Intellettuali italiani del secondo dopoguerra

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Intellettuali Italiani del Secondo Dopoguerra - Impegno, Crisi, Speranza -

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sabato 7 gennaio 2017 - Piero Lucia

“Tempi sconvolti come i nostri, che inclinano a scambiare quello che è particolare di un’età con l’eterno… sollecitano ogni spirito serio e libero, che non sventola a ogni vento del tempo, a ritornare sui principi, a ripigliarne consapevolezza e, saldamente fondato in essi, a combattere” (Thomas Mann, Meerfahrt mit Don Quijole: in Leiden und Grosse der Meister, Berlin, 1935, pp. 251-252, 224-25).

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INDICE PRESENTAZIONE......................................................................................................................... 5 CENNI STORICI SULLA SITUAZIONE POLITICA IN ITALIA NEGLI ANNI 46-60........ 9 LA SCONFITTA DELLA “LEGGE TRUFFA” ......................................................................... 23 IL MOVIMENTO COMUNISTA INTERNAZIONALE ........................................................... 26 LE LOTTE SOCIALI ................................................................................................................. 27 NOTE SULLA POLITICA CULTURALE IN ITALIA DAL 45 AL 60 .................................. 29 BENEDETTO CROCE .............................................................................................................. 51 LA STAGIONE DEL “POLITECNICO” ................................................................................... 72 LA POLEMICA VITTORINI - TOGLIATTI (1945 - 1947) ...................................................... 81 LA FONDAZIONE DI “SOCIETA’” (1945 - 1961)................................................................... 94 I RIFLESSI DELLO ZDANOVISMO IN ITALIA................................................................... 103 IL NEOREALISMO FINO AL 1950 ........................................................................................ 107 IL RAPPORTO CON L’ERMETISMO ................................................................................... 118 LA FUNZIONE DI GRAMSCI - LE “LETTERE” ED I “QUADERNI DEL CARCERE” ...... 120 LA CASA EDITRICE “EINAUDI” - “LA COLLANA VIOLA” ............................................. 131 IL 18 APRILE 1948 – EMILIO SERENI NELLA BATTAGLIA CULTURALE .................... 139 GLI SVILUPPI DELLA SITUAZIONE NEI PRIMI ANNI CINQUANTA ............................ 145 “IL MONDO” DI PANNUNZIO .............................................................................................. 152 ANTONIO BANFI ................................................................................................................... 172 “NORD E SUD” ....................................................................................................................... 180 MARIO ALICATA .................................................................................................................. 184 “CRONACHE MERIDIONALI” ............................................................................................. 190 “OFFICINA” ............................................................................................................................ 202 PIERPAOLO PASOLINI ......................................................................................................... 212 FORTINI E PASOLINI ............................................................................................................ 222 LA MORTE DI STALIN E L’AVVIO DEL LENTO DISGELO. L’EVOLUZIONE DELLE POSIZIONI D’ INTELLETTUALI DI AREA SOCIALISTA. ................................................ 227 IL XX CONGRESSO DEL PCUS - I FATTI D’UNGHERIA - RIFLESSI IN ITALIA. IL DOCUMENTO DEI 101 .......................................................................................................... 240 LA CULTURA FRANCESE DI SINISTRA E L’AVVENTO AL POTERE DI DE GAULLE 270 LA CRITICA AL POPULISMO DI ASOR ROSA IN “SCRITTORI E POPOLO” ................. 275 FRANCO FORTINI E “LA VERIFICA DEI POTERI” ........................................................... 285 IL “CALENDARIO DEL POPOLO” E LA CULTURA POPOLARE.................................. 289 I CONGRESSI PER LA CULTURA POPOLARE ................................................................... 294 IL SECONDO CONGRESSO DELLA CULTURA POPOLARE ........................................... 299 LE MOZIONI APPROVATE NEL SECONDO CONGRESSO DELLA CULTURA POPOLARE ............................................................................................................................. 307 STUDI SULLE TRADIZIONI E LA CULTURA POPOLARE ............................................... 312 ELEVAZIONE CULTURALE DELLE DONNE .................................................................... 313 BIBLIOTECHE POPOLARI.................................................................................................... 314 CULTURA TECNICO-SCIENTIFICA DEI LAVORATORI ................................................. 317 IL CONVEGNO DI BOLOGNA PER LA DIFFUSIONE DELLA CULTURA SCIENTIFICA .................................................................................................................................................. 319 TERZO CONGRESSO DELLA CULTURA POPOLARE ...................................................... 323 LINEE INTERPRETATIVE E RICOSTRUTTIVE SULLA TRATTAZIONE DI ALCUNI DEI PRINCIPALI ARGOMENTI DELLA RIVISTA ..................................................................... 328 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE ...................................................................................... 355 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ........................................................................................... 371 INDICE DEI NOMI .................................................................................................................... 376

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PRESENTAZIONE

Il lavoro si compone di tre parti. Nella prima s’intende ricostruire, per grandi linee, la situazione storico-politica generale dell’Italia dal 1945 al 1960, con un richiamo ai principali avvenimenti di questa fase storica, che hanno a lungo condizionato scelte ed abitudini comportamentali diffondendo un modo di pensare che ha a lungo inciso su una più generale visione del mondo. La seconda parte vuole esaminare, più da vicino, il problema della decisività e dell’originalità della lotta ideale e culturale che è in atto, con frontali contrapposizioni, nello stesso periodo nel nostro paese. Pertanto l’attenzione è concentrata sui molteplici fermenti che, a quel tempo, attraversano anzitutto il PCI che diviene un punto di riferimento obbligato e privilegiato delle positive tensioni che animano gli intellettuali italiani, dei più diversi orientamenti, all’indomani della caduta del fascismo. il PCI è, in questo scorcio di tempo ed in questo periodo storico specifico, l’organizzazione che più è attraversata, nel panorama italiano, dalle sollecitazioni al rinnovamento ed alla riforma “intellettuale e morale” del Paese e che anzi più decisamente e criticamente le sollecita. Esso diviene perciò un punto di riferimento prioritario ed obbligato per la ricerca critica dell’intellettualità italiana democratica ma tale rapporto, come si vedrà, è ben lungi dall’essere lineare, rettilineo ed indolore. Il punto di partenza è la critica al ruolo dell’intellettuale

quale

si

è

storicamente

manifestato

dall’inizio

dell’unificazione nazionale. E’ posto il problema di superare il vecchio rapporto dell’intellettuale con la realtà e la sua pretesa presuntuosa ed arbitraria di porsi come “coscienza critica”, universale e separata. E’ stato il crocianesimo a teorizzare quest’aristocratica separazione ed è perciò esso a venir messo sotto accusa. Si esamina come la posizione del PCI in tema di politica culturale si sviluppi passando spesso anche attraverso difficoltà ed incomprensioni del rapporto che deve esistere tra capacità di direzione del Partito in tema di lotta cul-

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turale e tutela dell’autonomia della ricerca intellettuale. Questo rapporto, di giusta mediazione, come si può vedere dalla trattazione, si oscurerà spesso, risentendo anche della più generale situazione politica mondiale e delle tensioni presenti nel movimento comunista internazionale. Il lavoro d’indagine, data questa premessa, si sviluppa nella direzione di una ricerca di documentazioni e di rilievi specifici con l’utilizzo di riferimenti forniti dalla lettura di parti delle riviste più significative di politica e di cultura che, in quel periodo, cominciano a proliferare, sintomo questo evidente di un diffuso fervore e di una tensione morale d’intensità tale da non essere, poi, più vissuta nella stessa dimensione e nella stessa intensità. Viene in parallelo sviluppata una trattazione, più specifica, di singoli autori ed esperienze che hanno decisamente concorso alla definizione dell’identità specifica del panorama culturale italiano nei decenni seguenti. Alcune parti risulteranno più a fondoindagate, altre nelle quali ci si è dovuri obbligatoriamente limitare a più rapidi tratteggi, scelta questa in genere dovuta alla diversa quantità e tipologia dei materiali che è stato possibile consultare. Queste due parti servono ad introdurre la terza ed ultima, in pratica quella in cui si tratta della ricostruzione di dieci anni di vita del “Calendario del Popolo”, esperienza originale messa in piedi da uomini di cultura e di scienza per portare avanti la lotta per l’innalzamento del livello di conoscenza e di cultura delle masse. L’esperienza sarà condotta in uno stretto rapporto di lavoro e collaborazione con i partiti della sinistra. La scelta di una più diffusa trattazione dei contenuti del “Calendario” è dovuta al fatto che vi troviamo riflesse, in maniera semplice ed essenziale, tutte le principali posizioni del Partito Comunista Italiano, con le loro luci – si veda l’importanza data alla centralità del problema della scienza- ed i paralleli forti limiti ed errori di analisi teorica e d’indicazione politica, immediatamente riscontrabili, oggi, con un oggettivo e distaccato esame. Per quanto riguarda infine la metodologia seguita, c’è da ricordare che ci si è posto il compito di ricostruire, con sufficiente fedeltà, pur con l’ovvia parzialità Pagina 6


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che ciò necessariamente comporta, alcuni aspetti essenziali della situazione storica, politica e culturale italiana dal 1945 al 1960. Questa storia è stata ancora parzialmente indagata nei suoi interni e complessi intrecci. Anche per questo si sono voluti evitare giudizi trancianti che sarebbero potuti risultare arbitrariamente troppo affrettati. Ci si renderà ben conto , procedendo progressivamente nella lettura dell’analisi ricostruttiva ed interpretativa proposta, della consapevole parzialità e, per altri aspetti, dell’approssimazione e provvisorietà delle tesi presentate. Come già è stato accennato ci si è posto l’obiettivo di ritessere una trama d’insieme capace di fornire, per grandi linee generali, più punti e problemi in maniera aperta e problematica.E’ ovvio, perciò, che si tratta di considerare lo scritto,con le varie tesi ed ipotesi di lavoro presentate, nella consapevole coscienza di questa parzialità non definitivamente esaustiva del crogiuolo di problemi abbozzati e non sempre portati a conclusive organiche sintesi che, nel futuro, potranno essere eventualmente riproposti sul piano storiografico e culturale. Si è fatto un fitto richiamo ad una pluralità di fonti consultate, compreso le annate di “ Rinascita” mensile, dal 1944 al 1961. Questo richiamo può concorrere alla più definita ed attendibile conclusione provvisoria del ragionamento proposto, trattandosi, come è noto, di testi di riferimento rilevanti in quanto ricavati dalla principale rivista teorica ufficiale del partito. E’ in essa, infatti, che si può, con sufficiente fedeltà, ricostruire il filo rosso interpretativo delle principali posizioni ufficiali assunte dalla direzione comunista assieme al lavorio, alla tensione, ai passaggi drammatici, alla crisi ed alla ricomposizione, temporaneamente parziale, dei conflitti e delle incomprensioni periodicamente esplosi tra intellettuali e Partito, tra Politica e cultura. Non è proposta una posizione “critica”, neanche però un agnosticismo, ma un tentativo di ricostruzione, un metodo ed un aiuto di lettura. Va detto, per finire, che questa scelta ci sembra giusta poiché non è metodologicamente corretto, nell’indagine dei fatti culturali, fissare una volta per sempre quelle che ci sembrano verità definitive, ma che in realtà non lo sono dovendo essere- al contrario- solo una base di partenza, provvisoria, per ulteriori ricerche, approfondimenti e sperimentazioni. Oltre questo lavoro, quindi, ci sembra giusto un atteggiamento di ricerca che deve necessariamente arricchirsi di nuovi contributi e d’ulteriori futuri interventi d’approfondimento critico. Si sarà fatta un’operazione utile nella misura in cui, almeno in parte, tali sollecitazioni saranno raccolte. Anche nel tumultuoso, complesso e contraddittorio periodo storico attuale non si deve e non si può rinunciare alla sottolineatura del richiamo ad un rinnovato impegno civile, da parte di ognuno, in maniera che il futuro delle nuove generazioni possa essere più sereno e meno gravido Pagina 7


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d’incognite.

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CENNI STORICI SULLA SITUAZIONE POLITICA IN ITALIA NEGLI ANNI 46-60

Iniziando il lavoro di ricerca sull’atteggiamento dei gruppi intellettuali e sulla politica culturale, nell’immediato dopoguerra fino al 1960, bisogna evitare l’errore di pensare che l’indagine possa svilupparsi prescindendo da alcuni centrali e decisivi fatti storici del periodo in esame. Gli avvenimenti di questo arco temporale sono veramente complessi ed intensi. Essi procederanno in uno strettissimo intreccio ed in una forte relazione con processi internazionali che, sviluppandosi, determineranno profonde conseguenze e riflessi nelle varie situazioni nazionali1. Questo processo, di stretta interrelazione tra fatti interni ed internazionali, si verificherà in tutti i paesi sia dell’area capitalistica sia in quella socialista segnando in modo profondo le scelte economiche, politiche, ed anche culturali all’interno di tali paesi2. Tenteremo quindi, se pur sommariamente, di indicare alcune delle tappe fondamentali nello sviluppo politico di quegli anni i cui riflessi hanno segnato profondamente l’assetto statale del mondo contemporaneo almeno fino agli epocali avvenimenti del 1989. La guerra era finita con la sconfitta del nazifascismo grazie alla grande coalizione internazionale che aveva visto l’unità delle forze socialiste (prima tra tutte l’Unione Sovietica) e delle potenze democratiche occidentali (U. S. A. , In-

1 N. B. Tutti gli avvenimenti che si verificheranno dopo la seconda guerra mondiale vanno visti non separati, ma in un contesto di fatti internazionali. 2 Togliatti, nello scritto “Per un giudizio equanime sull’opera. di A. De Gasperi” in Rinascita, XII, 1955, no 10, 11, 12; XIII, 1956, no 3, 5, 6, oggi in P. Togliatti, “Momenti della storia d’Italia”, Ed. Riuniti, gennaio 1974, pag. 191, affermerà “La difficoltà sta nel riuscire a misurare esattamente ciò che, in questo atteggiamento, faceva parte di una visione autonoma dei rapporti politici e sociali italiani e ciò che, invece, era imposto dalle contingenze internazionali. Può darsi che qualche volta vi sia stato un elemento perturbatore e deformatore, proveniente dall’esterno; ma, ripetiamo, che è assai difficile separare questo elemento dal rimanente della personalità e della condotta, e darne l’esatto peso. Tanto più che lo sviluppo dei rapporti internazionali corrispondeva allo sviluppo di quelli interni”.

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ghilterra e Francia). Tale alleanza non si era realizzata facilmente né poteva avere carattere definitivo. All’interno dei paesi in cui c’era stata l’occupazione nazifascista era venuta via via consolidandosi, nella resistenza agli occupanti, una profonda unità delle forze democratiche ed antifasciste che era stata la causa principale della vittoria della guerra partigiana. In Italia questo processo d’unità antifascista aveva avuto un deciso incentivo dalla presa di posizione del PCI e di Togliatti in occasione del netto cambiamento della linea del partito divenuta nota con il nome di “svolta di Salerno”, nel 1944. Togliatti, vincendo forti resistenze presenti anche nel suo stesso partito, si era reso protagonista della proposta di un’azione contro l’occupante nazifascista che avrebbe dovuto vedere l’organizzata e concorde messa in campo di un vasto schieramento di forze politiche, dai monarchici al partito comunista. Vari ostacoli avevano dovuto essere superati, non solo nel PCI, ma pure nel PSI e nel Partito d’Azione. L’unità di quest’ ampio fronte di forze poteva, infatti, attuarsi solo rinviando alla fine della guerra uno dei punti programmatici principali della piattaforma della sinistra, cioè l’assetto istituzionale da dare al paese. Tale assetto avrebbe dovuto essere deciso, dopo la guerra, da un plebiscito popolare, con un esplicito voto cui doveva essere chiamata tutta la popolazione. Si sarebbe trattato di scegliere allora tra Monarchia e Repubblica3. Questa scelta politica fu la prima, e non l’unica, che riuscì a dare un contributo determinante alla vittoria delle forze antifasciste italiane. Al movimento unitario delle forze politiche diede inoltre impulso l’intreccio con la forte resistenza che si realizzò tra le masse lavoratrici, soprattutto operaie e contadine, che sarebbero state destinate a costituire il nerbo fondamentale dell’esercito di liberazione nazionale. Questo schieramento, però, non poteva essere di lunga durata.

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Sulla discussione per la svolta e sulle resistenze che si avranno nel gruppo dirigente del PCI può essere consultato P. Spriano, “Il dibattito sulla svolta di Salerno”, in “Storia del PCI, VoI. V, Ed. Einaudi, Torino, 1975, pp. 314/ 337.

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Intervennero, conclusa la guerra, motivi di carattere internazionale ed interni, di grossa portata, che determinarono la fine dell’unità antifascista con la conseguenza di un ripristino del potere delle forze capitalistiche nei paesi occidentali4. Dopo circa due anni di governi con la partecipazione del PCI e del PSI, nei primi mesi del 1947 si spezzò la collaborazione delle forze popolari che aveva dato vita ai governi di unità nazionale presieduti da Parri e De Gasperi. Fu in una prima fase De Gasperi che si presentò, nel gennaio ’47, di ritorno da un viaggio negli Stati Uniti, dimissionario da presidente del Consiglio. La coalizione resistette solo per pochi mesi. La manovra riuscì in modo definitivo nel maggio dello stesso anno con le nuove dimissioni del presidente del Consiglio. PCI e PSI furono estromessi dal governo. Un intreccio di fattori interni ed esterni determinò la crisi. Gli obiettivi che la sinistra si era posta, partecipando ai primi governi d’ unità nazionale del secondo dopoguerra, erano essenzialmente la conquista della Repubblica e di una costituzione avanzata che ponesse le basi per eliminare, progressivamente ma per sempre, le radici strutturali del fascismo. Ciò però era possibile solo se si fossero affrontati e risolti i grandi problemi che doveva fronteggiare il paese, cioè la ricostruzione dell’Italia stessa, la limitazione del potere dei grandi gruppi industriali e finanziari, la riforma dei diritti di proprietà nelle campagne, l’eliminazione, pure progressiva, della disoccupazione (a tal fine sarà presentato il piano del lavoro dalla CGIL nel 1950), una politica estera di indipendenza e di pace. Di questo gruppo d’obiettivi però solo il primo (la Repubblica) era stato raggiunto. Grandi ostacoli avevano frapposto agli altri le forze di occupazione alleate che avevano agevolato, preoccupate del pericolo comunista, la riorganiz-

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“Cos’è il piano Marshall”. Ampia e dettagliata è la bibliografia sulla rottura dell’unità antifascista in Italia. Su quanto pesarono in questa scelta gli effetti della situazione internazionale, si veda il discorso pronunciato da Togliatti alla Camera il 18 luglio 1948 “Il Piano Marshall, piano di guerra”, opuscolo, e, d’altra parte A. De Gasperi: «piano Marshall”, in “Discorsi politici”, tomo I, pp. 197/198.

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zazione delle forze moderate e reazionarie. Inoltre nel ‘47 era ormai un fatto compiuto la rottura dell’unità mondiale del blocco antifascista. Iniziava la fase della Guerra Fredda5. Sul piano interno con Einaudi aveva avuto inizio una fase di politica deflazionistica e di blocco dei salari, contro l’inflazione galoppante favorita anche dall’immissione sul mercato, da parte degli alleati, di un enorme quantitativo di carta moneta, le cosiddette “am1ire”. Altro elemento significativo, nella parte iniziale di questo scritto, è il rilievo che si esprime sull’intervento di Truman il 12 marzo ‘47 ad una seduta congiunta delle due Camere. Esso è visto come l’atto che “avrebbe abbassato il sipario su un’intera epoca nella storia della politica estera americana”. In quest’intervento si teorizza, infatti, la possibilità di azioni armate degli USA in altri paesi contro il pericolo comunista. Grossa attenzione è data nell’intervento all’analisi delle situazioni interne della Grecia e della Turchia ed anche della Francia e dell’Italia6. La decisa scelta deflazionistica fu favorita dalla DC che iniziava in prima persona il periodo della restaurazione capitalistica esplicitando i lineamenti essenziali che avrebbe poi assunto la ricostruzione. Nel blocco di sinistra la forza di opposizione all’involuzione moderata in politica interna venne affievolita dal

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Questo periodo è conosciuto anche col nome di “dottrina Truman”. Per un quadro dettagliato della politica estera americana in questo periodo e dei suoi interventi in Europa vista sotto l’aspetto delle discussioni e dei contrasti interni al governo americano è utile la lettura di D. F. Fleming “Storia della guerra fredda”, Feltrinelli, 1964, pp. 562/598, interessante anche per comprendere la discussione sull’utilizzo del piano Marshall. Giudizi sulla dottrina Truman apparsi sul New York Times, 9. XI. marzo 1947.

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Si consideri come la guerra, nel suo epilogo, si conclude – sul fronte del Pacifico – con un atto distruttivo di dimensioni apocalittiche. Alle 8, 15 del 6 agosto 1945 una bomba atomica è fatta esplodere su Hiroshima. Alle ore 11. 02 del 9 agosto un altro ordigno atomico al plutonio e’ fatto deflagrare a Nagasaki. Solo la bomba su Hiroshima provoca 500 mila morti e feriti, oltre a conseguenze devastanti sulla popolazione nei decenni futuri. Il Giappone si arrende. Mai, prima di allora, si era fatto ricorso – nella storia umana - ad armi distruttive di tale infernale potenza. Il nuovo scenario, che si apre ora sul mondo, non consentirà più ad alcuno di prescindere da quanto, in maniera imprevedibile, si è determinato. Uno scontro frontale tra potenze nucleari sarebbe la fine di tutta l’umanità. Dora in avanti si dovrà convivere – da parte di ognuno – col pericolo della guerra nucleare.

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verificarsi della scissione socialista di gennaio dello stesso anno che diede luogo al PSLI (PSDI nel congresso di Bologna del 1952) 7. Come si è visto, nella linea politica del PCI e delle sinistre, erano prevalsi due obiettivi fondamentali: la Repubblica e l’Assemblea Costituente. Essi, come si è già detto, erano visti come obiettivi necessari per l’eliminazione del fascismo e per evitarne, per sempre in futuro, un suo possibile risorgere. Il conseguimento di queste conquiste non si era però coniugato all’esigenza di una modifica profonda della struttura economica del Paese. Vi fu, nella pratica, una scissione tra i due momenti e solo dopo la rottura poté venire avanti un processo di riflessione sul fatto che non si era saputo far marciare parallelamente questi obiettivi. E’ quanto sosterrà E. Sereni nell’articolo dal significativo titolo “Le illusioni costituzionali”8. Influì forse pure “l’illusione” che la cacciata del PCI e del PSI non avrebbe avuto lunga durata. Indubbiamente, nell’analisi della situazione che si andava determinando, non era ancora molto chiaro l’elemento di novità che si era verificato nella situazione internazionale (la fine dell’unità d’azione tra le forze del mondo socialista e quelle delle democrazie occidentali) e quanto profondamente tale situazione si ripercuotesse nel paese. D’altro canto tali vicende necessitano, per la loro complessità, di un’indagine in cui siano presenti le molteplicità dei nessi che vi concorrono. Quest’impegnativa riflessione è necessaria per iniziare a formulare un sereno giudizio critico su quegli anni. Il dibattito critico è infatti ben lontano dall’essere esaurito. L’analisi dei ritardi del PCI nel 19461947, oltre al già citato scritto d’Amendola ed a quello di Sereni, fu affrontato,

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Sugli errori delle sinistre vedi G. Amendola “Lotta di classe e sviluppo economico dopo la lotta di liberazione” in “Tendenze del capitalismo italiano”, Atti del convegno economico tenuto all’Istituto Gramsci, Editori Riuniti, Roma, 1962. Amendola, tra l’altro, vede l’errore di non aver fatto un’azione di massa per la creazione di un potente movimento contro la rottura dell’unità antifascista sotto la guida dei C. L. N.

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Rinascita, Ottobre 1947. In esso si criticava la concezione che”particolari formule costituzionali e giuridiche possano, di per se stesse, assicurare la liquidazione del vecchio regime e l’instaurazione di un regime nuovo, democratico e popolare. ”

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alcuni anni dopo, anche da Alessandro Natta. 9 Questo giudizio critico sarà però utile per la capacità di sviluppare negli anni futuri un’azione combinata capace di utilizzare le vie legali offerte dall’azione in Parlamento saldandole con la più ampia, sistematica e diffusa azione di massa, al nord come al sud del Paese. Amendola porrà, nello scritto già citato, il problema se in quella fase poteva essere possibile conquistare le “riforme di struttura” che invece saranno rinviate all’esame della Costituente cioè, in buona sostanza, al periodo seguente a quello della ricostruzione. Questo sarà il reale procedere dei fatti anche se vengono a prepararsi le condizioni per conquiste democratiche che vanno nella direzione della limitazione del potere delle classi proprietarie (blocco dei licenziamenti, riconoscimento delle commissioni interne, concessione delle terre incolte). Nel settembre 1947 l’ “Ufficio informazione” avanzava al PCI la critica - da questi accettata - di non aver mobilitato tempestivamente le masse contro la rottura dell’unità. Il partito respingerà, però, la critica avanzata dai comunisti jugoslavi di non essersi posto nel ‘45 l’obiettivo della conquista diretta ed armata del potere10.

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A. Natta “La Resistenza e la formazione del Partito Nuovo” in “Problemi di storia del PCI”, Ed. Riuniti, Istituto Gramsci, 1971. In esso tra l’altro è sottoposto alla riflessione il fatto che “l’interpretazione della politica dell’unità è stata forse da parte nostra troppo preoccupata per possibili rotture, di una rottura tra il Nord e il Sud, di una rottura con la DC. E... . è stato un limite o un fatto imposto dalla realtà l’idea già operante nel novembre— dicembre del ‘45 che la partita fosse ormai da giocare essenzialmente sul terreno della scelta istituzionale, della costituente, dei rapporti tra i partiti di massa più che su quello dello sviluppo dell’organizzazione democratica (la questione dei CLN) e della lotta per le riforme sociali. Senza dubbio un rinvio a dopo la costituente si ebbe e l’accensione di grandi lotte, di portata riformatrice e sociale, avvenne quando già si era avuto un mutamento dei rapporti politici e di potere ~ pp. 77/78.

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All’azione parlamentare di un partito rivoluzionario si riferirà Togliatti il 13 marzo ‘56 in una relazione al Comitato Centrale del PCI in preparazione dell’ VIlI congresso: “La utilizzazione del Parlamento per una politica di positive trasformazioni sociali è possibile quando esiste un grande movimento operaio e socialista, diretto da gran di partiti, i quali abbiano davanti a sé la prospettiva e un programma di marcia nella direzione del socialismo. ” Quest’articolo può essere confrontato con quello già citato di A. Natta.

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Verrà comunque avanti, concretamente, nella pratica, la teorizzazione della funzione del “Partito Nuovo” che acquisterà forza e prestigio sempre più grande proprio nel corso di queste difficoltà. Peculiarità essenziale di tale partito è che esso non dovrà più avere solo una funzione di denuncia propagandistica ma dovrà essere capace di coniugare alla critica delle scelte politiche del blocco governativo la contestuale capacità di indicare soluzioni positive ad ogni problema che si presenterà nella politica nazionale. Inizierà in ogni caso in questo periodo, come avrà a rilevare il VI congresso del PCI, che si terrà dal 4 al IO gennaio 1948, una fase segnata da un pericoloso arresto dello sviluppo democratico in Italia. Il governo della DC favorirà l’offensiva del blocco industriale ed agrario contro operai e contadini e le loro organizzazioni. Gli apparati dello Stato saranno orientati in senso restauratore con la volontà, seppure mai esplicitamente dichiarata, di mettere ai margini della legalità le forze operaie e democratiche più avanzate e progressive. Questa situazione d’involuzione moderata nel paese procedeva contemporaneamente all’azione sviluppata col piano Marshall a livello internazionale dagli USA. Si tratta dell’organizzata predisposizione di un piano di massicci aiuti economici ai paesi colpiti dalle distruzioni della guerra che si dimostrerà di grand’utilità per le industrie americane che, avendo una crisi enorme di sovrapproduzione, non riuscendo a collocare la produzione sui mercati nazionali, le sposteranno su quelli esteri ricavandone lauti profitti. L’intervento con aiuti economici era però subordinato al fatto che fossero emarginati dalla compagine governativa PCI e PSI, cosa che poi regolarmente avvenne11. Indubbia fu l’incidenza di tali operazioni economiche nelle scelte politiche che si determineranno all’interno dei singoli paesi europei. In tale situazione ci si preparava ormai alle elezioni. PSI e PCI si presentavano con liste unitarie, dopo aver costituito il 28. 12. 1947 a Roma il Fronte Demo-

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Vedi documentazione “Piano Marshall, piano di guerra”, op. cit.

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cratico Popolare12. Il Fronte si propone di raccogliere e rappresentare, dopo la fine dell’unità, nel Parlamento e nel Paese, il patrimonio unitario della Resistenza e la tradizione dei CLN di fabbrica e di quartiere. Le elezioni del 18 aprile 1948 non corrisponderanno alle attese delle sinistre. Esse scenderanno dal 39, 9% dei voti avuti nel 1946 (9. 136. 688) al 31% (8. 136. 637). La DC otterrà 12 milioni di voti (dal 32% del ‘46 al 48%) ottenendo la maggioranza assoluta13. Furono le elezioni della “paura” contro il pericolo rosso. La DC si presentava come l’unico partito affidabile e rassicurante capace di evitare davvero una nuova guerra civile. Si sostenne, con una martellante campagna propagandistica sostenuta dal massiccio uso di risorse economiche, che l’avanzata e l’eventuale vittoria del “Fronte” avrebbero determinato la sospensione degli aiuti USA avviati col piano Marshall. Quest’elemento, di forte e condizionante pressione politica, fu abilmente utilizzato dalla propaganda della DC. La stabilizzazione della lira e l’estensione del piano all’Italia consentirono l’inizio di

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Da parte socialista, per un giudizio critico sull’esperienza del “Fronte” si guardi Benzoni-Tedesco, “Il movimento socialista nel dopoguerra”, Ed. Marsilio, 1968. 13

Sul clima in cui si tennero le elezioni del 18 aprile e pure su un tentativo avviato di riflessione critica nel movimento operaio, v. Felice Platone, “Esame critico dei risultati elet0 torali”, in Rinascita, n 4, 5, 1948.

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una ripresa economica che sarebbe stata definita “Ciclo Marshall”14, culminata nel 1952. Pur considerando l’evidente e schiacciante disparità dei mezzi a disposizione degli opposti schieramenti si può senz’altro osservare come alla sconfitta non furono estranei anche un’impostazione fortemente settaria da parte delle sinistre che precludeva, in sostanza, l’allargamento ulteriore delle alleanze che invece il “Fronte” avrebbe dovuto necessariamente ricercare. L’accentuazione estrema dei toni e l’assoluta totale inconciliabilità delle posizioni,

l’eccesso

di

polarizzazione

e

di

frontale

contrapposizione,

l’anticlericalismo diffuso a piene mani e senza alcun risparmio, tutto concorse a contribuire alla sconfitta che pesò nel senso della fine di un’illusione profonda nelle forze di sinistra, ma da cui prese inizio una lotta lunga e tenace per la democrazia e la pace contro il tentativo d’emarginazione definitiva di tali forze

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Nel già citato intervento di Amendola “Lotte di classe e sviluppo economico dopo la liberazione”, interessante l’operazione di proporre un rapporto tra fasi del ciclo economico e fasi politiche. Amendola distingue cinque fasi nell’economia: 1945-1947-1948 (Ricostruzione, inflazione, domanda eccedente l’offerta). Questo periodo si chiude con la stretta monetaria di Einaudi. Marzo 1948- Maggio 1950 (Ciclo Marshall: contrazione della produzione industriale, crollo, fase recessiva - fine 1949/1950 - ) Marzo 1950 - Giugno 1952 (ciclo coreano, nuova espansione, riarmo NATO) Giugno 1952 - Agosto 1958 (espansione economica - pausa 1955/1956 - pausa 1957/1958 - per la recessione USA) Dall’agosto 1958 - ciclo MEC accelerate espansioni. RAPPORTO CON LE FASI POLITICHE: 1945-1947: Governi di unità nazionale. 1947-1953: rottura unità nazionale, 18 aprile 1948, maggioranza assoluta alla DC. 1953-1958: sconfitta legge truffa, crisi del centrismo, crisi unità movimento operaio, inizio della ripresa operaia

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dalla vicenda politica e dalla storia nazionale. Questa lotta otterrà negli anni seguenti, più velocemente di quanto dopo la sconfitta del 18 aprile si potesse pensare, risultati di rilievo che assesteranno duri colpi al predominio dei gruppi monopolistici15. Il 14 luglio 1948 il clima di violento anticomunismo provocato dalle forze conservatrici e reazionarie, favorito anche dalle prese di posizione del Santo Uffizio del 13 luglio 1949 che arriva alla scomunica contro marxisti e comunisti, sfocia in un atto gravissimo: l’attentato a Togliatti. Antonio Pallante, un giovane siciliano, ne sarà l’autore materiale, ma i mandanti resteranno impuniti. La reazione nel paese è enorme. Avvengono manifestazioni spontanee in tutta Italia. Lo sciopero generale indetto per protestare contro l’attentato porta ad un clima di tensioni acutissime. In alcune zone lo sciopero tende ad assumere carattere insurrezionale. La ferma presa di posizione della Direzione del partito tende a dare alla protesta massima ampiezza ma, in sostanza, i dirigenti comunisti cercheranno di non farla fuoriuscire dall’ambito della legalità. Ci si batte per evitare la strada del “non ritorno”. Si consumerà, in quei giorni di luglio, l’illusione di un’imminente prospettiva insurrezionale. E’ una lezione amara, che avrà molti strascichi polemici in futuro, ma che solleciterà una nuova ricerca d’avanzata al socialismo e l’approfondimento teorico e politico per l’individuazione e la pra-

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Di tutt’altro segno è invece la ricostruzione dei fatti proposta da Guido Carli in: “Cinquant’anni di vita italiana” (Ed. Laterza, 1996), opera densa di spunti autobiografici la cui stesura è stata curata da Paolo Peluffo. In particolare, tra le tante acute osservazioni, Carli fa notare (pag. 77) come “la partecipazione dell’Italia al Piano Marshall non si esaurì nel ricevere donazioni di materie prime, ma ebbe come conseguenza l’accettazione di una politica orientata secondo i principi dell’economia di mercato, dell’apertura al mercato mondiale, della concorrenza, della costruzione dell’unità economica e monetaria Europea. Una tale impostazione, a giudizio degli USA, avrebbe falciato il terreno sotto i piedi alla propaganda Comunista. In realtà, per Carli, vi fu un sostanziale tradimento di questa impostazione col prevalere di “esigenze politiche difformi”. Il riferimento è, tra gli altri, alle vicende delle partecipazioni statali, esempio esplicativo di come, in difformità da quanto si dichiarava, con la sostanziale convergenza delle forze di governo e dei Comunisti, si scelse la strada di mantenere sul mercato queste aziende anche quando erano diventate decotte, con prezzi finanziari paurosi per la collettività. Si rendeva vano, con la diffusa creazione di sacche d’autentico parassitismo, la linea d’incontestabile rigore che, annunciata nei programmi, era totalmente vanificata nei fatti.

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ticabilità di nuove strade d’accesso alla direzione dello Stato da parte delle masse lavoratrici. E’ la strada indicata già al VI congresso del PCI come “via italiana al socialismo”, destinata ad essere sempre più chiaramente praticata negli anni seguenti. Passata la “grande paura” la reazione cerca di riprendere il sopravvento: si hanno migliaia di arresti e dure condanne16. Si consuma in quei giorni di luglio, definitivamente, la rottura dell’unità sindacale, provocata dai dirigenti DC, fattore questo destinato a pesare molto nelle battaglie che in quegli anni, ed in quelli seguenti, dovrà condurre il movimento operaio contro i licenziamenti e per il miglioramento delle condizioni economiche e sociali dei lavoratori17. Dalle difficoltà per le condizioni di vita del paese, dalla disoccupazione che assume dimensioni enormi e che, specie nel Mezzogiorno, si manifesta quale piaga insanabile di uno sviluppo socio-economico secolarizzato, distorto, ed ora segnato dal ripristino del dominio dei gruppi monopolistici nazionali, prenderà vita il “Piano del lavoro” presentato dalla CGIL nel febbraio del 1950. Con esso, in sintesi, si tende ad auspicare ed attuare, con urgenza, una linea di sviluppo della produzione, sostenuta dall’aumento della spesa pubblica che potrà dare occupazione a centinaia di migliaia di lavoratori, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia. Di Vittorio, tra l’altro, dirà: ” In Italia abbiamo da parecchi anni, circa 2 milioni di disoccupati permanenti oltre ad un gran numero di disoccupati intellettuali non registrati e privi di ogni assistenza; abbiamo più di un milione di operai che lavorano ad orario ridotto; abbiamo oltre un milione di braccianti agricoli

16

Sul clima determinatosi in seguito all’attentato del 14 luglio vedi S. Pertini, “Le origini ed i responsabili”, in Quaderni di Rinascita, “30 anni di lotta del PCI”, 1951, pp. 223/224.

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0

“Le scissioni sindacali in Italia e gli aiuti degli esperti americani”, Rinascita, n 6, 1949.

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che lavorano soltanto qualche mese all’anno”18. Il piano proponeva, prima proposta del genere nel movimento operaio mondiale, degli indirizzi di politica economica che fossero rispondenti ad esigenze generali di sviluppo del paese, non a quelli di ristretti gruppi economici e finanziari. Pur se con lacune ed evidenti ingenuità nelle sue interne articolazioni, esso costituì una piattaforma di lotta di massa, diffusamente mobilitante e coinvolgente, che non mancò di influire sulla situazione politica e sulla modificazione dei rapporti di forza tra le formazioni politiche negli anni che precedettero le elezioni del 1953. Un altro punto fondamentale di lotta politica in questa prima fase degli anni cinquanta sarà la lotta contro l’ingerenza straniera in Italia. L’opposizione si batté, giungendo anche all’ostruzionismo parlamentare, per impedire l’adesione dell’Italia al Patto atlantico. Caldeggiavano un’adesione a quest’alleanza De Gasperi (si ricordi il già richiamato viaggio in USA) e la stessa Chiesa Cattolica che, per bocca di Pio XII, nel 1948 si pronunciò per questa convergenza politica contro ciò che il pontefice stesso definiva “l’offensiva dell’ateismo”. Nella stessa DC emersero su tale problema seri contrasti. Dossetti e Gronchi affermarono di non condividere questa linea. La battaglia delle sinistre in parlamento andrà di pari passo con l’estensione della lotta di massa nel paese che vide un altro momento d’acuta tensione nella visita che, nel gennaio 1951, fece il generale Eisenhower in Italia. La lotta per l’indipendenza nazionale, per evitare la guerra minacciata a più riprese, contro l’uso delle armi atomiche, marcerà in quegli anni parallelamente alle battaglie politiche e sociali per un miglioramento effettivo delle condizioni di vita del paese19.

18

In “Rinascita”, n. 10, ottobre 1949, pp. 407.

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”Il Patto Atlantico come patto di aggressione”, in Rinascita, n. 6, 1950.

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Avremo, nel periodo dal 1948 al 1953, anche grosse battaglie civili e culturali per la difesa della democrazia e della libertà. Queste lotte si scontreranno con la volontà e la suggestione di creare un regime ed uno stato clericale. Questo disegno uscirà però sconfitto nelle elezioni amministrative del 1951-1952 e nello scontro che si avrà sulla “legge truffa” (1953)20. Per portare avanti il suo progetto la maggioranza governativa cercherà di svalutare, frontalmente, in più circostanze, anche la libertà della cultura. Migliaia di partigiani verranno processati in questi anni e molti di essi subiranno il carcere. Per quanto riguarda poi la lotta per la difesa della libertà della cultura si deve dire prima di tutto che con la resistenza è maturata negli intellettuali italiani una nuova coscienza che li ha portati a ricercare dirette convergenze con gli umili, con le loro lotte, i loro bisogni, ed a pronunciarsi attivamente nel merito delle stesse rivendicazioni di libertà e di progresso delle masse operaie e contadine. Si erano già formati, nella lotta di resistenza, gli elementi embrionali di una coscienza che porterà all’impegno diretto, nella lotta politica, nel periodo del secondo dopoguerra, consistenti gruppi di intellettuali. Essi si opporranno, nei momenti decisivi, ad una volontà di “clericalizzare” l’arte, la scienza e la scuola pur se, come si vedrà, non sempre semplice e lineare sarà destinato ad essere il rapporto col Partito Comunista Italiano. In ogni caso nei momenti di più aspro attacco alla libertà, la cultura italiana ritroverà una grande ed estesa unità che gli permetterà di rispondere positivamente all’offensiva di chi voleva porre sotto accusa “il culturame”21. Le elezioni amministrative del 1951-1952 segneranno l’inizio di una profonda

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Su cosa fosse la “legge truffa” e sui pericoli che essa costituiva per il mantenimento della libertà, vedi G. Amendola, in “Problemi di storia del partito comunista italiano”, op. cit. pp. 125/126. 21

Scelba, ministro degli interni, userà questa espressione nel Congresso di Venezia della DC(2-5 giugno 1949), rivolgendosi agli intellettuali che avevano espresso posizioni di netta critica alle tendenze della politica governativa.

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inversione di rotta nei rapporti di forza tra sinistre e centro DC. Nonostante la forte pressione esercitata dalle autorità ecclesiastiche ed il nuovo tentativo di riconfermare una netta maggioranza di consensi alla politica governativa, la DC registrerà in questa occasione una perdita di consenso per un totale di più di 4 milioni di voti. Una netta avanzata delle sinistre si avrà soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia. I motivi di questo successo sono da ricercarsi essenzialmente nelle grandi lotte di classe che si sono sviluppate per la conquista delle terre22.

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Per un’indagine approfondita dei movimenti di massa nelle campagne, che si registreranno nel secondo dopoguerra, importante è lo studio di R. Stefanelli, “Lotte agrarie e modello di sviluppo 1947-1967”, ed. De Donato 1975. In alcune parti dello scritto sono esaminate le specificità della figura sociale dei contadini del Mezzogiorno e delle lotte che porteranno all’assegnazione di terre incolte ed ad una parziale riforma dei rapporti di proprietà nelle campagne con la “Legge Stralcio”.

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LA SCONFITTA DELLA “LEGGE TRUFFA”

Le elezioni del 1951-1952 vedranno un’avanzata delle sinistre assieme ad un’affermazione dei monarchici che raccoglieranno i voti degli agrari ostili ai piani di riforma (va ricordato, che in seguito alle lotte per la terra, sarà varata una legge, la cosiddetta “Legge stralcio”, che assegnerà ai contadini una parte di terre non coltivate della proprietà terriera assenteista. La legge di riforma agraria è stata presentata da Gullo e da Segni). La DC allora formulò una legge maggioritaria per le elezioni politiche del 1953, secondo la quale si proponeva che il partito, o la coalizione di partiti, che avesse raccolto più del 50% dei voti avrebbe dovuto ottenere il 65% dei seggi in parlamento. Questo progetto che, se fosse passato, avrebbe assestato un duro colpo alla democrazia italiana, vide l’accendersi di una battaglia politica che mobilitò tutto il Paese. Al Senato, dopo tre giorni e tre notti di sedute in cui le sinistre adottano nuovamente la tattica dell’ostruzionismo, la legge passa (29Marzo1953). L’indomani, nel momento culminante della mobilitazione che saliva nel paese, la CGIL proclamò lo Sciopero Generale. Alla competizione elettorale le sinistre si presentarono con un cartello di alleanze che vide uniti PCI, PSI, L’Unione Popolare(guidata da Ferruccio Parri), l’alleanza democratica nazionale(gruppi di borghesia laica con i loro leaders Corbino e Nitti). La coalizione governativa si presentò con uno schieramento di forze in cui confluivano DC, PRI, PSDI, PLI. Questo raggruppamento otterrà un totale di 13. 485. 432 voti (49, 8%); le sinistre 9.871.709 (36, 5%); le destre 3. 438. 404 (12, 7%). A ciò si aggiungeranno 267. 556 voti ottenuti da liste varie che, raggiungendo l’1%, risulteranno decisive per non far scattare la legge23.

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Dati relativi alle elezioni alla camera dei deputati, pubblicati dall’agenzia ANSA.

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Vinto il tentativo di attuare nel paese una svolta di tipo integralista moderato, si pone ora il problema per le forze di sinistra di utilizzare al massimo il successo facendolo pesare nelle lotte e nei processi politici che stavano maturando nel Paese. Con la sconfitta della DC finiva sostanzialmente l’egemonia degasperiana ed iniziava la crisi del centrismo. Nella DC al personale politico Degasperiano sarà sostituito, al Congresso che si terrà a Napoli il Luglio 1954, quello fanfaniano. La corrente di “Iniziativa Democratica” imporrà l’urgenza di varare misure che consentano la conquista al partito di un solido rapporto con i ceti intermedi che emergevano in rapporto alle trasformazioni strutturali della società nazionale. La corrente si muoverà per ripristinare una grand’efficienza ed indubbi elementi di modernizzazione del Partito: alle strutture, che facevano capo ai comitati civici ed all’Azione Cattolica, Fanfani sostituirà una nuova rete organizzativa fondata su un energico attivismo capace di muoversi con maggiore libertà ed autonomia nell’azione politica24. Il gruppo fanfaniano lavorerà per il controllo dell’apparato governativo e delle articolazioni del capitalismo di stato ( le società pubbliche come l’ENI e l’IRI). L’occupazione di queste leve di potere avrebbe permesso di stabilire un rapporto diverso con i gruppi decisivi della grande borghesia e, d’altro canto, avrebbe consentito di legare a questo progetto politico ampie fasce di ceti intermedi25. Questo disegno, però, avrebbe cozzato con la parte più retriva di Confindustria e con le gerarchie cattoliche che temevano di vedere indebolita la loro influenza sul partito. Inoltre si sarebbe soprattutto scontrato con la volontà di resistenza delle classi lavoratrici che interpretarono la svolta della DC non come svolta

24

Per un’indagine delle modificazioni nel gruppo dirigente DC dopo la gestione De Gasperi è utile consultare Galli, Facchi “La sinistra democristiana - Storia ed ideologia”, Feltrinelli, 1962. 25

Zangrandi, su Rinascita, anno XI numero 7, Luglio 1954, pp. 444/445, metterà in guardia da un’interpretazione di questa nuova fase del partito DC come fase di svolta a sinistra. Il suo giudizio è che ci si trova di fronte ad una delle più evidenti prove di trasformismo politico.

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a sinistra, ma come tentativo di un tenue ed apparente riformismo, sviluppato in funzione della volontà di allargamento del consenso del partito sul complesso della società, e soprattutto sul pieno esubalterno inglobamento dei ceti medi. L’avvento alla direzione di Fanfani non sarà ancora la fine della politica centrista della DC. Questa formula è senz’altro in crisi, ma essa si trascinerà, ciononostante, fino al 1958. C’è comunque già qualcosa che indica una linea di tendenza che si svilupperà negli anni seguenti nel partito democristiano, la linea cioè dell’ “apertura a sinistra”, i cui primi segni si possono cogliere già nell’elezione di Gronchi il 29Maggio 1955 a Presidente della Repubblica. Questa linea si attuerà più compiutamente nel 1962 con l’apertura verso i socialisti e con la creazione del centro- sinistra. Allora però erano state poste tutte le indispensabili premesse.

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IL MOVIMENTO COMUNISTA INTERNAZIONALE

Nella seconda metà degli anni cinquanta in Italia si avvertiranno profondamente riflessi e conseguenze del XX Congresso del PCUS. La crisi dello stalinismo, la denuncia del culto della personalità e delle violazioni della legalità socialista (di cui tratterà il XX Congresso del PCUS nel Febbraio 1956) determineranno, come prima conseguenza, lo scioglimento del Cominform (l’ufficio d’informazione tra i partiti comunisti) responsabile della scomunica verso i comunisti jugoslavi. La seconda reazione è rappresentata dai fatti d’Ungheria, dalla sommossa armata e dall’intervento sovietico. Nel PCI si verificheranno, in seguito a tali vicende, abbandoni di molti iscritti, soprattutto intellettuali, distacco dalla milizia politica, ma contemporaneamente ha inizio la ricerca appassionata e critica tesa ad individuare le cause vere delle degenerazioni del gruppo dirigente e del sistema politico, la discussione sull’elaborazione di una linea nazionale ed autonoma di avanzata al socialismo in Italia. A tale riflessione critica darà una prima sistematizzazione l’VIII Congresso del PCI (Dicembre 1956) 26. Gli echi delle vicende dell’URSS e dei fatti ungheresi saranno invece più acuti nel PSI, dove la corrente autonomista di Nenni e De Martino trarrà nuovo vigore nel portare avanti una linea di “alternativa socialista”. Il distacco strategico dal PCI, affermato in questa circostanza, giungerà alla denuncia del Patto d’unità d’azione tra i due partiti.

26

Per una ricostruzione della discussione che si generò all’indomani del XX Congresso del PCUS nel movimento comunista e sulla ricerca originale di una avanzata al socialismo in Italia si veda L. Gruppi, “Togliatti e la via italiana al socialismo”, Argomenti/Ed. Riuniti, Roma, 1976, pp. 137/190.

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LE LOTTE SOCIALI

Alle lotte politiche che si svolgono nel paese s’intrecciarono, in quegli anni, grandi lotte di massa che scaturiranno dallo sviluppo delle contraddizioni economiche e sociali e dai nuovi e vecchi problemi irrisolti della società nazionale. Alcune di queste lotte assumeranno un carattere prevalentemente difensivo (ad esempio l’azione per la difesa dell’occupazione e contro lo smantellamento delle fabbriche), altre invece presenteranno elementi di più marcato ed incisivo attacco strutturale ai centri del potere economico: sarà questo il caso delle occupazioni delle terre e delle rivendicazioni per una riforma dei contratti agrari. Seguirà un periodo di dure lotte con la determinazione di uno scenario d’insieme nel quale la contrapposizione di classe apparirà assai netta, con scarsa presenza di gradazioni e sfumature intermedie. Ad esse corrisponderanno gli schieramenti dei partiti politici: da un lato il blocco

statale

ed

i

partiti

di

governo,

dall’altro

lo

schieramento

dell’opposizione che si raggrupperà, essenzialmente, attorno a comunisti e socialisti. Assieme a tali lotte si intrecceranno, come abbiamo detto, le grandi battaglie per la libertà politica e l’indipendenza nazionale(le già citate lotte contro la “legge truffa” e contro il Patto Atlantico), in una sequenza impressionante di scontri che costeranno molto sangue ma che serviranno a bloccare la strada ad ogni possibile ritorno indietro27dai punti cui è giunta la democrazia italiana. Massicce saranno le lotte nelle campagne soprattutto meridionali, con il risve-

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G. Amendola in “Problemi di storia del partito comunista italiano”, op. cit. , ricordando questo periodo, 1948-1953, della prima legislatura repubblicana, acutamente osserverà:” Ad una sinistra in minoranza si contrapponeva una maggioranza compatta, non incrinata come è oggi da mille divisioni, resa fanatica dalla vittoria, con un capo come De Gasperi che era un forte combattente, che sapeva quello che voleva, che teneva in pugno il partito ed il gruppo parlamentare. C’era, sì, la corrente di sinistra(Gronchi, Dossetti e gli altri), ma la loro posizione non si esprimeva con decisi atteggiamenti. L’opposizione era direttada uomini come Togliatti, Nenni, Morand, Di Vittorio nella pienezza delle loro forze. Furono gli uomini delle grandi battaglie frontali”.

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glio di larghi strati di braccianti e contadini. Le lotte bracciantili e contadine dal 1949 al 1953 daranno un prezioso contributo all’azione volta a bloccare l’offensiva padronale scatenata dopo la vittoria del 18 aprile ed a proporre all’attenzione del paese alcuni grandi temi di riforma della società nazionale. Avanzerà la coscienza che la questione centrale della riforma agraria non può più essere rinviata. La protesta contadina e meridionale, diretta dal Fronte del Mezzogiorno, supererà la fase anarchica in cui si è spesso storicamente manifestata per inserirsi in un’azione che si esprimerà, in forme organizzate e concrete, sotto la guida della classe operaia del Nord. Il movimento inizia a muoversi all’interno dell’indicazione strategica di Antonio Gramsci il quale ha visto nell’alleanza tra operai e contadini il nucleo fondamentale per la costruzione di un nuovo blocco storico che, opposto a quello dominante costituito sull’alleanza industriali - agrari28, può arrecare un contributo decisivo ad un rinnovamento profondo dell’Italia.

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E’ stato osservato il fatto che in questo periodo non tutte le lotte che si svilupperanno in Italia avranno lo stesso carattere. Alcune, soprattutto al Nord, nelle fabbriche, si porranno l’obiettivo di una difesa intransigente delle industrie esistenti. Su queste lotte e sulle difficoltà, aumentate anche dalla scissione che si è verificata nel movimento sindacale, sugli insuccessi e su una riflessione critica sul perché di questi insuccessi, si veda “La politica economica italiana 1945-1974. Orientamenti e proposte dei comunisti”, AA. VV. , a cura della scuola centrale del PCI, pp71/85. Parte del testo è dedicata ad un’analisi dei principali motivi della sconfitta della CGIL nelle elezioni alla FIAT.

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NOTE SULLA POLITICA CULTURALE IN ITALIA DAL 45 AL 60

Il V Congresso del PCI si tiene a Roma dal 29 Dicembre 1945 al 6 gennaio 1946. E’ evidente il rilievo che viene diffusamente dato alla priorità del reclutamento delle forze intellettuali, prefigurando un’azione ad ampio raggio in grado di riferirsi a tutti i campi dell’attività umana, diluendo al massimo contraddizioni e conflitti tra scuole formative diverse, come quella umanistica e quella scientifica che pure hanno fatto capolino nella discussione. Alicata sintetizza efficacemente la linea che il partito intende imboccare. Si punta a portare a fondo l’azione per la sprovincializzazione della cultura italiana, siamnifesta opposizione alla cristallizzazione rappresentata dall’idealismo e si dichiara di voler superare gli “elementi di arretratezza” della società italiana che nella cultura si riflettono “Far fare passi avanti al nostro paese sul piano della struttura sociale ed economica significa far fare dei passi avanti alla nostra cultura sul piano di quelli che sono i trionfi ed i successi della scienza e della tecnica moderna. E’ in questo senso che noi potremo creare un nuovo umanesimo”29. Acutamente, come si ricava dalla lettura del suo intervento, Alicata non assume posizione a favore di una linea che privilegia la cultura umanistica rispetto a quella scientifica e pare piuttosto incline a proporre posizioni che consentano la convivenza di tendenze diverse all’interno di un progetto unico da unificare pazientemente. L’azione ad ampio raggio, ispirata da Togliatti, tende a distendersi anche, con particolare attenzione, nella direzione degli intellettuali cattolici in modo tale da potere, fuori da impostazioni preconcette, costituire le premesse di un fecondo confronto ancorato all’individuazione delle possibili convergenze prati-

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Intervento di Mario Alicata al V Congresso del PCI, Archivio Istituto Gramsci, Roma, atti dattiloscritti, pp1218-1223

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che ed operative comuni scisse dal condizionamento preconcetto dei differenti punti di partenza confessionali o religiosi. Tentando un’analisi della politica culturale italiana che non potrà, ovviamente, essere organicamente e definitivamente compiuta ed esaustiva, ed in particolare riferendoci specificamente a quella del Partito Comunista Italiano nel secondo dopoguerra, ci si imbatte comunque, immediatamente, in oggettive difficoltà: manca uno studio sistematico che possa servire come base per successive indagini, i materiali che possono essere reperiti parlano di particolari iniziative del Partito Comunista Italiano verso le forze della cultura, ma non offrono un sufficiente quadro d’insieme delle difficoltà, delle contraddizioni, delle speranze e degli elementi positivi che questa iniziativa generò nei gruppi intellettuali che, nella ricerca di una nuova ed inedita ricollocazione sociale della loro funzione, si affacciavano all’impegno nel dopoguerra, e, di conseguenza, cominciavano ad agire tentando di far sentire la loro influenza, su nuove basi, in tutto il tessuto della società civile. Pressoché unica eccezione sarà, per lungo tempo, l’interessante ed utile lavoro di Romano Luperini30. Oltre al fatto che, per la prima volta, viene tentata una ricostruzione del clima culturale che si delinea tra gli intellettuali italiani all’indomani del secondo dopoguerra l’indagine, ricca di spunti e di sollecitazioni critiche, può costituire una prima e stimolante base di partenza per ogni ulteriore sottolineatura ed approfondimento. L’analisi tratteggia un excursus ricostruttivo della funzione della cultura e del ruolo degli intellettuali da un lato abbozzando un raccordo, per grandi linee, con la situazione del periodo fascista e dell’anteguerra accentuando l’aspetto di un clima chiuso ed autarchico dell’economia e della produzione culturale, che non appare per nulla incline alle contaminazioni esterne. Si fa cenno quindi, rapidamente,ai tentativi in parziale contro tendenza abbozzati, senza successo, da un intellettuale fascista come Bottai. Al contempo si propone

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Romano Luperini: ”Gli intellettuali di sinistra e l’ideologia della ricostruzione nel dopoguerra”, ed. di “Ideologie”-Roma, 1971

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un’interpretazione di fondo nella quale si esplicita un’impietosa critica alla funzione ed al ruolo della cultura e degli intellettuali di sinistra del secondo dopoguerra. In sintesi, l’autore non condivide la lettura capziosa circa la presunta opposizione ed il discutibile conflitto che si svilupperà tra gli intellettuali “conservatori” del Partito ed i presunti “innovatori” del Politecnico. E’ piuttosto incline ad una lettura liquidatoria della funzione di entrambi gli schieramenti essendo tutti sostanzialmente ritenuti subalterni alla funzione economica, sociale e culturale del capitalismo nazionale alla cui ideologia della “ricostruzione” si dichiareranno disponibili, nella pratica evitando di spingere verso una rottura radicale. Ciò cui in sintesi si rinuncia, a giudizio di Luperini, è l’autentica e rigorosa “lettura marxiana” dei rapporti materiali di produzione e dei conflitti determinati dal modo peculiare nel quale si manifesta il rapporto tra capitale e lavoro. Il conflitto viene così sistematicamente negato ed anzi annullato, è consentita la ricostruzione del potere economico dei grandi gruppi monopolistici pur responsabili primi dell’avvento della dittatura fascista e della tragica deflagrazione bellica. Tutti gli atti politici del Partito comunista italiano e delle grandi organizzazioni di massa popolari, come la CGIL, vanno per Luperini nel senso dell’offuscamento delle distinzioni e dell’opposizione e si evita accuratamente di porre al centro dell’azione di massa il punto legittimo ed irrinunciabile della presa del potere. Alla subalterna ricostruzione dei rapporti di potere precedenti si prestano anzi le politiche propugnate dalle forze di sinistra e dagli intellettuali, in vario modo ad esse collegati, tutte proiettate, in maniera esclusiva, verso la necessità capziosamente enunciata della ricostruzione materiale e morale del Paese. In relazione a questa generale impostazione si è addirittura giunti ad accettare di rinunciare a rivendicazioni di aumenti salariali pur di raggiungere, in un insieme indistinto di “concordia nazionale”, l’obiettivo primo ed anzi esclusivo di una Pagina 31


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restaurazione dei vecchi rapporti di produzione e di potere. In tale processo politico, Luperini prescinde dalla realistica considerazione dei potentissimi condizionamenti della situazione internazionale nella quale si è determinato un compromesso tra i grandi del mondo sulla divisione planetaria in distinte sfere d’influenza, elemento questo dal quale è assolutamente ingenuo prescindere. La radicalità della critica non risparmia lo stesso Gramsci che sembrerebbe astrattamente privilegiare il momento della sovrastruttura e quello della conquista del “consenso” rispetto a quello, centrale e decisivo, della violenza rivoluzionaria. Risulta del tutto evidente - per Luperini - come, invece, tutto ciò che si muove nel campo delle idee e della cultura è, in tutte le epoche storiche, espressione indotta dai condizionamenti della situazione economico-pratica e materiale dei rapporti di produzione31. Pur in presenza di tali ripetute sollecitazioni e valutazioni, trancianti e liquidatorie, sull’insieme delle scelte politiche e delle tendenze culturali che attecchiscono e si sviluppano nella sinistra intellettuale del periodo in esame il testo è assai utile per i ricchissimi spunti bibliografici, per il costante ed analitico richiamo, in specie nelle note, alla pluralità di riviste ufficiali e non che compaiono in questa fase. Troveremo scrittori comunisti ortodossi, del partito o suoi fiancheggiatori, tutti in genere protesi all’affermazione di una linea di continuismo storicistico d’ispirazione nazionale e popolare dai primordi risorgimentali all’unificazione

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“Anche chi ha cercato di rivendicare la matrice marxiana di queste posizioni gramsciane a buon diritto messa in dubbio da Norberto Bobbio al Congresso gramsciano di Cagliari (Cagliari 23-27 Aprile 1967n. d. r), è costretto ad ammettere che in Gramsci la lotta per l’egemonia culturale ha una importanza fondamentale perché ha per obiettivo “quello di isolare politicamente e ideologicamente la classe dominante”: che è davvero una maniera ben strana di essere fedeli a quel Marx che nell’Ideologia Tedesca definisce la cultura come cultura della classe dominante e le idee” dominanti in una società “come le “idee della classe dominante” (giacchè) ”la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominantePLe idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee. : sono, dunque, l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante e dunque sono le idee del suo dominio” (Karl Marx- Friedrich Engels :”L’Ideologia Tedesca”), Roma, ed. Riuniti, 1969 pp. 35/36, riportata a pag 17 /18 citato testo di Luperini.

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nazionale, passando da De Sanctis a Croce a Gramsci, impegnati nella riscoperta di un’originalità antica della cultura nazionale ed ad una sua orgogliosa difesa e diffusione. Contemporaneamente si manifesteranno le tendenze proiettate all’apertura di orizzonti più ampi, europei e sopranazionali, alla curiosità verso la letteratura d’avanguardia ed alle nuove tendenze, come l’esistenzialismo, spesso superficialmente combattute e liquidate come dannose dalle posizioni ufficiali di partito. Costanti i richiami, oltre che al “Politecnico” anche a “Rinascita” e “Società”, al “Ponte” ed a “Critica Marxista”, a Gianfranco Fortini ed a Raniero Panzieri di “Studi Socialisti”, oltre, ovviamente ad uomini decisivi come Togliatti, Alicata, Sereni, Giansiro Ferrata, Felice Platone. Al di là quindi dei giudizi d’insieme secchi, trancianti e negativi sulle scelte che sono state attuate, un testo iniziale di riferimento propedeutico alla produzione di progressivi e più puntuali e ragionati approfondimenti. Comunque, oltre quest’insieme di valutazioni troppo sbrigativamente liquidatorie dell’autore, che induce a ritenere segnata da ingenuità ed idealismo l’ispirazione di fondo dell’opera, si consideri come nei punti d’Europa dove si arriverà a spingere in modo radicale verso lo scontro frontale (Partito Comunista Greco e guerra civile contro gli inglesi) il conflitto si concluderà con una drammatica sconfitta delle forze popolari e con un grande bagno di sangue nel sostanziale silenzio ed anzi nella pressoché totale acquiescenza dell’URSS32. Fatte queste necessarie e preliminari precisazioni, cercheremo, dovendo necessariamente procedere per approssimazioni e progressivi approfondimenti, di mettere in risalto soprattutto alcuni dei temi centrali che costituirono gli elementi di maggiore attenzione nella caratterizzazione del dibattito culturale che

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Il film di Anghelopulos “La Recita”, interpretato tra glia altri mirabilmente da Irene Papas, ricostruisce la storia del tentativo di insurrezione organizzato dal Partito Comunista Greco schiacciato nel sangue dalle Forze Armate Inglesi. Da segnalare l’uso, assolutamente originale, da parte della macchina da presa, per tutta l’opera, dell’esclusiva prospettiva con la totale eliminazione dell’inquadratura degli attori con i primi piani.

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si sviluppò in quegli anni33. Ci troviamo, nell’excursus sul periodo storico oggetto d’indagine, anzitutto di fronte a due grandi ed indiscussi protagonisti della battaglia culturale e politica di quegli anni, Palmiro Togliatti e Benedetto Croce, personaggi diprimissiomo piano da cui chiunque tenti un approccio, anche parziale e limitato a questi argomenti riferiti a quello specifico periodo storico non può, in alcun modo, prescindere. Ricorderà Carlo Cassola, riferendosi ai giovani della sua generazione, come in genere

gruppi

consistenti

d’intellettuali

e

di

giovani

siano

giunti

all’antifascismo militante attraverso un lungo e periglioso cammino. Le scelte sempre più progressivamente impopolari ed infauste del regime faranno convergere un’opposizione, già da tempo confusamente esistente, in nuce, che si è andata progressivamente strutturando già all’interno delle formazioni fasciste, come i G. U. F. , specificamente preposte a funzioni d’irrigimentazione di massa. I vari disagi e distinguo, progressivamente sempre più chiari e col procedere del tempo sempre più radicali, si andranno a combinare con ciò che è rimasto in campo delle minoritarie posizioni che ancora si riferiscono al liberalismo classico e, soprattutto, con il progredire dell’opposizione clandestina comunista raccolta, tra l’altro, attorno al foglio “Lo Stato Operaio”. Il comunismo italiano si configura, già dall’arrivo di Togliatti a Napoli nel 1945, come qualcosa di diverso ed originale rispetto ad esperienze politiche ed organizzative, ortodosse e subalterne, nei fatti, alle linee ed agli indirizzi ufficiali del PCUS. Nette, infatti, e ben più complesse ed elaborate rispetto- ad esempio- al Partito Comunista Francese, appaiono i filoni progettuali ed operati-

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Mi sembra che propongano una linea d’interpretazione sostanzialmente convergente con quella di Luperini, il Renzo Del Carria di “Proletari senza Rivoluzione” e soprattutto il Franco Fortini de “La verifica dei poteri”. Può essere anticipato che Fortini proponga indagini e tesi accuratamente sviluppate, in maniera acuta ed originale, alla luce dell’incisiva comprensione delle nuove funzioni dei nuovi e differenti meccanismi di organizzazione dell’industria culturale che, nella fase di sviluppo neocapitalista, acquista l’editoria. Ben diversamente pare svilupparsi la progressiva elaborazione di Norberto Bobbio. In ogni caso vanno considerati Asor Rosa ed Arcangelo Leone de Castris assieme a Sanguineti ed al gruppo 63 su cui in altra circostanza si potrà tornare.

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vi del PCI. C’è anzitutto la scelta netta e definitiva della creazione, dopo la caduta del Fascismo e la nascita della Democrazia, di un Partito Nuovo ed originale, di un partito non più soltanto di quadri ma di massa, il “Partito Nuovo “, per il cui capillare radicamento e diffusione popolare Togliatti impegnerà il meglio delle sue energie non di rado combattendo e sconfiggendo anche forme sorde d’interna resistenza. Il primo problema di quest’operazione è indubbiamente quello della legittimazione democratica di questa formazione politica. Contro la rappresentazione, spesso caricaturale degli avversari, che insisteranno per anni, sordamente, sulla presunta assoluta assenza nel PCI di spirito nazionale, contestandone subalternità e funzione di piatto “fiancheggiamento” ai sovietici ed al PCUS, contro le campagne che, come vedremo, indulgeranno senza posa ad una rappresentazione dei comunisti italiani come forze “antinazionali” e “vendute allo straniero”, Togliatti insisterà, instancabilmente, nella rappresentazione di una formazione politica originale e creativa, del tutto interna ai principali filoni storici e culturali propri della storia nazionale italiana. Non mi pare possa essere letta in maniera diversa, come si vedrà, l’insistenza, in alcune circostanze quasi ossessiva, al sostegno della tesi fondamentale che il Pci è la forza più conseguenzialmente nazionale e popolare. Le sue radici e le sue legittimazioni teoriche vanno ricercate, essenzialmente, nel filone di pensiero De Sanctis- Labriola- Croce – Gramsci, nel riferimento all’eredità dei grandi italiani che hanno concorso, negli ultimi secoli, al raggiungimento dell’unità, della libertà, dell’autonomia della Nazione. Dopo la fine della guerra, come sosterrà Palmiro Togliatti nel 195834, “L’Italia fu forse il paese dell’Europa occidentale in cui più accanita si combatté la lotta tra le forze della conservazione e quelle del rinnovamento politico e sociale, e dove queste ultime, pur non essendo riuscite ad installarsi storicamente al pote-

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Togliatti, “Il Partito Comunista Italiano”, ed. Riuniti, Roma, 1961, p. 89

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re, ottennero però successi tali che hanno esercitato una profonda efficacia su tutti gli ulteriori sviluppi politici”. Possiamo dire che questo giudizio contiene una sua indubbia validità anche per ciò che concerne la lotta di posizioni che si verificò nel campo della cultura e sul piano della “battaglia delle idee”. Un ribaltamento profondo è infatti avvenuto, nel rapporto tra politica e cultura, nella e con la guerra di liberazione nazionale. Una novità di grande rilievo è costituita dal nuovo atteggiarsi di sempre più ampi gruppi intellettuali che, nella ricerca di un superamento dello steccato divisorio che si era venuto instaurando e consolidando graniticamente nella storia della cultura italiana tra intellettuali e masse assumono - col loro riposizionamento ideale e sociale - un atteggiamento di ricerca costante di un rapporto diverso e positivo con le forze politiche e sociali progressive che agiscono nella società italiana. Come vedremo questa ricerca, di un rapporto di convergenza e di collaborazione non sarà semplice e darà luogo anche a frequenti equivoci che, soprattutto in un periodo particolare, rischieranno di offuscare la specificità del ruolo, della figura e della funzione degli intellettuali che hanno tentato d’intraprendere la strada di un forte, diretto e personale impegno sociale35. Questi movimenti però determinano un agitarsi di problemi inediti e vorticosi nel Partito Comunista Italiano. Esso, da questo momento storico preciso, è chiamato a dare una risposta a questi fermenti acquisendo in pieno la terza dimensione della propria azione, quella cioè teorica e culturale al fianco di quella consueta sviluppata sui piani economici e politici.

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Anticipando un ragionamento che poi sarà più accuratamente sviluppato, Norberto Bobbio, nella sua “Autobiografia” (Ed. Laterza) curata da Alberto Papuzzi, esplicita il vero nodo del contendere, coi comunisti, quando sottolinea che è essenziale, nell’individuazione delle forme peculiari di sviluppo della società, salvaguardare- semprecon i fattori di giustizia- quelli della libertà individuale e collettiva. Sarà questo uno dei principali temi distintivi della sua elaborazione teorica sullo sviluppo possibile delle forme istituzionali della società. Su tale argomento la sua visione non coincide con quella dei comunisti, coi quali, ricorda, ha teso sempre a mantenere cordiali rapporti di confronto nella paziente ricerca di occasioni di convergente collaborazione.

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Qui inizieranno le difficoltà poiché una cosa è l’azione politica immediata, altro è la funzione da svolgere per conquistare decisamente ad una visione autonoma del mondo, in una chiara differenziazione dalle classi economiche dirigenti delle società sviluppate del tempo, una grande massa di uomini, vissuta fino alla Resistenza in una condizione sostanzialmente subalterna ai poteri più forti e condizionanti. E’ molto complesso cioè trasferire nel campo delle idee, sul campo della costruzione di una “nuova cultura”, il ruolo che una classe progressiva cerca di costruire sul terreno della lotta politica. Negli anni 1945-1948 vediamo i primi sforzi, ancora approssimativi, confusi e poco lineari di intendere il marxismo non come sistema rigido, ma come metodo d’indagine “aperto” dei processi storici, economici, politici e culturali. Così dirà Togliatti su “Rinascita” nel I numero del giugno 1944: “Non siamo capaci di elevare barriere artificiose od ipocrite tra le sfere diverse dell’attività economico – politico - intellettuale di una nazione. Non separiamo e non possiamo separare le idee dai fatti, il corso del pensiero dallo sviluppo dei rapporti di forze reali, la politica dall’economia, la cultura dalla politica, ...l’arte dalla vita reale. In questa concezione unitaria e realistica del mondo intero è la nostra forza, la forza della dottrina marxista”36. Lucio Lombardo Radice nell’articolo “ Comunismo e cultura”, apparso su “ Rinascita” mensile del 1945 inviterà tra l’altro ad evitare, nello studio del Marxismo, ogni schematismo. Questo, sosterrà, è il metodo più corretto per far vivere il marxismo “per inverarlo uscendo da ogni possibile schematismo….per dimostrare la funzione verso la cultura moderna; per dimostrare cioè concretamente come il marxismo liberi da tutti quei residui di apriorismo e di metafisica che gravano necessariamente sui sistemi idealistici, sul materialismo meccanico e sulle altre concezioni della viat in quanto tali concezioni vogliono, in un modo o nell’altro, contenere il processo di sviluppo della società e della ricerca entro determinati limiti e si oppongono quindi, prima o poi , ad ulteriori progressi, divenendo quindi ostacolo a nuove conquiste;” Il marxismo non è,

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Art. non firmato, intitolato “Programma”, attribuito a P. Togliatti, in Rinascita, Anno I, n. I, giugno 1944.

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per Radice, un catechismo; Non ci si può quindi limitare ad accettare alcune formule. Il marxismo non è “ antistoricismo”, e l’adesione ad esso non può significare certo rifiuto in blocco delle altre esperienze di pensiero, “né taglio netto con tutto il passato preso in blocco” La linea di politica culturale che si viene configurando appare, nelle grandi linee generali, abbastanza chiara: è necessario battere il vizio antico dei ceti intellettuali italiani, quello di ogni aristocratico distacco tra cultura, intellettuali, masse, battere un falso concetto dell’autonomia della cultura intesa come separazione e battere ogni pretesa funzione aristocratica dell’intellettuale37. Quest’esigenza, che viene espressa in chiara polemica con la tradizione idealistica crociana, vuole indicare un sentimento sostanzialmente giusto, ma nel prosieguo- per motivi diversi- porterà a giudizi spesso sommari e schematici verso altre forme di espressione artistica, verso l’arte “non impegnata”, il decadentismo e le avanguardie. Per ciò che riguarda poi i contenuti della cultura dal partito viene l’indicazione, seppure ancora approssimata, di studiare la tradizione democratica e d’impegno civile della cultura italiana, di uscire dal suo provincialismo, per tentare di entrare, con un’orgogliosa e propria fisionomia identitaria, in un rapporto di contaminazione feconda con la cultura degli altri paesi europei e mondiali più avanzati. Questo tema dell’impegno dell’intellettuale nella lotta politica-sociale sarà, da quel momento in avanti costante, ripresentandondosi in maniera più o meno

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Su questa linea già nel 1946 il PCI ottiene risultati apprezzabili: è sotto il suo stimolo infatti che in quell’anno si crea un rapporto unitario tra intellettuali democratici ed antifascisti. In occasione del Referendum del 1946 si ha l’appello degli intellettuali democratici italiani per la Repubblica. Il fatto ha un grande valore politico: tra i firmatari dell’appello contro la Monarchia si nota la presenza non solo di intellettuali che si richiamano al comunismo ma anche di intellettuali liberali e di altre tendenze di pensiero. Anche alla rottura dell’unità politica che avverrà nel 1947 il PCI risponde costituendo un punto di riferimento per gli intellettuali avanzati. Si fonda infatti il 19 febbraio 1948 1’ “Alleanza della cultura”. Questa iniziativa si articolerà in una serie di posizioni contro la minaccia della guerra fredda, contro l’attacco alle condizioni di vita delle masse e contro l’attacco alla libertà della cultura. Questa alleanza è malvista dal governo centrista (si ricordino gli slogan contro il “culturame” e contro gli “utili idioti” coniati da Scelba ed attribuiti agli intellettuali che avevano preso una netta posizione su una serie di tematiche politico-sociali).

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complessa, in tutti i decenni seguenti. Ancora oggi di frequente riemerge riproposto in termini di stringente attualità38. Il problema di un incisivo e diretto impegno sociale capace di rigenerare una funzione socialmente positiva degl’intellettuali, era venuto maturando già negli anni precedenti. E’ infatti vero che “alla rottura violenta col fascismo e all’impegno attivo nella Resistenza i giovani intellettuali arrivano in maggioranza... . dopo un lungo girovagare attraverso le illusioni e le prospettive del regime... La contraddizione esplode quando (emerge con chiarezza la non conciliabilità) tra obiettivi sociali e “popolari” del fascismo e la sua inconfondibile ed insuperata matrice di classe”39. In verità anche il fascismo aveva chiesto agli intellettuali un impegno politico, ma questa presa di posizione doveva essere rivolta ad esaltare, in maniera subalternamente acritica, il fascismo. A fronte di ciò e della difficoltà obiettiva, immediatamente evidente, alla praticabilità di strade diverse, molti uomini di cultura avevano reagito appartandosi. In realtà il fenomeno della poesia ermetica, che di frequente risultava poesia di difficile comprensione, con il ricorso ad un uso spesso criptico della forma stilistica, intende indicare appunto la scelta del ripiegare in sé stessi per non essere definitivamente battuti e travolti Ambivalente è stato perciò, giustamente, il dibattito sviluppato sul carattere e la qualità della poesia ermetica. .

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Elementi di forte polemica verso il crocianesimo si trovano già nel prosieguo dell’articolo di Togliatti già citato (v. pag. 44) “... . Il primo colpo di piccone per aprire la strada, nel campo del pensiero e della cultura, alla barbarie ed alla degenerazione fasciste venne dato, in sostanza, da colui che proclamò che il marxismo era morto... . e come la rinascita del movimento operaio è inizio e sarà nei suoi sviluppi fonte sicura di rinnovamento di tutto il paese, così la ripresa di un movimento di pensiero marxista non può non significare inizio di rinnovamento in tutti i campi dell’attività nostra intellettuale e culturale. Questa affermazione... ci obbliga a molte cose; a fare uno sforzo per abbracciare campi di indagine, di polemica e di lavoro dove nel passato non eravamo soliti penetrare. In secondo luogo ci obbliga a chiamare a raccolta per aiutarci in questa attività nuova, forze diverse (da noi)... ma decise come noi a rompere con un passato, prima di decadenza, poi di sfacelo e a battere le vie di un rinnovamento radicale sia della nostra vita politica, sia della nostra cultura”. 39

Asor Rosa, “La democrazia” in “Storia d’Italia”, voI. IV, Tomo Il, Ed. Einaudi, p. 1584

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Questo movimento, in quella fase, ha avuto una funzione che non è stata – di per sé - negativa o reazionaria, nonostante il disimpegno politico nel battersi – visivamente ed esplicitamente - contro il fascismo. La contraddizione rilevata nella complessa natura del fascismo ha costituito il detonatore per la disgregazione dell’ideologia e dell’organizzazione del vecchio Stato liberale. La varietà degli elementi che erano confluiti nel Fascismo aveva concorso alla realizzazione di un vasto consenso sociale, di massa, al regime. Esso, con l’uso combinato di più fattori, populistici, demagogici, irredentisti, d’esaltazione dell’idea di Nazione, con l’uso spregiudicato della violenza squadristica contro tutte le opposizioni, aveva dissolto le vecchie strutture istituzionali riuscendo ad imporsi, occupando lo Stato, al complesso della società. Questo “sistema”, di consenso e dominio combinato, apparso a lungo granitico ed inscalfibile, è andato in crisi ed è esploso con la guerra. 40. Si è verificato cioè uno sconvolgimento ed un riposizionamento, fino a poco tempo prima imprevedibile, nel campo delle idee tra tutti i ceti sociali, tra i giovani e tra i gruppi intellettuali che li ha portati – progressivamente - a rimet-

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Roberto Racinaro, nel quaderno di critica marxista del gennaio febbraio 1975, Anno 0 XIII, n I, così si esprime: “Vi è innanzi tutto da tener conto della crisi interiore di quella generazione di giovani intellettuali che, proprio dall’iniziale fiducia nel fascismo e nella sua dottrina, furono spinti all’opposizione. Diventa allora interessante la storia del loro modo di organizzarsi clandestinamente e di preparare la Resistenza: non si tratta ancora, in questo caso, dell’ “esposizione di una evoluzione di posizioni ideali” bensì della dimostrazione del fatto che nell’animo di questi giovani era celata una distintiva “ribellione al “regime” come tale, di cui coglievano(ormai)l’ipocrisia nelle parole e nei gesti”. pp. 181/182; (le parole tra virgolette sono di Togliatti, in “Momenti della storia d’Italia”, Ed. Riuniti, Roma, 1973, p. 294.

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tere in discussione acquisizioni e dati che sembravano raggiunti per sempre41. La libertà da riconquistare, la lotta contro il nazifascismo è ora un compito ed un obbligo politico e morale a cui l’intellettuale ha il dovere morale di non sottrarsi42. Ecco cosa dirà Giaime Pintor: “La guerra, ultima fase del fascismo trionfante, ha agito su di noi più profondamente di quanto risulti a prima vista. La guerra ha distolto materialmente gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciano i presupposti d’ogni vita individuale, li ha persuasi che non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento... Ad un certo punto gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in un’organizzazione di combattimento”43. La Resistenza fa sì che gli intellettuali sperimentino, in modo drammatico e diretto, di fatto quel rapporto con la società che aveva cercato di attuare il fasci-

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E. Garin, “Intellettuali italiani del XX secolo. ed. Riuniti, Roma, 1974, pp. XVII-XVIII, così riassume gli atteggiamenti principali dei gruppi intellettuali di fronte al fascismo: 1. L’adesione di comodo, di superficie, di molti, senza che con questo i loro “prodotti” intellettuali necessariamente esprimessero in modo organico il fascismo;

2. La presa di coscienza e la crisi di altri, specialmente i più giovani... che individuarono il carattere reazionario di fondo del fascismo, se ne staccarono fino a combatterlo, passando su posizioni nettamente opposte; 3. La precisazione di un distacco da parte di quanti, legati alla tradizione degli “ideali risorgimentali” e fedeli alle eredità “liberali” ottocentesche, presero energicamente le distanze dalle ideologie fasciste in nome della “religione della libertà”, anche se su posizioni chiaramente conservatrici. 42

Leonardo Paggi, comunque, ne “Gli intellettuali nel la rivoluzione antifascista” (in Rinascita, il Contemporaneo, 7 settembre 1973) mette in guardia dalla semplificazione in cui erroneamente si incorre identificando il fascismo con l’anticultura. Tale visione perde di vista il fatto che il fascismo costituì per i più giovani la novità maggiore “forse proprio (perché rappresentò) il trovarsi immersi in un rapporto nuovo con la politica, mediata da grandi organizzazioni tendenti obiettivamente a collocare il loro ruolo nella prospettiva di una politica di massa”.

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G. Pintor, “Il sangue d’Europa”, pp. 186/187, riportato in “La storia d’Italia”, op. cit. p. 1588

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smo. E’ l’inizio della ricerca drammatica e complessa, ancora oggi attuale, per giungere ad un nuovo rapporto tra intellettuali e masse. Resta però aperto il problema di fondo del “come mettere in rapporto, su basi di massa, il lavoro intellettuale e la produzione culturale con la realtà nuova di una società articolata senza cadere nell’elitarismo e nell’individualismo dei piccoli gruppi”44. Da quest’affannosa ricerca prenderà il via, conclusa la guerra, nelle arti e nella letteratura, il realismo. Questo movimento vorrà esprimere il tentativo di porsi in un rapporto col reale che sia d’immediata rappresentazione, conoscenza e trasformazione, non di evasione. Il neorealismo si affermerà soprattutto negli anni che vanno dal 1940 al 1950, prima di entrare inesorabilmente in crisi col ritorno a forme espressive intimistiche anche di molti intellettuali ed artisti che vi avevano aderito. Va detto però che in questi anni esso rappresenta la tendenza decisamente prevalente che si affermerà nel campo culturale45. Per l’affermazione di questa linea si batterà risolutamente e direttamente anche il Partito Comunista. La linea del neorealismo avrà la sua espressione più chiara e forte nella cinematografia, con la sua attenzione ai poveri, ai semplici, ai contadini e ai disoccupati. Nell’interpretazione della tendenza neorealistica sorge il problema se quest’impostazione abbia aiutato un oggettivo innalzarsi delle capacità culturali delle grandi masse oppure non abbia rappresentato una forma di deteriore “populismo”, d’edulcorata e mistificata riproposizione di antiche distinzioni e separatezze. , di ricercata e perciò gratuita sovrapposizione

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Asor Rosa, op. cit. , p. 1585

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“Quella esigenza (della cronaca) ha certamente incarnato il desiderio di verità, di scoperta, di concretezza che il realismo voleva contrapporre alla menzogna, all’invenzione, alle pure combinazioni formali dell’arte tradizionale. Ma quell’esigenza nascondeva anche un altro aspetto: la divinizzazione del fatto in sé, nella sua pura obiettività di fronte al quale l’uomo deve annullarsi e scomparire”. (Salinari, in “Profilo storico della letteratura italiana”, voI. III, Ed. Riuniti, Roma, 1972, p. 330.

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illuminata dell’intellettuale verso il popolo46. In realtà un limite di populismo sembra esserci realmente. Si sostiene infatti che il protagonista della vita è il popolo, che, essendo nella maggioranza costituito da contadini, viene ad essere individuato essenzialmente nelle masse contadine. Il “populismo” deteriore può esser visto perciò nel fatto che l’intellettuale si avvicina al popolo per “illuminarlo”. Così facendo viene ad appannarsi, fino ad essere nei fatti negata, la funzione egemonica della classe operaia che è passata, con la guerra di liberazione nazionale, da una funzione subalterna ad un ruolo dirigente nella vita della società italiana. Nella cinematografia neorealista - campo d’osservazione privilegiato del fenomeno- non si vede quasi mai il ruolo dirigente della classe operaia. Il rapporto pressoché esclusivo è tra intellettuali e contadini, e qui sta il limite, non tra intellettuali e classe operaia. Visconti è più convincente ed ha più successo: egli, infatti, rappresenta, sempre, il disfacimento di una classe. Ad esempio in “Rocco e i suoi fratelli” viene espressa la disgregazione della vecchia famiglia contadina, ma quando nello stesso film si pone il problema della rappresentazione della vita della classe operaia, esso tema è visto in modo ancora errato: la figura più retorica della famiglia di Rocco è, infatti, proprio quella dell’operaio, pronto ad aderire, simbolicamente alla società con cui è entrato in relazione, in essa integrandosi ed annullandosi. Lo stesso Pratolini riesce bene in “Cronache di poveri amanti”, ma quanto passa al “Metello”, il fiato e la ricchezza ispirativa sembrano mancargli perché ha tentato di passare da una produzione neoveristica al tentativo- ben più ambizioso- di rappresentazione della Storia. Qualunque siano i limiti, già piuttosto precisamente rilevabili in questi anni, è certo però che inizia a delinearsi il nuovo comportamento, di cui si parlava, de-

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E’ questa la tesi sostenuta da Asor Rosa in “La Resistenza e il gramscianesimo: apogeo e crisi del populismo”, in “Scrittori e popolo”, Ed. Samonà e Savelli, Roma, 1965, pp. 153/280.

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gli intellettuali verso l’impegno politico e sociale. Questo processo però sarà interrotto soprattutto per il verificarsi di una serie di fatti politici che metterà un freno alle certezze di una conquista che sembrava attuata. Come si è detto, sulla strada del realismo si impegnano gli intellettuali progressivi, anche quelli vicini al PCI, ma, come ha rilevato Luciano Gruppi, per ciò che riguarda invece l’attività del Partito per far marciare un’iniziativa articolata nei confronti delle istituzioni culturali (scuola, cinema, teatro), per quanto concerne la sua capacità di organizzare un lavoro permanente di formazione e di direzione culturale non solo nei riguardi di ristretti gruppi di intellettuali ma verso i militanti ed in direzione di un ampio fronte democratico allora si vedranno notevoli limiti. “L’attività del Partito in questa direzione si esaurisce quasi nell’orientamento che esso fornisce sui temi di politica generale”47. Hanno luogo iniziative verso gruppi intellettuali, qualche convegno, ma il lavoro culturale del Partito è visto in modo abbastanza riduttivo come lavoro “verso gli intellettuali” e non come lavoro che deve vedere il Partito battersi nella costruzione di un nuovo rapporto tra classe operaia e cultura, per mezzo del quale cioè il Partito deve fornire alla classe gli strumenti che le permettano di svolgere una funzione dirigente sul terreno delle idee nella società italiana. In generale manca la capacità di estendere, per tutto il corpo del Partito, l’attività dal livello politico ed economico a quello ideale e culturale. La politica della DC in campo culturale darà invece un’estrema attenzione alla conquista di un altro tipo di intellettuale, del quadro e del tecnico immessi nel circuito produttivo industriale, quello che si va formando nel campo della produzione48. Essa, infatti, oltre a recuperare elementi tipici della intellettualità liberale, come

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Luciano Gruppi, In Critica Marxista, quaderni-n, 5, 1972, p. 131.

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Se ciò è vero, va anche detto però che assisteremo, dopo il 18 aprile 1948, alla rinuncia da parte del partito cattolico a valorizzare la cultura cattolica. Si potranno notare anzi che anche produzioni culturali di cattolici saranno spesso valorizzate dal lavoro degli intellettuali comunisti e non invece dalla Democrazia Cristiana. E’ quanto, come vedremo, avverrà ad esempio nel cinema.

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Einaudi, che indicherà le linee di una politica economica di tipo tendenzialmente restauratore e socialmente restrittiva negli interessi dei ceti privilegiati, costruirà nuovi rapporti con quei ceti della cultura la cui funzione sociale è più diretta ed immediatamente incidente sulla realtà produttiva : i ceti legati soprattutto all’economia, i tecnici dell’industria, settore questo dove, per vari motivi, la sinistra mostra di avere una presenza non adeguata alle repentine novità della situazione. Con queste figure d’intellettuali, con i tecnici legati al nuovo livello della ricerca scientifica e tecnologica, la DC inizia una fase di penetrazione articolata nella società italiana. Questo è uno dei motivi non secondari della costruzione del blocco di potere interclassista da essa formato già nei primi anni del dopoguerra. Il PCI è però visto subito con simpatia da una serie numerosa di intellettuali avanzati, essenzialmente di tradizionale formazione umanistica e letteraria, poiché sembra fornire ad essi la saldatura, spesso ricercata ma mai raggiunta, tra cultura e politica. Esso sembra poter finalmente dare gli strumenti per riqualificare in un senso socialmente utile e nuovo l’attività ed il lavoro intellettuale. L’impatto tra partito e intellettuali avanzati non avvenne però senza difficoltà: la restaurazione capitalistica, la sconfitta del 18 aprile 1948, lo stalinismo ed i suoi riflessi in Italia costituirono elementi di contraddizione tali per cui questo discorso di politica culturale non si sviluppò in modo rettilineo ma fu invece accidentato e traumatico. La formazione dei gruppi intellettuali, anche di molti intellettuali comunisti, derivava dal crocianesimo. Erano presenti inoltre tra di essi altre tendenze di pensiero, da quella liberalmoderata a quella positivista, da quella socialista a quella gentiliana fino all’esistenzialista. Tutte queste tendenze non potevano essere facilmente unifi-

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cate nel marxismo49. D’altronde non era giustificato un atteggiamento di critica o d’ adesione alle forme espressive artistiche e letterarie quali si avevano solo misurando la loro aderenza o meno al marxismo. L’ideologia dominante dell’antifascismo non marxista era in ogni caso il crocianesimo. La prima battaglia teorica fu portata quindi sul fronte della lotta all’idealismo: ne veniva denunciata la natura filosofica sostanzialmente conservatrice e regressiva ma si tentava di dimostrare anche che il marxismo risolveva in sé, sviluppandoli, tutti gli elementi positivi ed essenziali di questa dottrina. L’operazione d’analisi critica della tradizione culturale italiana però non era semplice. L’esigenza di rivitalizzarere la cultura nazionale cozzava col fatto che nel movimento comunista internazionale il criterio fondamentale di interpretazione era fornito dallo stalinismo50.

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Va detto, per evitare equivoci, che in quegli anni il marxismo realmente approfondito era proprio solo di ristretti gruppi di uomini politici, soprattutto dell’esilio. L’intellettuale italiano che in questi primi anni del dopoguerra ricerca un impegno nella lotta politica, del marxismo conosce ben poco. Per motivi evidenti le opere dì Marx ed Engels erano quasi sconosciute, se si esclude il “Manifesto dei comunisti” conosciuto però in Italia solo attraverso una pubblicazione curata da Benedetto Croce in appendice a una raccolta di scritti di Labriola. Questa raccolta si apriva con la famosa prefazione di Croce il quale cercava di dimostrare che il marxismo era morto. Uno degli elementi principali che invece concorreva a mettere in moto le componenti progressive della cultura era dato essenzialmente dalla rivolta antinazionalista contro il regime fascista visto come un regime di medioevale provincialismo. Questa tensione sfocerà nel cosmopolitismo, cioè nella ricerca di un rapporto produttivo con la cultura straniera. Il cosmopolitismo sarà giudicato in vario modo dal PCI. 50

Si sentiva cioè già nel partito l’influenza del cosiddetto “zdanovismo” nel campo della letteratura. Tale linea si era affermata in Unione Sovietica nel 10 Congresso degli scrittori sovietici che si tenne a Mosca dal 17 agosto all’ I settembre 1934. “Il metodo “fondamentale” della letteratura sovietica fu indicata nel “realismo socialista”, indirizzo in cui la descrizione “non oggettiva”, “tendenziosa”, della “realtà colta nel suo sviluppo rivoluzionario” doveva accompagnarsi con la “trasformazione ideale e l’educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo”. Fu Zdanov, il dirigente che era appena stato portato dalla provincia alla segreteria centrale del Partito... a enunciare queste tesi come corollario di una definizione staliniana che, in omaggio alla mentalità tecnologica dei tempi, considerava gli scrittori come “ingegneri delle anime umane”. L’orientamento subalterno e pedagogico, così fissato per la letteratura e le arti in genere, era ben lontano dai presupposti con cui le questioni letterarie erano state discusse dieci anni prima nel pieno della NEP”. (G. Boffa, “Storia dell’Unione Sovietica”, Arnoldo Mondadori Editori, Verona, 1976, pp. 490/491). Tale influenza offuscherà il carattere delle mediazioni anche nello stesso Togliatti.

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D’altronde anche con le differenziazioni proprie della posizione di Togliatti, sarebbe errato pensare allo stalinismo come semplice espressione di un fenomeno sovrapposto alla situazione del comunismo italiano. Erano presenti invece nello stesso comunismo italiano- in maniera non proprio marginale- posizioni di tipo staliniano. Il PCI si muove, nei primi anni dopo la liberazione, in una logica dove cultura, intellettuali e masse cercano di sottrarsi del tutto ai ruoli a loro assegnati dalla società liberale (la linea di politica culturale proposta però continua a privilegiare, quasi esclusivamente, la cultura umanistico-retorica attribuendo scarsissima importanza al problema della scienza e questo vuoto, come si è già accennato, sarà invece, almeno parzialmente, riempito dalla iniziativa del partito cattolico). Ciò può servire a spiegare come in quegli anni il PCI non riesca a sviluppare coerentemente una iniziativa verso gli intellettuali -massa e come invece esso si rivolga quasi esclusivamente a ristretti gruppi di uomini di cultura, anche se di notevole valore, impegnati nel campo delle arti e della letteratura. La proposta culturale che è avanzata si concentra nella richiesta politica di un’adesione alla lotta contro l’autoritarismo clericale e per la libertà. Sarà solo, come vedremo, il contributo dell’elaborazione gramsciana che avvierà un processo di critico ripensamento su errori fatti nel campo della politica culturale. Passando attraverso il suo insegnamento e quando l’acume del suo pensiero comincerà a permeare, diffusamente ed in profondità, nelle forze organizzate dei vari strati del Partito, si arriverà, infatti, non senza fatica, strappi e distacchi anche dolorosi, all’accezione della necessità di una cultura libera, moderna, democratica e nazionale, non subordinata alle regole espressive volute dal partito. Si arriverà così a limitare, con fatica, nel “campo delle idee” il settarismo a lungo originariamente presente nelle posizioni del PCI. Saranno superate le posizioni che identificavano il cinema progressista col neorealismo, la letteratura vera con la letteratura che parla della vita degli operai e dei contadini; si guar-

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derà con maggiore attenzione alle espressioni dell’arte intimistica e della letteratura intimistica, riproponendo di esse letture più equilibratamente critiche ed aggiornate. Dopo questi cenni generali si cercherà di fare ora un discorso più ravvicinato, seguendo alcune delle manifestazioni che, negli anni che vanno dal 1945 al 1960, focalizzeranno maggiormente l’attenzione del Partito in tema di politica culturale. In ogni caso, semplificando, si può concludere questa premessa dicendo che tre tendenze e filoni di pensiero essenziali, presenti nell’Italia del tempo, tendono a confluire nella direzione del Partito Comunista che si presenta, nell’immediato dopoguerra, come la forza con maggiore capacità di attrazione e di coagulo sostanzialmente per il fatto di aver agito ed operato, con assoluta intransigenza e senza alcuna contiguità col fascismo, per tutto il tempo di quello che Ruggero Zangrandi definirà “il lungo viaggio” : i giovani dei Guf, aree minoritarie ed organiche di formazione liberal socialista, gruppi di comunisti ortodossi forgiati nella sanguinosa e mortale lotta di resistenza51. Tali singolari ed originali aggregati faranno un lungo tragitto comune, mischiandosi concretamente, come mai prima era avvenuto, alle vicende della vita pratica prima di pervenire, come vedremo, più avanti, soprattutto a fronte dei tragici fatti del 1956, ad imboccare strade diverse interrompendo, in maniera traumatica, un comune ed impegnativo sodalizio. In ogni caso è di quel tempo la nascita di un “intellettuale di tipo nuovo”, che avverte chiaramente e generosamente come proprio ed indifferibile l’impegno diretto, che sente la parzialità e l’inefficacia, data la durezza dei tempi, di un rifugio in una dimensione che appare quasi soltanto contemplativa. Molti di questi giovani, così, imboccheranno la strada del partito, diventando “rivoluzionari di professione “, funzionari, impegnati quotidianamente nell’azione politica diretta da combinare con la parallela azione di approfondimento teorico e cultura-

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Utile ed interessante è la consultazione del testo di Nello Aiello: ”Intellettuali e PCI 1945-1958”, suffragato da dettagliate ed approfondite note bibliografiche.

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le. Sarebbe particolarmente difficile e laboriosa una certosina e capillare ricostruzione delle singole biografie, dei vari punti del territorio nazionale dove si radicano, organicamente, tali tensioni. In uno scenario d’insieme sostanzialmente simile, come linea di tendenza, è utile in particolare citare il gruppo romano che, per estensione, articolazione e presenza delle più disparate competenze sarà destinato a costituire l’ossatura portante, per lunghi anni, della nuova formazione politica d’ispirazione togliattiana. A Roma ritroviamo, infatti, tra i tanti, Mario Alicata, destinato a lungo ad essere figura decisiva per le scelte di politica culturale del PCI, Emilio Sereni, Lucio Lombardo Radice, Carlo Salinari, Valentino Gerratana, destinato a portare a compimento l’immane opera dell’edizione critica de “I Quaderni dal carcere”, Eduardo Sanguineti, Gastone Manacorda, Fabrizio Onofri, Paolo Bufalini, Antonello Trombadori, Massimo Aloisi ed, assieme a loro, Pietro Ingrao ed Alfredo Reichlin, con Luigi Pintor e Renato Guttuso, fino a Carlo Lizzani ed a tanti altri. Questo gruppo si collegherà ad altri gruppi e formazioni simili, già operanti in altri punti della penisola, da Torino, a Milano, a Napoli, a Pisa ed a Firenze per dare luogo ad un collegamento progressivo, sempre più stringente, che accentuerà i fattori di collaborazione e confronto, tra gli altri, anche con personalità del livello di Concetto Marchesi, Ludovico Geimonat, Carlo Muscetta, Delio Cantimori, Cesare Luporini, Antonio Giolitti, Antonio Banfi etc. Una rapida lettura di quest’ elenco di nomi, assolutamente parziale e limitato, è però indicativa ed in grado di fare percepire correttamente l’estensione del fenomeno, la sua robusta consistenza. E’ del tutto chiaro come sia netta la prevalenza di individualità di formazione umanistica, ma si può dedurre, con assoluta chiarezza, come pressoché ogni campo e segmento dell’attività culturale sia coperto da figure che, a vario titolo e con le motivazioni le più disparate, tendono a confluire nell’ambito della ricerca di rapporti e relazioni privilegiate col

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partito più forte, organizzato e rappresentativo della sinistra italiana. Diffusissimo sarà l’elenco dei cosiddetti “fiancheggiatori”, dei tanti “compagni di strada”, che pur non iscrivendosi direttamente al PCI, nei fatti, si riconosceranno a lungo con le posizioni ufficiali che saranno, dallo stesso, assunte. In questo filone ritroveremo tanti scrittori, da Vittorini a Calvino, a Carlo Bernari ed al poeta Alfonso Gatto. Giorgio Amendola è, invece, un esempio d’intellettuale di formazione crociana e liberal democratica che già da molto tempo ha scelto l’adesione al PCI, di cui è diventato, già nel corso della clandestinità e della guerra di liberazione nazionale, autorevolissimo dirigente nazionale. Una delle formazioni politiche che si dissolverà ed il cui personale politico e culturale, soprattutto tra il 1944 ed il 1947, si dirigerà verso il PCI è senza dubbio quella del Partito D’Azione. La sua scomparsa sarà sancita nel Congresso Nazionale del Febbraio 1946. L’adesione diffusa al PCI introduce nella coscienza degli azionisti, in genere, una nuova ed inedita sensazione. Essi percepiscono come stiano vivendo un passaggio storico dalla consueta dimensione di piccoli gruppi, di sovente in tensione ed in conflitto tra loro, ad un approdo con una grande ed inedita dimensione, nettamente superiore a causa dell’esistenza di una massiccia e capillare organizzazione ramificata in più punti decisivi del cuore pulsante del Paese. Soltanto la DC, per capillarità e diffusione territoriale, è forza comparabile al Partito Comunista. Il PCI ha avuto una crescita straordinaria d’iscritti passando dalle poche migliaia del 1943 agli oltre 1. 700. 000 della fine del 1945 ed ai 2. 250. 000 degli inizi del 1948. In ogni caso è evidente come si vada prefigurando una linea di riferimento generale che appare seccamente alternativa all’idea, ritenuta falsa, dell’astratta purità dell’arte e del tutto contraria a chi ha inteso astrarre, separandole, la vita letteraria dalla vita civile. Il punto è invece quello di giungere alla contaminazione ed alla reciproca simbiosi tra letteratura e popolo e bisogna individuare i modi più efficaci per concretizzare l’essenza di quest’idea.

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BENEDETTO CROCE

Nell’opera “La Storia come pensiero e come azione”52 Croce, tra l’altro, sostiene: “… come alle grandi età del pensiero tien dietro il rilassamento e succedono ripetitori, compilatori o addirittura generazioni dimentiche e inintelligenti, e nondimeno l’ideale resta sempre il pensiero, creatore della verità, e non diventa già il non-pensiero…così le età di libertà sono momenti di fulgore morale che dan luogo a tempi di minore splendore e forza, di luce incerta o addirittura di abbaiamento e di tenebra……. . E non di meno, quando i tempi della barbarie e della violenza si approssimano, non perciò l’ideale diventa……. la il libertà ed il servaggio, ma rimane quello che solo può dirsi umano, l’unico perpetuamente operoso; e alla libertà sempre si tende, per essa si lavora anche quando pare che si lavori ad altro, essa si attua in ogni pensiero ed in ogni azione che abbia carattere di verità, di poesia e di bontà”…” supposto anche che la società umana entri per uno o due secoli, o magari per un millennio, in una condizione di servitù, cioè di libertà estenuata e ridotta al minimo, di minima creatività, assai prossima alla condizione animale, , questo incidente…. non la tocca, non interferisce col suo compito, non vale a cangiare questo compito, che è sempre di accendere la libertà con la libertà, e di scegliere a tal fine i mezzi e le materie adatte. ”53 A proposito poi della tesi che la libertà avrebbe avuto inizio nel secolo decimo nono…. ” La libertà non è un fatto contingente ma un’idea, e, scrutandola veramente a fondo, non è altro che la stessa coscienza morale, la quale, al pari di essa, non in altro consiste che nel pungolo ad accrescere di continuo la vita, e perciò nel riconoscere in sé e negli altri l’uomo, la forza umana da rispettare e da promuovere nella sua varia capacità creatrice. Creare un cominciamento assoluto alla libertà tanto, dunque, varrebbe quanto cercare un simile comincia-

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Bari, Giuseppe Laterza e figli, 1954.

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pp. 237-238 op. cit.

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mento alla moralità, cioè cascare nell’errore fenomenistico o empiristico di storicizzare le categorie ( il bene e il bello o il logo e le altre tutte o i loro sinonimi), che non sono fatti storici, perché sono le perpetue creatrici dei fatti della storia”54. “In verità, chi si mette a perseguire quel punto di cominciamento è ricondotto sempre indietro nella serie infinita, trovando via via precedenti di precedenti ai fatti che chiama di libertà: li trova non solo nei secoli immediatamente anteriori al decimo nono, ma nel medioevo e nell’antichità, e ne troverebbe le tracce perfino nell’età primitiva e preistorica, presso i neolitici e, se così piace, presso i paleolitici……” “… la libertà è una categoria, e perciò inesauribile, e quell’idea pura e perfetta è, invece, il fantasma proiettato nella nostra immaginazione dal nostro desiderio infinito, dal nostro ardore morale, dalla nostra ansia di purezza e perfezione, e non si può incontrare nel mondo dei fatti. In questo, che è il mondo della storia, la libertà non è mai astrattamente perfetta, ma di volta in volta quale concretamente è, e bisogna riconoscerla ed accettarla nelle condizioni date”55. …” Finalmente, l’indifferenza o l’avversione che si nota nell’umanismo ( e già in quello antico, ma assai più spiccata nel moderno) riguardo alle scienze naturali, fisiche e matematiche, e quella sorta di guerra che di volta in volta si riaccende tra umanisti e scientismi, e in genere tra cultori delle scienze della mente e cultori delle scienze della natura, e di contese pedagogiche tra scuola umanistica e scuola reale e tecnica, ottiene nello storicismo la sua giustificazione e insieme la sua purificazione, perchè quell’indifferenza o quell’avversione non mirava veramente al discredito e all’abbattimento dell’avversario ( le scienze matematiche, fisiche e naturali), ma era, ed è, soltanto un modo di proteggere sé stesso contro le sopraffazioni del determinismo e materialismo, che d’ordinario si intesse intorno a quelle scienze e si fa forte del loro nome. La realtà è storia e solo storicamente la si conosce e le scienze la misurano bensì e la

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pag. 254, op. cit.

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pag. 255 op. cit.

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classificano come è pur necessario, ma non propriamente la conoscono, né loro ufficio è di conoscerla nell’intrinseco. L’orgoglio degli “studia humaniora” verso i “realia” non vuol dire altro che questo; e non meno, ma non più di questo, lo storicismo, da sua parte, conferma”56. Ho fatto un ricorso diffuso alle citazioni delle fonti di una delle principali opere di Croce per consentire, almeno a grandi linee, la comprensione di alcuni dei motivi che, a lungo, determineranno la sua straordinaria capacità di straordinaria attrazione sui giovani e su uno strato diffuso d’intellettuali attivi nella società italiana del tempo. I giovani scrittori ed intellettuali, formatisi nella prima metà del Novecento, avevano avuto nell’opera e nel pensiero di Benedetto Croce un necessario ed imprescindibile punto di riferimento. Pertanto, pur attraverso ripetuti e ciclici tentativi di una sua totale rimozione, non si può prescindere dalle ragioni del fascino e dei motivi dell’indubbia influenza da lui esercitata. In realtà non è ancora oggi possibile la corretta riscrittura della storia e della cultura del Novecento recidendo – in modo arbitrario l’incidenza del suo insegnamento. Da più parti, probabilmente accentuandone la funzione, soprattutto alla luce delle pagine dei “Quaderni dal Carcere” di Gramsci si è indugiato ad evidenziarne una vera ed esplicita funzione di “dittatura”che era riuscita, in un’operazione d’inglobamento subalterno degli intellettuali ai poteri costituiti, a soffocare tutte le altre voci. E’ stata tentata l’illusoria operazione di un’assoluta rimozione, soprattutto nell’immediato dopoguerra, tentativo in realtà illusorio almeno in parte poiché, in genere, ciò che entra in circolo in qualche modo continua ad operare, se non nel discorso direttamente filosofico almeno in quello storico e letterario. Il fatto stesso che, da più parti ed a lungo, si sia sentito il dovere di polemizzare con lui o con alcune delle sue principali posizioni ha indotto chi ha deciso di farlo- magari senza rendersene conto a pieno- a calarsi in quel pensiero. E’, per altri versi, la stessa sorte toccata ad un altro pensatore di primissimo piano come Giovanni Gentile che, in genere, sembrò dimostrare una maggiore

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pp. 328 e 329, op. cit.

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capacità di lettura critica del marxismo, di cui intuì l’importanza per un posibile recupero della filosofia hegeliana. Il rapporto verso il marxismo, cui era stato stimolato dalla frequentazione di Labriola, si trasforma, dopo l’iniziale intensa ammirazione per il Marx - come è noto- in uno dei prevalenti elementi d’opposizione e contrasto. Del marxismo Croce tenta di contestare e liquidare una visione ed una concezione della vita da lui ritenuta “limitativa” in quanto essenzialmente esaurientesi nella mera, esclusiva e parziale dimensione economico- pratica. Il Marxismo sottovaluta ed elimina altre, diverse e prevalenti dimensioni della vita dell’uomo, come quella spirituale producendo così appiattimenti, parzialità e negative riduzioni. E’ tale posizione una delle principali a determinare il vigore della polemica – da parte marxista – per molti versi ingenerosa nei suoi confronti . Sinteticamente illuminante ed esemplificativo appare , al proposito,l’articolo: “ Marxismo, cultura, poesia” di Natalino Sapegno57 , dai toni particolarmente polemici verso Benedetto Croce. Il grande filosofo è descritto come “impigliato in una rete di annosi pregiudizi e di informazioni non aggiornate”, portato a discorrere “ in quell’atmosfera di rispettosa solitudine che la storia è venuta a poco a poco a creargli intorno”. Particolarmente contestata è la posizione, del Croce, secondo la quale le riviste marxiste dovrebbero non occuparsi di poesia,filosofia e storia, essendo questi campi da affidare all’esclusivo diritto dei periodici animati da “ spirito liberale”.Le riviste marxiste dovrebbero trattare solo i problemi politici immediati e contingenti mentre quelle questioni appartengono ad un piano “ contemplativo e teorico e di scientifica critica, sollevandosi al “ sereno cielo” del bello e del vero. Sapegno nel suo ragionare sostiene anzitutto che “ Ogni giudizio… è sempre il giudizio di un uomo, che vive in una certa società ed in un certo tempo, con le sue passioni e i suoi interessi concreti, con le sue tendenze individuali e di gruppo”. Inaccettabile è perciò la distinzione , proposta da Croce, tra un presunto piano pratico ed un altro contemplativo e l’ulteriore differenziazione tra filosofie ed ideologie “ tendenziose”, legate a una ragione

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Su “ Rinascita” mensile, 1945.

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pratica e “ i sereni concetti” che si librano in un’atmosfera pura separata dalle passioni.E’ qui il vero motivo del contendere, ovvero l’aver proposto una scissione , nel complesso dei fatti storici,tra aspetti economici, politici e morali, e “insomma pratici, e quelli filosofici e artistici, o contemplativi”.Il marxismo invece postula , essendo storicismo integrale, un nesso organico e totale dei fatti “un’interferenza circolare dei molteplici aspetti in cui la realtà si manifesta, e per questo esso non conosce idee che non nascano dai fatti e facciano tutt’uno con essi” Per il marxista la realtà è un tutt’uno. L’idealista invece propone un’indebita “ distinzione di materia e spirito, di realtà contingente temporale e realtà assoluta ed extratemporale”. L’errore fondamentale che Sapegno attribuisce a Croce è che , nella “Estetica” egli tratterebbe le opere dei poeti “ prescindendo in misura più o meno grande, e talora totale,dalle condizioni storiche , e descrivendole in figura di un rapporto tra un complesso di stati d’animo universali ed eterni...( fuori dello spazio e del tempo, che è quanto dire fuori della realtà umana e storica) e una forma

non diversamente assoluta e astori-

ca:…una concezione veramente storicistica, come è quella marxista , vedrà( invece) quelle stesse opere radicate nella vita della società in una certa epoca, circoscritta da determinate condizioni fisiche , economiche, tecniche,politiche, da cui quegli stati d’animo e insieme ad essi la lingua , gli strumenti espressivi prendono colore e consistenza”. Fatta come è fatta la critica del Croce tende così, per Natalino Sapegno, a restare “ astratta”” la critica del marxista tende a risolversi sempre più in storia, e cioè in descrizione di un determinato fatto visto nella serie degli altri fatti che lo circoscrivono e aiutano pertanto a definirlo” “ la critica di Croce ha il suo fondamento in un’estetica assoluta, e cioè astratta, in un criterio metastorico, ovverosia trascendente, di giudizio; il marxista non conosce estetiche assolute bensì soltanto poetiche circoscritte nel tempo e inerenti di volta in volta al fatto artistico nella sua concreta condizione storica.”.Il linguaggio che l’artista di volta in volta usa non può che essere quello che aderisce alla struttura sociale della sua epoca, quello possibile di una determinata società. L’arte non può che essere espressione della società, come sosteneva il De Sanctis, che Croce invece ha lasciato cadere alla luce del suo concetto “ trascendente e teologico della poesia”. Un fenomeno va invece semPagina 55


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pre inquadrato e collocato al suo giusto posto nel ritmo dialettico della Storia.” Il legame necessario tra una determinata cultura ( con le poetiche e quindi la poesia e l’arte che in quell’humus attingono la loro sostanza e le loro forme storicamente distinte) e una determinata struttura sociale, è un concetto che non solo non riesce strano, anzi del tutto evidente ed incontroverso al buon senso prima che ancora alla ragione riflettente”. Il criterio di valutazione di un fatto artistico andrà relazionato alla “ sincerità d’artista, che è adesione alla verità essenziale del proprio tempo, al momento attivo e propulsore della dialettica storica, al ritmo progressivo della civiltà in una certa epoca”. Croce si colloca invece su un piano – assolutamente arbitrario per Sapegno- di superiorità contemplativa, fatto questo che gli impedirà di cogliere l’essenza storica e che causerà, sempre, di conseguenza errori d’interpretazione e di valutazione . La polemica, diffusa a piene mani, ha teso inoltre ad attribuire a Croce due livelli di responsabilità negative, quello direttamente culturale, d’inglobamento subalterno degli intellettuali come strato sociale diffuso nel processo di mantenimento degli assetti di potere contrari ed opposti alla materiale costruzione di un diverso e progressivo blocco storico antagonista (Gramsci che sente la necessità, perciò di scrivere “L’anticroce”) ed una responsabilità di diretta connivenza coll’avanzata, il sorgere ed il radicarsi del Fascismo. In realtà, già rispetto alla Prima Guerra Mondiale Croce, a differenza di Gentile, non è interventista e - rispetto al Fascismo- tende a rimarcare una propria “opposizione morale”, con un atteggiamento di estraniazione mai, in alcun modo apologetico del regime. Una sua responsabilità “oggettiva “sembra esserci effettivamente stata se, con ciò, ci si vuol riferire alla sua scelta, almeno apparente, d’orgoglioso ritrarsinel

periodo

fascista-

concentandosi

sull’esclusiva

dimensione

dell’approfondimento dei suoi studi. In ogni caso i giovani e gli intellettuali che si avviano, in quel periodo, a maturare una netta e definitiva scelta di campo non possono prescindere dalla relazione e dal rapporto con una figura gigantesca come quella di Benedetto Croce.

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In un articolo di Mario Alicata58 si riassume il senso ed i motivi di questa forte capacità di attrazione dei giovani verso Croce quando viene riconosciuto l’indubbio fascino della sistematicità del suo pensiero, “la brillante tecnica filosofica e il suo apparente calore morale, l’afflato europeo”. C’era poi l’aspetto dello stimolo costante rappresentato da una particolare metodologia interpretativa che metteva sempre in evidenza la relazione di un problema particolare con un problema, più generale, di tipo filosofico cui esso indubbiamente era collegato. La sistematicità del sistema evidenziava forti legami e concatenazioni della parte col tutto così che gli scritti d’ estetica rinviavano alla logica e poi all’etica, alla storiografia, alla storia. Togliatti dimostrerà un atteggiamento ambivalente verso Benedetto Croce, alternando esplicite manifestazioni di rispetto ed apprezzamento ad attacchi durissimi, in genere sviluppati a fronte dell’azione crociana tesa a dimostrare il velleitarismo e l’arretratezza del marxismo, più volte ritenuto prassi filosofica parziale, negativa e dannosa in particolare- per Croce- per quella esplicita dichiarazione di voler privilegiare, rispetto all’interezza ed alla complessità della persona, l’elemento pressoché esclusivo, e così fuorviante, della dimensione economico- pratica. Eppure Togliatti che, come vedremo, darà innumerevoli dimostrazioni di sarcasmo e, spesso, d’arbitraria sufficienza intellettuale, avrà- in generel’accortezza di non spingere mai la polemica verso punti di definitivi non ritorni. La spiegazione di tale acume è, evidentemente, tutta politica nel senso che Togliatti è politico troppo accorto per prescindere dall’accurata considerazione dell’Humus d’insieme nel quale si è venuto a trovare una volta giunto in Italia. L’operazione lungimirante ed antidogmatica che si prefigge di realizzare, sia nella fase della definitiva spallata al fascismo, che negli anni dell’unità nazionale che, soprattutto in quelli seguenti, di rottura e crisi dell’unità delle forze

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In “L’Unità”, ”Sul filo della logica “, 13 Giugno 1944

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antifasciste è destinata ad un indubbio fallimento se non sostenuta anzitutto dai dirigenti e dagli intellettuali che hanno aderito al Partito Comunista, i cui tempi di maturazione del superamento progressivo dell’insegnamento crociano vanno pazientemente attesi ed aiutati. Ambivalenza quindi, polemica personale e feroce quando, ad esempio, il temperamento di Togliatti ricorda l’impossibilità dell’equiparazione tra il tipo di opposizione “morale” praticata da Croce e quella di ben altra intensità, gravida di rischi anche personali, a lungo prodotta da comunisti e socialisti italiani “Benedetto Croce ha avuto, come campione della lotta contro il marxismo, una curiosa situazione di privilegio, nel corso degli ultimi anni. Egli ha tenuto cattedra di questa materia, istituendosi così tra lui e il fascismo un’aperta collaborazione, prezzo della facoltà che gli fu concessa di arrischiare ogni tanto una timida frecciolina contro il regime. L’aver accettato questa funzione, mentre noi eravamo forzatamente assenti e muti o perché al bando del paese o perché perseguitati fino alla morte dei nostri migliori, è una macchia di ordine morale che non gli possiamo perdonare…. . ”. L’invettiva si conclude con l’affermazione e la promessa :” Il fascismo è crollato, e noi siamo qui, comunisti e socialisti, vivi e vitali. Non lasceremo più andare in giro merci avariate, senza fare il necessario per mettere a nudo l’inganno”59. Come è noto quest’articolo provocherà la reazione offesa e stizzita di Croce che ricorderà il saccheggio subito della sua abitazione da parte dei fascisti proprio per la sua indisponibilità a piegarsi oltre che l’orgogliosa difesa delle sue ripetute ed intransigenti opposizioni, civili e morali, alla parentesi barbarica della storia nazionale ed europea assieme all’instancabile azione - da lui tenacemente perseguita - contro la diffusa sfiducia e rassegnazione, nella lucida consapevolezza della razionalità e dell’ indistruttibile tensione alla libertà insita nella storia del genere umano. Togliatti, nei fatti, attutirà, in seguito, di molto, il suo furore iconoclasta riconoscendo, ufficialmente, l’importanza del magistero di Croce.

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D’altronde gli elementi d’irrazionalismo e di mistura pericolosamente populista e demagogica del nazionalismo e del fascismo con le intrinseche pericolosità per il mantenimento di una democrazia, pur parziale e limitata, erano evidenti fin dai primordi. Croce però riteneva, tenacemente, che la storia umana è la storia della libertà ed il Fascismo o altri ostacoli frapposti al raggiungimento di tali fini non sono niente altro che parziali e provvisori incidenti di percorso da cui gli uomini non potranno che riprendersi essendo essi null’altro che accidentali “parentesi”. In cosa è allora, per grandi linee, rintracciabile l’influenza potente del pensiero del Croce su strati diffusi d’intellettuali che pure, nel secondo dopoguerra, aderirono alla sinistra ed al PCI in Italia? Essenzialmente, ritengo, nella concezione dell’assoluta autonomia dell’arte, pura intuizione, scevra da qualsivoglia contaminazione con la vita pratica. In tale distinzione appare in nuce la suggestione dell’assoluta autonomia ed in contaminazione, foriera di sviluppi verso la concezione, facilmente attecchita, di stratificazione degli stessi in direzione di ceto separato e privilegiato. Altra ricorrente accusa rivolta a Benedetto Croce, in specie dagli ambienti intellettuali di sinistra del secondo dopoguerra, è quella di un presunto provincialismo. La prevista pubblicazione del carteggio tra Croce ed il suo editore Giovanni Laterza, stimata in oltre 4. 000 lettere, potrà contribuire a mettere in risalto la congruità o l’inconsistenza storica di tali rilievi. Si può comunque già anticipare la sensazione della parzialità del rilievo secondo il quale il pensiero del Croce sia stato “provinciale” senza avere respiro e carattere europeo o quella secondo cui non avrebbe garantito il mantenimento dei contatti con alcune delle più importanti manifestazioni del pensiero europeo nella prima metà del XX secolo. Tra i suoi contemporanei probabilmente soltanto Ernst Cassirer mostra un’apertura d’orizzonti simili alla sua. Eppure è lo stesso Gramsci che a Croce riconosce, nei “Quaderni”, ruolo e funzione di na-

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In “La Rinascita”, a. I, n. 1, giugno 1944, p. 30

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tura europea ed anzi mondiale quando ricorda la sua funzione, sostanzialmente consolatoria, su piani regressivi, che consisteva appunto nell’inserire, nel circuito di relazioni e conoscenze transnazionali lo strato di intellettuali nazionali staccandoli dalle proprie radici originarie di classe. Si può piuttosto rilevare che la cultura di Croce, pur nel periodo dell’egemonia, resta, soprattutto nel mondo accademico dell’epoca, in una situazione di sostanziale minoranza a fronte della sua estraneità a quel mondo. La filosofia a lui contemporanea resta, d’altronde, dominata dagli eredi del vecchio positivismo, dalle scuole hegeliane ortodosse e dai cattolici. Gruppi questi sui quali si concentrò la polemica di Croce sulla sua “Critica sociale”. Anche da quel versante si sono scatenate critiche da cui selezionare quanto, nella definizione di una corretta valutazione, va acquisito e quanto va respinto. Com’è noto il pensiero del Croce si snoda attraverso più piani progressivi tra loro incatenati. Nel suo “sistema” s’inizia ad intendere l’estetica quale parte prima ed integrante del dibattito del suo tempo, come “filosofia dell’espressione”, principale via d’accesso alla Filosofia dello spirito. Indubbia la ricerca di confronto e di relazione col pensiero della grande filosofia tedesca di Hegel e, prima ancora, come rileva Stefano Poggi60 di Kant e della sua dizione di “bello naturale”. Ad esso Croce fa osservare che “il bello fisico (naturale)” altro non è che “un semplice aiuto per la riproduzione delle espressioni”; eppure “La meditazione e la concentrazione interna” sono il nucleo propulsivo di ogni operare artistico. Non c’è separazione assoluta e distacco, come pure più volte si è da varie parti sostenuto, con la praticità. Piuttosto la “rappresentazione individuale, uscendo dalla particolarità e acquistando valore di totalità, diventa concretamente individuale”. Il divenire “concretamente individuale “della rappresentazione artistica le è assicurato dal principio della “pura intuizione” che impedisce, di per sé, che venga a rompersi, frantumandosi, “l’incanto dell’arte”.

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“Croce e Gentile fra tradizione nazionale e Filosofia Europea” ed. Riuniti pp40 e seguenti

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E’ perciò che “nella dottrina della pura intuizione la rappresentazione artistica, come presuppone il sentimento cosmico, così offre un’universalità affatto intuitiva, formalmente diversa dall’universalità in qualsiasi modo pensata e adoperata come categoria di giudizio”61. E’ proprio la concretezza dell’atto intuitivo- espressivo a consentire il rapporto tra individuale ed universale. L’arte è così, per Croce, la “forma aurorale del conoscere”. Solo essa può, ben diversamente ed oltre la scienza, assicurare l’avvio della conoscenza della verità62. I danni del pensiero, ancora Croce, sono stati causati dall’errata concezione e dagli errori di considerazione della funzione dell’estetica e dell’arte ed essi si sono così, poi, immediatamente riversati sulla logica. , ovvero la conoscenza intellettiva. ”Un’estetica inesatta doveva di necessità tirarsi dietro una logica inesatta”, la cui riforma non può che riferirsi, come base di partenza alla scienza dell’estetica. Si propone, come comincia a risultare evidente, un processo in grado di fare intendere come si sviluppino le varie necessarie progressioni nel percorso teso a pervenire alla verità. , o meglio alla conoscenza. Non c’è scissione alcuna tra il conoscere ed il pensare. Cohen ed altri gli rimprovereranno di aver voluto procedere distinguendo o meglio separando, retaggio questo proprio del Romanticismo, intuizione da concetto per poi confusamente riproporne la mescolanza. Elemento essenziale è, in ogni caso, in Croce il rapporto intuizione-concetto e la concezione che nell’arte (intuizione-espressione) si può cogliere la realtà in modo immediato e pieno. In ogni caso Croce non pare completamente travalicare mai sul piano metafisico, essendo sempre attento al confronto con la soggettività ed ai modi di formazione dell’autocoscienza. . In sintesi ilsuo obiettivo è quello di pervenire ad una presa sulla realtà e perciòl avora per individuare i modi capaci di determinare la definizione di una conoscenza piena. La sua tesi è avversa ai tentativi di raggiungimento progressivo,

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B. Croce; Breviario di Estetica, pp. 140-141

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B. Croce, Breviario di estetica, op. cit. p. 59.

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propri dello scientismo, alla verità “discorsiva” e ritiene che la verità si può rivelare solo per un istante, nei termini di estaticità. Qui è sempre richiamata in gioco la soggettività, l’interiorità consapevole delle proprie potenzialità. E’ sempre il soggetto individuale autocosciente il centro di ogni progressione e processo, senza dimensioni universali, globali, totalizzanti e consolatrici. Il procedere del pensiero crociano si dipana così espandendosi su più piani, intervenendo e sistematizzandosi attraverso gli ulteriori punti della Logica, dell’Etica, della storiografia, della Filosofia. Uno dei più attenti studiosi del suo pensiero, Eugenio Garin, è acutamente intervenuto sulla questione in uno specifico saggio, edito da Laterza nel 1955. Vediamo di seguire il filo generale delle sue considerazioni riassunte in “Cronache di Filosofia Italiana”, opera questa pubblicata contemporaneamente a quella di Norberto Bobbio “Politica e Cultura”. “le Cronache “non sono una cronaca. Piuttosto una storia ampia e documentata della filosofia italiana del secolo, una narrazione fitta di dati e commenti, da cui è possibile attingere dati ed idee. Croce giganteggia, con Gentile, in questa ricostruzione. Le “Cronache” mettono in evidenza il tipo di impegno eticopolitico di Croce durante il fascismo, modi peculiari ma rilevanti per una generazione che, per più ragioni, si è sentita intensamente crociana. E’ il Croce che “nel fuoco della lotta ritrova sé stesso” e “restituito ai temi a lui congeniali, la poesia e la storia, ritrova tutta la sua forza”. Croce durante il Fascismo maturerà un grande avanzamento di pensiero. A Croce appartiene anche un modo d’intendere il rapporto tra storia delle idee e storia dei fatti, il rapporto tra impegno intellettuale ed impegno pratico. E’ sua la lezione, di reciproca indipendenza ma non di reciproca indifferenza, la posizione intermedia, difficile da mantenere in ogni occasione, e spesso invisa e mal compresa tra il non volerne sapere e l’esserci dentro fino al collo, in breve tra il distacco e la subalternità. In realtà Garin giustamente rileva l’impossibilità della netta “separazione “tra politica e cultura. Croce si forgia l’ideale d’uomo di cultura, la cui visione Pagina 62


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mondana della storia ed il radicato laicismo lo inducono a ritenerne la funzione come educatrice e liberatrice degli uomini in questo mondo e non in un sopramondo di cui, sommessamente, diceva di non ritenersi un esperto conoscitore, né, tampoco, un’abile guida. Forse è condivisibile il giudizio di Bobbio che in Croce distingue tre fasi, pur caratterizzate dalla stessa idea generale del rapporto di unità-distinzione tra teoria e pratica, distinzione che si ripercuote nella differenza di piano tra filosofo e politico. Nel brano di “Contributo alla critica di me stesso “egli spiega di essersi formato, lavorando alla “Critica”, “la tranquilla coscienza” di trovarsi al suo posto e di compiere opera politica, se pure in senso lato, un’opera appunto come quella di Settembrini e di De Sanctis, ” di studioso e di cittadino insieme, sì da non dovere arrossire del tutto innanzi ad uomini politici e cittadini socialmente operosi”. Sempre chiaro in lui appare il concetto che la storia delle idee e la storia dei fatti non procedono di pari passo, anche se sempre nitida deve risultare come la forza delle idee è decisiva nel determinare i fatti. Garin sostiene che dal tumulto di quegli anni Croce trae una concezione di operare del filosofo di “aspro rigore”, pur non venendo mai meno ad una “visione realistica e disincantata della storia”, in una sorta di “tensione drammatica”che finirà per dare alla sua opera un mordente eccezionale. Chi ritenesse che il suo pensiero è solo per le anime belle è assai lontano dal vero. ”Il problema della missione del dotto, ossia del compito degli intellettuali si fa drammatico al punto di rottura, dove sembra scoppiare il conflitto tra realismo e utopia” Tra l’affermazione dell’attività politica come attività economica, autonoma nella sua cerchia rispetto alla morale, avente le sue leggi che il politico deve rispettare, e l’esaltazione della forza morale che sola, in ultima istanza, muove la storia, e con la quale di conseguenza ogni buona politica deve fare i conti, che è un’antinomia insolubile, o solubile solo a parole”. Lo stesso Croce accentuò, a seconda dei tempi, or l’uno or l’altro aspetto, tanto da essere considerato o il fautore dello Stato_ Potenza durante la Prima Guerra Mondiale o il predicatore dell’ideale di libertà durante il Fascismo. E’ bene per Croce tenere sempre presenti, nella valutazione dei vari momenti Pagina 63


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dell’attività di ciascuno, gli obiettivi polemici di volta in volta presi di mira. Pur nella diversità di tali obiettivi polemici, è giusto non dimenticare “la fortissima opera polemica di tutta la sua opera di storico” con cui praticamente mostrò che la Storia è sempre Storia contemporanea. Eugenio Garin è per sottolineare che Croce fu sempre “politicus”, nei momenti in cui animò della sua passione politica la sua opera di studioso ed alimentò della sua cultura una partecipazione alla vita nazionale”. Sempre politico ma per quale politica? Croce ebbe un altissimo concetto della funzione degli intellettuali nella società, tanto da esaltare, alla fine della “Storia del regno di Napoli” gli uomini di dottrina e di pensiero che avevano compiuto quanto di bene si era fatto in quel paese, “quanto gli conferì decoro e nobiltà”, tanto da chiamarli a raccolta nel famoso manifesto scritto per difendere, contro Gentile, la libertà minacciata, tanto da identificarne nel liberalismo inteso come dottrina etico-politica, al di sopra degli opposti schieramenti di partito, ” il partito della cultura” e da difenderlo contro interpretazioni restrittive, come quello che lo risolveva e confondeva con il liberalismo economico. Credette fermamente nella forza della Cultura, facendo poche concessioni alla politica dei politici. Quando, per contingenze eccezionali, dovette assumere rilevanti incarichi pubblici, quale Ministro della Pubblica Istruzione nel Governo Giolitti, ministro senza portafogli nel Governo Bonomi nel 1944, lo fece suo malgrado, pronto –alla prima occasione- a tornare ai suoi studi. Egli tentò, errando, di elevare a partito della cultura uno dei partiti emersi dopo la caduta del Fascismo contribuendo allora a confondere quanto aveva sempre distinto, la politica degli intellettuali dalla politica dei politici, tentò di far coabitare, forzatamente, i “portatori della forza morale” con quelli della “forza vitale”. In sostanza s’imbattè nella difficoltà di far avanzare, in modo parallelo, teoria e pratica. Croce è stato, oltre che un grande storico, letterato e filosofo, anche un grande moralista. Non tanto come dettatore di massime morali, nel senso forte della parola, di chi crede per convinzione che, in ultima istanza, siano le forze morali Pagina 64


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a guidare la storia e ne trae la conseguenza che sia dovere di ogni uomo, non importa se dotto o no, fare la propria opera per far prevalere queste ragioni. Le “Forze morali” sono per lui quelle che, in diversi modi e circostanze, anche con mezzi diversi a seconda delle occasioni, promuovono la libertà. ” Ciascuno di noi può contribuire, quotidianamente, nei più diversi modi, a restaurare, a rinsaldare, a rendere più operoso e combattente l’amore della libertà, e senza pretendere o attendere l’assurdo, ossia che la politica cangi la natura sua, contrapporle una forza non politica, che essa non può sopprimere mai radicalmente perché rigermina sempre nuova nel petto dell’uomo, e con la quale dovrà sempre, per buona politica, fare i conti”. Parole più dettate da passione forse che da freddo ragionamento che possono forse sembrare retoriche. Eppure chi aveva assistito al crollo dei regimi fascisti, per chi non aveva dubitato anche nei momenti più oscuri della vittoria finale della libertà, apparivano veritiere, consolatorie perché vere, dettate da una visione della storia non idealizzante, anzi tanto realistica da esser stata confermata dai fatti. Croce diceva, a chi sosteneva, negli anni delle feroci oppressioni, che la libertà aveva ormai disertato il mondo per sempre, che essi non sapevano quello che dicevano. Considerare morta la libertà coincideva col sentire come morta la vita. Sembrava il filosofo “cieco e sordo” rispetto alla durezza crudele della realtà, eppure si ostinava a sostenere che la storia è storia di libertà, frase da molti osteggiata come folle Storia. La storia non è idillio ma neanche solo tragedia degli orrori, è dinamismo, alternarsi di fasi positive e negative, ed è giusto che sia così, altrimenti sarebbe solo insopportabile noia simile, questa sì, alla peggiore morte. Fino alla fine nel suo pensiero è prevalsa un’impostazione razionalistica e storicistica con l’affermazione di una costante dialetticità del pensiero e del corso inarrestabile della vita. “Bisogna sgomberare la pretesa” scrive nel 1945, “o l’illusione che l’opera o il “sistema “di un filosofo sia lo svelamento una volta per sempre del cosiddetto “mistero della realtà”, l’enunciazione della verità totale e definitiva, la conseguita messa a riposo del pensiero coi suoi dubbi, e con ciò dell’uomo stesso che non si vede cosa farebbe se col pensiero non si travagliasse per vivere vita uPagina 65


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mana”63. E’ tutta una premessa teorica per dimostrare che il negativo non sta di fronte al positivo ma dentro di esso, il male non di fronte al bene ma dentro il bene, il nulla non di fronte ma dentro l’essere, sicchè il vero essere è il divenire. La fortissima rivendicazione di una filosofia storicistica comunque, con una visione della dialettica mai separabile dal mondo umano e dalla sua realtà storica, la visione delle “categorie” come “potenze del fare spirituale” mostra la costante sussistenza dei concetti di vita e vitalità. E’ la vitalità ad essere essenziale per la vita dello spirito, ne costituisce l’elemento integratore delle varie forme, la molla continua che produce irrequietezze e nuovi problemi. Essa, in sintesi, diviene l’involucro originario dello stesso spirito. La dialettica di Hegel spiega l’esistenza del male individuandolo come indispensabile elemento vitale. La dialettica è così identificata nella stessa movenza della vita poiché la vita “è sempre e non conosce riposo”64. Il male e l’irrazionale non vanno considerati in uno statico contrasto col bene ed il razionale. L’ininterrotto procedere della vita crea sempre nuovi atti e pensieri, perciò è illusorio pensare di disciplinare “l’aspetto tragico del mondo”. Pur se la vita è, così, lotta incessante da essa non può né deve eliminarsi la speranza, senza promettere paradisi in terra ma solo situazioni in cui si alternano momenti infernali e paradisiaci, essendo i primi condizione dei secondi. Alla fine si dimostra l’impossibilità di esorcizzare il male e di conquistare, per sempre e definitivamente, il bene. E la vita va comunque vissuta, anche nei momenti peggiori, in quanto allora giunge come presidio ed aiuto all’uomo il senso della coscienza morale. Il rifiuto del pessimismo è saldo punto di riferimento soprattutto quando, in un particolare tempo storico, tutto pare sfaldarsi. Superare il pessimismo, quindi, non con l’ascesi, ma con la piena coscienza della vita

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Intorno al mio lavoro filosofico, in “Filosofia e Storiografia”, Laterza, Bari, 1949, pp. 5354. 64

B. Croce “La vita, la morte e il dovere” in “Il pensiero di Hegel e la storia della storiografia” (1952) p. 50

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nel suo contesto tragico. Primato del fare utile e morale, quindi che si estende in tutte le sue forme espressive, nella direzione del perseguimento della conoscenza, dal conoscere che è della poesia, a quello della filosofia e della storia. . Ed in ogni caso è illusoria ogni astratta ascesa finalistica verso la forma perfetta e definitiva. Così si spezzerebbe la dialettica dello spirito e si metterebbe fine alla vita stessa raggiungendo il suo dissolvimento. La filosofia dello spirito implica perciò una sua propria circolarità dialettica ed il moto della stessa è niente altro che storia, una storia senza inizio né fine. La storia come vita e la vita come storia incessante quindi. Il nuovo ed il meglio sono sempre alla portata dell’uomo, quanto lunghe vogliano essere le oscure parentesi di “caduta e decadenza”. Senza alcuna stasi e ripetizione. Nella vita c’è la gioia ed il dolore, ” c’è l’idillio come c’è l’epopea e la tragedia, c’è la pace come c’è la guerra; e lo storicismo, che fuga l’inconoscibile, fuga insieme l’ottimismo e il pessimismo, dando verità al conoscere, e convalidando nell’uomo la duplice ma unica forza che sempre gli bisogna, la rassegnazione e il coraggio”65. Ogni antistoricismo e negazione della storia coincide con la negazione della vita morale. La negatività è essenziale per la preparazione del nuovo e del positivo. C’è sgomento rispetto alle tragedie della guerra distruttiva ed alle disposizioni alla violenza, al decadimento del sentimento liberale che ha dato luogo all’affermarsi di regimi dittatoriali e che si mostra inscindibile dal sentimento storico. Eppure “chi apre il suo cuore al sentimento storico non è più solo, ma unito alla vita dell’universo”66. Il senso della storia ed il valore della storicità si configurano così come l’ultimo baluardo, incrollabile, rispetto all’apparente incontrastato dominio delle tendenze più demoniache della vita” come “L’ultima religione”67. E’ impossibile sottrarsi al dolore della vita, ma la risposta a ciò

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In: “Lo storicismo e l’inconoscibile”, p. 138, (1947)

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In: “Discorsi di varia filosofia”, Laterza, Bari, 1945, p. 258.

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Giuseppe Cacciatore, p. 160 de “Croce e Gentile etc, op. cit, ed Riuniti

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non può che essere nel coraggio, nella pazienza, nella gioia del fare, , “nel tornare a partecipare alla storia, dalla quale per qualche istante avevamo vagheggiato di staccarci” Tra storicismo e moralità c’è un legame inscindibile. C’è sempre un’unitaria realtà dello spirito che si dispiega verso la positività e la libertà. Ed insiste “Almanaccare che l’elemento morale in noi operi da solo è pensiero sciocco, perché, se così fosse, non avrebbe niente da operare, rinunziare alle leggi della vita per non passare attraverso i colpi e i rovesci che ci infliggono i bisogni e le necessità delle cose che si dicono naturali e di quelliche si dicono attinenti al corpo… sarebbe pensiero vile se non fosse assurdo, perché la vita organica non aspetta il nostro permesso per affermarsi e farsi valere”68. Perciò bisogna essere consapevoli che le conquiste della civiltà non sono mai definitive, lo spettro della crisi non è mai esorcizzabile, che la Fortuna può, in ogni momento, intervenire a lacerare le tele “tessute dalla virtù”… Le età della decadenza e della crisi sono quelle nelle quali prevale l’Anticristo, anche se non tutto può essere distrutto, anzitutto il sentimento di libertà, il senso degli ideali nei quali risiede la vita morale; L’Anticristo rivela il suo volto più osceno e raccapricciante, oltre che terrificante nell’esaltazione dello Stato, del Partito unico, della tirannia, giacchè si scaglia contro la libertà “contro l’individualizzamento che è la concretezza storica degli ideali” e “pone sé stesso come un universale senza individualizzamento, universale astratto”69. La libertà è così necessariamente dovunque, essendo continua conquista che opera ora tra minori ora tra maggiori difficoltà. A questo sbocco razionalistico della sua riflessione il Croce non rinuncerà mai All’altare della violenza va sostituito quello della ragione, che ha in sé pensiero e poesia, passione e forza, storia e coscienza morale. . L’esistenza del male non è quindi qualcosa di trascendile al mondo ed

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In “La fine della civiltà” p. 307

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”L’anticristo che è in noi” (1946) p. 313 op, cit.

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all’uomo, alla vita stessa. Se accettassimo ciò saremmo obbligati ad un sempre più accentuato pessimismo misto ad impotenza. Bisogna “tornare al proprio centro”, all’operosità della coscienza morale che agisce in questa storia e non in quella che vorremmo che fosse, che non è eterodiretta da forze e potenze estranee allo spirito “non ci sono specifici che tengano il luogo della coscienza intellettiva e morale, o la soccorrono se non si sa soccorrere da sé”70. Questo concetto di libertà impregna tutta la ricerca della filosofia moderna. La vita è nel contrasto perpetuo delle forze che si scontrano incontrandosi. Ciascuno è responsabile dello sbocco cui tale conflitto pervarrà. Croce ha dimostrato che la razionalità ed il senso della razionalità ha sempre prevalso contro tutte le tendenze irrazionalistiche e negative affermando il primato dell’uomo, della verità, della libertà. In tal senso non potrà che non procedere l’ulteriore fase della storia del Mondo. . Il filosofo della Scienza Paolo Rossi è più volte ritornato sul problema cruciale se è stato vero oppure no che l’idealismo crociano ( e per altri aspetti di Gentile, col suo attualismo) abbia soffocato le possibilità di sviluppo di una moderna cultura scientifica in Italia. “E’ vero, ma la responsabilità di questo non va scaricata solo su Croce e Gentile. Egemonia, in questo senso, c’è stata, ma non bisogna dimenticare che è stata conquistata, e non con la forza. Il che significa che non c’era, in Italia, abbastanza spessore teoretico per contrastarla. E la mancata risposta all’impostazione indubbiamente rozza del problema della scienza in Croce e Gentile dimostra che l’approccio dominante della filosofia italiana di questo secolo è stato di tipo teorico- letterario”71. Cosa evidentemente confermata dal fatto che il convegno di Orvieto “Croce e Gentile fra tradizione nazionale e Filosofia Europea”, organizzato dall’Istituto Gramsci, tenutosi ad Orvieto il 7, 8, 9 Novembre 1991, non vede alcuna relazione impegnata ad indagare il rapporto tra Croce e l’idealismo italiano coi

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“Pessimismo storico” p. in “Etica e politica” vedi p. 297.

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“Il Mattino” 9 Novembre 1991

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problemi della Scienza. Il convegno è comunque di grande utilità per aver condotto alla eliminazione di una serie di luoghi comuni tradizionali, diffusi a piene mani, condizionati da un approccio ideologico e di parte. Michele Diliberto e Giuseppe Vacca hanno, nell’occasione, insistito sulla volontà di dare luogo ad un “salto di qualità”, ad una riflessione “postcrociana e postgentiliana”, mirando a collocare adeguatamente l’azione dei due filosofi all’interno di una funzione di “classici” della filosofia del secolo. Rispetto alla lettura di Marx è evidente il riconoscimento, almeno originario, nel Croce del debito verso di lui a proposito del versante economico del pensiero suo quale ineliminabile aspetto teorico e storico per l’indagine della società moderna, e (in Gentile) per il ruolo nella direzione del recupero della filosofia dello Hegel. Croce non a caso, in una lettera al suo traduttore inglese durante la prima guerra mondiale, riconosce di essere stato “per qualche tempo socialista marxistico”, di aver subito il fascino “di quel fantasma di sogno e di poesia” che gli aveva dato l’impressione di aver messo il piede sopra una via che era la “via regia dell’umanità”. Cesare Luporini, a chi sostiene che il neoidealismo italiano sia stato una dittatura culturale che soffocò tutte le altre voci ed appiattì il dibattito su un terreno provinciale, replica (vedi relazione) che “la rinascita dell’idealismo”, propugnata dal Croce era sì l’affermazione politica di un liberalismo di destra, ma conteneva anche gli elementi di una reazione, certo italiana ma specifica, ad un fenomeno europeo come il positivismo. Cacciatore ha affrontato l’excursus del concetto di vita e vitalità in Croce, quale tratto distintivo della costante tensione del suo pensiero. Si tratta di un costante filo rosso che diviene più evidente nella maturità. La “vitalità” vi appare come la radice comune del diritto, dell’economia, della politica, come “l’integrazione necessaria delle varie forme dello spirito” decisiva come può esserlo “la molla che produce irrequietezza, movimento”. Si è già fatto cenno al privilegiato rapporto tra il Croce e la casa editrice Laterza. Si può al proposito aggiungere che, attraverso Laterza, Croce indicò agli italiani quali classici leggere, e quali filosofi, quali storici, quali critici, condizionando gran parte della produzione di tutto un vasto settore delle discipline Pagina 70


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“morali”, come sostiene Garin. Fu suo il primo tentativo di dare una cultura nazionale all’Italia appena unificata. Eppure non gli è risparmiato il rilievo, a lui ed allo stesso Laterza, del fatto che si sarebbe macchiato del delitto di provincialismo, tagliando fuori l’Italia dalle correnti di pensiero (Nietzsche, Weber, Sorel, Freud etc. ) che stavano agendo sul profondo dei substrati della cultura europea modificandone identità e prospettive. In realtà è avvenuto proprio il contrario, nel senso che Croce sviluppa un’attenzione minuziosa, nel suo fare enciclopedico, a tutto ciò che di nuovo arriva d’oltre confine in Italia proponendo, nel suo rigoroso sistema, sintetici punti d’approdo, comunque d’alto profilo, esemplarmente esplicativi di dove sia stato in grado di pervenire, nella condivisione o nel dissenso dalle linee da lui proposte, l’acutezza del suo pensiero.

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LA STAGIONE DEL “POLITECNICO”

“Ci sono quartieri interi da risanare, da dove il popolo sconta l’orgoglio di abitare le case dei suoi avi…. . C’è da porre riparo alle distruzioni della guerra, che comprendono strade e strade e la zona medievale al di qua e al di là del Ponte Vecchio, sotto le quali i Tedeschi fecero brillare le loro mine. Era la zona più antica della città: ogni pietra un richiamo, le Torri e i Palazzi che si specchiavano nel fiume. Subito dopo la liberazione tutta Firenze sfilò tra quelle macerie:analfabeti e dotti in pellegrinaggio” e prima ancora: “C’è odio e fame. Per settimane centinaia di madri di famiglia hanno rinnovato l’assalto alle bancarelle dei mercati neri di generi alimentari; si sono contese a morsi, a unghiate, i pezzi di pane bianco, le scatolette di latte americano, gli involti della pasta rapinati: hanno fronteggiato la polizia facendo catena l’una al braccio dell’altra e gridando: abbiamo fame, noi e i nostri bambini!”72. Difficile trovare rappresentazioni di tale cruda efficacia della situazione economica sociale italiana dell’immediato dopoguerra. Si tratta di porre mano ora, senza indugio, ad una gigantesca operazione di rinascita economica ed etica per rimuovere macerie materiali e morali nelle quali la guerra ed il fascismo hanno trascinato l’Italia. La sconfitta, la disgregazione dello Stato, la perdita di senso e d’identità di una Nazione che soltanto da un periodo relativamente breve aveva raggiunto l’unità apparivano pesantissimamente incrinate e compromesse. Un Paese portato alla catastrofe verificava sulla propria carne l’umiliazione dei vinti ritrovandosi, fuori delle facili e spesso grottesche retoriche di regime, in un vuoto, in una dimensione di perdita di senso e di identità, in una storica regressione che recideva la propria storia, la propria cultura, la propria identità ed il proprio orgoglio nazionale.

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Vasco Pratolini, N. 39 Politecnico, dicembre 1947

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Ben più acute e profonde sarebbero state le ferite senza il grande movimento di resistenza e di liberazione nazionale che aveva scosso il Nord del Paese occupato dai nazifascismi. Il tributo di sangue era stato alto ed era questo l’unico ma significativo titolo che poteva essere posto come credito pesante al tavolo della trattativa coi vincitori. In ogni caso la guerra di Resistenza nazionale aveva aperto uno squarcio profondo che non avrebbe più potuto essere ricomposto e riassorbito nella tranquilla consuetudine dei comportamenti delle classi dominanti. Già Beppe Fenoglio aveva prodotto in: “Una questione privata” e ne : “Il Partigiano Johnny” racconti sinteticamente ed efficacemente riassuntivi e rappresentativi di ciò che davvero era stata la resistenza, “di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia”73. Lo stesso Calvino già in precedenza, con un’efficacia speculare a quelle espressioni già richiamate di Pratolini, dopo aver ricordato come lui stesso, assieme a tanti dei suoi giovani studenti ed intellettuali contemporanei si fosse quasi identificato nel romanzo di Hemingway “Per chi suona la campana”, visto, sentito e vissuto come a loro profondamente vicino tramite la rappresentazione della guerra civile spagnola col distaccamento di Pablo e di Pilar, tanto simile al loro distaccamento impegnato nella guerra civile partigiana antinazista ed antifascista che li aveva visti protagonisti in Italia, così sintetizzava il comune sentire circa la funzione che doveva essere ricoperta da una nuova letteratura “La letteratura che ci interessava era quella che portava questo senso d’umanità ribollente e di spietatezza e di natura: anche i russi del tempo della Guerra civile – cioè di prima che la letteratura sovietica diventasse castigata e oleografica – li sentivamo come nostri contemporanei”74. Ed ancora… “Cesare Pavese…. indovinò dal “Sentiero” tutte le mie predilezioni letterarie…. Fu Pavese il primo a parlare di tono fiabesco a mio proposito, e io, che fino ad allora non me ne ero reso conto, da quel momento in poi lo

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Italo Calvino, Presentazione del suo primo racconto: “Il sentiero dei nidi di ragno”, pag. 33, Arnoldo Mondadori Ed. 74

Calvino, op. cit. pp 16

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seppi fin troppo, e cercai di confermarne la definizione. La mia storia cominciava ad essere segnata, e ora mi pare tutta contenuta in quell’inizio”75. Mi sembra evidente, e non forzato, il richiamo a tali frammenti espressivi efficacemente esemplificativi di un comune e diffuso sentire, di una voglia di fare e di creare qualcosa che fosse in grado d’incidere graffiando e trasformando la realtà. L’opera titanica che ci si prefigge di affrontare può essere efficacemente portata a compimento. Gli ostacoli non sono insormontabili ed il gran fervore che comincia a diffondersi non rappresenta null’altro che una generosa energia che questo strato di scrittori orientati, sebbene non organicamente, a sinistra, intende mettere pienamente a disposizione del Paese. Il Politecnico segue questa traccia, la resistenza al fascismo ed al nazismo e si propone già emblematicamente nel titolo di collegarsi simbolicamente all’azione ed alla passione patriottica e popolare risorgimentale. Cattaneo “introdusse in Italia molta nuova scienza e letteratura europea; e si formò rapidamente intorno a lui l’ambiente di cultura che doveva esprimersi nel 1839 con la fondazione del “Politecnico”. “Primo bisogno è quello di conservare la vita”76. Quante immediate sintonie ed identità con quanto metterà in moto, in Italia, Elio Vittorini che, nell’ esperienza cui da vita, si dimostra immediatamente uno straordinario organizzatore di cultura d’avanguardia. Nella lettura dei testi che vanno ad assemblarsi colpisce subito la straordinaria freschezza ed attualità, esempio di fortissima sollecitazione civile soprattutto se comparata al contesto d’insieme economico, storico, politico e culturale in cui l’esperienza sua e dei suoi collaboratori, ha origine e si sviluppa strutturandosi. Si da luogo ad un processo di segno totalmente diverso dalla letteratura e dall’arte immediatamente precedente quale rappresentata in tutte le principali e

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Calvino, op. cit. pp 17

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Manifesto D’Associazione alla prima annata del “Politecnico” ed aggiungeva “La pittura, la Scultura, L’architettura, la Musica, la Poesia scaturiscono da un bisogno che nel seno della civiltà diviene imperioso non meno di quello della sussistenza”.

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prevalenti tendenze. Inizia un generoso tentativo di fuoriuscita dalle anguste secche del provincialismo, si lavora per comprendere ma al contempo per superare la lunga “sacra” inscalfibilità del crocianesimo, in sintesi per superare gli orizzonti a lungo obbligatoriamente limitati dell’ermetismo. Inizia a determinarsi un’azione di coordinamento del pensiero e della cultura nazionale fino allora restata a lungo sommersa. L’autore di “Conversazione in Sicilia” aveva già esplicitamente evidenziato nel 1941, nella stessa opera, all’interno di un evidente, netto e progressivo processo di presa di distanza dal regime che,in Italia, aveva soffocato ogni libertà, “il dolore del mondo offeso” e l’obbligo al generale lavacro per la persecuzione di “nuovi doveri”. L’uso del romanzo, come avrebbe acutamente osservato G. De Benedetti recensendo l’opera 77, andava interpretata considerando come “L’idea astratta ed in sé stessa non raccontabile del romanzo si libera nel concreto, episodio dopo episodio, sicchè la sua trasformazione in sequenza narrativa non può mai integrare globalmente,in una storia circolare, chiusa ad anello, lo spunto originario. Tenderà piuttosto a sistemarsi in uno svolgimento rapsodico”. Ed ancora, spiegava78 la non casualità dell’entusiasmo di Vittorini per il processo di autentica “autoeducazione” che, a suo avviso, la guerra civile spagnola aveva trasferito alla giovane generazione degli intellettuali italiani, favorendone traumaticamente la ideale e civile ricollocazione, determinando uno strappo doloroso ma vitale e profondo nella loro coscienza civile. D’altronde, ricorda ancora Catalano, già negli anni pregressi -dal 1931, anno in cui è liquidata la monarchia- al 1936, anno del pronunciamento e della ribellione militare di Franco al legittimo potere della Repubblica, la cultura aveva preso una parte “sempre più intensa al movimento popolare” facendo proprie le aspirazioni popolari e lottando esplicitamente per esse. “La cultura spagnola si avviava in tal modo ad acquistare

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nell’Aprile 1967, in “Paragone”, n. 206, G. De Benedetti, “Vittorini a Cracovia”

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E. Catalano, in “La forma della coscienza, L’ideologia letteraria del primo Vittorini, Bari, Dedalo, 1977, p. 195

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quella funzione di unificatrice della vita che è la funzione specifica della cultura, quella che la cultura ebbe, per un breve periodo, nella Grecia antica, e, per un altro breve periodo, nel medioevo cristiano”. Il viaggio di Silvestro così, teatralizzazione dell’offesa, si realizza all’interno di un arco temporale definito e quasi storicamente diviso. Il passato così appare come il presente ed ogni figura si muove, adesso come allora, tra “gli oggetti della sua solitudine”. Può così ristabilirsi una forma di comunicazione solo come empatia: solo nel contemporaneo godere e patire è possibile pervenire ad una forma di oblio della propria esistenza di soggetti scissi, vivere cioè la propria vita come morte. Fortini79 a sua volta sosteneva che “Nome e opera di Vittorini dimorano oggi nella medesima luce d’eclisse che già aveva avvilito Pavese”. Ora, notava malinconicamente il critico, la mutazione genetica si era definitivamente realizzata proprio su quel piano che egli, Vittorini, aveva perseguito con maggiore perspicacia, ovvero attraverso la sostanziale elisione del concetto dell’idea di “una letteratura vivente che avesse il compito di evitare l’invecchiamento del mondo”. Ora la letteratura aveva smesso di pretendere di poter essere tutto e proprio per questo poteva auspicare di poter essere qualcosa. Così Sergio Pautasso, concludendo la densa prefazione del settembre 1985 alla nuova edizione di “Conversazione in Sicilia” poteva argomentatamene sostenere che “Conversazione in Sicilia è uno dei libri chiave della letteratura italiana del Novecento. Ma è anche un libro simbolo, un manifesto dell’opposizione al fascismo espressa attraverso le allusioni al mondo offeso e la rappresentazione allegorica della condizione umana oppressa dai mali del mondo che percorrono il romanzo dall’inizio alla fine. Per questo, più che romanzo nel vero senso del termine,con una trama, l’evolversi degli avvenimenti, l’intersecarsi dei personaggi, “Conversazione in Sicilia” è una sorta di grande poema lirico con un taglio narrativo, con un susseguirsi di immagini e di situazioni simboliche che diventano uno specchio dove si rifrange la desolata condizione umana e che nel finale preannuncia , con la sua atmosfera allucinata, la tragedia verso la

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“Espresso”, 2 Febbraio 1986, “Ma esisteva Vittorini?”

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quale il mondo si sta avviando. E la Sicilia è il luogo mitico, la scena dove si svolge la rappresentazione dell’avventura umana”80. Per lo stesso Sanguineti così il libro agiva proprio “come conversazione tra L’a parte del monologo a voce alta e il dialogo aperto, con uomini, con fantasmi, con statue, configurandosi come galleria discontinua , dove, nella stanza dell’episodio s’interroga e ci s’interroga… e in cui la risposta , per quanto verbalmente si articoli, sempre è segno: indizio allusivo, interrogante esso medesimo, chiuso in eco e in enigma”.In conclusione tutti i tratti narrativi e la costante commistione tra esplicito ed implicito, tra narrazione la cui trama è possibile discernere da parte del lettore con la costante interconnessione di richiami ad elementi simbolici di non univoca interpretabilità sono evidentemente spiegabili e decifrabili soltanto se comparati alla storicità del contesto storico politico in cui la trama di sviluppa e si dispiega. L’esplicita profondità ed efficacia del messaggio non può né deve , per Vittorini essere intercettata,piegata e stravolta, per Vittorini, dalla censura ed in tal senso il richiamo mitico e simbolico deve essere usato quale necessario strumento per fornire giudizio e messaggio efficace contemporaneamente in equivoco nella sua forma lirica e nella possibilità di una corretta e compiuta, incisiva ed utile sua interpretazione ed uso sociale per i potenziali fruitori. Forme e modi d’uso così dovuti ma non vaghi ed evanescenti ma sintomo di un devastante livello di disagio e di critica tutt’interno e paradossalmente, perciò, ancora più efficace per un uso sociale e di rottura della letteratura e della cultura che, concretamente si fa storia incidente, nel profondo, sul destino degli uomini e del mondo contemporaneo. Il “Politecnico” appariva così come la successiva ed esplicita, vitale emersione di quest’antico logorio prima assai parzialmente esplicitabile. E’ il caso appena di citare e scorrere un parziale elenco di redattori e collaboratori della rivista per trovare alcune delle firme destinate ad essere tra le più acute e brillanti della futura letteratura e cultura nazionale, delle più svariate tendenze e dei più svariati campi dell’impegno e del sapere.

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Pag. 122 introduzione Sergio Pautasso “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini,con

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Franco Fortini, Italo Calvino, Felice Balbo, Carlo Lizzani, Giansiro Ferrata, Concetto Marchesi, Eugenio Montale, Alfonso Gatto, Giulio Preti, Carlo Bo, Aldo Garosci, Franco Rodano, Guttuso, Cesare Pavese, Antonio Giolitti, Arturo Carlo Iemolo, Galvano Della Volpe, Ugo Stille, Franco Calamandrei, Ottavio Pastore, Stefano Terra, Giulio Trevisani, Delio Cantimori, Angelo Del Boca, Franco Rodano, Oreste Del Buono, Fabrizio Onori, Felice Balbo, Enrico Serra e tanti, tanti altri. Con un ristretto nucleo di giornalisti e redattori comincia a prendere vita ed anima, attorno ad Elio Vittorini, un’esperienza di straordinario valore che mira ad aprire, contemporaneamente, lo sguardo sia sulle arti tradizionali, di tipo umanistico, sia a dare più importanza e rilievo alla scienza ed alla tecnica fino allora a lungo sacrificate. Si producono inchieste sulla condizione di vita e di lavoro degli operai e dei contadini, si recensiscono e si traducono testi stranieri, europei ed americani, fino allora sconosciuti. Inizia un fluire di rapporti e collaborazioni con eminenti rappresentanti della cultura transnazionale come Jean Paul Sartre e Bertrand Russel, si diffonde la conoscenza di poeti come Rafael Alberti, di filosofi come Georg Lukacs, si discute della prosa di Franz Kafka, della filosofia di Hegel, di Marx, di Heidegger, dell’opera letteraria di Hemingway. Elio Vittorini traccia un affresco di grand’efficacia sui costumi pratici e pragmatici della nuova America, evidenziando continuità e cesure nette con la tradizione anglosassone della nazione inglese madre nello scritto “Breve Storia della Letteratura Americana”. Né può restare in ombra l’eco degli avvenimenti straordinari dell’Unione Sovietica, del paese a metà europeo ed a metà asiatico nel quale si vanno ad indagare alcune delle tendenze letterarie, da Dostojevski a Boris Pasternack, dai quali si tenta di rintracciare i segni della peculiarità dello spirito russo ed i germi in gestazione della futura deflagrazione della rivoluzione bolscevica del 1917 dalla quale tutto il mondo moderno non può più pensare di prescindere. Comincia ad apparire, cosa che meriterà un approfondimento specifico, Gramsci, un autentico elemento di rottura senza precedenti nel pensiero e nella cultuillustrazioni di Renato Guttuso, Introduzione di Giovanni Falaschi, Ed. B.U.R. La scala.

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ra moderna. In breve “Politecnico” diventa una straordinaria palestra d’elaborazione, di confronto e ricerca culturale multidisciplinare, un fattore di riferimento imprescindibile nel nuovo pensiero critico antidogmatico. Si sbaglierebbe comunque se si volesse riscontrare, nell’azione di Vittorini e dei suoi più stretti collaboratori, una linea per così dire organica ed anzi linearmente organicistica. Piuttosto, nella freschezza delle pagine, è costante la presenza di un fervore inconsueto, il “sacro furore” di recuperare tempo perduto e laicità, la tensione enciclopedica a percorrere, in una costante ed incessante ricerca senza definitivi punti d’approdo, un sentiero tutto da arare. Il mondo appare dischiudersi al lettore, che fuoriesce dalle cupe ombre per immergersi in una dimensione affascinante ed imprevedibile nella quale può cominciare ad entrare, finalmente, in relazione, attraverso la cultura, col mondo “grande e terribile” che fino allora gli è stato a lungo precluso. Sarei più per una sottolineatura di tali essenziali caratteristiche piuttosto che riprodurre una certosina ricerca dei motivi e delle ragioni, dei contenuti che porteranno alla polemica di Vittorini e del “Politecnico” con Alicata e Togliatti. E’ in ogni caso evidente come i responsabili della rivista non potessero eludere il punto della ricerca di una relazione e di una collaborazione con la forza che più conseguentemente si era battuta per la caduta del fascismo e la creazione di una democrazia avanzata. Ciò che ora appare in buona sostanza incomprensibile nel senso che avrebbe dovuto risultare subito chiaramente lineare come esistesse un reciproco interesse, di Togliatti e di Vittorini, a mantenere un rapporto di distinzione ma al contempo di parallela convergenza e collaborazione. In realtà la nascita, lo sviluppo ed il drammatico epilogo della vicenda non possono essere analizzati prescindendo dagli scenari politici che si andavano configurando nel senso dello scontro tra i blocchi, della rottura della collaborazione e dell’intesa costituzionale tra le grandi forze popolari. E’ plausibile perciò ritenere che prevalse, in sostanza, pur nell’apparente eleganza e garbo del conPagina 79


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fronto e dell’interlocutorio iniziale, più avanti, un’altra e più ampia ragione “di opportunità” che sembrava confliggere con le esigenze di tolleranza e reciproca comprensione e capacità di reciproco ascolto. Tutta la vicenda è però importante per le sue conseguenze, per essere stata il prodromo di ben altre future lacerazioni e conflitti, spesso destinate a giungere a definitive separazioni nel rapporto tra cultura e politica solo alcuni anni dopo, nel fuoco delle drammatiche vicende di Polonia e, soprattutto, di Ungheria nel 1956.

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LA POLEMICA VITTORINI - TOGLIATTI (1945 - 1947)

La questione dell’impegno dell’intellettuale presenta quindi chiaramente, in quegli anni, i primi nodi. Alla fine del settembre ‘45 era nato, come si è accennato nel paragrafo precedente, il “Politecnico” diretto da Elio Vittorini. Esso si proponeva di portare avanti una diversa concezione della cultura, di ancorarla ai problemi reali della società, all’economia, alle questioni dello Stato81. Intendeva inoltre allargare dimensioni ed orizzonti di una cultura per tradizione umanistica e letteraria. Lo sforzo del Politecnico sembrava, in apparenza, porsi nell’ispirazione culturale generale che il Partito pensava di fare avanzare82. Si guardava anche all’estero, ai dibattiti ed alle tradizioni culturali che altrove andavano esprimendosi. Un anno dopo la sua fondazione interviene però Mario Alicata83 con un breve ma stroncante articolo in cui è formulato un giudizio critico tutto concentrato su due pubblicazioni apparse sul “Politecnico”, cioè sul romanzo di Hemingway “Per chi suona la campana” visto come “la riprova estrema dell’incapacità di Hemingway a comprendere e giudicare qualche cosa che vada al di là di un suo quadro di sensazioni elementari ed immediate: egoi-

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Con l’appello di Vittorini nel primo numero del “Politecnico” (settembre 1945) a tutti gli uomini di cultura, di qualunque estrazione culturale religiosa o politica fossero, a fondare una “nuova cultura”, si apre un ricco dibattito. Questo appello ha origine dalla considerazione che è necessario rompere drasticamente col passato, soprattutto perché la cultura ha avuto nel ventennio fascista un ruolo estremamente negativo, con le sue omissioni o con i suoi silenzi. Il Politecnico si fa portavoce della confusa ansia di rinnovamento che anima gli intellettuali i quali avevano partecipato in prima persona alla Resistenza. L’esigenza principale che viene espressa è quella di voler rigenerare il ruolo nuovo ed attivo che l’intellettuale deve avere nella società. Si rivendica inoltre un ruolo autonomo della cultura che ne mostri la funzione “rigeneratrice” dopo che col fascismo si era verificata la sua “morte”.

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La “rottura” globale propugnata dal Politecnico andrà però via via configurandosi come momento in cui si privilegia più la divulgazione delle esperienze che avvengono in Italia e in Europa nel campo della produzione culturale che l’approfondimento teorico ed ideologico. Questa esperienza si va sempre più configurando come momento di divulgazione enciclopedica.

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La corrente “ Politecnico””Rinascita”n.5/6 Maggio-Giugno 1946 PPPPPPPPP.

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stiche”. E sul libro di John Reed “Dieci giorni che sconvolsero il mondo” definito “vecchio e superficiale reportage giornalistico”. Alicata insiste inoltre sull’ incapacità del Politecnico di ristabilire “un rapporto produttivo tra la nostra cultura e gli interessi e i problemi concreti delle grandi masse popolari italiane”, sull’incapacità “di creare un vasto movimento di interessi morali e pratici fra i ceti medi e gli intellettuali, per gettare, anche da questa parte, un ponte al di sopra della frattura che ha sempre separato questi ceti, nel loro complesso, dal movimento democratico delle masse lavoratrici e li ha spesso respinti a rimorchio dei gruppi reazionari detentori del potere economico e politico”. La risposta di Vittorini è a sua volta netta e polemica. Egli stabilisce una distinzione tra politica e cultura per cui la prima agisce sul piano della “cronaca”, modificando il mondo solo quantitativamente, salvo che in periodi eccezionali, e la seconda invece sul piano della “Storia”. Con quest’operazione egli dimostrava di non riuscire a superare la separazione tra politica e cultura che, invece, proprio con l’esperienza del Politecnico doveva essere superata84. Interviene nella discussione Togliatti85 e, criticando la distinzione operata da Vittorini, afferma il diritto da parte del Partito di intervenire con i suoi giudizi e le sue valutazioni sui problemi di cultura. In tal modo, però, continua- addolcendo almeno formalmente i toni- non si intende sacrificare il problema della libertà della cultura. Continua poi la critica di Alicata sul carattere che aveva assunto il Politecnico mostrando di non condividere l’eclettismo culturale che si era affermato sulla rivista e la sua “ricerca astratta del nuovo, del diverso, del

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All’interno della sua risposta era però affermata anche una giusta esigenza, in cui già si vedevano chiaramente quali erano stati i motivi che lo avevano spinto ad aderire al Partito Comunista ed il suo modo del tutto individuale di pervenire al marxismo. Egli afferma che il “Politecnico” può essere marxista solo nel modo e nella misura in cui il marxismo è positivo per i non marxisti come accade che “il cristianesimo sia positivo anche per chi non crede in Cristo”. E prima aveva detto: “Col nostro invito a rinnovare la cultura italiana (nel quale è tutto il contenuto del Politecnico) noi non abbiamo espresso una esigenza di comunisti, che fa politicamente comodo al PCI; ma abbiamo espresso una esigenza storica della cultura italiana stessa che non importa se fa o non fa politicamente comodo ad 0 un partito ed ad un altro”. (E. Vittorini, “Politica e cultura”, in “Il Politecnico”, n 31-32, luglio-agosto, 1946). 85

0

In Rinascita, anno III, n 10, Ottobre 1946.

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sorprendente”86. Quando poi il confronto, animato, tenderà a protrarsi ulteriormente, Togliatti arriverà a dire al VI congresso del Partito (gennaio 1948): “Che cosa può uscire di buono da questo uggioso dibattito (sul rapporto politica e cultura) se non una spinta a tenersi in disparte, lontani dalla vita stessa, irretiti da riserve, dubbi e contraddizioni che solo nella concreta attività tanto culturale quanto politica possono trovare soluzione?” In verità il rapporto tra politica e cultura era in Vittorini netto fin dall’inizio: “La guerra, i campi di sterminio, hanno mostrato che è stato violato ciò che ci era stato tramandato come sacro... Se ora milioni di bambini sono stati uccisi, se tutto ciò che è sacro è stato lo stesso colpito e distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa “cosa” che ci insegnava la inviolabilità loro... . questa cosa... . non è altro che la cultura”. Qui non può non offrirsi il fianco ad una critica su questo modo di intendere la cultura, presentato come un tutto unitario, in un’ unità arbitraria ed indistinta che mostra una operazione culturale sufficientemente forzata e perciò illecita. In questa visione della cultura, infatti, non è chiara la presenza di una responsabilità di classe che la cultura esprime e non si distingue tra le varie e diverse espressioni culturali al cui interno invece spesso si presentano manifestazioni

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Nella sua risposta lunga e appassionata a Togliatti (Politica e cultura, Lettera a Togliatti, no 35, gennaio-marzo 1947) si tornerà ad esprimere una esigenza giusta quella cioè di salvaguardare il ruolo della autonoma ricerca culturale e si ribadisce la non disponibilità del Politecnico a “suonare il piffero per la rivoluzione “Che cosa significa, per uno scrittore, essere “rivoluzionario”? Nella mia dimestichezza con alcuni compagni politici ho potuto notare che essi inclinano a riconoscersi la qualità di “rivoluzionari” nella misura in cui noi “suoniamo il piffero” intorno ai problemi rivoluzionari posti dalla politica, cioè nella misura in cui prendiamo problemi dalla politica e li traduciamo in “bel canto”, con parole, con immagini, con figure. Ma questo, a mio giudizio, è tutt’altro che rivoluzionario, anzi è un modo arcadico di essere scrittori”.

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di carattere antagonistico87. Semplificando bisogna affermare che non la cultura, ma una certa cultura è stata sconfitta. Vi è una cultura- minoritaria ma intransigente- che si è battuta contro il fascismo e la guerra. Essa può costituire un punto di riferimento preciso che invece manca ad Elio Vittorini. Mancando tali riferimenti gli errori o comunque gli eccessi d’eclettismo diventano inevitabili. Qui sta la ragione delle difficoltà del “Politecnico”. Togliatti, sempre nel VI congresso (tenutosi a Milano dal 5 al 10 gennaio 1948) sosterrà: ”Per noi comunisti rottura e distacco tra cultura e politica non possono esistere perché lo sviluppo delle nostre posizioni non può essere separato mai dalla nostra attività pratica”, ed ancora “Non spetta a noi dettare né criteri, né metodo, nè soluzioni agli intellettuali comunisti; ci spetta richiamarli a quella unità della coscienza e della vita che è di tutti i seri pensatori ed attori della storia... . Osservate come molti nostri compagni, capaci di un buon lavoro intellettuale, abbiano la tendenza ad isolarsi... . Essi non sono solo distaccati dalle sezioni e

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“Ciò nonostante l’impegno della rivista ha rappresentato in questo panorama il momento più clamoroso e vivo, più infervorato e instabile. Il momento in cui una giovanile volontà di ripresa si trovò a conciliare... . fenomeni apparentemente e contingentemente inconciliabili, come la libertà intellettuale ed i condizionamenti del potere politico, i quali in realtà erano molto meno distanti di quanto lasciassero presupporre certe rigide premesse ideologiche e certi schematici motivi di parte. Tentare di conciliare con intenti pedagogici in un foglio vivo ed attuale esigenze inizialmente distanti come politica e cultura,... . presumeva già da parte di chi si buttava in questa impresa, tanto una viva coscienza democratica ed uno spirito di ripresa, quanto una preparazione culturale che fosse realmente cosciente della difficoltà e della vastità del compito che ci si proponeva di attuare. Vittorini ed i suoi amici... . si trovarono invece fin dai primi numeri al centro di un equivoco che,... . non mancò di causare crisi e difficoltà interne, che non furono certo tra le ultime a determinare alla lunga quello stato di tensione che caratterizzò la vita della rivista... . Critico nei confronti del linguaggio accademico,... . critico verso una cultura ed una letteratura che si erano estraniate... . dal contesto sociale il “Politecnico”propugnava una sua polemica fondamentale di rieducazione democratica e di diffusione della cultura... . Pedagoghi in fase di autocritica, giornalisti, invece in un mondo sconvolto dalla guerra e privo ancora di contatti e comunicazioni, i redattori del “Politecnico” affrontarono il lavoro animati soprattutto dal sacro fuoco della riscoperta democratica in tutti i settori della vita, dell’antifascismo attivo del CLN, ma inteso e vissuto nella sola dimensione di un comunismo acritico e da “compagni di strada” più che non da militanti attivi ed osservanti. proprio in seguito a questa imprecisa posizione ideologica via via che l’opera intrapresa prendeva una consistenza ed una forma più decisa, altrettanto prendevano coscienza le diverse opposizioni a cui si reagì... . aggirando pure gli ostacoli e le posizioni che si sarebbero meglio dovute individuare (Introduzione all’Antologia “Il Politecnico”, Forti e Pautasso, Rizzoli Editore, Milano, 1975, pp. 5/6).

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dalla massa degli iscritti, ma si isolano in un altro modo, formando piccoli gruppi ristretti che si ignorano l’un l’altro, e dove perciò il dibattito ideale assume un aspetto artificiale che non corrisponde più alle necessità reali del movimento”. Le questioni sollevate (legame degli intellettuali col Partito, la sua base e il movimento reale, assieme alla chiarezza del linguaggio che deve derivarne) sono problemi aperti, ancora oggi spesso erroneamente affrontati, che continuano ad accompagnare la politica culturale del Partito e la sua vita di insieme. Questa strada indicata da Togliatti ancora oggi non è stata perseguita a fondo ed anzi le complesse vicende succedutesi nel movimento comunista fino alla dissoluzione degli Stati del socialismo reale hanno contribuito ad acuire la tendenza manifestata da vari intellettuali col ritorno, soprattutto dopo la fine dell’esperienza neorealista, ad una forma di isolamento ed alla ricerca di un linguaggio astruso ed oscuro. L’obiettivo di realizzare un incontro di lavoro anche nell’ambito di differenti posizioni tra gli intellettuali democratici non si è ancora risolto, cioè non si è ancora realizzato un loro permanente rapporto con tutta la vita del Partito fino alla fine degli anni cinquanta. Incomprensioni e cesure ripetute, quindi, destinate a dar vita a cicliche riproposizioni nei decenni a venire. Per quanto riguarda poi il nodo centrale dei criteri che devono regolare il rapporto tra funzione dirigente del Partito e ricerca artistica e scientifica, si deve dire che essi non furono ben assimilati, che il rapporto direzione culturale da parte del Partito ed autonomia della ricerca artistica da parte degli uomini di cultura venne ad offuscarsi in Togliatti stesso prima di essere sottoposto a verifiche e correzioni, parziali, solo dopo l’VIII congresso del 1956, almeno in una più corretta impostazione teorica e politica generale. Nelle difficoltà e negli equivoci, comunque, il “Politecnico” aprì in Italia un capitolo necessario al rinnovamento della cultura nazionale, impegnandosi su più fronti, letterario, politico, artistico. In tempi relativamente lunghi, inoltre, circa dieci anni dopo, l’impostazione Pagina 85


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della rivista e le sue istanze innovatrici avrebbero contribuito a determinare nel PCI un salto di qualità su queste tematiche. Sarebbero stati rivisti con maggiore attenzione, infatti, dopo fasi di notevole offuscamento, i rapporti che devono intercorrere tra il momento ed il carattere specifico della produzione culturale ed il ruolo, la valutazione ed il giudizio della dimensione politica. Però allora la richiesta di Vittorini (e di uno dei più brillanti collaboratori della rivista come Franco Fortini)88 di una cultura non conformista, non soggetta all’estetica di partito, una cultura da farsi su basi nuove, si scontrava con il canone ufficiale del “realismo socialista” e con le tesi zdanoviane che si erano diffuse nello stesso partito italiano. “Rinascita”, almeno in apparenza, si muove lungo tale linea condizionante, nè d’altronde la visione più cauta di Togliatti è in grado di modificarne la posizione, anche se si darà vita ad esperimenti alternativi come quelli di “Società”. Nella lettera già citata di risposta di Togliatti a Vittorini, a fianco al fatto di ribadire la legittimità dell’intervento del Partito sui problemi della cultura si dirà pure: “Ma davvero l’influenza indiretta sopra di noi dei nostri avversari e dei nostri nemici, del loro calunnioso argomentare, può arrivare a un punto tale per cui una rivista comunista non potrà più esprimersi criticamente a proposito di una pubblicazione fatta da comunisti, senza che si apra la ridicolissima campagna sulla nostra intolleranza, sul soffocante controllo che noi pretenderemmo esercitare sopra le attività intellettuali, sulla sconfessione che attende inesorabile quei comunisti i quali si occupino di problemi culturali e via dicendo?... . ”Da queste righe di Togliatti si possono individuare i primi elementi di linea e di valutazione che daranno vita, con l’intervento del PCI, a “Società”. Lo scontro sul realismo si dispiegherà, con diverse accentuazioni, in altri punti d’Europa, tra gli intellettuali di sinistra.

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Franco Fortini chiederà al Partito la libertà di poter continuare senza scomuniche un certo lavoro di indagine culturale, dicendo che questa è una richiesta politica che equivale a chiedere che il PCI cominci a considerare parte necessaria alla causa del socialismo l’apporto critico dei “compagni di strada”.

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Il filosofo francese Garaudy, della direzione del PCF, ha tentato di mettere in guardia circa l’idea, da lui ritenuta erronea, della legittimità dell’esistenza di una specifica estetica comunista ed ha teso ad evitare la pratica degli anatemi e delle scomuniche verso gli artisti inclini a virtuosismi formali o, comunque, propugnatori di diverse forme espressive. A lui ha replicato, con durezza, Louis Aragon il quale ha sostenuto, invece, che esiste un criterio marxista per giudicare le opere d’arte e che esso è il realismo socialista, espressione del materialismo storico nel campo dell’arte e punta massima di sintesi cui, nelle questioni della cultura e dell’arte, è possibile pervenire. Bisogna perciò prendere, senza equivoco, le distanze da qualsiasi eclettismo o “deformazione estetizzante”. Gli echi di tali premesse, in realtà ben diversamente elaborati, li ritroveremo nella discussione sul rapporto tra politica e cultura che si svilupperà tra Vittoriani ed il “Politecnico” da un lato e Togliatti ed Alicata, con “Rinascita” dall’altro89. Già citati i punti fondamentali della polemica, dal rilievo di Alicata di “intellettualismo”, ad una certa tendenza all’indistinto enciclopedismo, alla propensione, questa riconosciuta da Vittorini, più a diffondere ed informare piuttosto che a studiare ed ad approfondire, alla nota distinzione tra funzione della politicacronaca e cultura-Storia. A questi rilievi si aggiunsero la scelta della diffusione di brani ed opere dell’esistenzialismo

sartriano,

dell’America,

della

Sociologia

e

dell’antropologia. Nello sviluppo delle tesi in campo la durezza delle posizioni comuniste e togliattiane, all’inizio piuttosto sfumate, andrà ad accentuarsi portando ad una crisi ed ad una rottura definitiva. . Vittorini cercò in ogni modo, non riuscendoci nei fatti, di pervenire ad un formale riconoscimento tramite l’imprimatur ufficiale del Partito alla rivista.

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Interno come però era il PCI alle scelte di una linea di ricostruzione di un terreno di intervento culturale tutto raccordato e conseguente alla tradizione nazionale ed alle opzioni di concetto espressivo di nazionale e popolare, la richiesta non poteva in nessun modo ma essere acquisita. In ogni caso la scomunica ufficiale tarderà ad arrivare fino al 1951, quattro anni dopo la chiusura del “Politecnico”. Eretica era giudicata l’idea dell’importanza centrale e missionaria dello scrittore. Il suo “sperimentalismo” ed il suo eclettismo erano assolutamente inconciliabili colle impostazioni del vertice comunista. . Pur non proclamandolo ufficialmente Togliatti non avrebbe mai potuto accettare la negazione dell’autorità della funzione del Partito in materia di cultura. L’orgoglio di tale impostazione acquisiva ancora maggiore forza a fronte del registrarsi di un contemporaneo atteggiamento, di ben altro segno, da parte della DC che indulgeva, nella pubblica esposizione di suoi autorevoli leaders, in manifestazioni di pura sufficienza, mista, spesso, ad autentico disprezzo verso il ruolo e la funzione degli intellettuali. Il punto vero, che il tempo sarebbe intervenuto a chiarire, era che i reciproci campi d’intervento, della politica e della cultura, pur spesso intersecandosi e non essendo perciò rigidamente separabili, dovevano procedere nell’ambito della salvaguardia dei limiti, delle specificità delle autonomie reciproche senza invece tendere all’invasione ed all’incursione improprie reciprocamente condizionanti. La disciplina organizzativa del PCI, mista all’indubbio esercizio di una duttile pratica politica, perverrà soltanto molto più avanti- con forte ritardo- ad acquisire, come fatto di arricchimento peculiare per tutti, la concezione della necessità di salvaguardare una più piena autonomia della cultura nel pieno rispetto delle forme assunte, di volta in volta, dalle sue manifestazioni. Per pervenire a tali approdi bisognerà però percorrere una lunga strada costella-

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“Politica e Cultura”: una lettera di Palmiro Togliatti, in “Il Politecnico”, n. 33-34, settembre - dicembre 1946, p. 3-4 e “La corrente Politecnico”, “Rinascita”, a. III, n. 5-6, p. 116 ed anche poi “Informazione sopra una polemica”, “Rinascita”, A. IV, n. 5, Maggio 1947, pp. 133-135 sulle posizioni di Garaudy e di Aragon.

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ta di grandi ostacoli, difficoltà, rigidità ed errori. Per il tempo di cui ci stiamo occupando si deve considerare che Togliatti, valutando uno scrittore, era immediatamente interessato alla conoscenza delle posizioni politiche che il suo interlocutore era portato ad assumere ed a difendere. Non di rado alcuni suoi giudizi, di merito, sul valore di singole opere, verranno fortemente condizionati da questo suo specifico tipo di approccio. Una strana mistura di populismo, enciclopedismo, una fervida tendenza a scoperte culturali di autori sconosciuti e di prima mano assieme ad una capacità straordinaria di impresario culturale, il definitivo rifiuto, come riferimenti, di Croce, Carducci, Pascoli, D’Annunzio ed assieme a loro, ricorderà Asor Rosa, la netta distanza da Soffici, Prezzolini e Papini, con l’esperienza de “La Voce”, la più grande ammirazione per Proust, Svevo, Verga, l’opposizione assoluta al Manzoni, l’ammirazione per Gide e per coloro che, come Montale, erano le più intense espressioni delle tematiche dell’ermetismo, il tentativo di un recupero e di una valorizzazione di aspetti espressivi manifestatisi - in maniera sommersa - sotto il fascismo, l’ attenzione per i Formalisti, di quanti cioè erano, dal realismo socialista, già stati classificati e bollati come “decadenti”, l’attenzione a tutte le avanguardie, da Brecht, a Garcia Lorca, ad Eluard ed a Picasso, fino a Sartre ed a Majakovskij, tutto ciò era Vittorini e il “Politecnico”. Lo scrittore siciliano aveva avviato con Sartre un forte sodalizio determinato dalla sostanziale condivisione di una visione della cultura che elaborasse una posizione nuova, “non strumentale, non al servizio di…, ma attiva, autonoma, consapevole dei propri fini90. Il “Politecnico” mostrava di possedere molte analogie con la rivista di Jean Paul Sartre : “Les temps modernes”, sorta nel 1945, in un periodo cioè temporalmente contemporaneo. “Lo scrittore, scriveva Sartre, a proposito della loro responsabilità, è in situazione nella sua epoca: ogni parola ha delle ripercussio-

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In E: Garin, “Storia e ragioni dell’impegno”, ne “Il Contemporaneo”, 30 giugno 1965

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ni; ne ha ogni silenzio”91. Col riferimento a Cattaneo Vittorini esplicitava una impostazione ben diversa dalla linea ufficiale, sintetizzabile nel filone di riferimento Labriola, De Sanctis, Croce, Gramsci. Piuttosto era- per lui- auspicabile un tipo di riferimento alternativo, illuminista, cosmopolita, scientista. La sostanziale ostilità del PCI a tale impostazione si riproporrà più avanti, in toni di aperta ostilità, già nel 1948 verso Ludovico Geimonat ed Antonio Banfi, accusati di kantismo e neopositivismo. Come si è accennato a dare man forte all’impostazione di partito concorrevano le espressioni del nuovo meridionalismo, soprattutto napoletano al punto che, su questioni di contenuto, si precisò un dissidio oppositivo tra Napoli e Milano. L’idea essenziale che anima Vittorini è quella di affiancare al PCI un partito ideale della Cultura. “Il Politecnico” di Vittorini sarà, per una fase e per tutto ciò che fin’ora si è detto, non casualmente, il giornale di cultura più letto e sui redattori della rivista, come ricorderà Fortini, si riverserà una grande ed imprevedibile attenzione ed un’esplicita richiesta di diretta assunzione di responsabilità pubblica. “Il Politecnico” svolse la funzione di un grande contenitore e diffusore di cultura letteraria e scientifica, italiana, europea, mondiale. Eppure, procedendo nella polemica, più avanti Togliatti, in modo ammonitorio dirà :” A noi rincrescerebbe che “IL Politecnico…, non riuscisse a rompere una buona volta questa tradizione, e a fare finalmente opera seria, profonda, duratura di rinnovamento”. Vittorini, di contro, vede senz’altro giusto quando afferma ( All’inizio del 1947): “lo scrittore rivoluzionario che milita nel nostro Partito dovrà rifiutare le tendenze estetiche del’Urss non solo perché sono il prodotto di un paese già in fase di costruzione socialista; e non solo perché sono tale prodotto in un modo particolare alla Russia che non è detto debba essere il modo della costruzione socialista italiana e francese…. il marxismo contiene parole per le quali ci è dato di pensare che la nostra rivoluzione può essere diversa dalle altre, e straordinaria. Può essere tale che la Cultura non si fermi e che la

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In: “Presentation”, “Les temps modernes” a. I, n. 1, Ottobre 1945.

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poesia non decada ad arcadia, e noi dobbiamo almeno sforzarci di fare in modo che sia tale”. Togliatti preciserà, dopo una netta difesa dell’esperienza sovietica, come il Partito, aprendo le proprie porte ad altre ideologie non abbia mai inteso rinunciare alla propria né disinteressarsi degli orientamenti culturali ed ideologici dei propri iscritti. L’azione di Vittorini e dei suoi collaboratori non sembra a Togliatti ed a Mario Alicata sufficientemente energica nel contrastare le ideologie più reazionarie ed ostili alla nuova cultura. “Il Politecnico” rischia anzi- per loro- di produrre confusioni tali da disarmare le masse proletarie nella loro lotta di opposizione ai poteri costituiti. Ci sarà chi si distinguerà, come spesso accade, in brutalità e rozzezza negli attacchi a Vittorini ed al Politecnico. Si sta ormai facendo la corsa a posizionarsi in sintonia con Andrei Zdanov, primario interprete e riferimento dell’unico e valido modello artistico e culturale espressivo rivoluzionario, il Realismo Socialista. Togliatti reciderà- in maniera definitiva ed assoluta-ogni legame con Vittorini e con l’esperienza del “ Politecnico” nel suo pezzo, famoso, del 1951: “ Vittorini se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato”92 . Particolarmente irato e stizzoso il contenuto di questo “ corsivo”nel quale si avanza l’osservazione che in pochi si erano accorti che Vittorini era ancora “ nelle nostre file”. Egli era stato autore di romanzi e poi di una rivista, “ che fu diffusa largamente e favorita dai nostri, che attendevano qualcosa di nuovo e di buono, ma finì per scontentare tutti e lo stesso direttore, perché conteneva di tutto e non conteneva nulla, non riuscendo ad essere né tranquillamente informativa, come, diciamo, un Calendario del Popolo, né seriamente di elaborazione. Morì, la rivista, dopo un inizio di dibattito sulla politica e sulla cultura” Poi aveva continuato, Vittorini, a scrivere libri, “ Ma son libri di cui è difficile parlare, perché è a tutti difficile trovare la pazienza di leggerli sino alla fine”. Aveva peggiorato, rispetto al suo esordio intellettuale.” …Vittorini, in sostanza , che cosa aveva da dare e che cosa ha dato? “Ma forse è proprio perché non aveva nulla da dare che non si è iscritto, e per questo, quando oggi dichiara di

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Roderigo di Pastiglia, “Rinascita” mensile anno 1951.

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non essere più con noi, la cosa ci sembra priva di rilievo” . E’ desolante dover rilevare che Vittorini dichiara che era venuto con noi “ perché credeva fossimo liberali”” Invece siamo comunisti.Perché non farselo spiegare prima?”. Noi vediamo e pratichiamo un processo in cui ” lotta per la libertà e’ lotta per la giustizia sociale” Non per “ un liberalismo senza capitalismo”, come propugna Vittorini. Per questo, a differenza di Vittorini,non ci sorprendiamo per “ le risoluzioni oscurantiste che prendono il nome da Zdanov”, per “ i processi uso processi delle streghe delle varie capitali balcaniche”. Zdanov, tra l’altro ha argomentatamente sostenuto, per Togliatti, “ che l’arte deve essere specchio della realtà sociale. Perché proprio questa posizione deve essere “ oscurantista” e non la posizione opposta, per esempio?E’ partendo dalla posizione opposta, se non altro, che vengono esaltate come grandi opere d’arte, opere dove proprio tutto è oscuro, perché la comune degli uomini non ci capisce nulla”. Poi l’invettiva, circa il fatto che Vittorini aveva esplicitato la propria profonda delusione nel prendere atto che la Cina popolare aveva cessato di essere “liberale” chiudendosi “ nella camera di sicurezza di un regime totalitario”. Tali assiomi finivano per far identificare Vittorini, nel giudizio di Togliatti, coi manifesti della Repubblica di Salò e con le attuali posizioni di Gedda. “ Mettici anche la tua firma e non se ne parli più”” Vi sono intellettuali che, quando aderiscono al partito, pensano di doverne essere per natura i dirigenti, chiamati ad elaborare le parti più elevate della dottrina. Si sbagliano, senza dubbio…” “ Quello che certamente in Vittorini manca…. è la qualità; e qualità ci sembra voler dire, per chi lavora essenzialmente col pensiero,capacità di analisi e visione generale del mondo del pensiero e delle lotte che oggi si combattono. Non ha questa visione generale chi non va più in là della frase fatta o del luogo comune, siano essi quelli della noiosa propaganda reazionaria, o quelli delle tendenze pseudo filosofiche alla moda” che tendono solo ad “ abbassare e umiliare la ragione umana”. Con le sue pseudo teorie Vittorini pensa “ che rimanga per lui e per gli altri la “ libertà”. Ma già ragiona , egli stesso, come uno schiavo”, se accetta, come accetta che il movimento” liberatore” di milioni e centinaia di milioni di uomini che costruiscono società nuove non è più che “ l’oscurantismo di Zdanov” “ le scomuniche del Cominform”, “ una nuova chiePagina 92


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sa” etc, etc, etc,. La diversificazione delle posizioni tra i due si è mutata in un’irrisolvibile ed antitetica contraddizione antagonista.

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LA FONDAZIONE DI “SOCIETA’” (1945 - 1961)

Nell’estate 1945 è nato a Firenze questo periodico che non è diretta emanazione del PCI quanto piuttosto pubblicazione che vuole esprimere le idee degli intellettuali che hanno inteso assumere le posizioni del “proletariato”. Animatore dell’operazione è Ranuccio Bianchi Bandinelli che nel suo scritto “Il Diario di un borghese” ha ricostruito il suo passaggio dal crocianesimo al marxismo. Il diario apparirà pubblicato, a puntate, su “Società” ed essenzialmente appare una separazione, dolorosa e progressiva, da una cultura intesa, fino ad allora, con spirito di “casta”. Sta nascendo una nuova cultura ma è necessario, per Bianchi Bandinelli, che ciò non accada recidendo tutto il patrimonio che abbiamo alle spalle. E’ anzi indispensabile che trasmigri, nella nuova cultura, tutto il meglio della vecchia cultura. A ciò dovranno tendere, con le loro azioni e le loro opere, gli intellettuali che hanno deciso di fare la scelta in direzione della nuova cultura. . Nessuna rivista, se si eccettua “Il Politecnico” mostrerà, almeno per tutta la prima fase della sua vita, tanta e tale attenzione al problema dirimente degli intellettuali. Croce stesso si esprimerà in termini lusinghieri su “Società”, prima serie, definendola “Una rivista di cultura, la quale per più riguardi si leva sulle altre comunistiche che vengono comparendo in Italia”93. Il fascismo comincia ad essere esaminato non nell’accezione crociana dell’ ”accidente della storia” quanto piuttosto come un fenomeno che ha potuto attecchire e svilupparsi nel nostro paese proprio in quanto già da tempo preesistevano tutte le precondizioni perché ciò avvenisse “In questo lavoro che è ricchezza comune si inserisce come elemento…vitale l’attività degli intellettuali. Essi sono il sale della terra : tuttavia non costituiscono una classe a sé. E guai a loro, per la loro vocazione, se tendono a costituire casta o categoria. Un cielo

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Benedetto Croce, Aspetti di Storia recente, in “Nuove pagine sparse”, Ed. Laterza, Bari 1966, pp. 265-266

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di metafisica quiete o di metafisica purezza…non è aperto e non sarà mai aperto …ad alcun intellettuale”94. In tutta la prima parte della vita della rivista notevole attenzione sarà rivolta alla letteratura italiana (Montale, Luzi) e straniera (Eluard, Aragon, Majakovskij, Essenin etc. ). Luporini, con Romano Bilenchi e Bianchi Bandinelli, saranno i primi, principali animatori della rivista. Quando la rivista dimostrerà di voler dare attenzione particolare a quanto avviene anche all’interno delle pieghe del movimento operaio americano proponendo osservazioni e suggerimenti provenienti da quella sponda, si registrerà un primo ed esplicito richiamo di Togliatti a ritornare organicamente nei tracciati della storia nazionale e della diffusione esclusiva del marxismo. Ne deriverà un cambiamento ed anzi un parziale snaturamento nel passaggio della rivista dalla prima alla seconda serie, caratterizzata, più chiaramente, da un’impostazione piu’ sintonica alle impostazioni di partito. La seconda serie di “Società” durerà fino al 1952. ” Società”, dopo il 1952, subisce comunque un’evoluzione. Cambia lo stesso comitato di redazione e, dal primo numero del 1953, la rivista sarà firmata, come curatori, da Carlo Muscetta e Gastone Manacorda, introducendo, con queste nuove presenze redazionali, un nuovo e diverso stile nel senso di un maggiore affrancamento dalla diretta dipendenza dal PCI ed acquisendo una fisionomia ed un’identità più caratterizzata da elementi di autonomia progettuale ed operativa. Va segnalato il fatto che sulle pagine di “Società” Renato Zangheri aveva curato95, una rassegna di Storia del Movimento Operaio italiano dal 1944 al 1950. Sarà questo essenzialmente il quindicennio nel quale si snoderà l’azione di “Società” ed in particolare il tentativo di definire identità e ruolo dell’impegno

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In:” Situazione”, “Società”, a. I, gennio-giugno 1945; art. redatto, probabilmente da Cesare Luporini

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giugno 1951 pp. 308-347

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degli intellettuali di netta estrazione marxista nella cultura e nella società italiana. “Società” nasce per diretta iniziativa di un gruppo di intellettuali fiorentini come Ranuccio Bianchi Bandinelli, Romano Bilenchi, Maria Bianca Gallinaro, Cesare Luporini etc. Verranno sistematicamente discussi in essa esperienza i temi in relazione alla scelta di alcuni principali settori di intervento come la Storia, la Letteratura, la Filosofia. La rivista tenderà ad aggiornare e rendere di volta in volta più organico ed attuale il proprio impegno mantenendo, fino alla fine, anche coi contributi della direzione di uomini come Cesare Luporini, Carlo Muscetta, Gastone Manacorda, nei suoi diversi periodi di vita e di lavoro un tratto di costante ricerca e convergenza con le scelte e le opzioni principali della politica del PCI. Progressiva confluenza ed infine quasi identità tra fondatori della rivista e dirigenti del PCI. La loro comune esigenza appare quella della ricostruzione intellettuale, oltre che materiale e politica, la scelta di agire all’interno della linea del ”rinnovare conservando”. E’ da questi uomini che, non casualmente, partirà l’azione di contrasto e di polemica- anche aspra ed acuta- “contro la nuova cultura, intesa come una sorta di metanoia evangelica”. E’ questo uno dei tratti distintivi della fisionomia di “Società” e della non casuale affinità di vedute e convergenze tra Luporini e Togliatti. E’ stato il Convegno di Firenze del 9-10 Gennaio 198196 ad avere più efficacemente riflettuto su un’esperienza singolare ed importante, non sempre proceduta all’interno di rapporti di continua linearità. Il costante ancoraggio alla situazione politica, economica, sociale non consentiva d’altronde rassicuranti rifugi nell’indistinto campo di una presunta imper-

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Con le belle relazioni di Badaloni: “Cultura e Socialismo nelle pagine di “Società”, di Romagnoli: ” “Società” nella cultura contemporanea”, di Ciliberto: “Tradizioni culturali e ideale filosofico in “Società” “, di Mari “Temi e forme del marxismo teorico”, di Maggi “L’etica dell’intellettuale e i campi di ricerca in “Società” “e di Mangoni ”Storia e Storiografia in “Società”.

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meabilità dell’arte e della letteratura. Il carattere militante delle scelte degli ispiratori e dei fondatori della rivista, la loro indubbia acutezza analitica e versatilità produrranno momenti di forte ed indiscutibile vivacità nella produzione culturale specifica. E’ Manacorda a scandire un distinto periodare dei caratteri della rivista. E’ lui che, ricostruendo la storia di questa esperienza, proporrà una distinzione temporale tra un primo periodo fiorentino (1945-1946), un secondo periodo fiorentino (1947-1949), il primo periodo romano (1950-1952), il secondo periodo romano (1953-1956), il periodo milanese (1957-1961). Dalla scorsa delle annate si può senz’altro condividere il rilievo secondo il quale i momenti di maggiore efficacia e brillantezza nella produzione culturale coincidono con le fasi, come sostiene Manacorda, “di maggiore autonomia e indipendenza dal PCI (1945-1947, 1953-1956) ” mentre allorché si fanno più accentuate le forme di pressione, da parte dei dirigenti del PCI, per un più diretto e meccanico impegno politico della rivista, “Società” perderà incidenza e forza nel dibattito culturale del tempo. Ci si vuole così soprattutto riferire al periodo 1947-1953. ” In “Società” si riproduce una dialettica di ben più ampie proporzioni del rapporto tra intellettuali e politica destinata a trascinarsi, con contraddizioni anche forti ed acute, almeno fino al 195697. Luporini sintetizza mirabilmente gli obiettivi che, con la rivista, gli intellettuali marxisti intendono perseguire ed il carattere preciso dell’identità del proprio impegno: ”Il programma che avevo in mente era, per così dire, continuazionistico. Nasceva da una semplice constatazione. Nel corso degli anni Trenta si era verificata una frattura tra larghe zone della cultura italiana e l’idealismo crociano; molti di noi erano passati a sinistra, per quanto in maniera molecolare, attraverso scelte individuali o per piccoli gruppi. Bisognava ora cercare di aggregare tra loro questi gruppi di sinistra nuova e tentare una saldatura tra essi e i capi storici del PCI più sensibili ai temi culturali; da Togliatti in primo luo-

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Su tali aspetti si è interessantemente soffermato Nello Ajello nel volume “Intellettuali e PCI, 1948-1958”, Bari 1979.

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go a Sereni. Al centro del dibattito c’era l’atteggiamento da assumere intorno a Croce e ai modi di distaccarsene; tutta l’intellettualità di sinistra era combattuta…Tra noi e Rinascita c’erano motivi di frizione: sulla sua rivista Togliatti voleva istituire col Crocianesimo un collegamento, un colloquio se pure polemico che a noi, più drastici e impazienti su questo tema, sembrava inopportuno e anacronistico. Ciò era fonte di incomprensione. quando pubblicammo un articolo di Delio Cantimori sullo storicismo…a Roma questa posizione non venne capita. Allo stesso modo Togliatti –con il quale io mi incontravo un paio di volte l’anno per discutere l’impostazione di “Società”- mostrava di non apprezzare il nostro proposito di fare i conti con certi nodi della cultura nazionale ( con l’esperienza della “Voce” ad esempio), di valutare alcuni aspetti rilevanti della moderna cultura europea( dall’esistenzialismo al neopositivismo), e di aprirci verso la cultura classica russa, nella quale il nesso letteratura-società si era presentato in termini attuali e stimolanti…Togliatti insisteva perché trattassimo temi italiani. Ci accusava di antologismo. Neppure la presenza degli editoriali con cui si apriva la rivista, intitolati “Situazione”, incontrava il favore del leader comunista”98. L’idea togliattiana, che iniziava a definirsi con assoluta compiutezza, appariva quella dell ”intellettuale organico” che acquisirà un’autorevolezza teorica definitiva con l’interpretazione ufficiale dei gramsciani “Quaderni del Carcere”. A questa visione, del tutto interna al vecchio filone interpretativo umanisticoretorico-letterario

si

andava,

di

rimando,

proponendo

la

visione

dell’intellettuale come “portatore di materiali”, come tecnico e specialista che fornisce gli “strumenti di lavoro indispensabili ad ogni seria discussione”99. Per Luporini compito della rivista non può che essere quello di “portare nuovi materiali d’indagine alla nostra cultura, di portare la sua attenzione su aspetti e settori fin’ora trascurati. Portare nuovi materiali non significa naturalmente

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In N. Ajello, op. cit. , pp. 71-72

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Concetto sviluppato nella relazione di L. Mangoni, “Storia e Storiografia in “Società”, 1945-1950, presentata al convegno dell’Istituto Gramsci, già citato

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portare dei materiali grezzi e non elaborati, non interpretati. Ma significa elaborarli ed interpretarli in maniera innanzitutto analitica…La Cultura che noi combattiamo presenta un volto sintetico, falsamente sintetico riteniamo noi…”100. “Società” insiste inoltre, criticamente, almeno nella sua prima fase su una visione che indulge nella rappresentazione dell’intellettuale come “guida delle masse”, ne contesta la pretesa a voler perseguire un proprio primato, richiama all”orgoglio dell’umiltà”. Evidente appare una critica tranciante alla visione idealistica. Gli intellettuali “sono il sale della terra: tuttavia non costituiscono una classe a sé…gli intellettuali non producono direttamente beni economici, producono dei servizi, anche se altissimo sia il loro servizio. Sono perciò sempre marginali al costituirsi delle classi. Il loro servizio…essendo in servizio della verità è in servizio di tutti gli uomini. Ma ciò non li distoglie dalla realtà della situazione, anzi li richiama ad essa, alla sua struttura e chiede da parte loro ogni più attento, disinteressato e scrupoloso esame… Le forze del lavoro muovono oggi nel mondo alla liberazione di sé stesse. Questa liberazione non riguarda solo sé stesse, riguarda tutti gli uomini. Attraverso questo evento passa necessariamente la storia della libertà umana o, …la storia umana. Noi vogliamo essere e operare a fianco di esse”101. Citazione questa che non consente ancora una compiuta e soddisfacente comprensione del carattere distintivo della rivista. Appare in ogni caso in prima istanza sorprendente, in considerazione della nettezza delle premesse iniziali, come progressivamente il senso e gli indirizzi della rivista vengano modificandosi per poi progressivamente sbiadire in maniera quasi indistinta. All’orgogliosa e netta difesa dell’indipendenza e della coscienza circa la obbligata parzialità della funzione e del ruolo sociale degli intellettuali e della loro funzione nella storia e nella cultura del Paese va infatti,

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Nuova serie, in “Società”, III, n. 1 (1947).

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in “Società, I, n. 1 (1945) pp. 6-7, Situazione

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impercettibilmente ma inesorabilmente sostituendosi, un nuovo indirizzo nel quale più netto, organico e definito va configurandosi il rapporto con le linee generali della politica del PCI con l’inequivocabile sintonia con tali indirizzi. Non casualmente le pagine della rivista saranno infatti, negli anni seguenti, utilizzati come tribuna per un’accesa e secca amplificazione della linea ufficiale di politica culturale contro tendenze di altro segno, su cui già ci siamo soffermati, destinate ad essere bollate come “deviazioniste” ed espressione, in qualche modo, di aspetti giudicati “degenerativi” della cultura borghese. Anche in questo caso non può, nell’analisi ricostruttiva, prescindersi dal clima d’insieme della situazione di rottura e di scontro tra blocchi a livello internazionale e dall’ovvia constatazione che tutto, ormai, a livello nazionale, andava spingendo verso una netta ed inequivoca scelta di campo osteggiante l’esplicitazione di sfumature e distinguo interpretativi. Le modificazioni degli orientamenti e degli indirizzi di politica culturale prima accennati non possono essere letti e compresi- seppur non giustificati- che alla luce di tali fluttuazioni nella situazione storico politica. E’ ovvio che, progressivamente, il ruolo ed il controllo del Partito sulla produzione culturale diviene più stretto e serrato e “Società” finisce per essere un terreno privilegiato ove finiscono, almeno fino al 1956, per allignare più chiaramente, i riflessi di tali condizionamenti. Questa rivista proporrà sempre una traccia di lavoro meno eclettica dì quella del “Politecnico”. Su di essa scriveranno in prima persona intellettuali marxisti militanti. Alla radicale rottura propugnata dal “Politecnico” con tutta la vecchia cultura, questa pubblicazione sostituisce l’ipotesi di un aggancio, un raccordo ed un utilizzo della cultura democratica precedente, che va recuperata ed espansa ulteriormente sull’asse interpretativo De Sanctis-Gramsci. Contro la rottura propugnata da Vittorini, si propone, sul campo del rapporto tra politica e cultura, l’ipotesi di una collaborazione tra di loro. “Società” vuole sviluppare quindi un’azione culturale in stretto rapporto con

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l’azione politica del PCI102. La stessa ricerca del “Politecnico”, per un nuovo impegno dell’intellettuale, in “Società” sarà trattato in modo diverso. Alla esigenza di vincere la vecchia impostazione che Croce dava alla funzione ed ai compiti dell’intellettuale, “Società” reagisce evitando ogni sperimentalismo, cosa questa che aveva caratterizzato l’ esperienza del “Politecnico”. Il suo impegno invece (già indicato in polemica col Politecnico nell’intervento di Cesare Luporini“Il rigore della cultura”)103, si caratterizza nella ricerca della necessità dell’integrazione e del recupero della tradizione idealistica per superarla con una rigorosa impostazione marxiana. La traccia di politica culturale di “Società” andrà facendosi sempre più netta in coincidenza con la fine delle pubblicazioni del “Politecnico”. Prevarrà l’impostazione politica e le firme che appariranno sulla rivista saranno quasi tutte di dirigenti, militanti, di iscritti o simpatizzanti del Partito Comunista. In questa nuova fase prevarrà anche una specifica impostazione storicofilosofica, con un attento lavoro di recupero dei temi propri della tradizione idealistica. Sul piano letterario specifico, qui in stretto rapporto con “Rinascita”, il lavoro diventerà più funzionale all’orientamento politico e culturale del Partito. Verrà riproposta la linea desanctisiana e la tradizione democratica risorgimentale come premessa ad un ulteriore sviluppo delle intuizioni di Gramsci. Ci si muove, in sostanza, per costruire uno spazio egemonico nel campo della cultura da affiancare ed integrare con l’operazione che il Partito compie in sede politica. Spesso così sembrerà offuscarsi- come si è accennato- l’ipotesi, invece obbligata, del proseguimento e dell’intensificazione dell’autonoma ricerca cul-

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“L’azione di “Società”vuole integrarsi nella nostra cultura in modo polemico e dialettico richiamandosi alla tradizione di concretezza di quegli intellettuali del Risorgimento che riuscirono a portare l’Italia a livello europeo”, scriverà l’organo del PCI, l’Unità, il 23 marzo 1947, presentando la rivista. 103

Cesare Luporini, “Il rigore della cultura”, in Società, II, gennaio-marzo 1946.

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turale all’interno di schemi ed impostazioni di partenza non rigorosamente definiti. Come vedremo solo molto tempo dopo il 1950 cominceranno ad essere espresse nuove posizioni nel Partito circa i rapporti e le distinzioni che devono intercorrere tra azione politica e ricerca culturale.

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I RIFLESSI DELLO ZDANOVISMO IN ITALIA

In questo periodo infatti, alla necessità di affermare un nesso organico, ma reciprocamente corretto, tra politica e cultura, e di definire più puntualmente la funzione del partito nel campo delle idee, un’altra se ne intreccia fino a sovrapporvisi: la esigenza di difendere, in Europa ed in Italia, la funzione esemplare dell’URSS, come paese ove si è attuato il massimo rapporto possibile tra popolo e cultura, che si è potuto realizzare solo grazie alla mediazione del Partito e, soprattutto, alla sua guida. Tale impostazione, che risulterà vincente per un certo periodo, si esplicita nella rigida definizione dei canoni del “realismo socialista” assurti a metro di giudizio esclusivo e vincolante per valutare l’arte insita in un’opera oppure la mancanza d’arte nell’opera stessa. Il problema non può essere semplicisticamente guardato e liquidato, per la sua indiscutibile grossolanità, esaminandolo con la coscienza postuma dell’oggi. Era quella l’epoca in cui pesava la rottura del mondo in blocchi contrapposti e montava in Italia una rozza, martellante e quotidiana campagna anticomunista che trovava però credito e riscontro, con un consenso non di rado entusiasta, in notevoli fasce dell’opinione pubblica italiana non informata ed obiettivamente scarsamente educata alla vita democratica. Nel movimento operaio, poi, le speranze di costruzione di una società migliore erano tutte riposte nella fiducia delle realizzazioni socialiste che si erano avute in Unione Sovietica e nella fideistica attesa della messianica esportazione di quel modello di Stato e di Società. L’atteggiamento perciò era spesso di difesa aprioristica di tutto ciò che si esprimeva, si produceva e realizzava in Unione Sovietica. Si giustificava, infatti, in maniera pregiudiziale, anche la confusione dei piani in cui operava il Partito sovietico, il sistematico venir meno della mediazione tra politica e cultura, il fatto che in URSS la libertà di ricerca artistica non venisse affatto garantita ed anzi fosse di frequente duramente e frontalmente combattuta. Pagina 103


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Il PCI si trova così a difendere l’intervento diretto ed invadente del Partito sovietico nel campo della letteratura, della filosofia, della musica, delle arti, perdendo progressivamente il senso della ricerca prudente della mediazione quale era stato intuito, auspicato ed indicato da Togliatti nel VI congresso del Partito Comunista Italiano104. Sbagliato era il fatto che il Partito attribuisse a sé stesso poteri e funzioni giudicanti risolutive, che del Partito non possono essere proprie, sulle questioni aperte in quei campi. La conseguenza ovvia di tutto ciò non poteva essere che quella del rallentamento o del blocco assoluto della libera produzione critica. Ne derivava, automaticamente, una caduta verticale di esercizio di criticità ed un piatto, oleografico conformismo. L’intellettuale democratico percepiva, nella propria coscienza, l’erroneità e l’inaccettabilità del fatto che fosse l’intervento del Partito a decidere se una linea fosse o non fosse giusta. L’uomo di cultura avvertiva in sé un sentimento di opposizione ad ogni forma di violazione della libertà di cultura e, d’altro canto non sempre si era disponibili a comprendere che un partito rivoluzionario, lottando per la trasformazione della società, non può astenersi dall’esprimere il suo pensiero sulle manifestazioni culturali che si verificano nella vita sociale, non può disinteressarsi del dibattito delle idee. Il problema da risolvere era ed è quale deve essere l’intervento del Partito in campi e materie che concorrono- decisamente- alla determinazione di orientamenti, modi di costruzione delle opinioni, visioni del mondo tra larghe masse. . A questo problema il movimento comunista mondiale non era stato in grado di formulare una risposta adeguata e convincente. L’intuizione di Togliatti del VI congresso andava, così, progressivamente ed inesorabilmente a smarrirsi. Lo stesso leader comunista manifesterà evidenti doppiezze, assumendo e contem-

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A proposito di Zdanov e del principio della partiticità dell’arte come viene intesa in URSS, vedi R. Luperini, “Gli intellettuali di sinistra e l’ideologia della ricostruzione nel dopoguerra”, Ed. Di Ideologie, Roma, 1971, pp. 91/99. Queste linee erano state espresse da Sereni nell’art. :“A. Zdanov, modello di combattente per il trionfo del comunismo”, in Rinascita, V, 9, I0, settembre-ottobre, 1948.

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poraneamente negando la linea del pieno rispetto dell’autonomia della produzione artistica e culturale. Solo più tardi, raggiunta dal Partito italiano una maggiore maturità ed autonomia, si riconoscerà il fatto che, sul terreno della ricerca non può esservi giudizio ed autorità decisiva, non si può ritenere acquisito e raggiunto un risultato una volta per sempre, non si può canonizzare una conoscenza, ma bisogna utilizzare in modo dinamico e laico il metodo di indagine marxista dei fatti storici (ed anche dei processi artistici e culturali) ben sapendo che ogni risultato, nella ricerca artistica e culturale, non può che avere un carattere provvisorio e parziale, non definitivo. Esso rappresenta solo e nient’altro che una tappa per una ulteriore fase di avvio di una ricerca nuova. Si è appena accennato invece che Emilio Sereni assumerà, in quegli anni, una posizione di giustificazione - piena ed assoluta - degli interventi del PCUS nel campo della cultura sostenendo che il rapporto che si è stabilito in URSS tra politica e cultura rappresenta il limite più alto a cui si può giungere e che ciò prima, in tutta la storia delle società umane, non si era mai realizzato Si comprende da queste posizioni come l’atteggiamento della direzione del PCI, schiacciato sullo schieramento di campo, non è solo diplomatico o propagandistico, ma appare, per una fase, sempre più profondamente convinto. Sereni sosterrà che in una società socialista si assiste all’accesso di grandi masse alla cultura e si verifica una loro partecipazione al dibattito ideale impensabile in società borghesi e capitaliste antagonistiche. Nella misura in cui, però, un fatto d’arte o di scienza interessa grandi masse esso diviene un fatto politico e il Partito deve farlo proprio. Sereni infatti anche nel discorso fatto nel 1950 a Venezia in apertura di quella che avrebbe dovuta essere la Mostra d’arte della Biennale, con un richiamo netto all’ideologia, si farà portavoce di una linea di identificazione, nel campo delle arti, dell’arte progressiva col realismo. Fu un errore grave, quindi, cercare di far coincidere la cultura progressiva che, come si è visto, si manifestava in forme estremamente variegate e distinte, con una tendenza ideologica precisa. Tale impostazione, che poteva apparire sufficientemente giusta nella dichiaraPagina 105


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zione d’intenti generali non era più tale, però, quando finiva per annullare, nell’unità indistinta e confusa tra politica e cultura, la pur necessaria distinzione e mediazione che le pone in rapporto, quando finiva per perdere di vista il carattere specifico dei diversi campi di azione (del Partito, dell’artista, del letterato, dello scienziato);non era più giusta perché non comprendeva il fatto che lo sviluppo dell’arte, della letteratura e della scienza va affrontato con l’arma dell’arte, della letteratura, della scienza e non della politica. Gli intellettuali sono uno strato sociale non indistintamente compatto ma complesso e differenziato nelle proprie interne articolazioni. Essi, di per sé, sono inclini al sistematico esercizio del dubbio, della critica, della parzialità. Questo elemento, dell’esaltazione della soggettività, con quello della individuale ricerca di originale espressività, non è eliminabile. Questa peculiarità specifica va anzi colta e rispettata mettendo sempre nel conto la possibilità di poter registrare, nel loro dialogo e confronto con una specifica formazione politica, convergenze e- assieme- divergenze. Non bisogna, col dogmatico richiamo ad un astratto senso di disciplina di parte, spingere “oltre” i difficili punti di equilibrio raggiunti che, impropriamente forzati, possono incrinarsi rompendosi. E’ così che si producono danni, scissioni, separazioni.

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IL NEOREALISMO FINO AL 1950

Il fenomeno neorealista non era giunto inaspettato. Si è già fatto cenno alla lotta condotta da gruppi di giovani intellettuali, nella ricerca di un nuovo rapporto con il reale, tesa a superare la figura tradizionale dell’intellettuale “separato”, spesso solo in apparenza, dalla vita pratica. Il fenomeno neorealista, come si attua in Italia, sancisce la nuova figura del narratore come “artista”. Questa tendenza si manifesterà in tutte le arti, dalla narrativa alla pittura ma, soprattutto, nella cinematografia. Così ne definiscono l’esperienza Mario Alicata e Giuseppe De Sanctis105: “Anche noi,... vogliamo portare la nostra macchina da presa nelle strade, nei campi, nei porti, nelle fabbriche del nostro paese; anche noi siamo convinti che un giorno creeremo il nostro film più bello seguendo il passo lento e stanco dell’operaio che torna alla sua casa, narrando l’essenziale poesia di una vita nuova e pura che chiuda in sé stessa il segreto della sua aristocratica bellezza”. La Resistenza e l’antifascismo furono determinanti per l’affermarsi del neorealismo: essi avevano creato uno spazio nuovo e di grande espansione per l’intervento della cultura quale mai prima si era sperato, con l’irruzione di proposte artistiche ancorate a forti tematiche sociali, capaci di coinvolgere, appassionandolo, il grande pubblico verso il quale non si poteva più avere un rapporto linguistico di tipo tradizionale. Tale operazione delle forze culturali progressiste, attuatasi come abbiamo detto un po’ in tutte le arti, si protrarrà fino all’inizio del 1951. E’ senz’altro difficile definire, in modo unitario, i1 fenomeno neorealista: s’ incontrano, al suo interno, componenti eterogenee, di tipo umanitario-cattolico (Rossellini) e laico individualista (Zavattinì, De Sic a). Lo stesso Dino De Lau-

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“Verga e il cinema italiano” e “Ancora Verga e il cinema italiano”, in “Cinema”; 10 ottobre 1941, 127, ppg 216/217 e 25 novembre 1941, 130, pp. 314/315, oggi in “Sul realismo, testi e documenti 1939-I945)”, quaderno informativo 59, X mostra internazionale del nuovo cinema, Pesaro, 12-19 settembre 1974, pp. 16/19, 20/22.

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rentiis nelle “Mondine” si cimenterà con questa dimensione espressiva. Esso in ogni caso non può essere visto ed interpretato come una scuola, ma piuttosto come un movimento, una tendenza, favorita nella sua nascita da una crisi profonda della società italiana caratterizzata d’altronde, contemporaneamente, da una forte tensione politica e civile. Se il neorealismo non è visto, ed, in effetti, non fu, come il movimento culturale che rappresenta il livello conclusivo e più alto cui può giungere la ricerca artistica, si comprenderà meglio com’esso rappresenti i1 passaggio, confuso e tumultuoso, della maggior parte degli uomini di lettere e d’arte italiani dalla “chiusa società delle lettere”, ad un mondo di rapporti sociali nuovi, dove la chiusura individualistica o intellettuale è negata come superata, antistorica, regressiva. In ciò esso fu concretamente innovatore. L’adesione istintiva al popolo, l’esaltazione delle virtù popolari, l’affermarsi di un certo populismo- nella sua dicotomica espressione-, registrano la volontà di proiezione esterna dell’intellettuale che ricerca nel sociale la convalida ed il conforto della sua missione storica. Carlo Salinari106 così parlerà del neorealismo: “Il neorealismo si nutrì, quindi, innanzitutto di un nuovo modo di guardare il mondo, di una morale e di un’ideologia nuove che erano proprie della rivoluzione antifascista. In essa vi era la consapevolezza del completo fallimento della vecchia classe dirigente e del posto che, per la prima volta nella nostra storia, si erano conquistate, sulla scena della società civile, le masse popolari. Vi era l’esigenza della scoperta dell’Italia reale, nella sua arretratezza, nella sua miseria... . ed insieme una fiducia schietta e rivoluzionaria nelle nostre possibilità di rinnovamento e nel progresso dell’intera umanità... . autentica avanguardia perché tendeva a riflettere i punti di vista, le esigenze, le denuncie, la morale di un movimento rivoluzionario reale e non solo culturale. E nell’avanguardia il neorealismo ebbe... . la volontà di caratterizzarsi e di distinguersi nettamente dalla cultura tradizio-

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In “La questione del realismo”, Firenze, 1960, pp. 40/42, oggi in C. Salinarì, “Profilo storico della letteratura italiana”, voI. III, Ed. Riuniti, Roma, 1962, pp. 315/316

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nale, accademica, arretrata, staccata dalla realtà. Si presentò così come “arte impegnata”... , contrappose polemicamente nuovi contenuti (partigiani, operai... occupazioni di terre, baraccati) all’arte della pura forma e della morbida memoria... . cercò il mutamento radicale delle forme espressive che sottolineasse la rottura con l’arte precedente e potesse esprimere più adeguatamente i nuovi sentimenti”. Ciò però si tradusse nella disattenzione ad altre forme di produzione intellettuale, quasi sempre liquidate per lo più con la semplicistica etichetta di “decadente” e “superate”. Quest’atteggiamento traeva le sue origini dall’identificazione imperante nelle file dell’internazionale comunista tra realismo e progressismo. Si può dire, con la coscienza dell’oggi, che è stato un errore far coincidere la tendenza con la linea: si vede infatti come, in questi anni, tutto ciò che non era realismo viene liquidato in blocco, invece di essere vagliato caso per caso. Ciò determinava il fatto che si guardasse con sospetto a tutte le esperienze culturali provenienti dall’estero nonostante un iniziale favore, (si pensi a come Alicata stronchi, nella polemica con Vittorini, alcune espressioni di cultura americana). Nonostante ciò il neorealismo costituì un grande sconvolgimento nella cultura: esso metteva allo scoperto il momento di crisi e di speranza della storia d’Italia di quegli anni; esso cercava di esprimere una rappresentazione della realtà nettamente antiretorica. Quando però, andando avanti in quest’esperienza, l’elemento antiretorico si inclinò, quando venne a saltare l’equilibrio che il neorealismo doveva mantenere, allora vennero fuori le tendenze negative: una presenza acritica di populismo, una ostilità verso il nuovo, una esaltazione pressoché esclusiva del semplice. Il Neorealismo, e qui probabilmente fu l’errore, non poteva essere visto come la fase finale di un processo, ma solo come l’inizio di ricerca di una strada, sempre perseguita ed ancora oggi non definitivamente raggiunta, che determinasse un giusto rapporto tra intellettuali e semplici, tra Cultura e popolo, in cui l’operazione culturale non poteva e non può, per essere tale, limitarsi alla registrazione del livello di coscienza delle masse quale esso è, riproponendo, sem-

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plicemente fotografandola, l’immagine mirata e parziale del reale. Il Neorealismo si muoverà, fin dall’inizio, con un atteggiamento polemico, spesso duro e liquidatorio verso altre tendenze che gli sembravano esprimere trascinamento persistente di aspetti che erano stati propri del clima culturale dell’anteguerra ( L’ermetismo). Questa dialettica- fino al 1948- si limiterà ad un confronto operante nei limiti, manifestandosi “dentro” la tendenza al rinnovamento ma, dopo il 1948, la polemica diverrà acutissima determinando la formazione di schieramenti contrapposti nel campo culturale. Nel frattempo la censura si scatena su una serie di opere dei più grandi cineasti italiani, da “Umberto D” di Vittorio De Sica, a “La terra trema” di Luchino Visconti . Sul cinema neorealista si registrano varie ed importanti prese di posizione che, sinteticamente si richiamano. Esse troveranno voce, sulle pagine di “Rinascita”107 nella rubrica: “in difesa del cinema italiano”. Ecco come alcuni dei principali cineasti ed operatori del settore affrontano il problema: Cesare Zavattini ritiene che:” gli scrittori e i registi hanno voluto guadagnare il tempo perduto che significa guardare, guardare, guardare, mettere dentro gli occhi gli uomini e le cose che avevano per anni trascurato: nel nostro cinema infatti non esistono più cose inerti, uomini trascurabili, è tutto storia, anche la polvere che si leva sotto gli zoccoli del cavallo, e le spalle di una donna che fa da quinta a un fotogramma.Tanto bisogno di attenzione perpetua e minuta verso la vita dovrebbe mostrare a chiunque la originale funzione del cinema italiano”.” Sono sicuro che nessun buon italiano si assumerà la responsabilità di interrompere questo racconto, che a volte lieto e a volte triste ma liberato sempre dalla paura della verità, dovrà continuare ad esprimere la nostra speranza di conoscerci e quindi progredire”. Alberto Lattuada osserva come “ … un uomo che non conosce la forza di suggestione del cinema, la sua potenza di glorificazione di un’idea, di un costume e in una parola , della civiltà di un popolo, non può essere un uomo politico del secolo ventesimo”. “ la voce che si è levata a difen-

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Posizioni tratte da “ Rinascita” mensile, 1949.

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dere il nostro cinema è quella dell’Italia stessa e non può essere soffocata in uno dei suoi modi d’espressione, più diretti e potenti… Si tratta… di sapere se accanto alla stampa e alla radio dovrà continuare a fiorire nel nostro paese una cinematografia già ricca di affermazioni riconosciute in tutto il mondo o se l’Italia dovrà decadere al ruolo che compete alle nazioni meno progredite e politicamente inesistenti”. Pietro Germi a sua volta constata poi che “.. il cinema aiuta gli uomini a vedersi, a conoscersi. E il cinema è perciò indispensabile agli italiani: i quali se soffrono di un male cronico, soffrono proprio di questo: di non aver mai imparato a sapersi vedere con concretezza, a sapersi giudicare. I registi italiani hanno la possibilità di contribuire più che tutti gli altri artisti messi insieme,scrittori,pittori o che so io, a dare inizio a questa importante, decisiva opera di autocritica morale, a questo esame di coscienza che sarà decisivo per far uscire tutti noi italiani da quello stato di immaturità psicologica cui spesso ci abbandoniamo, perdendo il contorno preciso dei problemi, rinunziando a conoscere la realtà, a combattere. ………..Oggi il nostro cinema ha cominciato invece a comprendere il valore di quello che esiste con il suo peso e la sua concretezza…E Roma per il nostro cinema è diventata Roma, veramente, con le sue strade, belle o brutte, col sole o con la pioggia, come in tanti altri film stranieri avevamo imparato a conoscere Londra o Dublino, New York o Parigi…”” Oggi se un regista italiano…vorrà avere un vero impegno morale, nuovo e italiano,anche questa volta dovrà magari pensare a “ I Bambini ci Guardano”, di De Sica. “ E’ la prima volta , infatti, che l’arte italiana per mezzo del cinema, rompe dopo tanto tempo quella barriera di conformismo accademico che la separava dalla verità; ogni sforzo ha le sue asprezze e i suoi errori… gli ultimi film neorealisti hanno dimostrato che si sta arrivando, in questa forma di espressione, ad un nuovo superiore equilibrio; e le scorie, certe retoriche del “ vero”, una futilità e crudezza cronachistica, a mano a mano scompaiono o meglio si elaborano…. Uno dei lati più tragici della crisi del cinema italiano…è…che si pensi a togliere al popolo italiano questo strumento che si è conquistato, il cinema, indispensabile a un popolo per conoscere sé stesso, per criticare quelli che sono gli aspetti negativi della sua vita, per autoeducarsi a un concetto superiore e operante di libertà”. Il critico Giuseppe De Santis interviePagina 111


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ne per puntualizzare come vada inteso correttamente il movimento neorealista e ed il senso della sua esatta funzione storica e come si debba continuare ad agire per garantirne un successo ancora più ampio “E che cos’è, invece, il “ neorealismo”, nella sua sostanza umana e sociale? E’ finalmente , nella storia della cultura italiana, l’apparizione di un’arte popolare. Popolare, s’intende, non già nel senso di avere adottato un linguaggio mediatorio e volgarizzato, ma nel senso di avere scelto a protagonista delle vicende ch’essa narra il popolo: Il popolo, con le sue speranze, le sue sofferenze, le sue gioie, le sue battaglie e , perché no,le sue contraddizioni.”. “ Il cinema italiano attuale partecipa a una lotta lunga e dura,, la lotta per l’edificazione di un’Italia moderna e civile…Il cinema italiano ha scoperto un linguaggio, una vena, una fonte inesauribile d’ispirazione . Ma è una scoperta appena iniziata, dagli sviluppi imprevedibili e grandiosi. Soffocare questo fermento sarebbe un delitto contro la cultura non soltanto italiana ma mondiale”. Alessandro Blasetti ,a sua volta, parte dall’evidente constatazione dell’enorme disparità di mezzi economici disponibili rispetto alla potenza americana e procede domandando a sé stesso ed a chiunque ha in Italia una qualche attinenza alla cinematografia italiana se si è fatto davvero tutto il possibile per reggere la concorrenza e l’invasione indiscriminata di cinematografia americana incrementando la qualità del cinema italiano che è fattore straordinario di crescita occupazionale ed economica, voce importante della bilancia valutaria che può migliorare o peggiorare a seconda che si sviluppi una capacità di esportazione delle produzioni cinematografiche nazionali o se, invece, continuando con una politica poco incisiva non si sarà costretti a dover verificare l’uleriore aumento d’ importazione di prodotti cinematografici stranieri. Blasetti ritiene che sarebbe gravissimo ed intollerabile se si dovesse verificare un “ soffocamento di una nostra voce nel mondo che ha apportato, malgrado rischi e disagi,in questi anni difficili, un vantaggio incalcolabile al paese”. Per tutto ciò si dovrà agire” con prontezza ed energia”. Lo stesso Luchino Visconti riscontra, infine, la “ pletora e l’inondazione di film di qualità assolutamente scadente”. Per ciò che attiene le produzioni nazionali si deve- secondo lui- puntare , decisamente, sulla produzione di film di forte qualità . E’ inutile “ ogni misura che intenda proteggere la produzione senza poterPagina 112


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ne garantire la qualità; ritengo utile che il film italiano conquisti da sé il mercato nazionale prima e quello mondiale in seguito, e se misure sono da invocare, siano misure agevolative e non protezionistiche”.Si riferisce ad aumento del credito cinematografico, a scambi e accordi con l’estero etc. Vittori De Sica , conclusivamente, Invita gli esercenti a considerare seriamente come il cinema italiano può diventare sempre più un ottimo affare. Deve aumentare la produzione della già altissima percentuale di buono film. Nessun altro Paese al mondo può superare, allora,per De Sica , la bontà della cinematografia italiana. Decidere di percorrere questa strada è fattore decisivo di civiltà. Ad essere intervistati sono, oltre ai registi, anche gli attori. Ecco l’opinione ed alcune osservazioni di Gino Cervi L’attore richiama la larga adesione che ha riscontrato, tra tutti gli strati della pubblica opinione, la nascita e l’azione del Comitato di Difesa del Cinema Italiano. Si è infatti determinata una grande solidarietà tra registi, autori, sceneggiatori, lavoratori con lo stesso appoggio dei produttori.Il Comitato ha preteso ed ottenuto una larga discussione in Parlamento ed il Governo dovrà rispondere, con atti concreti, alla necessità di limitare gli effetti deleteri dell’imporetazione senza freni di pellicole straniere e soprattutto americane sul mercato nazionale.. Cervi inoltre avvisa che “ la trasformazione in formula del neo-realismo rischia dilimitare le possibilità espressive del nostro cinema”La produzione,per lui, va indirizzata verso contenuti più decisamente positivi ed accessibili allo spettatore comune , senza scadere , però, nella retorica e nella superficialità della produzione americana. Ogni film italiano dovrà anzi contenere un messaggio di cultura e di civiltà che possa fare onore alle nostre tradizioni non soltanto in Italia ma anche presso le altre nazioni. Essere portatori di messaggipositivi non va confuso col cliche del divertimento idiota del divertimento a tutti i costi. Si può ancora osservare come l’attenzione ai problemi del cinema travalichi le esclusive fila delle forze politiche e culturali della sinistra. Infatti anche gli uomini del settimanale “Il Mondo“ nato per opera di Mario Pannunzio, su cui si tornerà, protesteranno quando è sottratta al pubblico l’opera di uno dei principali e più autorevoli registi italiani. I governi del periodo puntano a praticare

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,in questo settore, più volte odiose discriminazioni: assai favorita ed incoraggiata è infatti la diffusione e l’invasione di films di produzione americana mentre – di converso - le pellicole dei paesi dell’Est e dell’Urss da un lato sono sabotate ma, dall’altro, non appaiono in grado di captare il diffuso interesse del pubblico italiano. Diventa perciò obbligata, da parte degli intellettuali italiani, l’azione per la difesa delle produzioni nazionali, realiste, che tendono alla rappresentazione della cruda realtà. Nascono e si moltiplicano così i comitati per la difesa del cinema italiano cui aderiscono registi, attori, produttori. Scendono in campo anche i capi del movimento operaio e lo stesso Giuseppe Di Vittorio. Varia e di alto profilo è comunque la produzione neorealista del primo periodo : si ricordi, tra i tanti, nel 1951 il film di Lizzani :” ACHTUNG Banditi”, “Miracolo a Milano” e “Ladri di biciclette” di De Sica, oltre al già citato “Senso” di Visconti108. La vena creativa di questa stagione più avanti si esaurirà né varranno goffi tentativi di rinverdirla. Per quanto attiene la letteratura importanti i “Saggi sul realismo” di Gyorgy Lukacs in particolare per l’invito a considerare, più che il realismo delle borgate, il “grande realismo” del romanzo storico, da Balzac a Tolstoi. Lukacs resterà a lungo inviso, oltre che a Croce che lo taccia di essere un “vuoto ripetitore di formule marxiste” allo stesso PCI che non apprezza i suoi ripetuti distinguo ed il costante richiamo al marxismo critico. Le sue opere cominceranno a circolare in Italia solo dal 1956109. Più complessa e di conseguenza di altro segno, nella valutazione del PCI, è l’interpretazione dei vari tentativi di produzione letteraria. In più circostanze si rileva criticamente come sfuggono ai criteri del realismo, unica vera letteratura, autori come Moravia che ne “Gli indifferenti “ha dato vita ad espressioni di “inefficace decadentismo” o lo stesso Levi, accusato di provincialismo culturale

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E’ anzitutto, come si è accennato, nel cinema che tale linea troverà efficaci e coinvolgenti canali espressivi : si pensi soltanto a “Paisà” e “Roma città aperta” di Rossellini o al realismo di De Sica destinati a fare, per un certo periodo, scuola in Italia. , ma anche all’estero, aprendo una stagione particolarmente feconda nella produzione cinematografica nazionale.

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”Storia e Coscienza di classe”, una delle sue opere fondamentali, sarà pubblicata ( ed. Sugar) soltanto nel 1967

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e “metafisicherie”. Non è risparmiato lo stesso Pavese. Viene criticata “La luna e i Falò”, nella quale si individua un eccesso di psicologismo soggettivistico. In realtà a Pavese si rimprovera un rilievo più di fondo, quello cioè di aver ecceduto nella traduzione e nella diffusione della letteratura d’oltreoceano ed è- nei fatti- osteggiata, per la sua variopinta curiosità intellettuale portata a spaziare in più punti e direzioni, non escluse la sociologia e l’antropologia, fattori formativi questi che contribuirebbero ad allontanarlo dalla capacità di esprimere i sentimenti autentici del popolo nei suoi racconti. La stessa sorte ha, in sostanza, il suo diario “Il mestiere di vivere” che sarà da Einaudi pubblicato nel 1952. In questa opera, di sistematica recensione critica, di frequente stroncante e non indulgente, si cimenta, soprattutto Alicata. Interessante è, in questo contesto, il nuovo rilievo attribuito a ciò che, in questo campo, comincia a muoversi nel Mezzogiorno ed a Napoli. Eduardo De Filippo è fatto oggetto di particolare attenzione. Se ne apprezzano l’incisività dell’impianto realistico, rappresentativo della crisi e della miseria senza veli o abbellimenti, se ne contesta al contempo il messaggio che viene trasferito allo spettatore, di sostanziale rassegnazione a vivere in una condizione di immodificabile fissità. Il messaggio, da questo punto di vista, sembra apparire di rassegnata sfiducia verso la possibilità d’ ogni forma, anche limitata, di cambiamento, rischiando così di configurarsi come adiacente al mero conservatorismo reazionario110. Lo stesso Alvaro sarà tacciato di decadentismo da Salinari che, a proposito di Calvino, rileverà un’involuzione da “Il sentiero dei nidi di ragno” a “Il visconte dimezzato” che molti, per Salinari, non si appassioneranno a leggere in quanto non è scritto per essere compreso da operai e contadini, anzi non è scritto per

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Sulla predilezione dei modelli sovietici, quali riferimenti massimi della letteratura vedi l’articolo di E. Sereni” Andrea Zdanov, modello di combattente per il trionfo del comunismo”, prefazione al volume di scritti di Zdanov, pubblicati nel 1949 dalle Edizioni Rinascita, Roma

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loro111. Dalla primavera del 1949 è iniziata l’azione dei comitati per la raccolta delle firme per la pace e per l’interdizione delle armi nucleari. Si è già fatto cenno all’enorme emozione suscitata in Italia, in Europa ed in tutto il Mondo dall’autentica apocalisse prodotta dall’uso della bomba atomica. Dopo lo sbigottimento e l’orrore c’è la reazione: crescono e si moltiplicano, ovunque, i movimenti per preservare la Pace minacciata. Gli intellettuali progressivi spesso, appoggiandoli con decisione, ne interpretano intensamente il senso mettendosi alla loro testa. Il confronto culturale comincia a spostarsi su tematiche politiche generali di rilievo complessivo e mondiale. L’accentuarsi delle tensioni tra i blocchi contrapposti, che già si vanno a concretizzare in pericolose crisi locali, impongono questo nuovo piano d’iniziativa e di confronto ed, ancora una volta, gli intellettuali sono di fronte alla necessità di schierarsi. Ecco come, su ciò di cui ci stiamo occupando, la pensa Emilio Sereni : “i comunisti non chiedono agli artisti di mettersi a fare la lotta di classe alla maniera dei teorici e dei politici…” ma soltanto di produrre opere che “se sincere ed artistiche rappresentazioni della realtà di oggi, non possono non suonare condanna del decrepito mondo borghese che noi politici vogliamo cambiare; non possono non essere di esaltazione del mondo nuovo che vogliamo far sorgere dalle scorie, dalle rovine e dalle brutture di quello in cui viviamo”112. In relazione alla nettezza di impostazione da realismo si moltiplicheranno i richiami all’ordine, si potranno registrare la diffusione di anatemi pressoché in tutte le manifestazioni del pensiero, dalla pittura alla letteratura, alla cinematografia, alla stessa musica, ogni qualvolta si da la sensazione di volere sfuggire ai crismi dell’ufficialità. Una rilettura di tali posizioni evidenzia, di frequente, clamorosi infortuni interpretativi. Uno dei più rilevanti è il giudizio di Togliatti sulla psicanalisi di Freud “quando si parte da Freud, si può andare a finire molto lontano, in una casa Merlin o in un manicomio, ma non certo a Carlo Marx e

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osservazioni apparse su “L’Unità”, 6 agosto 1952

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In risposta di Longo a Moravia, in “L’Unità”, 22 dicembre 1948

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alla nostra dura lotta socialista”. 113

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Roderigo di Castiglia, ” I sei che sono falliti”, “Rinascita, a, VII, n. 5, Maggio 1950, pp. 240-243

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IL RAPPORTO CON L’ERMETISMO

D’altro canto nel periodo fascista, per una serie di motivazioni facilmente comprensibili ed in specie per il rifiuto alla pratica di una letteratura piattamente agiografica e di regime, si era sedimentata una tendenza che aveva geograficamente avuto la sua origine a Firenze. Essa intendeva rimarcare i propri tratti distintivi nel puro ed esclusivo ancoraggio alla formale espressione poetica. Il verso, di frequente, non risultava immediatamente, automaticamente e totalmente comprensibile da parte del lettore cosa che, come vedremo, darà luogo ad una dicotomia d’interpretazione e di giudizio sulla qualità di questo specifico filone poetico ed espressivo. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a grandi personalità quali Montale, Quasimodo, Ungaretti destinati a ricoprire un ruolo di primissimo piano nella storia culturale italiana e tenuti, all’estero, in particolare considerazione. Eppure, come efficacemente sintetizza Sergio Pautasso nell’elegante collana “Storia dei Movimenti e delle Idee” - Editrice bibliografica - esso pur manifestando un “affrancamento dalle altre forme nuove novecentesche, quali il crepuscolarismo, il futurismo, il lirismo espressionista vociano, il rondismo…testimoniato dalla forte carica partecipativa che sul piano critico ne ha accompagnato lo svolgersi. . ”, non venne interpretato per l’intrinseca carica critica che pur al suo interno conteneva ma, piuttosto, semplicisticamente liquidato e condannato114. Pur di fronte comunque a molteplici ed indiscutibili esempi di autentico lirismo di cui fu protagonista il Montale de :”“Ossi di seppia” di”Allegria di naufraghi”, ”Il porto sepolto”, e via via fino alle poesie del “Dolore” ispirate ai dolorosi eventi della morte del figlio e della seconda guerra mondiale, esempi sintetici della testimonianza del poeta, attraverso il dolore, della tragedia in cui a-

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ivi pag. 13 op. cit.

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spetti privati si fondono con quelli universali, ci si trincerò in un rapporto di rifiuto e d’incomprensione. Lo stesso accadde al Quasimodo di “E’ subito sera” e de “La vita non è sogno”(1949) e “Il falso vero verde”, indiscutibili espressioni di estrema intensità lirica che si aprono anche ad una forte disposizione civile maturata nel clima degli orrori della guerra e poi dell’epica della resistenza. Di ”Con il piede straniero sopra il cuore”(1946) e di “Giorno dopo giorno”(1947). La tendenza ermetica si esplicita, ancora, nella poetica particolarmente intensa di Alfonso Gatto. Sull’ermetismo peserà, a lungo, un vizio d’origine. Appare chiaro come esso si sia temporalmente collocato nel pieno del periodo fascista quando quel movimento autoritario aveva consolidato il suo potere tendendo a divenire imperiale e mentre esso stesso è, contemporaneamente, impegnato a preparare la guerra che lo porterà alla rovina. L’Ermetismo si trovò così al centro di una duplice contestazione, nel mezzo di una morsa antagonista del fascismo che gli rimproverava la non esplicita esaltazione, nella poesia, del regime e, al contempo, del movimento antifascista che stigmatizzava- a sua volta negativamente- una scarsa esplicitazione e comprensibilità della specificità particolare della sua opposizione e sembrava dover constatare un’assenza di sua presa di distanza da quanto, tutt’intorno, avveniva. La sottovalutazione della sua funzione di originale ed alta inventività poetica si potevano in realtà riscontrare in entrambe le tendenze. E’ così che si può tentare di spiegare il perché- anche quando si concluse la parentesi bellica- da parte delle forze intellettuali dell’” antifascismo militante” si sia continuato – ostinatamente- a stendere un velo di silenzio sulla peculiarità di questo tentativo115.

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Per un ulteriore e più puntuale approfondimento sul fenomeno ermetico è utile la consultazione di “Letteratura come vita” di Carlo Bo

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LA FUNZIONE DI GRAMSCI - LE “LETTERE” ED I “QUADERNI DEL CARCERE”

In quegli anni si registra il grande fatto di cultura, non immediatamente percepito nel suo immenso potenziale espansivo, determinato dall’apparire delle “Lettere dal carcere” (1946) e dei “Quaderni” (1948-1951) di Antonio Gramsci. Del capo del Partito Comunista Italiano, imprigionato dal Fascismo responsabile della sua morte, si conosceva, fin’allora, solo lo scritto sulla “Questione Meridionale” del 1926. Quest’opera aveva già aperto un’ampia prospettiva d’indagine soprattutto per la metodologia d’analisi sugli intellettuali italiani, meridionali, sulla peculiarità ed i retaggi storici e distintivi della loro formazione; sul loro rapporto con le classi dominanti, sulla funzione negativa da essi esercitata sulle masse subalterne. Gramsci, poi, aveva nitidamente fornito limpide indicazioni su quali avrebbero dovuto invece essere ruoli e funzioni dell’intellettuale nell’attualità storica presente sostenendo che: “Il modo d’essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, matrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, “persuasore permanentemente”- perché non puro oratore- e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico, dalla tecnica – lavoro alla tecnica – scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” (specialista + politico)116. Si può, già da queste prime, scarne ma essenziali sue frasi, comprendere la grande incidenza che queste tesi avranno nella concreta situazione sociale e culturale di cui ci stiamo occupando. Le “Lettere”, poi, mostrano- chiaramente e concretamente- l’espressione e l’esempio di un nuovo tipo d’ intellettuale impegnato, nella vita sociale e nella lotta politica, in maniera ben diversa dall’intellettuale tradizionale.

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Nel "Quaderno»12, $3, sistemato nel volume tematico "Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura", E. Riuniti.

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I “Quaderni” fanno sì che sorgano e s’individuino gli elementi d’analisi essenziali per battere ogni interpretazione meccanicistica e dogmatica del marxismo. Assume, in polemica col meccanicismo, importanza decisiva la funzione del soggetto rivoluzionario (Il Partito) nella lotta per la trasformazione della realtà. La nozione di “Egemonia” mostra la necessità di condurre una lotta permanente anche sul piano dell’ideologia, delle idee e della Cultura, della teoria politica perché alla funzione di direzione delle classi dominanti sia sostituita quella della classe operaia che, conquistando la propria autonomia ideologica col liberarsi progressivo dall’influenza delle altre classi, sia capace di divenire, da subalterna, una classe dirigente di tutta la società. . In Gramsci si vede chiaramente il ruolo decisivo che deve assumere la Cultura per la costruzione dell’egemonia e per la formazione di un Blocco Storico alternativo al blocco di potere che ha nelle mani le leve di comando nell’economia e nello Stato. Gramsci pone, di conseguenza, al Partito l’esigenza di una lotta culturale per battere l’egemonia determinatasi nel campo della cultura da parte delle classi borghesi dominanti, grazie ad un lungo e laborioso lavorio. E’ per spezzare questa nefasta incidenza che Gramsci si pone il problema di scrivere” L’anti- Croce”, di dare gli strumenti critici agli intellettuali ed al Partito intero per superare la concezione idealistica del mondo che aveva, appunto, nella figura di Benedetto Croce il suo rappresentante più eminente ed il punto più alto di sintesi e connessione che era riuscito a svolgere, con successo, la funzione di garante della separazione –opposizione tra intellettuali e popolo. Nei “Quaderni” Gramsci offre molti spunti ai Comunisti Italiani ed anche allo stesso movimento operaio europeo che, ancora oggi, mantengono una forte ed intatta attualità. Essi rappresentano un terreno d’indagine immensa che, accuratamente abbozzata, deve- ancora oggi- essere percorsa ed esplorata assai più a fondo. Nell’analisi che sviluppa sulla figura dell’intellettuale tradizionale e sulla forma che ha assunto l’egemonia culturale della borghesia italiana, egli indica i motivi per cui tale egemonia si è in gran parte fermata alle soglie degli strati più profondi del popolo (contadini ed operai).

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La borghesia italiana non è stata in grado di compiere ed anzi ha fallito quando si è trattato di attuare la grande riforma “intellettuale e morale” alla quale era chiamata. Ha rinunciato a svolgere, per spirito di casta e di ceto, la dovuta funzione progressiva educativa e connettiva, concorrendo a separare anziché unire. Tale “assenza” deve essere urgentemente colmata da un nuovo ed antagonista gruppo sociale progressivo rappresentativo della scelta intransigente di voler far prevalere, nella mortale acutezza dello scontro tra le classi, l’interesse generale oltre e contro ogni retrogrado, arretrato, conservatore e reazionario particolarismo. E’ soltanto il proletariato la classe destinata a compiere questa funzione ed è il Marxismo il solo sistema di idee, il solo metodo d’indagine e d’interpretazione della realtà economica e storica, capace di saldare in unità intellettuali e semplici. E’ solo questa la classe che può portare a fondo la riforma “intellettuale e morale” di cui la borghesia e’ stata incapace. Qui è espresso il nocciolo essenziale del concetto di nozione di Nazional- popolare, che non rappresenta in Gramsci, come invece sostiene Asor Rosa117 “un annacquamento del contenuto di classe della cultura e delle egemonie culturali, in un indistinto concetto di nazione e popolo in cui si smarriscono le contraddizioni di classe”. Al contrario il realizzarsi di una vera cultura nazional-popolare, portata in emersione attraverso la ricostruzione della propria genesi, può aiutare proprio l’affermarsi, su altre basi, dell’egemonia di classe del proletariato, sul terreno specifico della cultura, di una cultura non separata ma che serva d’ aiuto alla vita stessa. Ciò va detto perché una cosa è il “populismo” presente in una serie di manifestazioni del “neorealismo”, altro è il fatto di comprendere che la politica culturale del PCI va via via tentando di individuare il suo filo conduttore, anche nel campo della battaglia ideale e culturale, nella conquista sempre più limpida e dinamica della concezione dell’egemonia.

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in ”Scrittori e Popolo” editore Sugar

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Gramsci ha inoltre un metodo di lavoro culturale, un modo di porsi in contatto con le altre correnti di pensiero per cui in lui non troviamo mai una pura negazione o una contrapposizione astratta di una realtà ad un modello. Troviamo invece sempre un’analisi attenta e circostanziata di tutte le posizioni di pensiero che lo interessano, che egli scompone nella sua originaria genesi e nei loro interni elementi, mostrandone l’inconsistenza e le contraddizioni. Gramsci manifesta l’atteggiamento culturale dell’intellettuale che respinge la contrapposizione astratta e il fatto che si formuli un giudizio sulle altre correnti culturali misurandone la consistenza e la forza di persuasione in relazione all’affinità o alle diversità dal marxismo. Gramsci esamina anzi, in un’indagine ampissima, aspetti rilevanti ed altri- in apparenza- di assoluto dettaglio della produzione culturale partendo costantemente ed accuratamente dal contesto storico in cui essa si è originata ed ha potuto manifestarsi sviluppandosi dall’ iniziale stato embrionale alla forma poi compiutamente raggiunta e sistematizzata in modo compatto. Questa linea esprime, come si può ben comprendere, un modo ben diverso d’intendere il rapporto tra Partito ed Intellettuali rispetto a quello che invece spesso assume carattere autoritario e repressivo soprattutto nel Partito Comunista Sovietico con lo Zdanovismo. Quest’ impostazione risulterà rilevante nel tentativo del superamento di una concezione deleteria che, come abbiamo visto, aveva coinvolto anche il Partito Italiano e se ne tenterà una più convincente sistemazione in occasione dell’VIII Congresso del Partito Comunista Italiano. “Per ciò che si riferisce all’idealismo cosa otterremmo se ci limitassimo a dire che esso è l’ideologia della borghesia capitalista, che è strumento di oppressione della libertà etc. ???. Esse rimarrebbero frasi, non faremmo passi avanti né nella comprensione né nella critica, né nella conquista”. Sono alcuni dei concetti proposti da Palmiro Togliatti nel discorso di chiusura alla sessione del Comitato Centrale del PCI nel Settembre

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1956118. Le indicazioni che vengono dalle “Lettere” e dai “Quaderni”di Gramsci, di cui abbiamo indicato, assai sommariamente, soltanto pochissimi spunti, saranno decisivi per il prosieguo dell’attività del Partito anche nel campo dello sviluppo della sua politica culturale così come in quello politico ed economico. Si è già accennato a come il pensiero e le idee di Gramsci, prima del 1947 siano conosciute in maniera largamente parziale ed incompiuta. E’ nota la sua produzione pubblicistica, prevalentemente politica, prodotta in relazione agli avvenimenti dell’occupazione delle fabbriche, a Torino, nel 1919-20 e poi lo scritto sulla “Questione Meridionale” del 1926. Vari suoi articoli sono apparsi in “Sotto la Mole” e su “L’Avanti”, alcune note e recensioni su “L’Unità”. Questi materiali saranno solo assai più avanti raccolti negli “Scritti politici”, ma è assolutamente sconosciuta la produzione delle “Lettere “e, soprattutto de i “Quaderni”. La loro pubblicazione, prima divisa per argomenti tematici, poi attraverso l’edizione critica curata da Valentino Gerratana, ha aperto squarci di luce assolutamente impensabili nel pensiero italiano, europeo e mondiale119. La diffusione del suo pensiero e delle sue opere, hanno costituito e costituiscono sempre più una fonte inesauribile di spunti e riflessioni su cui si sono cimentati e si cimentano, ancora oggi, con straordinario ardore ed interesse, studiosi e militanti d’ ogni angolo del Pianeta. Ciò che immediatamente colpisce e coinvolge il lettore è proprio quel senso di avere tra le mani nuclei molteplici di un pensiero critico perennemente in moto, foriero di sviluppi impensabili ed, in ogni caso, acutamente anticipatorio di problematiche continuatamene inedite. Un

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L’VIII Congresso si terrà a Roma, dall’8 al 14 Dicembre 1956. Le conclusioni di Togliatti saranno pubblicate sull’ ”L’Unità” il 15 Dicembre 1956. 119

L’idea originaria di un progetto per dare vita ad una specifica fondazione in grado di raccogliere opere e materiale documentario su Antonio Gramsci è della fine di ottobre del 1948. Il progetto è approvato dalla segreteria del PCI ma potrà cominciare a vedere la luce soltanto nell’Aprile del 1950. Nel Marzo del 1954 poi la Fondazione assumerà l’attuale denominazione di Istituto Antonio Gramsci. La struttura sarà diretta da Donini, quindi, per poco tempo, da Alessandro Natta e quindi da Franco Ferri. G. Petronio su “L’Avanti” del 13 Maggio 1950, spiegherà quali siano intenti ed obiettivi della struttura (art. “Nasce la “Fondazione Gramsci”, collaborazione di operai e di intellettuali). Vedi anche : “Che cosa è la “Fondazione Gramsci”, in “Quaderno dell’attivista”, maggio 1950 A. Donini).

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pensiero sicuramente antidogmatico che mai sembra arenarsi o fermarsi alla superficie ed appare piuttosto sempre teso, come metodo di lavoro, all’individuazione delle più originarie ed antiche motivazioni in grado di fornire esaurienti spiegazioni alla peculiarità degli innumerevoli quesiti che è necessario fronteggiare. La funzione e l’opera teorica e critica del Gramsci ha profondamente permeato di sé tutta la storia del Novecento, che, ove prescinde dalla sua opera, non può che apparire limitatamente parziale ed anzi, in troppi punti, erronea. Nucleo centrale del suo pensiero, elemento d’indubbia, costante e rinnovata attualità, è senz’altro il concetto di egemonia. Egli riflette, in una condizione umana e personale durissima, sui motivi centrali che hanno causato la sconfitta del movimento operaio in Italia ed in larga parte d’Europa. La sua elaborazione però non si snoda su un terreno astratto e separato ma si combina costantemente con le dimensioni e le necessità pratiche del movimento che è stato, momentaneamente, sconfitto120. Perché l’esito dello scontro ha avuto esiti tanto diversi in Occidente rispetto a quanto è accaduto in Oriente con la rivoluzione bolscevica del 1917? E’ già individuabile, nei modi iniziali di dare risposta a questo quesito, una particolare originalità antidogmatica. Per lui non è né persuasiva nè appagante la lettura univoca dei caratteri e delle linee di tendenza del capitalismo proposte dai canoni ufficiali del marxismo-leninismo. Già nell’esame dell’esperienza della rivoluzione russa, d’altronde, ha avuto modo di sostenere che lì si è trattato della “rivoluzione contro il Capitale” di Carlo Marx. Infatti, in quella realtà che, geograficamente, comprende territori di due continenti, una parte europea ed

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Per la fortissima intensità di elementi e vicende essenziali del pensiero e della biografia di Gramsci va segnalato- tra l’immensa bibliografia esistente- il libro di Giuseppe Fiori : “Vita di Antonio Gramsci”, Editori Laterza 1974, e, su aspetti “eretici” del suo pensiero dei quali si fa cenno a proposito di nette diversità di opinioni con il comitato Centrale del Partito Comunista Bolscevico dell’Urss nella fase nella quale si sta sviluppando una mortale lotta politica interna, così come a proposito di diversità di accentuazioni nei toni dello stesso Partito Comunista Italiano, si veda il testo di Paolo Spriano : “Gramsci, il carcere e il Partito” ed. ” L’Unità”, 1988. E’ utile altresì la consultazione del libro, altrettanto bello, di Aurelio Lepre : “Il prigioniero- Vita di Antonio Gramsci” ed. Laterza- Marzo 2000.

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un’altra asiatica, la rottura si è determinata prima che venissero a maturazione ed a compimento tutte le fasi di sviluppo delle formazioni economico-sociali previste da Marx. Non c’è stato il passaggio, infatti, dal feudalesimo al Capitalismo e, poi, al Socialismo, quanto piuttosto il fatto che l’azione dei bolscevichi ha prodotto forzature e rotture anticipate sulle fasi di maturazione dei rapporti di produzione conosciuti nell’occidente capitalistico. C’è evidentemente un motivo specifico che può spiegare il perché i processi si sono materializzati con profonde difformità. Quelli essenziali sono individuabili nella sostanziale differenza dell’organizzazione e della funzione dello Stato in Oriente ed in Occidente. La’, in Oriente, lo Stato è tutto, esercita funzioni e poteri sulla base dell’esercizio, pressoché assoluto, del “dominio” e della forza. Qui, in Occidente, invece tra Stato e Società civile si estende una composita struttura di “fortezze e casematte” che debbono essere progressivamente conquistate non tanto e non solo con la “guerra di movimento” quanto attraverso la “guerra di posizione “da sviluppare, contemporaneamente, su più fronti e piani, uno dei quali, ed essenziale, non può che essere quello della lotta sul terreno teorico e culturale, per determinare una “ricollocazione sociale” dei ceti intellettuali, indispensabile alla formazione di un “blocco storico “alternativo” e, così, vincente. Molteplici, si diceva, gli aspetti indagati, in forma e stile letterario spesso criptico per l’ovvia ragione di aggirare le maglie della censura dei suoi carcerieri ma, in ogni caso, di frequente sinteticamente riassuntivi di intuizioni acute da approfondire sempre più compiutamente. Si può credo sostenere che più che trattazioni organiche ci troviamo di fronte a linee di lavoro che tendono a cogliere il ritmo di un pensiero in sviluppo, nelle consistentissima quantità di note di frequente intricate e trasversali. Si consideri che il Gramsci scrive, di frequente, in maniera contemporanea su più quaderni. Le note sono spesso riconsiderate e rielaborate in un continuo processo che, perciò, propone costantemente nuove formulazioni. Il suo pensiero procede pervenendo a sistemazioni sempre più coincise ed acute. Eppure il lettore attento non può non riscontrare come da una pluralità di linee e di indagini, che rinviano di frequente a nuove verifiche ed ad ulteriori approfondimenti, si pervenPagina 126


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ga a sintesi di sostanziale unità ricomposta nell’ispirazione del nucleo essenziale del suo pensiero. C’è, in pratica, una coerenza sostanziale rispetto al complessivo ed originario programma di ricerca che si è proposto di perseguire. E’, si ricordi, nel Primo Quaderno che Gramsci indica quattro temi fondamentali su cui ha intenzione di lavorare: Gli Intellettuali, la linguistica comparata, , il Teatro di Pirandello, la Letteratura popolare ed i romanzi d’appendice. Tutto è però rivolto all’esigenza di fare luce sullo “spirito popolare creativo”. Il piano di lavoro teorico che si è proposto è, in ogni caso, interno alle esigenze dello scontro politico, parte essenziale della lotta per l’egemonia. E’ un problema, come molti osservatori hanno col tempo confermato, che non si è posto, per Gramsci, per nulla nell’Unione Sovietica. Lì vi è anzi una situazione dominata “da una forma di regolazione militare”, da una “manomissione dell’economia”. Da ciò è derivata una forma, gravida di conseguenze negative, di autentica” statolatria”, in cui lo Stato si va trasformando in un “governo dei funzionari” burocratico e progressivamente sempre più oppressivo. Così rischia di prodursi in Urss, cosa che è poi realmente accaduta, una situazione d’istituzionalizzazione e sclerotizzazione del marxismo. E’ senza vie d’uscita, per Gramsci, la strada intrapresa dal Paese del Socialismo con la svolta del 1930. La filosofia della prassi è da lui considerata in un contesto di polemica verso l’Internazionale Comunista. Essa invece dovrebbe fornire risposte valide, all’Est come all’Ovest a fronte di processi che, in ambo i campi, stanno dando luogo ad un esaurimento della “rivoluzione attiva”. E’ anzi già in atto una “rivoluzione passiva” in quanto i mutamenti si stanno realizzando in un quadro di sostanziale “passivizzazione” e “subalternità” delle masse popolari. L’improponibilità della lotta armata in Occidente obbliga ad attrezzarsi per la “guerra di posizione”. Non può allora che essere questo il terreno sul quale deve misurarsi il movimento operaio dei paesi industrialmente più progrediti, quello della lotta per l’egemonia. I terreni più avanzati di riferimento divengono allora, quasi naturalmente, non tanto e soprattutto quelli di società arretrate come l’Urss o, altra faccia della medaglia, i regimi dittatoriali come l’Italia, quanto piuttosto il capitalismo americano con

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tutto ciò che di moderno e dinamico appare insito in esso. La crisi del ’29, per Gramsci, non è prodromo della catastrofe quanto piuttosto il sintomo dei passaggi fisiologicamente necessari di una nuova fase di sviluppo del capitalismo. Tutt’altro che prossimo è il crollo di sistema. L’egemonia prende corpo così all’interno del sistema fordista, dimostrando capacità di una dinamica razionalizzazione di tipo tayloristico. E’ un sistema che non si regge solo su elementi di autoritarismo ma che è stato capace di produrre modernizzazioni e consenso sociale diffuso. E’ ormai aperta una fase storica ed economica nuova, nella quale e’ indispensabile trascendere le anguste dimensioni nazionali per individuare, a tempo, tutti gli elementi d’interconnessione mondiale dei processi. La fase degli Stati Nazionali è superata. Problema questo foriero d’immense conseguenze politiche e teoriche a partire da quelle, decisive, di un lavoro accorto e paziente per rielaborare la costituzione di nuovi soggetti politici, un nuovo ceto intellettuale che non prescinda ed anzi comprenda a tempo caratteri, dimensioni e tendenze in atto a livello nazionale e mondiale. Capacità di proporre autonome e critiche visioni del mondo e dei processi in esso in atto, capacità di contrasto, sul terreno delle idee, alle ideologie dominanti che detengono il potere egemonico. E’ del tutto evidente la non casualità ed occasionalità dei rapporti negativi di forza e delle ragioni attraverso cui essi si sono determinati. E’ necessario scavare nelle origini e nella storia delle specificità nazionali, analizzare con accurata precisione la peculiarità dei modi in cui si è realizzata, in Italia, l’unificazione, il suo carattere non progressivo ma di mera “rivoluzione passiva”, capire il perché, già da allora, l’egemonia è stata prodotta dai moderati piuttosto che dai democratici. Indagare sulla memoria di sé, poiché anche attraverso l’annullamento e la cancellazione della memoria storica individuale e collettiva si realizza un’operazione politico –ideologica che consente ai poteri forti di mantenere il proprio primato ed il proprio dominio. Ecco che ritorna, nei “Quaderni” il problema della centralità della riflessione sugli intellettuali e sulla decisività della loro funzione politica e sociale. Gramsci s’ interroga di frequente sui motivi del distacco degl’ intellettuali italiani dalle masse popolari, su cause e conseguenze di ciò. In Italia si è dato luogo ad un carattere di “caPagina 128


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sta” di questi intellettuali, ignari delle esigenze e delle aspirazioni del popolo, e si è reso così “l’elemento intellettuale indigeno, più straniero degli stranieri” di fronte al “popolo nazione” disgregandolo in “combriccole “e “sette”. In Italia non è esistito né esiste “un blocco nazionale intellettuale e morale”. Esso va creato. E’ evidente che, fatte salve tutte le analogie e differenze tra le diverse situazioni storiche, costante è l’attualità e la consistenza di tali assiomi. Nel carattere di “separatezza” degli intellettuali, dal periodo fascista ad oggi, si possono riscontrare, in effetti, non poche identità e similitudini, oltre evidenti fattori di continuità. La “sterilità” della loro funzione è anche dovuta, per Gramsci, al fatto che in Italia non si è avuta la riforma protestante e risale al periodo tra il Quattro ed il Cinquecento l’origine della mancata saldatura tra grandi intellettuali e movimento riformatore. Lo stesso marxismo del suo tempo gli sembra soffrire d’assenza di rapporto organico. Non c’è stato uno strato di intellettuali rigorosamente selezionato dalle masse popolari. . E’ l’origine non popolare degli intellettuali che determina il fatto che, di frequente, intellettuali che pure “soggettivamente” si erano schierati in difesa degli interessi delle masse, “ritornino” alle classi tradizionali, delle quali, in realtà, sono espressione. Addirittura è accaduto ed accade- ancora di frequente- che temporanee loro rotture con la propria classe borghese di provenienza si mutino di nuovo identificandosi nella piatta accettazione di una coscienza conservatrice armonica rispetto a valori ed interessi dominanti, che pure si dichiarava di volere contrastare. Così all’esercizio responsabile della coscienza critica si sostituisce un “ritorno mansueto” all’ovile da cui si è usciti. Il 14 Maggio 1918121 parlando dell’opera di Karl Marx Gramsci diceva :” Marx è stato grande e la sua azione è stata feconda non perché ha inventato a partire dal nulla, non perché ha dato vita, con la sua fantasia, a una visione originale della storia, ma perché con lui il frammentario, il non realizzato, il non maturo

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Antologia. Scelta, traduzione e note di Manuel Sacristan, Siglo. XX, edit. Messico, 1970

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è diventato maturità, sistema, coscienza. La sua coscienza personale può diventare quella di tutti, ed è già quella di molti: per questo Marx non è soltanto uno scienziato, ma è anche un uomo d’azione; è grande e fecondo nell’azione come lo è nel pensiero, e i suoi libri hanno trasformato il mondo così come hanno trasformato il pensiero”. Integralmente sottoscrivibile per Antonio Gramsci, per come la sua figura e la sua opera hanno gigantescamente concorso allo sviluppo del pensiero umano in Italia, in Europa ed in tutto il Mondo.

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LA CASA EDITRICE “EINAUDI” - “LA COLLANA VIOLA”

La casa editrice “Einaudi”, che nell’immediato dopoguerra avvierà anche la pubblicazione delle “Lettere” di Gramsci, era nata nel Novembre 1933 diventando ben presto un punto di particolare prestigio per la produzione e la diffusione della cultura in Italia. Giulio Einaudi difenderà, durante tutto il fascismo, l’originaria ispirazione liberale e democratica di questa esperienza destinata a concorrere, ancora oggi, in maniera particolarmente significativa ed efficace alla storia culturale di tutto il paese.Si può dire che i direttori della casa editrice seguiranno, abbastanza fedelmente, i complessi e tortuosi percorsi che porteranno vari gruppi e segmenti dell’intellettualità liberale ad un approdo organicamente marxista o ad esso sempre più vicino. Curiosità e promozione costante di politica e cultura, centro di intenso sodalizio e collaborazione culturale e democratica delle espressioni tra le più acute ed illuminate dell’intelligenza italiana. L’” Einaudi” pubblicherà, tra la sua sterminata produzione, dal 1948 al 1951, a cura di Felice Platone, sotto la supervisione di Togliatti,anche i “Quaderni del Carcere “di Antonio Gramsci, in sei volumi divisi per argomenti tematici. La stessa casa proporrà più avanti, al grande pubblico, le edizioni critiche dei “Quaderni”, che, curate da Valentino Gerratana, vedranno la luce nel 1975. La prima edizione delle “Lettere dal carcere”, sempre a cura di Felice Platone, sarà messa in circuito dalla casa editrice sempre nel 1947. La casa editrice “Einaudi” diventava così, per il PCI, ciò che la casa editrice “Laterza”, con i suoi colori rosso mattone, è stata per Benedetto Croce e per la diffusione delle sue opere. Fittissima la schiera dei redattori e dei collaboratori, di ogni tendenza, liberale, democratica, marxista, di militanti direttamente impegnati nelle formazioni politiche della sinistra e di indipendenti che garantivano una costante tensione ed un vivo confronto, tra più tendenze, concentrando l’attenzione su assiomi ed impostazioni di assoluto rilievo quali il ruolo degli intellettuali, la libertà di espressione e la sua salvaguardia, sui rapporti tra Pagina 131


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cultura e partito, sull’apertura di attenzione alle produzioni straniere, da Sartre ad Eliot, ai poeti ed agli uomini di letteratura russi, in spece non allineati, sconfinando fino alle tematiche di sociologia, linguistica ed antropologia, settori di ricerca guardati, in genere, con sospetto e quasi con ostilità dal PCI. Possono essere prefigurati, nel lavoro dell’ Einaudi, molteplici punti e tematiche destinati a concorrere alla determinazione di confronti e tensioni quali si registreranno con la vicenda “Politecnico” e con la stessa esperienza di “Società”. Pur nell’indubbia attenzione e convergenza che si registrerà tra l’Einaudi ed il PCI, pressoché mai la casa editrice potrà essere confusa con la subalternità o il passivo fiancheggiamento acritico al Partito. Collaborazione, convergenza e distinzione, cosa che, probabilmente, non sarà estranea alla futura scelta del gruppo dirigente del Pci di fare convergere, nel 1953, le varie pubblicazioni editoriali più ortodosse ed organiche, nella casa editrice specifica de gli “Editori Riuniti” Tra le tante adesioni, assolutamente chiare e non formali nelle proprie motivazioni, è il caso di ricordare quella di Luigi Russo, grande intellettuale ed animatore della rivista “Belfagor”, nata nel 1946 a Firenze122. La sua provenienza è quella del Partito D’azione, ma assoluta è in lui l’assenza di conformismo o di piatta acquiescenza. Russo piuttosto non risparmia rilievi polemici a personag-

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“Belfagor”, rasssegna di varia umanità, fu fondata da Luigi Russo e fu diretta da Carlo Ferdinando Russo iniziando le sue pubblicazioni nel 1946, Fino al 1948 venne pubblicata da Vallecchi e successivamente, dal 1949 al 1961 da D’Anna. Essa si rivolgeva “a tutti gli studiosi di buona volontà” chiedendo loro “serietà di lavoro e spregiudicatezza di orientamento critico”. Propugnatrice, in letteratura, di un intenso lavorio critico, la rivista affronterà, nel suo excursus, tra l’altro, anche il tema della Democrazia e dello sviluppo delle sue forme storiche, i modi per salvaguardare appieno le libertà individuali di ognuno arrivando ad anticipare anche una riflessione approfondita ed anticipatoria su come vadano trasformandosi “l’affermazione dei diritti individuali” e lo stesso concetto di democrazia in relazione allo sviluppo delle nuove forme di comunicazione di massa. ”Belfagor” intende anche mettere in guardia circa il concreto rischio di crisi del concetto di “unità del popolo sovrano” a fronte di possibili sbocchi plebiscitari che possono rendere del tutto ininfluente la funzione degli individui. La rivista è giunta al cinquantacinquesimo anno di vita, diventando, col tempo, un importante punto di riferimento nel panorama italiano ed internazionale. Le materie prevalentemente trattate sono la Storia, la Filosofia, il Novecento letterario.

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gi del valore di Banfi o Sapegno, che gli sembrano troppo inclini a rappresentare la parte di “servitori” e “conformisti”. Sceglie, nettamente, quel campo di battaglia non tagliando le radici del suo crocianesimo mosso- come è- dalla convinzione che il governo DC avvicina l’Italia al regno delle tenebre ed ad esso il PCI è l’unico, possibile e necessario antidoto. “Siamo anticlericali perché siamo anticonformisti, perché siamo antitotalitari, perché siamo per l’antidomma e per l’antidittatura”123. In realtà il PCI, col procedere del tempo, tenderà a caratterizzarsi quale Giano Bifronte, entità organizzata cioè nella quale convivono, insieme, linee proprie della cultura liberale e democratica e fattori di stretta osservanza allo stalinismo. L’apparente equilibrio di queste posizioni, riscontrabili in pressoché tutti i dirigenti di primo piano del partito, non potrà però tenersi insieme per sempre. Da quel filone, infatti, mantenuto coeso dall’acume politico e dalle indubbie qualità politiche e culturali di Togliatti, ma soprattutto dal suo scaltro tatticismo, andranno a definirsi maggiori sottolineature in un senso o nell’altro, in genere in relazione all’accentuazione delle asprezze della lotta politica immediata che, alla fine, renderanno, in molti casi, impossibile il prosieguo di questa coabitazione. Per la prima fase, però, indubbiamente la presenza di tante nuove adesioni, con ciò che essi portano nel dibattito e nel confronto interno, favorirà il dispiegarsi di un ricco pluralismo interno che segnerà le scelte della politica del Partito nel senso di molteplici tentativi- di frequente naufragati- di forte apertura alla società. Solo in tal senso, ad esempio, può spiegarsi l’adesione diretta di importanti gruppi cattolici del tipo di quelli di Franco Rodano, Luca Pavolini, Luciano Barca, Antonio Tatò. Era poi, come si è accennato, giunto Gramsci a confortare circa la bontà della scelta che i gruppi intellettuali, di formazione crociana più avvertita, avevano

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Luigi Russo, in “De Vera Religione”, “Prognosi infausta sulla scuola statale”, p. 173, citazione raccolta dal libro di Nello Ajello :” Intellettuali e Pci”. , ed. Laterza, pag. 173.

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deciso. . In Gramsci essi ritrovano le orme di un’intellettuale italiano di raffinatezza particolare, del tutto interno alla storia della cultura nazionale e dello stesso insegnamento di Benedetto Croce che ha però dimostrato di sapere assimilare e superare, uno splendido esempio di pensiero antidogmatico, in costante evoluzione, da prendere come riferimento imprescindibile, sintomo massimo della creatività e dell’autonomia critica. Dati i diffusi ed a volte interessati apprezzamenti che da più parti si stanno moltiplicando, si tratterà piuttosto di salvaguardarne il pensiero e l’opera da una subdola operazione, già avviata, da parte della cultura tradizionale di “assimilarlo”, ibernandone il pensiero per pervenire alla sua sostanziale liquidazione teorica e culturale. La problematicità e la distensione mondiale degli orizzonti di Gramsci dovrebbero costituire il più potente antidoto contro le stesse degenerazioni, quali quelle del realismo socialista, che, in campo artistico e culturale, già vanno prefigurandosi nel movimento comunista mondiale e nel nostro stesso paese. Vedremo, però, che non sarà subito così. Di notevole interesse circa i complessi, contraddittori e non sempre lineari tentativi di produrre un’accelerata sprovincializzazione della cultura italiana, mettendola in relazione con aspetti sottovalutati e fino ad allora del tutto marginali nella formazione dei gruppi intellettuali nazionali e del comune senso di massa popolare, è il tentativo di dare vita, nella collana Einaudi, ad una specifica sezione, ”Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici”cui si dedicheranno, in sostanziale confronto e collaborazione, il professore napoletano Ernesto De Martino ed il torinese Cesare Pavese. Traccia ricca, stimolante e fedele di tali tentativi- destinati ad abortire anche a causa della prematura e tragica morte di Cesare Pavese- è rintracciabile nella raccolta del carteggio e delle lettere che i due si scambiano nel periodo 19451950. Il testo, suffragato da una ricca e circostanziata introduzione, è curato da Pietro Angelici. Pagina 134


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In esso ci si sofferma diffusamente sull’assioma della parzialità della tradizione umanistica e storicistica nel comprendere la complessità dell’animo e della storia umana nella sua variegata espressione. La cultura europea, che sembra centralmente trionfante nello scenario culturale del mondo contemporaneo, ha indispensabile bisogno di un rapporto conoscitivo e comprensivo di altre storie e tendenze religiose e culturali antiche e primitive i cui segni distintivi non possono restare indistintamente lontani, sottovalutati ed imprecisi. In verità Pavese aveva esplicitato una netta e stroncante valutazione sulla qualità prevalente della cultura americana che, con vari pamplets e pubblicazioni , aveva invaso l’Italia. Ecco infatti come si esprime sulla qualità di “ Selezione del Reagers Digest”124 ,esplicativo esempio negativo di come non vada fatta la diffusione della cultura.Essa è, a giudizio dello scrittore, tutta intrisa di faziosità e di spirito di parte e ripropone, costantemente, la presunta superiorità- netta- del modello americano rispetto a quello delle realtà socialiste.La sua vera colpa, però, non è tanto “ difendere un capitalismo volgare quanto di arrivarci avvilendo, nel modo più volgare, il concetto di cultura”. Per Pavese , invece, “la cultura non è quella cosa facile, di tutto riposo, condensabile tra una barzelletta ed una reclame….ma farsi una cultura è cosa altrettanto seria ed impegnativa che imparare un mestiere, una qualsiasi tecnica; una tecnica non s’impara sfogliando manuali e meno ancora racimolando notizie “ condensate” sull’argomento. S’impara creandola, inventandola un’altra volta, cioè producendo un lavoro in quel campo determinato. C’è quindi un solo mezzo per popolarizzare la cultura : mettere in grado il popolo, tutto il popolo, di produrre questa cultura, di crearsela per suo conto” e prima ancora aveva precisato come “ Una cultura che non costi fatica, che non sia, vale a dire, lavoro vivo, non significa nulla”. Quindi aveva chiaramente esposto la sua idea di quale avrebbe dovuto essere la nuova cultura: “ la nuova cultura democratica non dovrà nutrirsi di “ cognizioni” umanistiche ( e nemmeno scientifiche) di tipo volgarizzativi. Dovrà allora l’attuale fervore culturale acceso nelle masse ita-

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Cesare Pavese, “ Rinascita” mensile,anno 1952, art:”Cultura americana e cultura democratica”.

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liane limitarsi alla perfetta acquisizione del singolo mestiere, della singola tecnica, e abbandonare la cosiddetta alta cultura ai vari specialisti accreditati? Questa è in fondo la prospettiva americana. Inutile dire che un solo aggettivo conviene a questa prospettiva: reazionaria”. Questa linea intende creare delle “ caste”. Ed invece “ l’uomo nuovo sarà rimesso in grado di vivere la propria cultura e cioè di crederci e di produrla anche per gli altri non in astratto ma in uno scambio quotidiano e fecondo di vita”, nella nuova società che si sta lavorando, con sforzo ed entusiasmo , a costruire.La posizione, come si è visto liquidazionista, sulla cultura americana, la sua qualità ed i rischi di “ reazionarismo” insiti in essa, subisce poi un’evoluzione ed anzi una parziale correzione.C’è maggiore disponibilità all’approfondimento specifico, all’interna distinzione e valutazione critica, metodo questo che è l’unico corretto per evitare parzialità e dogmatismi. Ecco allora apparire il disegno di un progetto tematico definito e dell’obiettivo della creazione di una collana specifica nella quale raccogliere, con traduzioni e prefazioni ordinate e suffragate da introduzioni di adeguata competenza, la pluralità di questi ulteriori contributi alla conoscenza più compiuta dei percorsi della conoscenza umana. Interessante il percorso di convergenza e di progressivo parziale distacco tra Pavese e De Martino ed il conclusivo verificarsi, ai principi degli anni 60, dell’interruzione del tentativo ambizioso con l’ interruzione di una lunga collaborazione di De Martino con l’Einaudi e con l’opzione di dirottare il proprio impegno di saggista e di critico verso un’altra casa editrice, la Boringhieri. Ad ogni buon conto il tentativo, lodevole, è quello di proporre l’apertura della cultura nazionale ad altre tendenze d’indagine e di ricerca che possano aiutare una riconsiderazione di scienze ritenute, fino ad allora, pericolose e devianti come la psicologia e la psicanalisi. Riappare in ogni caso- in De Martino come in Pavese- nella “Collana Viola”, la frequente preoccupazione di non entrare in frontale rotta di collisione con le tendenze prevalenti nella cultura ufficiale marxista nazionale. Si cerca di non Pagina 136


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dare facile alito alla suggestione di campagne liquidatorie di questi tentativi sulla base dell’assioma- discutibilissimo- che tali ricerche ed assemblaggi di materiali possano essere utilizzati dalle forze della conservazione e della reazione più inclini ad una aggiornata riedizione della teoria crociana dell’assoluta indipendenza, estraneità e totale neutralità della cultura e dell’arte, rispetto al pericolo di contaminazione della vita pratica. . In ogni caso il catalogo delle opere raccolte e recensite mette in lucida evidenza la ricchezza di un panorama culturale europeo e mondiale e di autori di valore fino ad allora sconosciuti ed anzi ignorati dagli scrittori e dagli editori nazionali. La stessa attenzione, speculare all’intuizione di Gramsci, di un’accurata indagine del “folclore” e delle “tradizioni religiose” nei popoli primitivi squarcia un campo d’indagine immenso e, fino ad allora, sacrificato all’unica ed esclusiva linea della riscoperta del filo conduttore nazionale e popolare imperniata sull’asse De Sanctis –Croce. Il catalogo si arricchisce di titoli destinati a durare ben oltre la tormentata vicenda de “La collana Viola”. Dal testo di riferimento principale di Ernesto De Martino”Il Mondo MagicoProlegomeni ad una storia del magismo”, via via ad autori come Carl Gustav Jung”L’io e l’inconscio”, a Karl Kerenyi”Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia”, con la bella traduzione di Angelo Brelich, a”L’anima primitiva”presso L’Università di Francia, Parigi 1927, alle “Figlie del Sole “dello stesso Kerenyi, al “rito religioso, studi psicanalitici”, con prefazione di Sigmund Freud” al testo”Le origini dei poteri magici” di Emile Durkheim, ad Henri Hubert e Marcel Mauss, via via solo per citare scritti ed autori che ritornano di continuo nel carteggio Pavese-De Martino, a Raffaele Pettazzoni”L’onniscienza di Dio”, al rumeno Mircea Eliade125, traduzione di Virginia Vacca. agli scritti di Bela Bartok”Scritti sulla musica popolare”, Budapest

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“Trattato di Storia delle Religioni” Parigi 1948

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1948, o ancora a “Il sacro ed il profano” dello stesso Mircea Eliade126, allo studio sugli aborigeni australiani di Adolphus Peter Elkin127. Oltre a Cassirer e Durkheim,frequentemente citati, a Leo Frobenius, Henri Hubert, Lucine LevyBruhl, Bronislaw Malinowski, Marcel Mauss, Paul Radin, più volte viene avanzata alla casa editrice la proposta di raccogliere il maggior numero possibile di espressioni qualificate del folklore russo. In tale insistenza si trova la riconferma della preoccupazione, cui prima si è fatto cenno, di evitare accentuazioni modernizzatici troppo forti e radicali che potrebbero produrre reazioni di rigetto o incomprensioni non recuperabili. Anche in tal senso va letta la ripetuta sollecitazione di De Martino a far precedere le singole opere da introduzioni esplicative e di orientamento che aiutino il lettore all’esercizio di una propria, indispensabile funzione critica piuttosto che a quella di passivo fruitore del prodotto, preoccupazione spesso ossessiva che mal si concilia col pensiero di Pavese più incline a ritenere che il lettore è di per sé in grado, di fronte al mero testo, di costruire una propria libera e critica valutazione. Anche in questo caso si riannodano fili e collegamenti con autori di riferimento imprescindibili come Ranuccio Bianchi Bandinelli, Sereni, Fortini, Carlo Muscetta etc e riviste quali “Officina”, ”Società”, ”Belfagor”128. Oltre al citato lavoro di Pietro Angelici si consideri, ove si volesse pervenire ad ulteriori approfondimenti, il catalogo riprodotto da Cinese. :” Cultura egemonica e culture subalterne”129.

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traduzione di Eduardo Ladini, Parigi1965

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Sydney-London 1938

128

riviste, come si è già visto nella parte pregressa di questa trattazione, più o meno diffusamente ricordate 129

Palermo 1973

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IL 18 APRILE 1948 – EMILIO SERENI NELLA BATTAGLIA CULTURALE

Il 1948 è l’anno del Fronte Popolare e della sua grande sconfitta a vantaggio della DC:è anche l’avvio di una discussione che si concluderà con la rottura e la divisione tra comunisti e socialisti. Nel settembre 1947 è nato il Cominform, l’ufficio d’informazione internazionale dei Partiti Comunisti. E’ in qualche modo la contrapposizione alla “Dottrina Trumann” propugnata dagli USA. E’ anche il periodo del VI Congresso del PCI (6 gennaio 1948), nel quale riappare, tra le varie cose, il tema che sta appassionando militanti ed intellettuali gravitanti nell’area di sinistra. Alle ripetute posizioni echeggianti il fatto che la produzione artistica e culturale non può manifestarsi in posizioni criptiche, sostanzialmente incomprensibili, nel loro significato, alle grandi masse, elemento di valutazione tranciante e riflesso evidente della linea del realismo socialista, alcuni degli intellettuali più aperti ed accorti obiettano invece che, sul piano dell’arte, ciascuno deve e può esprimersi come vuole. Dovrà essere assolutamente rispettata la libertà espressiva e stilistica dell’autore in quanto l’elemento davvero dirimente è il suo coerente comportamento personale nel mondo, il suo essere cioè fedele alla scelta di militare nel Partito Comunista rispettandone ispirazione ideale e morale, aderendo al programma che non sancisce rigide regole sulle modalità delle forme espressive. Il Partito, dice Banfi, deve anzi garantire appieno quanto non garantisce il potere borghese. In realtà, nei fatti, le risposte di Togliatti a queste posizioni sono, in genere, soprattutto rispetto a tendenze espressive quali l’astrattismo, il cubismo etc, brusche e stroncanti. E’ però troppo importante, per il periodo, evitare definitivi distacchi, così che i toni tenderanno piuttosto a sfumarsi al punto che si può osservare come, , ancora per una fase, ci si troverà a fare convivere, nella stessa casa, una pluralità di posizioni senza alcun anatema o scomunica. Non a caso, in fondo, il distacco da Vittorini, ad esempio, avverrà solo, come si è visto, nel 1951. Eppure dimostrerà col tempo di avere incidenza decisiva, circa i contenuti dei temi che si stanno affrontando, l’espressione usata

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da Togliatti dalla tribuna del VI Congresso di messa in guardia per evitare “L’influenza di forme degenerate della cultura borghese”. E il complesso delle forme cui Togliatti si riferisce, nell’arte e nella letteratura è, dati i precedenti, già sufficientemente chiaro: l’astrattismo in pittura, l’ermetismo ed il simbolismo in letteratura etc. Particolarmente illuminante , circa l’irrisolto problema dell’”io” ed il raccordo coi caratteri che debbono essere assunti dall’arte e dalla letteratura è il confronto proposto da Italo Calvino.130 Dialogando nella nota con Emilio Sereni, Calvino conviene col fatto che “ i linguaggi letterari sono personali come fazzoletti da naso; e … il problema è come sistemare quell’ingombrantissimo personaggio che per uno scrittore moderno e l’” io”… se autobiograficamente, o simbolicamente, o trasfigurandolo in senso eroico, o riuscendo a far finta che non ci sia”. Si deve sempre tener presente che “ tra l’io che scrive e la realtà che deve essere oggetto dei suoi scritti( realtà concreta, quindi storica e in divenire) c’è l’io che vive e vede e ritrasforma e migliora a contatto con la storia e gli uomini, e i conti son sempre da fare con quest’ultimo, perché se ci limita a disciplinare l’”io che scrive” tutto rimane su un piano volontaristico, velleitario, e o non si riesce più a scrivere o si fanno aborti”. “…. ho cercato di aprire una via per scavare dentro questo famoso “ io”, protagonista della letteratura moderna, senza pretendere d’eluderlo girandogli intorno o d’abolirlo volontaristicamente, e arrivare a quel realismo “ totale”, a quella capacità omerica di far nascere la poesia quasi direttamente dalla natura e dalla storia, “ come se l’autore non ci fosse”. “ la storia della letteratura e dell’arte non si svolge su una linea esattamente e regolarmente parallela alla storia della società, da cui viene determinata. Gli intellettuali, questo ceto combattuto e contraddittorio, hanno funzioni e agganci spesso diversi nel quadro delle diverse civiltà, ed è attraverso le vicissitudini della loro storia interna e della funzione sociale che la storia dell’intiera società umana raggiunge le loro opere, tranne che in alcuni momenti pieni, per condizione di civiltà o di genio individuale , in cui il poeta è cantore “ diretto” di tutta una società e un’epoca.Oggi siamo all’estremo opposto”.Lo scrittore poi procede chiedendo-

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Italo Calvino,:”Saremo come Omero”, in “ Rinascita” mensile, anno 1948.

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si”….. Quali sono i nostri compiti di letterati comunisti? Aspettare?… No di certo: le rivoluzioni, anche quelle culturali, non cadono dal cielo. E nemmeno scegliere la via di non scrivere per ora, perché “ adesso non si può”, e buttarsi nel lavoro pratico di partito come in un’evasione… Militare nel partito è il nostro modo di esistere; ma ilposto di combattimento dei letterati, il loro banco di prova è sulla carta bianca” nettissima è la sua risposta al rapporto che deve intercorrere tra Partito e letteratura. “…E il compito del partito verso la letteratura? Non certo progettare riforme letterarie, che non si possono improvvisare da un giorno all’altro, come non si può improvvisare una riforma agraria in un paese di piccoli proprietari. Né pretendere che ogni voce e ogni richiamo che si levano da questa fucina ancora in ebollizione siano formulati in un ineccepibile “ stile di partito”; equivarrebbe a soffocare quel che di buono matura e a pudicamente nascondere quel che di cattivo resta. Ma aiutarci … a passare dallo spontaneismo all’autocoscienza critica e da questa a una spontaneità nuova … E il momento classico della “coscienza” di fronte all’opera d’arte è quello della critica, non quello della “ direttiva” sull’ispirazione . Ma va sempre tenutopresente che finchè uno stabile legame tra masse e “ produttori di cultura” non si organizza , finchè i libri non saranno discussi nelle fabbriche e nelle fattorie, non si può ancora dire di avere una “ direzione culturale”. Pur nell’evidente distinzione e precisione della posizione di Calvino che pure, col senno dell’oggi, si sarebbe potuta sostanzialmente condividere, le cose non andarono come si sarebbe potuto auspicare. L’apparente apertura del dibattito e la linea “morbida” non sonoinfatti destinate a durare a lungo. Decisiva, per le accelerazioni che si determineranno, risulterà la funzione di Emilio Sereni. Dirigente prestigioso e carismatico, funzionario di partito e portatore di cultura enciclopedica, specialista in materia d’agricoltura131 e perfetto conoscitore della storia nazionale, conosce molte lingue, la matematica, è divoratore instancabile di un numero infinito di pubblicazioni e chi lo conosce assicura che è dotato di una memoria prodigiosa. Ha una personalità forte ed esuberante, per vari

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Suo è stato infatti lo scritto, divenuto famoso, “Il Capitalismo nelle campagne”

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aspetti simile a quella di Mario Alicata, ed appare il sacro custode di una linea ufficiale De Sanctis, Labriola, Croce, Gramsci. Sereni è, però, portavoce e garante assoluto dell’ortodossia in particolare per tutto ciò che concerne la dimostrazione intransigente della superiorità del sistema sovietico su ogni altro regime esistente sulla terra. Ha queste caratteristiche il responsabile culturale del PCIcui saràassegnato il compito del necrologio per Andrei Zdanov, scomparso il 1 Settembre 1948. E’ in questo clima che è nato il Fronte Popolare e, il 19 Febbraio 1948, L’Alleanza per la difesa della Cultura. L’Appello costitutivoesplicita la critica alle condizioni in cui versavano, in Italia, le varie forme di cultura ed auspicava una solidarietà diffusa per la conquista di una forte autorevolezza e di un grande prestigio della cultura nazionale, precondizione questa per consentire la possibilità di un confronto incisivo con le espressioni delle altre culture nazionali.Si rigettava perciò ogni invadenza ed esclusivismo delle produzioni straniere. Si auspicava, inoltre, il pieno ripristino della libertà della cultura e la sua democratizzazione contro ogni tentativo di prevaricazione e condizionamento burocratico. Il testo, così concepito, vide fioccare le adesioni. Proprio di Sereni è essenzialmente l’operazione di regia per il compattamento di tutte le forze disponibili, nella quale vengono impegnati militanti e vaste aree di simpatizzanti e fiancheggiatori : registi, pittori, scrittori, uomini di scienza, poeti uniti per la difesa della libertà della cultura contro ogni arretramento oscurantista. Naturalmente, dal fronte opposto, ci si attiverà alacremente per evidenziare la contraddizione tra richiesta di libertà e oggettiva convergenza e copertura di regimi autoritari ed illiberali come quelli dell’Est Europa. Al di là di tardive autocritiche c’è da registrare che, nella situazione storicamente data, le forze raggruppate attorno alla DC ed ai suoi alleati, le gerarchie ecclesiastiche nella loro capillare organizzazione danno, alla gran massa di artisti ed intellettuali, ben diverse e peggiori esempi di il libertà e prevaricazione. Più che il merito dei problemi posti prevale, in genere, l’immediata politicizzazione di ogni singolo atto o posizione assunta.

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La lotta politica, senza esclusione di colpi, si gioca anche sul piano dell’esplicito schieramento degli intellettuali da una parte o dall’altra. All’” Alleanza della Cultura” si cercherà di opporre, infatti, uno schieramento d’ispirazione liberale e democratica che cercherà di caratterizzarsi, essenzialmente, attorno alla parola d’ordine della difesa della libertà contro ogni forma di totalitarismo. Si preannuncia un Convegno nazionale di queste forze, poi superato, come necessità, dall’esito delle elezioni sfavorevole per il Fronte Popolare. Ispiratore di questo tentativo è, ancora, essenzialmente, la figura di Benedetto Croce che già in passato, più volte, si era rivolto agli intellettuali chiedendo loro di non prestarsi, né dare coperture spurie nelle situazioni di lotta politica contingente, e li aveva invitati a difendere la libertà della cultura e dell’arte da ogni tentativo di asservimento a fini diversi da quelli della cultura e dell’arte stesse. In ogni caso- forse ben oltre ciò che ci si potesse attendere- il clima che si determinò in queste occasioni era di speranza, fiducia ed entusiasmo essendo, di per sé, fattore di reciproco arricchimento l’incontro ed il confronto anche vivace tra espressioni delle avanguardie più acute ed illuminate che allora agivano in Italia. Come è noto le speranze di vittoria delle sinistre e delle forze intellettuali che ad esse facevano riferimento s’infransero ed iniziò, da allora, un’azione sistematica e sprezzante di emarginazione e di isolamento di individualità che si erano esplicitamente schierate nel campo opposto132. Autorevolezza alla reazione era data, senz’altro, da dichiarazioni come quelle di

Scelba:

”Quattro

cialtroni

di

pseudo-intellettuali,

residuati

dell’anticlericalismo di cui il popolo ha fatto giustizia sommaria nelle elezio-

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Aiello riporta, come esempio, l’allontanamnto di Corrado Alvaro, “per incompatibilità”, dal “Corriere della Sera”.

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ni”133, di frequente interpretate come direttive da attuare subito. Il radicalismo, estremo, dello scontro mette in evidenza l’impraticabilità di dare vita, almeno per il momento, nel campo dello schieramento delle forze della cultura, alla creazione di una terza forza intermedia. Sempre più marginali ed ininfluenti appaiono, in questo quadro, le forze che continuano ad ispirarsi all’opera ed all’insegnamento di Benedetto Croce. La situazione pare tracimare verso un punto di non ritorno per l’accelerazione drammatica determinata dall’attentato a Togliatti. Il rischio di vedersi privare dell’intelligenza politica e della duttilità culturale dell’indiscusso leader dei comunisti italiani rischia di trascinare il paese in uno scontro frontale sanguinoso che sarà bloccato anche dalla fredda lucidità del capo comunista.

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Intervento di Scelba al Comitato Romano della DC, 27 Aprile 1948

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GLI SVILUPPI DELLA SITUAZIONE NEI PRIMI ANNI CINQUANTA

Dopo la vittoria DC del 18 Aprile 1948 si sviluppa in Italia un forte attacco alla libertà della cultura. Quest’attacco sarà particolarmente aspro nel campo della cinematografia. Il Governo centrista persegue l’obiettivo di scoraggiare le rappresentazioni che denunciano le misere condizioni delle masse popolari pretendendo, in una sostanziale continuità con l’esperienza passata, una rappresentazione oleografica ed ottimisticamente positiva della realtà134. La risposta delle forze democratiche è però molto forte e si avvale anche del significativo intervento di Giuseppe Di Vittorio e della CGIL in difesa della libertà di espressione Con l’attacco alla libertà della cultura va raggiungendo ed impregnando anche ampie fasce di strati popolari “l’ideologia” del modello di vita americano, esportata dai suoi esegeti. L’offensiva centrista otterrà dei risultati; assisteremo, infatti, ad un’allontanarsi dall’impegno sociale di diversi intellettuali che avevano assunto posizioni progressive ed ad un loro nuovo aristocratico o rinunciatario isolarsi. Nelle scuole l’arretratezza di un’organizzazione culturale che resta di tipo marcatamente umanistico – retorico, senza adeguarsi al nuovo livello di sviluppo scientifico che si esprime nelle società avanzate, offre il fianco all’espansione di scuole private clericali che si pongono l’obiettivo di “Clericalizzare” la cultura italiana, emarginando il marxismo e le correnti di pensiero laiche e demo-

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L’azione repressiva contro il cinema italiano si avrà perché la rappresentazione della realtà italiana è invece presentata sotto la forma di miseria e sottosviluppo anziché sotto forma retorica e sembrava recare, in tal modo, offesa al prestigio nazionale. La direzione democristiana finiva così per mettere al bando anche intellettuali cattolici come Rossellini spingendolo ad assumere posizioni di aperta critica alla stessa DC. Lo stesso atteggiamento si ebbe verso uno dei maggiori poeti italiani del ‘900, Ungaretti, anche lui malvisto presentandosi come il cantore dell’anteguerra, come l’uomo che non amava molto l’America, e così viaP

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cratiche135. I temi di politica culturale del PCI risentono di tale situazione, generale e d’insieme, ma fanno pure apportare elementi di rettifica necessari alla linea fin’ora seguita. Gli obiettivi posti dal Partito sono infatti ora quelli di una lotta per una cultura nazionale, popolare e moderna, in risposta alla penetrazione di correnti di pensiero e di moda di vita americani, nella ricerca di un recupero del rapporto di continuità e superamento con la cultura democratica e nazionale del passato. Si lotta per dimostrare che il marxismo è un metodo di indagine ed una concezione del mondo che raccoglie e rinnova criticamente e permanentemente, ad un livello sempre superiore, la tradizione culturale della Nazione e che in questo processo si possono identificare e riconoscere le forze più progressive e vive del Paese. Il marxismo è quindi inserito nella storia della cultura progressiva: ciò sta a dimostrare da un lato un diverso atteggiarsi nei riguardi della tradizione culturale e letteraria borghese nazionale e, dall’altro, almeno in parte si tenta di abbozzare un nuovo modo di rapportarsi alla produzione culturale straniera. Quest’operazione avviene volendo dimostrare che è necessaria una capacità di rinnovare, continuamente, la cultura nazionale per farla entrare in rapporto con lo sviluppo che ha assunto nel mondo la cultura non rinunciando ma anzi sollecitando reciproci confronti e positive contaminazioni. Aspra è però la critica ad un certo “cosmopolitismo” che viene visto come il tentativo di staccare gli intellettuali dalla vita reale del popolo-nazione ipotecando il necessario processo di creazione di nuove, dinamiche, moderne ed avanzate classi dirigenti capaci di concorrere alla messa in moto di un diverso e positivo modello di sviluppo culturale, economico e sociale.

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La scuola è un campo in cui il PCI non ottiene grandi successi. Si ha la contestazione di singoli intellettuali, di singoli professori universitari ed anche dei professori delle scuole medie superiori, ma non si verifica un ampio ed organizzato movimento di tendenza orientato a sinistra. Il PCI rivendica una scuola laica, una scuola cioè in cui sia possibile un libero dibattito su tutte le tendenze compresa quella cattolica. La DC invece mostra di non avere interesse a sviluppare la cultura cattolica mettendola in contatto con altri filoni cul-

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Contro la tendenza di quello che, sommariamente, viene definito un acritico cosmopolitismo si difende comunque in questi anni il carattere nazionale della cultura che si vuole costruire. Cultura popolare vuol significare, nelle sue positive accezioni interpretative, rivendicare il legame della cultura con le esigenze delle masse lavoratrici e vuol dire prestare attenzione alle espressioni in cui, anche a livello epidermico, si esprime la cultura del popolo. La parola d’ordine del PCI -si preciserà poi -nel fuoco della lotta contro gli attacchi dei governi DC ai diritti costituzionali come lotta per una cultura “libera, moderna e nazionale”136. La sostituzione di Sereni con Salinari è sancita nell’Aprile 1951, in occasione del VII Congresso del PCI. Più fattori sembrano determinare questo cambiamento.Quello prevalente sembrerebbe il fatto che la stagione del neorealismo, nella coscienza di letterati, poeti e cineasti, comincia ad essere considerata consunta ed esaurita. Sereni, si è visto, si è caratterizzato come strenuo difensore dei caratteri del realismo, diventandone quasi un sacerdote officiante. E’ ovvio come non possa essere attribuita tale impostazione alla sua esclusiva responsabilita’- altri lo hanno superato per zelo-, ma è ovvio che il rapporto con gli intellettuali si è via via precisato in termini di ortodossia, non esente da rigidità. Così, in più casi, si è consumato. Salinari è invece quello che meglio, per Togliatti, può garantire duttilità e capacità tattica. Assolutamente affidabile sull’impianto del progetto generale e della sua condivisione egli impersona meglio, anche autobiograficamente, il riferimento di cui, ora, c’è bisogno.Egli ha infatti continuato a coltivare i propri interessi accademici ed è privo dell’intransigenza “terzinternazionalista” di Sereni. Ai gruppi, inclini alle più varie ed imprevedibili problematicità, cui si rivolge può fornire un riferimento più rassicurante ed affidabile dovuto alle più turali. Ha inizio in quegli anni nella scuola un’opera sistematica di sottile repressione e, d’altra parte, inizia un’azione di lotta per una scuola laica che si trascinerà fino al 1960. 136

rapporto di Carlo Salinari alla sessione del Comitato Centrale del 1952

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forti sintonie e similitudini di formazione culturale. Salinari ha, informalmente, stigmatizzato a Togliatti aspetti e scelte della politica culturale precedentemente sviluppata dal PCI nei quali ha colto forti limiti: confusione dell’attività culturale con quella propagandistica;Il frequente uso degli intellettuali in maniera strumentale, come per la campagna per la Pace; L’assenza di capacità di direzione di una battaglia per una cultura moderna, pur non negando l’ovvia giustezza delle campagne, però giudicate difensive, , contro l’oscurantismo clericale e per la libertà della cultura ; una qualche indistinzione di populismo che spesso ha portato a giudicare- sbagliando clamorosamente- opere di valore produzioni di autentica mediocrità. Si può, sintetizzando, concludere che ora ci si avvia ad assumere, da parte del Partito, una funzione nuova proiettata all’esercizio di un’ autentica direzione della politica culturale definendo- più precisamente- identità e natura delle posizioni generali ed ufficiali dell’organizzazione. Il richiamo alla libertà vuole indicare qui- essenzialmente e principalmentel’esigenza di difendere i diritti della libera espressione contro la censura. Proprio quindi nella fase del più aspro attacco alle libertà democratiche il PCI riesce a definire, con maggiore chiarezza, una propria linea di politica culturale. Il terreno della difesa della libertà democratica è, infatti, il punto di partenza per la faticosa conquista della concezione, nel Partito, della necessità di sviluppare a pieno la libertà di ricerca nelle arti e nelle varie attività culturali. Il PCI avanzerà anche la proposta di un’alleanza tra le varie forze intellettuali nella lotta per la libertà della cultura. In realtà forze culturali anche diverse si trovarono unite sul terreno di una lotta per la libertà, la laicità ed il carattere nazionale della cultura. Saranno questi, infatti, gli anni degli appelli degli intellettuali di cui già si è parlato. In questa alleanza non venivano eliminati i differenti punti di vista, le differenziazioni di giudizio che si esprimevano sulle manifestazioni artistiche. Si ottenne però il risultato di conquistare fasce notevoli di intellettuali democratici all’impegno ed alla responsabilità civile. Faceva così un passo in avanti Pagina 148


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la ricerca di un nuovo rapporto tra intellettuali e società. I temi posti dalla politica culturale del Partito sono- come si vede-circoscritti e limitati; se per l’adesione all’Alleanza fosse stata ritenuta necessaria l’adesione al marxismo si comprende che non si sarebbe potuto mai realizzare un coagularsi di forze diverse e di difforme estrazione per la difesa della cultura. Una tale impostazione avrebbe determinato l’assoluto isolamento del Partito e la sua conseguenziale sconfitta. Come si è già rilevato la linea di politica culturale del PCI ha avuto fin’ora un’iniziativa sostanzialmente limitata a piccoli gruppi di intellettuali. Si pone invece, nel 1952, il problema della più estesa “diffusione della cultura”, cioè della lotta da condurre per portare i lavoratori a nuovi livelli di cultura137. Già il “Calendario del Popolo”, la cui esperienza esamineremo in un’ampia e dettagliata trattazione specifica, aveva iniziato nel Marzo 1945138 un’ampia opera di diffusione culturale. Certo la questione non era posta in modo tale da superare la distinzione ed il dualismo tra cultura cosiddetta “popolare “e cultura propriamente intesa.In ogni caso è però vero che una saldatura tra le due culture si può realizzare solo se si parte dal “diffondere” tra i lavoratori le acquisizioni cui è giunta la cultura più avanzata. Quando inizia però la crisi della scuola, quando dalla difficoltà di rinnovare la scuola in rapporto allo sviluppo della società si coglie l’urgenza di avere una scuola molto più legata alla vita, nel PCI questo problema non è posto, come invece sarebbe necessario, al centro della politica culturale del Partito. Si farà ciò soltanto quando la direzione della politica culturale passerà a Mario Alicata (1955-1962). Nella visione di Alicata la cultura italiana si fa moderna e democratica ( in lui

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sarà questa la tematica affrontata nel Congresso della Cultura Popolare a cui partecipa Giuseppe Di Vittorio 138

sotto la guida di Giulio Trevisani

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rivive la concezione di Gramsci sul rapporto da stabilire tra cultura e popolonazione, tra cultura e masse). Si tratta di superare il dualismo tra cultura d’elite e cultura “popolare”. Superare questo dualismo significa portare a fondo la lotta contro la società capitalistica, che proprio su questa divisione si fonda. Diventerà ora centrale, nel PCI, la lotta per la “cultura di massa”, non intesa come diffusione della cultura tradizionale, ma come sforzo incessante per portare le masse a nuovi livelli di cultura così trasformando la cultura medesima. Il marxismo è visto come la scienza capace di creare una nuova unità” Intellettuale e morale del popolo” in grado di superare la separazione storica, colta da Gramsci, tra intellettuali e semplici. L’indicazione è quella della obbligatorietà della scuola fino alla media inferiore e dell’unificazione delle sue discipline, superando il dualismo della cultura che si manifesta già nelle prime fasi della vita scolastica, tra scuola professionale e scuola classica. Qui, come si è detto non è esente in Alicata un’analisi autocritica sulla superficialità e sulla timidezza con cui si è affrontato il problema della scuola negli anni passati. La direzione di Alicata fa avanzare l’idea che il movimento di lotta suscitato dal PCI per una cultura democratica, moderna, nazionale, deve avere nella scuola il suo punto centrale e privilegiato di partenza. Il nuovo modo di vedere il rapporto tra cultura e masse è anche affrontato con l’organizzazione ampia ed articolata dei “circoli” e delle “case del popolo”, che si sono costituite al Nord dopo la Liberazione e che ora si vanno diffondendo un po’ dovunque. Si pone il problema, ora, di una libera e democratica gestione del tempo libero, legato all’esigenza della diffusione della cultura più avanzata nelle sue diverse manifestazioni espressive e ci si batte, anche per questa via, per percorrere nuove strade che vadano verso il superamento della separazione e scissione tra intellettuali e semplici. Pagina 150


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Lo sforzo per creare una nuova cultura, che superi il dualismo tra cultura egemone delle classi dominanti e cultura popolare non si identifica, ma è legato all’impegno, paziente ma intenso, per superare la persistente frattura tra cultura umanistica e cultura scientifica. Tra i due momenti esiste invece uno stretto intreccio che deve essere colto correttamente:si deve vincere l’errata concezione di considerare cultura per eccellenza soltanto la cultura umanistica. Questa concezione nasce dal disprezzo reale, seppur non esplicitamente confessato, che si ha per il lavoro pratico e concreto, per la vita delle masse popolari , per il rapporto che si stabilisce tra lavoro- tecnica-scienza. La difficoltà di comprensione di questo errore, che è propria della concezione della cultura post risorgimentale, ha pesato e pesa sulla politica culturale del PCI. La formazione di pressoché tutti i dirigenti comunisti, di tipo prevalentemente umanistico, rendeva difficile la comprensione di questa manchevolezza. Le iniziative che, timidamente, furono sviluppate per lo studio ed il dibattito sui problemi della ricerca scientifica non conseguirono grossi risultati139. L’impostazione non si coniugherà, nei fatti, con scelte pratiche conseguenziali. La distinzione e la separatezza tra i due filoni culturali, quello umanistico e quello scientifico, con la scarsità dell’impegno a lungo profuso in questa, decisiva seconda direzione, è un errore strategico clamoroso. Ancora oggi sono avvertibili, percettibilmente, le conseguenze negative di tutto ciò in quanto non è stata colmata l’arretratezza che, su questo terreno, l’Italia continua a manifestare nei riguardi degli altri paesi più avanzati d’Europa e del Mondo.

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V “I tecnici dell’industria e la classe operaia”, risoluzione della commissione culturale nazionale ne “Il Contemporaneo”; Anno IV, n. 41, Ottobre 1961.

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“IL MONDO” DI PANNUNZIO

Il panorama culturale del periodo oggetto d’indagine è quindi caratterizzato, con modalità e forme che diventano sempre più evidenti, da uno scontro frontale tra le forze che si rifanno alle sinistre da una parte e quanti, in varia misura, per controspinta, si riferiscono alla Democrazia cristiana uscita nettamente vincitrice nelle elezioni del 1948. Sul “terreno delle idee” questo periodo appare, in realtà, ben più vivo e problematico rispetto ad una parallela situazione politica- internazionale ed interna-sostanzialmente bloccata e pressochè ibernata. Più forze intermedie, non rigidamente inquadrate in contrapposti schieramenti, d’ispirazione marxista non ufficiale, laica, liberal democratica, si muovono tentando di dare vita a nuove sperimentazioni antidogmatiche. E’ il caso di riviste come “Belfagor” ed “Il Ponte”, del “Mulino” e di “Nuovi Argomenti”, del “Menabò”140. E’ il caso, soprattutto de “Il Mondo”, settimanale fondato da Mario Pannunzio, che tende alla rappresentazione,alla salvaguardia ed allo sviluppo di tutto ciò che in Italia continua a riferirsi all’insegnamento di Gaetano Salvemini e di Benedetto Croce della cui esperienza, piuttosto difforme dallo scenario d’insieme largamente prevalente si propone, nelle pagine che seguono, una diffusa trattazione. E’ un difficile, complesso ed inedito tentativo laico che farà registrare, da parte del PCI, risposte non univoche. C’è chi, come Lucio Lombardo Radice, riterrà utile e proficua la discussione con questo gruppo. Lo stesso atteggiamento è riscontrabile in un intellettuale difensore di posizioni “organiche” come Valentino Gerratana. Entrambi, contro le diffuse posizioni interne segnate, non di rado, da miope dogmatismo e, spesso, da insofferenza per ogni anche parziale diversità, colgo-

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no-con acume politico- il rischio concreto di un totale isolamento progressivo, ma certo, del Partito e degli intellettuali che ad esso continuano a riferirsi che va, in ogni modo, evitato.In tale atteggiamento mi pare possa esser in un certo senso riscontrato il riflesso dell’accortezza e della lungimirante capacità di manovra di Togliatti, un’attenzione ed un’originalità sviluppata anche e soprattutto nella direzione dei cattolici, di frequente interpretata quale semplice ed interessata “doppiezza”. “Il Mondo” è nato a Roma nel Febbraio 1949. Sarà una rivista settimanale che andrà avanti, con le sue pubblicazioni, fino ad oltre il Marzo 1966. Gli anni cinquanta sono stati il periodo più ricco ed intenso della sua vita e della sua produzione. Al suo interno ritroviamo una variegata costellazione di forze comprensive di tutti i settori di cultura laica nazionale, dagli ex comunisti, ai socialisti di tendenze varie, ai liberali di sinistra ed agli ex azionisti. Risalta subito la posizione, di netta opposizione, del “Mondo” al diffuso conformismo ed all’opportunismo nazionale largamente prevalente nel paese. Il concetto di terza forza vi si esplicita efficacemente già nell’articolo di Mario Ferrara, “ Un appello ai dispersi”141. A proposito del tipo di spazi da coprire nella società italiana col lavoro della rivista l’articolista sostiene : “C’è una difficoltà: ed è che il conformismo è, ormai, così diffuso nel costume italiano che tutti sono pronti ad andare col più forte e nessuno è disposto ad affrontare un sacrificio, ad attendere, a rinunciare, per diventare forte per conto proprio essendo rimasto sé stesso nel corso di una lunga battaglia”. E procede nel suo ragionare sostenendo :” ora io vorrei che la patria fosse salvata tutti i giorni dai suoi cittadini e che i consoli se ne stessero a casa. Il che accadrà se un moto di opinione respinga, fin da ora, la dittatura

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Su “Il Menabò” si concentrerà l’attività di Elio Vittorini una volta conclusa l’esperienza del “Politecnico”. La rivista è stata incoraggiata dalla casa editrice “Einaudi” e pubblicherà vari romanzi come “Il calzolaio di Vigevano “di Lucio Mastronardi. Essa sarà, a differenza di “Politecnico”, rivista a diffusione ristretta. Il primo numero è, curato da Einaudi, del 1959. 141

“ Il Mondo”, 1 Maggio 1949.

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di un partito quale esso sia e sotto quale forma si presenti; di democrazia progressiva o di dittatura parlamentare. Oggi l’attrazione verso le forze destinate a dominare da sole se non saranno controllate e limitate è già molto forte, e l’efficienza dei partiti medi e minori è così diminuita da sembrare prossima a svanire. O potremo dar vita a questa terza forza che esprima la volontà degli uomini liberi, o, tra breve,non avremo più nulla da fare se non chiederci a chi servire”.Tra i principali protagonisti di questa iniziativa,oltre a Pannunzio, tra gli altri, vanno senz’altro ricordati F. Compagna, E. Flaiano, V. de Caprariis, V. Gorresio, L. Valiani, A. Moravia, G. Spadolini, A. Rapisarda, E. Rossi, E. Scalari, G. Galasso, R. Musatti, A. Tasca e tanti altri. Un raggruppamento, come si vede, qualificato e composito, in grado però di intervenire- con indubbia capacità e competenza- sui vari campi delle attività umane e del sapere, dal giornalismo alla letteratura, dalla storia all’economia. Si può senz’altro subito osservare come il “ Mondo” proponga,in maniera inconsueta ed originale rispetto al pullulare delle riviste contemporanee di quel periodo, un’attenzione del tutto particolare all’individuo come – ad esempio- è facile dedurre dalla lettura dell’articolo di Massimo Salvatori142 nel quale si sostiene che : “ Oggi c’è troppa gente in Occidente che non ragiona più in termini di individui, ma solo di gruppi : razzisti, nazionalisti, collettivisti, tutti, hanno in comune la preoccupazione per il benessere di un gruppo e la più superba indifferenza per l’individuo”. “ per loro l’essere umano è catalogato, è buono o cattivo a secondo del gruppo cui appartiene”.E ciò comporta, con tutta evidenza, un limite serio di parzialità che induce a veri e propri errori e distorsioni. Si deve poi, più in generale, sostiene la rivista, acquisire coscienza che la vera rivoluzione da sviluppare in Italia, ben oltre i mitologici richiami ideologici , è quella dell’onestà, del pieno ripristino del senso dello Stato e di una concezione di rispetto effettivo delle leggi contro i molteplici aspetti del conformismo e dell’opportunismo italiano.Questa idea di fondo sarà precisata ed approfondita, con un intimo e coerente sviluppo, nella trattazione dei vari campi esplorati dal “ Mondo”, la politica, l’economia,la letteratura, la storia e la filosofia. Tracce

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Massimo Salvatori :”A proposito di crudeltà”,” Il Mondo”,25 Febbraio 1952.

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potenti di questo rigore sono rintracciabili, tra l’altro, nelle varie ed acutissime pagine di Salvemini. Per avere un quadro d’insieme affidabile vanno senz’altro ricordati i dodici Convegni organizzati dagli “ Amici del Mondo”, dal 1955 al 1964, su temi che spaziavano dall’economia ai diritti civili ed alla loro salvaguardia, fino alle tematiche più legate alla contingenza politica . Pannunzio aveva inteso dare voce, nel campo della cultura, alle posizioni più diverse e disparate. Come prima si è visto il suo originario impianto era senz’altro di ispirazione crociana ma ben presto la rivista si aprì al concorso ed alla stabile collaborazione di intellettuali acrociani ed anticrociani come Ernesto Rossi e lo stesso Salvemini, come Calogero e Massimo Salvatori. Un’originale impasto, quindi, di crocianesimo e d’ illuminismo.Su tutto la ferma convinzione della indispensabile funzione , laica, superante la gabbia delle singole ideologie, del ruolo della ragione umana, unica efficace “ candela nella foresta”143.Costanti, così, gli accenti oppositivi al clericalismo ed all’oscurantismo dogmaticamente praticato e difeso dall’opposto confessionalismo, delle due “ chiese” al tempo prevalenti, quella cattolica e quella marxista. Netto il contrasto all’eccesso di liberismo,al peso eccessivo ed esclusivo dei monopoli nell’economia. Il “ Mondo” esprime sostegno all’azione per la diffusione dei diritti civili del cittadino, si oppone alle antiche e conservatrici consuetudini negative di costume, che continuavano a prevedere la riduzione verticale delle pene detentive per “ i delitti d’onore”. La rivista propugna l’ accelerazione e promozione della discussione in Parlamento per pervenire, in tempi brevi, anche all’accettazione della possibilità del divorzio tra coniugi che non si trovavano più nelle condizioni adatte per continuare a convivere insieme.In sostanza Pannunzio, che militava nel Partito Liberale, caratterizzandosi in una interna posizione di sinistra, intendeva perseguire l’obiettivo di fare di questa formazione una “ terza forza” capace di condizionare e di interporsi efficacemente tra la forza cattolica e quella socialcomunista, le grandi formazioni cioè che si disputavano, senza alcuna esclusione di colpi, governo del paese e controllo dello Stato.

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Titolo di un “ taccuino”del 29 Aprile 1958.

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Al di là dell’impostazione politica e culturale generale di questa rivista va , ad aggiuntiva precisazione,fatto rilevare la forza e l’efficacia, prescindendo dalla discutibilità di alcune opinioni, nell’individuazione di precise tematiche, sommariamente riassumibili in sei sostanziali blocchi di questioni che ci consentono di seguire, con sufficiente rigore interpretativo, i fattori di peculiare specificità dell’impegno collettivamente sviluppato dal 1949 al 1966 dal gruppo di intellettuali, di diversa ed articolata formazione,raccolti attorno a Mario Pannunzio. La libertà e lo Stato,il laicismo, l’antifascismo e l’anticomunismo, i diritti civili, l’esame di fatti di vita,di umanità e di costume appaiono- per grandi linee, i filoni esplorati da liberali di sinistra come Cattani, Limonati, Carandini cui si erano uniti scrittori ed intellettuali ex azionisti come Garosci e Calogero. Eppure, rileggendo alcune delle pagine più concretamente incisive della rivista, colpisce, come si è già accennato, la forza politica dell’analisi e l’accuratezza argomentata e circostanziata della denuncia di situazioni nelle quali il gretto interesse di gruppi e ceti economici potenti, coperti dall’incuria delle funzioni di contrasto delle pubbliche autorità, stracciavano delittuosamente la salvaguardia dell’interesse pubblico. Il tema delle aggressioni indiscriminate all’ambiente è affrontato, con particolare forza e brillantezza, negli articoli di Antonio Cederna.. Grande spazio ha, sulle sue pagine, l’azione per la promozione ed il confronto culturale ed anche, più avanti, forti saranno le campagne d’iniziativa politico sociale in grado di proporre squarci di osservazione e di denuncia su temi, come il saccheggio urbanistico della capitale, sui quali, al confronto, le forze di

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sinistra dimostreranno di non avvertire identica e tempestiva sensibilità144. Nell’articolo “ I Padroni della città”145, rifacendosi al convegno indetto dagli “ Amici del Mondo” e tenutosi al teatro Eliseo alla fine di Aprile dello stesso anno,si finiva per identificare “ i padroni della città” con “ i vandali in casa”, ovvero con tutti quanti coloro che, “ per rozzezza mentale” ed ingordigia furiosa di danaro e strapotenza economica paralizzavano la vita della città impedendone lo sviluppo razionale,” distruggendo l’antico e contemporaneamente edificando una miserabile contraffazione di modernità”. L’atto di accusa era indirizzato contro le grandi società immobiliari, i grandi latifondisti, i trafficanti e monopolizzatori di aree edificabili, i grandi speculatori che acquistavano a dieci per rivendere a mille, contro tutti coloro che avevano distrutto , per propria cupidigia, parchi, giardini e boschi. La loro furia distruttiva non aveva risparmiato le antiche vestigia della civiltà classica, i tanti monumenti, bene perenne di tutta l’umanità. Essi avevano trasformato le campagne in incivili agglomerati di cemento. Ciò era accaduto per mezzo delle minacce e delle intimidazioni verso le autorità dello Stato, attraverso la sistematica opera di corruzione dei pubblici funzionari tramite l’interessato attivismo dei mestieranti senza scrupolo.Questo saccheggio si era potuto realizzare soprattutto a causa della diffusa ignoranza e sottovalutazione dell’opinione pubblica che si era scarsamente battuta per la difesa dell’interesse pubblico. Cederna non auspicava, si badi bene, un’improponibile fissità dei processi storici, un blocco impossibile dei fattori di modernizzazione e di progresso che mutavano fisionomie e forme storicamente insediatesi. Non immaginava né utile né possibile la contrapposizione ai grandi

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“Il Mondo”, tra i vari aspetti, tratterà anche il tema del deturpamento dell’ambiente e della speculazione edilizia, tema questo, come è noto, anche caro a Calvino che su di esso si dilungherà nel racconto “La sfida al labirinto”, nel quale, con solerzia ed efficacia estrema, l’autore esplicita la propria concezione sul ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea. In essa il mondo moderno è rappresentato come complesso ed intricato, come “un labirinto” e l’uomo può – di fronte ad esso- assumere un duplice atteggiamento, di “sfida” o di “resa”. Dapprima propende per la resa, poi capisce l’inutilità del lamentarsi senza agire. Così si lascia coinvolgere nella speculazione attuando la “sfida al labirinto”, metafora efficace sulla contraddizione tra l’azione pratica della speculazione e quella, intellettualisticamente astratta ed ininfluente dei suoi amici della grande città.

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“ Il Mondo”, Primo Maggio 1956.

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processi di inurbamento e di industrializzazione già in atto, all’ovvia necessità dell’ammodernamento, dell’estendersi e dello specializzarsi dei servizi pubblici e della diffusione dei mezzi di trasporto privati. Egli appariva consapevole del fatto che non c’era più niente di identicamente proponibile tra la struttura di una città antica e quella di una città funzionale e moderna. Eppure ciò non poteva autorizzare i “ nuovi vandali” all’indiscriminato sventramento dei vecchi centri della città, che avvenendo ormai diffusamente e disordinatamente, senza controllo alcuno, finivano per garantire soltanto “ il massimo sfruttamento di ogni metro quadrato e l’ipertrofica deforme crescita della città su sé stessa, a esclusivo vantaggio di pochi fortunati possessori dei terreni periferici”. Antonio Cederna perciò ammoniva che “Se non vogliamo distruggere un patrimonio incalcolabile di arte e di storia e se vogliamo creare condizioni adatte al pieno esplicarsi della vita moderna, dovremo quindi adottare i criteri tecnici, economici e giuridici che l’urbanistica moderna ha apprestato nei Paesi civili, sviluppare razionalmente le città secondo un piano organico, coordinatore di tutte le necessità e di tutti gli impianti, che sposti le funzioni del centro in zona adatta ed estenda la città in una direzione predominante o attraverso quartieri autonomi e sufficienti : rompere insomma definitivamente l’esiziale sviluppo a macchia d’olio.”. Perciò concludeva il suo ragionamento sostenendo che “ La pianificazione urbanistica s’ impone quindi come strumento d’ interesse generale, contro l’avido particolare interesse dei padroni delle città”.Ad essere chiamata però particolarmente in causa era la pubblica opinione a causa dell’indifferenza o dell’assoluta ignoranza dimostrata per i contenuti di tutte le leggi esistenti in materia di difesa del suolo, del paesaggio, dei beni culturali.Le tante leggi promulgate negli anni dovevano scrupolosamente tutelare tutto ciò,impedendo la dissennata ed indiscriminata colata del cemento che tutto stravolgeva. Invece proprio l’ acquiescenza e la passività avevano consentito il saccheggio “eversivo ed anarchico” di un’oligarchia di evasori e profittatori, di padroni-vandali responsabili della degradazione delle città in anticittà. Essi avevano acquistato immense zone a prezzo agricolo rendendole , con la complicità dei pubblici poteri, edificabili, così che erano diventati “ ricPagina 158


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chi nel sonno, senza lavorare, rischiare o economizzare”. Erano la “razza pestifera” per eccellenza. Questi gruppi oligarchici si muovevano senza scrupolo alcuno aizzando vari ostracismi contro ogni tentativo di piano regolatore, ritardandone la redazione e creando, nel frattempo, una serie di fatti compiuti dei quali si sarebbe dovuto, poi, prendere solo atto. Si strumentalizzava, in quei frangenti, la disperazione dei disoccupati che venivano impiegati nelle costruzioni ed il bisogno di lavoro era utilizzato, cinicamente, come una clava contro tutta la società. Sempre più difficile era così bloccare lavori avviati che si andavano a completare in spregio ad ogni vincolo di legge esistente. La massa dei lavoratori era strumentalizzata, coi propri bisogni, perché il saccheggio indiscriminato continuasse senza fine.Le campagne venivano così lottizzate e trasformate illegalmente in nuove zone edificatorie. Il comune capitolava ed il sindaco finiva per muoversi inaugurando i nuovi servizi pubblici sorti dal nulla. “ Per debolezza, incapacità, l’amministrazione, rappresentante gli interessi della collettività, si è fatta prendere per il collo dagli speculatori, e li segue al guinzaglio, e il denaro pubblico di tutti viene impiegato per portare servizi dove vogliono i padroni, ossia per arricchire quest’ultimi di cifre favolose. Di qui l’ampliarsi delle città a fasce successive, di qui gli abominevoli quartieri periferici, di qui la congestione del centro, di qui la distruzione dei monumenti, di qui le borgate, l’immonda idropisia di una città come Roma , con tutti i disastrosi effetti possibili sulla vita dei cittadini”. Nel convegno succitato degli “ Amici del Mondo” Cattani aveva scrupolosamente individuato alcuni punti centrali per cominciare a garantire, contro la diffusa illegalità, il complesso delle leggi esistenti. Le sue proposte perciò erano : 1)Formazione dei piani regolatori generali in ogni comune che ne hanno l’obbligo 2)Vietare le private lottizzazioni nelle zone non-urbanizzate in attesa che venga approvato il nuovo piano regolatore generale 3)Individuazione, all’interno del piano regolatore generale e dei piani particolareggiati, delle aree da adibire all’edilizia popolare 4)Una volta approvato il piano regolatore generale il Comune è impegnato a Pagina 159


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vietare lottizzazioni private, anche nelle zone di espansione urbanistica, senza la sua autorizzazione se prima non è stato approvato il piano particolareggiato. 5)Ingiungere ogni anno ai proprietari di aree comprese nei piani particolareggiati approvati e già attrezzati con le opere pubbliche e di pubblici servizi primari, di erigervi le previste costruzioni entro un tempo breve, sotto pena di espropriazione, come previsto dall’articolo 20 della legge urbanistica al tempo vigente.Con tali atti di più rigorosa razionalizzazione verranno automaticamente e radicalmente ridimensionati tutti i processi speculativi cui prima ci siè riferiti recuperando consistenti introiti fiscali e riaffidando la dovuta funzione di controllo del mercato delle aree edificabili all’autorità fin’ora elusa ed offuscata dell’Amministrazione Comunale che rientrerà, così, in possesso della facoltà di concessione o negazione dell’autorità di autorizzazione,lottizzazione, costruzione ed esproprio delle aree non edificate. Le amministrazioni che non dovessero attenersi a tali disposizioni diventerebbero un plastico esempio della loro subalternità alle spinte di singoli gruppi interessati alle speculazioni più colossali ed in tal caso dovrebbe essere previsto, con immediato decorso, il potere di supplenza del governo centrale. L’articolista rilevava come negli anni precedenti si fossero create a Roma decine di borgate abusive e come si fosse evidenziato un immenso problema morale e politico che la denuncia del “Mondo” si è impegnata a portare in emersione. Perciò si è scelto di evidenziare alla pubblica opinione come la questione del saccheggio urbano delle grandi aree metropolitane e della città di Roma assume sempre più il carattere devastante di una grande emergenza nazionale che va riaffidata al diretto e responsabile controllo dei pubblici poteri nella garanzia dell’attuazione di un più incisivo e generale salto di qualità del complesso del Paese. A questo articolo ne seguirà un’ulteriore, anonimo, sulla stessa lunghezza d’onda 146, nel quale si concentra l’attenzione sui pericoli per la libertà di stam-

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Dal titolo :” Silenzio e Paura”, “ Il Mondo”,14 gennaio 1958.

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pa, che segue la presa di posizione specifica di 650 personalità della cultura, della politica, del giornalismo all’indomani del processo Immobiliare“Espresso” . In esso si lamenta la sostanziale indifferenza, che rischia di diventare cronica, per tutti i grandi e stringenti temi di forte attualità che rischiano di avere un ritorno devastante sulla condizione della collettività. Il silenzio della stampa, che appare imbavagliata, è attribuito al riflesso dell’atmosfera generale del paese, alla paura diffusa di dispiacere ai potenti, ai padroni del vapore, ai grandi industriali legati ai finanziatori, alla paura di scontentare i potentissimi democristiani che presidiano al destino della cosa pubblica, ai ministri, ai sottosegretari, alla chiesa ed alle gerarchie in cui essa concretamente vive. Si evita di esporsi per evitare di essere, poi, colpiti.Così si sceglie di continuare a tacere sul caso delle speculazioni edilizie a Roma, sull’incredibile serie “ di irregolarità e di abusi cui ha dato luogo il Comune” .E ci si chiede se ciò non sia il sintomo preoccupante della mancanza della stampa e della sua funzione essenziale, del fatto che , per un giornalista” la difesa della libertà di stampa è ragione stessa di vita”, “ non soltanto “ un dovere impostole dai principi costituzionali e liberali che reggono il nostro stato; è la rivendicazione stessa del giornalismo; una stampa asservita e conformistica significa, tout court,mancanza di stampa,della sua funzione essenziale”. Sul modo di considerare ed affrontare acuti problemi sociali presenti nella realtà nazionale, gli uomini del “ Mondo” manifestano forti assonanze coi comunisti italiani :” essi sono più vicini ai comunisti quando si tratta di indignarsi della miseria, , dell’analfabetismo, della struttura antiquata dello stato dei baroni e dei grandi industriali; più vicini ai liberali quando si tratta di protestare in favore della libertà contro certe forche, certe purghe, certi processi”147. Essi, pur denunciando delitti, orrori ed illibertà dei regimi comunisti non intendono in alcun modo essere accomunati all’anticomunismo gretto dei cattolici clericali o dei fascisti, per i quali, tra l’altro, si sta registrando sempre più, dopo l’amnistia voluta da Togliatti, una rilegittimazione politica e sociale.Una costante distin-

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N. Bobbio “Intellettuali e vita politica in Italia”, “Nuovi Argomenti”, a. II, n. 7, 1954, ora in “Politica e Cultura”, Einaudi, Torino 1955, p. 121

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zione, quindi. Alla fine del 1952, e fino agli inizi del 1953, si svolge sul “Mondo” una discussione circa la possibilità di sviluppare forme di diretta collaborazione con gli intellettuali comunisti per la difesa della libertà d’espressione. Il confronto procederà però in conformità a reciproche e preconcette preclusioni e pregiudizi. Nonostante la duttilità presente in esponenti di entrambi i campi, come, ad esempio, Norberto Bobbio da un lato e Ranuccio Bianchi Bandinelli dall’altro, non si determinerà una convergenza ed una collaborazione continuativa e fattiva probabilmente per il fatto che i tempi non erano sufficientemente maturi per iniziare un confronto al quale, da ambo le parti, si pervenisse non in relazione alla tattica calcolata ma in base ad una sincera disponibilità alla reciproca rinuncia di qualcosa dei rispettivi punti di partenza. E’ probabile che, ad indirizzare le cose in tal senso, abbia concorso la presa d’atto di una nuova situazione nella quale, da parte di aree neanche tanto limitate di intellettuali simpatizzanti comunisti si comincia a considerare concretamente la possibilità dell’esistenza di spazi di collaborazione e di intervento più praticabili nell’ambito dell’impostazione di questa “terza forza”. “L’Associazione per la libertà della Cultura”, che, evidentemente riassumeva in sé un indirizzo ed un messaggio non delimitabile ai confini nazionali ma valido per tutte le parti del globo vedrà l’impossibilità, per il persistere delle reciproche preclusioni, di dispiegarsi in tutte le sue notevoli possibilità espansive. L’articolo di G.B. Angioletti “ libertà non indiscreta”148 ritorna sul moltiplicarsi degli appelli alla libertà della cultura, citando il primo numero della rivista” Aut Aut”, e sostiene che di ciò non si può fare a meno di rallegrarsi.Ma osserva che l’appello alla libertà della cultura non è una bandiera sotto la quale tutto diviene possibile, persino “la paradossale offesa della libertà stessa”. Oggi, avverte l’articolista, da un lato gli Stati autoritari hanno un contegno nettamente plebeo che concreta il primato della quantità sulla qualità ma, al contempo e di

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“ Il Mondo”, 17 Febbraio 1951.

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frequente, gli stessi stati democratici mostrano un atteggiamento allo stesso modo nocivo col loro incredibile disinteresse per l’arte e le idee. I giovani, invece, vogliono solidi ideali in cui credere e ciò appare decisivo per vivere liberi in un libero paese. Eppure non si produce “ una letteratura vera, ispirata, intelligente, poetica, come ( in passato) è sempre stata, nei suoi momenti migliori, la letteratura italiana. Perciò è lecito attendersi che l’autocensura sia praticata da coloro che “ per il solo fatto di trovarsi una penna tra le dita, si credono lecito ogni arbitrio”, ovvero sono il plastico esempio di una letteratura sintomo di un concetto di libertà” triviale,odiosa, intimamente spregevole: la libertà di sputare su tutto, di irridere ai sentimenti, di offendere, col pretesto della spregiudicatezza e della “ verità” ogni naturale riserbo ed ogni non ignobile slancio”. Il narratore borghese che si compiace “ di rimestare nel fango della società cui appartiene , non ha poi nessun diritto di opporsi, proprio lui, alle chimere ed agli impulsi sovente generosi di chi tal società vorrebbe buttare all’aria per sostituirla con un’altra ipoteticamente più pura e più giusta”. Per fortuna questo tempo sembra stia per passare in via definitiva:” In quasi tutti gli scrittori di oggi si avverte un disagio, un’insoddisfazione per un lavoro tuttavia portato avanti come per un impegno mortificante: sia di fronte agli ordini delle varie “ propagande”, sia per compiacere le cosiddette “ esigenze dei tempi”….” Ognuno sente, magari oscuramente, come lo scadere dei valori letterari sia una delle cause maggiori dell’avvilimento e della fiacchezza che corrodono la nostra civiltà. Sente che, più dei cannoni e dei carri armati, i libri potrebbero ancora oggi difendere la libertà, e anzi potrebbero rendere superfluo l’uso delle armi, se tutti gli uomini di cultura proponessero della libertà un’immagine venerabile, e non la perseguitassero come una mentecatta o non l’additasseroo al disprezzo come una prostituta. In questo senso ogni scrittore ha la sua parte di responsabilità, e deve finalmente decidersi: o respingerla, o accettarla in pieno”. Pur accettandola lo scrittore deve sempre porsi il quesito di cosa lascia da leggere ai giovani, agli adolescenti. Non serve solo , per l’articolista, badare,in modo esclusivo, ai contenuti che, oggi , sono prova indegna, di frequente, della decadenza spirituale e morale. E’ invece decisivo optare per una “libertà non indiscreta”, capace di vigilarsi e di trovare in sé le giuste frontiere. L’articolo amPagina 163


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piamente richiamato esplicita, molto bene , la linea ed i confini dell’impostazione della rivista, l’opzione per la battaglia concentrica sui due fronti, della lotta all’oscurantismo e del contrasto ad un’idea di letteratura socialmente impegnata che intende assumere, nel conflitto in atto tra i blocchi , una netta scelta di opzione per un campo specifico oppositivo all’area occidentale. Il richiamo costante alla libertà dello scrittore indulge a ritenere che gli articolisti del “ Mondo “ intendano sottolineare la loro netta distinzione da chi, nel mentre si affanna a richiedere consenso, con appelli e prese di posizione per la libertà della cultura in Italia, contro l’oscurantismo d’ispirazione clericale, non mostra lo stesso netto e fermo rigore nel condannare le pratiche statali di sistematica violazione delle libertà che si verificano, in maniera assai preoccupante, al di là della cortina di ferro. Il tema ritorna ,con ancora maggiore e circostanziata precisione nella lettera di Carlo Antoni 149, indirizzata dalle pagine della rivista a Bianchi Bandinelli. E’ la risposta e la precisazione alla lettera aperta apparsa sulle pagine de “ L’Unità”, in risposta al manifesto sulla libertà della cultura redatto proprio da Carlo Antoni. Costui precisa che in alcun modo “…quella difesa della libertà della cultura , che ho invocata,abbia un carattere esclusivamente anticomunista”. Il “ Mondo” insorge invece “ con instancabile assiduità” contro gli attentati alla libertà ovunque si registrino. L’autore della nota a Bianchi Bandinelli nota la contraddizione degli scrittori comunisti che insorgono a senso unico, che protestano quando le autorità statali italiane pongono divieti a questa o a quella iniziativa nel mentre in sostanza tacciono se e quando la stessa pratica si realizza , contro gli scrittori e gli intellettuali di quel paese, nell’Unione Sovietica. Lì anzi l’ingerenza del potere politico sulla produzione artistica, scientifica e letteraria è ancora più asfissiante. Basti pensare ai casi della filosofia e della linguistica nel cui merito di condivisione o di sconfessione interviene e decide, a turno, Stalin e Zdanov.Incalza chiedendo se ora sono pronti ad intervenire e protestare così come gli scrittori del “ Mondo” sarebbero pronti a battersi se

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“ Il Mondo”, 29 Dicembre 1951.

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fosse negata la libertà di scrivere e di dire il proprio pensiero agli intellettuali comunisti italiani. Invece costoro perseverano in un grave errore, ovvero nell’idea “ di credere che la libertà possa consistere nella rinuncia alla sovranità del proprio spirito in favore di un ente o organismo “ oggettivo”, sia questo la nazione, lo Stato,la Chiesa, la setta, il partito . E’ l’errore di credere che questi organismi storici particolari possano riassumere ed esaurire l’universa vita e cristallizzare l’infinita nostra coscienza”” Certamente ciascuno di quegli enti può esigere la dedizione dei suoi seguaci fino al sacrificio dell’esistenza fisica, ma essi non possono usurpare quanto non ci è lecito sacrificare, perché in fondo non ci appartiene, e cioè il nostro pensiero, la nostra coscienza morale e, per l’artista ,il suo genio creatore. Altrimenti quegli enti diventano il feticcio del fanatismo” ” Tu sei persuaso che il Partito Comunista rappresenti gli interessi degli umili e degli sfruttati, la fine delle ineguaglianze

e del dominio dell’uomo

sull’uomo….Ma tu sei disposto non soltanto a dedicare la tua attività politica a questa volontè gènèrale , a questo stato etico, che è per te il regime comunista, ma a subordinare ad esso l’intera tua vita spirituale. Con questa ascesi, che ti da il senso di una libertà, rinunci però a servire qualcosa che è infinitamente più universale di quell”universale determinato”. E rischi di rinunciare a servire veramente anche quest’ultimo”. E’ Vittorio De Capraris a tornare sul tema degli intellettuali contemporanei e del loro “ peccato” nel volersi impegnare in politica. L’articolista si pone il problema di come si ponga, ora e qui, l’annosa questione del rapporto tra intellettuali e politica e sintetizza il ragionamento sostenendo che , fondamentalmente, ci sono stati nella tradizione italiana due modi di intendere il problema :” il primo è quello dell’accademia, della cultura che rifugge da ogni impegno civile, di quella arcadia nella quale, già a giudizio di De Sanctis si sublimava una crisi due volte secolare della coscienza nazionale italiana. E l’altro è quello , esattamente opposto, della cultura che si espande e vive proprio dell’impegno civile, senza, tuttavia, tradire la sua autentica vocazione, di quella cultura, insomma, che si fa ad un certo momento della nostra storia forza propulsiva del

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rinnovamento nazionale. Ed è stata questa la strada che, nell’ottocento e nel Novecento, ha continuato a percorrere la migliore cultura italiana, quella di coloro che , senza mai far commercio dei valori dell’intelligenza al mercato di un’effimera popolarità, hanno tenuto fede all’impegno civile con la ferma consapevolezza che la cultura è libertà” “ La cultura resta fedele a sé stessa solo quando pensa la realtà, quando si impegna a misurarsi con essa, senza fingere di ignorarla e senza umilirsi a servirla”. Va considerato che “ le forze politiche che crearono lo stato italiano e ne diressero per settantenni la vita unitaria sono praticamente scomparse come protagoniste della lotta politica” Esse erano anche “ protagoniste di una rivoluzione più profonda e più vasta, di una rivoluzione ideale e culturale, che era né più né meno che quella del pensiero moderno” Esse fecero dell’Italia una protagonista della “ moderna civiltà laica”. Oggi , pur se la parte migliore si collega idealmente a quella tradizione, si avverte un grande vuoto e ci si sente privi di rappresentanza politica. I comunisti sono stati i più pronti a cogliere questa contraddizione, riconosce De Capraris,e si presentano come gli eredi autentici non solo dello Stato unitario in ciò che aveva di migliore ma anche della stessa civiltà liberale.” L’insistenza su De Sanctis e su Gramsci di tanta parte della cultura marxista, la fermezza con cui il Partito Comunista ha sempre mostrato di saper cogliere le dimensioni ideali e culturali di certe battaglie politiche che si sono combattute nel nostro Paese, persino il non dimenticato tentativo di Togliatti di indicare il suo Partito come il vero continuatore del Giolitti più aperto, tutte queste cose forniscono la prova più eloquente dell’esistenza di quella contraddizione che abbiamo detta e dei problemi che essa pone”. Questa battaglia, di demistificazione, può essere combattuta solo da quelle correnti capaci di smascherare un’operazione che invece è solo opportunistica , da quelle formazioni culturali autenticamente interne al solco del pensiero moderno ed anzi sono le“ rappresentanti più genuine” proprio perché la loro vocazione non è per niente dogmatica. Il comunismo,questa la sintetica conclusione, si può combattere solo dal versante della trincea della cultura liberal radicale e storicistica. Questa dimensione rappresenta “ il solo avversario serio ed agguerrito contro cui la cultura marxista italiana si è trovata a combattere”. Qui, non altrove, è il nemico da abbattere o l’avversario da conPagina 166


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quistare. Obiettivamente paradossale e bizzarro appare oggi il fatto che l’auspicato sodalizio tra queste forze laiche che si riferivano al “ Mondo” e le forze di sinistra più coerenti ed avvertite, nei fatti, non riuscirà a realizzarsi se non su punti assolutamente occasionali e parziali. Nell’articolo “La chiave della cultura”150 ci si domanda il perché del successo dell’azione del Pci verso gli intellettuali e si individua la ragione di ciò anche nel fatto che “La verità è che l’abilità e la pazienza dei comunisti sono state poderosamente agevolate in passato e favorite tutt’ora dal clima morale e politico del Paese oltre che da una sorta di pigro disinteresse delle forze autenticamente democratiche per certi problemi. Appunto questi due fattori hanno creato le condizioni favorevoli al successo dell’operazione culturale comunista. In effetti in un paese di grande vivacità intellettuale come il nostro, dove la ricerca artistica e letteraria è sicuramente libera, ma nel quale si verificano ancora ed abbastanza ripetutamente episodi di rozzezza oscurantista, di squallida chiusura censoria,di diffidenza ottusa verso il libero movimento del pensiero, si crea, naturalmente, una situazione nella quale gli intellettuali e gli uomini di cultura sono portati a schierarsi all’opposizione” . Il paradosso è però che la società che assumerebbero per modello erge a sistema proprio l’ideologia del controllo e della violazione della libertà contro la quale, in Italia, essi dichiarano di volersi battere. Non si può essere suggestionati, in alcun modo, da cattivi esempi. Perciò, con tutte le forze, il rigore e l’energia si deve perseguire , come dice Salvemini, con ogni energia, la terza via, la terza via, la terzavia.L’articolo di Leone Cattani aveva già duramente stigmatizzato151 l’azione della D.C. che, all’indomani del 18 Aprile 1948 aveva mandato a casa gli antifascisti ed agiva per sdoganare i fascisti producendo, anzitutto nella scuola, un clima gravemente regressivo ed oscuro che rischiava seriamente di ripercuotersi drammaticamente sul futuro prossimo di tutta la società italiana. Come si può vedere la

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“ Il Mondo”,2 Aprile 1963.

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Sulla rivista,l’11 Marzo 1950.

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stessa dura intransigenza polemica dispiegata contro le forze che si riferivano al comunismo, si proiettava, con ardente passione verso la dc ed il pericolo clericale, oscurantista, reazionario. Il problema, in realtà, è tutt’altro che banale: il PCI del tempo, stretto nello schieramento filosovietico di cui, in Occidente, è senz’altro una delle punte di diamante e forse la principale, è evasivo e recalcitrante nel fornire una risposta inequivoca al quesito se, una volta raggiunto il potere statale, sarà assolutamente ed integralmente garante di tutte le libertà democratiche borghesi e se, anzi, si batterà per garantirne l’ulteriore e costante espansione. La rivista propone infine un’attenzione , del tutto inconsueta rispetto allo scenario del tempo contemporaneo, su una serie di argomenti supplementari nei quali dimostra una particolare sensibilità: la tutela e la salvaguardia dei diritti individuali e collettivi,il tema della civilizzazione e l’opposizione ad una serie consistente di norme che, protraendo la loro esistenza, sembrano concorrere a rappresentare la realtà di un paese retrivo e reazionario piuttosto che una tensione indirizzata alla creazione di una moderna democrazia. Questo senso a me pare abbia l’opposizione, dura, alla prassi del ricorso alla pena di morte in una serie di paesi a parole progrediti, l’interpretazione del ricorso alla carcerazione come sintomo odioso di punizione medioevale piuttosto che come luogo ove la persona che si è macchiata di un crimine o che si è reso colpevole di una grave violazione delle norme di legge, oltre alla punizione possa percepire anche l’azione di correzione e di rieducazione in modo che un giorno sia praticabile,una volta pagato il debito contratto con la società, il reinserimento sociale. Assieme a tutto ciò si manifesta una notevole attenzione , anticipatoria per vari aspetti, alla necessità dello snellimento e dell’ammodernamento della macchina amministrativa per consentire, nei fatti,l’attuazione accelerata dei processi d’integrazione dell’Italia in Europa. Il tema dell’Europa, sebbene abbozzato, compare con una costante periodicità e sembra essere l’espressione di una lungimiranza di prospettive cui i curatori della rivista rivolgono una attenzione , piuttosto singolare se paragonata allo scenario d’insieme , come si è visto sostanzialmente irrigidito ed ibernato all’interno di scelte di campo rigide ed , in Pagina 168


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apparenza, ritenute per sempre immodificabili.Un impianto di ragionamento comunque, pur nel variegato pluralismo che al suo interno convive, del tutto persuaso dell’unicità di una strada, nella politica come nella cultura, autenticamente liberale, dimensione questa che sola può garantire il rispetto dei diritti e delle libertà individuali e collettive che, con una serie di battaglie incisive, sui punti particolari ma qualificati cui prima si è fatto cenno, può concorrere ad ampliare- in progressione- i confini ancora limitati ed incompiutamente percorsi della democrazia italiana.E’ facile constatare, con la consapevolezza dell’oggi, che non ci si trova di fronte ad un’esperienza culturale da vagliare e valutare con sufficienza . Molti spunti ed intuizioni appaiono francamente acute e positive.Generosa l’idea di tentare d’ incidere, con la persuasiva ed esclusiva forza delle idee , in ogni direzione, contemporaneamente sia verso l’ovest che verso l’est del Mondo. In Italia c’è il costante appello, felicemente coniato da Salvemini, per evitare qualsivoglia confusione o approssimazione interpretativa, rispetto agli intellettuali di sinistra di “colpire insieme e marciare separati”. Si vuole così intendere, come è del tutto chiaro, l’indisponibilità ad essere confusi in un magma indistinto nel quale la specificità della propria fisionomia non può né deve essere perduta.Sono gli uomini più avveduti del “ Mondo” a non anteporre alcun preventivo ostacolo “ ideologico” alla possibilità di parziali e circoscritte convergenze con gli intellettuali che si riferiscono al Partito Comunista. Il punto è piuttosto per loro quello di concordare argomenti precisi e specifici sui quali si può realizzare un’azione comune nella società italiana. Ciò però dovrà avvenire senza che sorga confusione alcuna sulle nette distinzioni in materia di visione strategica della società che si intende costruire. Il processo di sbocco verso una effettiva democratizzazione da parte delle forze comuniste che,abbandonando ogni idea di prospettiva di attuazione della dittatura del proletariato, in sostanza acquisisca, senza infingimento o doppiezza alcuna la visione del pluralismo e del pluripartitismo come necessità indispensabile per la società italiana è auspicato nell’interesse del complesso della società.E’ impossibile che in Italia si assista a quanto è accaduto col colpo di stato in Cecoslovacchia nel 1948. Il settimanale comunista “ Vie Nuove” ha rappresentato in modo farsesco quegli avvenimenti attribuendo grandi colpe al presunto Pagina 169


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tradimento di Slansky e dei suoi compagni per giustificare il colpo di Stato comunista e la fine del regime di pluripartitismo152. In tal senso, si può dedurre, si creerebbero i presupposti, che ora non si vedono ancora, per uno sdoganamento di quelle forze all’interno del gioco del confronto democratico, precondizione per l’assunzione della legittimità al concorso dirigente ed al diretto coinvolgimento nel governo del paese. Questa , in sintesi, l’arco delle posizioni sulle quali , in quegli anni, con minori o maggiori sfaccettature ed accentuazioni, si precisò la linea di politica culturale degli uomini del “ Mondo”. A queste posizioni più volte si risponderà, da parte marxista, che il concetto di libertà dei comunisti italiani non ha nulla da spartire con l’idea di libertà propugnata dai grandi proprietari agrari e dai maggiori gruppi capitalisti italiani e stranieri, risposta questa comprensibile ma stizzosa ed ideologica che produrrà, nell’animo degl’ interlocutori, persistenti resistenze. Sulla politica estera si vanno ad accentuare, in effetti, i distinguo e le opposizioni tra comunisti e democratici laici. Il 1951 è un anno di fervide iniziative per la difesa della Pace. Nel “Mondo”, ad un certo punto dell’esperienza, faranno capolino posizioni ed assunti che avranno, come si vedrà, più analitica trattazione teorica in Franco Fortini. E’ il caso al proposito di richiamare, concludendo, l’articolo apparso sull’ultimo numero della testata,: “Ai lettori”153, nel quale si annuncia -dopo 18 anni- la cessazione definitiva della pubblicazione. Assieme all’orgogliosa difesa della propria storia e della propria autonomia, c’è l’amara constatazione del fatto che l’Italia è, tra i paesi Europei più evoluti, quello dove si legge di meno e dove i mezzi d’ informazione sono più che altrove, “dominati dal conformismo e dall’ossequio”. In Italia, purtroppo, “domina la presenza di un potere radicato e penetrante, di un governo segreto, morbido e sacerdotale che conquista amici e avversari e tende a snervare ogni iniziativa e resistenza”. E’evidente come la nota rappresenti, malinconicamente, la sostanziale presa d’atto del definitivo fallimento dell’illusione di poter vedere svilupparsi un’ampia ed estesa

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Posizioni esposte sul “ Taccuino”, 7 Marzo 1953.

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“ Il Mondo”, 8 Marzo 1966.

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“terza forza”. La contrapposizione concentrica dei due blocchi che si continuavano a confrontare e scontrare sulla scena nazionale aveva, piuttosto che ampliare, ulteriormente ristretto gli spazi d’ azione e di manovra per l’ipotesi caldeggiata dal “Mondo”. La rivista non aveva mai come allora, forse, avvertito il bisogno della partecipazione alla vita pubblica e alla civiltà morale del paese di “uomini appassionati, intelligenti, intransigenti e risoluti”. Ora era il caso, però, di fare un severo e spietato esame della situazione “la consapevolezza della dura realtà che ci avvolge non è segno di debolezza”. “lo sforzo di un giornale come il nostro per sopravvivere dovrebbe trovare un fondamento ed una dimensione che il senso geloso della nostra indipendenza non consente di darci”. Non si può continuare a fare finta di non comprendere che “le regole moderne dell’organizzazione, lo sviluppo di concentrazioni economiche, politiche e sindacali sempre più vaste, il prevalere massiccio dell’industria culturale rendono ogni giorno più difficile l’attività dei gruppi autonomi e delle iniziative disinteressate. E’ una verità che vede di continuo nuove conferme”. I temi alla base dell’azione del “Mondo” sono diventati, nei decenni seguenti, grazie a Bobbio, a Darendhorf ed a tanti altri, questioni centrali distintive del confronto politico e culturale sull’accezione del concetto di libertà e di democrazia segnando, concretamente, tutti gli stati di avanzamento progressivi delle forme istituzionali nelle democrazie costituzionali. E’ stato analizzato e sviluppato a fondo il concetto di piena accettazione e rispetto del pluralismo, del suo sviluppo quale indispensabile elemento distintivo ed irrinunciabile dei caratteri di una moderna e sviluppata società.Anche per l’indubbio rilievo di ciò tanti spunti di questa esperienza restano, ancora oggi, d’intatta attualità.

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ANTONIO BANFI

Nello scenario d’insieme, che si è tentato fin’ora per grandi linee di tratteggiare, un caso a parte sembra essere costituito da Antonio Banfi. Egli è il principale animatore della rivista “Studi Filosofici”. Banfi è un attento studioso di Hegel, è critico su Croce “il suo metodo, strettamente intellettualistico, è dogmatico, definitorio, procede per affermazioni ed esclusioni: universale concreto e singolare, arte o non arte etc”154. Fuori dagli schemi rigidi dei riferimenti esclusivi alle più alte espressioni della cultura nazionale Banfi è piuttosto un convinto cosmopolita, attento in filosofia all’insegnamento di Husserl, di cui era amico, e curioso dei tentativi, inediti, proposti da Sartre col suo esistenzialismo.155 E’ un uomo di cultura non chiuso all’indagine di alcune espressioni dell’irrazionalismo contemporaneo ed ha del marxismo una concezione assolutamente originale ed antidogmatica. Solo intendendolo in tale maniera esso, il marxismo, può essere garanzia d’azione rivoluzionaria trasformatrice del mondo, forza reale capace di esprimereintensamente- la direzione della storia in movimento ed in ascesa. Una filosofia aperta e viva, la sua –quindi-,da non intendere perciò come una dottrina chiusa, tra le altre. Ciò non deve indurre però a ritenere che- da parte sua-esistesse una sottovalutazione del rapporto che doveva essere necessariamente ricercato con le espressioni più originali e progressive della cultura nazionale. Antonio Banfi, infatti, si era posto con particolare serietà, già nel 1949, il quesito- per lui essenziale- di come trasmettere, con quale metodo e con quale contenuto, alle masse popolari, “ il tesoro tradizionale” rappresentato dalla cultura popolare.Nessuna forza autenticamente progressiva poteva prescindere da tale responsabilità in quanto la cultura andava intesa come la coscienza che una società

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in: Luciano Gruppi, ” Un convegno di studi su Banfi, “Rinascita”, 26 Maggio 1967

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umana ha di sé, del mondo in cui opera, del suo destino, della sua storia. Nel corso dei tempi essa era andata differenziandosi-a suo parere- non solo per i suoi contenuti ma per la sua struttura, per le sue forme obiettive, per i suoi valori, per una maggiore o minore organicità, universalità, unità. Una cultura, in una determinata situazione, è costituita da diverse stratificazioni., variamente affioranti, “ in un equilibrio a volte instabile con differente potenzialità di sviluppo e d’espansione, in accordo o in contrasto reciproci.Egli riflette come spesso, nell’attualità, sono rintracciabili residui del passato, a volte abbandonati, a volte ripresi e sviluppati , rivalutati su diversi piani , dalla vita quotidiana all’esperienza personale, al costume sociale. In una società di classe sempre la cultura esprime, nel pensiero di Banfi, la coscienza delle classi dominanti. Essa muta a seconda del segno datole dalla classe che né è portatrice. E’esclusiva e statica in un regime aristocratico, è diffusiva e dinamica in un regime borghese chesi pone l’obiettivo di organizzare gli altri ceti nella tecnica produttiva per il proprio stesso sviluppo storico. Si tratta allora di rintracciare,dietro ed oltre gli involucri della cultura ufficiale, le orme sopite dello “ spirito del popolo” riscoprendo la vera espressione di qualcosa che ha origine aulica e rappresenta il residuo, semplificato o corrotto, di una cultura dominatrice anteriore.Si tratta di riportare alla luce ciò che le culture dominanti hanno, di volta in volta, tentato di elidere recidendone per sempre i tratti distintivi. E’ questo un punto obbligato ed esiziale della ricerca da approfondire. I rapporti tra la cultura aulica dominante e la cultura popolare variano a seconda del variare dei rapporti tra le classi.. Il permanere o il ripresentarsi di manifestazioni frantumate, e spesso non nitidamente distinguibili, di cultura popolare è “la reazione alla cultura borghese, alla pretesa del suo assoluto ed eterno universalismo”. La cultura borghese ha agito, per Banfi, da un lato per riassorbire in sè forme ed elementi originari della cultura popolare anteriore, per supplire al perduto contatto con l’elementarità della vita e della passione.Ha teso a rompere con le tradizioni

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Utile, al proposito, la consultazione dell’agile testo- intervista di Sartre : “L’Esistenzialismo è un umanesimo”, nel quale il filosofo spiega i punti essenziali del suo movimento e la relazione di esso col marxismo

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per annullare così, in una ideale organicità, le tracce antecedenti di una sua funzione progressiva . La non casualità di questa procedure è del tutto funzionale alla creazione di gruppi dirigenti coerenti alle linee di organizzazione sociale propugnate dalla borghesia. E’ potuto così accadere che, nel rapporto tra cultura aulica e cultura popolare, a quest’ultima sono stati sempre più diffusamente sottratti aspetti, contenuti, fattori organizzativi propri.Al popolo era scientemente sottratto il proprio vivente tesoro di cultura che gli veniva restituito reinterpretato in maniera artefatta, con un senso ed un valore estraneo.. Un processo di cinica mistificazione, quindi, che delega il popolo alla “ sterilità pietosa dell’autodidattismo dilettantesco”. Tale operazione ha concorso alla determinazione della spaventosa miseria culturale del popolo.Enorme la responsabilità del confessionalismo che, nutrendosi di rassegnazione, rinuncia, umiliazione umana.. “ … costringe… a deviare fuori da ogni funzione sociale, in una cultura d’evasione, astratta, formale, ove si rispecchia … solo la debolezza e la corruzione di una civiltà sbarrata e stagnante.”Si verifica, così, che i segni dell’incultura siano ancora maggiormente rintracciabili tra le masse del Nord, quelle che, paradossalmente, dovrebbero rappresentare i punti di più alto progresso del paese.Private di un ancoraggio all’originalità delle proprie radici, non possono proporsi- adeguatamente- nella funzione di forza autonoma che- a buon diritto-avoca a sé la responsabilità della direzione degli altri ceti, il controllo ed il comando dello Stato. A Banfi sembra di potere però, finalmente, registrare un’opposizione a tutto ciò che fin’ora è stato. Sta nascendo- infatti- un nuovo movimento attorno alla classe operaia.”S’accompagna a questo movimento l’affiorare di un nuovo indirizzo di cultura, di una cultura di cui il popolo è soggetto,( di funzione) universale e organica insieme, concreta e produttiva: Ne ritroviamo lo slancio negli organismi di controllo della produzioneconsigli di gestione- comitati di cascina- nelle istituzioni di controllo amministrativo-le consulte-, nelle organizzazioni sindacali,nelle assise dei partiti,nei circoli che con quelle si connettono. Si tratta di ciò che il lavoro, nella lotta per la sua libertà, va acquisendo coscienza della sua realtà tecnico-economica, dei suoi presupposti scientifici, delle sue condizioni politiche , dei suoi fini etici, della sua realtà storica, coscienza non astratta e generica, ma concreta e operanPagina 174


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te nell’attualità. E questa coscienza , che è cultura impegnata e attiva, già tende a reinterpretare, in funzione del nuovoindirizzo, tutti gli aspetti, le forme, i valori della coscienza culturale del passato”.Egli” sa di non potere e non dovere perdere nulla , ma tutto ravvivare. Ravvivare… le energie, le forme,le strutture che già vivevano spontaneamente nella cultura popolare, che già esprimevano il suo senso collettivo, ma redente dal senso di oppressione secolare, liberate nel gioioso riconoscimento della lotta e della vittoria, avviate a diventare gli elementi di un nuovo, universale culto umano”Nella visione di Banfi avanza così una nuova “cultura umanistica nelpiù totale e radicale senso della parola, cultura realistica, riposante su un senso scientifico e storico della realtà, cultura aperta e praticamente operante, e socialmente impegnata,cultura fondamentalmente ottimistica; essa rifugge dall’astrattezza intellettualistica, sempre ricca di compromessi, dell’illuminismo borghese, sia dall’intimismo o dall’evasività idealistica, spiritualistica o irrazionalistica del nuovo romanticismo; mentre dall’altro lato realizza in una coscienza umanisticamente costruttiva, il razionalismo scientifico dell’uno, lo storicismo dell’altro”. Una nuova cultura, quindi, che non subisce ma si rimpadronisce della propria storia.Una visione innovativa, quindi, di radicale e definitiva rottura col modo d’essere dell’intellettuale tradizionale. L’intellettuale tradizionale,sostiene infatti Banfi, quando si liberi della misera boria di casta è oggi amaramente conscio della sua solitudine e della sua inefficacia, dell’isterilirsi dell’opera sua o del suo degenerare al servizio dell’anticultura. La terapia suggerita non può che essere, quindi,che il liberarsi del ,” feticcio dell’ormai sterile individualismo e .. malinconico esercizio della pura cultura”. In tal senso dovranno muoversi soprattutto i giovani. Il suo messaggio è forte, conscio delle grandi difficoltà dovute alla particolare stratificazione storica che si è determinata sul paese col trascorrere dei secoli, ma al contempo è decisamente ottimista. L’Italia ha“ in più una estrema complicazione, dovuta alla secolare vita di cultura del paese, alla differenziazioni storiche delle sue regioni e quindi alla varietà di strati culturali e alla complessità delle loro reciproche reazioni. In generale si può dire che in Italia, forse più che in ogni altro paese la cultura aulica ha svuotato- per la sua potenza e vitalità-la cultura popolare:… più nelle regioni settentrionali a regime industriale , Pagina 175


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ove la cultura superiore è a carattere tecnico-scientifico e l’istruzione elementare e meramente professionale si è più diffusa, che non nelle regioni centro meridionali a regime agricolo, ove la classe superiore è più nettamente staccata dalla plebe del contado ed ha una cultura classico- umanistica.”Acuta e circostanziata appare la ricostruzione della genesi storica della questione. “ Il problema di una cultura popolare, cioè della trasmissione dei mezzi e dei risultati della cultura superiore alle masse popolari, si pone per noi con l’Illuminismo, col Risorgimento e si continua, sotto la bandiera del Positivismo sino a tutto l’Ottocento, in nome delle esigenze di una democrazia italiana”La cultura popolare sviluppa varietà di forme espressive nell’ultimo secolo :”scuole diurne e serali, corsi di lezioni e conferenze, riviste, biblioteche… continuamente… si ripropone il problema di un’unità organica di questa cultura frammentata, di una sua vita interiore; che, strano a dirsi, le è inutilmente cercata dal di fuori, come un fine ideale, non come un’opera costruttiva”. La Chiesa, le cui responsabilità negative sono state per Banfi immense, solo nella seconda metà dell’Ottocento, orientandosi dopo una lunga crisi nella nuova situazione sociale, riconosce la necessità di intervenire,con diverse e più aggiornate metodologie, nell’ineludibile azione di formazione di una cultura popolare, di una coscienza delle masse. Con Don Bosco e i Salesiani aggiunge al catechismo ed alla liturgia l’alfabeto, la tavola pitagorica, l’esercizio professionale.Ciò peròdi per sé- non crea una nuova cultura quanto piuttosto “ una tecnicità senza radici sociali e tale da dover attingere nella religione la sua eticità” Quali sono stati i tratti dissennatamente reazionari e negativi dell’azione delle autorità ecclesiastiche e cosa è necessario fare, adesso ?” Si tratta ora veramente…di avvicinare le masse ai materiali e ai movimenti di cultura moderna. … Caratterizzano questa cultura i seguenti tratti: l’eliminazione di ogni forma di popolaresca spontaneità collettiva; la funzione non mai realmente attiva ma sempre passiva della massa; l’incoerenza del materiale prescelto con fini o di edificazione o di svago, mai d’impulso creativo; la mancanza di una linea umanistica d’eticità e la formazione , più che d’una fede, di una abitudine orgogliosa di soggezione ecclesiastica e di un costume di proselitismo fanatico. La Chiesa muove così decisamente all’offensiva : ciò che fu il secolare prodotto dello spiPagina 176


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rito laico, il contenuto della cultura moderna, essa lo sottrae al suo flusso vivente, ne spezza l’unicità dinamica, ne isterilisce gli elementi e , rielaborandone il significato in senso umanisticamente negativo, lo impone alle masse popolari non pur come zavorra, ma come arme contro il progresso laico, scientifico, storico della cultura”. Una scelta-quindi- consapevole che ha relegato le masse alla subalternità ed alla rassegnazione, per secoli e secoli. Di fronte a ciò non si può che fare in modo che “… le masse stesse popolari in movimento, guidate dalla classe operaia, organizzandosi in sempre più vaste alleanze, esprimono da sé, come coscienza della propria attività costruttrice di una società civile , in cui il processo, apertosi all’inizio dell’età moderna, abbia il suo compimento” . Gramsci- per Banfi- già avvia il disegno di una nuova cultura di popolo. Ora questa nuova cultura, di cui si avverte il bisogno ovunque,” vive e si diffonde e si realizza, sia pure in forma ancora disorganica, negli organismi di controllo e incremento della produzione come i Consigli di Gestione, nelle Consulte, nelle organizzazioni sindacali, nei circoli di cultura, nelle nuove biblioteche popolari. E’ il lavoro che… prende coscienza della sua realtà e della sua umanità; è l’uomo che vede sé e il mondo nella prospettiva della sua concreta attività. Questa è la corrente che pur divisa in mille rivi segna già la nuova direzione”.All’ordine del giorno è quindi- finalmente- il passaggio dal magma indistinto alla conquista della consapevole coscienza.Banfi pone perciò, da quanto può parzialmente ricavarsi dalle posizioni problemi essenziali e di tutto rilievo, non frontalmente contraddittori con l’impostazione ufficiale. Bisogna riconoscere “ tutta la vita e l’opera della cultura tradizionale”. Già il Calendario del popolo e l’Universale Economica segnano un successo; altre imprese differenziate per gradi dovranno seguire…. Dall’altro lato, l’arte, la letteratura, la scienza, la filosofia, le forme estreme della coscienza culturale, riscopriranno e svilupperanno per vie impensate, libere dalla cerchia di problemi artificiosamente riflessi, il momento della loro umanità, senza perdere nulla anzi accentuando col loro ardire la loro universale disciplinata chiarezza. La cultura popolare, da un essere immediato e irriflesso, è trapassata a problema, da problema trapassa qui e appare come soluzione , soluzione della crisi della cultura, compimento del processo iniziato or oltre sei secoli, nuova aperta Pagina 177


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coscienza d’una umanità che aspira a dominare la realtà e a dirigere la sua storia”. Un superamento, definitivo alla reazione cattolica , alla spinta secolare all’oscurantismo, alla prassi, consueta, di risolvere ed assorbire le feste popolari nelle cerimonie religiose, respingendone l’elemento profano, alla tendenza a sostituire con l’arte sacra “ liturgicamente stilizzata e uniforme “ che si era circondata dell’alone del miracolo, alla stilizzazione del canto sacro, al divieto dei balli pubblici e degli spettacoli popolari. Al popolo , privato di ogni cultura , è stata offerta,fin’ora soltanto l’incultura o l’anticultura : la formula catechistica, la liturgia del peccato e della morte, la desolata speranza dell’oltre tomba. Umiliata è stata la cultura popolare ricca di sofferenza, di ribellione, di ironia, di realismo, sollecitata e sviluppata dal nuovo pensiero laico che , aiutato ad esplicitarsi, deve riemergere e diffusamente affermarsi .Banfi non sembra però, in ogni caso, limitarsi alla considerazione dell’importanza, rilevantissima, di questa riflessione e propugna la necessità di ampliare ulteriormente gli orizzonti della riflessione e dell’ azione culturale. L’insieme di riflessioni proposte si ricavano dai suoi fitti articoli, apparsi su “ Rinascita” mensile, nel 1949.156 Con tale modo d’ approccio è evidente che Banfi, con la sua scuola, si dimostra aperto a considerare come necessario e positivo anche lo sperimentalismo e l’approfondimento di nuove forme del pensiero europeo quali la fenomenologia, l’esistenzialismo, lo stesso neo kantismo. Singolare il richiamo, da lui esplicitato in sintonia con Concetto Marchesi, al formidabile problema rappresentato dalla ricerca scientifica e sperimentale.. Qui non si è levato abbastanza forte, per lui, il grido della protesta contro la inconcepibile insufficienza dei mezzi finanziari destinati a un’attività che dovrebbe essere di massimo rendimento su tutta l’area della vita sociale.Egli auspica, perciò, un rapido riequilibrio della spesa statale capace di porre rimedio ai fattori distruttivi rappresentati dal fatto di aver nettamente ed esclusivamente privilegiato solo le scuole classiche,: i ginnasi e i licei che hanno dominato nelle sfere della grande, della media e della piccola borghesia. E hanno preparato la tragedia del ceto medio

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Temi da Banfi affondati a proposito di “ cultura popolare”, annata “ Rinascita”1949.

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italiano, il quale nelle sue case prolifiche e impoverite ha lo studente universitario o il diplomato o il laureato e non ha il tecnico, il meccanico, l’artigiano, l’operaio qualificato. Così accade che il flusso di laureati, osserva con amaro raccapriccio, ha già cominciato a impantanarsi in una immensa palude di gente sommersa dalla crisi economica e sociale .Inutile dire che Togliatti, sugli ultimi aspetti delle tesi e delle impostazioni, appena ricordate, di Banfi mostrerà una fiera opposizione, contestando la bontà di tale impostazione, negando la necessità dell’approfondimento e dell’aggiornamento con la cultura europea ed americana democratica. Con secchezza tale linea sarà da Togliatti interpretata come qualcosa che è del tutto estraneo all’idea di sviluppo della cultura italiana come “cultura nazionale” e per questo motivo completamente respinta e bollata. “Il gruppo di Banfi, ricorderà Rossana Rossanda, “…anch’essi fuori da una filiazione diretta e reale del contesto nazionale, piuttosto medioeuropei che “figli d’Italia”157. Si assisterà così al persistere di una secca opposizione ed a tentativi- ripetuti ed anche espliciti-di autentica emarginazione. Molte ed evidenti appaiono le similitudini dell’atteggiamento usato verso Vittorini nello stesso caso di Banfi, anche se si deve constatare che, a differenza dello scrittore siciliano, mai Banfi arriverà alle conseguenze estreme di recidere, né contingentemente né in via definitiva, il rapporto col Partito.

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Rossana Rossanda “Il Contemporaneo”, 28 Agosto 1965 art. ”Togliatti e gli intellettuali italiani: unità politica e scelte culturali”

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“NORD E SUD”

Un’altra importante esperienza culturale nel panorama del tempo storico, politico e letterario che stiamo esaminando è la rivista meridionale “Nord e Sud”. Essa, che è apparsa a Napoli, ha tutt’altra ispirazione in quanto presenta una propria identitaria singolarità che la distingue dal panorama d’insieme prevalente in pressochè tutte le altre riviste di cui, fin’ora, ci siamo occupati, nettamente orientate comunque (ad eccezione del “ Mondo”) a sinistra. Francesco Compagna e Giuseppe Galasso, assieme a Vittorio De Caprariis, sono i principali animatori di un’intervento culturale destinato invece a caratterizzarsi, immediatamente, nel senso del raccordo e del legame con la specificità della tradizione liberale e democratica. La rivista si pone, da subito, l’obiettivo di sviluppare un’azione sistemaica e certosina, tesa ad aggregare intellettuali che si riconoscevano nella linea della tradizione liberaldemocratica individuando strumenti di coesione culturale omogenei prima di affrontare l’intervento politico. In ogni caso essa non poteva pensare di prescindere, nell’impresa culturale che si accingeva ad intraprendere, dall’assumere il marxismo- nelle sue variegate versioni interpretative italiane- quale privilegiato e diretto interlocutore. In questo confronto, naturalmente, essa andò a caratterizzarsi, sempre più precisamente, nel progredire della sua esperienza, come un aggregato che indulgeva a rimarcare specificità e distinzioni rispetto al variegato arcipelago delle riviste che si riferivano alla sinistra storica ed, in specie, al Pci. Forte ancoraggio agli ideali liberal-democratici, contestazione della posizione di “fiancheggiamento” degli intellettuali che, politicamente, si riferivano al pci, netta contestazione di un’idea di Stato e di Società ritenuta autoritaria ed ostativa alla libertà e perciò mal conciliabile con la visione- di tutt’altro segno- degli animatori di “Nord e Sud”. Non può pertanto stupire come la rivista, col passare del tempo,arrivi a sfumare, decisamente, i propri originari contorni per identificarsi. -fornendogli legittimazione culturalecon le scelte politiche maturate all’interno delle formazioni governative del Pagina 180


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tempo. Nella seconda fase…la rivista fu impegnata nella preparazione, nella costruzione prima, nel supporto intellettuale poi, del centrosinistra. Il legame col meridionalismo democratico diventava ancora più stretto. Nel progetto culturale dell’industrializzazione del Sud acquistavano un primato decisivo le teorie dello sviluppo e della modernizzazione. Questa azione progredirà a lungo prima di concludersi con una svolta ed una crisi profonda alla fine degli anni 60 ed agli inizi degli anni 70 quando il processo espansivo dell’economia nazionale e meridionale mostrerà più platealmente, rispetto a quanto poteva essere chiaro negli anni precedenti, i suoi fattori di gracilità e contraddizione. “Nord e Sud” svolgerà una funzione simile- sebbene non identica- a quella del”Mondo” di Mario Pannunzio. In reazione alla linea storicistica dei marxisti italiani ufficiali si contrappone – nel progetto originario-un’orgogliosa difesa dell’insostituibile funzione di Benedetto Croce. E’ possibile, in conclusione, sostenere che “Nord e Sud” ha costituito in quegli anni uno dei più incisivi tentativi di contrasto all’affermazione totale dell’egemonia culturale, delle linee di tendenza ed interpretative del marxismo tra i gruppi intellettuali più incisivamente impegnati nella storia della cultura dell’Italia. Essa mostrerà, in più di un’occasione, un diverso acume ed un più forte realismo, suffragate da un’analisi più circostanziata, quando- diversamente dagli intellettuali d’ispirazione marxista- individuerà l’esistenza di possibilità espansive del capitalismo nazionale le cui manifestazioni organizzative segue con accurata attenzione. Aprirà altresì, senza equivoci, un largocampo d’osservazione, sui piani più specificamente culturali, verso discipline come la psicologia, la sociologia, il diritto pubblico, la demografia, l’antropologia aspetti questi assai spesso restati ai margini delle scelte tematiche e dell’elaborazione dei gruppi intellettuali della sinistra marxista. Il tutto, evidentemente, combinato con l’inequivoca scelta di campo, più generale, , nella quale traspare l’indiscutibile propensione per modelli sociali ed economici giudicati migliori, più democratici ed espansivi come quelli proposti dagli USA. Pagina 181


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Solo più tardi la compattezza originaria del gruppo dei fondatori mostrerà crepe e fratture che porteranno anche a definitive separazioni. L’ideologia crociana dello sviluppo progressivo e senza traumi, di una rassicurante rappresentazione della storia umana come storia della libertà si infrangerà infatti in relazione all’esplodere di crisi quali la fine del colonialismo, l’avanzamento dei paesi in via di sviluppo con le conseguenti diverse ridefinizioni degli equilibri geopolitica mondiali e, soprattutto la deflagrazione rappresentata dalla guerra del Vietnam che, davanti al mondo, metteranno in crisi, con l’immagine degli Stati Uniti, i modelli di riferimento ai quali, di frequente, con l’esercizio di un’ autonomia obiettivamente assai limitata in Italia, si erano ispirati i redattori di “Nord e Sud”. “Nord e Sud”manifesta forte attenzione alle dinamiche internazionali, con le loro periodiche mutazioni, ed alle scelte di campo da perseguire. Le sue opzioni di schieramento generale sono più nette ed esplicite. La rivista appare propugnare e sostenere, con decisione, l’apertura di una fase politica nuova, destinata ad aprirsi con l’inedita predisposizione di una politica di alleanza organica tra DC e PSI. La lettura poi proposta dello sviluppo della società italiana appare più fiduciosa ed ottimistica. Vengono respinte visioni di mera negatività della fase economica e dei tratti di caratterizzazione del nuovo sviluppo- contestati dalla sinistra estrema. . Una rivista schierata che contesta, in sintesi, l’arcaicità e la fissità di un’analisi che è, in più punti, la riproposizione adialettica della lettura gramsciana, soprattutto per quanto attiene alla situazione del Mezzogiorno d’Italia. Impraticabile appare, alla luce della nuova situazione,in questa visione politica e culturale, l’ipotesi della prefigurazione di un’alleanza tra operai del Nord e contadini meridionali. “Nord e Sud” rimproverava anzi al PCI ed alla stessa CGIL il fatto di aver privilegiato le rivendicazioni delle “baronie proletarie del nord” rispetto agli interessi dei lavoratori dei campi oltre che, ovviamente, quelli dell’insieme del paese. Questi sono, per “Nord e Sud”, i fatti concreti nel mentre la politica del PCI verso il Sud- a suo avviso- è solo propagandistica ed è perciò inincidente, vacua ed inefficace, sostanzialmente subalterna ed antistorica. Pagina 182


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Il prosieguo delle vicende economiche e politiche del Paese evidenzierà, però, negli anni a venire, crepe e contraddizioni per nulla prima prevedibili agli animatori di “Nord e Sud”. L’indubbio processo di sviluppo, avviato negli anni 50 e destinato a sfociare nel boom economico, si va a combinare, infatti, con l’emersione di antiche ed irrisolte contraddizioni destinate a deflagrare alcuni anni più avanti e tali da mettere in discussione, seriamente, l’affidabilità dei riferimenti generali internazionalmente e razionalmente assunti. Prima le difficoltà interne alla formula di centro sinistra, una qualche palese incapacità nel mantenere la compattezza del blocco politico- sociale cui si fa riferimento, quest’insieme di fattori non risulteranno ininfluenti nel determinare una caduta della sua capacità d’incidenza e del suo stesso prestigio. L’ambizioso progetto di costruzione di una nuova e diffusa egemonia, di segno diverso da quella espressa dalle forze intellettuali di sinistra, dimostrerà così di avere in sé una evidente difficoltà di progressione espansiva, di aggregazione e di coesione.

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MARIO ALICATA

Personaggio destinato in breve a divenire dirigente di altissimo rilievo all’interno della nomenclatura comunista, è passato attraverso l’esperienza fascista diventando organicamente crociano. Abile oratore- con un’inestinguibile forza polemica- è entrato nel 1940, giovanissimo, nell’organizzazione clandestina del PCI. E’ tra quanti auspicheranno -con maggiore decisione-, come ricorderà Natalino Sapegno, il passaggio alla lotta armata ed alla guerra per bande. Alicata è uomo dal temperamento focoso ed intransigente, di grandissima intelligenza e cultura, un elemento di primissima qualità del tutto idoneo a sviluppare, in posizione d’avanguardia, l’azione di divulgatore e difensore della linea di politica culturale propugnata da Togliatti, spesso addirittura ancora più efficace ed incisivo del capo nell’esercizio del contraddittorio e dell’azione polemica.Calabrese,incarna in sè l’espressione più tipica di ciò che si intende per “intellettuale organico”. E’ uno dei principali esponenti di quella parte della direzione del Partito chenel periodo della guerra- è restata in Italia, battendosi sempre sul “fronte interno”. Orgoglioso ed aggressivo nella polemica in specie quando rivendica il coraggio delle sue scelte personali nello schierarsi sul terreno della lotta mortale al fascismo ed al nazismo, assolutamente ed integralmente fedele al Partito ed alla sua funzione storica è capace di un’instancabile mole di lavoro. Ha una lucidità eccezionale riuscendo, dall’alto della sua straordinaria cultura e della sua rigorosa formazione, a cogliere, con immediatezza, il nesso ed il rapporto tra la specificità del singolo problema e la questione più ampia e generale di riferimento. Critico letterario, specialista in cinematografia, appassionato di Filosofia e di Storia, discute alla pari con Togliatti.Il suo prestigio e la sua autorevolezza crescono al punto da far pesare, spesso in maniera decisiva, il contenuto

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dei suoi interventi che non lesina in materia di “battaglia delle idee”158 Alicata incarna plasticamente in sé l’azione e la lunga lotta d’opposizione sviluppata dal Pci all’indomani del 18 Aprile 1948. E’ suo il primo richiamo ai militanti sul fatto che la fase che è cambiata evidenzia la durezza della lotta tra le classi, è sua l’intransigente chiamata a raccolta delle forze di resistenza contro visioni semplicistiche e perciò ideologiche facilmente e gratuitamente ottimistiche.Da lui parte l’allarme più incisivo sul rischio, concreto, di un clima da Controriforma cui tende un blocco spregiudicatamente antirazionalista per scacciare all’indietro lo sviluppo del paese.Esplicativo il suo articolo : “ Una linea per l’unità degli intellettuali progressivi”159 In esso si rileva anzitutto come gli intellettuali italiani stiano dando un importante contributo “ alla lotta per la difesa della pace,dell’indipendenza nazionale,per il rinnovamento democratico del nostro paese”. Nell’intervento diffusamente percepita appare l’espressione del fermento di vita “ che rianimò,negli anni della resistenza edella guerra diliberazione gli intellettuali italiani, che infranse tante torri d’avorio e spalancò i cancelli di tante Arcadie, che ripropose con violenza, come nei tempi del Risorgimento, il problema della costruzione di una cultura nazionale e popolare del nostro paese”, ed esso “non si è affatto spento e anzi lievita in profondità…”. “Furono i tempi quelli in cui ogni narratore non mancò di scrivere un racconto avente per tema la resistenza, e ogni poeta di dedicare una lirica ai partigiani; in cui un contenuto nuovo, della stessa sostanza, fracassò su nolte tele le bottigliette di Morandi e riportò sulla terra, a riempirsi di figure umane più o meno energicamente realiste,i volumi astratti da Marino Marini; furono i tempi in cui molti scienziati, storici, filosofi si ingegnarono a risciacquare il proprio vocabolario idealistico nel grande fiume del marxismo, appena riaffiorato alla superficie dalle zone sotterranee in cui Benedetto Croce e Mussolini per tanti anni avevano creduto di costringerlo, furono i tempi in cui tutto ciò che non era propriamente “ dialettica dei distinti”- fosse poi esistenzialismo, neo-realismo,

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proprio col titolo :” La battaglia delle idee” sono raccolti vari suoi scritti e recensioni pubblicati dagli “ Editori Riuniti”nel 1968. 159

“ Rinascita ” mensile 1948

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neo kantismo, empiriocriticismo, riverniciato, poco importava- si cercò di farlo passare per “ rivoluzionario”, per “ attuale”, e –dunque-per “ marxista”. “ tutto ciò favorì, talvolta quasi involontariamente…quello che era un moto istintivo,un effetto del profondo slancio di rinnovamento che aveva scosso fin dalle fondamenta, e per sempre, la vecchia società italiana reazionaria, bigotta, oscurantista, quello che era un atteggiamento naturale di polarizzazione degli interessi della grande maggioranza degli intellettuali italiani verso la classe operaia che, con la sua capacità politica, il suo spirito di combattimento e di sacrificio, la sua esperienza organizzativa, aveva saputo affermare concretamente la propria funzione storica di classe dirigente…”. Ora l’ambiente e la situazione non è più identica agli anni 1944-46. “ la cultura non è mai stata, e meno che mai è oggi, l’aggregato “ spontaneo” delle attività e dei prodotti intellettuali di più individui singoli sia pure …” condizionati” dalla società in cui vivono e si sviluppano : la cultura è anch’essa una forma di organizzazione, anzi la forma superiore di organizzazione della classe dominante”. Così, approfondendo l’indagine Alicata può sostenere : “ Anche la borghesia del nostro paese sta compiendo un tentativo estremo per riorganizzare in senso reazionario la mcultura italiana, per trasformarla ancora una volta in una efficiente barriera ideologica contro il marxismo, per metterla ancora una volta sul piede di guerra…”. Questo tentativo rappresenta il sintomo più evidente della differenza dalla situazione degli anni appena precedenti. L’inasprirsi internazionale del contrasto di classe ha poi concorso ad introdurre, anche tra fasce di intellettuali progressivi, alcune perplessità ed esitazioni. Ed anche veri sbandamenti ideologici. Molti autori si trovano a dover fare i conti col proprio linguaggio “ di cui poi non è sempre possibile sbarazzarsi d’un tratto come di una camicia logora..a meno che non si voglia poi ridursi ad andare a torso nudo, cioè, nel nostro caso, rinunciare a scrivere, a dipingere, a scolpire; molti scienziati si sono trovati di fronte alla propria formazione culturale che è quella consentita in un Paese dove la Chiesa ha provveduto a sbarazzarsi in loco dei Campanella, dei Bruno, dei Galilei nel modo che sappiamo”.Finalmente, ora, c’è un riferimento teorico e culturale autorevole, serio, efficace , Antonio Gramsci che, nei suoi appunti sulla “Questione Meridionale” ha, tra l’altro, sostenuto che “ Gli intellettuali si Pagina 186


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sviluppano lentamente, moltopiù lentamente di qualsiasi altro gruppo sociale, per la loro stessa natura e funzione storica.Essi rappresentano tutta la tradizione culturale di un popolo, vogliono riassumerne e sintetizzare tutta la storia… Pensare che essi possano, come massa, rompere con tutto il passato per porsi sul terreno di una nuova ideologia è assurdo”. Allora“ In primo luogo ..è necessario non sopravvalutare, drammatizzare, l’importanza delle resistenze e delle incomprensioni che, su questo o quel problema specificamente culturale, possiamo incontrare fra gli intellettuali a differenza di quanto… sembrava magari accadere due anni fa, e di conseguenza sottovalutare l’importanza dell’avvenuto schieramento di vasti strati di intellettuali nella lotta, per esempio, in difesa della pace; in secondo luogo che non dobbiamo cadere nell’errore di credere… che i nostri rapporti coon gli intellettuali possano essere stretti soltanto, o almeno prevalentemente, sul nostro terreno ideologico, sul terreno del marxismo”. “…il blocco borghese clerico-reazionario…sta rivelando ancora una volta la grinta rozza e ottusa propria delle vecchie classi dominanti italiane”.” Questi esempi…non danno tuttavia un quadro neppure approssimativo della situazione che si sta venendo a creare nel campo specifico della cultura,…tra gli intellettuali italiani…attraverso la favorita crisi di certi determinati istituti di ricerca scientifica e il controllo clericale istaurato sopra altri di essi, attraverso il monopolio che il blocco clerico-reazionario si è accaparrato della stampa non soltanto quotidiana e che, unito alla scomparsa di tanti fogli di opinione e di tante riviste e rivistine culturali , sta stroncando ogni possibilità di manifestazione di pensiero indipendente”.Alicata è

ancora l’ispiratore

all’azione paziente, costante, sistematica per la creazione del più ampio, largo e consapevole fronte di resistenza e di opposizione delle forze più avanzate , nel quale possano essere raccolte tutte le espressioni più progressive che, nel paese, si esprimono tra gli intellettuali italiani. E’ancora suo il richiamo alla decisività del grande compito storico che dovrà assumere, negli anni a venire, per l’organizzazione di classe proletaria e per i combattenti in essa impegnati, la lotta in difesa della libertà della cultura e della parte migliore della tradizione e della storia nazionale. Il dirigente comunista sollecita, soprattutto per tutto ciò che concerne l’azione da sviluppare sul fronte della cultura e della battaglia Pagina 187


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delle idee, a non chiudersi in sé stessi ed al contempo a non essere settari.A suo giudizio vanno evitati indistinti eclettismi non rinunciando, mai, ad esprimere e difendere il coraggio delle proprie posizioni. Suo il fermo e fiero richiamo ad interpretare il marxismo in maniera creativa, non come sistema chiuso e dogmatico, “testo sacro moderno”, ma come riferimento teorico nel quale far confluire, stabilmente, tutti i fermenti della parte progressiva della cultura italiana pregressa nella parte che appare utile a costituire fattore di formazione, educazione e crescita del livello di consapevolezza e di coscienza del popolo. Il Marxismo è, per Alicata, metodo e dottrina superiore che può consentirsi il confronto, in maniera vincente, con ogni altra forma di espressione culturale, storica, filosofica. Il nostro compito non è “ chiuderci in sé stessi” ma di continuare a lavorare per costruire un fronte della cultura il più ampio possibile che comprenda anche tutte le correnti e manifestazioni progressive di pensiero presenti tra gli intellettuali italiani , ma anche “ tutti coloro i quali- se pure fermi su posizioni più arretrate- non sono disposti tuttavia a veder sacrificare non dirò la libertà della cultura, ma certe tradizioni della cultura italiana, che fanno tutt’uno con la vita e la storia stessa della nostra nazione” mettendo in moto tutte le forze intellettuali che nella politica di sfruttamento dei lavoratori e di guerra “ possono ormai concretamente scorgere un arresto ed anzi un involuzione dello sviluppo moderno della società italiana” verso problemi come l’indiìustrializzazione,

la

trasformazione

dell’agricoltura,

la

lotta

all’analfabetismo, il rinnovamento democratico del Mezzogiorno.Gli intellettuali comunisti siano fulcro e cemento di questa alleanza e non svolgano tale ruolo come “ propagandisti settari dui una dottrina” ma come forza capace di assolvere alla funzione di mobilitazione democratica e nazionale che loro compete. Le posizioni e le tesi rapidamente richiamate confermano la grande centralità della funzione di Alicata nell’individuazione e definizione dei principali tratti della politica culturale comunista in quegli anni. Tale impostazione non costituisce una novità assoluta in quanto Alicata, già nel 1941, ha tracciato la strada al realismo in stile nazionale quando ha affermato di credere nell’arte che VerPagina 188


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ga esprime ne “I Malavoglia “ed in “Mastro Don Gesualdo” suggerendo ai cineasti stessi di muoversi all’interno di una rappresentazione di ambienti “umani” cercando cose e fatti in uno “spazio di realtà”.Egli insiste, poi, sulla riscoperta del De Sanctis e vede molto di buon grado il fatto che le case editrici Einaudi e Laterza saranno impegnate a ripubblicarne le opere.Alicata apprezza di De Sanctis in particolar modo la “critica militante”, la capacità di rappresentazione artistica dei sentimenti delle masse.Sostiene perciò la tesi che è il marxismo ad arricchirsi con la contaminazione col desanctismo160. Meridionalista convinto sarà anche animatore, con Giorgio Amendola e Francesco De Martino, della rivista mensile “Cronache Meridionali”.

160

Aiello, op. cit pp. 351–354

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“CRONACHE MERIDIONALI”

Su piani distinti e paralleli da “ Nord e Sud” tenderà a muoversi una Rivista nata a Napoli nel 1954, destinata a vivere fino al 1964, ”Cronache Meridionali”. Diverso il ruolo e la funzione dei suoi animatori che, a differenza di “Società”, sono, nella quasi totalità, militanti e dirigenti politici del PCI e, in parte minoritaria, del PSI. Giorgio Amendola, Mario Alicata, Mariano D’Antonio, Abdon Alinovi, Gerardo Chiaromonte, Ignazio Delogu, Pietro Grifone, Giorgio Napolitano, Pietro Valenza, Rosario Villari sono tra i maggiori animatori del tentativo di avviare una discussione ed un confronto per mettere al centro dell’attenzione e delle scelte dell’azione del Governo Nazionale le questioni essenziali dell’Italia Meridionale viste acutamente ed anticipatoriamente, sulla base dell’insegnamento di Dorso, Salvemini, Gramsci, come questioni decisive per lo sviluppo o la decadenza di tutto il Paese. La rivista si propone di tratteggiare le linee di impegno politico e culturale individuando- come discrimine-l’esigenza di un nuovo ed aggiornato meridionalismo. Il taglio d’impostazione è, immediatamente, caratterizzato dal rapporto con la contingenza della battaglia politica. Nell’editoriale non firmato,dal significativo titolo: “L’Umanità ad una svolta”161si insiste, con particolare incisività ed efficacia, sul dato che il popolo italiano deve accrescere la propria consapevole coscienza che una eventuale terza guerra mondiale sarebbe un’immane deflagrazione che condurrebbe, senza alcun dubbio, alla fine di tutta l’umanità. E’ perciò indispensabile agire, qui ed ora senza alcun indugio, per impedire un eventuale conflitto di tali immani dimensioni bloccando preventivamente tutte le forze che, irresponsabilmente, sembrano voler tendere in quella direzione dopo aver dato ripetute prove di “

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“ Cronache meridionali”, n.5 del Primo Maggio 1954.

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provocazioni” in Corea, a Berlino, in Indocina. Di converso, si dichiara di apprezzare e sostenere la coerente politica di distensione e di pace dell’Unione Sovietica, della Cina Popolare e di tutti gli Stati di “nuova democrazia”. Contro il concreto rischio dell’impotente rassegnazione si sostiene che niente è impossibile. La catastrofe nucleare può infatti essere fermata con una grande mobilitazione di tutte le coscienze libere e democratiche ed è necessario, come ha suggerito Togliatti,l’impegno di ognuno per far crescere la fiducia del popolo nelle proprie forze.Si è potuto d’altronde tangibilmente constatare come le grandi lotte, sviluppatesi negli ultimi anni nel Mezzogiorno e dirette dal movimento dei Partigiani della Pace, abbiano consentito il raggiungimento di importanti risultati in quanto, in collegamento con altre decine di milioni di uomini in Europa e nel Mondo, si è ampliata e consolidata la grande azione unitaria per la salvezza del genere umano e di tutta la civiltà. Questa mobilitazione, estesissima, ha dato particolare forza a movimenti e ad individui che non intendono “ rassegnarsi ad una prospettiva di distruzione e di regresso, ma credono nell’uomo, nel suo passato storico e nel suo avvenire”. Da ciò ne deriva che bisogna rinsaldare l’unità tra tutti i distinti e variegati soggetti che sono espressione delle specificità della situazione territoriale meridionale. Quest’area appare segnata da profondi fenomeni innovatori e da fermenti ben rappresentati dalla mozione parlamentare che, presentata dal deputato socialista Berlinguer, è riuscita a fare condividere, in maniera diffusamente unitaria, il voto in cui si auspica l’interdizione definitiva delle armi atomiche e termonucleari. Il testo, in ogni caso, ha anche precisato che va battuta la “ ripugnante” campagna che continua ad inneggiare agli “ ideali” colonialisti.Si sostiene ancora che bisogna definitivamente sconfiggere tutte le posizioni oltranziste interne ed internazionali di “ legittimismo colonialistico” bloccando chiunque intenda allargare ulteriormente i focolai di guerra già accesi in Asia e “ riscaldare” la guerra fredda in Europa. La rivista auspica, infine, un’ampia intesa col mondo cattolico che in Italia si presenta “ in tutta la sua complessità e varietà”. Il problema della Guerra e della Pace va affrontato, per quanto fin’ora è stato sostenuto, in

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maniera del tutto diversa dal passato.Si insiste, perciò, nell’urgenza di organizzare un movimento popolare e politico di estrema estensione e di forte consapevolezza che si batta con continuità e tenacia quotidiana, che sia capace di mobilitare , al fianco dei Comitati dei “Partigiani della Pace”, i partiti popolari, i sindacati, le associazioni contadine, tutte le organizzazioni e tutti coloro che non credono né che “ la civiltà sia quella dei colonialisti di Bien Den Phu”, né che “ la civiltà si possa in ogni caso difendere continuando ad avanzare sulla strada degli imperialisti che vorrebbero affidarne le sorti ad un duello a base di bombe atomiche e termonucleari”. Interessante notare come, alla vita della rivista partecipino, periodicamente, uomini di formazione socialista come Oreste Lizzadri, Rodolfo Morandi, Giacomo Mancini oltre allo stesso Vittorio Foa. Il gruppo originario sembra volersi muovere da direzioni incrociate che tendono a convergere verso l’obiettivo di creare una nuova ed autorevole classe dirigente nel Mezzogiorno. La pressoché totale estraneità di quest’area del Paese ai processi dolorosi e sanguinosi della Guerra di Liberazione Nazionale, il consenso maggioritario attribuito nel Referendum del 1946 alla Monarchia e non alla Repubblica hanno evidenziato le difficoltà e le resistenze all’incidenza della sinistra in quest’area geografica. Eppure dal Mezzogiorno d’Italia non si può prescindere essendo, esso, il Sud, decisivo per l’attuazione di un progetto democratico e progressivo di una efficace unificazione nazionale. In quest’area geografica particolarmente complessa, densa di problemi e di irrisolte contraddizioni, riappaiono frequentemente le suggestioni di contrapposizione e separatismo. Si rimarca anche l’ estraneità ad un momento di passaggio storico di grande rilievo quale quello all’avvio della fase dell’Assemblea Costituente. Perché tale distanza e queste distinzioni? Il metodo di lavoro scelto dagli animatori di “ Cronache Meridionali” tende piuttosto a privilegiare un’azione di approfondimento sul piano di una più accurata indagine conoscitiva della composizione economico-sociale del Mezzogiorno e delle tendenze di modificazioPagina 192


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ne degli assetti economici, già in atto, piuttosto che indulgere, almeno nella fase iniziale della vita della rivista, sulla costante azione per rinsaldare unità e collaborazione tra forze politiche d’ispirazione popolare. Nel procedere del lavoro di elaborazione però si sottolinea che una nuova attenzione a questa dimensione dell’azione politica deve rispondere all’esigenza di impedire l’ulteriore consolidarsi di un potente blocco politico e sociale, di ispirazione conservatrice e reazionaria, che può far pericolosamente indietreggiare- ulteriormente- tutta la situazione sia per quanto concerne la condizione materiale delle masse povere, in specie bracciantili e contadine, che il loro peso generale nella realtà del Mezzogiorno e nel Paese. “Cronache Meridionali” si caratterizza, in tutta evidenza, per il tentativo di stabilire forti intrecci e relazioni con le iniziative sociali che sono già in movimento nell’azione d’opposizione contro la situazione di arretratezza e di degrado economico, culturale, sociale.La rivista tenta di essere un solido riferimento per tutte le lotte operaie e popolari che si sviluppano in difesa del salario, per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli operai, dei contadini e braccianti meridionali, per affermare il loro diritto alla tutela della salute, alla previdenza ed all’assistenza, per ottenere il riconoscimento dei risarcimenti per infortuni e malattie professionali. A tale proposito si sollecita L’Inail ad un’azione più forte a tutela dei braccianti. Si ricorda che nel Comune di Banzi, in Provincia di Potenza,si è giunti ad un accordo tra la federbraccianti e L’Associazione Provinciale Agricoltori, nel quale è previsto che i datori di lavoro, che intendono far pernottare in campagna i lavoratori, devono provvedere al fatto che essi possano sostare in locali asciutti e mantenuti puliti, all’interno come nelle immediate vicinanze. Se non sono in condizione di fare ciò devono, alternativamente, fornire l’indennità di trasporto. Se è la proprietà a fornire i mezzi di trasporto essi devono essere in perfetta efficienza. Puntuale e costante è l’azione di “ Cronache Meridionali” in difesa del lavoro e contro i licenziamenti di migliaia di lavoratori causati dallo smantellamento delle fabbriche.Dalla lettura della rivista emergono,in modo prevalente, i richiami alla realtà metropolitana di Napoli,ma pur tuttavia l’orizzonte d’impegno politico e

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civile si distende per l’intero ambito di tutte le regioni e le province del Mezzogiorno.Si intende in tal modo sottolineare un proprio carattere ed una propria identità non municipalistica ma meridionalistica,una consapevole coscienza del fatto che dal modo in cui si affronterà l’intero problema del Mezzogiorno si segnerà , in negativo o in positivo, la più generale prospettiva dell’insieme della Nazione.Una particolare attenzione è data al modo in cui si utilizzano le ingenti risorse economiche e finanziarie destinate al Mezzogiorno. Si cerca di stabilire un accorto controllo politico sulla qualità e l’efficacia sociale delle risorse impiegate.Frequente è, in questo contesto, il richiamo all’urgenza di attivare tempestivi confronti e specifiche commissioni d’inchiesta parlamentare in tutte le circostanze in cui risulti palese il fatto che, lungi dal produrre un salto di civiltà nella qualità dei servizi primari alle persone, migliorando la scuola, la sanità, i servizi comunali, l’assetto idrogeologico delle regioni meridionali più esposte ai rischi di frane ed alluvioni, questo fiume di danaro è servito per continuare ad avvantaggiare i ceti ed i gruppi politici locali, legati alla democrazia Cristiana. In realtà si dimostra in maniera in equivoca come,di frequente, i gruppi che a quel partito si riferiscono-con l’uso discrezionale del danaro pubblico- hanno agito per fare prevalere l’interesse di parte su quello di tutto il popolo meridionale. Indicativa è, al proposito, l’interpellanza del deputato calabrese Francesco Spezzano, in cui si denuncia come tutti i funzionari della Cassa di Risparmio siano stati mobilitati per la campagna elettorale dell’onorevole Antoniozzi, figlio del direttore della Cassa di Risparmio. Gava, il ministro, ha dichirato di non essere competente sull’argomento sollevato. Un particolare impegno si sviluppa anche in direzione della richiesta di maggiori fondi governativi in difesa del suolo e contro le calamità naturali, per accrescere ruolo e funzionalità di tutte le strutture di prevenzione create per prevenire i periodici, devastanti disastri ambientali che, periodicamente, colpiscono le aree meridionali, particolarmente calabresi. Il 15 Aprile 1954 si è tenuta a Napoli, presso i locali della Camera Confederale del Lavoro, l’assemblea del Comitato Nazionale per la Rinascita del MezzoPagina 194


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giorno. Nella relazione Giorgio Amendola ha tracciato i principali punti di programma. Amendola ha anzitutto insistito sulla richiesta di Pace, indipendenza, libertà, rispetto della Costituzione repubblicana. Ha sollecitato l’urgenza di un’effettiva riforma fondiaria,con l’esproprio di tutte le proprietà superiori ai 100 ettari, la riforma dei contratti agrari, con la loro trasformazione di tutti i contratti esosi e precari in contratti ad equo canone. Ha richiamato la necessità urgente di un’accelerazione dei processi d’industrializzazione del Mezzogiorno, con l’immediato pagamento dei danni di guerra,ha sollecitato una nuova politica del credito, più favorevole che, pur promessa, non è stata fin’ora mai applicata.Ha proposto infine la nazionalizzazione immediata dell’IRI e della SME, la riforma del Banco di Napoli; Un’azione concentrata, in 5 anni, per trasformare l’ambiente meridionale , con l’esecuzione dei piani di bonifica e di trasformazione fondiaria,dei piani di sistemazione montana e di rimboschimento, dei progetti di estensione e ammodernamento della rete ferroviaria e stradale; l’aumento di salari e stipendi; il rispetto dei contratti di lavoro e delle leggi previdenziali ed assistenziali; una politica di costruzioni edili capace di eliminare la vergogna dei tuguri, una legge organica per l’assistenza sanitaria gratuita per tutti i cittadini poveri; un grande piano di costruzione di scuole e la sistemazione dei maestri per un ‘effettiva lotta all’analfabetismo. Pur rimarcando l’opposizione alla Cassa del Mezzogiorno, Amendola ha sostenuto la volontà di dare un contributo al “ nuovo corso” dando particolare risalto all’aspetto dell’accelerazione dell’industrializzazione. Bisogna però, a suo giudizio, prestare grande attenzione alle suggestioni di chi è intenzionato a fare rinascere, sotto l’ombrello della Cassa,il fronte dei ceti possidenti ed un’alleanza clerico- fascista, incline all’uso della violenza contro i lavoratori e pronta , verso il Sud, ad una nuova politica coloniale; Deve essere contrastata l’azione perniciosa di chi intende trasformare la Cassa del Mezzogiorno in centro di affari e corruzione.L’industria deve essere legata, però, ad un piano preciso di lavori di pubblica utilità, alla diffusione d’acquedotti. Lungi dal ridursi, il divario del Sud dal Nord del Paese si è incrementato e la lotta per il riscatto del Mezzogiorno deve raccogliere tutte le forze disponibili a battersi per la Ri-

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nascita, per il rinnovamento democratico, politico e sociale. Non si deve quindi sviluppare una lotta parcellizzata e neocorporativa ma un’azione in cui sia netto ed esplicito l’orizzonte nazionale generale di unificazione e di progresso. Una lotta di civiltà e di libertà, quindi, che deve-necessariamente- passare anche per l’aumento dei salari e degli stipendi dei lavoratori,ancora bassissimi, con contratti di lavoro e norme previdenziali sistematicamente violati, in spregio alla Costituzione. Un progresso è possibile se, anzitutto si salvaguarda il bene primario ed indisponibile della Pace. Il grande problema del soffocante potere del latifondo e della proprietà assenteista, il fenomeno mafioso, l’arretratezza culturale, l’enorme diffusione dell’analfabetismo, una concezione – non scardinata- della scuola come struttura decisiva che deve restare di classe e non popolare, il ruolo oscurantista delle forze ecclesiastiche, un’antica storia di ostilità antiunitaria e di ricorrenti cicliche esplosioni di fenomeni d’ispirazione sanfedista vanno configurando una miscela esplosiva di particolare pericolosità potenziale che, combinata con il fattore della grande diffusione della disoccupazione di massa, costituisce per il PCI un terreno d’intervento particolarmente arduo e rischioso. In ogni caso è obbligatorio, per una forza di progresso, agire concretamente nella specificità della situazione data. I gruppi politici dirigenti meridionali della sinistra, tranne alcune autorevoli eccezioni, mostreranno però di non intendere bene il carattere tendenzialmente espansivo cui si prepara a dar vita il Capitalismo Nazionale con l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno ed oscilleranno, costantemente, pur in presenza di innumerevoli e generose esperienze di lotte e resistenze sociali, in un insuperato limite di fondo, ideologico, che ripropone visioni ed interpretazioni parziali ed incomplete spesso destinate ad assurgere al ruolo di mera ma inincidente testimonianza. Il gruppo da cui prende vita “Cronache”, pur tra le evidenti parzialità e contraddizioni che sono state ricordate, ha visto con lucidità l’urgenza di porsi su Pagina 196


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un piano di coerente azione ispirata da un autentico riformismo democratico, di riforma dei rapporti di produzione e di scambio, di avvio di un’azione istituzionale e sociale incisiva capace di aggredire i punti più squilibrati ed odiosi di uno sviluppo distorto. L’azione politica per la formazione di una coscienza democratica e per la creazione di uno strato diffuso di quadri e militanti che possano rappresentare, in nuce, la futura classe dirigente meridionale, la pratica dell’approfondimento delle origini della storia e della cultura meridionale, la perenne attenzione alla salvaguardia dei legami unitari- tra le forze democratiche- da rinsaldare anzitutto sul piano della comune azione sindacale, sono senz’altro titoli di merito, indiscutibili, di quest’ulteriore strumento di confronto politico e culturale, senz’altro espressione di un’intenso fervore etico, politico e sociale democratico. L’impostazione di fondo di “ Cronache” rifiuta l’idea velleitaria della possibilità di perseguire, nel Sud, repentini e radicali cambiamenti palingenetici dall’oggi al domani e propugna posizioni di stringente realismo, intendendo procedere a passi sicuri, piccoli e progressivi, all’interno di un rigorosa visione di riformismo forte che, animata dalle forze comuniste e democratiche meridionali più coerenti, proceda determinando- di volta in volta- progressive conquiste, rispetto alle necessità specifiche di sviluppo economico, civile e culturale di questa parte del paese. La rivista agisce per concorrere a costruire le condizioni di una estesa e potente alleanza diffusa, di tutte le forze disponibili, correggendo le più evidenti distorsioni che si vanno prefigurando nella qualità dello sviluppo. Esse sono determinate dalla volontà e dall’intransigente resistenza dei più potenti gruppi capitalistici e monopolistici il cui potere va colpito e limitato con lo sviluppo di forti lotte sociali che la rivista sosterrà con grande decisione. Nella visione di tali forze regressive il mantenimento dell’arretratezza del Mezzogiorno è fattore indispensabile per non scalfire l’antico dualismo tra Nord e Sud, la netta differenza cioè quantitativa e e qualitativa nei processi di sviluppo. E’ capovolta e rispedita al mittente la critica più avanti proposta al PCI ed alle stesse “Cronache Meridionali” da “Nord e Sud”. Il confronto e lo scontro tra le due riviste s’inserisce nella lunga, difficile e travagliata discus-

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sione nazionale sui caratteri regressivi o progressivi dell’esperienza di Centro Sinistra. Esplicativo di quanto su questo punto si è detto è l’articolo di Gerardo Chiaromonte, “Meridionalismo ed astrattezza”.162 In sintesi Chiaromonte, dati alla mano, ritorna sul tema dell’industrializzazione del sud, sui suoi limiti e sul suo sostanziale fallimento rispetto alle speranze ed alle facili esaltazioni che, di tale azione economico-finanziaria- aveva tentato di farsi polemicamente interprete “ Nord e Sud”. Chiaromonte rileva come i nuovi 9000 lavoratori occupati nell’area napoletana non hanno fermato né compensato la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro né hanno modificato il quadro di una struttura produttiva industriale “ arretrata”ed in alcuni casi del tutto “ primitiva”.L’articolo fa rilevare come non si è fermato un processo segnato da “ un marasma produttivo”, non si è superata “ la mancanza di prospettive”e “ la grave crisi di mercato per alcuni settori”. Sarebbe stata necessaria tutt’altra politica economica generale che impegnasse risorse economiche e finanziarie nazionali per lo sviluppo di Napoli e del Mezzogiorno, problema primario questo da cui non si può prescindere se si vuole davvero avviare a soluzione la questione dell’occupazione e dello sviluppo economico delle regioni meridionali. I soldi,invece, sono stati troppo frequentemente regalati ai potenti gruppi industriali del Nord ed altri ne sono stati dati, con leggi speciali, per placare la demagogia di Lauro.La conseguenza di tutto ciò è che oggi, a Napoli, tutto è fermo . Migliaia di famiglie continuano a vivere in condizioni di terribile degrado nelle baracche. “Nord e Sud” sostiene la tesi che la nostra impostazione programmatica sarebbe oggi in crisi, trattandosi, da parte dei comunisti, di un “ meridionalismo di complemento”,” strumentale”, con un’estrema pochezza di soluzioni proposte. Invece gli scrittori di “ Nord e Sud” hanno, per Chiaromonte, la vista assai cor-

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apparso sul numero1-2 del Gennaio-Febbraio 1957.

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ta e non si accorgono che a fallire è stata, invece, la politica della DC e del Governo, con le loro classi dirigenti.Ciò che capiscono i Lauro, coi suoi ricatti alla Dc,ed i monopolisti che si muovono verso il Sud “non solo alla ricerca di profitti ma anche con chiari obiettivi di natura politica”.” I fumosi scrittori di Nord e Sud, bravissimi nell’invenzione di astratte formule politiche e nei giuochi di parole, farebbero bene a guardare attentamente alla situazione politica napoletana che è, in certo senso, esemplare per comprendere gli sviluppi della politica meridionale.Essi sono però … del tutto estranei e tagliati fuori da quanto succede a Napoli: se così non fosse, non si attarderebbero nella denuncia sterile ed esclusivamente moralistica del “ fenomeno Lauro” che non è un fatto folkloristico da disprezzare con alterigia impotente ma un fenomeno politico con cui, da parte di quanti amano la civiltà e il progresso democratico, bisogna pur fare i conti” “ Hanno seguito- gli scrittori di Nord e Sud-, continua a chiedersi Chiaromonte, i dibattiti sull’industria, svoltisi nei consigli comunale e provinciale di Napoli?” hanno seguito le sollecitazioni e le proposte per una nuova industrializzazione?E le proposte della CGIL?Il sistema attuale, questo non capiscono gli scrittori di “ Nord e Sud”, per Chiaromonte è incapace per sua natura di produrre sviluppo economico. Devono essere invece affrontati, con urgenza, i problemi strutturali; deve essere attuata una riforma agraria capace di favorire l’apertura di un mercato idoneo all’industrializzazione , perché siano posti con serietà i nodi del commercio e degli scambi coi paesi del bacino del Mediterraneo.. Per fortuna comincia a delinearsi una nuova alleanza antimonopolistica “ Forze importanti della piccola e media borghesia produttrice , deluse dal fallimento della politica democristiana di industrializzazione , insofferenti del dominio dei monopoli, cominciano ad avvertire la giustezza di certe posizioni da tempo sostenute dai lavoratori ed insieme l’importanza decisiva del contributo che alla lotta contro i monopoli del Nord e contro il Governo danno la classe operaia e le sue organizzazioni politiche e sindacali”.I comunisti non sono, come sostiene” Nord e Sud” “ gli instancabili alchimisti della formula frontista”. E’ la politica governativa , che Nord e Sud sostiene, l’aggressività del capitale finanziario e dei monopoli, a creare instabilità ed inquietudini tra le masse. E’ il non mantenimento delle promesse fatte a configurarsi come autenPagina 199


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tico tradimento delle speranze e delle aspettative popolari. E’ per questi motivi che oggi, continua l’articolista, hanno credito le prospettive da noi tracciate per Napoli, e ciò nonostante gli articoli di Nord e Sud. Ciò non è casuale in quanto la nostra politica non è “rivendicazionista,strumentalistica, agitatoria e velleitaria” ma risponde a bisogni reali di Napoli e di tutto il Sud.In tutti i settori di attività, nell’ambito delle nostre forze, abbiamo sempre indicato, avanzando esigenze “ reali e permanenti” le soluzioni concrete che sono possibili, nell’ambito della Costituzione Repubblicana, con l’organizzazione e la lotta democratica e socialista di tutto il popolo. Così abbiamo adempiuto ed adempiamo, conclude Chiaromonte, alla grande funzione nazionale , collegando battaglia meridionalistica a battaglia generale per la pace, la libertà, il socialismo. Non è “ rilancio frontista” la realistica possibilità della messa in campo di un nuovo ed ampio schieramento meridionalistico” . E’ in malafede chi ripete formule vuote senza neanche riferirsi ai nostri documenti ufficiali. Possono mettersi insieme, per un nuovo sviluppo, con la reciproca autonomia salvaguardata,forze economiche e sociali diverse,possono battersi con convinzione contro i monopoli e la politica che li sostiene . Si può lottare e vincere per una nuova politica di sviluppo economico e di rinascita, vedendo ed affrontando gli ostacoli strutturali ed economici che si frappongono. “Quelli che queste cose non vedono sono destinati a restare nell’astrattezza, isolati dalle masse popolari e dai problemi loro angosciosi, in una posizione di inconcludenza e di impotenza politica, incapaci, essi, di avanzare e proporre soluzioni concrete e possibili per i problemi che stanno di fronte all’attuale fase della battaglia meridionalistica”. Ampio risalto, per quanto fino ad ora si è detto, assumono le iniziative del Pci sul Mezzogiorno. E’ il caso, per limitarci al richiamo di un solo esempio, della scelta di pubblicare integralmente la relazione svolta da Giorgio Amendola l’11 maggio 1957, a Napoli, all’Assemblea Meridionale. Il fascicolo di “Cronache Meridionali” riporta, contemporaneamente, la sintesi degli interventi e le risoluzioni finali approvate. Anche in questo caso sono sostanzialmente confermate le linee essenziali delle opzioni per il Sud che – prima – abbiamo richiamato. Pagina 200


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Risulta, però, assolutamente stupefacente il fatto che nei numeri di Novembre, Dicembre, Gennaio e febbraio 1956 e 1957 la rivista non faccia il benché minimo cenno alla situazione drammatica determinatasi con l’invasione sovietica dell’Ungheria, né c’è traccia alcuna dei riflessi che tali atti determinano in Italia e nelle forze di sinistra ed in specie del Pci. Non è francamente possibile spiegare facilmente questo totale silenzio che risulta assolutamente incomprensibile.

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“OFFICINA”

Operazione di segno decisamente difforme, rispetto al complesso scenario fino ad ora tratteggiato, è quella cui si da luogo, nel Maggio del 1955, con la rivista “Officina”. Ai primi animatori e redattori Francesco Leonetti, Roberto Roversi e Pier Paolo Pasolini si aggiungeranno presto Angelo Romanò, Gianni Scalia e Franco Fortini. La rivista si aprirà, puntualmente, ad altre periodiche ed occasionali collaborazioni diventando anche palestra di stimolante confronto e contraddittorio all’esterno ed all’interno della sua stessa redazione. . Essa si pone, già in partenza, quale luogo nel quale si dovrà combattere una polemica sui due distinti fronti, sia su quello della distinzione e della critica del tentativo di revisione della tradizione ermetica novecentesca, che verso il neorealismo, verso quella lettura cioè dell’impegno sociale dell’intellettuale da cui, come si è visto, la nuova e progressiva cultura post resistenziale non può prescindere. E’ netta la sensazione, pur nelle evidenti e profonde differenze tra i fondatori del gruppo originario, di come siano forti ed assolute da un lato le prese di posizione contro “le poesie”della pura forma e quindi fini a sé stesse e, dall’altro, le polemiche contro chi si muoveva sotto il segno dell’immediatezza e del “populismo”, del contenutismo discutibile che spesso finiva per sfociare in un volgare ed acritico attualismo seppure ammantato di reazione, in realtà velleitaria, antiermetica. E’ significativo, in tal senso, il tentativo di recupero dell’attualità dell’opera di Francesco De Sanctis che si tenta di rileggere e recuperare in una prospettiva gramsciana puntando a farne il paradigma attuale” e “contemporaneo” di un ideale di “storicismo” e di “Realismo” non strumentalizzati. Nulla è più lontano dal vero che l’immaginare che ci si trovi di fronte ad un’impostazione già originariamente lineare ed organica. L’eterogeneità estrePagina 202


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ma dei protagonisti, la differente seppur confluente formazione, la distinzione dei caratteri e degli specialismi concorrono, in primis, a dare luogo ad una rivista d’elite, limitata, per tutta la prima fase, alla produzione di pochissime copie, un centinaio, date in stampa. Il gruppo si aggrega all’inizio a Bologna, per poi acquisire la consuetudine di riunioni ed incontri periodici anche a Milano ( dove vivono Fortini e Roversi) ed a Roma, ove si è trasferito Pasolini che ha già preso contatto con poeti e scrittori della capitale ai quali aprirà le porte della collaborazione alla rivista. Tra i principali personaggi della rete di collaboratori che sarà coinvolta in questa esperienza si trovano, senz’altro, Italo Calvino che vedrà pubblicato, a puntate, il suo inedito: “I giovani del Po” e Paolo Volponi che ad “Officina” invierà la poesia “La vita”. Contribuiranno anche Mario Luzi con “Conversazioni durante il viaggio” ed, in maniera improvvisa e polemica, Edoardo Sanguineti, futuro e principale animatore del gruppo ‘63. L’eterogeneità , con l’assenza iniziale di organicità e sistematicità, prefigurano un’inconsueto sodalizio del gruppo fondatore di “ Officina”. Il tratto di parziale unificazione

appare

piuttosto

riscontrabile

nell’apertura

alla

ricerca,

all’approfondimento poetico e letterario, alla distinzione. Tutt’altra cosa che il preconcetto ed aprioristico rifiuto, ben altro della prassi stroncante- ormai consueta- di tutto ciò che prima c’è stato e si è sviluppato. Il gruppo, in sintesi, contesta il metodo di procedere, da parte della critica, senza un’approfondita ed accurata riflessione.” Officina” intende, invece, assumere e praticare l’idea della necessità di proporre interpretazioni della letteratura adeguate capaci di considerare, sempre, il rapporto tra produzione e contesto storico e sociale in cui si è venuta ad enucleare la materializzazione della specificità poetica e letteraria. La lunga, ricca ed articolata introduzione di Gian Carlo Ferretti163 sembra condurci per mano nell’individuazione e nella decifrazione del filo conduttore del tentativo di “Officina”. Colpisce, immediatamente, la messa al bando delle facili semplificazioni che le tendenze culturali contemporanee, nel presente, esplicitano sulla produzione

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raccolta dalla casa Editrice Einaudi, seconda edizione 1975

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del passato. Per citare soltanto qualche esempio è utile indicare il modo in cui Leonetti ripensa a tutta la stagione del Decadentismo, l’apertura del confronto che sul tema si apre con Romanò. Leonetti sembra optare per una riscrittura dell’esperienza decadente nella quale vadano a mischiarsi gli elementi di positività e di negatività. Non pare condividere le trancianti e definitive liquidazioni ideologiche di un marxismo ufficiale che sembra intenda muoversi all’interno di canoni interpretativi ancora condizionati dall’individuazione dell’immediata utilità sociale della produzione artistico letteraria. Legnetti, al contrario, contro una visione meccanicistica ed economicistica dell’uomo invita a considerare la complessità della conformazione e della natura umana cui non vanno espianti tratti e dimensioni appartenenti alla sfera interiore, privata, psicologica dell’individuo che non possono essere, pena la sua mutilazione, recisi e non considerati anche quando essa stessa si va esplicitando in una sua tortuosa e complessa assenza di linearità. Sembra, in questa accezione, affacciarsi, sullo sfondo, il marxismo critico di Lukacs, ovvero un esempio europeo ed originalissimo d’interpretazione da sinistra, aperto e non faziosamente organicista, in genere trascurato ed eluso dal marxismo nelle forme reincarnate dell’ufficialità nazionale. Lo stesso rapporto con autori come Montale sembra porsi in maniera più aperta, complessa e problematica “…Il portato del Novecento non è solosquisito ed artistico, ma autentico, generale: esso ha trovato nell’animo, ed ha stabilito con l’arte, ed ha indotto in modo esasperato lo smarrirsi dell’individuo sociale: Un più grande” spazio interiore” (Montale) ed il fatto insidiosamente conseguente che questo può divenire un labirinto (culmine negativo e vizioso sempre dovuto pagare, per la bontà di un’esperienza che ci accresce, e che per la sua parte di verità non si perde)”164.

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pp. 20 Introduzione di Gian Carlo Ferretti

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Vanno, in sintesi, pazientemente ricercati, per Leonetti, i tratti distintivi di autentica poesia, gli apporti “di intelligenza, di gusto e di sensibilità”, nonchè “di poesia”che possono venire assunti dal filone storicistico e realistico al quale ci s’intende riferire. L’impostazione

che

abbiamo

riportato

sembra

muoversi

all’interno

dell’essenziale direttrice culturale di riferimento storicistico De Sanctis-CroceGramsci. C’è una continuità tra Crocianesimo – marxismo a livello tematico ed anzi, di frequente, il marxismo è visto come un arricchimento, in senso sociale ed economico, dell’idealismo. Più che rottura, col marxismo per Leonetti si avverte “una spiritualità nuova” per cui “avviene un poco a tutti di essere marxisti”. Diversa è l’impostazione di Pasolini ed assai originale il metodo usato. Egli assume, infatti, il gramscismo e la stilistica in funzione di una lettura e di un’analisi socio-politico- linguistica “di un nesso tra i problemi dello stile e del linguaggio e la storia degli intellettuali e delle classi sociali”, che differisce nettamente sia dal versante della critica ermetico-novecentesca o stilistica sia da quello della critica d’ispirazione marxista (così come si presenta in Italia).Egli pone così alcune premesse per un superamento dei rispettivi limiti (detti in breve, il limite tecnico-formale e quello ideologico-contenutistico). E’ la sua interpretazione del modo di procedere della “polemica su due fronti”. Nella formazione di Pasolini pesa, in maniera incisiva, l’insegnamento di Contini e la personalissima lettura di Gramsci. . E pur tuttavia la terza via di Pasolini ”Non rappresenta una rottura innovativa a livello ideale, ma piuttosto una conciliazione a livello metodologico, rispetto all’istanza contenutistica e all’istanza tecnico-formale: nel senso che, dopo aver posto certe premesse di superamento e avere ottenuto interessanti risultati critici, finisce per risolversi in un’operazione cauta e senza scosse all’interno degli opposti fronti, intesa ad inglobare anche esponenti che su tali fronti sostanzialmente si collocano”165.

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“Antologia di Officina”, curata da Gian Carlo Ferretti

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La rivista avrà, su ciò c’è l’assoluta intesa tra i redattori, l’immediata e piena consapevolezza dell’impossibilità di risolvere, con una rapida e sommaria liquidazione, tutta l’esperienza novecentesca. Critica e superamento andavano condotte e sviluppate all’interno di griglie di corretta interpretazione del fenomeno e, contestualmente sull’altro fronte del realismo, la rivista “Officina” pare esplicitare la consapevolezza di dover condurre un’azione combinata, contro i facili e schematici ideologismi, sia sul terreno ideale e culturale che su quello dello stile e del linguaggio. A differenza di quanto accadde per diverse altre esperienze contemporanee la critica non portò dall’”Impegno” al “disimpegno” ma al tentativo di una più intima responsabilizzazione civile ed ideale della letteratura. Così Pasolini lavorerà per“La libertà stilistica” nell’intento di pervenire allo smascheramento delle reciproche “sovrapposizioni postermetico- neorealiste nella poesia italiana degli anni 50”166. E’ in particolare nella “Posizione “che Pasolini integra quell’abbozzo di partenza ponendo al centro della sua esperienza la realtà oggettiva di un “mondo scisso in due “dalla Resistenza, ma al tempo stesso- contro ogni sbrigativa quanto velleitaria liquidazione del passato- arriverà a sottolineare l’esigenza di una critica consapevolezza dei retaggi ermetico-novecenteschi e borghesi originari, e soprattutto tenderà a sottolineare la necessità di vivere fino in fondo lo “stato di crisi “e di “divisione” (della società e della coscienza) al di là di ogni astratta “rimozione” prospettivistica (in polemica con certe posizioni comuniste). E’ allora illuminante, in questo contesto la rilettura de “Le ceneri di Gramsci”. Pasolini, col trascorrere del tempo passerà da un’impostazione di parziale prudenza ad un più accentuato radicalismo, alla chiara esplicitazione dell’irrisolvibilità del conflitto, nella poetica del “dramma irrisolto”, da intendere come contraddizione acutissima tra crisi aperta dal marxismo nella co-

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op. cit, pp. 48

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scienza degli intellettuali e l’incapacità a “scegliere” ideologicamente- in modo conseguente- per l’attaccamento naturale al proprio mondo; metterà a nudo l’impossibilità a rinunciare ad una tradizione di squisita autosufficienza ed in lui riaffioretranno le tentazioni frequenti di ritorno al passato, la tensione verso Gramsci ed il marxismo, il continuo insorgere di una religione evangelica originaria. Questa contraddizione non va elisa- per Pasolini- ma vissuta in una dolorosa consapevolezza167. Le oscillazioni tra due opposte tendenze e pulsioni, entrambi alberganti nella stessa identità in “La religione del mio tempo” sembrano far prevalere l’istanza e la passione “evangelico-estetica-viscerale” e l’originale accezione dell libertà stilistica. Diversa appare la genesi e lo sviluppo dell’impostazione Fortiniana. E’ lui che, più acutamente, sembra vivere il contrasto tra dentro e fuori, come ricorderà Pasolini, come una tensione costante e mai definitivamente conclusa tra ricerca “di una nuova cultura e di una nuova ideologia letteraria”, senza accettare mai la definitività di “una parola o di un modo stilistico come essi si presentano”. Egli sembra, in maniera anticipatoria rispetto a tutti gli altri, comprendere la complessità della relazione tra ricerca di un linguaggio poetico nuovo e realtà borghese che tende ad inglobarlo, comprimerlo ed a negarlo nella sua funzione d’autonoma libertà creativa. Tale impostazione, immediatamente evidente soprattutto nell’esplicitazione della sua produzione critica, non risulterà estranea ad un processo di distinzione, parziale isolamento e progressiva, esplicita separazione dal resto del gruppo.

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“Egli non sfugge alle proprie contraddizioni, non elude la propria crisi, ma cerca un chiarimento ad essa nei drammi storici e nei nodi problematici del suo tempo arrivando a delineare come pochi altri il dramma dell’intellettuale borghese italiano negli anni 50, la sua contrastata ricerca ( o disperata impossibilità ) tra la sua coscienza interiorePe il, mondo esterno, tra le sue private angosce( e preziose tradizioni formali) e i conflitti della società, tra il suo dentro ed il suo fuori insomma. Che acquista poi il significato di tendenza a un più intimo superamento dei due fronti opposti, intesi nei termini di un falso dentro e di un falso fuori”. pag. 52 op. cit.

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Eppure Fortini, consapevole della difficilissima impresa, tende a pervenire a sintesi sempre più avanzatecol suo mantenere vivo il dialogo ed il confronto sia nel gruppo, con particolare intensità verso Pasolini, sia verso l’esterno con l’ufficialità delle posizioni del Partito Comunista Italiano. La sua è la voce, o il grido acuto e disperato, di più netto ed esplicito distinguo all’indomani delle tragiche vicende ungheresi del Novembre 1956. Sua è la ricerca più paziente e complessa di altri orizzonti ( il Marxismo critico di Lukacs e della Volpe). Continuerà così a cimentarsi, non a caso, con una costante, stimolante ed inappagata criticità verso il reale che dovrebbe essere funzione identitaria distintiva dei gruppi intellettuali di avanguardia. A conferma di tutto ciò si può vedere quale sia l’excursus di “Dieci Inverni”, la sua assoluta assenza di ogni appagato e piatto conformismo, il suo costante interrogarsi sulle prospettive dell’arte e del linguaggio nelle sue pluralità di forme espressive, la sua concezione del mondo assieme costantemente critica e tollerante. L’originalità del suo percorso e della sua ricerca critica perverrà al punto di più alta sistematicità interpretativa ed alla netta comprensione del radicale e tumultuosamente profondo cambiamento di fase che investe la società italiana, con le sue pesanti conseguenze sulle sfere specifiche della ricerca e della produzione letteraria, ad una netta e lucida comprensione delle tendenze ormai divenute atto ne “La verifica dei Poteri”. Esse sono state indotte nella società nazionale dal sorgere strutturato, nel cuore del neocapitalismo, di una specifica industria culturale che elimina ed ingloba in sé le funzioni di esercizio delle distinzioni, sopportandole e fagocitandole in un contesto nel quale è ormai divenuta funzionale al mantenimento degli equilibri dati la stessa funzione, di fatto subalterna ai processi di sviluppo, di quegli stessi gruppi intellettuali che pure, prima, lavoravano puntando a produrre profonde scissioni e crisi nel meccanismo e nella qualità dello sviluppo. Fortini appare uno spirito acuto ed inquieto, attraversato dall’ansia, spesso solitaria, di ricerca del vero. La sua coscienza manifesta intensa consapevolezza del destino cui sembrano condannate intere generazioni “lasciate ai margini del moto storico”. Nel suo costante dialogo con Pasolini, destinato a continuare anche dopo la sua Pagina 208


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tragica morte, frequente resta la critica di distacco disperato pur nel costante ancoraggio ad una dimensione tradizionalmente letteraria. Pasolini gli appare addirittura” complice “del male, della separazione dal popolo. La sua tensione può esprimersi in poesia, dimensione nella quale riesce in ogni caso a riemergere nella rima e nel verso, restando “intatto” rispetto alla realtà popolare. Pasolini, nella lettera inedita del 1956, gli farà notare la sostanziale identità della loro condizione. In ogni caso si ha la sensazione che, in Fortini, sia più netta e secca la tensione al rifiuto al ritorno ed al riapprodo, rassicurante e consolatorio, ad una funzione intellettuale classica, separata, di casta. Questa dimensione non è, evidentemente, da intendere nel senso, grossolano, di una rinnovata chiamata all’impegno sociale quanto piuttosto va colto l’insistere, con una modalità di critica sottile ed argomentata , che è, ad un certo punto, trasferita anche sui piani delle implicazioni storico –politiche e sociolinguistiche, sulle espressioni stilistiche di tale apparente ma, per Fortini, ingannevole autosufficienza. Fortini sembra, in realtà, comprendere appieno il rischio reale dell’esistenza di una letteratura “microcosmo concluso in sé stesso”. Ne intravede, nel suo ciclico riprodursi, la funzione mistificatoria fondata su assetti immutabili del potere borghese che “tutto quel dinamismo fittizio rende possibile”. Romanò converrà sul fatto che, da parte dell’intellettuale, è mancata una profonda e seria riflessione critica ed autocritica all’interno del suo “autonomo”ambito di lavoro. Lo stesso Scalia criticherà Vittorini ed il “Politecnico” sul rapporto tra politica e cultura, intesa come uno strumento del potere e non come idealistica concezione di distacco ininfluente sulla vita e sui destini umani. Bobbio ritorna sul concetto dell’intellettuale attivo “e di qua e di là” sui fronti opposti, come imperturbabile e benefico perturbatore di ogni quiete conformistica, suscitatore di aperture problematiche, animatore di dialoghi e confronti improntati alla tolleranza delle opinioni ed all’ instancabile ricerca della libertà. Pagina 209


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E’ però questa una funzione avulsa da una versione abbellita d’intellettuale come istituto autonomo, ruolo separato, espressione di una società ideale privo di segno politico e classista, velleitariamente moralistica da un lato ed astrattamente tecnico professionale dall’altro. “Officina”, a giudizio di Fortini, non fu marxista, né punto di riferimento del marxismo critico, inteso come antistalinismo e superamento dello stesso leninismo impropriamente ritenuto, dalla sinistra ufficiale, naturale sviluppo del marxismo. Fu piuttosto, proprio in Fortini e Scalia, esempio di un tentativo, rivelatosi alla fine velleitario, di estremismo intellettualistico. La rivista tentò di superare i limiti di impostazione esclusivamente letteraria, pur nei termini peculiari in cui prima si è tentato di esplicitarne il carattere, ma restò incapace di procedere per approssimazioni, mediazioni e sintesi progressive. Fu l’ultima, intelligente intuizione per tentare un’apertura di ragionamento che arricchisse il marxismo, limitato e parziale, di cui pure gli animatori erano impregnati facendolo entrare in relazione e contaminazione con altri livelli di processi economico, sociali, culturali sostanzialmente trascurati e sottovalutati. Scalia, nello scritto “Per uno studio”propone lucidamente un’alternativa alle due dimensioni dell’impegno partitico o spontaneistico passando ad un rapporto partito –scienza- società. Introduce un discorso, non familiare alla grande maggioranza degli intellettuali del tempo, sulla “scientificità della cultura”, sull’esigenza di iniziare ad operare all’interno di canoni di interdisciplinarietà, su istanze razionali ed oggettive. Egli tenta invano di superare un rapporto, in larga parte consunto, tra cultura (letteratura) e società, critica l’irrazionalismo della visione dell’impegno, accentua una dimensione antistoricistica per riposizionare, su dimensioni incidenti nel reale, ruolo, funzioni, tentativi espressivi di “Officina”. Tale intuizione, però, non procederà per la sostanziale ragione che si prescinde troppo dal contesto dato e la sua proposta è, in sostanza, rigettata prefigurandosi, nella coscienza degli altri, come un’estremo ed ininfluente Pagina 210


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tentativo “tecnicistico” che appare insufficiente ed inadatto a superare le riproposizioni di visioni tese a riprodurre vecchie ed in scalfibili gerarchie interne al concetto dell’autonomia assoluta dell’arte e della letteratura. Il neocrocianesimo di ritorno, le cui trame trascinanti “Officina” indubbiamente riesplicita, appare assai difficile da estirpare con operazioni- di pura rimozione- approssimate e volontaristicamente intellettualistiche. “Officina”, pur nella sua indiscutibile particolarità, rispecchia- in modo originale- il procedere tumultuoso di un processo di crisi che da un lato evidenziava l’accentuata messa in discussione di visioni salvifiche e palingenetiche sulla realizzabilità concreta del “socialismo” quale grado più alto possibile di costruzione di livelli avanzati di libertà, dall’altro esplicitava limpidamente la gracilità e l’erroneità d’interpretazioni, diffuse a piene mani, di prossima definitiva ed inevitabile fine del capitalismo. Nella realtà italiana avveniva, invece, che il capitalismo esprimeva capacità di dinamismo assolutamente imprevedibili preparandosi, a grandi passi, alla pratica realizzazione di un processo di sviluppo- a tappe accelerate- che, si è già accennato, cambierà profondamente la fisionomia, i costumi ed i modi di vivere del paese. A fronte di ciò, platealmente, si dimostrerà la parzialità e l’erroneità di certe letture, a lungo proposte dai nostri protagonisti, che determineranno il distacco e la scelta individuale di strade diverse.

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PIERPAOLO PASOLINI

Più complesso, arduo, tortuoso il percorso letterario di Pier Paolo Pasolini. Ecco come ne presenta opera e funzione Alberto Asor Rosa: “La poesia di Pasolini, almeno fino al 1948, si muove, sia pure con fermenti propri, nel solco della tradizione novecentesca”. “La svolta alla produzione dell’età matura si compirà attraverso il rifiuto, almeno intenzionale, non della propria poesia precedente, che anzi Pasolini tende a riportare in luce nella sua validità estetica e documentaria, bensì del clima, delle ragioni teoriche, della poetica, che avevano influenzato e sostenuto la sua primitiva esperienza”. Poi aggiunge : “Pasolini non teme, anzi reclama, lo scandalo, ed è spesso animato dal desiderio di apparire al giudizio del mondo carico di tutte le colpe e di tutti i peccati : le opere giovanili… sono da questo punto di vista assai più scoperte etc. ”168. A lungo comunque i riferimenti alle ideologie del movimento operaio resteranno soltanto tendenziali prima di approdarvi, in maniera esplicita, in vari componimenti quali : “Il Canto Popolare; L’Umile Italia e, soprattutto, la raccolta di componimenti del volume : “Le Ceneri di Gramsci”. Esplicito il riferimento al popolo ne “Il canto popolare” quanto si osserva come (esso) “Accampato in cadenti e solitari paesi di collina, in villaggi di tuguri e di baracche, in mostruosi quartieri periferici, stringe d’ assedio le sparute cittadelle della civiltà e della storia, armato solo dei suoi sensi, della sua felicità, della sua animale allegria”169. L’intensità di “L’Appennino”, nel passaggio in cui si rileva come “Nel cuore della spece- dei poveri rimasta sempre barbara_ a tempi originari, esclusa alle vicende- segrete della luce cristiana- s’annida la forza di un irrazionale calore

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In: “Scrittori e popolo” pp. 350 e 351 op. cit

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pag. 375 op. cit.

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di vita; ognuno è chiuso nel calore del sesso- sua sola misura”, e tutto il senso di ciò va interpretato quale espressione del dispiegarsi di energie vitali di unificazione dell’articolazione territoriale del paese, di tutto il paese, dal nord al sud geografico. “La scarsa frequenza dell’aggettivo presso gli ermetici, era testimonianza di una concezione del mondo volutamente ristretta ai confini di un rigorosissimo lirismo: la realtà era scheletro, sentimento nudo”170. Pasolini intende, invece, ricostruire la praticabilità di un discorso che possa svilupparsi secondo una direzione non esclusivamente lirica e per far ciò prima condizione è poter restituire reali dimensioni al mondo che vuol rappresentare. Eccesso di aggettivazione, quindi, a fronte della secca contrazione stilistico-espressiva degli ermetici. Il linguaggio ermetico, in realtà, ben oltre la mera forma stilistica, era una precisa espressione di un certo tipo di concezione del mondo. Era il rifiuto di quella concezione a provocare, spesso,la negazione di quello stile e di quel linguaggio. Pasolini, in ogni caso, è all’interno della tradizione italiana e risale, col suo tentativo linguistico e poetico al di là delle origini del fenomeno novecentesco, fino a Carducci ed a Pascoli. Eppure il rapporto di conoscenza appare intensissimo quando entra in relazione con Gramsci. Vediamo come si esprime in “Passato e Ideologia” Osservazioni sull’evoluzione del 900, ” Oggi una nuova cultura, ossia una nuova interpretazione intera della realtà, esiste, e non certamente nei nostri estremi tentativi di borghesi d’avanguardia nello sforzo sempre più inutile di aggiornare la nostra: esiste, in potenza, nel pensiero marxista; in potenza, chè l’attuazione è da prospettare nei giorni in cui il pensiero marxista sarà (se questo è il destino) prassi marxista nella storia di una nuova classe sociale organizzante la vita” e poi conclude : “Benché in forma potenziale, (una nuova cultura) esiste, agisce, già oggi, se quel pensiero marxista determina nei nostri paesi occidentali, una lotta politica e quindi una crisi nella società e nell’individuo: esiste dentro di noi, sia che vi aderiamo, sia che la neghiamo; e proprio in questo nostro impotente ade-

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“Scrittori e popolo” op. cit. p. 380

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rirvi, e in questo nostro impotente negarla” (ibidem). E’ già qui in nuce evidente come Pasolini intervenga sulla crisi dell’individuo piuttosto che sulla crisi di tutta la società ed è questo aspetto, per tanti versi anticipatorio ed a lungo fortemente sottovalutato, a costituire, poi, la parte più intensamente ricca e convincente della produzione pasoliniana. Lui non ha aderito e non si è identificato con alcuna ideologia ufficiale ma, già lo rilevammo nelle note su “Officina”, arduo, rischioso e doloroso è permanere nella staticità di tale situazione. Indipendenza ideologica quindi “che richiede un continuo, doloroso sforzo di mantenersi all’altezza di un’attualità non posseduta ideologicamente, come può essere per un cattolico, un comunista, un liberale”171. Ciò va interpretato sia, come già si è detto per “Officina”, come distinzione dal messianesimo populista che come presa di distanza da una concezione della poesia che sia” per elezione estetica, mera storia interiore, …pura introversione, frutto di un egoismo non più necessario”172 Così ci si esprime circa il “posizionismo” tattico dei comunisti: “La crudezza ideologico- tattica di Salinari e di altri era viziata da quello che Lukacs… chiama prospettivismo. L’ingenua e quasi illetterata (e anche burocratica) coazione teorica derivava dalla convinzione che una letteratura realistica dovesse fondarsi su quel “prospettivismo”: mentre in una società come la nostra non può venire semplicemente rimosso, …. lo stato di crisi, di dolore, di divisione”. Evidente il distinguo, netto, dalle rappresentazioni di realismo socialista sovietico o dai tentativi italiani, paralleli, del tipo di “Metello”. Non ci può invece essere nuova cultura senza “stato di crisi, di dolore, di divisione”. Nel poemetto: “Le ceneri di Gramsci”, raccolta di 11 scritti, ordinati cronologicamente dal 1951 in avanti,che sarà pubblicata nel 1957, Pasolini continua nel-

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In: “La libertà stilistica”, ivi, p. 488.

172

In: “Osservazioni sull’evoluzione del ‘900, “, cit. p. 331. In “La posizione” ( Officina, 1956, pp. 249-250

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la ricerca di una propria poetica confermando la sua contemporanea presa di distanza sia dall’ermetismo che dal neorealismo.Protagonista di questi scritti è l’”Umile Italia”.L’ispirazione scaturisce dalla visita di Pasolini alla tomba di Gramsci, a Roma,presso il cimitero degli Inglesi. Rivolgendosi a Gramsci Pasolini analizza gli elementi di contrasto presenti nella propria coscienza tra l’istintiva adesione al mondo dei diseredati e la persistente, struggente difficoltà che gl’ impedisce di accogliere integralmente l’ideologia marxista sviluppando un consequenziale impegno politico-sociale. Il poemetto rappresenta senz’altro uno dei punti più alti ed intensi della sua produzione poetica essendo intensamente intriso dei tratti essenziali della sua visione del mondo. Anzitutto Pasolini vi evidenzia un concetto di “ popolo”assolutamente privo di qualsiasi connotazione storica interna a specifiche dimensioni spazio- temporali. Egli anzi mira a ricondurlo ad un’ originaria dimensione di purezza innocente. Contemporaneamente si rappresenta il conflitto e la propria interiore scissione, la configgente lacerazione per cui , pur accettando il marxismo e condividendone l’essenzialità dei valori fondanti, continua a sentirsi ancora, profondamente, borghese.Il contrasto tra passione e ragione appare, se possibile, ancora più acuto se rapportato ad una nuova scissione , questa volta tra passato e futuro.In sintesi la ragione lo induce a condividere le speranze di riscatto e di progresso sociale proprie della visione dell’ideologia marxista che tende alla costruzione di un futuro migliore; dall’altro Pasolini si sente nostalgicamente e melanconicamente attratto dal passato, da un periodo in cui l’innocenza istintiva del popolo appariva viva e vitale non essendo influenzata né , per lui, condizionata dalla morale borghese. “ Le ceneri di Gramsci”mettono appunto in luce il doloroso dissidio che agita il suo animo, la scissione irrisolta tra la coinvolta partecipazione alle istanze del proletariato e la sussistenza di una continuità d’ appartenenza al mondo borghese di cui continua a sentirsi parte.Sei le sezioni dell’opera , in cui prima e terza parte svolgono funzione introduttiva generale , con l’omaggio specifico, nella terza ,al grande marxista italiano combattente per la libertà.

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Da “Le Ceneri di Gramsci” Uno straccetto rosso,come quello arrotolato al collo ai partigiani e, presso l’urna, sul terreno cereo, diversamente rossi, due gerani. Lì tu stai, bandito e con dura eleganza non cattolica, elencato tra estranei morti:Le ceneri di Gramsci…..Tra speranza e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato per caso in questa magra serra,innanzi alla tua tomba, al tuo spirito restato quaggiù tra questi liberi.( O è qualcosa di diverso, forse, di più estasiato e anche di più umile,ebbra simbiosi d’adolescente di sesso con morte…..) E, da questo paese in cui non ebbe posa la tua tensione,sento quale torto qui nella quiete delle tombe-e insieme quale ragione- nell’inquieta sorte nostra –tu avessi stilando le supreme pagine nei giorni del tuo assassinio. Ecco qui ad attestare il seme non ancora disperso dell’antico dominio, questi morti attaccati ad un possesso che affonda nei secoli il suo abominio e la sua grandezza: e insieme, ossesso, quel vibrare d’incudini, in sordina, soffocato e accorante- dal dimesso rione- ad attestarne la fine. Ed ecco qui me stesso…..povero,vestito dei panni che i poveri adocchiano in vetrine dal rozzo splendore,e che ha smarrito la sporcizia delle più sperdute strade, dalle panche dei tram, da cui stranito è il mio giorno: mentre sempre più rade ho di queste vacanze, nel tormento del mantenermi in vita ; e se mi accade di amare il mondo non è che per violento e ingenuo amore sensuale così come, confuso adolescente, un tempo l’odiai, se in esso mi feriva il male borghese di me borghese: e ora scisso con te- il mondo, oggetto non appare di rancore e quasi di mistico Pagina 216


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disprezzo, la parte che ne ha il potere? Eppure senza il tuo rigore, sussisto perchè non scelgo.Vivo nel non volere del tramontato dopoguerra :amando il mondo che odio- nella sua miseria sprezzante e persoper un oscuro scandalo della coscienza. Ne “Le ceneri di Gramsci”173, il riferimento è al Gramsci non eroico, ma a quello della cella e della prigionia ridotto “a puro ed eroico pensiero”174. Nel Gramsci fratello indubbiamente Pasolini rivede il fratello morto combattendo, partigiano, contro i fascisti rinato in questo simbolo testimonianza perenne anche se avvilita175. Si può – senza alcun dubbio - confermare che Pasolini da il meglio quando riesce a spogliarsi di forme ideologiche, sia di tipo storico progressista che mistico decadente. “Ragazzi di Vita” non propone alcuna trasfigurazione idealizzante. “Negli anni successivi lo scrittore compie il tentativo di solidificare la propria posizione, uscendo da questo stadio di mobile problematica. Per quanto riguarda l’ideologia, questo significa un deciso avvicinamento al marxismo. Per quanto riguarda le scelte letterarie, questo significa elaborare un tipo di discorso narrativo, che abbia al proprio centro una storia, cioè un asse, un nucleo di interessi fondamentali, intorno al quale si riunifichino gli sparsi frammenti delle osservazioni, e che perciò appaia assai più determinato da una tesi, da una precisa intenzionalità. Per quanto riguarda l’atteggiamento politico questo significa accostarsi…al Partito Comunista “Ma “Il marxismo di Pasolini è…quanto di più curioso ed artefatto si sia potuto incontrare in questo campo, negli anni… del progressismo letterario : In un’intervista a “Nuovi Argomenti”

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p. 71 ( nel testo p. 397)

174

La libertà stilistica”, p. 491, loc. cit

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le parole sono di Asor Rosa

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“oggi in “Inchiesta sul romanzo”176 dice “…io credo soltanto nel romanzo “storico” e “nazionale”, nel senso di “oggettivo” e “tipico”. Non vedo come possano esisterne d’altro genere, dato che “destini e vicende puramente individuali e fuori dal tempo storico” per lui non esistono sennò non sarebbe un marxista. Per lui marxismo è tutto ciò che non si può definire come irrazionale o decadente. Siamo, come si vede per Asor Rosa, in questa fase di avvicinamento alla sinistra da parte di Pasolini, del tutto all’interno della linea del nazional popolare. “Pasolini fonda il suo uso del dialetto sul convincimento che la frattura sociale tutt’ora esistente nel paese impedisce la formazione di una lingua nazionale omogenea al livello letterario. Mimetismo significa d’altra parte anche in questo senso adeguamento della parola all’oggetto “177. “Forse nessuno scrittore mai come Pasolini ha subito dentro la propria opera il crollo di una posizione ideologica non soltanto personale, ma storica, oggettiva. E’ avvenuto, insomma, che mentre egli impiantava tutta la sua ricerca intorno ad una determinata concezione del mondo, esaltante in modo particolare la condanna moralistica dei mali borghesi e la richiesta di una umanità più umana per tutti- quindi, anche, anzi in special modo, per i derelitti, gli offesi…questo moralismo antiborghese d’impianto borghese…questo concetto così accomodante e così comodo di popolo, entravano in crisi nell’ambito di una crisi di una “cultura di sinistra”, arrivata ormai a dimostrarsi fin troppo chiaramente parte integrante e necessaria di una cultura borghese”178. Evidente ed acuto conflitto, quindi, tra tentativo,vano, di definitivo distacco dall’orrore che gli procura il neocapitalismo borghese, elemento questo sempre più intensamente messo in luce nella progressione della sua produzione,e lucida coscienza di un sentire sé stesso appartenente proprio alla “ borghesia”. In-

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cit. p. 48

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p. 434

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pp. 435 e 437 op. cit

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tellettualmente egli continua a rimarcare, con la contiguità, la distanza intellettuale dal proletariato. Scisso come è in due deve permanere nell’attuale posizione di mera sospensione , condizione indispensabile questa per poter continuare ad attraversare la vita ed il mondo. Una posizione questa che, in tutta evidenza, in Gramsci combattente per la libertà della Patria per la quale ha sacrificato la vita, sarebbe impossibile. Su questa lunghezza d’onda va anche letto il tema del rapporto con la chiesa, il distacco da essa rappresentato come un tradimento della stessa nei suoi confronti. Da quando già succintamente in precedenza rilevato, a proposito di “Officina”, il lettore potrà immediatamente notare come ci si trovi di fronte ad un’espressione assolutamente originale e peculiare, non assimilabile – per più ragioni – al quadro culturale d’insieme finora tratteggiato, e perciò non irrigimentabile o inquadrabile, rigorosamente, negli schieramenti che si fronteggiano. Chiare le sue propensioni ed i punti di attenzione, privilegiati e densi di speranza, cui tende a confluire la sua accidentata e complessa ricerca. Il rapido e necessariamente stringato tratteggio di alcuni dei principali aspetti dell’ assoluta peculiarità dell’individualità di Pasolini non può farci omettere di evidenziare alcune sue tesi assolutamente profetiche e rivoluzionarmene anticipatorie che saranno contenute nel gruppo di articoli da lui pubblicati sul “ Corriere della Sera”, più avanti, negli anni settanta.La sua elaborazione teorica e culturale ne emerge allora in maniera ancora più intensamente compiuta e definita. Sono infatti più organicamente ripresi, in blocco, temi che gli sono particolarmente cari: l’acuta polemica contro gli aspetti degenerativi della società contemporanea, la denuncia cruda degli effetti devastanti del consumismo sull’intera popolazione, la critica feroce contro la capillare, spietata ed opprimente “ dittatura” che si sta organizzando grazie alla gestione manipolata del nuovo sistema dell’informazione, la funzione socialmente e culturalmente devastante della televisione che ha omologato e massificato tutto, creando falsi modelli espressivi e comportamentali.In modo artificioso essi sono, colpevolmente, indotti dall’alto ed ad essi, ormai,tutti si adeguano senza che si percepiPagina 219


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sca alcuna opposizione. Pasolini avverte come il consumismo ha ormai stravolto idee , modi d’essere, comportamenti livellando tutto ed annullando gli originari valori positivi del popolo. Perciò, per evitare l’irreparabile, rovinosa e definitiva deriva della società italiana, gli intellettuali dovrebbero combattere, con le armi della critica, tutti i fattori di omologazione e di appiattimento subalterno.Dovrebbero concretamente dimostrare di saper svolgere la funzione di coscienza critica del Paese, dicendo la verità senza lasciarsi in alcun modo coinvolgere o compromettere dal potere economico e politico.Il più grande pericolo lo intravede per le future generazioni, per chi rischia di venire totalmente assimilato e passivizzato nella massificazione voluta dai mezzi di comunicazione. Sarebbe necessaria, ora, una fortissima reazione che però non ci sarà o sarà del tutto sbagliata. Pasolini prenderà progressivamente ed amaramente atto della sconfitta e dell’impossibilità di una diversa prospettiva.E’ negli “ Scritti corsari”ed in specie nell’articolo del 14 Novembre del 1974 :” Che cos’è questo golpe”che più organicamente e conclusivamente da la rappresentazione della profondità dei guasti prodotti da un modello negativo di sviluppo” Per mezzo della televisione il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’operazione di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè- come dicevo- i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione , la quale non si accontenta più di un uomo che consuma , ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quelle del consumo. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato…in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione ( specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…”. La repressione si è quindi realizzata, capillarmente ed in profondità, con la rivoluzione del sistema d’informazione, una rivoluzione tutta interna all’organizzazione borghese che, nel suo procedere socialmente regressivo, ha sgretolato identità e capacità di dialogo, confronto eliminando ogni esercizio di differenziazione e di critica feconda ai nuovi modelli autoritariamente e pervaPagina 220


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sivamente imposti. Chiaro, nel caso di Pasolini ancora più che in altri, l’impossibilità di pervenire a forme d’organica simbiosi, per tutta una serie di sottili ed intense ragioni, peculiari alla specificità del suo essere e del suo procedere, che dimostrerà – fino all’epilogo estremo – di non voler mai recidere o annullare.

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FORTINI E PASOLINI

Numerosi sono gli scritti e le interpretazioni critiche di Fortini su Pasolini. Il primo intervento è una recensione critica del 1952 per l’antologia pasoliniana della poesia dialettale del Novecento. La sua attenzione si svilupperà fino alla complessa recensione di “Petrolio”, punto finale e conclusivo di massima spietata crudezza, senza veli e mediazioni, dell’opera letteraria di Pasolini. La corrispondenza tra i due procederà fino al 1966 offrendo un ricco quadro di documenti, ricordi, riflessioni e giudizi. L’autore fornisce un’immagine d’insieme del senso del proprio legame e del proprio contrasto con l’amico ed avversario di cinque anni più giovane, scomparso tragicamente nel 1975. La trama della memoria è trascinata da una fortissima tensione intellettuale, sotto l’evidente segno di un’ossessione a risolvere ogni aspetto dell’esistere in prospettive morali ed, in ultima analisi, politiche. Fortini propone una storia di sé attraverso Pasolini, che equivale ad una ricerca di una posizione “giusta” nel mondo. “Al di là di Pasolini” è la giustificazione dei giudizi e delle scelte sul mondo e sul rapporto tra mondo e letteratura da Fortini formulati nell’intero arco della vita. La natura dell’autobiografia si evidenzia già dalla lapidarietà della battuta di apertura: “Aveva torto e non avevo ragione”. E’ un confronto intensissimo con un avversario ancora storicamente troppo vicino. Si pretende di ribadire l’erroneità dei progetti di Pier Paolo e si confessa l’impossibilità della vittoria dell’io scrivente, la finale debolezza delle sue stesse ragioni. “Attraverso Pasolini” è un libro quanto mai ingrato in cui volontà di “ascoltare” e “comprendere” l’altro, lo stesso indubbio affetto per lui appaiono sopraffatti dalla volontà di attribuzione di torti e ragioni, in un definitivo giudizio storico. Fortini si ostina a ripercorrere le tappe, le forme, le prospettive di un dibattito politico ed intellettuale che oggi appare, in larga parte, definitivamente superato. Fortini, come si è rilevato, aveva condotto a fondo una battaglia conPagina 222


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tro i modelli intellettuali della sinistra degli anni 50, collaborando alla nascita della “nuova sinistra”, con la sua spietata critica ai “modelli” e “ruoli” dell’intellettuale. Quella critica, però, oggi si può dire, si era svolta all’interno di una dimensione intellettuale risolvendosi nella definizione di un nuovo “mandato” rivoluzionario quale “negazione” d’ogni mandato. Il Pasolini degli ultimi anni sembra avvertire più compiutamente la fine della vecchia dialettica politico-intellettuale della sinistra, cercando nuovi strumenti per la comprensione di una realtà sempre più sfuggente e di difficile decifrabilità. Tra i compiti della sinistra si viene periodicamente riproducendo il nodo del rapporto tra intellettuale e politica. Così accade che, Fortini e Pasolini, appaiano come due figure “postume” prese nella rete di un contrasto le cui vere motivazioni storiche e politiche tendono a sfumare nell’irrealtà. Fortini taccia Pasolini proprio di “irrealtà”, preso come egli è dalle sue mitologie, dalle sue ossessioni, dalla sua aspirazione ad una presunta “purezza vitale”. Pasolini tenderebbe così a perdere ogni capacità di cogliere i dati reali della realtà. Pasolini gli ha ribattuto con la stessa accusa e Fortini, ad un certo punto, dovrà ammettere di aver gettato addosso a Pasolini la propria “scissione” e la propria “irrealtà”. Una delle prime ragioni del loro contrasto è proprio la ricerca ossessiva di “purezza” e “realtà”. Pasolini scelse l’ambito della “passione”, della “vitalità”, della “partecipazione” ad una comunità, di un’identificazione con lo stesso fisico emergere di persone e cose. Fortini ha scelto invece il piano “dell’ideologia”, della congruità di ogni gesto con piani collettivi e totalizzanti, dell’identificazione col cammino della storia verso un possibile nuovo futuro. Entrambi i piani possono apparire più “reali” o “irreali”a seconda delle diverse letture della storia nazionale recente. Entrambe, passione e ideologia, si sono volute assolute e totalizzanti, esaltate con ossessione per la ricerca della verità. Certo oggi, in maniera postuma, si può riconoscere che Pasolini ha avvertito, Pagina 223


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precocemente, il senso di tanti crolli della vita materiale e culturale italiana e mondiale. Ha toccato così dimensioni ed aspetti della realtà che sfuggivano del tutto alle proiezioni della politica e dell’ideologia. Fortini attribuisce a Pasolini la pretesa di affermare un piano privilegiato all’esperienza ed al punto di vista dell’artista, di arrogarsi una superiore capacità, in quanto artista, di discernere disvalori e valori. In ciò Fortini sembra cogliere nel segno. Certo sarebbe da considerare l’aspetto del lettore, di colui che può essere aiutato a discernere, più utilmente, i valori e disvalori del mondo usufruendo della funzione di quel privilegio intellettuale prima richiamato. In tal senso della vita e dell’opera di Pasolini è utile considerare quanto può darci, non indagare sulla sua astratta coerenza: non si dimentichi che molta cultura letteraria è stata accecata dalla critica al proprio privilegio, rinunciando a “vedere” davvero il mondo, ad usare strumenti di conoscenza forse insostituibili, per esercitarsi a criticare sé stessa, per recitare la parte vuota di una sua autosospensione. In realtà appare così, di frequente in primo piano, la fedeltà di Fortini a canovacci che hanno a lungo guidato il dibattito politico e culturale. Ci si riferisce, in special modo, all’ostinata separazione ed all’assolutizzazione che Fortini ripropone dell’universo delle forme artistiche e di quello della politica. Contro la passionale ricerca di Pasolini di una testimonianza “totale”, legata sempre al punto di vista della bellezza e dell’arte, Fortini privilegia il movimento dialettico della storia verso il futuro, entro una visione religiosa ed escatologica del comunismo. Lo strumento concreto per costruire tale futuro è la politica rivoluzionaria. Il lavoro dell’intellettuale deve tendere alla sua preparazione ed anticipazione attraverso la negazione del privilegio del proprio “sapere”e l’invocazione dei diritti di coloro che “non sanno”. L’arte così, con la sua tensione morale e con l’esercizio formale, fornisce dimensioni vitali che acuiscono la capacità di guardare ad un futuro liberato, oltre gli orrori del presente. Essa raggiunge questa funzione, parallela a quella della politica, quando si stacca da essa, quanto più rifiuta di attribuire ai propri linPagina 224


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guaggi espressivi compiti che invece spettano al terreno della storia e della politica, quanto più tende a negare sé stessa, a contraddirsi, a spogliarsi di ogni ruolo. Arte e politica entrano così in un difficile rapporto reciproco, in un interminabile gioco di rinvii e distinzioni: l’intellettuale che si muove sui due terreni è come agitato dalla necessità di commisurarli entrambi alla grande scena della storia, agli annunci molteplici, spesso occulti e segreti, con cui la realtà si proietta verso la meta del comunismo. Con questo disegno assoluto l’intellettuale, nell’atto stesso di contestare il proprio ruolo, si attribuisce, sotto una trama di spostamenti e negazioni, che meriterebbero una ben più attenta analisi, un privilegio certo molto più ambizioso di quello rimproverato a Pasolini. La fedeltà a tale disegno, suscita indubbia simpatia e rispetto per una storia che ha avuto la sua innegabile importanza. Denunciando i presunti torti di Pasolini, però, c’è anche qualcosa d’ ingrato. Non si può ancora oggi ritenere che l’esito di uno scontro intellettuale ed esistenziale si misuri in relazione ad una presunta coerenza ideologica, in relazione della quale vanno amati o odiati modelli e forme di cultura di volta in volta rappresentati. Gli orrori che si ripetono nel mondo non sono necessari e contemplati dal piano della storia. Discutibile appare allora la riproposizione fortiniana per la quale le mete umane sono raggiunte tramite la “somma infinita delle catastrofi individuali”. E’ difficile accettare il fatto che la difesa degli “esclusi” dal sapere, di chi non può godere di “risarcimento estetico “approdi alla negazione dei saperi concreti e dell’esperienza estetica. Sconcerta ancora in Fortini “l’ossessione di guerra guerreggiata” che Pasolini aveva pur notato in una recensione alle sue poesie apparsa nella rubrica “Il Caos”: la continuità con la nozione “ferina” della rivoluzione e la sopravvivente nozione di politica come teatro di violenza radicale e definitiva ( i cui presunti obbiettivi fanno perdere di vista il cumulo di dolore, di angoscia, la caduta dell’umano che ne consegue. ). Con Fortini e Pasolini si scende, con questo libro, negli anfratti più profondi della storia intellettuale di questo secondo novecento rivedendo tutti i fantasmi di cui non ci Pagina 225


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siamo liberati, i segni della sconfitta della sinistra che sarebbe l’ora ed il caso di spiegare finalmente in modo compiuto. E’ infine utile quest’opera per il fatto che si pone quasi come “postuma” rispetto a quei dibattiti politico-intellettuali sottraendoli così al vecchio ricatto della realtà, alla loro pretesa di commisurarsi, in quegli anni, con le condizioni “oggettive” del mondo. Quel dibattito e quei contrasti paiono ora letteratura: accanita, tormentata, narcisistica, aggrovigliata letteratura quanto più ostinata quanto più fragile e sfuggente, testarda comunque ricercatrice di “verità”. Una letteratura che forse non può più essere la nostra, ma con cui non va eliso, ancora oggi, un vero confronto179.

179

Per un approfondimento su tutto ciò che, fin’ora si è sostenuto, utile la rilettura di“Attraverso Pasolini”ed. Einaudi, Collana Contemporanea, Franco Fortini, scritti editi ed inediti, pp210 e seguenti

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LA MORTE DI STALIN E L’AVVIO DEL LENTO DISGELO. L’EVOLUZIONE DELLE POSIZIONI D’ INTELLETTUALI DI AREA SOCIALISTA.

Acuti fermenti, che preannunciano prossimi cambiamenti di fisionomia e di identità cominciano ad attraversare- profondamente- la DC dove, al periodo Degasperiano si avvia a succedere la fase fanfaniana. La direzione del Partito viene infatti assunta da “Iniziativa democratica” e si comincia a registrare un radicale cambiamento di identità e prospettiva politica. Lo stile di governo, che aveva distinto il quinquennio precedente, ( della maggioranza assoluta DC ) ne esce del tutto sconvolto “La Dc da subito l’impressione di non volersi più limitare alla gestione del potere politico lasciando- come in larga misura aveva fatto De Gasperi- ai grandi oligopoli la gestione di quello economico-, ma dimostra la precisa determinazione di intervenire nelle scelte dei potentati industriali e finanziari, di trattare da pari a pari con essi, di ridistribuire il potere al loro interno: di porre cioè le fondamenta di quella costruzione politico- imprenditoriale che vent’anni più tardi verrà definita la “razza padrona”180. La vittoria della linea fanfaniana si realizza nel Congresso di Napoli del Giugno 1954. Figura di primo piano della fase diventa, con Fanfani, il sindaco di Firenze Giorgio La Pira. E’ ovvio come ora la politica comunista dovrà adeguarsi al nuovo che si è determinato ed in effetti, da quel momento in avanti, si accentuerà al massimo la politica dell’attenzione verso ogni distinguo che maturerà all’interno del Partito cattolico. E’ necessario, per il PCI, l’utilizzo intelligente delle interne contraddizioni presenti nella principale forza avversaria. Inizia il periodo del lungo dialogo con la sinistra DC che, però, alla verifica dei fatti, non produrrà mai, nel corpo del Partito democristiano, definitive lacerazioni e scissioni. Di volta in volta si determineranno, all’interno, equilibri più o meno difficili- di coabitazione forzata- tra tendenze diverse. Viene messa a

180

Aiello op. cit. p. 312

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fuoco la peculiarità di un partito in grado di far convivere al suo interno, come nessun altro, il più diffuso interclassismo, favorito anche dall’ulteriore ramificazione

delle

organizzazioni

collaterali.

Come

si

è

già

accennato

l’impostazione rozza e discutibile di forze retrive, all’interno dei governi centristi (Scelba), direttamente schierati su posizioni di attacco alla libertà della cultura ed inclini alla pratica diffusa e spesso indiscriminata della censura, produce distinguo ed opposizioni anche nell’area culturale di cui era espressione il settimanale “Il Mondo”. Certo il discorso propugnato da Pannunzio e dal suo gruppo tendeva a mantenere fermo il discrimine di una critica radicale ad ogni forma di prevaricazione statuale ovunque si manifestasse insistendo, costantemente, sui tratti illiberali dei regimi dell’Est europeo. Era comunque un punto questo che - nella quotidiana polemica politica e culturale- poteva risultare sempre più largamente attraente. E’ anche per contrastare questo pericolo di espansione egemonica che, coordinato da Salinari, Trombadori e Romano Bilenchi, dal Marzo 1954, prende avvio l’esperienza de “Il Contemporaneo”. Esso, nelle intenzioni degli animatori, deve produrre approfondimenti e fattori di coesione di segno opposto a quelli del “Mondo”. Tra gli animatori de “Il Contemporaneo” troviamo anche Carlo Levi, Cesare Zavattini, Paolo Alatri ed Ernesto Ragionieri, Antonio Giolitti e G. C. Argan, Carlo Muscetta e Cesare Cases, Domenico Rea e Paolo Spriano. Attivo sostenitore del Neorealismo “Il Contemporaneo” mostra, in genere, di voler praticare una linea culturale di tolleranza nel confronto con altre linee e tendenze evitando, nel confronto, l’epilogo di definitive cesure. Spesso però a queste forze non viene risparmiato il rilievo di “provincialismo”, in una riedizione , però, nuova ed inedita nel senso che si fa notare come, troppo di frequente, da parte di costoro, viene arbitrariamente e pregiudizialmente preclusa la capacità di comprensione di tutto ciò che di positivo accade in Urss ed in Cina. Questi grandi Paesi devono invece entrare, a pieno titolo e diritto, nella scena della cultura mondiale. Azzardato ed ingiusto appare, infatti, al “Contemporaneo” la supponenza di una presunta ed assoluta superiorità della cultura occidentale. C’è però un altro e più importante rilievo da avanzare al “Contemporaneo “, Pagina 228


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ovvero un impianto ed un’impostazione del lavoro tutta all’interno di antiche e classiche dinamiche del rapporto tra comunisti e cultura. Il periodico non sembra comprendere, infatti, il dato- di enorme importanza- che sono stati avviati processi inediti, di grande novità, determinati dai fattori di trasformazione produttiva, economica e sociale della società italiana. Essa si avvia a diventare qualcosa di assolutamente diverso dal paese, a larga prevalenza agraria, che fino ad allora è stato. Succede infatti che, con l’aiuto e la sollecitazione diretta dell’intervento statale, s’inizia a prefigurare un profondo cambiamento ed un passaggio inedito e tumultuoso da paese prevalentemente agricolo a paese industriale. Non sembra cogliersi a pieno l’entità e l’importanza fortissima di queste tendenze, almeno stando alla lettura dei contenuti su cui sembra continuare ad avvitarsi la polemica con le forze avverse. Ai cattolici si rimprovera, ad esempio, il conformismo ed il fatto che, dopo occasionali distinguo, prevalga in genere tra quelle forze il senso dell’obbedienza alla gerarchia; i cattolici non sarebbero così mai riusciti ad elaborare una concezione organica ed unitaria della vita e del mondo. Il più forte distinguo con loro consisterebbe nel fatto che essi tenderebbero a dividere l’universo della cultura in due parti, tra loro non comunicanti, da un lato le discipline umanistiche, ove prevale- per il Contemporaneo-“la categoria del sacro e del trascendente” e dall’altro le discipline scientifiche, pratiche ed utilitarie. Così nella vita pratica e quotidiana del lavoro, nelle fabbriche e nei sindacati, prevalgono gli elementi di empirismo, positivismo, pragmatismo che non punterebbero ad altro che a coprire gli interessi economici dei grandi monopoli. Visione, come si vede, unilaterale e, in parte, ingenerosa. Due osservazioni possono avanzarsi al riguardo: troppo semplificata e superficiale è l’analisi delle organizzazioni interclassiste cattoliche, troppo influenzata, probabilmente, dalle avvenute pregresse rotture nell’unità d’azione sindacale e, soprattutto ciò che maggiormente colpisce è l’incapacità di comprensione delle nuove ed estese capacità espansive del capitalismo italiano, nel cui seno sta nascendo una nuova figura diffusa di intellettuale ben diverso dagli intellettuali coi quali, fino ad ora, si è colloquiato. E’ ora il tecnico di produzione nell’industria ad avviarsi a conquistare il centro della scena. Questo dato non è colto con sufficiente chiarezza e tempestività e lo spazio d’analisi e di iPagina 229


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niziativa in questa direzione lo stanno, conseguenzialmente, coprendo le forze politiche che si riferiscono alla DC. Sbagliato è ritenere che esso sia inevitabilmente destinato a diventare “quadro politico del capitalismo”, ideologica questa lettura e la sua preconcetta liquidazione come interlocutore almeno potenziale. La scorsa di alcune inchieste avviate sulla condizione del lavoro di fabbrica evidenzia l’attenzione accentuata solo nella direzione della denuncia dei fattori di alienazione del lavoro operaio ma appare in tutta evidenza, al contempo, la parzialità e l’arretratezza dell’analisi d’insieme. La direzione di Kruscev ed il cambio di passo da lui avviato in politica internazionale sembra diffondere nel mondo una nuova speranza. Pare finalmente possibile sottrarsi al pericolo, finora sempre sullo sfondo incombente, di uno scontro tra regimi opposti che può deflagare verso il punto di non ritorno di un conflitto nucleare distruttivo per tutta l’umanità. Le crisi locali però covano sotto la cenere e si manifesteranno, a breve, in tutta la loro estensione nell’area socialista in un processo costante e progressivo che raggiungerà il suo apice nella crisi d’Ungheria del 1956. Lì la crisi, nel rapporto tra intellettuali progressisti e Partito, perverrà ad un’estensione ed ad una profondità mai prima registratasi Alcune situazioni specifiche, come la Polonia e la Germania orientale, hanno già anticipatamente dato luogo ad intense tensioni tra masse, potere statale, partito. In genere, come è noto, le spinte alla democratizzazione di quei regimi saranno schiacciate da una dura repressione che mostrerà, a lungo, la sostanziale assenza di spazio per un’interna democratizzazione di sistema. E’, in ogni caso, il XX Congresso ed in particolare la relazione a porte chiuse di Kruscev, nota come “rapporto segreto”, messa in circolazione surrettiziamente tra la stampa occidentale, ad evidenziare la stigmatizzazione ufficiale di una tragica situazione a lungo, fino ad allora, negata. Il testo integrale del “Rapporto “sarà pubblicato, integralmente, sul “New York Times”181. In esso

181

New York Times , 4 Giugno 1956

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Kruscev denuncerà deviazioni gravi dalla legalità socialista dovute alla caduta del concetto e della prassi di direzione collettiva, introdurrà la spiegazione secondo la quale le “gravi deviazioni” sono state determinate dall’acritica esaltazione del “culto della personalità”, spiegherà in tal modo che a Stalin e solo a lui va attribuita la responsabilità di avere introdotto autentici elementi di degenerazione nella gestione del potere che, di frequente, hanno prodotto gravi illegalità, violenze e prevaricazioni nella vita interna dell’Urss. In questo clima hanno potuto attecchire e svilupparsi tutti i comportamenti devianti di opportunismo, carrierismo, burocratismo di cui ora ci si deve assolutamente liberare. Le dichiarazioni del “rapporto segreto” producono una folgorazione e violenti contraccolpi tra i Partiti Comunisti Occidentali e, soprattutto, nel PCI. Togliatti, alla luce delle dirompenti novità catapultate sulla scena del mondo, avvierà una riflessione ed una parziale rettifica, precisata nella relazione all’VIII Congresso del PCI e, più avanti ancora, nella notissima intervista a “Nuovi Argomenti”182 nella quale, pur tracciando, in modo forte ed incisivo, il permanere di differenze qualitative di fondo che non consentono piatte comparazioni tra regimi capitalisti e socialisti, ammetterà la necessità ed anzi propugnerà l’urgenza delle “vie nazionali” al socialismo. La campagna degli oppositori si diffonde, intensificandosi, in tutte le direzioni e produce elementi di evidente sbandamento in gruppi di intellettuali che già prima, seppur timidamente, avevano iniziato ad interrogarsi sulla bontà del modello di socialismo reale realizzatosi. Alicata, responsabile della Commissione Culturale Centrale, è il dirigente che dimostra di volere reagire con maggiore incisività a questa campagna che tende ad essere distruttiva per i comunisti italiani. Nel “Contemporaneo”,183orgogliosamente, egli sostiene che la differenza e la superiorità della società sovietica su quelle capitalistiche ed occidentali è dimo-

182

ivi, in “Nuovi Argomenti” n. 20, maggio- giugno 1956, pp. 110-139

183

art. “Dire la verità” del 31 Marzo 1956

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strata e confermata dalla capacità di riconoscere i propri limiti ed errori ed è per questo che non la si può mettere in discussione. . Capzioso è, per Alicata, il voler isolare l’elemento degli errori di Stalin mettendo in ombra tutto il complesso delle grandi conquiste realizzate dalla società sovietica in specie per quanto attiene il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle grandi masse di operai e contadini. C’è da dire che, in genere, duplice è la reazione tra le file degli iscritti, degli attivisti e dei militanti comunisti : nel mentre tra fasce consistenti di intellettuali crescono perplessità e dubbi, in genere il sentimento presente tra le masse operaie, dopo l’iniziale stupore, è di negazione e di opposizione alla linea di Kruscev e di accesa difesa di Stalin e della sua opera storica di costruzione del socialismo. Il mito di Stalin è ancora troppo forte e presente, l’epopea eroica della lotta al fascismo ed al nazismo è ancora troppo viva per consentire la messa in discussione, anche parziale, dell’opera e del pensiero del “Capo del movimento operaio internazionale”. Soprattutto, ma non solo, nelle grandi concentrazioni operaie il Partito si imbatte in difficoltà grandissime nel tentare un ridimensionamento della figura e del ruolo del dittatore. Aspre reazioni ai tentativi di ridimensionamento di Stalin si registrano, tra la base operaia, nell’area del triangolo industriale ma anche tra braccianti e contadini aderenti al Partito184. Naturalmente l’estrema durezza del quadro che ora viene proposto concorre a determinare l’avvio di un processo accelerato di presa di distanza dei socialisti

184

Nel 1958 la rivista “Nuovi Argomenti” pubblica : “Inchiesta alla Fiat”( poi ristampata in G. Carocci, Inchiesta alla Fiat, Parenti-1959. Vi si denuncia l’isolamento nel quale è stato confinato il sindacato di classe e la pesante e consueta pratica di sistematica discriminazione, praticata dalla direzione aziendale, immediatamente pronta al ricorso ai licenziamenti- anche di massa-per motivi sindacali o politici. La difesa delle libertà civili e dei diritti conquistati nelle fabbriche è tema su cui si tenta di costruire una convergenza, almeno difensiva, tra i lavoratori, soprattutto di sinistra ed aderenti alla CGIL e strati d’intellettuali significativi e prestigiosi impegnati anzitutto a Torino. Norberto Bobbio è contattato ed aderisce all’iniziativa. In ogni caso lo stato di discriminazione che si avvertiva nelle fabbriche italiane, concorreva, di converso, a mantenere ed esaltare il ruolo di Stalin ancora visto come simbolo del potere operaio e proletario ed espressione massima dell’intransigente dittatura- per conto del proletariato- sui gruppi capitalistici totalmente estromessi- in Urss, dal potere politico ed economico.

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dai comunisti, operazione che avrà riflessi evidenti sul piano della politica culturale nella quale si amplificano le posizioni tese alla rideterminazione di nuove e nette distinzioni. Da parte socialista si chiede un esplicito riconoscimento ed una netta, critica presa di distanza dalle concezioni proprie dei Paesi a socialismo reale. C’è bisogno di una esplicita condanna delle deviazioni di quelle società, si avanza la richiesta di assunzione, non ambigua, della posizione teorica del valore universale della libertà con la difesa di una concezione della cultura del tutto svincolata dall’assoggettamento a direttive politiche. L’area socialista, nel campo della cultura, comincia a configurarsi con una più precisa fisionomia e non è in incidente la posizione degli intellettuali di “terza forza”, soprattutto gravitanti intorno al “Mondo”, a spingere decisamente nella direzione di una presa di distanza e di un nuovo riposizionamento degli intellettuali fino ad allora “fiancheggiatori “o “compagni di strada”. Ecco come, alcuni anni dopo, Rossana Rossanda ricostruirà l’evoluzione delle posizioni di alcuni dei più acuti intellettuali di area socialista, l’imprevedibilità e difformità individuali e collettive degli sbocchi, non univoci, cui perverrà la loro ricerca di nuove prospettive. Il tema è approfonditamente affrontato nella seconda parte dell’articolo “Come si evolve l’ideologia del Psi”185, che per la pregnanza delle riflessioni proposte, si sceglie di riportarein maniera particolarmente estesa nella presente trattazione. La prima fase, esordisce Rossanda, è quella della crisi dell’ideologia. Si è già detto che le sue radici sono negli anni precedenti. I suoi antenati sono la restaurazione capitalista, la guerra fredda e la pesantezza della situazione nei centri operai; forse non a caso i suoi luoghi di elaborazione sono stati nel Nord: Fin dal 1951, raccogliendo alcune inquietudini del Politecnico, si delinea dentro ed attorno al Psi un filone di idee che andrà acquistando peso fino a giocare un ruolo importante nella polemica del 1956. Gli articoli raccolti da Franco Fortini in “ Dieci Inverni”, la collezione di una rivista interna che fa capo appunto a Fortini e Guiducci, “ Discussioni”, i primi pamplets di Roberto Guiducci, dal 1954 al 1956, “delineano un’argomentazione che, partendo dal tema politica e cultura, investiva le questioni fondamentali di indirizzo dei par-

185

“Rinascita “ mensile del 1961.

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titi operai. Il tema non era nuovo; nato , si può dire, assieme al Politecnico, ripreso più volte e poi organizzato, nel 1953, nel primo numero di “ Nuovi Argomenti”, si va modificando da protesta degli intellettuali verso carenze o incomprensioni della direzione politica in una critica totale del metodo e dei contenuti del partito”. Il bersaglio è non meno il Pci che il Psi; le premesse sono nell’impossibilità di scindere, in un partito marxista,il momento della direzione culturale dal momento teorico, e la politica dalla teoria, per cui “dalle insufficienze della cultura marxista non può che derivare, esserne causa ed effetto, una insufficienza politica totale”. Le difficoltà del movimento operaio settentrionale vengono riferite alla incapacità di prevedere lo sviluppo capitalistico; le sconfitte del Nord testimonierebbero dunque di una crisi conoscitiva del marxismo; crisi, a sua volta, non casuale ma corrispondente al disegno del Pci, il quale, “subordinando le sorti del proletariato italiano alla strategia internazionale dell’Unione Sovietica e all’ipotesi mitica della fatale catastrofe del capitalismo, non solo non avrebbe sollecitato un’elaborazione autonoma dei marxisti italiani, ma l’avrebbe temuta, risolvendo interamente la propria politica culturale in alleanze tattiche con gli intellettuali e le correnti di idee tradizionali”. Il discorso, iniziato quindi attorno al 1951, precipita nel 1956. Rivedendo oggi le fasi di quel momento di crisi ideale, recente e tuttavia singolarmente invecchiato, appare evidente come esso non abbia avuto, da parte della dirigenza del Psi nessuna guida…”si sperò l’inizio di una nuova elaborazione socialista, fu chiaro abbastanza presto che la direzione nenniana non avrebbe dato sbocco, nel partito a nessuna delle istanze di organizzazione dello studio, o di apporto specialistico, o di collettiva elaborazione programmatica e, più tardi, neppure di semplice libertà del dibattito, che finì con l’incanalarsi nella relativa incomunicabilità di fogli di gruppo o di corrente”. Così alla prima fase di fiducia… subentra la sensazione di avere alle spalle un errore totale… Calvino sosterrà così che la storia si mostrò una tigre difficile da cavalcare; e che “ alla fretta dettata dalle cose”sarebbe stato il movimento operaio unitario il solo a saper rispondere, in quella che fu assieme battaglia, scelta, elaborazione, sotto il fuoco del più massiccio attacco del dopoguerra: L’azione politica Pagina 234


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sembrò saper dominare la realtà, possederne l’intelligenza, più che non la cultura. In verità è la distinzione, cara alla polemica revisionista, che non tiene; giacchè come collocare fuori dalla storia la coscienza che essa ha di sé, e in questa distinguere una duplicità di funzioni, fra il pensare politico e l’agire politico?Nato dal rifiuto di uno schema questo nuovo tipo di revisionismo appariva un nuovo e più povero schema. Che la storia non vi si sia più fatta prendere non è stata una sua nuova astuzia a danno dei chierici: è che, quando essa ha loro proposto l’annodarsi di alcune contraddizioni risolutive, richiedendo quindi lo sforzo interpretativo più grave, essi non hanno saputo guardare nelle sue ferite se non per ritrarsene o gridare perduto il nesso tra storia e morale, tra “ socialismo e verità”. “Ed è stata la grande crisi, il crollo dei miti, la denuncia del dio che ha tradito, lo smarrimento del legame tra morale personale e morale collettiva, del quale la rottura di condizione di militante non è che l’espressione finale”. “Là dove essa è più acutamente vissuta e analizzata, come in un Fortini, diventa per sé sola l’esperienza centrale di revisione, il cui oggetto non è più il contesto storico dal quale la crisi ha preso le sue mosse, i nodi, insomma,che il movimento operaio deve sciogliere, ma la frattura che il militante socialista sperimenta tra lasua speranza nella innocente razionalità della rivoluzione e la realtà storica della lotta di classe, e dei suoi errori”. Non è la stessa crisi assimilabile alla scelta del disimpegno, già sperimentata in altre fasi della cultura europea ed italiana. C’è un diverso e ben più intenso salto : “fra il “ Diario in Pubblico” di Vittorini e i “ Dieci Inverni” di Fortini sta la lunga milizia socialista, l’essersi provato con i problemi del partito, il bisogno di un’alternativa non solo individuale ma collettiva,politica, socialista, del secondo.E’ questo che rende la sua condizione più grave, non si riconosce più nella classe dirigente attuale né in quella futura. Nel comunismo….crede di aver scoperto lo stesso spettro che gli pareva proprio della società capitalista: la nuova alienazione…” Di qui la contrapposizione tra partito e individuo, e la riduzione del partito a gruppo di potere, machiavellismo della rivoluzione, macchina che spezza la spinta libertaria del movimento, “nuova tirannide”. Rossanda- non ancora approdata alla personale drammatica rottura col partito- rileverà, conclusivamente, con una delusione che risulta esplicita , che : “non a molto più di questo, se Pagina 235


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si tirano le fila, è arrivata la critica revisionista allo stalinismo che ha avuto largo spazio sull’”Avanti” e sulla pubblicistica socialista, nello stesso ambito intellettuale che pure accusava il XX Congresso e il rapporto segreto d’una argomentazione e di una documentazione storica insufficiente”. In ogni caso, tornando all’origine degli eventi, della loro genesi e del loro tragico sbocco già i fatti di Pozdan in Polonia avrebbero dovuto mettere in guardia su ciò che maturava nelle viscere delle società e degli Stati a socialismo reale.Certo sarà l’esplosione incontrollata ed imprevista della rivolta ungherese, che si svilupperà consumandosi, - in modo drammatico-, alla fine del 1956, a surriscaldare, come mai prima è avvenuto, il clima ed il confronto interno. I fatti sono così noti e su di essi si è tante volte tornati, negli anni seguenti, da consentirci di evitare, per il momento, una circostanziata ricostruzione dello sviluppo, tumultuoso, degli avvenimenti che allora si registrano. Tranne la voce, isolata, di Di Vittorio e della CGIL, che esprime formale condanna dell’intervento dei carri armati sovietici, nella direzione del Partito c’è una sostanziale levata di scudi nella interpretazione della vicenda ungherese quale esempio di un tentativo, violento ed armato, di controrivoluzione reazionaria, ispirata e sostenuta, oltre che direttamente organizzata, dalle forze imperialiste occidentali. La posizione delle forze di governo è tesa all’esasperazione della rappresentazione, che, senza dubbio di alcun genere ora appare clamorosamente confermata, della insostenibilità ed indifendibilità di regimi dittatoriali che, invece, incredibilmente vengono sostenuti da forze, come il PCI, presenti nel territorio nazionale. La campagna violenta, per rimarcare l’estraneità del PCI dalla storia e dalla cultura dell’Italia, trova una nuova ed insperata impennata. E’ stato giustamente ricordato come nei fiumi di inchiostro che in quell’ ” indimenticabile 1956” si versarono su tutte le testate italiane, europee e mondiali, solo un acuto ed attento osservatore come Indro Montanelli rappresentò, senza ambiguità, la verità dei fatti. Montanelli, inviato del “Corriere della Sera”, precisò subito che ciò che di clamoroso appariva non era altro che l’avvio di una sanguinosa resa dei conti tutta interna al regime comunista ungherese. In realtà il carattere e la grande partecipazione operaia ai tumulti di piazza, l’assalto e le Pagina 236


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devastazioni delle sedi del Partito Comunista Ungherese, l’esecuzione di attivisti, quadri del PCU non erano altro che la plateale e tragica dimostrazione della definitiva crisi del rapporto di fiducia tra masse popolari e direzione burocratica che non aveva avvertito a tempo, rimovendoli, i motivi oggettivi alla base dell’ingrossarsi della protesta sociale. Il Partito, preso alla sprovvista, si dissolveva come neve al sole. In quel tempo avremo la visiva anticipazione di quanto, ben più tardi, si realizzerà nell’area socialista in un altro anno indimenticabile, il 1989. Ciò che a fatica si era in Italia sostanzialmente continuato a tenere insieme, come forze intellettuali, di diversa ispirazione a sfondo democratico, mostra segni di verticale cedimento. Le forze socialiste, raccolte attorno al periodico bimestrale “Passato e Presente” di cui Antonio Giolitti è fervente animatore, rompono ogni argine attaccando senza remore Togliatti ed i suoi tentativi di chiarire, spiegare, minimizzare. Togliatti è tacciato di essere un “inguaribile bugiardo” ed i comunisti sono descritti come gente inetta ed insieme maligna che va assolutamente combattuta. Per nulla convincente appare la tesi, di Togliatti e dei principali dirigenti comunisti, che i fatti d’Ungheria sono la dimostrazione dell’entrata in campo del “terrore bianco”. E di “gruppi armati controrivoluzionari”. C’è invece, diffusa, la convinzione che l’intervento sovietico, tragico, è inaccettabile e va esplicitamente condannato. Fioccano la raccolta di firme di dissenso e molti intellettuali si attivano a pretendere una repentina correzione della posizione ufficiale del Partito. Il dissenso degli intellettuali si concentra, in gran parte, attorno alla Casa editrice “Einaudi” ed alla rivista “Società”. !01 firme di intellettuali di primissimo piano vengono subito raccolte ed i primi firmatari sono Muscetta, Sapegno, Asor Rosa, Alberto Caracciolo, Mario Tronti, Renzo De felice, Paolo Spriano e tanti, tanti altri dei più vari campi del sapere. La lettera sottoscritta intende procedere per vie interne ed è per questo che è stata indirizzata al Comitato Centrale ed alla Direzione de “L’Unità”. La delegazione che si reca al Partito viene ricevuta da Pajetta, Ingrao e Reichlin ed è aspramente redarguita. Si configura anzi, nei riguardi dei firmatari e dei propugnatori di quella linea

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del distinguo, l’accusa, infamante, di “frazionismo”. In Ungheria tutta la cultura più viva e moderna, compreso Lukacs, si è schierata coi “controrivoluzionari”, cosa questa che, evidentemente, accresce il dolore e l’amarezza degli intellettuali “organici” italiani direttamente impegnati nel Partito186. Sembrerebbe che si sostenga la tesi che i risultati dell’iniziativa comunista abbiano prodotto questi risultati: tramonto dell’idealismo filosofico; attualità dell’antifascismo; bisogno di distensione ideologica; Quest’aspetto è, probabilmente, quello che, in questa trattazione interessa maggiormente. In Urss, dopo la morte di Stalin, avviene lentamente ma ineluttabilmente, un insieme di cambiamenti che, sebbene non radicali, non possono che fare avvertire i propri riflessi sul piano della cultura. La stagione della potente invadenza della politica sulla cultura tende, pur non scomparendo, ad attenuarsi ; il realismo inteso come criterio unico ed esclusivo di giudizio sulla qualità delle opere d’arte inizia a frantumarsi come “dottrina “ufficiale. A causa della peculiare intensità e del fervore critico che in Italia non è mai morto si assiste al ripartire delle condizioni per un approccio più autocritico e problematico, da ogni parte, per il riesame dei problemi. C’è ancora, senz’altro, il peso delle precedenti polemiche sviluppate tra contrapposti schieramenti, ma i toni tendono ad attenuarsi,. Alicata insiste sulla necessità di evitare una visione manichea per la quale l’occidente è il bene e l’oriente è il male e Bobbio invita ad abbassare, da parte di tutti, i toni, auspicando che-dal rumore indistinto delle voci e degli scontri che ci sono alle spalle- si possa passare ad un lungo periodo di studi, approfondimenti, maggiore capacità di reciproco ascolto. La Casa editrice Einaudi conferma, in questo periodo, apertura e lungimiranza. E’ il punto che, probabilmente, più si mette in sintonia con i messaggi di disge-

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Consultare: “Il Contemporaneo” Estate 1955, Inchiesta Onofri –Cesarini su “Dieci Anni di Cultura in Italia”

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lo accentuando la sua duttilità e spregiudicatezza delle quali darà uno dei più forti esempi, nel 1957, con la pubblicazione -, in Urss a lungo ostacolata-, del “Dottor Divago” di Boris Pasternak187.

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LA RIVISTA “RAGIONAMENTI” sarà animata da intellettuali di area socialista come Armanda Guiducci, R. Guiducci, L. Amodio, S. Caprifoglio, Franco Fortini, F. Somigliano, A. Pizzorno. Nasce nell’autunno 1955. Su questa rivista si svilupperà, tra le varie cose, la discussione sul “Metello”, giudicato proprio su questo foglio, da Franco Fortini negativamente, “un’opera balsamo” per la classe operaia ( a. I, n. 3, gennaio- febbraio 1956 pp. 46-47-48), mentre il racconto, di converso, piace e molto a Togliatti.

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IL XX CONGRESSO DEL PCUS - I FATTI D’UNGHERIA - RIFLESSI IN ITALIA. IL DOCUMENTO DEI 101

Il XX Congresso del PCUS (Febbraio 1956), i fatti d’Ungheria (Ottobrenovembre 1956), l’VIII Congresso del PCI ( Dicembre 1956) procurano uno sconvolgimento profondo nel campo delle idee, una nuova scissione ed un nuovo e difforme posizionamento. . Sono colpite alcune certezze che si rilevarono ideologiche mentre sembravano scientifiche, ad esempio il fatto che, eliminata la proprietà privata, mai si sarebbe più potuto produrre un distacco tra il governo di uno Stato Socialista ed i lavoratori. Mi sembra anzitutto possa essere motivo di particolare interesse la circostanziata e diffusa riproposizione delle posizioni assunte da alcuni dei principali dirigenti del PCI sui temi decisivi del XX Congresso del PCUS e sui fatti d’Ungheria. Se ne potrà ricavare un quadro d’insieme sufficientemente fedele rappresentativo di positive intuizioni , delle parzialità, delle evidenti inadeguatezze e reticenze. Luigi Longo si domanda188 come sia stato possibile che accadesse quanto è successo dopo 12 anni di potere operaio e di costruzione socialista in Ungheria.Una delle ragioni essenziali consisterebbe nella grave regressione dovuta al “ non giusto funzionamento del Partito e dei suoi organismi dirigenti nei quali la democrazia, la critica, l’autocritica e il libero dibattito erano stati praticamente ridotti a zero”.Il quadro d’insieme si era ancora di più aggravato in quanto i sindacati erano venuti meno alla loro funzione di difensori degli interessi concreti dei lavoratori.”…” Gli stessi organi del potere popolare si sono isolati dalle masse popolari e… rinchiusi nei loro apparati burocratici, sono scaduti nella considerazione della realtà” “ Dall’altro lato, l’intervento attivo, nella stessa lotta in seno al partito e al regime, di elementi di diserzione , di capitolazione e tradimento, avrebbe aperto la strada all’azione delle forze reazionarie indigene , che il potere operaio non aveva totalmente li-

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quidate, ed alla propaganda degli agenti controrivoluzionari, che la reazione imperialista straniera si era affrettata a far penetrare in Ungheria” Falso, per Longo, agitare la tesi che il socialismo si fosse identificato, per l’Ungheria, con una realtà fatta solo di miseria e sacrifici. In quel Paese-sosteneva il dirigente comunista-, la disoccupazione era stata liquidata e la condizione dei contadini era notevolmente migliorata col possesso e la lavorazione in proprio della terra strappata ai latifondisti. Il potere operaio aveva assicurato un ottimo sistema previdenziale nel mentre, prima del socialismo, il 90 per 100 dei lavoratori anziani era privo di pensione. La situazione però, dopo i primi anni di avanzata, era regredita nel periodo dal 1951 al 1953.Al forte aumento della produzione industriale si era in parallelo coniugata la riduzione drastica dei salari di alcune delle categorie operaie più qualificate.Le difficoltà e le contraddizioni del processo di accumulazione socialista non erano state affrontate ampliando il confronto ed il dibattito interno al Partito. Al contrario si era dato vita ad un eccesso di centralizzazione del potere nelle mani esclusive della segreteria e del segretario.Le funzioni collegiali degli organismi dirigenti erano state svuotate ed annullate. I “fattori di burocratismo e di distacco dalla realtà”erano divenuti prassi consueta .A quest’insieme di deviazioni era dovuto il gravissimo processo degenerativo che aveva gravemente minacciato la stessa vita dello Stato Socialista. Rakosy aveva a sua volta ecceduto in un esasperato personalismo, l’Ufficio politico era stato tenuto all’oscuro delle decisioni più importanti ed in pratica del tutto esautorato, come lo stesso C.C., delle sue proprie prerogative e gli organismi avevano finito per essere riuniti solo per approvare decisioni già assunte.Rakosy era inoltre responsabile del torbido clima che si era diffuso col suo vedere, ovunque, spie e traditori. Si era così proceduto alla sistematica eliminazione dei compagni più vecchi e provati ed alla loro sostituzione con personale politico più giovane ma molto più inesperto. Gli organi dirigenti avevano finito per perdere del tutto il contatto dal Partito e questo, a sua volta, aveva reciso ogni rapporto con le masse. Dopo il XX Congresso tutti gli errori e le debolezze accumulatesi negli anni erano esplosi violentemente ma l’attacco a Rakosy, in parte oggettivamente motivato, era stato esteso, indiscriminatamente, a tutto il Partito.La rivolta violenta e sanguinosa comunque non sarebbe ePagina 241


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splosa e tutto si sarebbe, seppure a fatica, potuto ricomporre, se essa non fosse stata preparata “ minuziosamente dall’interno del Partito e del Paese e dell’estero”. “ I famosi circoli” Petofi” e “ Kossuth” hanno condotto una propaganda di menzogne , tentando di dimostrare che tutto ciò che in Ungheria era stato fatto, dalla liberazione in poi, era male e che di ciò erano responsabili tutti i dirigenti del Partito e il partito stesso”. Rakosy, secondo Longo, andava sostituito già la prima volta che si era posto il problema, nel 1953. Allora Nagy aveva posizioni sagge e ragionevoli , ma poi si era circondato di “ gente nemica del Partito, che lo ha largamente influenzato fino a indurlo a compiere- prima e dopo i giorni di Ottobre- quegli atti che hanno fatto precipitare la situazione , spezzato definitivamente il Partito e aperto la strada alla controrivoluzione”. Nagy aveva finito per regredire, dopo il 2 Ottobre, “su posizioni sempre più capitolarde”. Le sue azioni erano diventate ambigue e gravemente disfattiste. Egli si era infatti dichiarato d’accordo col primo intervento sovietico., ma aveva poi negato di avere assunto queste posizioni , non comportandosi, così, da comunista.I suoi numerosi ondeggiamenti non lo renderanno credibile quando ordinerà ai rivoltosi di cessare il fuoco.Grazie all’azione delle forze controrivoluzionarie, interne ed esterne all’Ungheria, essi attaccheranno la sede del partito “facendo strage dei compagni che vi si trovano, i cui corpi sono appesi agli alberi della Piazza antistante”.Nagy prese da solo allora le più gravi decisioni, quella di fare uscire l’Ugheria dal Patto di Varsavia, la dichiarazione di neutralità e la richiesta di intervento all’Onu. “ Ha inizio allora la caccia al comunista, l’assassinio e lo scempio di quanti avevano difeso e difendevano le istituzioni democratiche e socialiste. La controrivoluzione ha la strada libera. Gli elementi reazionari, gli agenti hortysti, che negli ultimi anni erano stati liberati dal carcere e inviati nella produzione, in assenza della maggioranza degli operai e dei comunisti invitati a restare a casa, prendono la testa del movimento nelle fabbriche e nelle piazze, danno vita ai cosiddetti consigli operai, espressione spesso di poche decine o poche centinaia di operai ingannati dai demagoghi. Dall’estero entrano specialisti della guerra civile ed esponenti dei vecchi padroni delle fabbriche e delle terre. Il cardinale Mindszeenty tenta di dare un nome ed un programma alla controrivoluzione scatenata. E’ ormai chiaro che Pagina 242


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Nagy non si fermerà sulla via della capitolazione”. Longo procede così, nella sua conclusione, difendendo la tesi che “ Bisognava farla finita anche con lui e richiedere un nuovo aiuto alle truppe sovietiche per schiacciare la controrivoluzione che innalzava la bandiera della restaurazione capitalista ed agitava i motivi “ revanscisti” per polarizzare le forze nazionaliste e ricevere l’aiuto dell’imperialismo. L’Ungheria sotto la guida della controrivoluzione si apprestava a trasformarsi in un posto avanzato di provocazione e di minacce di guerra contro tutti i paesi confinanti, a trasformarsi, cioè, in un pericolo mortale per la Pace in Europa e nel Mondo”… “ Per fortuna, sia pure in extremis, l’aiuto sovietico permise di respingere la controrivoluzione”.L’insieme delle posizioni di Longo, riportate da “ Rinascita” esplicitano l’indisponibilità all’esatta individuazione della vera genesi della contraddizione esplosa, la parzialità nell’indagare gli errori fatti nel processo di costruzione di uno Stato di Nuova Democrazia, l’esistenza di un fortissimo condizionamento esterno che limita fortemente la formulazione di una credibile e rigorosa linea autonoma dei comunisti italiani, la sintetica obbligatorietà del “ dovere” di stare di qua o di là della barricata. Così non c’è distinzione né condanna alcuna dell’atto di aggressione dell’Unione Sovietica.Non deve stupire il clima di pressochè totale assenso e concordia con l’Urss. E’ il caso di richiamare la visione assolutamente positiva, diffusa sulla realtà sovietica, in pressoché tutto il partito. Esemplificativo, nella sua particolare efficacia, il giudizio di un raffinato intellettuale come Francesco Flora.Ecco come la sua posizione è riassunta nell’articolo “ Libertà e umanesimo socialista”* Rinascita mensile 1957)* . Egli esplicita, pubblicamente, le sensazioni in lui prodotte da una visita in Unione Sovietica. Anzitutto c’è , da parte sua, la scelta di riportare una sensazione sul clima d’insieme che si avverte, un po’ dovunque nel Paese. Uno sviluppo di massa dell’accesso all’istruzione, un amore visivo per lo studio e le molteplici attività culturali, un’esatta e densa percezione del grado di solidarietà umana ed interpersonale che sembra il tratto distintivo e prevalente sul quale si sta costruendo una nuova società , che quasi prefigura in nuce la possibilità di dar vita ,assieme ad una nuova società, ad un vereo e pro-

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prio uomo nuovo. E’ evidente,per il Flora, la superiorità di una società che si è liberata dal bisogno e dalla soggezione economica e nella quale, al di là dei punti di partenza di classe e di ceto , ad ognuno ed a tutti è assicurata una situazione potenziale di eguali opportunità di accesso al lavoro ed alla cultura. Certo ci sono ulteriori mete da raggiungere : “ Come riconosco le raggiunte libertà della cultura in Europa, ma considero illiberale la censura e qualsiasi divieto o indice contro la lettura di certi libri e giornali, considero francamente illiberale nell’ancor giovane mondo sovietico, il divieto di certa critica, l’ufficialità della stampa maggiore, l’opposizione a cert scrittori etc. Ma nel tempo stesso considero una conquista grande di libertà aver dato a tutti i sovietici non soltanto la capacità di leggere e di scrivere vincendo l’analfabetismo, ma la opportunità di una grandissima familiarità col libro, come con ogni altro strumento di cultura : e il culto della biblioteca e del museo accanto a quello del lavoro”. Nessun paragone quindi con una società che , oggi, fondandosi ancora sul privilegio economico, non può essere libera “ Questa è una insormontabile contraddizione in termini : privilegio dei pochi,libertà di tutti” “ Libertà significa per molti il presunto diritto di mantenere le classi umili nell’ignoranza ed abbrutirle nella miseria perché siano rassegnate all’arbitrio dei padroni e siano incapaci di comprendere i loro vero bene ed il loro diritto. Così credendo fatale la loro condizione e voluta dal cielo, accetteranno con riconoscenza l’elemosina con la quale gli epuloni concedono ai lazzari ciò che ad essi avanza”” Tra monopolio economico e libertà ( che oggi per principio significa libertà per tutti) esiste una contraddizione insormontabile “. Non c’è dubbio alcuno, in conclusione, quale risulti essere, per il Flora, il tipo di società , pur tra il persistere di irrisolte contraddizioni, senza alcun dubbio migliore e superiore tra modello capitalista e socialista. Lo stesso Togliatti sceglierà di non indagare a fondo e con sincerità, nelle cause oggettive e profonde degli elementi del disagio della popolazione ungherese. Si limiterà ad assumere la posizione, sostanziamente giustificazionista, suffragata dalla tesi della continuazione della lotta di classe anche nella società socialista all’indomani della presa del potere da parte delle forze operaie e proPagina 244


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letarie.Sferzante risulterà anzi l’attacco a riviste come “ Il Mondo” ed “ Il Mulino”,cui viene attribuita la esclusiva volontà di lavorare, nel campo delle idee, per produrre un definitivo “ isolamento” dei comunisti italiani,,. Togliatti contesterà con durezza lo “ smarrimento” di forze intellettuali che propongono un eccesso di criticità a senso unico, finendo nei fatti per confondersi con i più reazionari tra gli avversari, facendo così un’autentica ed indistinta operazione suicida nell’attacco pregiudiziale ed ostile al grande paese dei Soviet “ Visioni assurde e ridicole, cui si contrappone la realtà di un Paese nel quale, anche mentre si facevano quelle cose cattive oggi denunziate, vi era la sostanza di una vita economica, di una vita politica, intellettuale, sociale, positiva, in sviluppo e in progresso, cosicché quei mali, per quanto fossero grandi, non riuscirono ad avere una potenza distruttiva. Questo è dunque il primo segno dello stato di crisi che stiamo esaminando, il distacco dalla realtà, la incapacità di vedere e comprendere le cose come sono state e come sono,e di ragionare sopra di esse, collocando al giusto posto e nella giusta misura il chiaro e i limiti,respingendo ogni rappresentazione mitologica, apocalittica, falsa.”. “ La visione manichea, propria sino a ieri dei settori più reazionari, fornisce il fondamentale criterio di giudizio a uomini e settori che sembrava fossero riusciti a raggiungere più umano modo di pensare, e lo fornisce a proposito di quello che rimane il fatto più grande della civiltà contemporanea, la creazione di economie e di regimi che non sono più capitalisti, ma socialisti, o avviati verso il socialismo. Ci sembra evidente che qui sia in crisi la concezione stessa della storia”. Ed ancora : “…non è preso in considerazione un piccolo fatto come la seconda guerra mondiale; che tra i preliminari di questa guerra scompare di solito la Spagna, scompare Monaco, scompare la Cecoslovacchia….La realtà viene in questo modo passata ad un vaglio sapiente. Ciò che ne rimane è un frammento o un’ombra, e tutta l’argomentazione , in apparenza distaccata e seria , è di fatto intessuta di reticenze astute e travisamenti gesuitici”. Lo “ sbandamento e decadimento mentale” non semplice da capire sarebbe anzitutto dovuto al fatto che “ il possesso del marxismo, come metodo di pensiero e guida al giudizio storico e politico esatto, non è facile da acquistarsi, soprattutto in un paese dove continuamente risorge la tendenza alle forme del pensiero astratto, al dogma Pagina 245


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e al catechismo”. C’è poi da aggiungere, per Togliatti, che i difetti denunciati e dovuti al culto della personalità per l’Urss “ erano particolarmente marcati per lo meno in alcuni di coloro che oggi sono in preda a questo sbandamento. Poiché vivevano di catechismo, dopo che gli si è ripetuto con tanta energia che il catechismo non c’è, vanno brancolando”. Ed invece si deve capire che ” Il metodo marxista è una conquista del pensiero che si attua e perfeziona solo nella lotta politica e di classe.. Per questo ci è accaduto di cogliere giudizi esattissimi sul valore e sul significato delle denunce del XX Congresso, formulati dagli uomini più semplici, mentre molti altri si smarrivano nella sfiducia e nella confusione”. In conclusione Togliatti rileva la persistenza di un autentico “astrattismo” nella interessata ed unilaterale ricostruzione degli avvenimenti ungheresi, un’oscillazione interpretativa più incline a valutare linea e posizione di vari gruppi intellettuali, anche italiani, non in relazione all’autenticità di “ un metodo marxista come conquista del pensiero che si attua e perfeziona solo nella lotta politica e di classe” Perciò “ Quando queste verità sono apprese soltanto sui libri, conquistate con la riflessione, è più facile smarrirne la nozione. Ma da noi è accaduto,negli ultimi anni, che vi è stata una discordanza abbastanza profonda di posizione tra coloro che combattevano le lotte economiche e politiche pel rinnovamento del Paese e coloro che, pur facendo parte dello stesso fronte, si muovevano soltanto sul terreno della cultura”. Costoro erano portati ad astrarre dalla condizione storicamente datata nella quale i fatti denunciati erano venuti a maturazione e dall’esatta individuazione delle cause storiche ed economiche invece imprescindibili.” Si astraeva, anche qui , dalla visione piena del campo intiero, degli sviluppi reali.” Restava l’ammirazione per il cosiddetto tatticismo, e questo era un complemento del culto delle persone. Ma tutto questo era falso, e il colpo assestato dal XX Congresso ha aperto una crisi perché ha messo in luce questa falsità. Allora la critica si è volta con irritazione verso l’esterno, dove ci si era fatti, artificiosamente , degli idoli. Si buttano giù gli idoli e se ne cercano degli altri. Si cerca il miracolo, l’atto unico, la parola nuova che cambierà la faccia delle cose, restituirà la pace alle coscienze, aprirà tutte le strade” In realtà la crisi , per Togliatti, non riuscirà ad offuscare i veri e decisivi punti della grande avanzata del movimento socialista mondiale con i Pagina 246


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suoi enormi ed indiscutibili progressi in ogni campo.Il mondo capitalista è stato così costretto, suo malgrado, a convivere con lo Stato dei Soviet e col movimento socialista mondiale grazie alla scelta, che costoro sono stati costretti a subire, della coesistenza pacifica.C’è chi arriva a sostenere la bizzarria che se coesistenza pacifica vuol dire Pace ciò va inteso nel senso che tra Socialismo e Capitalismo non ci sarà più alcun conflitto. Nelle polemiche frontali che si sono succedute dopo il XX congresso ed i fatti d’Ungheria lo stesso Lukacs nonostante la sua perizia nella trattazione di questioni di principio, è in parte caduto in questa trappola… “Ha ragione quando afferma che i comunisti,dove sono al potere, contribuiscono alla vittoria del socialismo in tutto il mondo nella misura in cui “ rendono il socialismo desiderabile”, ha torto invece quando riduce il contrasto tra il capitalismo e il socialismo, in un regime di distensione e di coesistenza, al puro contatto e confronto di due concezioni del mondo. E’ vero che poi in parte si corregge , aggiungendo che vi è una dialettica interna al capitalismo e che questa dialettica lo spinge irresistibilmente verso il socialismo. Stiamo però attenti a non cadere in un fatalistico oggettivismo,, a non trasformare la necessità logica e storica nel senso più ampio della parola in necessità quotidiana concreta…..stiamo attenti a non sostituire una irreale rappresentazione idilliaca, alla visione delle cose come sono” e “ non si dimentichi che il capitalismo non è un’ideologia, è una organizzazione reale, potente, espansiva della produzione e della società” ”…la intima natura del capitalismo non cambia, non scompare la sua spinta alla espansione coi metodi caratteristici dell’imperialismo, non scompaiono gli aspetti politici di questa spinta” “…tutto sta nel comprendere che vi è un elemento permanente, la lotta delle classi in tutti i suoi aspetti, che non può scomparire, anche se può presentarsi in forme diverse da prima, ma in forme che non escludono mai la esasperazione e il momento di crisi acuta”.Evitare quindi, suggerisce Togliatti, che nella discussione e nella polemica in corso, a livello nazionale e mondiale, finisca per trionfare l’astoricità del “ pensiero astratto”. Nell’articolo “ Errori di metodo ed errori di sostanza in un opuscolo del compagno Giolitti”189 Togliatti finisce per

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insistere , con ancora maggiore durezza e pedanteria nel rifiuto di accettare critiche e rilievi.Difende anzitutto, orgogliosamente, l’esistenza di una diffusa,piena e libera dialettica nel Pci, molto superiore e ben più ricca di quella , spesso condizionata e conformista, che si sviluppa nelle altre formazioni politiche- cattoliche o laiche- poi però non si esime dal richiamare Giolitti ad uno stile che va assolutamente osservato da militanti e dirigenti comunisti per evitare che si possa scivolare “ verso l’agitazione ostile al Partito”. Purtroppo lo scritto di Giolitti è espressione di questo grave errore, di metodo e di merito”. Anzi tutta la parte dello scritto in cui ci si riferisce al XX Congresso, a Stalin, ai fatti di Poznan e dell’Ungheria è priva di ogni valore oggettivo e “ si muove nella scia dell’agitazione anticomunista”.Nella subalterna rincorsa delle posizioni avversarie Giolitti,per Togliatti,omette volutamente di ricordare che “ ciò che è avvenuto in Unione Sovietica dal 1917 ad oggi…è il più grande fatto della storia contemporanea. Stalin ha fatto errori e commesso delitti, sta bene; da lui però gli uomini che lottano per costruire una società socialista avranno sempre da imparare ciò che nessun Andrè Gide e neanche alcun Goethe potrà mai insegnare”.In realtà, a differenza di quanto è parso volere sostenere Giolitti ed altri ,in Ungheria non è iniziata nessuna e più avanzata “ rivoluzione”. Tali posizioni, suggestive ma errate, manifestano “ smarrimento” e “ Da quello smarrimento presero pretesto alcune diserzioni dalle nostre file,, tutte annunciate con l’intento clamoroso di rinnovare per davvero il movimento comunista , sotto la bandiera della “ libertà”. Non dice nulla il fatto che da quelle diserzioni non è uscita che una frammentaria, stantia, e del resto sterile polemica anticomunista?” “ Coloro che oggi hanno disertato le nostre file , protestando l’amore loro indefettibile per la libertà, sono diventati forse gli antesignani della lotta per la libertà?Al contrario han trovato subito la protezione del ceto dirigente più reazionario, dei suoi più sporchi giornali e dei suoi più equivoci mecenati politici” Giolitti, pur non contestando l’originalità e la peculiare ricchezza dell’elaborazione teorica e politica dei comunisti italiani non la cita e così finisce per mantenersi “ nell’ambito delle formule astratte, nonché di quelle allusioni, reticenze, contraffazioni ed equivoci che già all’VIII congresso dovettero essere denunciate”. Omette di ricordare che mai ci si è posti sulla posizioPagina 248


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ne della messianica ed improvvisa attesa del “ crollo” del capitalismo, ma che l’originale elaborazione del partito italiano si muove, si articola e si precisa stando nelle cose, nei problemi, nei movimenti reali della realtà arrivando così all’indicazione di soluzioni positive per i lavoratori e per il Paese su ogni singola questione che di volta in volta si pone. La visione astorica di Giolitti finisce perciò per essere, per Togliatti,” una pura visione fantastica, un utopismo di nuovo tipo, che con la realtà non ha più nulla a che fare, perché ne ha voluto isolare un momento, lo ha sostituito al tutto e quindi si è preclusa la via per comprendere e seguire davvero il corso delle cose” “ Non emerge ( nel ragionare di Giolitti),” nessuno dei problemi moderni nella sua definizione concreta” Perciò non ci si deve stupire del fatto che , dietro le suggestioni da lui proposte sull’avanzamento del progresso tecnico, la cui portata ed incidenza i comunisti avrebbero tutt’altro che inteso, si finisce per non vedere il processo in atto di involuzione del regime democratico in Italia, “ i pericoli di totalitarismo di tipo nuovo, la minaccia clericale “ e così finiscano per scomparire “ le questioni stesse dello sviluppo del movimento operaio”.In definitiva Giolitti, per Togliatti,” non scopre e non risolve nessun problema ; distrugge persino l’efficacia delle cose giuste” e se tutto ciò che sisostiene lo si fa onestamente, questo argomentare affastellato finisce per collocare colui che lo fa “ nel mondo delle nuvole”. Da queste prime,approssimate anticipazioni , si può dedurre come si vada preparando il provvedimento di espulsione di Giolitti dal Partito.L’evolversi tumultuoso della discussione ed il suo esito appaiono,in realtà, del tutto spropositate ed incomprensibili se si va ad indagare il contenuto delle tesi dal Giolitti sostenute che,in realtà, non sembrano in alcun modo configurarsi come irrimediabilmente ed irrisolvibilmente antagoniste. In verità Giolitti tenterà di replicare puntualmente190 ai rilievi sollevati polemicamente nei suoi confronti , ovvero, a proposito del concetto di dittatura del proletariato “ di aver contrapposto il concetto di egemonia a quello di direzione politica; di aver “ridotto la dottrina di Lenin ad una semplice identificazione della direzione poli-

190

Art.” Un riesame critico delle tesi svolte nell’opuscolo “ Riforme e Rivoluzione” in “ Rinascita” mensile, anno 1957

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tica con l’impiego della violenza”, di “ avere svuotato il concetto di egemonia fino a vedervi solo “un inserimento della classe operaia nel processo di sviluppo delle strutture tecniche dell’economia”. Giolitti sostanzialmente ha sostenuto che , a differenza del 1917 , quando Lenin sottolinea la particolare importanza della necessità della violenza rivoluzionaria circa il problema della conquista del potere, quella teoria della conquista del potere “ non sia più integralmente

valida

ma

debba

essere

modificata

e

sviluppata

attraverso

un’approfondita elaborazione del concetto di egemonia”. Per quanto lo riguarda Giolitti precisa di non aver inteso in alcun modo svuotare il concetto di “ egemonia” gramsciana, quello per l’esattezza riportato in quella pagina del “ Risorgimento” dove Gramsci precisa la distinzione “ la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come “ dominio” e come “ direzione intellettuale e morale”; l’ha voluto anzi ulteriormente ampliare fino a comprendervi quello di direzione politica e perciò ha ripetutamente parlato di “ funzione politica di nuova classe dirigente della classe operaia, della sua “ azione politica consapevole”, di “ conquista del potere politico, di “ azione rivoluzionaria per la costruzione di un’economia, di una società, di uno Stato socialista” ed ha ulteriormente insistito sul dato della coscienza che l’operaio ha di sé come produttore e sulla sua funzione dirigente nel processo produttivo, come elemento essenziale dell’egemonia” ma , dicendo ciò, non ha voluto- precisa- sostenere in alcun modo una deriva interpretativa dei fenomeni sull’esclusiva palingenetica dimensione economica, ed evoluzionistica, dei rapporti sociali o, peggio ancora, identificare la classe operaia soltanto come forza produttiva da confondere col progresso tecnico. Piuttosto ha inteso sostenere tutto il contrario di quanto gli si vorrebbe attribuire, ovvero “ Riconoscere la propria funzione produttiva e identificarsi, come tale, col progresso tecnico, significa,per la classe operaia assumere una posizione egemonica nel modo di produzione e quindi al centro del processo di sviluppo della società. Significa evidentemente anche potenziare l’attività produttiva…” Significa ,inoltre, superare ogni determinismo, ogni concezione superficiale, meccanicistica, dello sviluppo economico, per giudicare gli aspetti contraddittori, vecchi e nuovi del Capitalismo contemporaneo”. In realtà appare evidente come la polemica sollevata nei suoi conPagina 250


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fronti non ha ragione d’essere in quanto egli ha, legittimamente, sollecitato una forte attenzione alle novità in atto nel processo produttivo per proporre “ soluzioni concrete ai problemi della trasformazione della struttura economica”.Può così precisare di non aver avuto alcuna sottovalutazione del momento politico della direzione. Si è piuttosto potuta registrare, da parte sua, una forte sintonia con il procedere dell’ approfondimento delle linee al proposito abbozzate dall’VIII Congresso.Giolitti perciò dichiara, con chiarezza, di convenire con la necessità di contrastare il ruolo dei monopoli che favorisce sì lo sviluppo tecnico della grande azienda con l’attuazione delle interne innovazioni , ma – ecco la contraddizione fondamentale- impedisce, contemporaneamente, che lo sviluppo tecnico si traduca” in sviluppo economico e benessere sociale”. Giolitti condivide le tesi di “ Rinascita” circa il fatto che “ la classe operaia considera il progresso tecnico come un fattore decisivo di progresso sociale e del miglioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro. Essa non solo lo favorisce e lo promuove , ma deve dirigerne gli sviluppi e le applicazioni come classe dirigente nazionale”. E’ travisata, quindi, la sua vera idea secondo cui egli intenderebbe limitarsi a sostenere la necessità dell’azione rivoluzionaria soltanto sul piano “ delle sovrastrutture”.. E’ invece proprio contro tali tipi di posizione che Giolitti ha proposto la sua interna riflessione, del tutto compatibile con le linee e e gli elaborati dell’VIII Congresso.Giolitti non intende propugnare nessuna scissione tra struttura e sovrastruttura,tra economia e politica, tra riforme e rivoluzione , e non vuole offrire nessuna sponda al risibile rilievo di voler restare, in un perpetuo e pratico immobilismo, all’interno della vecchia divaricazione tra linea riformista e massimalista. La verità è spiegata con in equivoca chiarezza dallo stesso Giolitti, quando affronta il punto vero e centrale del dissenso: “ Rimangono invece, e affiorano nelle ultime pagine del mio opuscolo, i dissensi a proposito dei problemi aperti dal XX Congresso e dai fatti d’Ungheria, che io ho pubblicamente espressi già all’VIII Congresso e che ho dichiarato di mantenere nell’atto stesso in cui approvavo la linea politica elaborata dal Congresso…Sono problemi che hanno prodotto profonde lacerazioni e provocato un turbamento grave nella coscienza morale di ciascuno di noi. La documentazione dei fatti non è ancora tale da consentire un giudizio storico preciso ed Pagina 251


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obiettivo; ma ciò che più importa a noi, come militanti della lotta politica per il socialismo, è che alla soluzione pratica di quei problemi è attivamente impegnato tutto il movimento comunista”. Si fa fatica, e molta, a riuscire a comprendere e condividere come si sia potuto decidere di liberarsi, espellendola, di una tale intelligenza e positiva energia. Se tale, del tutto positiva ed anzi quasi entusiasta è la valutazione della situazione in Unione Sovietica, non deve particolarmente sorprendere come, di fronte ai fatti d’Ungheria, il giudizio d’insieme non muti e risulti in sostanza diffusamente confermato. Procedendo ulteriormente nella raccolta delle posizioni ufficiali è così anche utile il richiamo all’articolo di Pietro Ingrao “ L’origine degli errori”191, in cui si pone l’obiettivo di individuare le vere cause che portarono nell’Unione Sovietica e nel movimento comunista agli “ indirizzi sbagliati e fenomeni negativi” indicati col nome di “culto della personalità”. L’autore propone di indagare, più nel profondo, per comprendere l’origine dei problemi dell’oggi e pervenire ad una chiara coscienza sul come affrontarli e risolverli. Fino a quel momento in realtà si è continuato a procedere con “ parzialità e approssimazione dell’analisi”. Non si può che partire, per Ingrao, dal significato e dal ruolo della Rivoluzione D’ottobre che ha rappresentato la risposta storica al processo di crisi profonda dell’imperialismo. Il Leninismo ha rappresentato un salto decisivo nella visione delle modalità del processo rivoluzionario introducendo un’evidente rottura rispetto all’ideologia del crollo ed alla concezione che la rivoluzione non avrebbe potuto verificarsi solo nei paesi industrialmente più avanzati. Il salto di qualità e l’interpretazione adogmatica avevano invece determinato gli elementi di crisi irreversibile proprio in uno dei paesi più arretrati del mondo, in uno dei punti più deboli della catena capitalista,la Russia.Proprio le peculiari caratteristiche economiche, storiche, culturali di questo immenso paese,l’assenza di esperienza alla pratica democratica borghese avevano decisivamente concorso alla costruzione di un’identità dello stato sovietico non scissa dalla peculiarità della storia nazionale:Elementi di autoritarismo e di violenza nell’esercizio del potere detenuto dai bolscevichi si erano poi resi ancora più necessari in rela-

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zione ai violenti tentativi di restaurazione feroce delle forze controrivoluzionarie ed imperialista mondiali. Così si operava in un paese di dimensioni enormi, dove la società civile aveva assunto un’impronta”primordiale e gelatinosa” per usare i termini di Gramsci e dove la stessa articolazione del movimento operaio si presentava con caratteristiche del tutto peculiari: dove, per fare un esempio significativo, il partito politico della classe operaia esercitò sempre un ruolo preminente anche nello sviluppo della lotta puramente economica ed i sindacati a differenza dell’occidente europeo sorsero “dopo al partito ed attorno al partito” come ricordato dallo stesso Stalin. Crogiulo di problemi nuovi ed inediti ,da risolvere a tappe particolarmente accelerate, in una dimensione d’insieme del confronto e della lotta politico militare nella quale era in gioco la salvezza, la vita o la distruzione della giovane repubblica dei Soviet. Indubbiamente l’accelerazione forzata dei processi di accumulazione non aveva risparmiato forzature e conflitti tra classe operaia e suoi naturali alleati, come i contadini, le cui condizioni di vita erano state condizionate e sacrificate dal processo d’ industrializzazione accelerato e forzato deciso dai gruppi dirigenti dello Stato. Naturalmente tali peculiarità di edificazione erano state tutt’altro che favorite , per tutti gli anni trenta, dal contemporaneo processo di ascesa al potere, in Germania, di Hitler ed del Nazismo con le insite dinamiche di distruzione e sterminio contro il quale l’Urss rappresentava in Europa il principale baluardo di resistenza. Tutto l’insieme di tali fattori aveva prodotto l’estrema e ferrea centralizzazione che Stalin impose nell’edificazione socialista all’interno di valutazioni e dinamiche sostanzialmente giuste ma, e questo fu il limite, che usò anche a scopi di “potere personale” giungendo fino alle persecuzioni. Ciò comportò “gli errori e le tragedie che vanno sotto il nome del “culto della personalità” che, se costarono un prezzo pesante al partito sovietico ed ai popoli dell’Urss, se ritardarono e complicarono il cammino della rivoluzione…Però non lo fermarono. Per Ingrao le vittorie conquistate sono di fronte a tutti, e, avendo cambiato il volto del mondo, non sono contestabili.Gli errori compiuti nel corso della rivoluzione non limitarono né cambiarono, pur rallentandolo,il grande processo di sviluppo del mondo ed “il potere politico” restò sempre saldo nella mani dell’avanguardia proletaria e la scelta fondamentale di classe non Pagina 253


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si perdette mai”. L’eccesso di repressioni staliniane rese senz’altro più difficile la grande politica di unità antifascista ma “il cammino complesso della storia, che non sopporta tagli schematici, chiede di essere compreso nel suo sviluppo completo nelle sue luci e nelle sue ombre” ed il sistema “il quale ha portato a quelle vittorie si rafforza: alla capacità di rinnovarsi,di riconoscere e di affrontare le sue interne contraddizioni di andare avanti. Ancora una volta, come appare evidente, una sostanziale uniforme liturgia

intrisa e condizionata

dall’evidente preoccupazione di fondo di poter essere confusi con la qualità e la tipologia delle critiche provenienti dal campo opposto che finisce per svilire la limpidezza e la forza della riflessione autocritica. Di altro segno, più chiaro, netto ed esplicito appare l’articolo di Giorgio Amendola non casualmente titolato: “Le nostre corresponsabilità”192. In esso infatti si ravvisa una ricostruzione assolutamente interna alla storia del movimento comunista mondiale che parte dall’esplicito riconoscimento che la critica a Stalin “ci colpisce tutti nel nostro passato, nei nostri affetti, nei nostri più sacri ricordi nel nostro patrimonio di militanti rivoluzionari è una critica…che non colpisce qualcosa che è fuori di noi..ma ciò che è in noi, ciò che vè stato e ciò che vè ancora, evidentemente, se l’atto di accusa implacabile,passionale, mosso con furia iconoclasta dal ventiduesimo congresso del PCUSS provoca in noi tanta commozione”. Amendola senza fronzoli sostiene che “dopo il ventesimo Congresso l’approfondimento critico degli errori e delle aberrazioni della politica staliniana non fu portato avanti conseguentemente attraverso una rigorosa ricerca storica ed uno sforzo di originale elaborazione ideologica”.Si era scelta la strada di un artificioso e rassicurante equilibrio , di “una fredda contabilità di dare ed avere, di meriti e di errori di Stalin che servisse ad esimerci da un ripensamento critico di tutto un trentennale periodo della storia del movimento comunista nazionale”.Così non era stata fornita una persuasiva risposta al quesito del perché tutto ciò che era stato denunciato era potuto accadere , soprattutto,come si sarebbe potuto garantire che tutto ciò non si sarebbe più potuto verificare. Non si poteva eludere un elemento pieno di corresponsabilità politica poichè “l’essenziale lo co-

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noscevamo tutti che avessimo vissuto nell’Urss o non vi fossimo mai andati, perché non ignoravamo le premesse politiche che posero le condizioni di quegli errori e di quei delitti e quelle premesse le avevamo anzi approvate perché le avevamo credute necessarie”.I comunisti italiani avevano approvato tutte le principali opzioni di Stalin che aveva conquistato la sua autorità su base politica sia contro gli avversari interni sia attraverso la scelta dell’industrializzazione e della collettivizzazione a ritmi rapidi dell’agricoltura che attraverso l’impulso dato alla lotta contro la guerra ed il fascismo dirigendo alla vittoria i popoli contrari al nazismo nella grande guerra patriottica. In realtà non si era mai sollevata alcuna voce dissenziente , né in Italia, né nel più vasto movimentocomunista mondiale di contestazione delle tesi staliniane circa “ il collegamento obiettivo tra gli oppositori interni di partito e il nemico di classe,e la tesi dell’inevitabile accentuazione dei contrasti di classe con la costruzione del socialismo”. Così “ La vigilanza rivoluzionaria contro i nemici del popolo diventò motivo di una violenza permanente, strumento non solo di difesa contro il nemico, ma di tensione interna e di coercizione forzata”. “ Il principio del collegamento obiettivo tra il nemico di classe e ogni dissenziente all’interno del partito era la premessa da cui veniva fatta derivare la necessità della eliminazione fisica, in ogni caso politica e morale, del dissenziente. Parve certo il collegamento tra le opposizioni interne e il nemico esterno. Una catena veniva stabilita tra l’agente dello straniero, il nemico di classe,l’oppositore interno, il dissenziente, e anche semplicemente il responsabile della mancata realizzazione dellalinea del partito, e contro tutto si rivolse la linea repressiva. Questa impostazione ….fu accettata come necessaria, e non soltanto dai comunisti, ma anche da vasti settori del movimento operaio” e “ La violenza di Stalin appariva salutare di fronte alla vergognosa capitolazione socialdemocratica che apriva le porte al fascismo”. Fu così determinata una perversa e sbagliata concezione dell’unità del Partito secondo la quale

“ ..ogni differenziazione

…diventava obiettivamente aiuto al nemico esterno, e perciò come tradimento andava colpita”. Da ciò derivò che vennero, con fucilazioni e deportazioni sterminati molti quadri dirigenti comunisti, nell’Urss e negli altri paesi socialisti, anche con espulsioni accompagnate da accuse infamanti. Ogni dissenziente Pagina 255


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diveniva traditore e nemico del popolo. “ tutto ciò portò… ad un soffocamento ideologico, ad un arresto dello sviluppo creativo del marxismo-leninismo, sviluppo che ha bisogno di dibattiti aperti, di libero confronto, di nuove ricerche e, quindi, anche della possibilità di errori. Invece la necessità di mobilitare il Partito contro i dissenzienti portò all’annullamento di ogni ricerca storica, alla sostituzione della agiografia o della denuncia alla critica storica, alla morte della storia,e quindi alla scomparsa della polpa vitale del materialismo storico”. Quei metodi furono accettati in quanto apparvero utili e senza alternativa in quello specifico momento storico.” Vigilanza rivoluzionaria e concezione ferrea della disciplina, come condizione per il mantenimento di una unità monolitica del Partito, che non consentisse l’espressione di dissensi e riserve, furono quindi le premesse politiche della violazione della legalità compiute da Stalin. Avere accettato queste premesse costituisce, dunque, la nostra corresponsabilità. Questo è stato il nostro errore.”. Amendola difendeva però, con orgoglio, il fatto che nel Partito Italiano mai si fossero realizzati comportamenti inclini all’eliminazione fisica dell’interno oppositore e , al proposito ricordava come, tranne in casi assolutamente sporadici, mai ci si fosse liberati di dissensi e differenziazioni con la pratica dell’espulsione. Spesso, anzi, pur dopo che varie forze ed energie si erano allontanate dal diretto impegno nel partito, si era stati, col tempo, capaci di ristabilire contatti, confronti, collaborazioni su campagne e tematiche specifiche. Ciò, però, non poteva autorizzare alcun facile e rassicurante diplomatismo. Spesso , anzi, si era dovuto registrare “ la rappresentazione acritica e propagandistica della realtà socialista” e , di frequente aveva allignato una concezione incline alla “ sterile attesa di una liberazione che sarebbe venuta dal di fuori, dalla crescente forza dell’Unione Sovietica”. “ Così si fecero anche sentire nella vita del partito, soprattutto nella situazione creatasi dall’inasprirsi della guerra fredda, alcune conseguenze della particolare concezione staliniana della disciplina e della difesa dell’unità monolitica del partito e del movimento operaio internazionale, concezioni che portarono ad una deformazione dei principi del centralismo democratico, rafforzando gli elementi di centralizzazione, di direzione personale, di prevalenza degli apparati Pagina 256


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sugli organi di direzione politica e, quindi, di burocratismo e riducendo, invece l’elemento democratico essenziale per la giusta concezione del centralismo democratico che richiede la circolazione delle idee, il dibattito, il rapporto dialettico tra centro e base, la collaborazione creativa di tutti i militanti alla elaborazione della linea politica ed alla sua realizzazione”.Sincera a questo punto, e non reticente, l’autocritica. :“ si determinò..un arresto della vita democratica di base e vennero mantenuti metodi di direzione personale e dall’alto ereditati dal periodo di attività illegale e della guerra partigiana, e diventati ormai di ostacolo a una più rapida crescita del partito”.Con l’indicazione delle urgenti correzioni da apportare per favorire una vera crescita va eliminata ogni forma di “ burocratismo, caporalismo, schematismo dogmatico”. Ciò senza consentire alcun organizzato frazionismo “ ma la necessaria difesa dell’unità del Partito non può essere il pretesto per annullare ogni differenziazione, per rendere difficile ogni manifestazione di dissenso, per impedire la circolazione delle idee e un permanente ricambio di energie…..non può alimentare reticenze e silenzi, che impediscono ogni utile confronto e rendono formale e fittizia l’unanimità nella approvazione di documenti, cui non corrisponde poi una sforzo concorde per realizzare le indicazioni”. Amendola esplicita, poi, i tratti peculiari dell’intellettuale laico e del dirigente politico che sempre caratterizzeranno il suo modo di vivere la militanza e di stare nel partito. “Troppe volte le inerzie… derivano da un’ insufficiente chiarezza politica, dal non aver approfondito tutti i termini del contrasto, dal non aver chiarito la natura del dissenso, nell’accettazione frettolosa e reticente di una soluzione di compromesso, che permette il raggiungimento di una unità formale, e copre un sostanziale ma non dichiarato disaccordo.” Se ogni dissenso finisce per provocare asprezze e biasimi morali causando sanzioni amministrative, la ricerca finisce per essere, di fatto, abbandonata. “ l’unità del partito si difende quindi e si rafforza attraverso uno sviluppo della democrazia interna e ciò comporta una più vivace ed esplicita lotta politica e il superamento delle unanimità fittizie che coprono, come hanno coperto, vaste zone di resistenza, di passività, di reticenze” “ bisogna che il discorso politico si sviluppi conseguentemente ed apertamente, per battere nel confronto aperto tesi diverse”. Pagina 257


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Col XX Congresso e col travaglio che ne deriverà si giungerà ad una più forte consapevolezza che è necessaria una più incisiva ed autonoma ricerca ed elaborazione teorica, artistica e culturale. Il Partito Italiano inizia a liberarsi di molti dei mostri sacri del dogmatismo. La crisi di coscienza che si impadronisce degli intellettuali che, attraverso un faticoso travaglio, si erano avvicinati al Partito fa sì che essi tornino a proporsi spesso come “coscienza separata universale”. Il singolo intellettuale in crisi torna a staccarsi dalla coscienza collettiva rappresentata dal Partito193. Dopo il 1956 la ricerca ha iniziato a diventare più aperta,a non fermarsi ai soli errori di Stalin. Quando ci si rende conto che i principi ispiratori del marxismo e del leninismo sono stati tutt’altro che applicati nell’esperienza storica concreta rispettando libertà, giustizia, distinzione e pluralismo, al marxismo si tornerà a guardare con un’attenzione critica nuova, ben diversa e rinnovata194. Lo stesso Gramsci comincia ad essere riscoperto in modo nuovo: in lui si intravedono problemi di analisi, di metodologia che anticipano la critica alle semplificazioni staliniste e da lui si acquisisce lo stimolo a percorrere la via della ricerca critica antidogmatica. Tutto comincia ora ad essere ridiscusso: Il marxismo rivive come metodo di indagine, non come sistema chiuso e definitivo una volta per sempre.Sul piano

193

Molte sono le fughe degli intellettuali dal Partito Comunista sotto l’influenza di queste drammatiche vicende. Anche in questa circostanza comunque Togliatti si batte per non far smarrire quanto di decisivo nella storia aveva rappresentato l’esperienza Sovietica. Togliatti ritiene inadeguata una spiegazione che giustifichi le deviazioni avvenute nello Stato Sovietico e le violazioni della legalità socialista con la sola individuazione della responsabilità del culto di Stalin.Pur nella netta impostazione di sostanziale conferma di consenso all’Urss,questa posizione costituirà uno stimolo per una ricerca politica oggettiva che serva a spiegare i motivi per cui in Unione Sovietica si era giunti ad un’acuta degenerazione. 194

L’amarezza determinata dal crollo del mito di Stalin faceva però maturare l’esigenza di percorrere strade autonome, nell’elaborazione teorica, dei vari partiti comunisti. Avanzava l’esigenza di formulare una linea fondata sulla ricerca di vie nazionali di avanzata al socialismo “PIl complesso del sistema diventa policentrico e nello stesso movimento comunista non si può parlare di una guida unica, bensì di un progresso che si compie seguendo strade spesso diverse” ( P. Togliatti, “Nove domande sullo stalinismo”, In “Nuovi Argomenti”maggio-giugno 1956, n. 20, pp. 138-139; oggi in P. Togliatti, “Democrazia e socialismo. Autonomia ed Internazionalismo”, allegato all’Almanacco PCI 1976, p. 21.

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del confronto culturale centro della discussione è il realismo socialista. Il Neorealismo italiano è entrato in crisi, ha perduto l’efficacia che come si è visto aveva, ad esempio, avuto nel cinema, come fatto di rottura che in esso si esprimeva con la rappresentazione critica e la denuncia impietosa della realtà. Indubbiamente la linea culturale del neorealismo, che conteneva evidenti posizioni di populismo nel modo in cui presentava il rapporto tra intellettuali e masse, avrebbe potuto svilupparsi in modo migliore, ma tali possibili sviluppi erano stati bloccati195. A questo punto il problema del realismo diviene più complesso: inizia, nel mondo comunista, un processo critico in cui si prende atto dell’inadeguatezza del rapporto dell’arte col reale che si limiti al solo rispecchiamento, si cercano strade diverse per rappresentare- con mezzi espressivi più ricchi ed adeguati- il dramma dell’uomo. Sono così riproposte nuove forme espressive, di tipo astrattistico o intimistico, fasi di ricerca che riescano meglio nella rappresentazione del travaglio della personalità umana e della complessità del mondo. Oggi sembra acquisito il fatto che fosse limitata ed errata una politica culturale in cui, nella nozione di arte, il processo creativo si esaurisse nel semplice riflesso della realtà. Il rapporto col reale andava invece posto in modo nuovo. Il fatto che ci si ponga tale problema si coglie nella nuova ricerca che porta avanti il Partito, nel convegno dell’Istituto Gramsci su “Avanguardia e Decadentismo”196. Il porsi il problema dell’avanguardia e del decadentismo sta ad indicare che nel

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Una linea di ricerca autonoma nel campo culturale era però abbastanza complessa. Alicata in una riflessione critica sulla politica culturale del Partito Comunista Italiano sosteneva che il PCI, seguendo la linea De Sanctis-Croce-Gramsci, si era salvato dal pericolo di veder prevalere al suo interno posizioni dogmatiche ed era riuscito ad essere solo sfiorato dallo Zdanovismo. Se autocritica era necessaria essa avrebbe piuttosto dovuto consistere nel comprendere di essere stati” troppo poco gramsciani” poiché il pensiero di Gramsci era stato assunto in modo troppo letterale e scolastico, (Contemporaneo, III, 30 giugno 1956, n. 26). 196

Contemporaneo, Anno II, N. 18-19, 1959.

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Partito si va approfondendo la coscienza che il rapporto con una società che ha iniziato a rinnovarsi, nel profondo, è ben più complesso di quanto prima si potesse presumere197. La necessità di un’azione egemonica nei riguardi delle produzioni artistiche si accompagna alla critica delle ideologie dominanti, al rovesciamento del gramsciano “senso comune”. Ecco come si esprime nel X Congresso198 il rapporto tra necessità di svolgere una funzione di direzione da parte del Partito senza sacrificare la libertà di ricerca e di espressione artistica : “Il Partito si è ispirato…. Al principio della libertà della ricerca… Questo principio deve essere non solo mantenuto, ma rafforzato, sviluppando maggiormente la collaborazione dei marxisti impegnati nella ricerca culturale. Lo spirito di reciproca tolleranza…. tra marxisti ed uomini di cultura che si ispirano ad altre correnti di pensiero, è ugualmente indispensabile nel dibattito interno tra studiosi marxisti, per assicurare lo sviluppo adeguato e l’approfondimento di tale dibattito” e continua “Il Partito compie scelte precise anche in fatto di politica culturale, lottando per lo sviluppo democratico e socialista delle istituzioni statali e civili che presiedono alla vita culturale. Il Partito rifiuta atteggiamenti di neutralità di fronte ai problemi dell’ideologia e della cultura. Il Partito appoggia in sede di politica culturale le correnti di pensiero…. Che concorrono a una soluzione democratica e socialista dei problemi della nostra società…ma se il Partito può sollecitare intorno a sé le forze della cultura che affrontano in modo progressivo i problemi che derivano dalla vita della società…. Non ad esso spetta proporre soluzioni dei problemi della ricerca scientifica ed artistica, non ad esso spetta sentenziare a proposito della validità scientifica o artistica di questa o quella soluzione”. Il carattere di partito nella creazione culturale non può essere imposto. “Essa (

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Ludovico Geimonat, sempre all’interno di una riflessione autocritica, ritornerà nell’articolo” Troppo Idealismo”( Contemporaneo, 7 aprile 1956, n. 14) al tema di fondo, decisivo per il marxismo, della necessità di risvegliare l’interesse filosofico per la scienza anche nei giovani marxisti educatisi sulle opere dell’idealismo italiano.

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Dicembre 1962

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la produzione culturale) deve scaturire dalla maturazione ideologica dei produttori di cultura, che deve essere conquistata passo per passo; e il Partito deve sollecitare questo maturarsi per mezzo della sua direzione politica generale e per mezzo della sua politica culturale, aiutando ed organizzando il dibattito, il confronto delle esperienze e delle idee, elevando la capacità critica”199. Viene acquisito il principio, -almeno nella sua forma di astratta dichiarazione generale- come si diceva, che il marxismo è un metodo che si sviluppa in un rapporto critico con altre tendenze di pensiero da cui può trarre utili strumenti di conoscenza (ad esempio dall’hegelismo). La superiorità del marxismo consiste nel saper intendere e fare proprio, superandole criticamente, le esigenze espresse dalle altre concezioni del mondo, dalla capacità di cogliere i risultati della ricerca scientifica e delle più diverse esperienze artistiche, dalla capacità di far valere la superiore validità delle soluzioni che il marxismo propone200. Da queste e da altre riflessioni d’intellettuali progressisti si capisce come ha inizio, nel 1956, una riflessione profonda che porta ad una rettifica d’alcuni elementi nella linea seguita fin’ora. Nel rapporto però tra politica e cultura vi è una distinzione di fasi, uno specifico del momento culturale, della ricerca scientifica ed artistica, che richiede l’autonomia dell’impegno intellettuale. Quest’ autonomia è ancora più necessaria se si consideri l’elemento che ogni risultato che si ottiene in questi campi è sempre provvisorio. Possiamo final-

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X congresso del Partito comunista Italiano, atti e risoluzioni, Ed. Riuniti, Roma 1963, pp. 724-725. 200

In polemica con le posizioni anticosmopolite che tanto rilievo avevano avuto nelle posizioni del Partito a cominciare dalla vecchia polemica tra Alicata e Vittorini, Italo Calvino ( Contemporaneo del31 Maggio 1956, nell’articolo “Nord e Roma Sud”) aveva detto: La campagna anticosmopolita per la “Tradizione nazionale” applicata ad una cultura come l’italiana, che dà così poche armi per capire il mondo modernoP. se ci ha fatto studiare meglio qualche cosa nostra, ci è stata pure di gran danno, secondando l’abitudine reazionaria alla sufficienza paesana che è abbastanza radicata negli italiani per non aver bisogno di incoraggiamenti”.

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mente dire che, con quest’impostazione, si accenni a superare le deviazioni economicistiche zdanoviane e a riconquistare le più fertili intuizioni gramsciane. Questa nuova consapevolezza non può che giovare alla stessa politica che, nella lotta per la trasformazione della società, può così servirsi di una produzione di cultura che davvero tale. Anche i contenuti della ricerca culturale in questo momento devono tener conto di altri interessi e devono fare i conti con la tumultuosa trasformazione che comincia a manifestarsi in quegli anni nell’organizzazione del lavoro con l’introduzione di nuove tecnologie. Nel ciclo produttivo ha inizio, infatti, un processo di diffusa automazione delle fasi lavorative. Da queste trasformazioni deriva una maggior coscienza del fatto che, nel movimento operaio, è necessario un profondo rinnovamento teorico che non solo si confronti con questa nuova fase di sviluppo introdotta dall’automatismo nell’industria, ma anche comprenda che nel campo del processo di formazione intellettuale sono state messe in moto nuove forze produttive. Si è, infatti, venuta configurando la nuova figura dell’intellettuale-massa. Ai gruppi intellettuali di formazione umanistica si sono aggiunti nuovi soggetti della produzione intellettuale direttamente legati al ciclo produttivo : il tecnico, il sindacalista, l’operatore di varie branche della produzione. Rispetto a queste nuove realtà è urgente, per il Partito, attualizzare una propria nuova ed incisiva proposta politica e culturale. In realtà un processo di ripensamento e di “revisione” critica della politica culturale della sinistra quale fin’ora si è venuta configurando è stato, opportunamente, sollecitato da uno scritto di Roberto Guiducci dall’indicativo titolo: “Sul disgelo e sulla apertura culturale”, posizione raccolta- assieme ad una serie di interventi di intellettuali di area socialista, nel 1956, nel volume: “Socialismo e verità”201. E’, in sintesi, la raccolta di tesi ed opinioni apparse, tra il 1955 ed il 1956, sulla rivista :” Ragionamenti”, assieme a Franco Fortini, Luciano Amodio, Gianni

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Ed. Einaudi

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Scalia, Franco Momigliano, Alessandro Pizzorno e Sergio Caproglio. In realtà Guiducci sembrava cogliere nel segno quando, criticamente, sostiene che :” Di fronte al non indifferente bagaglio delle nuove sociologie, delle nuove tecniche economiche, delle nuove estetiche, delle nuove filosofie, sfornate da un lavoro collettivo soprattutto americano che non aveva mai visto l’eguale, ci si trovò balbettanti… provinciali, impreparati. Si propose finalmente di studiare i principi delle armi dell’avversario quando esse sparavano all’impazzata… i politici stretti… avevano sfruttato sino in fondo, diremmo l’ultima goccia, la forza ideologica che veniva dalla tradizione marxista. Ma avevano supposto un avversario pressoché immutabile e statico, anzi in continua involuzione, alla vigilia di una crisi. Improvvisamente se ne trovarono uno diverso e rafforzato”202. Guiducci rivelava come si fosse sviluppato sempre un discorso sui contenuti particolari e mai invece, come avrebbe dovuto essere decisivo, sulle forme, cioè sull’organizzazione della cultura. Egli perciò stigmatizzava come non si fosse riuscito a garantire, da parte della Sinistra, la formazione di un luogo di elaborazione culturale a servizio effettivo delle esigenze della base e “liberalmente dialettico nei confronti delle posizioni politiche nel loro svolgimento…”203. Assieme a Fortini, Guiducci rimproverava la pratica attuazione di un processo di delega politica, da parte dell’autorità ideologica, a favore di singoli compagni o gruppi per limitati settori culturali creando “zone franche”. Fortini individuerà il limite fondamentale della politica culturale Comunista nell’ incapacità di dare vita ad un’ organizzazione della cultura capace di sottrarre il lavoro intellettuale alla determinazione capitalistica delle discipline del mercato e dell’industria culturale. Temi che, già abbozzati in “Dieci Inverni”204, saranno – come vedremo – sistematizzati, più avanti compiutamente, in “La Verifica dei Poteri”. Queste voci, di distinzione, assieme a quelle ancora coerenti con l’impostazione storicista, inframmezzata a posizioni originali come quelle di

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R. Guiducci, “Socialismo e verità”, Torino, 1956, pagine 52-53.

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Art. citato pagina 50

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Milano 1957

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Geimonat e Barca, saranno ospitate – per tutto il 1956 – su “Il Contemporaneo”, compreso il noto scritto, quasi conclusivamente riassuntivo, di Mario Alicata: “Troppo Poco Gramsciani”205. Le distinzioni già nette ed evidenti esploderanno alla fine del ’56 coi fatti d’Ungheria. L’incalzare di quella tragedia non consentiva il pieno dispiegarsi di sufficienti approfondimenti e d’accurate riflessioni, di ripensamenti autocritici tali da far pervenire a compiute sintesi unitarie. Colpisce particolarmente, nella lettura dei vari interventi, quello di Carlo Muscetta: “I Poveri Fatti”206 per la durezza con la quale ricorda – a Guiducci ed a Fortini – il fatto che si sia potuta sviluppare la discussione su “L’Avanti” e “Il Contemporaneo” perche’ il PCI ha fatto una lotta intransigente contro “l’oscurantismo imperialista e clericale”, “contro la politica di intimidazione e di corruzione praticata e teorizzata dai “democratici” cristiani e dai loro “inutili idioti”, che volevano impedire l’esercizio dei diritti costituzionali conquistati dalla resistenza. Muscetta sostiene orgogliosamente l’inscalfibilità della “nostra scuola di coraggio e libertà individuale e che – se ci si vuole liberare da forme fideistiche – non si può mai prescindere da quanto, fin ora, si è fatto”. “Il processo di unificazione linguistica degli intellettuali di sinistra (ideologico, politico, culturale) è stato lento in quanto si è garantita tolleranza e “condormienza” nelle diverse ideologie”.Egli non accetta il rilievo circa un presunto ritardo di capacità di intervento sull’organizzazione culturale, in quanto la libertà sarebbe stata garantita da organismi “disciplinatamente autonomi come “Società”, l’Istituto Gramsci, “Il contemporaneo”. Perciò redarguisce Fortini e Guiducci per quello che gli sembra un loro indiscutibile distacco dalle masse e dalla loro funzione storica criticando quelle che gli appaiono astrattezze ed ininfluenze. Com’è del tutto evidente in questa replica, meno accuratamente circostanziata ed equilibrata di quella di Salinari, non si interviene nel merito dei rilievi sollevati dai suoi interlocutori i cui argomenti appaiono totalmente glissati. Salinari, invece, è più aperto a considerare la necessità di indagare i ritardi di elabora-

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La raccolta degli interventi – Antologia di Scritti – è stata curata da Giuseppe Vacca nella collana “Rinascita” – Ed. Riuniti, ottobre 1978.

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ne “Il Contemporaneo”, n. 16, 1956

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zione, in specie sul problema della sottovalutazione della funzione della scienza, pur intendendo – in tal modo – recuperare in un involucro di insieme più organico sebbene modernamente aggiornato, il rapporto tra tradizione culturale Italiana e modernità207. La discussione sviluppata su “Il Contemporaneo” appare ricca e feconda in quanto in essa appaiono riassunti tutte le espressioni di sotterraneo conflitto, mai compiutamente esplicitate, tra cultura umanistica e cultura scientifica. E’innegabile come l’influenza degli schemi idealistici sulla cultura italiana è stata così profonda che, per superarne l’incisivo condizionamento, non è stato sufficiente nemmeno il complesso degli insegnamenti di Gramsci. Gli intellettuali italiani tradizionali del tempo si abituarono a considerare, nella storia della filosofia italiana, solo il filone metafisico e non quello scientifico, motivo per il quale si finì per ragionare come se quest’ultimo non fosse mai esistito. Così si spiega il rigetto per la scienza ritenuta poco meno che una “merce d’importazione Americana”. In realtà i rilievi di Guiducci, di Fortini, di Geimonat, di Barca e dello stesso Banfi erano assolutamente pertinenti in quanto mettevano in luce la necessità di un’aggiornamento culturale e quindi politico in considerazione del fatto che sempre più numerosi e diffusi erano diventati gli intellettuali legati alla produzione, all’industria, alla tecnica. Essi sentivano l’importanza del proprio lavoro e non intendevano essere considerati, in quanto tecnici, estranei al processo della cultura nazionale. Come è stato già detto, però, l’imprevedibile precipitazione degli eventi ostacolò il pieno dispiegarsi di una discussione e di un confronto approfondito, teso e costruttivo che consentisse, contro la riproposizione di anatemi determinati dall’esistenza preconcetta di una posizione di parte, un salto in avanti incisivo nell’interesse della Sinistra e della Nazione.

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Ludovico Geimonat nell’articolo “Troppo Idealismo” – “Il Contemporaneo”, n. 14, 1956 – L’autore sosterrà efficacemente che di fronte ai nuovi fermenti filosofici, ci si limitò ad esaltare il pensiero di Gramsci, pensiero indubbiamente ricco di germi vivissimi, ma appartenente ( non certo per colpa del suo autore) a una fase dello sviluppo culturale assai diversa da quella odierna : ad una fase cioè in cui il peso della scienza e della tecnica era enormemente minore di oggi, e in cui lo sviluppo delle teorie scientifiche e delle loro applicazioni non aveva ancora posto alla filosofia i gravi problemi che oggi stiamo dibattendo. Se fu opera altamente meritoria far conoscere ibn accurate edizioni gli scritti del

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Ecco comunque quale è stato il testo della lettera indirizzata al Comitato Centrale del PCI: “i tragici avvenimenti d’Ungheria scuotono dolorosamente in questi giorni l’intera opinione pubblica del Paese. La coscienza democratica e il sentimento d’umanità dei lavoratori e di tutti gli uomini onesti reagiscono con la forza delle grandi passioni civili alle notizie divenute di giorno in giorno più drammatiche. La fedeltà all’impegno assunto con l’atto dell’adesione al Partito impone di prendere una posizione aperta. Si formulano pertanto queste considerazioni politiche : “1) I fatti d’Ungheria dimostrano che quando prevalgono resistenze, ritardi o addirittura il proposito di contenere il processo di democratizzazione dei Partiti Comunisti e dei regimi sociali iniziato dal XX Congresso del PCUS, inevitabilmente si verificano profonde fratture nel popolo e nella stessa classe operaia, che il Partito è impotente a superare. Mentre, dove il Partito stesso ha la maturità e il coraggio di mettersi alla testa degli avvenimenti, il processo di rinnovamento evolve lungo le sue naturali linee di sviluppo. E’ questa l’unica maniera per resistere alle provocazioni antisocialiste. Sbagliata sarebbe quindi ogni considerazione che, sulla base dei recenti avvenimenti, tendesse a rimettere in forse i risultati del XX Congresso. La condanna dello stalinismo è irrevocabile. “2) Dagli avvenimenti di Polonia, e soprattutto d’Ungheria, scaturisce una critica a fondo, senza equivoci, dello stalinismo, che risulta fondato: a) sulla prevalenza di elementi di dura coercizione sulle masse nell’opera di costruzione di una economia collettivizzata; b) sull’abbandono dello spirito di libertà, che si trova nel genuino pensiero dei fondatori del socialismo scientifico, e che è l’ideale stesso delle grandi masse; c) sull’instaurazione dei rapporti tra i popoli, gli stati socialisti e i partiti comunisti, che non sono di parità e fratellanza, ma di subordinazione e di ingerenza; d) sulla concezione feticistica del partito e del potere socialista, quasi che si possa parlare ancora di potere socialista e di partito comunista, quando manca il presupposto essenziale dell’adesione attiva grande pensatore, occorre riconoscere con franchezza che non ha senso cercare in esse ciòche era fuori dalla problematica gramsciana”

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della classe operaia e dei naturali alleati. L’economia, i rapporti civili, i legami internazionali, che si costruiscono su queste basi, non possono non deviare profondamente dagli obiettivi che originariamente s’ intendeva perseguire. Il nostro Partito non ha formulato finora una condanna aperta e conseguente dello stalinismo. Da mesi si tende a minimizzare il significato del crollo del culto e del mito di Stalin, si cerca di nascondere al partito i crimini commessi da e sotto questo dirigente, definendoli “errori”, o addirittura “esagerazioni”. Non si affronta la critica del sisteme edificato sulla base del culto della personalità, come è stato analizzato nel recente rapporto del compagno Gomulka al CC del POUP. “3) I comunisti italiani si augurano che il popolo ungherese trovi in una rinnovata concordia la forza per superare la drammatica crisi attuale, isolando gli elementi reazionari che in questa crisi hanno agito, riponendo la costruzione del socialismo sulle sue uniche basi naturali: il consenso e la partecipazione attiva delle classi lavoratrici. Se non si vuole distorcere la realtà dei fatti, se non si vuole calunniare la classe operaia ungherese, o rischiare di isolare in Italia il Partito Comunista Italiano, o ripetere giudizi incomprensivi come quelli formulati a proposito dei dolorosi avvenimenti di Pozdan, e che furono presto smentiti dal corso ulteriore dei fatti e dal riconoscimento dei dirigenti del Partito Operaio Polacco, - occorre riconoscere con coraggio che in Ungheria non si tratta di un Putsch o di un movimento organizzato dalla reazione (la quale d’altra parte non potrebbe trascinare a sé tanta parte della classe operaia) ma di un’ondata di collera che deriva dal disagio economico, da amore per la libertà e dal desiderio di costruire il socialismo secondo una propria via nazionale, nonostante la presenza di elementi reazionari. In particolare è da deprecare – come è stato riaffermato in modo assai significativo nel recente documento emesso dalla segreteria della CGIL- che l’intervento militare sovietico sia stato richiesto e concesso, poiché esso contraddice ai principi che costantemente rivendichiamo nei rapporti internazionali, viola il principio dell’autonomia degli Stati Socialisti, e gravemente compromette, dinanzi alla classe operaia e alla società italiana la politica perseguita

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dal partito e l’opera che esso potrà dare per la realizzazione della via italiana al socialismo. Alla luce di questo è da auspicare che già ora, e poi nell’imminente Congresso, avvenga un rinnovamento profondo nel gruppo dirigente del Partito. Nel presentare questo documento al Comitato Centrale è dovere dire che si ritiene indispensabile che queste posizioni vengano conosciute e dibattute da tutto il Partito, e se ne domanda pertanto l’ integrale e immediata pubblicizzazione su “L’Unità”, giacchè di fronte ad avvenimenti così drammatici la nostra coscienza di militanti non ci consente di rinunciare acchè in tutto il partito sia dato conoscere queste posizioni. Ciò diciamo con il proposito che il nostro Partito proceda sulla via italiana al Socialismo, ridia fiducia e unità a tutti i militanti, recuperi la sua tradizionale funzione decisiva, onde riesca consolidata in Italia la democrazia, oggi più che mai minacciata dalla reazione capitalistica e clericale. Roma 29 Ottobre 1956) Firmato da: C. Muscetta, N. Sapegno. G. Trombatore, S. Bertelli, G. Bollino, G. Campagna, L. Cafagna, G. Carbone, L. Colletti, C. Cicerchia, G. Bretoni, F. Cagnetti, A Jatosti, C. Del guercio, C. Bertelli, P. Bollino, P. Moroni, A. Martelli, N. Di Cagno, E. Petri, E. Siciliano, M. Milici, M. Tronti, E. Piccinini, F. Fazio, U. Coldagelli, G. De Caro, D. cavalieri, P. Santi, F. Colajanni, G. Cedrino, A. Meccanico, P. Della Verde, F. Fasoli, G. Luccardi, D. Bertoni, Jovine, G. D’Amelio, R. De Felice, G. Ferretti, A. Caracciolo, C. Fragomeni, L. Occhionero, P. Basevi, A. Calabrese, E. Vuolo, R. Zapperi, M. T. Lanza, M. Mibelli, M. Socrate, L. Lucignani, L. Vespignani, D. Durbè, G. De Marsanich, G. Grassi, A. Samonà, G. Fratini, G. Petracchi, D. Puccini, L. Angelucci, F. Graziosi, L. Frontali, G. Fasano, C. Franzinetti, D. Amati, T. Seppilli, L. Bonaccioni, B. Saletti, M. Tiriticco, D. Crispo, M. canocchi, E. Vittoria, E. Pannunzio, C. Ajmonino, C. Chiarini, D. Dirgilio, A. Asor Rosa, D. Brusolin, G. Malatesta, C. Maltese, G. Candeloro, M. Muscetta, P. Melograni, N. Rigetti, A. Bollino, L. Amodio, P. Spriano, Olpi, C. Polidori, L. Lusena, , V. Crisafulli, B. Fontana,

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S. F. Romano, M. C. Tiriticco, F. Paparo, F. Sirugo208. Nel tumultuoso contesto che abbiamo per grandi linee ricostruito, tra le varie voci critiche, è senz’altro meritevole di essere richiamata quella autorevole e prestigiosa di Giuseppe Di Vittorio. Appare indubbiamente clamorosa, anche in considerazione del ruolo e della funzione da lui allora ricoperta, la sua pubblica dissociazione dalla linea ufficiale del Pci all’indomani dei fatti di Polonia e, soprattutto, d’Ungheria. Di Vittorio, il 30 Ottobre 1956, con coerenza ed estremo coraggio politico, assumerà una posizione difforme da quella di Togliatti e dai deliberati ufficiali della Direzione Nazionale.Il suo esplicito dissenso produrrà il suo pressoché totale isolamento dalla quasi totalità del gruppo dirigente del suo partito. Di Vittorio subirà, dolorosamente, il peso del coraggio della sua posizione. Per lui non è democratico uno Stato che risolve il problema del rapporto con le rivendicazioni economiche e con la richiesta di maggiore libertà degli operai e dei lavoratori ricorrendo, contro di essi, alla violenza armata. Non è accettabile la politica di uno Stato che persegue la pratica della repressione delle idee con le armi.Di Vittorio si schiera in Italia, in Polonia, in Ungheria, nettamente, dalla parte dei lavoratori, difendendone l’insostituibile funzione storica progressiva. Con tale atto di coraggio, che lo costringerà ad una parziale e postuma autocritica,anticiperà di molto le posizioni che , più avanti, rispetto alla nuova tragedia della repressione del movimento della “primavera di Praga”numerose e maggioritarie forze socialiste e democratiche dell’Occidente assumeranno nel 1968.

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DOCUMENTAZIONE D’ARCHIVIO PP537-538 NOTE TESTO DI AIELLO

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LA CULTURA FRANCESE DI SINISTRA E L’AVVENTO AL POTERE DI DE GAULLE

Nel mentre procede ,protraendosi anche negli anni immediatamente successivi, la durissima polemica in Italia sull’interpretazioni e sul carattere degli avvenimenti ungheresi, coi dolorosi strascichi ai quali si è fatto largo cenno nel paragrafo precedente, in Francia , nel Maggio 1958,De Gaulle conquista la direzione del governo e, in seguito alla crisi della IV Repubblica e al putsch militare in Algeria, preparerà una nuova costituzione con amplissimi poteri al Presidente della Repubblica. Egli procede, in tutta evidenza, ad una profonda ristrutturazione dello Stato nel senso dell’instaurazione di una Repubblica Presidenziale. Lavorerà così per dare alla Francia un ruolo di grande potenza europea e mondiale. Guiderà l’evoluzione delle fortissime tensioni che si registreranno all’interno del paese verso la concretizzazione di un processo,particolarmente complesso e laborioso, che sfocerà, nel 1962, nella proclamazione dell’indipendenza algerina. Per un’analisi comparata della situazione e della responsabilità degli intellettuali e degli uomini di cultura in Francia, si veda articolo di Rossana Rossanda :”La responsabilità della cultura francese nella crisi della democrazia”209. L’autrice rileva , con sorpresa e raccapriccio, l’autentico paradosso dovuto alla profonda involuzione delle posizioni della cultura più avanzata e di sinistra in Francia di fronte all’avanzata ed alla vittoria del gollismo.Già nelle prime note aleggia tutta l’amarezza per l’esito, infausto e largamente inatteso, della crisi politica : “ Chi ha dimenticato cosa significava, durante la resistenza, nella stampa clandestina e nei primissimi anni del dopoguerra, la testimonianza degli intellettuali francesi? E non solo quella di uomini come Eluard e Aragon, d’una già compiuta coscienza politica e morale, ma anche di altri, che poi avrebbero diviso la loro strada da quella dei comunisti- tutti espressione di quell’appassionato engagement che pareva investire, come il vero segno dell’intellettualità democratica, la cultura francese, che tutta ci appari-

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“ Rinascita” mensile,n.1 del 1959

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va “ resistente” e di “ sinistra”, a insegnare alla intellettualità italiana, così facilmente chiusa nel proprio ambito e scontrosa rispetto all’impegno civile, quando non sia esplicitamente legata a un partito o a una parte politica, i doveri dell’uomo di cultura di fronte alla società”. Ora, invece, dalla cultura francese non si era visto venire null’altro “ che il segno della confusione e del disorientamento”. Oggi gran parte di quelle estese forze e componenti avanzate della società francese “ rifiuta, per la maggior parte, di riconoscere esplicitamente la natura totalitaria e fascista del processo che ha aperto” con l’assurdo della tesi “ fine della democrazia parlamentare sì, dittatura forse, fascismo no”.Affondando ulteriormente nell’analisi la rossanda argomenta che “L’operazione di De Gaulle si rivela come resa possibile da un crollo dei valori, nel quale sembra definitivamente finita la tradizione culturale di una Francia , se non robespierriana, almeno micheletiana, senza che riesca a configurarsi, fuori dell’ambito marxista, una Francia capace di dare una nuova sostanza ideale al problema della democrazia. E’ una involuzione che ha radici profonde; e fra i nodi che vengono al pettine, i più rilevanti, a prima vista, appaiono sul terreno politico la crisi della tradizione giacobina, e sul terreno teorico la crisi della formazione intellettuale francese, tradizionalmente fuori dall’esperienza idealista e storicista.” Una crisi profonda, quindi.” Quando si esamini con attenzione il quadro della cultura di questi ultimi anni, non solo si palesano in modo inequivocabile le radici involutive che hanno preparato una così larga abdicazione della tradizione democratica, ma che il processo sia ancora più avanzato sul terreno ideale di quanto non sia già nell’effettiva realtà politica”. Ed in effetti “… tutti gli elementi organici alla tradizione ideale del fascismo non solo hanno permeato gli ambienti gollisti, ma in parte sono penetrati nello stesso settore di quella che era stata una cultura democratica e “ resistente”. Nella presente situazione data, infatti, a parte l’eccezione rappresentata da Jean Paul Sartre e da una parte , largamente minoritaria che continua a riferirsi al P.C.F. si registra, nell’area intellettuale di sinistra, ben più ampia e variegata di quella italiana, una perdita di senso e di autonomia di valutazione e di giudizio teorico e politico che ha finito per confondersi, in maniera sostanzialmente subalterna, col gollismo trionfante. Su due aspetti,in particolare, si basa la tesi della Rossanda, nel non aver preso Pagina 271


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decisamente e criticamente le distanze dall’idea fondamentale , “ de la grandeur”, su cui il generale ha giocato le sue carte per la presa del potere che è passata attraverso la fine della repubblica parlamentare e l’instaurazione di un regime autoritario. Su questo piano è risultato evidente il limite di capacità critica ,con lo sfumarsi delle posizioni non disponibili ad un attacco frontale a tale impostazione ed a tutto ciò che vi sottintendeva. Ci si è preoccupati, forse, di offrire il fianco ad una potenziale contestazione di agire come forze antinazionali,proprio nel mentre in Francia prendeva piede, in modo accelerato, un’ideologia portata all’accentuazione dei fattori di autonomia, forza, ruolo della Nazione tra altre grandi nazioni del mondo. Un terreno di critica che non si è voluto perseguire neanche da parte di intellettuali e filosofi di primo piano,di ispirazione di sinistra, nello scenario nazionale, come Merleau Ponty. Non si è voluto denunciare “ la fascistizzazione degli organi esecutivi dello Stato”. Ciò è stato particolarmente grave in quanto sempre, in passato, l’intellettualità francese, a differenza di molta parte di quella italiana, non ha mai rifiutato ma ha anzi praticato la strada dell’impegno diretto nell’agone politico.In Francia i toni polemici erano finiti per sfumarsi fino, troppo di frequente, allo sbocco estremo di passare, armi e bagagli, dalla parte di De Gaulle.. Soltanto Sartre aveva analizzato, con acume, origini, genesi e sviluppo di tali posizioni, ricordando, tra l’altro, il ruolo che,già nel primo dopoguerra, avevano giocato per gli intellettuali francesi, la scoperta di Kirkegaard e dell’esistenzialismo “ espressioni d’una crisi e di una rivolta priva di una coscienza storica precisa; e la difficoltà del passaggio dal ribellismo alla coscienza rivoluzionaria- acquisizione …. che non sembra possa arrivare al marxismo se non passa attraverso Hegel”. Il grande filosofo tedesco non era, senza alcun dubbio, un riferimento privilegiato ed obbligato in Francia, né prima né in quel momento di contemporaneità storica. Così si manifesta, non intervenendo in relazione ad un’accurata analisi teorica e politica guidata da un’indagine materialista della realtà, un precipitare verso la sola dimensione “ del moralismo e dell’istanza psicologica, senza più un reale terreno di influenza politica”. Duvignaud, intervenendo a sua volta in relazione alle tesi sostenute dalla Rossanda, mostrandone di condividerne il senso profondo, rileva così che “ a poco a poco Pagina 272


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l’intelligenza capisce di aver segato il ramo al quale era attaccata: privandosi della sola giustificazione che essa abbia di erigersi a giudice del potere e della storia si condanna alla protesta, ma senza calore, per dovere, per abitudine” Rinuncia ad esercitare il ruolo che ha , in passato sempre esercitato “ I lumi” hanno perduto la loro funzione . La conferma di tale regressione appare, d’altro canto, confermata sul problema del colonialismo, della vicenda algerina, del ruolo di grande potenza aggressiva e coloniale che il Paese continua a volere esercitare lì , come in Indocina. Non è sufficiente ed incisiva la polemica e l’opposizione che si esplicita da gran parte degli intellettuali francesi se si fa eccezione, ancora una volta di Jean Paul Sartre, impegnato in prima fila, con le forze di ispirazione marxista, sul terreno della lotta per la difesa della Pace. Rossanda registra , con acutezza, le preoccupazioni dovute al riflesso che, a causa dell’indiscutibile centralità del ruolo della Francia in Europa, tale stato di cose comporta nella situazione del complesso del vecchio continente. Il problema non è , per lei, quello “ di un colonialismo più civile”, non è quello di un’azione per l’integrazione della realtà algerina in quella francese quanto piuttosto e solo quello dell’indipendenza. In realtà in Francia De Gaulle ha vinto perché “ le armi teoriche della borghesia hanno profondamente incrinato la cultura già “ resistente “ ed “ impegnata”. Il vero errore di queste forze è consistito nel loro rifiuto “ a giudicare della IV repubblica in termini di classe, e della sua paralisi come conseguenza di una scelta di classe”.De Gaulle era sempre stato ostile al sistema dei Partiti. Aver diluito ogni netto distinguo rispetto alla politica da lui propugnata, l’aver scelto, spesso, di restare quasi in una posizione di distante agnosticismo, ha concorso a determinare una pesante , negativa ipoteca sul futuro della Francia rendendopiù difficile ed ardua l’azione di rinnovamento delle forze del movimento operaio e democratico e di tutti coloro che ad esso si riferivano. Il velleitarismo, inconcludente e perdente, della cultura di sinistra francese è una responsabilità grave che va denunciata e non coperta per il complesso delle implicazioni,negative, che ha comportato.E’ stato indebolito sia il fronte interno che quello internazionale, cosa che, con maggiore rigore e radicalità d’analisi poteva e doveva evitarsi.

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LA CRITICA AL POPULISMO DI ASOR ROSA IN “SCRITTORI E POPOLO”

Nella prefazione alla seconda edizione di “Scrittori e popolo” dell'aprile 1966 Asor Rosa propone una ricostruzione della storia letteraria e culturale italiana come processo legato ad un impianto sostanzialmente populistico e riformistico, non comparso a caso ed all'improvviso nel panorama culturale nazionale bensì interno a dinamiche, già preesistenti, chiaramente riscontrabili nel periodo risorgimentale e post risorgimentale. La stessa esperienza resistenziale e post resistenziale ha concorso, in buona sostanza, a delineare un'identità da un lato parziale e subalterna, non in grado di rappresentare, con la dovuta forza e coerenza, l'essenzialità del nodo fondamentale del conflitto sociale, tra capitale e lavoro, né la sintonica sponda rivoluzionaria- nel campo del pensiero- per una reale opposizione, quella cioè da praticare sul terreno dei rapporti di forza e di potere dalla classe operaia che non può, oggettivamente, essere integrabile nei meccanismi produttivi e di scambio propri del capitalismo. Questa linea ha anzi accentuatamente ridotto la possibilità di valorizzazione della cultura nazionale ostacolandone relazione ed integrazione dinamica con la cultura d'avanguardia più avanzata dell'Europa e del mondo. Più elementi disgregatori si sono mossi all'unisono nell'uniformare in tal senso il ruolo e la funzione degli intellettuali italiani al punto da definirne una funzione, storico sociale, sostanzialmente arretrata e subalterna. In tale ricostruzione Asor Rosa ingloba sia le espressioni più incidenti e rilevanti dell'impostazione realista corrente (Pratolini, Vittorini, etc) sia il Carlo Levi del “Cristo si è fermato ad Eboli” pur riconoscendogli ben altra capacità e spessore narrativo. “...dimostrando che la cultura muore in sé stessa e finisce per adeguarsi alla realtà sociale capitalista, perché essa è sempre stata, nel migliore dei casi, nient'altro che la risposta -folle, disperata, talvolta commovente risposta- del ceto intellettuale borghese alle inesorabili leggi di sviluppo del sistema... una risposta sbagliata e inadeguata. Essa non discendeva infatti dalla consapevolezPagina 275


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za che questa è una società divisa in classi”210. E più avanti “Il discorso sul populismo è servito a smascherare gli ideologi del movimento operaio italiano: mistificatori di professione anche quando sono in buona fede; caricature infantili dell'intellettuale borghese” e si preannuncia come “Il discorso generale sulla cultura borghese servirà a rivelare che neanche ai più alti livelli c'è rapporto tra cultura e classe operaia”211. E' perciò che “La formazione di un'ampia, diffusa esigenza rivoluzionaria passerà anche attraverso una radicale demistificazione dell'illusione culturale”. Ed ancora sostiene che “Mai come oggi risulta valida l'affermazione marxiana secondo cui le armi della critica non possono sostituire la critica delle armi". Fatte queste secche e liquidatorie premesse Asor Rosa che col tempo modificherà, attenuandoli radicalmente, le proprie valutazioni di opposizione assoluta all'impostazione ed alla linea della cultura nazionale e popolare praticata dagli intellettuali aderenti e simpatizzanti del Partito Comunista Italiano, propone in ogni caso uno stimolante lavoro di ricostruzione storico teorico rimasto un punto di riferimento importante cui da più parti, in maniera assertiva o oppositiva, si è fatto riferimento. Il populismo letterario ed il riformismo politico vanno intesi, per Asor Rosa, nel senso dell'assunzione di linee direttrici destinate a tracimare verso modelli di società indiscutibilmente socialdemocratici. Essi sono stati indubbiamente favoriti, come già prima accennato, dall'incidenza che ha avuto anche nel nostro paese il fenomeno dello Zdanovismo sovietico. Da un populismo di origine intellettuale si passa ad un populismo sempre più rigido ideologicamente e sempre più impegnato sul piano del progressismo. Le forze politiche di sinistra si spendono decisamente su questo terreno e così l'analisi si sposta dal piano “creativo” a quello critico e “direttivo”. Ciò che conta ora nella formazione della corrente populista non è tanto l'iniziativa dei

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Scrittori e popolo p. XII e XIII. Ed. Savelli 1975

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p. XIII op, cit.

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singoli artisti quanto la trama complessiva dei rapporti politico-ideologici dentro la quale quella iniziativa si muove. La funzione del Partito Comunista diviene a questo punto fondamentale”212. L'Italia si rivelava d'altronde permeabile a tale azione in quanto già da tempo preesisteva nel paese un antico crogiuolo di fattori che avevano determinato la nascita e la crescita di ceti intellettuali, da quelli individualmente più significativi a quelli più estesa espressione della piccola borghesia. Essi si erano, come strato, capillarmente diffusi nelle varie e differenziate attività sociali. In genere avevano accettato di svolgere una funzione di passiva e subalterna adesione alle scelte ed agli indirizzi politico culturali assunti dai ceti economici e produttivi più forti del paese, rinunciando ad evidenziare, nei modi e nelle forme dovute, la propria criticità sociale e politica. Il populismo inoffensivo, e spesso piagnone, riscontrabile, sebbene con le dovute differenze ed articolazioni, nelle varie regioni ed aree territoriali del Paese, si esprimerebbe lasciando prefigurare, non automaticamente, sbocchi progressisti ed avanzati nei modi di concorrere alla costruzione del “senso comune” popolare. Esso, infatti, può determinare fattore di crescita nella coscienza della necessità dell'organizzazione solidale e dell'opposizione sociale ma può, come spesso è avvenuto, prefigurare una funzione collaterale e sintonica ad un modo religioso d'interpretazione della realtà e del destino che ci è stato individualmente e collettivamente assegnato intangibile ed immodificabile, contro il quale, già scritto, è inutile e vano pensare di opporsi.

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p. 205 op. cit

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Il meridionalismo piagnone, dopo la grande stagione del grande Meridionalismo di Salvemini, Dorso, Tommaso Fiore, vincitore del Premio Viareggio nel 1952 col suo “Popolo di formiche” si era poi manifestato “...nove volte su dieci, arretramento della linea polemica, ulteriore rafforzamento delle tendenze folkloristiche e locali, intensificazione, per quanto riguarda le questioni del gusto, della lingua e dello stile, di smaccati provincialismi e dilettantismi. E' vero che un paese ed una letteratura si portano sfortunatamente dietro l'eredità delle proprie arretratezze; è vero però anche che il genio di un ceto intellettuale si rivela spesso nella capacità di saltare le costrizioni oggettive, a cui lo si vorrebbe inchiodare, inventando esso stesso le condizioni per un discorso profondamente innovatore, per un discorso d'avanguardia”213. In realtà, per Asor Rosa in Italia, diversamente da quanto è accaduto in altri paesi, come la Francia o la Russia, in fasi relativamente recenti della storia, ciò non si è mai realizzato. Il populismo italiano esprime, piuttosto, sul piano delle lettere, un'ideologia sostanzialmente piccolo-borghese, oscillante e subalterna, mai in grado, anche nei tentativi più ambiziosi e riusciti, di incidere sui poteri dominanti concorrendo a determinarne la profonda messa in crisi. La stessa Resistenza si presenta come “La semplice occasione di un discorso, che ancora una volta trova le sue motivazioni al livello della cultura e della ricerca intellettuale. I motivi storici, politici e sociali del fenomeno restano in seconda linea”214. Vittorini215, preciserà che “rivoluzionario” è lo scrittore che riesce a porre attraverso la sua opera esigenze rivoluzionarie, “diverse da quelle che la politica pone: esigenze... dell'uomo che egli soltanto sa scorgere nell'uomo, che è proprio di lui scrittore scorgere, e che è proprio di lui scrittore rivoluzionario porre, e porre “accanto” alle esigenze che pone la politica, porre “in più” delle esi-

213

p. 228 op. cit.

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op. cit. p. 164

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“Diario in pubblico” pp. 269-270

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genze che pone la politica”. Non è tanto il problema, osserva Asor Rosa, di porre esigenze, comuni a varie avanguardie del Novecento, di difesa di un “rivoluzionarismo autonomo” della letteratura e della cultura “... ma proprio in quanto non riesce a sottrarre questa autonomia alle suggestioni dell'impegno progressista e resistenziale. “Uomini e no” è un'opera essenzialmente sbagliata per questo motivo… Non si può accettare... il vecchio tentativo - tipico dell'intellettuale italiano- di volere che la realtà sia a propria somiglianza - non solo: che in questa somiglianza sia il sale della terra, la prefigurazione di una più alta civiltà, la chiave dei molti mali della vita”. Non è accettabile ( in “Uomini e No”) “esattamente la pretesa di imporre al mondo come soluzione dei suoi problemi un'atteggiamento intellettuale, che sa di tradizione e di casta”. Lo stesso gramscianesimo, ed in specie l'uso del concetto di nazionale e di popolare quale metro di riferimento per la validità e l'efficacia di una produzione artistica o letteraria, ha determinato l'humus di riferimento dietro cui ha continuato ad attecchire l'ideologia populistica foriera poi, in politica, di una pratica progressista del tipo di quella prima riferita, inincidente cioè e subalterna. A Gramsci viene attribuito un approccio teso ad accentuare un'attenzione tutta rivolta ai problemi “interni” della cultura da cui deriverebbe il “rifiuto, generalmente implicito ma pur sempre evidente, di qualunque soluzione cosmopolitica o anche semplicemente esterofila; la seconda (conseguenza) riguarda la fermissima convinzione, più volte ribadita da Gramsci, che non può esserci sviluppo culturale e letterario senza passare attraverso una fase “nazionale” ed autoctona”216. Anche da ciò deriverebbero le conseguenze di una dilazione e di un rinvio “di un fecondo, critico rapporto tra la nostra cultura e la grande cultura del Novecento europeo, in particolare colle esperienze delle avanguardie; e l'accentuazione dentro il movimento progressista di una serie infinita di particolarismi lo-

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p. 219, op. cit

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cali e provinciali”217. E' stata in verità la storia ed il favore che, travalicando di gran lunga gli esclusivi confini nazionali, ha incontrato l'opera ed il pensiero di Antonio Gramsci, mi pare, a fare giustizia di tale tesi interpretativa, rivelatasi, nei fatti, approssimativa ed, in buona sostanza, errata e non condivisibile. Anche se è indubbiamente vero che “i gramsciani” tra il 1948 ed il 1965 hanno accentuato aspetti tutti interni ad una dimensione delimitata negli angusti confini democratici provinciali. D'altronde è di questo periodo il costante richiamo della sinistra e del Partito Comunista Italiano alla dimensione dell'identità nazionale, da recuperare integralmente dopo che il fascismo ne aveva offuscati, offendendoli, i caratteri storici, politici, morali. E' la fase nella quale comincia ad essere identificato il comune destino tra Partito e Paese, tra Partito e Nazione. L'assenza d’azione oppositiva e di contrasto del marxismo ufficiale rispetto al proliferare regionalistico, municipalistico e localistico delle forme più variegate e subalterne di populismo arriva a fare sostenere ad Asor Rosa che “L'assenza di proposte chiaramente alternative non solo agevolò la diffusione delle forme più stantie e provinciali di populismo ma anche impedì che la crisi di certe prospettive storiche e letterarie fosse sostanzialmente positiva, cioè riuscisse a dare vita a proposte nuove, estranee all'equivoco democratico degli anni precedenti. Il risultato fu che la morte dell'ideologia antifascista, evidente sul piano creativo, venne difficilmente accettata sul piano critico e teorico. Ciò favorì il perpetuarsi, al di là di ogni aspettativa, di posizioni puramente cristallizzate e perciò sterili”218. La critica letteraria italiana appare così segnata più dal gramscianesimo che dal marxismo nel senso che, addirittura per Asor Rosa si verificherebbe che "L'insegnamento di Gramsci non avvicina bensì allontana gli intellettuali-militanti del movimento operaio dal filone puro del pensiero di Marx; e che esso serve

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p. 221-222 op. cit

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pp. 243-244 op. cit

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fondamentalmente da tramite "alla diffusione di una posizione genericamente progressista ed antifascista, priva di un serio contenuto di classe219 "ed ancora “... il gramscianesimo nella letteratura e nella critica letteraria si qualifica in sostanza come un fattore puro e semplice di conservazione : come l'espressione di un predominio esasperato e settario della ideologia sulla ricerca scientifica e sull'analisi classista dei fenomeni storico-sociali e storico-culturali. Il quadro... è dato, ancora una volta, dal convincimento generale... che il movimento operaio e il pensiero marxista sono eredi di tutta la parte migliore della tradizione culturale borghese". Appare qui evidente la parzialità e l'erroneità interpretativa di tale posizione che, invece, è del tutto interna ad una corretta lettura dinamica ma non dogmatica, del pensiero marxiano non ibernato nell'ossificata osservanza letterale alla sacralità dei testi bensì intesa come linea di tendenza interpretativa originale, in Gramsci e nei suoi eredi, non astrattamente sovrapposta ma interna alla comprensione della peculiarità e delle differenze nazionali delle distinte fasi di sviluppo delle società specifiche-Esse sono dovunque dissimili, per storia, radici e tradizioni e perciò non assimilabili all'interno di un unico ed esclusivo, canonico, stereotipo di lettura. E' comunque indubbiamente vero che i piani dell'indagine critica e letteraria si inquadrino in una dimensione non scissa dalla materialità e dalla temporalità dello scontro politico sociale in atto. Gli articoli citati dallo stesso Asor Rosa di Mario Alicata e di Carlo Salinari sembrano convergere in una precisazione che va nella direzione esposta. Ne «L'Unità", 15 gennaio 1952 Mario Alicata insisterà sul fatto che "... la costruzione della cultura marxista nel nostro paese debba passare ancora attraverso la lotta per la costruzione di un grande movimento di cultura libera, moderna e nazionale, di cui il marxismo sappia rappresentare l'asse, il nerbo, l'anima, e un'anima non scolastica, non fatta di citazioni e di attese, di illuminazioni dall'alto... . Ma un'anima viva, e per essere viva saldamente ancorata alla pras-

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p. 244 op. cit.

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si"220. Carlo Salinari aveva a sua volta sostenuto221 che la classe operaia deve prendere su di sé la responsabilità di portare avanti, rendendola più compiuta, la rivoluzione democratico- borghese sul terreno economico, sociale ed istituzionale. Lo stesso deve accadere nel campo della cultura dove gli intellettuali progressivi devono portare avanti «le istanze rivoluzionarie della stessa cultura borghese soffocate dalla grettezza della nostra classe dirigente, minacciate oggi a morte dall'oscurantismo clericale". Problema che, come si è già in più punti e parti del presente lavoro sottolineato, non appare, nella determinata e specifica epoca storica presa in esame, problema peregrino né tampoco fattore di subalternità e di conformistico perdente ed in incidente riformismo come ritiene di sostenere Asor Rosa. Non persuade, in sostanza, la valutazione secondo la quale «Anche sulla cultura e sulla critica gramsciano- marxista si riverberano insomma la tradizione aristocratica e il paternalismo tipico dell'intellettuale borghese italiano"222. Ciò che non è acquisibile è la lettura indifferenziata ed uniforme, da ceto, senza alcun’interna articolazione e differenziazione di un processo denso invece di sfaccettature ed accentuazioni non unificabili in un unico ed indistinto assemblaggio. E' pur vero che si realizzò un discutibile ed indifferenziato rifiuto del decadentismo e dell'avanguardia ed un invito esplicito a riscoprire un filone di collegamento organico dall'Ottocento in avanti. Ciò doveva, credo, concorrere a spiegare come la politica scelta dalle sinistre italiane non era più, da tempo, quella dell'attesa messianica di un'improbabile rottura rivoluzionaria palingenetica quanto piuttosto il tentativo di realizzare, nella storicità e nei vincoli della situazione data, incisive riforme economiche e sociali all'interno di una fase di transizione. Questa doveva essere la base di partenza per ulteriori e più forti realizzazioni future. Per quanto si è fin'ora detto è del

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art. Mario Alicata «Troppo poco gramsciani", ne «Il Contemporaneo»III, 26, 30 giugno 1956 221

recensione a «Passato e Presente «di A. Gramsci( L'Unità, 15 gennaio 1952)

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p. 249 op. cit.

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tutto evidente che non può non registrarsi un qualche riflesso di tale impostazione sulle scelte di elaborazione creativa. Eppure per Asor Rosa tutto «Il populismo, che chiameremo classico, il populismo della tradizione democratica ottocentesca, dell'antifascismo e della Resistenza, moriva ossificato dentro le strutture del discorso ideologico223. Si arriva così, dopo la lunga e defatigante discussione sul «Metello «di Pratolini, alla «crisi «oggettiva «del populismo gramsciano e si chiarisce che "i destinatari veri di questa letteratura e di questa arte sono i piccolo- borghesi contemporanei, facilmente manovrabili e influenzabili da un discorso che faccia sentimentalmente appello a temi come «la lotta per la vita, la miseria, la solidarietà, l'amicizia". La classe operaia resta al di là di tutto questo. Il populismo non la tocca etc. "224. Ove mi pare venga definitivamente confermata la parzialità e l'erroneità della lettura e dell'interpretazione degli spunti, assai più ricchi e complessi, presenti nell'elaborazione teorica e culturale del Gramsci. Più persuasiva appare la seconda parte del lavoro nel quale, tra l'altro, si indaga la produzione di due autori, d'indubbio rilievo, come Carlo Cassola e Pier Paolo Pasolini. Non essendo ora il caso di riassumere dettagliatamente le osservazioni sviluppate in proposito, ci si può limitare alla condivisione che in entrambi si registrerà “il drastico abbandono della concezione progressista”. Sia l'uno che l'altro compiono un'operazione tipicamente regressiva: al di là del divenire, alle sorgenti dell'essere. Il popolo torna ad essere natura etc”225. Ed ancora «In Cassola e Pasolini il processo creativo va dall'oggetto al soggetto, dalla realtà come stimolo di sensazioni o di sentimenti allo spirito, fonte primigenia... di quelle

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p. 255 op. cit.

224

pag. 256 op. cit.

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p. 263 op. cit.

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sensazioni e di quei sentimenti"226. In ogni caso il populismo si rivela «insufficiente (Cassola) o impotente (Pasolini) a rendere quel complesso di valori totali che i due scrittori portavano in sé e che attraverso di esso si erano illusi di poter rappresentare più concretamente ed efficacemente”. Cassola, in ogni caso sfuggendo dalle maglie del populismo, sembra rinchiudersi in una dimensione privatistica e solo così appagante che conferma in più manifestazioni come il suo sguardo sia rivolto all'ottocento, quale dimensione comprensiva di una ricerca di semplicità ed appagamento, dai sentimenti distinti e definiti, che invece ora appare obiettivamente turbata dalla distruzione di ogni manifestazione del cuore e di positiva naturalità. “La verità è che a Cassola manca ogni inclinazione ad intendere il senso di una realtà contemporanea affrontata e sezionata al livello delle grandi esperienze culturali europee»e si manifesta così quale tipica espressione, alla fine, per Asor Rosa dell'intellettualità media piccolo borghese. Ci si accorge che “l'esistenzialismo cassoliano, fondato sull'esaltazione dei buoni sentimenti, sulla poesia come ispirazione,... non è nient'altro che una astiosa rivendicazione provinciale contro la problematica stessa del mondo moderno”227. La parte migliore di sé la esprime comunque quando sembra muoversi come pervenendo da un mondo scomparso espresso spesso con “echi di pateticità struggente”.

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p. 264

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p. 344 op. cit.

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FRANCO FORTINI E “LA VERIFICA DEI POTERI”

Il rapporto e le ricostruzioni delle tematiche teoriche e letterarie assumono, a mio avviso, ben altra e più compiuta fisionomia, nella fase più avanzata del lavoro critico e teorico di Franco Fortini. La lettura del blocco di articoli raccolti nel volume: “La verifica dei poteri”228, propone quello che a me pare un decisivo salto interpretativo sull’evoluzione del ragionamento ricostruttivo che, fin’ora, è stato da più parti e da più attori proposto. Si può sinteticamente, infatti, sostenere che, con quest’opera, si sposta decisamente l’attenzione dai singoli autori o da gruppi di essi, organizzati attorno alle specifiche riviste letterarie e di cultura, all’indagine del salto di qualità determinatosi, in Italia, con la massiccia messa in moto di un’organizzazione capitalistica dell’editoria che, obiettivamente, trasformatasi in dimensione generale aziendale e di mercato, produce sulla specificità e sulle forme di produzione poetica e letteraria profonde e radicali modificazioni operative e funzionali. Un nuovo piano e contesto generale concorre nei fatti, a giudizio di Fortini, ad introdurre un decisivo e, per tanti aspetti definitivo colpo alla suggestione illusoria della praticabilità di produzioni segnate dalla possibilità della piena salvaguardia dell’autonomia e della libera creazione nell’attività corrente dello scrittore. Da “coscienza critica” del mondo si passa ad una funzione tollerata ed anzi diretta ed inglobata nell’industria culturale ed a quest’avanzamento, in genere, gli intellettuali risponderanno accettando di aderire alle pieghe della nuova organizzazione produttiva e di potere non di rado diventandone autentici cantori. In tale contesto la grande ed indifferenziata produzione di scritti, molto spesso di pessima qualità, definisce lo spostamento d’attenzione e d’opzione delle forme

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edizione “Il Saggiatore” Garzanti ( e Alberto Mondatori) Milano 1965

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peculiari verso cui si è ormai diretto il neocapitalismo nazionale che, dimostrando nei fatti la capacità di esercitare una rinnovata egemonia, ingloba nelle sue forme espressive, facendole convivere entrambe subalternamente nel suo seno, fattori di opposizione e di governo. Non ci si può stupire, a giudizio di Fortini, del fatto che la situazione miri a caratterizzarsi in tal senso in quanto, in buona sostanza, non si fa altro che registrare, in forme apparentemente aggiornate e rinnovate, l’antico vizio di origine degli intellettuali italiani che, non a caso, durante tutto il precedente periodo del regime fascista, tranne limitatissime eccezioni, numericamente irrilevanti229, avevano scelto la strada di adesione formale ad esso, pur con tutti gli ovvi ed apparenti distinguo proposti. Si rinnova così, per Fortini, in nuove forme, il consueto atteggiamento di adesione subalterna ai poteri politici ed economici e si evita di dare luogo ad una massiccia e coordinata forma di resistenza capace di individuare, nella nuova situazione, discrimini indisponibili alla secca e sofisticata cesura che si sta mettendo in atto. “La verifica dei poteri” è così testo ricchissimo di spunti illuminanti, di felici intuizioni, di elementi di critica costantemente feconda, di tentativo di chiamata a nuove riflessioni e livelli di responsabilità, di bilancio critico, in chiaroscuro, dei precedenti tentativi letterari e poetici, di faticosa prefigurazione di altre strade e di differenti strategie operative. Appare del tutto evidente la pressoché proibitiva e perciò illusoria aspirazione all’efficace azione di opposizione a queste tendenze, la impossibilità pratica di fronteggiarne le conseguenze in considerazione dell’esistenza di rapporti di forza troppo marcatamente sbilanciati, forse l’inesistenza, sullo sfondo, di capacità adeguata e compatta, tra le forze politiche di opposizione, della cosciente pratica di una nuova intesa con un fronte avanzato dell’intellettualità nazionale.

229

soltanto 11 professori, in Italia, si erano rifiutati di giurare fedeltà al regime facsista, cosa questa che aveva causato la loro immediata estromissione dagli incarichi accademici.

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Dei processi come si vanno a consolidare non si comprendono, a pieno, portata e conseguenze. L’azione lucida e subdola dell’industria culturale e dei poteri economici, su di essa concentrata, si avvia a prefigurare, ancora una volta, un piano d’intervento che - da parte di queste forze- individua a tempo e meglio indirizzi e tendenze di sviluppo che il movimento operaio, invece, fa fatica ad individuare, comprendere e combattere con la forza di contrasto e l’efficacia che invece sarebbe stata necessaria. Lo sviluppo della società di massa, la crescita dell’intellettuale massa, la diffusione epidermica, quale mai prima di allora si era realizzata, ed anzi l’esplosione della scolarità, con tutte le conseguenze che ciò comporta, il diverso atteggiamento, sfociato in divisione tra le forze di sinistra a proposito della valutazione dell’ormai prossima fase del centro sinistra e dei modi più idonei a contrastarla, dopo la netta opposizione della fase centrista, definiscono un quadro nuovo d’insieme che concorrerà, almeno fino al 1968, a mantenere in vita egemonia e potere, in un’alleanza ancora organica, tra forze più retrive ed avanzate del capitalismo nazionale. L’inglobamento, la rottura e la scissione tra i gruppi intellettuali d’avanguardia comincia a realizzarsi. Vediamo ora, più nei dettagli, come procede il modo di ragionare di Fortini nell’opera in esame - concentrando l’attenzione su alcuni nodi di sviluppo essenziali della sua elaborazione. Primo elemento di riflessione è il fatto di vedersi attribuita la falsa volontà di volere imporre al proletariato una coscienza razional- borghese per l’ennesima volta gestita dagli intellettuali. Alla spiegazione che viene data secondo la quale le classi subalterne vivrebbero, in Italia, in una cultura definibile “Come combinazione – necessariamente contraddittoria- di elementi ereditati da fasi storiche pregresse, di quelli attualmente ricevuti- imposti dalla classe dominante e finalmente di modificazioni creative operate su quelli e questi”230 il Fortini obietta, un attimo dopo che “La storia delle avanguardie rivoluzionarie … si accompagna alla volontà di chiarire alle classi subalterne la composizione ideologica della loro cultura e di spingerle a rifiu-

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p. 14 Verifica dei poteri

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tarla e distruggerla in tutto o in parte per assumere altri criteri ideologici, altri metri di giudizio o di comportamento”231. Sembrerebbe che quando le minoranze o le avanguardie si accingono a fare ciò, cioè a sostituire gli elementi ideologici – culturali ricevuti e-o imposti al presente “si abbiano allora quella deviazione e quell’errore che il gergo politico chiama deviazione dogmatico-settaria ed errore del soggettivismo. Quando quelle medesime minoranze o avanguardie tendono invece a privilegiare gli elementi culturali delle classi subalterne, in questo loro passato, e a fare della loro riscoperta o sistemazione il sostituto dei valori imposti al presente dalla classe dominante, si avrebbero la deviazione e l’errore che si domandano, deviazione del populismo ed errore del nazionalismo”232. (* Va nel testo principale a pag. 221, dopo “ compagni di strada*)

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p. 14 op. cit.

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pp. 14-15 op, cit.

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IL “CALENDARIO DEL POPOLO” E LA CULTURA POPOLARE

Il 29 Marzo 1945 è nato a Roma, sotto la direzione di Giulio Trevisani, il “Calendario del Popolo”, rivista di cultura popolare. La scelta operata, della diffusa trattazione dei caratteri peculiari di questa esperienza è, in sostanza, dovuta al fatto che vi troviamo, in maniera semplice, compiuta ed essenziale, tutti i nodi centrali sui quali si va impostando, negli anni presi in esame, la linea di politica culturale del Partito Comunista Italiano. La pubblicazione è diffusa capillarmente e punta alla crescita di conoscenza e cultura delle masse popolari. Il suo linguaggio espressivo rifugge dagli astrusi “specialismi” così da esserne esaltata l’immediata e subitanea comprensione. Ad esso possono riferirsi, con relativa facilità, gli operai ed i braccianti, ossatura portante dell’”esercito di classe” del proletariato italiano. Vi si sperimenta uno dei primi tentativi di stabilire un raccordo, positivamente fecondo ed incisivo, tra intellettuali progressivi e popolo. D’altro canto, come risulterà più avanti nell’esame dettagliato di quest’esperienza, le firme ed i curatori del “Calendario” sono personalità di primo piano nello scenario culturale italiano del tempo. Esso si pone essenzialmente il problema della “diffusione” della cultura, cioè dell’opera da compiere per innalzare il livello di istruzione dei lavoratori e delle masse popolari ponendo il sapere e gli intellettuali in più diretto rapporto con le loro esigenze. Quest’ obiettivo è visto come elemento decisivo per trasformare la cultura stessa nei suoi contenuti e nelle sue forme espressive. L’intento della rivista sarà di diffondere quella che in forma inadeguata sarà chiamata “Cultura popolare”. L’esigenza da cui la rivista prende le mosse è quella di superare il dualismo tra una concezione tradizionale del sapere, di cui hanno fin’ora beneficiato cerchie ristrette, e la cultura “del popolo”. Questo obiettivo però, quello cioè di saldare le due culture per giungere al loro superamento in una nuova cultura, si raggiunge per gli autori della rivista solo se si parte dal diffondere tra i lavoratori le conquiste più avanzate a cui la conoscenza è pervenuta in ogni campo

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dell’umano agire233. Il “Calendario”avrà quindi immediatamente un carattere divulgativo ed enciclopedico. Sulle sue pagine saranno trattati tutti gli aspetti delle varie articolazioni del sapere, dalla storia alla letteratura, alla filosofia ed alla musica fino al nuovo rilievo che inizia ad assumere la ricerca scientifica234. Questi argomenti saranno trattati, di volta in volta, contro la corrente interpretazione crociana da una diversa angolatura con una specifica analisi d’ispirazione marxista. Già nel primo numero è evidente la linea su cui il “Calendario” ha intenzione di muoversi. Esso lavorerà in stretto contatto con le sezioni del Partito e si darà un’articolata rete organizzativa. Ci si muove, infatti, per la creazione di corrispondenti sezionali. Ogni sezione è invitata a nominare un corrispondente che deve4 sostanzialmente svolgere i seguenti compiti: 1) Curare la diffusione del giornale tra compagni e simpatizzanti organizzando le vendite per cellule a mezzo di attivisti di cellula. Ove il giornale sia venduto anche nelle pubbliche edicole interessarsi a queste vendite.

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Gramsci, in “Il Materialismo Storico e la Filosofia di Benedetto Croce”, ed. Riuniti, Roma 1971, p. 6, aveva detto: “Creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte “originali”, significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità già scoperte, “socializzarle”, per così dire e pertanto farle diventare base di azioni vitali, elemento di coordinamento ed ordine intellettuale e morale”. 234

Quando saranno passati venti anni dalla nascita del “Calendario”, Trevisani, nel numero dell’Agosto-Settembre 1966, facendo il bilancio del lavoro svolto, dirà :” Il 2 Calendario” ha compiuto venti anni. Anni spesi bene;che hanno avuto come scopo principale quello di fornire attraverso le pagine del “Calendario” una nuova enciclopedia, alla portata delle persone più semplici, che colmasse le infinite lacune createsi nella cultura della grande maggioranza degli italiani nel corso della dittatura fascista ( durante la quale, si sa, storia, economia, diritto, e così via venivano manipolati ad uso e consumo del regime)P. Cominciammo come semplici divulgatori, ci proponemmo, successivamente, approfondimento e critica della materia divulgataP”.

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Fare richiesta per ogni sezione, ogni quindici giorni, del numero di copie occorrenti per la vendita e dare conto delle copie vendute. Informare il gruppo redazionale dell’attività culturale svolta dalla sezione ogni quindici giorni. Segnalare di quindicina in quindicina le esigenze più diffuse in materia culturale tra i compagni, le loro osservazioni e le loro critiche, chiedere la particolare illustrazione di avvenimenti o segnalare quelli particolarmente significativi che non siano stati sufficientemente sviluppati o quegli argomenti che siano sfuggiti alla trattazione, incitare i militanti ed i simpatizzanti a scrivere direttamente alla redazione i loro desideri, le loro curiosità o le loro critiche. Fare, ogni mese, una relazione sulla maturità culturale media dei compagni della

sezione

segnalando

gli

elementi

più

capaci 235

nell’approfondimento dei temi della scienza Marxista

o

appassionati

.

Sempre nel primo numero, nella voce “cassetta enciclopedica”, è detto ancora più chiaramente il carattere che vuole assumere la rivista, cioè divulgativo ed enciclopedico ed il perché di questa scelta236. -L’ambizioso compito che i redattori del “Calendario” si propongono è, in concomitanza al movimento di rinascita democratica che avviene nell’immediato dopoguerra, quello di suscitare un profondo rinnovamento “intellettuale e morale” del popolo italiano. E’ perciò significativo il fatto che il numero del 28 Marzo-30 Aprile 1945 sia

235

Il “Calendario del Popolon. 1, 27. marzo 1945

236

”Mille volte abbiamo dovuto constatare che dei compagni, specie giovani, nelle lacune di cultura politica create da oltre un ventennio di diseducazione fascista, si domandino, e domandino ai più anziani: Quando e come fu creata la Prima Internazionale? Perché fallì l’occupazione delle fabbriche? Chi fu Turati? Chi è la Pasionaria? Che significa Stacanovismo? Da che deriva la festa dei lavoratori? Etc. , etc. Il nostro foglio ha voluto portare un modesto contributo alla necessaria educazione storico culturale delle masse, con un meccanismo elementare e piacevole, quello delle ricorrenze, degli anniversari, etc. , con questa rubrica noi ci proponiamo di soddisfare la curiosità di tutti coloro, compagni o non compagni, che ci vorranno scrivere chiedendoci notizie, informazioni, spiegazioni. Noi risponderemo a tutti”. Presentazione della voce “cassetta enciclopedica” fatta dai curatori; Calendario del Popolo”, n. 1, 27 Marzo 1945.

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dedicato alla figura di Antonio Gramsci. Alla commemorazione del capo del Partito Comunista Italiano è, infatti, intitolato l’articolo: “27 Aprile 1937, assassinato dagli aguzzini fascisti muore in carcere Antonio Gramsci”. Nel sottotitolo ( “Verrà il giorno in cui voi porterete l’Italia alla catastrofe- Parole di Gramsci ai giudici del Tribunale Speciale- e allora toccherà a noi comunisti salvare il Paese”) vengono indicati i compiti nazionali che spettano al Partito anche nella presente situazione storico-politica. In sostanza possiamo dire che quest’ esperienza ben rappresenta il profondo fervore che anima gli intellettuali italiani progressisti nell’epoca in cui le masse si riaffacciano alla vita democratica. Dal 1945, come già abbiamo detto, l’esigenza più profonda che viene espressa dal popolo tornato alla libertà è quella di una libera e nuova cultura, di una profonda ricostruzione culturale, è avidità di conoscenza e di critica. Il problema della diffusione della cultura è stato una costante preoccupazione del movimento operaio. Già nel lontano 1868, infatti, il terzo Congresso dell’Associazione Internazionale degli operai affermava che “la rigenerazione sociale sarà operata nel doppio dominio materiale e morale”. Un punto di riferimento preciso di questa rivista sembra essere l’esperienza fatta dai primi giornali della classe operaia che, per molti anni e fino all’inizio del secolo, furono di contenuto eclettico, ricchi di poesie e romanzi e con nozioni e rubriche enciclopediche. Di quell’epoca sono anche le prime esperienze delle biblioteche e delle sale di lettura, assieme all’organizzazione agile di diffusione della cultura sotto forma di opuscoli a larga diffusione. Altra attività significativa che ci può fare scorgere un legame con l’esperienza che si propose di mandare avanti il “Calendario” è quella della creazione, al principio del secolo nell’Italia del Nord, delle prime università popolari e delle prime biblioteche popolari. Pagina 292


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E’ a tutta questa rete di iniziative che la rivista sembra voler far riferimento, proponendosi di trovare un collegamento anche con le forme più embrionali in cui si è espressa la cultura popolare. Non potendo in questa trattazione affrontare diffusamente e nei dettagli i numerosissimi argomenti e le tantissime iniziative portate avanti, proporremo solo alcune questioni ed alcune tappe di lavoro che ci sembrano particolarmente significative per far risaltare maggiormente l’influenza che questa esperienza di organizzazione della cultura ha avuto negli anni immediatamente seguenti la seconda guerra mondiale. Va infine aggiunto il fatto che al movimento promosso dal “Calendario” si collegò tutto un fervore di attività di circoli( soprattutto circoli calendaristi) e di varie attività degli organismi periferici del Partito comunista ed anche di quello socialista, conferenze, dibattiti, mostre e spettacoli, nonché un movimento per la rinascita della funzione delle biblioteche presso vari comuni. Inoltre sotto gli auspici della risorta Società Umanitaria di Milano fu ricostituita nel 1947 a Firenze L’Unione Italiana della Cultura Popolare ( U. I. C. P. ). già esistente dal 1908e soppressa dal Fascismo nel 1924 ( questa organizzazione terrà quattro congressi: il primo a Perugina nel 1948, il secondo a Gargnano nel 1952, il terzo a Bari nel 1955, il quarto a Venezia nel 1957). L’U. I. C. P. terrà interessanti esperienze di educazione degli adulti, realizzatesi in concorso con altri enti. Un buon lavoro, stimolato dall’esperienza del “Calendario”, sarà pure svolto da associazioni di carattere nazionale, come l’Associazione Nazionale per la lotta contro l’analfabetismo e l’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno.

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I CONGRESSI PER LA CULTURA POPOLARE

Una ricostruzione dettagliata dell’attività svolta dal “Calendario” si può vedere attraverso l’esame degli atti dei tre Congressi della cultura popolare che rappresentano le esperienze più significative della vita della rivista per il rilievo nazionale che avranno nella politica e nella cultura italiana. Il Primo Congresso della cultura popolare si tiene il 7 e l’8 Dicembre 1946 nella sede del Castello Sforzesco di Milano. In un anno di vita e di attività quest’ esperienza è già diventata un solido punto di riferimento per nutriti gruppi di uomini politici e di intellettuali. Quest’ impressione si ricava dai nomi di rilievo che intervengono a questa iniziativa. Ne citiamo soltanto alcuni: l’onorevole Malagugini, il poeta Alfonso Gatto, i critici Antonello Trombadori e Giansiro Ferrata, gli scrittori Fabrizio Onori ed Elio Vittorini, i pittori Mucchi e >Birilli, l’avvocato Boriosi, assessore all’istruzione. La presidenza è tenuta dal prof. Antonio Banfi, da Giancarlo Pajetta, dal dottor Italo Busetto, vicedirettore dell’Unità, da Guido Mazzali, direttore dell’Avanti, da Giulio Trevisani, direttore del “Calendario”, dall’ingegnere De Florentis. Dopo il saluto della città di Milano portato dal Sindaco Greppi, Pajetta presenta l’iniziativa sottolineando l’esigenza di affermare il diritto alla cultura per tutti, Della Giusta evidenzia come la lotta per la creazione di una cultura nuova e popolare è in contraddizione profonda con l’esigenza di conservazione delle classi dominanti ed esprime la sua più netta fiducia nella esperienza che si sta conducendo in Unione Sovietica per la creazione di una società socialista in cui la cultura del popolo ed il suo elevamento avviene in stretto contatto con l’azione degli intellettuali. Da qui l’idea centrale: il problema di un elevamento culturale delle masse è in stretta relazione con la capacità di risolvere i più grandi problemi economicosociali. Pagina 294


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D’Ambrosio sottolinea come un anno di esperienza de “IL Calendario “dimostri l’interesse e le esigenze che esprimono le masse proletarie per raggiungere un livello culturale in grado di fornire ad esse una coscienza storica dei propri problemi. Busetto afferma che la nuova cultura deve indirizzare le masse in senso democratico, risvegliando in esse l’interesse per la conoscenza e deve inoltre svolgere un’azione di educazione contro il disorientamento creato dai giornali del grande capitale. L’architetto Marescotti esamina un’ipotesi di lavoro per la formazione di una cultura popolare che si esprima attorno a quattro direttrici: l’abitazione come base fondamentale della vita; la scuola come base fondamentale della cultura popolare; le istituzioni popolari di cultura come integrazione dell’attività che deve svolgere la scuola stessa; la funzione delle biblioteche. Antonio Banfi relaziona sul tema : “Necessità fondamentali ed urgenti della cultura del popolo”, che vengono individuate nell’organizzazione di una scuola aperta a tutti ed in un’azione di ampia diffusione dei libri e dei giornali. Presenta un ordine del giorno in cui si afferma che il convegno individua il modo di rinnovare la cultura nella avanzata democratica delle classi lavoratrici. La cultura in Banfi è vista come “coscienza integrale e collettiva della tradizione storica e dei problemi della vita civile e spirituale, coscienza illuminata dalla ragione”. Inoltre, esprimendo un giudizio positivo sull’esperienza del “Calendario”, Banfi sottolinea l’esigenza che alla lotta per una più ampia estensione dell’opera di rinnovamento culturale che renda possibile l’affermazione e lo sviluppo di una democrazia sostanziale per i lavoratori, concorrano pure la CGIL e gli enti pubblici perché col loro contributo sia sviluppata una cultura libera, restituita alla sua funzione sociale. Propone, inoltre, la costituzione di un comitato per la cultura del popolo che si

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faccia interprete presso le autorità dello stato e presso le forze politiche democratiche di tali esigenze. Insiste perché su tali questioni si sviluppi un ampio movimento di opinione che sostenga le varie iniziative che saranno prese. Indica la necessità, urgente, di costituire un centro studi per gli aspetti sociali, culturali ed organizzativi del problema. Nella seconda giornata del Congresso interviene Trevisani il quale evidenzia come, dall’esperienza del Calendario, si possa ricavare che le masse lavoratrici esprimono una profonda esigenza di cultura e di verità. Prospetta il piano di una cooperativa editrice popolare e quello di un centro librario per segnalare libri e riviste, per promuovere la formazione di biblioteche attrezzate che rispondano all’esigenza di sviluppo della vita democratica. Sempre sul problema delle biblioteche interviene Locatelli che propone la formazione di biblioteche rionali e comunali e la creazione di una federazione nazionale delle biblioteche popolari. Sul “Teatro del popolo” riferisce Grassi, citando l’esperienza fatta a Milano dal gruppo dei “piccoli borghesi” ed indica la necessità di creare teatri municipali. De Grada propone un piano di conferenze e di spettacoli che, coordinati a livello nazionale dalla presidenza del Congresso, siano tenuti in occasione di significative date storiche. Esprime in altre parole l’esigenza di una rivista vissuta, non solo stampata. L’intervento di Maestri tratta del problema più drammatico che costituisce il più forte ostacolo al superamento della subalternità delle masse popolari nei riguardi delle classi dominanti: la questione di chi non sa leggere. Trevisani, intervenendo sullo stesso problema, sostiene che bisognerà trovare particolari forme di divulgazione per gli analfabeti: potrebbero essere necessarie particolari edizioni che utilizzino il sistema del fumetto. La stessa esperienza sollecita Caratasse di Ascoli per i contadini. Banfi, nella replica, prende atto dei suggerimenti venuti dai vari interventi ed Pagina 296


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afferma che il lavoro futuro del “Calendario” si concentrerà sulla diffusione delle varie iniziative proposte nel convegno e che esse saranno tra loro coordinate. L’ordine del giorno Banfi, che può costituire un punto di riferimento per il programma di attività future della rivista, viene approvato all’unanimità. E’ tra le pubblicazioni comuniste di maggiore diffusione, periodico di massa per eccellenza. In esso, secondo alcune interpretazioni, 237 la litografia del Partito verrebbe versata senza risparmio. La sua stessa origine di bollettino dedicata quasi interamente a ricordare “ricorrenze fondamentali per la lotta operaia o, qua e là, all’anniversario di un’opera di cultura, o di un artista o di uno scienziato, conferiva al “Calendario” un carattere celebrativo e spesso encomiastico, che mal si conciliava con il proposito di praticare “la metodica contrapposizione fra scienza e pregiudizio” e con gli intenti illuministici che lo stesso Togliatti gli assegnava. Il messaggio rivolto ai militanti di base poteva decadere- come riconobbe Paolo Alatri su “Rinascita”-“in toni di troppo facile divulgazione o di più grossolana polemica” Il “Calendario del popolo” ha iniziato le proprie pubblicazioni, nel Marzo 1945, in un formato di sole quattro pagine. Nel 1950 ne aveva sedici, e la sua tiratura giugerà a sfiorare le 200. 000 copie. E’ diretto, in tutta la prima fase, da Giulio Trevisani238. Le diffuse chiusure, progressive, cui ci si è riferiti si combinavano con la crescita della diffusione del culto della personalità di Stalin, spesso acquisendo, da quella sponda, giudizi e valutazioni che, con gli occhi di oggi, appaiono francamente aberranti, come quelli sulla linguistica comparata o sulla concezione della scienza di Lisenko. Dopo l’ampia e dettagliata trattazione dedicata all’analisi di questa rivista, che

237

p261-262 Aiello op. cit.

238

Vedi art. di Palmiro Togliatti, ” Il Calendario e la Cultura”, Rinascita, a. XII, n. 2, febbraio 1955 e P. Alatri “Le riviste di cultura”, “Rinascita”, a. VII, n. 1, gennaio 1950, p. 37

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si ricordi, continuerà a proporre ampie ed importanti pubblicazioni (atti integrali delle relazioni ai congressi del PC, densi sunti degli interventi e nei dibattiti degli organismi, conclusioni ed atti con risoluzioni finali assieme a opere consistenti quali: “I comunisti nella storia d’Italia” e “I Cattolici nella storia d’Italia”), si fa fatica a condividere l’accentuazione critica di Aiello circa il fatto che questa rivista rappresenterebbe, soltanto, un’esperienza di sostanziale rappresentazione oleografica della storia e dell’azione del partito. Essa, invece, come si è cercato di ricostruire, fu un’importante e fedele punto dove si riflessero positività e limiti, ingenuità generose ed irrealistiche speranze, sincere ansie di rinnovamento e rigidi dogmatismi. Fu un’originale Enciclopedia settimanale che si rivolgeva esplicitamente agli autodidatti, che diffondeva, in forme elementari ma rigorose il sapere e la cultura tra le masse popolari, un importante strumento di riferimento della sinistra, pur tra innegabili limiti ed errori, per il rinnovamento e la trasformazione del Paese.

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IL SECONDO CONGRESSO DELLA CULTURA POPOLARE

Per una cultura libera, moderna e nazionale. Le indicazioni del primo Congresso sono seguite con alterna fortuna negli anni seguenti. La lotta per l’innalzamento della cultura del popolo e per la creazione di una nuova cultura che metta le masse lavoratrici in condizione di uscire da una situazione subalterna alle classi dominanti, si scontra con la difficoltà estrema di un’ involuzione della situazione politica italiana239. Si può senz’altro dire che la piattaforma di lavoro del “Calendario” si impatta in enormi difficoltà che impediscono la lineare prosecuzione ed attuazione delle indicazioni tracciate nel primo Congresso. La stessa linea di lotta culturale sarà puntualizzata ed articolata solo nel secondo Congresso della cultura popolare che indubbiamente rappresenta la tappa più significativa del lavoro della rivista che dopo i primi numeri quindicinali è diventata mensile. Sarà pertanto necessario soffermarsi un poco più diffusamente su questo secondo Congresso che si tiene a Bologna dal 9 all’11 Gennaio 1953. Potremo osservare come dell’impostazione originaria siano rimasti fermi alcuni punti e come altri siano stati meglio approfonditi in questa seconda, significativa tappa della vita del “Calendario”. Ci troveremo ad esempio in questo anno di fronte ad una trattazione abbastanza puntuale del problema della scienza che rappresenta uno sforzo che differenzia questa esperienza da quella delle altre riviste nate nella nuova situazione determinatasi in Italia in quegli anni. Possiamo dire che tutta l’annata 1953 è sostanzialmente dedicata alla prepara-

239

C’è stata l’esperienza del 18 Aprile 1948 e si è nel pieno del centrismo

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zione ed allo sviluppo del Congresso di Bologna. Già la preparazione della conferenza è diversa da quella precedente nel senso che a questo congresso si arriva dopo aver tenuto centinaia di manifestazioni nelle grandi e piccole città, manifestazioni queste organizzate dai circoli calendaristi sorti numerosi nel paese negli anni precedenti. Questa preparazione, come dirà il numero del “Calendario” del gennaio 1953, ” non si è limitata ad un lavoro di ordinaria amministrazione per la scelta dei delegati da inviare al Congresso di Bologna, ma ha inteso gettare le basi di future attività da approfondire nel lavoro dei circoli”, Circoli calendaristi sono stati costituiti in molte città d’Italia, da Catania a Modena, a Milano, a Genova. Da Modena e da Reggio Emilia vengono inviati oltre duecento delegati. Citiamo alcune delle manifestazioni più significative prima del Congresso: a Reggio Emilia nel Salone del circolo Ricreativo” Giovanni Zigordi” si svolge un’assemblea durante la quale sono premiati i migliori complessi artistici partecipanti alla “Rassegna dello spettacolo popolare”. A questa assemblea sul tema “Cultura e Popolo”interviene anche il redattore del “Calendario” Arturo Lazzari. Iniziative simili si tengono pure a Modena ed a Parma, mentre a Bologna viene posto l’obiettivo di creare una rete efficiente e decentrata per le attività ricreative e culturali. A Foligno, per il secondo anno consecutivo, si sono tenuti i “corsi popolari” con

l’obiettivo

di

portare

a

fondo

la

battaglia

contro

la

piaga

dell’analfabetismo. Questa iniziativa vede tra i promotori, fatto questo di grande rilievo, un operaio ferroviere, Ottorino Pattani con i professori Giovanni Lazzaroni, Angelo Savelli ed Eugenio Capitani. Il circolo di Foligno è uno di quelli in cui si è avuta la più ricca attività di cultura. Esso ha stabilito, in accordo con la rivista, di condurre la sua attività perché Pagina 300


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sia mensilmente organizzata la raccolta e lo studio del materiale che deve servire per le conferenze settimanali. La prima conferenza del circolo ha trattato240 il tema “Er Pasquino e la poesia dialettale romanesca e Gioacchino Belli”. E’ inoltre interessante l’esperienza del Congresso di Cremona tenuto dalla Lega delle Cooperative il 28 Dicembre 1953 per studiare il contributo che l’organizzazione cooperativistica può dare allo sviluppo della cultura popolare. La relazione è tenuta dal professor Lino Grifone. Queste che abbiamo citato, assieme al altre centinaia di iniziative, confluiscono nel Congresso di Bologna dove relaziona Emilio Sereni. Per l’importanza dell’avvenimento vogliamo ricordare alcuni temi centrali della relazione e degli interventi principali. Significativo di questo convegno, come era già stato per il primo, è il fatto che, come ricorderà Giulio Trevisani sul “Calendario”, in questa iniziativa confluiscano i nomi più significativi di una cultura moderna e nazionale, che danno il loro contributo in modo organico in tutte le attività. Le più significative presenze sono quelle di Luigi Russo, di P. Togliatti per “Rinascita”, di Antonio Banfi, di Massimo Mila per la musica, di Franco Antonicelli, Salvatore Quasimodo, Stefano Canzio, Valentino Bompiani, Luchino Visconti, Giulio Einaudi, Carlo Ternari, Vasco Pratolini. Oltre a questi nomi altre centinaia di presenze danno la fisionomia di un’operazione di cultura in cui uomini di scienza, scrittori, artisti intervengono per mettere in evidenza con l’aspetto unitario e nazionale del Congresso la prima prova significativa della ricerca per giungere ad una coesione tra intellettuali e popolo. La presidenza del Congresso è tenuta dall’on. Molè, da Leonida Repaci, dall’avvocato Sotgiu.

240

relatore A. Savelli

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Sereni nella relazione richiama le origini della formazione del concetto di nazionalità e di cultura popolare e richiama attraverso una dettagliata indagine storica gli esempi del fermento culturale che si è espresso attraverso i secoli dal basso, dalle plebi, dai servi e dagli artigiani. Egli sostiene che la ricerca per giungere ad una coscienza effettivamente nazionale,

che

doveva

necessariamente

passare

attraverso

la

fase

dell’unificazione di un paese, prima profondamente diviso, è stata ostacolata dall’opposizione del Papato che, fautore di un cosmopolitismo clericale, ha ostacolato ed impedito l’approfondimento di una coscienza nazionale. Il cosmopolitismo, attaccato duramente da Sereni, è stato per il relatore molto negativo per la cultura italiana, perché, come ha rilevato Gramsci, al cosmopolitismo doveva essere contrapposta la creazione di una cultura nazionalpopolare241. E’ questa la sostanza del concetto di cultura e letteratura nazional-popolare in Gramsci, cioè l’individuazione del limite dell’egemonia della cultura di classe borghese e l’urgenza di una proposta di una cultura di classe che assuma una funzione di unificazione morale ed ideale della vita nazionale di cui la borghesia non è stata capace. E’ il conseguimento su questo terreno di una nuova egemonia e non, come è stato detto in “Scrittori e Popolo” nella proposta di una cultura e di una letteratura che si diffondano razionalmente perché rimane indistinto il loro carattere di classe. Nella storia italiana è stato introdotto un profondo distacco tra popolo e nazione, tra cultura popolare e nazionale che continua a durare negativamente dai

241

Così aveva parlato Gramsci circa l’esigenza di costituire una letteratura autenticamente nazionale e popolare, capace di superare la separazione –caratteristica della storia d’Italia - tra intellettuali e semplici: “I laici hanno fallito il loro compito storico di educatori ed elaboratori della intellettualità e della coscienza morale del popolo-nazione, non hanno saputo dare una soddisfazione alle esigenze intellettuali del popolo:proprio per non aver rappresentato una cultura laica, per non aver saputo elaborare un moderno” Umanesimo” capace di diffondersi fino agli strati più rozzi ed incolti, come era necessario dal punto di vista nazionale, per essersi tenuti legati ad un modo antiquato, meschino, astratto, troppo individualistico e di casta”. (Antonio Gramsci, “Letteratura e vita nazionale”, Ed. Einaudi, Torino, 1950, p. 107).

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secoli passati ad oggi. A questa esigenza, d’altronde, non sono stati in grado di rispondere in maniera piena e soddisfacente neanche le forze più progressive. Per onorare questo impegno Sereni ha un preciso richiamo cui bisogna riferirsi : il Risorgimento Italiano visto come il primo movimento con caratteristiche nazionali ed unitarie che tra l’altro ha posto l’esigenza della lingua come elemento fondamentale di unificazione nazionale. -Il relatore richiama poi l’esperienza delle masse operaie e socialiste, delle plebi urbane e rurali che hanno posto alla fine del secolo dal basso il problema della cultura popolare. -Si è da allora sviluppato, da parte di scienziati e di intellettuali, da parte delle correnti di pensiero laiche del tempo l’” andare al popolo” per diffondere le conoscenze delle moderne conquiste del pensiero dalla letteratura alle scoperte scientifiche. -Introducendo un tema per lo più trascurato dall’intellettualità italiana, Sereni richiama l’attenzione dei congressisti sulla necessità di porre in primo piano, coi problemi della cultura umanistica tradizionale, quelli della cultura scientifica :” Non vi è cultura, egli dice, moderna, popolare o non, che possa non essere basata sulla scienza, sulle conquiste della scienza contemporanea”. -Come già si è visto, però, questa resterà solo un’intuizione, e, tranne particolari e significative esperienze, ( quella ad esempio di questa rivista)questa indicazione non sarà approfondita e portata avanti dalla cultura marxista del dopoguerra. -L’oratore individua pure nell’emigrazione una delle cause che hanno impedito lo sviluppo di un sentimento nazionale. -Centinaia di migliaia d’uomini, scacciati dal proprio paese, si sono formati una coscienza di distacco e d’ostilità nei riguardi delle classi dirigenti italiane e sono stati indotti a non riconoscere nel loro paese la propria patria. -Dalla separazione e dalla contrapposizione, tra governanti e governati, può essere individuato tutto ciò che di critico e di negativo è stato e continua ad esse-

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re espresso nelle manifestazioni culturali del popolo. -Il fascismo stesso ha contribuito a rendere più difficile la formazione di una cultura popolare e nazionale. -Soltanto la lotta di resistenza contro i fascisti ed i tedeschi modifica, per Sereni, questo stato di cose. Esso deve costituire un punto di comune riferimento per tutte le forze progressiste, anche di diverso orientamento ideale, affinché sia svolto un lavoro comune che sviluppi una cultura popolare e nazionale italiana nell’epoca attuale. ” Nella Resistenza l’operaio piemontese e il contadino siciliano, l’intellettuale milanese e lo scugnizzo napoletano verificano che la patria non è quella retorica dei libri di testo redatti ad uso della classe dominante, ma è invece le case bruciate dai tedeschi, la vacca che i tedeschi portano via. Da questo nuovo modo di vedere la patria e la nazione è nato il Congresso ed il nuovo moto per la Cultura popolare, un moto per la cultura popolare che è veramente patriottica”. -Inoltre egli afferma che :” Tale moto di iniziativa culturale, a cui grande slancio ha dato il “Calendario”, per la cultura popolare deve avere il suo punto di riferimento nell’attuazione della costituzione repubblicana”. -Essa è un grande fatto culturale, un’autentica opera nazionale popolare. Essa offre ampio spazio perché la lotta per una cultura popolare possa raggiungere il risultato di una forma di cultura che sia capace, con la circolazione dal basso in alto e viceversa, di trovare una sua espansione all’estero, come la trova quella di altri paesi più avanzati dell’Italia in questo campo e come ad esempio nella cultura italiana sta avvenendo per il cinema ove242 si sta positivamente realizzando un contatto intenso e proficuo tra intellettuali e masse. -Tra gli altri interventi di rilievo quelli del senatore Enrico Molè, vicepresidente del senato il quale, tra l’altro, afferma che la formazione di una coscienza collettiva attraverso l’istruzione è essenziale per difendere la democrazia. -In questo senso cultura popolare e democrazia sono due termini che stanno in

242

ci si riferisce già all esperienza del Neorealismo

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relazione tra loro: la diffusione della cultura è la migliore garanzia contro i nemici della democrazia. -Il concetto di libertà d’altronde indica non solo la libertà dal bisogno, ma pure la libertà dall’ignoranza. -Proprio per questo durissima è, nello stesso intervento, la denuncia dei metodi usati per combattere la produzione di cultura da parte dei governanti DC, la denuncia contro il dissennato utilizzo della censura sui giornali, sul teatro, sul cinema e su ogni manifestazione libera di pensiero. L’intervento si conclude con l’appello all’unità di tutte le forze del lavoro e della cultura, perché si consolidi una vera democrazia nella libertà. -Questi temi che sono molto politici acquistano una caratterizzazione ancora più rilevante nell’intervento di Giuseppe di Vittorio, segretario generale della CGIL. -Quest’ intervento è notevole per l’elevatezza di ispirazione e la chiarezza del contenuto. Di Vittorio, parlando dei compiti del Sindacato, dice che l’organizzazione unitaria dei lavoratori “ha nel suo programma, nel suo statuto, tra i suoi compiti fondamentali quello di difendere e sviluppare la cultura nelle masse popolari e lavoratrici, come mezzo essenziale di liberazione. Non solo di liberazione spirituale dell’uomo, cioè di liberazione dall’ignoranza, dalla superstizione, dai pregiudizi, ma anche come strumento fondamentale di liberazione dall’arretratezza, dalla miseria, dalla povertà, dalla sporcizia; come strumento di elevazione intellettuale, morale, spirituale, ma anche di elevazione economica e sociale”. -Per questo ultimo fatto Di Vittorio sottolinea che “è necessario utilizzare i tecnici e gli scienziati di grande valore per avere uno sviluppo organico dell’industria, dell’agricoltura, del commercio”. -Ha un gran significato rivoluzionario e progressivo l’urgenza di “rafforzare con questo congresso la lotta contro l’analfabetismo per liberare milioni di italiani dall’ignoranza e dalla superstizione”.

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-L’Italia è il Paese in cui drammatica è la contraddizione tra la presenza di tanti analfabeti e quella, contemporanea, di più di centomila maestri ed insegnanti disoccupati. A questo punto l’attenzione del Segretario della CGIL si sposta sulla scuola. E’ qui che si forma per primo il momento dell’organizzazione e della diffusione della cultura. -Su tale questione egli richiama l’urgenza di una battaglia congiunta del mondo del lavoro e dell’intellettualità progressiva “per il potenziamento della scuola di stato, laica, libera; aperta a tutti i cittadini ed a tutte le correnti di pensiero”. -Nella società, inoltre, l’impegno deve essere rivolto a sviluppare l’organizzazione dei circoli culturali sportivi e ricreativi ed a dare il massimo incremento alle biblioteche popolari. -Concludendo egli annunzia che la CGIL si batterà per stimolare l’educazione, con tutti i mezzi possibili, e che tra l’altro fisserà un premio per il miglior romanzo sociale scritto da uno scrittore italiano. -Afferma poi che un altro impegno delle grandi organizzazioni sindacali sarà diretto a potenziare le iniziative per lo sviluppo dell’arte italiana cinematografica e termina il suo intervento con un appello a tutti gli intellettuali ed artisti italiani perché “indipendentemente da ogni tendenza ideologica o politica si affianchino al popolo, in uno sforzo unitario perché nel nome della sua cultura nazionale, l’Italia possa essere esempio della collaborazione, dell’amicizia, della pace tra tutti i popoli della terra”.

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LE MOZIONI APPROVATE NEL SECONDO CONGRESSO DELLA CULTURA POPOLARE

Al termine dei lavori del Congresso sono state approvate varie mozioni che saranno pubblicate sulla rivista per tutto l’anno. Esse sostanzialmente puntualizzano le linee di sviluppo dell’attività del “Calendario” per innalzare il livello di cultura delle masse. Da un’analisi delle mozioni si può seguire con maggiore precisione le ipotesi su cui hanno lavorato ed hanno intenzione di continuare a lavorare il gruppo redazionale ed il movimento degli intellettuali democratici che si è unito attorno a questa esperienza. Iniziamo quindi a guardare più da vicino le mozioni approvate: -

Diffusione della cultura Prima di tutto si afferma che una cultura popolare può aversi solo tramite particolari metodi di diffusione. Contro la vecchia concezione della cultura elargita dall’alto si afferma che, per cultura popolare, si deve intendere l’espressione più originale ed immediata della cultura nuova la quale nasce dalle esigenze e dalle aspirazioni popolari. In questo senso in tale processo il popolo non è un’entità passiva essendo, contemporaneamente, destinatario e creatore di ogni forma di cultura LIBERA; MODERNA; NAZIONALE. Punto di riferimento per quest’interpretazione è ancora il grande slancio culturale verificatosi nel popolo con la guerra di liberazione. Questo nuovo modo d’intendere la cultura ha però bisogno del rinnovamento e dell’aggiornamento d’attività come quelle delle Università popolari. Per la diffusione della cultura viene affermato il fatto che si deve dare la massima attività da parte di tutte le associazioni democratiche( circoli calendaristi e

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di cultura, organismi sindacali e cooperativi, università, centri del libro, case della cultura) per l’organizzazione e lo sviluppo dei corsi popolari promossi dal “Calendario” e dal Centro Popolare del Libro. Ritorna inoltre il tema della diffusione della cultura scientifica, con la proposta fatta agli scienziati italiani di adoperarsi per favorire la piena affermazione di questa esigenza. E’ inoltre proposto che la presidenza del Congresso si trasformi in comitato coordinatore della cultura popolare. -

La crisi della scuola e la lotta all’analfabetismo S’inizia finalmente a discutere del problema della scuola. Si sente la necessità di rinnovare profondamente l’organizzazione della scuola stessa. E’ denunciata la mancanza di personale, di finanziamenti, di modernità, d’adeguamento delle strutture edilizie e “La crisi spirituale originata da una progressiva involuzione in senso clericale e della mancata adeguazione allo spirito contemporaneo ed alle esigenze improrogabili civili della nazione”. Sono questi i primi obiettivi di una lotta necessaria per modificare l’attuale organizzazione scolastica che è tenuta in questo stato d’abbandono dalla volontà dei governanti. A tal fine è proposto di svolgere un’azione per: avere un aumento del bilancio della pubblica istruzione nella parte che si riferisce ai servizi; rendere effettivo l’obbligo scolastico per tutti fino alla quinta elementare; rendere obbligatoria la spesa, nei bilanci comunali, per la pubblica istruzione con adeguati finanziamenti; L’affermazione nella scuola di una nuova concezione dell’istruzione e della cultura ( appunto libera, moderna e nazionale) contro l’integralismo clericale; Partendo dalla scuola si solleva l’esigenza di intensificare la lotta per la diffu-

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sione della cultura, tra il popolo, partendo dal contrasto incisivo alla piaga dell’analfabetismo Le responsabilità della direzione e della gestione dei corsi popolari debbono essere affidati ad insegnanti abili e capaci. Siano incrementate le iniziative d’enti che si pongono il problema di elevare il livello medio della cultura di massa. Sia favorita la diffusione della cultura tecnica e scientifica. Su questi problemi si sottolinea l’urgenza di un lavoro comune non solo degli uomini della scuola, ma anche dei rappresentanti degli enti locali e delle grandi organizzazioni di massa. -

L’organizzazione del pubblico per il cinema nazionale Viene proposta la creazione in tutta Italia di centinaia di comitati di “amici del cinema” per la difesa e la valorizzazione del cinema italiano e per la condanna dei film, soprattutto americani, i quali propagandano la diffusione dell’ideologia della violenza e dell’odio. Viene proposta come strumento di orientamento culturale e di organizzazione pratica del pubblico l’edizione di un periodico a vasta diffusione per dibattere, in forma semplice ed accessibile a tutti, gli attuali problemi della cinematografia e per la difesa del cinema nazionale. Si propone inoltre di coordinare l’attività di tutte le organizzazioni dei circoli su tali problemi. Per far ciò è necessario costituire un comitato promotore in cui siano presenti rappresentanti delle organizzazioni di massa e della cultura cinematografica. Da quanto si ricava dall’analisi delle annate del “Calendario” al problema del ruolo del cinema è data una particolare attenzione. L’esigenza principale che è posta sembra essere quella della difesa del cinema italiano contro la presenza di una censura incostituzionale che tende a limitare la libertà di espressione e contro la contemporanea introduzione di capitali stranieri nell’industria cinematoPagina 309


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grafica italiana. Questo intervento viene visto come il tentativo di sostituirsi alla produzione nazionale per indebolire prima e liquidare poi le caratteristiche della cinematografia italiana, minacciandone l’autonomia e la stessa esistenza. La lotta contro questi tentativi era già iniziata nel 1949 da parte dei “comitati di difesa del cinema italiano” e dai “circoli del cinema”, i quali ultimi avevano contribuito notevolmente a diffondere la cultura cinematografica tra un pubblico sempre maggiore stimolando pure un largo dibattito sui problemi fondamentali delle varie cinematografie nazionali. Gli stessi “centri” cinematografici popolari si erano mossi sulla stessa linea direttrice organizzando, a prezzi modici, frequenti proiezioni che potessero fornire, ad ogni strato del pubblico, la possibilità di entrare in contatto con le espressioni della cultura cinematografica nazionale. -

L’educazione dei giovanissimi Su tale questione l’apposita commissione creata dal congresso sottolinea che gli elementi essenziali dell’educazione del fanciullo vanno visti nella famiglia, nella scuola, nelle attività creative, ricreative, culturali (letteratura, cinema, teatro). Per ciò che concerne la famiglia la commissione individua l’esigenza di fare organizzare, dai circoli rionali, delle conferenze dei genitori perché il nucleo familiare sviluppi un’opera moderna e consapevole d’educazione del fanciullo. La scuola dovrà preoccuparsi di garantire a tutti il diritto allo studio. Essa dovrà educare ai sentimenti universali dell’amore per il lavoro, la patria e la pace, l’indipendenza e la fratellanza tra i popoli, compiti questi cui spesso la scuola viene meno sottoposta come è a pressioni oscurantiste ed antiprogressive. Si

pone

l’accento

ancora

sull’improrogabile

necessità

di

adeguare

l’insegnamento scolastico alle esigenze della vita sociale, culturale e democratica del paese. Pagina 310


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Anche la migliore organizzazione possibile della scuola non è sufficiente ad una solida formazione del giovane se non è collegata ad una buona organizzazione extrascolastica. Si indica per tale motivo la necessità di istituire in un anno 1000 doposcuola che, integrando il lavoro della scuola, aiutino i ragazzi nello studio stimolando in essi incessantemente l’amore per il sapere e per il progresso. Per lo sviluppo delle varie attività culturali (letteratura, musica, cinema, teatro etc. , etc, ) la commissione propone di costituire una rivista di carattere orientativo e pedagogico in grado di combattere l’azione corruttrice di certa stampa, sviluppando una ben diversa e migliore letteratura ed attività culturale. Per dare una solida coscienza nazionale ai fanciulli, inoltre, viene proposto di indire, per il mese di Aprile, il “mese della educazione patriottica” che serva a diffondere la conoscenza della esperienza di lotta partigiana e l’educazione al lavoro ed alla pace.

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STUDI SULLE TRADIZIONI E LA CULTURA POPOLARE

Viene posta l’esigenza di contribuire validamente alla formazione di una cultura popolare nazionale, per mezzo della quale le masse lavoratrici acquistino e sviluppino una critica coscienza storica. Per stimolare tale processo sarà necessario studiare le forme di lettura popolare in dialetto nella misura in cui, per il loro nuovo contenuto, tali forze rappresentino un passo in avanti verso la formazione di una letteratura nazional-popolare in lingua italiana. Sarà, a tal fine, necessario promuovere la raccolta su larga scala del materiale relativo alle varie forme di cultura in cui si esprimono le tradizioni popolari. Per finire è proposta la creazione, presso il centro del teatro e dello spettacolo popolare, di una sezione per la cultura e le tradizioni popolari. Essa deve proporsi di stimolare e sviluppare le varie espressioni individuali e collettive di cultura popolare. Questa sezione dovrà inoltre organizzarsi per difendere, anche da un punto di vista commerciale, le varie arti minori popolari meritevoli di essere conosciute sul piano nazionale243.

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ad esempio le più significative esperienze dell’artigianato locale

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ELEVAZIONE CULTURALE DELLE DONNE

La commissione per l’elevazione culturale della donna rileva come la resistenza abbia significato, anche per le donne, una grand’esperienza d’elevamento sociale e culturale. Da quest’esperienza le donne hanno imparato a partecipare attivamente alle grandi lotte democratiche, hanno iniziato ad uscire dalla loro storica sottomissione. In tale direzione è però ancora necessaria una gran mole d’attività soprattutto per vincere l’analfabetismo tra le donne. Dei risultati apprezzabili si sono in realtà già avuti con l’organizzazione di corsi per donne analfabete nelle case popolari ed anche nelle fabbriche. Le biblioteche popolari stanno inoltre svolgendo un positivo compito di divulgazione di elementari cognizioni di cultura. La stessa stampa femminile sta creando una rete stabile di diffusione. Queste attività alimentano, tutte, una cultura nazionale. Si rileva, inoltre, l’esigenza di sviluppare una maggiore educazione scientifica che liberi la donna dalla superstizione e dalle errate pratiche dell’allevamento e dell’educazione dei figli. Il lavoro di diffusione culturale tra le donne è il mezzo migliore per battere le ignoranze e le paure che ostacolano pesantemente i fattori di progresso. L’attività verso le donne che sono la maggioranza della popolazione italiana è necessaria in quanto si comprende che, come la commissione dirà nella parte finale della mozione, “un alto livello di cultura nazionale e popolare si può conquistare solo quando la battaglia contro l’ignoranza e l’analfabetismo tra le donne sarà vinta per il bene delle generazioni future e per la pace”.

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BIBLIOTECHE POPOLARI

Come si è già accennato s’insiste perchè le biblioteche siano uno degli strumenti fondamentali della cultura. In realtà, però, esse versano in uno stato di vero abbandono per gli scarsi finanziamenti e, per quanto riguarda i testi, essi sono in genere di indirizzo umanistico e non sono aggiornati rispetto alle esigenze di un pubblico vasto e differenziato. Per superare questi ritardi si è sviluppata la formazione di biblioteche popolari con il contributo delle organizzazioni dei lavoratori e degli intellettuali progressivi. La loro attività dimostra già una concezione diversa e moderna poiché per loro tramite si vanno organizzando manifestazioni di cultura, l’organizzazione di conferenze, di mostre, cioè di tutta una serie di attività culturali che si propone il compito di stimolare il pubblico al gusto della lettura. La commissione propone di continuare l’attività nella direzione di ricercare attentamente lo stato delle biblioteche nelle varie province e regioni; che la rivista “Letture” sia utilizzata come guida all’organizzazione delle biblioteche, sviluppando l’indicazione e l’informazione tecnico-culturale e l’utilizzo del “centro popolare del libro” per la pubblicazione di bibliografie, cataloghi, guide alla lettura. Il “centro” dovrà inoltre porsi il problema di produrre, in forma agile ed a tutti accessibile, volumi d’ interesse particolare; lo stesso”centro” dovrà adoperarsi per organizzare il rifornimento di libri alle biblioteche popolari; i vari enti che sono interessati ad una efficiente funzione delle biblioteche dovranno coordinare tra di loro la propria attività; sia creato un vasto movimento perché si imponga un migliore funzionamento ed aggiornamento delle biblioteche nazionali. Pagina 314


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Questi deliberati non potevano restare nel convegno mere enunciazioni di principio:occorreva passare ad iniziative organizzative. A tal fine da parte dei rappresentanti del “Calendario”, del “centro popolare del libro”, della CGIL, dell’UDI, del”Centro del cinema”, del “centro del teatro e dello spettacolo popolare” si è deciso di tenere, per il mese di Aprile, un mese della cultura popolare. E’ inoltre convocato per il 19 Aprile, a Bologna, il Convegno per la diffusione della cultura scientifica244. Su questo tema si vuole richiamare l’attenzione di tutto il movimento democratico sull’importanza politico-culturale della diffusione della cultura tecnicoscientifica e sul ruolo che ad essa imprescindibilmente compete in un paese moderno. Si gettano le basi della creazione della sezione scientifica nella collana di corsi popolari”La nuova scuola del Calendario del Popolo”. Aveva richiamato l’attenzione su quest’improrogabile esigenza, già nel dicembre 1952, Lucio Lombardo Radice che curerà per la “Nuova scuola del Calendario del Popolo” la collana “Le rivoluzioni della scienza”. Sullo stesso problema era già intervenuto il prof. de Florentiis il quale aveva invitato a non vedere la scienza e la cultura come termini antitetici, Per De Florentiis la scienza è attività umana che indaga sui fenomeni del mondo che ci circonda e vuole soddisfare tre esigenze: la naturale tendenza alla ricerca che è in ogni uomo; utilizzare le scoperte per dominare i fenomeni della natura; tramandare, accrescere e perfezionare il patrimonio di tali nozioni nel passaggio da una generazione all’altra. Così definita la scienza acquista una funzione sociale insostituibile. E’ quindi necessario svolgere un’ampia azione di divulgazione scientifica, senza però de-

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La citazione dell’iniziativa è naturalmente dovuta all’inusualità, più volte richiamata, ad affrontare temi legati all’approfondimento delle tematiche tecnico-scientifiche.

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formare la scienza stessa eliminandone la peculiarità del rigore del metodo e dell’esattezza dell’esposizione. Il compito del divulgatore è quello di estrarre dal quadro di una teoria scientifica gli elementi indicativi senza alterarne le proporzioni e senza mistificarle. ”Né aridità di trattazione, né faciloneria”. La divulgazione ha il dovere di essere precisa e controllata accuratamente, deve essere oggettiva, senza mai scadere nel propagandiamo, deve anzi porre l’accento sulle prospettive, sugli elementi sociali delle conoscenze scientifiche. De Florentiis sottolinea ancora che “il divulgatore deve, prima di tutto, conoscere a fondo ciò di cui si tratta, sapendolo inquadrare nel pensiero scientifico generale”. Sembra giusto il rilievo che il congresso da alla scarsa volontà degli scienziati italiani di dedicarsi alla divulgazione scientifica:” essi considerano tali attività, in genere, come deteriori”. L’editoria scientifica d’altronde è poco sviluppata poiché questa opera di divulgazione è generalmente considerata dagli editori un fatto dannoso, rischioso e poco redditizio. A causa poi della difficile situazione generale della scienza, della scuola e della cultura in Italia non è offerta al pubblico una gamma di opere scientifiche che siano di facile lettura, di rapido e semplice approfondimento. All’estero la divulgazione, anche nei paesi capitalistici occidentali, è nettamente superiore. E’ pertanto necessario avere un movimento politico attrezzato perché in Italia fiorisca la diffusione scientifica in maniera che sia possibile superare le attuali insufficienze.

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CULTURA TECNICO-SCIENTIFICA DEI LAVORATORI

Il Congresso esamina quindi la situazione della cultura tecnico-professionale dei lavoratori italiani che è caratterizzata dalla più grande insufficienza dei corsi per disoccupati, delle scuole aziendali e dei corsi professionali. A tale proposito si dice che “solo un quinto della forza lavoro esistente, compresi i giovani in cerca di prima occupazione, artigiani e coltivatori diretti, ha una certa, pure discutibile, preparazione professionale”: La stragrande maggioranza non ha alcuna qualificazione professionale. Il Congresso indica invece che l’educazione tecnica, strettamente legata al lavoro produttivo, sta alla base di ogni azione culturale di massa. Si pone l’accento sull’esigenza di sviluppare in qualunque lavoro un’attività creativa e non meccanica e degradata. In realtà tale proposito è, nella maggioranza dei casi, vanificato dall’incertezza del posto di lavoro e dal basso tenore di vita dei lavoratori. La formazione professionale scientifica, nei pochi casi in cui esiste, avviene in seguito a sforzi individuali. E’ invece necessario fornire una solida guida alla formazione professionale, migliorando numero e qualità dei corsi serali, partendo da quelli per i disoccupati ma al contempo estendendoli a tutti gli altri corsi professionali. E’ necessario per fare questo elevare il numero dei manuali di larga diffusione di massa. A tal fine il settimanale della CGIL”Lavoro” propone, per migliorare la formazione e la diffusione della cultura tecnico-scientifica, di costituire gruppi di studio. Per fare ciò devono per primi impegnarsi il “Calendario” e “Lavoro”, assieme ai più avanzati editori italiani affinché: si scelgano le cose che l’operaio deve conoscere e studiare per apprendere il suo mestiere; si studi la condizione di vita del lavoratore affinché si conosca bene il destina-

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tario della formazione professionale; si studi bene l’orientamento generale da dare a questo insegnamento professionale per renderlo migliore. E’ ancora sottolineata l’esigenza di creare apposite collane di manuali di cui garantire ampia e capillare diffusione. A questa formazione professionale ed alla sua diffusione è necessario il diretto contributo dei lavoratori e delle loro organizzazioni. Nella mozione è infine indicata l’urgenza di arrivare ad un Congresso Nazionale per la formazione e la diffusione della cultura tecnico-professionale dei lavoratori.

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IL CONVEGNO DI BOLOGNA PER LA DIFFUSIONE DELLA CULTURA SCIENTIFICA

L’esperienza che meglio sintetizza l’attenzione rivolta dalla rivista ai temi della cultura scientifica è indubbiamente il Convegno di Bologna del 19 Aprile sul tema :” La Divulgazione Scientifica in Italia oggi”. Le più significative presenze saranno quelle di Aldo Veronesi, per la redazione bolognese del”Calendario”, di Dina Iovine per “Noi Donne”, di Giorgio Bracchi per l’”Unità” e di Frontali per “Vie Nuove”. Brevi parole di saluto sono rivolte ai congressisti da Umberto Terracini. Egli sintetizza la necessità di sviluppare in modo maggiore la formazione scientifica, arma ideologica decisiva per lo sviluppo democratico del paese. E’ necessario sviluppare produzione e diffusione di materiali scientificamente esatti, orientati verso i più moderni metodi di ricerca scientifica. E’ inoltre necessario potenziare l’editoria divulgativa scientifica: In questa trattazione insistiamo sul problema della scienza in quanto, come si è già detto, il “Calendario” ha il merito di aver aperto la discussione su tale argomento con l’intervento di Lucio Lombardo Radice, Sono quattro i punti fondamentali scaturiti dal Convegno: Si costituisce il “centro di coordinamento per la divulgazione scientifica”, che dovrà vedere l’impegno della presidenza stessa del convegno con conferenze stampa e proiezioni di documentari scientifici. si decide di pubblicare la relazione di Aloisi nei suoi punti più significativi. Il “Calendario” e “Letture” stimoleranno sulle loro pagine la continuazione della discussione sulla cultura scientifica e sulla sua divulgazione. La strada aperta dal convegno dovrà proseguire con l’intervento su larga scala dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali. Guardiamo ora più da vicino i temi più interessanti della relazione principale,

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quella appunto di Massimo Aloisi. Egli mette in evidenza come nei paesi dove si è compiuta la rivoluzione industriale (Inghilterra, Germania, Francia) si è anche sviluppata una maggiore divulgazione scientifica, la creazione cioè di una cultura legata alle esigenze di sviluppo della società. Questo processo si è compiuto nella fase di sviluppo ascendente e progressivo della borghesia, ma è anche avvenuto lasciando immutati gli elementi ideologici della dominazione di classe. Ben presto però in questi paesi la scienza è stata divulgata solo per gli strati che partecipavano alla direzione della produzione, mentre la divulgazione più corrente e popolare si trasformò in divulgazione di tipo fantastico e mistico. Avvenne cioè un’involuzione nella divulgazione scientifica. E’ indubbio che una seria divulgazione scientifica avviene quando le masse partecipano coscientemente alla realizzazione della scienza nella pratica, in caso contrario si ha una divulgazione passiva, come quella che c’è nei paesi capitalistici. Nei paesi capitalisti esiste la contraddizione tra necessità della scienza, poiché lo sviluppo sociale industriale ed agricolo richiede una larga socializzazione della scienza e la necessità di limitare la capacità progressiva delle masse stesse. La scienza, infatti, se soddisfa determinati bisogni, ne crea continuamente dei nuovi materiali e culturali, e ciò può diventare pericoloso. Avanza allora nelle classi dominanti il concetto che la scienza non sia più un valido sostegno al loro dominio. Essa diviene allora di frequente sostituita dalla diffusione dell’irrazionale e del trascendente, dando luogo ad una pseudo-scienza che può diventare facilmente strumento di mistificazione con la diffusione di pseudo verità scientifiche. L’uso della scienza finalizzato allo sviluppo sociale, l’intervento creativo e non passivo dei lavoratori, dimostra che soltanto nei paesi socialisti la scienza è attività organica allo sviluppo culturale di massa. Pagina 320


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Questo modo di vedere la scienza è quello migliore per combattere le tendenze mistiche ed irrazionali che ostacolano una crescita di capacità critica da parte dei cittadini. Massimo Aloisi si sofferma, poi, sul fatto che in Italia la divulgazione scientifica popolare è ancora meno fiorente di quanto avviene negli altri paesi capitalisti. Spesso avviene anzi che siano presenti, assieme a divulgazioni scientifiche particolarmente serie, una vasta gamma di divulgazioni pseudo scientifiche. C’è infatti: la presenza di un atteggiamento scettico, empirio-criticistico, che proviene dalle deformazioni idealistiche di scienziati occidentali che risaltano in un campo come il nostro preparato a ciò dalla svalutazione crociana della scienza nel campo del pensiero. Una forte resistenza delle forze cattoliche al progresso della scienza che cerca di svalutare la portata d’ogni scoperta, soprattutto nei confronti di una concezione del mondo diversa da quella cattolica. L’influenza in Italia delle correnti materialistiche, rivoluzionarie e laiche, legate al movimento democratico che ha posto l’esigenza di un rinnovamento culturale basato sulla fiducia nelle umane possibilità per una sempre migliore e più compita comprensibilità della complessità del mondo. L’influenza americana sia sotto la forma di una cultura scientifica in cui viene però sviluppata una esaltazione del tecnicismo, sia nella forma deteriore di mistificazione che introduce il gusto del fantastico mistificando la scienza e creando su questa una nuova mistica. Agiscono quindi, come si può vedere, molteplici componenti nel campo della divulgazione scientifica. Per combattere contro le varie tendenze alla mistificazione della scienza bisogna agire facendo una lotta per una seria divulgazione scientifica, non limitandosi ad un’informazione neutra, ma entrando nel vivo del dibattito ideologico. Massimo Aloisi in conclusione indica come sia opportuno seguire queste linee Pagina 321


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direttrici: migliorare il controllo ideologico sulla divulgazione scientifica nazionale; divulgare maggiormente le opere sovietiche di rigoroso tenore scientifico(ad esempio”Come l’uomo divenne gigante”e “La terra in fiore”); tenendo conto dell’attenta trattazione dei problemi generali posti dalla scienza, insistere sulla formazione scientifica del lavoro; organizzare visite illustrative ai musei di storia naturale ed incoraggiare il cinema scientifico, riproponendo l‘esperienza del cinema sovietico.

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TERZO CONGRESSO DELLA CULTURA POPOLARE

Livorno6-7-8gennaio 1956 Relatori Norberto Bobbio, Tommaso Fiore e Giulio Trevisani. Anche questo congresso vede la partecipazione di organismi culturali e democratici di 63 province italiane, di vari esponenti di rilievo dell’intellettualità nazionale, delle grandi organizzazioni di massa (CGIL, lega delle cooperative, Unione Donne italiane, Organizzazioni giovanili e patriottiche). Sono riaffermate le conclusioni dei congressi di Milano e di Bologna e soprattutto il fatto che la cultura popolare non deve essere vista come sottoprodotto della cultura e che la cultura delle masse è autonoma, nel senso che cioè nasce dal movimento democratico e respinge perciò ogni forma di paternalismo. Viene respinta la linea di separare le idee dai fatti, il corso del pensiero dallo sviluppo delle forze reali, la cultura dalla politica, la politica dall’economia, i singoli dalla società, l’arte dalla vita reale. viene quindi respinto il concetto della cosiddetta apoliticità della cultura. . Questa posizione è vista come sinonimo di anticultura. Trevisani si è soffermato su tali questioni ed ha aggiunto che il movimento democratico è forza creatrice ed organizzatrice della cultura. La cultura nuova uscita dalla resistenza è per Trevisani moderna e democratica, nel senso che si fonda sullo spirito critico della scienza e sulle esigenze di sviluppo della società. La mozione conclusiva pone la necessità di battersi ancora contro le forze retrive della politica e della cultura che intendono ostacolare lo sviluppo di una cultura moderna e progressiva. Gli obiettivi posti dal secondo congresso non sono stati raggiunti:” I principi della Costituzione relativi all’istruzione non sono applicati, la lotta all’analfabetismo è ancora insufficiente, la scuola gratuita ed obbligatoria fino

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ai 14 anni è ancora da realizzare …radio e televisione sono utilizzate dalla DC come strumenti di oscurantismo. Le limitazioni delle libertà di pensiero e di un’autonoma vita culturale assumono forme particolarmente gravi, nel campo del cinema e del teatro, in seguito all’uso fazioso della censura ed all’arbitrario impiego dei regolamenti di polizia”. I gruppi padronali hanno, d’altronde, intensificato e modificato le loro tradizionali attività di limitazione dello sviluppo culturale tra le masse nel senso che si propongono con tecniche nuove “di spezzare l’autonoma coscienza di classe dei lavoratori”. E’ quindi urgente ripartire, in occasione del X anniversario della Costituzione repubblicana, da una lotta intensa per la difesa delle libertà costituzionali. E’ soprattutto necessario ottenere l’applicazione dell’articolo 3”compito della repubblica è rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impedendo il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Si chiede, come dice l’articolo 9, che “la repubblica promuova lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” e che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”245. Si ribadisce la necessità di un’organizzazione della scuola aperta a tutti e, contro la censura, si riafferma il diritto per tutti di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione. Per fare ciò devono però essere battute le forze politiche ed i gruppi finanziari che per i propri interessi vogliono sopprimere la libertà di pensiero. Ancora quindi nel III Congresso il tema dominante della battaglia politica e culturale è quello della difesa della libertà. Per quanto concerne il “Calendario”esso ripropone il suo impegno per la diffusione della cultura, continuando a vedere in questo fatto il modo migliore per

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La Costituzione Repubblicana, articolo 33

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battersi contro le forze conservatrici oscurantiste. Nello stesso congresso viene riproposta ed arricchita la discussione, già iniziata nel 1952, sul tema della scienza, con l’articolo di Piero Galante il quale, riconsiderando i tratti distintivi della cultura nazionale italiana, individua nel tardo e limitato sviluppo industriale, nella forte influenza del neoidealismo i motivi per cui la cultura nazionale è a lungo rimasta su posizioni sorpassate e di indifferenza allo sviluppo che è avvenuto nel campo della scienza. Anche dopo il fascismo c’è stato un forte fervore mirante alla sprovincializzazione della cultura italiana artistico -letteraria e si è avuto un notevole avanzamento negli studi storico- politici ma la stessa cosa non si può dire per le scienze fisico -matematiche. Considerando la loro essenzialità per l’affermazione di una moderna cultura non si è purtroppo modificata la rilevanza, largamente prevalente, che si è continuato a dare alla tradizionale linea umanistica retorica. Gli argomenti scientifici sono ancora vissuti come esclusiva pertinenza di specialisti essendo, in genere, caratterizzati da notevole difficoltà e complessità concettuale e di trattazione. La cultura scientifica è invece cultura concreta necessaria ed anzi indispensabile ad un armonico e razionale sviluppo economico-sociale. Essa non va confusa con la cultura tecnicistica. E’ necessario porsi il problema di come la cultura scientifica debba immettersi nell’orizzonte generale della cultura. Come già si è accennato non è d’ alcun’utilità né una volgarizzazione scientifica, né trasferire su piani di conoscenza generale le questioni tecniche che riguardano specialisti delle singole attività. L’organizzazione scolastica mette in chiara evidenza il diverso rilievo dato alla formazione letteraria rispetto a quella scientifica. L’organizzazione scolastica fornisce infatti soltanto cognizioni mnemoniche in materia di fisica, matematica e geometria e, studiando la preparazione e la formazione degli intellettuali si vede come in generale, una volta terminato lo stu-

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dio del latino e del greco, si continui ad accrescere la propria preparazione solo nelle direzioni letterarie, storiche ed artistiche. Questa sottovalutazione della scienza è d’altronde agevolata dall’atteggiamento degli specialisti scientifici i quali tendono a chiudersi nella propria specializzazione, o ponendosi in posizione di rifiuto verso il resto della cultura, scadendo così dalla funzione di intellettuale a quella di tecnico, oppure ancora si limitano a sviluppare, nel lavoro extra-professionale la loro cultura umanistica. Comunque in generale non esiste, anche per la mancanza di un’editoria tecnico-scientifica, un lavoro di socializzazione delle conoscenze scientifiche generali. Questo stato di cose porta grandi difficoltà. Chi volesse ad esempio compiere uno studio ed una ricerca storica sui caratteri dello sviluppo industriale italiano, dovrebbe svolgere un enorme lavoro di ricerca individuale imbattendosi nella quasi assoluta assenza di materiale pubblicato in proposito. Il campo di sviluppo potenziale per una ampia diffusione della cultura scientifica è invece enorme:gli operai, i contadini, le nuove generazioni con le loro organizzazioni sono entrati come forza protagonista della vita sociale. essi vi entrano con le loro esperienze, con la loro personalità e formazione e pongono l’esigenza di una formazione culturale diversa da quella tradizionale nel senso che pongono l’urgenza di uno sviluppo del loro ruolo legato alle esigenze di sviluppo dell’intera società. Perciò essi mostrano una sensibilità spiccata verso i problemi della vita economico-sociale e verso la ricerca scientifica. Anche per affermare sempre più e meglio la loro volontà di sottrarsi al dominio dei grandi monopoli, essi comprendono bene che una lotta per il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni non può affermarsi senza una seria conoscenza dei problemi che stanno alla base, in senso tecnico e scientifico, della moderna organizzazione della produzione. Si può, infatti, battere la politica dei monopoli se non se ne conosce esattamente il meccanismo di funzionamento? Queste considerazioni possono essere integralmente condivise e dimostrano di possedere assoluta, grande attualità. Pagina 326


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La discussione sull’urgenza di sviluppare, per la cultura nazionale, la divulgazione scientifica è infatti ancora oggi, per larghi tratti, questione dirimente da risolvere con un grande e congiunto impegno delle forze del lavoro e di quelle della cultura.

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LINEE INTERPRETATIVE E RICOSTRUTTIVE SULLA TRATTAZIONE DI ALCUNI DEI PRINCIPALI ARGOMENTI DELLA RIVISTA

Le mozioni approvate al secondo congresso della cultura popolare costituiscono le linee direttrici che facilitano un’interna interpretazione del “Calendario”. Da uno sfoglio degli articoli che ci sembrano più indicativi può, infatti, scaturire un confronto sulle indicazioni di lavoro tracciate e sulla loro attuazione nella pratica. Per facilità di trattazione si soffermerà l’attenzione sui seguenti temi:

1. Rubrica per l’autodidatta 2. Problema della scuola 3. La questione del cinema 4. La trattazione del problema della scienza 5. Storiografia e Filosofia 6. La discussione critica sulla cultura sovietica.

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Rubrica per l’autodidatta Questa rubrica è importante per capire il modo in cui il”Calendario” intende il problema della diffusione della cultura a livello di massa. La redazione ha costituito nella rivista uno spazio per la formazione di una rubrica per gli autodidatti, in cui mensilmente, sotto la forma agile delle domande e delle risposte, vengono date delucidazioni ai più vari problemi posti dai lettori. Le domande trattano di tutto, dall’arte alla scienza, all’agricoltura ed all’astronomia ed ad esse si risponde nella forma più semplice per soddisfare le esigenze di conoscenza e di sapere che vengono poste. Alle domande rispondono tutti gli uomini del gruppo redazionale, naturalmente

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secondo i settori di lavoro trattati. Questa rubrica sarà tenuta in vita per tutti gli anni del centrismo fino al 1956 e sarà pure arricchita ed ampliata da una “guida alla lettura del Calendario”, in cui vengono affrontati nei dettagli argomenti e notizie che permettono una migliore comprensione di articoli trattati nello stesso numero;nella pagina dedicata all’autodidatta viene formato anche un “dizionarietto del Calendario”, raccolta di voci in ordine alfabetico che vengono spiegate in ogni numero. Questo lavoro di ricerca e spiegazione dei termini darà vita, sotto la cura di Giulio Trevisani e di moltissimi altri collaboratori, alla costituzione della “Piccola Enciclopedia del socialismo e del comunismo”, pubblicata per la prima volta nel 1953 e poi via via migliorata ed arricchita nelle edizioni pubblicate successivamente246. Per comprendere meglio il carattere di questa rubrica, sarà bene esaminare almeno un numero della rivista, ad esempio quello del gennaio 1955. Gli elementi caratteristici di questo numero sono riscontrabili in tutti gli altri. Nel numero citato si risponde a questa domanda: Cosa è la miopia?In risposta ad una richiesta del lettore Mario Guidotti di La Spezia. Come avviene l’accrescimento delle ossa?( chiesto da Piero Del Zozzo di Forlì) Come è protetto in Italia il diritto d’autore?( problema posto da Giuseppe Catalano di Roma). Perché i paesi arabi sono divisi?( qui si risponde a Salvatore Notarile, Lacco Ameno, Napoli). Come funziona uno scafandro?( a Graziano Cirri, da Firenze). Nella stessa rubrica, alla voce”Guida alla lettura del Calendario”, si danno

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la più importante per larghezza di trattazione sarà la quarta edizione pubblicata il 13 Dicembre 1958 presso la Tipografia Toffaloni, Via Sansovino 13/A di Milano

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chiarimenti per la migliore comprensione di alcuni articoli che appaiono nello stesso numero, sui temi inerenti, questa volta, alcuni problemi scientifici; ”Nazionalizzazione, statizzazione, socializzazione”, per la comprensione dell’articolo” I dittatori dietro le quinte”. ”La corrente alternativa trifase”(per l’articolo” i problemi della trazione elettrica”). ”Nebulose e galassie”( articolo”Ho guardato il firmamento”). Per finire c’è da aggiungere che “Il Calendario” organizzerà spesso concorsi per gli autodidatti, mettendo in palio per i migliori lavori vari premi soprattutto in libri di contenuto storico, politico o scientifico. Nel Maggio 1955, ad esempio, il “Calendario” indice tre concorsi, un primo di carattere letterario sul tema :“Dei romanzi e dei Racconti che avete letto in questi ultimi tempi quale vi ha interessato di più e perché?”. Un secondo di tipo storico sul tema :”Quale è stata l’importanza della Rivoluzione francese?”. ed un terzo su un tema di contenuto scientifico:”Degli articoli di carattere scientifico che avete letto sul “Calendario”dal numero di Gennaio 1954 a quello di Dicembre, quale vi ha interessato di più e perché?”.

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PROBLEMA DELLA SCUOLA La trattazione di quest’argomento colpisce per la presenza di notevoli carenze e di una notevole limitatezza di analisi sulla questione. Sull’argomento in esame, infatti, si può notare un pressoché assoluto silenzio fino all’articolo: ”L’iniziativa fa paura?”247 in cui sono prese in esame le esperienze dei giornali d’ istituto e si protesta contro la limitazione di espressione e di libertà che le autorità accademiche vogliono imporre contro tale iniziativa. Questi giornali sono spesso giudicati”sovversivi” in quanto gli alunni”si muo-

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Articolo di Mario Manacorda (Aprile 1953)

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vono da sé, non contro la scuola né fuori della scuola ma da sé”. Citando l’esperienza del Congresso di Firenze degli studenti medi si approva la richiesta di avere” nell’ambito della scuola italiana un cambiamento dei rapporti tra studenti ed insegnanti, un’ampia libertà di discussione e di associazione da parte di tutti gli studenti, una partecipazione attiva degli studenti agli insegnamenti, perché si accresca il contributo che essi possono dare al rinnovamento della scuola italiana” e le richieste di un “insegnamento scientifico che rafforzi la fiducia dell’uomo nelle sue forze”. Vari interventi sono dedicati ai problemi di una ricerca per una pedagogia libera e moderna. Il primo articolo del genere è quello di Ada Godetti”Educazione democratica”248, sull’educazione dei ragazzi in cui si individua l’esigenza di un’istruzione graduale, aperta, fondata sul sempre rinnovantesi equilibrio dell’esperienza e della ragione, a contatto con l’attualità della vita” e l’esigenza di dare al fanciullo una coscienza democratica, ” aiutandolo a formarsi una salda struttura morale che gli permetta, diventato uomo, di rinnovare questa società rendendola migliore”. Sullo stesso argomento si ritorna in vari interventi di Mario Manacorda, da quello intitolato:”Scuola vietata ai figli delle cuoche”249 in cui viene fatta l’analisi della situazione della scuola distinguendo tre tipi di pedagogia: L’umanistico-gesuitica, che è quella prevalente, ”Destinata alla formazione del chierico o intellettuale tradizionale”. La pedagogia attivistico-liberale, ”che tende a sviluppare le tendenze spontanee dell’allievo affinché egli possa inserirsi attivamente nella vita moderna”. La pedagogia socialista, “che tende a formare con una consapevole direzione un uomo intero, ……. uomo consapevolmente inserito nell’attività di tutti gli altri uomini per uno scopo comune”.

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Maggio 1953

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E’ inoltre criticata la divisione della scuola italiana tra orientamento umanistico ed orientamento tecnico-scientifico. Si vede come in Italia restino fondamentali le materie di studio letterario, mentre, di fronte ad esso, ”rimasero sempre in sottordine quegli insegnamenti scientifici che più erano legati allo sviluppo della società moderna”. Queste ultime discipline non sono state insegnate con metodo creativo, ma “come semplice bagaglio di cognizione anziché come strumento di conquista della realtà…” La formazione culturale e quella tecnica sono così separate:”La cultura accentua sempre più il suo carattere disinteressato”, lontano da ogni diretta preparazione al lavoro produttivo, e la tecnica si deforma in semplice avviamento al lavoro”. Per quanto concerne poi i metodi di questa pedagogia si mette in rilievo che tutta l’organizzazione scolastica mostra la presenza di “strumenti appropriati di un’educazione di tipo autoritario e formalistico, volta non tanto a sviluppare le qualità personali del singolo allievo, quanto ad unificare ed a livellare le varie personalità secondo un modello comune”. Si dice inoltre che la scuola riproduce nella sua organizzazione le divisioni in classe che esistono nella società ”Questo tipo di scuola serve appunto a non fare uscire nessuno dall’ambiente sociale nel quale la sorte lo ha posto:è la scuola della conservazione sociale”. Sui metodi e sui contenuti dell’insegnamento si ritorna nell’articolo”La pedagogia della scuola nuova” dello stesso Manacorda250. In esso si prende in esame la struttura scolastica di tipo liberale dove avviene uno spostamento dell’asse di interesse dalla figura dell’insegnante a quella del fanciullo “Si favorisce lo sviluppo individuale di ciascuno, e ciò può ottenersi solo liberando il fanciullo dagli adulti, favorendo da parte sua lo studio spontaneo di ciò che egli stesso vuole studiare…”, ed ancora” si tratta di ridurre lo

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sforzo, di avvicinare lo studio al gioco, di eliminare ogni sovraccarico ed ogni noia, in modo che l’interesse sia stimolato al massimo”. Come si vede questa scuola è in polemica con la scuola umanistica tradizionale e contrappone ad essa un ordinamento più vicino alla vita. Per Manacorda però questa scuola ha seri limiti in quanto”con la sua diffidenza verso ogni gravame concettuale e ogni intellettualismo, col suo esaltare in nome del rispetto verso la spontaneità del fanciullo quanto è legato alla sua esperienza immediata”, mettendo in ombra il diretto intervento dell’insegnante, essa mostra la rinuncia della vecchia generazione ad educare la nuova, ed esaspera ed incoraggia il più esclusivo individualismo”. Ciò è però giudicato pericoloso in quanto senza guida il bambino non ha la possibilità di “organizzare in un principio coerente le nozioni apprese, (per) attuare il passaggio dall’esperienza e dalla bravura tecnica ad una concezione generale del mondo”. Anche in questo campo della pedagogia il punto di riferimento viene visto nella eccellente esperienza che si compirebbe in Unione Sovietica. Infatti nell’articolo”Pedagogia socialista”di Mario Manacorda251 si contrappone ai due tipi di organizzazione scolastica trattati nei numeri precedenti quello della scuola sovietica in cui è”curata la preparazione letteraria, sistematicamente indagata la tradizione culturale umanistica, ma decisamente rifiutata la concezione di una cultura disinteressata, lustro di mandarini, abati, burocrati. E’ sviluppato lo studio delle scienze e delle tecniche, promossa la preparazione di specialisti delle moderne attività produttive”. La scuola socialista è valida perché afferma “lo sviluppo di una concezione del mondo veramente scientifica, dialettica e materialistica, l’acquisizione di co-

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Settembre 1953

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gnizioni sistematiche, dei principi delle scienze”252. I caratteri fondamentali della scuola sovietica sono: ”il contenuto scientifico dell’insegnamento volto a dare le basi delle scienze e la capacità di conquistarsi una concezione scientifica del mondo”. la”capacità pratica di produrre nel lavoro solidale con gli altri uomini”. La”direzione educativa cosciente della vecchia generazione sulla nuova, che nega sia il vecchio autoritarismo, sia l’utopia del fanciullo sottratto all’influsso degli adulti”. Sempre sulla questione della scuola il ”Calendario” pubblica un articolo di più chiaro contenuto politico, ”Rinnovare la scuola dal basso”, di Enzo Modica253, in cui in sostanza sono esposte le conclusioni del “Congresso nazionale della scuola”tenutosi a Roma. Il tema centrale è quello della difesa di una scuola libera e democratica. Per questo si sollecita l’esigenza di un “Mutamento d’indirizzo della politica scolastica governativa che consenta di attribuire la direzione della scuola ad uomini che diano garanzia d’ assoluta indipendenza di fronte a qualsiasi pretesa di monopolizzare in Italia istruzione e cultura”. Si rivendica inoltre, come dice la Costituzione “la realizzazione di una scuola aperta a tutti…. e la piena tutela della libertà dell’insegnamento”, opera questa tutta da realizzare in quanto”una scuola democratica in Italia non esiste ancora, poiché nella loro opera di governo i clericali hanno tradito quei precisi impegni costituzionali”. E’ pertanto necessaria “un’opera di rinnovamento dal basso”, e cioè da parte degli insegnanti e dei giovani” perché sia affermata la necessità della difesa della libertà nella scuola e della democratizzazione della vita e del costume

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come si dice ne ”L’istruzione pubblica” a cura della Accademia delle scienze pedagogiche, Mosca 1947

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Febbraio 1954

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scolastico, …condizioni essenziali per un’azione rinnovatrice che ponga a base dell’insegnamento i valori laici e democratici della cultura moderna”. Questo movimento dal basso è possibile in quanto, come dice Petronio nel già citato Congresso Nazionale della Scuola, ”ormai tutti i problemi della scuola ed in modo particolare i fondamentali problemi di struttura(edilizia scolastica, l’assistenza, la lotta all’analfabetismo), sono usciti dal chiuso delle aule e si allargano nelle piazze, nei campi, nelle fabbriche di tutta Italia”. Un altro motivo della crisi della scuola è visto nella presenza di libri di testo inadeguati, scarsamente critici254, “non mancano certo i libri buoni, e neanche i molto buoni, ma la grande massa dei testi è scadente, scadente in modo desolante”. Sulla necessità di salvaguardare la libertà d’insegnamento si ritorna nell’articolo di Giuseppe Messana255. E’ qui criticata la proposta che sembra avere incontrato il favore del Ministero della Pubblica Istruzione di non cambiare i testi scolastici da un anno a quello seguente, e la proposta di fare adottare da parte di tutti gli insegnanti per tutte le sezioni lo stesso testo. L’ultima questione affrontata sul “Calendario” è quella del latino. Si esprime nuovamente la critica alla divisione tra scuola di tipo tecnico-professionale e scuola di tipo umanistico. Nell’articolo non firmato ”La questione del latino” si afferma l’urgenza di superare progressivamente questa difficoltà con l’eliminazione del latino non solo nella scuola classica ma anche nella stessa scuola media. Il latino è, infatti, il diaframma che separa i due tipi di scuola perché fino a quando nella scuola si continuerà ad insegnare quella lingua “resterà del tutto formale ed illusoria la facoltà che venisse eventualmente riconosciuta agli alunni dell’avviamento professionale i quali il latino non studiano, di passare con un esame integrativo

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articolo ”I libri di testo” nella rubrica ”La scuola come va”, Mario Manacorda, dicembre 1954

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“I testi coatti”, sempre nella rubrica” La scuola come va”, aprile 1955

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all’altro ordine di scuola. In questa lunga discussione su “latino o non latino” interviene infine Enzo Modica, nell’articolo ”Vecchio e nuovo Umanesimo”256. Egli non si distacca dai tratti fondamentali dell’articolo precedente, ma indica la necessità di sostituire con materie adeguate il latino, soprattutto per non perdere, con l’eliminazione del latino, lo stimolo alla ricerca ed all’esercitazione delle menti, che lo studio di questa lingua fornisce al giovane.

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LA QUESTIONE DEL CINEMA Gli articoli sembrano muoversi su queste idee portanti: Difesa e valorizzazione del cinema italiano con l’interessante discussione sul neorealismo. Lotta contro la censura cinematografica. Condanna dei film americani che diffondono la propaganda dell’ideologia dell’odio e della violenza. Per quanto concerne i problemi posti al numero I), sottolineiamo all’attenzione l’appassionante discussione che si sviluppa sul neorealismo che attraversa, negli anni 1952-1953, per vari motivi, una fase di difficoltà. In questa discussione sono ripresi i temi centrali emersi al Convegno di Parma257. Ugo Casiraghi, nell’articolo”Perché il cinema italiano è in crisi”258 ripropone le tesi principali espresse nel suddetto convegno ed entrando subito nel merito dice:” C’è chi sostiene che il cinema neorealista, legato ad un determinato momento storico, è finito…. C’è invece chi continua a credere nel neorealismo

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come in un metodo d’indagine artistica, suscettibile ad ulteriori sviluppi”. Su questo problema hanno detto la loro opinione vari cineasti tra i quali Vittorio De Sica che, proprio al convegno di Parma aveva affermato che “il neorealismo è appena agli inizi” ed aveva riconosciuto “l’esigenza di salvaguardare il neorealismo da tutti quei pericoli di natura sia oggettiva che soggettiva che ne hanno determinato l’attuale incertezza e ne ostacolano il libero sviluppo”. Ciononostante non si può negare che esistono casi clamorosi di registi i quali hanno rinunciato all’impegno morale del primo neorealismo (ad esempio Germi e Rossellini). Germi è demoralizzato;in un’intervista a Parma al giornale “L’eco del lavoro” ha detto:”Nel dopoguerra c’era una gara di emulazione tra i cineasti per dire di più, per raccontare fatti nuovi, più originali ed avanzati. Oggi l’atmosfera creatasi intorno a noi …. ci demoralizza…. Da questa crisi di demoralizzazione mi riesce difficile uscire”. Per uscire da questa situazione Zavattini, che è il maggiore punto di riferimento per il neorealismo, ha proposto di andare con la macchina da presa per l’Italia con “Fede assoluta che gli incontri validi da narrare ci saranno”. Egli vuole in questa fase risvegliare l’impegno sociale di cui c’è bisogno:” L’impegno morale dopo la Liberazione era più facile”; più difficile è avere fiducia negli uomini e rappresentare la verità oggi che la realtà è proibita, oggi che alcuni artisti hanno rinunciato a cercarla, oggi che si rischia, (come è accaduto a Renzo Renzi) di andare in carcere solo se si fa cenno ad alcuni aspetti drammatici della realtà. Zavattini indica la strada di non perdere di vista l’uomo reale e la società reale, quella, in altre parole, dell’inchiesta sulla disoccupazione e la miseria. La crisi del cinema nazionale non si può però spiegare solo con la diminuzione dell’impegno morale di un tempo. Altri motivi concorrono a rendere critica questa situazione: lo stesso Casiraghi

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nell’articolo”. Come e perché si sta uccidendo il cinema italiano”259 arricchisce la riflessione con nuove considerazioni da cui si ricava che la crisi del cinema è dovuta al fatto che da alcuni anni i governanti italiani favoriscono la penetrazione dell’ideologia e dei modi di vita americani:”I produttori americani trovano da noi zelanti amici che li aiutano a risalire la china lungo la quale sono scesi in questi anni coi loro film che sempre meno piacciono al pubblico. Questi amici pieni di zelo sono i politicanti del partito al governo”. Costoro inoltre ostacolano con la censura la produzione cinematografica nazionale “I loro mezzi si chiamano censura, intimidazione, caos a bella posta provocato nella legislazione sul cinema”. Anche Alfredo Guarino giudica la crisi del neorealismo come la conseguenza dell’invasione del capitale straniero, specie americano, che introduce in Italia una produzione sempre maggiore come quantità ma sempre più scadente come qualità. Ciò può ostacolare la conquista di una cultura autenticamente nazionalpopolare, operazione questa cui il cinema italiano può dare un gran contributo. La critica alla produzione del cinema americano si sviluppa a lungo sulle pagine della rivista. Da un lato infatti si riafferma l’esigenza di creare una cultura popolare nuova, che sia libera, moderna e nazionale, dall’altro si attacca in modo durissimo il cosmopolitismo, visto come il tentativo di allontanare il popolo dalla realtà e dalle sue esigenze nazionali. Per un’analisi più approfondita della cinematografia americana, Ugo Casiraghi in un lavoro di recensione in quattro puntate del libro di Lewis Jacobs “L’avventurosa storia del cinema americano”, ricostruisce le tappe più salienti della storia del cinema americano dall’inizio del secolo fino al 1939. Negli articoli si nota uno sforzo per esprimere un giudizio equilibrato su tale esperienza; si vede ad esempio come nella fase del 1908-1910 coesistano film

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che mostrano simpatia per i poveri e notevole disprezzo per i politicanti assieme ai film contro le minoranze razziali e nazionali (negri, ebrei, messicani, spagnoli e così via). Si esaminano quindi le tappe della lotta industriale per la supremazia cinematografica, per i brevetti, il processo di formazione dei trust cinematografici e come, con la nascita di Hollywood, il cinema per le masse diviene” una mecca per gli affaristi”. Esso porta con sé tutta un’ideologia prevalente: dall’individualismo ad oltranza che trionfa nel selvaggio West all’acritica esaltazione del patriottismo militare. Si comincia a vedere chiaramente come quando sono trattate agitazioni sociali esse vengano in genere attribuite alla mancanza di volontà di lavorare, all’alcol, o ”all’invidia”. Iniziano a pullulare i film che appoggiano la campagna interventista e la guerra. Si porta ad esempio l’esperienza di D. W. Griffith, il primo grande creatore dell’arte cinematografica americana che vede boicottato dai guerrafondai il suo film “Intolerance”, film fautore di posizioni pacifiste. La linea prevalente in questa cinematografia non mostra i milioni di orfani e di vedove che sono il risultato del conflitto. Questi film non contribuiscono alla pace, ma sono, fino all’estremo, militaristi e fautori di guerra. Casiraghi sottolinea inoltre la grande somiglianza tra questa produzione (attorno al 1915-1917)con quella degli anni cinquanta. L’ideologia della violenza è propagandata anche in altre forme, ad esempio tramite la diffusione di film di violenza sul gangsterismo che non aiutano ad educare le coscienze. Sempre recensendo il libro di Jacobs, Casiraghi dice:”traspare netto e preciso, da questo libro, il giudizio su una società, su una determinata impostazione e direzione politica, sul peso di una propaganda che ancora oggi continua” e si domanda”perché in un certo momento, in una certa congiuntura storica e sociale, sono stati prodotti e lanciati determinati film e non altri?” La risposta è semplice:essi devono servire a propagandare l’ideologia dei gruppi dominanti ed a rafforzare il loro potere politico e la loro Pagina 339


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potenza economica. Molto interessanti le considerazioni di Casiraghi nel suo ultimo articolo sul problema. Nel cinema americano, intorno al 1926, il regista è sostituito dal produttore. Egli sceglie attori e registi, ” detiene la formula magica del successo basata sul nome dei divi e sul calcolo dei valori…. che forniscono un sicuro richiamo di cassetta”. La produzione diviene meccanica; l’aumento dei prezzi fa incrementare la percentuale degli spettatori delle classi medie ed i film si dedicano al soddisfacimento delle esigenze di questo tipo di pubblico. Il loro contenuto diviene così più raffinato: Non viene persa alcuna occasione per esaltare il valore del danaro ed il cinema viene usato per combattere il bolscevismo. ”La produzione cinematografica riceve l’ordine di sostenere il capitalismo: viene continuamente sbandierato lo spettro del “terrore rosso” mentre in pochissimi film si verde che nel paese c’è una grandiosa ondata di scioperi e che per arginarla il governo prende sempre più gravi misure antidemocratiche…. e quando viene la crisi, il crollo di Wall Street, il cinema fa a gara nel tacere, nell’ignorare la situazione”. Il 1932 è però anche l’anno in cui, con l’amministrazione Roosevelt, alcune produzioni secondarie di Hollywood prendono la difesa dei diritti del lavoro ed in cui si comincia a parlare apertamente della crisi…. in cui si rispecchiano sullo schermo i problemi della disoccupazione, l’incertezza del domani, la vecchiaia priva di mezzi di sussistenza (come avviene nel film”Cupo tramonto”), in cui si denuncia il sistema carcerario, il gangsterismo, il linciaggio”. Il lavoro di Jacobs si è fermato al 1939, ma per Casiraghi”dall’avventurosa storia del cinema americano, anche se si arriva al 1939, i frequentatori delle sale cinematografiche italiane saranno guidati alla comprensione critica della produzione di Hollywood degli ultimi tredici anni, che ha invaso ed invade gli schermi del nostro paese”. Molto rilievo ha pure negli articoli della rivista la lotta contro la censura che si è brutalmente manifestata in moltissime manifestazioni di pensiero. Pagina 340


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E’ possibile, a tale proposito, fare vari esempi, dalla proibizione a Roma della “Mostra della barbarie” (la magistratura assolverà al processo tutti i pittori), al divieto di un concerto di musica polacca e di una mostra del libro sovietico a Bologna, fino al rifiuto di far svolgere -come è avvenuto in diverse città italiane -le manifestazioni culturali indette dall’Associazione Italia –Urss. Essa si è particolarmente accanita contro la produzione cinematografica nazionale. Nella relazione al convegno di Parma, già citato, Luigi Chiarini ha affermato che la crisi del realismo cinematografico è anzitutto crisi di libertà. Sul”Calendario”Michelangelo Antonioni testimonia come la censura ha reso incomprensibile l’episodio italiano del suo film”I Vinti”. Questo clima genera a volte vere forme d’autocensura da parte di cineasti impauriti. Carlo Lizzani, a tale proposito, ritiene necessario informare il pubblico delle limitazioni che avvengono, ma dice pure che la crisi del cinema italiano va riscontrata nel fatto che spesso ci si stacca dagli aspetti della vita concreta e dalla realtà nazionale. Guido Aristarco sostiene, infatti, che gli oppositori del neorealismo sono coloro che si propongono di stendere una cortina di silenzio su tutti i fatti veri dell’Italia, coloro che vogliono ignorare gli urgenti problemi della democrazia italiana, coloro che spingono i cineasti” a non occuparsi della realtà della nostra vita e della nostra lotta sociale”. Sulle stesse linee direttrici si muove l’articolo di Corrado Terzi ”Censura, quinto potere”260. contro la censura e l’eliminazione di intere sequenze. Tali azioni indicano la precisa volontà di voler sabotare la produzione del migliore cinema italiano. Nell’articolo si fa riferimento al libro di Luigi Chiarini: ”Cinema:quinto pote-

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re”261 che è una storia dei rapporti intercorsi tra governo e cinema dalla fine della guerra in poi. In questo scritto sono contrapposte da un lato l’azione oscurantista e clericale della chiesa, col Centro Cattolico Cinematografico, l’Azione Cattolica, il governo democristiano e la censura e dall’altro la cultura italiana progressista, i circoli del cinema, le forze democratiche e le organizzazioni di sinistra. I film più colpiti sono stati:”I vinti”, ”Anni facili”, ”La spiaggia”, e soprattutto”Totò e Carolina”, il film di Mario Monicelli, che, primo caso nel dopoguerra, è stato vietato in blocco dalla censura, essendo giudicato offensivo per il prestigio delle forze dell’ordine. Da quanto si è, fin’ora, sostenuto si capisce come ai vari motivi di crisi del cinema italiano bisognerà reagire sviluppando con efficacia un’iniziativa verso il pubblico il quale deve sostenere la lotta per difendere e sviluppare una propria organizzazione della cultura cinematografica. Le indicazioni per rispondere a questa situazione sono presenti nell’articolo:” L’importanza del 7 Giugno per la cultura popolare”, 262 in cui viene sottolineato il fatto che “il popolo deve difendersi dall’alleanza tra bollettino parrocchiale e il Reader’s Digest. Contro il primo deve difendere i moderni contenuti della sua cultura; contro il secondo i contenuti nazionali”.

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STORIOGRAFIA E FILOSOFIA Per quanto concerne i problemi della filosofia, il “Calendario”si attrezza di una rubrica dal titolo”Filosofia e Senso Comune”, nella quale ha spazio la discussione su varie questioni che interessano appunto tale materia. Su questa pagina si intavola spesso una discussione con i lettori, fatta nel senso delle domande e

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delle risposte ai quesiti posti. Per quanto riguarda, ad esempio, il problema della storiografia si risponde ad una lettera della lettrice Lucia Trabucchi su come il marxismo intende la valutazione dei fatti storici. ”Dinanzi alla enorme massa di elenchi che costituiscono, per così dire, il “Passato”, (il nostro compito) deve essere quello di inquadrare questa moltitudine di fatti, di intenderli nei loro nessi, nelle loro relazioni, nelle loro linee di sviluppo. Se mancasse quest’opera di interpretazione ( e quindi di valutazione), il passato sarebbe una muta ed oscura congenie di dati senza senso, e noi, oltretutto, ci troveremo nella impossibilità, privi come saremmo di “retrospettiva”, di orientamentare la nostra azione nel presente(il quale) si innesta necessariamente sul passato così come si apre e si proietta verso il futuro”. Viene criticata la posizione storiografica che divide in due campi(buoni e cattivi) fatti e personaggi della storia, e si sostiene che tale posizione ostacola la visione dello storico e pregiudica l’apprezzamento oggettivo e la comprensione di ciò che è accaduto. La linea di valutazione, si afferma infine, deve muovere dalla funzione che nello sviluppo progressivo della vita economica e sociale ha un determinato fenomeno storico. Per questo lo storico deve giudicare, negativamente, un fenomeno come quello fascista che sorge per combattere le forze progressive maturatesi nel seno della società e deve viceversa valutare positivamente gli eventi ed i fatti che “in qualche modo hanno costituito e costituiscono altrettante tappe della marcia in avanti degli uomini”. In tal senso la qualifica di “bene” e di “male”nella storia non va esclusa tout court, ma collocata su altre basi, su basi scientifiche, vorremmo dire reinterpretata ed usata in senso realistico e storicistico”. Rende più esplicito il concetto la citazione tratta dal”Discorso su Giolitti”di P. Togliatti:”Ha ragione colui che si trova sulla linea di sviluppo delle forze che tendono a dar vita ad un regime sociale più avanzato;ha torto chi non avverte

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questo sviluppo…”263. Da numerosi articoli si ricava che l’idea forza della rubrica “Filosofia e Senso Comune” è quella di fornire ai lettori un’idea della filosofia che liberi gli uomini dalle superstizioni, dalle paure, dalle credenze sbagliate che “il senso comune” ha tramandato attraverso i secoli. Per condurre avanti tale azione, il “Calendario” si propone di diffondere a livello di massa aspetti dell’opera di A. Gramsci per quanto concerne almeno alcuni temi centrali del suo pensiero filosofico. Questo progetto di lavoro è espresso nella nota di Luigi Formenti”XVI anniversario della morte - studiare Gramsci”264. ”A otto anni di distanza dalla riconquista delle libertà democratiche non possiamo esimerci dal chiedere che cosa si sia fatto per sviluppare, integrare, diffondere su un’area più vasta possibile l’eredità di pensiero di Gramsci” ed ancora”bisogna assicurare al pensiero filosofico e storico-politico di Gramsci un’espansione che gli permetta di esercitare la propria efficacia al di là di ristrette cerchie intellettuali, in larghe zone di opinione pubblica popolare”. Bisogna in sostanza”socializzare le idee e l’insegnamento gramsciano in quella parte di esso che si presenti più compiuta…. le difficoltà di tale lavoro sono evidenti. Per molteplici ragioni…. la lettura di Gramsci non sempre facile per il pubblico cosiddetto”colto”è spesso difficile per il pubblico “non colto”. Esso abbisogna di ausili, di commenti…di una guida insomma. La nostra rivista, proprio per il suo carattere…. crede suo dovere e compito specifico prendere un’iniziativa in tal senso”. Nel Giugno 1953 inizia, infatti, la pubblicazione di una serie d’articoli di Franco Fergnani sul pensiero filosofico di Antonio Gramsci. La trattazione è fatta nel modo più semplice ed accessibile a tutti. Nel primo ar-

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Questa trattazione è compresa nell’articolo”Il”bene “ed il “male”nella storia”, F. F. . , gennaio 1953 264

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ticolo dal titolo”Filosofia spontanea e filosofia critica”, si ricavano spunti utili per la comprensione dello scritto”Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce”. In esso è posto il problema di “distruggere il pregiudizio che la filosofia sia il privilegio e l’esclusiva di coloro che, in possesso di un linguaggio notevolmente astruso e quasi cifrato si chiudono nel loro scrittoio e lì, convenientemente distanti”profanus vulgus”, quasi pure intelligenze svincolate dal mondo tessono il loro romanzo filosofico…. Costoro…ci verranno a dire che l’autentica filosofia è la loro pura e staccata speculazione…. ”. A tale modo di intendere la filosofia un altro se ne contrappone, quello cioè per cui la filosofia è chiarezza razionale, e non “oscuro simbolismo”, è patrimonio di tutti gli uomini in quanto tratta i problemi di tutti gli uomini, la sua essenza non sta nella contemplazione del mondo, ma “nella delineazione di un orientamento di vita, nella elaborazione dei criteri direttivi e dell’indagine e del comportamento”. Non c’è insomma attività intellettuale che non sia diretta da una concezione del mondo e della vita. Ma bisogna distinguere tra “filosofia spontanea”, che consiste nel complesso di opinioni di credenze e di idee che si chiama “senso comune”(“il folclore della filosofia”come dice Gramsci)e la filosofia propriamente detta, che è coerenza e senso critico. Da tale distinzione deriva l’affermazione di Gramsci per cui “tutti gli uomini sono filosofi”nel senso che la loro grande maggioranza esprime, sia pure in modo inconsapevole e frammentario, una “filosofia spontanea”. Essi sono di fronte all’alternativa di continuare ad assorbire in modo passivo modi di vedere che non corrispondono ai loro interessi, continuare cioè ad avere una coscienza filosofica spontanea e frammentaria, oppure vagliare le proprie convinzioni, respingendo quelle che sono estranee e contraddicono ai propri interessi ed alla propria funzione sociale acquistando così una coscienza filosofica critica;indubbiamente si deve scegliere quest’ultima strada, cioè”elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente e quindi, in commistione con tale lavoro del proprio cervello scegliere la propria sfera di attività, partecipare attivamente alla produzione della storia del mondo, essere guida Pagina 345


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a sé stessi e non già accettare supinamente dall’esterno l’impronta della propria personalità”265. Nell’articolo ”Individuo, Società, Natura”, il pensiero di Gramsci è definito un “umanismo realistico e storicistico di ispirazione marxista, arricchitosi al contatto polemico ma fecondo con le correnti del neoidealismo italiano” e si coglie come fatto centrale di tale umanesimo l’esigenza di giungere ad elaborare una nozione dell’uomo e della realtà umana nella loro complessità. Questo articolo come quello precedente e l’altro che seguirà si pone il problema di diffondere a livello elementare i concetti elementari espressi nell’opera sul “Materialismo Storico”. Viene spiegato come Gramsci non segua una linea filosofica che ripropone la tradizionale analisi sull’essenza dell’uomo e sul suo destino, l’analisi cioè di tipo metafisico e teologico, ma “piuttosto l’individuazione dei piani, delle direzioni essenziali dell’esperienza umana con l’accertamento delle relazioni intercorrenti tra l’individuo, gli altri uomini e la natura”. Nello sviluppo del ragionamento l’uomo si configura essenzialmente come individuo che si pone in contatto con gli altri uomini e come membro della società, per poi presentarsi come essere attivo che opera in mezzo alle cose. Gli aspetti uomo, società, natura, non sono visti in una dinamica successiva, bensì simultanea ed organicamente connessa. L’uomo esiste come uomo in quanto si rapporta agli altri stabilendo un intreccio multiforme di rapporti sul piano politico, morale e culturale. In questo senso nella trattazione non è soppresso il momento dell’individualità e del”privato”. D’altronde l’uomo è concretamente posto fin dalla nascita in un ambiente naturale di cui subisce stimoli e pressioni, e su cui, per contro, esercita la propria funzione cosciente. Tra uomo e natura esiste un rapporto di stretta connessione tra momento gnoseologica della conoscenza e momento pratico della trasfor-

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A. Gramsci, ”Il materialismo Storico e la Filosofia di Benedetto Croce”ed. Riuniti, Roma1971, pag. 4.

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mazione. Si fa notare come Gramsci critichi la posizione idealistica di ridurre il mondo all’io(che nell’idealismo è il miglior creatore della realtà), ma come respinga anche”le posizioni del materialismo e realismo metafisici, tendenti ad affermare un’oggettività extrastorica ed exstraumana ed a considerare la natura come una realtà in sé, indipendente dall’uomo”. Si insiste quindi sulla necessità di tener uniti nella loro interdipendenza i tre punti indicati per comprendere la realtà umana. Interessante è anche la definizione dell’umanesimo di Gramsci come “umanesimo storico”. La storia, infatti, è presentata come il processo per cui l’uomo si fa, facendo al tempo stesso il mondo che lo circonda, modificando e sviluppando il complesso delle sue relazioni sociali ed approfondendo sempre più il suo controllo sull’ambiente materiale. Molti sono gli articoli sul problema della Filosofia trattati sul “Calendario”. Ne citiamo solo un ultimo: “Pregiudizi contro la Filosofia”266 del Luglio 1956 in cui si contesta appunto”il senso comune”che contrappone una pretesa astrattezza ed inconcludenza della filosofia ad un’altrettanta pretesa “concretezza”. Respinta l’accusa per cui la filosofia è “un raffinato perditempo” e contrapposta a questa concezione quella per cui “sia lo sviluppo del pensiero scientifico, sia il progresso della società vadano debitori alle concezioni filosofiche d’avanguardia ed alla polemica da esse condotta contro ideologie retrive responsabili di bloccare o di svisare la libertà e l’autonomia dell’indagine scientifica”o di contribuire al mantenimento di uno “statu quo”superato dai tempi( si pensi all’enorme valore di stimolo che la filosofia illuminista ha avuto nel mutare le basi della società del XVIII secolo), si dice che la filosofia deve essere intesa come “analisi chiarificatrice di quel piano del sapere quotidiano, sconnesso, frammentario ed imbevuto di pregiudizi che chiamiamo senso comune”.

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Sul problema della diffusione del pensiero filosofico di A. Gramsci sono ancora da segnalare i due articoli di Franco Fergnani sul tema:”Struttura e sovrastruttura”, pubblicati nell’agosto e nel settembre 1953.

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-Inoltre si afferma che la Filosofia, con le sue intuizioni, ha stimolato l’interesse per la scienza ed anche il fatto che pertanto l’area della filosofia che un tempo coincideva con l’intera area del sapere si è ridotta(molti problemi che prima interessavano il filosofo oggi interessano lo scienziato), ma al te4mpo stesso approfondita e precisata. Nella stessa filosofia è, in pratica, avanzata una maturità critica e sono stati posti solidi punti fermi. Certi ritorni indietro non sono più possibili, non nel senso che siano traguardi oltre i quali non si può andare, ma nel senso che non si può più tenerne conto. Si va sostituendo sempre più alla genericità ed alla oscurità”la cautela e lo sforzo di sapere veramente quel che si dice quando si dice qualcosa, e di trovare quanto più possibili conferme empiriche alle proprie affermazioni”. Da tali considerazioni ne deriva che non è vero il fatto secondo cui non si è risolto nulla, ma anzi”il fatto che il pensiero contemporaneo nelle sue correnti più vive e più influenti(da un marxismo criticamente interpretato agli indirizzi che si designano come neoimpiristi)rinunci sempre più all’antica vocazione metafisica per abbracciare la moderna vocazione metodologica, indica chiaramente la direzione lungo la quale tende ad evolversi la ricerca filosofica”. ”Il vecchio orientamento, per quanto ricco di valori da valutare storicamente, portava la filosofia a sconfinare nel mondo dell’incontrollato e dell’incontrollabile, nel romanzo speculativo: il nuovo orientamento le permetterà invece di assolvere sempre più efficacemente al suo compito di illuminazione del discorso umano ed alla sua funzione di coscienza riflessa dell’umano operare”.

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LA TRATTAZIONE DEL PROBLEMA DELLA SCIENZA Dallo sfoglio delle annate del”Calendario” si ha l’impressione che le indicazioni dei congressi della Cultura Popolare che avevano dato grande rilievo al problema della divulgazione del pensiero scientifico, ”contro la teologia come scienza”e contro la concezione metafisica della realtà propria delle forze cleri-

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cali, siano attuate con grande rigore. In polemica infatti con le posizioni di esaltazione dell’irrazionale e del trascendente, si segue la linea tracciata al Congresso di Bologna del 19 Aprile 1953 che, come si è visto, aveva posto l’urgenza di: 1)-una adeguata diffusione della cultura scientifica; 2)-di uno stimolo adeguato per favorire una formazione su base scientifica dei lavoratori; 3)-di migliorare la divulgazione delle opere scientifiche sovietiche. Si sviluppa infatti sulla rivista un’iniziativa molto ampia di divulgazione della scienza in tutti i suoi articolati campi di ricerca, dall’astronomia alla biologia, dalla fisica alla geologia, dalla tecnica alla matematica:Ricordiamo qui solo alcune delle numerosissime trattazioni proposte. Viene creata la rubrica:”Profili di scienziati”, nella quale è ricostruito lo sviluppo dio lavoro e di pensiero dei più famosi scienziati dell’umanità. Tra le più importanti iniziative c’è anche da ricordare la ricostruzione in tredici puntate della “Storia del pensiero scientifico”. Questa rubrica sarà curata da Giulio Preti e riguarderà la ricostruzione delle tappe più rilevanti del pensiero scientifico dalle origini fino al 1900 ed alla fisica nucleare. Importante è anche il richiamo agli articoli di Venzo De Sabata sulla “Teoria della relatività” in nove puntate. Questa trattazione prenderà spunto dal volume dello scienziato polacco Leopoldo Infeld dedicato appunto alla questione della relatività. Il volume era stato pubblicato dalla casa editrice Einaudi. In questi articoli sono ricostruite le tappe delle scoperte della fisica fino alla rivoluzione Einsteiniana Per capire bene come venga inteso il problema della scienza ci pare utile citare un passo dell’ultimo articolo di De Sabata sulla teo-

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ria della relatività, quello dal titolo”Massa ed Energia”267 in cui è detto:”E’ necessario che il lettore stia in guardia e non attribuisca un valore assoluto ai principi di relatività;(come a quelli di tutte le ricerche scientifiche). Qualsiasi teoria fisica è destinata a subire trasformazioni nel corso del tempo per il sopraggiungere di nuove esperienze che non riescono a inquadrarsi entro la teoria stessa. Non si deve quindi attribuire un carattere definitivo ai principi di questa o quella teoria soprattutto quando questi principi possono essere d’ostacolo ad un ulteriore sviluppo.

-

LA DISCUSSIONE CRITICA SULLA CULTURA SOVIETICA Ci sembra interessante richiamare la discussione, che si sviluppa sul “Calendario”, sulle novità che si agitano nella società sovietica all’indomani del XX Congresso del PCUS. Esse indicano una modifica d’atteggiamento rispetto a quello acritico e fideistico che, fino a quel momento, ha caratterizzato le posizioni nei riguardi dell’esperienza politica e culturale dell’Unione Sovietica ad una posizione in cui cominciano ad individuarsi atteggiamenti più cauti ed articolati. Significativo è perciò l’articolo di Mario De Micheli, pubblicato nell’agosto 1956, col titolo significativo: “Il travaglio della cultura sovietica”. In esso sono indicate come novità positive il rinnovato fervore di studi su Dostoiewski, ritenuto in passato sbrigativamente negativo, ed il favorire la pubblica riesposizione dei disegni e dei quadri dei pittori impressionisti francesi, già considerati in modo sommario e liquidatorio gli iniziatori del formalismo. E’ l’inizio del cosiddetto disgelo, già iniziato - timidamente- tre anni prima, subito dopo la morte di Stalin. In un riesame critico della storia russa viene affermata la grande funzione posi-

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settembre1953

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tiva della rivoluzione proletaria a cui diedero le migliori e convinte energie, consapevoli come erano della sua grande funzione positiva, scrittori come Gorki, Serafimovic, Ila Ehremburg. Lo stesso fervore era avvenuto ai tempi della Comune di Parigi a cui avevano partecipato poeti decadenti come Verlaine, disperati e bohemiens, come Rimbaud, assieme ad artisti come Courbet e Manet. In sostanza uno studio sulla cultura sovietica deve tenere conto della presenza di diverse formazioni tra gli intellettuali sovietici. Infatti a fianco di artisti di formazione realista ci sono pure artisti delle più varie provenienze:da quella formalista o di avanguardia, ai cubo-futuristi, agli acmeisti ed ai costruttivisti. Nella società sovietica il periodo dal 1921 al 1935 è stato quello di una grandissima e svariata produzione, nella poesia, nel teatro, nel cinema, in ogni campo dell’arte e della cultura. Si sono avuti autentici capolavori: il “Placido Don”(Sciolokov), il”Poema di Lenin”(Maiakovski), i film di Eisenstein e di Pudovkin, le opere musicali di Sciostakovic), ma non era facile per tutti trasformare sé stessi in senso rivoluzionario né ciò era possibile con un decreto dall’alto. Erano invece necessari processi individuali spesso lenti e tortuosi. Il contrasto tra l’io individuale ed il significato sociale della rivoluzione erano stridentemente acuto. Esenin e Pasternak sentivano dolorosamente la loro incapacità di “scorrere come una goccia nella marea della massa”come diceva Maiakovski. lo sforzo per risolvere questo contrasto si scontrò con l’insensibilità della politica culturale del PCUS che divenne troppo dura ed intransigente, e non tenne conto della complessa realtà storica in cui si era sviluppata la cultura sovietica. La discussione critica sull’esperienza letteraria e culturale dell’Unione Sovietica è ripresa sulla rivista ripartendo dal 1934, cioè dal Congresso degli scrittori sovietici, il congresso della linea del realismo socialista. Sono riprese le voci di dissidio che si erano sentite isolate in quel congresso, come quella di Olescia: “Ogni artista può scrivere solo ciò che è in grado di scrivere. La cosa più orribile è l’umiliarsi;il dire che non si è nulla al paragone di un operaio o di un membro della gioventù comunista. Come si può parlare…. così, continuando a Pagina 351


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vivere ed a lavorare?No, io ho l’orgoglio di affermare che, malgrado sia nato nel vecchio mondo, in me, nell’animo mio…vi sono molte cose che mi pongono sullo stesso piano dell’operaio e del giovane comunista”. Tale idea era stata però soppressa dallo sviluppo degli eventi ed era prevalsa, come si è già detto, la linea ufficiale del realismo socialista. Nella seconda guerra mondiale ci fu addirittura un ulteriore irrigidimento delle tesi zdanoviane. Il giudizio che oggi si dà è quello che questa linea, con la sua intrusione dall’alto, ha provocato danni enormi e devastanti nel lavoro creativo. Significativa è la denuncia che farà Sciolokov al XX congresso: “Letteratura sciatta ed ufficiale, a tesi, senza forma creativa. Nel lavoro degli artisti si diffuse u n modo uniforme, burocratico, monotono di vedere le cose:era il modo sancito da una estetica fissata una volta per sempre, il modo schematico di un realismo socialista di cui ormai si erano scoperte tutte le regole. Il coraggio dell’invenzione formale, dell’inesplorato, fondamentale per l’arte, era scomparso per il timore di essere giudicati formalisti. Eppure proprio dall’interno della poesia futurista Maiakovski aveva creato la più alta poesia rivoluzionaria della nuova epoca sovietica”. Da questa ricostruzione anche il “Calendario”mostra la necessità improrogabile per la cultura sovietica di rifare criticamente la strada percorsa, riuscendo ad imparare dagli errori fatti. Per questo obiettivo la rivista vede la necessità di rifare un’analisi più puntuale sullo zdanovismo e, nell’agosto1956, nell’articolo”Considerazioni sullo zdanovismo”, firmato V. S. , il fenomeno viene così giudicato:”Sul piano estetico(lo zdanovismo)presenta tesi di una estrema debolezza e grossolanità, per ciò che concerne invece la critica ad alcuni elementi della storia della filosofia scritta da G. F. Alexandrov, varie posizioni metodologiche sono da accettare. Ma pure in tali giuste critiche Zdanov resta nel torto ed arreca grave danno alla cultura sovietica proprio per il secondo aspetto del fenomeno, cioè per il fatto di porsi non come un contributo al dibattito critico, ma come brutale soffocamento del perenne dibattito necessario per ogni cultura”. Pagina 352


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In effetti da allora nessuno si è azzardato non solo a scrivere una storia della filosofia, ma pure a condurre qualunque ricerca nel campo storiograficofiilosofico. Infatti Zdanov ha contrapposto il concetto di “partiticità” della cultura alla libertà di ricerca. Egli ha voluto”ripulire”la cultura sovietica dalle ultime “sopravvivenze” del passato, cioè dalle poetiche che derivavano dal vecchio mondo prerivoluzionario (Pasternak, Olescia). Il fatto è tanto più grave in quanto la “partiticità”è stata estesa in modo intollerante anche alle giovani generazioni di intellettuali sovietici, che col vecchio mondo non avevano legami. Il giudizio sullo Zdanovismo diviene ancora più duro quando si sostiene che “caratteristica di tale linea è stato il pessimismo, la sfiducia nella capacità del lettore di massa sovietico ad intendere una cultura che non fosse oleografica, una narrativa non naturalistica, una poesia non didascalica. Lo Zdanovismo (come la borghesia) intende la cultura del popolo come cultura sproblematizzata”. Ma mentre la borghesia ha lasciato assieme a questa cultura popolare una cultura degli intellettuali, falsamente d’avanguardia, lo zdanovismo fa un livellamento, fa tutta la cultura “Popolare” nel senso più deteriore. E’ a ciò che si riferisce Sciostakovic quando parla del diritto dell’artista “a creare anche se il pubblico non lo capisce”, del diritto e del dovere dell’artista di educare il pubblico. Lo zdanovismo ha coperto l’intera area della cultura sovietica, dalla narrativa, alla filosofia, alla musica. Esso ha rappresentato un costume di “chiusura teoretica”e di “brutalità” organizzativa, un costume di sospetto su tutto ciò che sovietico non era (si ricordi la campagna contro “il servilismo verso l’occidente”). Il XX Congresso ha provocato una grave crisi dello zdanovismo:tra gli intellettuali ci sono ora grandi attese e speranze. Il “Calendario” in questo articolo però mette in guardia da un superficiale ottimismo: “Si deve evitare di ripetere gli errori di acriticità avuti nel passato;le mentalità non cambiano nel giro di pochi Pagina 353


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mesi o di pochi anni�. Per questo gli intellettuali sovietici si trovano di fronte ad un arduo compito nella battaglia per un rinnovamento ed un innalzamento della loro cultura.

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CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

E’ particolarmente utile e stimolante, per tutto il discorso fin’ora sviluppato, la lettura di due opere di Arcangelo Leone De Castris, l’una :”La critica letteraria in Italia dal dopoguerra ad oggi”268, l’altra :”Gramsci rimosso”269. Non ritengo di dovere operare arbitrarie, riassuntive e frettolose considerazioni sui contenuti dei due testi, operazione che, ovviamente, non potrebbe che essere approssimata e sbagliata ma intendo piuttosto soffermarmi, per ora, su alcuni aspetti, di particolare pregnanza e significato, che forniscono una luce del tutto nuova ed originale al lavoro di ricerca fin qui sviluppato. In ogni caso, seppure su due piani, uno più generale, l’altro di riferimento più puntuale e specifico all’indagine di alcuni aspetti dell’opera e della funzione “anticrociana” di singoli autori, mi sembra possano essere fornite prime, temporanee valutazioni che danno un’interpretazione ed una risposta, più adeguata, del ruolo e della funzione degli intellettuali italiani, a partire da quelli che si sono cimentati sull’arduo sentiero della poetica dal secondo dopoguerra. E’ un’ operazione che, evidentemente, non è nata né poteva nascere dall’estemporanea separazione e cesura con la particolare formazione e funzione storica degli intellettuali tradizionali, con le specificità del trascinamento dei retaggi nel tempo assimilati, le cui origini – circa il modo di costruzione e di funzionamento delle idee, i principali caratteri del cui ruolo storico, teorico, politico- non possono che essere rintracciati, in nuce, nel pregresso periodo del Risorgimento nazionale. Senza voler perciò ripercorrere il ricco tratteggio e la stroncante acutezza della prosa del De Castris mi sembra che, sinteticamente, alla fine come già nel corso della lettura dei testi, si possa pervenire alla sostanziale condivisione della

268

ed. Laterza, finita di stampare nell’ottobre 1991

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ed. Datanews la cui prima edizione è del Giugno 1997.

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correttezza del metodo interpretativo da lui proposto quando consiglia di avvicinarsi all’esame dei testi e delle opere affermando l’indispensabile necessità di storicizzazione, sempre decisiva nell’azione d’ indagine. Ove, come in passato di frequente è accaduto, non si decidesse di procedere con tale metodologia, ne deriverebbe l’ovvia conseguenza di una grave parzialità , un sostanziale errore equivalente all’occultamento della verità. In buona sostanza gli intellettuali italiani, secondo De Castris, hanno costantemente teso, dal dopoguerra ad oggi, con una maggiore o minore consapevolezza, a riproporre un proprio ruolo di diretta direzione sui processi storici ed economici reali. Si è trattato di un nuovo ed aggiornato crocianesimo- mai a parole riconosciuto- che, originato da un filone d’origine distintivo ha teso, di volta in volta in maniera più o meno elaborata, a far prevalere “lo spirito di scissione”,ovvero la funzione di distinzione e separazione più che la ricerca paziente, coerente ed originale dei punti di tendenza alla coesione. L’assillo a rimarcare, come indispensabile ed insostituibile, il ruolo di direzione di un ceto su tutte le forze economiche e sociali, tendenzialmente progressive, ha da un lato fatto emergere l’astoricizzazione degli eventi e delle funzioni della letteratura, riducendo la comprensione a parzialità, dall’altro ha continuato a produrre nette cesure e separazioni di ruoli e funzioni destinate, nei passaggi politici e storici più significativi della storia nazionale, a sfociare- di frequente- in manifestazioni di pura conservazione, di oggettivo aiuto al mantenimento delle fisse gerarchie e dei poteri di guida da parte dei blocchi dominanti che , così, non risultavano in alcun modo scalfiti. In tal senso la funzione progressiva che, in altra sintonia ed in un diverso rapporto coi processi reali pur poteva essere socialmente dispiegata, si è esaurita consumandosi. Il lavorio di questo ceto ha, in sostanza, rallentato e, non di rado, addirittura ostacolato il conseguimento dell’autonomia teorica, politica, concettuale e quindi operativa dei produttori di materialità frenando, nei fatti, tutte le potenzialità esistenti per l’affermazione del pieno dispiegamento della funzione storica di progressiva rottura di tutti i vecchi e consolidati equilibri d’ egemonia e di potere. Pagina 356


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L’astoricizzazione cosciente, le varie tendenze affermatesi già all’indomani dell’avvento del fascismo e l’intensità dei tentativi di una sua propria, diffusa capacità egemonica, di “direzione” e di “dominio”, non sono state accuratamente indagate nella loro originaria genesi storica ed hanno finito, anzi, per riprodursi, con tratti in apparenza distinti ma in sostanza comuni, inducendo ad una cosciente decapitazione delle potenziali alternative direzioni, progressivamente autonome e positivamente inclini all’attuazione di percorsi profondi di democratizzazione spinta dello Stato Nazionale. Scarsa capacità o autentica e pregiudiziale assenza di volontà nell’indagare l’humus profondo della storia culturale della Nazione e delle potenti forze in campo operanti per l’ affermazione dei postulati e delle funzioni egemoniche, sottovalutazione del ruolo delle Istituzioni nella definizione di massa di un arretrato”senso comune”, la cesura dell’indagine dell’opera dal suo contesto e dalla sua storicizzazione, la larga sottovalutazione del ruolo, di lungo periodo, della funzione di Benedetto Croce e dell’insieme dei tanti”piccoli intellettuali” che alla sua scuola si sono invece continuati a rapportare, tutto l’insieme di tali fattori ha contribuito a produrre, anche nel campo decisivo delle idee e del pensiero, un rinsecchimento, un impoverimento, una subalternità riprodotta. L’assunzione di una differente metodologia interpretativa, coerente ad un diverso filo interpretativo conduttore- frutto di un’accurata indagine di ricostruzione critica- è invece decisiva per comprendere meglio i processi avvenuti e per acquisire un metodo d’indagine e di lavoro, di tutt’altro segno, capace di determinare l’affermazione di nuove prospettive. Questo d’altronde era il metodo d’indagine di Antonio Gramsci, puntigliosamente proiettato, nella sua disperata e solitaria ricerca politica e teorica, all’individuazione delle cause della drammatica sconfitta storica del movimento operaio ed alla spiegazione, scientifica, di come ciò era potuto accadere. Gramsci non separa i piani, tende anzi ad unirli ed a collegarli tra di loro in un approccio di frequente interdisciplinare sebbene -com’è facile capire-con il ricorso ad uno stile non sempre,di per sé, immediatamente comprensibile ed esplicito. Egli avvia un’indagine foriera, sempre, di spunti ed intuizioni meritePagina 357


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voli di ulteriori, future puntualizzazioni ed approfondimenti. Interrelazione di questioni e problemi, rifiuto di fermarsi- nell’indagine- alla superficie delle cose,pedante individuazione di genesi e radici, proposizione di lavoro collettivo e di massa da parte dell’avanguardia rivoluzionaria del movimento, lo strumento del Partito quale Intellettuale collettivo, la nozione dell’egemonia

e

del

Blocco

Storico,

il

ruolo

del

Fordismo

e

dell’Americanismo, la funzione della Chiesa in Italia, le distinzioni tra Oriente ed Occidente sono solo alcune delle grandissime questioni dei”Quaderni” sulle quali De Castris ritorna nella convinzione che, al di là delle connotazioni e delle cicliche rappresentazioni agiografiche del pensiero e della funzione di Gramsci si sia, per più motivazioni, spesso dovute alla contingenza della battaglia politica immediata, troppe volte agito per la rimozione della radicalità del metodo d’indagine, d’interpretazione e di lavoro critico da lui effettivamente proposto. D’altra parte non è evidente, con ciclica e puntuale periodicità, come gli elementi di crisi in un movimento di massa progressivo si manifestino e crescano, per poi esplodere con clamore, quando si è ridotta e rinsecchita la capacità d’esercizio delle funzioni della critica alle tipologie di sviluppo per com’esse storicamente si manifestano? E non è abbastanza chiaro ed evidente come quando si determinano arretramenti e sconfitte, nelle forze più avanzate e progressive agenti all’interno della società nazionale, ciò è sempre causato da ritardi interpretativi e dall’erroneità di analisi sviluppate, preventivamente, in maniera sostanzialmente approssimativa o sbagliata? Non si può, in ogni caso, concludendo la ricostruzione proposta, sfuggire all’impressione della sussistenza di una forte parzialità e di profondi limiti che, a lungo, hanno continuato a persistere negativamente riducendo la capacità di corretta incidenza, nella concreta realtà, sui problemi che sono stati affrontati. E’ a lungo mancato, infatti, un quadro d’insieme di riferimento affidabile, preciso, compiuto e convincente sulle distinte articolazioni della società italiana di quegli anni e si è manifestata, spesso, un’incapacità di cogliere- tempestivaPagina 358


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mente- entità e qualità delle trasformazioni economiche,sociali, culturali, tecnologiche che si stavano preparando nel corpo più profondo della società italiana e che, da lì a poco tempo, si sarebbero esplicitate in tutta la loro, devastante portata. Gli studiosi dell’Italia contemporanea, ed in particolare quelli culturalmente e politicamente orientati a sinistra, mi sembra abbiano teso, in genere, a privilegiare- eccessivamente- l’indagine della storia politica ed istituzionale ponendo l’accento, in maniera pressoché esclusiva,sulle contraddizioni e le difficoltà della giovane Democrazia repubblicana. A parte sporadiche eccezioni, come il lavoro di Paul Ginsborg270, la storia recente del nostro Paese, in tutte le sue articolate sfaccettature, non è stata compiutamente analizzata e riscritta. La nostra società nazionale, negli anni 19501960, ha subito uno straordinario mutamento sul terreno economico e sociale che ha determinato radicali cambiamenti nel costume e nei modi di vita della popolazione. In quel decennio, anzitutto, la vita media si allunga da 64 a 67 anni per gli uomini e dai 67 ai 72 anni per le donne. Le abitazioni costruite annualmente passano , per l’intervento pubblico, da 100.000 a 300.000. Sono cresciuti, in maniera esponenziale, i processi di scolarizzazione, sia per quanto concerne la Scuola Media (da 17 a 30 alunni su 1000 abitanti) che le Scuole Superiori ( gli alunni, in media, raddoppiano in un decennio), pur in un contesto nel quale permane un numero ancora assai basso di iscritti all’università e, soprattutto, di laureati271. E’ proprio questo uno degli aspetti e dei problemi di maggiore rilievo che, nei decenni successivi, si è trovato di fronte l’Italia. E’ apparsa evidente l’incapacità di rispondere, in modo adeguato, ai crescenti problemi determinati dalle forti spinte produttive, dalle domande poste

270

Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, ed. Einaudi

271

Chi intendesse ricostruire con accuratezza il grado di alfabetizzazione e di frequenza delle scuole di ogni ordine e grado, di quegli anni o per quegli anni in Italia, col dettaglio delle materie e delle specializzazioni scelte dalla popolazione scolastica può consultare le fonti ISTAT che forniscono, al proposito,la dettagliatissima ricostruzione della situazione del Paese.

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dall’accelerata crescita tecnologica con adeguate professionalità, soprattutto nel campo tecnico e scientifico, problema che ancora oggi si fa fatica a recuperare rispetto ai Paesi più avanzati e progrediti d’Europa e del mondo. L’Italia è stata ed è, comunque, un paese sottoposto ad un processo rapido e tumultuoso di trasformazioni pur in presenza dell’antica ed irrisolta contraddizione nel rapporto tra Nord e Sud. In ogni caso non si erano, dallo Stato Unitario in avanti, mai verificati cambiamenti di tale intensità. Questi limiti politici e culturali sono stati indubbiamente frequenti. Della ricostruzione accelerata del paese, della filosofia ispirativa che l’ha guidata si è discusso poco ed a volte in modi superficialmente liquidatori anche da parte degli intellettuali più avvertiti. Le intuizioni anticipatrici di Franco Fortini che, come si è visto, ha insistito molto sul salto di qualità strutturale determinato dalla nascita e dallo sviluppo dell’impresa culturale, sono state , di frequente, sottovalutate. Le modificazioni dei modi di vita e di pensiero sono state ulteriormente condizionate dal nuovo e socialmente sconvolgente fenomeno dell’apparire della televisione e dei nuovi strumenti di comunicazione di massa che hanno determinato una nuova e diffusa rivoluzione culturale e sociale,. Anche questa dimensione, del tutto innovativa, che si è capillarmente ed in profondità riflessa sul complesso della popolazione, non è stata immediatamente percepita ed interpretata nella sua più profonda e radicale accezione. Rispetto ai fattori, non interrompibili, di progresso scientifico e tecnologico che andavano epidermicamente diffondendosi , di frequente ci si è trincerati dietro improponibili forme di preconcetta resistenza che, necessariamente, dovevano finire per risultare- alla verifica dei fatti- velleitarie ed antistoriche. Su tali limiti potranno avere senz’altro concorso le specificità dei percorsi formativi dei ceti e dei gruppi sociali di cui, in questa trattazione, ci si è occupati. Può

senz’altro

aver

svolto

un

ruolo

frenante

la

diffusa

ostilità

all’industrialismo, il retaggio romantico ed improponibile di malinconica nostalgia per la più semplice e decifrabile società contadina. Gli investimenti dello Stato in ricerca ed in formazione permanente sono stati e sono, ancora oggi, per quantità, assolutamente risibili, soprattutto se confrontati a quanto è conPagina 360


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temporaneamente avvenuto nei Paesi più avanzati in Europa, negli U. S. A. ed in Asia. E’ questo un grave gap negativo che il nostro Paese continua a trascinarsi e che, se non rapidamente corretto, rischia di indebolire e rendere fallimentare l’azione tenace, di recente profusa, per pervenire ad una reale, equilibrata e stabile integrazione dell’Italia in Europa. L’idea essenziale su cui ci si è voluti prevalentemente caratterizzare è stata però, a me pare, la riproduzione, almeno apparente, di un’ideologia dell’opposizione impregnata, troppo sistematicamente, da connotati ideologici tutt’interni alla visione del mondo duale e bipolare. Per tentare di saldare tale scissione si sono impegnati i ricercatori del Censis e Giuseppe de Rita. Essi hanno creato un “Archivio di fonti orali sulla Storia economico-sociale dell’Italia degli anni 50”. L’archivio è un indispensabile strumento per saldare una parzialità ed anche per risollevare, problematicamente ma costruttivamente, un limite originario, cui in premessa ci si è ripetutamente riferiti, circa le peculiari caratteristiche della formazione degli intellettuali italiani ed, in genere, dello stesso gruppo dirigente del PCI del tempo. Alla verifica dei fatti si è dimostrato come il problema del governo e della gestione dello Stato non possa prescindere ed anzi obblighi all’accurato lavoro di costruzione di gruppi dirigenti diffusi, dislocati in ogni articolazione della società, capaci di cimento diretto coi problemi della gestione della produzione e del mercato, in tutte le sue dinamiche di costante cambiamento ed evoluzione, problema questo che appare, tuttora, di cogente attualità. Per quanto infine attiene una conclusiva, seppur parziale valutazione, alla luce delle fonti consultate, sulla bontà, l’efficacia ed i limiti della politica culturale sviluppata dal Partito Comunista Italiano dal secondo dopoguerra ai principi degli anni ‘60, non mi sembra sia possibile esimersi dal rilevare che la tendenza, di volta in volta manifestatasi- in maniera più o meno accentuata- al richiamo all’ordine, alla netta chiamata a raccolta – disciplinata e spesso subalterna – Pagina 361


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delle forze più avvertite e progressive della cultura Nazionale spesso ha finito per vanificare il raggiungimento dei risultati che ci si era proposti. La ciclica sostanziale stroncatura di tutto ciò che appariva “difforme” perché non assolutamente integrabile in precisi archetipi e riferimenti, ha anzi prodotto non irrilevanti lacerazioni, danni e distacchi.Si può in sintesi sostenere che l’aver ricercato, di frequente, adesioni subalterne, da parte della differenziata pluralità delle forme espressive, è stato un limite. Inoltre l’aver tentato di ridimensionare alcune importanti manifestazioni di distinzione e d’autonomia, di per sè indissolubilmente proprie dei caratteri specifici della ricerca artistica e culturale, la tendenza a giudicare nel merito in conformità ad un modello sostanzialmente fisso ed a lungo immobile, perché astoricamente riproposto, ha ostacolato il pieno dispiegamento di tutte le possibilità d’espansione egemonica. E’ mancata una sufficiente attenzione ed un più accorto equilibrio nella necessaria ricerca di convergenze e relazioni con la pluralità di forze espressive che si manifestavano,in quanto tali, in Italia ed in più punti della stessa Europa. Avrebbe dovuto, invece, essere limpidamente assunta, sostenuta e difesa la posizione di pieno e non ambiguo sostegno al dispiegarsi dell’autonoma ricerca critica, senza schemi rigidamente predefiniti. Ciò avrebbe senz’altro consentito

che, nel

pieno rispetto del riconoscimento delle reciproche autonomie, della funzione della politica e della cultura, piuttosto che la riproposizione di “neoseparatezze”, si affermasse una ben più nitida ed efficace messa in luce delle profonde differenze esistenti tra le forze di sinistra e quelle dei Governi del tempo che si fronteggiavano scontrandosi. E’ assai probabile che, a fronte delle esplicitazioni delle differenze, nette, che si evidenziavano sul modo di interpretare e gestire i rapporti con le forze intellettuali del secondo dopoguerra, queste ultime – di per sè – non avrebbero che potuto esplicitamente apprezzare e sostenere un impianto di linea teorica e politica fondata sul rispetto e la tolleranza piuttosto che un’altra impostazione, boriosa e sprezzante, che – in sostanza – si era seccamente pronunciata circa l’inutilità della loro funzione.Nel tempo presente nessuno potrebbe ragionevolmente riproporre alcun’ invadenza o giudizio vincolante e dirimente della politica sull’arte e la cultura o, addirittura, attuare scomuniche ed ostracismi di qualsiasi forma e natura. E’ finalmente del tutto Pagina 362


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acquisito, e non più in discussione, il concetto per cui sono soltanto il pubblico ed il mercato i referenti e discrimini, unici, per valutare bontà ed efficacia di un prodotto artistico, letterario, culturale. Il giudizio che, legittimamente, singole forze o personalità politiche possono esprimere, non può né deve in alcun modo essere inteso come atto vincolante o condizionante rispetto ad una valutazione d’insieme.Una tale accortezza e lungimiranza, che oggi può apparire del tutto ovvia e che avrebbe potuto evidenziare meglio la peculiarità e l’ unicità dell’esperienza dei comunisti italiani, in sostanza non si ebbe. Si è potuto registrare, nella ricostruzione in questa sede proposta, come le pur felici intuizioni d’alcune singole personalità illuminate non riuscirono a permeare, a lungo ed in profondità- di tale segno- la linea politica e le scelte ufficiali del partito. Da qui ritardi, ripiegamenti, ritorni e mutamenti, disinvolte ricollocazioni d’individualità e di gruppi intellettuali che alla sinistra si erano riferiti, crisi e rotture rientrate, calcolate adesioni, cambiamenti di posizioni e sistemazioni scientemente subalterne, di frequente, all’adesione- cosciente- ai poteri forti costituiti. In tal senso riproposizione, interessata, di sé come “ceto” non solo separato ma disponibile, frequentemente, all’esplicito fiancheggiamento dei poteri economici dominanti cui fornire anche un’aggiornata, nuova, legittimità teorica e storica.

GLI INTELLETTUALI E LA POLITICA, RAPPORTO E COSTANTE CONTRADDIZIONE, DAL DOPOGUERRA AD OGGI, IN ITALIA. Cosa si può allora conclusivamente osservare sull’annosa questione, ancora oggi irrisolta, del rapporto tra politica e cultura e tra intellettuali e politica?. C’è stato, anzitutto, tra i due mondi, una difficoltà di relazione, di comunicazione “ linguistica”, nel senso che l’esigenza di immediatezza, quasi brutale, assieme al bisogno di nitida comprensibilità del linguaggio politico mal si conciliavano con l’ovvia provvisorietà temporale della produzione, dell’elaborazione e della creazione intellettuale.Quest’ultima è,infatti, di per sé, come si è già accennato, incline al dubbio, alla parzialità ed alle incertezze. I suoi elaborati messaggi, nella loro limitata temporalità , spesso sono in dissintonia con indirizzi e diretPagina 363


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tive generali sintetiche e circoscritte. Come si è visto il rapporto tra intellettuali e politica, ed in specie con la sinistra comunista, si è sempre configurato come piuttosto “ ondivago”, nel senso che si sono periodicamente succedute fasi di esplicita ricerca di relazione e convergenza con altri periodi di assenza, quasi assoluta, di confronto e comunicazione che hanno così finito per produrre, addirittura, separazioni e distacchi. In un certo qual senso si può, a me sembra, ragionevolmente sostenere che gli intellettuali hanno, epidermicamente e poi scientemente, avvertito un approccio del Partito verso di loro sostanzialmente occasionale e tattico. Non si è cioè “sentita” l’esistenza di una limpida scelta di raccordo e relazione, costante e strategica, in grado di superare l’occasionalità di incontro limitata a periodi e situazioni specifiche contingenti. E’ piuttosto avvenuto, ed ancora oggi accade, che i confronti e le convergenze tra questi due distinti mondi, convergenti o configgenti, della politica e della cultura, si siano verificati soltanto in momenti e fasi di particolari tensioni ed incertezze per le prospettive del Paese. Non ci si può invece limitare all’estemporaneità di circostanze occasionali nelle quali, per più ragioni, appare indispensabile sviluppare tentativi di apertura al mondo esterno per uscire dalle secche e dall’isolamento nelle quali gli avversari tentano di relegare in modo definitivo. Un’occasionalità ed un tatticismo, quindi, che- nel tempo analizzato in questa trattazione- non poteva non essere percepito come tale da coscienze, di per sé , portate alla pratica costante della criticità. La tesi della parzialità e dell’incompletezza sembra potersi ancora più decisamente confermare se si osserva la sostanziale diffusa assenza o sottovalutazione riscontrabile, anche nella lettura degli atti ufficiali , nel modo in cui è stato considerato il peso ed il ruolo delle scienze economico- sociali.Le posizioni ufficiali, di gran lunga prevalenti in tutti quegli anni, hanno esplicitamente evidenziato questo limite con consequenziali riflessi sulle scelte politiche assunte e praticate. Non sembra così contestabile l’assioma che tali discipline non siano state presenti, in maniera distintiva, tranne sporadiche e limitatissime eccezioni, nel patrimonio genetico del Partito, accentuandone lo squilibrio d’impostazione col netto prevalere, sul piano politico e culturale, di posizioni di chiara ispirazione filosofica ed umanistica. Ciò ha probabilmente concorso, in maniera decisiva, a rallentare il proPagina 364


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cesso di tempestiva e anticipatoria comprensione delle linee di tendenza sulle quali andava invece ristrutturandosi e riorganizzandosi , complessivamente con le sue funzioni ed i suoi limiti, il capitalismo italiano, europeo e mondiale. Limiti e parzialità delle analisi proposte che, così, concorrevano a protrarre, nella società italiana, un fattore di altera “ diversità”, spacciato, con sufficienza, come ingiustificata superiorità..Il punto è che

parzialità ed autentici errori

d’analisi concorrevano a delineare una fisionomia ed un’identità non occasionalmente difforme dal riformismo tipico dei partiti e dei movimenti propri delle situazioni nazionali più avanzate e progredite dell’Europa. Così, in conclusione, se si fa eccezione per un piccolo e ristretto nucleo di “ specie protetta”, che di buon grado aveva aderito all’idea di operare come “ intellettuale organico” ed ha avuto perciò tutt’intera la possibilità di agire svolgendo funzioni direttive nel campo della politica e della gestione con l’attivo concorso alla diretta decisione, non si è mai potuto creare un rapporto corretto e costante, di vero e reciproco fecondo arricchimento tra intellettuali come massa e politica, tra politica e cultura. Fatta eccezione , si diceva, di un piccolo gruppo di economisti, di dichiarato orientamento marxista, di per sé relativamente isolato dal complesso del mondo accademico si è, in sostanza , determinata e riproposta una sostanziale assenza di dialogo e scambio di informazioni ed elaborazioni, dagli intellettuali alla politica da cui quest’ultima avrebbe, invece, dovuto attingere a piene mani per aggiornare, rielaborandola criticamente, analisi della società e sue tendenziali genetiche mutazioni. Così si è finito per non rafforzare l’agire concreto della politica e si è anzi manifestata una seria difficoltà nella definizione di scelte e

priorità. delle linee d’azione di volta in volta individuate. Questa

cesura ha pesato e pesa, ancora oggi, profondamente. Anche perciò, come si è detto, di frequente la politica ha finito per assumere una forma ed una fisionomia che degrada su terreni di scontri e personalizzazioni improprie concorrendo ad allontanare i cittadini dall’attiva partecipazione alla vita pubblica. D’altra parte quando molti intellettuali, in tempi anche più recenti di quelli su cui nella ricostruzione proposta ci siamo dilungati, hanno deciso di scendere in politica , anche nella fase ultima post svolta, in relazione alla nascita della nuova formazione politica dei D.S., hanno finito per farlo non nei termini di dare un contriPagina 365


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buto in relazione alla specificità delle loro conoscenzaee delle loro autonome elaborazioni intellettuali quando, piuttosto, nelle forme dirette e proprie della politica tradizionale, dei suoi rituali, dei suoi linguaggi, dei suoi classici comportamenti e delle sue peculiari e spesso consunte specificità. Hanno deciso cioè di non essere più filosofi, economisti, sociologi bensì politici, spesso del tutto omologati. E’ mancata la capacità di incontro e rispetto vero dei ruoli, delle funzioni e delle distinte specificità che, mantenendosi in quanto tali, ed essendo assunte per quello che effettivamente erano ed apportavano di nuovo ed originale avrebbero, di certo, concorso a determinare le innovazioni di cui la politica nazionale aveva vitale bisogno. Sarebbe stata ed è tutt’ora necessaria, invece, una feconda convergenza tra politica e cultura, tra intellettuali e politica , senza confusione e soprattutto, priva di qualsiasi commistione. La differenza , che c’è, tra politica come professione e cultura come professione va compresa e mantenuta senza conflitto e sovrapposizione alcuna. La ricerca deve essere favorita, sollecitata ed intensificata sempre. Essa deve produrre, con periodicità e frequenza, novità ed anticipazioni che aprano squarci di luce e di speranza per il futuro umano, nei campi più molteplici e diversificati. Il politico, in relazione agli avanzamenti della cultura, deve conoscere, aggiornarsi continuamente , proporre misure ed interventi organizzativi e legislativi idonei che mettano a frutto, al meglio, il lavoro culturale che si è scientificamente ed impegnativamente sviluppato. Tanto meglio se la novità e la serietà delle nuove elaborazioni concorrono ad innovare, periodicamente, il carattere e l’identità distintiva della forza politica o della coalizione di riferimento.Fatta questa dovuta precisazione è però il caso di aggiungere che la politica, per non continuare a scadere sempre più di frequente sul terreno del piatto politicismo, ovvero alla riduzione a mera gestione, non può che trarre linfa ed ispirazione da forti riferimenti ed ispirazioni culturali ed ideali di fondo, da una visione del mondo, da una strategia, da un progetto diffusamente discusso e condiviso, essenzialmente intriso di un’ispirazione intensamente solidale, che costituisca lo sfondo obbligato per ogni scelta particolare. Trarre quindi sempre ispirazione da riferimenti culturali forti che orientino, nell’interesse generale, di volta in volta, le scelte particolari da perseguire. Certo oggi la situazione appare del tutto diversa Pagina 366


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da quella degli anni che sono stati toccati in questa trattazione. Si pensi soltanto all’enorme sviluppo della rivoluzione tecnologica ed informatica, alla possibilità che ci viene fornita dell’immediata tempestività e contestualità della circolazione delle informazioni a livello dell’intero pianeta. Permangono, al solito, enormi possibilità di ulteriore sviluppo e progresso umano, ma anche , dilatato , appare all’orizzonte un crogiuolo di nuove ed inedite paure e contraddizioni di fronte a cui si ritrova, spesso sempre più solo e smarrito, l’uomo che vive nella società contemporanea. E’ una contraddizione vera che procede mischiandosi alle contestuali possibilità di ulteriore crescita della civiltà umana. Problemi di tale rilievo e complessità che, individualmente, nessuno- in assenza di relazione con gli altri- può sperare di affrontare e risolvere positivamente. Per questo serve serietà, rigore, umiltà, ricerca collettiva in grado di delineare nuove strade e differenti orizzonti.Deve stare in campo, con tutta la sua positività ed ottimistica energia, la riaggiornata capacità di uomini che non temano il cimento col futuro e le sfide, inedite, che esso ci ripropone ma che, con pazienza tenace siano capaci di riprendere il meglio della tensione etica, politica, morale, che le generazioni di quel periodo analizzato- nelle loro avanguardie- ci hanno proposto.Una sfida da assumere, percorrere, praticare pienamente.Credo in ogni caso , e davvero conclusivamente, che non possa essere omessa una riflessione, con la proposizione di una personale convinzione e di un deciso auspicio.Una idea nuova, direzioni anche inesplorate di ricerca, quasi mai sono accompagnate da un riconoscimento immediato e positivo. In troppi casi bisogna mettere nel conto tempi, anche molto lunghi, di opposizione ed anche percorsi solitari. A volte non è sufficiente neppure un’intera esistenza. Non basta una vita. Bisogna esserne pienamente coscienti, soprattutto da parte di chi si dedica agli studi di determinati periodi storici per coglierne insegnamenti utili che aiutino a tracciare una strada progressiva per l’oggi e per il prossimo futuro. Chi studia e si impegna con rigore per difendere le convinzioni e le idee di cui è persuaso, non svendendole, deve mettere nel conto tutto ,finanche la possibilità di una propria radiazione, di fatto, dai ruoli che ricopre. Il punto vero è non abdicare, mai, alla difesa dell’indipendenza delle proprie convinzioni e delle proprie scelte, mettere nel conto contrasti, conflitti, amarezze ed anche fasi di costrizione a continPagina 367


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gente isolamento dovute alla testarda tensione del non aver rinunciato alla difesa della propria individuale libertà, pur nella consapevolezza dei limiti e degli steccati oggettivi che, sempre, verso e contro questa parola, si tende da più parti ad elevare. Non demordere ed anzi difendere, con ogni energia tale convinzione, è il messaggio positivo da cogliere ed interpretare, in maniera aggiornata, a fronte degli esempi importanti di cui è stato intessuta la trama ricostruttiva che si è tentato di proporre, con la provvisorietà e l’ovvia parzialità di queste note, alla pubblica attenzione del lettore.

Oggi – in una fase del tutto diversa da quella che fin’ora è stata descritta, acute inquietudini si moltiplicano tra masse sterminate di esseri viventi in ogni parte del Pianeta. Avanza una progressiva mancanza di senso, di coesione, di relazione, chiaro sintomo del più generale disequilibrio tra Uomo e Natura. L’irrisolto rapporto, spesso di conflitto, con l’ambiente si ripropone – costantemente- in maniera molteplice lasciando, nell’essere vivente, tracce profonde della consunzione di espressioni armoniche perdute. Scompaiono forme di vita animali e vegetali millenarie, antiche culture minoritarie si dissolvono. Si sfumano tutti i fattori di coesione conosciuti nella tragica ed esaltante storia del Novecento. La fase attuale della vita umana, soprattutto nell’Occidente progredito, sembra caratterizzata da un tumultuoso processo in cui tutto , rapidamente, si consuma. Il rovinoso crollo delle ideologie non è stato ancora sostituito da una nuova Civiltà, da un più giusto Governo politico mondiale in grado di superare le più stridenti contraddizioni. La globalizzazione esplicita l’interconnessione di processi sovranazionali e mondiali ma non si combina con contemporanei interventi , di dimensione planetaria , capaci di vincere vecchie e nuove ingiustizie. Ciò e’ riscontrabile su ogni piano economico, civile, culturale. Conseguentemente le azioni in grado di prevenire la deflagrazione di molteplici e tragici conflitti, causati dal Nazionalismo e dallo Sciovinismo nelle aree di maggiore criticità del Pianeta, non risultano adeguatamente forti e dissuasive. La politica, di frequente schiacciata sulla meschina dimensione della cronaca, si mostra ancora troppo spesso priva di nobili ispirazioni strategiche, Pagina 368


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fondate sulla difesa e lo sviluppo originale di valori profondi e condivisi. Il filosofo Reinhard Lauth ha mirabilmente sintetizzato ciò sostenendo che “Oggi i problemi si affrontano empiricamente; l’approccio è difettoso poiché viene a mancare una visione d’insieme sistematica”. La partecipazione alla vita pubblica , in modo non casuale, decresce verticalmente. Stridenti appaiono i fattori d’incomunicabilità e chiusura nelle relazioni tra ceti e gruppi sociali differenti ma la consapevole comprensione della pericolosità di questo dato è troppo debole ed insufficiente. Più fattori hanno concorso al preoccupante processo di decadimento dello spirito pubblico. Il nuovo Millennio ci consegna questo scenario che, positivo per le incredibili conquiste scientifiche e tecnologiche realizzate nel ‘900, appare contestualmente raccapricciante e gravido d’incognite. Del tutto inimmaginabili sembravano, solo pochi anni fa, le dimensioni qualitative e repentine delle trasformazioni cui abbiamo assistito. Si è avuta l’immensa crescita della mobilità di merci, notizie, uomini, capitali ma la finanziarizzazione dell’economia si è svolta senza condizionamenti e controlli. La sconfitta di secolari malattie ha determinato la straordinaria crescita della popolazione del Pianeta. Gli Stati Nazionali in Occidente hanno finito per accentuare proprie fisionomie multietniche. Attuale è però il rischio di più acute divaricazioni tra Paesi progrediti e poveri ed all’interno dei singoli Stati. C’è una difficoltà estrema a districarsi nel labirinto di un mondo sempre più “ grande e terribile” ed il destino umano appare sospeso tra sviluppo e regressione barbarica. L’agire politico avrà senso se riuscirà a risollecitare entusiasmi e speranze liberandosi al massimo, ovunque, di localismi, provincialismi, eccessi di deprimenti personalizzazioni. La formazione, selezione, il rinnovamento delle future classi dirigenti si dovrà realizzare in base all’effettiva, oggettiva esistenza dei requisiti di verificata capacità, competenza e di profonda passione civile. Il loro coordinato agire dovrà identificarsi con l’esclusiva difesa dell’interesse pubblico e caratterizzarsi, ovunque, per la capacità di tutela degli essenziali ed inalienabili diritti di giustizia e libertà dell’uomo in ogni angolo del globo. Le risorse finora destinate alle armi distruttive dovranno essere gradualmente utilizzate per favorire la crescita

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scientifica, tecnologica, civile di tutti i Paesi e le aree in ritardo di sviluppo per le quali va attuata la generale sanatoria del debito contratto. L’insieme delle forze di progresso, a partire da quelle europee, dovrebbero ricercare- su questi piani- le necessarie sintonie e convergenze. Un’azione ispirata dalla forza di tali valori può, coerentemente, cimentarsi su ogni questione particolare che intenderà affrontare e sperare, ancora, di poter coinvolgere e mobilitare energie straordinarie capaci di concorrere alla trasformazione - in meglio – del mondo in cui viviamo. Come avvenne nel campo della Politica e della Cultura, in Italia, nell’arco temporale del periodo che abbiamo inteso, per grandi linee tratteggiare in questo lavoro. In ogni caso, riflettendo sui caratteri originali della ricca esperienza di quella fase, capitalizzando quell’insieme di generosi tentativi e tutto il meglio di quelle esperienze, bisogna fare in modo di riprendere un cammino, da qualche tempo interrotto, capace di risollecitare, potentemente, energie, fiducia, forza critica diffusa.I prossimi decenni ci propongono la straordinaria sfida, già in atto, di costruire una nuova, più forte e coesa unità nazionale, da più parti periodicamente rimessa in discussione, ed insieme di dar vita ad una nuova comune identità, continentale ed europea, quale non si è mai verificata nel nostro secolare passato, garante del mantenimento della pace ed artefice di un ulteriore avanzata della civiltà e della giustizia per il genere umano. Davanti a noi c’è un percorso inedito ed in larga parte inesplorato. Guai ad affrontare questa grande prova rinunciando ad un nuovo impegno per la crescita d’uomini e donne che oggi possono essere disponibili, in una cosciente e nuova consapevolezza, all’individuale, attiva e protagonista responsabilità. Di un nuovo fervore etico , politico, culturale s’avverte, diffusamente, il bisogno.

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INDICE DEI NOMI

Ajello Nello, 50,96,97,130, 141, 254, 280, 281 Ajmonino C., 254 Alatri Paolo, 216, 281 Alberti Rafael, 78 Alexandrov G.F., 327 Alicata Mario, 33, 36, 50, 58, 78, 82, 83, 87, 90, 105, 107, 113, 139, 146, 178,179, 180, 181, 182, 183, 219, 225, 245, 247, 264 Alinovi Abdon, 183, Aloisi Massimo, 51, 300, 301, 302 Alvaro Corrado, 113,141 Amendola Giorgio, 18, 19, 20, 21, 22, 25, 31, 51, 182, 183, 187, 188, 192, 241, 243, Amodio L, 226, 248, 254 Angelici Pietro, 131, 135 Anghelopulos Theodoros, 37 Angelucci L., 254 Angioletti G.B., 157 Antoni Carlo, 159, Antonicelli Franco, 284 Antonioni Michelangelo, 318 Antoniozzi, 187 Aragon Louis, 87, 94 Argan G.C., 216, Aristarco Guido, 318 Asor Rosa Alberto, 37, 42, 44, 45, 88, 120, 202, 207, 224, 254 , 259, 260, 261, 262, 263, 264, 265, 266, Badaloni Nicola, 95 Balbo Felice, 78 Balzac Honorè de, 112 Bandinelli Ranuccio Bianchi, 93, 94, 134,157,157, Banfi Antonio, 51, 89, 129, 136, 166, 167, 168,169, 170, 171,172, 278, 279, 280, 284 Barca Luciano, 130 Bartok Bela, 134 Basevi P., 253 Belli Gioacchino, 283 Benzoni , 21 Berlinguer, 184 Bernari Carlo, 51, 284 Bertelli C., 253 Bertelli S., 253 Pagina 376


sabato 7 gennaio 2017 - Piero Lucia

Bilenchi Romano, 94, 216, Birilli, 278 Blasetti A., 110 Bo Carlo, 78, 116 Bobbio Norberto, 36, 37, 39, 63, 64,156, 157, 165,199, 220, 225, 303, Boffa Giuseppe, 48 Bollino A., 254 Bollino G, 253 Bollino P., 253 Bompiani Valentino, 284 Bonaccioni L ,254 Bonomi Ivanoe, 65 Boringhieri ed., 133 Boriosi, 278 Bosco Giovanni don, 170 Bottai Giuseppe, 34 Bracchi Giorgio, 300 Brecht B., 89 Brelich Angelo, 134 Bretoni G. , 253 Bruno Giordano, 180, Brusolin D., 254 Bufalini Paolo, 51 Busetto Italo, 278, 279 Cacciatore Giuseppe, 68, 70 Cafagna L., 253 Cagnetti F, 253 Calabrese A., 253 Calamandrei Franco, 78 Calogero G. , 151 Calvino Italo, 51, 74, 78, 113, 138, 139, 152,194, 222, 247, Campagna G. , 253 Campanella Tommaso,180, Candeloro G., 254 Canocchi M., 254 Cantimori Delio, 51, 78, 96, Canzio Stefano, 284 Capitani Eugenio, 283 Caprifoglio S., 226 Caproglio Sergio, 248 Caracciolo Alberto, 224, 253 Carandini, 151 Caratasse, 280 Carbone G, 253 Carducci Giosuè, 88, 203, Carli Guido, 22 Carocci G., 220 Pagina 377


sabato 7 gennaio 2017 - Piero Lucia

Cases Cesare, 216, Casiraghi Ugo, 314, 315, 316, 317 Cassirer Ernst, 61, 134, Cassola Carlo, 37, 266 Catalano Giuseppe , 76, 308 Cattaneo Carlo, 75, 89 Cattani Leone, 151,154, 162, Cavalieri D., 253 Cederna Antonio,152,153, Cedrino G., 253 Cervi Gino, 111 Cesarini, 225 Chiarini C., 254 Chiarini Luigi, 318 Chiaromonte Gerardo, 183, 190, 191, 192, Cicerchia C., 253 Ciliberto, 95 Cinese ed., 135 Cirri Graziano, 308 Colajanni F., 253 Coldagelli U., 253 Colletti L., 253 Compagna Francesco, 150, 174 Corbino Epicarpo, 27 Courbet Gustave, 326 Crisafulli V., 254 Crispo D, 254 Croce Benedetto, 36, 37, 39, 48, 53, 55, 56, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 88, 89, 93, 96 , 99, 112, 119, 128, 130, 133, 139, 140, 141,166, 175, 179, 195, 245, 321, 331 D’Amati D., 254, 272 D’Ambrosio, 278 D’Amelio G., 253 D’Anna ed., 129 D’Annunzio Gabriele, 88 D’Antonio Mariano, 183, Darendhorf Ralf, 165 Debenedetti G., 75 De Caprariis Vittorio, 150, 160, 174, De Caro G., 253 De Castris Arcangelo Leone , 37, 329, 330, 332 De Felice Renzo, 224, 253 De Filippo Eduardo, 113 De Florentiis, 278, 296, 297 De Gasperi Alcide, 15, 24, 28, 31 , 215, De Gaulle Charles, 255, 256, 257, 258, De Grada, 280 Pagina 378


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De Laurentiis Dino, 106 De Marsanich G., 254 De Martino Ernesto, 131, 133, 134, De Martino Francesco, 30, 182, De Micheli Mario, 325 De Rita Giuseppe, 334 De Sabata Venzo, 325 De Sanctis Francesco, 36, 39, 57, 64, 89, 99, 133, 139, 161, 182, 193,195, 245, De Sanctis Giuseppe, 105, 110 De Sica Vittorio, 105, 106, 108, 109, 111, 112, 314 Del Boca Angelo, 78 Del Buono Oreste, 78 Del Carria Renzo, 37 Del Guercio C., 253 Del Zozzo Piero, 308 Della Giusta, 278 Della Verde P., 253 Della Volpe Galvano, 198 Delogu Ignazio, 183 Di Cagno N., 253 Di Vittorio Giuseppe, 24, 31, 112, 142, 145, 223, 287, 288, Diliberto Michele, 70 Dirgilio D., 254 Donini A., 122 Dorso Guido, 183, 261, Dossetti Giuseppe, 25, 31 Dostojevski F. 78, 325 Durbè D., 254 Durkheim Emile, 134 Duvignaud , 257 Ehremburg Ilia, 326 Einaudi Giulio, 100, 112, 128, 129, 131,148, 178, 182,194, 214, 224, 225, 284 , 285, 332 Einaudi Luigi , 17, 47 Eisenhower Dwight Davis, 25 Eisenstein Sergei Michajlovic, 326 Eliade Mircea, 134 Eliot Thomas Stearns, 129 Elkin Adolphus Peter, 134 Eluard Paul, 89, 94 Engels Friedrich, 36, 48 Esenin S. A. 94, 326 Facchi , 28 Falaschi, 77 Fanfani Amintore, 28, 29, 215, Fasano G., 254 Fasoli F., 253 Pagina 379


sabato 7 gennaio 2017 - Piero Lucia

Fazio F., 253 Fenoglio Beppe, 73 Fergnani F., 320 Ferrara Mario, 149 Ferrata Giansiro, 36, 78, 278 Ferretti Giancarlo, 194,196, 253 Ferri Franco, 122 Fiore Tommaso, 261, 303 Fiori Giuseppe, 123 Flaiano Ennio, 150 Fleming D.F., 17 Flora Francesco, 231, 232 Foa Vittorio, 185, Fontana B., 254 Formenti Luigi, 320 Forti, 84 Fortini F, 36, 37, 78, 86, 134, 193, 194, 198, 199, 200, 211, 212, 213, 214, 221, 223, 226, 248, 249, 250, 268, 269, 270, 333 Fragomeni C., 253 Franco F., 76 Franzinetti C., 254 Fratini G, 254 Freud Sigmund, 71, 114, 134 Frobenius Leo, 134 Frontali L., 254 Galante Piero, 304 Galasso Giuseppe, 150, 174 Galilei Galileo, 180, Galli G., 28 Gallinaro Maria Bianca, 94 Garaudy Roger, 87 Garcia Lorca, 89 Garin Eugenio, 43, 63, 64, 65, 71, 89 Garosci A., 78, 151, Garzanti ed., 268 Gatto Alfonso, 51, 78, 116, 278, Gava S.,187 Gedda, 91 Gentile Giovanni, 55, 58, 61, 63, 65, 68, 69, 70 Germi Pietro, 109, 314 Gerratana Valentino, 51, 122, 128, 148 Geymonat Ludovico, 51, 89, 246,249, Gide Andrè, 89, 235 Ginsborg Paul, 332 Giolitti Antonio, 51, 78, 216, 224 , 235, 236, 237, 238, Giolitti Giovanni,65, 161, 320 Godetti Ada, 308 Pagina 380


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Goethe J.W., 235 Gomulka Wladislaw, 252 Gorkij Maksim, 326 Gorresio Vittorio, 150, Gramsci Antonio, 19, 32, 35, 36, 39, 55, 58, 61, 78, 89, 97, 99, 117, 119, 120, 121, 122, 123, 124, 125, 126, 127, 130, 131, 133, 139, 146, 161,170, 180, 183, 195, 196, 197, 203, 204, 205, 207, 209, 210, 239, 245, 246, 262, 263, 264, 266 , 272 , 275, 284, 285, 320, 321, 322, 323, 329, 331, 332 Grassi G., 254, 280 Graziosi F., 254 Greppi, 278 Griffith D.W., 316 Grifone Lino, 283 Grifone Pietro, 183, Gronchi Giovanni, 25, 29, 31 Gruppi Luciano, 30, 46, 166, Guarino Alfredo, 315 Guidotti Mario, 308 Guiducci Armanda, 226 Guiducci Roberto, 221, 226, 248, 249 Gullo Fausto, 27 Guttuso Renato, 51, 77, 78 Hegel G.W.F.,61, 67, 70, 78, 257, Heidegger Martin, 78 Hemingway Ernest, 74, 78, 82 Hitler Adolf, 240 Hubert Henri, 134 Husserl E., 166, Iemolo Carlo Arturo, 78 Infeld L., 325 Ingrao Pietro, 51, 225, 239,240, Iovine Dina, 300 Jacobs Lewis, 316, 317 Jatosti A., 253 Jovine, 253 Jung Carl Gustav, 134 Kafka Franz, 78 Kant Immanuel, 61 Kirkegard Soren, 257 Kerenyi Karl, 134 Kossuth L, 229, Kruscev Nikita, 218, La Pira Giorgio, 215, Ladini E., 134 Labriola Arturo, 39, 48, 55, 89, 139 Lanza M.T, 254 Laterza G. 3.9, 53, 61, 63, 66, 68, 71, 123, 128, 182,329 Pagina 381


sabato 7 gennaio 2017 - Piero Lucia

Lattuada Alberto, 108 Lauro A., 191 Lauth Reinhard, 341 Lazzari Arturo, 283 Lazzaroni Giovanni, 283 Lenin V.I., 236, 237, Leonetti Francesco, 193,194, 195, 195, Lepre Aurelio, 123 Levi Carlo, 112, 216, 259, Levy Bruhl Lucine, 134 Limonati, 151, Lisenko, 281 Lizzadri Oreste, 185, Lizzani Carlo, 51, 78, 112, 318 Locatelli, 280 Longo Luigi, 114, 227, 228, 230 Luccardi G., 253 Lucignani L., 254 Lukรกcs Gyรถrgy, 78, 112, 195,198, 204, 225, 234, Luperini Romano, 34, 35, 102 Luporini Cesare,51, 70, 94, 95,96, 97, 99 Lusena L., 254 Luzi Mario,94, 194, Maestri, 280 Maggi, 95 Maiakovski Vladimir, 89, 94, 326, 327 Malagugini, 278 Malatesta G., 254 Malinovski Bronislaw, 134 Maltese C., 254 Manacorda Gastone, 51,95, 96 Manacorda Mario, 94, 95, 309, 310, 311, 313 Mancini Giacomo, 185, Manet Edouard, 326 Mangoni L., 95, 97 Mann Thomas, 9 Manzoni Alessandro, 89 Marchesi Concetto, 51, 78, 172, Marescotti, 278 Mari, 95 Marini Marino, 179 Marshall George Catlet, 16, 17, 20, 21, 22 Martelli A., 253 Marx Karl, 36, 48, 55, 70, 78, 114, 123, 126, 127, 264 Mastronardi Lucio, 148, Mauss Marcel, 134 Meccanico A., 253 Pagina 382


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Melograni P., 254 Merleau-Ponty, 257 Merlin A., 114 Messana Giuseppe, 313 Mibelli M., 254 Mila Massimo, 284 Milici M, 253 Mindszeenty J. , 230 Modica Enzo, 312, 313 Molè, 284 Momigliano F, 226, 248 Mondatori ed., 268 Monicelli Mario, 318 Montale Eugenio, 78, 89, 94, 115, 195, Montanelli Indro, 224, Morandi Rodolfo, 31, 185, Moravia Alberto, 112, 114, 150 Moroni P., 253 Mucchi, 278 Musatti R., 150 Muscetta Carlo, 51, 94, 95, 134, 216, 224, 253, 254 Mussolini Benito, 179 Nagy Emre, 229, 230 Napolitano Giorgio, 183, Natta Alessandro, 19, 20, 122 Nenni Pietro, 30,31 Nietzsche Friedrich Wilhelm, 71 Nitti Saverio, 27 Notarile Salvatore, 308 Occhionero L., 253 Olesa Jurij Karlovic, 326, 327 Olpi, 254 Onofri Fabrizio, 51, 225 Onori Fabrizio,78, 278 Paggi Leonardo, 44 Pajetta Giancarlo, 225, 278, Pallante Antonio, 23 Pannunzio E., 254 Pannunzio Mario, 111, 148, 150, 151, 175, 216, Panzieri Raniero, 36 Paparo F, 254 Papas Irene, 37 Papini Giovanni, 88 Papuzzi Alberto,39 Parenti ed., 100 Parri Ferruccio, 27 Pascoli Giovanni, 88, 203 Pagina 383


sabato 7 gennaio 2017 - Piero Lucia

Pasolini Pier Paolo, 193, 194, 195, 196, 197,198, 202, 204, 205, 207, 208, 209, 210, 211, 212, 213, 214, 266 Pasternack Boris,78, 226, 326, 327 Pastore Ottavio, 78 Pattani Ottorino, 283 Pautasso Sergio, 77, 84, 115 Pavese Cesare, 74,76, 78, 112, 131, 132, 133, 134 Pavolini Luca, 130 Peluffo Paolo, 22 Pertini Sandro, 23 Petofi S., 229 Petracchi G., 254 Petri E., 253 Petronio Giuseppe, 122, 312 Pettazzoni Raffaele, 134 Picasso Pablo, 89 Piccinini E., 253 Pintor Giaime, 44 Pintor Luigi, 51 Pio XII, 25 Pirandello Luigi, 124 Pizzorno A., 226, 248 Platone Felice, 21, 36, 128 Poggi Stefano, 61 Polidori C., 254 Pratolini Vasco, 46, 72,74, 259, 265, 284 Preti Giulio,78, 324 Prezzolini Giuseppe, 88 Proust Marcel, 88 Puccini D., 254 Pudovkin Vsevolod Ilarionovic, 326 Quasimodo Salvatore, 115, 116, 284 Racinaro Roberto, 43 Radice Lucio Lombardo, 40, 41, 51,148,296, 300 Radin Paul,134 Ragionieri Ernesto, 216, Rรกkosi Mรกtyรกs, 229 Rapisarda A., 150, Rea Domenico, 216, Reed John,82 Reichlin Alfredo, 51, 225 Renzi Renzo, 315 Repaci Leonida, 284 Rigetti N., 254 Rimbaud Jean Nicolas Arthur, 326 Rizzoli Angelo,84 Rodano Franco, 78, 130 Pagina 384


sabato 7 gennaio 2017 - Piero Lucia

Romagnoli,95 Romanò Angelo, 193,194, 199, Romano S.F., 254 Roosevelt Franklin Delano, 317 Rossanda Rossana, 173, 220, 221, 223, 255, 256,257, 258, Rossellini Roberto, 106, 112, 142, 314 Rossi Ernesto, 150 Rossi Paolo, 69 Roversi Roberto, 193, 194, Russell Bertrand, 78 Russo Ferdinando, 129 Russo Luigi, 129, 130, 284 Sacristan Manuel, 126 Saletti B., 254 Salinari Carlo, 45, 51, 106,113, 144, 204 , 216, 264 Salvatori Massimo, 150,151, 151, Salvemini Gaetano, 148, 151, 163, 183, 261, Samonà A., 254 Sanguineti Edoardo, 37, 51,77, 194, Santi P., 253 Sapegno Natalino, 55, 56, 58, 129, 178, 224, 253, Sartre Jean Paul, 78, 89, 129, 166, 256, 257, 258, Savelli Angelo, 260, 283 Scalari E., 150 Scalia Gianni, 193, 199, 200, 248, Scelba Mario, 141, 216, Sciolokov, 326, 327 Sciostakovic Dmitrij, 326, 328 Segni Antonio, 27 Seppilli T., 254 Serafimovic, 326 Sereni Emilio, 19, 36, 51, 96, 102, 103, 113, 134, 136, 138, 139, 140, 144, 284, 285, 286, Serra Enrico, 78 Settembrini L., 64 Siciliano E., 253 Sirugo F, 254 Slansky , 164 Socrate M., 254 Soffici Ardigo, 88 Sorel Georges, 71 Sotgiu G., 284 Spadolini Giovanni, 150, Spezzano Francesco, 187 Spriano Paolo, 16, 123, 216, 224, 254 Stalin Iosif, 159, 215, 218, 220 , 225, 235, 240, 241, 242, 244, 325 Stefanelli Renzo, 26 Pagina 385


sabato 7 gennaio 2017 - Piero Lucia

Stille Ugo, 78 Svevo Italo, 88 Tasca A., 150 Tatò Antonio, 130 Tedesco, 21 Terra Stefano, 78 Terracini Umberto, 300 Terzi Corrado, 318 Tiriticco M.C.,254 Toffaloni, 308 Togliatti P. 15, 16, 20, 23, 30, 31, 33, 36, 37, 38, 39, 40, 42, 43, 48, 49, 59, 60, 78, 81, 83, 85, 86, 87, 88, 90, 91, 95, 96, 97, 102, 114, 121, 130, 136, 138, 141, 144, 149, 172,173, 178, 184, 219, 224, 232, 233, 234, 236, 244, 281, 284, 320 Tolstoi Leone, 112 Trabucchi Lucia, 319 Trevisani Giulio, 78, 146, ,272, 274 , 278, 279, 280, 281, 284, 303, 308 Trombadori Antonello, 51, 216, 278 Trombatore G.253 Tronti Mario, 224, 253 Truman Harry Spencer, 17, 18, 136 Turati Filippo, 275 Ungaretti Giuseppe, 115, 142, Vacca Giuseppe, 70 Vacca Virginia, 134 Valenza Pietro, 183, Valiani Leo, 150 Vallecchi Attilio, 129 Verga Giovanni, 88, 105, 182, Verlaine Paul Marie, 326 Veronesi Aldo, 300 Vespignani L., 254 Villari Rosario, 183, Visconti Luchino, 45, 108, 110, 112, 284 Vittoria E., 254 Vittorini Elio, 51, 73, 75, 76, 77, 78, 81, 82, 83, 84, 86, 89, 90, 91, 92, 99, 107, 136, 148, 173, 199, 223, 247, 259, 278 Volponi Paolo, 194 Vuolo E., 254 Weber Max, 71 Zangheri Renato, 94 Zangrandi Ruggero, 28,50 Zapperi R., 254 Zavattini Cesare, 105, 106, 108, 216, 314, 315 Zdanov Andrei, 48, 90, 91, 92, 102, 113, 140, 159,327 Zigordi G., 283

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