Fannj Tomasi da Nogarol
Poesie
PREFAZIONE L’argilla della fornace, il mare della pineta, l’immensità del cielo, sono i tre elementi fondamentali della poesia di mia madre. L’invincibile nostalgia della terra natale è la sorgente d’ispirazione che, già negli anni ’60, la portava a pubblicare versi dialettali su note riviste edite a Roma. Fanny Tomasi dipinge soggetti umani tratti dalla gente del suo Pedemonte, la zona collinosa tra la pianura della Marca Trevigiana e il dominio delle Dolomiti. Parrebbero personaggi deformati dal grottesco, sono invece popolani veneti colti nella cruda realtà quotidiana. In chi non voleva emigrare, l’umorismo delle colorite espressioni in trevigiano nasconde una sottile forma di saggezza, sorta di astrazione che consentiva di affrontare con distacco la rassegnazione di convivere con una collina immiserita ed emarginata. Dai ricordi dell’infanzia a Tarzo prendono vita: Bepo Bridot, che calcava la strada per i laghi di Revine pensando ai suoi molti figli da sfamare; Jio Hoffia, perseguitato dall’idea che qualcuno s’impadronisse del suo cunicio di razza; Piero il campanaro, con la sua moglie chiacchierona che tabaccava ogni momento; il padre padrone Barba Min ed Ernesto Andreon, il burlone sordo e gozzuto. Una gioventù tormentata abita quell’angolo chiuso, dimentico, ove dalla solitudine sorgono le ombre di macabri sacrifici. Il timido Florian, Marietto e Barocce, si trasformano in aguzzini e nel verde della baita impiccano un cane, reo di abbaiare ostinato alla luna. L’orfano Barocce, dai grandi occhi azzurri, imparerà poi a suonare la fisarmonica per le balere e anche lui riuscirà ad aprirsi una strada nella vita. C’è infine Fiorina, l’amica di gioventù, che passa le giornate a compatirsi mentre sciacqua alla fontana: "Ah! Povera mi, mi poaretta". La fornace di Conegliano fu il frutto di quella pionieristica imprenditoria locale che permise a tante braccia compaesane di evitare la dolorosa via dell’emigrazione. Fu tradizione dei Tomasi risalente all’avo che dalla cima della collina osservava a perdita d’occhio i possedimenti e, come un signorotto medievale, amava percorrerli frustando i suoi cavalli bianchi. Due leoni di terracotta vegliavano dalle colonne il cancello della fornace, riposando nel vigore di antenati vincitori come nel verde intrico della foresta. Quale legame più forte può esistere con la propria terra di chi letteralmente "vive di essa", dell’argilla che il fuoco sotterraneo, nume tutelare, trasforma col calore dei forni in rossi mattoni? C’era tutto un popolo che brulicava intorno ai riti della cottura: dapprima, nell’affaccendato trasmettere di forze, mani che colmavano e accostavano carrelli; poi, con le danze caserecce del Dopolavoro o nella festa del patrono, che diventava occasione ufficiale per discutere i problemi della fornace. Ma Fanny Tomasi va oltre, fa dell’argilla assetata l’archetipo che ha in sé la durezza della vita, la radice della
corporeità, il pugno di terra che riavrà la polvere dei nostri giorni… brace, terra impastata e arida che si fessura come labbra secche di febbre. Abbracciata infine dal sole e fruttifica di messi, la terra ecco partecipa gioiosa a sancire nella musica e nel colore della vita l’unione inscindibile di materia e forma. Così la poetessa riesce a sorreggersi sull’abisso, a ripercorrere le generazioni nell’eco dei secoli fino a unirsi alla terra madre che giganteggia solenne nel cristallo dei suoi monti. Sforziamoci di immaginare l’arrivo di Fanny a Lignano, decisa a costruire per prima un albergo in mezzo ad un mare di pini. Cerchiamo di evocare il silenzio delle sue notti nell’incanto della pineta. Abbandoniamo per un attimo quella sensazione convulsa e caotica, rumori della strada e movimento di turisti, che normalmente associamo ad una località balneare oggi rinomata. Pensiamo alla pace di un albergo circondato da una natura mediterranea incontaminata, alla macchia di ginepri e more selvatiche ove dormono tranquille le testuggini e le vipere vanno a nascondersi nelle tane. Là fra gli alberi, i lampioncini volanti delle lucciole si accendono e spengono in festa, vagando come le stelle nel mare dello spazio. Avvolta in questi profondi silenzi, Fanny è attenta a cogliere il fruscio dei pioppi, il rumore dei passi nel buio; finché il vento scatena il ritmo delle imposte socchiuse, i pini si trasformano in violini e lo sciacquio dell’acqua accompagna una sinfonia notturna. Il mattino dopo, gocce lucenti stillano dagli aghi dei rami e le cortecce trasudano vapori. In spiaggia i bambini rincorrono l’aquilone tra le dune fiorite ed il sole fugge nell’acqua disegnando arabeschi e scintillii di meduse sospese. Così, al richiamo di Zimmer frei, i turisti tedeschi iniziarono ben presto ad approdare nel giardino dell’Hotel Eurovil, l’isola verde dove frau Faféro li accoglieva con calore e gentilezza. E alcuni di loro tornarono anche per dieci anni nella stessa camera, stesso balcone che dava sul cespuglio di dalie, stessa sabbia fina e dorata che tante spiagge d’Europa ci invidiano. La pineta è la dimora della tortora. Tra la pigna che cade secca e la rosa dai petali sanguigni, la tortora prega, canta, lamenta. Ha un collarino nero che spicca sul piumaggio grigio ed è originaria dell’Oriente. Uccello mite, monogamo, sempre dedito alla cura dei piccoli, che la becchettano sul collo per ricevere il latte del gozzo. Sverna, ma a primavera torna su queste punte tenere a costruire il nido. Nelle sue abitudini migratorie ed in quell’insistente tubare, Fanny si riconosce fino all’immedesimazione. I critici dicevano di mia madre che aveva uno stile conciso, trasparente acuto, che rivelava un’anima preparata, equilibrata, aperta ai misteri eletti della Poesia. La nobiltà dei suoi versi è in vero filosofia della Natura, ma la filosofia più alta, la nòesis che è coglimento immediato, diretto e puro, attraverso l’identificazione. Usando la sua frusta al miele, lei ci desta alla consapevolezza del legame inscindibile tra la luce e l’essenza del cielo. Così è nella luminosità che inonda le chiome di betulle piegate dal vento, così nelle novelle di luce narrate dall’azzurro dopo
la pioggia, nel candore di cavalli bianchi che galoppano al chiarore dell’alba. Anelando la libertà da ogni vincolo, ella si scioglie nel sapore di un inno: "Vorrei essere d’aria luminosa per avvolgere il mondo intero in un abbraccio d’amore". Se un giorno dovesse accadervi di tornare a calcare la sabbia della pineta, prestate attenzione al cru cru della tortora: è Fanny che vi saluta dal suo cielo sereno. Il figlio Piero
L’infanzia a Tarzo
LE FOCACCE DI PASQUA Già la rondine terminato aveva il nido sotto il cornicione e l’aria odorava di focacce: gialle per le uova aspettavano rigonfie l’ultima operazione raccolte intorno al fuoco. La punta della forbice tagliava in petali di rosa e la penna di coda di gallo le lucidava con la chiara d’uovo. Le donne arrossate il volto e le mani sfornavano e infornavano le focacce che indugiavano pel turno, e scottanti come brace le ponevano nei cesti foderati.
Pubblicata: LA BOTTE E IL VIOLINO Rivista diretta da Leonardo Sinisgalli – Roma 1966
BEPO BRIDOT Era oramai comune a Bepo Bridot la strada per Revine percorsa di notte quando appena poteva misurare al chiarore il passo. Allora il nascituro premeva per le doglie. Gli veniva naturale di pensare ai suoi molti figli, uno all’anno ne nasceva e soggiungeva fra sé e sé: Un altro fiol, un altro fiol, Santa Maria, oh ben, ben intant la magna soppa.
Pubblicata: LA BOTTE E IL VIOLINO – Roma 1966
JIO HOFFIA Jio Hoffia aveva la forbice che gli ricordava mille e mille pecore denudate, montagne bianche di lana e un coniglio di razza dal quale tutti desideravano avere eredi. Ma dopo aver spiegato al cliente il trattamento dovuto e questi soddisfatto se ne partiva con il coniglio stretto nel sacco, ingigantiva l’idea che della gente non bisognava fidarsi troppo e correva a lui dietro gridando: <L’è mio il cunicio, il cunicio l’è mio!> e richiudeva il magnifico esemplare a sgranare occhi dall’alto dello stavolo. Andava allora per i prati suoi
e più su sotto i castagni, urlava sempre del coniglio che era suo e glielo volevano portare via, finché al dolore si univa il silenzioso aspettare della moglie.
Pubblicata: LA BOTTE E IL VIOLINO – Roma 1966
PIERO Piero era sempre puntuale alle cinque del mattino l’estate come l’inverno quando era fredda anche la maglia più pesante. Forte il passo negli scarponi. La lanterna nella mano vacillava con i muri delle case, su per la scalinata fino al campanile con la toppa già vecchia pel chiudere e l’aprire con quella chiave lunga da campanile. La scala a chiocciola scricchiolava fino all’orologio da caricare. Suonava la campana. Nel risveglio si accendevano lumini di vita nel buio. Destarsi era al lavoro
nel campo o alla fornace. Al doppio della vigilia aiutava pure la Giustina, una campana suonava lâ&#x20AC;&#x2122;altra batteva anche il botto. Si fermava lei un poco a tabaccare lasciando la corda salire e scendere a suo piacere. Piero allora prendeva a sbraitare, volavano parole e parolacce al suono delle campane. Una volta allâ&#x20AC;&#x2122;anno andavano di casa in casa a riscuotere la paga in vino, patate e tutto quello che dona il campo, finchĂŠ il carretto stentava nelle salite o correva troppo nelle discese e la Giustina sempre parlava, diceva che nessuno meglio di loro sapeva fare il campanaro
e frugava nel petto gi첫 per la scollatura a trovare la scatola del tabacco per tabaccare ancora.
IL BARBA MIN Nel cortile, l’albero di noci aveva una panca che lo circondava. Vecchia la panca, vecchio il noce, vecchio l’uomo che sedeva a contemplare l’ombra che si spostava col sole. Non trovo i pensieri di quella mente. Stava lì solo, senza la moglie, senza le figlie, sempre operose. Nel focolare nero di fuliggine un grillo aveva preso dimora e con profusione scioglieva il suo cri, cri fino a celare il timore per il padre. Ogni tanto un pianto sfrenato di ragazza stizzita passava sotto la sferza o eccedeva nello sfogo la voce mascolina come nell’orchestra si alternano gli strumenti.
Poi un silenzio forzato con lâ&#x20AC;&#x2122;ultima parola del padrone che era lui il Barba Min.
ERNESTO ANDREON Ernesto Andreon aveva sempre il volto sorridente, il collo rigonfio per la tiroide ingrossata. Il passar del tempo gli aggiunse altri disturbi, diventò anche sordo. A lungo aveva sentito parlare la gente ora immaginava il loro dire, ad ogni occasione indovinava le risposte. Un giorno stava lavorando tranquillo il campo e così rispose ad un amico: <Eih, compare bongiorno>. <Sì, son qua che are>. <Ma setu anca sordo?> <Eh sì, semene l’orzo>.
FLORIAN Florian era uno dei tanti figli di Bepo Bridot. Timido com’era diceva sempre di sì. Assieme a Barocce e a Marietto teneva curato l’orto, il campo in cima, la cantina. Rinnovavano l’acqua alla pompa nei secchi che portavano nel secchiaio appesi in fila tra le pareti coperte di pentole di rame. Bisticciavano tra di loro ma in casa zittivano sempre pronti alla voce di zio Paolo che alta comandava e di loro si sentiva solo lo zoccolar dietro.
Florian non aveva morosa e se qualcuno gli chiedeva: <Allora Florian non ti sposi?> <Eh sì, – rispondeva – se la cate sì eh!>
LA SERA ABBAIA IL CANE La sera abbaia il cane al sentore di tempesta lontana. Braccia protende il cedro al palpitar di luci. Il chiasso risuona altrove. Quest’angolo è chiuso, dimentico. Qui il giorno muore dietro le mura. Qui stride lo spirito e scrolla noie che la notte annulla nell’anima silenziosa di quest’angolo solitario.
BAROCCE, FLORIAN E MARIETTO Barocce, Florian e Marietto, un giorno votarono morte al cane bastardo: ululava di rabbia alla luna. Arrotolata una lunga corda, si avviarono alla Valonera ed il cane dietro come sempre faceva. il cielo era cupo, presago di tempesta. Un capo della corda strisciava saltellando a terra. Ondeggiavano i rami dei gelsi, lâ&#x20AC;&#x2122;erbe piegavano ai margini delle siepi. Giunti alla baita della Valonera presero il cane con le carezze, gli passarono il laccio al collo, tesero e tirarono la corda
da albero ad albero. Il cane moriva dimenandosi con la lingua lunga a penzoloni. Da sopra la collina piovvero goccioloni a bagnare la lenta agonia del cane impiccato tra il verde dellâ&#x20AC;&#x2122;erbe rigogliose.
BAROCCE Barocce aveva grandi occhi azzurri velati di tristezza. Pensava e vedeva sempre qualcosa di più importante di quello che faceva. Era venuto da noi piccolo e orfano. Spesso mutava la tristezza in pianto per l’esser nato così solo. Ma con i risparmi si comprò la fisarmonica ed una nuova speranza trasparì da quelle note tormentate. Si fece bravo a suonare la sera nelle balere e piano piano prese il volo con tanti progetti in testa e la forza della solitudine lo aiutò ad aprirsi una strada nella vita.
ILARIO Il vino sfumava ad Ilario nella mente svagata con le serenate al grillo, al firmamento ed alla primavera baciata dal sole. Diceva: <Il grillo l’è piccenin sempre contento, sensa pensieri. Povera la Graziosa, l’è morto il marito mi ghe voi ben povera piccenina: un baso te voi dar>. <Ma va là – rispondeva lei –, dallo al Signor>. <L’Agnese la è una brava femmenetta, mi ghe voi ben ma no la spose mia>. Faceva a volte ceste di vimini che vendeva di casa in casa e sempre raccontava, mentre frugava nelle tasche il residuo di tabacco, che i padroni erano gente infame
mangiavano la carne e a lui lasciavano le ossa come ad un cane. Con due soldi andava da Ferruccio che gli brontolava: <Se tutti i clienti i fosse cossĂŹ, due alfa e nâ&#x20AC;&#x2122;ombra de vin!> Furtivo era il suo andare per le vie illuminate solamente dalla luce riflessa di qualche finestra e nella piazza trovava balenii di ombre vaganti con la sola lampada accesa ed il buttare a singhiozzo della fontana che lo rassicurava:<Non sei solo nel freddo gelido di sasso>. Quasi sempre un fienile lo accoglieva meglio del letto dove pensava e ripensava
che sfortunato proprio lo era da quando quella morosa lo aveva lasciato.
LA FIORINA La Fiorina ogni momento sciacquava e zoccolava alla fontana e sempre brontolava contro lo zio Bortol che <L’ha lassà la terra a me sorela che no l’ha gnanca un fiol>. E sempre si commiserava: <Ah! Povera mi, mi poaretta>.
IL CAVALLO BIANCO Marietto accudiva al nonno e al cavallo bianco. Dormiva nella stanza del nonno e striava e nutriva il cavallo: tutti e due sentivano gli acciacchi della vecchiaia. Ogni giorno attaccava il cavallo alla carrozza l’inverno o al sarret l’estate. La meta era una passeggiata che fingeva la necessità: al mercato, alla fornace, dai contadini e quasi sempre qualcuno approfittava di un passaggio. Spesso era Bepo Bridot che lasciava parlare il nonno e ribatteva col variare del discorso: <Eh sì, paron Giovanni, avè rason, avè rason paron Giovanni,
o bempo, bempo, sippo, sippo>. Guai a Marietto se approfittava del parlare per frustare il cavallo che trotterellando frenava nelle discese. Questi anni passarono veloce fra brevi malattie del cavallo, la salute precaria del nonno, le passeggiate tranquille ed il ricordare il tempo passato. Finché un giorno pronto era il cavallo di buon mattino e lassù dalla finestra della stanza da letto il nonno diede l’ultimo sguardo al suo compagno fedele. Lo spogliava Marietto piangente, ma d’improvviso impazientì e nitrì a lungo a lungo nella stalla.
Marietto magro e pallido ritornò alla sua casa nel borgo piÚ povero e buio, dove non entrava mai il sole dalle finestre che avevano cartone al posto del vetro.
‘15-‘18: I FIGLI NON TORNANO PIU’ I soldati sui monti vanno a giocare alla morte e piangono d’amore nelle notti di luna. Scendono il mattino carichi di armi e di freddo in fila per due con i muli; vissuti come cervi cacciati a dormire lontano dalla tana. LA NONNA ANNA La nonna Anna sedeva alla finestra dall’inferriata. Inforcati gli occhiali indugiava un poco col filo tra le dita e la cruna dell’ago poi cuciva ricurva e nel silenzio dorato di quella casa
dai pavimenti di rosso mattone si sentiva un bisbigliare continuo. L’udivano le sedie di paglia, quel mazzo di dalie variopinte che occhieggiavano con i piatti fioriti in mostra sopra la credenza. Nella preghiera soccorreva tante pene, tanti figli, tutti cresciuti ma ad uno ad uno se n’erano partiti per non tornare più lasciando quella vecchietta in preghiera. All’imbrunire arrivava a volte la Giustina, così si attardava a chiacchierare e beveva d’un fiato una grossa scodella di vino
e gonfiava lo stomaco per riprendere a parlare di tutte le sue pene e a dire che il vino le piaceva ma ne beveva assai poco. Il nonno Domenico seduto dietro il giornale rimaneva come una statua dietro un paravento poi ad un tratto si sentiva un frusciare come di carta da buttare e appariva alto con i lunghi baffi bianchi. La donna che ciarlava capiva il momento e se ne andava.
TARZO, PRIMAVERA 1968 Inquiete nubi filtrano raggi. Viti annose spuntano sul prato. Gli ippocastani così giganti premono il cielo con cupole, testimoni di una terra prodiga. Il cipresso allora non radicò per attirare auspici di fecondità. Terra, nessuno più ti ridesta.
La fornace dei Tomasi
A MIO PADRE La fonte gorgogliava e il canto coniava suoni e carrelli dâ&#x20AC;&#x2122;argilla. La rana sonnecchiava nei canneti, frizzanti allâ&#x20AC;&#x2122;aria, uggiosi al vento. Le mani colmavano, accostavano vuoti. Egli andava oltre tra lâ&#x20AC;&#x2122;affaccendato trasmettere di forze. Il fochista tutelava il fuoco sotterraneo con poetiche immagini, mentre i leoni, riposando nel vigore di antenati vincitori, vegliavano la notte, sicuri, come nel verde intricato della foresta.
UN VALOROSO CAVALIERE Le betulle intingono i rami nel sole e ammaliano i cipressi di riflessi di luce. La gioia è canto d’amore di occhi che vedono di pelle che respira. L’entusiasmo è di un valoroso cavaliere che cerca il tuo volere e il tuo grido nel suo cuore. Ti prego giorno e notte per il mio popolo lascivo e stanco.
IN RIVA AI LAGHI I FORNI Sulle labbra dei vecci affioravano poche parole di cose lontane. Cavalli bianchi galoppavano per le strade al timore della frusta che sâ&#x20AC;&#x2122;allunga. Quella valle era sua fin dove e oltre lâ&#x20AC;&#x2122;occhio spaziava. Dalla strada che correva nel piano fiancheggiata dal sambuco, da mura e fontane limpide fino alle cime delle colline dove fluttuavano i castagni battuti dal vento e oltre, dove la strada scende tortuosa fino alla valle dei laghi
dove i paesi sono legati uno allâ&#x20AC;&#x2122;altro dal nastro bianco di strada. In riva ai laghi i forni in continuazione fumavano come un accampamento di pionieri. Infornavano e sfornavano i mattoni fatti a mano, che si potevano contare per fila moltiplicando le file. La mia fantasia non sa non può creare un personaggio dando un nome vero ed un volto falso a quel ritratto forte. Aveva cavalli bianchi e navi in porto, voleva far marciare la vita al suo comando. Tutti lo temevano come quello stallaro
che allâ&#x20AC;&#x2122;alba lo incontrava per le scale lungo e pallido, vestito di bianco come unâ&#x20AC;&#x2122;anima in pena.
IL DOPOLAVORO Il Dopolavoro risuonava la sera con le fisarmoniche di musica da ballo. Le madri troneggiavano accanto alle figlie sulle sedie che si erano portate da casa. Le coppie volteggiavano e al finir del ballo, i cavalieri rimanevano con l’inchino come figurini all’ultima mossa. La gente s’accalcava sempre più, ma all’improvviso, prima della mezzanotte i suonatori facevano fagotto. Il nonno arrivava perché se n’andassero, il figlio li ringraziava a piene mani: soddisfatti assicuravano che sarebbero volentieri ritornati.
MOTORI NUOVI ALLA FORNACE Il 19 marzo l’aria era in festa con le ragazze all’indossar il vestito nuovo. Le campane inondavano le case con il primo tepido sole per richiamare tutti su alla chiesetta mentre il coro schietto, senza musica, via via si gonfiava. Gli uomini prendevano posto vicino all’altare, le bambine sui gradini dietro le colonne come fiori sbocciati tra i nastri e le ragazze tra le panche, infine le donne tra i banchi e in piedi era gran gente fino a dilungarsi oltre la porta. L’incenso impallidiva i volti e la predica portava in esempio S. Giuseppe sottomesso e pio al volere di Dio.
A S. Giuseppe era caro il paese intero per quelle opere semplici che portano al desco i frutti della terra. Lâ&#x20AC;&#x2122;Arciprete vestito di porpora dava alla cerimonia la preziositĂ di una volta allâ&#x20AC;&#x2122;anno, poi se ne andava col frusciare della tonaca oltre le bancarelle con i bimbi che lo precedevano e seguivano a rincorsa per fargli festa, fino al portone grande di ferro. Al suo richiudere era un accorrere di donne. Tutto era pronto per la prima colazione. Sedeva assieme al nonno tra i figli. Poi andava a visitare gli ammalati che avevano lenzuola fresche di bucato. Per ultima visitava la nonna Anna che aveva giĂ messo sul fuoco le cocome chiacchierine
e prendeva le tazzine alte infiorate e nel caffè versava un poco di grappa anche se il prete diceva di no. Alle tredici, dalle sedie intorno il lungo tavolo si poteva dedurre il numero delle persone. Dopo che l’Arciprete aveva ringraziato Dio per la sua benignità, e per la festa propizia, era un continuo passare di vivande sulle braccia rotonde delle ragazze. Era l’assaggio dei vini biondi e rossi a porre i pregi della terra. Nei motori nuovi alla fornace era il resoconto di tutta la produzione. Mai che si parlasse della fontana della piazza che buttava a singhiozzo cosicché le donne si attardavano con i secchi pel turno e le mucche pure.
ERA UN BRIVIDO Lâ&#x20AC;&#x2122;ESSER VIVI La sera dei morti la campana batteva il botto e gli alberi si spogliavano al vento del rosso fogliame. I vecchi battevano la pipa sul palmo della mano mentre gli occhi seguivano le faville su per la cappa nera. Insistente era il tocco da riunire le famiglie a recitare il rosario intorno al fuoco. Il nulla dilagava al tacere della vita. Alberi ombreggiavano di forme giganti le case strette tra loro. Era un brivido lâ&#x20AC;&#x2122;esser vivi, non sentire battere
la pioggia sulla pietra o gocciolare l’acqua che filtra. Il tempo dei morti era fugace col non voler pensare che ci aspettano tra quei nomi in fila con le date in rilievo e già le castagne annerite dal fuoco si sposavano al vino, per distrarre le visioni che rivivono con l’evaporare delle fiammelle e l’acre alito dei crisantemi.
L’ARGILLA ASSETATA La vita è dura come l’argilla assetata. Un pianto è negli occhi di solitudine. Sono lontani i giorni felici oltre quel limite lontani come in un altro mondo. Pubblicata: PITTURA E POESIA – Ed. Convivio Letterario Milano 1968
LA TERRA HA NEL CORPO RADICE La terra ha nel corpo radice che lega la vita alle passioni col deformare della materia, i pensieri nel cambiare l’umore e la forma. Puoi sentire il fruscio che sente l’albero tra le fronde al passare dell’aria tra i capelli, il distendere dell’acqua nelle conche fino all’orlo, la terra impastata e arida che spacca alla superficie come labbra secche di febbre. La bellezza del cardo in veste di cielo, la sorpresa della serpe al mutare della pelle. Di un pugno di terra siamo fatti come dove nasce un fiore che dà profumo a terra di biancospino o di crepacci aridi. Lo staccarsi è dolore come di linfa
che scorre dal ramo che lâ&#x20AC;&#x2122;uomo recide o urlo di pianticella che tempesta svelle dal suolo e maltratta.
COME BRACE Nelle corolle il sole svela alveoli dâ&#x20AC;&#x2122;amore. La terra come brace si arrovella al gioco di luci che mi ridesta ai primi giorni di questa vita. Riposo nel suo grembo, bimbo incosciente, conto le dita e rompo il silenzio di suoni confusi. Una volta vorrei amare come tu ami questo nostro vivere. Silenziosa cade una piuma nellâ&#x20AC;&#x2122;aria,
le api cercano il miele nel prato. La vita palpita alla luce del giorno che lentamente ci attira alla notte del suo cammino. La terra riavrà la polvere dei miei giorni. Sarò nel silenzio come il figlio nel pensiero della madre, cercherò ancora la tua luce e tutto di me che già conosci.
MATERIA E FORMA Il sorgere del sole abbraccia la terra, piega mani al lavoro, conta i passi, lucida la pelle, fruttifica di messi la terra. Sole e vita ti chiedo per l’immensità di questi giorni che sento passare staccati da me come due cose nell’andare e invece sono l’uno all’altro immedesimati come il sole dove posa, come la fronda e l’ombra al vecchio muro mormorante. Calore e luce si liquefa all’aria, musica di colore e vita, unione di materia e forma.
I MONTI DELLâ&#x20AC;&#x2122;ABISSO Sorgono venti gelidi in aureole ai monti. Sento gli uccelli cantare un canto di ieri. I monti rugosi alla neve visti da sempre. Vorrei sorreggermi allâ&#x20AC;&#x2122;abisso, profonda eco di secoli e generazioni che riaffiorano al cordone ombelicale di madre in madre unendoci a Gea.
DAL PICCO DEL FALORIA Dal picco del Faloria si affaccia il sole su Cortina, ride sulla neve in manciate di brillanti. Fino a sera, quando arrossa il Cristallo e lentamente va spegnendosi sui cirri e sul bianco della roccia.
I CORVI Un punto nero nellâ&#x20AC;&#x2122;immenso biancore lacera il silenzio, sale e torna nel soffio vellutato di bianco. Neri come scorze dâ&#x20AC;&#x2122;alberi i corvi salgono e tornano tra il cadere fitto della neve.
LA MIA TERRA S’IMBEVE La mia terra s’imbeve del chiarore di neve. Turbinava in fiocchi ad appiccicare i vetri la neve che si appiattiva soffice e compatta sotto gli scarponi. Non c’erano pini ad offrire larghe braccia solo rami spogli: il melo, il pero, il fico, le viti ricurve tra i gelsi, erano siepi spinose, rovi dove la neve poco riposa. Nel silenzio tra il felpato incedere dei gatti, tra l’abbaiare dei cani senza risuono ed il fumare confuso dei camini, il chiarore della neve
era freddo dellâ&#x20AC;&#x2122;inverno da sciogliere al fuoco.
Lignano Pineta
LA NOTTE E’ SILENZIOSA La notte è silenziosa, ma tra i pini e le pioppe ferve un fruscio che assorda l’aria e fugge dal verde incantato della pineta. Il vento leviga l’arena e le transenne battono un ritmo folle. Le luci si schiantano contro il frastuono del mare. Il nostro respiro riempie le distanze, il tempo. La gioia è fresca come l’acqua che nello sciacquio si rinnova e ripete il suo canto.
LE LUCCIOLE NELLA PINETA Le lucciole nella pineta sono vestite di luce e di blu. Sono dieci, sono cento, tutte vestite di luce, di blu. Lampioncini volanti accendono e spengono luce e colore. Sono venute dai prati di notti stellate. Nel buio tra gli alberi sono una festa di luce e di blu.
SINFONIA NOTTURNA Il mare cuna la terra sospesa sul perno rotante. Noi due su questo pianeta illuminati dalla luce lunare, vaghiamo come stelle il mare dello spazio, ascoltiamo lâ&#x20AC;&#x2122;ordine delle cose, il loro linguaggio notturno. Il mare accorda sciacquii sulla piana solitudine di profondi abissi. Non siamo soli, viene il suono di un frusciare, che ci trascina in questa sinfonia notturna. Cerchiamo violini tra i pini, il tamburo è la terra sui nostri passi, gli archi sono sulla riva,
stelle volteggiano nel cielo, la luna segue con i riflettori noi due, gli spettatori.
IL NUMERO DELLE STELLE Se appoggio la testa sul tuo petto scopro il numero delle stelle, le distanze anni luce, il fragore delle meteore, lâ&#x20AC;&#x2122;incanto dei cieli aperti. Le ore sono minuti. Mentre vivo del tuo respiro ho nella mente i miei giorni come la quercia le foglie contate dallo stormire del vento, i limiti si aprono per racchiudere il tutto.
LE TEMPESTE NOTTURNE Le tempeste notturne donano al mattino la quiete in spazi di luce sul mare, la brezza che spiega bandiere sopra le rotonde. Lucenti gocce che stillano dagli aghi dei pini e cortecce che trasudano vapori. Le erbe intrecciano senza posa voglie terrene. Le mie api cercano i tuoi fiori.
L’ISOLA VERDE Il giorno ha suoni portati dal vento con la freschezza del mattino. Cerco un riparo ai minuti, alle ore. Vorrei riposare nell’isola verde dei tuoi occhi. La pineta freme nel donarsi al gioco dell’aria.
IL CRU CRU DELLA TORTORA Nel verde tra gli alberi ritrovo come le tortore il nido di una stagione. Svernano, ma a primavera tornano su queste punte tenere. Il cru cru della tortora oggi è il mio lamento. La pigna cade secca. Arride la rosa nel sangue dei petali mentre la tortora prega, canta, lamenta. Il ramarro quatto, quatto respira l’ombra d’un trifoglio. Il silenzio qui è più alto dei rumori della strada.
LA MIMOSA GIAâ&#x20AC;&#x2122; DESTA Nel coro dei passeri insiste un fringuello nel limare col canto, lima come legnaiolo al tronco centenario, taglia il placido volo delle colombe, scrolla di scintille la mimosa giĂ desta. Queste cose mettono lâ&#x20AC;&#x2122;ali e se ne vanno non so dove.
SETTEMBRE A PINETA Dorato sei ancora e di foglie foglioso, col battere d’ali di tortore amiche fra le punte dei pini, tenere d’aghi luminosi. Le aspidi crepolano col diramar fra le spine di more che nereggiano all’ombra dei cespugli con le bacche settembrine. Di colori s’intricano i rampicanti tra le acacie. Voglioso sei col riposar d’arie quiete sull’erbe copiose di semenze in ciuffi dilungate tra le eriche stoppose.
Nel miele giĂ arso si cullano i fiori piumati, col respirar dâ&#x20AC;&#x2122;ali sontuose e il punzecchiar di vespe che imperano nel ronzio, che addormenta il giorno sotto lâ&#x20AC;&#x2122;ali pietose delle tortore amiche.
IL GIOCO DEL MARE Il mare di settembre è incantato, gioioso e terso. I bambini frenano aquiloni che salpano il mare, costruiscono castelli di sabbia, incantati convegni di tartarughe e sirene in vasche d’acqua salata. Il gioco del mare nell’estremo lambire è un riflesso di luce che arde e si trasforma con l’onda che viene e quella che va.
SCINTILLIO NELL’ACQUA Soffusi cielo e mare. Scintillii di meduse, sospesi nell’acqua ondulata. Ombre tremolanti di alti palazzi che evaporano. Rombare di motori lontani col vociare sotto gli ombrelloni e lungo la riva. Ti inseguo o sole dorato che fuggi nell’acqua mentre fai gli arabeschi.
LA CONCHIGLIA La conchiglia ha suoni e venti nascosti nelle pieghe del tempo. Suoni incompiuti spazi profondi parole lievi. Il velo è teso su trasparenze di cose e profili. Al di là l’orecchio cerca e non trova. Il canto verrà.
L’OSTRICA Come un’ostrica in fondo al mare si apre e gorgoglia solo quando ha fame e poi si richiude in sé ben nutrita, sono un’egoista.
LAMBITA DAL NOSTRO MARE Spirando il libeccio pel cielo lanoso porta all’occhio assolata la Dalmazia del nostro sole, lambita dal nostro mare. Ora dov’è il confine segnano di notte i pescatori con le lampare.
I PESCATORI DELLA LAGUNA Le ombre della sera vagano nel porto Cavalli pronti al richiamo della corsa sono i pescherecci attenti al vento che vibra le corde d’acciaio. Non si parte! E’ tempo di bora. Il vento spazza il mare, scompone e ricompone masse d’acqua, danza, impazzisce, sibila e vola finché arriva tra le barche in porto. Qui il grido si tramuta in canto, il vento suona con dita invisibili in una melodia di arpe il linguaggio dell’avventura,
per richiamare i pescatori per i campi aperti del mare e la donna cercherà di ancorare i fili di luce delle lampare, sentirà pulsare i motori, scoprirà la gioia del ritorno nell’allegria del porto e il suo uomo forte più della lontananza e del mare.
L’immensità del cielo
IL VENTO Il vento porta, ammassa, serra, spazza nubi nell’aria. Betulle, gazzelle su gambe affilate, piegano le chiome in veloci sfruscii di luce inondati. Spiana l’erba nel coro strascicante del vento che viene da lidi lontani con novelle di luce su ciò che era della pioggia ieri, domani dell’azzurro che attende ogni cosa rinnovata sotto il sole. Volume: Pittura e poesia. Ed. Convivio letterario – Milano 1966
GIALLO E ROSSO ALL’ALBA L’alba nasce dalle spoglie della notte. Gialli e rossi cespugli gloriano il sole che irrompe con le grida degli uccelli e si disseta di colori. Non fermare il volo dei rondoni a grida, nel cielo il giorno distende veli. Sei una ridda di rondoni. L’occhio ti segue e già torni ed io tendo l’orecchio col salice ricurvo che riceve e trasmette suoni ad acque lontane. Non so che vita è vivere come di rondoni in volo.
UNA DOMENICA A SAN MARCO Passi vanno verso una fonte pura in questo mattino di sole che denuda lâ&#x20AC;&#x2122;aria, sfoglia betulle e delinea limiti.
D’ARIA LUMINOSA Il mattino mi avvolge nel suo accarezzare ogni cosa ed io abbraccio la vita con questo amore che mi fa di pochi pensieri. Gli uccelli volano nella luce del mattino spinti a cercare un seme un ramo un fiore un po’ d’acqua sul coperchio del pozzo ch’io bagno nell’arsura per loro. Vorrei essere d’aria luminosa per avvolgere
il mondo intero in un abbraccio dâ&#x20AC;&#x2122;amore.
Eâ&#x20AC;&#x2122; MERAVIGLIA VIVERE Eâ&#x20AC;&#x2122; meraviglioso vivere quando il sole tiepido disseta come miele le ferite accese e il mio canto non si arresta con lo sguardo.
PROFUMO DI MIELE Amore mi affascini, ali di candore in quest’alba di luce, libellule danzanti nel cielo. Col profumo di miele nell’incavo dell’estate feconda, le labbra disseto alla tua fonte perenne. Per mano andiamo nei giardini della vita, cogli il profumo d’ogni fiore in me, essenza di vita. L’UMORE MIO VARIABILE L’umore mio variabile è fibra elastica del tempo. Si misura e lascia traccia su questo solco d’ansie e detriti
da cui si allargano vie nel magnifico trionfo della vita. Il rinnovarmi è respiro del mio essere.
IL TUO CANTO E’ TORMENTO Il tuo canto è tormento, tristezza ti spinge a disegnare tra le righe. Il lampo spazia il cielo e cade nel nero più cupo. Il cielo non ha stelle. Le finestre illuminate si nutrono della notte. I grilli arano Il silenzio del prato. Sogno non sei verace d’anima libera, come una goccia cade e si frantuma sei imbevuto di cielo or ora di terra.
ALCHIMIA Sfioro le cose senza scoprirle. Guardo senza vedere. Sono priva di ogni misura: un canto senza parole, un grido senza voce. Dov’è l’amore! Odio me stessa e tutte le mie contraddizioni. Amore e gioia vezzose creature, per un sorriso volete una vita intera! Vorrei bruciare l’ingratitudine, l’egoismo tutte le impurità per trovare
anche una sola piccola pepita dâ&#x20AC;&#x2122;oro puro.
SOLE ROSSO Le bionde ispide spighe ondulano nel mare di gioia al sole pi첫 rosso di giugno.
PALLIDA LUNA Logge ricolme dellâ&#x20AC;&#x2122;oro della sera allâ&#x20AC;&#x2122;ombre indifese schiarano dolci asili. Lentamente va spegnendosi la fiaccola accesa, il canto dellâ&#x20AC;&#x2122;umano ascendere ai tuoi cieli. Torna la sera la luna di Venere vassalla quando si tinge di fuoco la magnolia. Ti ho attesa dove confabulano spiriti testimoni della sera, ma la tua luce non riscalda.
NON HA VOLTO DI PERSONE Non ha volto di persone questa via. Le ville affiancate di reti e siepi tra gli alberi hanno balconi chiusi al cielo che le arrossa di tramonto. Lo spaventapasseri nellâ&#x20AC;&#x2122;orto con le gonne lunghe, il cappello che la pioggia inzuppava, che vegliava? Gli uccelli ai suoi piedi garruli sfrecciavano. Nel gioco del tramonto incantata è lâ&#x20AC;&#x2122;aria al palpitare del cielo.
GABBIANI SPIEGANO ALI AL TRAMONTO Il cielo si distende sul mare carico di profonditĂ , striato di colori. Cerco la luce dove posa, cerco ciò che nellâ&#x20AC;&#x2122;anima si allarga come una ferita. Un bimbo si dimentica con le barche a galleggiare mentre i pensieri navigano per cieli e mari luminosi e rincorrono gabbiani senza un grido e una preda.
ANDREA Andrea, la sera, mentre lo spoglio, mostra le braccine rotonde ch’io mi pregio di aver fatte e con parole tutte sue racconta che andrà lassù a giocare a palla con gli angeli. Il sonno dei bimbi è vivere in cielo.
RAFFAELE Raffaele coglieva i fiori nel prato di bianco e azzurro punteggiato e li stringeva nella manina mentre tra le siepi muoveva un fremito di tane nel risveglio. Il sonno poi lo ha rapito col gorgogliare del ruscello tra due gabbie abbandonate.
MA IO NON CI SARO’ Verrà ancora il sole a picchiettare di scintille il mare. L’onde a disegnare sull’arena monti a catena, le vette di schiuma argentate tra le alghe. Ma io non ci sarò e mi duole il lasciarti nel tumultuare incupito come in preghiera, sotto questa cupola di nubi vaganti.
SE NON FOSSI IMMORTALE Se non fossi immortale, ora vorrei morire. Più mi consola ciò che mi circonda. Ed il mio sguardo va all’immensità del cielo, vorrei perdermi lassù, lassù.