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ABBANDONIAMO L’ARTE CONOSCIUTA

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Arturo Vermi

Arturo Vermi

PIERO GILARDI Rampicante, 2004 (detail) Mixed technique 11 3/4 x 11 3/4 in (30 x 30 cm) ABBANDONIAMO L’ARTE CONOSCIUTA Percorsi nell’arte italiana dal dopoguerra ad oggi Elena Forin

Nel grande spazio dall’Atchugarry Art Center di Miami, Piero Atchugarry ha deciso di presentare, insieme alle opere di Eugenio Espinoza, Pablo Atchugarry e Louise Nevelson, anche un piccolo affondo sull’arte italiana. Parlandomi del progetto che ha intrapreso attraverso la Fondazione e le gallerie, mi ha raccontato quanto per lui sia importante connettere attraverso la ricerca dello spazio, della materia e dell’esperienza visiva tre universi differenti tra loro per geografia, cultura e politica - tre mondi che spesso si sono cercati e incontrati: l’America Latina, gli Stati Uniti e l’Europa. Da sempre abituato a vivere a cavallo tra questi scenari, Piero ha raccolto per questa occasione opere di autori italiani diversissimi tra loro, che però messi insieme possono permettere di ricostruire alcune delle dinamiche che hanno interessato l’arte della penisola a partire dal secondo dopoguerra. Questi percorsi visivi, così profondamente differenti, offrono un interessante contraltare agli altri progetti di questo ciclo espositivo della galleria: lo spazio, il grande protagonista delle indagini proposte, racconta infatti in queste tre mostre alcune tra le sue infinite e più straordinarie possibilità. Il punto d’origine di Abbandoniamo l’arte conosciuta è senz’altro la temperie del secondo dopoguerra italiano: una cesura netta quella prodotta dal conflitto, in Italia come altrove. Le proporzioni, le distanze, le azioni, le strategie e gli interventi si sono allargate fino a raggiungere interessi impensabili, dilatando geografie e contatti, espandendo il campo d’azione e le sue modalità. Nulla è stato più come prima, e anche se questa non è certo la sede per approfondire la complessità dell’impatto generato da quegli scontri sulla cultura e sulla società nel mondo, senz’altro è evidente che oltre al fattore umano drammaticamente emerso, la guerra ha completamente cambiato la concezione e la rappresentazione dello spazio. L’ambiente - distrutto e divelto dalla morte - e lo sguardo umano - profondamente provato da stermini e attentati alla dignità - si uniscono in un’unica visione e danno vita a quel panorama trasversale che è l’informale. Le Spirali di Roberto Crippa (1921-1972) ad esempio, si pongono all’interno di questo tracciato raccontando un universo fatto di continui movimenti, in cui il segno agita la superficie di circuiti ellittici: alcune macchie di colore, come nell’opera in mostra, e un continuo aggrovigliarsi di strutture che sfondano lo spazio sono gli assoluti di un codice linguistico destinato a svilupparsi negli anni successivi, confermando, pur nel cambiamento, l’idea di una pittura concentrata sul concetto di evoluzione. Siamo del resto nel 1951, l’anno del Manifesto tecnico dello Spazialismo di Lucio Fontana (1899 – 1968), a cui anche Crippa aveva aderito: “Abbandoniamo la pratica delle forme di arte conosciuta – dice Fontana in un intervento alla Triennale di Milano 1 - e abbordiamo lo sviluppo di un’arte basata sull’unità del tempo e dello spazio… Concepiamo l’arte come una somma di elementi fisici, colore, suono, movimento, tempo, spazio, concependo un’unità fisico-psichica, colore l’elemento dello spazio, suono l’elemento del tempo, e il movimento che si sviluppa nel tempo e nello spazio. Sono le forme fondamentali dell’arte spaziale.”

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1 Intervento di Lucio Fontana nel convegno della Triennale di Milano, 1951, in Lucio Fontana, Manifesti Scritti Interviste, a cura di Angela Sanna, ABSCONDITA, Milano, 2015, p. 47).

Il ’51 è anche l’anno della collaborazione tra Fontana e L’Age D’Or, la galleria-libreria fondata l’anno prima a Roma da Piero Dorazio (1927 - 2005) insieme ad Achille Perilli (1927) e Mino Guerrini (1927 – 1990). Dorazio, grandissimo protagonista dell’astrazione italiana e internazionale, è tra l’altro una di quelle figure “ponte” tra l’Europa e gli USA, dove tiene conferenze fin dal 1953, dove insegna in maniera continuativa ed espone la propria arte facendo parte del sistema di quegli anni: in questa occasione possiamo vedere uno dei suoi reticoli, un acrilico su carta del 1962 in cui è possibile misurare il senso di quel comporre che è un tratto distintivo unico del suo lavoro. Le linee si dispongono precise nello spazio, si alternano con il vuoto, lo scandiscono, lo tagliano; si sovrappongono una volta e poi tante altre ancora, fino quasi a coprire completamente la superficie, che emerge solo tra le righe e nei bordi. Lui, che proprio come Crippa aveva avviato da subito una carriera solida ed estremamente attiva, che nel ’62 aveva già partecipato a Biennali di Venezia 2 , a Documenta di Kassel 3 e che aveva già fondato e aderito ai diversi gruppi nati in quella brillante stagione dell’arte italiana 4 , in questa sede ci mostra, tra le altre cose, una strada che sarà studiata e approfondita da tanti - quella della geometria. Facendo un balzo in avanti nel tempo, la Curva di Peano del 1991 di Bruno Munari, Dinamica prataiola del 1995 e Dinamica triangolare bianca del 1997 di Alberto Biasi, fino al dittico senza titolo di Paolo Minoli del 2003, tutti esposti in Abbandoniamo l’arte conosciuta, testimoniano infatti alcune delle possibilità percorse all’interno di questo grande universo. Rigore, forma, ripetizione e rottura dell’equilibrio: questi sembrano essere punti in comune a tutte queste ricerche, in cui ogni elemento è pensato ed elaborato all’interno dell’opera in maniera tale da creare frizioni ed esiti inaspettati. Del resto, diceva Munari in una raccolta di aforismi 5 , che “La regola, da sola è monotona / il caso da solo rende inquieti. / Gli orientali dicono: / la perfezione è bella ma è stupida / bisogna conoscerla ma romperla. / La combinazione tra regola e caso / è la vita, è l’arte / è la fantasia, è l’equilibrio”. Le sue curve di Peano, così come altri lavori diversi da questo ciclo, riproducono infatti le forme sulla tela quasi saturando lo spazio, mentre l’inserimento di bicromie e tricromie forti crea una sorta di scossa visiva, un’instabilità percettiva che dà la sensazione di un continuo movimento - a dire che la natura, anche quella delle immagini geometriche e regolari, ha risorse inimmaginabili e una propensione ineluttabile al cambiamento. Così accade anche nelle strutture in pvc di Alberto Biasi (1937), che con minimi cambi di direzione delle lamine rompe la monocromia e introduce la sfumatura del colore in rapporto al movimento dello spettatore, o come negli spazi punteggiati di Paolo Minoli (1942 - 2004), oppure, pensando agli esempi del nuovo millennio, nelle sfumature concentriche di Ugo Rondinone (1964): la variazione del colore, così come la ripetizione di un modulo prende forma in maniera differente, offrendo un affondo ogni volta personale sulla dinamica del tempo. La luce, che dai movimenti alle cromie è protagonista assoluta di questi quadri, ne è l’attivatrice: in Minoli si traduce in una linea che crea intensi bagliori sulla tavola, in Biasi è il riverbero nato dal rapporto tra la superficie e ciò che c’è oltre, è dissolvenza della tinta e della forma di Rondinone, mentre in Munari impastandosi col colore si fa rottura della perfezione – e questo genera nuove visioni.

2 Nel 1956, 1958 e nel 1960 con una intera sala dedicata al suo lavoro. 3 Nel 1959. 4 Nel 1947 Forma1, Origine (divenuto poi Fondazione origine Art Club. 5 Pubblicato per la prima volta nel 1982, Verbale scritto è una raccolta eterogenea di testi che spaziano dagli aforismi, alle invenzioni verbali fino all’haiku giapponese.

La luce in rapporto con la geometria e con lo studio del materiale è del resto un nodo cruciale anche della ricerca di Getulio Alviani (1939 - 2018): instancabile indagatore dell’alluminio, nei suoi quadri pone tutti gli elementi in una condizione che è sempre al “limite della visione”. Nell’incontro tra luci, trattamenti di superficie, riflesso, e forme, l’occhio si perde infatti in una infinità di possibili letture: ogni atomo del quadro sembra potersi trasformare secondo dopo secondo, e questo equilibrio tra permanenza e trasformazione è in fondo quel valore latente, quella forma di delicata e struggente poesia che libera ogni opera dell’artista. Ma se una certa pittura traduceva nel segno, nella materia e nel colore le tensioni più inaccessibili dell’ambiente e dell’uomo – e in questo un altro nome indimenticabile è quello di Emilio Scanavino (1922 - 1986), maestro di linee e nodi con cui ha portato sulla tela angosce e inquietudini agitate da cromie cupe o sanguigne – e se la geometria mostrava infinite possibilità di uscita dalle regole, c’è stato anche chi ha coniugato il rigore della forma con lo straordinario potere della luce attraverso un alfabeto linguistico e poetico minimo (e minimale), Arturo Vermi (1928 – 1988), la cui analisi del tempo condotta proprio con segni essenziali porta l’uomo dal presente fino alle origini, e poi da lì fino all’eternità attraverso l’uso della foglia d’oro. La strada della pittura però si è anche incontrata con quella del concetto dando testimonianze assolute, come nel caso di Alighiero Boetti (1940 – 1994), di quanto possa essere incredibilmente sorprendente l’atto della scoperta e di come possa essere straordinario il potere del linguaggio: al di là di ciò che usa 6 , Boetti racconta universi da conoscere lentamente, ricostruendo lettera dopo lettera, segno dopo segno, elemento dopo elemento, il significato dell’esistenza, frammentato e frammentario eppure capace di fragili attimi di unità. I suoi ricami, di cui la galleria espone in questa occasione Tra l’incudine e il martello del 1987,hanno una densità pittorica che va ben oltre l’uso specifico della pittura come mezzo espressivo, e che raccontano l’identità del tempo affidando alla superficie il compito di tradurre per singole unità (le lettere e i quadrati che le contengono) concetti minimi ma dalla potenza inaudita. Nel proliferare dell’arte italiana, l’insegnamento di Lucio Fontana, che per la sua genialità visionaria e per l’invito a uscire costantemente da canoni e abitudini visive consolidate è un punto di riferimento indiscusso per gene razioni e generazioni di artisti in tutto il mondo, si trova anche nella propensione della pittura verso dimensioni oggettuali: così in effetti Gillo Dorfles aveva unito un insieme di artisti 7 che prediligevano una visione del dipinto come “elemento integratore dello spazio abitabile, che può valere quindi quale modulatore d’una situazione dimensionale o anche semplicemente quale squisito elemento plastico–cromatico scaturito dall’incontro di forme e colori, suscitato sempre, tuttavia, da un’attenta e preordinata progettazione strutturale”. Paolo Scheggi (1940 – 1971) nella breve e intensa stagione della sua vita, aveva dato corpo proprio a questa visione: le sue Intersuperfici curve, nate dalla somma di tre tele sovrapposte e tagliate appositamente, costruisconoforme che penetrano in profondità. Lo spazio che risulta da questa azione è fatto di un vuoto in cui colore e forma occupano un ruolo fondamentale, trasformando la superficie risultante dai tagli non più come una assenza, ma piuttosto come un

6 In questo caso il ricamo, ma anche disegno a penna, legno, fotografia, cemento, buste postali etc. 7 Agostino Bonalumi, Paolo Scheggi, Enrico Castellani (che tuttavia non si è mai particolarmente ritrovato in questa definizione) e Lucio Fontana, la cui inclusione “vuol essere soprattutto un omaggio a chi ha saputo con tanto anticipo su tutti in Italia scoprire alcune fondamentali costanti dell’arte moderna” (G. Dorfles, Pittura-oggetto a Milano, Arco d’Alibert Studio d’arte, 1966).

corpo plastico eccezionale, lirico e anche teatrale, fatto di quegli elementi che sono gli assoluti della pittura. Nella fuoriuscita dalla tela, oltre a Turi Simeti (1929) che opera in maniera analoga a Scheggi - ma agitando con corpi aggettanti la superficie, che si conferma come una entità inquieta, mossa da tensioni e forze che agiscono al di sotto e al di là di essa – non si può non citare Piero Gilardi (1942) che con i suoi Tappeti natura in poliuretano ha riprodotto fin dal 1965 la natura in maniera realistica. Si tratta di piccole porzioni d’ambiente – boschi, gretti di fiumi, frutta, vegetali e via dicendo – che potrebbero appartenere a qualunque luogo: sono composizioni colorate e gioiose, che creano un impatto immediato in chi le osserva, che non può non sorridere quando le vede. Eppure da questa prima empatia scaturisce il senso di una fragilità inesorabile: non solo il materiale che tende a sgretolarsi sotto l’azione della luce e del tempo, ma anche (e specialmente) una denuncia verso una vita sempre più artificiale. Questa ricerca lo ha portato nel 1969 a una lunga sospensione del fare artistico, che ha messo da parte per dedicarsi al fronte teorico e politico: ha ripreso nel 1981 a produrre arte, e da allora il suo impegno ha coniugato estetica, ambiente e comunità. Spesso nelle sue mostre sono previsti workshop e laboratori con il pubblico, e, insieme a vari progetti sullo sviluppo tecnologico e ambientale, ha promosso PAV, Parco Arte Vivente 8 , un luogo in cui si compendiano tutte le sue esperienze relative alla dialettica Natura/Cultura.

Abbandoniamo la pratica delle forme di arte conosciuta. 9

A conclusione di questa analisi tra generazioni, linguaggi, geometria, materia informe, concetto, oggetto, colore, luce e tempo, non ci resta che rilevare quanto a unire le tante direttrici percorse, ci sia in tutte le opere presentate, un sottofondo comune che risiede nella volontà di analizzare in maniera profonda e approfondita la natura delle cose: che si tratti di animo umano, di condizioni esistenziali frammentate e stravolte dalla storia e dal tempo, di regole messe in discussione, di forme pittoriche assolute, della parola o della natura, l’arte italiana del secondo novecento ha dato prova di voler sempre penetrare il reale e il pensiero per attingere a nuove letture e interpretazioni del presente, dell’uomo, del tempo e della storia. Così del resto fanno anche Arcangelo Sassolino (1967) cercando e mettendo a fuoco le tensioni nascoste nella società, nel tempo e nell’animo umano, o Riccardo De Marchi (1964) forando le superfici che incontra nel proprio lavoro e nel proprio vivere (dal teflon all’acciaio fino alle copertine dei dischi che ascolta) generando una poesia di elementi minimi (i buchi) e una scrittura fatta letteralmente di nulla – eppure così intensa da stravolgere lo spazio in cui si trova. In questa intensità di analisi, la sua e quella di tutti gli altri nomi presentati, nell’alterazione che generano queste opere nei contesti in cui sono allestite, nella loro capacità di assorbire e rimandare lo spazio e nell’attitudine inevitabile a porre continui quesiti si compiono quindi alcuni dei più intriganti capitoli di una ricerca visiva che tende da sempre a mettersi e a mettere il presente in gioco. Dimostrando quanto un territorio diversificato e attraversato da continue criticità formi animi predisposti alla ricerca e alla messa in discussione dei valori acquisiti, e dimostrando quanto ancora oggi l’insegnamento di Lucio Fontana sia uno dei fari che muove lo sguardo di chi cerca.

8 PAV è aperto dal 2008 a Torino. 9 Si veda la nota 1. GETULIO ALVIANI Superficie vibratile, 1972 (detail) Aluminum on board 28 1/4 x 28 1/4 in (72 x 72 cm)

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