ABBANDONIAMO L’ARTE CONOSCIUTA Percorsi nell’arte italiana dal dopoguerra ad oggi Elena Forin
PIERO GILARDI Rampicante, 2004 (detail) Mixed technique 11 3/4 x 11 3/4 in (30 x 30 cm)
Nel grande spazio dall’Atchugarry Art Center di Miami, Piero Atchugarry ha deciso di presentare, insieme alle opere di Eugenio Espinoza, Pablo Atchugarry e Louise Nevelson, anche un piccolo affondo sull’arte italiana. Parlandomi del progetto che ha intrapreso attraverso la Fondazione e le gallerie, mi ha raccontato quanto per lui sia importante connettere attraverso la ricerca dello spazio, della materia e dell’esperienza visiva tre universi differenti tra loro per geografia, cultura e politica tre mondi che spesso si sono cercati e incontrati: l’America Latina, gli Stati Uniti e l’Europa. Da sempre abituato a vivere a cavallo tra questi scenari, Piero ha raccolto per questa occasione opere di autori italiani diversissimi tra loro, che però messi insieme possono permettere di ricostruire alcune delle dinamiche che hanno interessato l’arte della penisola a partire dal secondo dopoguerra. Questi percorsi visivi, così profondamente differenti, offrono un interessante contraltare agli altri progetti di questo ciclo espositivo della galleria: lo spazio, il grande protagonista delle indagini proposte, racconta infatti in queste tre mostre alcune tra le sue infinite e più straordinarie possibilità. Il punto d’origine di Abbandoniamo l’arte conosciuta è senz’altro la temperie del secondo dopoguerra italiano: una cesura netta quella prodotta dal conflitto, in Italia come altrove. Le proporzioni, le distanze, le azioni, le strategie e gli interventi si sono allargate fino a raggiungere interessi impensabili, dilatando geografie e contatti, espandendo il campo d’azione e le sue modalità. Nulla è stato più come prima, e anche se questa non è certo la sede per approfondire la complessità dell’impatto generato da quegli scontri sulla cultura e sulla società nel mondo, senz’altro è evidente che oltre al fattore umano drammaticamente emerso, la guerra ha completamente cambiato la concezione e la rappresentazione dello spazio. L’ambiente - distrutto e divelto dalla morte - e lo sguardo umano - profondamente provato da stermini e attentati alla dignità - si uniscono in un’unica visione e danno vita a quel panorama trasversale che è l’informale. Le Spirali di Roberto Crippa (1921-1972) ad esempio, si pongono all’interno di questo tracciato raccontando un universo fatto di continui movimenti, in cui il segno agita la superficie di circuiti ellittici: alcune macchie di colore, come nell’opera in mostra, e un continuo aggrovigliarsi di strutture che sfondano lo spazio sono gli assoluti di un codice linguistico destinato a svilupparsi negli anni successivi, confermando, pur nel cambiamento, l’idea di una pittura concentrata sul concetto di evoluzione. Siamo del resto nel 1951, l’anno del Manifesto tecnico dello Spazialismo di Lucio Fontana (1899 – 1968), a cui anche Crippa aveva aderito: “Abbandoniamo la pratica delle forme di arte conosciuta – dice Fontana in un intervento alla Triennale di Milano1 - e abbordiamo lo sviluppo di un’arte basata sull’unità del tempo e dello spazio… Concepiamo l’arte come una somma di elementi fisici, colore, suono, movimento, tempo, spazio, concependo un’unità fisico-psichica, colore l’elemento dello spazio, suono l’elemento del tempo, e il movimento che si sviluppa nel tempo e nello spazio. Sono le forme fondamentali dell’arte spaziale.” 1 Intervento di Lucio Fontana nel convegno della Triennale di Milano, 1951, in Lucio Fontana, Manifesti Scritti Interviste, a cura di Angela Sanna, ABSCONDITA, Milano, 2015, p. 47).
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