate con riferimento all’esigenza di garantire il rispetto dell’articolo 81, quarto comma, della Costituzione, ritrasmette alle Camere i testi, corredati dei necessari elementi integrativi di informazione, per i pareri definitivi delle Commissioni competenti, che sono espressi entro trenta giorni dalla data di trasmissione. 4. Allo schema del decreto legislativo è allegata una relazione tecnica che rende conto della neutralità finanziaria del medesimo decreto ovvero dei nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica da esso derivanti e dei corrispondenti mezzi di copertura. Nell’ipotesi di nuovi o maggiori oneri, il decreto legislativo può essere emanato solo successivamente alla data di entrata in vigore del provvedimento legislativo che stanzia le occorrenti risorse finanziarie. ART. 2. (Modifiche agli articoli 4 della legge 8 marzo 2000, n. 53, e 42 del testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, in materia di durata del congedo straordinario per assistenza e lavoro di cura in favore di familiari disabili conviventi). Al comma 2 dell’articolo 4 della legge 8 marzo 2000, n. 53, le parole: «due anni» sono sostituite dalle seguenti: «quattro anni». Al comma 5-bis dell’articolo 42 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, le parole: «due anni» sono sostituite dalle seguenti: «quattro anni».


PROPOSTA DI LEGGE N. 1503 d’iniziativa del deputato DI SALVO Anticipo dell’età dell’accesso alla pensione di vecchiaia in favore delle lavoratrici madri Presentata il 7 agosto 2013 ONOREVOLI COLLEGHI! — Le conseguenze della riforma cosiddetta « Monti-Fornero » delle pensioni sono molto pesanti, soprattutto per le donne, a causa dell’incremento dell’età pensionabile a decorrere già dal 2012 e dell’eliminazione della possibilità di andare in pensione con il sistema delle «quote». La legge interviene sulle lavoratrici allontanando il periodo di pensionamento, per alcune di esse anche di un decennio. Per le lavoratrici che hanno iniziato a lavorare dal 1o gennaio 1996, oltre l’incremento dell’età pensionabile, è previsto l’innalzamento del requisito contributivo (da 5 a 20 anni) e dell’importo minimo di pensione da maturare. La presente proposta di legge intende favorire la maternità e la salute delle donne madri stabilendo misure previdenziali che consentono l’accesso anticipato alla pensione o al godimento dell’assegno sociale. La valorizzazione della maternità attraverso le misure proposte dà attuazione al principio che la Costituzione reca all’articolo 31, ma – e lo si vuole sottolineare – pone anche finalmente attenzione alla salute delle donne, tutelata dall’articolo 32 della Costituzione stessa, in considerazione della gravosità di ogni gravidanza. La proposta di legge è composta da un unico articolo. Il comma 1 stabilisce che, a scelta delle lavoratrici, è riconosciuto uno tra i seguenti benefìci previdenziali: 1) un anticipo di età rispetto al requisito di accesso alla pensione di vecchiaia, pari a un anno per ogni figlio; 2) la determinazione di un trattamento pensionistico maggiorato. La maggiorazione deriva dall’applicazione dei moltiplicatori di cui alla tabella A allegata alla legge 8 agosto 1993, n. 335: un anno di lavoro in più in caso di uno o due figli, due anni in più in caso di tre o quattro figli e tre anni in più in caso di cinque o più figli. Il comma 2 riconosce alle lavoratrici madri la co-

pertura contributiva figurativa per gli anni di anticipo della pensione, specificando che tale beneficio non è cumulabile con altri periodi di contribuzione figurativa attribuiti in occasione della maternità, ma lasciando alle lavoratrici la scelta tra essi. Il comma 3 stabilisce che i benefìci sono riconosciuti alle donne in ragione della maternità, indipendentemente dal fatto che esse fossero occupate durante la gestazione o al momento del parto o che avessero già versato in precedenza dei contributi. Allo stesso modo, il comma 4 stabilisce che il requisito anagrafico per godere dell’assegno sociale, che è una prestazione di carattere assistenziale che prescinde del tutto dal versamento dei contributi e che spetta ai soggetti che si trovano in condizioni economiche disagiate e che hanno situazioni reddituali particolari previste dalla legge, è ridotto per le donne di un anno per ogni figlio. Il comma 5 prevede le modalità di riconoscimento dei benefìci, ponendo a carico degli enti previdenziali l’obbligo di informare le lavoratrici sugli stessi benefìci. Con riferimento ai costi derivanti dalla proposta di legge, sono stanziati, a regime, 1.100 milioni di euro annui, coperti mediante una corrispondente riduzione delle tax expenditure, come disposto dai commi 6 e 7. Il calcolo dell’onere è derivato da dati dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), dai quali emerge che: a) la media delle nascite in Italia è inferiore a 550.000 unità l’anno. Tra le donne italiane il numero di figli è passato da 1,32 figli per donna del 2008 a 1,3 figli per donna del 2011, ma anche tra le donne straniere è sceso da 2,31 a 2,04; b) l’occupazione femminile in Italia, alla fine del 2012, era pari al 47 per cento e, considerando la popolazione, pari a 4 milioni e 900.000 lavoratrici; c) il diritto all’assegno sociale, dal 1o gennaio 2013 matura al compimento di 65 anni e 3 mesi di età. La misura massima dell’assegno spettante è determinata dalla differenza tra il limite di reddito previsto annualmente e il reddito dichiarato. In relazione all’entità del reddito personale o coniugale, l’assegno sociale può essere liquidato in misura intera o ridotta;


d) l’importo mensile dell’assegno sociale è dato dalla misura massima spettante, divisa per 13 mensilità. L’importo dell’assegno sociale per l’anno 2013 è pari a 442,30 euro, pari a 5.749,90 euro annui. Secondo i dati dell’ISTAT (2010) sono stati circa 800.000 le pensioni e gli assegni sociali erogati nel 2010, di cui 542.000 corrisposti a donne. L’importo medio annuo è di 4.952 euro. Il comma 8 abroga la lettera c) del comma 1 dell’articolo 40 della legge n. 335 del 1995, recante misure a favore delle lavoratrici madri, in parte corrispondenti a quelle disciplinate dalla proposta di legge. PROPOSTA DI LEGGE ART. 1. In attuazione degli articoli 31 e 32 della Costituzione, al fine di tutelare la maternità e la salute, fatto salvo quanto previsto dalla legislazione vigente, è riconosciuto alla lavoratrice, indipendentemente dall’assenza o no dal lavoro al momento del verificarsi della maternità, un anticipo di età rispetto al requisito di accesso alla pensione di vecchiaia pari a un anno per ogni figlio. In alternativa a tale anticipo la lavoratrice può optare per la determinazione del trattamento pensionistico con applicazione del moltiplicatore di cui alla tabella A allegata alla legge 8 agosto 1995, n. 335, e successive modificazioni, relativo all’età di accesso al trattamento pensionistico, maggiorato di un anno in caso di uno o due figli, maggiorato di due anni in caso di tre o quattro figli e maggiorato di tre anni in caso di cinque o più figli. È riconosciuta la contribuzione figurativa a copertura dell’intero anno, nel settore pubblico e in quello privato, in caso di accesso anticipato alla pensione ai sensi del comma 1. Il beneficio di cui al presente comma non è cumulabile con altri periodi di contribuzione figurativa riconosciuti in ragione della maternità; in tale caso è data facoltà alla lavoratrice di optare tra essi. I benefìci di cui ai commi 1 e 2 sono riconosciuti anche se la donna risulta inoccupata durante la gestazione o al momento del parto e anche in assenza di precedenti versamenti contributivi. Il requisito anagrafico per il riconoscimento dell’assegno sociale di cui all’articolo 3, commi 6 e 7,

della legge 8 agosto 1995, n. 335, e successive modificazioni, è ridotto, per le donne, di un anno per ogni figlio. Per il riconoscimento dei benefìci previsti dalla presente legge, la persona interessata presenta richiesta, secondo modalità semplificate, anche tramite un ente di patronato, all’ente previdenziale interessato. Nelle comunicazioni inviate dagli enti previdenziali alle lavoratrici è sempre riportata in nota la comunicazione della possibilità di avvalersi dei benefìci di cui al comma 1. I regimi di esenzione, esclusione e favore fiscale, di cui all’allegato C-bis annesso al decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, sono ridotti, con l’esclusione delle disposizioni a tutela dei redditi di lavoro dipendente o autonomo, dei redditi da pensione, della famiglia, della salute, delle persone economicamente o socialmente svantaggiate, del patrimonio artistico e culturale, della ricerca e dell’ambiente, in misura da determinare risparmi per una somma complessiva non inferiore a 500 milioni di euro per l’anno 2013 e a 1.100 milioni di euro annui a decorrere dal 2014. Con uno o più regolamenti adottati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono stabilite le modalità per l’attuazione del presente comma con riferimento ai singoli regimi interessati. A decorrere dall’anno 2013, le minori spese derivanti dall’attuazione delle disposizioni del comma 6, accertate annualmente con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, sono trasferite agli enti di previdenza a copertura degli oneri derivanti dall’attuazione delle misure previste dalla presente legge. La lettera c) del comma 40 dell’articolo 1 della legge 8 agosto 1995, n. 335, è abrogata.



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