Nel labirinto della storia perduta

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PIERO LUCIA

NEL LABIRINTO DELLA STORIA PERDUTA

GUIDA EDITORE

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INDICE PROVVISORIO 01. Introduzione di Valeria Fedeli Segretaria generale Filtea CGIL e di Fabrizio Loreto ……………………………………. pag.3 02. L’industria cotoniera in Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.19 03. Nascita e sviluppo della grande industria tessile nella Provincia di Salerno: alcuni cenni di storia. . . . . . . pag.30 04. Prime indagini storiografiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.34 05. Gli Svizzeri: i primi insediamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.39 06. Una fase di espansione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.46 07. Dopo l’Unità d’Italia . . …. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 51 08. Ulteriori note sulla crisi dell’industria meridionale nel nuovo Regno d’Italia pag. 53 09. L’industria cotoniera di fine secolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. .. . pag. 61 010. Le lotte degli operai cotonieri a Salerno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 62 010 Gli scioperi di fine secolo dei tessili:1894-1901 . . . . . . . . . . . . . . pag. 64 011 Camere del Lavoro ed organizzazioni operaie . . . . . . . . . . . . . pag. 66 012 I nuovi scioperi degli operai tessili:1910-1911 . . . . . . . . . . . . . . . pag. 69 013 Nel nuovo secolo. La grande guerra. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 71 014 L’abbandono degli svizzeri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 72 015. Gli scioperi degli operai tessili:1919-1920 . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 74 016. L’ultimo grande sciopero dei tessili:1924. . . . . . . . . . . . . . . . . . .. pag. 80 017 Nicola Fiore: un esempio di intransigente resistenza al fascismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 83 018 Nel primo dopoguerra e dopo: un susseguirsi di crisi e di riprese… pag.96 019 Tendenze e mutazioni nell’industria tessile a Salerno dagli anni ‘30 alla fine degli anni ‘50 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.98 020 Salerno all’indomani del secondo dopoguerra: il ritorno della democrazia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.102 021 Secondo dopoguerra a Salerno: alcuni fatti, vicende e protagonisti dell’organizzazione operaia . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.112 022. L’alluvione del 1954 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . .. pag.121 023 La lotta delle MCM del 1954- 1955 pag.124 024. Gli anni ‘50: la lotta sindacale contro i licenziamenti e per l’industrializzazione. Il balzo in avanti degli anni 60. La stagnazione. pag.130 025. L’intervento dell’IRI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.136 026. Gli anni ‘60 a Salerno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.140 027 Salerno e la provincia: l’illusione dell’industrializzazione. Alfonso Menna. l’Isveimer . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . pag. 145 028 Anni 60 e primi anni 70. Il conflitto per un nuovo equilibrio dei poteri in fabbrica

pag.154

029 Le rivolte nella Piana del Sele : Battipaglia 1969, Eboli 1973

pag. 158

030 L’ingresso dell’ENI

pag. 165

031 L’ENI e la Lanerossi. L’accordo Multifibre

pag. 170

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032 Il terremoto del 23 Novembre 1980- Conseguenze sul tessile e sull’abbigliamento in Provincia di Salerno

pag. 174

033Il libro bianco delle PP SS e le prospettive del tessile pubblico. Smobilizzi e attività sostitutive.

pag. 176

034 Gli anni 80:Lotte sociali, la grande ristrutturazione,il declino

pag. 184

035 La chiusura della Marzotto Sud

pag. 191

036 La relazione programmatica del Ministero PPSS, Roma 1986

pag.205

037 Manifatture Cotoniere Meridionali: ultimo atto

pag.212

038 L’Agro- Nocerino, la “città diffusa”

pag.215

039 Il “Made in Italy”, I distretti industriali

pag.220

040 I distretti industriali della Campania nel settore tessile oggi

pag.224

041 Tra gli anni 70 e gli anni 90: l’industria si contrae, crescono i servizi …………………………………..

pag.226

042 Ragioni strutturali della crisi dell’industria italiana: il nodo strategico e vincente della ricerca

pag.230

043 Il tessile italiano ed il fantasma della Cina………

pag.245

044 Considerazioni sulla congiuntura attuale del Mezzogiorno d’Italia e della Provincia di Salerno

pag.249

045 Salerno e la sua provincia : progresso o declino? Considerazioni conclusive

pag.259

046 Postfazione di Guglielmo Scarlato..

pag.268

047 Schede sul settore tessile

pag.272

048 Allegati

pag. 291

050 Indicazioni Bibliografiche

pag.

051 Indice dei nomi

pag.

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Introduzione di Valeria Fedeli e Fabrizio Loreto Il libro di Piero Lucia rappresenta un importante tassello che si aggiunge al racconto dell'evoluzione storica dell'industria tessile in Italia dalle origini ai giorni nostri. Il volume, infatti, analizza in modo accurato il "caso" di una importante provincia del Meridione, quella di Salerno, non disdegnando però di confrontarsi con le vicende nazionali e internazionali che hanno riguardato il settore. La comparazione è lo strumento che permette all'autore anche alcune dotte digressioni su altri casi esemplari (su tutti quello inglese di Manchester) che valorizzano l'indagine storica: una ricchezza dovuta ad una notevole mole di informazioni, di statistiche, di dati, di documenti d'archivio, editi e non, di fonti a stampa che si intrecciano costantemente con risultati ormai consolidati in seno alla storiografia più matura. L'aspetto che più colpisce il lettore è la pluralità dei livelli di analisi presenti nel testo. Il libro affronta, infatti, tematiche estremamente diversificate, ma nello stesso tempo saldamente intrecciate: dall'evoluzione economica del settore tessile in Italia e a Salerno, alla descrizione della società locale, in un affresco di "microstoria" nel quale il mondo del lavoro conquista e mantiene per lungo tempo una posizione centrale; per arrivare, infine, alla narrazione dei principali avvenimenti politici che hanno segnato questo territorio campano, il quale ad una lettura superficiale può apparire chiuso e isolato nella sua dimensione provinciale, ma che in realtà è fortemente legato con l'area metropolitana napoletana, con la regione e con l'intero Mezzogiorno. Proviamo a soffermarci sui tre livelli di analisi offerti dall'autore: innanzitutto, sui grandi nodi economici. Uno dei maggiori limiti della storiografia italiana è il mancato dialogo tra gli storici del lavoro e dell'impresa. Nei pochi casi in cui il dialogo si è prodotto, si sono registrati decisivi avanzamenti sul piano della conoscenza del nostro passato. Ecco perché uno dei pregi principali del libro è, a nostro avviso, la lettura delle dinamiche imprenditoriali nel territorio. Dall'analisi escono consolidati alcuni aspetti noti: il settore tessile come architrave della "prima" rivoluzione industriale, a prescindere dai luoghi e dai tempi in cui questa avviene; il tessile come ramo significativo, anche se non più decisivo, della "seconda" rivoluzione industriale, che porta all'affermazione del taylorismo in fabbrica e del fordismo nella società; il ruolo importante assunto in questa seconda fase dall'intervento pubblico, che in Italia e nelle regioni meridionali si manifesta soprattutto attraverso la Cassa del Mezzogiorno e l'azione dell'IRI; la centralità del settore cotoniero il quale, dopo aver 4


"superato" la concorrenza del serico e del laniero nei primi anni del secolo, raggiunge il suo apice negli anni venti del Novecento intrecciando, nei decenni successivi, un rapporto proficuo con la produzione delle fibre artificiali. A Salerno il tessile conosce sin dall'Ottocento una notevole espansione che pone il territorio all'avanguardia nel panorama nazionale. Ciò è dovuto alla grande tradizione laniera presente nell'artigianato locale, ma soprattutto all'incontro fecondo tra imprenditori svizzeri e la politica protezionista dei Borboni che difende e favorisce la nascente grande industria cotoniera. Dopo una fase di crisi, legata alla politica liberista dei primi Governi post-unitari, tale situazione si ripropone con il "felice" matrimonio tra il protezionismo "crispino" e la seconda generazione di imprenditori svizzeri (nati questa volta in Campania), che fanno dell'impresa tessile salernitana una vera e propria industria "nazionale". La vicenda esemplare del territorio diventa quella delle Manifatture Cotoniere Meridionali (MCM), nate ufficialmente all'inizio del Novecento dalla fusione tra alcune aziende svizzere e destinate ad egemonizzare la vita economica del comprensorio per quasi un secolo. L'autore ripercorre i "fasti" della prima guerra mondiale, quando le commesse statali permettono il raggiungimento del massimo sviluppo quantitativo; l' "italianizzazione" della proprietà, passata nel 1918 a imprenditori del Nord, con il contributo della Banca Italiana di Sconto; le difficoltà della riconversione postbellica prima e della crisi del 1929 poi, che segnano un ulteriore ridimensionamento dell'azienda e che favoriscono nuovi passaggi di proprietà, con l'ingresso del Banco di Napoli e dell'IRI. La "dimensione pubblica" caratterizzerà la seconda metà del secolo, dapprima con il controllo completo da parte dell'IRI e, in una seconda e delicata fase, con l'arrivo dell'ENI. Negli anni settanta la crisi economica internazionale mette in estrema difficoltà l'industria privata, colpisce in modo mortale quella pubblica e, in questo ambito, decreta la fine dell'industria tessile di Stato. A Salerno, negli anni ottanta, non chiudono soltanto le MCM, ma spariscono tutte le grandi aziende cotoniere, delle fibre e dell'abbigliamento. La crisi occupazionale si trasforma in una vera e propria emergenza sociale che non travolge solo il tessile ma anche l'altro fiore all'occhiello della provincia, vale a dire l'Agro nocerino – sarnese, costruito intorno alla coltivazione e alla lavorazione del pomodoro. La società salernitana è uno dei principali protagonisti del libro. Un tale assunto ci permette di spostare l'attenzione sul secondo elemento peculiare del volume, quello di essere anche un racconto di "storia sociale". Negli anni ottanta uscì in Italia, pubblicato da Einaudi, un libro scritto da Franco Ramella e intitolato Terra e telai che rivoluzionò la 5


labour history nazionale. Esso ricostruiva le vicende storiche dei tessitori di Biella, uno dei primi nuclei fondanti della rivoluzione industriale italiana. Il saggio fu (ed è) uno degli esempi meglio riusciti di "microstoria", in cui la gente comune, i lavoratori, la vita e le abitudini quotidiane fanno la storia, sono la Storia. Le fonti utilizzate possono essere molteplici: archivi pubblici e privati, diari, lettere, inchieste. Rileggendo i primi capitoli del libro, ci è tornato alla mente quel volume. Agli albori della rivoluzione industriale, le condizioni di lavoro del proletariato industriale sono quasi ovunque pessime. I regolamenti disciplinari, imposti unilateralmente dalle direzioni aziendali, prevedono orari estenuanti, salari molto bassi, un largo ricorso alle multe, una forte nocività degli ambienti di lavoro: ciò è ancor più intollerabile in un settore come quello tessile dove il lavoro di donne e fanciulli è largamente diffuso. Contro tale situazione, ai lavoratori non resta che procedere con l'unica arma a loro disposizione, quella della resistenza e dello sciopero, grazie alla quale nasce il sindacato. È sorprendente notare come l'onda ciclica delle lotte operaie nel salernitano presenti una sostanziale coincidenza col dato nazionale: dalle prime manifestazioni "luddiste" del 1848 allo sciopero delle filatrici nel 1897, durante la cosiddetta "crisi di fine secolo", dalle molteplici agitazioni del 1901 (anno di nascita della locale Camera del Lavoro) al lungo sciopero del 1910-1911, avvenuto durante una pesante recessione industriale. In questi primi decenni le lotte presentano i caratteri tipici del conflitto sociale nel Meridione, che non mutano neanche dopo la grande ondata liberale promossa da Giolitti all'inizio del secolo. Le agitazioni, concepite dalle classi dirigenti soltanto come elementi perturbatori dell'ordine pubblico, sono costantemente represse dall'esercito e dalla forze dell'ordine, mentre gli industriali ricorrono spesso ai crumiri e alle serrate, violando sistematicamente gli accordi pattuiti con le rappresentanze dei lavoratori. Ugualmente imponente è l'ondata di conflittualità sociale durante il cosiddetto "biennio rosso", conclusosi con la mediazione governativa di Giolitti che di fatto stabilisce una tregua favorevole agli interessi delle imprese. Così come imponente è il grande sciopero del 1924, scoppiato dopo la "crisi Matteotti" e in piena offensiva fascista, quando i lavoratori chiedono con forza il riconoscimento del sindacato libero, della Lega tessile e della FIOT; anche in questo caso, tuttavia, gli imprenditori salernitani non reagiscono in modo diverso da tanti colleghi italiani accordandosi con il solo sindacato fascista e aprendo le porte all'affermazione della dittatura anche nei luoghi di lavoro. È nel racconto di questa deriva autoritaria che l'autore scrive pagine molto belle sulla "mitica" figura di Nicola Fiore, uno dei tanti esponenti del sindacalismo rivoluzionario meridionale, la cui 6


biografia presenta tante analogie con quella di Giuseppe Di Vittorio (anch'egli passato per l'interventismo e approdato al comunismo), soprattutto come oppositori intransigenti della violenza squadrista e del nuovo ordine fascista. Le lotte sociali riprendono dopo la caduta del fascismo quando il mondo del lavoro gioca un ruolo primario nella ricostruzione del Paese. Superata l'emergenza post-bellica, tuttavia, per gli operai si apre una nuova fase difensiva. Fatta eccezione per il breve periodo compreso tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta, sindacato e operai devono lottare costantemente per la difesa del posto di lavoro. Ciò è vero negli anni cinquanta, nelle battaglie contro i licenziamenti e per l'industrializzazione, e sarà vero in seguito, a partire dagli anni settanta, per contrastare il declino industriale. Le lotte dei lavoratori si trasformano presto in vere e proprie battaglie generali, di una intera città, di un intero comprensorio. Il Comitato unitario per la difesa delle MCM e i tanti scioperi generali cittadini proclamati negli anni settanta e ottanta sono solo alcuni esempi di una mobilitazione collettiva sempre ampia e partecipata. In effetti, per l'autore sarebbe stato molto difficile, se non impossibile, tenere distinti da un lato il mondo del lavoro e dall'altro la "società civile e politica", la quale infatti rappresenta il terzo livello di analisi del libro; un volume, dunque, non solo di storia economica e sociale ma anche politica e istituzionale. La città di Salerno esce distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Eppure, nel giro di pochi mesi, appare già un luogo vitale attraversato da una straordinaria galleria di figure e personaggi. Sono i ritratti di una società dinamica, egemonizzata dalla Democrazia Cristiana (pur tra tanti contrasti interni), che vede un certo protagonismo delle destre ma anche una lenta e difficile crescita delle sinistre. In cinquant'anni accadono eventi che hanno una larga eco nazionale, dalla terribile alluvione del 1954 ai moti popolari di Battipaglia (1969) e di Eboli (1974), fino al tragico sisma dell'Irpinia del 23 novembre 1980 che si ripercuote sulla struttura produttiva dell'intera zona. In questo lasso di tempo si progetta e fallisce l'idea di una "Grande Salerno"; e si assiste soprattutto al costante e inarrestabile declino dell'industria e alla corsa di tanti lavoratori verso i servizi e la Pubblica Amministrazione. Il libro di Piero Lucia è tutto questo: un grande affresco di una società e di un territorio in movimento, di una "periferia" che può essere letta anche come "centro", dove si incrociano grandi temi, mai completamente risolti, quali la "questione meridionale", il ruolo delle piccole imprese, il rapporto tra capitalismo pubblico e privato, l'emancipazione femminile, la tutela del lavoro a domicilio. Come scrive bene l'autore nelle conclusioni, la storia 7


"minore" non va mai sottovalutata per la sua intrinseca capacità di essere "spia di una situazione d'insieme, più ampia e generale, che travalica la dimensione locale". È un insegnamento che condividiamo. È una lezione valida soprattutto oggi, in un momento nel quale viviamo tante difficoltà e che ha di fronte a sé un futuro carico di incertezze e di paure. E’ un libro che ripropone, attraverso la cultura riformista figlia della migliore tradizione storica della Cgil, l’insieme delle contraddizioni che caratterizzano sempre l’evoluzione dei sistemi economici, sociali,politici e dell’azione del sindacato in particolare del mezzogiorno. Un libro che da voce ai tanti che fanno la storia delle imprese e del lavoro, fonte prima dell’autonomia, dell’emancipazione, del progresso e del benessere di un territorio ed in particolare delle donne al sud, e di cui troppo pochi testi danno conto. Nel libro vi leggiamo cosa significa perdere “ quel “ lavoro per le donne, e non trovarne altri professionalmente ed economicamente adeguati, e di come, anche per il sindacato questo tema del governo dei cambiamenti necessari ed inevitabili, sia spesso considerato “asessuato”, quindi senza dare il giusto valore alla differenza che esiste ancora tra donne e uomini nel trovare una nuova collocazione di lavoro. Una storia che va conosciuta dalle nuove generazioni, dalle donne e dagli uomini che oggi , nel settore, e non solo, stanno vivendo i cambiamenti profondi e strutturali, indotti dall’interdipendenza dei mercati e dalla globalizzazione, che, in questi ultimi anni, hanno caratterizzato la nostra economia, e di cui il settore tessile, da sempre il più esposto alla competizione globale, ne rappresenta il paradigma con le contraddizioni e le opportunità che ne derivano in particolare nel mezzogiorno. Cambiamenti che, secondo noi, devono vedere anche il sindacato “ tornare” a conoscerli meglio, a conoscere bene questo Paese, i suoi territori diversi, e i bisogni e le aspirazioni dei mondi del lavoro che si sono negli ultimi anni troppo stratificati. Conoscere in profondità, interpretare i pensieri più profondi, gli interessi reali, le aspettative, le ansie, le vere e proprie paure che attraversano molta parte del mondo del lavoro, in particolare dei giovani e delle donne, al nord e al sud. Due questioni

“quella del nord e del sud”, che si ripresentano, anche dopo l’esito

elettorale del 9-10 aprile, ma in forme inedite, a cui è necessario dare risposte che facciano affrontare le paure e le preoccupazioni, le difficoltà di stare nel cambiamento di questo inizio secolo.

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Quel cambiamento inarrestabile degli assetti produttivi e degli assetti sociali; quel cambiamento indotto dalla nuova fase della competizione internazionale, di cui molti osservatori, politici e sindacali, parlano più o meno accademicamente, ma che, per loro, per le persone in carne ed ossa – come bene è descritto nel libro di Lucia, riferito ad altre fasi storiche - , è, invece, parte quotidiana della vita, con il carico di insicurezze che porta con se, quando non addirittura di radicale e imprevista modificazione della propria condizione lavorativa e, di conseguenza, delle aspettative di vita. Significa confrontarsi con una realtà che stravolge le proprie condizioni di vita, senza comprenderne le ragioni; non capire le prospettive e il senso di quello che si sta vivendo. Ecco perché occorre sempre essere innanzitutto lucidi nell’analisi dei processi in corso, guardarli con serietà e realismo, senza le lenti deformanti dell’ideologia o della convenienza, per affrontarne le contraddizioni e costruirne le soluzioni migliori e durature. La stessa conoscenza della nostra storia, sindacale nel settore, al sud come parte della storia complessiva nazionale, è un buon punto di partenza. Con molta umiltà occorre sempre partire dalla capacità di stare nel cambiamento senza subirlo, di avere il coraggio di affrontare le contraddizioni dell’interdipendenza globale delle economie, di determinare condizioni di mercati aperti con regole conosciute, rispettate da tutti, condivise, eque e fondate sulla reciprocità tra continenti, di costruire una politica europea che possa essere percepita e fatta vivere come fondamentale per affrontare quei cambiamenti. E si dovrà fare infondendo fiducia, governando i processi, assumendosi sempre le responsabilità che a ciascun soggetto sociale, economico, politico, spettano. Costruendo consenso e partecipazione sulla possibilità che il cambiamento può e deve essere governato e non subito e che nel cambiamento e nell’innovazione, si è capaci di promuovere le opportunità, di contenere i rischi, di dare sicurezza sociale, uguaglianza, pari opportunità, inclusione, solidarietà. Bisogna ripartire dal cambiamento e nel cambiamento come approccio culturale e politico per tutti, dalle Istituzioni ai soggetti sociali. E, innanzitutto, occorre saperlo capire e governare. Averne il linguaggio, o meglio, i linguaggi, non vivendo più in tempi di linguaggio unico ed unificante, come nell’esperienza di chi è cresciuto nei grandi movimenti politici e sindacali della nostra Repubblica. Oggi siamo nel mondo con altri. Occorre conoscerne le storie collettive e personali.

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Occorre capire i diversi punti di vista: e imparare a rispettarli, senza la fatica di una tolleranza che è troppo spesso solo una parola. Occorre un clima di rispetto e attenzione alle diversità delle condizioni di partenza, e rimuovere ogni tipo di discriminazione. Il nuovo Governo ha la possibilità, nei prossimi cinque anni, di aprire una fase nuova ed importante della vita del paese e, in quel quadro, di conquistare, con azioni concrete, con la trasparenza degli obiettivi, degli strumenti e dei comportamenti, quel consenso ampio e diffuso che serve per rispondere alle paure ed alle incertezze del futuro che sia il settore tessile, come l’insieme del nostro sistema economico e sociale vive da troppo tempo. Ha la possibilità, di far ritrovare al Paese la sua “grammatica civica” per poter rilanciare l’Italia in modo credibile, positivo, competitivo. Al sindacato unitario, nell’esercizio della sua autonoma funzione serve poi la consapevolezza piena della necessità di un’assunzione forte di responsabilità, perché tutto ciò produrrà concrete condizioni di cambiamento con relative importanti conseguenze per il mondo del lavoro, per i giovani, per le donne. Al lavoro e alla sua rappresentanza spetta anche elaborare proposte nuove, ( un nuovo modello n.d.r.) di relazioni industriali per affrontare al meglio i temi della competitività, per esercitarli nelle sedi dove i cambiamenti avvengono, dove negoziare e partecipare è indispensabile per avere un ruolo propositivo e attivo, per non subire i cambiamenti, per non essere marginali e quindi non dando valore pieno al ruolo del lavoro. La priorità è senza dubbio riferita ai problemi dell’assetto produttivo, alla necessità di affrontare l’innovazione, il cambiamento dei modelli organizzativi delle imprese, la crescita dimensionale delle stesse e la loro internazionalizzazione. Servono scelte coerenti per il commercio internazionale, per la qualificazione dei prodotti e i cambiamenti del lavoro. Servono politiche ed azioni da coordinare a livello europeo e richiedono una nuova dimensione di politiche di sviluppo e industriali. Dobbiamo costruire anche con le imprese la buona e corretta competizione fatta di diritti, dall’insieme qualitativo dei modelli di vita, di lavoro, di impresa, di inclusione, di riconoscimento del valore e della dignità del lavoro ovunque si svolga. E dobbiamo essere lucidi e consapevoli che non abbiamo molte alternative: dobbiamo partire dall’innescare un circolo virtuoso che va dall’istruzione, alla cultura, alla formazione continua. Dal recupero della strategia originaria definita a Lisbona nel 2000. Quella società democratica, ( dei saperi n.d.r.) e

della conoscenza a cui dobbiamo aspirare e che

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dobbiamo concretamente costruire per rendere credibile ed effettiva la buona globalizzazione. In sostanza, dobbiamo rendere evidente e, soprattutto, praticata l’idea che investire oggi nell’industria vuol dire puntare anche sulla qualificazione culturale e del sapere professionale dei lavoratori, risorsa strategica insostituibile per la competitività. Anche le diverse fasi storiche accuratamente ricostruite dal libro, ci dicono dell’importanza delle relazioni industriali e sindacali per tutelare il lavoro nell’impresa. Oggi, nel mondo globalizzato, esse acquistano, molto più di ieri, un’importanza decisiva. Si tratta di costruire relazioni nuove, cooperative e corrette, per governare e anticipare i cambiamenti necessari alla imprese e al lavoro e che affronti i nodi che sono rimasti troppo a lungo nel “cassetto”, poco indagati, almeno in termini collettivi, sia dal sindacato che dalla rappresentanza delle imprese. La sicurezza dell’occupazione e del lavoro, la sua qualità in tutta la catena del valore, il rispetto dei diritti sociali e ambientali, sistemi di partecipazione del lavoro alle scelte d’impresa, la formazione e il riconoscimento professionale, la qualità-quantità delle retribuzioni, l’organizzazione del lavoro e il suo rapporto con i tempi di lavoro e di vita per i lavoratori, e la competitività delle filiere produttive internazionalizzate. E ancora, il libro ci stimola un ulteriore riflessione sull’innovazione del sindacato in questo nuovo secolo globale. Il lavoro unitario è una scelta politica. Condividere, scegliere, mediare, agire unitariamente è ciò che richiede il governo dei cambiamenti per il lavoro e i lavoratori. Non stiamo parlando di unità sindacale “strutturata” per la quale non vi sono ancora le condizioni. Pensiamo alla responsabilità che cgil-cisl-uil devono esercitare insieme, di fronte alla profondità dei cambiamenti. Sarebbe, infatti, davvero un grave danno per il mondo del lavoro se tornasse in auge la teoria della competizione tra organizzazioni, magari foraggiata da questo nefasto neoproporzionalismo elettorale. Significherebbe consegnare la legittimazione di tutti e di ciascuno alla politica – o, peggio ancora, ai mass media o a quant’altri ancora – e non, invece, agli unici che ne detengono il diritto: le lavoratrici, i lavoratori, le pensionate e i pensionati. I tre livelli del libro di Piero Lucia – storia economica, sociale e politica-istituzionale – ci hanno consentito l’intreccio tra la storia di ieri e la realtà dell’oggi: anche in questo risiede il valore di questo libro. 11


01.INDUSTRIA TESSILE E LOTTE OPERAIE IN UNA PROVINCIA MERIDIONALE: IL CASO DI SALERNO. Pressoché tutti gli autori che in tempi più o meno recenti si sono occupati dell’industria italiana e dei peculiari caratteri, d’obiettiva e sempre più accentuata involuzione da essa assunti negli ultimi decenni, da Rosario Romeo1 a Luigi Luzzatto2 fino a Valerio Castronovo, Luciano Gallino ed a Giuseppe Turani, che ha affrontato la questione in un agile e piacevole lavoro3, finiscono in ultima analisi per convergere verso una valutazione, assai critica, della situazione attuale del capitalismo nazionale ed in particolare del sistema industriale italiano. Tutti rilevano come, nell’era della globalizzazione, si sia progressivamente accentuato un processo di crisi e marginalizzazione dell’industria italiana. Per una serie di gravissimi errori accumulati nei decenni passati dal sistema politico e dall’imprenditoria nazionale, ma anche non di rado per la stessa inadeguatezza strategica della qualità dell’azione rivendicativa delle forze sociali, è così accaduto che si sia finito per rimpicciolire l’impresa nazionale e la sua funzione in Italia, in Europa e nel mondo riducendola in ruoli e dimensioni alquanto marginali se non proprio residuali. E’ importante, in premessa, consideare come l’Italia sia stata a lungo un paese a larga base agraria. Più nel mezzogiorno che al Nord, nel senso che l’industrializzazione si avvia assai prima nel triangolo industriale 4. Come sostiene acutamente Rosario Romeo5 non si può però non considerare il bassissimo livello da cui il paese, all’indomani dell’Unità, aveva preso le mosse per rimontare gli enormi dislivelli accumulati nei secoli. Nel 1860 l’Italia con 26 milioni di abitanti aveva il reddito nazionale pari a meno di un terzo di quello della Germania e della Francia. Il territorio, metà di quello della Francia e della Germania, mancava del tutto di materie prime quali il ferro ed il carbone e non aveva mercati coloniali. La Germania, nazione come l’Italia tra quelle di maggiore rilievo dell’Europa, che era giunta più tardi all’unità, disponeva di una rete ferroviaria di 11.000 km., a fronte dei soli 2.400 di rete italiana, produceva 12 milioni di tonnellate di carbone che

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R. Romeo, “ Breve storia della grande industria in Italia – 1861-1961 “ , Ed. Il Saggiatore; In particolare nella ponderosa opera, incompiuta, “ Storia economica dell’età moderna e contemporanea”, Padova, Cedam, Casa Ed. dottor A. Milani, 1952 3 Giuseppe Turani, “ Perché abbiamo il peggior capitalismo del mondo”, Dal miracolo economico degli anni 50 e 60 alla vicenda Parmalat, Sperling § Kupfer Editori. 4 Per una dettagliata ricostruzione storica dell’avvio del processo d’industrializzazione nel Nord del paese assai utile la consultazione de: “ Storia d’Italia”, Edizioni del “Sole 24 ore”, al volume 7, “ Dall’Unità a oggi; da contadini a operai”, in particolare pp. 160-182; 5 Rosario Romeo, Breve storia della grande industria in Italia 1861-1961, Ed Il Saggiatore, in particolare alle pag. 304-307. 2

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diverranno ben 34 nel 1870, mentre assai maggiore era la produzione di ghisa, per non parlare della siderurgia e del settore metalmeccanico. La Germania era nettamente più avanti del nostro paese nell’opera di infrastrutturazione, in sostanza già compiuta al momento dell’unificazione tedesca. Il livello quantitativo e qualitativo dell’industria italiana era nettamente inferiore a quello della Germania, della Francia, dell’Inghilterra. E’ all’inizio del XX secolo che inizia un’inversione di tendenza ed essa vivrà una prima ed importante accelerazione, dal punto di vista della “ rivoluzione industriale ” nel quindicennio giolittiano, con un picco nel 1913. Nella trasformazione, da paese agrario a paese industriale, l’industria tessile a trascina lo sviluppo. Nel Mezzogiorno, in uno scenario agrario diffuso, e pressoché unico, solo Napoli è una parziale eccezione. E’ utile altresì ricordare come il nostro è stato un Paese che, almeno fino al 19191920, non conosce il segno d’un conflitto antagonista. Le principali organizzazioni politiche e sindacali, in tutta la fase iniziale della loro vita, si muovono infatti all’interno d’un impianto programmatico limitato, timidamente riformista, senza dare luogo ad una riconoscibile opposizione di classe. Gli scioperi sono minacciati, ma non fatti. E’ questo il tratto distintivo del movimento che traccia la storia della fine del XIX e dei primi decenni del XX Secolo. La contrapposizione, che sfocia nell’occupazione delle fabbriche e nel Biennio Rosso, è solo una fiammata, che poi viene compressa e schiacciata dal fascismo. I dati comunque rilevano, in quel solo arco temporale, milioni di ore di sciopero. Il proletariato industriale è, in qualche modo, una sorta di “ aristocrazia” del lavoro, un “ ceto sociale ” la cui condizione di vita e di salario è sensibilmente superiore a quella dei lavoratori delle campagne. Nelle campagne, in prevalenza del Centro-Nord, la tensione al superamento delle antiche condizioni di arretratezza e di subordinazione secolare delle masse contadine ha progressivamente prodotto il sedimentarsi, nuovo ed inedito, di prime forme di auto organizzazione e di difesa dei lavoratori ed il consolidarsi di embrionali strumenti di rappresentanza. L’industrializzazione si è strutturata, principalmente, nell’area sabauda e nel Lombardo-Veneto. In Emilia, nelle Marche, nello Stato Pontificio l’organizzazione della società, i rapporti proprietari e le forme di lavoro salariato ruotano ancora, in larga prevalenza, intorno all’agricoltura. Nelle aree granducali toscane e dei Ducati del centro Italia c’è invece una forte prevalenza di funzioni artigianali e commerciali. Nell’Italia Meridionale, invece, come si diceva, non c’è alcuna traccia, davvero significativa, di presenza industriale, fatta eccezione per la città di Napoli. 13


Il settore tessile, pur difeso da politiche protezionistiche e dai dazi commerciali, dipende dalla Francia e dalla Germania per i macchinari e risente, per lo smercio delle produzioni, della lontananza dai principali centri di commercio europei. Il sindacato che inizia a nascere nell’impresa industriale ha, da subito, un ruolo ed una funzione di riferimento importante e generale, e si pone come fattore di coagulo e autentico moltiplicatore per l’organizzazione delle forze del lavoro. Queste le premesse per riscrivere una vicenda che sancisce, in maniera progressiva, nuovi equilibri tra le classi. Lo sviluppo, il ruolo, la funzione del Sindacato, pur passando attraverso blocchi e sconfitte, diventerà tratto ineliminabile della vita nazionale, ed una specificità peculiare nello scenario europeo e mondiale. La voce dell’organizzazione sindacale dei lavoratori, costretta al silenzio nel ventennio della dittatura fascista, riemergerà con forza dopo la definitiva sconfitta del regime e la vittoria militare alleata. Dopo il secondo conflitto mondiale, alla fine degli anni 50, il Paese vive il Grande boom economico. Tra il 1958 ed il 1963 l’economia e, di conseguenza, la condizione delle famiglie e della società italiana, risulteranno radicalmente trasformate. Il “miracolo economico” è nei dati. Il tasso di crescita del PIL,che dal 1951 al 1958 era cresciuto in media del 5,5 %, nei sei anni seguenti ha un’impennata incredibile e raggiunge il 6,3%, livello di crescita questo mai più raggiunto nella storia della nazione. Il Belgio, la Svezia, l’Olanda sono superati per prodotto interno lordo mentre si riduce sensibilmente lo storico divario che ha sempre separato il Paese dalla Francia, dalla Germania, dall’Inghilterra. Gli investimenti lordi aumentano mediamente del 10% l’anno, attestandosi l’incremento, tra il 1961 ed il 1962, intorno al 13%. Cresce sensibilmente il reddito medio pro capite che passa da 350.000 a 571.000 lire. Agli inizi degli anni 50 meno dell’8% delle famiglie ha acqua, servizi igienici, elettricità nelle proprie abitazioni ; soltanto dieci anni dopo la percentuale è salita al 30%. S’accresce, notevolmente, il livello medio dei consumi individuali : raddoppiano gli acquisti di beni durevoli quali mobili, auto, elettrodomestici. Il costo di questi prodotti è alla portata della gran parte delle famiglie italiane. Notevolissima è la vendita di frigoriferi, cosa che consente ulteriori modificazioni nelle abitudini e nelle consuetudini alimentari degli italiani; a dimostrazione dell’avanzamento della qualità della vita del paese, nel 1966, il consumo annuo di carne bovina sale a 20 Kg : è la scientifica dimostrazione, come spesso osserverà

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Giorgio Amendola, della tesi del progressivo miglioramento della condizione di vita della popolazione italiana e del paese6. Oltre agli elettrodomestici s’espandono i consumi di auto e di motociclette. La Fiat, la Lancia, L’Alfa Romeo, la Guzzi, la Piaggio, divengono il simbolo del paese che cambia. L’industria cresce, così, notevolmente mentre aumenta la produttività del lavoro grazie all’immissione, nel sistema produttivo, di nuove ed avanzate tecnologie, in prevalenza provenienti dagli USA. La crescita tecnologica e produttiva non si accompagna, tuttavia, ad un parallelo incremento dei salari. Fortissima è la mobilità dei lavoratori, alla ricerca di condizioni più decorose e di un salario più dignitoso rispetto al reddito raccolto nelle campagne. Masse di ex contadini sperano nel cambiamento e nella fuoriuscita dalla loro condizione di miseria secolare. La grande massa di lavoratori disponibili sul mercato condiziona la qualità dell’offerta di lavoro; gli operai che si trasferiscono al Nord dalle regioni meridionali sono costretti ad accettare condizioni di lavoro pesanti e mal retribuite. Lo straordinario processo migratorio dal Mezzogiorno verso il Nord del Paese e verso la Svizzera, la Francia e la Germania coinvolgerà milioni di persone svuotando, drammaticamente, le campagne meridionali. Nel periodo che va dal 1954 al 1964 l’agricoltura italiana riduce di circa tre milioni i propri addetti. Gli occupati nel settore passano infatti dal 43% dell’intera forza lavoro del 1951 al 24% del 1965. Il contributo del settore alla formazione del prodotto nazionale lordo, che si attestava nel 1951 al 32%, si riduce nel 1961 al 12,5%. Lo Stato assume un ruolo di rilievo col proprio diretto intervento nell’economia ed in specie nell’industria. L’IRI, nato nel 1933, dal 1950 in poi interviene, oltre che nella siderurgia e nel settore energetico, anche nella costruzione delle reti autostradali con la Società Autostrade e nel potenziamento del settore dei trasporti, dall’ automobilistico, con l’ Alfa Romeo, al navale, all’aereo. L’iniziativa di Statao da vita all’Alitalia ed iniziano a svilupparsi, a tappe accelerate, i settori delle telecomunicazioni, grazie soprattutto all’enorme diffusione della Radio e della televisione. Lo Stato,tramite il proprio diretto intervento, si pone l’obiettivo di ridurre le distanze tra il Nord ed il Sud del Paese, e di pervenire ad un migliore equilibrio tra i diversi settori. E’ l’avvio del meccanismo d’intervento delle Partecipazioni Statali, che dovranno svolgere, istituzionalmente, il ruolo di attuazione delle linee di programmazione economica dettate dal governo. La creazione del Mercato comune europeo, cui l’Italia aderisce in maniera convinta, offre all’economia italiana nuove ed importanti 6

Sul pensiero di Amendola su tali aspetti vedasi, tra l’altro, i vari interventi apparsi su “ Larticolo” , supplemento campano de “ L’Unità” nel Giugno 2. 005. 15


opportunità : le esportazioni italiane crescono in quegli anni in maniera consistente e la forte espansione del commercio si combina con un notevole grado di diversificazione produttiva. Riassumendo, negli anni 50, i governi centristi puntano a superare, agendo sulla leva della spesa pubblica e sostenendo la crescita del tessuto industriale anche con una politica fiscale di particolare favore per le imprese, i più stridenti contrasti tra il Nord ed il Sud del Paese. Tuttavia il processo di crescita si attuerà in modo tale da non superare i grandi squilibri tra le varie aree del Paese, contraddizione questa che avrebbe finito per riproporsi, negli anni a venire, in tutta la sua devastante portata. L’intervento dello Stato, tramite le Partecipazioni Statali, si mostrerà alla fine di frequente ostativo alla crescita di competitività delle industrie e limiterà, come vedremo, le capacità imprenditoriali nel cogliere, a tempo, le nuove opportunità offerte dal mercato. Lo sviluppo accelerato ed il boom economico si svilupperanno in maniera differenziata sul territorio nazionale ed accentueranno, più che limitare, lo squilibrio tra le diverse realtà geografiche della Penisola. Le distanze non saranno colmate né con l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno né con la creazione dei grandi “ poli di sviluppo ” in alcune aree importanti del Mezzogiorno quali Taranto, Bari, Cagliari, Salerno7. Si è già fatto cenno a come la fase espansiva proceda mantenendo i lavoratori in un regime di bassi salari, situazione che inizierà ad essere messa in discussione, in modo drastico, solo più avanti dai movimenti della fine degli anni 60 e dalla stagione dell’autunno Caldo. In ogni modo, per favorire lo sviluppo del Mezzogiorno, nel 1950 nasce la Cassa del Mezzogiorno e si da avvio alla Riforma Agraria con il parziale esproprio dei latifondi della proprietà assenteista a favore di circa 120.000 famiglie contadine. Le resistenze al tentativo riformatore finiranno per depotenziarne alquanto l’incidenza poiché la gran parte dei terreni espropriati, oggetto d’intervento di riforma, è in realtà territorio scarsamente fertile e l’entità dei singoli appezzamenti di terreno assegnati finirà per risultare del tutto insufficiente per l’avvio di un’attività autonoma, sufficientemente redditizia per le famiglie contadine. La Cassa del Mezzogiorno, nata essenzialmente per sostenere la riforma agraria, finirà per snaturare la sua funzione istituzionale originaria divenendo uno strumento d’intervento a generico sostegno delle aree depresse.

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Utile al proposito di una ricostruzione e di un giudizio sul ruolo e la funzione della Casmez la lettura del volume di Piero Lucia, “ Salerno, Firenze, frammenti sparsi di storia e di cultura democratica”, Arti Grafiche Boccia Editore, in specie da pagina 89 a pag. 106; 16


L’intervento iniziale previsto dalla Cassa è di 1.000 miliardi di lire destinate, in gran parte, alla realizzazione di interventi infrastrutturali per bonifiche e miglioramenti fondiari oltre che alla costruzione di ferrovie, acquedotti, fognature. I finanziamenti iniziali ammonteranno nel 1957 a 2.069 miliardi e la loro durata temporale si protrarrà fino al 1965. Poi una proroga ulteriore, di 5 anni. Una quota delle risorse è destinata a favorire gli investimenti delle imprese industriali che decidono di localizzare la loro attività al Sud. L’intervento della Cassa del Mezzogiorno8 se da un lato muta alcuni aspetti della struttura fisica, economica, sociale del Mezzogiorno, dall’altro agisce nell’assenza sostanziale di una visione programmatrice d’insieme delle direttrici dello sviluppo da cui avrebbero dovuto derivare definite e nette priorità. Non di rado le risorse della Cassa saranno infatti disperse, in molteplici ed indistinti rivoli clientelari, se non proprio malavitosi, finendo per vanificare, in larga parte, le speranze che in essa, da più parti, erano state riposte. Di converso l’adesione alla Comunità Economica Europea, come prima s’accennava, finirà per risultare assai utile allo sviluppo del paese. Si superano in economia gli approcci di tipo protezionistico e si pone il problema di come cimentarsi, in maniera efficace e competitiva, in un’area nuova e più ampia di libero scambio. L’avvio della stagione del Centro Sinistra9 introduce elementi di forte novità nella situazione politica, generando attese ed aspettative di diffusa modernizzazione, di una crescita più intensa ed uniforme, di una stagione di riforme economico-sociali. Ugo La Malfa propone la costituzione di una Commissione di Programmazione composta dalle principali parti sociali del Paese, dai sindacati e dagli Imprenditori, con esperti di settore e del Governo, per individuare filoni di interventi sociali e per realizzare infrastrutture essenziali allo sviluppo ed alla modernizzazione. Il Governo avvia un processo di riforma della Pubblica Amministrazione, istituisce il Servizio Sanitario Nazionale, vara un piano di interventi per la Scuola e l’edilizia popolare.

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Una vivace discussione, sulla bontà e l’efficacia ovvero sui caratteri negativi dell’intervento della Cassa del Mezzogiorno è rintracciabile su due delle più importanti riviste del tempo, “ Nord e Sud” e “ Cronache Meridionali”. La prima decisamente ottimista circa gli esiti positivi dell’intervento della “ Cassa” per il progresso del Mezzogiorno, più incline a forti sottolineature polemiche “ Cronache Meridionali”, di ispirazione, come è noto, prevalentemente social-comunista; 9 Il Congresso democristiano di Napoli, del gennaio 1962, è il battessimo della formula del centro-sinistra. E’ l’ “apertura a sinistra” sancita dall’alleanza tra democristiani e socialisti. Nel Marzo dello stesso anno nasce il primo governo di centro-sinistra. E’ guidato da Amintore Fanfani. Il PSI ne sostiene la maggioranza parlamentare con l’astensione nel voto di fiducia. I socialisti non hanno propri ministri nella compagine governativa. Essi chiedono, prima delle elezioni politiche previste nel 1963, tre riforme : la nazionalizzazione dell’industria elettrica, l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 14 anni, l’istituzione della scuola media e la creazione delle Regioni, previste dalla Costituzione ma mai realizzate. L’esperienza del centro-sinistra proseguirà, con alterne fortune, anche nel periodo tra il 1963 ed il 1968. Alla guida del governo sarà Aldo Moro. In questo arco temporale i socialisti parteciperanno, direttamente, con propri ministri. 17


In realtà non si produrranno grandi sconvolgimenti, né riforme di particolare significato10, se si esclude la nazionalizzazione dell’Energia Elettrica. In effetti è ancora forte la distanza che separa l’Italia dagli altri paesi europei più avanzati. In ogni caso cambia la visione della vita e la scala delle sue priorità : il consumismo crea un diverso modello culturale e plasma l’idea della realizzabilità, per tutti, di una più alta qualità dell’esistenza : sembra a portata di mano la prospettiva di un futuro di minore povertà e di maggiore ricchezza. Eppure lo sviluppo dei consumi è veicolato, in larga prevalenza, in direzione dei ceti sociali con reddito più elevato, mentre fasce ancora troppo consistenti di popolazione non raggiungono un livello di vita neppure parzialmente accettabile. Lo squilibrio sociale è ancora acuto ed è da più parti attribuito all’insufficiente iniziativa dello Stato in settori decisivi dei consumi pubblici e alla sua incapacità di svolgere una funzione socialmente più equilibratrice. In realtà vi sono in quegli anni elementi di crescita effettivamente “drogata”:la crescita, con i suoi vizi originari e le sue interne contraddittorietà, manifesta , col tempo, molteplici elementi d’intrinseca, strutturale fragilità. I prezzi di mobili ed elettrodomestici si riducono enormemente nel mentre, altissimo resta, rispetto al salario medio di una famiglia operaia, il costo delle abitazioni. I consumi privati crescono, nel periodo tra il 1958 ed il 1963, alla media annua dell’8, 5%. Nel 1955 ben 4.200. 000 famiglie possiedono un televisore. Nel 1965 una famiglia su due dispone di un frigorifero, una su cinque della lavatrice, una su dieci della lucidatrice. La televisione, con la pubblicità, modifica i linguaggi, i modelli di consumo, le gerarchie dei valori e, con la sua incidenza pervasiva, finisce per risultare il mezzo di più potente omologazione e massificazione dei gusti e delle propensioni del popolo italiano non di rado concorrendo all’appiattimento, verticale, della soglia di criticità sociale del paese 11. Cresce la spinta, con l’attenzione esasperata al proprio aspetto fisico, alla parossistica emulazione degli atti e dei comportamenti dei nuovi “ idoli ” del piccolo schermo.

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Il Congresso democristiano di Napoli del gennaio 1962 è il battesimo della formula del centro-sinistra. E’ “ l’apertura a sinistra” sancita dall’alleanza tra democristiani e socialisti. Nel Marzo dello stesso anno nasce il primo governo di centro-sinistra, guidato da Amintore Fanfani. Il PSI ne sostiene la maggioranza parlamentare con l’astensione nel voto di fiducia. I socialisti non hanno propri ministri nella compagine governativa. Essi chiedono, prima delle elezioni politiche previste nel 1963, tre riforme : la nazionalizzazione dell’industria elettrica, l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 14 anni, l’istituzione della scuola media e la creazione delle Regioni, previste dalla Costituzione ma non ancora realizzate. L’esperienza del centrosinistra proseguirà, con alterne fortune, anche nel periodo tra il 1963 ed il 1968. Alla guida del governo sarà Aldo Moro. In questo arco temporale i socialisti saranno impegnati , direttamente, con propri ministri. 11 Aspetti anticipatamente colti da grandi scrittori come K. Popper, (“Cattiva maestra televisione”) ; Paul Virilio e , soprattutto, nella sua spietata critica all’omologazione culturale del paese, da Pier Paolo Pasolini. 18


La Fiat è un altro soggetto decisivo che plasma, attorno all’automobile, suo prodotto principe, modelli di consumo che, in breve, divengono primari e indispensabili. Un potente soggetto economico che esercita una funzione politica. La crescita del consumo d’auto diviene esponenziale e condiziona la scelta di creare infrastrutture legate al suo utilizzo ed alla maggiore facilità di percorrenza delle distanze. La diffusione del sistema autostradale, a lungo essenzialmente concentrato intorno all’asse industriale Milano-Torino-Genova, fa un salto di qualità straordinario con la creazione dell’Autostrada del Sole, la Milano-Roma-Napoli di 755 chilometri. I lavori, intrapresi nel 1956, saranno completati nel 1964. Immenso è l’indotto economico che ne deriva : milioni di italiani e di stranieri iniziano a muoversi in lungo e in largo per la penisola. Crescono le presenze negli alberghi e nei campeggi di cui rapidamente si dissemina il Paese. Si organizzano intere aree urbane predisposte per le vacanze. Rimini e di Riccione l’esempio più valido tra tutti di città a forte valenza turistica. Si modifica, più in generale, la struttura antropomorfica e fisica dei grandi aggregati urbani ormai obbligati, in specie nelle aree più industrializzate del Nord, ad accogliere nel proprio seno un’enorme massa, supplementare, di abitanti. Nel periodo 1955-1963 si verifica la più consistente fase migratoria dal Sud verso il Nord. L’immigrazione avviene in maniera selvaggia ed incontrollata. Le città attraggono per i salari comunque ben più alti rispetto alle campagne. Le immagini diffuse dalla televisione arrivano nel mondo contadino con la loro rappresentazione edulcorata e generano la speranza di miglioramento e di lavoro, di benessere e progresso. Tuttavia gli emigranti, un esercito sconfinato, spesso sono accolti nelle grandi metropoli del Nord con profonda diffidenza, se non ostilità. Le loro case sono tuguri, simili ad accampamenti, le “ Coree”, di frequente collocati nelle aree estreme delle periferie urbane, del tutto privi di servizi, di acqua, luce e delle più elementari norme igieniche. Difficilissima si dimostrerà l’integrazione 12. In ogni caso, nell’arco temporale preso in considerazione, si registra una trasformazione radicale dell’ assetto originario delle aree urbane, che vengono per tanti versi trasformate se non proprio sconvolte da uno sviluppo convulso e confuso che procede in assenza di piani regolatori definiti uniformando indistintamente centri e periferie. Nascono grandi aree urbane metropolitane assai industrializzate, anonime, irregolari, caotiche, nelle quali, a fianco alle industrie, spesso convivono interi quartieri – dormitorio. Sembra un processo che si muove in emulazione a quanto da qualche 12

Esemplificativo e di straordinaria pregnanza il film “ Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, che a lungo si sofferma, nello svolgimento della trama, proprio sulle difficoltà d’inserimento dei componenti di una famiglia lucana emigrata al Nord. 19


tempo è già avvenuto in altre grandi città europee come Atene, Parigi o, soprattutto, Londra. E’ in questo contesto, di espansione incontrollata ed anarchica, in assenza di piani regolatori comunali, che cresce a dismisura la speculazione edilizia ed il saccheggio dei vecchi centri storici, delle coste e del paesaggio. La classe politica dominante, in genere, spalleggia e copre la speculazione edilizia. Gli investimenti in edilizia crescono di oltre il 400%, i costi delle nuove abitazioni raggiungono le stelle, i profitti dei “ palazzinari ”sono altissimi. E ciò accade nella sostanziale indifferenza del Paese, fatta eccezione di sparute ed ininfluenti minoranze di intellettuali o associazioni ambientaliste13. E’ la fase in cui si consuma il nuovo sacco di Roma, che si struttura all’interno di una miscela di crescita tumultuosa di palazzi e di decadimento infinito delle periferie costellate di luride baracche. Autori come Pasolini14 descrivono il degrado fisico e morale che deriva dagli indistinti ed anarchici processi d’ inurbamento. Come si è detto tra il 1954 ed il 1963 il reddito prodotto dal sistema industriale è ormai ben più elevato di quello proveniente dall’agricoltura. Gli addetti all’industria hanno già superato, per numero, i lavoratori delle campagne. L’obiettivo del superamento delle più acute contraddizioni territoriali si dimostrerà tutt’altro che facile da realizzare. L’innovazione delle imprese industriali ne accentua la competitività, l’esportazione dei prodotti nazionali cresce notevolmente. Il lavoro industriale ruota intorno alla centralità delle macchine ed alla catena di montaggio, alla produzione standardizzata, parcellizzata e ripetitiva. Si ridimensiona, fin quasi a scomparire, la vecchia figura dell’operaio professionalizzato, capace di un lavoro creativo di natura artigiana. Il sistema fordista e taylorista di lavoro sarà messo in crisi, negli anni, da una concomitanza di fattori : l’inflazione galoppante, la prima crisi petrolifera, l’aumento della forza dei Sindacati. Si persegue in ogni modo l’obiettivo dell’aumento della produttività del lavoro. La crescita avverrà sacrificando a lungo i salari. In questo periodo le fabbriche crescono in maniera smisurata, perdendo del tutto l’antica specificità artigianale per trasformarsi esse stesse in città nelle quali si stabilisce una simbiosi, pressoché assoluta, tra l’officina ed il territorio circostante. Sorgono piccole città fuori dai cancelli delle fabbriche, con proprie vie e piazze, con edifici istituzionali, chiese, scuole, con dopolavori per il tempo libero. 15 Nel triangolo industriale tutto ruota intorno alle grandi imprese, prima fra tutte la Fiat. Nelle aree del Nord-Est si avvia, invece, un processo inedito d’industrializzazione diffusa, con piccole e medie aziende disseminate sul territorio, 13

Tale è il caso dell’Associazione degli Amici de “ Il Mondo”. Sui numerosi interventi in difesa dell’ambiente vedasi: “ Il Mondo”, Antologia di una rivista scomoda, a cura di Giampiero Carocci, Editori Riuniti, Roma, Aprile 1997. 14 Soprattutto ma non solo nel racconto “ Ragazzi di vita” e “ Una vita violenta”. 15 Il caso emblematico di città –fabbrica è ovviamente quello della Fiat. Situazioni simili si registrano però anche altrove. Un solo esempio integrativo può essere quello di Ivrea e dell’Olivetti. 20


in genere attorno ai 50 addetti. Un tessuto produttivo destinato a svolgere col tempo una funzione decisiva per la tenuta industriale, economica e produttiva del paese. Nel 1958-1959 cresce l’azione operaia e sindacale per un forte adeguamento dei salari: le retribuzioni cresceranno in media dell’80% tra il 1958 ed il 1963.16 In quest’anno, per la prima volta nella storia del Paese, ci si avvicina all’obiettivo della piena occupazione. S’introduce il meccanismo della scala mobile ad automatica salvaguardia dei salari. Il risultato di maggiore rilievo è però di natura politica. In ampissime parti della società si diffonde la convinzione che le condizioni di lavoro e di salario che hanno a lungo segnato la vita delle imprese nelle fasi antecedenti sono diventate ormai del tutto anacronistiche e vanno rapidamente superate. E’ giunta l’ora di ristabilire un equilibrio accettabile tra crescita dei profitti delle imprese ed equa distribuzione di parte di tali profitti al lavoro dipendente. Sulle condizioni di lavoro in fabbrica era in realtà in atto uno scontro iniziato già dai primi anni 60. Il contratto nazionale dei metalmeccanici del 1963 era non a caso incentrato sulla contrattazione nei luoghi di lavoro. A quel tempo le condizioni di lavoro venivano decise in maniera unilaterale dall’impresa e poi comunicati alle commissioni interne perché ne prendessero subalternamente atto : nessun controllo sull’organizzazione del lavoro, nessuna contrattazione degli orari, degli straordinari e della flessibilità, la gestione dei processi di mobilità nelle esclusive mani dell’azienda. I lavoratori non avevano diritto all’assemblea sul posto di lavoro, potendo partecipare alle discussioni che li riguardavano solo fuori dei cancelli delle fabbriche. La salute degli operai era continuamente a rischio per le pessime condizioni di lavoro e per i continui infortuni, cui spesso non faceva seguito il ricovero in ospedale per la paura di perdere il posto di lavoro17. L’esito delle rare trattative era riferito ai 16

Un concentrato di problemi e contraddizioni, come si vedrà, potenzialmente esplosivo. E’ l’antefatto dell’ “ Autunno caldo”, l’avvio di uno scontro, durissimo ed epocale, tra classe operaia e grande impresa. Epicentro del conflitto la Fiat, simbolo del capitalismo italiano. Alla fine degli anni 60 inizia a delinearsi una nuova organizzazione del Sindacato, più rappresentativa del mondo del lavoro e delle trasformazioni che in esso si sono realizzate. E’ l’avvio della stagione dei Consigli di Fabbrica e della ricerca del consolidamento di un rapporto unitario con la grande massa dei lavoratori meridionali immigrati dal Sud, in larga parte collocati in attività poco qualificate. Su ciò si soffermerà Bruno Trentin, “ Autunno caldo, il secondo biennio rosso 19681969” nell’intervista a Guido Liguori, Editori Riuniti, Roma , Luglio 1999; “ Il manovale specializzato è stata la grande conquista dell’autunno caldo, da parte di un sindacato di operai qualificati e specializzati”. 17 Anche nella letteratura si hanno i riflessi del profondo cambiamento in atto nel Paese. Nasce una “ letteratura industriale” che indaga le peculiari novità determinatesi sul terreno produttivo e del costume. Paolo Volponi esprime mirabilmente nei suoi romanzi questa “ tendenza”. Del 1962 è il suo “Memoriale”, riedito da “ L’Unità”, gennaio 2006; del 1965 è “La macchina mondiale”, del 1974 “Corporale”.Sulla stessa falsariga “ Taccuino industriale” di Ottiero Ottieni nel mentre tracce , seppur sintetiche, di questa nuova tendenza letteraria , si trovano nel n. 4 del “ Menabò”, la nuova rivista fondata da Elio Vittorini e diretta dallo scrittore siciliano insieme ad Italo Calvino dopo l’esperienza de “ Il Politecnico”. Una striscia creativa in cui è contestata la visione di presunto progresso lineare del capitalismo e si sostiene che l’industria deve svolgere una funzione non solo “utile”, ma “necessaria” per l’insieme della società. Essa non può pertanto tendere solo all’ esasperata crescita dei profitti a vantaggio del singolo ma perseguire anche una serie di obiettivi sociali, dalla riduzione dell’inquinamento alla tutela della salute pubblica. Nel 1985 Volponi ne “le mosche del Capitale” si sofferma, criticamente, proprio sulla funzione negativa delle industrie dominate dal 21


lavoratori dalle Commissioni Interne durante le brevissime pause dal lavoro. Il concetto di contrattazione aziendale, non più solo applicativa ma integrativa della intesa nazionale, risultava inaccettabile agli industriali. I Consigli divennero embrionale espressione della democrazia diretta per gestire i problemi della condizione operaia ed uno strumento essenziale per affermare la politica dei diritti. Essi puntarono con decisione anche ad ampliare ancora oltre la propria azione veicolando un forte messaggio politico : fare del tema della liberazione del lavoro il punto centrale di un programma riformatore. Il 1968 fu, dunque, una stagione di grande lotta salariale quindi, ma non solo. Le assemblee di fabbrica erano molto coinvolgenti e partecipate. La piattaforma contrattuale di Fiom, Film, Uilm, decisa a Milano nella prima Conferenza Nazionale dei quadri di fabbrica rivendicava aumenti egualitari per tutte le categorie operaie e per tutte le categorie speciali ed impiegatizie, la riduzione dell’orario settimanale a 40 ore, la definizione di vincoli al lavoro straordinario ed il diritto di assemblea retribuita in fabbrica durante l’orario di lavoro per 10 ore all’anno ed anche la partecipazione dei dirigenti sindacali esterni, il diritto di diffusione della stampa sindacale in fabbrica, la distribuzione del testo del contratto a tutti i lavoratori. Lo scontro diverrà subito durissimo. Il 25 settembre a Torino, in Piazza San Carlo, si svolge un’imponente manifestazione di 100.000 lavoratori, seguita, il 16 Ottobre, da un’altra grande manifestazione a Napoli Manifestazioni che vedono, di frequente, anche l’adesione ed il sostegno di grandi masse studentesche. Si è aperta la stagione dell’ “ autunno caldo ”. La grande manifestazione nazionale dei metalmeccanici del 28 Novembre 1969 aprirà la strada all’accordo sul contratto raggiunto il 21 Dicembre. La lotta,tesa ed aspra, favorita dalla mediazione del Ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin, si concluderà con la sostanziale vittoria operaia e con la sconfessione, da parte di Agnelli, presidente della Fiat, delle posizioni più dure ed oltranziste dei dirigenti dell’azienda. Le rivendicazioni sono sostanzialmente accolte: vengono riconosciuti i consigli di fabbrica con l’estensione delle tutele sindacali ai loro componenti; sul salario si ottiene l’aumento di 65 lire orarie per gli operai e 13.500 lire per i tecnici e gli impiegati, l’orario di lavoro è ridotto a 40 ore settimanali. Il contratto nazionale dei metalmeccanici segnerà una svolta nel confronto di potere che peserà ancora a lungo negli anni a venire decisivo anche per la conquista dello Statuto dei diritti dei lavoratori, approvato più avanti in Parlamento soprattutto grazie all’incisiva iniziativa del Ministro del Lavoro, il socialista Giacomo Brodolini. Nel 1971 era stata sospesa la convertibilità del dollaro. Nel 1973 si registra la prima crisi petrolifera, nel 1979 la seconda crisi petrolifera. Dal 1975 in avanti la curva potere”personale ed arbitrario, autoreferenziale”, svincolato da ogni progettualità e perciò inaffidabile in quanto “ fluttuante ” a seconda di umori e suggestioni di chi detiene il potere industriale. 22


dell’economia da ascendente divenne discendente, la crescita del PIL si dimezza e si riducono, drasticamente, le prospettive di crescita. Vennero ridotti gli interventi per gli ammortizzatori sociali e la spesa pubblica. Non siamo ancora di fronte alla recessione ma ad una crisi seria dello sviluppo. Dalla prospettiva del raggiungimento della piena occupazione si passa alla disoccupazione strutturale, che si attesta intorno alla media del 10%, a prevalente valenza giovanile e femminile, in larga parte concentrata nel Mezzogiorno. Ne deriveranno scelte che daranno vita a modelli di diffusa precarizzazione nel mercato del lavoro. Ulteriore elemento di novità peggiorativa iniziava è la questione, mai affrontata in passato, dell’invecchiamento della popolazione. Il Sindacato mostra i limiti della sua forza strategica, iniziando a manifestare difficoltà d’azione sul terreno delle grandi questioni sociali, ridimensionando il suo ruolo e la sua funzione di autorevole forza sociale che, insieme, fa vertenze nei luoghi di lavoro e si pone obiettivi generali di riforma, quali la conquista della piena occupazione, la tutela della salute ed il diritto all’istruzione. Il Sindacato non agisce più in relazione ad una visione progettuale generale sostenuta, quando è il caso, dall’organizzazione e dalla direzione del conflitto. Finisce piuttosto per rappresentare una complessa articolazione di interessi di una parte dei lavoratori occupati. Troppo spesso la sua linea, il suo progetto, la sua strategia divengono indefinite. O, pur avendo valide intuizioni ad esse non si da conseguenza pratica. In proposito è dirimente il punto della vertenzialità territoriale, sostanzialmente eliminata. Manca, poi, una linea, organica, costruita intorno all’idea forza dell’unità tra i sindacati. Ciò aiuta, di converso, la nascita, la crescita, la diffusione del sindacalismo autonomo e corporativo.. Il Sindacato media con la controparte e media continuamente al proprio interno con le varie anime, le “componenti”, in un defatigante esercizio che, in genere, avviene sul terreno definito dalle controparti. Non si coglie per tempo ciò che muta nella società né l’articolazione, sempre più complessa, degli interessi che il particolare tipo di sviluppo che si è determinato ha messo in movimento. Il salario diviene la cartina di tornasole della perdita della capacità di contrattazione del Sindacato. Fatto salvo il limitato involucro del Contratto Collettivo Nazionale si produce, nei fatti, attraverso l’estrema diversificazione dei contratti integrativi, quasi un sistema di nuove gabbie salariali, tra settori ed all’interno dei singoli settori. E’ utile al proposito ricordare come l’ultima ricerca sui salari in Italia sia quella di Pierre Carniti, ai primi anni 80. Poi pressoché nulla.

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Importanti riforme istituzionali, come quella che istituisce le Regioni, economiche, per l’intervento dello Stato nell’economia e per la movimentazione di risorse verso il Mezzogiorno, e sociali,a partire dalla legge n.833 del 1978 ed a quella per la possibilità di ricorso alla cassa integrazione guadagni, per la diffusione del sistema pensionistico pubblico, per i diritti sanciti nello Statuto dei diritti dei lavoratori, sono ancora il frutto dell’azione sindacale degli anni precedenti e della positività del ciclo economico. Nel periodo 1980-1990 il peso del debito pubblico sul PIL supera lo stesso PIL. E’ negli anni 70 che il Sindacato inizia a perdere di vista il proprio progetto generale. Il Sindacato italiano era cresciuto evidenziando una sua peculiare specificità nel contesto europeo e mondiale dei Paesi economicamente ed industrialmente progrediti. Esso aveva, già a partire dagli anni 50, ampliato progressivamente l’estensione del proprio campo d’azione non limitando il proprio agire che non si limitava più ai soli aspetti normativi e salariali del rapporto di lavoro, ma che si era andato espandendo ad aspetti politico- economici di natura più generale. Tale ruolo era divenuto sempre più incisivo e le Confederazioni dei lavoratori avevano visto crescere il proprio potere condizionamento sulle scelte politiche e delle imprese prorio in concomitanza con la fase di massima ascesa del ciclo economico. La situazione congiunturale favorevole, di crescita dell’economia e dello sviluppo, aveva affidato ai Sindacati una forza ed una capacità d’incidenza mai prima conosciuta. Il governo mediava il conflitto che maturava nelle pieghe della società tentandone la regolazione, attraverso la politica dei redditi e la concertazione delle scelte di redistribuzione delle risorse. Il sovrapporsi di motivazioni economiche e politiche nello sviluppo dell’azione sindacale, tuttavia, compromette una chiara definizione degli obiettivi e la selezione delle priorità, così come il progressivo modificarsi del quadro congiunturale e le trasformazioni dell’apparato produttivo contribuiscono a rendere complesso il mantenimento delle relazioni sindacali che aveva caratterizzato il periodo tra gli anni 50 e 60. I profondi mutamenti che da allora in avanti si realizzeranno determineranno le vere ragioni della crisi del Sindacato. Le difficoltà, tuttavia, trovano la loro spiegazione anche in altri fenomeni, di più lungo periodo, già antecedenti al manifestarsi della crisi e dei cambiamenti dell’economia. All’indomani del conflitto mondiale, in vari paesi, il Sindacato era divenuto interlocutore rappresentativo, legittimato istituzionalmente dai Governi ed, in tal senso, abilitato a svolgere un ruolo nella politica economica e nella gestione del mercato del lavoro.

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Con il rallentamento della crescita dei sistemi economici dei paesi industrializzati nella metà degli anni 70 si manifesteranno fenomeni di inflazione crescente, di incremento della disoccupazione, di caduta di produttività. Le difficoltà incontrate dalle imprese sui mercati interni accresceranno la ricerca di sbocchi sui mercati internazionali. Aumenteranno concorrenzialità ed instabilità nelle relazioni commerciali tra i vari paesi. Appare evidente la sempre maggiore interdipendenza tra le varie economie. La riduzione dei margini di profitto che ha interessato le maggiori industrie manifatturiere darà luogo a processi di ristrutturazione che porteranno, da un lato, alla riduzione dell’occupazione e, dall’altro, al declino, progressivo, del ruolo e del peso avuto fino a quel momento dai tradizionali settori manifatturieri nello sviluppo industriale. Si realizzerà un trasferimento degli investimenti, dall’industria ai settori dei servizi e del terziario, che finirà per creare nuove figure professionali, con minore propensione alla sindacalizzazione o, comunque, non immediatamente inquadrabili secondo i tradizionali modelli di reclutamento. Di fronte a strutturali trasformazioni dell’occupazione e dell’apparato produttivo il Sindacato ha difficoltà a mantenere la griglia dei diritti acquisiti e riduce, così, la sua rappresentatività. La sua azione è stata anche ostacolata dal fatto che in vari Stati, a partire dai primi anni 80, il quadro politico-istituzionale è mutato in senso conservatore. Nel decennio successivo il Sindacato perde consenso anche tra gli operai della grande industria, tradizionalmente sindacalizzati, i più interessati ai processi di ristrutturazione e conferma l’evidente difficoltà a radicarsi nell’arcipelago dei nuovi lavori. L’appiattimento retributivo, rincorso nella parte finale degli anni 60 e per tutti gli anni 70, ha concorso alla crisi, non contribuendo a dare soluzione al diffuso bisogno di maggiore valorizzazione del lavoro. Si è amplia la quota di salario non contrattata e si riduce la parte della retribuzione su cui il sindacato esercita la sua azione negoziale. Il sindacato, inoltre, non riesce a trasferire, sul piano politico, la forza contrattuale di cui prima disponeva, rendendo attuale il problema, irrisolto, della riconquista di una nuova legittimazione politica ed istituzionale.. Infine se negli anni 50 e 60 la spesa sociale, giustamente proporzionata alle risorse disponibili, è funzionale al perseguimento delle esigenze collettive, nella crisi degli anni 70, l’erosione del consenso e la maggiore instabilità politica ed economica contribuiscono all’espansione della spesa pubblica a fini assistenziali, orientata al mantenimento del consenso ed al contenimento della conflittualità nella moderna società industriale. La spesa pubblica è, però, cresciuta a dismisura alimentando l’immensa voragine del debito pubblico. Il peso degli interessi passivi sul PIL crescerà così fino ad 1/5.

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Il progetto del raggiungimento del pieno impiego si rivela irrealizzabile. Cresce la finanziarizzazione dell’economia. Alla fine degli anni 80 s’inizia a parlare dell’urgenza di elevare l’età pensionabile, uno degli elementi indispensabili per ridurre la spesa pubblica e per incentivare l’occupabilità. In ogni caso dagli anni 80 in avanti il Sinadacato non contratta altro che le modalità di espulsione della forza lavoro dalle imprese per crisi aziendali, di mercato o per ristrutturazione. Gli anni 90 sono quelli in cui iniziano a delinearsi, con sempre maggiore nitidezza, limiti e ragioni di un arretramento, l’identità di una sconfitta. Un parziale segmento di tale involuzione è riscontrabile nel tratteggio, prima, dell’ industrializzazione e, poi, della definitiva crisi di antichi comparti manifatturieri, in specie di quello cotoniero, simbolico esempio di un’idea di sviluppo e modernizzazione, mai definitivamente decollata,. di una provincia meridionale come quella di Salerno di cui, nelle pagine seguenti, si tenterà la riscrittura.

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02 L’INDUSTRIA COTONIERA IN ITALIA Tra i diversi settori dell’industria manifatturiera quello del cotone è quello in cui, per la prima volta, superando progressivamente le precedenti forme produttive, artigianali e a domicilio, si passa alla trasformazione dei rapporti di produzione dando vita a nuove strutture produttive,di ampie dimensioni, di tipo industriale. L’Europa era stata a lungo, nel corso del secolo diciannovesimo, l’area con un ruolo indiscusso e di primo piano nella produzione mondiale. In particolare l’industria tessile aveva trovato un’ampia espansione nei paesi dove si era realizzata la rivoluzione industriale, ed in specie in Inghilterra, in Francia ed in Germania. In Gran Bretagna la produzione della lana costituiva, già nel 1750, la principale produzione del settore tessile. Le industrie laniere erano geograficamente collocate, in grande maggioranza, nell’Inghilterra sud-occidentale, nella Scozia, nello Yorkschire. La lana grezza veniva in genere filata coi mulinelli a ruota, quindi tessuta sui telai. Le attività di tessitura e filatura erano sviluppate a domicilio, un sistema di produzione domestica cui concorrevano tutti i membri delle famiglie : le donne s’occupavano di filatura, gli uomini di tessitura. La consistente crescita demografica comportò, evidentemente, un significativo incremento della quantità di produzione richiesta dal mercato, sia interno che dell’area influenzata dall’egemonia inglese. La produzione era incentrata su merci di non alta qualità e prezzo. L’Inghilterra era stata il primo paese del mondo dove si erano realizzati specifici impianti artigianali idonei a questo tipo di produzione. Già nel 1733 John Kay, un orologiaio, aveva inventato la navetta volante, un dispositivo che, applicato al telaio, rendeva più rapido il lavoro di tessitura. Nel 1765 James Hargreaves aveva dato vita ad uno dei primi filatoi semimeccanici capace di filare, contemporaneamente, fino a 6 fili di cotone. Queste prime macchine artigianali furono utilizzate largamente nel lavoro a domicilio al punto che, nel 1788, erano già in funzione 20.000 filatoi. Si susseguirono poi nel tempo altre innovazioni : il filatoio ad acqua di Richard Arkwright , nel 1769, perfezionato da Samuel Crompton nel 1779. Più avanti apparve Il primo telaio interamente meccanico. Nel 1785 Edmund Cartwright inventò un telaio a vapore, perfezionato da Richard Roberts nel 1812. Le macchine mutarono alla radice le forme produttive antecedenti e, troppo grandi ed ingombranti per essere ospitate a domicilio, furono installate in ambienti più ampi e funzionali, in opifici e fabbriche. Nel comparto industriale che nasceva venne subito impiegata una quantità notevole di donne e bambini, cosa che, evidentemente, concorse a procurare la disoccupazione di molti lavoratori maschi. C’era bisogno di materia prima, di acqua e di vapore : Le fabbriche venivano costruite in prossimità di aree ricche di acque e fiumi e, spesso, prospicienti a zone carbonifere, che fornivano carburante a basso costo. Le nuove macchine erano in grado di produrre buoni tessuti di cotone, materiale apprezzato per leggerezza ed economicità e che, in tempi brevi, 27


sostituì la lana. E’ nel Lancashire che si concentra il grosso dell’industria cotoniera. Nel 1830 erano già in funzione ben 100.000 telai meccanici in grado di produrre, da soli, l’80% di tutto il cotone britannico. Nell’economia inglese il cotone diventava la produzione prevalente. Nel 1850 risultavano impiegati nel settore 350.000 lavoratori, tra cui 200.000 donne e 15.000 bambini. Nell’industria laniera lavoravano altre 200.000 persone. Il cotone, primo prodotto d’esportazione fino alla seconda guerra mondiale, costituiva il 35% di tutte le esportazioni britanniche. L’organizzazione del lavoro era rivolta al raggiungimento della massima produttività, grazie all’abbassamento verticale dei “tempi morti” tra lavoro e riposo. Per questa ragione iniziano ad essere realizzate abitazioni nei pressi delle fabbriche , esasperando il rapporto di osmosi tra l’operaio, l’ opificio ed il territorio circostante, con un’organizzazione antesignana del concetto di città-fabbrica. 18 Le scelte produttive ed il modello inglese si espansero, diffusamente, in altre aree del mondo. In Europa iniziò, in realtà, un relativo ridimensionamento dell’industria tessile nel mentre di converso progredirono altri settori industriali manifatturieri e, in particolare, l’industria metalmeccanica. In ogni caso fino a tutta la metà del secolo XX oltre il 50% dei fusi e la metà dei telai cotonieri era ancora saldamente concentrato nella vecchia Europa. 19 La produzione del cotone aveva vissuto una fase di crescita straordinaria rispetto alle altre fibre, la lana e la seta e, dopo la seconda guerra mondiale, costituiva ancora il 70% del totale delle fibre di base lavorate. In Italia un’industria cotoniera sufficientemente moderna ed avanzata si era sviluppata solo nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, in relativo ritardo rispetto a paesi, quali l’Inghilterra, dominanti il settore per produzione, commercializzazione, innovazione, scambi. Negli anni a cavallo del XIX e del XX secolo l’industria cotoniera aveva superato, in maniera considerevole, l’industria serica ed era diventata il ramo di gran lunga più importante di tutta l’industria manifatturiera, sia per numero globale di addetti che per produzione di valore aggiunto. Il picco nell’esportazione di prodotti tessili italiani si verificherà nel pieno del periodo fascista e proprio nel triennio 1926-1929, alla vigilia della grande depressione che avrebbe determinato una prima e grave compressione dell’occupazione e dei consumi, causando un blocco drammatico al processo di impetuosa crescita che, nei decenni antecedenti, aveva caratterizzato la vita del comparto tessile. Nella crisi generale dell’economia e dello stesso settore tessile si sarebbe salvato, solo parzialmente, il comparto delle fibre artificiali. 18

John Child, “L’Inghilterra della Rivoluzione Industriale”, Società Editrice Internazionale, Torino, pp. 18-20 e seg.

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“Storia d’Italia”, Annali 19, volume “La moda”, capitolo“Il cotone”, a cura di Gianpiero Fumi, pag. 397. 28


L’apogeo cui l’industria tessile era giunta alla fine degli anni ‘20 non verrà più raggiunto, nemmeno durante il periodo della ricostruzione industriale dopo il secondo conflitto mondiale e neanche negli anni del grande boom economico. Il settore tessile italiano ridurrà il proprio ruolo da grande settore proiettato all’esportazione, da segmento produttivo essenziale per il destino della produzione industriale nazionale, a comparto ridimensionato ed appena in grado di saturare la domanda di consumo interno. Va sottolineato ancora che in Italia, rispetto alle altre nazioni europee più avanzate, la produzione industriale tessile era stata in larga misura e per lunghi decenni prevalente rispetto a quella del comparto similare dell’abbigliamento. Nella programmazione e nello sviluppo delle imprese non si era prevista alcuna forma d’integrazione tra i due comparti. In ciò va colta la maggiore e più significativa differenza rispetto al ben diverso equilibrio ed alla più forte integrazione presente nel settore in Inghilterra, Germania, Francia, nei paesi all’avanguardia nello sviluppo industriale in Europa. Solo dagli anni 60 in poi si realizzerà in Italia un qualche riequilibrio tra i due comparti, pur all’interno della tendenza- prima richiamata- al ridimensionamento ormai in atto nel settore. 20 Le origini dell’attività di filatura e tessitura, con modalità artigianali e lavoro a domicilio sono individuabili, andando molto a ritroso nel tempo, a molti secoli prima. Già nel Medioevo in vaste aree territoriali della penisola, ed in specie nei territori lombardi di Milano e Cremona, lavoranti a domicilio erano stati impiegati nella produzione del fustagno. Ed essi, con l’andare del tempo, erano stati in grado di raggiungere un sempre maggiore grado di esperienza, competenza, professionalità. In Europa, come prima si è detto, era comunque l’Inghilterra, ed in specie il distretto di Manchester, il territorio in cui la capacità e la specializzazione produttiva erano giunti al grado più elevato. Lì erano state insediate le prime industrie manifatturiere utilizzando grandi capannoni nei quali era scandito, col tempo della macchina, il tempo di vita e di lavoro di uomini, donne, bambini. In quegli opifici erano state irrigimentate masse di lavoratori, provenienti in larga parte dalle campagne, sottoposti ad una dura e spietata disciplina. L’industria dava vita ad un nuovo soggetto economico e sociale,ad una nuova figura di lavoratore, l’operaio della grande impresa industriale, destinato a segnare nel profondo, col proprio lavoro, non solo i tratti che sarebbero stati assunti nel rapporto conflittuale, inevitabilmente destinato ad esplodere tra capitale e lavoro, ma anche la fisionomia e specificità della società nel suo complesso. Le tipologie delle produzioni inglesi iniziavano a plasmare ed a condizionare i caratteri, le quantità e la qualità del mercato interno, europeo e mondiale. A tappe accelerate iniziava a porsi, così, il problema di un significativo incremento dei volumi produttivi per fronteggiare la crescita dei consumi. Ne conseguiva la 20

“ Storia d’Italia”, La moda, Annali 19, op. cit. pag 399. 29


radicale trasformazione dei modi di produzione col passaggio, su larga scala, dall’artigianato all’industria che avrebbe garantito la realizzazione di grandi quantità di prodotti in una misura ben più massificata ed omogenea rispetto al tempo in cui ci si limitava alla specificità ed alla sola saturazione del mercato interno. In ogni caso, nello scenario del tempo, la funzione egemone e la capacità di condizionamento degli indirizzi del mercato rimase a lungo nelle mani degli inglesi e vennero esercitate grazie al ricorso ad un’indiscussa superiorità economica, ma anche militare. Essi, gli inglesi, furono i primi a determinare l’accelerazione ed il cambiamento produttivo radicale in precedenza ricordato. In particolare ci si pose il problema di saturare la domanda proveniente dalle classi ricche o relativamente tali Verso tale opzione s’indirizzò, per tutta una lunga fase, lo sforzo delle principali potenze europee del tempo. In Italia iniziò a materializzarsi, con un qualche ritardo, una domanda tesa a privilegiare i tessuti di cotone. Tuttavia, come s’ accennava, solo nel terzo e nel quarto decennio del XIX secolo iniziò ad affermarsi in Italia un nucleo di filature industriali di un qualche rilievo. Tale processo si concentrerà, in prevalenza, nelle aree piemontesi di Biella, Chieri e Novara, nelle aree lombarde dell’alto milanese e della Brianza nel mentre nel Sud, nell’area di Salerno, saranno realizzati alcuni impianti per la filatura industriale del cotone. Nelle stesse aree si verificò, al contempo, anche un importante sviluppo della tessitura che, a sua volta, iniziava la sua trasformazione produttiva, da lavorazione a domicilio a produzione industriale su larga scala, trasformazione resa possibile dall’ immissioni delle macchine Jacquard nel circuito produttivo. Lo sviluppo di queste imprese non fu all’inizio particolarmente accelerato a causa della prevalenza della popolazione agricola e, specie al Sud, di condizioni climatiche favorevoli che non rendevano indispensabile l’uso di vestiario particolarmente protettivo. Il livello ancora assai basso dei salari delle famiglie accentuava, poi, la tradizionale consuetudine delle famiglie di assicurarsi, da sé, la quantità di produzione esclusivamente bastevole ai propri bisogni ostacolando ogni tendenza all’espansione di più elevate quantità produttive ed alla produzione di articoli industriali in serie. La qualità e la quantità delle produzioni di questi primi complessi industriali restarono pertanto posizionati, per un arco temporale ancora relativamente lungo, su un basso livello di competizione, così come restò per molto tempo scarsa e limitata la capacità di diversificazione produttiva dei complessi industriali nazionali, ad eccezione del solo Stabilimento nazionale Archinto di Vaprio d’Adda, l’unico in Italia a “ poter competere con i produttori inglesi nella lavorazione del velluto a costa

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e dei tessuti rasati e felpati, per cui produceva direttamente i necessari filati e ritorti fini, oltre a tessuti spigati e operati di media qualità”21. Arretrata rimase altresì l’arte del candeggio, dei tessuti e della tintoria: la scadente qualità delle materie prime usate dalle tintorie per la colorazione delle stoffe non garantiva l’inalterabilità dei colori. 22 Più in avanti nel tempo la meccanizzazione di alcune filature attrezzate per la tintoria dei filati e dei tessuti garantì un qualche miglioramento. E’ quanto accadrà, ad esempio, nel salernitano, con le decisioni assunte dalla tintoria Meyer di Scafati che riuscirà a tingere in rosso di Adrianopoli pezze tessute dai contadini e dagli artigiani delle campagne sarnesi. Il processo di stampa era in larga parte importato, in specie dai territori tedesco- alsaziani. I titoli di filatura italiani restarono a lungo inferiori al numero 20, ovvero ad un titolo idoneo esclusivamente a tessuti di uso corrente. Solo la forte protezione daziaria consentì alle filature di reggere e di espandersi con un aumento dei fusi installati. 23 Si puntò decisamente all’incremento della produttività del lavoro, estendendo gli orari di attività e diffondendo il lavoro notturno. A partire degli anni 70 del XIX secolo nelle realtà industriali del Nord si afferma l’egemonia del Cotonificio Cantoni che, grazie ad Eugenio Cantoni, realizza un’accelerazione nella strutturazione competitiva delle imprese italiane. Il cotonificio Cantoni amplierà il suo intervento anche partecipando, con consistenti investimenti finanziari, a molte iniziative di altre aziende tessili. Cantoni infatti interviene, con proprie quote di partecipazione azionaria, in varie articolazioni produttive, dal settore del ricamificio a macchina, alle aziende di cucirini, nelle manifatture di velluti a macchine ed in un’industria di candeggio e tintoria, ad Olgiate Olona, in nuove grandi filature come la Krumm e C. di Legnano. L’industriale cotoniero acquisterà anche terreni in America settentrionale per coltivarvi, direttamente, il cotone occorrente all’approvvigionamento delle proprie aziende italiane. Il ricamo e la maglieria saranno i principali terreni di intervento da lui privilegiati. Si tratterà, comunque, di azioni che in genere non riusciranno ad incidere, in misura significativa, sulla modificazione del gusto e nella fiducia dei compratori. Nel 1861, alla prima Esposizione Nazionale di Firenze, si potrà verificare chiaramente come la produzione nazionale, anche quella più qualificata, continuava

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“Storia d’Italia”, La Moda, annali 19, richiamato in nota n. 27 a pag. 405, in particolare vedasi la nota al testo di D. Riva, “ I velluti dell’Adda. Un caso di pionierismo manifatturiero in Lombardia: Il cotonificio di Vaprio d’Adda( 1839-1989)”, Milano 1990, pag. 12. 22 “ Storia d’Italia”, La moda, op. cit, pag. 406. 23 “ Si calcola che, intorno al 1881-82, le fabbriche nazionali producessero 30 milioni di kg. di filati semplici non oltre il numero 40, di cui 25 milioni tra il numero 2 e il 20, titoli per cui il livello della protezione raggiungeva il 60% come ammisero gli stessi filatori per ottenere una maggiore protezione sui titoli alti”, In “ Storia d’Italia”;La Moda, op. cit. pag. 408. 31


ancora a proporre articoli tessili in genere di bassa qualità. La concorrenza straniera sui mercati dei filati e delle stoffe fini era di gran lunga più avanti. Una limitata eccezione, già emersa in occasione della esposizione di Firenze in precedenza richiamata, fu costituita dagli articoli dell’impresa Schlapfer e Wenner di Salerno che però ben presto si dovette confrontare, con difficoltà evidenti, con l’aggressiva concorrenza dell’industria straniera, soprattutto tedesca, sui mercati dei filati e delle stoffe fini. I tessuti italiani, piuttosto grossolani, erano il risultato del basso costo del lavoro e di una professionalità della manodopera ancora del tutto inadeguata, a fronte di una domanda interna solo in piccola parte sviluppata. Mancava nel paese una vera industria di rilievo nazionale. Non esisteva una standardizzazione nel vestire e prevalevano i tessuti di qualità corrente, non idonei ad essere tinti né, soprattutto, stampati. Come si è già accennato le confezioni prodotte a livello industriale erano ancora un campo in larga misura inesplorato. Fu perciò necessario iniziare ad immaginare, dati questi palesi limiti, una nuova articolazione produttiva integrata, rivolta alla realizzazione di un ciclo completo che comprendesse, assieme al tessile nelle sue varie articolazioni, anche l’abbigliamento. E’ quanto per primo comprese Eugenio Cantoni i cui stabilimenti, già a metà dell’Ottocento, si erano attrezzati per produrre in proprio tessuti che, partendo dai filati, fossero in grado di assicurare anche le fasi della tintoria e del candeggio. Nella stessa direzione di Cantoni iniziarono a muoversi, col trascorrere del tempo, una serie di altre imprese del settore, avviando una più ampia integrazione e diversificazione produttiva. In Brianza avanzò la specializzazione della tessitura e della maglieria. Tessitura e filatura industriale si espansero nelle Valli del bergamasco e nella Provincia di Brescia. Lo sviluppo della filatura crebbe in maniera sensibile nel periodo 1900-1912, in età giolittiana, con un aumento dei fusi da 2, 1 a 4, 5 milioni raggiungendo il picco massimo nel 1907. Miglioravano anche la finezza e la qualità dei filati. La materia prima utilizzata continuava, però, ad essere poco pregiata. In ogni caso la sostituzione del cotone alla lana ed al lino nel del gusto e nel consumo popolare fu processo lento e laborioso. Le vendite risentivano delle fasi altalenanti, di prosperità o depressione, dell’agricoltura. I prodotti del settore erano infatti destinati, in larga parte, alle famiglie contadine nel mentre era l’inurbamento e la sua accelerazione a dettare i tempi della produzione di prodotti più fini. A fine Ottocento risultava ancora largamente radicata la produzione a domicilio assicurata nelle campagne italiane dalle famiglie contadine. Tra il 1887 ed il 1898 si decuplicò l’esportazione di filati e tessuti italiani nell’America meridionale e ciò a fronte dei notevoli premi di restituzioni fiscali introdotti dal Governo per incentivare le esportazioni. Fu ancora il Cotonificio Cantoni a distinguersi collocando almeno la metà della sua produzione in America del Sud, nei Paesi dell’area balcanica, in Persia ed in Turchia. Grazie ad importanti interventi tecnologici crebbe l’espansione di tessuti imbianchiti più che di tele gregge. I telai meccanici nel periodo tra il 1876 ed il 1900 erano 32


aumentati da 26.800 a 70.000 fino a diventare 112.000 nel 1912. Nella tintoria fu accresciuta la gamma di colori disponibili. Si ampliarono, notevolmente, i campionari e l’Associazione Cotoniera Italiana decise di dar vita alla Mostra Campionaria Cotoniera permanente con sede a Milano. In ogni caso nessuno degli imprenditori tessili scelse la strada della massima specializzazione in uno specifico segmento produttivo. Ciò era evidentemente dovuto ai caratteri, ancora magmatici e differenziati, su cui si andava ad assestare il mercato interno dei consumi ed all’esigenza di fronteggiare, con immediatezza, la vendita dei prodotti evitando lunghe giacenze di merci in magazzino. Insufficiente era ancora il grado di capitalizzazione delle imprese, fortemente imperniato sulla dimensione familiare di alcuni nuclei industriali e condizionato dall’ insufficiente sviluppo di una concorrenza sul mercato interno che impediva un effettivo confronto sul piano della qualità. Il limite costituito dallo sviluppo, del tutto insufficiente, del settore nazionale dell’abbigliamento e della confezione su misura, con il passaggio dalla forma sartoriale a quella dell’industria vera e propria, e poi di serie, non bloccò in ogni caso gli sviluppi del settore stesso per come esso si caratterizzò nel periodo tra il XIX ed il XX secolo. I laboratori assunsero una nuova configurazione e ci si mosse in direzione di una più consistente e, tuttavia, ancora parziale meccanizzazione del lavoro. Nella confezione si realizzò un grande incremento degli addetti con una considerevole crescita dell’occupazione femminile, dato questo dagli evidenti risvolti di più ampio significato politico, sociale, culturale. Rimase tuttavia “…. ancora aperto il “circolo vizioso” dei rapporti tra “industria” dell’abbigliamento e distribuzione tessile, anche se diversi industriali cotonieri e alcuni grandi commercianti tessili manifestarono un interesse a sostenere lo sviluppo della grande distribuzione e l’espansione del mercato della confezione, partecipando alla creazione, nel 1912, dei Magazzini Vittoria a Milano e, cinque anni dopo, alla costituzione della Rinascente”24. Restò a lungo del tutto limitato il ramo delle imprese specializzate nella tintoria e nella stamperia. Nel 1925 si realizzò, come si accennava, il massimo sviluppo dei cotonifici e si raggiunse, nella filatura, un elevato grado di specializzazione. Crebbero in notevole quantità le esportazioni mentre decrebbero, drasticamente, le importazioni. Da qualche anno era iniziato in alcuni paesi della vecchia Europa la produzione di nuove fibre artificiali. La Snia Viscosa aveva introdotto, già all’indomani della fine della prima guerra mondiale, la produzione di rayon, “ una fibra corta dalle caratteristiche 24

Amatori, Proprietà e direzione : La Rinascente, cit. pag. 36-37 e 284-288, in “Storia d’Italia” op. cit, nota, p. 421. 33


merceologiche inferiori rispetto al cotone. Tuttavia poteva essere impiegata soprattutto dalle filature tradizionali, dove all’inizio fu introdotta senza necessità di sostegno ”.25 Il rayon ed i nuovi filati artificiali iniziarono a sostituire in vari impieghi, soprattutto nei tessuti estivi, il cotone. La nuova fibra, mentre ci si attrezzava per la conquista degli spazi sul mercato italiano, iniziò ad affermarsi rapidamente sui mercati esteri. Nel 1931 la Snia era arrivata a detenere l’80% della produzione del fiocco di rayon.. “Tra il 1930 ed il 1940 la produzione di rayon aumentò di ben sette volte e l’industria cotoniera ne assorbì una grande parte”. 26 La sicurezza dell’approvvigionamento della materia prima e di cotone greggio a prezzi vantaggiosi era un nodo essenziale per il destino dell’industria cotoniera nazionale. Un problema storicamente problematico da fronteggiare. La situazione divenne ancora più complessa nel 1935 quando per l’Italia si restrinsero le possibilità prima fornite dal mercato indiano ed egiziano. Il cotone greggio dovette essere importato, a quel punto, dagli Stati Uniti e dall’Argentina. Per affrontare al meglio queste difficoltà, mantenendo la propensione all’esportazione di filati e tessuti di cotone, il governo sostenne i produttori agricoli di fibre tessili ed incentivò, al massimo, la coltivazione del cotone in Sicilia e nella Somalia italiana. La produzione di greggio tra il 1934 ed il 1938 aumentò di dieci volte ma non riuscì a fronteggiare che in maniera parziale e del tutto limitata la quantità dei volumi richiesti dal mercato. I produttori italiani, in particolare i filatori, furono obbligati ad utilizzare, al posto del cotone, determinate quantità di rayon fiocco prodotto in Italia e nelle colonie. La quantità di cotone interna ai prodotti fu drasticamente ridotta. Per rispondere alle richieste del mercato interno fu incentivato l’uso alternativo del lino e della canapa. I tessuti interamente a base di cotone ridussero sensibilmente la loro quantità e la percentuale assicurata dai capi di puro cotone scese, nel corso della seconda guerra mondiale, addirittura alla percentuale del 19%. Si consideri che nel 1934 essa era del 91%. Al posto del cotone fu fatto largo ricorso al rayon. Nella maglieria fu invece la lana a prendere il posto del cotone. Durante la guerra la produzione di tessuti di cotone per l’esercito raggiunse il 16% del totale di filati e tessuti. Si verificò, però, una indubbia riduzione della qualità. Nel periodo immediatamente successivo al dopoguerra riprese un certo slancio la stessa produzione a domicilio. Nel campo dei velluti si era registrata una forte dipendenza dall’estero. La Snia promosse l’introduzione nel mercato delle nuove fibre definendo anche una propria partecipazione azionaria nel Cotonificio Veneziano e nel Cotonificio Olcese. La crisi del 1929 trovò le imprese del comparto tessile- cotoniero nazionale in una condizione di ampia arretratezza tecnologica , con un livello di specializzazione del tutto limitato , nel mentre il settore delle fibre artificiali e l’industria dei coloranti 25

“Storia d’Italia” La moda” Annali 19, Il cotone, op. cit. pag. 423.

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Pag. 423 op. cit. 34


crebbe in modo sensibile anche grazie all’aiuto dell’industria chimica. Persistette il grande ritardo nell’organizzazione industriale del settore dell’abbigliamento. Nel 1923 erano solo 4 le aziende italiane in grado di produrre capi di abbigliamento in quantità industriale, la Fias, fabbrica italiana abbigliamento signora, di Milano, l’Industria Nazionale dell’abbigliamento (Inaa) di Torino, l’Industria Vestiario di Firenze, la Old England di Roma, controllata dalla Rinascente. La popolazione italiana appariva del tutto scettica sulla bontà delle produzioni di confezione in serie. Ed esse, intorno al 1937, finirono per coprire solo parzialmente, ed in maniera differenziata, le esigenze di capi per donna, uomo e bambino. La percentuale più alta verso i bambini, la più bassa verso le donne. Nelle grandi tessiture e filature perciò la produzione più che in serie si articolò frammentandosi in varie quantità e tipologie di piccole e distinte dimensioni. La grande depressione degli anni 30 accentuò in Italia la tendenza a promuovere i consumi di fibre e tessuti non tradizionali nel mentre negli USA i cotonieri avviarono grandi campagne promozionali a sostegno dei consumi di prodotti di cotone. Il 1935 si accentuò la tendenza autarchica con l’obiettivo di azzerare le importazioni di tessuto cotoniero che andava sostituito con ogni mezzo. Aumentò il ricorso a tessuti e materie prime più scadenti ed in tal modo si determinò un indebolimento dell’immagine stessa del rayon. Bisognerà attendere la fine del secondo conflitto mondiale per assistere ad una qualche ripresa delle capacità produttive dei cotonifici italiani che, solo allora, ripresero in parte il lustro di venti anni prima. Questa tendenza si invertirà attorno al 1955 per produrre più avanti, nel 1959, una riduzione dell’11% dei fusi installati. Il numero dei telai decrescebbe addirittura del 30%. Durante il periodo della ricostruzione l’andamento della produzione di filati risultò stazionario nel mentre un incremento dei tessuti si verificò solo intorno alla fine degli anni 50. Il Governo e gli industriali del settore intervennero sulle filature e sulle tessiture con l’obiettivo di perseguire ragguardevoli incrementi di produttività in modo da pervenire alla riduzione del costo del lavoro. Bisognerà però attendere gli anni del boom economico per assistere ad un diffuso rinnovamento tecnologico ed impiantistico nel settore con l’eliminazione, in tutte le principali aziende tessili nazionali, del vecchio macchinario divenuto ormai da tempo del tutto obsoleto. Numerose aziende non in grado di rinnovarsi scomparirono. Nelle circa 100 grandi aziende di filatura vennero introdotti i telai ad anello, i rings, al posto dei filatoi intermittenti nel mentre nella tessitura, distribuita tra 600 aziende, furono installati, in notevole quantità, i telai automatici. Queste nuove macchine giungeranno a coprire circa il 56% del totale dei telai. Maggiore e più costante attenzione venne data, a quel punto, al problema del costante controllo della qualità. 27Un’attenzione in precedenza quasi sempre mancata e che invece, soprattutto nelle fibre artificiali e nel rayon diventò così elevata da consentire la massima estensione del loro utilizzo. A 27

Roberto Tremelloni, ”L’Industria tessile Italiana, come è sorta e come è oggi”, Torino, prima edizione 1937, nella relazione conclusiva nel rappresentare il quadro della situazione sosterrà che alla metà del 1952 un terzo dei rings di filatura aveva oltre 30 anni di età, il 18% da 20 a 30 anni, il restante una media di 15 anni(in “Storia d’Italia”, La Moda, pag. 430). 35


vantaggio di queste produzioni giocò favorevolemente il fattore della stabilità del prezzo, il facile adattamento ai macchinari, il minore costo di produzione rispetto al cotone greggio. E comunque in Italia nel 1951 la fibra di cotone continuava a rappresentare ancora l’85% dei filati dell’industria cotoniera per scendere all’81% nel 1960. I tessuti di puro cotone negli anni ‘50 coprivano ancora il 73-76 % della produzione cotoniera per scendere al 62% nel decennio seguente. I tessuti di solo cotone furono pertanto ancora quelli più diffusi sul mercato interno. Ma la tendenza generale aveva ormai iniziato, seppure lentamente, ad invertirsi. Furono alcune delle principali imprese del settore, come la Cantoni, ad iniziare ad optare, con sempre maggiore determinazione, in questa nuova ed innovativa direzione. La concorrenza dei paesi balcanici ed africani nei filati e nei tessuti determinò, alla fine degli anni 50, una forte contrazione delle esportazioni cotoniere nazionali. Si tentò una difesa rispetto a queste tendenze compensando il dato negativo con l’incremento delle vendite sul mercato interno. Il consumo tessile restò però sostanzialmente basso, in uno stato di accentuato sottoconsumo. Iniziò in compenso una crescita della confezione. Ancora Cantoni agì per compensare in questa direzione ciò che veniva perduto nel campo dei prodotti cotonieri. Si attrezzarono campionari, continuamente aggiornati da stagione a stagione, puntando a determinare nuove tendenze nei consumi popolari anticipando la propensione all’evoluzione del gusto. Un aumento dei consumi consentito, naturalmente, dalla generale crescita dei salari e dell’economia di quella fase della storia della società italiana. Eppure questo campo di produzione, relativamente più recente, si mosse in una prospettiva a sé stante e separata da ogni tendenza alla verticalizzazione ed all’integrazione con le altre fasi, antecedenti, del ciclo. Persistette una forte differenziazione dei consumi tra le città e le campagne dove ancora resisteva l’antica consuetudine del ricorso a vestiti confezionati a domicilio. Una tendenza di segno ben diverso dai paesi del Nord d’Europa e dagli Stati Uniti dove l’uso omogeneo delle confezioni già si era ben più ampiamente diffuso. La svolta si verificò agli inizi degli anni 60 quando i vestiti in serie pervennero, nella confezione, ad un più elevato livello di gusto e qualità. Incominciò a diffondersi allora la stessa produzione di lenzuola e di commesse ad uso militare. Venne infine fortemente incentivata l’azione promozionale ed in tale direzione si stabilì un rapporto, più stabile e proficuo, con i migliori stilisti. Il dominio della moda, che fino agli anni trenta era stato quasi esclusivamente a vantaggio dei francesi, iniziò ad essere intercettato dall’Italia. Nel dopoguerra si accentuò l’impegno alla creazione dei presupposti per l’affermazione, a livello mondiale, dei prodotti e del gusto Made in Italy con una capacità di ascesa, del tutto imprevedibile, che ben presto finì per affermarsi sul mercato nordamericano e poi in larga parte dei mercati mondiali. Venezia, Firenze, con Palazzo Pitti e la promozione delle edizioni annuali di Esposizione dei prodotti di moda e di alta moda, con sfilate e finanziamenti ricavati dalle sponsorizzazioni, 36


iniziarono ad aprire prospettive da cui in tutti gli anni a venire derivò uno straordinario beneficio alla bilancia commerciale. A Firenze convenivano i più grandi sarti d’alta moda italiani. La stessa consuetudine fu acquisita da altre importanti piazze d’Italia, come Milano, Venezia. Torino, Bari. Nacquero riviste e periodici come la rivista dell’Industria Tessile cotoniera e crebbero le campagne pubblicitarie al punto da dare finalmente il senso che la parte più avvertita dell’imprenditoria nazionale del settore aveva scelto una strategia di lungo periodo, d’investimento di consistenti risorse finanziarie per promuovere una specificità produttiva in grado di compensare, in buona parte, gli evidenti limiti strutturali di materie prime, risorse del sottosuolo, di imprese che aveva condizionato e che caratterizzerà ancora a lungo, nell’immediato futuro, la storia italiana. Eppure quella fase individuabile nell’arco temporale intercorso nel decennio tra il 1959 ed il 1969, storicamente decisiva per il comparto cotoniero italiano, di snodo circa le possibilità d’espansione ovvero d’avvio di un processo di crisi e decadenza del comparto nel suo complesso, non fu colta ed utilizzata pienamente in tutte le sue enormi potenzialità espansive. Dagli anni 70 in avanti iniziò infatti un profondo processo di riorganizzazione e ristrutturazione del settore che pesò, in negativo, anzitutto sulle aziende collocate nel Meridione d’Italia. Le grandi imprese collocate nel Nord, dopo una fase di difficoltà, acquisirono un nuovo slancio. Esso però, col trascorrere del tempo, si rivelò più apparente che reale. Non vennero infatti realizzate a tempo tutte le necessarie innovazioni di processo e di prodotto che avrebbero potuto consentire al settore di svolgere ancora a lungo un ruolo di primissimo piano nel generale contesto di un mercato che, ampliando ulteriormente i suoi tradizionali confini, iniziava a vedere la vorticosa ascesa di nuovi protagonisti. Iniziò così una fase di difficoltà e declino grave i cui sussulti finali oggi appaiono sempre più chiaramente evidenti.

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03. NASCITA E SVILUPPO DELLA GRANDE INDUSTRIA TESSILE A SALERNO-ALCUNI CENNI DI STORIATERRITORIO, ARTI PRODUTTIVE, TRADIZIONI. Ad un esame appena approfondito finiscono per risultare sufficientemente chiare le ragioni, non casuali, della scelta originaria dell’imprenditoria svizzera d’investire, massicciamente, nell’area salernitana e campana. In un determinato momento della storia meridionale si erano infatti andati a combinare più fattori che avevano concorso alla realizzazione di una tale decisione. Anzitutto la preesistenza di una tradizione assai antica nella lavorazione della lana che aveva avuto origine addirittura intorno all’anno Mille. Certo a quel tempo l’attività era essenzialmente domestica ma già all’inizio del 1300 s’era andata trasformando al punto da dar vita, lungo il fiume Irno, alla nascita di più botteghe artigiane. La fisionomia territoriale, influenzata da queste attività, aveva poi subito importanti mutazioni al punto da determinare un significativo incremento della popolazione. Una prima ed evidente distinzione di tipologie produttive dal resto del sud in quanto in tutto il circondario e nell’intero mezzogiorno l’attività economicoproduttiva largamente prevalente era quella agricola. Il tenore di vita delle popolazioni era in effetti a quel tempo assai precario e miserevole. Una distinzione produttiva si era avuta in particolare nella Valle dell’Irno ed essa era stata originata da più concause e fattori, dalla diffusa presenza di allevamenti di bovini, alla facilità di movimento delle greggi, all’assenza di qualsiasi controllo di compatibilità ambientale, all’abbondanza delle acque, indispensabili per lo spurgo e la tintura della fibra grezza, alla facilità di approvvigionamento di prodotto greggio proveniente dalle Puglie, al clima, umido e ventilato, che risultava particolarmente indicato per la lavorazione della lana. Nel Mezzogiorno, assieme alle Fiere Abruzzesi, già nel 1478 si erano manifestati molteplici fermenti, d’indubbia vivacità, del movimento commerciale assieme a svariati segni d’intraprendenza degli operatori locali. La collocazione geografica e lo sbocco sul mare costituivano supplementari motivi di stimolo e di attrazione anche se in genere, in occasione delle fiere, appariva già allora evidente il disequilibrio nella quantità di acquisti e vendite tra operatori locali e stranieri a largo vantaggio di questi ultimi. Giuseppe Galasso28 ricorda come il volume di acquisti e vendite di 75 operatori forestieri ( circa 22. 550 ducati ) equivalesse, nel 1478, a quello di 221 operatori meridionali (22. 900 ducati). Un riferimento storico importante il cui segno in sostanza non muterà nei secoli a venire quando verrà più volte confermato che questa provincia, come la gran parte dell’Italia meridionale ed insulare, è destinata ad assumere la funzione di area privilegiata di mercato per lo smercio sicuro di produzioni provenienti dal Nord del Paese. 28

“ Il Mezzogiorno nella storia d’Italia” ed. Le Monnier, Quaderni di storia , collana diretta da G. Spadolini, Firenze 1984, pag. 126. 38


Un elemento, evidente, di dicotomia nello sviluppo comincia in effetti ad evidenziarsi già in quel tempo. L’attività laniera consentirà in ogni caso, anche nel succedersi dei secoli, un livello di esistenza in genere superiore a quella delle aree limitrofe ad esclusivo orientamento agricolo. Un’insieme di comuni attigui iniziavano proprio allora a caratterizzare la propria identità in relazione alla nascita ed allo sviluppo di queste attività. Pellezzano, Capriglia, Coperchia, Cologna, Acquamela, Antessano, Gaiano. Ebbe inizio così un progressivo processo di crescita, tendenzialmente industriale, che porterà-nel XVIIsecolo-alla nascita di specifiche società commerciali per l’arte della lana con l’utilizzazione delle prime macchine. Già nel 1464 il Re Alfonso d’Aragona aveva intuito le notevoli possibilità espansive di queste attività produttive e ne aveva favorito la crescita ed il consolidamento. Su iniziativa del sovrano erano state cancellate tasse ed imposte volute, fin dal 1190, dall’arcivescovo di Salerno Niccolò D’Aiello, su concessione di Tancredi d’Altavilla. Dinamici mercanti della Valle dell’Irno avevano poi dato vita ad un florido commercio di grezzo con la Puglia investendo propri capitali per la produzione di diversi tipi di panno a domicilio, in specie berretti e calze di lana. Quell’iniziale dinamismo e l’indubbia professionalità, col passare del tempo sempre più affinata, accrebbero la domanda di prodotti di lana alla Valle. Si intravide perciò l’utilità di un ulteriore incremento dei volumi produttivi che potevano essere assicurati con il ricorso ai primi macchinari industriali. Nel Convento francescano della SS Trinità di Baronissi, intorno al 1621, fu così impiantato un opificio adibito alla lavorazione della lana. Nel 1647 furono costruite nuove cisterne per l’accumulo di una notevole quantità di acqua indispensabile, oltre che per la cucina ed i giardini, anche per i bisogni del lanificio. L’occupazione francese, in difformità a quanto stabilito dalla legge del 1811 che prevedeva la soppressione di molti conventi, salvò quello di Baronissi, proprio in considerazione del fatto che era stato destinato all’attività di lavorazione della lana. Alla fine del Seicento l’arte della lana aveva attraversato una prima crisi superata solo grazie agli investimenti effettuati dalla Mensa Arcivescovile di Salerno, che aveva assunto la decisione di fare costruire lungo il fiume Irno gualchirie, tintorie, opifici . Un nuovo periodo critico per l’arte della lana coincise con il passaggio di poteri dagli spagnoli agli Austriaci, nel XVII secolo. Le prime imprese manifatturiere, di tipo industriale, sorgono comunque nella Provincia di Salerno intorno alla fine del Settecento. Nel 1800 il Principe di Angri possedeva buona parte di territorio della zona di Fratte, alla periferia di Salerno, e vantava i propri diritti sulle acque del fiume Irno. Stesse pretese avanzava però il Principe di Avellino venuto in urto con la Mensa Arcivescovile, anch’essa proprietaria di gualchirie, che a sua volta accampava diritti sulle stesse acque. In ogni caso la nobiltà feudale pretendeva diritti fiscali sull’attività degli industriali lanieri. E dimostrava un sostanziale disinteresse per le 39


proprie responsabilità amministrative, nel mentre trascorreva a Napoli gran parte del suo tempo. Fu Carlo III a ridare impulso alla ripresa dell’attività manifatturiera con varie iniziative, di difesa e sostegno dell’industria e del commercio, favorendo un nuovo incremento della domanda e dei consumi. Le aziende, per fare fronte agli obblighi verso il sovrano, finirono per affidare parte di lavorazioni alle stesse famiglie dei propri operai. Agli inizi del XIX secolo l’attività laniera era ancora florida. La lavorazione era cresciuta in qualità, con l’utilizzo di materia prima più pregiata proveniente dalla Fiera di Foggia e grazie all’acquisizione di particolari tecniche di tintura. I comuni vicini al fiume Irno avevano 114 telai in attività, con produttività di 10. 000 pezze. Gli opifici di Baronissi, Capriglia, Saragnano fornivano panni e divise per l’esercito borbonico. Coperte per l’esercito erano poi prodotte nel territorio attorno a San Cipriano. La dominazione francese influì notevolmente sulle attività industriali della Valle. Nel 1806 dalla Svizzera e dalla Francia furono introdotti nuovi macchinari. Aumentarono, insieme, produttività e qualità dei manufatti. Nel 1815, col ritorno dei Borboni, l’attività dell’industria laniera crebbe ulteriormente. La società francese Chardelle installò nel suo stabilimento di Baronissi la prima cardatrice ad acqua. Uno strumento importante ed in grado di produrre il disegno sul tessuto. Più tentativi imprenditoriali attecchirono poi in quell’area territoriale. A Cologna i fratelli Pastore impiantarono un’impresa laniera con l’uso di macchine costruite in Belgio e in Inghilterra occupando fino a seicento operai impiegati nella lavorazione di tutto il ciclo della lana. Essa veniva battuta, lavata, asciugata, raffinata, cardata ed infine filata. A Baronissi nel 1811 erano attivi ben 29 lanifici, poi ridotti a 18 nel 1847. Ad Acquamela operavano piccoli impianti di tintoria per la lana, che raccoglievano nei boschi circostanti la materia prima per colorare i panni. Uno degli antichi lanifici, il “ Notari” di Pellezzano, è rimasto in attività fino al 1951. In conclusione la lavorazione della lana diede luogo, per un lungo periodo, ad un’attività economica importante e solida nella Valle, che progredì per secoli. Solo tra i comuni di Pellezzano e Baronissi erano in vario modo occupati circa 15. 000 lavoratori d’ambo i sessi. In considerazione del fatto che la popolazione censita ufficialmente a quel tempo ammontava a 9. 000 persone è evidente come questi comuni erano diventati punto di attrazione e di coagulo per numerosi altri lavoratori delle aree limitrofe. I manufatti lì lavorati erano venduti, per la loro qualità, in tutto il Regno e venivano esportati fin nelle isole del Mediterraneo. Lusinghiere perciò le rilevazioni segnalate a proposito negli Annali Civici del Regno delle Due Sicilie. L’espansione e lo sviluppo furono tali che nel 1840 la Fiera di Salerno superò, nei volumi di scambi commerciali, la grande Fiera di Santa Caterina di Foggia. La progressiva crescita dell’attività laniera finì per incrinarsi e per andare seriamente in crisi proprio in concomitanza con l’unificazione nazionale del 1860 e l’annessione al Regno d’Italia.

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Più concause determinarono l’accelerazione della crisi. Anzitutto gli industriali lanieri erano stati abituati, sotto la dominazione borbonica, ad una forte politica protezionistica e doganale e non ressero nel passaggio al liberismo, nella nuova situazione di competitività e concorrenza con le altre aziende del giovane Regno. Venne poi meno la garanzia della grande quantità di commesse pubbliche dell’esercito borbonico, nel mentre il nuovo Regno decise di approvvigionarsi, in larghissima misura, dalle industrie francesi, inglesi, piemontesi. Gli industriali lanieri inoltre non investirono i profitti in precedenza accumulati puntando su un’ulteriore crescita di qualità. Progressivamente, nel procedere della crisi, si determinò un’impoverimento della manodopera più qualificata. Molti lavoratori, alquanto professionalizzati con quell’esperienza lavorativa, a fronte dell’incertezza che iniziava a regnare sovrana, decisero di trovare reimpiego presso altre aziende piemontesi e del Nord. Una decadenza, progressiva e grave, che per la prima volta nella storia degli insediamenti produttivi lanieri diede vita a manifestazioni operaie di protesta. Scelte politiche ed opzioni forti a vantaggio delle imprese del Nord furono in sostanza le cause essenziali della progressiva ma inesorabile scomparsa di una grande esperienza industriale, sociale e produttiva. Le pubbliche amministrazioni locali e le classi politiche del territorio non si mostrarono neanche lontanamente all’altezza della sfida, nè riuscirono a svolgere alcuna valida funzione di contrasto alle tendenze in atto, non salvaguardarono nè difesero la storia, la tradizione, il lavoro. L’ipotesi del parlamentare R. Conforti, eletto nel Collegio di San Severino e Ministro di grazia e giustizia nel 1862, di creare un unico, potente polo laniero, accorpando tutti gli opifici ammodernati in una sola grande impresa integrata, non fu presa in considerazione con l’attenzione che avrebbe invece meritato ed il progetto fallì. A quel punto la fisionomia della Valle dell’Irno mutò sensibilmente. Molti lavoratori lanieri emigrarono verso altre industrie cotoniere, altri tentarono di riconvertirsi avviando in proprio attività artigianali, tanti altri scelsero la strada dell’America. Dopo le numerose crisi superate, di volta in volta dovute a fortissime imposizioni feudali fiscali, all’epidemia di peste del 1656, alla svalutazione monetaria del 1693, alla carestia del 1764, ed alle epidemie di colera del 1837 e del 1884, si arrivò alla fine dell’industria della lana. Sopravvissero soltanto pochissimi degli antichi lanifici. Lo storico lanificio “ Napoli”, pressochè esclusiva eccezione, ha protratto la propria attività fino al 1967. A ricordo dell’antica arte della lana sono sopravvissute soltanto piccole attività artigianali. 29

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Di notevole interesse, al proposito, l’opera di Giuseppe Rescigno, “ Itinerari ambientali e culturali a Mercato S. Severino”, in specie il terzo tomo dell’opera:” Arti e Mestieri tra passato e presente”. Per la nostra trattazione i capitoli : “ Dal Medioevo all’età moderna”, con il paragrafo su “ tessitori, canapari, capisciolari”pp. 29-35 e quello sul Settecento: “ Arte della lana, seta, canapa”pp. 56-77. Vi si riscontra una circostanziata ricostruzione dei primordi dell’arte della lana a Mercato S. Severino e nella Valle dell’Irno, ma anche dell’arte della seta e della canapa. 41


04 PRIME INDAGINI STORIOGRAFICHE E’in ogni caso nel 700 che iniziano a delinearsi ricerche ed indagini storiche più accurate con l’accumulo di un consistente patrimonio di conoscenza documentaria. E’ opera degli scrittori napoletani della prima metà del ‘700 l’avvio di prime ricerche sulla realtà fisica, demografica, economica e sociale del Regno, sia nel suo insieme che nelle singole province che lo compongono. Il periodo dei primi e più sistematici studi di tipo meridionalista. L’avvio di una presa di coscienza delle cause strutturali dell’arretratezza meridionale. E’allora che iniziano a porsi prime comparazioni con due dei più avanzati Paesi dell’Europa del tempo , la Francia e l’Inghilterra. Nelle pagine degli illuministi e dei riformatori del ‘700 il Mezzogiorno inizia a configurararsi come un grande problema nazionale autonomo avvertito come problema della Nazione napoletana. Il senso di una questione meridionale specifica da intendere quale problema del Mezzogiorno nell’ambito della nazione italiana ed al tempo stesso della nazione italiana nel suo insieme è, ovviamente, ancora assente:sarà, infatti, il dramma e la scoperta dell’Italia unita. Genovesi sosterrà la tesi secondo cui la causa del degrado del Regno è esclusivamente“la poltroneria, è il lusso, è il costume, è il non esservi più fede, né privata che pubblica” ed “… è la povertà ad essere causa di questi mali e che causa vera della povertà, “questa sorgente di tanti vizi”, è l’ineguaglianza delle fortune, l’appropriazione dei frutti del lavoro della gran massa da parte di pochi privilegiati:di qui il lavoro senza speranza, che è fatica penosa, e la neghittosità e i vizi dei poveri, la loro degradazione sociale e morale”30. E Galanti attribuisce le cause della diffusione della delinquenza “…alla cattiva educazione, ai pregiudizi sociali, all’eccesso ed insieme al cattivo uso del tempo libero, alla disgregazione della società, alla miseria”. 31 Il periodo napoleonico, nell’arco temporale intercorso tra il 1800 ed il 1810, ricorda Pasquale Villani32, è un periodo storico di particolare interesse per inquadrare l’insieme della vicenda di cui in questa trattazione intendiamo occuparci. La fase in cui, per una serie di circostanze storico-politiche generali ed esterne, trascendenti la dimensione esclusivamente locale, si determinerà uno sviluppo significativo dell’industria manifatturiera cotoniera locale. Anzitutto il blocco continentale contro manufatti e commercio inglese offre insperate possibilità d’incremento della produzione e delle merci dell’industria locale. Poi la politica napoleonica tesa a favorire, in ogni modo, la produzione francese contrasta sia l’ipotesi di creazione in loco di nuovi opifici che la volontà di sviluppare e sostenere le imprese già esistenti. Il territorio italiano deve diventare soltanto area privilegiata di smercio delle produzioni e dei manufatti francesi limitandosi a svolgere un esclusivo ruolo di mercato e di consumo, una colonia da cui trarre a 30

A. Genovesi, Lettere Accademiche , In Illuministi Italiani, T. V. cit. pp. 253 e seg. G. M. Galanti, Nuova descrizione delle Sicilie, ivi, pp. 1076-1079. 32 P. Villani, ”Il Picentino” n. s. , A1-1957. 31

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buon mercato prodotti agricoli e materie prime. Si tollera la coltura del cotone, la presenza di piante tintorie ma si vuole al contempo evitare in ogni modo il sorgere, nei territori sottoposti al dominio francese, di qualsivoglia attività che possa in un qualche modo interferire facendo concorrenza all’esportazione di prodotti delle imprese francesi. A tale proposito La Feuillade, il rappresentante francese a Napoli, nel dispaccio del 4 Novembre 180833 sollecita fortemente il Murat ed il governo napoletano onde ottenere condizioni di particolare favore per l’esportazioni delle stoffe francesi nel Regno. 34C’è da rilevare che la non passiva accettazione di una tale posizione da parte del Murat e la relativa perifericità di Napoli da Parigi valsero a salvaguardare, almeno in parte, le industrie locali, a differenza di quanto accadde nelle regioni del Nord, più vicine alla Francia e più facili da controllare, direttamente, da Napoleone e dai francesi. Abbiamo così, in questo periodo, un doppio scenario:le industrie piemontesi, lombarde, Venete e Toscane risentono di tali direttive e subiscono indubbiamente danni evidenti, quelle meridionali vivono, nel periodo francese, una fase di relativo sviluppo con una più ampia diffusione dell’attività manifatturiera. In ogni caso le restrizioni commerciali imposte dall’imperatore ebbero conseguenze non irrilevanti ed alcuni settori, per primo quello cotoniero, furono colpiti dal divieto d’importare cotone dall’estero ed anche dalla pratica dell’accaparramento operato dai francesi sulla materia prima coltivata nel Regno. 35 I francesi si mostrano particolarmente attenti nell’acquisizione di un’accurata conoscenza di tutto ciò che si produce nel Regno ed in specie nella circostanziata azione di indagine di ogni aspetto dell’articolazione produttiva e lavorativa delle manifatture, in ogni ramo dell’industria. E’ probabilmente del 1807 il censimento che dettaglia la situazione di ogni comune della Provincia. In esso vengono indicati 30 centri della provincia come sedi in cui insiste un’attività manifatturiera degna di nota nel mentre le realtà dove a quel tempo si sviluppa un’attività non a domicilio e meritevole pertanto di attenzione sono assai di meno : Salerno, Mercato S. Severino coi suoi casali limitrofi, in specie Pellezzano e Baronissi, e poi Vietri, Cava, Eboli, Acerno, Amalfi e San Cipriano. Solo più avanti inizierà ad industrializzarsi l’area destinata ad assumere, col tempo, un carattere industriale definito e specifico, quella dei comuni di Fratte, Nocera, Pagani, Angri, Scafati e Sarno. Ma l’impulso allo sviluppo di questi comuni avverrà più avanti, intorno al 1820-1830.

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CFR. A. E. P. , Correspondance politique, Naples, 132; Vedasi anche al proposito :” Napoleon et l’Italie” di A. Fugier, Parigi, pag. 261 e seguenti; 35 Utile la consultazione di C. Barbagallo, “ Le origini della grande industria contemporanea; (1750-1850), Venezia 1929-1930, vol II, al capitolo : “ Lo sviluppo dell’industria in Italia tra il 1750 e il 1814”; R. Morandi: “Storia della grande industria in Italia”, Bari, 1931, pp1-40; R. Tremelloni, “ Storia dell’industria italiana contemporanea”, Torino, 1947, pp. 149-152 ; Inoltre E. V. Tarle, “ La vita economica dell’Italia nell’età napoleonica”, Torino, 1950; 34

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Fuori dalle aree comunali citate soltanto la città di Cava aveva un’antica tradizione nella lavorazione di tessuti di lana, seta e di cotone36. Qui c’era un’antico, operoso e diffuso ceto di artigiani, imprenditori e commercianti e gran parte della popolazione concorreva, a vario titolo, ai diversi stadi della lavorazione. Al tempo francese, nel biennio 1807-1808, le antiche lavorazioni della seta e della lana erano ormai decadute nel mentre resisteva solo l’attività di lavorazione del cotone, la cui materia prima veniva importata dall’estero. Il blocco alle importazioni della materia prima da lavorare aveva però determinato, come si è detto, conseguenze gravemente lesive anche su quest’ultima branca di produzione, per cui essa rischiava a sua volta di essere definitivamente soppressa con conseguenze disastrose sul lavoro della popolazione cavese. Questi i motivi, ricorderà Villani, che indurranno centinaia di cittadini ad indirizzare al sindaco Pietro Ferrara una supplica poi trasferita, con una sua nota di sostegno, al Ministero dell’Interno che rimise la pratica all’intendente di Salerno37 il quale chiese quale dovesse essere la quantità di “bombace”da lavorare per consentire la continuità del lavoro. Prima, si rileva dal carteggio intercorso, si producevano, grazie alla materia prima proveniente dall’esterno, fino a 200. 000 ducati. Ora invece il cotone grezzo, fornito soltanto dall’area della Terra di Lavoro, non consentiva di superare “il negoziato”di 70. 000 ducati. Si perdevano così i due terzi del lavoro prima garantito. Su questa attività si reggeva il Comune di Cava, quello di Vietri, di Tramonti ed altri comuni della costiera. Lavoratori addestrati ad ogni articolazione del ciclo di produzione, dai battitori, alle filandiere, ai tessitori e tessitrici, ai biancheggiatori, ai suppressatori, cardatori, tintori. Il sindaco di Cava, inoltre, alimentava la tesi secondo cui i coltivatori di cotone fossero venuti meno ai contratti già siglati dai fabbricanti di Cava, che avevano già pagato in anticipo la materia prima nel mentre i coltivatori l’avevano venduta ad altri per ricavarne introiti più vantaggiosi. In realtà non ci troviamo ancora di fronte ad una vera attività industriale, quanto piuttosto ad un’organizzazione decentrata e collegata. Gli industriali e i negozianti acquistavano il cotone in Puglia ed in Terra di Lavoro e poi lo distribuivano a tutte le articolazioni professionali esistenti sul territorio, che lo lavoravano a domicilio prima di riconsegnarlo per la vendita sul mercato. Esisteva per così dire una catena produttiva, che si dipanava casa per casa, nella quale era presente un’insieme di perizie e qualità professionali di tipo artigiano, uomini e donne, e ciò era a lungo valso per il lino, la canapa, il cotone. Era però evidente come questo tipo di organizzazione, decentrata ed artigianale, non avrebbe potuto competere ancora a lungo con la grande impresa avendo bisogno di costanti adeguamenti ed innovazioni che potevano essere garantite solo dall’immissione di macchine moderne idonee a migliorare qualità della produzione incrementandone al contempo la quantità. 36

A. Sinno, “Commercio e Industrie nel salernitano dal XIII ai primordi del XIX Secolo”, I, Salerno, 1954, pp. 54 e seg. 37 CFR. Sinno, op. cit, p. 113 44


Era possibile estendere e differenziare le tipologie produttive, ampliando il numero dei colori dei panni lavorati. Per fare ciò era però necessario disporre di consistenti capitali da investire. Macchine e capitali che non era facile procurare. Il quadro tracciato per la città di Cava era pressappoco lo stesso nel resto del Regno, tranne sporadiche eccezioni di impresa concentrata. Ovunque prevaleva l’artigianato e la fabbrica disseminata sul territorio. Una eccezione era la fabbrica Ruggiero, di Napoli, allocata nel comune di Vietri, un lanificio sorto nel 1794, un’esperienza però sfortunata con l’insorgenza di difficoltà dovute all’incendio subito durante la rivoluzione del 1799. 38 Nel 1804 nel lanificio risultano operanti 120 lavoratori, nel mentre per essa lavoravano a domicilio circa 200 donne. C’era anche un gruppo di ragazzi che si addestravano al lavoro in fabbrica. La Ruggiero era una fabbrica, a forma mista, in cui le lavoranti a domicilio venivano impiegate nello stadio iniziale del processo di lavorazione, nel mentre il lavoro di lavaggio, cardatura, tessitura, delle gualchiere era effettuato in appositi locali da manodopera numerosa e concentrata che, con i 60 telai a piena lavorazione, poteva anche raggiungere le 300 unità. Dalla fabbrica uscivano gli “arbasci”, già confezionati in cappotti pronti all’uso. Una fabbrica quindi insieme lanificio e sartoria. Nel 1806 il lanificio verrà occupato dai francesi finendo per cessare ogni attività. La produzione della lana era antichissima ma non si poteva sviluppare oltre non esistendo disponibilità di macchine moderne del tipo di quelle già operanti in Francia. Un altro comune interessante per la nostra trattazione era S. Cipriano, ove venivano prodotte le coperte di lana, e di tale prodotto questo centro aveva per così dire il monopolio di tutto il Regno. 39 L’esercito utilizzava abbondantemente le coperte di S. Cipriano. Anche in questo caso si trattava però di produzione artigianale e domiciliare, non strutturata industrialmente. La lavorazione delle coperte di lana avveniva anche a Giffoni, ma era S. Cipriano il punto più importante da cui si dipartiva in varie direzioni lo smistamento della produzione. Era naturalmente decisivo l’indirizzo generale delle scelte di governo, nel senso che esso era garante degli aiuti a vario titolo assicurati alle imprese. Autorizzava o vietava l’introduzione di nuovi macchinari e di moderni sistemi di produzione, sceglieva chi favorire e chi no tra i produttori ed i commercianti che ne richiedevano la protezione. Molti erano gli ostacoli burocratici da superare per ottenere l’autorizzazione ad attuare innovazioni e spesso la discrezionalità finiva per vanificare anche le migliori intenzioni. Scelte e vincoli che, fatte salve le distinzioni e le specificità che da allora 38

Già nel 1789 Ferdinando IV aveva istituito la Real Colonia di San Leucio, nei pressi della Reggia di Caserta. Una comunità manifatturiera ideale di seta grezza. I lavoratori lì impiegati avrebbero avuto una condizione di maggiore vantaggio rispetto al resto della popolazione. L’opificio si specializzerà nella produzione di sete di particolare pregio e bellezza.( completa con nota 36 altro testo Industria tessile) 39 M. Ciuffi, L’Industria e il commercio della lana in San Cipriano Picentino nei secoli XVI-XVIII, in Rassegna Storica Salernitana , Luglio-Dicembre 1953 e Note Storiche su San Cipriano Picentino, Portici, 1954 45


in avanti di volta in volta si presenteranno, nei decenni a venire finiranno per condizionare la crescita, lo sviluppo ovvero per determinare la crisi e la decadenza dell’impresa meridionale manifatturiera. Siamo, come si può facilmente constatare, in una situazione in cui più che la pura e neutra regola del mercato che screma tra la concorrenza consentendo, a parità di condizioni di partenza, l’affermarsi delle situazioni ove si registrano le migliori capacità di innovazione, di organizzazione, di creatività, di abilità di adeguamento alla domanda, di diversificazione produttiva, d’inventiva, diviene decisivo-e molto-il rapporto, di sintonia o di avversità, con il potere statale. Sarà questo uno dei fattori, essenziali, che inciderà-pesantemente- per l’affermazione e l’espansione ovvero per la fine di un’idea produttiva. Un retaggio ed un’incursione del potere politico-statale sul merito dell’attività d’impresa che, anche negli anni a venire, diverrà una costante della storia italiana. Ciò che segnerà, in negativo rispetto a quanto si registra in altri paesi europei più avanzati, lo sviluppo peculiare del capitalismo nazionale ed il coagularsi al suo interno d’innumerevoli discrasie e contraddizioni. Varie fonti confermano, come si è spiegato, l’esistenza di un’antica consuetudine nella lavorazione del settore. Un’ulteriore testimonianza dell’abitudine alla coltivazione delle piante tessili è reperibile nella relazione Statistica del Regno di Napoli del 1811, 40 quando si ricorda come : “ Del lino si fa uso nell’intera Provincia (di Salerno) ma in piccoli dettagli come per i bachi da seta…Nell’Agro Nocerino, poi, includendo Angri, Sarno, Scafati, per l’eccedenza di quei territori e per essersi colà abituata la cultura, questa può estendersi alla metà di più di quella che se ne faccia nei piccoli dettagli della Provincia … Non è la qualità di tal prodotto paragonabile a quello dell’Agro Aversano. Pochissima canapa si fa per la Provincia e qualche poco se ne fa nell’Agro Nocerino. Colà se ne formano delle funi non buone. La macerazione dei lini…non si ha molta cura di farsi lungi dall’abitato perché resta danneggiata l’atmosfera delle aree rispettive”.

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Oggi in G. De Rosa, A. Cestaro, “ Territorio e Società nella storia del Mezzogiorno”, Napoli , 1973, pp353-354. 46


05 GLI SVIZZERI : I PRIMI INSEDIAMENTI Lo scenario prima tratteggiato finisce per essere sconvolto, fin nelle sue radici, nei primi decenni dell’Ottocento. Un grande polo tessile fiorisce allora nell’area Nord della Provincia di Salerno diramandosi fin verso Napoli. Sarà questo il settore manifatturiero che, tra tutti, realizzerà lo sviluppo più significativo e consistente. Le industrie sorte ai primi dell’Ottocento nascono in prossimità dei fiumi per poter sfruttare al meglio l’energia prodotta dalle grosse ruote e per poter disporre, in abbondanza, di acqua indispensabile per la tintura dei panni. Con il complesso industriale del 1812 di Piedimonte d’Alife ha inizio così una lunga storia di nuovi insediamenti nel territorio del Regno di Napoli. Le industrie svizzere legate all’importazione di bambagia dall’Inghilterra avevano avuto un forte ribasso della produzione ed erano ormai prive dei vecchi sbocchi commerciali. La Svizzera doveva individuare nuovi paesi dove investire e che non subissero il monopolio dei suoi principali e diretti concorrenti. Napoli era un’area indipendente, uno Stato libero dove la Svizzera poteva creare-ex novo- una propria area d’influenza. Le iniziative che saranno attuate non saranno statali ma private. Il Regno delle Due Sicilie vedeva a sua volta con favore la possibilità di interventi di capitali esteri che potessero favorire il raggiungimento di una propria più ampia autonomia. I sovrani quindi consentirono l’ingresso degli imprenditori svizzeri preferendoli a quelli delle grandi potenze anche perché non sembravano in alcun modo rappresentare una minaccia. La Svizzera era un paese neutrale e ciò garantiva la sua non ingerenza nelle scelte politiche degli altri Stati. Inghilterra e Francia erano invece adusi ad intervenire, anche militarmente, quando altri Stati tentavano di interferire con le proprie attività commerciali. L’industrializzazione del Sud si baserà così sul capitale straniero e su appoggi e privilegi ottenuti localmente. Avremo, da quel momento in avanti, un'autentica rivoluzione Industriale con la contemporanea evidenzazione delle forme - anche piu' spregiudicate ed estreme- di sfruttamento. A Fratte, Angri, Scafati e nelle altre cittadine industriali del Distretto di Salerno si dara' luogo all'utilizzo, numericamente assai massiccio, di bambini dai 5 anni in su'. Le condizioni dei lavoratori sono durissime, con orari giornalieri interminabili, fino a 12 o 14 ore, cui spesso vanno aggiunte ulteriori 4 o 5 ore per raggiungere il posto di lavoro e per tornare poi a casa. I salari sono bassissimi e le retribuzioni nettamente differenziate, anche del 50%, tra gli uomini e le donne. L'alimentazione e' scarsa, priva di calorie, del tutto insufficiente. Il rischio della disoccupazione e' costante. E’ Davide Vonwiller il pioniere di questa schiera di imprenditori che, nel 1816, costituisce a Fratte una filanda di 200 fusi ed una macchina a vapore da usare in caso di assenza di acqua. Una società in accomandita che come altro socio ha Federico Zueblin. E poi i fratelli Martino e Raffaele Cilento. Nella società entreranno in 47


seguito anche Federico Alberto Wenner, Giovanni Fehlmann, Dittelo Freytag, Giovanni Corrado Schlaepfer, Corrado e Giulio Zueblin, Pietro Lauro, Vincenzo Fusco ed il tedesco Federico Gruber. Dall’Irno il processo di industrializzazione si espande nelle aree vicine al fiume Sarno dove nascerà la Società Industriale Partenopea, con 800 operai. Ulteriori industrie tessili, di minori dimensioni, inoltre sorgeranno a Maiori, Minori, Acerno, Oliveto Citra. Nell’area salernitana in quel periodo vi era un altro settore di rilievo, quello dei pastifici, con aziende ad Amalfi, Vietri, Salerno, Nocera, Roccapiemonte, Penta. Una discreta presenza si registrava anche ad Eboli, Giffoni e Montecorvino. Le filande meccaniche di Davide Wonviller e Co e dei signori Fumagalli, Escher e Co, saranno messe definitivamente in funzione presso il Ponte della Fratta rispettivamente nel 1830 e nel 1835. Oltre a tali insediamenti erano sorti, sempre sul fiume Irno, una fonderia, un laboratorio di prodotti chimici della società Schlaepfer, Wenner e Co. Nella lunga storia degli imprenditori svizzeri il nucleo dei Wenner, dal capostipite F. Alberto a tutti gli altri che gli succederanno, e' senz'altro da annoverare come quello più capace e intraprendente. L’impresa di Salerno della famiglia Wenner rappresenterà, con l’andare del tempo, la realtà economica e produttiva tessile più avanzata tra quelle operanti nell’area salernitana, campana e meridionale. Un qualche sviluppo si era in quegli anni registrato anche in altri settori. Era nata a Vietri una fabbrica di vetro, in specie di campane, diretta dal signor Saulle, ed una di vetro nero del signor Favilla. Nel distretto di Salerno c’erano poi 8 cartiere, di cui 5 a Vietri, una a Minori, una ad Acerno, una ad Oliveto. Completavano il quadro fabbriche ferriere e ramiere, le concerie di pelli, le fabbriche di cera, di argilla e di sapone. Inoltre, attorno al 1850, la tipografia di Giuseppe Santoro si era notevolmente ampliata diventando un importante complesso industriale . Tutte attività comunque di dimensioni ben più ridotte se paragonate a quelle cotoniere. Agli albori del XIX secolo, nell’Europa del tempo, escludendo l’Inghilterra, la nazione più attiva nella produzione e nella commercializzazione del cotone era la Svizzera. Alcuni gruppi, simili a piccole colonie, oltre che in Lombardia ed in Toscana, avevano perciò deciso, dopo il blocco continentale, di dirigersi verso il Regno di Napoli dove, contemporaneamente, si era sotto dominazione francese. Durante il breve Regno di Gioacchino Murat, fuggiti dalla natia Zurigo, arrivò così in Campania un nucleo di imprenditori svizzeri, primi pionieri di un’esperienza produttiva, economica, ed insieme culturale e civile, destinata col tempo ad assumere un notevole rilievo. L’embargo aveva colpito pesantemente le produzioni tessili. La Campania aveva, come si è accennato, una tradizione antica, ben 48


antecedente, con la presenza in loco di varie aree già da tempo specificamente adibite alla piantagione di cotone. Il primo gruppo di svizzeri, circa un centinaio, s’insediò a Piedimonte D’Alife, in Terra di Lavoro, nell’area di Caserta. Nel 1813 Egg impiantò un primo opificio con l’aiuto di un gruppo di cittadini svizzeri esperti nella lavorazione del cotone. Poi Davide Vonwiller e Federico Zueblin a loro volta raggiunsero altre aree del Regno di Napoli. E proprio a Napoli il Vonwiller insediò un’azienda cotoniera in grado di produrre e commercializzare direttamente il proprio prodotto. Di frequente il Vonwiller si recava alla Fiera di Salerno per l’esposizione delle proprie produzioni e fu in queste circostanze che gli fu possibile prendere atto delle notevoli capacità professionali e produttive delle maestranze della Valle dell’Irno. Constatò altresì la convenienza di un eventuale investimento in quella zona, grazie anche al fattore -decisivo- dei costi, particolarmente bassi, della manodopera. Oltre alla grande disponibilità di acqua dei fiumi un ulteriore fattore di assoluta convenienza era costituito, come vedremo, dalla protezione accordata dalle autorità borboniche all’attività laniera e cotoniera locale, con la definizione di una rigorosa politica di dazi protettivi. Il protezionismo borbonico metteva infatti le aziende locali al riparo della concorrenza di altri produttori del settore. Vonwiller, col socio F. Zueblin, avendo deciso di fondare una propria filanda a Fratte, acquistò l’area rilevando gli stessi diritti sulle acque, a quel tempo contemporaneamente vantati del Principe di Angri e dalla Curia Arcivescovile di Salerno. Negli anni tra il 1815 ed il 1823 si registrò un periodo di grave crisi per l’economia del Regno ed in specie per l’industria a causa della concorrenza straniera. Ebbe inizio una recessione causata dalla fine del Blocco Continentale e dall’inedita adozione di tariffe doganali liberiste. Le attività avviate nel decennio francese e garantite dal Blocco Continentale subirono un durissimo colpo. Le manifatture di lana entrarono in crisi e si arrestò quasi del tutto la lavorazione locale del cotone. Dopo il periodo della Restaurazione l’industria del cotone non aveva più alcuna protezione. Intorno al 1820 mancò, oltre alla protezione all’industria, un qualsiasi organico piano di intervento del Governo. I Borboni, a fronte di tale situazione, avevano deciso di ristabilire dal 1823 al 1827 le misure protezionistiche. Il Regno di Napoli rispetto ad altre nazioni europee era giunto tardi all’industrializzazione ma riuscì a recuperare, in un tempo relativamente breve, il ritardo accumulato. La Valle dell’Irno avrebbe visto sorgere il complesso di opifici cotonieri più avanzato del Mezzogiorno. La vicinanza al Porto di Salerno e la notevole disponibilità di energia idraulica fornita dai fiumi Irno e Sarno, oltre all’antica tradizione di una diffusa lavorazione del cotone di cui si è detto, le complementari ragioni della scelta di quei luoghi di insediamento. La politica protezionistica 49


promossa dal Medici ed incentrata sulle tariffe doganali del 1823-1824 consentì una ripresa delle vecchie manifatture tessili e dei lanifici sviluppatisi nel decennio francese. La posizione geografica era poi vantaggiosa per la commercializzazione della produzione. Salerno, con il suo Porto e la sua Fiera, erano vicini. A ciò si aggiungeva la prossimità con Napoli e la diffusa presenza di fiumi ricchi di acque idonee ad alimentare filatoi e telai meccanici. Il cotone era molto coltivato nelle campagne tra Napoli e Salerno, nella zona dell’agro-nocerino, nell’area vesuviana. Il Blocco Continentale aveva dato impulso alla coltivazione della fibra di cotone endogena favorendo l’esportazione della produzione meridionale in tutti i paesi sotto l’egemonia napoleonica. Conclusa la protezione del blocco la produzione di cotone fino al 1824 aveva subito un calo poi interrotto dalla ripresa dovuta alle tariffe protezionistiche. Ed anzi si registrò un notevole incremento produttivo del cotone per garantire l’approvvigionamento delle grandi filande di Fratte di Salerno. Almeno in parte si riuscì in tal modo ad assicurare la materia prima lavorata dalle industrie. L’industria meridionale continuerà ad essere protetta dalle tariffe del 1823 – 1824, con brevi fasi d’interruzione, fino alla fine del Regno. Da allora in avanti cesseranno sia protezione che assistenza. Nella nuova situazione venutasi a creare non resse l’industria della lana nel mentre l’industria cotoniera svizzera salernitana, ma anche le filande di lino e canapa di Sarno, riuscirono a superare le difficoltà grazie a ristrutturazioni e riorganizzazioni aziendali. La decisione di stabilire tariffe protettive nel 1823-1824 è il segno del primo intervento dello Stato a favore dell’industrializzazione ed e’ allora che il protezionismo diviene linea politica ufficiale del Governo. L’obiettivo essenziale era quello di incoraggiare l’industria nazionale sottraendo il mercato interno alla concorrenza dell’industria straniera. Gli svizzeri colsero al volo la favorevole occasione di installare opifici a Salerno creando industrie cotoniere che potevano agire su un mercato protetto. Inizia con loro la trasformazione industriale della lavorazione del cotone. Nel processo di espansione dell’iniziativa del capitale svizzero Meyer e Zollinger impiantano, nel 1824, anche una filanda a Scafati. E nello stesso anno sarà creata a Scafati sul Sarno una piccola tintoria e stamperia di cotone. Il principale esponente del gruppo di imprenditori stranieri che si istallò nell’area salernitana era stato, come si è detto, Davide Vonwiller che, nel 1824, aveva fondato l’impresa commerciale Vonwiller, Zueblin $ C, che darà vita, nel 1828 ad una grande filanda di cotone a Fratte di Salerno, sul fiume Irno. E’ a tal proposito utile ricordare come intorno all’anno 1824 da Piedimonte D’Alife, dove erano stati in passato già sperimentati i primi impianti industriali con il pieno incoraggiamento di Gioacchino Murat, si era trasferito a Scafati l’operaio svizzero Giacomo Meyer. Era della stessa nazionalità dei primi industriali del Regno ed era stata sua la decisione, assunta con la moglie e con Giovanni Rodolfo Fallinger, di impiantare lì una tintoria con prime attrezzature idonee ad estrarre dalla sabbia il rosso porporino, detto di Adrianopoli.

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E' del 1831 l'avvio della produzione nella prima fabbrica tessile, dopo che la sua programmazione aveva avuto inizio già nel 1824. Essa produrrà filato ed occuperà 200 operai. Proprietari dell'opificio i signori Zublin e Vonwiller. Nascerà quindi, a poca distanza, la tintoria ed il biancheggio delle tele organizzate dai Wenner e da Schalaepter. Ai principi del 1829 inizia la costruzione delle future Manifatture Cotoniere Meridionali. La ditta edile dei fratelli Lanzara fu impegnata nella realizzazione del complesso industriale, in origine chiamato “Stabilimento Irno”. La ditta svizzera Escher montò le prime ruote idrauliche capaci di consentire la fornitura di energia alle prime 12 macchine, di 200 fusi ciascuna. Già nel 1833 nello stabilimento di Fratte lavoravano 200 persone per 7200 fusi di produzione. Acquisivano il cotone coltivato a Castellammare arrivando a produrre 2000 quintali di filato all’anno. In breve l’azienda si ampliò ulteriormente dotandosi di una stamperia, una tintoria, una tessitoria. L’espansione produttiva obbligò il primo nucleo a dar vita ad una nuova società, con nuovi soci i finanzieri A. Gruber, R. Salis, G. C. Schlaepfer e A. Wenner. Nel 1835 questa nuova società costruirà un nuovo stabilimento ad Angri. Vonwiller spinse per la creazione di due aziende separate, cosa che finì per causare il ritiro dello Zueblin. Il filatoio fondato nel 1829 da Davide Vonwiller e Zueblin a Ponte della Fratta era stato progettato dall’architetto svizzero Alberto Escher. Esso verrà realizzato in 5 mesi grazie ad un investimento di capitale di 90. 000 ducati. Il capitale sarà elevato nel 1833 a 260. 000 ducati. Saranno utilizzati 7. 200 fusi con una produzione di 178. 000 kg. di filati. Nello stabilimento lavoreranno, in quella prima fase, 200 operai. Nella Valle del Sarno, sempre ad opera degli imprenditori svizzeri era nata, nel 1832, una tessitoria della Società Schlaepfer, Wenner e Comp. nella quale verranno subito impiegati 300 operai destinati ad aumentare fino a 1000 nel 1837 ed a 1200 nel 1848. Nel fondo M. A. I. C. , fascio 205, cfr. A. S. N. è così descritta l’operazione : “ Il Signor Schlaepfer Wenner e Comp. espongono di aver formato una Società Commerciale in accomandita, di cui gerenti sono Gio. Corrado Schlaepfer e Federico Alberto Wenner ed i commanditanti, Federico Gruber di Genova e Emilio Zublin di S. Gallo, giusto il contratto depositato nella cancelleria del tribunale di Commercio di 12 Novembre 1831, ne dimandano la sovrana approvazione. Aggiungono che lo scopo di tale società sia rivolto all’industria manifatturiera di lino e di cotone, a tal uopo hanno stabilito delle fabbriche in Angri ed altre sul fiume Sarno. Il capitale è fissato a duc. 150 mila diviso in 150 azioni”. La scelta logistica degli investimenti anche in questo caso non è per niente casuale. La ricchezza naturale di acque, la preesistenza di mulini in grado di sfruttare la forza motrice dei fiumi furono fattori decisivi nella decisione di impiantare in quelle aree le prime grandi imprese manifatturiere. In tutta la zona c’era inoltre un’antichissima tradizione di lavorazione artigianale e domiciliare del lino e della canapa anche se, evidentemente, la qualità dei prodotti lasciava alquanto a desiderare. Andando assai a ritroso nel tempo c’è ancora da aggiungere ancora che la coltivazione delle piante 51


tessili come il cotone, il lino, la canapa, erano state introdotte dai Benedettini alcuni secoli prima. Le espressioni locali di “fusala”e“ fossa” stanno ad indicare il “fossatum”, come per l’appunto era detta la vasca di macerazione “ad linum curandum”. 41 Intorno al 1830 le imprese svizzere avevano ormai ottenuto dal Governo la concessione di locali ad uso industriale, oltre all’autorizzazione all’utilizzo di reclusi e trovatelli e forti agevolazioni di accesso al credito. Un nuovo impianto fu previsto nel 1830 sul fiume Irno da Vonwiller, Zueblin e dai Fratelli Cilento di Napoli. Gli imprenditori, per fare l’operazione, avevano richiesto al Governo la possibilità di importare una determinata quantità di cotone “con tenue dazio”. L’accoglimento della richiesta consentì all’impresa di procedere. Sul fiume Irno nel 1830 fu anche realizzata la Filanda Schlaepfer $ Wenner. Gli stessi che nel 1835 crearono ad Angri due tessitorie. Franchigie e agevolazioni creditizie varie vennero fornite dalla Cassa di Sconto del Banco delle Due Sicilie. Un vantaggio indiscutibile era poi costituito dal fatto che la restituzione dei crediti accordati alle imprese poteva essere dilazionata nel tempo. Dal 1830 in avanti però il Governo inizia un diretto, seppur parziale, disimpegno. E l’insieme di agevolazioni precedenti si riduce se si fa eccezione delle franchigie doganali. L’industria cotoniera svizzera in ogni caso dal 1830 in avanti si espande ulteriormente. Alle fabbriche Egg e Mayer$ Zollinger si erano nel frattempo aggiunte quelle di Davide Vonwiller, Escher $ Zueblin e di Schlaepfer $ Wenner. Ecco la descrizione dell’impianto industriale di Scafati fatta nel 1834: “Una derivazione di tal colonia (svizzera) fu l’opificio dei Sigg. Mayer e Zollinger fondato nella vicina Scafati sulle rive del Sarno. Ivi quattro macchine di 864 fusi producono da sette cantaia di trama alla settimana, dal n. 6 al n. 16; 120 telai le tessano, e i tessuti chimicamente sonovi imbiancati e apparecchiati; ivi è pure tintoria e stamperia, ma questa è ancora sul nascere”. 42 La robbia, che cresceva allo stato selvatico sulle rive del Sarno, è coltivata per soddisfare le necessità dell’azienda in maniera che si possa dare un importante impulso alla stessa agricoltura. Nel 1835 la Schlaepfer-Wenner rileverà ad Angri una tessitoria di cotone con 120 telai meccanici e 300 operai. A Fratte era anche sorta, alcuni anni prima, ad opera di Vonwiller, un’officina per imbiancatura, tintura ed apparecchio. Nel 1835 si avvia a Fratte una seconda filanda con 10. 000 fusi ed una gigantesca ruota idraulica. La crea l’azienda Escher & C. I soci sono Wenner A. , Gaspare e Corrado Zueblin, lo svizzero Gaspare Escher, il milanese Saverio Fumagalli. In quello stesso anno vi sono impiegati già 300 operai. Per completare il quadro della situazione dell’industria tessile in provincia di Salerno e’ ancora il caso di ricordare che un'altra area di notevole importanza 41

In D. Cosimato- P. Natella, “ Il territorio del Sarno, storia, società, arte”, Ed. Di Mauro, Cava dei Tirreni 1980, pag. 48 42 “ De Saggi delle Manifatture Napoletane esposte nella solenne mostra del 1834”, in “ Annali Civili del Regno delle Due Sicilie”, Volume VIII- Marzo- Aprile 1834, pag. XVII 52


e' quella di Sarno. In questo comune, dopo il primo tentativo d'impiantare uno zuccherificio, nel 1837-1838 era sorta una grande filanda e tessitoria di lino con macchine moderne che utilizzavano l'energia idraulica delle acque del Sarno.A differenza di Salerno i capitali utilizzati sono quasi tutti napoletani anziche' svizzeri. Nella Valle del Sarno si sviluppa poi una miriade di attivita' domiciliari connesse al lavoro di tessitura, col proliferare di moltissimi telai. E’ noto che nel 1837 sorse in Sarno un grandioso filatoio meccanico, a cui l’ingegnere Giovanni Verdinois dedicò tutte le sue energie , e la leggenda racconta che egli fece “ingiusta la sua mano contro sé giusto per un amore mal corrisposto e, intorno alla morte tessè un velo d’impenetrabile mistero” ( lo storico di Sarno Silvio Ruocco) Scomparso il Verdinois un altro giovane intraprendente, Eugenio Weemals, si dedicherà all’organizzazione industriale dell’area sarnese acquistando una grande popolarità nella terra che diventerà sua patria di adozione. E’ a lui che è dovuta la diffusione nella Valle del Sarno della conoscenza del processo di lavorazione della canapa, del lino e del cotone, fra gente semplice e solo dedita alle fatiche dei campi e della montagna Weemals, con uno straordinario entusiasmo, si dedicherà all’addestramento di ben 2.000 ragazze che verranno poi adibite al funzionamento delle macchine, dei telai, dei fusi, lavoro quanto mai pesante, difficoltoso e a volte pericoloso. La sua attività non conoscerà mai soste, sarà uno straordinario animatore di energie e un realizzatore mirabile. Rimetterà in efficienza l’abbandonato zuccherificio per adattarlo a fabbrica di seta. Dopo l’iniziale successo della sua impresa fonderà altre fabbriche a Sarno ,Atripalda ed a Bologna. A lui è in gran parte dovuto il finanziamento all’impresa Melisurgo per l’attivazione della ferrovia pugliese di cui a Sarno resta ancora un traforo non completo. Silvio Rocco ricorda pure il ruolo importante avuto da Augusto Sideri, Segretario generale della “ Partenopea”, per oltre 30 anni fedele custode della vita amministrativa della “Filanda” di Sarno, al cui sviluppo concorse in maniera decisiva. I manufatti dell’azienda sarnese furono infatti ben presto, anche grazie all’impegno profuso dal sideri, ricercatissimi in Italia ed all’estero. Quando una spaventevole crisi travolse 40 stabilimenti di Lilla, con ventimila disoccupati, la Filanda sarnese resistette e accolse tecnici stranieri specializzati, quali l’inglese Giuseppe Turner, lo svizzero Federico Glarner, il francese Franchomme. Il Turner , più tardi, con Weemals, fonderà una propria azienda industriale. Sulla stessa scia si muoverà il Glarner creando nuovi impianti alla destra del fiume adibiti alla lavorazione dell’ “organdis” ( cotone trasparente ) molto in voga a quel tempo. Franchomme installerà importanti tessitorie a Palazzo Lanzara ed a Resina. Alla “ Partenopea” l’irlandese Stragmann e lo svizzero Filippo Buchy aggiungeranno nuovi reparti e, dopo averlo acquistato, amplieranno lo stabilimento Glarner, destinato poi a sviluppi di grande portata. Dopo il 1860 la “ Partenopea” ebbe una crisi e fu allora che ne assunse la guida, con buoni risultati, Raffaele D’Andrea. Altri tentarono d’installare, con successo, nuovi impianti. Tra di essi Domenico Robustelli, il Pepe, Siciliano e O’Nelly. L'opificio di Sarno a quel tempo assorbiva

forza lavoro, proveniente dalle campagne, nell’ordine di oltre 2. 000 unita'.

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UNA FASE DI ESPANSIONE

L’insieme degli insediamenti industriali di cui si è detto ridisegnano il volto e le funzioni di interi territori come quello dei comuni di Salerno- Fratte e di Angri che, in breve, passa da villaggio a cittadina di notevole importanza. Insieme allo sviluppo demografico, si avvia una profonda trasformazione urbanistica che ruota attorno all’insediamento industriale. Attorno al sistema industriale tessile sorge, soprattutto nella Valle dell’Irno, qualcosa di molto simile ad una piccola città-fabbrica, con asili, scuole, case e villini per i dirigenti, chiese per il culto, un cimitero per i membri della comunità straniera. L’ingresso in un nuovo paese, così diverso da quello d’origine, con differenti consuetudini e tradizioni, tuttavia, non comporta la recisione dell’originaria identità. La specificità delle proprie radici, culture, convinzioni è, anzi, difesa con particolare tenacia e fermezza, in un rapporto, comunque, di osmosi e di integrazione con il territorio. D’altronde, ancora oggi, chi intenda percorrere la strada che da Fratte porta a Capezzano trova di fronte a sé, nel suggestivo paesaggio che gli si presenta agli occhi, più segni di una storia e di un’identità culturale di diversa estrazione. Intorno al perimetro dell’impresa si dipana il sistema di strade che collegano a villini e abitazioni, traccia ancora non definitivamente estinta di un’operosa avanguardia industriale. Un processo per vari versi simile si realizza nelle aree dell’Agro- Nocerino. Anche lì si aprono nuove strade, ci si dota di servizi essenziali quali scuole e municipio, si ristruttura il Cimitero, del quale già disponevano i Comuni di Nocera e San Valentino. Nel 1839 era finalmente completata la meccanizzazione delle fabbriche di Fratte e di Angri. Ad Angri, nel 1839 lavoravano già 300 operai ed erano in attività 500 telai. A Fratte, nello stesso anno, si era giunti ad impiegare 1500 operai nelle attività di stamperia, tessitoria, tintoria. Nel 1839 c’è un nuovo aumento di capitale della Davide Vonwiller e si crea un allargamento della base societaria con un respiro ancora più ampio, internazionale, con il raccordo con il Lancaschire, la più importante area di produzione e di commercio del cotone. Vonwiller concentrerà ed assorbirà nelle proprie mani molte delle vecchie aziende tessili, accentrando su di sé la vendita di tutti i prodotti delle tre aziende principali. Lo stesso processo di crescita e di concentrazione verrà realizzato dalla tessitoria Schlaepfer-Wenner che da Vonwiller acquistava il filato. Nel 1844, la Valle dell’Irno, la Valle del Sarno, l’area metelliana apparivano quasi un’unica regione industriale dove iniziava ad insediarsi un moderno proletariato. Nel 1844, sorge la fabbrica Galante e Fumo di Pellezzano. Essa fila la lana e si occupa della lavorazione dei panni. Nel 1844 ci fu una prima protesta con la richiesta di difesa e sostegno alla produzione artigianale e di proibire agli “stabilimenti di filo e cotone, in Cava, Angri, 54


Scafati e Pellezzano, di filare dal numero 20 in sotto e di fabbricare Wagram a basso prezzo, onde tali generi fossero prodotti soltanto dai bisognosi lavoratori a mano”43. Dal 1845-1846, la politica economica dei Borboni si modifica in senso parzialmente liberista. Si riducono, con decreto del 18 agosto 1846, i dazi di importazione su articoli di lana, cotone, filo, seta, carta e su alcune materie prime e coloranti necessarie alla produzione industriale. Il mantenimento, seppur più limitato, delle misure protezionistiche continuava ad essere una condizione essenziale per lo sviluppo. La riduzione dei dazi non fu, però, senza conseguenze nel senso che le industrie nazionali iniziarono ad essere esposte ad una maggiore concorrenza. Il cotone grezzo nel Regno oscillava dai 28 ai 32 ducati e quello americano dai 23 ai 27 ducati. Quello grezzo del Bengala, da 23 -25 ducati, passava a 32-34 ducati. Per la conquista del mercato estero, l’industria cotoniera doveva comperare cotone grezzo a più basso costo, ma le tariffe ne ostacolavano l’acquisto. Si verificò una riduzione dei salari operai, 1/6 sulle paghe forti, 1/8 su quelle medie, 1/10 su quelle minori. Nell’industria Meyer & Zollinger si ebbero licenziamenti. Gli industriali chiedevano, perciò, la riduzione del dazio sul cotone grezzo e su quello importato e di aumentare il dazio sui tessuti esteri. In realtà, la crisi cotoniera era dovuta allo stesso sistema protezionistico che aveva prodotto difficoltà ai produttori di cotone, con una frattura tra sviluppo agrario ed industriale. Nel secolo XIX, lo sviluppo industriale era, infatti, ancora inferiore a quello agricolo. Il periodo che intercorre tra il 1846 ed il 1848 è un importante momento di snodo nella storia dell’industria tessile salernitana: è allora che si realizzano notevoli miglioramenti nel parco macchine e nel processo di meccanizzazione degli stabilimenti, con conseguente incremento dei profitti. Vonwiller, annessa alla filanda, crea un’officina meccanica al servizio delle varie fabbriche del gruppo e prosegue nel processo di concentrazione delle attività. La politica degli imprenditori stranieri fu subito caratterizzata dalla scelta della continua innovazione, impiantistica ed organizzativa: tempestivo ed efficace fu il ricorso all’adeguamento delle tecnologie impiegate, costante la propensione alla creazione di nuovi impianti, curato il miglioramento della qualità delle diverse produzioni. I profitti furono reinvestiti nell’attività d’impresa. Particolarmente felice finì per risultare la decisione, realizzata col tempo, di completare l’intero ciclo della filiera produttiva tessile con l’integrazione alla filanda, della tessitoria e della stamperia. Un’ulteriore tratto peculiare distintivo del padronato svizzero fu l’introduzione di un’etica protestante nella concezione del lavoro e di una particolare e ben congegnata mistura di paternalismo e di autoritarismo Lo sfruttamento intensivo e assai spregiudicato della manodopera, delle donne e dei bambini, il frequente ricorso al lavoro notturno, i bassi salari, la durissima disciplina,

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A. Genoino, Agitazioni operaie e moti comunisti nel salernitano. Il 1848, Cava, 1936, in Scritti di Storia cavese, Avagliano, Cava dei Tirreni, 1985, p.101. 55


l’abuso del ricorso, spesso arbitrario, alle multe concorsero al complemento della specificità dei caratteri dell’imprenditoria svizzera44. Partendo da un approccio esclusivamente numerico - statistico c’e' da rilevare che, nel 1848, nell'area salernitana si registra già la presenza di una robusta concentrazione di operai nelle industrie tessili sorte per iniziativa degli imprenditori svizzeri nelle zone della Valle dell'Irno, di Scafati, della Valle del Sarno. La stima molto attendibile della forza lavoro complessivamente impiegata e' di circa 5.000 unità. Un notevole balzo in avanti fu assicurato alle imprese svizzere dalla sostituzione della forza motrice idraulica con le macchine a vapore. Gli stabilimenti di particolare rilievo erano ormai diventati 7: le sei fabbriche sorte nella Valle dell’Irno, di cui due filande Vonwiller e la stamperia Schlaepfer collocate sulla sponda sinistra del fiume a Fratte di Salerno e tre a destra, di fronte, nel Comune di Pellezzano, ovvero la terza filanda Vonwiller e i due nuovi impianti SchlaepferWenner; la vecchia tessitoria Schlaepfer-Wenner ad Angri. Il terzo gruppo, quello di Scafati, seppure di minore rilievo, tentò di specializzarsi nel lavoro di sgranellatura del cotone in fiocco ed utilizzò allo scopo macchinari inglesi mossi a vapore. Le imprese si approvvigionavano con cotone americano. La conclusione della guerra di secessione americana ne provocherà, però, la decadenza, mentre il nucleo originario della Meyer, la tintoria in rosso Adrianopoli, chiuderà, incapace di reggere alla concorrenza tedesca. Reggeranno, invece, la filatura e la tessitura, dotata di 200 telai meccanici. L’introduzione di macchinari meccanici nelle fabbriche diede luogo a gravi turbamenti sociali i più importanti dei quali si verificarono a Cava nel 1848. Furono i settori dell’artigianato ed i piccoli opifici ad opporsi, duramente, al processo di costituzione della grande impresa, allo sviluppo delle aziende svizzere. La periodica adozione da parte del Governo di provvedimenti protezionistici a salvaguardia delle produzioni locali consentirà, in verità, di reggere a lungo alla concorrenza particolarmente aggressiva dei gruppi industriali del settore. D'altro canto il libero mercato aveva già iniziato a produrre primi processi di selezione e scrematura tra le imprese, con la conseguenza di concentrazioni produttive e di messa in crisi delle aziende più deboli. Le politiche protezionistiche consentiranno, di frequente, anche di diluire le tensioni che periodicamente si addensavano nel mondo del lavoro. Eppure le contraddizioni, per una lunga fase gestite e contenute, saranno destinate ad esplodere con nettezza, più avanti, a fronte dei processi di ristrutturazione ed ai licenziamenti che finiranno per interessare fasce assai ampie e significative di addetti all'industria manifatturiera. Le imprese di Cava, in particolare, non riuscirono ad avere assegnato il monopolio della produzione dei filati di peggiore qualità e ciò causò, nel 1848 appunto, violente manifestazioni. Il governo, però, non accolse ed anzi stroncò le richieste cavesi. 44

Su tali aspetti vedasi, in particolare, F. Barbagallo, “Stato, Parlamento e lotte politico-sociale nel Mezzogiorno 1900-1914”, Napoli, 1976, pp. 227-228 e segg. 56


Alle proteste il Ministero dell’Interno rispose che non era possibile accogliere la richiesta dei lavoratori di Cava, non potendosi ostacolare, per salvaguardare una minoranza, lo sviluppo tecnico né mettere in discussione i principi del liberismo. La filanda Vonwiller di Fratte era vista come la causa principale delle difficoltà. Vonwiller chiederà allo stesso Ministero un drastico e deciso intervento perchè “tali vessazioni cessino e … le fabbriche minacciate dal volgo godano della protezione necessaria alla loro esistenza e lavorino in grazia”45. I comandanti della Guardia Nazionale di Cava e Pellezzano furono incaricati di arrestare i sediziosi, se sorpresi in fragranza. Il 3 Aprile 1848 i lavoratori di Cava tentarono di assaltare cinque carri carichi di cotone, partiti dalla filanda di Fratte e diretti ad Angri e a Castellammare; il tentativo fu respinto a tarda sera dalla guardia nazionale; all’uscita dalla città un gruppo operaio assaltò i carri dandone tre alle fiamme. I lavoratori, armati di roncole, asce, zappe, avevano perfino deciso di dirigersi in massa nella Valle dell’Irno per distruggere le macchine della Filanda Vonwiller. Ci furono diversi arrestati, sottoposti ad un processo politico che si concluderà nel 1853. Il 5 Aprile 1848 ormai ogni agitazione era stata definitivamente repressa. Si cercò di intervenire sulle difficoltà insorte sollecitando l’impegno formale dei commercianti e degli industriali cavesi a non acquistare i prodotti usciti dalle officine meccaniche svizzere e che si producevano a mano anche a Cava, e cioè il cotone filato dal titolo n. 14 in sotto e il cotone ritorto dal n. 20 in sotto. Venne creato anche un fondo di soccorso con offerte volontarie e fu assunto l’impegno di tenere in vita i provvedimenti fino a che non fosse stato assicurato il lavoro agli operai disoccupati. Ciò causò una nuova protesta degli svizzeri che minacciarono ritorsioni. Le varie suppliche indirizzate dai manifatturieri di Cava al Re non apporteranno alcun significativo risultato. Va sottolineato come ai lavoratori, espulsi dai processi produttivi a causa delle innovazioni meccaniche introdotte nelle imprese, non fosse mai assicurata una ricollocazione in altre attività. Le prime spontanee lotte di resistenza, pur combattive e generose, erano destinate alla sistematica sconfitta, in particolare a causa del loro isolamento e dell’incapacità di costruzione di un esteso fronte di solidarietà sociale contro i drammatici processi di ristrutturazione che comportavano l’inevitabile riduzione della manodopera. Gli operai finivano per essere inesorabilmente battuti anche perchè la domanda di lavoro appariva, in una società avviata, seppure lentamente, verso profondi cambiamenti nelle modalità e negli indirizzi produttivi, troppo eccedente l’offerta. L’esercito di lavoratori disoccupati di riserva, disponibile a basso costo sul mercato in alternativa alla forza lavoro impiegata, costituiva, altresì, e costituirà sempre di più in futuro, un forte disincentivo al consolidarsi di un più avanzato livello di coscienza. Le trasformazioni introdotte nell’industria sono, come si è accennato, alla base dei gravi conflitti esplosi nel 1848. I salari, che erano stati fino a quel momento i più alti del Regno, si contraggono al cotonificio di Scafati del 30% e nelle filande Vonwiller, 45

A.S.N., Ministero di polizia, oggetti diversi, F. 3141, ESP. 16, Vol. I. 57


Escher, Schlaepfer e Wenner del 20%. Nella tessitoria di Angri i salari di donne e ragazzi subiscono una flessione del 25%, quelli degli adulti del 16%. L’industria di Cava, un tempo famosa per l’arte della seta, era stata messa in grave difficoltà. Quella lavorazione era stata sostituita dalla produzione di tessuti di lino e di cotone ed il cambio aveva determinato la disoccupazione dei lavoratori artigiani. Nella città metelliana non si verificò mai il passaggio a diverse forme produttive, di tipo industriale. Continuò, diffusissimo, invece, il lavoro a domicilio che impiegò fino ad 1/3 della popolazione. Nel 1853 gli addetti degli stabilimenti di Fratte e di Angri erano complessivamente 1.400. Nel periodo 1846-1848, a causa della crisi internazionale, vi fu una notevole contrazione della domanda e, di conseguenza, della produzione. Ciò comportò una prima, drastica riduzione degli occupati, fatto questo che darà luogo ad agitazioni anche a Salerno. Nel periodo pre-unitario modesta era la presenza dell’impresa autoctona organizzata su medie e grandi dimensioni. I principali centri erano costituiti da alcuni casali di Salerno, Pellezzano, Coperchia, Capriglia, Mercato San Severino, Baronissi, Saragnano,Cava, San Cipriano, Giffoni Sei Casali. Veniva per lo più lavorata la lana, mentre nella città di Cava era stato il cotone ad avere un notevole sviluppo. La coltivazione del cotone si intensificò negli anni ‘50 ma non si riuscì a saturare la domanda dei cotonifici salernitani che dovettero continuare ad approvvigionarsi, in maniera consistente, di cotone americano su cui doveva essere pagato il dazio. L’intendenza del Principato Citeriore, il 14 Maggio 1853, sostiene che “Il lino nelle pianure di Nocera, di Salerno, di Montecorvino, di Eboli, di Capaccio, sul Vallo di Diano ed in quello di Navi, che sono i terreni più fertili della Provincia poco è coltivato … Coltivasi solamente il linio autunnale o invernegno non già il marzuolo. In maggiore abbondanza del lino coltivasi poi la canape. Si presceglie un terreno ricco, leggero e fresco, piano ed irrigabile. La maggiore coltivazione si pratica nella piana di Nocera in mezzo agli arbusti, nei campi di Faiano e nel Vallo di Diano. Il prodotto è abbondandevole, ma la qualità non è così fine da entrare in competenza con le canape di altre contrade per costruire delle ottime, riesce però per i coraggi”46. Il canape avrà così il suo sbocco nelle manifatture di cordame, mentre per il lino si punterà ad aumentare la quantità della coltivazione, abbassandone il prezzo e migliorandone la lavorazione. Va, infine, segnalato che, nel 1854, Aselmeyer entra nella ditta Vonwiller e nel 1860 acquisisce quote della Schlaepfer-Wenner. Vonwiller accentrerà così nelle sue mani gran parte della produzione di filati del salernitano.

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In A.S.N., Fondo M.A.I.C., fascio 233. 58


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DOPO L’UNITA’ D’ITALIA

Dopo l’unità una quarantina di imprenditori stranieri controllano e commercializzano ormai buona parte del filato di cotone che si produce nel Sud d’Italia. Agli originari soci degli anni 40 e 50 erano seguiti gli eredi. Dopo il 1860 scomparirà di scena la famiglia Vonwiller, forse a causa dell’ assenza di eredi, e si verificherà l’ascesa di Aselmeyer che prenderà il posto di Vonwiller dando vita all’azienda Aselmeyer Pfister & C. La forma gestionale delle società sarà quella dell’accomandita. L’abolizione delle tariffe protezionistiche e l’estensione delle tariffe liberiste piemontesi decise nel 1860 introdurrano tensioni supplementari. L’apertura alla concorrenza esterna metterà in grave difficoltà le aziende salernitane causando la chiusura di quelle più deboli ed i cotonifici svizzeri riprenderanno il loro sviluppo solo dalla seconda metà degli anni 60 in avanti. L’immissione di nuove tecniche, più avanzate, di produzione è, come si è detto, alla base del conflitto che esploderà tra forme industriali moderne e modi di produzione arcaici. Forti tensioni si verificheranno anche nel campo della tessitoria in quanto la grande presenza di tessitori nella zona se da un lato facilitava l’insediamento industriale dall’altro ritardava i processi di innovazione finendo per costituire un ostacolo per l’ammodernamento tecnologico e la concentrazione delle lavorazioni nella grande fabbrica. Fino al 1860 gli svizzeri mantennero il sostanziale monopolio sulla produzione e la commercializzazione del cotone nel Regno di Napoli diventando insieme proprietari ed amministratori di imprese medio-grandi. La sostanziale stabilità della politica industriale borbonica consentirà alle imprese svizzere di consolidarsi, sempre di più e meglio, sul mercato interno. La estensione post-unitaria della tariffa doganale piemontese alle regioni meridionali, la politica liberista dei governi della Destra storica, il declassamento di Napoli l’insieme dei motivi che causeranno l’emergere della crisi con cui gli svizzeri si dovranno cimentare. Ed a proprio a fronte delle difficoltà insorte che emergerà la capacità degli imprenditori elvetici di non restare fermi, di innovare continuamente, di aggiornarsi, di mantenere rapporti coi centri cotonieri all’avanguardia in Europa. L’imprenditoria straniera ha a quel punto già deciso un cambio di strategia ed ha concentrato l’attenzione nel settore del cotone. In questa sola direzione sono ora indirizzati i suoi investimenti. D'altronde gli svizzeri conoscevano già da tempo, alla perfezione, i mercati europei. Ben altra competenza rispetto alla scadente qualità imprenditoriale della borghesia locale. Fabbrica accentrata, macchine provenienti dall’estero, ausilio di manodopera specializzata estera, efficienza organizzativa ed operativa, integrazione e specializzazione, la tendenza ad una cultura d’impresa per così dire cosmopolita i caratteri essenziali di un intervento inedito per quella realtà territoriale. E’ la configurazione, moderna ed avanzata, di un “gruppo economico”, nuovo ed originale, che ha comuni interessi imprenditoriali ma anche una interna solidarietà derivata 59


dalla provenienza dallo stesso territorio, dalla stesso ceppo linguistico, dalla stessa religione. Vonwiller, Schlaepfer, Freitag concorrono alla formazione della Comunità evangelica franco-tedesca che garantirà l’esercizio del culto protestante alla comunità straniera campana e che creerà anche una scuola, un ospedale, un cimitero, un circolo ricreativo, una città fortemente integrata all’impresa. Le imprese, non potendo prescindere dalla decisività dell’elemento religioso, decideranno col tempo, per non arrecare turbative alla produzione, di assumere un sacerdote per la “cura morale” delle anime in tutte le situazioni in cui sono impegnati più di 30 addetti e creeranno apposite chiese per la celebrazione del culto47. La reintroduzione di tariffe protezionistiche nel 1878 e nel 1887 sancirono la nuova fase di decollo dell’industria tessile svizzera operante nel Meridione d’Italia. Uno dei discendenti della famiglia Wenner, Giovanni, ha consentito una riscrittura, sufficientemente accurata, della storia dell’impresa tessile salernitana. Una prima, per quanto approssimativa, ricostruzione della situazione industriale del tempo si presenta quindi con le seguenti e prevalenti caratteristiche: netta risulta la presenza quantitativa dell'industria tessile e di notevole consistenza la quantità di capitale straniero. Si puo' anzi osservare come esso svolga una funzione centrale, per non dire unica e decisiva, nella nascita del capitalismo dell’area provinciale salernitana. Di gran lunga indietro, per volumi d’investimento e manodopera impiegata, le altre imprese e le altre lavorazioni come quelle, prima richiamate, del Vetro a Vietri sul Mare o dell'industria Cartaria nella Costiera Amalfitana. Dal 1835 al 1918 la direzione dei più significativi processi industriali nell’area rimarrà sempre, in maniera salda e costante, in mano alla Schlaepfer-Wenner, i fondatori da cui l’impresa ha preso nome. Una grande impresa, sorta intorno ad un nucleo di tipo familiare, che potrà ricorrere a periodiche iniezioni di capitale. Gli eredi dei primi imprenditori porteranno avanti le loro industrie e continueranno nell’impresa sostituendo gli industriali deceduti. A Federico Alberto Wenner si affiancheranno infatti i figli Giulio ed Alberto nel mentre a C. Schlaepfer seguirà il figlio. F. A. Wenner esce di scena alla fine del 1880. La ditta è ora passata alla seconda generazione degli svizzeri, quella nata in Campania. Federico Wenner è subentrato al posto del padre. Agli inizi del nuovo secolo entrano come azionisti gli uomini della terza generazione dei Wenner e Schlaepfer, si hanno nuovi aumenti di capitale e, ad opera di Roberto Wenner, sorge il colosso cotoniero delle M. C. M.

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Guido Panico , “ Ritratto di Borghesie Meridionali” , Avagliano Editore Srl, pag. 156, ricorda al proposito come : “ Accanto ai calvinisti svizzeri, che fin dagli inizi dell’Ottocento si erano trasferiti nei pressi della città, al ponte di Fratte, sede delle industrie cotoniere, prese radici nel dopoguerra una chiesa metodista e si svilupparono esperienze di piccole comunità pentecostali” 60


08. Ulteriori note sulla crisi dell’industria meridionale nel nuovo Regno d’Italia Al momento dell’Unità d’Italia le distanze tra Nord e Sud in tema di struttura industriale non erano assai elevate. All’indomani del 1860, come si è visto, la eliminazione delle tariffe doganali aveva esposto le industrie dell’ex Regno alla concorrenza straniera, ponendole in una situazione di grave difficoltà. Inoltre la città di Napoli, dopo l’unificazione, si avviava a perdere il ruolo di Capitale a lungo ricoperto ed iniziava un ridimensionamento, insieme politico e produttivo. Varie attività chiusero e sopravvissero solo le imprese più solide. I piccoli canapifici, lanifici e linifici risentirono pesantemente della crisi, mentre i cotonifici svizzeri dalla seconda metà degli anni ‘60 in avanti ripresero il loro slancio. La Provincia di Salerno, alla nascita del nuovo Regno unitario, è da considerarsi di media dimensione industriale. Il cambiamento di regime mette in difficoltà gli industriali stranieri anche per il fatto che essi vengono considerati, in prevalenza, politicamente collaborazionisti dei Borboni. In ogni caso esistevano ancora nel 1860, sparse per gli antichi casali di Salerno, nella Valle dell’Irno, in quella del Picentino e nella valle Metelliana, innumerevoli piccole manifatture laniere, capaci di produzioni specializzate, come quelle del bordiglione e delle “coppole”, esportate in tutto il Mediterraneo. “Nella sola Valle dell’Irno … intorno al 1860 erano occupati in queste attività oltre trentamila operai, considerato, ovviamente, il lavoro a domicilio e l’impiego di manodopera proveniente dai Comuni limitrofi, che si calcola intorno al 20%”48. In verità l’industria tessile aveva avuto un notevole sviluppo in tutto il Regno. Oltre ai territori dell’Irno e del Liri, dove si era realizzato il passaggio dal lavoro a domicilio alla grande fabbrica, l’attività tessile era fiorente anche nelle altre regioni meridionali con moltissimi addetti in strutture assai varie per tecniche e tipologie di produzione. In Calabria, in Abruzzo, nelle Puglie vi erano miriadi di attività. Nel Real Convitto del Carminello e dell’Albergo dei Poveri di Napoli, nel Real Ospizio Francesco I a Giovinazzo, nel Reale Istituto delle Gerolamine a Potenza o nell’Orfanotrofio di Santa Filomena a Lecce si producevano sete, nastri, manufatti in genere. Nella zona di Lecce erano lavorate lane e sete. A Taranto operavano 400 telai per la manifattura delle felpe, mentre in Calabria, quasi in ogni comune della provincia di Catanzaro, le donne del popolo facevano tessuti di lino nelle loro abitazioni. Ogni famiglia aveva il suo telaio e le tessitrici ne avevano fino a 4. Oltre al lino erano prodotte tele, fazzoletti, coperte, tovaglie, biancheria da tavola. 48

Donato Cosimato - Pasquale Natella - Donato Dente, “La Provincia di Salerno dal 1860 alla fine del Secolo XIX”, Morano Editore, pag. 74. 61


Nel breve saggio “Capitale e industria cotoniera in Campania” 1811- 1960, Luigi De Rosa49 dedica una forte attenzione ai temi, particolarmente complessi, della derivazione del capitale e del capitale disponibile, quale elemento decisivo per ogni iniziativa economica, fin dalla fase di progettazione, e fattore essenziale per il progredire di una qualsivoglia attività industriale e produttiva. Il capitale entra in circolo quale capitale di rischio, a sostegno di ogni iniziativa che si offre al mercato; interviene poi nelle forme di capitale circolante, ovvero per sostenere lo svolgimento del processo produttivo ormai avviato. Il capitale di rischio, nazionale o straniero, può anche provenire dagli apporti delle banche tramite la pratica del prestito, fattore questo particolarmente presente, per antica tradizione, in Italia. Gli italiani sono stati inventori, propagandatori, esportatori di una tale prassi in tutto il Mondo. Lo Stato ha storicamente assunto posizioni difformi rispetto al nodo dello sviluppo industriale: liberista nell’Inghilterra del XIX secolo, in una situazione in cui l’industria inglese aveva raggiunto un grande sviluppo ed una forte innovazione tecnologica che la metteva al riparo da ogni rischio rispetto alla concorrenza internazionale; al contrario, la Germania, agli albori del suo sviluppo industriale, è stata protezionista, per l’ovvia ragione di non poter competere sul terreno della libera concorrenza, per la grande differenza dei costi, con la produzione inglese. Lo Stato napoletano ha indubbiamente svolto un ruolo di rilievo nella nascita della grande impresa manifatturiera. Per ciò che attiene l’industria cotoniera, lo Stato mise a disposizione dell’intraprendenza degli imprenditori svizzeri, a Piedimonte D’Alife e nel salernitano, per agevolare gli insediamenti, varie strutture immobiliari, a partire da alcuni conventi confiscati agli ordini religiosi, con giardini ed orti annessi. In ogni caso, gli opifici di Piedimonte D’Alife o di Fratte non sarebbero mai sorti senza la disponibilità di un consistente capitale iniziale d’investimento. Non è stato ancora possibile quantizzare con precisione l’entità degli investimenti degli Svizzeri ma è abbastanza certo che, nella loro impresa, essi poterono acquisire ed utilizzare anche altri capitali stranieri e, in primo luogo, capitali napoletani. Commercianti di Napoli e di Salerno colsero immediatamente la bontà qualitativa e la potenziale commerciabilità delle produzioni e, a loro volta, anticiparono danaro proprio per riservarsi l’esclusiva della vendita. Si mossero anche capitali stranieri, come quelli messi a disposizione dalla Compagnia tedesca F. Gruber & Co, operante a Genova, con capitali circolanti tra la Germania, l’Italia e la Gran Bretagna. La Compagnia spostò quote dal suo giro di affari internazionali in direzione dei complessi operanti nel Meridione d’Italia assicurando anche materia prima e macchinari. Nell’industria cotoniera campana confluiscono così, oltre ai capitali svizzeri, anche capitali tedeschi ed inglesi, oltre che conoscenze, macchine, strumenti di lavoro stranieri. In un tempo relativamente breve, si registrò, sull’innovazione tecnologia e sull’utilizzo di capitali, un forte collegamento con la grande industria cotoniera dell’area di Manchester e del

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In “Lavoratori a Napoli dall’Unità d’Italia al secondo dopoguerra”, saggi vari, Progetti Mussali editori. 62


Lancashire dove i tecnici svizzeri si recavano, periodicamente, a svolgere corsi di perfezionamento professionale. Un’altra azienda tedesca, diretta da Ettore Giulio Marstaller di Francoforte sul Meno, entrò in società con la ditta Vonwiller; Fin dal 1849 Giulio Aselmeyer si era unito alla ditta Vonwiller. Si creavano società nella cui nascita e nel cui sviluppo spesso svolgeva un ruolo di rilievo la consuetudine, divenuta corrente, dei matrimoni incrociati tra esponenti delle diverse famiglie. Oltre ai Vonwiller troviamo, col tempo, anche Giovanni Giacomo Egg, la ditta Zueblin, la ditta Schaepfer Wenner, Anselmeyer, Pfister, Meyer, Roberto Wenner, Rudolf Freitag. La Provincia di Salerno aveva accentuato, con il trascorrere del tempo, le interne differenze: si presentava, infatti, come un’area geografica e territoriale tutt’altro che compatta ed omogenea, in particolare nelle sue articolate forme di sviluppo. La Provincia, assai estesa, dal punto di vista delle caratteristiche prevalenti della orografia presentava un’alternanza nel paesaggio di mare, di fiumi e corsi d’acqua, di montagne e di ampie estensioni boschive, mentre manifestava tutte le contraddizioni e distorsioni dello sviluppo agricolo e preindustriale. Questa caratteristica, peraltro, rappresenterà, per tutti gli anni a venire e fino ad oggi, uno dei tratti essenziali della sua storia. L'area Nord, rappresentata essenzialmente dal Distretto della città di Salerno, pur presentando, a quel tempo, una particolare ricchezza di produzioni agricole, offriva una fisionomia prevalentemente industriale. Le sue limitrofe propaggini (la Valle dell'Irno, l’area metelliana, la Valle del Sarno) erano socialmente ben più progredite delle aree del Sud (Sala Consilina, Campagna, Vallo della Lucania). Erano, inoltre, consistentemente diffusi una pluralità di centri urbani di medie e grandi dimensioni (Cava, Nocera, Angri, Scafati, Sarno). Non è, perciò, del tutto corretta e convincente una ricostruzione economico-sociale schiacciata, in modo esclusivo, sull'importanza, peraltro indubbia, della città di Salerno. Ed infatti, un altro centro industriale di rilievo per la nostra trattazione era Scafati. Il Municipio di Scafati nel censimento del 1861 rileva l’esistenza di una popolazione di oltre 10.800 abitanti, con un incremento percentuale, rispetto al 1811, di oltre il 135 %. La popolazione della Provincia di Salerno censita nel 1865 era di circa 600.000 unità, delle quali 270.000 insistenti nell'area distrettuale di Salerno. Il dato del censimento industriale della Provincia per il 1866 annovera 25 tipi di fabbriche con 287 proprietari. Sulla vicenda dell’industria tessile locale dopo l’Unità è il caso di ricordare un saggio50di Luigi De Matteo sul tessuto produttivo dell’impresa manifatturiera nelle regioni dell’ex Regno delle Due Sicilie.

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L. De Matteo, “Noi della Meridionale Italia”, Edizioni scientifiche Italiane, Collana “Storia, economia e società”, p. 210. 63


Il testo di riferimento è la relazione della Giunta della Camera di Commercio delle province napoletane inviata a Torino al Ministero dell’agricoltura, industria e commercio. Si tratta, in sostanza, di una prima e più accurata riscrittura delle condizioni economiche del Mezzogiorno d’Italia all’indomani dell’Unità e, questo il punto di particolare rilievo, ricostruita dando risalto alle osservazioni di alcuni dei principali imprenditori del tempo, non particolarmente compromessi con l’antico sistema istituzionale e di potere. Nella relazione, tra l’altro, si sostiene che “ … noi della meridionale Italia abbiamo inteso dal seno del nostro Parlamento con leggerezza e quasi disprezzo farsi nessuna ragione di queste nostre industrie nostrali, anzi averle quasi in dispregio, come cosa vile e da poco”. Evidente appare il malcontento degli imprenditori penalizzati, oggettivamente, dall’approvazione delle prime leggi e disposizioni di politica economica del Regno d’Italia. Dalla sera al mattino, all’improvviso, venivano, infatti, a mutare le condizioni favorevoli nelle quali fino a quel momento avevano operato. Il venir meno delle protezioni ed, anzi, l’esposizione alla concorrenza delle imprese settentrionali, l’introduzione delle tariffe liberistiche piemontesi, la fine del ruolo di capitale del Regno ricoperta, fino ad allora, dalla città di Napoli, l’interruzione dei flussi finanziari e delle commesse stabilmente garantiti dai Borboni, finiranno per spingere molte imprese meridionali fuori mercato. Ora queste imprese, che fino ad allora avevano prodotto garantendo il lavoro e ricavando profitti consistenti, evidenziavano preoccupanti accumuli di perdite. La crisi colpì la quasi totalità dell’apparato produttivo dell’impresa manifatturiera : anche i settori un tempo d’avanguardia, come quello laniero, cotoniero, cartario, metalmeccanico, del trasporto marittimo ed a vapore, particolarmente importanti nelle province di Napoli, di Terra di Lavoro (Caserta), del Principato Citeriore (Salerno), ne risentirono profondamente. De Matteo nota come i governi della Destra Storica definirono scelte di politica economica che fornivano scarsi margini d’azione all’intervento pubblico nell’economia e che, in sostanza, non valutavano affatto l’opportunità di predisporre programmi, di aiuto e di sostegno, alle imprese meridionali in difficoltà in quella fase di transizione. Solo occasionalmente si diede luogo a qualche timido intervento, quasi sempre in risposta alle sollecitazioni dei Prefetti, preoccupati per il fatto che il montare della crisi, con le gravi conseguenze sulle condizioni di lavoro e sull’occupazione, potesse costituire l’occasione di un’aspra messa in discussione dell’ordine pubblico. La scarsa storiografia esistente sulla contraddittorietà dello sviluppo industriale meridionale sembra sposare, sostanzialmente, due tesi, di segno decisamente antagonista: si tratta di posizioni entrambe, in realtà, piuttosto schematiche e semplificatorie. La prima celebra nostalgicamente i presunti fasti dei tempi dei Borboni.51 In tale ricostruzione si attribuisce alla politica di sabaudo dirigismo del nuovo Regno d’Italia 51

Tale è la posizione di Umberto Schioppa,”Le industrie tessili nel Regno delle Due Sicilie”, Napoli 2000. 64


la responsabilità di aver determinato la crisi verticale dell’industria meridionale, un tempo assai fiorente.52 L’altra linea, di segno contrapposto, indulge nella plateale denuncia dei limiti creativi, produttivi e commerciali dell’imprenditoria meridionale, incapace di cimentarsi sul terreno impegnativo dell’innovazione, della competitività e della concorrenza: a tali dati di fatto era da attribuirsi lo sbocco, veloce e negativo, della situazione economico – produttiva delle imprese. Nella realtà del vecchio Regno delle Due Sicilie, infatti, non pare possibile rintracciare un quadro compiuto e definito dell’imprenditoria meridionale e di tutte le sue interne componenti. Antiche tradizioni produttive, forte versatilità e capacità di rapido adeguamento delle maestranze alle nuove modalità produttive furono senz’altro caratteristiche peculiari che non risultarono fattori indifferenti alla decisione di localizzazione degli investimenti stranieri ed al loro robusto attecchire in queste aree. Piuttosto, non di rado accadde che tali attività progredirono anche in maniera indipendente dalle scelte politiche dei governi borbonici, non sempre pronti a stimolare ed a sostenere, con uno sprone all’innovazione, le produzioni e gli imprenditori manifatturieri locali. In realtà l’imprenditoria locale era stata in grado nel passato, per una fase, di progredire a dispetto delle condizioni non particolarmente vantaggiose e stimolanti del contesto locale nel quale, anzi, forti apparivano, già a quel tempo, i limiti dovuti all’inadeguatezza delle infrastrutture locali, alla penuria di capitali, alla difficoltà di accesso al credito. Tutto intorno all’impresa grande era l’assenza di una adeguata progettualità ed inesistente appariva qualsivoglia coerente progetto, teorico e produttivo, in grado di prefigurare gli indirizzi dello sviluppo. Il contesto ambientale costituiva, indubbiamente, un gravissimo gap negativo per qualsivoglia durevole ipotesi di crescita virtuosa ed autogovernato. Da ciò, in buona sostanza, finiranno per derivare diseconomie e caduta di competitività che concorreranno decisamente, nei decenni a venire, a determinare la crisi irreversibile e la definitiva marginalizzazione delle più importanti imprese meridionali. Nel passaggio dal regime protezionistico ad una fase nuova, di apertura al mercato, l’industria tessile resse meglio rispetto ad altre imprese, laniere o metalmeccaniche, che presto entrarono in crisi comatosa. Superato un primo impatto, invece, l’industria tessile meridionale, ripreso il suo slancio, finì per entrare nella storia dell’industria 52

Il deputato Polsinelli nella seduta del 25 Maggio 1861 del nuovo Parlamento che era stato inaugurato a Torino, Palazzo Carignano, l’8 febbraio dello stesso anno, si era opposto alla modifica della tariffa daziaria ed all’apertura delle frontiere alle industrie straniere. Un atto che avrebbe prodotto la morte di molte industrie locali. A suo giudizio sotto il Regno borbonico avevano progredito notevolemente “ le grandiose fabbriche di filatura di cotone, tessitura, stamperia, stabilite nei contorni di Salerno, che occupano migliaia e migliaia di persone. Poi la magnifica filatura di lino di Sarno, la tessitura di Scafati, i numerosi lanifici del distretto di Sora, di Abruzzo, e di altri luoghi; finalmente gl’innumerevoli telari di seta, di cotone e lino stabiliti nei sobborghi di Napoli; tal che la Capitale, eccettuati i quartieri superiori, può dirsi una vasta fabbrica”. Ora con la fine delle misure protezionistiche tutto era in pericolo. In “ Atti Ufficiali dei Deputati del Sud nel Parlamento negli anni 1861-1862” 65


unitaria. Essa, infatti, realizzò un’ampia ristrutturazione interna proprio mentre si accentuava il processo di concentrazione e di crescita dell’industria nelle aree del triangolo industriale del Nord, tra Milano, Torino e Genova. Anzi finì per ampliarsi ulteriormente con la creazione di una rete di stabilimenti a Nocera, Angri e Scafati che aggiungeva a quelli di Fratte e Piedimonte d’Alife. Nel 1863, la Vonwiller, con la Filanda in Partecipazione, la Filanda di Pellezzano, la G.G. Meyer, la Schlaepfer-Wenner, la Rodolfo Freytag, la G.G.Egg, l’Arena, la Giovene e Raffaele erano state firmatarie di una petizione al Governo in cui si chiedeva di concedere una parziale protezione alle produzioni nazionali. La richiesta non fu accolta, cosa che aggravò le difficoltà del settore, già assai provato dal forte rincaro del prezzo del cotone dovuto alla fine delle importazioni di cotone americano conseguente alla guerra di secessione53. Si tentò di aiutare le produzioni tessili allestendo un campionario generale delle stoffe fabbricate, coi relativi prezzi. Esso fu presentato all’Esposizione dei Cotoni di Napoli del 1865 ed alla Esposizione Universale di Parigi del 1867. Tuttavia la lodevole iniziativa non fu sufficiente a fronteggiare la concorrenza inglese e francese. L’inchiesta sulle difficoltà del settore cotoniero, affrontata il 26 Settembre 1867 da una relazione di Federico Alberto Wenner, attribuì le responsabilità alla concorrenza ed alla scarsa tutela degli interessi dei produttori italiani nell’occasione della trattazione delle tariffe daziarie nel trattato di commercio con la Francia del 1864 ed evidenziò che, mentre erano stati aumentati i dazi di importazione sui cotoni filati e sui tessuti di cotone crudi, bianchi e tinti, non erano stati fatti eguali dazi sui tessuti stampati. I produttori di stampa subivano, così, un forte danno, aumentato dal maggior costo dei cotoni grezzi acquistati senza potersi rifare con alcun aumento di prezzi di vendita rispetto agli stampati della concorrenza straniera che scontavano, all’importazione, un dazio minore. I produttori di stampa costruirono, così, un’associazione per impiantare nella Piana di Salerno, a Faiano, un opificio industriale per la sgranellatura e l’imballaggio dei cotoni. La decisione del nuovo Regno d’Italia dei Savoia di aprire alla concorrenza dell’industria settentrionale ed estera ebbe come effetto, per l’industria salernitana, la caduta del 30% dei prezzi dei prodotti. La crisi causò riduzione di attività e di occupazione,con forti minacce di licenziamenti. Gli imprenditori svizzeri, per primo Meyer, cercarono di scambiare il blocco dei licenziamenti ed eventuali miglioramenti di salari con sicure agevolazioni fiscali sulle materie prime destinate alle industrie “ … come cotone in istoppa, cotone filato e droghe pagandone il dazio che verrà fissato in prosieguo dell’attuale Governo; e ciò nel fine di far lavorare i suoi operai senza essere obbligato a congedarli per mancanza di lavoro”54. Le facilitazioni richieste saranno in sostanza accordate. La fine delle forniture per le amministrazioni pubbliche, il passaggio al liberismo e l’apertura alla concorrenza, causarono la riduzione dei margini di remunerazione del capitale investito. Per 53 54

L. Di Matteo, “Noi della Meridionale Italia”, E.S.I., Napoli, 2002, pag.80. A.S.S., Gabinetto di Prefettura, Fascio n.1, Fascicolo 16, Anno 1860. 66


rientrare in situazioni di vantaggio bisognava pervenire a forti incrementi di produttività e, quindi, all’attuazione di una profonda ristrutturazione delle fabbriche. Il difficile accesso ai finanziamenti obbligò le imprese ad utilizzare, in via prevalente, capitali propri, per cui l’indebitamento fu sempre molto contenuto. Chi, invece, si ostinò a ricorrere all’indebitamento percorse con grande fatica la strada della ristrutturazione: l’obbligo di restituzione dei capitali, con rimborsi graduali dei debiti contratti, impedì una ristrutturazione di qualità che era, invece, indispensabile, mal utilizzando il danaro inizialmente investito. In conclusione, nel quadro d’insieme tratteggiato, solo gli svizzeri, tra tutti gli imprenditori operanti nell’area salernitana, dimostrarono capacità di continui adeguamenti tecnologici ed organizzativi, con la periodica sostituzione dei macchinari superati con macchine meccaniche moderne ed automatizzate, in grado di aumentare quantità e qualità del prodotto. Proficua, inoltre, si dimostrerà la scelta di pervenire al completamento verticale delle imprese: alla filanda verranno aggiunte tessitoria e stamperia per un sistema a ciclo industriale completo ed integrale. La Schlaepfer-Wenner perseguirà coerentemente su tale linea, a differenza dell’Aselmeyer che si limiterà alla sola produzione di filati, destinati a piccole fabbriche ed ai telai casalinghi. Il terzo gruppo svizzero, quello di Scafati, disponendo di minori capitali, si collocò di fatto su un livello inferiore. La ditta Meyer, la tintoria rosso Adrianopoli, finirà per cessare ogni attività a causa della concorrenza dell’industria tedesca. In relazione ai periodici conflitti che si sviluppano nelle imprese cotoniere e’ il caso di ricordare che, nel 1868, nella "Societa' Partenopea", venne attuato il provvedimento di numerosi licenziamenti. E ciò diede luogo ad una forte e robusta protesta operaia che determinò l'intervento della forza pubblica. Gli operai Orazio Baselice e Raffaele Nocera furono individuati tra i più attivi organizzatori della protesta. Per la prima volta il conflitto non si chiuse nei confini della fabbrica ma si proiettò all'esterno, nel territorio. Si richiese ufficialmente l'intervento del Sindaco e della Giunta perché disponessero "una sovvenzione di lire tre a ciascun travaliatore". L’industria cotoniera salernitana, dopo il 1860, aveva iniziato a registrare una contrazione della propria attività nei suoi settori più deboli, mentre in quelli più moderni, competitivi ed avanzati iniziò a svilupparsi un processo di crescita costante Secondo i dati statistici del 1876 l’industria tessile salernitana al momento dell’unificazione della penisola incideva, in maniera assai sensibile, sul totale dell’industria tessile meridionale. Aveva, infatti, il 51% del globale degli addetti, possedeva il 70% dei fusi, il 74% dei telai meccanici, il 90% degli HP.. Nel 1876, i fusi da filatura e ritorcitura in Campania erano 85.556, oltre 2 volte e mezzo quelli del Veneto, pari a quelli liguri, anche se inferiori di due volte e mezzo a quelli registrati in Piemonte e Lombardia. Proprio in quegli anni a Nocera da Aselmeyer ed Escher sarà creata la fabbrica più moderna del Sud. Su indicazione di Escher la ditta Mauke aveva iniziato nel 1875 i lavori di costruzione della “ Filatura” a Nocera Inferiore. Si trattava del primo grande complesso tessile costruito lontano da un corso d’acqua. Le caldaie a vapore assicurano una forza 67


tale da non rendere più indispensabile l’energia dei fiumi. L’opera sarà realizzata in più riprese. I primi capannoni entravano in funzione il 1877 nel mentre entrava a pieno regime nel 1880 dando lavoro a quella data a 1.000 operai di cui 750 donne e 250 uomini. L’industria campana, negli anni seguenti, crebbe ulteriormente, pervenendo a fine secolo, nel 1898, a ben 188.000 fusi, mentre quelli liguri risultavano stazionari ma quelli lombardi quadruplicavano e quelli veneti divenivano addirittura sei volte superiori ai dati precedenti. In Campania e nel salernitano crescevano in particolare i settori tessili della filatura e della torcitura con la creazione di uno stabilimento anche a Vietri Sul Mare, ma decresceva il settore della tessitura che continuava a vedere la presenza di attività diffuse, installate nelle abitazioni private. Dal 1878 in poi aveva avuto inizio un ventennio di espansione con l’adozione delle nuove tariffe protezionistiche del 1878 e del 1887, una vera fase di decollo per la quale decisiva risulterà, come si è detto, la qualità delle tecnologie impiegate e la più efficace organizzazione produttiva rispetto ai settori tessili minori. Protagonista di questo balzo in avanti la seconda generazione degli svizzeri. Giulio, Federico e Alberto, figli di F. A. Wenner, guideranno la Schlaepfer-Wenner; Alfonso Escher, figlio di Gaspare, guiderà la Vonwiller, Roberto Wenner, altro figlio di Federico Alberto, guiderà il cotonificio di Scafati.

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09 L’INDUSTRIA COTONIERA DI FINE SECOLO. Nel 1879 nell’industria tessile salernitana sono impiegati 9. 970 operai, in larga prevalenza raggruppati nel comprensorio di Salerno. Nello stesso periodo a Torino lavoravano nello stesso settore solo 4.000 operai . La non equilibrata ed omogenea distribuzione dell’industria tra le varie zone della Provincia sarà la prevalente causa del grosso flusso migratorio che provocherà l’espulsione di 26. 000 persone dalle aree interne con gravi conseguenze sulla tenuta complessiva dell’economia salernitana e suo conseguente declino economico. 55In relazione alle cicliche tensioni interne al mondo del lavoro ed alla difficile battaglia per conquistare miglioramenti salariali e normativi e’ per ora il caso di limitarsi a ricordare che bisognerà attendere il 1897 per assistere al grande sciopero delle filatrici e che solo nel 1901, alla Schaepfer-Wenner di Fratte, si riuscirà ad ottenere un incremento di salario attorno al 5% . Nel 1889 in Provincia di Salerno risultavano censiti 689 telai di cui 420 a Cava dei Tirreni, 4 a Laurino, 10 a Mercato San Severino, 51 a Nocera Inferiore, 130 a Nocera Superiore, 5 a Praiano, 30 a Sant’Arsenio, 9 a Sarno, 10 a Serre, 20 a Vietri sul Mare. Distribuiti in nove comuni del salernitano si lavorava con telai a mano in 19 opifici, che occupavano ben 1259 operai tra maschi e femmine. Filatura e tessitura meccanica erano lavorati negli stabilimenti di Angri, Pellezzano e Scafati. Ad Angri, sui 650 telai meccanici per 5. 000 fusi, lavoravano circa 900 operai, di cui solo 150 maschi adulti; a Pellezzano 29. 000 fusi e 400 telai meccanici con 907 telai; a Scafati 8000 fusi, 195 telai meccanici, 490 operai circa. Negli anni seguenti il ritmo di accumulazione del capitale divenne sempre più intenso al Nord e più lento al Sud, con ripercussioni negative anzitutto nel territorio napoletano. In questa area cominciò anzi, progressivamente, un intervento diretto del capitale del Nord che finì per creare propri nuovi stabilimenti che altro però non furono che secondarie ramificazioni di imprese che al Nord avevano cervello direttivo e concentrazione strategica e commerciale. La stessa Schlaepfer-Wenner alla fine degli anni 80 aveva ampliato la produzione di filati con la costruzione di una piccola filanda ad Angri. Negli anni ‘90 sarà convertita la produzione di filati grezzi. Furono poi create nuove aziende, a Pellezzano, per l’imbiancaggio e l’apparecchio. A Fratte crebbe la stamperia, a cui fu annessa una tessitoria specializzata. A fine secolo questa Società, la più forte del settore, aveva 8 opifici, con 43. 000 fusi semplici, 1. 400 telai meccanici, 9 motrici a vapore. Fortissimo l’incremento, per quantità e qualità, di filati e di tessuti. Il cotonificio di Scafati poi, dopo l’ingresso dei Wenner, era stato frattanto alquanto potenziato.

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Ne fa cenno Paolo Sgroia, in un articolo apparso sul settimanale “ Agire” il 27 Marzo 2005. 69


Aveva triplicato il numero dei propri macchinari, i fusi, i telai. Lo stabilimento di Scafati era stato dotato di efficaci strumenti antincendio ed ora, negli anni 90, il divario tra i due grandi gruppi svizzeri appariva notevolmente ridotto. La struttura tessile aveva in precedenza avuto una diffusione capillare, di tipo artigianale, in più punti della provincia. Le attività merceologiche erano varie. Spaziavano dalla lana al lino alla canapa al cotone. A Cava esistevano ben 9 tintorie. A Pellezzano risultavano attivi nel 1876 ben 24 lanifici, di proprietà di piccoli imprenditori locali. Il più grande era quello dei fratelli Barbarulo che era giunto ad impiegare 399 operai. Globalmente però si trattava di imprese di piccola dimensione. A Sarno risultavano censiti, nel 1876, 9 tra lanifici e canapifici oltre a due tessitorie di lino e di cotone. Di rilievo era però la sola grande filanda D’Andrea, con 650 operai, 4. 200 fusi attivi e ben 4. 500 inattivi. Anche nei lanifici e canapifici di Sarno veniva impiegato un gran numero di donne e di ragazzi, facilmente reperibili nelle campagne del Nocerino. Sarno era diventato un importante polo industriale canapiero grazie essenzialmente all’abbondanza d’acqua. Non c’era però paragone con gli svizzeri in materia di livello di automazione raggiunto. L’industria Campana, negli anni seguenti, crebbe ulteriormente pervenendo, nel 1898, a ben 188. 000 fusi nel mentre quelli liguri risultavano stazionari ma quelli lombardi quadruplicavano e quelli veneti, addirittura, divenivano sei volte superiori.

010. Le lotte degli operai cotonieri a Salerno In parallelo alla ricostruzione dei processi storici e degli assetti proprietari del comparto cotoniero salernitano che fino ad ora abbiamo tratteggiato è il caso di soffermare l’attenzione sull’altro aspetto decisivo di questa esperienza industriale. All’interno del profondo processo di trasformazione economica e sociale della società meridionale e salernitana si plasma un nuovo soggetto che agisce e condiziona, nel profondo, indirizzi e linee del cambiamento. Un soggetto che nasce e si organizza all’interno dei grandi opifici industriali cotonieri, il movimento operaio e sindacale. Si è già ricordato come il cammino delle forze del lavoro nell’industria manifatturiera salernitana per la conquista di migliori condizioni di vita e di lavoro, fin dal sorgere dei primi insediamenti di grandi dimensioni, sia stato irto ed accidentato. Il padronato tenterà, in ogni modo, di ostacolare l’azione dei lavoratori, puntando a farli permanere in una situazione di passiva subalternità. La crescita del livello di coscienza e di combattività dei lavoratori sarà senz’altro favorito dall’azione determinata ed organizzata del Sindacato che, fin dal suo primo apparire, introduce un’oggettiva contraddizione, di profonda incidenza, sugli equilibri di potere che, a lungo e da più parti, erano apparsi inscalfibili. E’ possibile in qualche modo, ripercorrendo alcuni passaggi delle lotte operaie, prendere atto della trasformazione che con esse è stata indotta all’interno dei posti di lavoro e, più in generale, nella società, nei modi di pensiero, nella cultura, nel senso comune. 70


Si può, con una qualche attendibilità, registrare una progressiva, seppure non lineare, crescita di coscienza, di consapevolezza delle proprie forze e delle proprie ragioni: un percorso che appare all’inizio come inarrestabile e che, invece, avrà più volte blocchi ed arretramenti, per una lunga fase,anche particolarmente duri e drammatici. Non era compito di questa trattazione la ricostruzione di tutte queste fasi ma, seppure solo per cenni e per fugaci richiami, è il caso di soffermarsi su alcuni dei principali avvenimenti, sulle battaglie sostenute, sulle ragioni che le hanno provocate. E’ poi atto dovuto consentire anche la riemersione, dalle nebbie della memoria che il tempo ha ormai offuscato, di alcuni dei principali protagonisti di questa storia, con l’esempio ed il contributo che essi hanno reso al movimento operaio salernitano. Il richiamo a Nicola Fiore è apparso così, tra tutti, quello carico della più grande valenza simbolica: sarebbe stata gravemente monca ed ingiusta, politicamente e storiograficamente, una ricostruzione che elidesse ogni ricordo del suo insegnamento. Le agitazioni che si svilupperanno nell’industria tessile salernitana hanno una pluralità di cause e di ragioni, anche tra loro contrastanti. Si sono andate quasi a mischiare esigenze legittime di miglioramento di salario e di riduzione degli orari di lavoro, le richieste di condizioni di lavoro più civili e rispettose, tali da far considerare il lavoratore non quale mera e residuale appendice della macchina, con proteste, anche violente, in qualche modo d’improbabile opposizione alla realizzazione del progresso meccanico, industriale, tecnologico. Scontri e conflitti a volte generati dalla vana illusione di mantenere l’inalterabilità degli arcaici meccanismi di produzione. Le agitazioni del 1848 hanno, in effetti, avuto il segno prevalente di tendenziale luddismo ed anarchismo. Altro carattere assumeranno gli scioperi e le agitazioni che si svilupperanno alla fine del XIX secolo e nel 1919-1920, prima che il fascismo avvolga in una cortina di silenzio e di rigido controllo, per un lungo ventennio, la tensione rivendicativa degli operai dell’impresa manifatturiera locale.

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010. Gli scioperi di fine secolo dei tessili:1894-1901

Intanto, è il caso di ricordare che a Fratte, nel dicembre del 1860, si verificheranno acuti contrasti tra la proprietà e gli operai che protestano duramente per il licenziamenti di 30 loro compagni che avevano fatto richiesta di limitati aumenti di salario56. Gli operai chiederanno, ancora, l’allontanamento del direttore e del “maestro della filatura” “perché tedeschi”. Dopo le agitazioni dei lavoratori di Cava del 1848 è questo il primo caso di conflitto in fabbrica di cui si ha una , seppure molto limitata, conoscenza. Invece il primo sciopero nella filanda Wenner a Scafati, di cui si ignorano i motivi, si verificherà nel 1896 e per fronteggiarlo il Prefetto di Salerno invierà il 24 febbraio un contingente di Reali Carabinieri. Sono sconosciuti i motivi alla base della protesta che, in ogni caso, si concluderà con una sconfitta operaia. Bisognerà attendere il 1897 per assistere al grande sciopero delle filatrici per conquistare aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro. L'8, l'11, il 18 Gennaio del 1901 vengono ricordati come i giorni dei primi scioperi, a Fratte, dei tessitori e delle tessitrici degli stabilimenti Schlaepter e Wenner. L'aspro conflitto trae origine dal rifiuto di pagare una multa ritenuta odiosa ed ingiusta. Si verificano anche scontri con le forze dell'ordine che procedono all'arresto di tre lavoratrici. Tuttavia, nel 1901, alla Schaepfer-Wenner di Fratte, si riuscirà ad ottenere anche un incremento di salario attorno al 5%. Più documentato è, invece, il nuovo sciopero del 1901, a Scafati, del quale si rintracciano elementi dagli atti delle sedute del Consiglio Comunale del 17 e del 27 Novembre. Il dibattito consiliare si sviluppa sotto la presidenza del sindaco Francesco Budi. Causa scatenante dell’agitazione sembra essere la non corresponsione dei salari. La situazione appare subito grave prefigurandosi il concreto pericolo di licenziamento per circa mille operai. Il consiglio comunale tenta di svolgere una funzione di mediazione tra le maestranze e la proprietà. Il dibattito evidenzia l’obiettivo peggioramento delle condizioni di vita e di salario degli operai. La retribuzione media è, infatti, di 5 o 6 lire a settimana e con tali miseri salari non si riesce a sfamare le famiglie. La retribuzione è ancora più assottigliata dalle numerose multe subite per supposte manchevolezze e negligenze attribuite dalla direzione ai lavoratori nello svolgimento delle loro mansioni. Il controllo sulle maestranze è durissimo mentre discrezionali sono le valutazioni ed unilaterali le decisioni aziendali: gli abusi padronali non possono essere contestati dagli operai a causa del non riconoscimento di alcuna loro organizzazione professionale o sindacale rappresentativa depositaria di mandato. Tanti padri di famiglia, denuncia il Consiglio 56

G. Santoro, ”L’economia della Provincia di Salerno”, pag. 122, Salerno, 1966, riporta i salari medi del 1864 nella Tessitoria Meccanica Freitag di Scafati. Essi oscillano, per gli operai adulti, da un minimo di 1,30 lire ad un massimo di 4 lire al giorno.I lavoratori adulti dell’arte della lana, in media, percepivano un salario giornaliero di lire 1,85 nel 1864, superiore di un terzo rispetto a quello del 1860. Sempre nel 1864, il prezzo del pane era di 3 centesimi al Kg. ed i fitti mensili delle abitazioni operaie erano, in media, di 5 lire al mese. 72


Comunale, sono costretti a fare ricorso a sussidi di carità. Lo stato delle cose induce a valutare l’opportunità di fornire sussidi di sussistenza, per quanto miseri e limitati, quale “segno di umana comprensione e solidarietà.” In effetti, sembra che l’agitazione abbia assunto particolare asprezza in seguito al licenziamento, ingiustificato, di un’operaia avvenuto in conseguenza della sua malattia e che lo sciopero sia stato determinato “da sevizie, maltrattamenti, scarsa mercede”: il giornale socialista “La Propaganda” aveva attribuito lo sciopero al fatto che, nello stabilimento di Scafati, fioccavano le multe, i maltrattamenti e le percosse per lavoro eseguito non alla perfezione. L’operaia si sarebbe ammalata, per il foglio napoletano, proprio a seguito delle percosse subite.57 Nel frattempo era nata a Scafati la Camera del Lavoro ed il Sindaco Budi aveva polemicamente stigmatizzato il fatto che di essa facessero parte non solo i cittadini scafatesi ma anche gente estranea al paese. Wenner accetterà di discutere, durante l’agitazione, solo coi rappresentanti operai della sua azienda ed escluderà di incontrare qualsiasi delegato esterno: sarà costituita una commissione di operai per comporre il conflitto insorto con la proprietà così da riottenere la riapertura della fabbrica. Anche il Prefetto, sollecitato dal Sindaco, accetterà di intervenire, ma a condizione che la commissione degli operai fosse costituita solo da dipendenti dell’azienda Wenner, e che gli venisse attribuita la funzione di arbitro, con l’obbligo che le parti avrebbero accettato le sue decisioni. Su richiesta della Camera del Lavoro, sarà dato da parte del Consiglio Comunale un sussidio in danaro di 12.000 lire da dividersi in 20 giorni per 600 lire al dì: 4 lire a settimana sarebbero andate alle ragazze ed alle donne ed il restante ai maschi di qualunque età. Gli uomini dovevano essere considerati per ultimi, in quanto essi erano senza dubbio più in grado di procurarsi sostegno anche con altre attività. Lo sciopero vedrà l’incarcerazione di 30 operai e 6 operaie e dieci filatrici verranno licenziate: una dura sconfitta! Dopo 17 giorni di sciopero rientravano in fabbrica 600 donne, 150 uomini ed altrettanti ragazzi. La sconfitta obbligherà gli operai al silenzio per alcuni anni, fino al grande sciopero del 1910-1911. Per comprendere la condizione operaia del tempo è opportuno leggere la copia, peraltro incompleta, del regolamento in vigore a quel tempo nello stabilimento di Tessitura di Angri. Manca una documentazione specifica per l’opificio di Scafati, ma non c’è ragione di ritenere che esistano significative differenze nella condizione di vita e di lavoro di complessi industriali sostanzialmente similari.

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La storia dell’industria tessile svizzera di Scafati nel suo sviluppo essenziale è stata efficacemente

ricostruita da Angelo Pesce, “ L’Industria Tessile di Scafati Meyer Freitag Wenner ”, Scafati, Giglio, 1992.

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011. Camere del Lavoro ed organizzazioni operaie In Italia le Camere del Lavoro nascono nel periodo che va dal 1889 al 1891. Si trattava di costruire organizzazioni dei lavoratori in grado di sostituirsi alle ormai vecchie e superate Società di Mutuo Soccorso che, nei decenni pregressi, avevano costituito le prime e sole forme di tutela dei lavoratori dell'industria e dell'agricoltura. Esse erano iniziate a sorgere in Campania già dal 1860 ed avevano, per simbolo, due mani strette e, per programma, l’unione, la fratellanza, il reciproco soccorso “materiale, intellettuale e morale”. In Provincia di Salerno, tra il 1860 ed il 1900, ne nasceranno 105, con 9.888 iscritti. Tra le prime, nel 1861, la Società di Mutuo Soccorso “Torquato Tasso” di Sala Consilina. Tra i compiti delle Camere del Lavoro anche quelli di organizzare scuole serali, biblioteche, corsi di qualificazione per artigiani ed agricoltori. L’assistenza ai soci era assicurata da un fondo comune da cui attingere in caso di inabilità al lavoro, malattia, per visite mediche e medicine. Più avanti saranno costituite le prime banche cooperative operaie58. Le nuove organizzazioni sindacali, naturale evoluzione delle prime società di Mutuo Soccorso, sorgeranno dapprima al Nord, per poi diffondersi in alcune città meridionali come Napoli, Cosenza, Catanzaro. Esse rivendicheranno, come punto principale, il diritto del ricorso allo sciopero nelle controversie di lavoro e, così, le loro prime battaglie saranno per difendere la dignità di uomini dei lavoratori, considerati troppo spesso dai datori di lavoro alla stregua di cose da spremere e sfruttare. La documentazione da cui attingere notizie per la Provincia di Salerno e' scarsa e limitata. Il 1901 e' l'anno in cui e' possibile rilevare la prima presenza organizzata delle Camere del Lavoro in Provincia di Salerno. E’ proprio la Camera del Lavoro di Salerno, fondata da E. Rossi, a venire propagandata dalle pagine de "Il Lavoratore" 59. 58

Vedasi Diomede Ivone, “Associazioni operaie, clero e borghesia nel Mezzogiorno tra Ottocento e Novecento”, A. Giuffrè editore, Milano 1979, in specie pp. 9-38. Le principali società di Mutuo Soccorso a Salerno, oltre alla Società Operaia di Mutuo Soccorso Giuseppe Garibaldi di Salerno, Tipografia Nazionale, del 1890, saranno la Società di Mutuo Soccorso e di Fratellanza in Salerno del 1868, l’Associazione di Mutuo Soccorso tra operai tipografi di Salerno del 1876, la Società di Mutuo Soccorso di Nocera Inferiore del 1877 e quelle di Stio, di Auletta e di Vallo della Lucania del 1878, di Castiglione del 1882, di Felitto e di Torre Orsaia del 1884,degli artigiani di Capaccio del 1898, la Società operaia cooperativa di Cicerale Cilento del 1890. 59 L'ultimo numero de "Il Lavoratore" viene pubblicato il 4 settembre del 1909. 74


Il suo primo dirigente sarà Luciano Ferro, bravo, capace e risoluto. La sua partenza per Pisa, avvenuta nel 1905, coinciderà con l'avvio della decadenza e della disgregazione dell’ organizzazione operaia. E' interessante rimarcare la caratteristica di spiccato autonomismo dal centro che immediatamente tenderà a caratterizzare alcune delle Camere del Lavoro della Provincia ed, in particolare quella di Nocera Inferiore, nata per iniziativa di Giuseppe Vicidomini, di Penta e di Eboli. La Camera del Lavoro di Penta, addirittura, non parteciperà al Congresso Provinciale del 20 e del 21 Marzo del 1904. Il 1° ottobre del 1906 verrà fondata a Milano la CGIL, la prima organizzazione sindacale confederale dei lavoratori. Da allora in poi, la storia del Sindacato si intreccerà, confondendosi inscindibilmente con le principali vicende della Nazione ed inciderà su tutti gli snodi essenziali dell’azione per la libertà e la democrazia del nostro Paese. In un secolo di lotte il Sindacato è divenuto cardine decisivo delle Istituzioni Repubblicane. Nell’area salernitana, le Camere del Lavoro avevano iniziato un'azione di organizzazione dei nuclei industriali più importanti e significativi. Le imprese viste con attenzione particolare erano quelle di proprietà degli Svizzeri, le tessiture e filature tessili, gli stabilimenti di proprietà Schlaepter e Winner che, in passato e per un lungo periodo, erano riusciti a gestire il rapporto coi lavoratori delle loro imprese attraverso l'esercizio di un rapporto egemonico fondato insieme sul paternalismo e sull’autoritarismo. I fattori e le congiunture negative che condurranno questi imprenditori ad un disimpegno progressivo ed all'affidamento delle imprese a dirigenti non titolari di rapporti di proprietà moltiplicheranno le occasioni di conflitto coi lavoratori. L’idea forza intorno a cui la Camera del Lavoro, erede delle Società di Mutuo Soccorso, prime ed embrionali forme di auto-organizzazione delle forze del lavoro, si modella è l’unità e la solidarietà. Dalla fine del secolo e per tutto il Novecento, promosse dalle Camere del Lavoro, si svilupperanno grandi lotte incentrate sulla difesa dei diritti essenziali dei lavoratori per fuoriuscire da condizioni di vita odiose e disumane. Le condizioni di lavoro nelle imprese manifatturiere industriali sono durissime: 12 ore di lavoro al giorno ed altre 4, in media, per raggiungere a piedi la fabbrica dalle campagne e tornare alle proprie case; i bambini di 5, 6 anni sono anch'essi impegnati per 12 ore; i ritmi di lavoro sono spaventosi; i salari sono differenziati tra uomini, donne e bambini, anche a fronte dello stesso lavoro; non c’è risarcimento per la malattia e per i tanti infortuni; i lavoratori anziani o espulsi dalle aziende non hanno diritto ad alcuna forma, anche minima, di reddito; innumerevoli sono i soprusi e le angherie verso i lavoratori e le lavoratrici; insindacabile è la libertà di licenziare! Migliori condizioni di salario e di orario saranno le prime rivendicazioni che culmineranno, agli inizi del Novecento, nel raggiungimento dell’obiettivo delle 8 ore e nell’obbligo del riposo settimanale. La regolamentazione per contratto del rapporto di lavoro,sarà così l’obiettivo qualificante e generale perseguito con aspre lotte che, con sconfitte e vittorie, si susseguiranno negli anni: la resistenza delle forze più retrive del padronato, volta ad 75


impedire qualsiasi “interferenza” dei lavoratori sui temi dell’organizzazione del lavoro e del controllo della produzione, a lungo ritenute prerogativa esclusiva dell’impresa, sarà estrema e non di rado feroce. Fratte, Nocera, Angri, Scafati sono i centri di prima organizzazione della classe operaia, incardinata essenzialmente intorno alle imprese industriali tessili; in particolare, e' destinata ad acquisire notevole importanza la Lega di Miglioramento tra le operaie e gli operai delle Arti Tessili di Penta, ove si raggruppa un consistente nucleo di 2.000 lavoratori. In seguito verranno organizzate le Leghe dei Pastai e dei Mugnai tra le quali, per autorevolezza, avrà particolare rilievo quella di Nocera. Le Camere del Lavoro, anche nell'area salernitana, svolgeranno una straordinaria funzione di educazione e di crescita della coscienza dei lavoratori che impareranno a battersi per il rispetto della loro dignità e per la difesa dei loro diritti: il moltiplicarsi delle lotte produrrà progressivi miglioramenti delle loro condizioni di vita e di lavoro. E' del tutto plausibile ritenere che, in quegli anni, si sarebbe potuto realizzare un più forte ed esteso sviluppo del movimento sindacale se non si fossero determinate le accentuate conflittualità e divisioni interne al movimento socialista del tempo che, purtroppo, contribuiranno sensibilmente a determinare il depotenziamento del movimento dei lavoratori organizzato intorno alle Camere del Lavoro. In riferimento alla situazione salernitana, si deve anche ricordare che il 7 Ottobre 1909 è annunciata la convocazione del 2° Congresso del Partito Socialista, proprio nei locali della Camera del Lavoro. Si avverte ormai chiaramente una sostanziale dipendenza del Partito dalla Camera del Lavoro e ne è una ulteriore, indiscutibile conferma l'assunzione della direzione del giornale da parte di Carlo Califano, segretario della Camera del Lavoro. E' accaduto, insomma, che nella realtà salernitana la spinta organizzativa per la nascita del Partito e del Movimento socialista e' passata attraverso il ruolo primario delle Camere del Lavoro come centri di aggregazione dei lavoratori dell'industria e dell'agricoltura.

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012. I nuovi scioperi degli operai tessili:1910-1911 Agli inizi del secolo la legislazione sociale in Italia era ancora assai arretrata, se paragonata a quella di altri paesi europei. I turni medi di lavoro erano di 12 ore, si lavorava anche la domenica, con inizio del primo dei due turni alle 4 del mattino. Nelle industrie cotoniere del salernitano non esistevano ferie o riposi e si era licenziati in conseguenza di lunga malattia. La sorveglianza sul posto di lavoro era durissima: di frequente venivano inflitti multe e taglio del salario e comminati pesanti provvedimenti disciplinari e, non di rado, il licenziamento. La disciplina era fatta osservare dai capi, in genere stranieri, svizzeri o tedeschi. A lungo avevano lavorato nelle aziende bambini di 5, 6 anni prima che questa “consuetudine” fosse abolita con la legge del 19 Giugno 1902, relatore il Ministro Carcano. Da allora, l’età minima per essere ammessi al lavoro divenne di 12 anni. Fu vietato anche il lavoro notturno per le donne inferiori ai 21 anni e per i ragazzi di meno di 15 anni ma restò l’orario giornaliero di 12 ore ed il lavoro la domenica e nei giorni festivi. A poco a poco fu consentito alle donne di allattare i bambini piccoli in locali prossimi all’azienda. La Camera del Lavoro di Scafati era, nel 1910, guidata dal professor Felice Guadagno, socialista di Nola. La decisione di forti inasprimenti fiscali, in particolare della tassa di famiglia, determinò le proteste operaie e le manifestazioni che portarono alla proclamazione dello sciopero generale della fine di Settembre. Il Wenner reagì licenziando alcune operaie che vi avevano partecipato. Gli operai risposero con lo sciopero ad oltranza che fu anche l’occasione per rilanciare la richiesta della giornata di 8 ore, del riposo festivo, di aumenti salariali e di porre un freno al regime poliziesco esistente in fabbrica. Allo sciopero venne data una brutale risposta repressiva. Il 3 ottobre la forza pubblica caricò i lavoratori, inseguendoli con le spade sguainate, colpendoli e calpestandoli. Le tessitrici cercarono di difendersi reagendo col lancio di cenere e terra, impugnando i propri zoccoli. Restarono sul terreno una cinquantina di persone, per lo più donne. Fu organizzato, diretto dal commissario Codugno, un vero e proprio assalto alla Camera del Lavoro. Molti operai e passanti vennero arrestati. Ettore Cicciotti, deputato socialista napoletano, dopo un sopralluogo alla Camera del Lavoro, dove erano ancora visibili i fori dei proiettili sui muri, presenterà una durissima interpellanza parlamentare sui gravi fatti accaduti, per i quali nessuno dei responsabili era stato perseguito. A sostegno dello sciopero venivano inviati soldi da tutta Italia per mezzo di vaglia postali. A novembre venne a Scafati a portare la propria solidarietà anche l’onorevole Rigoli. Nella Camera del Lavoro ogni giorno veniva preparato un pasto per gli operai in lotta. Per piegare la resistenza degli operai che continuavano nella loro lotta, Roberto Wenner farà ricorso, in funzione di crumiraggio antisciopero, al reclutamento di lavoratori dei paesi vicini che venivano scortati al lavoro dalle forze dell’ordine. Il 24 Novembre il treno della Circunvesuviana, che trasportava molte operaie al lavoro 77


nella fabbrica tessile del Wenner, fu fatto oggetto di 5 e più colpi di rivoltella e tre giovani operaie rimasero ferite a seguito delle schegge dei vetri fracassati dei vagoni. Di questo episodio fu accusato il segretario della Camera del Lavoro, Felice Guadagno, arrestato con altre 4 persone. Gli arrestati respinsero con fermezza le accuse ma tutti furono tenuti in carcere per oltre un mese. Lo sciopero era ora diretto dall’avvocato Gino Alfani, segretario della Camera del Lavoro di Torre Annunziata. Il Commissario Prefettizio di Scafati era riuscito a convincere Wenner alla riammissione in fabbrica, senza sanzioni, di tutti i lavoratori. Il prefetto propose il Commissario quale mediatore per comporre la controversia ma Alfani rifiutò, sostenendo che l’intesa andava trovata tra la proprietà e la Camera del Lavoro. Wenner fu assolutamente intransigente nel rifiuto di riconoscere una funzione rappresentativa ad elementi esterni all’impresa. Intanto, il Congresso costitutivo della Federazione proletaria meridionale approvò un ordine del giorno a sostegno degli operai di Scafati chiedendo a gran voce la liberazione degli arrestati che, tuttavia, verranno messi in libertà solo a fine dicembre. Lo sciopero durava ormai da quattro mesi. Il 2 gennaio iniziarono le trattative nel palazzo comunale di Scafati alla presenza del commissario prefettizio e del delegato alla pubblica sicurezza di Scafati, tra i rappresentanti della proprietà e quelli degli operai, assistiti dal Guadagno come reintegrato Segretario della Camera del lavoro. Si convenne, verbalmente, la riassunzione di tutti i lavoratori e si assunse l’impegno a miglioramenti salariali. “La propaganda” rileva che gli impegni furono subito disattesi dal Wenner e che gli operai dal 10 gennaio 1911 ripresero lo sciopero. Wenner intensificò il ricorso al crumiraggio, annunciando il licenziamento dei componenti della commissione esecutiva della Lega tessile dell’opificio e rifiutando il pagamento di 8 giorni di lavoro. Alla fine del mese, sollecitati da Guadagno, vennero a Scafati alcuni rappresentanti dell’Esecutivo nazionale del Partito Socialista, tra cui, per mediare, l’onorevole Trapanese. Venne richiesta la riassunzione di tutti i lavoratori, la riduzione di un’ora dell’orario di lavoro, l’aumento del 15% dei salari, il contenimento delle multe, un fondo per i lavoratori malati, il riconoscimento di una commissione operaia di controllo del lavoro e, molto significativamente, il riconoscimento della festa del I° Maggio. Le richieste, sul momento, furono accolte dalla proprietà che, dopo centotrentaquattro giorni di sciopero, acconsentì alla ripresa del lavoro. Tuttavia, ben presto il Wenner ritirò il riconoscimento della organizzazione operaia, licenziando, alla fine di giugno, 12 operai e decretando la serrata. Wenner ribadì, ancora, la linea dell’obbligo del distacco dei suoi dipendenti dalla Camera del lavoro, disconoscendo il ruolo di rappresentanza della commissione operaia che, anzi, fu sostituita da un gruppo di lavoratori di stretta osservanza padronale. Fallì il tentativo dell’organizzazione sindacale di coinvolgere i lavoratori di Salerno - Fratte nella lotta a sostegno dei lavoratori di Scafati. Il processo per gli spari al treno, a giudizio del foglio “La scintilla” del 16 Marzo 1913, artatamente montato dalla ditta “Wenner”, a carico di Felice Guadagno e Raffaele Nitti, si concluse con una sentenza di colpevolezza per i due dirigenti sindacali e con la condanna a 4 anni di carcere per il Guadagno e ciò concorse alla decapitazione della direzione dell’organizzazione 78


sindacale. Si prefigurava, così, una conclusione dell’aspra controversia non favorevole agli operai e si dissolveva l’illusione della conquista di positivi e duraturi risultati: iniziava un periodo di torpore dell’iniziativa sindacale.

013. Nel nuovo secolo. La grande guerra. Nel 1913, una delle ramificazioni meridionali dell’industria tessile del Nord, il Cotonificio Nazionale, non resse più, finendo per essere assorbita dall’industria cotoniera svizzera. E così, con atto del 7 Gennaio, la Società Anonima Manifatture Cotoniere Meridionali Roberto Wenner & Co., con sede a Napoli, in Via Medina, con un capitale di oltre 8 milioni, assorbì gli stabilimenti napoletani del Cotonificio Nazionale ed anche quelli di Scafati e di Castellammare. Gli impianti delle MCM a Scafati erano, a quel tempo, moderni ed aggiornati, poiché nell’azienda era stata realizzata la sostituzione delle macchine a vapore con quelle ad energia elettrica. Roberto, che aveva, ancora, una notevole quota nella Schlaepfer-Wenner di Salerno, che divenne l’azienda dove si stampava il tessuto greggio di cui era diventato importante fornitore, intendeva riunire sotto una sola direzione, in un’unica impresa tessile meridionale, tutti gli stabilimenti tessili in cui c’era un impegno della famiglia. Agli inizi del 1916, le Manifatture Cotoniere Meridionali, continuando nel processo di concentrazione industriale, acquistarono la totalità delle azioni della Società Anonima Industrie Tessili Napoletane, portando il capitale sociale a 9 milioni e, nel 1917, inglobarono anche il Cotonificio di Spoleto, elevando il capitale a 10 milioni di lire: è la prima operazione che porta l’industria meridionale ad espandersi verso il Nord, ben oltre dimensioni territoriali esclusivamente locali. Nel 1915, alla vigilia della Grande Guerra, la presenza del settore industriale tessile nell’Agro Nocerino Sarnese era particolarmente estesa, con grandi realtà industriali che davano lavoro a migliaia di lavoratori. Solo nell’area sarnese operavano una filanda ed una tessitura di lino e di canapa, con circa 2.000 operai. A Scafati battevano 404 telai, 4.270 fusi di torcitura e 25.184 fusi di filatura che impegnavano ben 1.509 operai, ad Angri battevano 950 telai, 9.381 fusi con 1.000 operai, a Nocera 54.000 fusi con 950 operai. Nel 1917, invece, nell’industria cotoniera meridionale operavano 180.000 fusi e 1.400 telai meccanici, si producevano 25 milioni di metri di tessuto con l’impiego di 15 milioni di kg. di filato ed erano occupati 7.000 lavoratori. La crescita è da mettere in relazione, indubbiamente, alle esigenze prodotte dalla guerra. Le commesse militari garantite dall’ingresso dell’Italia in guerra consentirono, infatti, un periodo di grande tranquillità e di vantaggi per i dipendenti degli opifici cotonieri che non dovettero fronteggiare periodi di insaturazione produttiva. Roberto Wenner divenne uno dei maggiori fornitori di manufatti di cotone, di camicie, di vestiti di tela grigia, di tele da tenda, di fazzoletti e cravatte per il Ministero della 79


Guerra. Il Wenner riuscì ad approvvigionarsi di materia prima per il fabbisogno delle sue aziende grazie alla possibilità di pagare i produttori in India ed in Cina in contanti ed in moneta d’argento che l’industriale svizzero era riuscito a procurarsi in grande quantità. Terminato il conflitto mondiale, nella difficile situazione dell’industria nazionale, i bassi salari permisero la difesa dell’industria salernitana dagli effetti della crisi post-bellica. Ma risultò anche efficace la pratica di una politica industriale e commerciale non ancorata a statiche posizioni di conservatorismo ma protesa, piuttosto, alla paziente ricerca di nuovi sbocchi di mercato per le produzioni locali.

14. L’abbandono degli svizzeri. Rodolfo, figlio di Roberto, ebbe, nell’immediato dopoguerra, un ruolo assai attivo, decidendo, tra l’altro, di affidare a Bruno Canto, un competente dirigente industriale patavino, la guida della segreteria generale della ditta ed il compito di realizzare il processo di unificazione delle aziende tessili salernitane e napoletane. L’idea di Roberto Wenner dell’integrazione produttiva, pazientemente perseguita, non si realizzerà a causa dei problemi politici indotti dalla guerra che porterà alla cessione dell’impresa ad un gruppo finanziario ed imprenditoriale nazionale, sollecitato dai notevoli profitti realizzati dalle Manifatture. Furono protagonisti dell’operazione Bruno Canto, principale attore di questa fase di transizione, e la Banca Italiana di Sconto che, divenuta una delle principali finanziatrici dell’industria del Nord, favoriva processi di fusione e concentrazione industriale. Nonostante le dimostrazioni di lealtà manifestate dai Wenner nel corso del conflitto, fu decisiva, nell’operazione di acquisizione al capitale nazionale, la valutazione dei rischi derivanti dal controllo esercitato dal capitale straniero in un settore produttivo di notevole rilevanza economica ed occupazionale. La campagna xenofoba antitedesca, scatenatasi in contemporanea al conflitto, indurrà i tedeschi a lasciare l’Italia: la nuova società escluderà, dunque, Aselmeyer ed il capitale tedesco, mentre ancora per qualche tempo resisterà la presenza svizzera. Nel 1918, il capitale svizzero fu, però, costretto a ritirarsi. Nitti darà il suo pieno appoggio all’operazione di italianizzazione dell’impresa: la totalità delle azioni delle Manifatture Cotoniere Roberto Wenner & C. saranno liquidate con un sovrapprezzo del 100% sul valore nominale, mentre i Cotonifici di Salerno sono acquisiti grazie ad un’offerta di un sovrapprezzo del 50% sul valore nominale delle azioni: offerte particolarmente vantaggiose ed irrifiutabili! Dei Cotonifici Riuniti di Salerno, la Banca di Sconto rileva prima il 60% del pacchetto azionario e poi il restante 40%. L’azienda si chiamerà, da allora, Manifatture Cotoniere Meridionali, con l’eliminazione della dicitura “Roberto Wenner & C.”. Nel 1919 sono sciolte la Società Anonima Industrie Tessili Napoletane, i Cotonifici Riuniti di Salerno ed il Cotonificio di Spoleto e tutte vengono incorporate nelle MCM, ormai un grande gruppo nazionale con stabilimenti a Fratte, Nocera, Angri, 80


Scafati, Poggioreale, Piedimonte, Spoleto che subentra ai Wenner, fino a quel momento i veri protagonisti dello sviluppo dell’industria tessile salernitana e ne concretizza la grande idea della integrazione produttiva e dell’unificazione proprietaria. Gli industriali del Nord, grazie ai robusti finanziamenti ricevuti, il 15 maggio del 1918, in piena guerra, danno vita, dunque, alla S.P.A. Manifatture Cotoniere Meridionali, con un capitale di 40 milioni di lire, 340.000 mila fusi, di cui 45.000 per filati ritorti, 2.800 telai, 12 macchine stampatrici. Le Manifatture Cotoniere Meridionali occupano 12.000 lavoratori. Era in ogni caso indubbio che gli imprenditori subentranti erano certi di fare un grande affare economico, acquisendo aziende sane, robuste, competitive. Le previsioni si riveleranno, però, ben più problematiche rispetto alle iniziali, ottimistiche aspettative. I nuovi proprietari subentrati agli svizzeri puntarono ad ottenere una gestione redditizia dell’insieme di queste imprese, procedendo immediatamente all’eliminazione di quei centri di produzione non rispondenti a requisiti di efficienza e redditività. La prima azienda, la Filanda Irno di Fratte, chiuse, così, nel 1919. I lavoratori di Salerno scioperarono e si verificarono ripercussioni a Scafati, dove si intendeva collocare i lavoratori esuberanti. La crisi fu accentuata dalla difficoltà di approvvigionarsi di combustibile, fattore questo che impediva di competere sui costi e, soprattutto, dalla verticale riduzione delle commesse militari, di cui era stato possibile disporre durante la guerra del 19151918 e che erano state lavorate soprattutto a Fratte ed a Scafati. Nel 1920 e nel 1921 erano stati istallati ad Angri 1.615 telai automatici. Lo stabilimento di Angri appariva il più moderno del gruppo ed il presidente Gualtieri comunicava che la fabbrica di Angri era la più forte venditrice di stoffe per ammobiliamento sul mercato di Londra. Il governo se ne serviva anche per l’addobbo delle sedi di rappresentanza all’estero. Nel 1921, come evidenziò, di converso, il censimento, erano installati in Italia complessivamente 5 milioni di fusi, che segnavano, in tutta evidenza, i diversi pesi produttivi ormai stratificati tra l’industria cotoniera del Centro Nord e quella meridionale. Nel periodo postbellico la solidità economica e produttiva delle imprese localizzate nell’Italia Meridionale peggiorò sensibilmente: da una parte la difficoltà di movimento dei moli e l’obbligo a pagare in oro la materia prima, dall’altra gli errori di valutazione delle Manifatture Cotoniere Meridionali, decise ad intervenire in altri settori, diversi dalla loro specifica e tradizionale attività, diedero evidenza ai più gravi limiti di strategia dirigenziale che provocò una situazione di difficoltà e di crisi. L’impresa aveva deciso d’investire notevoli capitali nella Società Italiana per la coltivazione del cotone in Sicilia, in una società di acquisti immobiliari, in partecipazioni nella Rinascente, in attività che, conclusa la guerra, vennero liquidate con perdite notevoli.

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015. Gli scioperi degli operai tessili:1919-1920 Gli ultimi scioperi del 1919 consentirono il riconoscimento del ruolo del Sindacato in azienda, aumenti salariali, la riduzione della giornata lavorativa. Un’acuta crisi economica investì anche la società salernitana all’indomani del primo grande conflitto mondiale: l’economia, che era stata strutturata proprio in funzione della guerra, iniziò a mostrare drammatiche crepe. Le imprese che avevano prodotto per l’economia di guerra e che, con la loro continua ed intensa attività, avevano consentito la realizzazione di alti profitti agli imprenditori, terminata la guerra, si trovarono di fronte a forti difficoltà. Il mercato non richiedeva più quantitativi produttivi elevati ed, anzi, appariva indilazionabile l’avvio di un profondo processo di riconversione delle attività. Non era, d’altronde, operazione semplice la riconversione radicale del vecchio apparato industriale che, fino a quel momento, aveva progredito grazie a rigide politiche protettive, ai dazi doganali, alle agevolazioni fiscali e creditizie, alla garanzia di continue commesse statali60. La crescita dell’inflazione ed il diffondersi della disoccupazione di massa nel paese concorse ad innescare una miscela esplosiva destinata, di lì a poco tempo, ad esplodere con sbocchi neppure lontanamente immaginabili. Nell’immediato dopoguerra, si abbattè anzitutto sulle piccole fabbriche l’effetto della riduzione delle commesse e delle attività. A fronte della situazione di grave incertezza nella quale vennero a trovarsi grandi masse di lavoratori, iniziò un periodo di conflitti, di particolare ampiezza ed estensione, che interessò, da un lato all’altro, tutta la penisola. Molte aziende chiusero, crebbe l’esercito di disoccupazione di riserva, si presentò drammaticamente lo spettro della disoccupazione per migliaia di operai. Le agitazioni consentirono di ottenere incrementi di salario, un’indennità di carovita, la stipula di contratti di lavoro nazionali di settore, la definizione dell’orario di lavoro giornaliero di 8 ore. Le tensioni continuarono a crescere anche perchè il padronato spingeva per risolvere la crisi attraverso un’ulteriore compressione dei diritti e dei salari. Le stesse conquiste raggiunte nazionalmente erano del tutto disapplicate a Salerno, anche quella che aveva definito l’orario di lavoro in 8 ore giornaliere: i datori di lavoro intendevano continuare con un orario giornaliero non inferiore alle 11 ore medie. Il governo centrale e le sue articolazioni periferiche non si dimostravano in grado o non volevano svolgere alcun ruolo di garanzia per il rispetto dei diritti sanciti nelle

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Vedasi, al proposito, R. Romeo, “Breve Storia della grande industria in Italia, 1861-1961”, Bologna 1972, pp.115 - 135. 82


intese e nessuna pressione sulle imprese per evitare i licenziamenti, tanto che ai lavoratori altro non restava che il ricorso alla lotta. Pur essendosi significativamente espansa, era ancora gracile l’organizzazione del movimento dei lavoratori, non ancora in grado di esercitare condizionamenti veri sulle politiche del padronato. Le Società di Mutuo Soccorso e le poche cooperative erano le uniche strutture in grado di assicurare livelli minimi di assistenza e di sussidio per i propri soci in caso di malattia o di disoccupazione. Nel 1919-1920, tuttavia, il settore tessile, che ruotava in larga parte intorno al gruppo delle MCM, presentava un buon livello di capacità organizzativa sindacale che, non a caso, darà luogo ad agitazioni sindacali di un qualche rilievo. Nel febbraio 1919, gli industriali tessili diedero il via alla serrata nello stabilimento “Irno”. Si trattava di un’evidente azione intimidatoria e di pressione sul governo per ottenere una serie di agevolazioni: permessi di esportazione, combustibili a prezzi vantaggiosi, facilitazioni nell’uso di treni e ferrovie per la commercializzazione delle produzioni. La Camera del Lavoro, a fronte della serrata, inviò un telegramma al governo chiedendo la requisizione dello stabilimento, il suo affidamento alla gestione della Federazione Operai Tessili. Il 17 marzo la fabbrica riaprì, ma sussisteva il forte sospetto di una ripresa dell’attività soltanto provvisoria, di 4 settimane. La conferma di una tale convinzione diede vita a nuove tensioni. Gli operai si riunirono a Fratte ed votarono all’unanimità un ordine del giorno di tutti i tessitori della Valle dell’Irno a sostegno dei lavoratori licenziati, dichiararono una “tregua” fino al 25 dello stesso mese per consentire di assumere chiare decisioni atte a scongiurare il pericolo dei licenziamenti, minacciarono di dar vita a forme di lotta assai più dure ed incisive se fosse stata confermata la decisione di chiusura dello stabilimento. Gli industriali cotonieri risposero con estrema decisione preannunciando, per il 12 aprile, la definitiva chiusura dello stabilimento “Irno”, col conseguente trasferimento degli operai negli stabilimenti di Nocera Inferiore, di Scafati, di Napoli. Il 3 Aprile gli operai tessili, diretti da Nicola Fiore, dichiararono, per il 4, lo sciopero generale. Tutte le attività industriali vennero interrotte: scioperarono i metallurgici di Fratte, la segheria di Fratte, i mulini e pastifici di Salerno, le concerie, il cementificio, i vetrai di Vietri, i lavoratori del porto: 4.000 operai si astennero dal lavoro. Non aderirono alla protesta soltanto i tranvieri della linea Salerno- Pompei ed i tipografi, aderenti alla Camera del Lavoro di Napoli. Nicola Fiore fece in quella occasione un comizio infiammato, lo sciopero generale si protrasse nei due giorni seguenti. Esso venne poi disciplinatamente sospeso nel mentre proseguì solo quello della categoria dei tessili. Lo sciopero è ricordato anche per la guerra dei manifesti che si combattè pubblicizzando il padronato e i lavoratori le reciproche ragioni. Bruno Canto, amministratore delegato dei Cotonifici Riuniti, replicò al manifesto della Camera del Lavoro contestandone il contenuto di “contraddizioni e di menzogne”61 e richiamò il prefetto Cantore ad un costante impegno per una rapida soluzione della vertenza. La 61

ACS, Ministero Interni, Dir. Gen. P.S., Div. AA. GG. RR, anno 1919-1920, Busta n. 45, ct.CL, cit. 83


stampa fu quasi del tutto contraria, se non ostile, ai lavoratori. In uno dei vari articoli62, si sosteneva che lo sciopero era “assurdo” ed esso era motivato soltanto “da bizze, da puntigli, da capricci e non da serie ragioni di conflitto tra capitale e lavoro”. Lo sciopero terminò solo il 13 aprile, dopo l’assicurazione della ripresa del lavoro ed a fronte della promessa riapertura di tutti gli stabilimenti63: la lotta si era conclusa con un’importante vittoria degli operai. La stampa operaia, enfaticamente, sottolineò che questo successo avrebbe dovuto dare al proletariato nuovo vigore per portare avanti la lotta “fino alla vittoria completa della guerra proletaria per il trionfo del socialismo”64. Nell’Ottobre dello stesso anno scesero in sciopero i lavoratori tessili di Sarno per protestare contro il rifiuto padronale di soddisfare le richieste operaie di aumento di salario e di riduzione dell’orario di lavoro, ancora di 12 al giorno. Lo sciopero, durissimo, durò 16 giorni e vi parteciparono 2.000 operai, in prevalenza donne. Gli industriali furono d’una inflessibilità estrema. La Legazione svizzera, inoltrò, tramite l’amministratore dell’Industria Bechy & Stragmann, una nota al Ministero degli Esteri italiano nella quale venne richiesto un energico intervento delle autorità a tutela della incolumità degli amministratori, dei dirigenti dell’azienda, minacciati di morte dagli operai. In particolare, la Legazione denunciò le minacce subite dal signor Arnoldo Ruesch, amministratore legale della società medesima, che, dopo essere stato bloccato nella propria abitazione, sarebbe stato minacciato di morte, mentre sussisteva ancora il rischio del saccheggio dello stabilimento. Il Prefetto di Salerno, informato dei fatti, avrebbe dichiarato di non poter distrarre i carabinieri regi, impegnati nel servizio di campagna elettorale65. La situazione era divenuta talmente tesa da indurre il Prefetto, su cui erano state esercitate forti pressioni da parte delle autorità diplomatiche italiane, ad inviare un forte contingente di carabinieri che strinsero una stretta sorveglianza intorno agli stabilimenti di Sarno, effettuando arresti di alcuni dei manifestanti più energici e turbolenti. Lo scontro, per la sua durezza, convinse ad un certo punto gli industriali alla trattativa. Vennero strappati salari più adeguati, riparametrati in relazione all’anzianità di servizio ed all’incremento del costo della vita, e si riuscì a concordare un nuovo orario di lavoro, in sintonia con quanto disciplinerà il Contratto Nazionale Collettivo di lavoro definito il 3 febbraio 1920. Il 19 ottobre lo sciopero cessava. Gli ultimi scioperi del 1919 consentirono il riconoscimento del ruolo del Sindacato in azienda, la conquista di aumenti salariali, la riduzione della giornata lavorativa a 8 ore. Il licenziamento di due operai, accusati di essere passati alle vie di fatto contro un impiegato, sarà la causa scatenante dello sciopero che coinvolse, oltre quella di Fratte, le aziende di Angri, Nocera e Scafati, ma, in effetti, la prima motivazione fu quella della difesa del posto di lavoro, messo in discussione dai processi di 62

“Scioperanti e cotonifici”, in “Il Giornale di Salerno”, 12 Aprile 1919. “La fine dello sciopero dei tessili” in “La Gazzetta di Salerno”, 14 Aprile 1919. 64 In “Il lavoratore”, “La vittoria dei tessili”, 16 Aprile 1919. 65 ACS, Ministero Interni, Dir. Gen. P.S., Div.A. GG. RR, anno 1919, Busta n. 45. 63

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ristrutturazione promossi dalle aziende. Lo sciopero durerà 64 giorni, per concludersi il 1° Agosto del 1920. Alla fine si concordò che, in relazione alle esigenze aziendali di razionalizzazione delle attività, si sarebbe proceduto, alla ripresa del lavoro, allo spostamento dei lavoratori espulsi dalle tradizionali attività, in altre aziende del gruppo. Venne minacciata, ancora, la temporanea chiusura dello stabilimento di Scafati colpito dall’incendio della tessitoria. I lavoratori di questa fabbrica, dopo l’incendio, verosimilmente verificatosi tra il 18 giugno ed il 1 agosto 1920, erano stato tutti licenziati. In realtà, l’incendio velocizzò la realizzazione di una decisione già assunta in precedenza. Esisteva, infatti, una situazione di difficoltà dovuta alla crisi di mercato, al rincaro delle materie prime, alla forte oscillazione del prezzo del cotone e ad una generale riduzione della redditività dell’impresa, come più tardi, nell’esercizio del 1923, confermerà l’amministratore delegato Bruno Canto. I macchinari di Scafati, dove lavoravano ben 800 operai, furono trasferiti a Salerno ed ad Angri, mentre una parte delle maestranze venne assunta nell’azienda di conserve alimentari Del Gaizo ed un’altra trovò collocazione nello stabilimento tessile di Nocera. Il colpo all’occupazione venne, in tal modo, almeno in parte contenuto. Il 1920 fu un anno di grandi agitazioni operaie che, iniziate a gennaio, raggiunsero il culmine nel periodo di giugno-luglio, mentre in autunno si ebbero le manifestazioni e le occupazioni delle fabbriche a Torino. I lavoratori, forti dei successi ottenuti, rinnovarono la richiesta di nuovi aumenti di salario per fronteggiare il rialzo dei prezzi e l’eccessiva crescita del fitto delle abitazioni. Nel luglio e nell’agosto del 1920 vi fu un grande sciopero dei tessili il cui carattere pose un problema inedito: la necessità di affermare un più ampio potere operaio in fabbrica. L’esplicita emersione del conflitto tra operai e capitale e gli elementi “politici” dello sciopero, che più avanti sarebbero esplosi in altre città d’Italia e, in maniera straordinariamente forte, a Torino, avrebbero assunto un’asprezza ed una valenza inedita e tendenzialmente rivoluzionaria, mirante, cioè, a colpire al cuore l’antico potere e predominio della borghesia. Nel salernitano le agitazioni e gli scioperi si andarono snodando in un crescendo progressivo, dal primo alle “Filande Nuove” di Pellezzano, protagoniste 500 donne che chiedevano un aumento salariale, fino allo sciopero del 2 febbraio dei 600 operai del cotonificio di Angri. La causa di questa agitazione sarebbe stata una trattenuta, operata dall’azienda, equivalente al salario di tre giorni di lavoro: una dura risposta padronale ad uno sciopero effettuato il mese precedente. Nello stesso periodo, scesero in sciopero gli operai del cotonificio “Joseph Turner” di Sarno. In questa occasione gli operai, invaso lo stabilimento, danneggiarono alcune macchine, al punto che la proprietà chiese l’intervento del console generale britannico di Napoli che, a sua volta, intervenne sul Prefetto di Salerno, pretendendo adeguate sanzioni contro gli operai. 85


Gli scioperi di questa prima fase dell’anno si conclusero con un’intesa tra la FIOT ed il padronato che, pur non accogliendo completamente le richieste operaie, tuttavia consentì il mantenimento di un sostanziale equilibrio tra le parti, senza che nessuna prevalesse sull’altra66. Da quel momento in avanti si aprì però una fase, per così dire, nuova. 10 impiegati dello stabilimento di Poggioreale vennero licenziati e, a loro sostegno, scattò immediato lo sciopero di solidarietà di tutti gli operai tessili della Valle dell’Irno. Si scioperò ad oltranza. Gli operai ritennero i licenziamenti del tutto immotivati, causati solo da un’odiosa rappresaglia padronale. Lo sciopero si sviluppò con forti punte di asprezza, tanto da far attribuire la sua regia ad una centrale “internazionalista organizzata” esistente a Salerno, molto influenzata da Amadeo Bordiga: rilievo del tutto discutibile, in quanto, pur esistendo senz’altro un’influenza bordighiana su strati operai salernitani, pur tuttavia essa non era né diffusa né profonda. L’8 giugno la Camera del Lavoro di Salerno proclamò lo sciopero generale di tutti i lavoratori della provincia a sostegno dei tessili di Poggioreale. Lo sciopero si protrarrà per alcuni giorni ed assumerà un carattere rivendicativo, di più ampia e generale portata, volendosi affermare il principio della legittimità della libertà politica e dell’organizzazione dei lavoratori nella fabbrica: un nodo, quindi, assolutamente politico, travalicante il semplice stadio della rivendicazione salariale. Tale rivendicazione scatenò l’intransigente resistenza del padronato, indisponibile a cedere sui principi di fondo della responsabilità e della discrezionalità in materia di organizzazione del lavoro e di norme disciplinari in fabbrica: il ruolo e la funzione della proprietà dell’impresa non potevano in alcun modo essere messi in discussione. A questa linea, netta e decisa,, dell’Unione Industriali regionale, le MCM si attennero rigidamente. Gli operai furono diffidati dal continuare nello sciopero e furono esercitate forti pressioni perché riprendessero subito il lavoro, da cui, però, vennero esclusi “gli elementi segnalatisi per turbolenza e per abituale indisciplina”67: il riferimento è, anzitutto, rivolto ai lavoratori di Poggioreale. La direzione MCM annunciò la fine della serrata ma contemporaneamente minacciò il licenziamento in tronco di coloro che si fossero rifiutati di presentarsi al lavoro. La Camera del Lavoro di Nocera Inferiore contestò duramente le pretese dei cotonieri, denunciando la natura antistorica e “feudale” dell’agire padronale. Gli operai non accettarono di essere considerati ancora sudditi o, addirittura, schiavi. Le trattative tra le parti, iniziate il 12 giugno, partirono dall’ipotesi aziendale di ridurre il numero dei licenziati da 10 a 3, ma la ditta si riservò un supplemento d’indagine per decidere i provvedimenti da prendere per Notarianni. L’intesa, su quelle basi, risultò impossibile. Le MCM a quel punto inviarono lettere di licenziamento alle maestranze e s’attivarono per il reclutamento di nuova manodopera, pubblicizzandone le modalità con numerosi manifesti. La risposta 66 67

In “L’Azione democratica”, articolo “Lo sciopero dei tessili”, 6 Giugno 1920. ACS, Ministero Interni, Dir. Gen, AA. GG.RR., 1920, Busta n. 59. 86


operaia fu l’immediato picchettaggio degli stabilimenti68. La determinazione della risposta mise in difficoltà il padronato stretto dall’impellente urgenza di fare uscire i prodotti finiti dagli stabilimenti in quanto entro i primi giorno di luglio, e non oltre, dovevano essere consegnati gli articoli estivi; in caso contrario, il danno per le imprese sarebbe stato davvero notevole. Le parti si erano attestate su posizioni del tutto contrapposte, ogni tentativo di mediazione s’arenò. Gli industriali assoldarono manovali, protetti da noti camorristi, per assicurare il trasferimento dei manufatti dai magazzini agli spedizionieri. Si susseguirono vari scontri che, col passare dei giorni, divennero più aspri e numerosi. In alcune circostanze vennero usate le armi ed alcuni operai furono feriti ad Angri ed a Salerno. Il clima s’inasprì e la situazione, ormai incandescente, rischiò di sfuggire ad ogni forma di controllo. A questo punto Giolitti, il capo del Governo, incaricò il funzionario Lutrario a perseguire ogni strada utile per la composizione del conflitto, cosa che avverrà con l’esercizio d’una intelligente e duttile opera di mediazione. D’altra parte il protrarsi dello sciopero, ben oltre il tempo previsto, e l’assenza della prefigurazione di un qualsivoglia sbocco all’agitazione in corso,aveva finito per trascinare la protesta operaia verso un vicolo cieco. Nonostante l’estrema determinazione della lotta dei lavoratori, i motivi più ampi e generali di cui essa s’era rivestita, finivano per rendere assai problematico un risultato favorevole agli operai. Venne allora proposta, accettata dalla FIOT, la costituzione d’una commissione arbitrale, che avrebbe dovuto esaminare e risolvere tre punti: la vicenda Notarianni, la questione dei tre licenziamenti che la ditta aveva chiesto per gli incidenti che avevano causato la serrata degli stabilimenti di Poggioreale, l’applicazione del concordato cotoniero del 7 Aprile. Le MCM si rifiutarono di porre in discussione i primi due punti, ritenendoli di esclusiva competenza aziendale. Una posizione simile fu assunta sul terzo punto che, a parere della ditta, non poteva essere sottoposto ad arbitrato in sede locale, riguardando l’applicazione del concordato cotoniero nazionale che l’azienda dichiarò, tuttavia, di volere osservare. Il confronto si concluse a giugno, dopo tre mesi di lotta, con una netta sconfitta operaia: la ditta avrebbe deciso da sola sui licenziamenti ed i rappresentanti degli operai avrebbero dovuto riconoscere che i comportamenti anarchici ed i disordini causati dagli scioperi avevano arrecato grave danno al buon andamento del lavoro e dell’impresa; la ditta avrebbe riassunto, momentaneamente, gli operai delle officine meccaniche e delle falegnamerie, riservandosi il licenziamento, senza preavviso, dei lavoratori non indispensabili alle necessità produttive dell’azienda. Si sarebbe, inoltre, proceduto allo spostamento degli operai da uno stabilimento ad un altro, anche in località diversa, allorquando si fosse ritenuto necessario; sarebbero stati, infine, revocati gli incrementi salariali accordati in passato dalla ditta di propria iniziativa e che, in quanto unilaterali elargizioni, non potevano ritenersi diritti acquisiti una volta per sempre. L’ispettore Lutrario, su invito del Ministero degli Interni, sancì in maniera notarile una dura sconfitta della classe operaia tessile salernitana, con effetti per l’immediato e per il 68

Art. “Picchettaggio davanti l’ingresso manifatturiero in Fratte”, in “La Gazzetta di Salerno”, 2 luglio 1920. 87


futuro assolutamente devastanti. E tale venne valutata la conclusione della vicenda dall’amministratore Bruno Canto. Iniziava una sorda e rancorosa discussione postuma, nella quale si innestava un duro scambio di accuse sulla responsabilità della sconfitta. Gli operai misero, anzitutto, sotto tiro i dirigenti della Camera del lavoro ed i socialisti che, in modo imprevidente, avevano buttato gli operai nello scontro frontale, in “uno sciopero inconsulto che aveva fatto il gioco degli industriali, i quali desideravano un arresto nella produzione, avendo i depositi rigurgiti di manufatti senza alcuna richiesta”69. Molti operai tessili abbandonarono la Camera del Lavoro, passando, in specie ad Angri, alle organizzazioni bianche. Era lo “sfasciamento delle organizzazioni rosse”70. Alla fine del 1924, la direzione aziendale portò a conclusione il programma di concentrazione e razionalizzazione della produzione nelle MCM: cessarono l’attività la Filanda Cappelle di Fratte, lo stabilimento Irno e quello di Scafati, aziende cotoniere ormai tutte tecnologicamente superate.

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Articolo “La fine dello Sciopero dei tessili”, in “L’Azione democratica”, 6 Giugno 1920. Un fitto e dettagliato resoconto delle lotte degli operai tessili nel biennio 1919 -1920 trovasi in “Imbucci, Ivone“, popolazione, agricoltura e lotta politica a Salerno nell’età contemporanea”, Ed. Cassa di Risparmio Salernitana, pp. 267-283.

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016. L’ultimo grande sciopero tessile del 1924 L’ultimo grande sciopero dei lavoratori tessili, sarà quello del 1924, ormai in pieno regime fascista, diretto da Luigi Cacciatore71. Luigi Cacciatore si era fatto interprete dell’accorato atto di accusa di Giacomo Matteotti che aveva denunciato, nel suo discorso alla Camera dei Deputati del 30 maggio 1924, come le elezioni politiche si fossero svolte in un clima di generale e diffusa illegalità a causa delle violenze squadriste. Già nel gennaio del 1923 le sedi della Camera del Lavoro di Via Mercanti e della Casa del popolo di Fratte erano state occupate da fascisti armati. Gli operai erano stati iscritti d’imperio alle Corporazioni Sindacali fasciste. Nel luglio del 1924, nonostante il clima di pesanti intimidazioni, venne ricostituita la Lega Tessile. In agosto gli operai di Fratte, in assemblea, davanti ai padroni ed alle autorità statali fasciste, richiesero con fermezza la restituzione della Casa del Popolo. Dichiararono, al contempo, il proprio distacco dalle Corporazioni fasciste ed avanzarono, inoltre, la richiesta di riconoscimento della Fiot (Federazione italiana operai tessili) nelle trattative nazionali in corso per il contratto. Le MCM, dopo avere a parole accettato queste richieste, il 17 dicembre ruppero le trattative, mentre siglarono, il 18, l’accordo contrattuale col Sindacato fascista. L’atto prevaricatore provocò la protesta degli operai di Napoli contro l’accordo raggiunto, mentre a Salerno gli operai tessili scioperarono, abbandonando, per alcuni giorni di fila, il lavoro un’ora prima e le operaie diedero vita a manifestazioni in piazza. Per ritorsione le MCM attuarono la serrata, con il licenziamento di molti scioperanti. In questo ultimo sciopero, come si può facilmente intendere, finirono per mischiarsi ragioni strettamente economiche con motivazioni più specificamente politiche. Il punto fondamentale del contendere fu il tentativo di ridare un ruolo ed una funzione, autonoma, ai lavoratori ed alle loro libere organizzazioni. E tuttavia in una situazione in cui, a livello nazionale , il fascismo aveva ormai occupato ogni ganglio dello stato e della società e mentre la voce delle opposizioni diventava inevitabilmente sempre più flebile, su questa rivendicazione operaia non poteva esistere alcuna possibilità di successo. Le tensioni, gli scioperi, le manifestazioni del 1924 saranno l’ultima dimostrazione di lotta di rilievo degli operai cotonieri salernitani, prima del lungo periodo di oblio

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Luigi Cacciatore diviene segretario regionale della FIOT, Federazione Italiana operai tessili, nel 1923. Lo sciopero del 1924 è effettuato dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, consumato il 10 Giugno dello stesso anno. Luigi Cacciatore sarà anche segretario provinciale della Federazione Socialista Unitaria fino allo sciglimento del Partito. Prima era stato esponente del Comitato delle Opposizioni in Provincia di Salerno. 89


imposto dalla dittatura. Assieme a Luigi Cacciatore, principali animatori ed organizzatori delle proteste erano stati Nicola Fiore e l’anarchico Vincenzo Perrone72. Dopo gli ultimi sussulti del 1924 la situazione, per un ventennio e fino alla caduta del fascismo, risultò normalizzata, con l’irrigimentazione autoritaria delle masse operaie nel sindacato di regime e la loro sostanziale passivizzazione: la voce operaia e sindacale per venti anni fu messa totalmente a tacere. E’ il caso di ricordare come, già nel dicembre del 1923, vennero sospese le pubblicazioni di vari giornali operai di rilievo nazionale, da “Il Sindacato rosso” a “L’Avanguardia”, da “Pagine Rosse” a “ Scintilla”. La stessa cosa avverrà, in modo sistematico, nelle varie città e province italiane, con le pubblicazioni di carattere locale. Sempre nel dicembre del 1923, a Palazzo Chigi, la Confindustria e la Confederazione delle Corporazioni Fasciste siglarono un patto nel quale i contraenti dichiararono di “armonizzare la propria azione con le direttive del Governo nazionale” ed affermarono il principio che, da quel momento in avanti, l’organizzazione sindacale si sarebbe ispirata “ … alle necessità di stringere sempre più cordiali rapporti tra i singoli datori di lavoro, i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali”: una linea di reciproca collaborazione con la Confindustria che riconobbe la Confederazione delle Corporazioni come controparte privilegiata! Il patto , poi, venne confermato a Palazzo Vidoni nell’ottobre del 1925. Da quel momento furono abolite le Commissioni Interne di fabbrica ed il monopolio della rappresentanza passò interamente alle Corporazioni. In tal modo fu formalmente sancita la vittoria dell’organizzazione del sistema corporativo. Il riconoscimento giuridico del Sindacato unico avverrà nel febbraio del 1927. Nel novembre 1928, la Confederazione Nazionale dei Sindacati Fascisti, per decisione del Governo, fu divisa in 6 Confederazioni nazionali, in cui sono distinti i sindacati dell’industria, dell’agricoltura, del commercio, dei trasporti terrestri e della navigazione interna, dei bancari, della gente di mare e dell’aria, in sintonia piena con le organizzazioni datoriali strutturate allo stesso modo. Questa situazione ingesserà di fatto ogni funzione autonoma del Sindacalismo Confederale e di classe, prima di essere messa in crisi dalle sconfitte sui campi di battaglia e dagli scioperi operai che, nel 1943, nel 1944, nel 1945, in piena guerra, investiranno, ad ondate successive, le grandi città italiane. La realtà salernitana, fatta eccezione per i sussulti legati agli ultimi scioperi del 1924, aderisce in pieno alla qualità delle profonde trasformazioni razionalmente intervenute. La voce operaia e sindacale, per venti anni, è messa totalmente a tacere.

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Sullo sciopero dei tessili, sul ruolo e la funzione di Luigi Cacciatore, art. G. Amarante, “Luigi Cacciatore: i lavoratori, il sindacato”, in “Luigi Cacciatore, la vita politica di un socialista a cento anni dalla nascita”, Ed. Plectica, pp.139-176. 90


017. NICOLA FIORE : UN RARO ESEMPIO DI INTRANSIGENTE RESISTENZA AL FASCISMO Nicola Fiore è senza dubbio una delle poche figure della storia salernitana di sicuro non incasellabili all’interno del fenomeno, consueto e ricorrente, del trasformismo ed alla prassi, allora come adesso assai diffusa, dell’adesione di comodo ai cambiamenti, politici e di potere, che si susseguono nella vicenda storico - sociale nazionale e locale. E’ anzi un personaggio per tanti versi scomodo che, per limpidezza ed intransigenza assoluta sui principi, si distingue all’interno del movimento operaio, sindacale e democratico meridionale: un protagonista, un capo ed un dirigente sindacale per più ragioni di primissimo piano come risalta ripercorrendo, seppure a grandi linee, i principali passaggi della sua biografia politica ed umana. Solo di recente, dopo un lungo ed ingiustificato torpore, è ripresa una ricerca storiografica che, seppure ancora parziale ed incompleta, inizia a consentire una più compiuta ricostruzione del suo pensiero e della sua personalità, con una più attendibile messa a fuoco dei tratti essenziali del suo impegno sociale e della sua opera.. Nato a Marigliano nel 1883, morirà, malato e perseguitato, a Salerno nel 1934. Illuminante è il profilo tracciatone nei dispacci della Prefettura di Napoli, opportunamente riportati da Margherita Autori73. In essi il Fiore è rappresentato quale elemento “fin dall’adolescenza fanatico e nevrastenico”, che ha scelto, giovanissimo, la milizia nel partito socialista “ prendendo parte attiva alle sue manifestazioni e mostrandosi elemento di azione e turbolenze ”. “ Tende ad acquistare un posto importante nel partito, ma non ne ha le attitudini … per cui cerca di affermarsi ed acquistare nome trasmodando nelle sue manifestazioni ed intavolando polemiche anche con correligionari ”. I suoi amici di partito, perciò, lo ritengono “ un giovane leggero e fanatico e poco utile ai fini del partito stesso ”. Ed ancora “ nel partito non ha alcuna influenza e solo tra i giovani componenti la suddetta sezione esercita una certa ascendenza”. Collabora a fogli quali “ L’Emancipazione ” ed è redattore del giornale “L’energia”, ben presto inizia a scrivere sul giornale “La Propaganda”, organo del Partito Socialista locale. “Non tralascia occasione per prendere parte a manifestazioni sovversive in cui si mostra sempre elemento attivo e turbolento ”74. Il suo primo fermo è del 29 dicembre 1900 a Napoli, in occasione di una manifestazione organizzata in coincidenza con l’arrivo dell’onorevole Ferri. Un altro arresto lo subisce il 4 agosto 1903, per essersi mostrato “ uno degli elementi più turbolenti in una dimostrazione ostile al Papa, improvvisata in occasione dell’assunzione del pontificato di Pio X ”. 73

“ Nicola Fiore : un sindacalista rivoluzionario ?” Pietro Laveglia editore, pubblicazione nella cui parte finale è proposta una circostanziata biografia dei più importanti episodi della vita e della milizia sindacale del Fiore. 74 Pag. 64, op.cit. 91


Nei dispacci della Prefettura segue l’elenco di varie altre azioni di “lotta sobillatrice” in pubbliche manifestazioni. Per i custodi dell’ordine si è di fronte ad un giovane sovversivo, ad “ … un fervente socialista attivo propagandista ed elemento che merita di essere attivamente sorvegliato”. E’ attraverso le colonne de “L’Energia” che Nicola Fiore conduce una forte campagna antimilitarista e “disfattista” ed a causa della distribuzione del foglio tra gli operai è denunziato all’autorità giudiziaria nell’ottobre del 1909, ma già dal 1910 lo si ritrova a svolgere un’importante opera di organizzazione del movimento socialista e sindacale in varie province del Mezzogiorno. Nicola Fiore75 è un militante marxista che ha iniziato, fin da giovanissimo, la sua attività politica nella Federazione Socialista napoletana, assieme ad Amadeo Bordiga, Oreste Lizzadri, Ruggero Grieco, esponenti di primo piano della sinistra marxista napoletana. Alla prima esperienza politica nelle file della Federazione Giovanile coniuga una passione autentica per la pubblicistica, diventando ben presto corrispondente anche di fogli socialisti in circolazione in altre parti del Paese, come “L’Internazionale” di Parma, in cui pubblica durissimi articoli contro le disfunzioni e le ingiustizie del potere borghese, non risparmiando le istituzioni liberali, da lui accusate di ignavia. Per conto della Federazione Meridionale delle Organizzazioni Proletarie, nel cui Comitato Esecutivo è stato nominato il 12 dicembre del 1910, si muove da una provincia all’altra del Mezzogiorno, partecipando a riunioni, assemblee, comizi, manifestazioni pubbliche per ampliare e consolidare, sempre più, le strutture, ancora esili, del movimento operaio. Dovunque si fa conoscere ed apprezzare per la combattività, il rigore, la straordinaria capacità oratoria di tribuno. Bari, Brindisi, Potenza, Melfi, Corato in provincia di Foggia, ma anche Imola, Marsala, Lecce, oltre che, naturalmente, pressoché tutti i principali centri della Campania, le tappe del suo instancabile girovagare. Nel 1911 contesta apertamente le posizioni moderate della Federazione Socialista Napoletana ed inizia una polemica, asprissima, che si trascinerà negli anni a venire contro le linee accentuatamente moderate a quel tempo in essa prevalenti: un contrasto, esplicito e senza mezze misure, che gli procurerà forti amarezze e che sarà causa di divisioni e lacerazioni, anche sul piano personale, che non saranno mai più ricomposte. Nel 1914 è nominato Segretario della Camera del Lavoro di Salerno, l’esperienza più luminosa d’impegno sindacale e politico in cui espliciterà una straordinaria capacità di sollecitazione della partecipazione protagonista dei lavoratori alla vita politica e civile della società locale. Almeno per una fase sembrerà che, con l’organizzazione e l’azione sindacale, si possa ancora supplire alla inesistenza o alla gracilità delle organizzazioni politiche cui, idealmente, s’ispira il movimento. Fiore, nell’esercizio della funzione di direzione sindacale, si dimostra instancabile: interviene direttamente in ogni vertenza che contrappone operai e datori di lavoro, affida le sue posizioni al Foglio “Il 75

Per una ancora più compiuta lettura della figura e del ruolo di Nicola Fiore, vedasi F. Andreucci - Detti, Il Movimento operaio italiano, Dizionario Biografico, Roma 1976. 92


lavoratore”, stampato a Napoli ma diffuso a Salerno, concentrando il massimo di attenzione sugli operai delle Manifatture Cotoniere Meridionali di Fratte, di cui, in brevissimo tempo, diventerà organizzatore e leader indiscusso. Oratore straordinario, grande tribuno popolare, dotato d’un innato e contagioso carisma, raccoglie un grande seguito anche tra i lavoratori pastai, mugnai, tra i ferrovieri e gli edili76. Nella sua formazione ha copiosamente attinto dagli elementi classici del sindacalismo meridionale e, in particolare, dalla lotta intransigente contro il conservatorismo e l’opportunismo di stampo “riformistico”. Più volte Fiore ribadisce quale sia l’elemento discriminante che deve caratterizzare l’azione di lotta delle masse nello scontro frontale contro la borghesia: la classe operaia e le sue organizzazioni devono battersi, con ogni energia, contro i trust capitalisti ed industriali, in specie cotonieri, spezzando un infido esercizio del potere fondato sull’abile mistura di paternalismo e repressione. Alla vigilia della prima guerra mondiale assume posizioni interventiste, e ciò gli attira le critiche di quanti gli rimproverano di non aver inteso come la guerra altro non è che un sostegno, obiettivo, agli interessi degli imprenditori siderurgici e tessili, fortemente favorevoli all’entrata del paese nel conflitto al solo scopo di trarre, da tale situazione, il massimo profitto per sé e per le proprie imprese. In verità Fiore, in quel periodo, è davvero all’opposizione della direzione della Federazione Socialista napoletana attestata sulla linea nazionale del “non aderire né sabotare”. Nella visione del giovane Fiore sembra piuttosto prevalere una concezione ancora parziale ed ingenua del carattere che sta assumendo il tumultuoso processo della storia italiana, europea, mondiale. Una posizione, intrisa di elementi ideologici e dottrinari, segnata dall’idea del “crollo”, dalla prefigurazione del tragico ed inevitabile precipitare degli eventi, a livello internazionale ed interno, che finirà per determinare, d’incanto, l’accelerazione della presa di coscienza rivoluzionaria delle masse lavoratrici. La guerra, coi suoi orrori, sarà anche l’occasione dell’insurrezione proletaria e della rivoluzione sociale vittoriosa che consentirà di fare giustizia delle più odiose prevaricazioni a lungo esercitate dai gruppi capitalistici reazionari contro la classe proletaria mondiale: la guerra, insomma, finirà per acuire la crisi aprendo la strada all’insurrezione ed alla presa del potere. Un determinismo meccanico quindi, non del tutto estraneo a posizioni di minoranza presenti nel movimento operaio da cui Nicola però presto si distaccherà. Franco Barbagallo77 ha efficacemente ricostruito l’interna geografia delle diverse linee esistenti nel movimento socialista napoletano ai principi del secolo e le sue cicliche oscillazioni : un contesto complesso in cui è però possibile delineare l’evolversi delle posizioni e del pensiero del Fiore, che, in qualche maniera, sembrano snodarsi in parallela sintonia coi principali avvenimenti e con le lotte del movimento operaio, dalla parentesi interventista alla “settimana rossa” fino alla fase di più 76 77

Laveglia, Fascismo, cit., p. 35. F. Barbagallo, “Stato, parlamento e lotte politico sociali nel Mezzogiorno”, Ed. 93


matura direzione della Camera del Lavoro ed al ruolo, straordinario, ricoperto nella direzione delle lotte degli operai tessili, per concludersi con la confluenza e l’adesione alla frazione comunista. Il primo obiettivo di Fiore è fornire solide basi ad un’organizzazione operaia che agisce in una realtà, come quella salernitana, di grande arretratezza economica. Quando il nostro avrà consumato la parentesi del sindacalismo rivoluzionario e tornerà nei ranghi, sarà accolto con qualche perplessità nella componente massimalista. C’è di fatto una dissintonia tra le posizioni della Camera del Lavoro salernitana e quelle della Direzione Nazionale del Partito, al punto da far ritenere che la struttura salernitana non è ancora “regolarmente aderente alla Confederazione”. Allo stesso modo, appaiono tesi i rapporti col gruppo bordighiano attestato sulla mera attesa del “crollo” della società capitalista: il tempo, per Bordiga, lavora per le forze rivoluzionarie. E’ inutile battersi ora. Il punto essenziale è la capacità di conservare, intatta, la purezza rivoluzionaria per porsi, per quel momento, quale alternativa radicale di sistema. Per un dirigente di massa quale Nicola Fiore è invece sempre più evidente come si tratti di agire nel concreto, momento per momento, per elevare la coscienza delle masse proletarie e la consapevolezza dei loro diritti, dando risposta ai loro bisogni: ogni giorno va utilizzato per far crescere il mare in piena delle forze operaie d’opposizione, fulcro di tutto il movimento generale di emancipazione. Fiore, dopo la breve parentesi interventista, aderirà infatti alle posizioni della Terza Internazionale, assumendo a riferimento strategico di fondo l’esperienza della rivoluzione russa. Ed infatti è esplicita ed immediata la sintonia del Fiore con la suggestione e la grande speranza generata tra i lavoratori dalla Rivoluzione d’Ottobre. Egli intende a quel punto collocarsi, con i lavoratori e gli operai salernitani, pienamente all’interno di quel filone politico, storico, ideale, di enorme valenza simbolica, rappresentato dalla grande e vera Rivoluzione del XX secolo che, per la prima volta nella storia, ha permesso al proletariato d’un immenso paese, grande come un continente, di impadronirsi del potere statuale. La forza proletaria ha concretamente dimostrato, con un atto di rottura rivoluzionario vittorioso, di potere esercitare, con pieno diritto, la propria dittatura contro l’arbitrio, l’arroganza, la violenza in passato sistematicamente praticata dalle vecchie classi dirigenti contro i lavoratori nell’esercizio di ogni funzione politica, economica, statuale. Pieno ed incondizionato è dunque il suo sostegno ed assoluto il riconoscimento della funzione guida assunta dal movimento rivoluzionario sovietico, una posizione, più avanti confermata senza remore anche nell’esercizio della sua funzione di direzione sindacale. L’esperienza della direzione sindacale ha prodotto in lui un’evidente evoluzione ed un più forte e concreto ancoraggio alla realtà. In ogni caso non ci può essere collaborazione o collaborazionismo subalterno ai poteri dell’impresa ed alle posizioni in essa più oltranziste. Un’altra distinzione, netta ed esplicita, rispetto alle linee prevalenti nella direzione socialista. 94


Nel 1919 la divaricazione tra Fiore e la Direzione del Partito diviene antagonista. Il Fiore decide di presentare alle elezioni dello stesso anno una propria lista indipendente che riporta la quasi totalità dei suffragi dei lavoratori della Valle dell’Irno, superando i consensi dei socialisti ufficiali e dei liberal - democratici. E viene premiato in quanto ha agito, come Segretario della Camera del Lavoro, in maniera coerente ed appassionata in difesa degli operai, per migliori salari, per ridurre l’orario di lavoro, per combattere il carovita e l’inflazione. Gli anni 1919 -1920 sono segnati, anche a Salerno, da importanti agitazioni popolari. Come è d’altronde avvenuto in tutta Italia, i reduci dalle trincee, di estrazione soprattutto bracciantile e contadina, s’imbattono nel tradimento delle promesse e delle proprie aspettative. Monta l’esasperazione e la rabbia. La situazione economica è assai critica, diffusissima la disoccupazione, la domanda di terra dei contadini è del tutto vanificata: la crisi morde l’industria e chiudono aziende, come il “Lanificio Siniscalchi” di Pellezzano, il calzaturificio “La Vittoria” ed altre che dimostrano maggiore gracilità. Solo una grande struttura produttiva come le Manifatture Cotoniere Meridionali dimostra di essere in grado di reggere e di superare le difficoltà. Nel febbraio del 1919 nel comparto tessile si registra una grande ondata di scioperi, susseguente alla minaccia padronale di chiusura dello stabilimento “ Irno ”. Il padronato non intende cedere alla richiesta di riduzione dell’orario di lavoro ed anzi vuole protrarre sine die l’orario di 11 ore lavorative al giorno, dando ancora salari da fame78. Gli operai si oppongono a tale atteggiamento e chiedono al governo la requisizione della fabbrica ed il suo affidamento alla Federazione Operai Tessili79. Fiore, segretario della Camera del Lavoro, riunisce gli operai tessili di Fratte e invia un ultimatum al governo nel quale chiede la definitiva soluzione della controversia entro e non oltre il 25 dello stesso mese ed ammonisce che gli operai sono pronti a tutto. La direzione aziendale risponde con la chiusura della fabbrica e le maestranze sono trasferite a Napoli, a Nocera Inferiore, a Scafati. Ne deriva, come risposta, lo sciopero generale che coinvolge tutti gli stabilimenti di settore, ma anche i metallurgici di Fratte, il cantiere navale Vigliar, i mulini, i pastifici, i panettieri, le concerie, il cementificio, i vetrai di Vietri, i lavoratori del porto. Il successo dello sciopero è impressionante: ad esso partecipano attivamente circa 15.000 lavoratori e la paralisi delle attività produttive e commerciali è pressoché totale. Lo sciopero ha visto in Nicola Fiore il suo animatore instancabile. Numerosi gli attestati di solidarietà, come si acclara nella grande assemblea della Camera del Lavoro, che approva questo o.d.g.: “I lavoratori tutti di Salerno, in sciopero di solidarietà con i tessili, invitano il governo a smettere la politica di classe e

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In “Il Piccolo Corriere”, 20 -12 -1919. “Il Lavoratore”, 29 marzo 1919, : “Operai tessili forzatamente disoccupati invitano Governo a requisire stabilimento Irno affidandone gestione Federazione Operai tessili”.

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provvedere alla socializzazione delle industrie, unico rimedio contro la disoccupazione e le ingorde speculazioni dei nuovi arricchiti”80. La mobilitazione continua anche il giorno seguente: un grande comizio è tenuto dalla Camera del Lavoro nella piazza di Fratte, oratori Faletto della CGIL di Napoli e Fiore, poi il grande corteo per le vie di Salerno ed un nuovo comizio alla Camera del Lavoro dove, insieme a Nicola Fiore, parlerà lo studente De Caro della sezione socialista di Napoli. E’ a questo punto che si scatena la reazione dei pubblici poteri: le manifestazioni vengono vietate dalla questura. Intanto lo sciopero si estende sempre più, pur mantenendosi nei limiti della disciplina e della compattezza estrema. Tutta la città è con gli scioperanti. Il terzo giorno, dichiarata la fine dello sciopero generale, continua solo quello dei tessili “fino alla risoluzione della vertenza”. L’agitazione durerà fino al 12 Aprile e terminerà soltanto quando sarà annunciata dagli industriali la riapertura di tutti gli stabilimenti. E’un’importante vittoria, la prima, spera Fiore, di una lunga serie: “ … le sosterremo con la nostra fede, con la forza e la coscienza delle masse lavoratrici, incuranti del vocio incomposto degli scherani della polizia e lor signori”81. E’ stato decisivo l’impegno profuso dal Fiore al fianco dei tessili che si sono dimostrati sul campo autentica avanguardia della classe operaia. Nel gennaio del 1920, però, Fiore è tratto in arresto, senza alcun regolare mandato di cattura, in seguito ad uno sciopero dei postelegrafonici: un atto arbitrario del governo Nitti. E’ tuttavia del tutto evidente l’impatto simbolico dell’operazione di polizia: arrestare Fiore tende all’obiettivo di scompaginare ogni forma di organizzazione del movimento sindacale ed operaio mettendo a tacere una voce indomita ed indipendente “che non dava tregua ai malversatori, ai prepotenti, alle camarille”82. “Non si è mai osato arrestare Nicola Fiore nei comizi ove vibrava la sua anima ardente, temendo l’indignazione popolare. Lo si è sorpreso di notte nel suo letto”83. Soprattutto gli industriali cotonieri segnano un punto importante a loro vantaggio. In difesa del Fiore, e contro il sopruso da lui subito, viene proclamato lo sciopero generale, che non riesce a far recedere, però, dalla decisione assunta dalle forze di polizia. A causa dei prevedibili pericoli per l’ordine pubblico, il processo è trasferito a Napoli. Il Fiore ottiene di parlare a sua discolpa84 ma è condannato a sei mesi di carcere per istigazione a delinquere. Fiore ha già scontato la pena, essendo stato arrestato 8 mesi prima, ma pende a suo carico ancora un altro procedimento, che impedisce la sua scarcerazione. A S. Efremo, Fiore inizia lo sciopero della fame e chiede di essere giudicato dal Tribunale di Salerno. Il Fiore non è piegato, anzi, sembra piuttosto che le ingiustizie ed i soprusi subiti accentuino la sua forza d’animo ed il suo spirito polemico. Egli sa di essere 80

“Il Lavoratore”, 16 aprile 1919. “Il Piccolo Corriere”, 29 gennaio 1920. 82 “Il Lavoratore”, 15 febbraio 1920. 83 “Il Lavoratore”, cit. 84 Dell’episodio daranno notizia vari quotidiani: “Il Giornale di Salerno“, “La Provincia”, “Il Mattino”, “Il Roma”, “L’Avanti” del 14 agosto 1920 ed “Il Giorno” del 16 agosto 1920. 81

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perseguitato per le proprie idee e per l’impegno, disinteressato, profuso nell’interesse dei lavoratori: è un perseguitato politico, non un malfattore! “Il Lavoratore” del 15 febbraio 1920 ha dato notizia dell’astensione dal lavoro effettuata per chiedere la sua scarcerazione. Le proteste, che non s’esauriscono, persuadono le autorità ad autorizzare il trasferimento del detenuto nella propria abitazione. A dicembre dello stesso anno ha luogo il secondo processo a suo carico presso la Corte d’Assise di Napoli che, rapido e sbrigativo, si conclude con la condanna a 16 mesi e 5 giorni di detenzione. A causa della malferma salute, è concesso il domicilio coatto nella sua casa di Via Tasso, n. 59. Gli arresti domiciliari verranno revocati dopo un anno per un nuovo trasferimento in carcere. Fiore riprende lo sciopero della fame. Nel periodo della sua detenzione, il movimento è privo di una guida decisa e coraggiosa: iniziano a svolgere funzioni di direzione figuri che nulla hanno a che vedere con la storia e la cristallina limpidezza del Fiore e che anzi, come commenterà il Prefetto Barbieri85, iniziano a prendere le distanze da lui, arrivando a diffamarne l’immagine, rappresentandolo come “pazzo ed esaltato”86. In realtà, durante la sua assenza, si è registrato un cambiamento profondo nella fisionomia dell’organizzazione sindacale che è passata dall’indirizzo “rivoluzionario” del Fiore a quello “riformistico”. Fiore si sente tradito ed abbandonato, preoccupato non tanto per la sua sorte personale quanto per il fatto che gli sembra si stia estinguendo tutto ciò per cui si è fino a quel momento battuto. Egli ritiene, ormai, che il movimento sia guidato da una “compagnia di ventura massonico-poliziesca, … che … hanno addomesticato il movimento proletario alla polizia … sfruttando insidiosamente l’appoggio del partito socialista”87: è in atto l’esaurirsi della spinta rivoluzionaria. Gli appelli rivoluzionari del Fiore ai lavoratori non sortiscono infatti alcun effetto. Ed anzi, ci si avvia verso il reflusso del movimento che prepara un’amara fase di sconfitte. L’agosto del 1920 può essere indicato quale data emblematica nella quale si consuma la sconfitta del movimento operaio tessile. Fiore scrive un appello “Ai Rivoluzionari d’Italia” nel quale mette in guardia i lavoratori dai figuri e dai traditori che si sono impadroniti della direzione della Camera del lavoro. Di particolare asprezza i rilievi che rivolge “a quel tale Ronca Filippo, ex procuratore del Re, intrufolatosi poco dopo il mio arresto nel movimento proletario mascherato di rosso”. Nella lettera dell’8 dicembre del 1920, egli così si esprime: “Ex procuratore del Re, la vostra spudoratezza oltrepassa ogni limite. Dopo il vostro fallimento giudiziario, non avete più ombra di pudore. Fate la politica alla pari di un truffatore e d’un saltimbanco. Avete insozzato “Il Lavoratore” da me fondato e, non soddisfatto delle vostre porcherie e dei bassi servizi di polizia, seguitate a far dello spirito da letamaio sul mio “Lavoratore”, che avete profanato con le vostre mani criminali adusate a firmare cambiali con gli avvocati. Procuratore del Re, trescavate con gli avvocati: 85

ACS, CPC, cit. Il Piccolo Corriere, 10 -2 -1921. 87 ACS, CPC, cit. 86

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caduto io sotto i ferri, agite a gloria ed ad onore dei pescecani e del ministero degli interni. La vostra azione è più lurida della più infame perfidia dei più celebri agenti provocatori. Anzi, non c’è precedente nella storia. Voi seguitate ad abusare del mio stato di detenzione per ingannare i lavoratori, truffare la loro buona fede e servire la polizia. Perciò potete pure seguitare il vostro nobile mestiere, verrà il tempo che vi farò ingoiare le menzogne…. Nicola Fiore”. Dello stesso taglio è la nuova lettera, inviata questa volta il 1 gennaio 1921 dal carcere di Salerno, nella quale si insiste sulla funzione, ignobile, di chi ora dirige il sindacato: “Qui è la biografia dell’ex procuratore del re convertito al socialismo dopo ch’io fui incarcerato. Questo il capo della terna massonica che, come corvi, s’è appollaiata nella Camera del Lavoro di Salerno all’indomani che la polizia mi consegnò ai carcerieri. Così, mentre la borghesia faceva incarcerare il segretario della Camera del Lavoro, affidava il proletariato agli emissari della massoneria: Ronca, Leopardo, D’Epifanio. Il primo, un anno fa regio accusatore, il secondo, ex gallonato, il terzo, banchiere della massoneria - ebraica, finanziata dalla coorte MaterazzoSorgenti-Grimaldi, quest’ultimo deputato del fascismo e del famigerato italoamericano Materazzo…! E sono costoro che, abusando della mia detenzione, corrompendo ed ingannando i lavoratori, hanno addomesticato il movimento proletario alla polizia e ai pescecani. … si sono truccati delle tinte più scarlatte sfruttando insidiosamente l’appoggio del partito socialista, truffato abilmente per aggredire l’organizzatore del proletariato salernitano, stretto sotto i ferri. Rivoluzionari d’Italia, io scrivo senza l’ombra del risentimento personale, malgrado tutto il male fattomi da quelli che si dicono socialisti per i loro bassi fini borghesi polizieschi, mi rivolgo a voi al solo scopo di richiamare la vostra attenzione sul grottesco caso di Salerno perché vi poniate fine, non permettendo che il proletariato sia più oltre ingannato e tradito. NICOLA FIORE “. Fiore, nel frattempo, ancora incarcerato, fiaccato dalla dura detenzione, dopo il Congresso di Livorno del 1921 ha aderito al Partito Comunista, nato dall’ala rivoluzionaria del PSI. Il 7 Luglio ha riacquistato la sua libertà ed è reintegrato il 10 Luglio 1921 nella carica di Segretario della Camera del Lavoro, in un Comitato Direttivo formato pariteticamente da socialisti e comunisti. La sua direzione impone un cambio di fisionomia all’organizzazione. Riprende la direzione de “Il Lavoratore” che, dopo la scissione, è diventato ”Il Lavoratore Comunista”. Il fascismo, agli inizi degli anni ‘20, all’indomani delle drammatiche sconfitte delle lotte operaie, dopo il “biennio rosso”, si è ormai impadronito con la violenza del potere, conquistando lo Stato e schiacciando ogni forma di opposizione democratica nel Paese. I gruppi capitalisti ed agrari più agguerriti foraggeranno, come è noto, l’avventura fascista, intendendo trasformare quel movimento nel proprio braccio armato da scagliare contro le organizzazioni politiche e sindacali dei lavoratori. La marcia su Roma, non ostacolata dalle ormai decrepite istituzioni statuali del vecchio stato liberale, è stata la tragica conclusione di un periodo caratterizzato 98


dall’esplosione della violenza squadrista contro le sedi ed i dirigenti delle organizzazioni operaie. Il fascismo vittorioso, una volta conquistato il potere modificherà, alla radice, la struttura e le funzioni dello Stato, cambiandone fin nel profondo la natura: lo Stato, identificabile ormai col partito e col regime reazionario, si è trasformato in una macchina autoritaria e repressiva che deve eliminare ogni idea di distinzione e libertà. Ed a quel punto il fascismo scatenerà il proprio rancore vendicativo contro i più irriducibili oppositori ed avversari politici ricorrendo alla sistematica persecuzione per impedire che possa essere ancora ascoltata la voce, tuttavia sempre più flebile, di chi non si è piegato alla violenza, all’arbitrio ed all’arroganza dei vincitori e di chi ha rifiutato le melliflue offerte alla collaborazione. Nicola Fiore ha acquisito una concezione quasi “religiosa” della propria missione di dirigente sindacale al servizio delle masse lavoratrici ed è per questo che esplicita, senza incertezze, l’assoluta ed intransigente indisponibilità all’adesione ad ogni compromesso col regime fascista ed i suoi rappresentanti. E’ francamente impressionante seguendo, anno per anno, la ricostruzione della sua biografia ricostruita da Margherita Autuori, l’emergere del profilo di una figura di una coerenza estrema che si batterà, fino allo stremo, in difesa degli ideali socialisti e dei lavoratori che lo hanno scelto quale loro rappresentante. La vita, breve ma intensissima, di Nicola Fiore sarà vissuta nel pieno di una tumultuosa fase della storia del nostro Paese, in cui si sono alternati tempi di straordinario fervore e passione civile, di grandi speranze di cambiamento con quelli del declino e della dolorosa e tragica sconfitta del movimento operaio. In questo contesto Nicola Fiore è stato un capo molto amato dagli operai salernitani e campani ed un dirigente profondamente radicato tra i lavoratori delle imprese tessili, in specie di Salerno e della Valle dell’Irno. Il suo ascendente tra i tessili delle Manifatture Cotoniere Meridionali di Fratte ed i metallurgici della fonderia “Pisani” era stato sempre fortissimo. Il “Soviet”88 aveva sostenuto che, a Salerno, era nato un nuovo ed inedito mito, “il Fiorismo”! La figura del Fiore, superando i confini limitati del suo tempo, nella sua coerenza e nella sua stessa tragica solitudine, appare d’un enorme fascino e di una carica umana ed ideale straordinaria, limpida e coerente, rigorosa sul piano morale. Per la sua fedeltà ai principi, agli ideali, alle convinzioni, arriva a sacrificare la propria stessa esistenza. Il 1922 è l’anno nel quale eserciterà ancora un ruolo attivo e di primissimo piano nelle lotte dei lavoratori tessili, all’interno d’un disperato tentativo, come ricorderà lo stesso Gramsci su “L’Ordine Nuovo”, di contrastare il processo dilagante della reazione ormai in marcia. E tenterà, purtroppo invano, di battere e stroncare l’alleanza che si è andata stabilendo tra fascismo ed industriali. E’ quella la fase, torbida e drammatica, nella quale, nell’alveo del movimento socialista salernitano, si confrontano e si scontrano varie anime e diverse posizioni ed 88

Nel numero del 21-6-1921. 99


in cui saliranno alla ribalta, occupando una qualche funzione di rilievo uomini come Luigi Cacciatore, Giuseppe Vicidomini, Raffaele Petti, tutti provenienti dallo stesso ceppo socialista. Una circostanziata ricostruzione storiografica delle distinte posizioni nel movimento operaio appare obiettivamente difficile. Eppure in principio le interne distinzioni sembrano appannarsi e quasi scolorire del tutto: non risaltano radicali differenze, tra riformisti e massimalisti, di fronte alla necessità di scontrarsi con durezza contro il fascismo trionfante. Fiore, nei primi anni di vita del regime, sembra impegnato non tanto ad evidenziare le distinzioni teoriche ed ideologiche quanto piuttosto a realizzare il più ampio livello di unità e di autonomia del movimento operaio, condizione decisiva ed essenziale per la creazione di un blocco sociale, potente ed esteso, d’opposizione alla borghesia e al capitalismo. Una preoccupazione drammaticamente non colta a pieno da tutte le forze che si riferiscono al movimento operaio e democratico. Non ci si avvede della marea che lentamente sta montando e che, anche per l’accentuarsi della divisione interna al movimento operaio, finirà per consegnare il paese nelle mani della reazione. Ci si avvia al crollo definitivo del vecchio stato liberale e le speranze di riscatto messe in moto dal movimento dell’occupazione delle fabbriche,in specie a Torino, finiranno per essere completamente deluse. S’avvia la fase che porterà alla vittoria della controrivoluzione capitalista e borghese. Alla vigilia della presa del potere del movimento fascista Fiore si batte ancora in prima fila. Nel 1922, “traendo profitto dalle agitazioni dei tessili di Fratte, promuoveva larga manifestazione proletaria, con corteo e comizio in Salerno, sollecitando intervento On. Bombacci, la cui presenza in città originava disordini. Persisteva campagna comunista anche in discussioni economiche, dando alimenti ad inasprimenti di lotte” Ed ancora, “sebbene dimessosi da segretario della locale Camera del Lavoro, per divergenze politiche, persiste a frequentare ambienti proletari, tentando rinsaldare idee sovversive, pur essendo di molto scemato il suo ascendente sulle masse”. L’indirizzo dato alla Camera del Lavoro è giudicato “sovversivo” dalle autorità. Intanto, all’interno del sindacato, s’accentua la frattura tra socialisti e comunisti. Fiore insiste nell’accusare i dirigenti socialisti di cedimento verso il padronato: diviene a quel punto impossibile la tenuta unitaria dell’organizzazione. Fiore, attaccato da più parti, si dimette dall’incarico, ed il suo abbandonare la direzione dell’organizzazione sindacale ne determina il sostanziale sfaldamento. Il fascismo non può avere regalo più gradito e, privo di argini oppositori, diviene più arrogante, aggressivo, prevaricatore ed inizia la sistematica soppressione d’ogni forma di aggregazione, di associazionismo, di libertà. Fiore , come comunista, inizia un nuovo ed ancora più duro calvario. Contro di lui ancora minacce, aggressioni, violenze, perquisizioni. Egli è indicato dalle forze di polizia quale il sovversivo più pericoloso ed irriducibile ed è sottoposto ad una sequenza impressionante di arresti. Non gli è risparmiata la discriminazione, per lui la più odiosa, dei suoi stessi compagni che, per boicottarne l’impostazione di lavoro 100


particolarmente radicale, mirano a ridimensionarne ruolo e funzione e, anzi, ad emarginarlo. Più avanti, nel 1924, nel 1925, nel 1926 e per tutti gli anni seguenti, gli stessi dispacci di prefettura confermano che Fiore non attenua, in alcun modo, l’opposizione irriducibile al regime : ormai in una condizione in cui anche la minima possibilità di azione e di movimento gli è preclusa, controllato di continuo in ogni passo, non si piega e “professa sempre idee comuniste”89. E tale osservazione è ribadita ancora in altri dispacci: “ … avvicina altri sovversivi”90; si segnala ancora come “conserva tuttora le idee comuniste, però non esplica alcuna attività politica né da luogo a sospetti. E’ oggetto di rigorosa e attenta vigilanza…”91. Nell’aprile del 1924 è candidato alle politiche nella lista di Unità Proletaria. Il 1 maggio 1925 è tratto di nuovo in arresto con atto preventivo per impedire eventuali sue azioni sovversive. E’ recluso con Luigi e Cecchino Cacciatore, Panfilo Longo, Vincenzo Perrone, Gennaro De Bartolomei, Matteo Napoli ed altri antifascisti. E’ percosso in cella, come si ricava dalla querela al proposito presentata da Luigi Cacciatore92. E’ arrestato ancora nel 1927, in quanto in sospetto di far parte dell’organizzazione comunista clandestina ed assegnato al confino per 5 anni nell’isola di Lipari. La carcerazione verrà, poi, ridotta ad 1 anno. Non è, però, libero neanche dopo aver scontato questa nuova condanna, sempre sottoposto a controlli snervanti che rendono la sua vita un inferno. Non si piega e, anzi, coglie ogni occasione per riprendere la sua attività di organizzazione e di propaganda tra gli operai e per far nuovi proseliti antifascisti. Le autorità di polizia reagiscono comminandogli un nuovo provvedimento di confino. Ritornerà dal confino il 27 Novembre 1927. Fiore invia al Ministro degli Interni ed allo stesso Mussolini esposti e telegrammi di protesta contro le persecuzioni subite e la sistematica violazione anche del più elementare dei diritti. Denuncia la situazione delle carceri, i maltrattamenti cui i detenuti sono sottoposti: “ … Io domandavo il rispetto del diritto, si risponde con altre violenze … Qui si maltrattano i detenuti: il caso Papileo e le tracce che ne porta pel corpo ne sono l’esempio93”. Il Fiore accumulerà, nel corso del suo apostolato, un numero inimmaginabile di fermi, di arresti, di persecuzioni, di aggressioni fisiche e morali. L’azione contro il Fiore è, nella sua feroce spietatezza, un insegnamento lugubre ed una simbolica vendetta: così si spiegano, oltre agli arresti, oltre ai pestaggi, oltre al confino cui verrà condannato, anche il controllo ed i pedinamenti quotidiani e le perquisizioni che, senza ragione o mandato, si susseguono nelle abitazioni dove ha preso dimora. Ed anche così si spiega il perché è puntigliosamente segnalato dalle autorità ogni contatto ed ogni scritto di Nicola: gli si deve impedire, con ogni mezzo, di far sentire ancora la sua voce. Deve essergli vietata anche la circolazione di 89

Napoli, 28-9-1928. Id, 5-8-1929. 91 Id, 14-7-1930. 92 Il Mondo, 9 - 5 -1925. 93 Salerno, 16 - 2 -1920. 90

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semplici fogli ciclostilati, volantini, articoli di stampa, gli si deve rendere impossibile la vita !!! Eppure, mentre in altri il livore feroce e sistematico della repressione ha già prodotto silenzio e isolamento, ed anche abiura e pubblica sconfessione delle proprie convinzioni, nel caso di Nicola Fiore non si verifica niente di tutto ciò ed, anzi, la sua reazione è del tutto opposta! Nel 1929, il questore di Salerno ne tratteggia in tal modo la figura: “Fiore Nicola, … comunista, già socialista rivoluzionario, anarchico sovversivo, da vigilare, impedire espatrio e fermare. Connotati: statura bassa, capelli ed occhi castani, zoppo gamba sinistra”94. Costretto a vivere in una condizione sempre più difficile e precaria, la sua salute ha già iniziato ad essere cagionevole. Per tale ragione il 17 agosto del 1931 è stato costretto a chiedere l’autorizzazione per recarsi a Roma per essere visitato dal prof. Bastianelli. Nel 1932 la sua malattia si è aggravata. Si tratta di gravi disturbi polmonari, da cui non si riprenderà più e che lo condurranno alla morte a Salerno il 15 Maggio 1934. Nicola Fiore non farà mai abiura delle proprie convinzioni, non manifesterà mai cedimento alcuno sui principi, continuerà ad essere, fino alla fine, un fiero ed irriducibile oppositore del regime. Netta, secca, senza remore sarà, altresì, la sua critica a posizioni, ammantate di realismo e ragionevolezza, che, a vario titolo ed in più occasioni, iniziano a manifestarsi all’interno di ciò che è rimasto del movimento sociale di cui è stato capo indiscusso: rendere sempre più flebili ed indistinte le differenze dal regime, da tutto ciò che esso rappresenta, dalle forme prevaricatrici ed autoritarie in cui un tale potere si esprime, altro non vuol dire che snaturare i tratti dell’opposizione di classe facendo naufragare, nei fatti, il movimento verso la deriva della collaborazione o del fiancheggiamento dei nemici di classe. Le forze sindacali e di sinistra avrebbero, invece, dovuto, a suo avviso, combattere con ogni energia e ogni mezzo disponibile per la riconquista della libertà e della democrazia. Tuttavia, il movimento , ormai sconfitto, non è più in grado di attrezzare, non solo, una qualsivoglia forma di resistenza, valida e di lunga durata, ma anzi appare del tutto disarmato avendo del tutto rinunciato alla propria funzione ed al proprio ruolo. La sua polemica contro la nuova leva di dirigenti politici e sindacali, responsabile dello sgretolamento organizzativo e, al contempo, della caduta ideale fino alla compromissione è, perciò, aspra, dura ed insieme tragicamente amara. Nicola Fiore tenta invano l’utilizzo degli assai esili spazi che gli sono formalmente consentiti. Scrive lettere e fa partire reclami. Ricostruisce la storia del ritiro, senza motivo, del suo abbonamento ferroviario e denuncia come non sia stata mai fornita alcuna risposta ai reclami presentati nell’apposito registro delle Ferrovie. In tal modo gli è impedito di svolgere il suo lavoro “di rappresentante di commercio, regolarmente iscritto alla C.C.I. di Salerno, mentre posso provare di avere 94

Archivio Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale, Fondo Ministero dell’Interno, busta n.2076. 102


rappresentanze ed impegni per questa” ed ancora “ … mi si è sequestrato il passaporto - in una delle tante perquisizioni - per impedirmi di andare a lavorare altrove. Sono certo che V. E. esaminerà il caso e farà ristabilire il mio diritto alla vita leso”. Ed, infine, denuncia l’ennesima perquisizione subita ed il fatto che, senza alcuna ragione, nel mentre gli era stato restituito l’abbonamento ferroviario, ora invece “ … per impedirmi di lavorare si sequestra la mia persona. Il 26 … alle sei del mattino degli agenti hanno perquisito il mio domicilio con esito negativo traducendomi in questura e da lì in carcere … V. E. sa ch’io sono comunista, ma non credo che questa sia la ragione d’essere trattato come si trattano ammoniti e sorvegliati … ”95. Ecco, infine, il testo della lettera del Prefetto di Salerno al Ministero dell’Interno, Divisione Affari generali e riservati, Confino politico96, nella quale, tra le altre cose, si insiste nel rappresentare il Fiore quale “pericoloso comunista schedato, continua a professare idee estremiste, contrarie all’attuale regime, delle quali fa cauta propaganda … Egli è individuo molto scaltro ed intelligente, aduso, da anni , alla propaganda sovversiva ed ai metodi di vigilanza della P. S. … viaggia di frequente per pretese ragioni di commercio … che mascherano la sua attività politica … Per quanto sopra, si ritiene necessario impedire al soprascritto qualsiasi attività contraria alle istituzioni, proponendolo per il confino, stimando insufficiente l’eventuale provvedimento dell’ammonizione … Ritiensi che tale provvedimento (del confino di polizia) sia sufficiente per poterlo attentamente vigilare ed impedirgli ogni attività sovversiva, tanto più che al Fiore… fu anche ritirato il libretto di abbonamento ferroviario per l’intera rete del regno, cosa che servirà a rendere più difficile ogni eventuale di lui spostamento … ”. 97 Fiore resta sempre sotto stretta sorveglianza. Egli è ormai affetto da tubercolosi articolare, anchilosi dell’articolazione dell’anca sinistra, da catarro bronchiale cronico ed arteriosclerosi98. Le cure non sortiscono alcun serio effetto: costretto a letto, isolato, senza alcun rapporto coi suoi compagni ed amici di partito, muore a Salerno, all’età di 51 anni, in casa del cognato Giacomo Scarsi, in Via Tasso n.59. Il suo funerale, ricorderà in una toccante testimonianza di vita familiare, la professoressa Giovanna Scarsi, fu seguito solo da pochissimi stretti familiari, mentre agli operai che aveva diretto in tante battaglie fu negato di seguirne il feretro verso il viaggio estremo99. Gli uomini come Fiore sono di sicuro ascrivibili tra i personaggi che, col proprio sacrificio personale, hanno consentito al Paese di riscattarsi dalla vergogna della dittatura del regime fascista, proprio perché ad essa non si sono mai piegati ed, anzi, fino a quando hanno potuto l’hanno combattuta con ogni energia. Gaetano Di Marino, ricordando l’opera di Nicola Fiore, ha usato questa espressione: “è tempo . . . di rendere piena giustizia alla sua memoria e di consegnare, nella sua 95

Lettera, 30 -10 – 1926. Salerno, 26 -11 – 1928. 97 La lettera, per conto del Ministro, è firmata da Ramaccini. 98 In ACS, CPC, cit. 99 “Nicola Fiore: Un sindacalista rivoluzionario?” Ed. Laveglia, p. 49. 96

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interezza, la figura e l’opera al patrimonio del Pci salernitano … del quale negli anni della dittatura fu il più lucido, il più coerente ed il più amato esponente”100.

018. Titolo NEL PRIMO DOPOGUERRA E DOPO : UN SUSSEGUIRSI DI CRISI E DI RIPRESE

Fu particolarmente complesso e difficoltoso, come si è detto, il passaggio da un’economia di guerra ad una di pace. Nelle M.C.M. il macchinario, ormai obsoleto, fu progressivamente sostituito con moderne macchine tedesche. La produttività dell’azienda crebbe in maniera rilevante, la produzione raddoppiò. Le innovazioni tecnologiche comportarono il secco ridimensionamento della mano d’opera che passò da 12.000 a soli 6.000 operai. In ogni caso, trattandosi di una delle grandi imprese meridionali che era riuscita da sola ad assicurare ben il 60% dell’intera esportazione italiana di tessuti in Oriente, le M.C.M. furono pesantemente aiutate dal Governo, che liquidò le imposte per sovrapprofitti di guerra. La realtà industriale delle M.C.M., divenuta, così, appetibile attrasse l’attenzione degli operatori di borsa. Nel 1923, una nuova ristrutturazione, gestita da Bruno Canto, porterà alla chiusura dello storico opificio di Scafati. Nel 1924, le azioni erano quotate 60 lire l’una. Iniziò la loro acquisizione da parte di Brusadetti, un imprenditore settentrionale. Il valore delle azioni salì, in breve, a 200 lire. Le M.C.M., tuttavia, non poterono più sottrarsi alla grave crisi di borsa del 1925 che, associandosi alla crisi agricola ed al rialzo dei cambi esteri, determinò una situazione davvero difficile. Mentre gli Stati Uniti e la Gran Bretagna riducevano la disponibilità ad aperture di credito, il massiccio intervento del Banco di Napoli e la parziale riapertura di canale di credito estero per circa 100 milioni di lire consentirono la continuazione dell’attività, ormai attestata su una produzione quotidiana media di un milione ed un’esportazione annua di circa 200 milioni di lire. Tra il 1923 ed il 1927 si realizzerà il processo di standardizzazione dei prodotti ed il gruppo presenterà una nuova configurazione: a Nocera Inferiore, lo stabilimento di filatura lavorava le migliori qualità di cotone americano, con una produzione media di 60, 70 quintali di filato al giorno, vi erano impiegati 72.768 fusi e 680 operai; ad Angri, lo stabilimento di tessitura automatica operava con 1.615 telai e 625 operai, aveva realizzato il raddoppio dell’assegnazione di telai, da 6 a 12, per ogni operaio con una produzione di tessuti incrementata dai 32.000 metri circa del 1924, assicurata da 858 operai, ai 70.000 metri giornalieri nel 1927, con soli 625 operai; a Fratte di Salerno operavano due stabilimenti: in uno si realizzava la stampa ed il candeggio dei tessuti provenienti dalla tessitura di Angri, venivano prodotti 40.000 metri di tessuto stampato e 20.000 metri di tessuto candido ed erano occupati 400 operai; nell’altro si 100

In G. Cacciatore, “Per una rivalutazione storica di Nicola Fiore”, Pietro Laveglia editore. 104


realizzava la filatura selfacting, con 43.642 fusi e 670 operai, venivano prodotti dai 54 ai 60 quintali di filato al giorno, tra cui pregevoli i filati “ merinos ” colorati, richiesti per le maglierie, destinati ai mercati dell’America latina, ai Balcani e solo in parte al consumo interno. La produzione annua del gruppo, che per oltre il 60% veniva collocata sui mercati esteri, arrivò a 400 milioni di lire. In tal modo procedette la situazione fino al 1927, quando si verificò il rincaro delle materie prime sui mercati internazionali e si contrassero le esportazioni. La rivalutazione della lira, con la conseguente riduzione dei prezzi di vendita dei prodotti, comportò una situazione di seria difficoltà per le MCM, chiaramente in difficoltà sui mercati esteri. L’esposizione verso il Banco di Napoli era, ormai, divenuta assai onerosa né era possibile l’apertura di altri canali di credito. Tra l’altro, per statuto il Banco di Napoli e gli altri creditori non potevano trasformare i crediti in partecipazioni in attività industriali. Il fallimento si presentava, dunque, come un rischio immediato e concreto, con la conseguenza della perdita di migliaia di posti di lavoro. Fu tentata un’operazione di salvataggio con la riduzione del capitale sociale da 100 a 40 milioni e con l’emissione di nuove azioni dal loro valore verticalmente ridotto che si tentò di collocare in borsa e che il Banco avrebbe acquistato, dando all’impresa una boccata d’ossigeno. Il tentativo messo in atto non riuscì, in quanto all’orizzonte andava profilandosi la grande crisi internazionale del 1929. Le conseguenze della crisi del 1929 si ripercossero in maniera molto forte sulle M.C.M. La contrazione delle vendite sui mercati esteri non era compensata dalle vendite sul mercato nazionale e nelle colonie. Inoltre risultava particolarmente efficace la concorrenza delle aziende settentrionali che potevano disporre di una più forte ed estesa rete commerciale. Nel 1930 il gruppo era acquisito dal Banco di Napoli, principale creditore, e la gestione passava a Giuseppe Paratore che sostituì l’amministratore delegato e direttore generale, dott. Bruno Canto, e avviò una progressiva sistemazione dei debiti dell’azienda. Il Banco di Napoli, per evitare il fallimento, bonificò debiti per 9 milioni di lire ed un’altra parte del debito, 6 milioni di lire, venne dilazionato in 25 anni. Nonostante le notevoli agevolazioni ottenute, l’azienda non sarà in grado di saldare il debito accumulato. Iniziava la fase del progressivo ridimensionamento del gruppo. Il periodo tra il 1930 e il 1935 fu assai duro in particolare per lo stabilimento di Angri, dove vennero ridotte le giornate di lavoro ed i salari. Un nuovo, oggettivo aiuto fu fornito dallo scoppio della guerra d’Etiopia: lo Stato assorbiva, per esigenze militari e di guerra, quasi tutta la produzione del gruppo salernitano, consentendone, tra il 1935 ed il 1940, uno scatto di ripresa economica, finanziaria e produttiva. La situazione peggiorò con l’entrata in guerra dell’Italia nel conflitto mondiale. Gli stabilimenti tessili subirono gravi danni agli impianti al punto che, finito il conflitto, si stabilì per risarcimento dei danni bellici la cifra di 6 milioni (MILIARDI) di lire: nel corso del conflitto mondiale la fabbrica di Angri fu danneggiata da un bombardamento che causò anche due morti. 105


Le MCM ricevettero, come altre industrie nazionali, forti benefici dal Piano Marchall e dalle numerose provvidenze governative. Nel periodo appena antecedente la Guerra di Corea, l’impresa salernitana visse una situazione eccellente, con l’assegnazione di forti risorse in dollari per l’acquisto di materia prima e con forti esportazioni. Tuttavia, concluso quel conflitto, sopraggiunse la grave crisi tessile mondiale. Le produzioni militari, per la riduzione dei prezzi, cominciarono a risultare sempre meno remunerative ed il ricorso al credito ridivenne a quel punto costante, con l’accumulo di forti esposizioni debitorie. Solo nel 1945 iniziò la ripresa: l’azienda, che aveva impianti ancora efficienti seppure in parte obsoleti, avviò nuove assunzioni I bilanci 1944-1951 si chiusero in attivo. Indispensabile ed indifferibile appariva, però, il rinnovo degli impianti: i vecchi macchinari, grazie agli ingenti aiuti previsti dal Piano Marshall, furono sostituiti con telai di provenienza inglese ed americana. I processi di ristrutturazione, che comportarono riduzioni di personale, causarono ondate di scioperi. Le difficoltà delle M.C.M. erano già allora accentuate dalle importazione di tessuti a basso costo e dalla concorrenza delle altre imprese nazionali che innovavano con ciclica continuità. Nel 1952, sempre ad Angri fu creata una nuova grande sala di tessitura di 16.000 metri quadri e vennero installati 1.316 nuovi telai automatici. L’azienda era adesso all’altezza della migliore concorrenza europea.

019. Tendenze e mutazioni nell’industria tessile a Salerno dagli anni ‘30 alla fine degli anni ‘50 Il settore tessile nella provincia di Salerno era sorto, come è stato già accennato, in maniera industrialmente compatta ed organizzata già ai primi decenni dell’Ottocento. L’area di sviluppo originaria si era espansa tra i territori di Salerno e di Scafati, con numerose filande e tessitorie. Il comparto aveva assicurato il lavoro ad alcune migliaia di persone, in genere provenienti dalle campagne e lo sviluppo delle attività tessili era stato, senza alcun dubbio, favorito dalle condizioni particolarmente vantaggiose assicurate dalle misure protezionistiche dei Borboni. In larga parte le imprese erano di proprietà svizzera e tedesca ed alcune di esse, come la tessitura Vonwiller di Angri, riuscirono in breve a disporre di 400 telai meccanici, con una capacità di produzione di 14.000 quintali di filati all’anno e un’occupazione di 2.400 persone. Uno slancio ed uno sviluppo analogo aveva rapidamente raggiunto anche il Cotonificio di Scafati. L’eccesso di protezionismo fu un aiuto ed insieme un limite, in quanto le imprese riuscirono a saturare, per un ampio arco di tempo, i consumi del mercato locale senza riuscire, tuttavia, a competere su dimensioni più vaste di mercato con i più grandi produttori europei. Ad unificazione avvenuta, i vincoli protezionistici preesistenti vennero sciolti, a favore di una politica di liberismo economico che comportò serie conseguenze di tenuta per le imprese: l’area salernitana ne risultò particolarmente 106


colpita, a vantaggio degli opifici tessili del Nord. Nel periodo tra il 1860 ed il 1880 l’industria tessile locale visse una situazione di grave difficoltà nella quale si ridusse il numero delle imprese e si contrassero gli occupati. La provincia aveva una tipologia economica a larga prevalenza agraria e la struttura produttiva locale andò, perciò, evolvendosi prevalentemente in direzione della creazione di imprese di trasformazione dei prodotti dell’agricoltura. Agli inizi del nuovo secolo era l’attività conserviera nell’Agro - Nocerino a rivestire un ruolo indiscutibilmente primario, in special modo grazie all’industriale piemontese Giuseppe Cirio che aveva fondato a Salerno il primo stabilimento del Mezzogiorno di conserve di pomodoro. Neppure in occasione del primo conflitto mondiale l’industria tessile locale riuscì ad acquisire lo slancio necessario per espandersi ulteriormente e solo all’indomani del conflitto ci fu una parziale ripresa. Nel 1927, il censimento industriale stima in 6.978 “esercizi” l’attività manifatturiera nella provincia101 con un’occupazione totale di 24.000 lavoratori. Erano solo 6 gli stabilimenti tessili e conservieri di grandi dimensioni, con un’occupazione complessiva di 6.000 dipendenti. Il tessile dava lavoro al 20% della manodopera totale, l’abbigliamento al 18%. A parte l’industria alimentare, tutti gli altri settori erano di una consistenza particolarmente modesta. La stragrande maggioranza delle attività manifatturiere presenti, ed in particolare quelle tessili, sorgevano nell’area settentrionale della Provincia, nel territorio che si estendeva tra Salerno ed i confini di Napoli. Un’area di grande concentrazione di lavoratori era quella dell’Agro Nocerino - Sarnese, con oltre 6.000 lavoratori nel settore tessile e conserviero. Nel 1937 la manodopera occupata nelle attività industriali manifatturiere era giunta a 35.000 unità, con un incremento del 46% sui dieci anni precedenti. Il settore alimentare, con quello del legno, aveva avuto la maggiore espansione, mentre il comparto tessile era rimasto stazionario. Nel 1951 la struttura industriale della Provincia si presentava, in sostanza, immutata rispetto alla situazione di prima della guerra. Era senza dubbio in atto una trasformazione della struttura produttiva con un riequilibrio tra l’agricoltura e l’industria. Gli addetti all’agricoltura erano passati dal 62,7 al 57% del totale, quelli impiegati nell’industria erano cresciuti dal 20,8 al 24,8%. L’occupazione nei settori terziari era aumentata dal 16,5 al 18,2%. L’occupazione manifatturiera, nel periodo tra il 1937 ed il 1951, s’era incrementata da 35.000 a 42.000 unità. In realtà, la Provincia di Salerno presenterà, a differenza di quanto contemporaneamente accade in molte altre aree del paese, una situazione di relativa staticità anche nella fase della ricostruzione post-bellica. L’assenza di forza motrice appare immediatamente come uno dei principali limiti strutturali dell’impresa locale. Iniziava, però, una qualche mutazione nella composizione industriale e sorgevano, a fianco delle imprese alimentari e tessili, anche i tabacchifici nella Piana del Sele per lo sfruttamento industriale del tabacco. Dopo il 1951, si registra in Italia un notevole sviluppo del settore industriale. La società inizia la propria accelerata trasformazione, diventando da agricola a prevalentemente industriale. 101

In Bonazzi, Bagnasco, Casillo, “L’organizzazione della marginalità” in “Industria e potere in una provincia meridionale”, LIED L’Impresa Edizioni, Torino, pag. 104 e 105. 107


Nel periodo 1951-1961 la Provincia di Salerno non registra, però, l’auspicato grande balzo in avanti nell’industria ed è, anzi, una delle realtà in cui le trasformazioni sono più limitate102. E’ evidente come in questa area la politica d’industrializzazione si presenti coi caratteri della casualità, della provvisorietà, senza un approfondito e preventivo esame delle esigenze, attuali e potenziali, di medio e di lungo periodo del mercato, senza alcuna davvero solida base di partenza. L’industria tessile subisce una forte contrazione: chiudono alcuni antichi e grandi stabilimenti, l’occupazione totale è più che dimezzata103. Non esiste più, da questo momento in avanti, la struttura essenzialmente duale dell’impresa manifatturiera, incentrata sul settore alimentare e su quello tessile, quanto piuttosto una nuova e più sfaccettata articolazione con la comparsa di imprese di una qualche importanza nei settori del vetro e metalmeccanico. La stessa industria tessile di Stato, le MCM, non riceve più alcun impulso propulsivo attraverso precisi ed efficaci piani produttivi. L’industria tessile pubblica salernitana si ridimensiona, divenendo nei fatti sempre più subordinata agli interessi dei grandi gruppi privati del settore e drammatici saranno i tagli di manodopera, cosa che concorrerà ad arrecare un nuovo e grave colpo alla già gracile economia locale. L’opposizione comunista, sempre nel 1960, aveva sostenuto che, per un’organica politica d’industrializzazione nel Mezzogiorno ed in Campania, era decisivo che l’industria di Stato assolvesse ad una funzione propulsiva e di potenziamento dell’industria esistente ed anzi doveva ampliarsi anche in nuovi settori merceologici, per la realizzazione di un solido e diffuso processo d’industrializzazione. Ciò si sarebbe dovuto realizzare anche grazie all’incremento dei salari operai ed al miglioramento di tutti gli aspetti del rapporto di lavoro: doveva, anzitutto, avvenire il pieno riconoscimento della funzione delle Commissioni Interne, la parità di salario tra uomini e donne, tra giovani ed adulti, la riduzione dell’orario di lavoro, il riconoscimento della giusta causa nei licenziamenti. Si spingeva, altresì, da parte della sinistra, per la realizzazione di una riforma regionalista nell’organizzazione dello Stato che, da un lato, garantisse il rafforzamento dei vincoli di solidarietà della Nazione, dall’altro, producesse la crisi dell’eccesso di verticismo della politica governativa. Si puntava, con decisione, sullo sviluppo delle MCM e della capogruppo IRI, col potenziamento degli stabilimenti esistenti e con la creazione di nuove aziende per la lavorazione di altre fibre ed anche dei cascami e per le confezioni. Si sollecitava l’ENI ad aumentare i propri investimenti per scoprire ed utilizzare nuove fonti energetiche, a partire dal metano, incrementando, altresì, l’uso delle risorse idriche 102

Nel rapporto di Gaetano Di Marino al VII Congresso Provinciale della Federazione Comunista Salernitana dell’8 gennaio 1960, “Per un piano di sviluppo economico del salernitano”, si traccia un bilancio critico ed allarmato della situazione, in particolare per il fatto che non si è arrestato il grande processo migratorio che ha spopolato le campagne: “in 6 anni ben 158.000 persone hanno cambiato residenza nei nostri Comuni”. 103 A proposito della situazione industriale il rapporto prima citato ricorda che “…le MCM hanno visto non solo ridotto il personale di 2.000 unità, ma anche smantellate alcune attività come la filatura, sicchè oggi i filati si comprano a Como. Quasi scomparsi i tessili minori, chiusa la Meccanica Soriente, scomparsa la cantieristica, eliminate le concerie e quasi tutti i piccoli molini e pastifici, in via di chiusura le Vetrerie, scomparsa una grande industria conserviera come la Del Gaizo. Circa 10.000 operai licenziati negli ultimi 10 anni! “ 108


della provincia per la creazione di nuove centrali elettriche. L’industrializzazione non doveva costituire, da sola, la soluzione di ogni problema e la politica industriale per il Mezzogiorno non poteva limitarsi esclusivamente a persuadere alcuni industriali del Nord a creare qualche azienda al Sud, con la promessa di forti facilitazioni, dai finanziamenti statali ai suoli gratuiti. “Alla fine del 1955, i soli finanziamenti a medio termine erogati dal Banco di Napoli erano saliti a 2.500 milioni, quelli dell’I.M.I. a 6.050 milioni, mentre i debiti a breve contratti col Banco di Napoli ascendevano a 7.925 milioni e quelli sempre a breve, verso altre banche, a 1.205 milioni. Considerati gli interessi, si era ormai di fronte ad un indebitamento gigantesco che superava i 19 miliardi di lire”. Le MCM, anziché ridurre, accumulavano perdite ulteriori. Esse, perciò, avanzarono più volte, nel 1953, nel 1954, nel 1955 e nel 1956 richieste d’interventi di risanamento al Governo centrale ed al Banco di Napoli che, col tempo, era diventato il maggiore azionista della società. La situazione venne affrontata a Roma, alla presenza del presidente del Consiglio Segni e dei ministri Saragat, Medici, Campilli, Cortese, col Governatore della Banca d’Italia, dott. Menichella e con il presidente dell’IRI, on. Fascetti. Banco di Napoli ed IRI partecipavano all’aumento di capitale, ciascuno con quote del 50% , venivano abbonati dal Banco di Napoli tutti gli interessi passivi maturati per un totale di 419 milioni, favorito un ammortamento in dieci anni del credito a partire dal 1966, abbonati metà degli interessi bancari addebitati dal 1951 al 1955: un colossale salvataggio realizzato non tanto per motivi economici quanto per ragioni politiche nelle quali un ruolo rilevante assumeva la considerazione della delicata situazione occupazionale del Mezzogiorno. L’accordo prevedeva anche il passaggio della metà del pacchetto azionario delle MCM all’IRI, che diveniva suo nuovo azionista. A quel punto, si avviò una nuova e generale riorganizzazione, che si concluderà nel 1958, con la sistemazione dell’impianto di Fratte e l’ammodernamento della filatura di Nocera. Ne conseguì un’ulteriore, drastica, contrazione del personale che passò dalle 6.740 unità della fine del 1954 ai 5.985 della fine del 1956. Furono qualificati quadri e dirigenti anche con stage all’estero per rafforzare il settore commerciale, che superò il tetto di vendite di 22 milioni di metri di tessuto all’anno. Il fatturato del 1955 sfiorò i 6 miliardi di lire. Nel 1960 arrivarono dalla Svizzera i nuovi telai Sulzer, macchine in quel periodo all’avanguardia. Negli anni ‘70 si accentueranno le difficoltà con bilanci che inizieranno a segnare il rosso in maniera preoccupante. E’, in realtà, la prima volta, dal dopoguerra, che il gruppo chiude i propri bilanci in rosso. L’inversione negativa di tendenza è, però, in atto ormai già dal 1958. Il sistema industriale mondiale è scosso, infatti, all’inizio degli anni ‘60, da una crisi di sovrapproduzione e dalla notevole caduta della domanda interna a causa della compressione dei salari e dalla forte concorrenza dei paesi emergenti che forniscono prodotti sul mercato a costi assai inferiori. Intanto, il drastico processo di ristrutturazione e l’aumento della produttività pro-capite tagliano ancora gli occupati: 109


alla fine degli anni ’60, l’azienda aveva in attività complessivamente circa 2.300 dipendenti che, alla fine degli anni ‘80, si erano già ridotti a 1.050.

020. Salerno all’indomani del secondo dopoguerra: il ritorno della democrazia In parallelo alla ricostruzione storica delle fasi di sviluppo e di declino dell’industria tessile salernitana è parso utile soffermarsi, seppure brevemente, sulla situazione che, in particolare nel periodo immediatamente successivo alla caduta del regime fascista, vivono la città e la provincia di Salerno. Lento e difficile è il percorso di ripresa della vita democratica ma, indubitabilmente, si apre una pagina nuova.

Dopo la lunga parentesi della ventennale dittatura che anche per Salerno rappresenta una fase di blocco regressivo della pur fragile democrazia garantita dalle istituzioni dello Stato liberale, con la caduta rovinosa del regime si riattivano prime forme di ripresa di una vita normale. Riscrivere e portare in emersione il complesso passaggio dalla dittatura alla democrazia a Salerno non è operazione semplicissima. E’ in ogni caso nel 1945, alla fine del conflitto, che inizia ad esplicitarsi una nuova tensione delle forze produttive volta alla realizzazione di una diversa e più dignitosa qualità della vita per sé, per le proprie famiglie e per la società locale nel suo complesso. La scelta della riscrittura di alcuni dei passaggi nodali di questa vicenda risponde essenzialmente alla necessità di non disperdere e cancellare dalla memoria collettiva un grande patrimonio d’esperienze e di umanità, scritte dall’impegno civile di migliaia di persone di cui, col trascorrere del tempo, rischia di risultare del tutto sfuocata e perduta ogni traccia. In tal caso, il tentativo di ricostruzione storica della vicenda locale risulterebbe largamente monco, nè si comprenderebbe il nodo, di assoluto rilievo, rappresentato dal contributo che, pur nell’alternarsi di vittorie e sconfitte, il movimento democratico e progressivo dei lavoratori ha rappresentato nei profondi processi di cambiamento dei costumi e della mentalità della città e della Provincia di Salerno. 110


Quanto accaduto allora non è evidentemente comparabile con quanto si è verificato, contemporaneamente, in altre realtà del centro nord, dove ben più forte ed incisiva è stata l’impronta del movimento operaio, con le principali realtà del triangolo industriale e delle grandi città del Nord, ove la storia operaia si è profondamente identificata con la tensione al progresso di tutta una comunità. E pur tuttavia, anche nella realtà salernitana, un segno, una contraddizione, un concorso alla mutazione della mentalità e dei costumi, per una fase relativamente importante, si è realizzata, sebbene non nella misura che pur poteva essere auspicata. Anche la nostra vicenda locale è, infatti, disseminata di molteplici esempi ed esperienze di uomini e di lavoratori che, in fabbrica e nella società, si sono battuti per restituire al lavoro un orgoglio ed un’identità mai in precedenza conosciuti. Un giorno, attraverso ulteriori lavori d’indagine, sarà possibile la riscrittura dettagliata dell’esperienza, magari grazie ad una mappa circostanziata, fabbrica per fabbrica e luogo di lavoro per luogo di lavoro, del modo in cui si andò a riorganizzare il movimento sindacale locale, a partire dal ruolo e dalla funzione delle Commissioni Interne, primo nucleo d’organizzazione del movimento operaio e sindacale. Un elemento, di profonda rottura degli equilibri antecedenti, è individuabile nell’inedito protagonismo, ben diverso dal passato, delle donne che, proprio da quel momento in avanti, iniziano a determinare la radicale crisi del ruolo d’immobile, secolare, subalterna fissità cui sembravano essere state per sempre relegate. Fino ad allora alle donne erano state affidate le funzioni di servizio ed assistenza, di riproduzione e cura dei figli. Un ulteriore elemento d’innovazione, sociale e culturale, che ha pervaso fin nel profondo le pieghe della società italiana e lo stesso Mezzogiorno, è legato al cambiamento di considerazione della figura e del ruolo del lavoratore nella società. In passato, in maniera più o meno esplicita, l’operaio provava un certo disagio per la propria funzione nella società. Si cercava in genere di abbellire e di nobilitare la rappresentazione della propria attività sociale. Il lavoro era presentato in maniera diversa ed edulcorata, equiparandolo, ad esempio, alle professioni tecniche. Oggi il lavoro in fabbrica ha in sé, in quanto tale, una dignità prima sconosciuta. Si è verificato un salto di considerazione della propria funzione, raggiunto proprio grazie alle lotte sostenute ed ai risultati faticosamente conquistati sul terreno delle norme e dei diritti. Ed infatti, al cambiamento del rispetto e della considerazione che si registrerà a proposito del lavoro operaio contribuirà, senza dubbio, l’azione delle formazioni politiche e sociali della sinistra che iniziò a riorganizzarsi all’indomani della fine della guerra. I lavoratori non erano, né potevano essere considerati schiavi, rappresentavano, anzi, la forza decisiva e trainante per portare avanti la produzione. Senza il loro apporto la società non avrebbe potuto reggere né progredire. Il primo dopoguerra e le ultime lotte degli operai cotonieri del 1919-1920, alla vigilia dell’avvento del fascismo, erano state caratterizzate da un’impronta di tipo anarcoide e massimalista: nei riguardi degli altri strati sociali, soprattutto dei commercianti, l’approccio era polemico, di frontale contrapposizione, di ceto e di classe. Si sosteneva che i commercianti vivevano speculando sul lavoro produttivo, sul lavoro operaio e poiché lo stato delle cose esistenti andava cambiato alla radice, si ricercava 111


la frontale contrapposizione e si fomentava, a piene mani, l’odio di classe. Più che il sostegno ed il consenso degli altri strati sociali, di chi operaio non era, s’intendeva infondere la paura. Poi, questa spinta di tipo anarchico-rivoluzionario estremo, fu liquidata dal fascismo. Solo attorno al 1943 si erano iniziati a percepire, anche a Salerno, i primi segni di sfaldamento interno del sistema di consenso che il fascismo aveva fino a quel momento costruito e consolidato. Il sistema corporativo aveva mutato il Sindacato in una forma di diretta e subalterna diramazione del regime nei posti di lavoro. Spesso i rappresentanti del fascismo in fabbrica erano personaggi di basso profilo, reclutati in altri strati sociali, impiegati, commercianti, voltagabbana di vario tipo che col tumultuoso e rovinoso evolversi degli eventi, inizieranno a mostrarsi nella loro più vuota e ridicola veste. Emersero, tuttavia, in quelle circostanze alcuni valorosi capi operai come Raffaele Visconti, il capo delle concerie, Siniscalchi ed altri, come tutti, iscritti al Sindacato fascista ma che, in verità, contarono ed ebbero un peso per la loro riconosciuta rappresentatività. Il padrone saltava di frequente il sindacato fascista ufficiale, consultava, contrattava e concordava direttamente coi capi operai, ex capi socialisti che continuarono a godere, pur in una situazione assai difficile, di un largo consenso tra gli operai: quando c’era una vertenza, erano loro ad andare a parlare a nome dei lavoratori per tentare di trovare un’intesa sulla controversia insorta. Questa era la situazione esistente di fatto già nel decennio 1930-1940. Salerno alla fine del conflitto era distrutta, ferita dai bombardamenti e dalle macerie. La popolazione mostrava, nei volti scarni e denutriti, tutti i segni della miseria e della fame. L’esercito allo sbando, con vecchie armi, soldati e popolazione privi di cibo e medicine. I nostri soldati, esercito straccione al confronto dei soldati e degli ufficiali alleati che mostravano, invece, in bella evidenza, la completezza del proprio equipaggiamento, dalle armi ai vestiti, dalle vettovaglie, alle medicine, laceri e smagriti, offrivano la dimostrazione più triste e rassegnata della sconfitta. La Piana del Sele, l’area di Paestum e di Battipaglia, era attraversata dalle colonne di carri e di camion delle forze alleate, in marcia per risalire la penisola, mentre si consumava la disgregazione di ciò che restava dell’esercito italiano, ormai allo sbando e senza alcuna guida: i soldati italiani coi loro abiti vecchi e laceri, senza mezzi né cibo, spesso dovevano ricorrere, per sfamarsi, alla frutta o a ciò che avevano potuto trovare, per caso, nelle campagne. L’Ottava e la Quinta armata si confondevano, nel loro procedere, con le migliaia e migliaia di abitanti in fuga, con le loro povere masserizie, per tentare di sottrarsi ai bombardamenti ed ai drammatici, finali sussulti della guerra, cercando rifugio altrove, presso parenti o amici. Oltre che degli anglo-americani, la città era in balia delle altre truppe alleate occupanti: indiani, africani, canadesi, australiani104. Salerno aveva avuto dai bombardamenti centinaia e centinaia di morti 104

Il quadro delle città del Sud occupate dagli Alleati è rappresentato in tutta la sua crudezza e con estrema efficacia nel racconto di Curzio Malaparte : “La pelle”. 112


Insieme a tantissime abitazioni civili, tutto era stato distrutto dai bombardamenti.105 Le bombe avevano colpito, danneggiandolo gravemente il passaggio ferroviario, vicino al Palazzo Amato; la Caserma degli Allievi Ufficiali Umberto I, da cui è uscita gran parte degli ufficiali italiani, era rasa al suolo; erano state colpite anche le case popolari e ne darà notizia il giornale fascista “Viva l’Italia”106; in mezzo il gasometro; di fronte la fabbrica Scaramella, il Mulino, le Concerie Schiavo, altri pastifici, tutte fabbriche di valore: la Scaramella e la Rinaldi producevano le paste tra le migliori del mondo. Il porto, struttura decisiva per Salerno, non subirà, tuttavia, danni irreparabili. Gli alleati avevano, intanto, continuato a bombardare il centro della città, zona di antico insediamento longobardo. I tedeschi avevano minato e fatto saltare il ponte tra Salerno e Cava, interrompendo la principale via di comunicazione verso Nord. Gli alleati avevano, perciò, dovuto rallentare nella loro avanzata. Dalle frazioni alte di Cava i tedeschi sparavano colpi di cannone sugli alleati, che reagivano a questi segni di resistenza del nemico con una forza ben più grande e distruttiva, sparando dalle navi che, al largo, presidiavano il golfo. Lentamente, col ritiro verso il Nord dei tedeschi, iniziava a configurarsi a Salerno la timida ripresa di una vita normale: riprendevano, perfino, le fila dal tabaccaio per acquistare poche sigarette nazionali presenti sul mercato. A Via Roma n. 29 fu creata la sede dell’Ufficio del Lavoro, la cui responsabilità venne affidata a Raffaele Petti; gli Alleati, invece, avevano incaricato Alfonso Menna della responsabilità dell’Annona. Il Re stava con la sua corte a Ravello. La situazione era, però, ancora nerissima. Innanzitutto era drammatica l’emergenza alimentare. Per l’acquisto dei beni alimentari si dovevano avere i buoni per i “rottami di pasta per fagioli”, il cibo più consumato dagli operai impegnati nei cantieri per la ricostruzione. I cittadini per sfamarsi si cibavano di cachi e cucinavano anche le bucce di fave e di piselli. Non c’erano patate. Solo più avanti arriveranno la farina bianca e la pasta bianca: i cittadini di Salerno, abituati a lungo alle razioni di pane nero, non conoscevano in genere l’uso di dolci, caramelle, sigarette. Gli Alleati avevano portato una ricchezza “semplice”. Alfonso Menna venne incaricato di assicurare gli approvvigionamenti agli animali, di procurare loro la crusca. Gravissimo era il problema dei senzatetto. Oltre alle case danneggiate o distrutte, la gran parte di quelle abitabili era stata occupata dagli alleati per le esigenze di alloggio delle truppe di occupazione107. La città era divenuta sede di tutti i Ministeri ed il governo Militare Alleato, sistemato nell’Hotel Diana, aveva requisito i palazzi pubblici ancora in buono stato. Il ristorante Centrale, a Via Roma, sotto il palazzo Tortorella fu riutilizzato a mensa. 105

Del primo bombardamento di Salerno, avvenuto alle 13,30 del 21 Giugno 1943, dei danni procurati e dell’esodo della popolazione che ne seguì, parla Tonino Fasullo, “ Vietri sul Mare – Guerra e dopoguerra “, prefazione di Francesco D’Episcopo. 106 Il giornale era diretto da Ugo Abbundo, vice direttore Domenico Rea. 107 Vedasi, tra gli altri, al proposito, Piero Lucia, “Salerno, Firenze, etc.” op. cit. 113


Per tentare di fronteggiare in qualche modo l’emergenza fu creato l’Ufficio degli alloggi. Gli alleati, dopo la prima fase d’emergenza, erano stati sollecitati a trasferire le funzioni di governo a rappresentanti locali. A fronte della totale disgregazione dello Stato e della Nazione, fu creato un primo governo provvisorio di cui, tra gli altri, fecero parte Matteo D’Agostino, titolare delle Fornaci D’Agostino, il dottor Chieffi, il dottor Soriente del Partito d’Azione. Ritornava lentamente la libertà di stampa ed aveva inizio la defascistizzazione. La tipografia Volpe occupava la sede che era stata della Federazione Fascista e, prima ancora, della Camera del Lavoro. La Soriente metalmeccanica era aperta e, col suo cantiere dotato di macchinari adatti alla manutenzione ed al ripristino dei mezzi americani, potrà accumulare in quel periodo una grande fortuna. Al Porto lavoreranno con lui tanti operai. Soriente costruirà anche una grande officina meccanica a Via Robertelli. Iniziava una qualche forma di risveglio operaio e sindacale. I Ferrovieri stabilivano la loro sede in Via Duomo n. 34. Tutto questo nel mentre si registravano gli ultimi sussulti del regime: la costituzione della Repubblica di Salò, dopo l’arresto di Mussolini, la sua traduzione a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, la successiva sua liberazione da parte dei tedeschi, la fine tragica e sanguinosa dell’esperienza della Repubblica Sociale108. Al Nord si dispiegava, in tutta la sua crudezza, la guerra di resistenza contro il nazifascismo. A Salerno miseria acuta, distruzione, mercato nero, prostituzione, fabbriche distrutte o danneggiate. Eppure, sebbene in maniera confusa, iniziava a nascere una fiducia nuova nella possibilità di cambiamento ed appariva realizzabile un domani migliore. La determinata volontà di ricostruire fu decisiva nel far nascere tante imprese edili; le forze alleate, dal canto loro, cercavano manodopera e, dunque, ci fu una forte crescita dell’occupazione e del lavoro. Mancava, però, il cemento, ne disponevano soltanto gli Alleati per ricostruire o fare nuovi ponti e lo si poteva procurare solo al mercato nero. Il mercato nero, largamente praticato, veniva in genere severamente perseguito109. Si lasciava correre per i piccoli furti, ma si cercava di punire, con rigore, chi faceva incetta dei generi di prima necessità. Un grave incidente, con numerose vittime, si verificherà a Balvano, nel tratto ferroviario che da Salerno porta a Potenza110: il treno risulterà carico di generi alimentari, di farina, di pasta intercettati dai mercanti della borsa nera. 108

Un’efficace quadro dell’esperienza della Repubblica Sociale in Silvio Bertoldi, “Salò. Vita e morte della Repubblica Sociale Italiana”, Supersaggi, Biblioteca Universale Rizzoli. 109 Per una dettagliata ricostruzione della situazione a Salerno in quel tempo, vedasi “Libertà” e “L’Ora del Popolo”, due tra i principali fogli delle forze democratiche, l’uno di ispirazione social-comunista, l’altro democristiano-cattolico. 110 Il disastro di Balvano si verifica alle prime ore del 3 Marzo 1944.In esso moriranno 600 persone. A causa della censura militare o per ragioni di Stato, la stampa locale darà all’episodio scarsissimo risalto: una grande tragedia rimossa dalla memoria collettiva. Non sarà individuato né perseguito alcun colpevole. L’unico lavoro esistente su quanto avvenuto a Balvano è quello di Gianluca Barneschi,”Balvano 1944.I segreti di un disastro ferroviario ignorato”, Mursia, Milano, 2005, pp. 290, con prefazione di Francesco Perfetti e presentazione di Piero Muscolino. 114


C’era chi faceva ricettazione pensando di potersi in tal modo arricchire con rapidità e facilmente, cosa che, in effetti, in tanti casi, accadrà: la pratica della borsa nera svilupperà in quegli anni, a Salerno, ricchezze improvvise. Piazza Amendola si trasformerà nella “Piazza dei Milioni”: lì la domenica mattina c’era un mercato all’aperto: era possibile trovare di tutto ed ogni cosa veniva commerciata. A differenza di altre situazioni, il trapasso dal vecchio al nuovo ordine si realizzerà a Salerno senza traumi: ben altro rispetto a quanto, invece, accadrà al Centro ed al Nord del paese. Il merito del trapasso di poteri sostanzialmente “morbido” è, in larga parte, da attribuire a Togliatti che metterà un freno al diffuso esplodere di odi, risentimenti, vendette. E’ in quel tempo che acquisteranno un ruolo personaggi divenuti, negli anni futuri, importanti nella storia della città: Conforti, Scaramella, Iemma. Con la riforma agraria saranno espropriate le terre ai latifondisti assenteisti, per ridistribuirle ai contadini poveri111 e, tuttavia, ciò non accadrà in maniera aspra e violenta. Mentre cominciano a ricomporsi forme elementari di civile convivenza, si realizzano prime, limitate forme di nuove aggregazioni. In prossimità dell’attuale Provincia, c’era il Bar Zig-Zag. Era lì il ritrovo consueto degli alleati e lì ci saranno numerosi episodi di contrapposizione con la popolazione locale. La gelateria Notari, in una traversa di Piazza Amendola, rappresentò uno dei primi segni della ripresa. Sistemati su bancarelle di fortuna, iniziavano a riapparire i primi libri. A San Matteo, l’esposizione dei libri avveniva nell’area di Santa Lucia, di fronte al Palazzo Natella: i libri potevano essere acquistati a prezzi relativamente bassi. Le Edizioni Barion facevano riemergere i racconti e le opere dei grandi scrittori russi e francesi che avevano concorso a formare i giovani salernitani più curiosi ed assetati di conoscenza. Queste letture giovanili risulteranno di frequente decisive nella scelta di tanti giovani della parte in cui stare. Questi autori erano stati in vari casi importanti: avevano consentito di spostare l’attenzione ed il favore verso gli oppressi e dalla parte dei popoli più poveri ed angariati ed avevano decisamente concorso a nutrire un sentimento di opposizione e di ostilità verso le più odiose espressioni del colonialismo e delle potenze che lo avevano praticato, per prima l’Inghilterra: “la capanna dello Zio Tom” di Harriet Beecher Stowe, ad esempio, era un testo decisamente contrario allo schiavismo. Il fascismo era stato d’una abilità straordinaria: tendeva a presentarsi, subdolamente, come un movimento autenticamente rivoluzionario che combatteva, in Europa e nel mondo, per la libertà dei popoli, attaccando i paesi coloniali come nemici e sostenendo, con la sua propaganda, di volersi battere contro “le potenze plutocratiche”. L’esempio dell’Abissinia era, al proposito, del tutto esplicativo: le stesse canzoni che, all’inizio, accompagnano l’avventura africana semplificano un 111

vedasi Giuseppe Lanocita, ” l latifondo delle masserie ed altri studi sulla questione agraria nel Mezzogiorno”, Arti Grafiche Boccia Edizioni. 115


messaggio insidioso, prima d’essere sostituite da nuovi inni, più aggressivi e guerreschi. Il Mussolini dei filmati d’epoca oggi appare oggettivamente grottesco 112. Eppure allora trasmetteva fortissime emozioni agli Italiani. Il richiamo al ripristino dell’antica grandezza di Roma sollecitava le corde dell’orgoglio nazionale. La propaganda e la demagogia del regime si combinavano con una politica, molto disinvolta, in cui il Duce assumeva il ruolo di nuovo arbitro dell’equilibrio europeo e mondiale. Il fascismo era riuscito a far convivere al suo interno le più contraddittorie tendenze: un miscuglio spregiudicato di linee differenti tenute insieme da un’abile miscela di socialismo massimalista, combinata con abili mosse politiche e diplomatiche. Si minacciava, così, di mettere in allerta le truppe sul Brennero o di far intravedere un’opposizione a fronte della paventata invasione germanica della Cecoslovacchia; poi, dopo le minacce urlate, si lasciava fare. D’altra parte, il massiccio intervento italiano nella Guerra di Spagna del 1936-1939 aveva sensibilmente indebolito la capacità militare dell’esercito italiano che, così, non a caso, si troverà del tutto impreparato al momento della guerra, con un armamento vecchio e scadente. I soldati italiani si renderanno conto, in breve ed amaramente, della grande differenza tra il momento dell’euforia dei canti fascisti e guerreschi ed il momento in cui saranno lanciati nel pieno dello scontro militare. Il grosso degli ufficiali italiani al tempo della seconda guerra mondiale è formato non da professori ma da maestri di scuola. I maestri avevano diritto a fare gli ufficiali, i professori potevano, invece, ottenere il rinvio fino a 26 anni: insomma, una assoluta approssimazione nella formazione militare. Una guerra affrontata in quelle condizioni riduce la credibilità del fascismo e progressivamente accresce il sentimento di rottura verso il regime. Anche i tedeschi, bene armati e ben nutriti, trattavano i militari italiani con un evidente atteggiamento di superiorità. Le sconfitte e le prove deludenti di efficienza bellica degli italiani in Francia, in Grecia, in Iugoslavia, in Africa, la catastrofe e la ritirata in Russia fecero il resto. A Salerno, la sorpresa per chi tornava era il registrare come fosse esteso, tra chi non aveva combattuto, un sentimento di forte ostilità verso gli Alleati, accresciuto a causa dei pesanti bombardamenti subiti dalla città che, prima di allora, non aveva mai conosciuto i segni aspri e dolorosi della guerra. D’altra parte, era difficile difendere gli Alleati. A Salerno e nel Mezzogiorno, il movimento operaio era rimasto a lungo inattivo, né c’era esperienza consolidata o pratica organizzata di alcuna forma di democrazia diffusa. Non c’era stato alcun momento di partecipazione democratica, organizzata e di massa, alla vita pubblica. E la vita dei partiti era stata in genere per lo più asfittica, in grado di coinvolgere soltanto sparuti gruppi di cittadini, di volta in volta, raccolti intorno a rappresentanti del notabilato locale. Aveva, certo, efficacemente attecchito la martellante propaganda di Mussolini contro il parlamentarismo ed i vecchi partiti. 112

Tra la sterminata bibliografia, al proposito, vedansi almeno le opere di Renzo De Felice “Mussolini l’Italiano” e di Aurelio Lepre “ La Storia della Repubblica di Mussolini ”,” Salò: il tempo dell’odio e della violenza ”, Oscar Storia Mondatori. 116


E, tuttavia, di una controinformazione organizzata non c’era alcuna traccia. Tutto si basava sul rapporto clientelare. E tale era il rapporto fiduciario del popolo. Il rinnovamento dell’Italia poteva, perciò, essere fatto solo dai giovani, in quanto i vecchi erano responsabili di tutto ciò che era accaduto. Gli antifascisti apparivano allo stesso modo responsabili, in quanto non avevano fatto niente di efficace per impedire il collasso del Paese. C’era la necessità di qualcosa di nuovo, di un partito nuovo. A Bari c’era già stata la Conferenza dei Partiti Antifascisti. In questo quadro, è interessante il tentativo di cui si fa animatore un ristretto gruppo di giovani salernitani,tra i quali Gaetano Di Marino, che si attiva per l’organizzazione di un ciclo di pubbliche conferenze d’informazione e di aggiornamento politico su specifici argomenti: i rappresentanti locali di ogni partito ricostruito avrebbero dovuto spiegare, pubblicamente, il programma, la strategia, i fondamenti della ideologia e della dottrina, assieme ai motivi della loro scelta politica. In tal modo sarebbe stato possibile concorrere all’ampliamento della conoscenza ed aiutare ogni cittadino che lo volesse ad assumere una posizione, schierandosi, in libertà, in relazione ai convincimenti maturati. Siamo nel 1944. Uno dei primi oratori fu Luigi Cacciatore, leader del Partito Socialista nel Mezzogiorno. Di lui affascinò subito il grande garbo, lo stile pacato dell’eloquio, il sistematico uso del ragionamento e dell’argomentazione, l’apertura e la disponibilità al confronto ed all’interlocuzione, l’attenzione nel raccogliere osservazioni e nel rispondere, con serietà ed in modo circostanziato, alle domande ed ai quesiti più svariati che venivano posti da chi ascoltava: un modo del tutto antiretorico, antitetico a quello roboante, demagogico, ma vuoto, degli oratori fascisti. Luigi Cacciatore aveva una straordinaria capacità di proporre un’analisi rigorosa, equilibrata e responsabile delle vere ragioni delle difficoltà in cui si era venuta a trovare la comunità salernitana. I principali animatori del Partito Socialista diedero vita in quel periodo ad un foglio, “Il Lavoro”, destinato a svolgere, da quegli anni in avanti, una funzione importante di orientamento politico e di sostegno alle lotte operaie e popolari. Luigi Cacciatore capeggiava nel Partito la corrente di maggioranza, chiamata “ fusionista ”, che aveva come proprio obiettivo il superamento della drammatica frattura determinatasi nel movimento di sinistra con la scissione del 1921, sancita nel Congresso di Livorno e conclusasi con la nascita del Partito Comunista. Egli intendeva perseguire l’obiettivo di riunire di nuovo, in un’unica formazione politica, socialisti e comunisti. Il fratello Francesco, affettuosamente Cecchino, era a sua volta molto legato agli operai. Nella sezione comunista di Via Duomo la confusione regnava altissima: scambi di accuse sulle responsabilità precedenti, reciproche attribuzioni d’essere stati fascisti, insulti, esplosioni di vecchi odi, gelosie. Si parlava di tutto tranne che di politica. Era evocata la rivoluzione proletaria ed un generale lavacro purificatore. Prevaleva tra gli iscritti al Partito Comunista un fortissimo settarismo che persistette fino a quando, nell’aprile del 1944, Togliatti, tornato dall’Unione Sovietica, iniziò il lavoro di riorganizzazione, su basi del tutto nuove, del Partito: non più una formazione settaria, di duri e puri, ma un partito duttile, aperto ai giovani, a coloro che avevano fatto l’esperienza di lotta e la resistenza partigiana, agli intellettuali democratici avanzati. 117


A Salerno era arrivato Pietro Amendola, inviato a Salerno dalla direzione nazionale del Partito Comunista. Figlio di Giovanni Amendola, il martire antifascista ucciso in conseguenza delle aggressioni subite dagli squadristi per la sua intransigente opposizione al regime, aveva aderito fin da giovanissimo al Partito ed era già stato condannato ad alcuni anni di carcere per la sua attività antifascista. Egli operò immediatamente per liberare il partito dalle presenze equivoche ed inquinanti, imponendo rigore e disciplina, ma garantendo il rispetto delle regole della vita interna : il lunedì pomeriggio si acquista la consuetudine di riunire il gruppo dirigente comunista salernitano, largamente inteso, 30-40 militanti, che discutono e decidono di un fatto specifico, interno o dell’evolvere della situazione internazionale e delle sue ripercussioni nel nostro paese. Molti furono cacciati dal Partito per incompatibilità o addirittura per indegnità. Contemporaneamente Giordano Dall’Ara, ex confinato politico, era Segretario della Camera del Lavoro. Ad Eboli c’era un altro nucleo comunista importante, raccolto intorno a Garuglieri, toscano, condannato al confino. Attorno a lui, si era creato un gruppo assai attivo di giovani con Vignola, Alinovi, altri, che poi furono portati a Salerno divenendo il primo, nutrito e qualificato gruppo del Partito Comunista del secondo dopoguerra. L’altro punto di forza era concentrato a Scafati, area di vecchia tradizione comunista, intorno all’avvocato Siciliano, ad Oreste Catalano, ad altri. A Vietri, il gruppo comunista era, invece, cresciuto direttamente nella produzione, intorno alla Vetreria Ricciardi che lavorava il vetro a ciclo continuo. L’attività di quel periodo fu, quindi, particolarmente intensa. Nel Partito Socialista era, nel frattempo,scoppiata la divisione in vista del Congresso tra i fusionisti di Cacciatore e gli antifusionisti e i centristi di Raffaele Petti. All’estrema destra s’era posto Saragat. Nel 1945, si forma il Partito Socialista Democratico. Altri gruppi di uomini di cultura presero l’abitudine di riunirsi presso abitazioni private: è il caso dell’avvocato amministrativista Roberto Volpe, padre di Maria Teresa e Paola, che inizierà ad incontrarsi con Cecchino Cacciatore, Mario Carotenuto, Mario Parrilli, Carlo Aliberti, con l’avvocato Iannelli. Nacque così un rapporto, di confronto e di stima reciproca, tra uomini che pur avevano avuto storie personali e politiche diverse. Non c’era odio ed acredine tra vincitori e vinti, piuttosto un sentimento di comprensione e di rispetto reciproco. Sono i primi nuclei di partiti o gruppi democratici che si riaffacciavano alla democrazia, che promuoveranno più avanti la nascita della libreria “Macchiaroli”, che avrà tra gli animatori Nicola Fruscione, Mario Viola, Gaetano Di Marino113. La fase dell’intesa e della collaborazione tra le forze d’ispirazione democratica fu rotta, scoppiando nella contrapposizione e nella rottura lacerante, fino al grande scontro elettorale del 18 aprile 1948, conclusosi con la vittoria della Democrazia 113

Con il Senatore Gaetano Di Marino ho avuto frequenti colloqui e scambi di vedute, in particolare nell’agosto e nel dicembre del 2004. Mi sono largamente avvalso dei suoi ricordi e delle sue acute osservazioni per la stesura di questa parte del lavoro incentrata sulla situazione politico - sociale a Salerno all’indomani del secondo conflitto mondiale. Per questo, oltre che per la sincera amicizia di cui mi onora, gli sono particolarmente grato. 118


Cristiana e la grande sconfitta del Fronte delle Sinistre114, costretto, ormai, ad una lunga e dura lotta di opposizione. In ogni caso, in quegli anni, con la rinascita sociale e civile, si avvia anche in sede locale la ripresa economica. Napoli, negli anni 1948-1950, non mostra quasi più i segni della guerra e vi si vive già sufficientemente bene. A Salerno, le MCM sono in piena ripresa produttiva. Iniziava ad essere possibile vestirsi e calzarsi. I vestiti sono pressoché tutti eguali, a righe, di colore grigio o marrone. La fabbrica di Notari, a Vietri, vestirà in tal modo tutta l’Italia Meridionale. Del 1948 è la creazione del Cine Club, con principali animatori Ignazio Rossi, Almerigo Tortorella, Lelio Schiavone. La domenica mattina si proietta un film o un documentario italiano o straniero e poi si apre la discussione: l’esperienza andrà avanti per circa tre anni, prima di concludersi a causa degli esorbitanti costi di fitto del locale. In conclusione, i nuclei democratici che iniziano a strutturarsi a Salerno ed in Provincia tentano di coniugare l’impegno diretto, di natura politica, con quello per la crescita della conoscenza e della cultura delle masse, puntando lucidamente a rafforzare l’ autonomia e la coscienza critica individuale e collettiva: un nodo ed un passaggio cruciali per consentire il salto da una condizione di subalternità e marginalità all’affermazione di una funzione dirigente e di governo del mondo del lavoro e della sua rappresentanza politica e sindacale. I gruppi democratici che iniziano a ricostituirsi in quella fase hanno ben chiaro il fatto che il mondo in cui viviamo è figlio del passato, con cui si può entrare in rapporto solo studiando la memoria che ci è stata tramandata, solo con lo studio dei grandi romanzi, delle poesie, dei libri di storia, dei testi che ci spiegano i processi politici ed economici che si sono realizzati nel tempo. E’ da lì che occorre partire per comprendere i problemi politici, economici e sociali contemporanei: la cultura è l’antidoto indispensabile alla deriva dell’ignoranza, che rende diffidenti, genera isolamento ed avversione per i diversi e frena il progresso e la convivenza civile; la capacità di sviluppare ed estendere la conoscenza è, invece, l’unica strada per salvaguardare la pace e la concordia.

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Come avvenne ovunque in Italia e nel Mezzogiorno, la DC alle elezioni del 18 Aprile 1948 anche in provincia di Salerno conseguì la maggioranza assoluta dei suffragi. Ciò, però, avvenne soprattutto a spese dei liberali e dei monarchici.I voti al PCI e al PSI, che nel 1945 erano stati 45.000, nel 1948 salirono a 65.000 voti al Fronte Popolare, nonostante l’avvenuta scissione di Saragat. 119


021. Secondo dopoguerra a Salerno: alcuni fatti, vicende e protagonisti dell’organizzazione operaia La nascita, lo sviluppo, il consolidamento dell’organizzazione politica e sindacale proletaria a Salerno fu dovuta all’impegno, strenuo ed appassionato, di molti operai e lavoratori di cui oggi si è perduto quasi del tutto il ricordo e che invece svolsero, in quegli anni difficili, un ruolo assai importante, in rappresentanza dei nuclei industriali sorti nell’area urbana di Salerno, uomini semplici e combattivi, mai assurti al clamore delle cronache. Le tante storie individuali convergono, tutte, nella più generale storia del movimento. A quel tempo Salerno finiva a Portanova e tutta la zona fino alla Stazione era la zona industriale. Questo ristretto nucleo industriale di Salerno aveva dei punti produttivi per quel tempo di una qualche importanza. C’erano i conciaioli delle concerie con un nucleo importante di lavoratori tra i quali si distingueva Raffaele Visconti, un operaio grande e possente, bruno di viso e carnagione, pieno di energia, che era stato in fabbrica per tanti anni ed aveva conquistato un grande prestigio tra gli operai anche durante gli anni del regime fascista. All’inizio della sua esperienza lavorativa aveva militato nel sindacato della CGIL ma, poi, sotto il fascismo, sarà costretto, come tutti allora, ad aderire al sindacato corporativo di regime. Raffaele Visconti riscuoteva, però, uno straordinario rispetto tra i suoi compagni di lavoro al punto da essere, anche nel periodo di scioglimento dell’organizzazione sindacale tradizionale, il vero interlocutore del padrone per ogni vicenda relativa alla vita di fabbrica, e con lui Carmine Laulonio, Siniscalchi, dal volto volpino e dalla struttura fisica più piccola e minuta, uomo acuto ed intelligente, abituato a porre questioni problematiche nelle discussioni e, non di rado, ad indicare precise soluzioni. Dopo il referendum del 1946, ci fu l’impegno a favorire l’elezione di Raffaele Visconti al Consiglio Comunale, benché non sapesse né leggere né scrivere. C’erano altri operai che svolgevano una funzione di riferimento importante per i loro compagni. Al Cementificio c’era Filippelli, di origine siciliana, protagonista nell’immediato dopoguerra di importanti episodi di organizzazione. Nel 1948, all’indomani dell’attentato a Togliatti, il Cementificio ebbe un ruolo negativo, perché non 120


partecipò115, come ci si attendeva, allo sciopero di protesta per l’attentato al leader comunista. Erano, infatti, giunti al punto d’incontro per la manifestazione solo alcune centinaia di lavoratori, poca cosa rispetto alle necessità del momento ed i partiti di sinistra e l’organizzazione sindacale salernitani facevano molto affidamento sui rinforzi del Cementificio. Invece da quella fabbrica si presentò, pressoché da solo, Filippelli. Allora il cementificio contava tra i 300 e i 400 operai. Il concentramento operaio fu attaccato dalla polizia, le camionette iniziarono a dare la caccia ai manifestanti, un caos generale. L’editore Pietro Laveglia fu inseguito fino a Corso Vittorio Emanuele e là preso e picchiato selvaggiamente. Visconti, Filippelli, i conciari, i lavoratori dei mulini a quel tempo abitavano, in buona parte, di fronte al vecchio Stadio “Vestuti” nelle case popolari costruite dal fascismo e destinate agli operai: un insediamento abitativo, quello delle Case Popolari, diventato “area rossa”, con attivisti ed elettori di sinistra. C’erano, poi, le Cotoniere Meridionali, il principale complesso manifatturiero, da cui vennero prelevati quadri destinati col tempo al lavoro politico e sindacale. Tra essi, Alfonso Dragone, operaio diventato, poi, funzionario di partito alla Federazione Comunista Salernitana116. Con lui Barba, Maria Turco, poi sposa di Nino Turco, più avanti trasferitosi da Salerno a Napoli. Tra i panettieri c’era Alberto Pappalardo, personaggio popolarissimo nel Centro Storico, capo di questo nucleo operaio, piccolo ma combattivo, che godeva di un grande prestigio. Gli scioperi dei panettieri in quel tempo erano terribili, data l’importanza decisiva del pane per l’alimentazione della popolazione. L’attività dei mulini salernitani andava piuttosto bene: i pastai ed i mugnai salernitani rifornivano quasi tutta l’Italia Meridionale, mentre il Nord aveva altri canali di approvvigionamento. Il 1949 sarà un anno assai importante, per Salerno e il Mezzogiorno, per la convocazione dell’Assise per la Rinascita del Mezzogiorno. In quella occasione, verrà lanciata la parola d’ordine della lotta per la realizzazione della riforma agraria, per un programma di accelerata industrializzazione, per un grande piano di opere pubbliche, per la trasformazione e la bonifica dell’agricoltura. Inizierà una poderosa campagna, di iniziative sociali di massa, per aggredire e ridurre la disoccupazione. Le lotte grandi e generose, pur pervenendo a risultati solo parziali, risulteranno di grande utilità per la crescita della coscienza e della consapevolezza dei propri diritti tra grandi masse di popolo. La riforma agraria, come è noto, finirà per essere in larga parte depotenziata a causa delle varie discriminazioni e dell’erogazione discrezionale degli aiuti economici e degli incentivi. Essi verranno di frequente distribuiti o negati in relazione all’adesione alla politica della DC ed alle sue scelte. Per anni sarà vietato 115

Utile, al proposito, la consultazione della stampa locale dell’epoca, del 19 luglio e seguenti. Di frequente, gli operai che diventavano funzionari erano inviati alle Scuole di Partito. Nell’autobiografia di Alfonso Dragone al X Corso Nazionale Scuola Centrale Quadri della Cellula” Kalinin” di Bologna, si legge, tra l’altro, dell’incarico da lui ricevuto, nel 1946, di costituire la cellula di partito nelle MCM. Allora gli operai di Fratte erano 1800 e 450 aderirono, in quell’anno, al Partito Comunista. Dura e spietata l’autobiografia in cui, tra l’altro, Dragone si critica per il fatto che aveva pensato “di far carriera nel lavoro”. Una posizione da lui giudicata “opportunista e piccolo-borghese” e, comunque, incompatibile con la scelta del funzionariato di partito. 116

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il diritto a dirigenti politici e sindacali della sinistra, comunisti e socialisti, di entrare nelle zone di riforma per fare riunioni, convocare assemblee o prestare assistenza, sindacale o giuridica. I funzionari degli Enti di riforma erano quasi tutti legati al partito democristiano. E’ ancora il caso di ricordare come all’indomani del grande successo della Democrazia Cristiana e della sconfitta del Fronte Popolare, nonostante le previsioni, il movimento di riscossa popolare non solo non si spense, ma finì per acquisire uno slancio ed una determinazione ancora maggiore: si verificò, in un crescendo progressivo, l’apertura di una grande stagione di lotte per la difesa del lavoro e dei diritti, nelle fabbriche e nelle campagne. La Piana del Sele ed il Cilento diverranno, in breve, le aree nelle quali più intensa risulterà l’azione delle forze della sinistra per la concessione delle terre incolte o mal coltivate e per la restituzione delle terre demaniali e di uso civico, usurpate ai contadini senza terra da baroni e grandi agrari. Su questi obiettivi, nel giro di pochi anni, si svilupperanno grandi lotte popolari, contadine e bracciantili, in stretta sintonia col Movimento per la Riforma Agraria nel Mezzogiorno. Le campagne diverranno il principale terreno di confronto e scontro, spesso aspro, contro l’egemonia esercitata dalla DC tramite la Coldiretti di Bonomi.117 Il Sindacato salernitano, infatti, alla fine degli anni ‘40 si era battuto soprattutto sul fronte delle campagne e della lotta per la riforma agraria. L’epicentro dello scontro era stata la Piana del Sele con lotte bracciantili d’una straordinaria asprezza, quali quelle del “blocco della mungitura”. Lo sciopero si concluse con l’intesa delle 110 lire, conquistando il primo, vero contratto provinciale dopo quello, fasullo, del 1949. La questione agraria nel secondo dopoguerra era questione decisiva per l’insieme della società ma soprattutto per il Mezzogiorno, sia per il massiccio numero di addetti che per l’incidenza sull’economia generale del paese. In alcune zone del Mezzogiorno si erano sviluppate grandi aziende capitalistiche di notevole estensione. I contadini poveri s’identificarono, pienamente, con la parola d’ordine dell’esproprio delle grandi proprietà assenteiste. Numerose, nel Mezzogiorno ed in Provincia di Salerno, le occupazioni di terre incolte o mal coltivate nelle aree in cui insistevano il latifondo e la grande proprietà assenteista. Un grande movimento organizzato e diretto dalle sinistre. Nella Piana del Sele, le lotte contadine saranno spesso oggetto di dure repressioni poliziesche, con numerosi arresti e lunghi processi. Dirigenti politici e sindacali saranno condannati a molti mesi di carcere. In realtà non si realizzerà, come si sperava, un’ampia ed incisiva riforma agraria e ciò sarà tra i motivi principali che indurranno moltissimi contadini a lasciare le campagne meridionali cercando altrove un futuro migliore. La parte meridionale della Provincia vedeva la presenza, a Pontecagnano, di un nucleo bracciantile in cui, in origine, la sinistra non aveva grande influenza. Tuttavia le prime lotte contadine e bracciantili e la lotta per l’occupazione delle terre 117

Assai utile ed illuminante per la ricostruzione di questa importante stagione di riscatto civile e di lotte contadine nel Mezzogiorno e, in specie nella Provincia di Salerno, è il volume di Giuseppe Lanocita “Il latifondo delle masserie ed altri studi sulla questione agraria nel Mezzogiorno”, Arti Grafiche Boccia Edizioni, Salerno, Giugno 2000. Il volume presenta una prefazione di Augusto Placanica e, tra gli altri, scritti di Abdon Alinovi, Mario Gomez d’Ayala, Silvano Levrero. 122


consentirà al Partito Comunista di entrare in contatto coi contadini e con vasti strati di lavoratori della terra. La riforma agraria porterà un nuovo, positivo clima, anche se molti tra quanti avevano avuto assegnate le terre, nel timore che gliele potessero ritogliere, spesso finirono per ritirarsi a vita privata. Contribuì molto all’estensione del movimento democratico nelle campagne ed alla crescita della sua influenza tra i braccianti e i contadini Fausto Gullo che era stato Ministro della Giustizia e, poi, primo estensore della legge di riforma agraria: in diretto contatto con le organizzazioni politiche e sindacali, s’era impegnato anche in difesa dei braccianti e dei contadini della Piana del Sele. In quelle lotte iniziarono a distinguersi Piero Memmi e Giuseppe Lanocita. Memmi, di origini africane, veniva dalla Tunisia ed era amico di Michelino Rossi. Aveva notevolissime capacità organizzative e di comunicazione. Lanocita fu incaricato di spalleggiarlo. Ed è allora che inizia l’azione giuridico-legale di Lanocita, che non perde alcuna occasione per intentare causa ai latifondisti della Piana del Sele, facendo indagini sull’incerta origine della proprietà terriera e sostenendo la tesi che i proprietari avevano acquisito quelle terre, senza averne alcun diritto118: anche in questo modo si diede ulteriore impulso all’azione rivendicativa contadina e bracciantile. Per Lanocita era possibile andare all’origine dei modi con cui si era consolidato il sistema di proprietà, fuori da ogni diritto. Tutti avevano usurpato la proprietà della terra e l’azione giuridico-legale avrebbe potuto, a suo avviso, destrutturare il grande potere dei latifondisti. La tesi era certamente suggestiva, ma anche molto discutibile. L’esperienza aveva, infatti, già chiaramente dimostrato come era, sì, possibile avviare un contenzioso ma esso, per una miriade inestricabile di difficoltà, anche oggettive, quali il reperimento degli atti originari di acquisto o di cessione, finiva per trasformarsi, sempre, in un conflitto destinato a durare anche decenni e decenni, senza produrre alcun pratico risultato, né era in grado di rispondere alle attese che finiva per generare nell’animo di braccianti e contadini. L’organizzazione sindacale operaia era allora, naturalmente, ancora assai approssimativa, ma il Consiglio delle Leghe, per così dire, un Parlamento Operaio, era un organismo assai importante dei rappresentanti delle varie aziende. L’organismo teneva le proprie riunioni, con frequente periodicità, alla Camera del Lavoro, collocata a quel tempo di fronte all’attuale statua di Giovanni Amendola, nei pressi delle Poste. E succedeva che a quelle assemblee, non di rado confusionarie ed animate, partecipassero, sospinti dalla curiosità, quei giovani che erano stati attratti dal movimento socialista e comunista. Si seguivano i dibattiti nei quali, puntualmente, l’estremista di turno esplicitava tutte le sue perplessità sull’inutilità della lotta di massa e democratica e premeva per azioni estreme quali lo sciopero totale nei servizi di erogazione dell’acqua e del gas e, magari, del pane. Queste le prime esperienze di vita democratica. Contemporaneamente a Salerno entravano in grave crisi buona parte delle piccole e medie imprese tradizionali. Numerosi i licenziamenti e le chiusure di fabbriche che diedero luogo ad aspre lotte di resistenza operaia in difesa del lavoro. 118

Pino Lanocita, op.cit; 123


Le forze sindacali ed i partiti della sinistra furono impegnati duramente, nei primi anni ‘50, nelle lotte in difesa dell’occupazione e per fermare l’ondata di licenziamenti che si stava preparando nei vari settori produttivi e che, in particolare, sarebbe sfociata nella grande vertenza delle Cotoniere. L’azienda Scaramella fu occupata. Il Sindacato, con il Partito, organizzava direttamente il sostegno agli operai in lotta. Lucia Di Marino, Mary Chieffi ed altre loro combattive compagne, aggirando il controllo della polizia, portavano il cibo in fabbrica per aiutare i lavoratori nella loro lotta. Si trattò delle prime esperienze di lotta e di impegno politico e civile di nuclei di donne che, con coraggio, si erano schierate a sinistra. Quella stagione concorse, nel fuoco delle lotte, a selezionare autorevoli gruppi dirigenti della sinistra. Il clima politico, tuttavia, era divenuto torbido: di frequente le manifestazioni operaie in difesa del lavoro vedevano l’intervento repressivo poliziesco, con brutali cariche e decine e decine di arresti. In queste lotte si cementerà l’unità degli operai intorno al sindacato confederale ed ai partiti della sinistra. Si arrivò, così, alla grande e dura battaglia contro i licenziamenti e la minaccia di chiusura delle Cotoniere, una lotta che, per quel tempo, vide un diffuso ed estesissimo sostegno politico, sindacale, sociale ed istituzionale. La città si strinse attorno agli operai minacciati di licenziamento. Il Vescovo celebrò la Messa in fabbrica e alle Cotoniere salirono Di Marino, segretario del Pci e D’Arezzo, allora Segretario della Democrazia Cristiana. I due si strinsero la mano, tra gli applausi degli operai, a suggellare l’impegno comune in difesa del lavoro. Fin troppo evidente apparirà, di contrasto, la sostanziale latitanza delle forze politiche di governo. Nella città e nella provincia di Salerno era stata storicamente forte l’influenza delle destre tra larghi strati della popolazione. Lo stesso risultato del referendum istituzionale aveva visto il netto prevalere delle formazioni d’ispirazione monarchiche su quelle repubblicane119. Le Elezioni Amministrative del 1952 saranno vinte dallo schieramento costituito dal Movimento Sociale e dal Partito Monarchico. L’insieme dei rapporti costruiti dal movimento democratico era importantissimo: si creava una dialettica ed anche una crescita comune di questo nucleo operaio, degli intellettuali, del ceto medio e dei giovani studenti che si erano già orientati a sinistra. L’insieme di queste forze, di diversa estrazione e provenienza, darà impulso al movimento operaio del periodo del secondo dopoguerra e degli anni ‘50 e ‘60. C’era una forte presenza socialista, che aveva come leader indiscussi uomini di grande livello come Luigi Cacciatore e suo fratello Cecchino, molto attivi e presenti, assai vicini ai comunisti: era il tempo in cui si discuteva molto della necessità di un’unica forza della sinistra.

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Nel referendum Monarchia - Repubblica del 2 Giugno 1946, a Salerno, in netta controtendenza rispetto ai dati nazionali favorevoli alla Repubblica, su 39.000 votanti, andranno alla Monarchia ben 30.125 voti ed in Provincia la vittoria monarchica sarà pressappoco delle stesse dimensioni, con 264.721 voti contro gli 87.450 raccolti dai sostenitori della Repubblica. 124


Appena fuori dal capoluogo, a Vietri sul Mare, “la Stalingrado salernitana”, era situata la Vetreria Ricciardi, con 400 operai, tra cui primeggiava Arturo Belmonte, di statura piccolissima ma con una viva intelligenza ed una eccellente capacità politica. Nelle riunioni di Lega o di Comitato Federale, centrava sempre il cuore dei problemi, anche quando si discuteva di politica internazionale. Dati i tempi, non poteva naturalmente avere una grande cultura, ma aveva un intuito politico straordinario. Al suo fianco c’erano D’Arienzo, un altro operaio molto acuto e coraggioso, Giovanni Di Mauro, il cui fratello era corrispondente de “L’Unità”, chiamato, poi, a lavorare a Roma ed altri ancora. La Vetreria Ricciardi in piena attività era uno spettacolo indimenticabile. Il proprietario delle Vetrerie era parente di Giancarlo Pajetta e, grazie alla sua intercessione, ricorda Di Marino, gli fu possibile vedere le modalità produttive, “il fiume di fuoco che si trasformava in lastra di vetro”: una cosa impressionante, con l’altoforno a ciclo continuo in funzione ventiquattro ore su ventiquattro e che non doveva mai essere spento, altrimenti il vetro si sarebbe solidificato, provocando una lunghissima fermata di tutto il complesso. Le Vetrerie saranno, dopo un processo di ristrutturazione, divise in due tronconi con parte delle lavorazioni trasferite a Napoli, primo passo verso la definitiva chiusura. A Vietri c’era anche l’importante tradizione della ceramica, la cui fama si estenderà in tutto il mondo: in tante piccole fabbriche e fabbrichette vi era una forte e ramificata presenza di operai socialisti e comunisti. A Vietri, grazie a questi nuclei operai, la sinistra conquisterà a lungo l’Amministrazione Comunale. A Cava dei Tirreni c’era la Manifattura Tabacchi, l’insediamento industriale più importante ed era Toscano il più autorevole dirigente operaio. A Nocera operava anche un altro stabilimento delle Cotoniere, e così pure ad Angri, dove lavorava Anna Lombardi, che era la vera dirigente operaia della fabbrica. Dati i tempi, era particolarmente significativo ed importante che alla testa della Commissione Interna ci fosse una donna. La forza di Nocera erano le Cotoniere e le aziende conserviere, che rappresentavano il grosso dell’apparato produttivo, ma con una forte attività stagionale e discontinua. Sarno era un altro punto industriale di una qualche importanza. C’erano i canapifici con la presenza di operai ben sperimentati ed educati alla scuola degli Amendola. Scafati era, poi, un altro punto significativo della presenza industriale ed operaia. Scafati aveva una tradizione socialista e, quando la città si liberò dai tedeschi, l’avvocato Sicignano, di cui si ricordava il passato di antifascista e di socialista mai piegatosi al regime, fu eletto Sindaco a furor di popolo120, ricoprendo la carica per 7 o 8 anni, quando Vincenzo Scarlato, a conclusione della lotta per il trasferimento del potere alla Democrazia Cristiana, utilizzando anche il fatto che il Sindaco e l’Amministrazione avevano adottato qualche delibera non del tutto corretta, riuscì a sostituirlo alla guida dell’Amministrazione Comunale: Scarlato vinse a mani basse e da allora Scafati divenne area d’influenza, pressoché assoluta, della famiglia Scarlato e della DC. 120

Sulla rivolta di Scafati vedasi:”1943 - 1945, L’Alba della democrazia, il contributo campano alla nascita della nuova Italia”, Ed. L’Articolo. 125


Nell’Agro Nocerino completavano il quadro gli scatolifici. Nell’Agro la sinistra dimostrava difficoltà a sfondare anche negli aggregati operai, al punto che si decise di incaricare, da Napoli, Mario Schettini, capace oratore ed assai abile nel lavoro di massa, ad organizzare la presenza sindacale e politica. Nel 1953 si presentò alle elezioni Luigi Angrisani, un medico di Nocera. La sua era la lista del “Gallo”, apparentata al Partito Comunista. Sarà eletto Senatore, dopo aver ricoperto la carica di sindaco. A poco a poco, si affermò il protagonismo di una nuova generazione di giovani che fu decisiva per consentire al partito di superare quella fase di difficoltà. Pietro Amendola punterà sul gruppo di Eboli, su Alinovi e Perrotta, su Di Marino e Villani di Salerno e sul gruppo di Scafati. Una volta richiamato a Roma Pietro Amendola, allora anche alto Commissario per l’epurazione, subentrò al suo posto Guido Martuscelli, proveniente da un’importante famiglia salernitana, un uomo di grande valore e qualità professionale che giovanissimo, solo pochi anni dopo la laurea, vincerà il concorso di Cassazionista. Nell’azione partigiana di Via Rasella fu lui a fornire le bombe che aveva costruito al gruppo dei Gap romani. Intanto, dalla Commissione Nazionale di organizzazione del Pci, diretta da Pietro Secchia, fu inviato a Salerno Michelino Rossi, per dare un sostegno organizzativo alla direzione di Martuscelli. Rossi era stato membro clandestino del Partito in Tunisia, dove, conclusa la guerra, aveva subito anche un processo. Rossi divenne il vero costruttore del Partito dal 1946-1947 al 1953, quando, a giudizio della Direzione, si era finalmente in condizione di individuare proprio in Ninì Di Marino la soluzione interna per la direzione della Federazione. Il Sindacato unitario negli anni 1944- 1945 aveva un ruolo molto forte. Era diretto da Giordano Dall’Ara, un emiliano intelligente e coraggioso che si era trovato confinato in un paesino della provincia di Potenza. Per varie ragioni potrà fermarsi troppo poco tempo a Salerno. Fu allora nominato Segretario della Camera del Lavoro Feliciano Granati, con il socialista Ciro Formica vero responsabile dell’organizzazione. Feliciano Granati, con la sua brillante eloquenza e la sua simpatia, riuscì a diventare effettivamente il numero uno. Personalità capace di affascinare l’uditorio, ma anche di eccedere in facile demagogia, diventerà deputato nel 1958. Sarà, poi, Di Marino, allora dirigente nazionale dell’Alleanza Contadini, ad essere indicato quale candidato alla Camera dei Deputati. Dopo la lotta contro i licenziamenti e contro lo smantellamento delle industrie, è promossa la lotta per ottenere i cosiddetti “cantieri scuola”: si chiedevano risorse al Ministero del Lavoro per costruire un’opera pubblica, una strada, una scuola, ecc. e, tramite i cantieri di lavoro, i disoccupati venivano pagati con un salario minimo, tra le 500 e le 1000 lire. Questa manodopera era assunta per 6 mesi e poi licenziata. Al momento della conclusione dell’opera si aprivano, puntualmente, acute tensioni per ottenere le proroghe, che spesso sfociavano in dimostrazioni ed occupazioni aspre,

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sciolte non di rado dall’intervento della polizia, sulla falsariga di ciò che, in tutti gli anni a venire, e fino ad oggi, succederà a Napoli.121 I “cantieri scuola”, che precedono il periodo dei “palazzinari” e della grande colata di cemento sulla città, concorsero ad immettere nel movimento a Salerno città, ed anche in qualche altro punto della Provincia, un nucleo ben diverso da quello storico della classe operaia industriale: si trattava, in sostanza, di forze d’estrazione sottoproletaria, provenienti dai mestieri più disparati, organizzati in gruppi di pressione. Il Sindacato ed il Partito riusciranno, comunque, a mantenere con loro un rapporto stabile, seppur spesso complesso e difficile, appoggiando, in sostanza, i disoccupati dei “cantieri scuola”, anche se si darà grande attenzione a che le loro azioni non sfocino in atti di violenza. Ed infatti, i disoccupati non sempre comprendevano il carattere democratico della lotta che doveva essere portata avanti. Non era raro trovare personaggi equivoci che si intrufolavano, anche armati, in questi confusi movimenti. E ciò determinava la necessità di un’attenzione particolare della direzione del movimento operaio, del sindacato, delle forze di sinistra, non sempre adeguatamente coadiuvate dalla polizia, per prevenire fatti gravi e delittuosi. Giovanni Fenio, Matteo Ragosta, Saverio Della Rocca, Tonino Lambiase, i capi di questi movimenti, si legano, tuttavia, al partito ed al sindacato, imparano a confrontarsi con gli altri ed a crescere insieme, pur mantenendo la crudezza e l’asprezza originaria della loro storia familiare e formativa. All’occorrenza, se ben diretti, diventavano anche una straordinaria forza d’urto capace di fronteggiare situazioni difficili e scabrose, di frequente utilizzata con profitto dal Sindacato nelle battaglie generali. E’ questo solo uno scarno tratteggio della figura dei costruttori del Partito e del Sindacato a Salerno ed in alcuni dei più importanti centri della Provincia: sono uomini e donne che non vanno dimenticati, a cui vanno aggiunti dirigenti di primo piano quali Riccardo Romano di Cava o Oreste Catalano di Scafati, Vincenzo Sparano e Antonio Cassese di Eboli, Emilio Sparano di Pontecagnano. In sostanza, dai ricordi presenti in questa trattazione, emerge la conferma di un’idea secondo cui il partito ed il movimento operaio salernitano, pur riconoscendo sempre di far parte di una più ampia famiglia che aveva un’organizzazione unica e ramificata a livello regionale e nazionale, erano, al contempo, assai orgogliosi della propria identità e della propria peculiarità. Il partito ed il movimento operaio salernitano avevano riferimento e guida autorevole in Giorgio Amendola, leader politico della forte personalità e dal grande prestigio. La figura di Giorgio Amendola, col carico di storia e di leggenda che esprimeva, avvolgeva e trascinava122. Non era diplomatico nel rapporto con gli altri, né si 121

Una delle manifestazioni di disoccupati, organizzata il 22 Dicembre 1955, si conclude con cariche della polizia ed arresti. Vengono feriti il commissario Costabile ed alcuni carabinieri. In questa occasione sono fermati 11 dimostranti e per 5 di loro scatta il provvedimento di arresto. La manifestazione era stata organizzata dalla Camera del Lavoro per ottenere il sussidio di disoccupazione di 3.000 lire per gli scapoli e di 3.600 lire per gli ammogliati. Tra gli arrestati Matteo Ragosta, a lungo Segretario della Fillea Cgil di Salerno. In “ Il Mattino ” del 23 Dicembre 1955. 127


risparmiava nella polemica politica, non giocava coi suoi convincimenti, faceva la critica e dava, però, anche il riconoscimento al valore dell’interlocutore. Per quanto riguarda i giornali, a Salerno s’era creato “Il Lavoro”, organo del Partito Socialista, “Unità Proletaria”, il giornale locale dei comunisti e “La Voce Salernitana”. La testata del giornale era, in genere, utilizzata per stampare manifestini: prima per fare un volantino era necessaria l’autorizzazione preventiva della Questura; per poter stampare, il direttore di testata doveva essere necessariamente iscritto all’associazione della stampa. Tra gli avversari politici non c’erano a Salerno uomini di grande valore. Ad Avellino c’erano Sullo e De Mita, ed il contenzioso consentiva rigore e crescita. Carmine De Martino123 era per così dire un Berlusconi ante litteram. “Attorno a De Martino cominciò a crearsi lo schieramento di gran parte della borghesia imprenditoriale, per lo più conserviera ed edile, che vedeva i propri interessi salvaguardati e rispecchiati nel leader nascente”124 e, a tal proposito, Casillo cita Domenico Florio, Tommaso Prudenza, Primo Baratta, Silvestro Crudele, Alfonso Cuomo, Mario Ferraiolo, Marcantonio Ferro. Bernardo D’Arezzo sarà nominato sottosegretario alle Poste quale rappresentante fiduciario di Fanfani in sede locale. Il più intelligente tra gli avversari era Mario Parrilli, avvocato, bravo oratore che aveva anche fatto domanda di volontario in Africa: la guerra finì e non partì. Parrilli si collegò con Lauro, pensando- con una evidente ingenuità- di poterlo governare. Alfonso Menna era uomo arguto ed intelligente, con indubbio intuito, ma la sua strategia di sviluppo della città si è poi rivelata un fallimento. Matteo Luciani crea il Teatro Verdi, Via Roma e Corso Garibaldi. Il Fascismo aveva in precedenza fatto opere importanti, ma collocando al centro della città tutti i servizi pubblici. Per espandersi, ci si arrampicò sulle colline: la borghesia scelse Sala Abbagnano e Piazza San Francesco. Il resto della città venne strozzato: Via Irno avrebbe potuto essere una grande arteria, ma la proprietà dei terreni era a quel tempo nelle mani di Florio, presidente della Camera di Commercio e di pochi altri e ciò finì per impedire, con ovvie e negative distorsioni sulla qualità dello sviluppo urbano ed economico, un’organizzazione della città più efficace e razionale con al centro il porto turistico e quello commerciale, invece, all’altezza dell’area di Battipaglia, anche in relazione all’ovvia constatazione che il poco di attività industriale e produttiva residua era stata collocata in questa area territoriale.

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Sulla vita di Giorgio Amendola, tra l’altro,si rinvia alla circostanziata ricerca di Gianni Cerchia, “Giorgio Amendola, un comunista nazionale”, Ed. Pagano, Napoli 2.003. 123 L’industria del tabacco si era sviluppata in loco intorno al 1920. Essa raccoglieva, in grande maggioranza, lavoratori stagionali. La precarietà estrema delle condizioni di lavoro ampliavano a dismisura le pratiche di pressioni e condizionamenti clientelari su questo tipo di lavoratori. Il settore sarà il trampolino di lancio per la carriera parlamentare di Carmine De Martino, candidato liberale nel 1946 e democristiano nel 1948. Con lui avviene il processo di concentrazione del potere economico nelle mani di una nuova classe di imprenditori industriali, che conquisteranno il Partito, anche grazie all’appoggio della Chiesa, sconfiggendo, nella lotta politica interna, Carlo Petrone. 124 In S. Casillo, op.cit.p. 7. 128


022. L’alluvione del 1954 Nel 1954, la città di Salerno si era trovata ad affrontare un’altra tragica prova. Su una realtà economica e sociale che, come si è visto, con un grande impegno collettivo, iniziava a fuoriuscire dagli immani disastri della guerra e dei bombardamenti e che aveva avviato un’operosa ricostruzione delle strutture industriali e produttive, nella notte tra il 25 ed il 26 ottobre del 1954 si abbatte la terribile catastrofe di una spaventosa alluvione: drammaticamente colpiti la città di Salerno e i comuni limitrofi. Il bilancio finale dell’evento sarà spaventoso: 316 morti, circa 350 feriti, molti dei quali in maniera grave, tanti i dispersi, 10.064 i senzatetto, di cui 7.127 nella sola città capoluogo. I danni materiali ammontano a 40 miliardi di lire del tempo. Molte le aziende danneggiate o distrutte dall’alluvione con la conseguenza di circa 2.500 nuovi disoccupati. Ancora una volta si assiste ad una prova straordinaria, di abnegazione e di solidarietà di medici, forze dell’ordine, funzionari, operai ed impiegati, comuni cittadini. Molti gli aiuti pervenuti da altre città e regioni italiane e dall’estero, importante la solidarietà della stessa comunità degli italiani d’America. Il Parlamento stanzierà, nella seduta del 9 aprile 1955, la somma di 25 miliardi di lire a favore delle zone colpite dal gravissimo nubifragio. Aldo Falivena ricorda come fu la morte protagonista assoluta di quelle ore, la morte che “camminava per le strade bussando a tutte le porte, spalancando le finestre, chiamando con ululati e zampate di vento le vittime”. L’acme della tragedia si era avuto alle 2 del mattino ed aveva, perciò, colto i salernitani nel sonno, del tutto inermi ed impreparati. La pioggia era iniziata il pomeriggio, verso le 18, e continuò crescente e ininterrotta. La furia di acqua e di fango che si riversò su Salerno, Vietri Sul Mare, Molina, Alessia di Cava, Minori, Maiori, Tramonti non trovò sul suo cammino alcuno ostacolo e travolse tutto. Le principali strade della città, da Via Vernieri a Porta Rotese, a Canalone, da Via Fusandola a Via Spinosa, alla Chiesa dell’Annunziata, da Via Roma alla Villa Comunale, da Via De Marinis a Via Porto a Piazza Matteo Lucani a Via Ligea, dal Rione Olivieri a Piazza Flavio Gioia, a Piazza Portauova a Via Velia ridotte ad una 129


distesa informe di fango. Dal Monte San Liberatore e dalle colline circostanti erano cadute frane con tonnellate e tonnellate di fango e di detriti. Molte le abitazioni travolte, i negozi scomparsi sotto il fango che, in molti punti, aveva raggiunto i primi piani dei palazzi. I morti, avvolti nei lenzuoli, erano portati all’obitorio degli Ospedali Riuniti, in Via Vernieri, mentre nell’atrio del Duomo erano allineate le salme, tanti i corpi ignoti e sfigurati. L’arcivescovo Monsignor Demetrio Moscati officiò il rito funebre di fronte ad una grande e commossa folla di cittadini. Salerno ricevette il 27 ottobre 1954 la visita di Mario Scelba, presidente del Consiglio, e l’1 novembre raggiunse Salerno anche il Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi. Naturalmente, insieme alla grande prova di coraggio e di solidarietà dei cittadini di Salerno, si sviluppò un’aspra polemica sulle responsabilità della catastrofe che mise in luce, drammaticamente, l’estrema gracilità dell’azione preventiva in precedenza profusa in difesa del territorio. Nessuna difesa naturale degna di questo nome era riuscita a porsi quale argine di una qualche consistenza all’alluvione. La sottovalutazione dei rischi ambientali e l’assenza di ogni misura preventiva di salvaguardia del suolo, questione decisiva e, per più aspetti, ancora oggi irrisolta, avevano di certo concorso a rendere ancora più tragico e doloroso il drammatico bilancio di quei giorni terribili.125 In sostanza, l’opposizione di sinistra sosteneva che il disastro di Salerno rilevava il degrado estremo della condizione idro-geologica del territorio e le più gravi ed acute emergenze ambientali di buona parte dell’Italia Meridionale. Tale problema, colpevolmente trascurato dai governi che si erano succeduti, assumeva il carattere di una assoluta priorità su cui intervenire. La penuria di risorse messe a disposizione dalla “Cassa del Mezzogiorno” era il terribile atto di accusa sollevato dall’opposizione contro una classe dirigente che aveva scelto di privilegiare “ … la costruzione di un nuovo Porto, da nessuno richiesto … e di strade turistiche, più che porre mano, invece, alle preliminari opere di difesa dei centri abitati”126. In realtà, la critica era in parte propagandistica. Ad essa replicherà con durezza “Il Mattino” respingendo i rilievi critici sollevati e ricordando come per la sola provincia di Salerno erano stati solo di recente approvati 1.675 progetti per 38 miliardi e 231 milioni per opere ferroviarie, bonifiche, viabilità e, seppure in maniera minore, per la sistemazione dei bacini montani. Fatti che, di per sé, rendevano evidente “ la malafede delle accuse comuniste che squalificano le ironie dell’on. Alicata sul “ solito Campilli”. La verità era, piuttosto, che era stata disattesa l’applicazione di una legge del 1923, che prevedeva l’obbligo di interventi, a totale carico dello Stato, per la sistemazione dei bacini montani, con la realizzazione di opere idonee a prevenire inondazioni e straripamenti. Ora però il punto, ancora una volta, non poteva che essere quello di porre l’attenzione sulle opere che andavano fatte con urgenza, sulla ricostruzione 125

Note ed informazioni tratte dall’introduzione di Corradino Pellecchia al volume fotografico di Ernesto Errico, “Cinquant’anni fa a Salerno”, La Notte Dell’Apocalisse, Ripostes Edizioni, 2004. 126 In particolare interverranno, in maniera duramente polemica, Mario Alicata, con l’articolo” Potevano non morire ”, su “ L’Unità ” del 27 Ottobre 1954 e Giorgio Amendola, “La lezione di Salerno”, in “Cronache Meridionali ” n.10, 1954, pag. 666. 130


delle abitazioni danneggiate, sulla sistemazione, seppur tardiva, del corso dei torrenti e delle pendici dei monti. Ed infatti, erano stati i bacini del Reginna Maior e del Reginna Minor i maggiori responsabili degli straripamenti avvenuti in costiera. I primi interventi pubblici saranno volti alle sistemazioni di emergenza per i 1.500 senzatetto. Il Centro Storico della città, con le sue case fatiscenti, era stata la zona dove, tra tutte, più si era avvertita la tangibile conseguenza della catastrofe. La sistemazione degli sfollati dal centro storico costituirà, infatti, la principale emergenza da fronteggiare, non ininfluente rispetto alle scelte di sviluppo verso il Sud di Salerno ed alla costruzione di nuovi agglomerati urbani Nel 1955 fu fatta una legge che consentì di fare affluire 12 miliardi di lire su tutta l’area interessata al nubifragio. Con tali risorse si sarebbero dovute realizzare opere di sistemazione idraulica e fluviale, costruire nuove case popolari, dare contributi a fondo perduto alle aziende danneggiate. Carmine De Martino fu visto dalla stampa locale come il protagonista principale dell’azione per l’ottenimento di risorse nell’area salernitana colpita dall’alluvione.

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023. La lotta delle MCM del 1954- 1955. I primi anni ‘50 hanno rappresentato, anche per la realtà salernitana, una fase importante di sviluppo dell’associazionismo operaio e sindacale ed un periodo significativo in cui è cresciuto il ruolo, politico e sociale, delle organizzazioni dei lavoratori, con il riconoscimento della loro funzione e del loro prestigio nella società locale: una indiscutibile crescita, pur all’interno di evidenti contraddizioni e discrasie. La fase dei primi anni ‘50 è caratterizzata da un periodo di scontri e opposizioni, aspro, tra le forze politiche contrapposte, del governo e dell’opposizione. E’ la fase in cui, in maniera sempre più esplicita, inizia a svilupparsi il duro confronto in fabbrica tra lavoratori e datori di lavoro sul salario, sull’orario, sulle condizioni di lavoro, sull’aumento del ruolo e del potere dei lavoratori all’interno dell’impresa, è un periodo in cui inizia a prendere corpo e fisionomia l’organizzazione sindacale interna, che si è data lo strumento di rappresentanza delle Commissioni Interne quale strumento delegato alla contrattazione per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Alla vigilia della seconda guerra mondiale le “ Cotoniere Meridionali” possedevano due stabilimenti a Napoli ( Poggioalto e Poggiobasso), uno a Frattamaggiore, quattro nel salernitano ( Angri, Nocera, Fratte di Salerno e Pellezzano); uno a Piedimonte D’Alife ed uno, nuovissimo, nelle terre d’oltre mare, a Dire Daua. Un complesso industriale di grandissima importanza con una produzione che aveva raggiunto nel 1938 picchi elevatissimi : la filatura produceva i 7.383.975 Kg; la ritorcitura 1.613.312 Kg, la tessitura i 38.412.793 metri. La produzione dell’azienda meridionale era particolarmente ricercata sui mercati italiani ed esteri ed in questa industria avevano riposto la loro fiducia migliaia e migliaia di piccoli risparmiatori, quasi il 50% del complesso della platea azionaria. Dopo la guerra, all’indomani del conflitto, degli otto opifici delle Cotoniere quello di Dire Daua era stato confiscato nel mentre quelli

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collocati nel territorio nazionale erano stati ridotti ad un ammasso di macerie. Le filande napoletane erano state pressoché completamente distrutte. Gli immobili industriali del gruppo cotoniero per il 40% crollati o danneggiati; il potenziale produttivo era stato ridotto del 73% per le filature, del 96% per le ritorciture, del 44% per la tessitura. Danni ingentissimi, ai quali si erano aggiunti quelli delle requisizioni, per le vendite a prezzo d’imperio e per i mancati utili di congiuntura. Quegli utili di congiuntura che avevano consentito, dopo due anni di difficoltà, alle altre industrie tessili italiane di attribuire ancora dividendi ai propri azionisti. L’impresa tessile avrebbe potuto operare la scelta di rinunciare, a fronte di questa situazione, alla rimessa in produzione degli impianti distrutti ed al recupero dei macchinari danneggiati liquidando definitivamente già allora la propria attività. Fu invece impostato un coraggioso piano di ricostruzione nella speranza, poi delusa, che lo Stato avrebbe rapidamente approntato gli strumenti legislativi atti a sanare le ferite inferte all’azienda dalla guerra. Furono così utilizzate tutte le riserve di cui la società disponeva, si fece ricorso agli azionisti; si attinse largamente al credito bancario e si contrassero onerosi finanziamenti nella fiduciosa aspettativa che l’equilibrio della gestione sarebbe stato rapidamente ristabilito grazie al congruo risarcimento dei danni subiti. La scelta della ricostruzione e del riammodernamento degli impianti puntò a fare delle Cotoniere, pur nel quadro di un secco ridimensionamento aziendale, una delle aziende tessili a ciclo completo più moderne d’Italia, con un’ampia e diversificata gamma di prodotti. Il rimborso però non avvenne velocemente come si era sperato e le “ Cotoniere” , la più colpita tra le aziende tessili d’Italia, per l’impegno profuso nella ricostruzione si vennero a trovare schiacciate sotto il peso degli elevatissimi oneri passivi che minacciavano di strangolarle. Un tale sbocco sarebbe stato gravissimo con riflessi nefandi sull’economia meridionale ed avrebbe finito per vanificare tutti i presupposti posti alla base della Legge istitutiva della Cassa del Mezzogiorno.127 127

La decisione della corresponsione di un contributo alle MCM di 6 miliardi di lire quale risarcimento dei danni di guerra venne reso nota il 31 gennaio 1954. Il provvedimento fu presentato al Consiglio dei Ministri il 28 Aprile 1954 dall’on. Gava, di concerto con il Ministro dell’industria Villabruna ed il parere favorevole del Presidente del Comitato dei Ministri per la Cassa del Mezzogiorno on. Campilli, del Ministro del Bilancio Vanoni, del Ministro del Lavoro Rubinacci, del Governatore della Banca d’Italia Menichella. L’on. Arcaini, sottosegretario al Tesoro e relatore nel dibattito alla Camera sostenne come “ in considerazione..dei gravissimi danni subiti..nonchè dell’importanza che essa riveste per l’economia del Mezzogiorno e, in particolare, per il problema dell’occupazione della mano d’opera in provincia di Napoli, si è ravvisata la necessità dell’immediata liquidazione degli indennizzi dovuti alla Società..senza dovere attendere le lunghe e laboriose pratiche richieste dal procedimento ordinario, le quali comporterebbero un ritardo che, 133


I finanziamenti ottenuti dall’azienda erano quindi indispensabili per la ripresa ed il rilancio dell’attività. Per tale ragione del tutto comprensibile fu la grande soddisfazione dell’ingegnere Bruto Randone che rivolse calorosi ringraziamenti a Gava, Campilli, Villabruna, Menichella, Paratore, Arcaini, Valmarana, Mott, ai Presidenti ed ai membri delle Commissioni Parlamentari ed alla deputazione napoletana, al Presidente, al Vice Presidente, al Direttore Generale ed alla Direzione del Banco di Napoli, a tutti coloro che, a vario titolo, avevano esercitato una positiva funzione “ per giungere al provvedimento che è alla base della ripresa delle Cotoniere Meridionali e garantisce la vita ai suoi 7.000 dipendenti ”. Nel pieno degli anni 50 l’industria cotoniera salernitana si era quindi trovata ad affrontare una situazione di particolare criticità. Erano stati avviati profondi processi di riorganizzazione che, come immediata conseguenza, prefiguravano la drastica contrazione dell’occupazione. Gli industriali che durante la crisi bellica avevano accumulato utili e profitti si erano poi trovati di fronte all’esplodere della durissima crisi dell’industria cotoniera nazionale con una secca perdita di quote di mercato in particolare nei paesi del medio oriente. A metà degli anni 50 la situazione del settore cotoniero italiano appariva gravissima. Nel maggio 1955 in Italia vi erano ben 40.000 cotonieri a lavoro ridotto nel mentre 8.000 erano stati sospesi a 0 ore.128 La crisi delle industrie, ormai latente, venne affrontata, in quel frangente, con un’ondata di smobilitazioni delle aziende che non apparivano più in grado di assicurare profitti. Sospese l’attività la Fonderia di Fratte, coi maggiori mulini e pastifici, chiusero quasi del tutto i tessili minori, l’industria canapiera di Sarno, non producendo manufatti di elevata qualità a prezzi competitivi, risentì in maniera mortale della situazione ed iniziò a scomparire. La concorrenza presentava prodotti canapieri a prezzi nettamente ridotti rispetto alle produzioni nazionali anche di 70-90 lire per kg. Differenze ormai incolmabili. In molte grandi aziende si iniziò a lavorare ad orario ridotto.129 Nella stessa impresa tessile maggiore, che a quel tempo assicurava il lavoro a circa il 40% della manodopera stabilmente occupata della Provincia, le prospettive apparvero subito particolarmente incerte. Una situazione gravissima aggravando ulteriormente le difficoltà dell’azienda, comprometterebbe l’efficacia dell’indennizzo ai fini del suo urgente riassetto economico”. 128 “ Il Mattino” 3 luglio 1955. 129 Il 1954 ed il 1955 sono anni duri costellati di molti scioperi e manifestazioni in difesa del lavoro. Il settore tessile è quello dove si svilupperà il conflitto maggiore, nelle piccole e nelle grandi imprese. La stampa locale assumerà in genere posizioni decisamente ostili alle lotte dei lavoratori. Di tal fatta sono ad esempio gli articoli del 12 Giugno 1954 a proposito dello sciopero del Lanificio Fratelli Notari di Vietri, 150 operai, e del 20 Giugno 1954 “ Fallito un altro sciopero del sindacato comunista”. Il tono dell’articolista appare in questo caso particolarmente compiaciuto nel constatare lo scarso successo della protesta degli operai di Fratte contro “il giusto provvedimento ( di licenziamento) adottato dalla direzione nei confronti di due operaie che avevano attentato alla libertà di lavoro di alcuni operai, astenutisi dallo sciopero di protesta per il conglobamento”. 134


che provocò un’ondata di durissimi scioperi, alle Vetrerie Meridionali “ Ricciardi” di Vietri130, alla Metalmeccanica “Soriente”di Torrione, minacciata di chiusura nel gennaio del 1954 ed occupata dai lavoratori per 28 giorni.131 Le MCM effettuarono i primi, massicci licenziamenti nello stabilimento di Angri. Ai primi mesi del 1955 pervenne la notizia della decisione di chiusura della Filanda di Fratte-Pellezzano, con 950 licenziamenti su una manodopera complessiva di 1.300 operai. Non si trattava di sospensioni temporanee dell’attività ma di strutturale compressione produttiva. Nelle fabbriche di Fratte sarebbe continuato solo il lavoro di stamperia. Ormai dei 6.543 operai dei 25 cotonifici del 1903, divenuti 5.646 al lavoro in 16 aziende nel 1951, nel 1954-1955 erano rimasti in attività solo 3.000 operai. Gli osservatori economici facevano rilevare come l’industria italiana fosse soggetta a molti oneri fiscali e contributivi, invece sconosciuti ad altre aziende straniere similari. La Francia concedeva un premio del 30% agli esportatori di ogni tipo di manufatto nel mentre gli inglesi avevano ridotto la tassa sugli acquisti degli articoli tessili, di lino, canapa, cotone, misti-lana, e fibre artificiali. Le misure d’intervento richieste al Governo per fronteggiare la crisi non si discostavano dall’auspicare interventi protettivi sulla falsariga di quanto già più volte era avvenuto in passato. In particolare erano chiesti premi per le esportazioni e difesa contro le importazioni, l’abolizione dell’imposta di fabbricazione, un aumento dei dazi sulle fibre concorrenti, un urgente intervento che garantisse un elevamento della qualità delle produzioni ed un impulso all’azione di propaganda e promozione dei prodotti nazionali. Era evidente, ancora una volta, la scarsa disponibilità a cimentarsi con le regole del libero mercato e della concorrenza.132 Pur nel convulso scenario che finì per coinvolgere l’insieme dei distinti settori manifatturieri dell’industria salernitana particolarmente seria apparve la situazione del comparto cotoniero, per l’entità delle maestranze coinvolte e per il concreto rischio della definitiva soppressione delle produzioni di più antica tradizione. Processi di tale profondità ed ampiezza che costrinsero i lavoratori del settore ad una durissima lotta in difesa del 130

Sui primi scioperi alle Vetrerie “ Ricciardi” contro il pericolo di chiusura vedasi “ Il Mattino” del 19 Febbraio 1954 nel mentre dello sciopero e dell’occupazione dell’azienda conserviera “ Del Gaizo” per protesta contro il licenziamento di 16 operai si da notizia nell’edizione del 20 Gennaio 1955. 131 Dello sciopero dei 350 operai della “ Soriente” in risposta alla sospensione dal lavoro di 71 operai motivato dall’azienda con il crollo delle commesse e la mancanza di materie prime da notizia “ Il Mattino” del 27-1-1954, art. “ Lo sciopero alla Soriente organizzato dalla Camera del Lavoro”. Lo sciopero è diretto da Feliciano Granati che, alla testa di una delegazione operaia, s’incontrerà col dottor Linguiti del Gabinetto di Prefettura. La stampa locale stigmatizzerà in maniera negativa l’azione di lotta, a suo giudizio immotivata, in quanto i lavoratori sospesi avrebbero avuto per tre mesi il fondo salariale integrativo. “ Il Mattino” tra l’altro sosterrà che “ Lo sciopero organizzato dalla CGIL entra nel più vasto quadro delle agitazioni che … si vanno tenendo in danno dell’economia cittadina e nel quadro più vasto dell’economia nazionale”. Per riprendere i lavoratori sospesi l’azienda chiederà 200 milioni di commesse. 132 Illuminante appare al proposito l’intervista rilasciata al “ Mattino” il 6 Settembre 1955 dall’ingegnere Orazio Biavati della “ Buchy e Strangmann”, “ Grave la crisi del tessile- Urgono immediati provvedimenti per le zone di Sarno, Nocera Inferiore, Fratte” in cui si rilevava come “..lana , cotone, canapa, lino, nylon e altre fibre sintetiche prima prodotte in Italia in maniera rilevante stanno via via perdendo spazio a causa della concorrenza che i prodotti esteri possono “impunemente” fare”. ( sic!) . 135


lavoro. Spesso si dovettero registrare difficoltà di tenuta nel tessuto unitario ed anzi si verificarono chiusure ed arroccamenti. Atteggiamenti non inconsueti nella lunga storia del gruppo MCM, neanche a fronte dei provvedimenti aziendali più duri e dolorosi, quelli dei massicci licenziamenti di massa. Spesso infatti le vertenza finivano per essere gestire da chi era direttamente coinvolto nel processo di ristrutturazione, a Nocera, ad Angri, a Fratte. Di fronte all’asprezza dell’attacco padronale assioma imperante spesso diveniva il “ mors tua, vita mea”. Eppure in questa circostanza la lotta che si sviluppò in difesa delle MCM si configurò come una grande lotta di valenza generale per l’industrializzazione della Provincia di Salerno e come lotta contro i grandi monopoli cotonieri interessati a portare a compimento il processo di concentrazione della produzione in poche grandi imprese che si erano poste l’obiettivo di monopolizzare il mercato interno ed estero. In concomitanza con la lotta delle Cotoniere sorse a Salerno il comitato unitario dei partiti democratici e dei Sindacati per la difesa delle MCM e l’industrializzazione della Provincia. La fabbrica venne occupata per 23 giorni con una rete di solidarietà attiva ed operante, che si tese intorno agli operai in lotta. Il comitato unitario lanciò una petizione popolare da indirizzare alla Camera dei Deputati perché s’intervenisse per evitare ad ogni costo la riduzione del lavoro nelle aziende tessili. In brevissimo tempo furono raccolte più di 50.000 firme. Le sedi dei principali comuni di provenienza dei lavoratori tessili indissero grandi assemblee pubbliche culminate in una grande assise nel Comune di Pellezzano.133 I deputati salernitani presentarono al governo un ordine del giorno unitario contro la chiusura della Filanda di Fratte-Pellezzano. Della vicenda fu investito la stesso Presidente del Consiglio on. Segni che ricevette una delegazione di deputati salernitani e di lavoratori assicurando il proprio intervento. La direzione MCM cercò la strada dello scontro sottraendosi al confronto in sede ministeriale arrivando ad attuare 11 licenziamenti di rappresaglia che colpirono anche alcuni componenti la Commissione interna aderenti alla CGIL, sospese 97 operai nella fabbrica di Angri, 49 in quella di Nocera, 305 nello stabilimento di Napoli, ma non riescì a portare a compimento i propri piani. L’esteso e compatto fronte istituzionale e sociale riuscì a fronteggiare, per una fase, le gravi e rovinose conseguenze della crisi. Un particolare rilievo assunse, per la vertenza, la riunione convocata a Palazzo S. Agostino ad iniziativa del Presidente della Provincia avv. Girolamo Bottiglieri con l’ampia partecipazione di parlamentari, autorità cittadine, rappresentanti 133

Il grande incontro di Pellezzano, di cui darà notizia la stampa locale il 3 luglio 1955, si tenne alla presenza di Feliciano Granati, Francesco Cacciatore, Mario Jannelli, Pietro Amendola, Raffaele Petti, del Segretario della DC Murino, del segretario provinciale DC Bernardo D’Arezzo, del Prof. Longo , segretario provinciale Psdi. Erano 400 gli operai sospesi del comune di Pellezzano, in prevalenza impiegati nella filatura che aveva soppresso un turno di lavoro. La riduzione di attività era in atto anche a Fratte. 136


sindacali e categorie economiche della città. Dopo l’intervento di Feliciano Granati, segretario della Camera del Lavoro, comune era stata la richiesta della sospensione dei provvedimenti. Di identico segno furono gli interventi dell’on. Angrisani, dell’on.Amendola, di Domenico Florio, Presidente della Camera di Commercio, dell’on. Tesauro, dell’on. Carmine De Martino che tra l’altro ricordò l’opposizione degli industriali cotonieri del Nord, in particolare di Marzotto, alla corresponsione del risarcimento di 6 miliardi di lire alle MCM. La questione delle difficoltà in cui versava l’industria a Salerno e della urgenza di misure di rilancio per garantirne ripresa e sviluppo divennero ben presto questioni più ampie e generali, di rilievo nazionale. Dopo l’alluvione il tessuto produttivo locale appariva in agonia. Avevano infatti cessato l’attività ben 40 aziende, di piccola e media dimensione e la situazione era divenuta in breve sempre più incandescente.134 Gli aiuti del governo verso il Sud erano stati tardivi ed insufficienti e, nella specifica situazione delle MCM, troppo elevati erano risultati i costi generali di un’azienda che aveva ormai macchinari obsoleti nel mentre a Poggioreale erano ancora in deposito 600 casse di macchinario nuovo che avrebbero dovuto servire ad impiantare una filanda nuova con una previsione d’impiego per 800 unità. Da più parti era venuta la richiesta di diversificare in due questo investimento, metà a Napoli e metà a Salerno. Vertenza quindi durissima e dall’esito particolarmente incerto. Del tutto improbabile appariva il salvataggio dell’azienda nel suo complesso. La direzione di Fratte avviò trattative con la francese Saint-Gobin che aveva mostrato un qualche interesse ad intervento di trasformazione della fabbrica di Fratte in una vetreria capace di assorbire 1.000 unità lavorative. Gli operai sospesi avrebbero goduto di 6 mesi di cassa integrazione guadagni e la fabbrica, una volta attuata la ristrutturazione, avrebbe ripreso l’attività.135 Il lavoro sarebbe ripreso da aprile a dicembre 1955. Il gruppo usciva drasticamente ridimensionato, con la chiusura degli stabilimenti di Frattamaggiore e di Piedimonte D’Alife, ma con l’ammodernamento delle aziende della provincia di Salerno seppure ridimensionate. Un programma di chiusura di alcuni stabilimenti e la riduzione degli organici di altri. Una soluzione che appariva gestibile in considerazione della corresponsione degli emolumenti salariali, della certezza della continuità del lavoro per un congruo numero di addetti, della concreta possibilità di reimpiego dei lavoratori in altre lavorazioni alternative, in specie del settore

134

Tale considerazione è avanzata da Pietro Amendola nel corso della riunione alla Provincia. Il dirigente comunista in quella occasione chiede che sia inserita ,al primo articolo della specifica legge approvata al Senato, una clausola di salvaguardia, da estendere oltre che al cotoniero anche al settore della canapa, secondo cui eventuali provvedimenti di riduzione di attività da parte degli industriali del settore non debbano interessare le aziende meridionali. 135 In relazione alla crisi del settore cotoniero sarebbe stata corrisposta, per 6 mesi, la cig equivalente a due terzi della retribuzione globale, in applicazione del decreto del 9 novembre 1945, n.788. 137


conserviero, ma anche nel settore dell’edilizia prossimo a realizzare a Salerno un eccezionale sviluppo. 136 Le MCM dell’area salernitana, pur pagando un prezzo doloroso, subivano tagli inferiori alle altre aziende del settore cotoniero, con una riduzione del 12% sui fusi- ora settimanali nel mentre la riduzione nazionale media si attestava intorno al 20-25%. L’esteso e compatto fronte istituzionale e sociale che si è costruito riesce a fronteggiare, almeno per una fase ancora, le gravi e rovinose conseguenze della crisi. La questione delle difficoltà in cui versa l’industria a Salerno e l’ urgenza di misure di rilancio per garantirne ripresa e sviluppo sono divenute questioni di rilievo ben più ampie e generali, di rilievo nazionale.

024. Gli anni ‘50: La lotta sindacale contro i licenziamenti e per l’industrializzazione. Il balzo in avanti degli anni 60. La stagnazione. Il censimento ufficiale del 1901 sull’industria salernitana, aveva contato 64.556 addetti; quello del 1921, 64.272 addetti; nel 1936 i lavoratori censiti erano stati 66.852. Nel 1903, le industrie meccaniche, chimiche, minerarie avevano 1.494 addetti, occupati in 205 imprese; le industrie alimentari 9.435 addetti in 2.493 unità locali; le industrie tessili 9.888 addetti in 103 unità locali. Una situazione di sostanziale stagnazione si era trascinata in tutto il ventennio fascista. Dopo il 1948, e per buona parte degli anni ’50, la crisi si abbatte sull’industria a Salerno. L’obsolescenza delle macchine sarà la prima causa di molti licenziamenti. Il censimento del 1951 conta 47.447 addetti occupati in 327 unità locali e, tra di esse, 16 fabbriche per la lavorazione del cotone, con 5.646 addetti, 5 per la lavorazione della lana con 168 addetti, 10 per la canapa con 1.212 addetti. Le industrie alimentari contavano 148 fabbriche con 12.250 addetti e tra esse 19 pastifici con 441 addetti. Inoltre, erano censiti un cementificio con 251 addetti, una vetreria con 224 addetti, 8 fabbriche di laterizi con 644 addetti, 8 stabilimenti che lavoravano il legno con 149 addetti, 4 per pelli e cuoio con 107 addetti, 14 fabbriche meccaniche con 538 addetti, 7 fonderie, 4 fabbriche di scatolame per l’industria conserviera; 8 cartiere con 169 addetti, 7 industrie tipografiche con 173 addetti. Nei due stabilimenti di Stato per la lavorazione di tabacco erano impiegati 1000 addetti oltre ai lavoratori stagionali. Nell’Agro operavano 142 unità locali con 12.900 addetti, nella Valle dell’Irno e nel Picentino 76 con 4.839 addetti, nella bassa Valle 136

I dirigenti della Federazione Comunista salernitana espressero un positivo giudizio sulla conclusione della vertenza. Vedasi al proposito l’articolo di Gaetano Di Marino, “ Il problema ”, apparso sul fascicolo del settembre 1955 di “ Cronache Meridionali”, pp.594-604 138


del Sele 25 con 3.960 addetti, nella Costiera Amalfitana 21 unità locali con 650 occupati, nell’Agro di Mercato San Severino 23 unità locali con 660 addetti. Gli anni 1951-1961 vedono un forte sviluppo dell’industria dell’edilizia e, soprattutto, dell’industria conserviera. I gruppi imprenditoriali utilizzano in maniera sensibile provvidenze ed incentivi per l’industrializzazione del Mezzogiorno. I finanziamenti industriali deliberati dal Banco di Napoli e dall’Isveimer, dall’inizio dell’attività sino a tutto il 31 Dicembre 1960, sono stati 317 per complessivi 13 miliardi e 324 milioni: per ampliamento ed ammodernamento, 227 per un importo di 6 miliardi e 716 milioni; per nuovi impianti, 90 per un importo di 6 miliardi e 607 milioni; inoltre, le sovvenzioni cambiarie concesse dall’Isveimer per l’acquisto di macchine sono state 51 per 250 milioni e 978 mila lire. Gli investimenti complessivi effettuati in Provincia, compresi quelli con l’impiego di soli capitali privati, senza far ricorso al credito, da parte di “almeno 20 aziende” sono calcolati dalla Camera di Commercio nell’ordine complessivo di 38 miliardi e mezzo negli ultimi 10 anni. Dei 47 finanziamenti deliberati per ampliamenti e ammodernamenti dalla sola Isveimer, ben 30 sono stati concessi nel corso degli anni ‘59 e ‘60 per un ammontare di 2 miliardi e 200 milioni sui 3 miliardi e 350 milioni concessi complessivamente dall’Istituto dall’inizio della sua attività. La Provincia di Salerno si colloca al secondo posto, dopo Napoli, tra le Province nelle quali opera l’Istituto, per il numero di domande e al quarto posto per valore di importo richiesti. I settori che hanno maggiormente beneficiato di finanziamenti sono, nell’ordine, l’alimentare, il tessile e l’abbigliamento, il cartario e poligrafico, i materiali da costruzione, il legno, il meccanico. Alcune ditte finanziate sono fallite, altre hanno avuto più di un finanziamento. Si è, in conclusione, favorito un processo di ammodernamento e consolidamento di alcuni settori tradizionali e vari processi di concentrazione. I mulini e pastifici, che nel 1951 erano 29, sono diminuiti, ma quelli rimasti (Amato, Crudele,Fabbrocino, Scaramella) hanno una capacità produttiva superiore ed occupano 800 addetti contro i 441 operai del 1951. La chiusura dell’industria della canapa di Sarno, con 1.212 addetti, è apparsa particolarmente grave come pure la chiusura della Vetreria Ricciardi di Vietri, con 224 addetti o la Metalmeccanica Soriente con 300 addetti. Uno dei più alti contributi è stato attribuito alla “ Marzotto Sud” di Salerno, stabilimento di confezioni in serie, a cui è stato concesso un finanziamento sui fondi B.I.R.S. di 1 miliardo e 300 milioni. Esso, secondo la relazione del decimo esercizio della Cassa del Mezzogiorno, avrebbe comportato un investimento per impianti fissi di 1 miliardo e 625 milioni e per capitali circolanti di un miliardo e 200 milioni. Le aziende iscritte all’artigianato erano 9.759 nel 1958 e diventano 11.772 nel 1960. Tra esse, di rilievo, le 67 industrie ceramiche collocate tra Vietri, Salerno e la Costiera Amalfitana.

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Tra il 1951 ed il 1961 a Salerno si è avuto un eccezionale boom edilizio137. In tutta la Provincia sono stati costruiti, in tale periodo, 27.309 abitazioni con 150.206 vani. L’incremento della popolazione è stato del 30,2%. E’ eccezionale anche lo sviluppo del settore conserviero, bisognevole, però, di modernizzazione e qualificazione, per evitare posizioni di rendita parassitaria e realizzare un migliore e più competitivo sbocco di mercato alle produzioni del settore, proiettato naturalmente verso le esportazioni. La città di Salerno nel 1951 aveva poco più di 55.000 abitanti. Nel 1961 saranno 123.000. Dieci anni dopo, nel 1971, si raggiungerà la cifra di 154.000. Alla metà degli anni ’50, la situazione della Provincia si presentava in maniera particolarmente critica. Gli analfabeti o i semianalfabeti censiti erano 360.476, i cittadini che avevano potuto frequentare le scuole medie inferiori erano solo 26.762, quelli che avevano fatto le scuole medie superiori ad indirizzo tecnico, professionale ed artistico appena 3.763. La manodopera qualificata, a fronte delle ripetute crisi aziendali e delle smobilitazioni industriali, diventava sempre più scarsa. A livello politico la Democrazia Cristiana aveva il più stretto monopolio che si articolava fin nelle più profonde pieghe della società, con la propria rete organizzativa ed il totale controllo di tutti gli Enti Pubblici e dell’insieme dell’attività statale. La lotta operaia e sindacale aveva impedito il definitivo collasso delle industrie esistenti e forte era stato lo sviluppo della battaglia per l’industrializzazione138. Un nucleo industriale importante a Salerno, come prima si è accennato, era stato quello dei pastifici Scaramella, Amato, Ferro. I lavoratori pastai erano rimasti a lungo in una situazione di sostanziale passività. Poi acquisirono un peso ed un ruolo che crebbe, anche grazie alle lotte per il contratto. Il Sindacato aveva avanzato una richiesta di aumento di 10.000 lire per il premio di produzione. Pezzullo lo concesse, senza battere ciglio, ma evitando ogni contrattazione col Sindacato. Giuseppe Vignola protesterà aspramente per il metodo che è stato usato ed inviterà i lavoratori a continuare lo sciopero: nel comportamento di Pezzullo veniva rilevato un attacco, esplicito, al potere negoziale del Sindacato. La posizione assunta finirà, però, per rilevarsi un errore: non si era, infatti, accortamente considerato che il risultato raggiunto altro non era se non la conseguenza della lotta sviluppata. I lavoratori che, con la lotta, avevano conseguito un miglioramento salariale ovviamente non seguirono il Sindacato su quella che sembrava soltanto una questione di principio. Un altro punto organizzato importante per la CGIL era rappresentato dai tranvieri della So.me.tra. , protagonisti di assemblee difficili ed infuocate non di rado concluse 137

I dati statistici riassuntivi dello sviluppo dell’attività industriale e produttiva della provincia di Salerno sono presenti nell’articolo di Giuseppe Vignola, apparso su “Cronache Meridionali” del Febbraio-Marzo 1961.Vignola è stato Segretario generale della Camera del Lavoro di Salerno dal 1958 al 1963, prima di venir sostituito da Giuseppe Amarante, che ricoprirà l’incarico dal 1963 al 1970. E’ poi diventato Segretario nazionale della CGIL e, poi, segretario generale in Campania. Nel 1968 è deputato al Parlamento. A lui va il mio rimgraziamento per l’estrema disponibilità e cortesia dimostratami in occasione di un recente incontro che, insieme a Fernando Argentino e Claudio Milite, ho avuto con lui, a Roma, il 24 Maggio 2005. 138 Un dettaglio delle posizioni comuniste è nel Documento del Comitato Federale sulla politica e l’organizzazione del Partito nella Provincia di Salerno del 140


in rissa. Solo Vignola aveva tra i tranvieri una qualche autorevolezza e il “diritto” di partecipare, di parlare, di proporre. Si tratta di una fase storica in cui iniziavano a manifestarsi chiari segnali di ripresa dell’economia nella Provincia di Salerno. La ripresa sindacale è senza dubbio collegata al processo di rilancio economico ormai in atto. E’ del 1958, infatti, il forte impulso all’agricoltura nella Piana del Sele e l’avvio della sua trasformazione. E’ allora che inizia a svilupparsi la lotta, forte ed incisiva, per la riforma della Cassa del Mezzogiorno, per i lavori di bonifica della Piana, per la riforma agraria. La legge di riforma Gullo-Segni segna una fase, per così dire, “rivoluzionaria”. L’industrializzazione avrebbe dovuto assicurare alla provincia, a giudizio dell’opposizione comunista, in pochi anni, almeno 20.000 posti di lavoro e la mano pubblica, a partire dall’IRI, doveva rappresentare il pilastro della politica per la nuova industrializzazione. Nella Provincia di Salerno ciò doveva significare la creazione di alcune grandi industrie pesanti di base, come le imprese metalmeccaniche, attorno a cui avrebbe dovuto ruotare un potente indotto. Andava, inoltre, difesa e sostenuta la piccola impresa, decisiva per la rinascita della Provincia. Il processo di trasformazione strutturale che andava realizzato doveva garantire, parallelamente, migliori condizioni salariali e normative ai lavoratori e, eliminando discriminazioni, soprusi ed ingiustizie, doveva essere garantita una nuova libertà ed una nuova dignità alle forze del lavoro139. In quegli anni crescerà un nucleo di nuovi quadri politici e sindacali, da Alfonso Volino a Giuseppe Amarante, da Claudio Milite ad Alfonso Dragone, da Amedeo Manzo al gruppo degli edili, Matteo Ragosta, Giovanni Fenio, Mario Rainone, non molto attrezzati culturalmente ma con forte capacità di presa e grande ascendente sugli altri lavoratori. Il Sindacato salernitano poteva, al contempo, giovarsi di dirigenti seri, leali, autonomi ed autorevoli, come Raffaele Cacciapuoti e Armando Viviani che sarà un altro importante perno dell’organizzazione, garante, con correttezza, del rapporto di unità, di intesa e di collaborazione coi socialisti. Particolarmente abile nel condurre le trattative, Viviani è molto legato ai tranvieri coi quali mantiene un rapporto positivo e dei quali assume la rappresentanza, ridimensionandone le spinte ribellistiche e gli eccessi anarchicheggianti. Il 1958 è l’anno della nascita della “Marzotto”. Le assunzioni sono gestite, quasi interamente, dalla Cisl. Alla “Ideal Standard” sono, di converso, tutti segnalati dalla Uil. Terminata la costruzione della fabbrica, la CGIL riuscirà ad imporre l’assunzione nella “Pennitalia” di un forte gruppo di lavoratori edili che costituiranno in fabbrica la CGIL. L’ instabile equilibrio sindacale alla Marzotto esplode un anno dopo, nel 1959, con lo sciopero del cottimo. Nascerà da quella lotta la Commissione Interna e si avvierà una mutazione nei rapporti di forza tra le organizzazioni sindacali. 139

Posizioni dettagliatamente espresse nel Documento preparatorio del VI Congresso della Federazione Comunista salernitana, 22 - 25 Novembre 1956, in vista dell’VIII Congresso Nazionale del PCI. 141


Gli accordi alla Marzotto venivano definiti direttamente col conte Pietro. Nel 1969 essi saranno concordati da Giuseppe Vignola e da Carlo Fermariello. In quegli anni la CGIL era impegnata, con Novella e Foa, a riscrivere la propria linea politica, a ridefinire il ruolo e la funzione del Sindacato come non esclusivamente circoscritto alla tutela dei gruppi organizzati, a spingerlo ad esercitare una funzione più ampia e generale, anche politica. E’ la fase dell’espansione della CGIL. Eppure la Provincia di Salerno nel suo complesso, pur avendo vissuto intense trasformazioni, non si muove dalle ultime posizioni nella classifica delle province italiane. Il reddito pro-capite è inferiore addirittura al reddito pro-capite del Mezzogiorno che nel 1959 era di 156.509 lire! Il movimento sindacale ha sviluppato molte lotte in difesa dell’occupazione e contro i licenziamenti e molte di queste lotte si sono, tuttavia, concluse con sconfitte. E’ maturata, però, una nuova coscienza e, pur avendo colto in ritardo il processo di ammodernamento e di sviluppo in atto, è ora in grado di passare all’offensiva. Nel complesso, non si ha ancora una visione organica, d’insieme, dello sviluppo economico e dei processi di industrializzazione; manca un’ adeguata valutazione delle potenzialità produttive del territorio ed una proposta per valorizzarne le risorse: l’iniziativa sindacale e politica è ancora dominata, essenzialmente, dalla rivendicazione dell’intervento di stato e dalla ricerca di mitici interventi esterni. Uno slancio in avanti, in effetti, si era comunque registrato. La popolazione, nell’arco di 20 anni, era aumentata sensibilmente di 100.000 unità, grazie all’immigrazione nella città di abitanti venuti da altri comuni della Provincia ed anche dalla Calabria e dalla Lucania. E’ in questo periodo, relativamente breve, che si costruisce lo “sviluppo” distorto di una città che negli anni a venire avrebbe mostrato, inesorabilmente, tutti i suoi vizi e le sue storture. La città crebbe a dismisura, in maniera anarchica e convulsa, identificandosi in maniera pressoché assoluta con il suo Sindaco, Alfonso Menna. In quegli anni si svilupperà l’aggressione del fiume di cemento, versato copiosamente sul territorio. Saranno realizzate, allora, tutte le principali scelte d’urbanizzazione che segneranno il volto della città nei decenni futuri. Il Piano Regolatore della città, adottato nel 1956, sarà approvato soltanto 10 anni dopo dal Ministero dei Lavori Pubblici. Esso risulterà del tutto stravolto rispetto agli indirizzi originari, per essere, poi, sostituito da un “regolamento edilizio” risalente agli inizi del secolo che consentì ai costruttori assoluta mano libera: e lo scempio edilizio si consumò. Il patto stretto tra i costruttori edili e la classe politica consisterà nello scambio tra crescita dell’occupazione e livelli più alti di benessere, spesso apparente, e consenso e voti. Dall’intervento di cementificazione diffusa deriverà la distruzione dell’armonico ed ordinato assetto urbano della città: il Centro Storico raggiungerà, non a caso, il massimo livello di degrado e di deterioramento. Menna sarà l’uomo che incarnerà in sé una risposta, anche se confusa e disordinata, ai bisogni del tempo. La classe politica di governo non si distinguerà da quella impostazione ed, anzi, con Menna finirà per identificarsi integralmente. C’è da dire che Salerno, in quegli anni, si differenzia dalla gran parte del Meridione d’Italia. Il Meridione è in una situazione grave e stagnante, Salerno dà, invece, prova 142


di un dinamismo economico e produttivo del tutto imprevisto, in obiettiva controtendenza dal contesto generale del Sud: Salerno è il simbolo della concreta possibilità di una crescita rapida e significativa. Solo anni dopo, dagli inizi degli anni ‘70 in avanti, si avrà la netta e chiara percezione della qualità delle contraddizioni insite in quella fase di crescita e di sviluppo, quando si evidenzieranno tutte le distorsioni di una realtà urbana esplosa al di fuori di una forte e lungimirante idea progettuale. La città, per posizione geografica, per risorse, per antiche vocazioni, avrebbe potuto realizzare una crescita ordinata, se solo fosse stata inserita in una logica di contesto più ampio ed integrato, in una più larga visione di sviluppo, al centro del complesso della Provincia. La crescita, non a caso, finirà per bloccarsi nel periodo tra il 1971 al 1981, quando inizia la fine del sogno della “Grande Salerno”, in antagonista e velleitaria contrapposizione con Napoli, la città capitale della Regione. Il mare di cemento, la crescita senza controllo, l’estrema dilatazione della periferia urbana in direzione sud, lo sviluppo accelerato ed irregolare della zona orientale daranno vita ad una situazione, di nuova e perversa identità urbana, magmatica e caotica, su cui negli anni a venire sarà difficilissimo intervenire. Le Amministrazioni che si succederanno, da Alfonso Menna in poi, a partire da quella di Gaspare Russo, si troveranno a dover fronteggiare ostacoli e difficoltà inaudite. Il tasso di crescita irregolare e sbilanciato, l’assenza di equilibrio tra i vari settori merceologici e produttivi ed il sistema dei servizi, l’inesistenza di significative iniziative di qualificazione del sistema produttivo ed economico, la larga insufficienza di spazi per funzioni ricreative e culturali, la prevalente composizione sociale del tutto schiacciata su una identità in larga parte commerciale hanno, col trascorrere del tempo, esasperato gli elementi di gracilità e dipendenza economica nei processi di crescita e di sviluppo. Dopo l’illusione degli anni dell’industrializzazione e della politica dei “poli di sviluppo”, entra in profonda agonia il tessuto industriale, non sostituito da una presenza diffusa e qualificata di piccola e media impresa, sostenuta da servizi territoriali d’avanguardia. L’illusione di uno sviluppo più solido e duraturo dell’industria nelle aree di Battipaglia, nella Piana del Sele, nelle aree di montagna e di collina, indicate come poli di un nuovo sviluppo industriale, all’indomani del sisma del novembre 1980, rapidamente si liquefa. Una dopo l’altra moriranno le grandi imprese e l’occupazione sarà essenzialmente incentrata nel settore dei servizi e della Pubblica Amministrazione. Qui avverrà la concentrazione della maggior parte dei lavoratori attivi: 2.000 dipendenti nel Comune di Salerno, 1.500 nel principale Ospedale cittadino, centinaia nella Provincia, all’Inps, all’Atacs: strutture spesso del tutto sovradimensionate per addetti e che non sempre garantiranno ai cittadini servizi qualitativamente efficienti, moderni ed efficaci. A queste funzioni corrisponde, non di rado, un’insufficienza grave di servizi primari alle persone, dagli asili nido all’assistenza agli anziani ed ai portatori di handicaps. Il traffico caotico esplicita, a dismisura, l’immagine di uno sviluppo proceduto senza ordine, disciplina, razionalità e, soprattutto, senza progetto che incide, in modo del tutto negativo, sulla produttività d’insieme del territorio, che resta ancora oggi del tutto inadeguata. Anche nel settore del commercio, che pure dal 1971 143


al 1981 vede gli addetti aumentare da 7.200 ad 11.000, si sono manifestati ritardi gravi e preoccupanti, con la progressiva riduzione dei punti di alta qualità e di forte specializzazione e l’accrescersi della tendenza dei consumatori dei comuni a Nord di Salerno, da Cava a Nocera, ad Angri, a rivolgersi alle aree commerciali della città di Napoli. L’artigianato produttivo tradizionale, col passare del tempo, è sostanzialmente scomparso. Sono state soppresse laboriose fucine di mestieri secolari, con le evidenti ricadute negative sul tessuto economico generale. I centri di addestramento professionale, cresciuti di numero a dismisura, caratterizzano il proprio agire più per lo spreco di risorse pubbliche che per la capacità di fornire ai giovani specifiche capacità e competenze di mestiere, valide per essere spese, al meglio, nel mercato del lavoro. I quartieri a sud della città, come Pastena, Mercatello, Mariconda divengono aree dormitorio. L’area di Fuorni si trasforma in un miscuglio indistinto di realtà industriali, ospedaliere, commerciali, di servizi. I sogni di crescita degli anni ‘50, sotto i colpi della crisi, hanno finito per infrangersi miseramente. Nel 1982, in uno scenario di crisi preoccupante, solo la flotta tonniera salernitana darà segni di crescita e di vitalità: è tra le più importanti del Mediterraneo, con 2.000 addetti, un indotto di circa 6.000 unità ed un fatturato che si aggira intorno ai 30 miliardi. L’assenza di un vero porto turistico, la mancanza di programmazione per le strutture alberghiere necessarie, l’estremo degrado del litorale, gli incredibili ritardi nell’avvio dell’aeroporto di Pontecagnano hanno dato un definitivo colpo di maglio alle potenziali vocazioni turistiche della città. L’industria, a sua volta, appare ormai in ginocchio140.

025. L’intervento dell’IRI Nel 1960 le MCM passarono completamente all’IRI e la loro storia continuò all’interno dell’economia pubblica. Alla vicenda dell’industria tessile salernitana, alla felice intuizione imprenditoriale che ne consentì la crescita e l’apogeo, ma anche agli errori della strategia aziendale che ne hanno segnato la crisi e l’agonia, si riferisce, un articolo di Giuseppe Vignola “L’I.R.I. e le Cotoniere Meridionali”, denso di riflessioni e di approfondimenti specifici141. In esso si constata come il gruppo si dibatta, ormai da oltre un decennio, in una situazione di grave difficoltà. Lo Stato, come si è accennato, è fino ad ora periodicamente intervenuto per il ripiano del deficit annualmente registrato. Il bilancio del 1960 si è chiuso con una perdita di 2.264.622.091 di lire (le perdite del 1958 erano state, invece, di 3.895.053.495 lire e quelle del 1959 di 2.105.045.185 lire). L’IRI è, però, uscito da “quella clandestinità con la quale aveva accortamente 140

Tesi queste, sostanzialmente condivisibili, sostenute da Gianni Festa, ed apparse su “Il Mattino”, 11 Gennaio 1983. 141 In “ Cronache Meridionali”, Novembre 1961. 144


coperto le sue partecipazioni … ha dovuto acquistare la maggioranza delle azioni detenuta dal Banco di Napoli e assumersi la responsabilità piena della gestione delle MCM ”. L’industria tessile locale, grazie all’intervento dello Stato, non ha imboccato la strada della definitiva e comatosa crisi innanzitutto grazie alla grande spinta venuta dai lavoratori e dalle loro Organizzazioni Sindacali. Ecco perchè, secondo Vignola, l’intervento dell’IRI altro non ha rappresentato se non la conclusione di una grande battaglia democratica delle forze del lavoro ed “ … il risultato vittorioso di una lotta condotta in tutti gli stabilimenti nel corso del passato decennio contro i licenziamenti, i ridimensionamenti e i restringimenti produttivi, sostenuta da un profondo movimento di opinione pubblica e dalla solidarietà di tutte le forze politiche”. Nel 1938, le MCM avevano 8 stabilimenti nelle province di Napoli e di Salerno, con 264.080 fusi di filatura, 34.472 fusi di torcitura, 3.889 telai e una grande rete di rappresentanze e depositi in vari paesi d’Europa, d’Africa, d’Asia, d’America. Dopo la guerra, nel 1951 le MCM avevano ripreso il loro ritmo produttivo con un fatturato di oltre 12 miliardi e mezzo. Dal 1952 è, però, iniziata la fase calante da cui l’azienda non si è più ripresa. La crisi è attribuita dal Presidente del Consiglio di Amministrazione delle MCM, l’avvocato Azone, alle acute difficoltà nelle quali si dibatte il settore cotoniero nel suo complesso e alle tensioni generali di mercato. La situazione critica è aggravata dalla pletoricità degli organici e dall’incompletezza del processo di ammodernamento degli impianti. Nonostante le notevoli risorse, 6 miliardi di lire, erogate per i danni di guerra, le perdite sono continuate, divenendo, anzi, più elevate. Ed era stata questa la ragione di fondo che aveva indotto l’azienda a predisporre un complesso piano di ristrutturazione che avrebbe potuto ribaltare, in due o tre anni, la situazione di difficoltà. In realtà, già nel 1954, il processo di ammodernamento degli impianti poteva ritenersi concluso. Le MCM disponevano di 200.000 fusi di filatura, di 33.000 di torcitura, di 2.330 telai. Gli occupati erano già scesi a 6.789 operai. Il valore degli impianti era ora di 14 miliardi di lire. L’ammodernamento era costato circa 10 miliardi di lire. Il Banco di Napoli era creditore per 12 miliardi mentre i debiti a breve erano di 7 miliardi e 700 milioni. Furono, così, concessi alle MCM i 6 miliardi per liquidare i danni di guerra e la società fu invitata alla cessione delle quote possedute nel Fabbricone di Prato. Una manovra che non risultò sufficiente a riportare il bilancio in pareggio. Le riorganizzazioni che si susseguivano avevano puntualmente, come effetto, la drastica riduzione degli organici. Nel 1955 viene chiusa la Filatura di Pellezzano con il licenziamento di 1.000 operai, nel 1958 sono dimezzati i fusi di Nocera e licenziati 850 operai, gli altri stabilimenti subivano, a loro volta, colpi occupazionali, seppure in quantità minore. Il 27 aprile 1959, l’ing. Bruto Randone, in quegli anni Presidente delle MCM, annunciava che l’azienda, assestatasi a 3.698 operai, è finalmente “ … uno dei complessi tecnici più moderni e progrediti d’Italia … ormai la sistemazione tecnica dell’azienda può dirsi compiuta …”. Nel 1959, l’ammodernamento continua ed il valore delle macchine, degli impianti e degli immobili è di 20.609.542.134 lire. Nuovi investimenti sono previsti per la filatura e la tessitura. E ne saranno fatti ancora 145


altri nel 1960. E’, quindi, previsto un enorme processo di ammodernamento. Persiste ancora, riconosce Vignola, una differenza di produttività rispetto ai maggiori leader del settore nazionali ma le vendite all’interno aumentano, anche se le esportazioni di filati e tessuti si sono ridotte rispetto al 1951e le giacenze in magazzino si sono notevolmente incrementate. Ed in ogni caso, l’avvio di una svolta positiva è possibile. Indispensabile e, anzi, indifferibile è la realizzazione di un piano di aggiornamento della produzione, un ampliamento della tradizionale gamma dei prodotti, anche in direzione delle linee dell’abbigliamento ed dell’arredamento. Dovrà essere mantenuto il mercato interno, mentre, in breve tempo, dovrà aumentare la quantità delle esportazioni. Il settore, d'altronde, in quel periodo evidenzia, a livello nazionale, una tendenza alla ripresa. In questo contesto di congiuntura potenzialmente favorevole, le MCM, come denuncia il Sindacato, non svolgono, però, alcuna funzione trainante: manca un chiaro indirizzo produttivo, una precisa e mirata strategia e l’IRI, a consuntivo finale, dimostrerà, purtroppo, una grande incertezza nel cimentarsi su un progetto efficace di riorganizzazione e di rilancio del gruppo. Peseranno, in proposito, le ampie riserve sulla opportunità della prosecuzione di un diretto intervento dell’Ente in un settore produttivo ritenuto più idoneo all’iniziativa privata. A tal proposito, del tutto condivisibili appaiono le osservazioni di Vignola circa il fatto che “Le ragioni della resistenza dello Stato ad intervenire nel settore, più che nei motivi ufficiali, devono quindi … essere ricercati nella capacità di questi gruppi (del padronato tessile privato) di imporre ancora, almeno per quanto riguarda il loro settore, determinati orientamenti di politica economica”. Il Ministro Bo annuncia nella sua relazione programmatica del 1961 che, a Ferrandina, dopo la creazione dell’impianto petrolchimico, “verranno fabbricate anche fibre sintetiche, il che porrà le premesse per lo sviluppo, nella zona, di un’industria di filati e tessuti”. La legge del 2 Dicembre 1955, n.1589, all’art.3, istituiva il Ministero delle Partecipazioni Statali che avrebbe dovuto dar vita ad uno specifico ente di gestione per l’industria tessile statale. L’IRI avrebbe in tal modo svolto un ruolo d’insieme rivolto al complesso del settore in Campania, indirizzando l’attenzione anche alle piccole aziende, cui doveva essere assicurata la certezza di un costante approvvigionamento delle materie prime. In tal senso avrebbe dovuto garantire, per così dire, una efficace azione di supporto e di regia favorendo, anche per loro, nuovi sbocchi di mercato, interno ed estero. Le MCM avrebbero operato orientandosi anche in direzione dello sviluppo delle innovazioni merceologiche, lavorando le fibre sintetiche e le loro combinazioni con le fibre naturali, il lino, il cotone, la canapa. Al proposito va ricordato che a Sarno erano stati chiusi gli stabilimenti di lavorazione della canapa, ma iniziava una qualche ripresa di questa produzione. Le MCM, per poter continuare a svolgere un ruolo di difesa e propulsione, dovevano ormai fare la scelta, netta ed inequivocabile, di non soggiacere ai ricatti della impresa privata, accettandone la sfida della modernizzazione e della qualificazione delle produzioni. In tal senso, appariva indispensabile la riattivazione della rete di depositi 146


e di rappresentanza che, invece, era stata scientemente liquidata proprio per non disturbare l’impresa privata. Troppi episodi stavano, invece, a dimostrare come stesse attecchendo una linea di lento e progressivo disimpegno della mano pubblica, a partire dal non pieno utilizzo delle macchine e degli impianti, lasciati deperire: una politica, quindi, di segno diametralmente opposto alle necessità dell’ora. La lotta da sviluppare assumeva, perciò, valenza generale: essa non poteva né doveva limitarsi all’azione di difesa contro i licenziamenti, ma puntare, piuttosto, al rilancio ed allo sviluppo industriale del settore tessile pubblico. E ciò andava combinato con l’azione sindacale per il raggiungimento di migliori condizioni salariali e normative, con lo sviluppo di una forte iniziativa per pervenire alla riduzione dell’orario di lavoro, alla contrattazione degli organici ed alla partecipazione operaia al controllo della produzione, ad aumenti di produttività. La lotta per la salvezza, la qualificazione, il rilancio del tessile pubblico si configurava sempre di più come una lotta simbolo, pietra di paragone esemplificativa della qualità della generale politica di sviluppo economico del Mezzogiorno. In realtà la crisi si trascina ancora a lungo, per iniziare a precipitare verso la fine degli anni ‘70 e all’inizio degli anni ‘80. Di sicuro la vicenda industriale di cui ci si è occupati, senza il frequente intervento di sostegno assistenziale dello Stato, che certo non favorì l’avvio e la sperimentazione di diverse e più aggressive iniziative produttive ed industriali, si sarebbe, senz’altro, conclusa molto tempo prima. Col trascorrere del tempo e con il susseguirsi dei cambiamenti degli assetti proprietari, era ormai venuta meno l’originaria mentalità imprenditoriale che era stata in grado, per una lunga fase, di fronteggiare con efficacia la concorrenza interna ed internazionale. Le misure di riorganizzazione e di rilancio produttivo auspicate non saranno messe in atto, anzi s’innesterà una fase di sostanziale inerzia, rappresentazione degli orientamenti politici di disimpegno della mano pubblica dal settore che, lentamente, finirà per concretizzarsi nella liquidazione delle imprese.

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026. Gli anni ‘60 a Salerno La fine degli anni ‘50 e tutti gli anni ’60 sono quelli della grande trasformazione urbana della città di Salerno: una trasformazione convulsa e tumultuosa che cambierà radicalmente la fisionomia dell’insieme del contesto cittadino, dilatando i vecchi confini con una fortissima crescita edilizia che, nelle intenzioni della classe politica del tempo, dovrà favorire un grande balzo in avanti del ruolo e della funzione storicamente ricoperta da Salerno nella geografia e nella gerarchia di potere della Regione Campania. Sono gli anni dell’accentuazione del carattere competitivo ed antagonista a Napoli, al grande aggregato metropolitano che ha sempre finito per condizionare, in maniera decisiva, le scelte ed i destini della Regione Campania nel suo complesso. Salerno vivrà una fase dinamica, di importanti trasformazioni, stabilmente caratterizzata dal ruolo d’assoluta centralità ricoperta nella gestione del potere nelle sue articolazioni economiche, finanziarie e produttive dal Partito della Democrazia Cristiana. Nel 1946 era già iniziata la grande ascesa della Dc che aveva raccolto 100.000 suffragi, diventando il primo partito con il 30% dei voti. Le Destre demoliberali si erano attestate al 23%, mentre l’estrema destra di ispirazione fascista aveva conseguito il 17% dei voti. Completavano il quadro l’11,9% riportato dal centro sinistra laico. Le sinistre si erano limitate al 14,2%. Il 18 aprile del 1948 la Democrazia Cristiana quasi raddoppiava i voti conseguendo, con il 55% dei suffragi, la maggioranza assoluta dei consensi. Ciò avveniva a scapito dei liberal- conservatori che subivano una fortissima flessione, dal 23 al 7%, e delle formazioni del centro sinistra laico che passavano dal 11,9 al 3%. Le sinistre, nell’occasione, aumentavano dal 14,2 al 16,5% e la destra monarchica e fascista incrementava i propri consensi, passando dal 17% del 1946 al 19,7 % del 1948. I principali rappresentanti locali del Partito Democristiano in questa fase sono Carlo Petrone e Carmine De Martino. In entrambi spiccata è la propensione anticomunista. 148


Il conflitto che porterà i due esponenti democristiani a scontrarsi aspramente ha origini lontane ed è individuabile proprio nel periodo immediatamente successivo al crollo del regime fascista. Carlo Petrone è stato un autorevole esponente dell’antifascismo d’ispirazione cattolica ed ha collaborato con gli anglo-americani sostenendo, attraverso “ Radio Londra ”, la campagna antifascista. I gruppi imprenditoriali, ormai consapevoli della definitiva capitolazione dello Stato fascista, ricercano una nuova collocazione, puntando all’entrismo nella DC in maniera tale da impadronirsi o condizionare fortemente il Partito: gli sconvolgimenti determinatesi con la guerra non dovranno in alcun modo inficiare il loro antico predominio. Carmine De Martino, il più grande agrario ed industriale, padrone dell’industria del tabacco, della rete tranviaria, di varie aziende conserviere inizia a perseguire questo obiettivo, immettendo tutta la propria potenza economica in questa operazione di conquista del potere. Nella prima fase le sue velleità sono ostacolate e bloccate da Carlo Petrone che intende, pur all’interno di un’esplicita impostazione moderata ed anticomunista, iniziare a costruire un partito cattolico dai tratti democratici, popolari, antifascisti, collegato alla nascente rete delle organizzazioni sindacali, giovanili, cooperative: un partito competitivo e contrapposto alle sinistre, ma comunque una nuova organizzazione di massa, in grado di superare il precedente modello liberale di gestione trasformistica della società, garantito dalla funzione, pressoché esclusiva, del vecchio notabilato e delle sue clientele. Il modello demartiniano è, invece, spregiudicatamente teso alla conquista del potere in quanto tale ed alla creazione di un blocco, di natura clericale e reazionaria, in cui la sua persona emerga quale riferimento leaderistico esclusivo. Per raggiungere lo scopo, egli lancia nella contesa tutta la sua potenza economica e, dopo il sostanziale insuccesso del suo primo tentativo, riesce a perseguire i propri intenti candidandosi, come cattolico indipendente, nelle liste dell’U.D.N., nel blocco liberale e democratico costruito in aperta concorrenza con la DC di Carlo Petrone. De Martino riesce, addirittura, ad impedire l’elezione di Petrone nelle liste della DC, grazie all’azione disgregatrice che, contro Petrone, svolgeranno i suoi stessi amici di partito. De Martino raccoglie un consenso plebiscitario, risultando primo degli eletti nell’UDN e, da quel momento, la strada per l’ingresso nella DC e per la conquista del partito procede spedita senza alcuno ostacolo. Dalla parte di De Martino hanno giocato un ruolo decisivo i gruppi economici tradizionalmente dominanti nel territorio, le forze d’ispirazione monarchica e gli alleati ma, soprattutto, è risultata determinante la funzione di sostegno del clero, col Vescovo e tutte le gerarchie ecclesiastiche. La rottura dell’unità antifascista che si è consumata a livello nazionale accentua le tendenze alla mutazione dei caratteri del partito cattolico. Esso, da partito di massa e popolare, tende a caratterizzarsi, invece, sempre di più, come punto privilegiato ove si configura e si realizza la ricostruzione dell’antico blocco trasformistico. De Martino, nella sua impostazione, mischia elementi di paternalismo con un uso disinvolto, discrezionale e spregiudicato delle provvidenze statali. Egli fa, infatti, 149


leva sul grande bisogno di lavoro, attivando coi propri canali molte assunzioni clientelari nei suoi tabacchifici e nell’azienda filotranviaria. Inizia, inoltre, una campagna per dare a Salerno un nuovo grande ospedale ed un grande porto ed accentua, al contempo, la sua frontale azione anticomunista. Incentiva la crescita dell’edilizia popolare, investe nell’edilizia scolastica, crea Istituti bancari, come la Banca di San Matteo, accentua tutti gli elementi di municipalismo e di campanilismo. Petrone è messo progressivamente sempre più fuorigioco mentre De Martino rafforza il controllo, anzi, il proprio dominio sul partito142. Le interne articolazioni del notabilato locale finiscono, così, per riconoscere sempre più la sua autorevolezza personale più che quella del Partito. Nel 1953 la Dc subisce però una dura sconfitta, passando dal 55% al 34,3%. Le sinistre avanzano dal 16,5 al 26,5%. Il PCI giunge al 18%. Le destre, a loro volta, crescono dal 19,7 al 29%. Nel 1953 la direzione del Partito passa nelle mani di Fanfani che si collega ai gruppi tecnocratici più dinamici della società nazionale. Egli punta alla realizzazione di un profondo ammodernamento delle strutture capitalistiche, grazie al controllo capillare del sistema dell’intervento pubblico. Persegue l’obiettivo della maggioranza assoluta in Parlamento e la contemporanea riduzione della forza degli alleati. Il dinamismo fanfaniano ha un suo riflesso nella situazione locale. Le forze interne che a lui si riferiscono iniziano a mostrare segni d’insofferenza per il modello, fisso ed ibernato, di De Martino ed a richiedere più spazio. Si moltiplicano le iniziative ed i convegni pubblici nei quali esplicita traspare la tensione volta a ristabilire un rapporto, più forte e dinamico, con le forze popolari che si riferiscono al partito cattolico. Cresce la rete degli organismi categoriali, si moltiplica l’assalto per la conquista degli Enti Pubblici e le varie articolazioni di sottogoverno, si utilizza in modo spregiudicato il nuovo strumento della Cassa del Mezzogiorno e si cerca di affidare la direzione di tali incarichi a questo nuovo e dinamico personale tecnico che dovrà rispondere delle proprie azioni e della qualità dei propri risultati al partito. Inizia, pure all’interno di un processo rivolto all’attuazione di elementi di neomodernizzazione, il metodo dell’affidamento degli incarichi e dell’occupazione dei vari gangli del potere in relazione ai requisiti di fedeltà e di appartenenza più che a quelli di dimostrata capacità e competenza. La situazione nuova che si è messa in moto allarma De Martino ed i suoi uomini che, nella dialettica interna, passano all’opposizione di Fanfani. De Martino manterrà ancora per qualche tempo la propria funzione di leader indiscusso, ma è ormai concluso il periodo d’oro della sua fase 142

L’ascesa di Carmine De Martino negli anni ‘50 è, in larga parte, dovuta alla grande potenza economica messa in campo per la conquista del consenso elettorale: una forza che si consolida grazie all’utilizzo delle provvidenze pubbliche garantite dalla Cassa del Mezzogiorno.Il nucleo delle forze principali a suo sostegno sarà costituito dalla Saim, (tabacchicoltura), dall’industria casearia, dal credito agrario, dalla Secer nell’edilizia, dalla Teps nel settore trasporti. Le forze sindacali, che negli anni ’50, iniziano a strutturarsi ricercando una qualche autonomia, per una fase, svolgeranno una funzione in sostanza complementare al sistema politico, economico, clientelare di De Martino che, raccolti intorno a sé i principali ceti produttivi, farà loro assumere ruoli amministrativi di rilievo, articolando un composito sistema di potere sotto il proprio stretto controllo. Nel periodo fascista, uomo chiave era stato Mario Iannelli, sottosegretario alle Comunicazioni dal 1935 al 1943, poi segretario comunale e tra i principali gestori delle risorse seguite all’alluvione del 1954. 150


politica. La lotta, ingaggiata nel partito contro di lui da parte dei gruppi della sinistra interna, si concluderà in pochi anni, entro il 1963, con la sua sconfitta, in concomitanza con l’avvio della politica del centro-sinistra e del lancio della campagna per la creazione dei “poli di sviluppo”. Dal 1963, Vincenzo Scarlato e Bernardo D’Arezzo s’insediano stabilmente alla direzione del partito.143 Salerno, sotto la guida dei governi democristiani ed, in specie, del Sindaco Alfonso Menna, vedrà, come si diceva, una fase di crescita veloce, anarchica, tumultuosa, imperniata essenzialmente sull’accelerazione dello sviluppo edilizio, con la costruzione di migliaia di nuove abitazioni, in particolare nella parte meridionale del suo territorio che guarda verso i confini della Piana del Sele. L’estrema dilatazione delle opere pubbliche, se da un lato costituisce l’occasione per dare una risposta, seppur parziale, alla grande fame di lavoro di migliaia e migliaia di disoccupati, pur tuttavia, mette in moto, per la sostanziale anarchia ed assenza di regolamentazione del suo procedere, distorsioni gravi, vere e proprie devastazioni ambientali, le cui negative conseguenze si percepiranno, in maniera sempre più evidente, nei decenni a venire. Il processo di urbanizzazione deve anche rispondere alle accelerate migrazioni che si riversano dalle aree interne, dal Cilento e dalla stessa Basilicata, sul Comune capoluogo. A Salerno città si sta attrezzando tutta una filiera di servizi amministrativi e burocratici che concorre a tratteggiare una diversa identità dei gruppi sociali. La città inizia a diventare prevalentemente commerciale ed impiegatizia, più ampio e pervasivo diviene il ruolo e la funzione della Pubblica Amministrazione. L’illusione di uno sviluppo diffuso ed a tappe accelerate si pone l’obiettivo di affiancare all’incremento delle attività edilizie, del commercio, del pubblico impiego e delle varie funzioni amministrative anche una importante presenza industriale. Essa deve essere in grado di dimostrare la realizzabilità, a tappe decise ed accelerate, di un nuovo e rilevante processo di industrializzazione, essenziale per la ridefinizione di una nuova e moderna identità della città e della provincia salernitana. La classe politica locale ritiene possibile perseguire un tale obiettivo, con il rapporto di intermediazione di interessi che può garantire col governo centrale e grazie all’uso disinvolto delle agevolazioni per le imprese che decidono di investire nel Mezzogiorno. La sintonia e l’accordo tra poteri locali e nazionali col sistema della grande impresa, allo scopo aiutata e intensamente agevolata e foraggiata, può dare luogo, anche in questa realtà territoriale, alla realizzazione del grande miracolo economico. Si può ben intendere il carattere tutto “dirigistico” di questa impostazione che verrà perseguita con grande determinazione, dando vita, per una fase relativamente lunga, ad un consenso sociale diffuso e capillare che unificherà, in maniera sintonica, classe dirigente locale e larga parte dei ceti popolari proletari o 143

Le sinistre, ed in specie l’opposizione comunista, non apriranno subito una riflessione circostanziata sulle caratteristiche e sulla specificità del partito Democristiano in Provincia di Salerno. L’approfondimento più accurato sui caratteri peculiari di questa storia sarà proposto solo diversi anni più tardi, nel Convegno “La Dc in Provincia di Salerno” del 12 e del 13 Dicembre 1973. Gli atti, con le relazioni, ricche di spunti ed approfondimenti fecondi, di Gaetano Di Marino, Rocco Di Blasi e Franco Fichera saranno pubblicati nel volume dall’omonimo titolo, a cura di Pietro Laveglia Editore, nel 1975. 151


sottoproletari dei vecchi quartieri cittadini che già si preparano a migrare dalle vecchie e decrepite abitazioni del centro storico verso la zona sud della città. Una tale linea finirà per essere del tutto schiacciata sulla propagandistica prospettiva della creazione della “grande Salerno”. In questa transizione finiranno per scomparire varie forme produttive antecedenti, artigiane ed operaie, di piccole e medie dimensioni e di mestieri, sacrificati ad altre soggettività economiche e sociali. Professioni antiche e tradizionali disperse o quasi del tutto scomparse, a fronte del miraggio dell’industrializzazione diffusa e duratura del Mezzogiorno. La Democrazia Cristiana presenterà a Salerno un ricorso, poi accolto, per irregolarità elettorali e ciò provocherà lo scioglimento dell’Amministrazione con conseguente nomina di un Commissario Prefettizio che governerà la città per due anni, fino alle elezioni del 1956. La DC, in questa occasione, presenterà una lista capeggiata da Alfonso Menna, già da due decenni Segretario Generale del Comune, profondo conoscitore dell’amministrazione ed uomo legato a tutte le personalità cittadine più in vista e ai circoli burocratici e finanziari della città, relazioni che gli consentiranno la rapida scalata al potere e la sua conservazione per un lungo periodo. Il primo e più rilevante confronto tra forze di governo e forze di opposizione avverrà in occasione della discussione sul Piano Regolatore. L’opposizione attaccherà con durezza la filosofia di fondo del Piano che non sembrava tenere nel conto dovuto la crescente immigrazione che dalla Provincia aveva iniziato a riversarsi sul capoluogo. La sinistra riteneva che ciò dovesse comportare l’avvio di un forte piano di edilizia economica e popolare con connesse infrastrutture e assi di sviluppo che considerassero, in via prioritaria, la striscia di territorio proiettata verso la Piana del Sele. Doveva essere, inoltre, costruito un nuovo porto commerciale ed industriale, collegato ad un’area industriale modernamente attrezzata. Era, poi, necessario considerare l’urgenza di una riorganizzazione della rete ferroviaria che evitasse il rapido congestionamento della zona urbanizzata. Invece continuerà a prevalere un’impostazione che concepiva la città compresa tra il Teatro Verdi e la Stazione Ferroviaria. La nuova edilizia residenziale qualificata s’indirizzò verso la zona collinare che conduceva a Fratte e, di lì, a Pellezzano ed all’avellinese. L’edilizia popolare si sarebbe dovuta sviluppare nella zona orientale, in direzione di Pontecagnano. Il non avere in alcun modo considerato tale ipotesi è stata la causa vera dell’ingolfamento delle strade di comunicazione urbane e di quelle di collegamento tra Salerno ed Avellino, con l’ovvia conseguenza della ridotta produttività delle funzioni del territorio. Tale politica urbanistica ha finito per far lievitare a dismisura la rendita fondiaria nelle zone prescelte con enormi guadagni per i proprietari delle aree. La trasformazione del vecchio piccolo porto in un grosso porto commerciale ha, inoltre, prodotto supplementari difficoltà di collegamento con l’Autostrada del Sole e la 152


Piana del Sele, oltre ad avere liquidato le antiche spiagge e la possibilità di un lungomare fino a Vietri. L’altro importante punto di scontro al Comune avverrà sul nodo dell’ubicazione dell’Università degli Studi. Menna e la destra salernitana proponevano la sede di Salerno. La sinistra, d’intesa con la sinistra democristiana e con De Mita era invece dell’avviso di creare una vera città universitaria a Nord di Salerno, nell’area di Fisciano, in un ambito territoriale mediano tra le città di Avellino e di Salerno, cosa che, poi, come è noto, è effettivamente avvenuto. Evidente fu allora il prevalere di una visione, chiusa e municipalistica, che non vedeva le trasformazioni che si stavano realizzando e che andavano, invece, governate. Il peso condizionante dei poteri finanziari e della rendita sui processi descritti è del tutto evidente.

027. Salerno e la Provincia: l’illusione dell’industrializzazione. Alfonso Menna. L’Isveimer.

Il Sindaco Alfonso Menna, nel periodo che intercorre tra il 1963 al 1974, ricoprirà l’incarico di Presidente dell’Isveimer. Sarà un protagonista, nel bene e nel male. Da più parti dipinto come “il grande elemosiniere”, utilizzando gli ampi poteri conferitigli dal ruolo che è chiamato ad esercitare, influenzerà le vicende politiche cittadine e provinciali grazie al potere di concedere o negare un finanziamento a chi ne fa richiesta. Dimostrando una estrema abilità nella lotta politica, eviterà sempre di schierarsi con una corrente democristiana o con un’altra. Ciò gli consentirà, secondo molti, di mantenere a lungo i ruoli e le funzioni che gli sono state affidate. Senza dubbio con la sua direzione sarà introdotto un indiscutibile elemento di novità, di dinamismo ed efficienza, che porterà una obiettiva rottura nel clima, nella mentalità e nelle abitudini segnate da eccesso di formalismo burocratico che hanno caratterizzato le fasi antecedenti. L’Isveimer è sorto nel 1938, come filiazione del Banco di Napoli, con il compito d’introdurre, nel Sud continentale, la pratica della corresponsione del credito, a medio e lungo termine, alle imprese che intendono impegnarsi nelle attività imprenditoriali ed è immaginato come uno strumento per concorrere a superare la condizione di arretratezza e di ritardo del Sud rispetto al Nord del Paese, riequilibrando la situazione. L’Istituto avrà un incremento della propria dotazione finanziaria a partire dal periodo 1959-1963, nel suo secondo quinquennio di vita, quando le risorse, a vario titolo

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disponibili, risulteranno più che quadruplicate rispetto al quinquennio antecedente. Nel 1963, il Fondo di dotazione era di 5 miliardi di lire, eguale a quello del 1953. Menna puntò, per prima cosa, a ridurre drasticamente la durata media delle istruttorie per il riconoscimento della legittimità al finanziamento, sostenendo, con fermezza, la linea che chiunque avesse avanzato richiesta di aiuto finanziario all’Ente aveva diritto ad una risposta rapida, positiva o negativa che fosse. Creò, a tal fine, uffici di rappresentanza dell’Ente nei vari capoluoghi della Regione in modo tale che, nella fase d’istruzione delle pratiche, fosse fornito un aiuto concreto ed una maggiore vicinanza al cittadino. Consentì la più ampia e precisa diffusione della conoscenza sulla legislazione speciale creata per il Mezzogiorno. La progettazione dell’iniziativa industriale non doveva, a suo avviso, essere delegata soltanto al singolo imprenditore ma favorita dal complesso delle istituzioni. Obiettivamente, con la sua gestione, fu progressivamente e definitivamente liquidata la pletora di personaggi che, spesso per millantato credito, agivano facendo presumere di essere i soli in grado di portare a buon fine, per i propri legami, l’esito delle istruttorie in corso. Il Sindaco di Salerno strinse rapporti sempre più stretti ed efficaci con le locali Camere di Commercio e con le Associazioni degli Industriali. Ed inaugurò la consuetudine dei dibattiti pubblici sull’attività dell’Ente da lui diretto. Le forze politiche, le istituzioni, le forze economiche potevano essere, così, pienamente coinvolte, informate, corresponsabili dell’attività dell’Ente stesso. Menna sostenne decisamente la politica e l’illusione dei “poli di sviluppo”. A suo avviso, non ci si doveva limitare al finanziamento ed alle agevolazioni alle grandi imprese pubbliche o private che pure avevano iniziato ad intervenire con una qualche forza nella realtà meridionale e campana. Egli riteneva che le piccole e medie imprese avrebbero potuto assumere un ruolo ed una funzione sempre più centrali e determinanti. Il fatto che le piccole imprese, a conduzione spesso familiare, potessero essere aiutate, con la progettazione e con adeguati e tempestivi finanziamenti, era la garanzia di una loro possibile espansione e, soprattutto, il segno che tali insediamenti avrebbero potuto reggere e durare a lungo nel tempo, determinando la nascita ed il consolidamento di un diffuso ed avanzato sistema locale di piccole e medie imprese, come quello nato nelle aree del centro Nord. Menna riteneva che, al fianco della grande e media impresa, per essere competitivi come territorio, dovesse essere sviluppato anche tutto il composito tessuto di piccola impresa locale. In realtà un tale disegno non si realizzerà nè nell’area salernitana, nè nella Regione Campania, nè nel Mezzogiorno, dove non si era ancora sviluppata una incisiva ossatura di un’economia incentrata sulle piccole e medie imprese. Le tesi di Alfonso Menna, seppure mai così esplicitamente enucleate, erano in palese controtendenza con le posizioni politiche in larga parte prevalenti e secondo cui era necessario veicolare la positiva fase economica, che andava consolidandosi con l’avvio del boom economico nazionale, nella direzione di un contemporaneo e diffuso grande balzo in avanti dello stesso Mezzogiorno: la vera attenzione era, allora, tutta concentrata sulle possibilità di espansione della grande impresa. 154


C’è, al proposito, da considerare un elemento di evidente discrasia e divaricazione tra la situazione del Centro Nord e quella dell’Italia Meridionale, i cui tratti essenziali si erano evidenziati già nell’immediato secondo dopoguerra. Nel Mezzogiorno la base sociale della popolazione era, in larga prevalenza, contadina. Dopo la grande epopea delle lotte per l’occupazione e la distribuzione delle terre incolte ai contadini, realizzatesi, in verità, in dimensioni ben più ridotte e limitate da quanto auspicato dalle leggi di riforma Gullo, era iniziato un massiccio processo migratorio, che aveva portato al Nord Italia e all’estero milioni di lavoratori meridionali che contribuiranno in maniera decisiva al grande sviluppo del Nord del paese, della Germania, della Francia, della Svizzera, determinando, però un massiccio impoverimento della forza lavoro e lo svuotamento di tanti comuni meridionali nei quali, spesso, restavano soltanto vecchi, donne e bambini. Un processo di una tale profondità ed estensione non si registrerà nel Centro Nord, dove, piuttosto, la vecchia e tradizionale famiglia contadina si trasforma in piccola impresa industriale. Di frequente, ai lavoratori impegnati per una vita nel lavoro di fabbrica, più che i soldi della liquidazione sono ceduti i macchinari, che consentono di attrezzare in proprio una nuova attività. Il processo è così diffuso ed esteso che, dopo una prima fase, tra i piccoli produttori del centro e del nord avanza e si rafforza una mentalità, cooperativistica e consortile, che li porta a cimentarsi con problemi nuovi, a partire da quali siano le modalità più efficaci per reggere nel sistema competitivo di mercato. Essi ampliano i propri orizzonti, conoscono, resistono, crescono, si affermano, si professionalizzano, innovano nei materiali e nelle tecniche di lavorazione, affinano le proprie competenze, “sentono” come propria l’attività che svolgono nell’impresa che, spesso, si configura quale nucleo a conduzione essenzialmente familiare. Nel Sud un tale processo è, invece, del tutto inesistente. E’ attesa una soluzione dall’alto, miracolistica, che col tempo si identificherà, schematicamente, o con il miraggio della grande impresa o con l’impiego pubblico, prospettive che, alla verifica pratica, non risulteranno affatto decisive per superare il problema, antico e drammatico, sempre più acuto, di un tasso di inoccupazione e disoccupazione ben superiore a quello del Centro Nord. E’ evidente come il forte prestigio e l’obiettivo potere che si concentra nelle sue mani, pur in presenza di un’indiscussa serietà e di un acclarato disinteresse personale nella gestione della cosa pubblica, gli consentirà di mantenere gli incarichi affidatigli dal governo e, in specie, dal Partito Democristiano. In ogni caso, Menna gestisce l’Isveimer quale strumento chiave per la realizzazione di quell’ambizioso tentativo di industrializzazione. L’opinione del Presidente diviene di frequente decisiva nell’assunzione delle decisioni: chi ha la responsabilità di decidere come ed a chi erogare i crediti non può, né vuole, evidentemente prescindere da un raccordo e, magari, da un’intesa preventiva con la Presidenza144. 144

Su tutta la vicenda del ruolo svolto da Alfonso Menna nella direzione dell’Isveimer negli anni dal 1963 al 1974, è utile la lettura del libro di Nino Lisi, stretto collaboratore di Menna, “Un uomo inquieto alla guida dell’Isveimer”, De Luca Editore Salerno, Roma, Dicembre 1991. Il volume è denso di apprezzamenti e di 155


Ed è perciò che la funzione di Menna si configura, così, sempre di più, come quella del grande elemosiniere. Uomini come Pastore sostenevano la linea che la questione meridionale andasse assunta ordinariamente quale grande questione di tutto il paese, decisiva per la sua generale modernizzazione. Ed in tali direzioni parevano convergere le idee di Menna. Quando, però, apparirà chiaro che in tal senso non si procedeva con la coerenza e la forza necessarie, Menna spenderà tutta la sua energia per trarre dall’intervento Isveimer il massimo profitto per la propria città. Una fase difficile fu quella aperta con la stretta creditizia del 1963 e, soprattutto, il periodo tra il 1964 ed il 1968, quando la crisi finirà per esplicitarsi in tutta la sua portata e si avvieranno i primi processi di ristrutturazione. Gli investimenti industriali nel Mezzogiorno caleranno drasticamente. Alle imprese finanziate nel periodo tra il 1962 ed il 1963 vennero meno le erogazioni su cui avevano fatto affidamento per l’avvio delle attività. Menna, in quel difficile contesto, riuscirà ad ottenere le autorizzazioni dalla Banca d’Italia per l’emissione di prestiti obbligazionari, aprirà agli industriali settentrionali, spiegando il vantaggio che ad essi poteva derivare se avessero optato per un intervento diretto nel Mezzogiorno e sostenendo che, se avessero avuto coraggio, il ritorno della fase positiva della congiuntura li avrebbe molto favorito, rispetto ai loro colleghi che tale spirito d’intrapresa non avevano, invece, dimostrato. Le condizioni di agevolazione al Sud erano, in effetti, particolarmente vantaggiose. Lo stato delle infrastrutture era migliorato notevolmente ed era possibile disporre di manodopera capace ed intelligente. L’area salernitana poteva essere utilizzata per una nuova fase di espansione industriale, anche in considerazione dell’asfissia e della congestione degli spazi al Nord . Alla fine del 1966, risultavano aperti 525 mutui a 322 imprese, per un conto di 30 miliardi. Negli anni ’70, l’Ente era ormai uno degli organismi di maggiore rilievo nell’ambito della strumentazione dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno, vantando una solida struttura finanziaria ed una clientela scelta e qualificata. Il verbale della seduta consiliare del 24 settembre 1974 faceva rilevare, con l’intervento del Presidente, come “ Tra il 1963 ed il 30 settembre di quest’anno gli impieghi sono passati da 329 miliardi ad oltre 1.000 miliardi; le obbligazioni in circolazione da 164 miliardi a 966 miliardi; il fondo di dotazione, quello speciale e quello rischi, da un totale di circa 18 miliardi ad oltre 67 miliardi; i fondi di liquidazione e previdenza per il personale da circa 800 milioni ad oltre 9 miliardi e mezzo. Le operazioni fatte dall’Istituto dal 1954 al Settembre 1974 sono n. 6.265 per l’importo complessivo di L . 1.859 miliardi 193 milioni 915 mila; negli undici anni e più della mia Presidenza di esse sono ben 3.749 per l’importo di 1.482 miliardi 320 milioni 117 mila. La oculatezza della gestione e l’efficienza raggiunta sono dimostrate dai risultati dell’esercizio decorso, per il quale si è registrato un “margine operativo” di 20 miliardi e 600 milioni circa. L’Isveimer, tra tutti gli Istituti che operano a medio termine, è quello che ha personale, sincero rispetto ed ammirazione per il modo d’interpretare il ruolo e la funzione di Presidente da parte dell’ex Sindaco di Salerno. 156


maggiormente operato, raggiungendo ben il 45% di tutti i finanziamenti industriali concessi nel Mezzogiorno Continentale”145. Nascono in quegli anni la Pennitalia, l’Ideal-Standard, la Landis e Gyr e, soprattutto per il settore tessile e dell’abbigliamento, la Marzotto Sud o “Issimo” 146: non si tratta di aziende grandissime, solo 4 o 5 supereranno i 400-500 dipendenti, ma sufficienti a prefigurare l’idea della possibilità concreta di una nuova prospettiva di trasformazione industriale della Provincia. La struttura industriale si riarticola con la nascita di nuovi settori, ma finirà per risultare ben presto evidente come i nuovi insediamenti procedano in assenza di una visione organica d’insieme, senza un’accorta valutazione delle possibilità di espansione. Nessuna delle nuove imprese è, perciò, destinata ad assumere funzioni d’avanguardia né realizzerà alcuna specializzazione in grado di portare ad un’ulteriore fase di crescita per naturale gemmazione. L’Isveimer avrebbe dovuto, inoltre, diventare il braccio finanziario operativo delle Regioni d’imminente realizzazione anche in considerazione della nuova impostazione conferita all’intervento straordinario nel Mezzogiorno con la promulgazione della Legge n. 853. Menna difenderà orgogliosamente il fatto che, pur a fronte delle crisi che avevano investito l’economia nazionale, l’Istituto, sotto la sua guida, aveva sempre assicurato la continuità e la regolarità delle erogazioni. Era riuscito, in tal modo, ad aiutare le aziende in difficoltà, consentendone la difesa ed il risanamento. Passo dopo passo, era diventato il maggiore Istituto di credito a medio tempo di tutto il Mezzogiorno continentale. Menna lascerà la guida dell’Isveimer nel settembre 1974. Il distacco storico, oggi possibile, consentirà di individuare meglio i gravi errori di valutazione e di strategia solo due decenni dopo, quando tutta la costruzione ideologica e politica, a quel tempo immaginata, finirà per sgretolarsi. In realtà, da più parti si è ritenuto che l’abilità di Menna sia stata nella gestione corrente dell’affido dei finanziamenti. Di frequente si è rilevato come consistenti contributi, anche di decine e decine di miliardi, siano stati dati a soggetti che non avevano alcuna specifica esperienza industriale e che, pertanto, non avrebbero potuto reggere al momento di più forti difficoltà. La localizzazione delle imprese era stata, inoltre, concentrata a Salerno città o nelle immediate vicinanze. L’aumento dell’occupazione sarà intorno alle 13.000-15.000 unità ma tale incremento si contrarrà fino quasi ad esaurirsi già verso la fine degli anni ‘60. Si paleserà allora, drammaticamente, il disequilibrio territoriale nello sviluppo, con l’esplosione della 145

Pp. 64 e 65, Volume di Nino Lisi, cit. Anche su questo aspetto dei modi di erogazione dei finanziamenti alle imprese, è molto critica la posizione dei comunisti salernitani : “Per nuove industrie sono stati dati finanziamenti per oltre 5 miliardi, ma così ripartiti: 1 miliardo e mezzo solo per Marzotto, una industria di confezioni con appena 400 operaie, in genere ragazze a sottosalario, una succursale delle sue imprese a Valdagno; circa 600 milioni a Valsecchi per una industria conserviera stagionale di cui si parla di gravissima crisi se non di fallimento; 325 milioni per il SUME, già chiuso; 50 milioni per la Carteria di Fisciano, fallita; 40 milioni per una fabbrica di legno a Piaggine, chiusa. Oltre 300 milioni per piccole imprese artigiane, meritevolissime , ma che certo non c’entrano con l’industrializzazione. Altri 5 miliardi per ampliamenti: anche per essi circa mezzo miliardo per 51 piccole imprese artigianali, 3 miliardi e 500 milioni per industrie stagionali conserviere e circa 800 milioni per 5 grossi capitalisti salernitani, per ampliamento dei Pastifici Amato, Pezzullo, Ferro e la Cartiera Cimmino”

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rivolta di Battipaglia ove, nel decennio degli anni ’60, si è avuta una contrazione occupazionale di oltre 1.000 posti di lavoro. Si realizzerà, allora, la caduta, pezzo dopo pezzo, di tutta l’ossatura della grande impresa manifatturiera pubblica e privata locale. Persino l’Eni abbandonerà ogni precedente impegno evidenziando, drammaticamente, il conclusivo fallimento dell’intervento dello Stato nei processi d’industrializzazione del Mezzogiorno. La trattazione che in questo lavoro abbiamo inteso proporre va considerata quale spia di una situazione d’insieme, più ampia e generale, che travalica la dimensione locale e la vicenda, lo sviluppo, l’agonia e la morte di alcune delle grandi imprese manifatturiere salernitane. Esse hanno svolto, per una fase, un’azione di diffusione, nel complesso della società, di spezzoni di cultura e di una visione del mondo diversa e alternativa a quelle di una borghesia arretrata ed incapace di porsi, coerentemente, quale gruppo sociale innovatore e d’avanguardia dell’insieme della società locale147. I valori forti e solidali, cementati nella lunga e faticosa vita della fabbrica, le pratiche di attiva solidarietà, di cui è stato possibile cogliere numerosi esempi, hanno per una significativa fase storica concorso a far crescere la speranza che fosse possibile ridisegnare i contorni di un nuovo Stato e di una diversa ed avanzata civiltà. La progressiva e completa soppressione di tutte le imprese che avevano concorso al tentativo della ridefinizione di una diversa identità economica, storica e sociale dell’area salernitana ha, invece, concorso al verificarsi di nuove regressioni sul piano dei comportamenti e del costume. Sul terreno ideale si sono venute segmentando concezioni, schematiche e fallaci che, rincorrendo l’illusione di una modernizzazione virtuale e non ancorata a fattori direttamente produttivi, hanno dato vita a forme culturali regressive, delle quali rischiano di avvertire tutte le drammatiche conseguenze le nuove generazioni che iniziano ad affacciarsi su un mercato del lavoro sempre più precario ed instabile, asfittico, privo di regole e garanzie, nel quale pullulano le più svariate forme di “contratti di lavoro”, S’inizia, cioè, a percepire sempre di più la reale possibilità di una regressione e di un grave arretramento sociale, più che la possibilità di un nuovo ed equilibrato livello d’espansione. La classe operaia tradizionale, un tempo compattamente organizzata, sotto il peso delle sconfitte subite, è andata polverizzandosi disperdendo in mille rivoli la propria peculiare identità. Frantumati i fattori di unità e di coesione, è emerso un nuovo, diffuso ed esasperato individualismo, una sempre più forte tendenza alla chiusura nell’angusta dimensione dei piccoli gruppi, di frequente autoreferenziali. La società ha assunto, nel suo procedere, dinamiche del tutto difformi dal passato, proponendo moderne chiusure neo-corporative. Lo snaturamento della funzione educativa e propulsiva dei partiti politici tradizionali, lo svuotamento della loro vita e della loro pratica democratica ha concorso a definire una situazione per molti versi allarmante che, piuttosto che sconfiggere le pratiche diffuse di clientelismo e discrezionalità nell’esercizio del 147

Libro di Guido Panico, ed. Avagliano, 2005. 158


potere, ne ha incentivato, di frequente, gli aspetti puramente deteriori. L’obiettivo di realizzare comunità associate di cittadini liberi più che di sudditi succubi è terreno tutto ancora da conquistare, anche rilanciando una lotta forte ed incisiva sul terreno ideale e culturale. Ove si rinunciasse ad intraprendere, di nuovo, una tale strada le prospettive per il Mezzogiorno, la Campania, la Provincia di Salerno andranno a delinearsi in termini ancora più incerti e problematici. Un’accurata riflessione critica su quanto è avvenuto e sulle ragioni del perché ciò si è potuto verificare non è stata ancora espletata. I ritardi e le incomprensioni nella tempestiva individuazione delle linee di tendenza nelle quali andava riorganizzandosi il capitalismo con le sue articolazioni produttive ed industriali, sul versante pubblico e privato, è stata evitata. Alla soppressione d’industrie di grande storia e tradizione non è stata sostituita alcuna alternativa realizzazione produttiva o d’impresa in grado di fornire, da un lato, sbocchi produttivi alla manodopera espulsa dai processi produttivi, dall’altro, d’iniziare una nuova, innovativa esperienza, capace di coniugare, meglio di quanto era stato fatto nel passato, lo sviluppo con le esigenze vere ed oggettive del territorio circostante e dell’ambiente con i suoi antichi, irrisolti, giganteschi problemi d’inadeguatezza nella qualità dello sviluppo. Si è, di volta in volta, proceduto con la stanca riedizione di politiche assistenziali, rette dalla regia dello stato centrale, la cui unica preoccupazione è apparsa quella di evitare il riemergere delle antiche tendenze ad incontrollate fiammate di ribellione. Le risorse pubbliche sono state così impiegate all’interno del paradossale schema secondo cui era meglio pagare decine di migliaia di lavoratori, usciti dalle fabbriche, coi sussidi di cassa integrazione e di disoccupazione, anziché prevederne un impiego produttivo in funzioni sociali di verificata utilità. Sullo sfondo, l’assenza di chiare regole del gioco nell’industria pubblica e la progressiva ipertrofia dell’industria privata, anch’essa abbondantemente incentivata dallo Stato. Ed è qui che sono avvenute le maggiori aberrazioni nelle politiche dello Stato assistenziale. Quasi eterna condanna, dopo decenni e decenni di speranze deluse, lo squilibrio Nord-Sud resta, così, il grande problema irrisolto della crisi italiana. Ogni rallentamento dello sviluppo economico nazionale ed internazionale si ripercuote, in modo assai più grave, sulla gracile economia meridionale. Pur in presenza della movimentazione di ingenti risorse verso il Sud negli anni ‘60 e ‘70, nella gran parte delle regioni meridionali del paese non ha preso avvio un meccanismo di sviluppo industriale autopropulsivo, capace di dare linfa ed alimento alle forze economiche interne a quelle realtà ed a quei territori.148 148

Per quanto concerne la specificità della situazione dell’impresa salernitana, pare del tutto condivisibile la conclusione della densa inchiesta presente nel volume di Bonazzi, Bagnasco, Casillo, “L’organizzazione della marginalità. Industria e potere in una provincia meridionale”, LIED L’Impresa Edizioni, Torino, pp. 380 381, quando tra l’altro si sostiene, a finale consuntivo, che “ … non è ancora comparsa nella zona una classe imprenditoriale a cultura veramente industriale … Se ne ricava … l’impressione che l’industrializzazione non abbia inciso veramente in profondità nella mentalità e nella società locale”. Ed ancora i rilievi critici secondo i quali “ … gli imprenditori riconoscono agli interventi politici un ruolo 159


Naturalmente il discorso generale non va assunto in termini indifferenziati. Anche oggi, infatti, pur in presenza delle persistenti difficoltà di crescita, si hanno alcuni confortanti sintomi di vitalità di piccole industrie che hanno dimostrato capacità di radicamento in un mercato sempre più complesso e globale. Lo sviluppo del reddito e dell’occupazione che, per una fase, ha consentito una crescita del Mezzogiorno allo stesso ritmo delle regioni settentrionali, è stato in larga parte consentito dall’espansione del sistema pubblico e dall’intervento di grandi imprese private nazionali, attratte dal vantaggioso sistema di incentivi. Le produzioni tipiche dell’agricoltura meridionale non sono riuscite a realizzare il salto tecnologico e di produttività necessario per sfruttarne a pieno le potenzialità e favorirne la capacità d’espansione sui mercati internazionali. Ha giustamente osservato Michele Salvati che “ Il mutamento di fondo nei criteri d’intervento si era, però, realizzato prima: le forze che definivano il problema del Mezzogiorno in termini di sottosviluppo industriale avevano colto un’importante vittoria con la legge 634 del 1957, che disciplina l’istituzione di aree e di nuclei di sviluppo industriale, nei quali appositi consorzi di enti locali avrebbero fornito le infrastrutture necessarie, e le industrie che vi si fossero installate avrebbero goduto di consistenti contributi da parte della Cassa del Mezzogiorno. Da questa stessa legge è disposta l’istituzione di un sistema di quote di riserva per gli investimenti nel Mezzogiorno delle Amministrazioni Pubbliche, più tardi esteso agli investimenti elettrici ed autostradali e poi a tutto il sistema delle Partecipazioni statali”149. Le scelte d’intervento assunte nel ventennio successivo si orientarono, sempre di più, all’interno di una linea che prevedeva la creazione di grandi insediamenti industriali. Consistente fu, così, lo sviluppo degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno, in concomitanza con il realizzarsi del grande “Miracolo Economico”. L’autorità politica centrale fece leva in modo assai marcato sulle grandi imprese e sul sistema delle Partecipazioni Statali, più facilmente orientabili, attraverso l’uso di specifiche azioni politico- amministrative, a destinare al Sud una massa cospicua di investimenti. Nel frattempo, erano state istituite le Regioni a statuto ordinario, cui vennero date consistenti competenze della Cassa del Mezzogiorno. Essa doveva promuovere opere d’interesse interregionale e sovrintendere alla corresponsione dei contributi a fondo perduto e del credito industriale agevolato. Il coordinamento di tutto l’intervento fu trasferito dal Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, che fu soppresso, al Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (Cipe), al quale fu trasferita anche la responsabilità del rapporto con la grande impresa privata e con quella a Partecipazione Statale.

importantissimo nello sviluppo meridionale; che tali interventi, a giudizio degli imprenditori, devono limitarsi a quelle operazioni di incentivazione generica che fino ad oggi hanno dato scarsi risultati e che non sono in grado di mutare la logica … centralità-marginalità … la cultura politica degli imprenditori salernitani esprime atteggiamenti volti a conservare la condizione di marginalità … la conclusione generale … è che il sorgere di iniziative imprenditoriali non sembra aver determinato, contemporaneamente, l’ascesa e l’affermarsi di una classe di imprenditori in grado di riorganizzare il tessuto sociale secondo modelli industriali”. 149 Michele Salvati, “Economia e Politica in Italia dal dopoguerra ad oggi”, Ed. Garzanti, pp. 86 - 87. 160


Certo, all’avvio degli anni ’70, era complesso prevedere la qualità e l’intensità della crisi che si sarebbe abbattuta più avanti sui settori industriali manifatturieri di base dalla metà degli anni ‘70 a tutti gli anni ‘80 e ’90. Le “cattedrali nel deserto” sarebbero state chiamate l’insieme delle imprese di medie e grandi dimensioni che calavano nel Mezzogiorno quale articolazione periferica dei grandi gruppi industriali e il cui cervello produttivo era ben saldamente collocato nelle aree del Nord del Paese. Di certo mancò la capacità di comprendere che i grandi complessi siderurgici e chimici trasferiti al Sud difficilmente si sarebbero integrati con le preesistenti strutture dell’industria locale, né avrebbero sostanzialmente cambiato il debole quadro economico sociale preesistente. Si determinò, invece, una fittissima rete di rapporti che si sviluppò dal livello nazionale, per le attività gestite dal CIPE e dalla Cassa del Mezzogiorno, fino alle Regioni, ai consorzi, ai singoli Enti locali. L’autorità pubblica si presenta, in questa fase storica, nella veste di soggetto che eroga fondi e che interloquisce direttamente con la composita rete d’interessi locali. Dopo l’iniziale fase di consistenti aiuti economici e finanziari, l’azione di promozione degli interessi collettivi evidentemente doveva concentrarsi sulle strategie e sui modi di crescita di un’impresa robusta, autonoma, non assistita, produttiva, idonea a reggere, sul piano dei costi e della qualità, la concorrenza sui mercati nazionali ed esteri. A tale necessaria iniziativa, si sostituì, invece, la commistione tra politica ed economia, la sovrapposizione sull’impresa del ruolo improprio e negativo giocato dalla politica. I manager pubblici, diretta emanazione del potere politico centrale, furono il clamoroso esempio della tendenza, sempre più forte e marcata, dell’ingerenza, divenuta poi consueta, alla potente e sistematica occupazione dello Stato da parte della politica e, tranne qualche eccezione, si confusero con chi avrebbe svolto il ruolo di liquidatore delle attività avviate. In troppi casi si verificò la palese contraddizione tra l’annuncio di convincenti linee di politica industriale ed atti operativi, invece, non coerenti, incapaci di produrre efficienza, qualità, produttività, innovazione, per collocare le imprese pubbliche nel sistema della competizione. I deficit d’esercizio si ripetevano anno dopo anno e lo stato centrale interveniva, scaricando sulla collettività e sul debito pubblico i costi delle disfunzioni dell’impresa pubblica. Una situazione che si protrasse per anni fin quando si esaurirono le condizioni per il ricorso ai ripiani delle perdite. A questa linea si associò negativamente l’opzione per la centralizzazione delle produzioni dei grandi gruppi al Nord, con la conseguente dismissione delle imprese meridionali. Le decine di migliaia di occupati nell’impresa meridionale e salernitana ebbero assicurato il reddito di sussistenza con l’uso, protrattosi per molti anni, della Cassa Integrazione Straordinaria e con l’ingresso nel lavoro nero e sommerso dei cassaintegrati, che diedero vita ad una concorrenza devastante con i giovani e le 161


ragazze che si affacciavano sul mercato del lavoro, tanto da consolidare il dato secco della disoccupazione strutturale, a due cifre, per i giovani del sud.

028. ANNI 60 E PRIMI ANNI 70 : IL CONFLITTO PER UN NUOVO EQUILIBRIO DI POTERI IN FABBRICA. Si è già osservato, in premessa, come agli inizi degli anni 60 e poi per tutti gli anni 70 può essere individuata la fase-complessa ed intensa - rivolta alla ridefinizione dei complessi equilibri, di forza e di potere, nell’impresa. E’quello il momento in cui iniziano ad essere riconosciuti primi ruoli e funzioni delle forze sindacali di rappresentanza dei lavoratori, con il passaggio dalle commissioni interne ai consigli di fabbrica. Si avviano altresì le prime esperienze di contrattazione per un nuovo livello di classificazione della forza lavoro che da un lato progredirà con il graduale avvicinamento tra le varie articolazioni interne al lavoro dipendente, dall’altro consentirà l’individuazione di nuove e più articolate declaratorie d’inquadramento. Nel comparto tessile le categorie saranno ridotte da otto a cinque, e saranno introdotte prime forme di avvicinamento ed omogeneizzazione salariale per settori similari, in special modo per il laniero e cotoniero, che proprio il settore tessile hanno come riferimento contrattuale, normativo e salariale, generale. Saranno realizzati consistenti cambiamenti nell’organizzazione del lavoro, col passaggio da un meccanismo di cottimo individuale, con l’eccesso di parcellizzazione produttiva che ciò comporta, ad un’idea- nuova ed inedita- di produzione per area. Una diversa concezione produttiva che afferma forme organizzative, più collaborative ed aggreganti, del lavoro operaio. Si consolida poi il diritto all’informazione preventiva sui programmi e gli indirizzi generali dell’impresa, si realizzano forme, inedite, di controllo e contrattazione, dal basso, dell’attività produttiva, si pone un limite all’unilateralismo aziendale nelle modalità di organizzazione del lavoro. Iniziano ad entrare in crisi le annose e pietrificate gerarchie che, fino a quel momento, avevano operato nella fabbrica senza controlli o condizionamenti veri. S’inizia a percepire un’aria nuova. Dopo un lungo periodo di sconfitte e di torpore, il mondo del lavoro può iniziare ad esercitare una funzione di rilievo nella società italiana. L’unilateralismo e la discrezionalità aziendale è messa in crisi anzitutto sul tema dell’attribuzione del salario, s’incrina l’uso, consueto, della corresponsione dei superminimi, contrattati –individualmente- tra impresa e singolo lavoratore. Elargizioni, spesso unilaterali dell’impresa, che devono essere sostituiti con salari collettivi di produttività, o con i premi di produzione annui, integrativi agli incrementi contrattuali nazionalmente definiti. S’apre, dopo il periodo delle differenziazioni salariali territoriali, delle gabbie, un lunga fase contrattuale per conseguire condizioni normative e salariali uniformi, valide per tutta la penisola. E si istruisce la vertenzialità aziendale con la ricerca di intese integrative degli accordi raggiunti per mezzo della contrattazione nazionale di settore. E’ anche lo sforzo, indice della specificità del sindacalismo italiano, di 162


apertura d’una azione che non limiti la propria attenzione al terreno, seppur primario, della fabbrica, ma che, più di ciò che è successo in passato, si mostra attenta alle vicende, più generali, del paese, del suo destino, della carta dei nuovi diritti da inserire in un tessuto sociale ed istituzionale ancora troppo segnato dalla contraddizione, acuta, tra forme di giustizia formali e loro concretizzazione limitata nella materialità reale. Il movimento dei lavoratori inizia a dimostrare d’ essere portatore d’idee e progetti innovativi, di valenza generale. La lotta per il miglioramento delle condizioni concrete dei lavoratori si va a combinare, così, con forme d’avanzamento e miglioramento della condizione di civiltà del complesso della società nazionale. Nel ventre della società alla fine degli anni 60 si era messo in moto, dopo la relativa stasi degli anni 50, un meccanismo economico dinamico, evidente sintomo d’un grande lavorio delle forze produttive che, come si è detto, aveva determinato uno straordinario balzo in avanti di tutta la situazione. Con la crescita dei consumi era stato riscritto il profilo d’una società in cui si stava sedimentando una profonda mutazione che ridisegnerà l’identità specifica del Paese e la sua storia. Da una società a larga prevalenza agraria si era innestata una fase che aveva prodotto un cambio di fisionomia e di identità profondo e che, recuperando in tempi relativamente brevi i gravi ritardi, nel tempo accumulati, aveva trasformato l’Italia in Paese industriale, in una potenza economica di primario rilievo nello scenario europeo e mondiale. Il quadro politico ne era risultato sensibilmente modificato. Si era passati dagli anni del centrismo a quelli del centro-sinistra, con una nuova collocazione nella geografia politica nazionale delle forze che, in precedenza, s’erano attestate su posizioni centriste. La sinistra, nelle sue principali componenti storiche, quella socialista e comunista, si era però collocata su posizioni differenti, con i socialisti al governo ed i comunisti all’opposizione. E’ fin troppo nota la discussione, aspra ed appassionata, sull’esperienza dei governi di centro-sinistra. Un elemento d’indubbia novità sarà, in tale scenario, il ricco dibattito sviluppato sul ruolo dello Stato nell’economia, sulla funzione delle aziende a Partecipazione Statale nello sviluppo del Paese e, specialmente, del Mezzogiorno. In sostanza si assisterà all’esplicitarsi di due contrapposte posizioni, una favorevole, l’altra decisamente contraria. Saranno favorevoli, in prima istanza, uomini d’estrazione liberale, legati in prevalenza all’insegnamento di Croce, raccolti intorno a riviste quali “Nord e Sud” che ritengono necessario, obbligato ed indifferibile l’intervento diretto dello Stato nell’economia. Essi reputano che una tale azione dovrà sostanzialmente concentrarsi sulla realizzazione d’un processo diffuso d’industrializzazione, che valorizzi il Mezzogiorno d’Italia recuperando, tramite l’immissione in circuito di robuste quantità di capitali, l’ancestrale ritardo cui dal tempo dell’unificazione è stata condannata quella parte del Paese. Dovrà in questo contesto essere limitato l’eccessivo potere dei monopoli privati che detengono, senza alcuna forma di controllo, le leve essenziali dell’economia nazionale. Esempio illuminante ed esemplificativo di tale posizione il punto di vista 163


esplicitato da Francesco Compagna 150 che guarderà con estremo favore all’azione per localizzare, nel Mezzogiorno, parti consistenti d’attività “di tutti o quasi tutti gli ampliamenti ed i nuovi impianti della cosiddetta grande industria di base”151. A ciò dovevano essere indotti anzitutto i grandi gruppi, pubblici e privati, che avrebbero in tal modo trovato forti convenienze da un’azione di dislocazione produttiva che da un lato ricomponesse lo sviluppo produttivo squilibrato prodottosi tra differenti regioni del Paese, dall’altro realizzasse l’azione, non oltre differibile, di decongestionamento delle aree industriali storicamente allocate nel triangolo industriale del Nord, attraverso l’asse di congiunzione tra le città di Milano, Torino e Genova. E’ in ogni caso, quella di Compagna, un’esplicita dimostrazione del clima di ottimismo circa i destini possibili del Paese e, in specie, del Mezzogiorno. Un aspetto centrale cui, in questa visione, andava naturalmente coniugata l’azione volta alla realizzazione delle infrastrutture primarie, di rafforzamento delle vie di comunicazione e degli assi viari, delle ferrovie e delle autostrade, in maniera tale che tutto lo sforzo straordinario dello Stato, in termini di massicci investimenti economici e finanziari, non risultasse annullato, neppure parzialmente, dalle forti disfunzioni delle economie esterne, dall’arretratezza del territorio circostante, negativo condizionamento che avrebbe potuto portare alla liquefazione di quell’ambizioso progetto. L’individuazione d’una idea di sviluppo possibile, anche a tappe accelerate, in grado di recuperare con relativa rapidità i grandi ritardi, strutturali, accumulati, sembrava non tenere nel dovuto conto un elemento, che si dimostrerà invece decisivo, ovvero quello del ruolo e della funzione che, in questo processo dinamico, erano disposte a svolgere le classi dirigenti politiche meridionali. Di certo esistevano forze disponibili a cimentarsi con la nuova situazione interpretandola in maniera dinamica e creativa e sinceramente motivate dal far prevalere, nel proprio agire, l’interesse generale su quello di ceto, di gruppo, di appartenenza. Uomini determinati e capaci di porsi quale depositari, intransigenti, d’un progetto-ambizioso- che materializzandosi per la sua indiscutibile efficacia sociale avrebbe concorso ad invertire, per i decenni a venire, la storia di assenteismo e di degrado, la “cultura” deviata che col tempo era attecchita in queste aree al punto da sembrare del tutto inscalfibile. 152Una tensione che non poteva esaurirsi nei confini-angusti e limitati- della fabbrica ma che doveva estendere lo sguardo alla società circostante dove erano tutti da conquistare spazi di democrazia più ampi e sostanziali. Coniugare insieme i due piani significava porsi il problema d’incidere sul terreno dello Stato e della sua organizzazione estendendo, in maniera costante ed organizzata, forme stabili ed attive di partecipazione alla vita democratica della nazione. Il conflitto, già da tempo in gestazione ed alimentato dal diffuso grado d’ingiustizie sopportato dal mondo del lavoro, si era in breve tempo esplicitato in tutta la sua ampia dimensione, costituendo, per una volta ancora, il fulcro su cui andranno a strutturarsi nuovi rapporti, politici e di potere, nel Paese. 150

Francesco Compagna, La Questione Meridionale, Garzanti 1963; Si veda anche la più recente edizione pubblicata nel Marzo 1992 a cura delle Edizioni Osanna Venosa, con un’introduzione di Giuseppe Tiranna. 151 Pag. 138, op. cit, edizione 1992. 152 Guido Dorso, La Rivoluzione Meridionale, Saggio storico-politico sulla lotta politica in Italia, Piero Gobetti Editore, Torino 1925. 164


In questo contesto il dibattito sull’intervento pubblico nell’economia e sulla funzione delle Partecipazioni Statali, il rapporto tra Stato ed Impresa, il diffuso sostegno al complesso di tali aziende la cui consistenza quantitativa si era ulteriormente ampliata sarà particolarmente denso e appassionato. Il problema aggiuntivo apparirà poi il rapporto da stabilire con l’impresa privata, col ruolo e la funzione dei monopoli nell’economia, con la loro capacità di condizionamento degli indirizzi e delle scelte di governo. Essenziale e decisivo risulterà a quel punto il ruolo che sarà svolto dal Governo, dal Ministero delle Partecipazioni Statali e dal Parlamento e delle forme di controllo -più marcate- che sull’esercizio di tali attività produttive comincerà ad essere esercitato. Problemi, come si può osservare, d’importanza estrema e che costituiscono la cornice d’insieme, generale, nella quale apparirà opportuno l’esame specifico dell’ultimo capitolo della storia peculiare delle aziende tessili, pubbliche e private insistenti nell’area salernitana. Non sembra in conclusione azzardato sostenere che i risultati finali si riveleranno ben più deludenti delle speranze in partenza alimentate. E’ al proposito particolarmente interessante ripercorrere, seppure a grandi linee, gli aspetti di maggiore rilievo della parte conclusiva di questa esperienza storica e produttiva, come si è già detto d’antica tradizione. L’accurata ricostruzione dei vari passaggi che condurranno prima al sedimentarsi di un ruolo di maggiore forza ed incidenza dei lavoratori del settore poi alle lotte di difesa contro le ristrutturazioni e per lo sviluppo dell’occupazione. La densa attenzione che finirà per coagularsi intorno a questo insieme di vicende fino ai vivaci e spesso aspri dibattiti e scontri parlamentari che ne deriveranno, sono l’espressione di una situazione che evidenzia, in modo mirabile, gli sforzi e le illusioni che finiranno per far svanire l’idea di un nuovo e qualificato sviluppo industriale nel Mezzogiorno cui invece proprio le partecipazioni statali ed il sistema d’impresa da esso detenuto avrebbe dovuto, nella speranza di molti, fornire nuovo slancio e decisiva forza. Si vedranno invece, anche nell’esame specifico degli atti parlamentari, gli evidenti limiti d’analisi e, di frequente, gli eccessi di improvvisazione e parzialità nell’esame dei singoli passaggi di questa vicenda. Il punto vero è che ci si trova di fronte ad imprese che, per motivi vari, internazionali ed interni, ad un certo punto hanno iniziato a contrarre debiti più che utili. Per poter continuare a sopravvivere hanno avuto così bisogno di robuste e periodiche iniezioni di nuova capitalizzazione. Problemi che si erano già posti fin dall’esercizio economico del 1960. Primi ma preoccupanti segnali di una morsa che si sta stringendo e d’una contraddizione che non si potrà risolvere, come i fatti drammaticamente finiranno per dimostrare, intervenendo sul terreno, quasi esclusivo, dell’aumento d’assegnazione individuale di macchinari, con l’incremento dei carichi di lavoro, con la drastica compressione di spazi e diritti, individuali e collettivi. La riduzione di manodopera, oggettivamente obbligata, non troverà compensazione in diverse collocazioni 165


produttive alternative e stabili, come pure, esplicitamente e più volte, il governo si è impegnato a realizzare nelle numerose discussioni parlamentari cui prima si è fatto rapidamente cenno. Lo scenario delle società industriali aveva già da tempo avviato una propria nuova ed accentuata mutazione.

029.LE RIVOLTE NELLA PIANA DEL SELE -BATTIPAGLIA APRILE 1969EBOLI MAGGIO 1973. Nell’immediato secondo dopoguerra si era sviluppato nella Piana del Sele, come in larga parte del Mezzogiorno d’Italia, una grande e massiccia iniziativa di lotta per l’occupazione e la divisione delle terre incolte, in specie demaniali, i cui protagonisti erano stati i contadini senza terra. E’ il periodo in cui grande è la speranza di un radicale e strutturale cambiamento nella direzione politica del paese. I contadini poveri sono i principali protagonisti di questi movimenti ed alla loro testa, il Partito Comunista Italiano e la CGIL. Un’epoca storica, di lotta economica e politica, d’enorme significato generale, che si concluderà col raggiungimento di risultati in sostanza largamente inferiori alle attese suscitate. Una vicenda da cui comunque emergerà un personale politico destinato a svolgere un ruolo di primo piano nella sinistra salernitana e campana degli anni ’50. Il 18 Aprile 1948 è, come si è detto altrove, uno spartiacque. Negli anni immediatamente successivi, nel 1949-1950, la strategia delle forze democratiche e di sinistra punterà a determinare le condizioni di un rinnovamento democratico del mezzogiorno, “a radicare cioè la nuova democrazia, oltre che a mobilitare per la terra”. Le forze politiche e sociali di sinistra hanno intenzione di promuovere e realizzare estese alleanze di classe nel mondo delle campagne inglobando - in un unico fronte - piccoli e medi agricoltori, i coloni e non più soltanto i contadini poveri. Obiettivo della lotta diviene quello del recupero delle “ terre mal coltivate”e non solo di quelle incolte. La terra, questo il punto centrale, andava tolta alle forze della rendita parassitaria. Silvano Levrero osserverà in proposito come l’articolazione della strategia si sviluppi ora tramite tre distinte direttrici 1- Nelle zone dei feudi della Sicilia, Calabria, le aree interne dovevano portare avanti la parola d’ordine della “terra a chi la lavora” 2- nelle aziende capitalistiche dovevano invece “avanzare i rapporti di produzione”. Era il caso della Puglia. Qui dovevano effettuarsi lotte per prezzi più idonei dei prodotti, per i salari, per le opere di irrigazione e non per la distribuzione delle terre 3- Nella Piana del Sele bisognava infine agire per “ togliere al capitalismo gli aspetti arcaici”153Nel Sele in effetti mancò l’organizzazione di cooperative di conduzione collettiva da contrapporre all’azienda capitalista. Le cooperative non ebbero cioè alcun serio sviluppo. Si generò poi, estendendosi a dismisura, il progressivo svuotamento delle campagne con l’incremento, esponenziale e accelerato, del fenomeno migratorio. Ciò finirà per isterilire l’ossatura sociale portante, del Partito e del Sindacato, in maniera assai sensibile. In 153

Silvano Levrero, “ Mezzogiorno e fascismo”, op. cit. 166


considerazione dei limitati risultati raggiunti si sostenne da più parti la tesi secondo cui una vera prospettiva di sviluppo andava individuata puntando ad un’alternativa di sviluppo in direzione di altri settori, ovvero sull’inizio di una nuova fase d’industrializzazione. Su una linea di tal genere confluiranno tutte le interne anime del Partito Democristiano con l’emersione di conflitti pubblici, di tale asprezza, da portare ad una nuova e distinta geografia del potere nel partito e nelle istituzioni. L’area del Sele aveva visto un notevole sviluppo dell’attività e dell’occupazione, in special modo nel settore del tabacco. Nella Provincia nel 1960 erano ben 9.000 i lavoratori impiegati nel comparto. Essi si ridussero a meno di 3.000 nel 1970, anche a seguito di un’epidemia di “peronospora tabacina”154. A tale verticale caduta, produttiva ed occupazionale, aveva concorso il contemporaneo rafforzamento di altri paesi come la Grecia. La situazione sociale, nella Piana del Sele, a seguito della perdita di migliaia di posti di lavoro, era divenuta assai critica e gravida di tensione. In seguito alla chiusura di uno stabilimento la protesta era esplosa, in forme gravissime ed incontrollabili, cogliendo totalmente impreparati Partito e Sindacato. Emerse un rapporto, ormai lacerato e consunto, tra partito e masse. In questo contesto si manifestarono tutti i limiti, gravi, del Sindacato. Il tessuto sociale connettivo e democratico si rivelò pressoché inesistente. La protesta, incontrollata, ben presto degenerò in rivolta. Ci furono morti e feriti. La notizia dei gravi moti di Battipaglia, con strade bloccate, l’incendio del Municipio, l’intervento della polizia, i morti non poteva non avere conseguenze nel Sindacato confederale. Le manifestazioni di protesta, come si è detto, erano state originate dalla chiusura dei tabacchifici. La situazione, da un punto di vista democratico e sindacale, appariva molto preoccupante. E’ Lama in persona, a quel tempo Segretario generale della CGIL, ad intervenire determinatamente. Convoca Baiocchi e gli dice di andare a Salerno. Lama è intervenuto d’intesa con Scheda e con Aldo Giunti, allora responsabile dell’organizzazione, ed ha chiesto a Baiocchi di recarsi a Salerno per l’arco di tempo strettamente necessario al ripristino di una situazione di normalità. A Battipaglia ci sono le barricate. Baiocchi inizierà immediatamente col gruppo della Camera del Lavoro a prendere contatti con la Cisl e la Uil. Per sbloccare la situazione è proclamato lo Sciopero Generale. Il palco della manifestazione sindacale è incendiato. E’ un impatto aspro e drammatico con una realtà del Mezzogiorno, una situazione in cui da un momento all’altro si possono verificare esplosioni di rabbia incontrollate causate dalla gravità della situazione economica e sociale. Baiocchi sostituisce Giuseppe Amarante appena incaricato di dirigere la Federazione comunista salernitana. Baiocchi troverà una situazione ambientale buona e favorevole, con dirigenti capaci, educati politicamente e sindacalmente. Un gruppo dirigente, unito e compatto, che non gli farà mai mancare la più ampia collaborazione155. 154

Luigi Graziano, “ Clientelismo e Sistema politico-il caso dell’Italia” Franco Angeli Editore op. cit. pag. 173. 155 Testimonianza di Baiocchi, Roma 24 Maggio 2005. 167


Forte è la differenza tra la realtà di Salerno e quella toscana da cui proviene. In Toscana già a quel tempo trovare una situazione in cui il contratto non fosse rispettato era l’eccezione, a Salerno invece troppo spesso la norma. La lotta di fondo più importante sarà perciò quella per lo Statuto dei diritti dei lavoratori, nel 1970. E’ allora che sarà conquistato il diritto all’assemblea retribuita nei posti di lavoro. Poi una densa e ricca esperienza costellata dalle grandi assemblee operaie nei tabacchifici ed alla Marzotto. Migliaia e migliaia di operai che concorreranno alla definizione della base di una piattaforma sindacale provinciale. Anche da questa fonte consultata viene la conferma che i Comuni spingevano per avere insediamenti industriali al sud, ed investimenti delle aziende del Nord ci saranno anche se troppo spesso essi finiranno per risultare del tutto estranei alle vere esigenze di sviluppo presenti nel territorio salernitano. L’inizio degli anni 70 si configura come il periodo delle tante manifestazioni di categoria, dai braccianti all’abbigliamento, al pubblico impiego. Una stagione nella quale emergono dal movimento nuovi quadri e dirigenti sindacali. Un gruppo nuovo, forte, qualificato. L’esperienza di Baiocchi a Salerno156 volge in breve al termine. Gli succederà Claudio Milite nel mentre al Congresso di zona di Battipaglia sarà eletto Gaetano Maiorano. Nell’occasione si verificherà un atto intimidatorio con l’incendio del ristorante dove si sarebbe dovuta tenere la riunione. Il Congresso sarà tenuto comunque e la presenza operaia e dei cittadini sarà enorme. Momento di lotta particolarmente aspro sarà in quella fase la lotta bracciantile col blocco della mungitura, occasione in cui, se necessario, il Sindacato deve mettersi anche contro i lavoratori che promuovono forme di lotta estrema per affermare la linea della salvaguardia del patrimonio costituito dal bestiame. Difficilissima diviene la lotta per la difesa dell’occupazione quando vanno in crisi i tabacchifici, lotte in cui saranno pagati prezzi assai duri in termini di perdita dell’occupazione. Una caratteristica di quel periodo è la politica della non esclusione dalle decisioni e dagli organismi dei dirigenti che dissentono dalla linea e dalle scelte dell’organizzazione, una linea di capacità di ascolto e di tolleranza che, più avanti nel tempo,anche in palese difformità da quanto si sostiene nello statuto e nelle varie e successive tesi congressuali, sarà sempre meno praticata. In ogni caso i gravissimi fatti di Battipaglia impedirono o almeno rallentarono il rischio che, di lì a poco, nella Piana del Sele, potessero aver luogo altre chiusure di tabacchifici. Nel 1975-1976 gli Stabilimenti del Monopolio di Corvino restarono ancora in funzione. Nel 1974 la protesta di massa scoppiò invece ad Eboli, sulla falsariga di quanto era già avvenuto in altre città, a Battipaglia e Reggio Calabria. La protesta fu questa volta originata dalla mancata conferma del piano di investimenti Fiat con cui si era sostenuto di volere realizzare, ad Eboli, una fabbrica d’auto per circa 3. 000 posti di lavoro. La crisi petrolifera indusse invece la Fiat a rivedere il proprio progetto originario ed ad orientarsi verso una maggiore produzione di 156

Baiocchi è quadro di provenienza operaia, esperto e di assoluta affidabilità per la direzione nazionale del Sindacato. Ha lavorato 7 anni in fabbrica ed è stato Segretario della CGIL di Abbadia San Salvatore nel 1949. Poi Segretario, delle industrie estrattive nel 1955. Passerà quindi alla direzione della CGIL di Siena e nell’ufficio di Segreteria del Centro Nazionale Confederale. Nel mentre ricopre questo incarico è inviato a Salerno dalla Confederazione. Dalla sua voce ho colto dirette ed assai utili informazioni sui fatti sindacali all’indomani della rivolta di Battipaglia. Per questo lo ringrazio. 168


autobus. Un aggiustamento di linea che ora puntava all’incremento del trasporto pubblico, con la secca riduzione della quantità di produzione di auto prevista in precedenza. Una delibera Cipi del Maggio 1974 informò che l’investimento immaginato per Eboli sarebbe stato dirottato a Grottaminarda, in Provincia di Avellino. Per Eboli, in sostituzione, non fu proposto nulla. La situazione divenne presto incandescente e, di nuovo, rapidamente esplosiva. Sull’autostrada NapoliReggio Calabria, nel tratto di Eboli, vennero erette barricate e per vari giorni furono bloccate le vie di comunicazione tra il Nord ed il Sud del paese. De Mita era allora Ministro dell’Industria e contro di lui, in particolare, si rivolse la rabbia della gente. Questa volta però il Sindacato ed il Partito Comunista non si fecero cogliere alla sprovvista. I Sindacati riuscirono a controllare e ad incalanare la protesta impedendo che essa assumesse caratteri reazionari ed eversivi. La Fiat aveva operato la scelta di investire ad Eboli anche in seguito all’azione del sindacato metalmeccanico rivolta a realizzare investimenti dei grandi gruppi nelle aree meridionali. Il sindacato unitario dei metalmeccanici poteva perciò giocare una carta di coerenza, autorevolezza e prestigio indiscutibile. Lo sciopero generale evidenziò l’esistenza di un movimento di grande ampiezza “condotto con civiltà e con senso democratico, diretto dal sindacato con l’appoggio dei Partiti Democratici e che si è sviluppato evitando incidenti e scontri”157. La lotta poi non era contro Avellino ma contro il modo, clientelare e disinvolto, con cui si disfacevano gli impegni pubblicamente assunti nel mentre continuava a rimanere assente ogni ancoraggio alle esigenze ed ai bisogni oggettivi delle popolazioni interessate. Un grande sciopero generale, cui parteciperanno oltre 30. 000 persone, fatte confluire da tutta la Regione, porrà fine alla rivolta dopo che il governo si è ufficialmente impegnato ad assicurare investimenti complessivi equivalenti ai posti di lavoro promessi dalla Fiat. La vicenda di Eboli avrà ripercussioni particolarmente gravi nella DC. Si espliciterà allora uno scontro durissimo tra De Mita e Scarlato, a quel tempo il più forte leader del partito nella provincia di Salerno158. Tra i vari dirigenti locali si era scatenata una gara nell’attribuirsi il merito del raggiungimento dell’accelerazione del processo di industrializzazione. Erano stati in tal senso affissi manifesti pubblici ed era in atto, dopo il 1970, la lotta per la leaderschip locale in seguito alla fine del sindacato di Menna. De Mita e Scarlato appartenevano entrambi alla corrente di base e lo scontro in Campania divenne così aspro da prevedere reciproci sconfinamenti ed incursioni nei “feudi” altrui pur di pervenire all’assoluto controllo del partito. De Mita intendeva ridimensionare il ruolo e la forza di Scarlato. La vicenda di Eboli è solo un tassello, seppure di rilievo, della più generale partita che si sta giocando. Rocco Di Blasi ricorderà come nel 1973 la sinistra di base ha raccolto nazionalmente 140.000 voti delega, 50.000 dei quali solo in Campania, soprattutto nelle province di Avellino e Salerno. Dei 50.000 voti campani Scarlato ne controllava 23.000. “ Si sostituiscono a Menna … diversi ed atomizzati centri di potere, organizzazioni elettorali, 157

Dichiarazione di Claudio Milite allora Segretario della Camera del Lavoro di Salerno. Vedasi Partito comunista italiano, Federazione di Salerno, Pubblico Convegno su “Insediamento Fiat e sviluppo economico”, Eboli 13 luglio 1973, relatore Franco Fichera.

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clientelari, intorno a vari leader; così alla linea di Salerno, centro gerarchico superiore, si sostituisce quella del riequilibrio tra Salerno e le altre zone, tra fascia costiera ed interno. . . La Dc intende in tal modo rispondere alla crisi di una linea politica nazionale e meridionale con una operazione di redistribuzione del potere a livello provinciale nel partito e nel rapporto tra Salerno e le altre parti della provincia e della regione”159. Piccoli, Ministro delle Partecipazioni Statali, invitato ad Eboli da Scarlato, aveva appena esaltato, in un pubblico discorso, la decisione di localizzare ad Eboli l’impianto Fiat sostenendo che tale atto era il più efficace esempio della “incisiva politica meridionalistica” del governo. De Mita più avanti arriverà ad accusare Scarlato di essere stato l’organizzatore della rivolta di Eboli. In verità si era consumato, sullo sfondo, un aspro scontro politico tutto interno alla Democrazia Cristiana. Il vero contrasto era con De Mita che aveva spinto, in maniera pressante, per favorire la localizzazione degli insediamenti industriali nell’area di Avellino. De Mita aveva già allora solidi riferimenti a Salerno, nel partito, a partire da Gaspare Russo, Presidente della Camera di Commercio. Il problema della localizzazione delle industrie non fu in realtà la conseguenza di una organica scelta nazionale di Confindustria. La vicenda di Eboli del 1973 fu il punto di svolta di una idea che era partita prima. Scarlato aveva chiesto a Gaspare Russo, allora Presidente della Camera di Commercio, di commissionare uno studio sulla collocazione più idonea di un aereoporto internazionale in Campania. L’Aeritalia aveva individuato l’area adatta nella Piana del Sele, non a Grazzanise, che sembrava essere il sito privilegiato e che, a distanza di oltre 20 anni, non è decollato. Da sottosegretario scelse di interloquire con Donat Catin, non solo capo della sinistra del partito ma anche Ministro dell’Industria e delle attività produttive per farsi accompagnare nel processo teso a trasformare quella zona in un polo complessivo di sviluppo. All’epoca era in atto uno scontro politico imperniato su diverse concezioni dello sviluppo, uno scontro chenaturalmente- coinvolgeva i territori che potevano risultare interessati. La Piana del Sele presentava tutte le condizioni per un rapido ed efficace sviluppo. l’Aereoporto e l’interporto, la naturale collocazione a ridosso di Salerno, della costiera amalfitana e del Cilento, aree a naturale vocazione turistica, l’antica e naturale tradizione agricola che la metteva in grado di esportare, con rapidità, quanto produceva in quel settore, la dorsale autostradale che la collegava facilmente tanto alla Lucania che alla Puglia per mezzo della Basentana, quanto al Sud più profondo per mezzo della SalernoReggio Calabria. Un’area che poteva effettivamente essere idonea a diventare una zona a sviluppo consistente, radiale, capace di espandersi progressivamente intorno a sé favorendo il necessario processo d’interno riequilibrio della Campania. Anche dal punto di vista demografico si sarebbe potuto alleggerire il congestionamento dell’area di Napoli. Una tesi che non era, nè allora né oggi, la contestazione del napolicentrismo, ma anzi l’opposto. Napoli deve avere un’attenzione planetaria non coniugabile con inurbamento estremo, inquinamento etc. Napoli non può essere abbandonata allo sviluppo anarchico di sé stessa per il suo essere sempre stata una 159

Relazione di Franco Fichera nel Convegno “ la DC in Provincia di Salerno”, pag. 170


città - simbolo per cultura, colore, caratteri. La Fiat aveva già esplicitato il proprio orientamento di costruzione di uno stabilimento, l’Iveco. Il gruppo torinese studiò il territorio e convenne sull’opportunità di individuare Eboli come area di insediamento. Facile viabilità, l’eventualità che si creasse l’aereoporto a Pontecagnano o in altra zona della Piana del Sele, per l’interporto ed anche per una diversa collocazione del Porto commerciale di Salerno. Un progetto, realistico, che poteva essere realizzato senza grandi difficoltà. In una riunione al CIPI prevarranno invece spinte di segno opposto. La Fiat si orientò a Grottaminarda, ad onta di quelle che sembravano le ragioni del buon senso ed immediato scattò il moto di disapprovazione popolare che si orientò verso la classe politica salernitana individuando in Scarlato un referente che sembrava potesse rappresentarlo. Scarlato raccontò pubblicamente quanto era accaduto facendo proprie e sostenendo le ragioni della protesta. Essa avrebbe dovuto essere forte, decisa ed unitaria pur mantenendosi sempre nell’alveo della lotta democratica. Respinse con durezza le critiche rivoltegli da Mariano Rumor che lo aveva accusato di coprire un movimento “eversivo”. Ci furono blocchi della linea ferroviaria e dell’autostrada e le manifestazioni di piazza si susseguirono numerose. Pietro Ingrao definirà la lotta di Eboli come l’ultimo moto popolare del Mezzogiorno. Poi il Governo si impegnò a compensare lo stabilimento Fiat perduto con una serie di stabilimenti della SIR di Rovelli. Alla popolazione parve una felice soluzione e suonarono addirittura le campane per annunciare la fine dell’occupazione dell’autostrada ed il raggiungimento del risultato sperato. 3.000 posti di lavoro. Scarlato era invece scettico. Allora Sottosegretario, da quel momento non entrerà più al Governo. La battaglia di Eboli, pur conclusasi per Scarlato con una sconfitta personale, sarà quella per cui menerà più vanto. Una sconfitta di cui si è fregiato più delle tante vittorie che pure aveva avuto nella sua personale vicenda politica. Il comune di Eboli gli dedicherà una strada. Agì d’impulso anche con un pizzico di garibaldina aggressività. Poi è stato vice-presidente del Banco di Napoli. Quella di Eboli è l’ultima battaglia, perduta, che c’è stata per il riequilibrio territoriale ed in essa si è esposta la penultima leaderschip della provincia impegnata a tentare di svolgere un ruolo di “intelligenza governante”, che cioè si è mossa avendo abbozzato un’idea ed un progetto di sviluppo più ampia e generale, non condizionata da suggestioni municipalistiche. Vi era stata in quel tempo, come si è visto, un’ accentuata attenzione alla politica dei poli di sviluppo industriali. Ancora non era tramontata la speranza di realizzare, anche nella provincia di Salerno, un’occupazione industriale vera, frutto di uno sviluppo economico virtuoso, non eternamente subordinato ed assistito. Iniziavano però allora a scomparire le grandi iniziative di gruppi industriali provenienti dal Settentrione. Gruppi che, ottenuti ampi spazi di territorio, ed aiuti finanziari significativi, faranno vivere per un tempo circoscritto le imprese qui collocate, poi, progressivamente, e non sempre in modo elegante, li consegneranno 171


alla morte precoce. In qualche caso le morti annunciate sono state accompagnate da comportamenti non sempre irreprensibili della classe operaia interna. Alla Marzotto non erano garantiti livelli di produttività paragonabili a quelli di altre aree del paese e però alla Texsal- Snia non era così. Da quanto fino ad ora evidenziato è evidente il riflesso dell’aspro conflitto per l’egemonia interna alla DC. In conclusione accadrà che le risorse destinate a Salerno ed alla sua Provincia finiranno per essere troppo spesso orientate in relazione agli equilibri di potere politico interno di volta in volta presenti nel partito160. E ciò finirà per condizionare, fino a compromettere gravemente, la funzione dirigente del PartitoStato rispetto al faticoso equilibrio fino a quel momento garantito. Negli anni 80 il processo di diffusa deindustrializzazione, ormai innestato, subirà una forte accelerazione. In tale scenario il Sindacato locale darà più volte prova di maturità e responsabilità, che non si limita alla politica del tanto peggio tanto meglio ma che si pone, pur in una situazione d’insieme complessivamente sfavorevole, il grande problema della resistenza al processo di deindustrializzazione in atto e dell’avvio, su nuove basi, di un processo di nuova industrializzazione dell’area salernitana. Tenterà perciò di interloquire con le proprietà e con le istituzioni, con saggezza ed equilibrio non proteggendo sacche improduttive ma cercando di fare in modo che si creino le migliori condizioni per salvare quanto può essere salvato. Una condizione essenziale per la ripresa di una fase di rilancio dell’economia e dell’industria nella realtà locale. E questa specificità del sindacato locale va ricordata perché altrimenti non si rende giustizia ad una stagione in cui, per altri versi, il confronto nazionale tra Sindacati e padronato, e potere politico, era molto aspro. E’ il tempo dello scontro con Craxi e del referendum contro il taglio dei punti di contingenza della scala mobile. Il Sindacato che a livello nazionale fa quella battaglia nel mentre a Salerno è impegnato nella difesa del lavoro e dell’impresa. Il sindacato salernitano, nel tentare di fronteggiare il vento violento della crisi, dimostrerà grande maturità ed altissimo senso civico. 161Un’organizzazione che ha agito con una passione ed un rigore che oggi non si riscontra più. Il Sindacato oggi infatti sconta la stessa crisi della società italiana,una crisi non solo la politica ma il costume, di cultura, di civiltà da cui il paese ha l’assoluta ed indifferibile urgenza di fuoriuscire.

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La classe politica salernitana in questi decenni non mostrerà mai l’identica coesione di cui darà prova il gruppo irpino. Da questa area , infatti, emergeranno dirigenti capaci di svolgere una funzione nazionale di primo piano nel Partito Democristiano, cosa che mai riuscirà ai salernitani. Basti pensare, tra i vari, oltre che a De Mita, a Nicola Mancino, Gerardo Bianco, Gargani. Una loro peculiare caratteristica sarà, a lungo, quella di agire come gruppo coeso nello scontro interno tra le correnti. La forza del gruppo esalta in tale visione le capacità dei singoli. ( si arriverà poi allo scontro con Gava) 161 Considerazioni esplicitate da Guglielmo Scarlato in occasione di un incontro avvenuto il 6 luglio 2005. 172


030.

L’INGRESSO DELL’ENI

Nel 1972 le Partecipazioni Statali affideranno il gruppo all’ENI. Gli addetti in quel momento erano 2. 600, tra operai ed impiegati. Nel 1974 erano già scesi a 2. 300 e, per contenere le perdite, il loro numero si sarebbe dovuto attestare a 1. 850. Il passivo di Angri era inferiore a quello delle altre aziende del gruppo ma il contesto negativo generale non poteva che riversarsi anche su quello stesso stabilimento . Il programma di ristrutturazione del 1970 prevedeva investimenti per 17, 2 miliardi, con la creazione di una filatura avanzata a Nocera ed il rinnovamento della tessitura di Angri. Sarebbero state chiuse la vecchia filatura di Nocera, la sede di Fratte e lo stabilimento di Napoli. L’intenzione era quella di rilanciare l’impresa grazie all’avvio di produzioni a più alto valore aggiunto che avrebbero dovuto garantire una tenuta più aggressiva sui mercati. Le risorse investite per conseguire lo scopo erano però limitate per non dire irrisorie. Furono avviati contatti con imprenditori privati per garantire sbocchi commerciali più sicuri delle produzioni. A tal fine venne siglata un’intesa con Legler che si impegnava a ritirare, a prezzi di mercato, velluti greggi prodotti da MCM. Nel 1972 invece l’ENI investì la rilevante somma di 50 miliardi nel gruppo, lanciando il Piano Lanerossi. Esso prendeva il nome dalla più grande azienda del tessile pubblico e prevedeva una contrazione occupazionale nel gruppo, a livello nazionale, di 4. 000 addetti. Di questi 400 erano nell’area di Salerno. Un accordo che decadde nel 1975. Nel 1973 furono avviate trattative con Bassetti e fu previsto un piano di investimenti di 23, 4 miliardi per migliorare la dotazione di macchine ed impianti, con un significativo incremento delle capacità produttive. Nel 1974 fu creata la Bassetti SPA, in seguito all’intesa raggiunta col gruppo Bassetti. Venne quindi istruito uno studio di fattibilità in cui era prevista la realizzazione di una struttura industriale ad alta produttività ed a bassa incidenza di manodopera. Andavano realizzate altresì economie di scala, con la diluizione dei costi fissi, su un orario di lavoro- più ampiola cui adozione era indispensabile al mantenimento dei livelli di occupazione. Le scelte imprenditoriali, oltre all’ampliamento delle capacità produttive, dovevano in prevalenza indirizzarsi verso i tessuti “alti” con un forte sviluppo della produzione dei tessuti per biancheria; Andava aggiornato il macchinario di filatura ed era da rinnovare, completamente, il parco telai in tessitura. Gli investimenti previsti passavano da 23, 4 a 39, 9 miliardi di lire. 173


Un piano, da realizzarsi entro il 1976, che non vedrà mai la luce. Parte del personale di Angri era già stato trasferito, nel 1975, al nuovo stabilimento della Nuova Filatura di Nocera. La fabbrica di Angri era una tessitura con 480 Sulzer a 283 Northrop a navetta. Produceva tessuto in cotone puro per la casa e per l’abbigliamento ed utilizzava solo in parte il filato proveniente da Nocera. Un’altra parte del filato veniva da Pordenone e da Cimona. Solo una parte del tessuto fatto ad Angri s’indirizzava a Fratte, un’altra parte era venduto greggio. I telai Sulzer erano apparsi per la prima volta nel 1960. Battevano 215 colpi al minuto; Nel 1964 erano 66, nel 1970 già 114. Gli altri Sulzer(oltre 400) furono introdotti tra il 1970 ed il 1972. Il macchinario era tutto utilizzato. La resa non arrivava al 73%. Angri produceva tessuto puro, in cotone, ed era a quel tempo tra le più moderne aziende in Europa, con i suoi 480 Sulzer, 414 dei quali nuovi e moderni, di costruzione recentissima. Nel 1978 le MCM accumulavano perdite di 19 miliardi all’anno su 38 miliardi di fatturato. Molteplici le cause di questa negativa inversione di tendenza. Fattori di disorganizzazione aziendale, investimenti sbagliati, scarsa flessibilità, incapacità di interpretare, con tempestività, i caratteri fluttuanti della modifica della domanda e del gusto dei consumi, bassa produttività globale dei singoli stabilimenti alla base delle tendenze negative emerse che, con l’andare del tempo, finiranno per rivelarsi rovinose. L’ENI affiderà la responsabilità della riorganizzazione e del risanamento produttivo al dottor Giorgio Sgarbi, valente e competente manager con notevoli e consolidate esperienze nel settore. Sgarbi si impegnerà alla rapida presentazione di un piano di settore che, per perseguire il risanamento, avrebbe dovuto rimuovere tutte le cause, strutturali, delle distorsioni che si erano nel tempo accumulate. ( NOTA SU SGARBI, SE POSSIBILE) Il suo progetto consisteva, essenzialmente, nell’aumento della produttività tramite una più efficace riorganizzazione della forza lavoro impiegata; esso prevedeva ancora un uso più razionale della forza lavoro anche mediante governati processi di mobilità dei lavoratori all’interno del gruppo ed all’esterno di esso; doveva essere poi ridotto, verticalmente, l’assenteismo ed attuato il blocco del turn-over. Questo insieme di provvedimenti avrebbe potuto garantire al meglio, assieme ad una diversificazione produttiva parziale mirata alla conquista di fasce più alte di mercato, al rafforzamento della rete commerciale e tramite consistenti investimenti in marketing e pubblicità, il complesso dell’occupazione esistente. Un processo che Sgarbi intendeva attuare in stretta sintonia e con assoluto rispetto del ruolo che, in tale contesto, seppur difficile, avrebbero dovuto svolgere le OOSS. Nonostante l’ampie e diffusa disponibilità al confronto, a parole dimostrata dalle parti, la situazione del gruppo divenne in breve ingovernabile. Soprattutto ad Angri si manifestò il grado di resistenza e di ostilità più acuta al piano di ristrutturazione. Nella tessitura l’azienda sospese dal lavoro 43 operai eccedenti. La sospensione fu trasformata in Cassa integrazione guadagni, a rotazione, dopo che

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gli operai operarono una lotta durissima culminata nell’occupazione del palazzo dell’ENI a Roma. Il provvedimento di riduzione di personale avrebbe potuto essere evitato, a giudizio dell’ENI, solo se nella fabbrica di Angri si fosse effettuato un turno aggiuntivo di lavoro domenicale. Ciò al fine di garantire un maggiore e più ampio utilizzo degli impianti. L’ENI, dopo una fase di forte conflitto coi sindacati, s’impegnerà ad attuare il piano di ristrutturazione nel mentre assumerà, contestualmente, l’impegno di creare attività sostitutive per la forza lavoro eccedente nel gruppo. L’operazione avrebbe dovuto comportare la creazione di 450 nuovi posti di lavoro in altre aziende. Esse avrebbero dovuto sorgere tutte nell’area geografica salernitana. La CIG, prevista dal piano per 305 operai e 51 impiegati, non sarebbe stata a rotazione ma avrebbe riguardato i lavoratori destinati, volontariamente, alle attività sostitutive. Sullo sfondo gli indirizzi strategici dell’ENI si erano però ormai del tutto esplicitati. Il tessile non rientrava più nei piani strategici dell’ente energetico. Si sarebbe agito, da quel momento in avanti, per governare un processo- progressivo- di smobilizzo e di vendita ai privati. L’ENI inizia così a concentrarsi, in maniera pressoché esclusiva, sul settore energetico e petrolifero. E’ del 1987 la proposta del Ministero delle Partecipazioni Statali al Comitato Interministeriale sul Coordinamento della Politica Industriale (CIPI) di privatizzazione del settore. Il CIPI converrà con tale indirizzo a condizione che le società subentranti nell’acquisto garantiscano consistenti affidamenti industriali e finanziari, proporzionati all’entità delle società da cedere. L’antico gruppo cotoniero, nel medio periodo, oltre al salvataggio avrebbe dovuto poter riprendere, con il risanamento, una strada di sviluppo e di consolidamento, a livello nazionale ed internazionale. Le imprese subentranti avrebbero inoltre dovuto garantire il completamento dei programmi di investimento in corso. Nella fase transitoria si sarebbe agito mantenendo per tre anni all’ENI la proprietà del 51% del pacchetto azionario delle società nel mentre il 49% sarebbe andato alle imprese subentranti prima della conclusiva loro definitiva acquisizione. I fatti dimostreranno che l’opposizione, lunga ed ostinata, dei Sindacati alle ipotesi di privatizzazione, motivate dalla scarsa affidabilità dei partner proposti, non erano frutto di posizioni preconcette, quasi bizze immotivate. 162 Polli, Legler, Lettieri, De Angelis, seppure in maniera distinta, non dimostreranno infatti tutta la necessaria tensione e volontà di investimento con proprio rischio nelle imprese che invece ci si sarebbe atteso. Le società subentranti, la Società Gruppo Tessile salernitano, gestita dalla Legler acquisiva la filatura di Nocera. Ad essa andranno 45 miliardi di fondi statali e 60 miliardi di fondi comunitari finiranno al gruppo Lettieri-De Angelis. Il gruppo avrebbe dovuto acquisire le fabbriche di Angri e di Fratte ma, dopo tante tensioni che sfoceranno anche in aspri contenziosi giuridici, il piano di ingresso sarà drasticamente ridimensionato e Lettieri acquisirà il solo stabilimento di Fratte. 162

A livello politico, per fronteggiare la crisi dell’industria tessile salernitana, ormai giunta al punto estremo, era stata avanzata una proposta di legge in cui si prevedeva l’automatica estensione dei benefici della legge 219( del terremoto) al comparto di salerno. La proposta, patrocinata da Conte, Cirino Pomicino, Nino Calice, per la sua impraticabilità verrà bloccata al Senato. 175


L’unica situazione industriale dove, dopo parecchio tempo, sarà assicurata una ripresa, parziale ed a ranghi occupazionali drasticamente ridotti, ben altro di quanto prima era stato prospettato. Per la fabbrica di Fratte, ove si era immaginato l’avvio di un importante processo di diversificazione produttiva, sarà mosso un supplementare investimento di 30 miliardi di lire. E’ da quel momento in poi che si registrano i più evidenti fatti di verticale caduta di tensione nel gruppo e nella divisione. I dirigenti più capaci nell’organizzazione e nella gestione sono allontanati o, autonomamente, si distaccano dalla società scegliendo altre strade. Si accentua la crisi di alcune aziende MCM, ed essa appare subito grave a fronte dell’assoluta assenza di investimenti e di rigorose linee ed indirizzi di ripresa. Ai privati saranno offerti straordinari incentivi finanziari ed economici. L’immagine commerciale e la credibilità del gruppo all’esterno finiranno per deteriorarsi rapidamente. L’obiettivo dei Sindacati di fare dell’ENI uno strumento fondamentale volto alla crescita degli investimenti e dell’occupazione industriale nel Sud in buona sostanza non si realizzerà. Nel 1992 si perverrà, sotto la Presidenza Tomei, stabilimenti di Angri, Nocera , Fratte.

alla totale inattività degli

La vicenda, peculiare, della storia di una grande impresa e di un sistema imprenditoriale manifatturiero ad alta densità di manodopera che per molti decenni ha svolto una funzione di rilievo per l’insieme di una grande area territoriale, s’indirizza, in una certa fase, verso la decadenza estrema ed inarrestabile. In un preciso momento dello sviluppo storico del nostro paese s’avvia la sua lenta, progressiva e finale scomparsa. Le ipotesi di rilancio o ripresa, seppure immaginate in dimensioni più compresse, non si realizzano. La soppressione dei grandi gruppi industriali del comparto tessile procede in parallelo con la riorganizzazione e la centralizzazione di produzioni e volumi produttivi che si concentrano in alcune definite aree-sistema del nord. Lì il circuito si riarticola e continua la propria attività produttiva e di commercializzazione anche a seguito di nuovi e consistenti volumi d’investimento che in quelle aree s’indirizzano. L’adeguamento delle indispensabili opzioni d’innovazione tecnologica è l’altro elemento che consente di superare, almeno per un’altra fase, le difficoltà che pur si sono manifestate. Tutte condizioni queste che, assieme al mantenimento ed al richiamo di tutte le più qualificate figure manageriali all’interno del sistema, continueranno a consentire, ancora per qualche tempo, lo svolgimento di un ruolo di rilievo nel mercato globale. L’indirizzo della ristrutturazione, il suo segno e la sua qualità avviene in conseguenza delle scelte e degli indirizzi politici ed economici, più generali, ispirati dai gruppi dirigenti, economici e politici, che in quegli anni detengono la guida del paese. In una prospettiva di più lungo periodo però la loro azione, istruita essenzialmente all’interno del Ministero delle Partecipazioni Statali, non risulterà più allo stesso modo efficace né vincente. 176


Si può infatti constatare facilmente come l’Italia, nel suo complesso, avrà una caduta verticale , sempre più inarrestabile, del ruolo che dal periodo del boom economico in avanti, ha storicamente esercitato nei vari comparti dell’industria manifatturiera, in Europa e nel mondo. Le tappe del declino, per grandi linee riscritto a proposito del comparto tessile meridionale e salernitano, costituirà solo la cartina di tornasole di una linea di tendenza ben più ampia e generale, la desolante anticipazione di un processo di perdita o comunque di ridimensionamento verticale della propria capacità produttiva, progettuale, innovativa. E ciò, oltre che nel tessile, si registrerà in tutti i settori industriali storici dove, nel passato, come “sistema paese”a lungo e di frequente si era riusciti a svolgere un ruolo di rilievo in Europa e nel mondo. Il declino del comparto su cui più diffusamente ci siamo soffermati non risulterà purtroppo caso isolato e circoscritto. Sorte sostanzialmente identica subiranno miriadi di imprese di grandi, medie o piccole dimensioni in svariati altri comparti produttivi, dall’informatica, alla chimica, all’elettronica di consumo, fino alla crisi gravissima che, dagli inizi degli anni 80, attanaglierà in una morsa interi comparti come quello chimico, metalmeccanico e, soprattutto, il settore che ha maggiormente inciso sulla mentalità, i costumi ed i modelli di vita degli italiani, l’auto. La crisi Fiat è al proposito il sintomo, più drammaticamente esplicativo, di una linea di tendenza ben più ampia e generale, di un fenomeno grave, difficile da arrestare e forse irreversibile, di fallimento industriale163.

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163

Gli sviluppi della vicenda Fiat, con le difficoltà emerse negli ultimi anni, di procedere a diversificazioni vincenti dei prodotti, con la conseguenza della perdita progressiva e preoccupante di quote di mercato e drastica contrazione dell’occupazione, appaiono l’esempio più evidente delle tesi enucleate. 177


031. L’ENI E LA LANEROSSI. L’ACCORDO MULTIFIBRE. La creazione di una divisione nazionale, di un gruppo di proprietà pubblica che, all’interno del sistema delle Partecipazioni Statali aveva avuto affidato il compito di gestire un importante complesso di imprese del tessile e dell’abbigliamento disseminate al Nord, al Centro e al Sud del Paese era evidentemente il sintomo di un processo che, a differenza di quanto era accaduto in tutti gli altri paesi più avanzati dell’Europa, aveva introdotto un elemento di novità e di dirigismo industriale, nello scenario generale di settore, per più ragioni un’evidente anomalia. L’ENI era subentrato all’IRI assumendo, insieme alla funzione istituzionale primaria indirizzata alla produzione ed alla commercializzazione energetica, altri compiti. Tra essi quelli della presa in carica di parte di settori industriali come la siderurgia, la chimica, il tessile, un’obiettiva ed evidente forzatura rispetto ai programmi per cui in origine era nato l’ente. In particolare l’affidamento all’ENI di grandi imprese del settore tessile e dell’abbigliamento appariva condizionato da un insieme di fattori, non specificamente industriali e produttivi. Evidente era in ciò il peso e l’influenza del potere politico e delle forze di governo del tempo. Ed apparirà più volte, con puntuale ciclicità, come tali scelte “industriali” non siano state determinate dal parametro di ricerca dell’equilibrio tra costi e ricavi. Aziende importanti, ad estesa valenza occupazionale, evidenzieranno più volte, col trascorrere del tempo, molteplici discrasie e contraddizioni. Il sistema delle Partecipazioni statali e l’intervento nel settore tessile e dell’abbigliamento, parallelo all’iniziativa privata, non dovrà necessariamente procedere, nelle valutazioni che si vanno a definire, con l’utilizzo di modalità operative identiche a quelle del padronato privato. Più che il rigoroso controllo dell’efficacia, dell’efficienza, della produttività e della redditività d’impresa spesso finiranno per essere valutati, come prevalenti, i problemi sociali 178


delle aree territoriali su cui queste imprese insistono. Il primo obiettivo da consolidare dovrà essere pertanto quello di garantire il mantenimento, se non addirittura la crescita, dei tradizionali livelli di occupazione raggiunti. Nel procedere della vicenda del polo tessile ed in specie del gruppo Lanerossi con tutte le sue articolazioni territoriali si determinerà così, sempre, un elemento di coinvolgimento, immediato e pieno, non solo dei lavoratori e delle forze sindacali ma dell’insieme delle comunità locali, di tutte le forze politiche e di ogni espressione istituzionale, d’ogni Comune, Provincia e Regione in cui operano gli stabilimenti tessili e cotonieri pubblici. Ciò produrrà, di frequente , una specie di gioco delle parti in cui, a fronte del sistematico fallimento dei piani di risanamento si risponderà evidenziando una sostanziale, spesso solo apparente, contraddizione tra posizioni assunte dalle rappresentanze nazionali e le loro stesse articolazioni locali di partito. E questo contrasto risulterà in alcuni passaggi forte ed aspro, essendo in tutta evidenza interessate le rappresentanze locali a non veder determinata alcuna frattura e discrasia tra la propria funzione politica ed il consenso, spesso diffuso, raccolto tra i lavoratori dipendenti del tessile pubblico. Una situazione che si protrarrà per diversi anni senza che si dia luogo ad alcuna svolta, strutturale, nell’elevamento della qualità globale delle imprese e nell’ incremento della capacità di competizione nel mercato globale. Le scelte correttive ipotizzate, d’aumento degli investimenti nelle tecnologie più avanzate, i piani formativi, la riorganizzazione, la specializzazione e lo sviluppo delle reti commerciali e di vendita, le diversificazioni di processo e di prodotto, la creazione di un sistema d’integrazione, virtuoso, tra distinti segmenti delle attività produttive non si realizzeranno. Mancherà poi l’individuazione, tempestiva, di produzioni innovative ed a più alto valore aggiunto capaci di caratterizzare, finalmente, in maniera per davvero efficace, l’azione industriale ampliando le esportazioni ed assicurando la stabile occupazione di fasce di mercato interne ed internazionali. Si assisterà così ad un’inflazione incontrollata di dichiarazioni d’intenti, generali, non suffragate dalla corrispondenza- immediata e conseguente- dei fatti. In realtà si protrarrà a lungo una situazione di sostanziale stagnazione che tenta di coprire l’ evidente incapacità di fronteggiare l’apparire d’una crisi di mercato preoccupante in cui sempre più aggressiva diviene la concorrenza dei paesi in via di sviluppo. Paesi in cui il costo del lavoro è largamente inferiore, per costi di produzione, salari e per spese generali. Una situazione che, come si vedrà, il management pubblico tenterà di fronteggiare abbozzando frequenti ristrutturazioni e riorganizzazioni delle modalità produttive, puntando sulla crescita della produttività globale della divisione Lanerossi e di ogni singolo stabilimento ad essa collegato. Puntualmente però non si conseguirà alcun successo nella realizzazione dei piani e degli obiettivi di risanamento esplicitati. La Lanerossi finirà per incamminarsi su una strada di progressivo smembramento, rimpicciolimento, riduzione di quantità di occupazione e peggioramento delle qualità produttive. Si aprirà la strada della chiusura o della cessione, a pezzi o in blocco, dei 179


singoli stabilimenti a privati del settore che ricaveranno consistenti doti finanziarie per la presa in carico dei lavoratori provenienti dalle imprese del tessile pubblico. Spesso, più che di cessioni realizzate in seguito a trattative vere e proprie fatte in relazione al valore effettivo dell’impresa dismessa, si assisterà all’ingresso di nuovi partner privati a condizioni per loro particolarmente vantaggiose. L’ENI dimostrerà sempre più nettamente, col passare del tempo, come la scelta di acquisire la direzione e la gestione di questo importante gruppo di imprese, più che condivisa, è stata subita in relazione alle decisioni assunte in proposito dal Parlamento italiano. Non saranno pertanto realizzate l’insieme di condizioni indispensabili per garantire, con una forte crescita della qualità e delle specializzazioni, la creazione di un moderno sistema nazionale del tessile e dell’abbigliamento pubblico in grado di affermare un ruolo ed una funzione di primo piano a livello europeo e mondiale nel settore. La riorganizzazione e l’integrazione tra i vari segmenti della produzione, con il varo di produzioni finali ad alto valore aggiunto, capaci di reggere al meglio la concorrenza dei paesi più industrializzati in Europa, in Giappone, negli USA, risulterà vacua illusione. Gli investimenti in ricerca e innovazione decresceranno ed anzi, a fronte d’una tendenza alla svendita ed alle dismissioni delle aziende di proprietà pubblica, si verificherà una sempre più estesa crescita delle importazioni dai paesi più sviluppati industrialmente al nostro paese. In una nota relativa al rinnovo dell’Accordo Multifibre, 164 dopo un incontro tra la commissione CEE e le organizzazioni sindacali, c’è un primo bilancio sugli esiti dell’accordo Multifibre in relazione agli obiettivi prefissati dalla CEE. In questo ampio rapporto ci si sofferma sull’analisi circostanziata delle tendenze in atto per ogni singolo segmento produttivo del settore del tessile e dell’abbigliamento. Il quadro che ne deriva evidenzia come il nostro paese sia stretto in una morsa. Esso è infatti esposto da un lato alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo con costo del lavoro assai più basso, dall’altro all’azione dei paesi di maggiore industrializzazione che hanno adottato, da tempo, forti innovazioni di processo e di prodotto. Le importazioni nel 1979 risultano superiori al 6% medio previsto dalla direttiva del Consiglio CEE. A giudizio della FULTA era ormai aperta una vera guerra commerciale nell’industria tessile dagli USA contro l’Europa. Tra i paesi più industrializzati erano gli USA a rappresentare il vero pericolo che si profilava all’orizzonte. Nella Provincia di Salerno il comparto tessile e delle confezioni, facente capo al gruppo Lanerossi era costituito dal Gruppo MCM e dall’Intesa di Nocera Inferiore. Le MCM alla fine del 1980 articolava la propria attività negli Uffici di Napoli, con 7 addetti, nella Direzione Generale e negli Uffici di Fratte, con 180 occupati. La divisione cotone delle MCM aveva inoltre uno stabilimento a Nocera Inferiore con un’area industriale coperta ( stabilimento vecchio) di 31.900 mtq. e di 49.300 dallo stabilimento nuovo, con 904 occupati alla fine del 1980. Produceva a quella data 164

Incontro di Bruxelles per il rinnovo dell’accordo multifibre della FULTA con la commissione tessile europea del 24-7-1980. 180


filato per la tessitura di Angri per 7.426 tonnellate. Nella fabbrica di Angri, la tessitura, gli occupati a fine 1980 sono 763 e l’area industriale coperta è di 37.000 mtq. La produzione del 1980 è stata di 22.000 KM. di tessuto cotoniero. Gli articoli hanno compreso biancheria per la casa, tessuti per abbigliamento, velluti, tessuti tecnici e forniture. A Fratte si svolgeva, a completamento del ciclo, l’attività di finissaggio, con 309 occupati. L’area industriale coperta era di 45.800 mtq. Molteplici le possibilità produttive dello stabilimento, dal candeggio alla tintoria al mercerizzo alla stampa di continuo, alla stampa a quadri ed ampie le possibilità di diversificazione. A 19.000 KM ammontava la produzione nel 1980. La sede di Fratte aveva al suo interno anche gli uffici direzionali della società. Azienda facente capo alla Lanerossi era anche l’Intesa di Nocera Inferiore, stabilimento di abbigliamento, con 325 occupati al 31-12-1980. Questa azienda operava su un’area coperta di 6.400 mq. e produceva prodotti casual, jeans, pantaloni, salopette, giubbotti ed altri prodotti simili collocabili nelle fasce medie di mercato. La Lebole Euroconf aveva uffici a Napoli con 4 occupati. La situazione economica delle Società del Settore Tessile dell’ENI a partire dal 1974 era andata progressivamente peggiorando. Negli anni precedenti le perdite di gestione si erano mantenute su livelli abbastanza contenuti e si era proceduto in una condizione di sostanziale galleggiamento. La situazione peggiorerà sempre di più a causa degli indirizzi operativi imposti dalla società alle consociate. I condizionamenti politico-clientelari incideranno in negativo ostacolando la dirigenza “operativa”. Essa non riuscirà ad esprimere, a pieno, la proprie potenzialità professionali con una linea imprenditoriale valida ed efficace. Fino a quando le società collegate alla Lanerossi hanno potuto muoversi identificandosi in pieno con gli indirizzi e le scelte strategiche generali della capo-settore la vita dell’impresa è stata in sostanza positiva. Quando però i centri dirigenti si sono progressivamente separati, estraniandosi dalla realtà locale, e si è iniziato a tentare di praticare la linea di attuazione di piani esclusivamente industriali la capacità di tenuta delle imprese del settore tessile pubblico ha finito per divenire sempre più flebile. La tesi che acquistava sempre più forza circa l’incompatibilità, perché non strategica, della permanenza dell’ENI nel settore, ha messo in movimento un processo di incertezza, la caduta di responsabilizzazione e di tensione positiva del management diffusamente inteso, che ha finito per coinvolgere l’insieme delle forze del lavoro operanti nel gruppo Lanerossi. L’azione verso il risanamento si è così sempre più indebolita e sfilacciata. Un tale clima di smobilizzo verrà confermato dalla presa di posizione polemica assunta dagli stessi dirigenti del gruppo Lanerossi il 18 dicembre 1980. In essa si richiederà all’ENI di assumere un ruolo attivo e diverso, di esplicita riconferma di impegno e non di mera e subalterna presa d’atto, postuma, degli orientamenti politici che stanno maturando. In ogni caso nel 1980 si registra una situazione negativa causata da una pesante flessione di mercato e nelle vendite che divengono in questo stesso anno inferiori, nella linea delle collezioni, del 50% rispetto al periodo settembre - Ottobre 1979. Per eliminare le conseguenze della recessione in atto, che si prevede possa continuare per tutto il 1981, l’azienda attrezza un piano nel quale è 181


previsto il potenziamento delle strutture commerciali con assunzione di funzionari già esperti nelle tecniche di vendita e di penetrazione di mercato. Un’azione di incremento mirato delle vendite verso i clienti tradizionali e di ricerca di nuovi clienti, un tentativo estremo di conquista di spazi di mercato più ampi. Si tenta l’allineamento dei propri prezzi a quelli della concorrenza più qualificata e si punta alla creazione di una specifica organizzazione divisionale per ampliare le capacità di vendita. Ciò al fine di garantire la saturazione degli impianti limitando le curve di inattività produttiva nelle fasi di periodica flessione della domanda. L’espansione e diversificazione dei campionari, qualificando gli stessi per stile e contenuto moda, con la consulenza di importanti stilisti è l’altro aspetto della linea che si intende realizzare. Inoltre ci si muove per migliorare la qualità della produzione, studiando una nuova impostazione del marchio MCM e si punta alla creazione di una nuova gamma di prodotti finiti, soprattutto per la linea casa. Il tutto è proiettato al miglioramento dell’immagine della società. Il rafforzamento del sistema d’organizzazione delle vendite per ampliare la propria presenza all’estero è l’ultimo punto che in quel periodo ci si è prefisso di attuare.

032.IL TERREMOTO DEL 23 NOVEMBRE 1980-CONSEGUENZE SUL TESSILE E ABBIGLIAMENTO NELL’AREA SALERNITANA. Il terremoto del Novembre 1980 introduce un supplementare elemento di contrazione del mercato con l’ulteriore flessione delle vendite. Le giacenze in magazzino raggiungono livelli assai elevati e si determina la necessità di fermate, limitate e concordate, degli stabilimenti165. Un tragico evento che, in pochi minuti, causa l’intera e devastante distruzione di tanti piccoli comuni dell’avellinese e del salernitano, con l’epicentro concentrato nell’area tra Laviano, Lioni, Oliveto Citra, ma con danni estesi anche in altri numerosi comuni della Provincia. Solo nel nocerino, nei comuni di Nocera Inferiore e Superiore si registreranno 40 morti per crolli di fabbricati causati da voragini apertesi per l’inconsistenza delle sottofondazioni.166 Tutte le istituzioni sono prese da una

149 raccomandata del direttore generale dottor Accardo al Consiglio di Fabbrica MCM stabilimento di NUFI dell’11-12-1980. 166 Sulle conseguenze del terremoto sull’Agro Nocerinio Sarnese vedasi : Enea Falcone, “ Il terremoto del 23 Novembre 1980” da “ Nocera dei pagani dalle origini ad oggi”, Arti Grafiche Palombo& Esposito, Cava dei Tirreni, pag. 741, ed ancor, su tutta la vicenda del terremoto vedasi Mangoni-Pacelli, “ Dopo il terremoto la ricostruzione” , Ed. Delle Autonomie, Roma 1981, pag. 4 e 5 ; L’articolo del “ Mattino” , “ Quei 182


sensazione, evidente, di inadeguatezza e d’impotenza rispetto alla capacità di fronteggiare un evento di una tale, possente, inimmaginabile dimensione. Migliaia saranno le vittime, numerosissime le case crollate o danneggiate. I danni particolarmente rilevanti per le grandi, medie e piccole città campane e la ferita ancora oggi non può ritenersi definitivamente emarginata pur a fronte del fiume immenso di danaro che, da quel momento in avanti, sarà riversato nelle Province colpite della Campania e della Basilicata. Quasi di contrasto alle insufficienze ed ai limiti nell’attrezzare risposte efficienti ed all’altezza delle necessità di un’ora così grave, si assiste, di converso, ad uno straordinario sussulto di solidarietà dell’insieme del Paese. Si mobilita il meglio della coscienza civile e delle generose risorse di cui l’Italia dispone. Migliaia e migliaia di volontari si mobilitano, da ogni angolo della nazione, per dare soccorso alle popolazioni colpite. Si mette in moto una gara di solidarietà per garantire la più rapida ripresa dell’economia e della normale attività sociale dopo un disastro di proporzioni immani. In questa gara di generosità si distinguono i vigili del fuoco, l’esercito, enti vari, privati cittadini, organizzazioni sindacali al cui sforzo comune si deve la salvezza di tante vite umane innocenti. Sono di frequente i volontari a supplire alle gravi deficienze delle autorità statali messe in evidenza nei ritardi dei soccorsi e nella loro approssimazione. Si assiste ad un’aggiornata edizione di un processo di solidale unità tra il Nord ed il Sud del Paese. Il sindacato mobilita tutte le proprie strutture a sostegno del lavoro e delle iniziative che promuovono, pur tra mille difficoltà, dopo i primi giorni di disorientamento, i militanti ed i dirigenti dell’organizzazione a livello locale. Ogni atto sembra dover essere finalizzato alla ripresa ed al rilancio più rapido possibile dello sviluppo. Bisogna fuoriuscire al più presto da una situazione terribile e fare tutto ciò che è umanamente possibile per garantire la piena ripresa del lavoro e della produzione. Una catastrofe di tali dimensioni evidenzia, in maniera ancora più acuta, tutte le antiche discrasie e le contraddizioni dei modi peculiari in cui è sorto e si è strutturato il sistema istituzionale e di potere locale. La gara di solidarietà punta a garantire, assieme agli alloggi di fortuna necessari, la rapida ristrutturazione di tutte le case danneggiate, un piano straordinario di costruzione di nuove abitazioni, la predisposizione di interventi industriali specifici che consentano di trasformare la tragedia che si è abbattuta sulle comunità campane in una grande occasione di generale rinascita e di ripresa economica e produttiva. Si dovrà produrre, a consuntivo, progressivamente ma in maniera sicura, la riduzione ed il superamento degli antichi differenziali nello sviluppo tra il Nord ed il Sud del Paese. A partire da quel momento in avanti e per tutti gli anni a venire saranno riversati nel territorio campano, nell’avellinese e nel salernitano, risorse finanziarie assai ingenti. Troppo spesso, però, si dovrà prendere atto di risultati ben diversi da quanto in origine era stato auspicato. Agli ingentissimi danni materiali vanno infatti aggiunti i danni derivati dall’accentuazione della crisi economica nazionale e locale assieme giorni, delle macerie, della paura, della rabbia”, EDI. ME. , supplemento al “ Mattino” del 25 gennaio 1981, pag. 9 183


all’emersione di estesi e gravissimi fenomeni di diffusione della delinquenza organizzata, elemento questo ancora più raccapricciante se si considera la sostanziale incapacità di esercizio di un’efficace azione di contrasto delle Istituzioni Locali. Molte risorse, infatti, finiranno per essere disperse o saranno addirittura intercettate ed utilizzate dai clan e dalle organizzazioni camorriste e malavitose in direzioni difformi dai progetti originari. Alcuni anni dopo l’avvio degli interventi per la ricostruzione e dopo la promulgazione di leggi, come la 223, sarà possibile trarre un critico bilancio dei risultati ottenuti. 167 Molti comuni dell’Agro Nocerino Sarnese, a partire da quello di Nocera Inferiore assieme a numerosi altri della Provincia arriveranno alla dichiarazione di dissesto finanziario. Il terremoto ha portato alla luce una situazione di degrado profondo del sistema abitativo provinciale e campano. Numerose costruzioni prive di qualunque tipo di manutenzione, con zone in straordinario eccesso di densità abitativa, sorte intorno a quei centri senza il rispetto di alcuna regola urbanistica, illegalità diffusa, uso improprio ed illegale appropriazione privatistica delle risorse pubbliche. Il Presidente Scalfaro avvierà l’istruzione di una commissione parlamentare d’inchiesta per il rendiconto degli obiettivi realizzati nelle realtà terremotate interessate ad un intervento globale straordinario di 50. 000 miliardi di vecchie lire. 168 L’ENI da parte sua ha attivato, immediatamente, un proprio piano di intervento diretto ai dipendenti delle MCM e dell’Intesa. Esso interessa 2.500 lavoratori occupati. L’ente pubblico assegna 137 roulot, 90 delle quali sono immediatamente occupate. Le roulot sono collocate a Fratte (30); Angri(52); Nocera(45) Intesa(10). L’azienda garantisce un pasto a tutti i lavoratori ed alle loro famiglie stazionanti nelle roulot, che vengono dotate di servizi igienici. Le abitazioni di emergenza sono provviste di coperte, lenzuola, cuscini, riscaldamento. In tutti i 4 punti di raggruppamento è in funzione un servizio medico ed infermieristico. E’ predisposto anche l’acquisto di lavatrici. La Lanerossi decide la distribuzione di vestiario a dipendenti e familiari che non hanno fatto ricorso alla pubblica distribuzione. L’intervento, così congegnato, è assicurato in via continuativa per 4 mesi e la mensa dello stabilimento di Angri viene utilizzata quale punto di raccolta per i lavoratori e le loro famiglie. 033.IL LIBRO BIANCO DELLE PPSS E LA PROSPETTIVA DEL SETTORE TESSILE PUBBLICO-SMOBILIZZI ED “ATTIVITA’SOSTITUTIVE”. Il 1980 è un anno particolarmente importante nella storia dell’industria cotoniera pubblica. E’ infatti il momento in cui il Ministero fa conoscere, informalmente, il proprio progetto di riassetto complessivo del sistema delle Partecipazioni Statali. Il “libro bianco”manifesta in maniera esplicita il fatto che le aziende tessili e dell’abbigliamento dell’ENI, e soprattutto quelle dell’abbigliamento, rientrano in un 167

Al proposito utile la consultazione della “ relazione sull’attività delle zone terremotate”, a cura del Commissario Straordinario per la Campania e Basilicata del Marzo 1981, alle pag. 55 e seg. 168 Vedasi in proposito raccolta atti parlamentari inchiesta sulla ricostruzione aree terremotate. 184


più ampio e generale progetto, di smobilizzo e cessione ai privati. Queste aziende dovrebbero, nel percorso previsto, passare -temporaneamente- alla GEPI, la finanziaria pubblica incaricata dei processi di presa in carico delle aziende in crisi. Essa dovrà avviarne il risanamento prima di cederle a privati affidabili che siano in grado di fornire adeguate garanzie. Il Ministero delle Partecipazioni statali, denuncerà la FULTA, assume invece in questa fase un atteggiamento dilatorio, evitando di aprire ogni confronto di merito. L’ENI ha ufficialmente sostenuto di volere concentrare i propri sforzi, negli anni a venire, in direzione dei settori dell’energia e della chimica. L’assenza di logica industriale, che fino ad allora ha attribuito all’ENI la responsabilità della gestione delle imprese tessili, dovrà finire. Una tale convinzione è ancora di più rafforzata dal fatto che il risanamento non è stato realizzato. L’ENI potrebbe così non disporre più, come fino a quel momento è avvenuto, delle risorse atte a coprire le perdite d’esercizio che nel tempo si sono accumulate. L’ENI ritiene che il proprio disimpegno dovrà essere gestito “con prudenza e gradualità…. . con una relativa distinzione tra tessile ed abbigliamento”. L’Ente energetico non ha in verità un proprio piano globale di cessione. In linea di principio ha già sostenuto di volere garantire tutta l’occupazione, ma non ha chiarito come intenda realizzare ciò nel percorso di progressivo disimpegno. L’ENI punta ad associare a sé anche nuovi soggetti imprenditoriali privati, la Gepi ed il sistema cooperativistico nazionale in modo da assicurare la realizzazione della prospettiva della privatizzazione, con graduali cessioni di pacchetti azionari in casi di andamenti favorevoli delle gestioni. Le prime operazioni di cessione ai privati riguarderanno le Confezioni di Filottrano e la Fildaunia. Primi passi del processo generale di riassetto delle Partecipazioni statali. In quei mesi si prospetta una situazione di particolare delicatezza. Il Piano di cui si parla è generico, impreciso. L’unica cosa che in esso nitidamente traspare è il disimpegno dell’ENI dal settore. Ciò senza la proposizione di alcun disegno di politica industriale, alternativa, che renda realistica qualsiasi ipotesi di risanamento, difficile ma ancora possibile. 169 Illuminante per la comprensione delle dinamiche che si sono messe in moto, determinando un’evidente accelerazione di tutta la vertenza del tessile pubblico, è il richiamo ad alcuni dei principali contenuti della bozza del “ libro bianco” presentato dal Ministro Gianni De Michelis sul riassetto delle Partecipazioni Statali del settore tessile ed abbigliamento. In questo testo si ricorda come l’avvio dell’intervento pubblico nel tessile–abbigliamento è stato effettuato, nel corso degli anni 60, con l’acquisizione da parte dell’ENI della Lanerossi e della Lebole e con una prima ristrutturazione. L’intervento è poi continuato, negli anni 70, con ulteriori acquisizioni e più ampie ristrutturazioni del gruppo, con interventi supplementari della GEPI conseguenti alla fuga dell’imprenditoria privata dal settore. In origine l’ENI ha puntato a grossi 169

Nota FULTA Nazionale dell’11-12-1980 ai sindacati Provinciali e Regionali FULTA ed ai cdf interessati a firma Isolani, Giardino, Duò. 185


investimenti e concentrazioni delle attività produttive in grandi e moderni stabilimenti proiettati allo sviluppo del settore. Ha poi tentato il recupero di flessibilità operativa e di capacità imprenditoriale nelle singole società. Nella fase istruttoria sono stati così raggiunti discreti risultati, poi vanificati dal persistere di perdite ricorrenti che hanno dimostrato l’impossibilità, da parte della mano pubblica, d’inserire un tale sistema di imprese in un più ampio e generale disegno strategico. Al punto cui la situazione è giunta nel 1980 è necessaria un’azione di avvicinamento e di collaborazione con l’imprenditoria privata più avvertita e qualificata che ha dimostrato notevoli capacità di flessibilità e di innovazione ed è riuscita ad interpretare, tempestivamente, le mutevoli esigenze del mercato. Le prospettive degli anni 80 appaiono ben diverse da quelle degli anni 70. Negli anni 70 la Lanerossi e le altre grandi imprese del settore hanno subito la concorrenza d’una costellazione di imprese che hanno trovato condizioni economiche favorevoli nel decentramento produttivo e nell’uso più flessibile e meno costoso del costo del lavoro. Negli anni 80 invece non sono stati più possibili simili vantaggi a causa dei maggiori controlli sociali e dell’evoluzione socio- economica generale del paese. Sono diventati perciò decisivi i fattori della competitività, l’ aumento di produttività, il salto qualitativo delle produzioni e dell’insieme del sistema realizzabili grazie alle applicazioni della tecnologia ed agli aumenti di valore aggiunto garantiti da un approccio al mercato più organizzato ed innovativo. In un tale contesto hanno dato prova di poter reggere le imprese tecnologicamente più evolute, con forte specializzazione e con macchinario automatizzato, con piccole dimensioni occupazionali ed alta intensità di capitale. Queste aziende potranno ancora agire, in positivo, nelle specializzazioni più suscettibili alle applicazioni dell’elettronica, nelle tintorie e finissaggi, nelle filature e nelle tessiture inserendosi da protagoniste nel sistema tessile nazionale e migliorandone l’efficienza complessiva. La presenza della grande impresa e l’incisiva qualità della sua azione, ispirata da forte cultura manageriale, la disponibilità di capitali, l’estensione delle imprese in dimensioni equivalenti a quelle internazionali saranno i fattori decisivi negli anni 80. Il risanamento potrà essere favorito dall’immissione nel sistema produttivo di tutte le innovazioni tecnologiche necessarie e tali da consentire l’assunzione di un ruolo di primo piano nell’avanzamento di tutto il settore nazionale. Nel “libro bianco”si sostiene ancora che la Lanerossi potrà, se pur tra ostacoli, realizzare l’obiettivo di dar vita ad una grande impresa ma ciò dovrà avvenire non in maniera contrapposta o antagonista all’impresa privata. Si tratterà piuttosto di garantire all’impresa pubblica l’identica efficienza e la stessa produttività dell’impresa privata. E’ questa l’unica condizione per restare ancora nel settore. Le differenze su questi piani, a quel tempo a tutto vantaggio del privato, vanno perciò superate con estrema rapidità. Vengono in conclusione prospettate linee d’azione incentrate su tre obiettivi:il risanamento del tessile - abbigliamento, da realizzare in maniera non precaria; la valorizzazione e la qualificazione della grande impresa in maniera tale da consentire lo sviluppo di tutto il settore nazionale; il superamento dell’antico dualismo tra pubblico e privato. Il settore d’ora in avanti dovrà avvalersi 186


delle funzioni di ricerca e sviluppo proiettate al medio periodo ed il sistema dovrà raggiungere, nel suo insieme, un nuovo equilibrio tramite un rapporto, di stretta simbiosi, tra pubblico e privato. Saranno necessarie perciò capacità manageriali, know-how, elevate qualità tecnologiche ed organizzative, partecipazioni azionarie, promozione di processi di diversificazione per la garanzia ed il mantenimento dei livelli di occupazione esistenti, adeguate disponibilità finanziarie. A ciò dovrà essere aggiunta una capacità di crescita delle esportazioni insieme allo sviluppo di trasferimento di forniture, impianti e know-how all’estero. Dovrà inoltre essere sviluppata la ricerca applicata per rilanciare le fibre chimiche e realizzata un’ulteriore automazione degli impianti tessili aggiornandoli al livello della concorrenza europea e mondiale più qualificata. Sarà infine necessaria l’applicazione dell’elettronica e dell’informatica nella produzione e nella distribuzione dei capi confezionati. La linea da perseguire si dovrà basare su forme di sicura collaborazione tra pubblico e privato, orientate a favorire la ripresa dell’intervento privato nel settore. Ciò al fine di realizzare il progetto di liberare, gradualmente, le partecipazioni statali dall’impegno in settori assai costosi e poco remunerativi che potranno essere coperti, globalmente, in un nuovo quadro generale, dall’iniziativa dei privati. 170 Il riferimento è di particolare rilievo in quanto s’inizia a ridisegnare, dopo diverso tempo, la mappa della presenza delle Partecipazioni Statali nel sistema produttivo italiano. La linea tracciata a questo punto appare del tutto chiara: si vuole concentrare gli sforzi finanziari e manageriali verso alcuni obiettivi, primari, quali il recupero pieno di efficienza e produttività d’impresa. Esplicita è l’idea di recuperare mezzi finanziari da concentrare nelle direzioni ritenute prioritarie. E’ l’inizio di una linea tendente alla fine dell’incremento, ulteriore, della presenza pubblica nell’economia, un esplicito cambio di strategia rispetto agli anni 70. Infine si vuole razionalizzare, definitivamente, il tipo di attività coerente alle effettive vocazioni del sistema delle Partecipazioni Statali evitando il ripetersi di acquisizioni improprie. Dalla esplicazione di tali posizioni, per la prima volta esposte con nitida chiarezza, deriveranno scelte, non indolori, destinate a mettere in discussione l’occupazione tradizionale nel comparto cotoniero manifatturiero di molte realtà locali aziendali soprattutto meridionali. In conseguenza di questa diversa strategia saranno liquidate le aziende in cronico passivo, le situazioni industrialmente e finanziariamente non risollevabili e gli occupati nelle aziende dismesse o drasticamente ridimensionate dovranno essere impiegati in attività alternative. Il comparto tessile sarà senz’altro uno dei settori, prioritari, in cui dovranno realizzarsi gli smobilizzi. Come si può vedere in questo memoriale sono individuate, in maniera assolutamente chiara, le linee guida che esplicitano le tracce su cui si muoverà, negli anni a venire, il Ministero delle Partecipazioni Statali ed il governo nel suo insieme. Posizioni che, in sostanza, non saranno più messe in discussione e che interesseranno l’insieme del gruppo, pezzo dopo pezzo, industria dopo industria, territorio dopo territorio. Il 170

Tesi esplicitate negli stralci di bozza del “ libro bianco” presentato dal Ministro De Michelis in relazione al settore tessile ed abbigliamento a proposito del riassetto del sistema delle Partecipazioni Statali. 187


processo di dismissioni darà luogo, in tutta evidenza, a conseguenze differenziate nelle diverse aree territoriali in cui insiste il sistema industriale delle Partecipazioni Statali del settore tessile. Esse saranno in genere assorbite, senza particolari danni, nel centro nord per mezzo di una pluralità di interventi di ristrutturazione e di mobilità all’interno del settore, tra aziende territorialmente limitrofe o mediante operazioni di mobilità - mirata e contestuale- da posto di lavoro ad un altro posto di lavoro. Il governo di un tale processo di ristrutturazione sarà reso praticabile dall’esistenza di un’offerta di lavoro industriale privata ben più estesa ed articolata rispetto a quanto è presente nelle altre aree geografiche del Paese. Nel Mezzogiorno d’Italia e nella Provincia di Salerno invece si manifesterà in tutta evidenza, e con rapidità, l’estrema gracilità delle ipotesi di reimpiego alternative. La diversa collocazione produttiva dei lavoratori espulsi dalla produzione dalle aziende tessili a partecipazione statale non si verificherà o avverrà in maniera del tutto irrisoria, parziale e limitata. Si evidenzieranno le insormontabili difficoltà dovute ad una storia d’industrializzazione ben diversa da quella delle realtà nazionalmente più attrezzate. Riappariranno, in maniera penalizzante per il Mezzogiorno e per la Provincia di Salerno, tutti i vizi delle particolari forme di accumulazione e di un’industrializzazione originaria che è proceduta in un contesto in cui non si è mai davvero affermata un’identità produttiva e competitiva autonoma, solida,in grado di esercitare, di per sé, una funzione d’avanguardia sui mercati nazionali ed internazionali. Tutta la partita delle attività sostitutive, che avrebbero dovuto essere realizzate e garantite dall’ENI nella loro affidabilità e solidità, finirà per risultare ben altra cosa rispetto a quanto in partenza era stato assicurato dalle Partecipazioni Statali e dal governo. Sarà l’INDENI, la finanziaria pubblica appositamente creata dall’ENI, ad essere incaricata dell’attuazione di tutti gli atti istruttori idonei all’individuazione delle aree d’insediamento delle nuove imprese alternative, della dotazione finanziaria prevista per ogni singolo insediamento, della garanzia sull’affidabilità di ogni partner privato individuato. Dopo le euforie iniziali vedremo come si verificheranno situazioni nuove ed anomale che, in più circostanze, finiranno per costituire potenti ostacoli e negative ipoteche sul percorso appena individuato. Nel mese di Luglio del 1980 si registrano segnali di crisi, di un qualche rilievo, per l’arredamento e per la lana. Le difficoltà per il cotone si sono invece già manifestate nel periodo di aprile e maggio. Pur confermando il fatturato globale si verificano contrazioni del 40% degli ordinativi e le perdite si consolidano così intorno agli 11, 7 miliardi. Stabilimenti come Sondrio, Andria, MCM sono interessati dal fenomeno che non appare solo nazionale ma europeo. Esso infatti riguarda, allo stesso modo, l’Inghilterra e la Germania. Della congiuntura negativa risentono in particolare i punti industriali più gracili. L’avvio di una diversificazione produttiva appare perciò necessario, urgente e indifferibile. Una svolta di tale rilievo da non potere essere però attuabile in tempi rapidi. E’ necessario attrezzare, sosterrà Sgarbi ( nota), una linea poliennale di validità quinquennale. Gli stampati femminili della linea abbigliamento sono andati molto male. Lo stesso è avvenuto per lo stampato finale 188


femminile della linea fashion e per il velluto. Solo la drapperia cotoniera ha fatto registrare un incremento delle vendite del 66%. Per le esportazioni non appaiono risolti i problemi di qualità e precisione nei tempi di consegna. Nel mentre discreta è la situazione del finissaggio, si registra un peggioramento nella tessitura. Nelle strategie aziendali si spingerà pertanto per l’incremento delle esportazioni in drapperia. Per i velluti greggi e finiti si registra una caduta verticale e tempi di battute doppi sulle tele. Gli accordi tentati con Bassetti e Legler sono venuti meno. La radiografia completa dello stato dell’azienda evidenzia, a questo punto, una lontananza importante dai traguardi prefissati. Il marchio non è stato valorizzato per nulla. Le reti commerciali appaiono del tutto inadeguate, in specie nell’arredamento, e la contrazione delle vendite impone, a fronte della sostanziale stagnazione di ogni iniziativa dell’ENI e della Lanerossi, il massiccio ricorso alla Cassa integrazione guadagni in molti stabilimenti del gruppo ed in tutte le aziende MCM. Il frequente ricorso alle fermate, seppure per periodi temporali limitati, evidenzia come ci si stia avvitando in una situazione che non è più in grado di assicurare la saturazione produttiva degli impianti e lo smercio, integrale, del prodotto finito sul mercato. Contrazioni di mercato e riduzione dei volumi d’investimento, assenza di innovazioni e di adeguamenti tecnologici, sostanziale assenza di una interna diversificazione produttiva, serie difficoltà ostative all’incremento di produttività degli stabilimenti, comparsa sul mercato di concorrenti aggressivi che producono a prezzi ben più contenuti gli stessi prodotti delle Cotoniere, mettono ormai in evidenza il profilarsi di una crisi, di natura strutturale, destinata a non risolversi con il ricorso ad azioni-classiche ed abituali- di tipo tradizionale. Il protrarsi di questo insieme di problemi, l’incapacità dei gruppi dirigenti pubblici di affrontarli portandoli a progressiva soluzione consente già in quegli anni di prefigurare in anticipo che da questa situazione si uscirà in maniera diversa, in un modo ben più negativo rispetto alla situazione d’origine. Non saranno garantiti né gli stessi volumi produttivi né la stessa quantità di occupazione antecedente. Il processo di smobilizzo procederà in progressione ascendente, a livello nazionale e poi locale. Una dopo l’altra saranno privatizzate, chiuse o cedute, le aziende Lanerossi, sia nel comparto dell’abbigliamento che in quello tessile. Nel gruppo delle MCM, che nel passato è stato più volte capace di sostenere lotte unitarie di notevole valenza, coordinate e dirette dal consiglio unitario dei delegati, lotte nelle quali sono stati dati innumerevoli esempi di combattività e compattezza sindacale, si inizierà ad assistere a processi di sfilacciamento. Emergeranno contraddizioni con preoccupanti contrapposizioni tra i singoli stabilimenti. Difficoltoso apparirà l’esercizio di una pratica di concreta solidarietà tra tutti i lavoratori del gruppo. Si manifesteranno, d’ora in avanti e non di rado, chiusure ed arroccamenti nelle singole imprese e la direzione sindacale farà spesso molta fatica a fronteggiare, con la riconfermata unità dei lavoratori e di tutte le comunità interessate, la durezza dei colpi che si stanno profilando. Lo stabilimento NUFI di Nocera sarà il primo ad essere interessato dai processi di verticale riduzione d’attività e dovrà fare ricorso, massiccio, alla cassa integrazione. Le altre aziende 189


del gruppo, di Angri e di Fratte, culleranno spesso l’illusione di poter essere solo sfiorate dai venti burrascosi della crisi che si affaccia all’orizzonte e a lungo riterranno di poterne uscire sostanzialmente indenni. Numerosi i sostenitori, più o meno espliciti, delle tesi di chi ritiene che, risolto in un qualche modo il punto di più aspra criticità rappresentato dalla filatura di Nocera, si potrà tornare ad una situazione di sostanziale tenuta e normalità. Speranza questa destinata a rivelarsi fragile illusione. Dopo Nocera la crisi investirà, in progressione, le altre aziende del gruppo. La conclusione della vicenda sarà scritta in coerente relazione con le linee generali sulle quali in avvio della presente trattazione ci si è soffermati. Le linee sul “riassetto” del sistema delle Partecipazioni Statali, anticipate dal “libro bianco”, si concretizzeranno, in maniera sintonica ed organicamente coerente a quella iniziale impostazione, pur non procedendo con la stessa contestualità temporale e piuttosto a ondate successive. In sostanza la Lanerossi non si dimostrerà interessata a svolgere un ruolo d’avanguardia nell’innovazione tecnologica. La bilancia tecnologica del Paese continuerà a persistere in una situazione di grave crisi ed arretratezza. Ciò finirà per piegare le potenzialità strategiche di un settore che, fino a quel momento, ha esportato in maniera ben superiore agli altri comparti merceologici manifatturieri. Non si stabilirà alcun rapporto di integrazione produttiva e tecnologica delle distinte esperienze dei vari segmenti del ciclo tessile. La presenza pubblica non si muoverà per coordinare ed integrare, in un assetto organico ed unitario, il ciclo dalla qualità delle fibre all’adeguamento del meccanotessile, ai tessuti ed alle confezioni. La situazione procederà inerzialmente fino alla conclusiva consunzione. Non si incrementerà la ricerca di nuovi mercati di sbocco dei prodotti, né sarà tentata alcuna azione di presenza e consolidamento nei mercati più complessi. In questa fase è interessante ripercorrere, a grandi linee, la vicenda delle attività sostitutive proposte per l’area salernitana dalla Lanerossi e dall’ENI. Per fronteggiare la grave perdita di posti di lavoro che si prefigura nel tessile pubblico salernitano sono stati individuati pacchetti di attività alternative che dovrebbero garantire una diversa collocazione produttiva dei lavoratori espulsi dai processi produttivi. Gli “esuberi”, in un breve lasso di tempo, dovrebbero essere impiegati in nuove imprese, in genere di piccole e medie dimensioni. La Buracci, la Fontana Sud, la Bender e Martiny dovrebbero impiegare nei nuovi siti d’insediamento, in rapida successione, circa 250 lavoratori. Un primo e consistente gruppo da saturare successivamente con ulteriori insediamenti al fine di recuperare a pieno, seppure in diversi settori merceologici, le 475 esuberanze determinate dai recenti processi di ristrutturazione. In breve tempo sono individuate tipologia, aree di insediamento, si insediano i patti para sociali, si stabiliscono relazioni con le Amministrazioni le cui aree territoriali sono interessate all’insediamento, si definiscono quantità di fatturato e di lavoratori che dovranno essere impegnati in ogni singola e specifica attività. I settori merceologici alternativi proposti variano da quello dei cordami, ai metalli, al settore metalmeccanico ed ad altri. Si dovrà avviare un percorso che, a consuntivo, dovrà , 190


come recitano gli accordi, mantenere inalterata la quantità di lavoro prima impiegata senza alcuna penalizzazione, globale, di posti di lavoro nel territorio salernitano. Dichiarazioni importanti ed impegnative ed atti di rilievo definiti, in genere, in conseguenza delle grandi lotte che -alla fine degli anni 70 e nei primi anni 80- si sono sviluppate contro il disimpegno pubblico e la deindustrializzazione nell’area salernitana. Vertenze sostenute da lotte ed iniziative, frequenti e generali, del complesso del movimento dei lavoratori. Si registrerà, come vedremo, un’acuta discrasia tra dichiarazioni iniziali e fatti concreti. Saranno in genere ritenute valide e valutate con favore, per consistenza economicofinanziaria e per affidabilità industriale, la quasi totalità delle industrie proposte. Forti obiezioni saranno invece avanzate da più parti per l’iniziativa proposta dalla Bender e Martiny. Questa impresa doveva sorgere a Siano e avrebbe dovuto produrre fibre di amianto, con un’occupazione prevista di circa 150 lavoratori. Un secondo stabilimento sarebbe dovuto nascere nelle aree a suo tempo espropriate per la realizzazione delle MCM di Fosso Imperatore su complessivi 40.000 mtq. Qui sarebbero stati realizzati cordami. Il terzo stabilimento previsto sarebbe stato insediato nell’area del Comune di Mercato San Severino ed avrebbe dovuto essere destinato alla costruzione di attrezzature meccaniche. La spesa di investimento globale sarebbe stata di 10 miliardi di vecchie lire. Spesa poi ridotta a causa della disponibilità dell’area di 40.000 mtq di cui si è detto a lato delle MCM di NUFI. Le tre iniziative avrebbero occupato, complessivamente, 250 lavoratori. Le fonti giornalistiche riportano le notizie in maniera sostanzialmente ottimistica e fiduciosa. 171 Pur non essendo ancora nella fase in cui le questioni legate alla tutela ed alla difesa dell’ambiente assumeranno la centralità ed il rilievo che si verificherà negli anni a venire, sorge una situazione di diffusa contestazione territoriale all’ipotesi di realizzazione dell’insediamento per la produzione di fibre di amianto. Si teme che le immissioni nell’aria dei pulviscoli derivati dalla lavorazione di fibre d’amianto possano arrecare un grave pregiudizio alla salute dei lavoratori e delle popolazioni locali. Si registra, in tutta la fase istruttoria del confronto di merito, l’esplicitarsi di una contraddizione acuta, poi in altre svariate e future circostanze confermata, tra bisogno di lavoro e certezza di tutela della salute. Le forze sindacali, strette dalla crisi e nella difficoltà di assicurare risposte persuasive ai lavoratori, si trovano nella palese difficoltà di dover sollecitare risposte di lavoro produttivo e di risolvere, al meglio e con rapidità, le gravi tensioni che - su questo fronte- si sono innestate tra gli iscritti e tra i lavoratori. Il consenso largo di cui a lungo, a partire dagli anni 60 in avanti hanno goduto, comincia infatti a scricchiolare. Ciò in relazione al profilarsi di un ciclo non più ascendente quanto discendente dell’economia. L’INDENI assicura, a proposito della Bender e Martiny, che sussistono tutte le garanzie di sicurezza, che 171

Articolo di Gennaro Corvino, “L’Agro con le nuove industrie trasformerà la sua economia”, Il Mattino, 53-1980. 191


sono state adottate “tutte le possibili e più moderne tecniche di lavorazione che permettono di contenere sul lavoro e nell’ambiente i rischi derivanti dall’uso dell’amianto”.172 Si cerca di fornire ogni assicurazione sul fatto che sono state effettuate tutte le verifiche di legge così come è previsto dalle disposizioni, estremamente precise e rigorose, dei singoli governi della CEE e degli Enti Comunitari internazionali. Per lo stabilimento in procinto di nascere a Siano si sostiene che esistono “risultati di sicurezza personale del lavoratore e di igiene ambientale affidabili”. Che tutto è stato predisposto per “ridurre al minimo indispensabile la formazione, l’emissione, il diffondersi di polvere e di fibre di amianto”, e di essere assolutamente in grado di ridurre “ Il contatto diretto tra operatore e fibra d’amianto”, di poter “ asportare o eliminare la polvere. . nei punti ove essa si genera, cioè sulle macchine ” evitando che “le polveri, le fibre, gli scarti, captati in impianto e sulle macchine siano scaricati nell’atmosfera, nello stabilimento o nei suoi dintorni”. In prima istanza si registra il consenso pieno dei sindacati pur essi riservandosi ulteriori momenti di verifica e di approfondimento. Si auspica che i lavori di avvio della costruzione della fabbrica avvengano nei tempi più brevi e veloci possibili. 173

034.GLI ANNI 80:LOTTE SOCIALI-LA GRANDE RISTRUTTURAZIONE, IL DECLINO. Le facili illusioni degli anni 60 e 70, che avevano lasciato intravedere la possibilità di una crescita a tappe accelerate della società locale, recuperando in breve i grandi ritardi accumulati rispetto al Centro-Nord del Paese e che avevano per di più indotto a sperare che ciò si potesse realizzare con l’avvio di una nuova ed inedita fase di industrializzazione favorita dalla politica dei poli di sviluppo, passata l’euforia iniziale, cadono rapidamente. Inizia un periodo, di segno negativo, in cui cominciano a delinearsi molteplici fattori di gracilità, dovuti al convergente confluire di più concause, internazionali ed interne. La crisi petrolifera del 1972 esplicita per la prima volta la sussistenza della decisività, per tutte le società industrializzate, del vincolo rappresentato dal fattore dei costi delle materie prime e dell’approvvigionamento energetico. Il condizionamento fortissimo del costo petrolio, con le sue cicliche oscillazioni, diviene essenziale per continuare a garantire la sopravvivenza dei sistemi industriali. La necessità di ridurre i consumi correnti determina, ovunque, uno scatto inedito e repentino di consapevolezza.

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Comunicato ASAP, INDENI; BENDER E MARTINY; FULTA NAZIONALE FULTA PROVINCIALE DI SALERNO siglato a Roma il 18 settembre 1980. 173 Da rilevare che sull’insediamento della fabbrica d’amianto si registrano ampie convergenze delle forze politiche locali, dai democristiani ai comunisti. L’insediamento è in origine considerato in modo positivo in quanto si spera di poter superare la situazione di arretratezza economica e produttiva vissuta fino a quel momento, in larga parte, sulle lavorazioni discontinue stagionali. 192


La coscienza, prima ancora assai parziale e limitata, che le risorse energetiche non sono infinite né sarà più per sempre possibile, come fino ad ora è avvenuto, approvvigionarsi di materia prima a costi stracciati. In primo piano si pone il problema dei paesi produttori di materie prime e del rapporto che deve instaurarsi tra loro ed i Paesi più avanzati e progrediti del mondo. S’avverte poi, con chiarezza, il fatto che è emerso, dopo i lunghi anni del colonialismo, l’orgoglioso sentimento nazionale dei popoli del terzo e del quarto mondo che proprio al ruolo, antico, di presuntiva eterna subalternità non intendono più soggiacere. I paesi produttori del greggio si riuniscono periodicamente e fissano, di volta in volta, il costo del greggio a barile. L’aumento del prezzo del greggio, deciso dai paesi Opec nel 1972, ha immediate ripercussioni in Italia, in Europa, negli Stati Uniti, nel Giappone. Diviene necessario adottare una serie di drastiche misure di risparmio dei consumi energetici. In Italia s’inaugura la fase delle domeniche a piedi. E’ un campanello di allarme che segnerà, negli anni a venire, la storia dello sviluppo, le sue contraddizioni, con la sperimentazione dei modi più disparati per farvi fronte. E’ evidente come le più grandi potenze industriali del pianeta non possano né intendano rimettere radicalmente in discussione il livello di sviluppo e di benessere raggiunto, la quantità e la qualità dei consumi garantiti in questa parte del mondo. L’equilibrio diseguale tra i vari continenti e tra il Nord ed il Sud del Mondo dovrà -se necessario- essere assicurato anche, di frequente, col ricorso all’intervento armato ed alla guerra. I gruppi monopolistici più potenti della terra che, attorno all’idea della continuità dell’approvvigionamento energetico e delle materie prime a basso costo, hanno conquistato un ruolo leader nel mondo, saranno sempre più attenti a questo elemento intervenendo in tutte le situazioni di crisi locale nelle quali si determinano pericolose situazioni di instabilità politica che potrebbero scalfire la certezza dell’afflusso di materie prime indispensabili per la continuità dell’attività delle imprese. I segni della crisi latente nell’industria nazionale, l’esplicitazione dei suoi ritardi rispetto alla concorrenza dei paesi europei e mondiali più evoluti diverrà, dal 1972 in avanti, sempre più chiara ed evidente. Sarà necessario l’avvio di profonde ristrutturazioni per superare le difficoltà che hanno evidenziato disfunzioni e gracilità strutturali del modello di sviluppo italiano. In Italia l’intervento dello Stato è stato massiccio e spropositato. Si è dato vita ad una vera e propria economia mista, pubblica e privata, che in varie occasioni non è proceduta all’interno dell’accettazione, piena, delle regole del mercato e della competitività. L’intervento statale si è andato a configurare, di frequente, quale azione di salvataggio di aziende private decotte che pur nell’idea originaria avrebbero dovuto essere ristrutturate, riorganizzate, rafforzate per poi essere riaffidate al mercato. Quasi mai la mano pubblica ha realizzato tali postulati. Si sono ripianati i debiti senza risanare e ciò ha comportato, a consuntivo, lo spreco e la dissipazione di enormi risorse pubbliche. Tutto il peso dei ripetuti fallimenti ha finito per riversarsi sulla collettività che ha 193


pagato i grandi disastri della chimica e della siderurgia, e non solo. Di converso essa ha dovuto così rinunciare alla realizzazione delle infrastrutturazioni primarie indispensabili al territorio. La produttività e la modernizzazione d’intere aree, soprattutto del Mezzogiorno, è stata decisamente compromessa dall’intreccio perverso tra parte della classe politica, sistema bancario, imprenditoria. Il peso del dissesto determinatosi dagli anni 70 in avanti è stato altissimo finendo per compromettere l’efficienza e la capacità di competizione del sistema paese nel suo insieme con il trascinamento di un effetto devastante che dura tutt’ora. Il Mezzogiorno d’Italia è rimasto così, a lungo, il punto di maggiore criticità della Nazione. Il nodo su cui hanno finito per infrangersi tutte le speranze di rapida palingenesi, da più parti diffuse a lungo ed a piene mani. Nell’ultima parte degli anni 70 iniziano a manifestarsi, nei comparti manifatturieri tradizionali, i primi segni di difficoltà e di crisi. Le grandi imprese del settore cotoniero e dell’abbigliamento, pubbliche e private, esplicitano mancanza di liquidità, cadute verticali di competitività, disagi sempre più seri nel reggere alla concorrenza più qualificata nello scenario generale del mercato globale. L’assenza d’innovazione e di aggiornamento, il persistere di rigidità organizzative, tutti i perversi elementi di staticità e di arretratezza, alle prime avvisaglie s’esplicitano in tutta la loro devastante portata. Il sisma del Novembre 1980, che distruggerà interi paesi dell’Irpinia e del salernitano, si abbatte in una realtà che già aveva iniziato ad essere morsa, dopo l’antecedente fase della crescita e del consolidamento, dalla crisi. Lo Sciopero regionale di CGIL-CISL-UIL proclamato il 28 Maggio 1982 sul tema dei contratti e dell’occupazione denuncerà il fatto che, a circa due anni dal terremoto, non è ancora cominciata la ricostruzione dei paesi colpiti dal sisma. Si è andata anzi decisamente aggravando la situazione dell’apparato produttivo locale. La Provincia di Salerno, costituzionalmente debole su questo fronte, risente dei colpi del terremoto che ha messo in ginocchio aziende come la Fulgor di Fisciano, già in precedenza attraversata da una seria crisi aziendale. I processi di ristrutturazione messi in atto appaiono incerti nei loro risultati. Si rischia di vedere ridotti i livelli di occupazione nella Pennitalia ed alla Coral, da tempo in condizioni precarie. Si moltiplicano, da quel momento in avanti, le situazioni di aziende manifatturiere in difficoltà. Migliaia iniziano ad essere i lavoratori a rischio di disoccupazione. 174 Stessa situazione inizia a vivere pressoché tutto il comparto tessile, delle fibre, dell’abbigliamento. Dopo gli anni 60, quelli delle grandi lotte e delle grandi conquiste operaie, a fronte dei segnali recessivi sempre più evidenti, sta prendendo nitidamente forma la tendenza alla dura rivincita del padronato che ha già chiarito di volere uscire dalla 174

Di diverso segno appare, contemporaneamente, la situazione produttiva del polo conciario di Solofra. In questo caso invece, dal sisma del 1980 in poi, si registra una elevata crescita del numero di aziende conciarie. Esse passano da 15 a 370. A latere tutta la discussione sulla responsabilità di queste imprese all’enorme danno ambientale da esse prodotto all’ecosistema circostante. Gli scarichi di queste industrie sono tra i principali responsabili del disastroso inquinamento del fiume Sarno, il fiume più inquinato d’Europa. Per il suo risanamento risultano spesi dal 1973, con esiti assolutamente risibili, almeno 1. 500 miliardi di vecchie lire. Al proposito F. Ianniciello, “ Il fiume dannato, le concerie e la corsa ai ripari (Emergenza Sarno : le anomalie nella gestione della depurazione)in “ Larticolo , 29 Luglio 2004. 194


crisi scaricando i costi di essa sul lavoro, riducendo gli organici, bloccando l’attività di imprese o parti di esse che appaiono improduttive o comunque non più in condizione di produrre utili. Il padronato in quegli anni finirà per usare il costante ricatto della disoccupazione per scaricare sullo Stato i costi sociali delle proprie difficoltà ed in genere riuscirà a conseguire i suoi obiettivi, liberandosi di manodopera eccedente, incrementando la produttività, riorganizzando in tal modo la propria funzione. Ne risulterà una caduta di peso, di ruolo, di potere, nella fabbrica e nella società, del Sindacato e dei Lavoratori. Il Padronato e la Confindustria daranno dimostrazione di estrema intransigenza puntando a conseguire anche il risultato di colpire politicamente il peso ed il potere conquistati dai lavoratori nelle fabbriche e nel Paese così da riportare la situazione indietro di molti anni, a prima del periodo delle grandi lotte contrattuali del 1969. Un poco più avanti nel tempo, nel 1985, si espliciteranno in maniera estremamente netta la volontà dell’impresa privata di recuperare, a pieno ed in maniera indiscussa, il proprio insindacabile ruolo direttivo nei processi di gestione della forza lavoro e quella di eliminare qualsiasi funzione negoziale dei lavoratori e dei sindacati. Si espliciterà così una distinzione, di un qualche rilievo, tra strategia delle imprese private e quella delle aziende pubbliche. E’ Guido Fantoni, vice Presidente dell’ASAP, 175a rilevare, in dissenso con Federmeccanica, come pur essendo evidente e non in discussione il fatto che “. . L’interesse dell’industria è oggi certamente quello di portare a compimento un non facile processo di riconversione e di recupero di produttività”, si tratta di decidere se un tale complesso percorso è più utile o meno che sia portato avanti “col consenso della forza lavoro”. Si tratta di vedere se questo consenso “…debba o no passare attraverso il Sindacato”. Federmeccanica sembra volere tornare ad un più diretto rapporto tra impresa e forza lavoro che punta, di fatto, al verticale ridimensionamento del ruolo del Sindacato. Una strada che potrebbe decretare la fine del Sindacato e della sua funzione di rappresentanza. Esso finirebbe per rappresentare “solo la tutela di interessi propri di una fascia sempre più ristretta e sempre meno omogenea del lavoro dipendente”. Una strategia questa che, a giudizio di Fantoni, pur producendo nell’immediato un qualche risultato, finirebbe per essere condannata al fallimento. Essa si rivelerebbe “miope”, in quanto alla fine s’innesterebbe un processo di disgregazione che comporterebbe alle stesse imprese problemi di gestione, nell’immediato ed in prospettiva, ben più complessi da governare. Il Sindacato va invece sfidato a diventare “un interlocutore rappresentativo e capace di cogliere i mutamenti in atto” e deve dare dimostrazione di “…sapersi adeguare ai compiti non certo facili che l’attuale situazione impone”. In tal senso la stessa impresa non può disinteressarsi del grande problema dell’occupazione, non solo perché si tratta di una questione dirimente sancita dalla Costituzione Repubblicana. Il Sindacato va perciò pienamente coinvolto in un confronto produttivo sulla qualità delle politiche industriali e delle politiche di sviluppo da attivare in una situazione 175

In “ L’Unità” 10-9-1985. 195


nuova in cui è iniziata un’inversione del rapporto tra industria e terziario e ci si trova di fronte ad una vera ridefinizione dello stesso concetto di lavoro dipendente. Il Sindacato non può essere solo coinvolto nella gestione dei processi di crisi per essere poi, alla fine, emarginato dal ripristino unilaterale delle prerogative dell’impresa. Certo, a giudizio di Fantoni, il Sindacato è di fronte a sfide decisive, ovvero quella di fuoriuscire da pratiche meramente protestatorie -in sostanza subalterne e perdenti- e deve al contempo avviare un profondo rinnovamento nel suo stesso modo d’essere. Una impostazione che, quando pone il problema di evidenti ritardi ed approssimazioni nella tempestiva ed esatta comprensione degli epocali cambiamenti in atto, coglie una parte di verità. C’è però da aggiungere, a consuntivo, che un tale piano di innovazione nella qualità delle relazioni sindacali, pur avvertito come essenziale da una limitata parte della direzione sindacale, sarà in sostanza vanificato dal fatto che non emergeranno concrete proposte di un nuovo processo di politica industriale e rinascita produttiva volta in via privilegiata al Mezzogiorno d’Italia. Qui si espliciterà, in maniera chiara, il fallimento delle politiche e delle scelte di governo ed alla chiusura di miriadi di imprese tradizionali non sarà offerto alcun piano d’investimenti alternativi effettivamente validi dal punto di vista della innovazione e dell’ammodernamento di sistema. E’ nel corso degli anni 80 che giunge a conclusivo compimento la crisi del processo di industrializzazione dell’industria manifatturiera tradizionale salernitana. Spariscono progressivamente dal contesto territoriale i grandi gruppi cotonieri e dell’abbigliamento176, la produzione di fibre e filati. La situazione si attorciglia sempre di più e, con potenti colpi di maglio, elide interi comparti, in primis i settori tessili e chimici, pubblici e privati. Al tragico epilogo, che finisce per cancellare migliaia di posti di lavoro, concorrono evidentemente più fattori e condizionamenti. La precisa delimitazione decisa a livello europeo delle quote di produzione, il vincolo degli accordi internazionali, le scelte di autodifesa del capitale nazionale e dei governi che effettuano le proprie scelte in relazione ai vantaggi costituiti dalla vicinanza ai mercati e dalla facilità di smercio delle produzioni. Si privilegiano i rapporti con territori ove ben più avanzato è il contesto o l’armatura infrastrutturale e i servizi territoriali di cui le imprese possono immediatamente disporre. Pesa in modo decisivo, in tale contesto, il carattere di storica dipendenza delle aziende collocate nel sud dai “cervelli”di cui sono diramazione dipendente. L’insieme di queste ragioni concorre alla duplice definizione di un’azione di lento smobilizzo e di concentrazione produttiva nel Centro Nord del Paese. Le difficoltà nelle quali da lungo tempo si dibattono gli impianti meridionali subiscono ora una rapida e drammatica accelerazione. E’ del 12 Luglio 1985 il Convegno Pubblico 176

Oltre alla “Issimo” sarà chiusa anche un’altra importante azienda del settore abbigliamento del comparto pubblico, fino ad allora, come la MCM, inserita nel gruppo “ Lanerossi”. Si tratta della “ Intesa” di Nocera. Un dettaglio puntuale della lotta contro la chiusura di questa impresa e del suo esito, anche in tale circostanza infausto, è ricostruibile sulle principali testate della stampa locale, in specie sui numeri de “ Il Mattino” del 30 Giugno, dell’11 Luglio, del 26 ottobre, del 14, 22 e 27 novembre 1985. 196


organizzato dalla CGIL Campania a Napoli, presso l’hotel Mediterraneo dal titolo: “Quale Prospettiva per la Impresa Pubblica in Campania”. 177 Le linee di tendenza che si prefigurano con l’avvio dei processi di cessione e di privatizzazione delle imprese pubbliche, in specie campane e meridionali, non persuadono il Sindacato. Si sostiene invece che nei settori industriali tradizionali è ancora tutta attuale la necessità di una presenza dell’intervento pubblico la cui qualità va però riconsiderata anzitutto attraverso un nuovo impegno nella ristrutturazione dell’industria di base e con la decisione di una presenza significativa pubblica nei settori delle nuove tecnologie e delle infrastrutture. Ripensare la qualità dell’intervento pubblico puntando alla sua efficacia ed alla sua produttività dovrebbe, concentrando in modo finalizzato tutte le risorse ordinarie e straordinarie, concorrere ad evitare qualsiasi riedizione di vecchie e consunte logiche assistenziali e clientelari. Nel 1985 nell’impresa pubblica in Campania operano ancora 63.000 addetti. Una grande parte dell’occupazione manifatturiera della Regione, il 32% dell’intera occupazione industriale campana ed anzi il 50% del totale se si considerano solo le imprese al di sopra dei 100 addetti. E’ mancato, a giudizio di Galante, quel passaggio necessario dalla singola impresa a “sistema di imprese” volta a conquistare nuovi mercati con nuovi prodotti ad alto valore aggiunto e con adeguate diversificazioni produttive. Sarebbe stato utile, cosa che non è invece avvenuta, la ricerca di intese e collaborazioni con la stessa impresa privata ma il governo ha evitato qualsiasi azione di programmazione della domanda pubblica nei vari settori che era da perseguire anzitutto in direzione del Sud del Paese. Gli investimenti pubblici sono invece calati, specie nel Mezzogiorno. Di converso è cresciuta la spesa pubblica, soprattutto quella corrente, che è ad un certo punto risultata del tutto fuori controllo. Il deficit della bilancia commerciale è cresciuto nel settore energetico, in quello alimentare, nei settori a tecnologia avanzata. La discussione sui settori “maturi” è da ritenersi del tutto superata, in quanto sono proprio i paesi all’avanguardia nell’innovazione a dimostrare come i settori tradizionali, cosiddetti “maturi”, se opportunamente ristrutturati, possono ricollocarsi efficacemente sui mercati. Per fare ciò avrebbe dovuto essere imboccata la strada dell’integrazione e della specializzazione produttiva, cosa che invece non è avvenuta. E’ interessante, in questo contesto, come nel convegno si auspichi lo sviluppo dell’industria elettronica e dell’informatica, visti quali settori strategici in grado di imprimere una direzione di marcia accelerata allo sviluppo. In caso contrario è facile prevedere il degrado del sistema campano che finirà per accentuarsi in maniera irreversibile. Con capacità di previsione notevole è proposta la creazione di una rete telematica che colleghi le diverse risorse informatiche e computerizzate presenti nella Regione Campania quale elemento strategico che deve interessare e coinvolgere per primo il nodo-dirimente- della Pubblica Amministrazione, la cui ridotta efficienza è una delle cause primarie dei numerosi ritardi accumulati.

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La relazione, per conto del Sindacato campano, è tenuta da Nino Galante. 197


A tal fine sarebbe necessario potersi avvalere di strumentazioni tecniche di supporto alla progettualità degli EE. LL. Le reti informatiche collegate dovrebbero essere indispensabili per la fornitura di servizi reali alle imprese. Le PPSS dovrebbero diventare, in un tale contesto, una grande struttura di servizio per lo sviluppo e l’occupazione anche con la predisposizione di programmi di formazione di massa a diverso livello di qualificazione. Per quanto concerne il gruppo “Lanerossi”, di proprietà dell’Eni, viene convocata l’Assemblea straordinaria del gruppo, dopo il lento e costante stillicidio che negli anni pregressi ha ridotto, in modo drastico, la manodopera impiegata negli stabilimenti tessili e chimici. A Schio, l’8 settembre 1987, è formalizzata la cessione delle attività industriali tessili della società alle Manifatture Lane Marzotto ed è mutata la ragione sociale della “Lanerossi” in “ Partecipazioni Finanziarie” che, privata dei contenuti industriali, resterà in proprietà all’Eni. E’ così portato a conclusione il piano di privatizzazione del comparto tessile ed abbigliamento facente capo alla “Lanerossi”, procedura che aveva avuto formalmente inizio con la delibera della giunta esecutiva dell’Eni del 5 Febbraio 1987, nella quale si era convenuto con la scelta di vendere le attività del settore. La “Lanerossi” era stata acquisita dall’ENI negli anni 60 e, dopo alterne vicende caratterizzate da salvataggio di aziende private in dissesto, si era tentato di avviare piani di ristrutturazione per consentire la reimmissione delle aziende sul mercato. Alla verifica pratica, nel rapporto costi-ricavi, questi piani sono risultati fallimentari, a tal punto inefficaci da far accusare, nei primi anni 80, pesanti deficit di bilancio. E tali oneri, col passare del tempo, sono divenuti insostenibili. Ad un certo punto lo Stato non è più intervenuto per il ripiano delle perdite che si accumulavano anno dopo anno e ciò in ragione del fatto che non si intravedeva alcuna svolta organizzativa, produttiva, di qualificazione delle produzioni, di possibile incremento della competitività d’impresa. Nel 1983 era predisposto un piano di salvataggio e di risanamento che prevedeva una drastica ristrutturazione di un gruppo di società, dalla Lanerossi, alla Marlane, a Lebole Euroconf, al Cotonificio di Sondrio per le quali si valutava possibile un’efficace azione di ristrutturazione. Per il resto delle società del gruppo, ovvero per le Manifatture Cotoniere Meridionali, Lanerossi Confezioni, Intesa178, Confezioni Monti d’Abruzzo, Confezioni di Filottrano il risanamento appariva irrealizzabile. Si 178

Aspra e difficile si dimostrerà la stessa vertenza della “ Intesa” di abbigliamento, jeans e casual di Nocera Inferiore. Nel 1985 l’organico è formato da 29 impiegati e 170 operai. Il primo piano di contrazione produttiva intende assestare gli organici rispettivamente a 22 ed a 77. Da 199 a 99 addetti. Anche in questo caso l’Ageni avrebbe dovuto essere impegnata nei piani di ricollocazione degli esuberi. Le perdite di gestione denunciate ammontano a 5 miliardi all’anno. Nel 1982 l’azienda impiegava 300 addetti . Nel 1979 il settore tessile aveva nella Valle del Sarno ed a Fratte di Salerno un’occupazione di 2. 600 unità, 2300 alle MCM, 300 all’Intesa. Nel Novembre 1985 alle MCM di Angri, Nocera e Fratte restavano 1. 200 dipendenti, e non più di 200 all’Intesa, fabbrica poi definitivamente chiusa nel 1986. Nel 1979 era già scomparsa la MCM di Via Napoli, con 474 lavoratori posti in CIG. Di essi solo 18 occupati nella “ Hertel” di Siano. La produzione dell’Intesa era calata, negli ultimi anni, da 250. 000 capi a 30-35. 000 col fallimento dei marchi Coupon e Cherokee. La Lanerossi aveva da tempo scelto di liberarsi dell’impresa nocerina, in larga maggioranza a manodopera femminile. 198


passava perciò alla decisione di non investire, e si indicava la linea di una parziale o totale riconversione industriale. Il confronto coi sindacati, a fronte dell’obiettiva evanescenza delle strade alternative indicate e dell’impossibilità di praticare contestuali interventi di reimpiego produttivo dei lavoratori espulsi, diventava immediatamente aspro. Soltanto alla fine del 1985 si giungeva allo scorporo dalla Lanerossi del secondo blocco di aziende, trasferite prima alla Sofid, poi alla “Monti”d’Abruzzo. Il 1986 la strategia di risanamento pensata per il primo gruppo, che era stata avviata dal Presidente Franco Masseroli, era da considerarsi ultimata. Il gruppo“Lanerossi”, dopo anni di continue perdite, chiudeva finalmente il proprio esercizio finanziario con un utile operativo di 4, 4 miliardi di lire. Il Presidente dell’Eni Reviglio aveva più volte manifestato la propria convinzione sull’opportunità dell’uscita dell’Eni dal settore tessile. Ora, dopo varie resistenze e conflitti, era arrivato a ritenere fosse giunto, finalmente, il momento di agire. Una delibera della giunta dell’Eni approvava così la scelta dell’alienazione in blocco delle attività del comparto tessile – abbigliamento, o comunque la vendita a pezzi delle stesse imprese. La Lanerossi andava collocata, per Reviglio ed il Governo, in contesti più naturali e tali da consentirgli di agire, fuori da ogni intervento protezionistico, con maggiore flessibilità operativa, in una più dinamica dimensione di mercato internazionale. A giudizio dell’Eni poi il ridimensionamento in basso degli organici offriva ai soggetti industriali subentranti l’opportunità di garantire meglio, senza alcuna operazione drogata, l’occupazione residua. 035.

LA CHIUSURA DELLA MARZOTTO SUD.

Dopo una lunga e sotterranea incubazione, i cui antefatti s’erano già manifestati, in maniera aspra e significativa nel 1978, nell’ottobre 1983 esplode la vicenda Marzotto. Lo stabilimento di Salerno, diretta diramazione dell’antico gruppo veneto fondato a Valdagno nel vicentino nel 1836, al tempo degli Asburgo, con un atto assolutamente repentino ed inedito rispetto alla prassi, ormai consolidata, del ricorso al confronto ed alla contrattazione negoziata tra le parti, all’improvviso viene posto in liquidazione. I circa 1200 lavoratori sono tutti licenziati senza preavviso.179 La crisi industriale,che già dalla fine degli anni ‘70 e nel corso dei primi anni ‘80 aveva iniziato ad investire, in maniera sempre più incalzante,la provincia di Salerno,la regione Campania,il Mezzogiorno,diviene una voragine. Lo spettro della disoccupazione si manifesta,improvviso,in tutta la sua drammatica crudezza. Un colpo di maglio che si abbatte su tutta la realtà economica, produttiva, commerciale della comunità locale. 179

Nella vertenza un ruolo decisivo per la tenuta democratica del movimento sarà esercitato da un combattivo nucleo di delegati sindacali di fabbrica, della CGIL, della Cisl e della Uil che, in questa drammatica occasione,spalleggeranno con grande determinazione il Sindacato. Tra tutti voglio in particolare ricordare Olga Rinaldi,Genoveffa Galdi, Maria Sala,Teresa Garofano,Giuseppe Topatino,Nicola Salsano,Anna Avagliano. 199


Lo stabilimento di Salerno era nato nel 1958,assurgendo in breve tempo a simbolo di quella politica dei “poli di sviluppo” e dell’industrializzazione meridionale che,grazie ad un intervento dall’alto,avrebbe dovuto concorrere alla certa e progressiva riduzione del deficit di modernizzazione e di sviluppo accumulato- dall’unità d’Italia in avanti- dal Sud del Paese,con la sua diffusa e persistente arretratezza, rispetto alle aree ben più progredite del Centro e del Nord. Ampie e consistenti erano state le agevolazioni e molteplici i benefici statali assicurati dal governo agli imprenditori che negli anni ‘60, proprio in conseguenza della politica dei “poli di sviluppo”, avevano deciso di insediare nuove aziende o segmenti di proprie attività decentrate nel Mezzogiorno d’Italia. Facilitazioni sull’acquisto e sull’uso dei suoli,leggi specifiche e di vantaggio per la grande industria privata promulgate in maniera mirata,questo il contorno all’interno del quale l’imprenditoria settentrionale più affermata aveva finito per valutare,con favore, l’utilità di movimentare propri investimenti. Le grandi famiglie del capitalismo nazionale erano persuase dell’esistenza di condizioni di partenza particolarmente vantaggiose per la crescita di utili e di profitti. D’altra parte la decisione di trasferire parte delle attività industriali dei grandi gruppi dal Nord al Sud, realizzata anche grazie alla decisiva mobilitazione nazionale delle forze operaie e sindacali, per la dimensione delle operazioni in tal senso effettuate, aveva concorso- in maniera significativa seppur non sufficiente - a dare una risposta importante alla domanda di lavoro particolarmente elevata nella realtà territoriale salernitana. Una situazione nella quale del tutto limitate,ed in ogni caso minoritarie,erano storicamente apparse le attività industriali rispetto agli altri comparti e tipologie di attività agraria,commerciale,artigiana fino ad allora in larga misura prevalenti. La composizione della forza lavoro nei nuovi insediamenti, questa l’altra specificità, era in larga maggioranza femminile. Allo stabilimento di confezioni in serie “ Marzotto Sud” di Salerno, tra l’altro,oltre ai suoli fu inoltre rapidamente concesso un finanziamento di circa 1 miliardo e 500 milioni di lire del tempo,il contributo più elevato tra quello assegnato agli industriali operanti nella provincia.180 Esso, secondo la relazione del decimo esercizio della Cassa del Mezzogiorno, avrebbe concorso a completare la realizzazione di un investimento per impianti fissi di 1 miliardo e 625 milioni e per capitali circolanti di un miliardo e 200 milioni. Sembrò da più parti a portata di mano la riedizione di un illuminato ed efficace processo di modernizzazione economico,civile,sociale,culturale e la novità in tal modo all’inizio fu vissuta dai giovani operai che, carichi di ottimismo e di speranza, iniziavano quella inedita esperienza professionale.

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Gaetano Di Marino, “ Per un piano di sviluppo economico democratico del salernitano”, rapporto al VII Congresso Provinciale della Federazione Comunista Salernitana, 8 gennaio 1960; pag.17; 200


Una sensazione,questa,rapidamente dissolta a fronte della durezza delle condizioni di lavoro della fabbrica. I ritmi di lavoro,scanditi col sistema del cottimo individuale, erano infatti pesanti e proibitivi. L’ instabile equilibrio sindacale alla Marzotto esplose così solo un anno dopo,nel 1959,con lo sciopero del cottimo. Nacque da quella lotta la Commissione Interna e si avviò una mutazione nei rapporti di forza tra le diverse organizzazioni sindacali. Nella fase di nascita della grande azienda di abbigliamento salernitana si procedette alle assunzioni con metodi spesso segnati da forti elementi di discrezionalità e di clientelismo.181 Gli ingressi in fabbrica furono veicolati,in via prevalente,dalla Cisl. Ad ogni modo la proprietà diede,da subito,un’elevata importanza al complesso industriale nato a Salerno che,soprattutto in tutta una prima fase,fu oggetto di particolare impegno ed attenzione da parte dei massimi vertici societari. Dal 1969 in avanti gli accordi alla Marzotto furono sempre più frequentemente definiti direttamente col conte Pietro,nel mentre la Cgil,l’altra grande organizzazione confederale che aveva realizzato nel territorio di Salerno un diffuso insediamento,impegnò i massimi dirigenti regionali,Giuseppe Vignola e Carlo Fermariello. L’intervento della proprietà dell’azienda veneta si caratterizzò,già dal primo impatto, per una filosofia particolare proiettata ad inglobare,in maniera sostanzialmente subalterna alla logica d’impresa, le forze del lavoro con le loro organizzazioni. La famiglia Marzotto aveva già da tempo creato un autentico impero industriale nel settore tessile e dell’abbigliamento. Il cuore e la testa dirigente del gruppo erano saldamente collocati nell’area veneta di Valdagno,nel vicentino. La qualità delle relazioni industriali sviluppata dal colosso industriale nei confronti dei lavoratori veneti era stato caratterizzato,fin dalle origini,da una impostazione peculiare nella quale evidente appariva una mistura,ben miscelata,di paternalismo e di autoritarismo. Il gruppo Marzotto,ben combinando i due fattori,aveva espresso una particolare cultura,esercitando un’evidente e penetrante egemonia su larga parte delle proprie maestranze,portate ad identificare integralmente il proprio destino con quello dell’impresa,con la rinuncia all’esercizio di un’autonoma funzione sindacale verso la proprietà. Un progetto che era stato in sostanza realizzato. Bassa era in tal modo sempre risultata la conflittualità operaia ed i lavoratori avevano finito per assumere, assai spesso,atteggiamenti di mero se non passivo collateralismo al ruolo ed alle decisioni dell’ impresa. Di essa si accettava, in maniera sostanzialmente integrale, ed anzi si subiva,la funzione direttiva ed all’azienda,con l’articolazione dei propri bracci dirigenti operativi,ci si affidava con una delega in bianco quasi assoluta. Sostanzialmente ininfluente era perciò risultato il ruolo operaio sui temi, in quegli anni decisivi,dell’organizzazione del lavoro,sul controllo e la contrattazione dei ritmi

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E’ questa l’opinione di Giuseppe Vignola, al tempo segretario generale della Cgil di Salerno dal 1958 al 1963, da me raccolta nel corso di un colloquio avuto con lui a Roma il 24 maggio 2005. 201


di lavoro e,più in generale,del tutto marginale l’azione di confronto e di contrattazione. Il gruppo tessile veneto aveva infatti sempre ritenuto non pertinente l’esercizio di alcuna funzione dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali a riguardo della qualità degli indirizzi delle proprie opzioni industriali. Secondo l’azienda i lavoratori si sarebbero dovuti limitare a concentrare, in maniera pressoché esclusiva,la loro attenzione sui temi del salario e dell’incremento della produttività,sull’orario,sugli straordinari eseguendo con la massima perizia e precisione le mansioni loro affidate. Altri e più ampi livelli d’intervento dovevano essere, di conseguenza,assolutamente preclusi. Una situazione che era andata avanti a lungo,senza nessuna significativa scossa o correzione,almeno fino al 1968,quando l’iniziativa del movimento sindacale per la realizzazione di migliori condizioni di vita e di lavoro, di salario e di tutela delle condizioni normative,di rottura degli equilibri antecedenti,aveva travalicato,nella stagione dell’autunno caldo,gli stessi cancelli della grande azienda di Valdagno. Si era però trattato solo di una breve e circoscritta parentesi,rapidamente rientrata nell’alveo della normalità. La funzione egemonica dell’impresa ed il consenso raccolto tra gli stessi lavoratori era stato sempre,in sostanza,recuperato ed anzi rinforzato. D’altra parte in quello che in origine era sembrato un processo, accelerato e progressivo,di crescita e di sviluppo pressoché inarrestabile era apparsa,in più circostanze,la capacità del gruppo di operare,in maniera efficace e vincente, consolidando un ruolo ed una funzione di assoluto rilievo nella gerarchia industriale nazionale ed internazionale del settore. Il gruppo aveva infatti mantenuto a lungo la propria solidità,progredendo e rafforzandosi ulteriormente grazie ad una considerevole capacità di aggiornamento, qualificazione,competenza della propria struttura dirigenziale ed operativa. Una naturale ed elevata abilità nello svolgere funzioni d’impresa che,tramite un’insieme d’incisive coordinate,aveva fino a quel momento contestualmente garantito la tenuta delle aziende ed i livelli complessivi dell’occupazione. Il “patto” oggettivamente contratto tra capitale e lavoro era a lungo proceduto attraverso lo “scambio”,consensuale,tra bassi salari alle maestranze e limitata produttività del lavoro. La parabola ascendente aveva poi iniziato a declinare,mostrando prime crepe,solo alla fine degli anni ‘70. La contestuale difficoltà rappresentata dall’emersione di una concorrenza più agguerrita in alcuni particolari segmenti produttivi e le prime avvisaglie di una preoccupante crisi di mercato,riversatasi sia a livello mondiale che sui mercati nazionali,aveva determinato la contrazione dei volumi delle vendite dei prodotti in serie. La crisi aveva dato luogo a prime considerazioni,da parte della proprietà,secondo cui non sarebbe stato più possibile mantenere,nella quantità garantita fino a quel momento,l’insieme dell’occupazione. Approfondimenti di merito,sviluppati dal 202


management aziendale,avevano poi evidenziato l’esistenza di una produttività globale degli stabilimenti del gruppo,già a quel tempo,del tutto inadeguata. Particolarmente critica era apparsa,in questo contesto,la situazione di Salerno, aggravata da un tasso medio di assenteismo “strutturale”, in ogni caso troppo elevato e dannoso se paragonato a quello presente nelle aziende della concorrenza più qualificata. Rilievi oggettivamente fondati ed obiettive strozzature del circuito produttivo sui quali però,seppure sollecitata dalle organizzazioni sindacali territoriali,la direzione non era riuscita ad intervenire con l’efficacia,la determinazione, la tempestività che erano invece necessari. Questi problemi,indubbiamente veri,trascinatisi a lungo e senza soluzione,non risultarono indifferenti al modo in cui s’evolse la situazione ed alle scelte, radicali, che ne conseguirono. La situazione non appariva più compatibile con i tassi teorici aziendali di produttività ritenuti indispensabili per continuare a reggere,in maniera positiva e vincente,sui mercati interni ed internazionali. L’azienda “Issimo”di Salerno,ormai da qualche anno,produceva perdite sempre più sensibili e gli azionisti, che nella prima fase di vita dell’impresa avevano accumulato utili elevati,si trovavano ora di fronte ad una situazione produttiva che aveva iniziato ad invertire,in negativo,la tendenza alla crescita. Alla fine degli anni ‘70 si era così configurata l’obbligata indifferibilità di una ristrutturazione che avrebbe dovuto consentire l’assestamento della forza lavoro su un numero di occupati ridimensionato di qualche centinaio di unità. E’ il caso di ricordare che questa prima crisi dell’azienda è pressoché contemporanea ad un periodo torbido e drammatico per la democrazia italiana. La fase del rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse che,al punto più estremo dell’attacco scagliato contro lo Stato italiano,daranno un’efficace e spietata dimostrazione della propria “geometrica potenza”. A Salerno tra il 24 ed il 25 Marzo del 1978, proprio pochi giorni prima del rapimento di Aldo Moro,era stato eletto sindaco di Salerno il dottor Bruno Ravera. Un’elezione sollecitata e voluta,tra gli altri,dallo stesso Moro,di un affermato e valente professionista che, pur riconoscendo in Nicola Lettieri il proprio riferimento politico, non era organica espressione di alcuna specifica corrente interna della DC. Ravera eserciterà una funzione di rilievo in questa fase della vertenza Marzotto riuscendo,col concorso e la collaborazione attiva ed efficace dei sindacati confederali, a contenere -nella sostanza- l’entità del problema ed i rischi di caduta dell’occupazione paventati. Lo stabilimento dava a quel tempo lavoro a circa 1.400 dipendenti. E’ quella la fase in cui, per la prima volta dalla nascita dello stabilimento di Salerno, iniziano ad infittirsi gli incontri tra i sindacati e la proprietà non di rado alla presenza dello stesso conte Pietro Marzotto 203


L’esistenza di un tasso assai alto e persistente di assenteismo era in larga parte dovuto al fatto che molto lavoro era commissionato all’esterno e veniva in molti casi eseguito dagli stessi operai “assenteisti”. Marzotto,sostenendo di non riuscire più a fronteggiare la situazione,propose tagli occupazionali pesantissimi. La vertenza, trasferita al Ministero del Lavoro,si snodò attraverso numerosi incontri con i rappresentanti del Governo,dal sottosegretario Giglio allo stesso Giulio Andreotti. Le rappresentanze sociali ed istituzionali cittadine sostennero con energia e consensualmente il fatto che la città e la Provincia di Salerno,già da tempo segnate da una grave crisi occupazionale,non erano in condizione di sopportare un colpo di tali dimensioni. Le trattative procedettero; in parallelo, a Salerno,s’intensificavano lotte e manifestazioni,di frequente sfociate in blocchi stradali e ferroviari che incidevano sui servizi e sull’attività economica di tutta la collettività. L’esasperazione era accentuata dalla realistica consapevolezza dello scarsa incidenza dei danni limitati che, con gli scioperi tradizionali, potevano essere inflitti al Gruppo Marzotto in una fase di stagnazione dell’economia. La vertenza trovò una parziale e temporanea composizione solo a fronte dell’impegno del Governo e della proprietà di recedere dal proprio progetto originario. Nel mentre infatti le parti finirono per riconoscere l’esistenza di una situazione critica,di contrazione delle vendite per il settore abbigliamento,per l’impresa salernitana fu per la prima volta sancita - in sede locale- un’intesa in cui si concordò che l’azienda veneta avrebbe creato nel territorio,in tempi stretti,alcune piccole imprese che avrebbero assorbito i lavoratori risultati eccedenti dalla ristrutturazione.Il primo accordo di mobilità,da posto di lavoro a posto di lavoro. Una mediazione tampone resa ancora possibile dall’assoluta e generale indisponibilità di tutte le forze istituzionali e sociali salernitane ad accettare drastiche riduzioni di occupazione. A conclusione del 1978 si pattuiva,in sintesi,che gli “esuberi”avrebbero trovato collocazione in attività sostitutive del settore alla cui individuazione e realizzazione la proprietà avrebbe direttamente concorso,prefigurando un proprio diverso assestamento organizzativo ed operativo. Una risposta per un arco temporale ancora efficace e di contrasto alla linea auspicata dalla frangia più estrema del gruppo, sostenitrice della drastica ed immediata liquidazione dei “rami secchi”. L’operazione si sarebbe realizzata senza traumi,in maniera consensualmente governata dalla proprietà e dai sindacati. Il saldo finale,a ristrutturazione conclusa,non avrebbe dovuto comportare alcun riflesso negativo sui livelli occupazionali globali antecedenti che,a finale consuntivo,sarebbero stati integralmente garantiti. Questi indirizzi furono assunti e realizzati di comune accordo,dal Governo, poi rappresentato dal Ministro Enzo Scotti, dal padronato,dalle organizzazioni sindacali,seppure con l’esplicita manifestazione di prime, non ingiustificate riserve e preoccupazioni . Gli interventi programmati non risultarono infatti sufficienti ad innestare,da quel momento in avanti,il circolo virtuoso auspicato atto a consentire la ripresa, la crescita e lo sviluppo produttivo dello stabilimento,garantendo continuità e consolidamento dell’attività produttiva. Nell’interregno,nel periodo intercorso tra la fine degli anni 204


‘70 ed i primi anni ‘80, la crisi strutturale - a lungo contenuta - esplose in tutta la sua devastante portata. 182 Al quadro appena sfocatamene tratteggiato va aggiunto un elemento di considerazione supplementare,ovvero quello dell’atipicità dei lavoratori della Marzotto di Salerno e le notevoli resistenze che si manifestarono nella creazione di un ampio fronte di solidarietà dell’insieme del mondo del lavoro operaio attorno a questa fabbrica. Alla fine degli anni ‘60 le imprese salernitane erano state protagoniste,come era del resto accaduto in tutto il Paese,di un grande sussulto mirante a disegnare nuovi rapporti di forza e di potere tra padronato e lavoratori. Le battaglie per l’adeguamento dei salari,l’azione profusa per la rottura delle gabbie salariali,le mobilitazioni di massa per le riforme sociali avevano visto protagonisti i lavoratori delle aziende sindacalizzate dei vari settori manifatturieri,dai chimici,ai meccanici,agli edili,a larga parte degli stessi lavoratori tessili. S’era creata,sull’onda di questi movimenti,un’obiettiva mutazione dei posizionamenti precedenti delle classi medie,della piccola ed in parte della media borghesia che, mettendo in discussione antiche identità,aveva prodotto l’inizio della sperimentazione di nuovi ed inediti rapporti,di confronto,alleanza e di collaborazione, tra operai e studenti. La ricerca di una strada nuova da percorrere per rinsaldare e rendere più forte e robusto lo sviluppo della democrazia a Salerno,riducendo il potere delle varie consorterie politiche ed economiche che,dal secondo dopoguerra e fino a quel momento,avevano conquistato e detenuto nelle proprie mani le funzioni essenziali di direzione,condizionamento e di dominio sulla realtà locale. Un sussulto,forte e generoso,seppure denso di contenuti spesso magmatici, generici e confusi,che aveva aperto la strada a forti speranze di cambiamento. Gli operai della Marzotto erano apparsi invece sostanzialmente impermeabili,se non del tutto indifferenti,a queste sollecitazioni,un’anomalia nella geografia del movimento operaio e popolare locale. Evidente era apparso il loro distacco dalle lotte e delle manifestazioni del resto della classe operaia salernitana,che aveva iniziato a battersi per la realizzazione di un progetto di cambiamento e di riforme,per una società nuova,con minori discriminazioni e maggiore giustizia. Un vizio d’origine destinato a pesare non poco nelle fasi in cui la vertenza acquisì l’asprezza e la drammaticità di cui si occupò,diffusamente,la stampa nazionale,regionale e locale e che finì per obbligare le organizzazioni sindacali e le forze politiche nazionali a ripetuti interventi

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Il dottor Ravera,nel periodo in cui ricoprì la carica di Sindaco,si trovò a fronteggiare altre due delicate crisi aziendali, quella della Vernante - Pennitalia e quella della D’Agostino,a loro volta espressione dei limiti d’origine e della estrema gracilità del processo di più recente industrializzazione dell’area salernitana. Nel territorio era assente una vera cultura industriale autoctona. Quasi nessun imprenditore era disponibile ad investire rischiando danaro proprio. Le multinazionali ed i grandi gruppi venuti a Salerno, pur avendo ottenuto forti contributi ed agevolazioni statali, molto danaro e suoli gratuiti, liquidando promesse fatte ed impegni assunti, alle prime difficoltà optarono per la linea dell’abbandono. 205


e forti pressioni sul Governo centrale per ricercare una soluzione atta a scongiurare un dramma sociale devastante per le prospettive future della realtà locale. C’è da aggiungere ancora che in quegli anni l’Italia,pur avendo iniziato una fase declinante,non era ancora in una situazione di piena recessione. La “Issimo”era stata,per un certo periodo,dall’atto della sua nascita e fino a quel momento,un ottimo investimento e la proprietà aveva senza dubbio pienamente ammortizzato il capitale investito. La crisi,in una prima fase,trovò una sua composizione grazie al fatto che il Governo, prima con Andreotti, poi con Scotti e Giglio, fornì una sponda esercitando una funzione di mediazione positiva. Senza un raccordo a quel livello già allora,nel 1978, la situazione sarebbe precipitata irrimediabilmente. Nel 1979 venne varato un piano di riorganizzazione la cui realizzazione fu affidata ad un nuovo capo del personale. Il repentino e misterioso allontanarsi da Salerno,forse in seguito a minacce ed intimidazioni subite,di alcuni dei più capaci ed autorevoli dirigenti,incaricati della realizzazione del piano di risanamento e di ristrutturazione,fu il primo campanello di allarme,non colto nella sua piena accezione dai lavoratori,di una tendenza, ormai assunta, al disimpegno ed alla smobilitazione della proprietà La media giornaliera di assenteismo dalla fabbrica,a partire dal 1980,continuò ad attestarsi, secondo i dati della direzione,addirittura intorno al 18-20%. Ad esso doveva essere aggiunto il troppo elevato assenteismo sul posto di lavoro, i tempi eccessivi di “ lavoro morto” tra un’operazione e l’altra della catena produttiva. In media un lavoratore, pur presente in azienda,si allontanava dal proprio posto di lavoro, nel corso della giornata, anche per pause che raggiungevano una ora e mezza lavorata. Ad ogni modo le avvisaglie,da tempo abbozzate,e non prese a tempo nella giusta considerazione dalle stesse organizzazioni sindacali,si concretizzarono alla fine dell’ottobre 1983. E’ allora che,come è stato in premessa ricordato, la proprietà affisse, senza aver dato alcuna preventiva informazione ai Sindacati ed ai lavoratori, in assenza di qualsiasi trattativa,un avviso ai cancelli della fabbrica in cui si comunicò che l’azienda salernitana,con immediata decorrenza,era messa in liquidazione. Venivano istruite,di conseguenza, le procedure di licenziamento per tutti i dipendenti. La missiva a firma Manifatture salernitane confezioni s.p.a. in liquidazione era inviata contemporaneamente alle organizzazioni sindacali il 21 ottobre ed in essa si notificava,in maniera asettica e burocratica, la decisione assunta.183 183

“ Vi notifichiamo che in data odierna l’Assemblea degli Azionisti,ricorrendo la fattispecie di cui all’art. 2448 n. 4 C.C.,ha deliberato la messa in liquidazione della società con contestuale cessazione dell’attività. A causa della deliberazione adottata la Società ha provveduto per il tramite dell’Associazione degli Industriali di Salerno,con lettera in pari data,ad avviare la procedura di cui all’ Accordo Interconfederale 5.5. 1965 sui licenziamenti per riduzione di personale nei confronti di : 912 operai; 36 intermedi; 88 impiegati. In relazione alla cessazione dell’attività aziendale, il personale di cui sopra è stato esonerato con effetto immediato dalla prestazione lavorativa e messo in libertà con sospensione dei relativi rapporti. La società chiederà 206


L’attività dello stabilimento era completamente soppressa e,d’ora in avanti,si sarebbe proceduto concentrando nella sola area di Valdagno l’attività svolta,fino a quel momento,nello stabilimento di Salerno. Contemporaneamente alla chiusura della fabbrica di Salerno l’azienda, addirittura, fece richiesta di ricorso al lavoro straordinario al sabato alle rappresentanze sindacali interne dei suoi stabilimenti di Valdagno, Manerbio e Mortare, 184con l’ovvia conseguenza di inasprire ulteriormente la situazione, già di per sé divenuta incandescente. L’annuncio,per la sua durezza senza possibilità di replica,e per le sue inedite modalità, colpì i lavoratori ed i sindacati come una deflagrazione. Si aprì a quel punto un durissimo conflitto che si snodò per mesi, col ricorso ad azioni aspre e durissime, in un crescendo di manifestazioni innumerevoli, a Salerno, Napoli, Roma, Valdagno. Il susseguirsi di queste mobilitazioni si articolò con un piano di permanente coinvolgimento dei Comuni e delle Assemblee elettive,delle Istituzioni,delle delegazioni parlamentari. Pur con gli elementi di iniziale contraddittorietà di cui si è detto,la vertenza Marzotto divenne,più di come era accaduto per tutte le fabbriche attraversate fino a quel momento dai venti della crisi, la vertenza di tutta la città ed assunse immediatamente un’amplificazione,di rilievo nazionale, per l’entità della posta in gioco e per gli evidenti riflessi generali del giudizio che se ne poteva derivare in relazione alla qualità della politica del Governo verso il Mezzogiorno. Si trattava di un messaggio,di scontro frontale,che poteva contagiare anche altri imprenditori. Quasi ogni famiglia aveva un familiare,un parente,un amico nella “Issimo” ed una eventuale sconfitta del movimento sindacale,con la perdita di tanti posti di lavoro,non poteva non avere gravissime conseguenze sul tessuto economico territoriale,già da qualche tempo stagnante. C’era tra i lavoratori un duplice sentimento,di rabbia e di sorpresa,per ciò che stava accadendo. La prima fase della vertenza,che immediatamente s’inasprì con l’occupazione ed il presidio della fabbrica,portato avanti di giorno e di notte, con turni di pattugliamento dei lavoratori, si configurò, per i suoi interni connotati, come assolutamente drammatica. Si evidenziò da subito l’estrema difficoltà nel riuscire a riportare la proprietà sui propri passi in quanto essa,ferma nella propria intransigenza, rifiutò a lungo il confronto, il negoziato e qualsiasi trattativa con i rappresentanti dei lavoratori,sottraendosi sistematicamente ad ogni discussione in sede istituzionale. Per l’azienda ed i suoi rappresentanti a Salerno, assunta l’ “irrevocabile decisione”,ogni

l’ammissione ai benefici della Cassa Integrazione Straordinaria- in presenza dei presupposti di legge- per il periodo necessario all’espletamento della procedura di cui al citato Accordo Interconfederale,con istanza di pagamento diretto da parte dell’INPS ai dipendenti del relativo trattamento economico. Tanto Vi comunichiamo a norma dell’art. 5 della legge 20.5.1975 n. 164 relativo alle procedure di consultazione sindacale” ; La lettera della M.S.C. S. p. a . in liquidazione era firmata : “ Un liquidatore”. 184 Se ne ha notizia dalla lettura dello scambio epistolario tra Bruno Oboe,allora segretario della UST- Cisl di Vicenza ed Aldo Amoretti, segretario generale della Filtea CGIL. La lettera di Oboe è del 17 novembre, la risposta di Amoretti del 22 Novembre 1983. In entrambi gli scritti forte traspare la preoccupazione di evitare una dolorosa spaccatura e contrapposizione tra gli operai di Salerno e quelli di Valdagno e di guadagnare tempo al fine d’individuare e conseguire una soluzione onorevole e soddisfacente del contenzioso in atto. 207


ulteriore compito era da considerarsi concluso,una volta affidato il proprio vincolante mandato ad un rappresentante liquidatore. L’azienda non ammise repliche nell’esplicitare, senza dubbi o incertezze, la propria decisione del totale disimpegno a Salerno e si rifiutò di prendere in considerazione una qualsiasi ipotesi, comunque difficilmente gestibile, d’ogni seppur parziale ripresa dell’attività produttiva dello stabilimento. Il conflitto,che da quel momento,partendo dalla fabbrica, si riversò sulla città, mise in evidenza l’esistenza di un altro livello parallelo,di un altro piano,per così dire collaterale,a quanto si sviluppava sul terreno specifico dell’iniziativa in fabbrica. Si esercitò uno scontro,ideale e culturale,che s’incentrò sul giudizio che si era consolidato in larga parte del comune sentire della città sulla storia di quei lavoratori e di quella impresa. Nel mentre in altre occasioni, come era sempre accaduto in tutti i passaggi decisivi della lunga vicenda delle Manifatture Cotoniere Meridionali e di tante altre aziende della città e della provincia di Salerno, la solidarietà popolare ed istituzionale era apparsa immediata e naturale, in questa circostanza fiorì un pullulare di valutazioni critiche,di contraddittorietà innumerevoli, il molteplice proliferare di illazioni sulla storia e l’identità negativa di questa fabbrica. Larghe fasce di ceti professionali e di semplici cittadini sembrarono orientarsi,senza remore,ad assumere,facendoli propri,i punti di vista schematicamente e brutalmente evidenziati dal gruppo Marzotto. I lavoratori della “Issimo” vennero dipinti così,indistintamente,come improduttivi, profittatori, assenteisti, persone senza alcuna volontà di lavorare e spesso, addirittura, aduse a sottrarre,all’uscita dalla fabbrica,le stoffe ed i capi di abbigliamento prodotti. Diffuso era il sentimento che attribuiva soltanto ai lavoratori ed alla loro presunta irresponsabilità la colpa della chiusura dell’azienda. Fiorirono,in questo clima,i luoghi comuni,spesso ad arte messi in circolo,sull’assoluta inaffidabilità dei lavoratori meridionali, cui sarebbe stata estranea ogni etica del lavoro e qualsiasi responsabilità verso l’impresa, l’espressione perversa di una consolidata “cultura ed ideologia assistenziale”della realtà. Una campagna che,sparando alla cieca nel mucchio,si configurò quale oggettivamente sintonica e convergente a quella della proprietà. Essa doveva in sostanza consentire, insieme, il conseguimento del duplice obiettivo dell’isolamento dei lavoratori e dei sindacati insieme alla chiusura,più rapida possibile,di tutto il contenzioso. D’altro canto apparve chiaro come, di fronte alla pressoché totale ininfluenza di colpi che potevano essere inferti a Marzotto sul piano specifico dei danni all’attività produttiva nel gruppo dei suoi stabilimenti, l’unico terreno su cui era possibile creare, da parte dei lavoratori di Salerno,una qualche forma di contraddizione e difficoltà restasse esclusivamente il danno che poteva essere recato all’immagine di un imprenditore capace e di successo. L’unico terreno su cui appariva possibile, in una qualche misura, incrinare un’identità vincente. E finì non a caso per essere questa l’impostazione che assunse, in maniera sempre più distinta, la difficilissima vertenza. La dimensione e la vastità del problema aperto impose ripetutamente ai lavoratori ed 208


ai sindacati l’obbligo della ricerca di un costante raccordo con la restante parte del gruppo. Obbligò alla programmazione, paziente e costante, delle più incisive azioni di lotta unitaria tra i sindacati confederali,ai vari livelli,locale,regionale,nazionale. Appassionata fu perciò la discussione sui modi e sulle forme più utili per rafforzare la solidarietà tra i lavoratori salernitani ed il resto del gruppo,in particolare con i lavoratori veneti e le loro rappresentanze sindacali. Si moltiplicarono,da quel momento in avanti,le occasioni di prese di posizione pubbliche. Lentamente, ma in maniera sempre più forte ed estesa, si costruì un ampio schieramento politico e sociale del mondo del lavoro e di tutte le forze politiche locali convergenti verso il comune obiettivo d’impedire la fine di una grande impresa e la definitiva condanna alla disoccupazione per oltre 1000 lavoratori. Al riguardo va ancora considerato un ulteriore elemento su cui in genere negli anni a venire si caratterizzò la lotta operaia contro la deindustrializzazione nel Mezzogiorno ed a Salerno. A differenza di quanto accadeva nel Centro Nord del Paese, a Salerno, in Campania e nel Mezzogiorno i ripetuti supplementi di asprezza cui di frequente si ricorse trovano una plausibile spiegazione se appena si considera il contesto socioeconomico circostante. Un operaio espulso da un’impresa non trovava più un’altra collocazione produttiva alternativa. Non era praticabile alcun processo di mobilità governata, da posto di lavoro a posto di lavoro. Chi usciva dalla fabbrica aveva davanti a sé due possibilità: la disoccupazione ed il lavoro nero o,nella migliore delle ipotesi,il ricorso alle provvidenze della cassa integrazione per un periodo di tempo più o meno lungo. Ciò spiega il carattere di scontro acuto che subito assunsero le lotte contro la ristrutturazione industriale,con non rari episodi di ribellismo e di esasperazione sempre in sostanza controllati,seppur con qualche difficoltà e fatica, dalle organizzazioni sindacali. In realtà la comprensione della profondità delle ragioni del conflitto che si stava consumando pervase,in un arco temporale relativamente breve,l’insieme della società ed il complesso delle forze politiche, sociali, istituzionali, della cultura. Una netta presa di posizione a favore dei lavoratori della Marzotto fu assunta dalla Chiesa185 e dall’insieme delle autorità ecclesiastiche locali. Passo dopo passo si rimodulò un 185

La prima presa di posizione ufficiale delle autorità ecclesiastiche si registra alla vigilia dello sciopero regionale dei tessili della Campania e del settore industriale del comprensorio promosso alla fine del 1983. L’arcivescovo Gaetano Pollio e l’Arcivescovo coadiutore Guerino Grimaldi sostennero che “Considerate le conseguenze che la decisione unilaterale di chiusura della fabbrica certamente avrà sulla situazione economica della città e delle famiglie dei lavoratori e sullo stesso ordine pubblico, riteniamo che tale decisione sia antisociale. L’interesse privato non può mai prevalere sul bene comune…Il licenziamento di oltre mille dipendenti sarà certamente motivo di ulteriori disordini e di più gravi prevaricazioni che turberanno la convivenza sociale”. “Giudichiamo che sia doveroso da parte delle autorità statali, delle forze politiche e sindacali e della stessa proprietà dell’azienda ricercare tutte le soluzioni possibili, anche alternative, per salvaguardare la produttività della fabbrica e il livello occupazionale , tenendo presente che l’uomo e il lavoro vengono prima del guadagno… Il signore illumini le menti di quanti hanno la responsabilità della vita sociale nel trovare soluzioni giuste ed efficaci per evitare a tante persone che hanno solo nel lavoro la fonte della loro vita e del loro avvenire, nuovi dolorosi bisogni e incertezze. Esortiamo vivamente i sacerdoti e i fedeli, durante la celebrazione festiva dell’Eucarestia, a pregare per i lavoratori senza lavoro”. “ Il Mattino”, 27 Ottobre 1983. Il quotidiano locale intervenne in maniera quasi quotidiana, informando dell’evolversi della situazione soprattutto con acuti e dettagliati pezzi del compianto Onorato Volzone, di recente scomparso. 209


diverso e più favorevole atteggiamento dei mezzi d’informazione, anch’esso decisivo per la creazione,dopo le iniziali difficoltà,di un ampio,esteso e solido fronte di solidarietà. Si esplicitò uno scenario nuovo e ben più favorevole per i lavoratori che con la loro lunga lotta riuscirono ad ottenere prima la sospensione dei licenziamenti e poi l’apertura di un tavolo negoziale presso il Ministero del Lavoro che risultò determinante nella finale decisione dell’intervento di salvataggio della finanziaria Gepi. L’accordo conclusivo risentì,e molto,dell’influenza di tutte le ragioni sociali messe in campo. La società salernitana,d’altronde,non era più in grado di reggere uno scontro frontale che si riversava,quasi quotidianamente,sul complesso delle attività economiche e commerciali cittadine. La soluzione a cui si pervenne finì per garantire un reddito ai lavoratori, e per molti anni a venire. La fabbrica però non riaprì mai più. Venne ancora una volta perseguita una soluzione tampone, assistenziale e non produttiva,simbolico e replicato esempio del modo in cui i vari governi che si succedevano intendevano muoversi per la realizzazione dell’ipotizzata linea dell’industrializzazione e del rilancio produttivo del Mezzogiorno d’Italia186. Il mercato del lavoro,con l’obiettiva crescita del lavoro nero, sarà reso ancora più asfittico ed instabile. Gli spazi di lavoro per i giovani,già a quel tempo assai contratti,si restrinsero ancora oltre, nel mentre la società locale emarginò sempre di più dal proprio seno,con la scomparsa della “Issimo”,una presenza produttiva ed operaia significativa ed importante. A differenza di quanto pur si sarebbe potuto immaginare il gruppo Marzotto, riuscito nell’intento di scaricare sulla collettività i costi sociali dell’operazione di chiusura della fabbrica di Salerno, acquisì un nuovo slancio nella scalata ai vertici del settore tessile nazionale. Può perciò risultare di un qualche interesse la ricostruzione,seppure a larghi schemi,dell’evolversi della situazione e delle principali novità realizzate da quel momento in avanti nelle strategie del gruppo. Una volta conclusa la vertenza a Salerno,Pietro Marzotto attuò,per incorporazione, l’operazione di fusione della Bassetti ed il gruppo veneto accentuò i propri caratteri di leadership nel settore dando vita ad un colosso industriale,di statura europea,in grado di fatturare - nell’agosto 1985 - oltre 800 miliardi di vecchie lire. Nel gruppo in quello stesso anno fecero il loro ingresso nuovi soci di minoranza che apportarono oltre 50 miliardi di lire di danaro fresco. Tutti nomi di rilievo dell’imprenditoria e della finanza nazionale,tra i quali spiccavano la famiglia Ferragamo, particolarmente affermata nel campo della moda,la Bi-Invest,il già richiamato Gruppo Bassetti,la Banca Commerciale Italiana, Pirelli, l’Istituto San Paolo di Torino, la Banca Popolare di Milano. L’assemblea della Marzotto aumentò inoltre il proprio capitale sociale da 40,8 a 47,6 miliardi.

186

La Filtea CGIL di Salerno ritenne ancora a lungo praticabile la prospettiva di una ripresa industriale, pur dimensionata,realizzabile, a fronte di precise decisioni politiche,con investimenti ed innovazioni adeguate. Ipotesi che non venne però mai presa in seria considerazione né dall’azienda né dal governo. 210


La famiglia Marzotto mantenne però ancora saldamente nelle proprie mani il controllo della società, detenendo un pacchetto azionario superiore al 60%. Ferruccio Ferragamo e Piero Bassetti entrarono nel Consiglio di Amministrazione nel mentre la famiglia Bassetti,coi suoi vecchi e storici imprenditori lombardi,scomparve dalla scena fagocitata dal gruppo Marzotto che già qualche tempo prima aveva eletto ai vertici della società Bassetti Pietro Marzotto, insieme a Gianni Mion e Costantino Passerino, due funzionari dell’azienda di Valdagno. Marzotto si fece garante della Bassetti col sistema bancario,ne consolidò i debiti e mise in moto tutte le operazioni di rilancio produttivo ed industriale ritenute più opportune. Gli impianti Bassetti ripresero a produrre,a pieno regime,in un processo di integrazione produttiva e commerciale tra tutte le imprese del gruppo MarzottoBassetti. Nel campo del lino si stabilì la collaborazione tra il Linificio Bassetti e la Zignago Santa Margherita (Marzotto) ed esse insieme riuscirono a coprire fino al 30% del mercato del lino dell’area dell’Ocse. Bassetti aveva tradizionalmente lavorato il cotone, vendeva prodotti per la casa; Marzotto puntò invece sulla lana e sui capi di abbigliamento. E’noto come il gruppo Marzotto aveva forti interessi economici anche in altri svariati campi di attività, diversi dal tessile, dal vetro, col gruppo Zignago,fino alla catena alberghiera dell’Italjolly. Il giro di affari calcolato per il 1985 delle imprese che,a vario titolo,facevano parte del gruppo di Valdagno ammontava a 1.250 miliardi di lire valore 1985187. La struttura del Gruppo nel suo complesso, nel 2002-2003, occupava attorno agli 11. 000 dipendenti ed il suo fatturato,sempre nel 2003, era stato di 1,74 miliardi di cui solo il 19% in Italia. Nel 2003 Marzotto chiuse l’esercizio con 19 milioni di Euro di utili. L’ascesa del Gruppo Marzotto, che in passato si era sempre caratterizzato per la grande coesione ed univocità d’intenti tra tutti i membri della famiglia, nel 2002 iniziò a manifestare al suo interno prime forti e stridenti discrasie. Pietro Marzotto, capo indiscusso della famiglia,dopo aver guidato l’impresa per circa 25 anni,decise di vendere la propria quota di proprietà del 17,42% agli altri componenti del gruppo industriale e finanziario. Il conte Pietro evidenziò in tal modo,in maniera netta e polemica,la propria indisponibilità ad aderire alla nuova strategia verso cui aveva iniziato ad orientarsi il consistente nucleo di imprenditori della nuova generazione Marzotto, una dozzina di 187

“Il Sole 24 Ore”, Articolo di Giorgio Lonardi del 3 Agosto 1985. Di tenore sostanzialmente identico gli articoli che informano dell’accordo raggiunto per il passaggio della Bassetti a Marzotto su “ L’Unità” del 9 e 10 Luglio 1985. In essi si dettagliano le modalità con cui marchio e simbolo Bassetti sono salvati dall’intervento Marzotto. La Finbassetti ( finanziaria che controlla tutto il gruppo) venne ceduta, gratuitamente, alla Marzotto. L’attività continuò e fu gestita dal più solido gruppo tessile vicentino. Esso diede corso a drastiche operazioni di ristrutturazione e di ridimensionamento della vecchia impresa Bassetti. Marzotto dichiarò che,con emissioni di nuove azioni e prestito obbligazionario, intendeva rastrellare 50 miliardi che sarebbero serviti “da un lato alla ristrutturazione finanziaria del debito Bassetti e dall’altro all’ammodernamento degli impianti acquisiti”. “Positiva la continuità produttiva dell’azienda Bassetti, pesanti i prezzi che saranno pagati sul terreno dell’occupazione e dei diritti acquisiti”. Questa fu la valutazione, comune e condivisa,della direzione sindacale unitaria. “ Il mattino” del 14 Luglio 1985 aveva già dato una scarna anticipazione della notizia di acquisizione della Bassetti da parte del Gruppo Marzotto. 211


esponenti proprietari del 27,08% del capitale. La quota ceduta da Pietro fu acquistata per 105 milioni di Euro. I titoli vennero rilevati da Finanziaria Canova, una società di consulenza nata nel 2001 con la partecipazione del management di De Agostini e Industrie Zignago. Al nuovo patto aderì anche la famiglia di Paolo Marzotto insieme all’amministratore delegato Marzotto, Antonio Favrin, che rilevò, entro un anno, 1,8 milioni di azioni da FinCanova, elevando la propria partecipazione dallo 0,9% al 3,6%. La famiglia Paolo Marzotto ha acquistato da Fincanova la nuda proprietà di 6,1 miliardi di azioni (9,2%) e le azioni Marzotto nell’ultimo anno si sono apprezzate dell’80%. Favrin è figura manageriale di fiducia nell’articolato albero della dinastia Marzotto ed ha guidato per 30 anni le Industrie Zignago, società di cui sono azionisti gli imprenditori di Valdagno. Paolo Marzotto si è scontrato con Pietro proprio a proposito della offerta avanzata da Paolo agli azionisti Zignago. Già nel 1998 Pietro aveva dato il proprio parere contrario alle ipotesi della famiglia di defilarsi parzialmente,evitando comunque di continuare ad agire in prima esposizione,dalla gestione dell’impresa,detenendo per sé solo quote di azioni. Altri avrebbero da quel punto in avanti dovuto esercitare le funzione di direzione manageriale,ipotesi questa cui Pietro aveva manifestato pubblicamente la propria opposizione, non condividendo in alcun modo tali netti cambiamenti d’indirizzi e strategia. Aveva perciò votato contro la fusione tra Marzotto e Zignago ma le sue posizioni non erano state accolte e pertanto già da allora,a fronte del prevalere delle tesi sostenute dai più giovani discendenti della famiglia,aveva rinunciato ad ogni carica operativa. Tra i 6 rappresentanti della famiglia Marzotto c’era ormai difficoltà a guidare l’azienda con univocità di intenti. Le funzioni direttive dell’impresa sono state perciò affidate ad un manager esterno, Silvano Storer. La nascita di un “patto di sindacato” tra i più giovani è stato il segno della rottura che si è poi definitivamente consumata con l’uscita di Pietro dalla scena. L’opposizione ha così progressivamente conquistato la maggioranza nel gruppo ed a Pietro altra scelta non è rimasta se non quella del proprio disimpegno,con cessione delle azioni e della propria quota di proprietà. Dopo la fine del “Regno illuminato” di Pietro le redini della Marzotto sono passate nelle mani di un parlamentino familiare di 22 nipoti e 55 procugini.188 Il gruppo Marzotto,dalla chiusura della propria azienda di Salerno avvenuta nel 1983, concentrando in maniera pressoché assoluta la produzione e gli investimenti economici e finanziari solo nel Nord del paese,non ha mai più prospettato né realizzato alcuna ipotesi di nuovo insediamento industriale o forme diverse di un proprio,diretto impegno nel Mezzogiorno.

188

Il dettaglio del nuovo assetto dell’antica dinastia veneta è stato rappresentato da Paolo Possamai ed Ettore Livini, su “ Repubblica ” 13 Marzo 2003. 212


036. LA RELAZIONE PROGRAMMATICA DEL MINISTERO PPSS, ROMA 1986-IL DISIMPEGNO DELL’ENI Verso la fine degli anni 80 la situazione dell’IRI e dell’ENI, i maggiori enti delle Partecipazioni Statali, si presenta, in genere, con un trend tendenzialmente positivo, pur in presenza di un quantitativo di risorse disponibili ancora ben inferiore alle necessità. In ogni caso si sarebbe realizzato sia un blocco dell’indebitamento sia un miglioramento, sensibile, dei risultati nel rapporto tra mezzi propri e capitali investiti. Il conto economico consolidato dell’ENI presenta una perdita di 88 miliardi, a fronte dei 1. 449 miliardi dell’esercizio precedente. Si è poi verificato un miglioramento notevole del margine operativo della gestione industriale (con un incremento di 1.024 miliardi) e con un rapporto sui ricavi passato al 6,6% contro il 5,1% del 1983. Si sta poi procedendo a contenere gli oneri a carico dello Stato in maniera da potere reperire ulteriori e consistenti risorse finanziarie, in modo che sia possibile concentrare l’impegno dell’ente pubblico in settori nuovi ed avanzati, in modo integrativo e non sostitutivo agli apporti richiesti dallo Stato. Per i settori tessile e meccano-tessile sono individuati i livelli produttivi compatibili con una equilibrata gestione economica delle aziende conseguibile con interventi di ridimensionamento occupazionale. Le eventuali eccedenze di personale dovranno essere gestite, in modo non traumatico, con l’uso della CIG e dei prepensionamenti e con la sperimentazione di nuove procedure di mobilità. Perciò sarà creata una nuova struttura, un’agenzia del lavoro, e dovranno essere applicati i contratti di solidarietà. Le PPSS dovranno continuare a mantenere un proprio diretto intervento nei settori manifatturieri più avanzati dando la massima accelerazione allo sviluppo dell’indotto, promovendo ogni forma possibile di job-creation (come ha già individuato Ageni) rivolta alle aree con maggiori eccedenze occupazionali ed anche in tutte le situazioni che possano ampliare, anche in via indiretta, la base produttiva del paese. Gli enti pubblici devono in ogni caso, come recita la legge n. 1589 del 22 Dicembre 1956 all’articolo 3, muoversi all’interno della filosofia della economicità del sistema delle partecipazioni statali. Il governo ed il parlamento fissano le direttive ed in questo senso dovranno essere definiti, in modo puntuale, i limiti “entro i quali possono essere correttamente condizionate le scelte imprenditoriali delle imprese pubbliche da fattori esterni di carattere sociale e politico”. Tali limiti vanno individuati nella “compatibilità con l’equilibrio economico dell’impresa”, ovvero con la esigenza di “apprestare mezzi adeguati quando tale compatibilità non risulti assicurata”. Nel triennio 1985-1987, con una nota aggiuntiva alla precedente relazione programmatica, erano state formulate queste osservazioni ed avanzate queste richieste: 213


1985 E. N. I.

1. 732

1986

1987

1. 120

Totale

1. 100

3. 952

Nel 1985 l’azionista pubblico ha coperto una percentuale del fabbisogno dei maggiori enti nell’ordine dell’87%. Si registra una riduzione complessiva della previsione del fabbisogno nell’ordine dei 1.200 miliardi per il 1986-1987, i due anni confrontabili: 1986 E. N. I.

700

1987

1988

250

Totale

150

1. 100

Il fabbisogno ENI si è consistentemente ridotto. Il gruppo nel 1984, dopo un triennio di perdite rilevanti, è tornato a registrare un sostanziale equilibrio. Si è razionalizzata l’organizzazione del settore energetico dimensionando la quantità produttiva all’effettiva potenzialità della domanda nel mentre si è portata a soluzione il problema, assai urgente, della chimica con l’adeguamento degli assetti produttivi. La crescita è ragionevolmente prevista già a partire dal 1985. La perdita si è ridotta a 88 miliardi di lire a fronte dei 1.449 dell’esercizio precedente. La gestione industriale ha registrato poi un costante miglioramento. Ciò è dovuto al settore energetico ma anche ai quattro settori in crisi del gruppo ( chimica, meccanotessile, minerometallurgico e tessile). Il margine operativo sui ricavi è stato del 6,6% contro il 5,1% del 1983. Si ipotizza un ulteriore miglioramento nel periodo 1986-1988. Il fabbisogno finanziario previsto per questo periodo è di 26.700 miliardi di lire. Gli investimenti predisposti per il 1985 ammontano a 6.000 miliardi e per il triennio 86-88 a 24.000, di cui il 42% all’estero, con una tale suddivisione : miliardi

%

Energia

21. 394

89, 0

Chimica

1. 700

7, 1

Minero metallurgiche

420

1, 7

Altre attività

524

2, 2

Per quanto attiene più specificamente il settore tessile si precisa chiaramente come le azioni saranno rivolte al recupero produttivo, al miglioramento della gamma dei prodotti, all’ampliamento dell’area geografica di commercializzazione delle aziende giudicate risanabili, quali la Lanerossi, Marlane, Lebole, Cotonificio di Sondrio nel mentre per le altre aziende del gruppo, come la Monti, Lanerossi Confezioni, La Intesa, la Confezioni di Filottrano e le M. C. M ci si è orientati verso la strada obbligata della riconversione produttiva per quanto, nelle more, dovranno perseguirsi i piani di recupero di efficienza ed adeguamento degli organici ai livelli di produttività conseguibili. Più nello specifico si dichiara che l’ENI investirà nel periodo 85-88 6.601 miliardi di lire nel Sud, con un impegno al rispetto degli indirizzi dettati dalla nuova filosofia dell’intervento straordinario. L’orientamento di tale politica è volto ad interventi infrastrutturali e alla fornitura di servizi alle imprese “per agevolare il processo di 214


trasformazione tecnologica e lo sviluppo di attività produttive”. Per i settori ci si orienterà, al Sud, verso il settore energetico, con lo sviluppo delle reti infrastrutturali a partire dallo sviluppo del metano. L’ENI sarà poi impegnata nel proseguire i piani di risanamento dei settori in crisi strutturale, come il chimico e il minerometallurgico e per la riconversione necessaria in conseguenza del piano di ristrutturazione del settore delle fibre. Alla fine del 1988 l’occupazione del gruppo è cresciuta di 1,2 mila unità rispetto al 1984, con un aumento degli occupati all’estero ed una riduzione degli occupati in Italia. Il gruppo prevede di creare nuova occupazione nell’ordine di 4,1 nuovi posti di lavoro “in gran parte nel settore energia, che andranno ad annullare il decremento nei settori in crisi ( minero-metallurgico e meccano-tessile) Per il sud l’incremento dal 1984 al 1988 sarà di 1,3 mila unità . ( Previsioni queste che, come è noto, si riveleranno particolarmente azzardate) Queste, per grandi linee, le scelte strategiche prefigurate dal Ministero delle Partecipazioni Statali e dall’Eni. Al di là delle dichiarazioni rivelatesi poi, alla verifica, ben più ottimiste della realtà di fatto, è del tutto chiaro il senso di marcia che si era ormai intrapreso. Già il 12 Novembre 1985, nel corso del Convegno Nazionale della CGIL e della Filtea tenutosi a Napoli189il Sindacato si era opportunamente soffermato, in maniera assai preoccupata, sulla situazione del Mezzogiorno che, nel suo complesso, appariva assai peggiorata rispetto al più recente passato. Erano stati in quella occasione auspicati interventi capaci di porre un drastico freno ad una fase in cui, molto spesso, l’intervento pubblico a sostegno dello sviluppo industriale aveva finito per assumere un carattere di mero assistenzialismo. Altra cosa rispetto alle esigenze di nuovo e qualificato sviluppo industriale e produttivo di cui aveva invece bisogno quella area del paese. 190 Il grado di consapevolezza della estrema criticità della situazione, con gli evidenti rischi di tenuta democratica e civile che ciò avrebbe potuto comportare, appariva di gran lunga inferiore alle necessità dell’ora. In tale rilievo critico, oltre al Governo, erano negativamente accomunati il parlamento, le forze politiche, il padronato pubblico e privato, la Gepi, lo stesso Sindacato, ciascuno al livello della propria specifica responsabilità. Per recuperare il ritardo accumulato sarebbe stato necessario un tasso di incremento annuo medio dell’occupazione del 3, 6%, con la creazione di 1 milione e 850.000 posti di lavoro. Invece nel mentre in Italia nel 1984 risultava un aumento del PIL in termini reali del 2,6%e gli investimenti fissi erano cresciuti del 4,1% al Sud essi invece erano aumentati rispettivamente solo dell’1,7% e del 3,2%. Al Sud c’era stato maggiore ricorso alla cassa integrazione guadagni, con un incremento del 22% contro un aumento al Nord del 7%. Il convegno ribadiva pertanto la necessità di un 189

“ La Gepi nel Mezzogiorno: dall’assistenza allo sviluppo” relazione di Bruno Vettraino per conto della Segreteria Nazionale della Filtea CGIL. 190 Nel Convegno richiamato si rilevava come “ Il tasso di disoccupazione , che al Nord è del 10, 8%, nel Mezzogiorno ha superato il 15, 7%, con un aumento dello 0, 5% rispetto al 1984; su due milioni 400. 000 disoccupati, un milione e 150. 000 sono al Sud”. 215


intervento straordinario concentrato però sul rafforzamento delle infrastrutture, sulla riqualificazione dell’apparato produttivo, sulla piena valorizzazione delle risorse endogene. Anche in questo caso veniva richiesto un intervento straordinario volto alla costituzione di centri consortili tra amministrazioni locali, Camere di commercio e associazioni imprenditoriali atti a fornire servizi alle imprese funzionali ai caratteri specifici del settore e dell’area ed in tal modo in grado di rendere produttive, al massimo, le risorse impiegate. Servizi di commercializzazione sui mercati nazionali ed esteri, infrastrutture idonee per l’addestramento del personale, per il coordinamento della domanda pubblica. La legge straordinaria avrebbe dovuto raccordarsi coi progetti nazionali ridefinendo, con precisione, ruolo e funzioni delle Regioni. Un tale intervento sarebbe stato quanto mai opportuno per il settore del TAC nel Mezzogiorno. Il saldo positivo commerciale del settore verso l’estero era stato di 16.000 miliardi di lire. Eppure “ Nel Mezzogiorno gli aspetti quantitativi di tenuta dell’occupazione sono stati accompagnati ad una modifica della struttura occupazionale che ha accentuato la separatezza di questa area rispetto ai processi di riorganizzazione e innovazione che stanno cambiando a livello nazionale la fisionomia del settore”. Nelle aree più avanzate del Paese i processi di ristrutturazione hanno assunto come nucleo strategico l’innovazione tecnologica, la deverticalizzazione, uno sviluppo consistente dei processi di specializzazione, nuove forme di integrazione dell’impresa. Flessibilità, contrattazione degli orari, maggiore utilizzo degli impianti i punti dirimenti della riorganizzazione produttiva nelle aree ove essa è avvenuta. Il Sud invece gestirà tali processi in modo del tutto residuale. Al Sud gli stessi imprenditori che hanno ristrutturato l’impresa del Nord, dopo aver drenato miliardi di sovvenzioni pubbliche, abbandoneranno le loro fabbriche rinunciando ad ogni ipotesi di trasformazione e di innovazione. I Marzotto, Bassetti, la Snia hanno scelto la strada del disimpegno nelle realtà meridionali. 191 Così è proceduto un profondo processo di deindustrializzazione in Campania, Calabria, in Puglia. L’Eni aveva a quella data 4.000 addetti nel Mezzogiorno. Il Convegno da un lato criticava l’azione scarsamente efficace della Gepi per la reindustrializzazione ed il reimpiego dall’altro auspicava, con una qualche ingenuità, una trasformazione della finanziaria pubblica che le consentisse di svolgere al Sud un’ efficace politica produttiva ed industriale inglobando nel suo seno nuove tecnologie ed elevate capacità manageriali. La Gepi alla data di questo convegno aveva preso in carica 18. 000 lavoratori e si accingeva ad acquisirne altri 2.500 del Nord. Eppure essa riconosceva che erano stati reimpiegati in iniziative produttive solo 2.919 lavoratori nel mentre per il Sindacato invece i posti di lavoro attivati a tutto il 1984 erano stati 1. 300. Nel territorio di Salerno l’intervento della Gepi si limiterà a tenere a carico, per un certo lasso di tempo, i lavoratori espulsi dal ciclo produttivo delle industrie 191

Dopo una vertenza lunga, aspra, complessa chiuderà anche la Texsal, l’industria di Salerno facente capo alla holding Snia Viscosa. L’azienda, nel mentre concentrerà al Nord le produzioni chimiche e tessili a lungo lavorate nelle imprese meridionali, si orienterà con maggiore decisione sui comparti delle armi e su quello aereospaziale. 216


tessili e dell’abbigliamento ma, nonostante i ripetuti impegni e piani enunciati, non sarà in grado di realizzare alcuna nuova iniziativa industriale, anche di ridotte dimensioni. Il CIPI autorizzava l’Eni, il 17 Febbraio 1987, a procedere all’alienazione del settore indicando altresì i criteri cui l’Eni avrebbe dovuto rigorosamente attenersi nell’atto di vendita. Gli acquirenti subentranti avrebbero dovuto dimostrare di possedere adeguati requisiti, per dimensioni industriali e forza finanziaria proporzionate a quelle delle società da vendere, così da garantirne lo sviluppo e la valorizzazione dei marchi. Essi avrebbero poi dovuto garantire il completamento dei programmi di investimento in corso, salvaguardando assetti industriali e quantità dell’occupazione esistente. L’Eni incaricava, per la vendita, la banca d’affari “Paribas” che era subito coinvolta nelle fasi istruttorie della trattativa. Sui principali organi d’informazione nazionali ed esteri si sarebbe dato il massimo di pubblicità all’avvio delle procedure per la privatizzazione. Il dettaglio delle caratteristiche, della consistenza e specificità delle aziende interessate era inviata ad un centinaio di imprese nazionali e straniere. Una ventina mostravano un qualche interesse manifestando volontà di approfondimento circa eventuali ipotesi di acquisto. Ci si doveva scrupolosamente attenere, in tali procedure, ai criteri stabiliti dal CIPI. In un periodo relativamente breve si verificava una sensibile scrematura dei potenziali imprenditori subentranti ed alla fine soltanto 4 di loro ( Marzotto, Inghirami, Benetton, la francese DMO) si dichiaravano disponibili all’acquisto in blocco della “Lanerossi” e pertanto essi soltanto si garantivano l’accesso alla fase finale della vendita. Tutta la complessa fase della cessione e del vaglio dell’affidabilità dei potenziali subentranti fu oggetto, ancora una volta, di un intenso lavorio e di un impegnativo confronto coi sindacati. Tutto il primo semestre del 1987 trascorse nella ricerca di un difficile dialogo con le organizzazioni dei lavoratori. Il confronto si interruppe in quanto ai Sindacati le assicurazioni fornite non parvero sufficienti. Cosa che li induceva ad insistere sul punto, dirimente e vincolante, della richiesta all’ENI di mantenimento di una propria diretta quota di partecipazione azionaria, seppur di minoranza. L’ENI aveva nel frattempo fissato il prezzo minimo di vendita in 166 miliardi di lire. Le offerte dei privati però non superavano il valore indicato dalla giunta e l’ENI insisteva nella richiesta di riformulare un’offerta congrua. Infine si deciserà che la vendita avrebbe riguardato solo il complesso aziendale “ Lanerossi ”, non la società. Due offerte si confrontarono a quel punto, quella di Marzotto e quella della Paribas. Il gruppo “ Marzotto” avanzò un’offerta di 167,9 miliardi di lire, superiore di 12 miliardi alla Paribas. L’ENI si garantiva questo danaro e la riduzione contestuale dell’indebitamento consolidato del gruppo che in quel momento ammontava a 352 miliardi di lire. Il Sindacato contestava tale punto di caduta, ritenendo rischioso il fatto che l’acquisizione del complesso da parte del gruppo Marzotto avrebbe finito per causare una sovrapposizione dei settori produttivi dei due gruppi che, col tempo, 217


avrebbe comportato nuove ristrutturazioni e nuovi tagli occupazionali. Marzotto avrebbe preso il “cuore” della “ Lanerossi ”, liquidando ogni funzione ritenuta eccedente e residuale. In tal senso il carattere di garanzia politica della delibera CIPI si sarebbe dissolto. I Sindacati ribadivano perciò la richiesta di un mantenimento di partecipazione azionaria dell’ENI nella Lanerossi. In tal modo l’ENI non si sarebbe svincolata del tutto ed avrebbe continuato ad essere garante del complesso processo di mantenimento dei livelli occupazionali con le eventuali operazioni volte ad una diversa collocazione produttiva. La crisi di governo rallentava la definitiva conclusione della difficile vertenza. Il nuovo Ministro Granelli, dopo vari incontri coi Sindacati ed i rappresentanti delle Istituzioni locali, l’8 agosto autorizzava la vendita della “ Lanerossi ” alla Marzotto. Una commissione interministeriale avrebbe vigilato sull’attuazione del complesso degli impegni assunti in tema di mantenimento delle sedi produttive, di attuazione degli investimenti necessari, della tutela integrale dell’occupazione. Tale accordo non coinvolgeva le Manifatture Cotoniere Meridionali. Esso appariva del tutto irrealizzabile a Salerno a causa della durissima vertenza che aveva, a partire dal 1983, interessato la fabbrica “ Issimo ”di Salerno, con circa 1200 lavoratrici e lavoratori, azienda chiusa proprio da Marzotto con la dismissione, totale, di ogni diretta presenza dell’imprenditore di Valdagno in quella realtà. Ad ogni modo la strada era tracciata. L’Eni da quel momento in avanti dismetterà ogni attività nei più tradizionali settori manifatturieri, nella chimica e nel tessile. Si fermano impianti produttivi d’ogni dimensione, si cedono, a prezzi di favore, svariate imprese del settore a gruppi privati italiani o stranieri. A proposito della impropria persistenza della collocazione delle aziende manifatturiere tessili nell’ambito dell’Eni, il Partito Comunista contesterà l’incapacità dei gruppi dirigenti pubblici ad invertire la tendenza al declino192, contesterà il fatto che in pochi anni si sono succeduti, alla guida dell’Eni tre presidenti, rileverà come più che logiche di squisita impostazione industriale siano procedute operazioni di pura spartizione tra i partiti della maggioranza di governo. Riterrà gravissimo il fatto che il governo, lungi dal contrastare, è stato il promotore di queste impostazioni lottizzatici. La riflessione dei comunisti finirà per soffermarsi, in particolare, sul fatto che era soprattutto indispensabile “ definire in primo luogo l’asse strategico dell’ENI, recuperandone e valorizzandone la tradizionale vocazione di operatore sul mercato di ricerca, produzione, trasformazione, commercializzazione di materie prime energetiche (in specie il petrolio) ”. La vera decisione da assumere era se limitarsi alla fase di approvvigionamento di una sola fonte energetica o se operare sull’intero arco delle materie prime energetiche. Era poi ancora ragionevole ricordare l’impegno dell’Ente rivolto alla creazione ed al mantenimento dell’occupazione nel mentre non si poteva procedere oltre con la linea della casualità e dell’approssimazione delle scelte operate, in specie negli ultimi anni. Poteva essere sostenuto l’impegno di trasmissione di tecnologie, di sostegno al sistema di piccole e medie imprese a monte ed a valle 192

Conferenza dei comunisti sull’ENI 218


degli stabilimenti dell’ENI e in ciò avrebbe dovuto consistere lo specifico contributo delle Partecipazioni Statali allo sviluppo dell’economia meridionale. Ciò che finiva per essere contestata da parte dell’opposizione era la linea dell’ENI rivolta ad una gestione esclusivamente assistenziale dell’esistente nel mentre ormai appariva indispensabile valutare in altro modo la presenza dell’ENI anche in settori diversi da quello dell’approvvigionamento delle materie prime energetiche. Fatta salva la premessa di operare scelte relative ad una riconsiderazione politica d’insieme sull’opportunità che l’ENI si limitasse ormai soltanto al settore petrolifero ovvero garantisse “…la partecipazione diretta di una impresa italiana alla politica di approvvigionamento di altre materie prime energetiche e non energetiche fondamentali per l’economia del paese”193. Il settore chimico, oltre quello petrolifero, per l’eccezionale quantità di risorse economiche e finanziarie mobilitate e per i risultati per niente apprezzabili che si erano realizzati, calamitava, come era naturale, la massima attenzione del mondo politico e dei vari partiti. La questione della chimica doveva costituire il punto primo e decisivo per la dimostrazione della realizzabilità di una svolta e l’apertura di un nuovo ciclo d’industrializzazione virtuosa per la realtà meridionale. Esso si stava invece presentando come l’ennesimo e più grave errore di politica economica, l’immenso disastro finanziario gravido di conseguenze gravissime per il futuro dell’industrializzazione del mezzogiorno, il più clamoroso esempio del suo fallimento. A proposito del tessile si abbozzava un’altra strategia, secondo cui “…Senza pregiudicare la collocazione delle stesse aziende nel settore pubblico… ( ci si doveva muovere n. d. r. ) in modo tale che s’apra un processo volto ad una loro diversa collocazione attraverso lo scorporo dell’ENI e l’inquadramento in altro ente delle Partecipazioni Statali”. Si convergeva in sostanza con una lettura secondo cui il settore non potesse essere considerato “ strategico ” e soprattutto su come fosse ormai improponibile la sua stessa persistenza all’interno dell’ENI. I costi e le perdite d’esercizio che di anno in anno finivano per accumularsi rendevano, al di là delle dichiarazioni di rito, improponibile da un punto di vista squisitamente industriale e di conto economico la persistenza di una situazione d’impresa che da un lato non attivava alcuna innovazione e dall’altra confermava un’evidente e plateale difficoltà competitiva. In sostanza le posizioni dell’arco delle forze politiche democratiche finirà per convergere verso la ricerca di altre strade alternative. A quel punto la via delle dismissioni e dell’accelerazione del processo di privatizzazione verificherà una nuova e repentina accelerazione. Accadrà in conclusione che varie ed essenziali branche di produzione, su cui erano stati investiti assai consistenti volumi di risorse, per più ragioni, avevano finito per produrre perdite d’esercizio assai alte piuttosto che utili e profitti. Si erano a consuntivo rivelate occasioni d’immenso spreco di risorse pubbliche e finiranno perciò per essere cedute, in molti casi si svenderanno. Altri soggetti acquisiscono, 193

Conferenza nazionale dei comunisti sull’ENI, cit. 219


riordinano, ristrutturano, riorganizzano, reinvestono, rilanciano. Ciò su cui in Italia l’intervento pubblico ha fallito trasmigra in altre direzioni. Ed altri dimostreranno una diversa e ben più solida lungimiranza suffragata da una capacità progettuale, produttiva, imprenditoriale vincente.

037.MANIFATTURE COTONIERE MERIDIONALI:ULTIMO ATTO L’8 luglio 1986 si concludeva la lunga vicenda delle Manifatture Cotoniere Meridionali. La direzione del gruppo aveva fallito, in sostanza, l’obiettivo che si era proposto con la presentazione del piano di risanamento aziendale. Esso tendeva al raggiungimento di positivi risultati economici e di gestione, ad un’inversione di tendenza dopo il lungo processo di deficit gestionali, in apparenza inarrestabile, che aveva finito per accumulare notevoli negli anni perdite d’esercizio complessive sempre più elevate. La più urgente e rilevante decisione assunta sarà quella della ristrutturazione dello stabilimento di Nocera, il Nufi, la nuova filatura. In questo opificio erano previsti investimenti tecnologici particolarmente avanzati che avrebbero conseguentemente comportato una notevole quantità di forza lavoro espulsa dal circuito produttivo, diverse assegnazioni di macchinario in maniera da pervenire ad un consistente recupero di produttività. Era infine indispensabile l’esplicitazione di una diversa disponibilità, di riduzione verticale della conflittualità della forza lavoro impiegata nello stabilimento che avrebbe dovuto impegnarsi a garantire il pieno ed ininterrotto funzionamento delle nuove macchine installate. In tutto il gruppo lo stabilimento di Nocera era stato quello in cui, per tutti gli anni 80, si era esplicitata la conflittualità operaia di gran lunga più elevata. Più duttilità e disponibilità sarebbe stata compensata con il raggiungimento dell’obiettivo di non perdere ratei di salario e con l’ottenimento della corresponsione, anticipata, della cassa integrazione guadagni ai lavoratori estromessi dall’attività produttiva. Si sanciva in tal senso un’intesa che evitava l’ esplicita e definitiva identificazione degli esuberi di personale. In tal senso si acquisiva il principio del metodo della rotazione da utilizzare all’interno di un sistema di contrattazione che avrebbe consentito di non giungere alla precisa identificazione di nuclei definiti di manodopera eccedente. Su tale questione politica, di principio, si registreranno forti tensioni tra direzione aziendale e sindacati dei lavoratori. Notevolissima la quantità di scioperi articolati che finiranno per risultare particolarmente gravosi sui delicati meccanismi di funzionamento delle nuove macchine installate. Dopo lunghe trattative si perveniva ad un’intesa sottoscritta tra la direzione dello stabilimento e le organizzazioni sindacali. Il compromesso raggiunto era però respinto dai risultati del referendum indetto tra i lavoratori. L’ipotesi d’intesa conteneva principi e contropartite, dati i 220


tempi, piuttosto avanzate se rapportata alla qualità dei rapporti industriali dell’epoca. Si sanciva ad esempio il principio dell’impegno alla ricollocazione produttiva dei lavoratori espulsi in attività alternative, che l’Eni avrebbe dovuto individuare, attuare, garantire nella loro realizzazione. In sostanza, dopo la prima bocciatura referendaria, l’intesa -integralmente riproposta, pur in un clima di ovvie tensioni e divisioni nel gruppo, finiva per essere accettata. I sindacati si erano trovati in una situazione assai critica. I freddi dati oggettivi che evidenziavano annualmente forti disequilibri e perdite di bilancio non erano obiettivamente contestabili. Un rifiuto totale di qualsiasi ipotesi d’intesa altro non avrebbe prodotto che il totale ed anticipato disimpegno della mano pubblica. L’assenza di investimenti produttivi e tecnologicamente avanzati avrebbe decretato la fine d’ogni forma, pur limitata, di attività industriale. A quel punto non soltanto una quota consistente di lavoratori ma tutte le fabbriche del gruppo sarebbero state condannate alla morte certa, totale, definitiva. L’intesa raggiunta, pur con gli inevitabili e dolorosi strascichi che senza dubbio comportava, concorreva almeno in parte a rallentare un processo che pure, come si è appena visto, era stato da tempo politicamente deciso e che procederà in questa direzione senza alcuna credibile predisposizione di altra soluzione produttiva alternativa e valida. Nell’intesa l’azienda ed i Sindacati convenivano sulla realizzazione delle indispensabili innovazioni tecnologiche, e sulla necessità di attuazione di una profonda razionalizzazione del lay-out. In maniera del tutto inedita rispetto al passato si convenne sulla necessità del massimo utilizzo degli impianti. Vennero avviati modelli, nuovi, di organizzazione del lavoro e furono concordate diverse e più elevate assegnazioni di macchinari per ogni singolo operaio. Esse avrebbero dovuto portare alle saturazioni dei tempi morti nell’attività d’impresa. Fu acquisita dall’azienda, in linea di principio, la richiesta sindacale di agire per più forti diversificazioni produttive e ciò al fine di conquistare più consistenti quote di mercato. S’individuarono alcuni modelli organizzativi per giungere ad una riduzione dei costi generali di gestione e venne predisposto un dettagliato piano d’investimenti con l’indicazione, definita, della realizzazione temporale degli stessi. Alla fine l’organico operativo della società si sarebbe attestato su 1.001 unità lavorative, suddivise tra 853 operai, 136 impiegati, 12 dirigenti. Oltre al nucleo storico di 180 tra impiegati ed operai, già in cassa integrazione guadagni, erano posti in cig speciale -a rotazione- tutti gli altri lavoratori risultati esuberanti in seguito alle nuove forme assunte dall’organizzazione del lavoro ed agli investimenti in nuove tecnologie. Venivano installati i nuovi filatoi open-end, macchine ad alto livello di meccanicità, in grado di produrre, rispetto ai vecchi impianti di filatura, un elevamento di produttività in un rapporto quadruplicato. Queste nuove macchine di filatura sarebbero state utilizzate, ad orario continuato, ed avrebbero dovuto restare in funzione continuativamente, 7 giorni su 7 e per 24 ore. Per evitare danni causati da eventuali fermate improvvise si concordava il funzionamento ininterrotto di queste macchine e ciò sia in relazione all’orario 221


normale di lavoro che in occasione di fermate programmate di sciopero. Si sarebbe lavorato per sei giorni alternati a tre giorni di riposo, e ciò a scorrimento, su tutti i giorni dell’anno ad eccezione delle fermate indicate dalla programmazione aziendale in circoscritte e precisissime occasioni. Ogni posto di lavoro avrebbe visto impiegate 4,5 unità. In attesa dell’installazione di altre due macchine simili, in relazione a quanto previsto dal piano industriale del 1986, una mezza squadra di lavoratori avrebbe completato l’orario settimanale fuori dal reparto o quale squadra di sostituzione dei lavoratori assenti. I turni sarebbero stati di 8 ore, comprensivi della mezza ora di pausa prevista dal contratto, ma sempre a macchine funzionanti ed in piena attività. Le nuove macchine sarebbero state utilizzate perciò per 8.016 ore all’anno. In conclusione, considerando l’insieme degli interventi definiti, si sarebbe pervenuto al risultato di ottenere elevate produzioni con organici notevolmente ridotti. Il sindacato dimostrava così di non avere posizioni di preconcetta opposizione al piano d’impresa. Veniva concordato il nuovo premio di produzione che, a differenza del passato, sarebbe stato corrisposto non più in premio fisso, eguale per tutti, ma contrattato ogni volta di anno in anno. Questo atteggiamento di sostanziale realismo che, come si è visto, metteva nel conto l’onere di dovere affrontare dal punto di vista dei lavoratori anche duri sacrifici, non sarà però sufficiente ad invertire la strada del declino progressivo da tempo imboccata dalla mano pubblica194. In realtà si trattava di un tentativo di salvataggio delle imprese pubbliche tessili dichiaratamente osteggiato dalle decisioni già precedentemente assunte dalla Giunta dell’Eni e dal suo presidente Reviglio nel 1985. La giunta aveva dato infatti già il via ad un processo di scorporo dalla “Lanerossi” delle società tessili e di confezione valutate come più disastrate. In esse la Monti d’Abruzzo e le Manifatture Cotoniere Meridionali che in maniera assai rilevante avevano contribuito alle perdite del settore tessile. Ci si era posto l’obiettivo, con tale azione di “scorporo”, di avviare una riconversione di tali aziende ma, soprattutto, si auspicava la possibilità, una volta liberata la caposettore da tale “zavorra”, di condurre a buon esito la trattativa per la cessione ai privati del restante del gruppo a prezzi concorrenziali ed appetibili. Il Ministero delle Partecipazioni Statali creava pertanto una specifica commissione per le dismissioni. Il bilancio dell’Eni si presentava, nel suo complesso, positivo. Le attività energetiche apparivano largamente in utile, nel mentre le perdite si concentravano nei settori della chimica e delle miniere, settori nei quali erano già state avviate importanti riorganizzazioni. Il processo di privatizzazione portato a 194

Più avanti Paolo Del Mese, sottosegretario alle Partecipazioni Statali, in un incontro tenuto a Nocera Superiore, renderà noto il documento, firmato anche dal Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, in cui si conveniva che l’Eni era stata autorizzata a stipulare il contratto societario con il Gruppo tessile Polli-LettieriDe Angelis per la ripresa ed il potenziamento delle “ Manifatture Cotoniere Meridionali”. Del Mese assicurerà in questa occasione che saranno conservati i 1046 posti di lavoro e che in tre anni verranno impegnati 135 miliardi per la ristrutturazione delle “ Nuove Manifatture meridionali”. Si tratta di impegni che saranno solo annunciati ma non realizzati. 222


compimento con lo scorporo delle aziende tessili dell’Eni apparirà a consuntivo ben più insoddisfacente di quello dell’Iri. L’Iri diretta da Romano Prodi vende azioni, terreni, società, nel mentre l’Eni non riesce a vendere quasi nulla. L’Eni si è dovuta accollare i cocci dell’Indeni e non ha acquistato società di forte impatto strategico. I privati contattati finiscono quasi sempre per scappare, magari dopo che hanno intascato interessanti finanziamenti, lasciando di nuovo all’Eni attività che non hanno nulla a che vedere con le funzioni istituzionali e strategiche dell’Ente stesso.

038.

L’AGRO-NOCERINO, LA “CITTA’ DIFFUSA”.

Quanto è almeno in parte accaduto a proposito della vicenda dell’impresa manifatturiera cotoniera in alcune aree della provincia di Salerno non è stato in alcun modo un fenomeno occasionale, limitato e circoscritto. In Italia e più in generale nell’ Europa occidentale, negli ultimi due secoli di storia, si sono infatti succedute nascita, ascesa e declino di una serie di città che hanno legato inscindibilmente la propria storia e la propria identità, ben più profondamente di quanto è accaduto da noi, ad un particolare complesso industriale. Centri nati in origine in relazione allo sfruttamento di risorse naturali o allo sviluppo di particolari lavorazioni quali la seta, la lana etc erano poi improvvisamente decadute a causa della concorrenza di altre industrie venute d’oltre confine. In ogni caso è la rivoluzione industriale, con la nascita di grandi complessi produttivi, a segnare il destino di alcune città, di fatto confondendolo con lo sviluppo o il declino di un’impresa dominante. Lo sviluppo delle città sedi di grandi insediamenti industriali è stato in sostanza pressoché identico. Torino, dalla nascita della Fiat nel 1899, s’avvia a definire una propria specifica fisionomia. Tale processo si completerà, in realtà, soltanto due decenni dopo con la nascita del Lingotto. Solo allora la casa automobilistica italiana per eccellenza imprimerà davvero il suo marchio alla città. E’ allora che tale impronta diverrà indelebile. E’ in quel passaggio che Torino assurge a simbolo del fordismo italiano, iniziando ad attirare nel suo seno una marea di immigrati. Si calcola infatti che, nel 223


periodo tra le due guerre, la popolazione torinese sia aumentata di duecentomila unità divenendo l’esempio più evidente del processo di mutazione genetica da un paese a prevalenza agraria ad un paese di nuova e diffusa fisionomia industriale. Un’immigrazione ancora più massiccia si verificherà in coincidenza col periodo del boom economico grazie all’immissione di oltre 500.000 nuove unità di lavoro nella città piemontese. Si consuma, in quel frangente temporale, il drastico ridimensionamento delle altre attività produttive mentre il settore metalmeccanico si specializza assorbendo nel suo seno le energie migliori della società torinese. Il processo di sviluppo, monolitico ed unidirezionale, ostacola o impedisce la modernizzazione degli altri settori. Le periodiche crisi del colosso industriale torinese, che si evidenzieranno con la massiccia ciclica espulsione di forza lavoro esuberante, non permetterà il loro reimpiego in settori nuovi, moderni ed alternativi, come l’informatica o l’ambiente. Ivrea avrà invece una storia differente. La scelta iniziale di Adriano Olivetti è diversa da quella della Fiat. Negli anni 50 si evita di concentrare pressoché tutta l’attività nello stabilimento di Ivrea, e si contiene in tal modo il rischio che essa sia sommersa da flussi migratori. Al momento della crisi, come avverrà a Torino, la popolazione decresce progressivamente. La differenza di sostanza consiste in una ben diversa adattabilità della forza lavoro di Ivrea, capace di dar luogo ad autonomi impulsi imprenditoriali, e di sopravvivere alla mutazione delle grandi imprese delle telecomunicazioni capitalizzando, in altri punti e segmenti produttivi, il prezioso capitale di conoscenza accumulato. A Chiasso la chiusura della Lancia non ha lasciato dietro di sé il deserto. E’ rimasto un legame con la casa madre e dalla profonda crisi economica e finanziaria ha preso il via un processo di più diffusa riqualificazione della città col potenziamento delle sue strutture primarie. La zona industriale di Chiasso, quasi del tutto dismessa, si è proposta quale area al servizio del territorio circostante ed in grado di accogliere, per questa ragione, nuove ed innovative iniziative. La Lanerossi di Schio è invece cresciuta in mezzo ad un proliferare di piccole e medie imprese. Il colosso tessile ha imposto la propria presenza modificando l’assetto urbano circostante. Ha invaso la città con strutture benefiche ed ha costruito quartieri per operai e dirigenti. Ad un certo punto ha però interrotto la produzione non essendo stata in grado, come invece farà Marzotto, di relazionarsi in sintonia con le avvenute mutazioni, con le nuove e diverse esigenze, di gusto e di domanda, dei mercati. Ora la Lanerossi è una delle più grandi aree dismesse del paese. Di fronte c’è l’incognita: o conservare una grande memoria storica riutilizzando gli edifici abbandonati o consegnarli ad un irreversibile degrado. Scelte da cui dipenderà l’identità urbana di quel centro195. Nella Provincia di Salerno è l’area dell’Agro nocerino sarnese a presentarsi come sostanzialmente omogenea dal punto di vista geografico. Essa appare simile ad un 195

Da “ Annali di storia dell’Impresa” Ed. Marsilio, pag. 506, con saggi di Giuseppe Berta, Guido Barberis, Carolina Lussana, Renato Covino, Michele Lungonelli, Giancarlo Subbrero, altri. 224


ampio sistema territoriale in cui disordinati sono gli intrecci e confuse le integrazioni tra campagna ed insediamenti urbani. La diffusa crescita di un’agricoltura intensiva ha comportato un fitto sviluppo demografico, con tasso di popolazione elevatissimo se rapportato alla relativa limitatezza del territorio. E’ il secolo XIX a segnare un passaggio ed uno snodo decisivo nella storia dell’agro. Nel 1806 Pagani, S. Egidio del Monte Albino e Corsara divengono Comuni autonomi nel mentre l’antica Nuceria si scinde, nel 1851, nelle attuali Nocera Inferiore e Nocera Superiore. E’ di quel periodo la nascita del collegamento ferroviario da Nocera Inferiore a Napoli con la costruzione della prima stazione ferroviaria di Nocera. E’ a quel tempo che Nocera Inferiore diviene un centro di attività di tipo industriale, un riferimento privilegiato nel contesto territoriale circostante. Insieme a Scafati si trasforma nel più grande centro industrializzato dell’Agro, in particolare per merito della nascita di insediamenti tessili. A Scafati c’è un grande sviluppo dell’impresa manifatturiera tessile ed esso è dovuto, come si è visto, anche in quella realtà, all’arrivo di imprenditori svizzeri. Nel 1910 sarà creata la linea tranviaria SalernoPagani che, nel 1911, verrà prolungata fino a Pompei. L’area dell’Agro è di 161 Kmq e rappresenta solo il 3, 3% dell’intero territorio della provincia di Salerno. E’ composta dai Comuni di Angri, Castel San Giorgio, Nocera Inferiore, Nocera Superiore, Pagani, Roccapiemonte, Sant’Egidio del Monte Albino, San Marzano sul Sarno, San Valentino Torio, Sarno, Scafati, Siano. E’ circondata a sud-ovest dalla catena dei Monti Lattari e a Nord-Est dai Monti Picentini. Il territorio è pianeggiante ed è centro di forte attività agricola con mercati di ortofrutta e grandi presenze di industrie di trasformazione, in prevalenza stagionali. Un’area sostanzialmente omogenea, socialmente ed economicamente. Nell’Agro risiedono 270. 000 abitanti, il 25% dell’intera popolazione della Provincia di Salerno. In più punti dell’Agro la densità è di oltre 2.000 abitanti per kmq, superiore del 4, 9% ai dati del censimento del 1991. La densità media è di circa 1.500 abitanti per kmq ed il centro più popolato è Nocera Inferiore. Sant’Egidio del Monte Albino è il comune più piccolo. La situazione di congestione urbana è assai alta. Il territorio dell’Agro è poi attraversato dal fiume Sarno e dai torrenti Solofrana e Cavaiola. Il fiume è bacino di raccolta, permanente, di scarichi fognari ed industriali edili e conservieri nonché punto di sversamento del polo conciario di Solofra. Fortissima la precarietà del lavoro. L’occupazione si concentra, in larga prevalenza, nel periodo estivo. Nel censimento 2001 la disoccupazione è giunta alla percentuale del 40%, l’8% in più della media, pur assai elevata, della Provincia di Salerno. Il 31 gennaio 2004 alle due sezioni circoscrizionali per l’impiego di Nocera Inferiore e di Scafati 71.707 erano gli iscritti quali disoccupati ed inoccupati su una popolazione in età da lavoro di 170.925 persone dai 15 ai 64 anni di età. La disoccupazione giovanile è addirittura del 67, 4%, oltre il 7% in più della media provinciale. Il tasso di disoccupazione reale è intorno al 35%. Il dato della disoccupazione giovanile è altissimo, ben più drammaticamente vicino alla realtà. 225


Oggi il territorio dell’Agro è un unico e continuo agglomerato urbano che collega, senza interruzioni, le città di Napoli e Salerno. Esso è purtroppo anche caratterizzato dalla grave carenza di strutture e funzioni territoriali qualificate e moderne, con dodici agglomerati urbani saldati in due grandi conurbazioni l’una dall’altra distanti solo pochissimi chilometri. Realtà comunali che hanno alle spalle una storia di frequente segnata da eccessi di contrapposte dispute campanilistiche, cosa questa che, con tutta probabilità, ha indebolito le potenzialità espansive dell’insieme dell’area. Il territorio dell’Agro è quindi una prolungata conurbazione urbana, una “città diffusa”cui troppo spesso è mancata la capacità di ragionare ed agire in maniera integrata, comprensoriale. Non si è così realizzato un razionale ed ordinato processo di recupero urbano, un adeguato livello di sviluppo economico, una moderna rete di infrastrutture, chiare direttrici di un preciso progetto di crescita e di sviluppo economico ed imprenditoriale. Carenze gravi si sono altresì evidenziate anche sul terreno della qualità dell’organizzazione della cultura, della sua produzione, del suo utilizzo sociale. La tutela ambientale è stata, si pensi solo alla vicenda del fiume Sarno, del tutto colpevolmente sottovalutata e trascurata dalle Istituzioni e relegata a questione del tutto residuale. I servizi sanitari ed ospedalieri sono apparsi per lungo tempo carenti e inadeguati, anche a causa del vizio originario di aver creato, nei decenni passati, più strutture similari o addirittura identiche tra Comuni viciniori. La diffusione capillare dei clan camorristici e criminali ha concorso ancora di più al degrado dell’area ed alla crisi della legalità. Questo fenomeno continua ad estendersi diffusamente, in maniera invasiva, tra la stessa società civile. A fianco alle attività correnti è infatti a lungo cresciuto un sistema economico, parallelo ed illegale, incentrato su traffici illeciti, dalla droga alla prostituzione, al commercio delle armi, alle rapine, alle estorsioni, all’usura. L’industria tessile, oltre ai 2 stabilimenti delle M. C. M. di Nocera e di Angri, ha avuto importanti imprese a Sarno ed a Scafati. 196 L’attività economica dell’Agro, incentrata prevalentemente sui due comparti alimentare e del cotone seppure non solo su di essi, aveva vissuto, alla fine degli anni 50, una fase di crescita rilevante , un boom economico a ragione considerato come l’esempio delle potenzialità espansive di “una delle zone del mezzogiorno con un maggior sviluppo economico”. 197 Alla fine degli anni 50, con l’intervento della Cassa del Mezzogiorno, la situazione dell’Agro appariva addirittura florida con un forte aumento della domanda di prodotti agro-alimentari. Ciò che poi si rivelerà carente è invece una politica di programmazione di medio-lungo periodo incapace di garantire il consolidamento, strutturale, delle condizioni economico-sociali che si erano prefigurate in quella fase. La politica della Cassa del Mezzogiorno, pur attirando nella zona capitali per la creazione di infrastrutture, ha favorito le grandi imprese ad alta densità di capitale 196

Cassa Rurale ed Artigiana di Scafati, “ Settant’anni di attività al servizio dell’economia locale”, Tip. Guidotti, Scafati 1984, introduzione. 197 Santoro Giuseppe, “ L’economia della provincia di Salerno nell’opera della Camera di Commercio 18621962”, Tip. F. lli Di Giacomo, Salerno 1966, pag. 363 226


non determinando, invece, un consolidamento ed una diffusione di un tessuto di imprese piccole e medie, né una concentrazione di sviluppo in poli di industrializzazione capaci di favorire la creazione di industrie autonome ed autopropulsive. In tal modo non si è mai avuto un vero sostegno a politiche di industrializzazione del territorio. Il problema abitativo e quello dei quartieri fatiscenti è rimasto, a lungo, una piaga dolorosa. Nel nocerino il settore tessile aveva iniziato, già da tempo, un processo involutivo. A Salerno frattanto, nella primavera del 1965, era riesplosa la crisi della M. C. M. La grande industria tessile dalle 12.000 unità lavorative di un tempo era decaduta sempre di più per quantità di occupazione e iniziava a correre, seriamente, il rischio della fine. Già nel 1954 c’erano state forti lotte davanti ai cancelli della fabbrica di Angri con duri scioperi e massicce condanne, susseguenti ai processi intentati contro i lavoratori. Negli anni 70 l’Agro era l’epicentro dell’industria conserviera non solo campana ma nazionale. Delle 252 aziende censite nel 1961 però soltanto 120 erano in funzione 10 anni dopo. 198 La fortuna dell’agro nel campo della lavorazione conserviera era senza dubbio legata alla speciale qualità del pomodoro San Marzano. Nei mercati di Nocera e di Pagani veniva commercializzato il 45% degli ortaggi coltivati nell’Italia meridionale. Una contraddizione acuta era rappresentata dalla eccessiva differenza tra i prezzi al produttore e quelli al consumo, conseguenza delle varie fasi di passaggio intermedio del prodotto, cosa che aveva un’immediata ripercussione sulla instabilità del prezzo e sui redditi agricoli resi più instabili. In quella fase ha inizio anche un notevole sviluppo del settore terziario. Per il resto in quegli anni lo sviluppo economico dell’Agro s’incentrò sull’industria conserviera e sulle industrie meccaniche e gli scatolifici ad essa collegate. Il censimento del 1971 nell’Agro Nocerino Sarnese annovera la presenza di circa 12. 000 aziende agricole ortofrutticole su una superfice di oltre 6.000 ettari. Il pomodoro aveva acquisito un ruolo predominante nell’economia della zona. Nel 1978 erano coltivati a pomodoro 1.200 ettari sui globali 23.000 di tutta la Campania. Si puntò giustamente sulla qualità del prodotto “San Marzano” della Valle del Sarno per superare l’angustia di un’organizzazione costituita, in larga prevalenza, da imprese individuali, a conduzione familiare. L’area dell’agro non vivrà, nei decenni a venire, uno sviluppo equilibrato e correttivo delle originarie distorsioni. Più che un’avanzata si registrerà una regressione economica, produttiva, culturale, civile. Le potenzialità espansive saranno attuate solo in parzialissima parte. L’insieme di contraddizioni che si sono accumulate, le distorsioni nello sviluppo, l’instabilità istituzionale, politica e sociale segnalano il persistere, in questa area della Provincia di Salerno, dei più accentuati fattori di criticità e pericolosità per il prossimo futuro. Un’assoluta ed evidente priorità. 198

Camera di Commercio –Industria –Artigianato -Agricoltura di Salerno, “ L’industria nella provincia di Salerno”, Grafica Iannone, Salerno 1985, pag. 60- 63. 227


039.

IL MADE IN ITALY- I DISTRETTI INDUSTRIALI.

Il tentativo di veloce riscrittura di una specifica esperienza storica, economica e produttiva di un segmento, antico ed importante dell’impresa manifatturiera salernitana e meridionale, per le considerazioni di rilievo più generali che da questa vicenda possono derivarsi, non può essere relegato o addirittura recintato all’esclusiva dimensione di un ambito territoriale e geografico definito. Questa storia è stata in qualche modo una spia che ha anticipato, di qualche tempo, una tendenza più ampia che ha condotto l’industria manifatturiera italiana in una scia discendente e delicata, in una difficoltà più esplicitamente evidenziata a fronte dell’accelerazione e velocizzazione dei processi di mondializzazione che, tra i fatti di maggiore rilievo, vede nel tempo presente l’affacciarsi protagonista e vincente di nuovi soggetti economici e di nuovi Stati a lungo relegati in ruoli del tutto secondari e marginali. La scomposizione di antiche gerarchie ha prodotto sostituzioni e scomparse di sistemi economici e di imprese che non si sono a tempo rinnovate e ammodernate al punto da indurre a ritenere che una fase dello sviluppo industriale italiano nel suo complesso, dopo le vicende di traumatica crisi dell’industria pubblica e privata meridionale di cui si è detto, fosse definitivamente esaurita. La non univocità di una tale lettura critica ci ha indotto a soffermarci sulla proposizione di alcune interpretazioni per così dire ambivalenti sulle possibili prospettive della situazione attuale, partendo da un bilancio più positivo e meno pessimista che ci è parso utile partisse da una riflessione più accurata sull’esperienza dei distretti industriali. Pur tendenzialmente non condividendo l’obiettivo ottimismo di autori come Fortis ci è parso utile per dare una più compiuta lettura conclusiva a questa trattazione riferire, con sufficiente premura, il nucleo essenziale di queste tesi nella speranza che possa ancora attivarsi un percorso nuovo che salvaguardi, almeno in parte limitata, il meglio di un’esperienza industriale in ogni caso importante, dinamica e creativa come quella del Made in Italy. Certo molto tempo in questi anni si è perduto persistendo in una condizione di sostanziale stasi rivelatasi foriera di gravi conseguenze. E’ questo un dato difficilmente contestabile ma da una lettura cruda e realistica della realtà è in ogni caso necessario ripartire per fornire, sul terreno del lancio di una nuova politica industriale, risposte adeguate che, fino ad ora, purtroppo non si sono ancora viste. 228


In ogni caso le valutazioni, preoccupate e negative,di tanti studiosi ed economisti circa la possibilità di ripresa di un ruolo e di una funzione d’avanguardia dell’industria italiana sembrano trovare una lettura, di segno meno pessimista in un volume sintetico, agile e circostanziato di Marco Fortis. 199In sintesi, secondo Fortis, la specificità del modello produttivo sorto e sviluppatosi in molte aree territoriali italiane, pur se largamente concentrate nel Nord e nel Centro del Paese, consolidata espressione di antiche vocazioni produttive locali specializzate, ha dato vita ad una struttura industriale solida ed efficiente, che può ancora reggere, con profitto, la concorrenza europea e mondiale più qualificata. Strutture incentrate su un sistema territoriale capillare di piccole e medie imprese, moltiplicatesi col tempo per successiva “ gemmazione ”. Un successo realizzato da un iniziale nucleo imprenditoriale capace d’intravedere, con largo anticipo, tendenze evolutive della qualità e del gusto della domanda dei consumatori e del mercato. Un complesso di esperienze sorte senza alcuna adesione passiva a modelli “dirigistici” introdotti dall’esterno che invece di frequente si sono rivelati investimenti statali sbagliati con spreco di danaro pubblico e causa, a finale consuntivo, di incredibili disastri economici, finanziari, produttivi ed occupazionali. Occasione più che di sviluppo di dissipazione di risorse pubbliche con conseguenze gravissime per la collettività. Questa piccola imprenditorialità autoctona ha invece agito contando sulle proprie forze dando vita a sistemi produttivi dinamici che hanno assicurato, negli anni, la continuità delle imprese e garantito l’occupazione in maniera diffusa, ampia e consistente. L’esperienza dei “ distretti industriali ” , coi macrosettori della moda, dell’arredo-casa, delle componenti e delle macchine industriali, orientate in particolar modo alla lavorazione dei prodotti tessili, che ancora oggi, nella situazione attuale, seppure in parte mantengono una loro validità e pregnanza. Le aree-sistema territoriali hanno da un lato consentito il mantenimento del prestigio del “ Made in Italy ” nel mondo, dall’altro continuano a garantire, nei dati del commercio estero, un saldo positivo che ha consentito di fronteggiare la dipendenza del nostro paese sul fronte energetico, elettronico, chimico ed alimentare. Le attività del “ Made in Italy ” sono per Fortis la conferma dell’importanza strategica di queste filiere produttive, di questi sistemi industriali che per la loro eccezionale vitalità e disponibilità all’innovazione, per la flessibilità ed il costante aggiornamento, rimangono un efficace viatico di garanzia dell’occupazione. Un sistema complesso che è nato dalla capacità, pressoché unica nel mondo, di trasformazione delle materie prime e di creazione di prodotti di elevato gusto, stile, qualità. Il Made in Italy ha messo a profitto, ottimizzandolo, tutto il concentrato di sapere produttivo accumulato nei secoli, ha continuamente aggiornato tecniche e capacità produttive, ha fatto ricorso al meglio della progettazione e del design ed oggi rappresenta la parte più vitale ed attiva dell’economia italiana, imperniata sulle piccole e medie imprese e sui distretti industriali. Nella moda, ma non solo, ha raggiunto e mantenuto posizioni di leadership sui mercati di tutto il mondo. I settori della lana, della seta, le pelli, le ceramiche, i 199

Marco Fortis, “ Il Made in Italy”, Ed. Il Mulino, Bologna Novembre 1998. 229


marmi, l’ottone, gli occhiali, le scarpe hanno rappresentato gli esempi di sperimentazioni vincenti fino ad ora diffusamente riconosciute. Stesso successo nell’industria meccanica a questi settori collegata. Nel 1996 i prodotti in cui l’Italia è più specializzata hanno consentito un realizzo di entrate dall’esportazione per 222. 160 miliardi di lire (il 57% dell’export totale italiano). Il contributo al saldo positivo commerciale è stato di ben 150.000 miliardi di lire, a fronte di un deficit strutturale del paese per prodotti agricoli, pesca, materie prime industriali ed energia di 65.000 miliardi e di 35.000 miliardi di deficit per gli altri settori manifatturieri nel loro complesso. Il saldo positivo più alto tra import ed export, a vantaggio dell’export, si è avuto nel settore lana, con 3.551 miliardi ed un export 18 volte maggiore dell’import. Risultati ragguardevoli sono stati inoltre realizzati anche per le calzature in pelle, con saldo attivo di oltre 9.000 miliardi, nei lavori in pelle e cuoio, nelle maglie e calze di lana, nelle maglie e calze di seta, in quelle di fibre artificiali e sintetiche, negli oggetti di cucito di cotone e di lino, nel settore orafo. Il sistema moda-tempo libero ha fatturato, da solo, 134.500 miliardi (il 51% del totale dei settori considerati nel Made in Italy). Le specializzazioni nel settore moda sono altissime e sono organizzate su base distrettuale per l’industria laniera, serica, maglie e calze, conciarie e calzaturiera, occhiali ed oreficeria. I distretti sono specializzati sia nell’alta moda che nei beni di più largo consumo. L’occupazione globale è stata di 1.741.000 addetti circa. Caratteristica specifica dei distretti e delle aree-sistema è la straordinaria propensione all’esportazione in passato naturalmente favorita nei periodi di deprezzamento della lira. L’Italia appare così, secondo Fortis, un paese ancora particolarmente specializzato nei settori dei beni cosiddetti “ tradizionali”. I prodotti nei quali l’Italia presenta il più alto attivo commerciale, per limitarci solo al tessile, sono i filati ed i tessuti di lana, tessuti di seta, maglioni, pullover, calze, cravatte e scialli, occhiali, vestiti maschili e femminili. Nei prodotti a più basso valore aggiunto è divenuta sempre più aggressiva la concorrenza di Cina, Taiwan, Corea, di Spagna e Portogallo in Europa. Il censimento del 1991, la ricerca Montedison–Cranec stima che l’occupazione impiegata globalmente nel sistema moda, arredo casa, alimentazione mediterranea e meccanica strumentale è di 3.701. 000 addetti, il 71% dell’occupazione globale nell’impresa manifatturiera nazionale. Le imprese operanti nel settore sono 497.000, il 90% del totale. Il macrosettore tessile-abbigliamento- pelli – calzature era costituito da 1.070.000 addetti e da solo valeva quanto gli 8 maggiori gruppi industriali pubblici e privati, per numero di occupati (IRI, Fiat, Eni, Enel, Pirelli, Olivetti, Montedison, Fininvest). Il tessile, assieme al legno- mobilio e ceramiche era il 33% del globale dell’industria manifatturiera. Molto più che in USA (17%), Regno Unito (15%), Germania (11%), Giappone(15%). I prodotti italiani, i vestiti di Armani, i gioielli di Bulgari, le scarpe di Della Valle hanno generato alto valore aggiunto, per 35,5 miliardi di dollari. Nelle piccole e medie imprese si concentra l’84% degli addetti complessivi dei settori tipici del Made in Italy (3.125. 000 dipendenti su 3. 720. 000). 230


Il sistema moda è organizzato nella forma dei distretti industriali e la specializzazione produttiva è concentrata in un’area territoriale ristretta, con spiccata identità storicoculturale e con importanti legami sociali. L’osservatorio Montedison individua 195 maggiori sistemi produttivi specializzati nel Made in Italy. Poche aziende leader ed un ampio indotto. L’occupazione di 195 aree individuate ammonta a 2.144.000 addetti, il 41% dell’occupazione manifatturiera globale esistente ed ha fatto registrare una tenuta occupazionale ben più forte di quella delle grandi imprese. Aree sistema di particolare importanza nel tessile Prato- Firenze, Milano, Varese, Bergamo (Valseriana), Vicenza, Como, Lecco, Brescia, Biella, Vercelli, Treviso. Al sud Bari e Teramo. Nel settore tessile abbigliamento sono stati individuati 26 sistemi provinciali specializzati, con 617.700 addetti. Nel tessile le principali province esportatrici coincidono coi maggiori distretti industriali: Como per la seta, Prato e Biella per la lana, Bergamo nel tessile cotoniero e nell’abbigliamento, Treviso per l’abbigliamento, Carpi per la maglieria e l’abbigliamento, Mantova per le calze femminili. Biella-Valsesia e Prato sono invece grandi distretti nel settore laniero. Il concetto di “ distretto ” è risultato vincente per la forte integrazione col territorio circostante, per l’alto processo di identificazione dei lavoratori con l’impresa stessa, cosa che ha prodotto bassi tassi di conflittualità, e per la propensione all’aggiornamento ed alla formazione permanente. Sono sorte scuole che operano addestrando i giovani in modo tale che la professione e la specializzazione sia tramandata alle future generazioni, senza interruzioni e strozzature. Punti critici appaiono gli eccessi di burocratizzazione e la lentezza delle procedure, la fiscalità troppo elevata, servizi in media inferiori agli standard europei, lo scarso sviluppo del mercato finanziario e delle reti di trasporti,i costi troppo alti dell’energia elettrica e del gas. Gli introiti ricavati dai sistemi distrettuali pagano l’intero deficit energetico ed alimentare, della chimica, dell’elettronica e delle telecomunicazioni. Il saldo positivo del 1996 per il nostro commercio estero è stato di 67.550 miliardi di lire. 200In conclusiva sintesi Fortis propone, con un eccesso di ottimismo, un’immagine di una realtà ricca e dinamica, capace di reggere, per qualità ed innovazione, e di mantenere ancora a lungo, rafforzandola, la particolarità del made in Italy. In realtà ha pesato su alcune aree del Made in Italy la bassa qualità. Per questi prodotti la competitività dell’Italia non esiste più. Le industrie tessili di Prato hanno perso mercato appena la moneta si è apprezzata del 5-10%. Gli americani da allora hanno iniziato ad acquistare dalla Cina e non più da noi. Da quei settori, anche del Made in Italy, da cui siamo usciti non si rientra più. Con il disequilibrio esistente sul costo del lavoro essere competitivi vuol necessariamente dire inventare, di continuo, prodotti nuovi e più evoluti. Utili note bibliografiche e testi autori citati.

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Marco Fortis, op. cit. pag. 22 231


040.I DISTRETTI INDUSTRIALI DELLA CAMPANIA NEL SETTORE TESSILE OGGI. Negli ultimi anni in Campania il settore tessile appare invece in preda ad una crisi ben più profonda ed accentuata, con una miriade di piccole e di piccolissime aziende che mostrano un particolare affanno nel nuovo scenario del mercato globale. Una larga parte di queste imprese appaiono definitivamente incapaci di competere sul piano dell’innovazione né sono in grado di perseguire la scelta, decisiva, d’immettere ricerca avanzata nel sistema produttivo. Altre poi, pur capaci di produzioni di nicchia e di eccellenza, dimostrano una cronica incapacità nell’ effettuare il salto di qualità indispensabile per “ fare sistema ”. In Campania il tessile e l’abbigliamento ha censiti 17.800 addetti con un volume di esportazioni di 508 milioni di Euro. Le aree-distretto industriali sono a San Giuseppe Vesuviano, Grumo Nevano, Aversa, Sant’Agata dei Goti, S. Marco dei Cavoti, Calitri. La crisi si è acuita in particolare negli ultimi tre anni ed oltre il 30% delle 5.400 imprese del comparto ha dichiarato crisi di settore, con numerose cessazioni definitive di attività. In questa spirale sono rimasti coinvolti ben 4. 000 lavoratori e per metà di essi la crisi si è già risolta con la disoccupazione. La cassa integrazione del 2003 è stata pari a 90.000 ore lavorate e l’export campano del Made in Italy ha registrato una flessione di oltre il 15%. Per fronteggiare la situazione non è bastato l’investimento di 165 milioni di Euro nei Pit per un aiuto alle produzioni di settore. Questo in sintesi appare il raccapricciante quadro delle piccole e piccolissime imprese. Il numero medio di addetti è passato dal 4,3 del 1999 a 3,3 del 2001. Nel distretto di San Giuseppe Vesuviano agiscono 800 piccolissime aziende con meno di mille unità. Resistono soltanto prodotti di nicchia con qualche capacità di sbocchi verso i mercati USA e canadese, come nel caso di Keaton o Isaia. Gli imprenditori tessili campani, come si diceva, dimostrano una scarsa propensione all’innovazione e continuano a ritenere possibile competere con i produttori cinesi puntando alla drastica riduzione del costo del lavoro e ricorrendo, in maniera massiccia, al lavoro nero.

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Si susseguono, di continuo, le pratiche di assunzione e di licenziamento e poi di riassunzione in altre imprese o nelle medesime imprese, nate sotto diverso nome, da cui i lavoratori sono stati licenziati. Sommerso ed incapacità di fare sistema, di “mettersi in rete”, valorizzando le opportunità di sviluppo e le professionalità esistenti appaiono i gravi ed irrisolti fattori d’arretratezza strutturale. L’assenza completa di progetti d’innovazione e diversificazione produttiva in funzione della possibilità d’incremento dell’occupazione cui prima si è accennato, rendono del tutto improbabile una qualsiasi ipotesi di ripresa e di consolidamento del sistema nel medio e nel lungo periodo. C’è incapacità di immettere nel proprio ciclo di produzione le innovazioni provenienti dai centri di ricerca e non sono utilizzate, al meglio, le occasioni costituite dai fondi e dagli investimenti pubblici a tale scopo disponibili. Non nascono forme consortili di piccole imprese nè si procede ad una rigorosa selezione degli investimenti che dovrebbero risultare premianti in relazione alla bontà dei progetti presentati ed all’affidabilità dimostrata dai singoli imprenditori. Molte sono state in Campania le aziende che hanno potuto usufruire dei contributi della legge 488. Esse però di frequente, dopo pochissimo tempo, ricevuti i finanziamenti, hanno cessato l’attività. Molti anche i casi di imprese che, più che investire in Campania, hanno preferito dirottare le risorse pubbliche per ammodernare le aziende madri ed i cervelli produttivi allocati in altre aree territoriali del Paese. La ricerca che per grandi linee si è proposta in questa trattazione non vuole risolversi, naturalmente, sul piano esclusivo di una ricostruzione storica, seppur parziale, delle principali tendenze produttive emerse ed entrate in crisi nel comparto manifatturiero tradizionale ed in specie nel comparto tessile e dell’abbigliamento. Essa si pone un interrogativo politico ed economico, tutto attuale, incentrato sul quesito dell’esistenza di una nuova possibilità di recupero e di valorizzazione futura di una grande tradizione culturale e produttiva nazionale e locale. Al proposito è il caso di osservare come a fronte del secco ridimensionamento del comparto, sia per ciò che attiene la presenza pubblica che per quanto concerne quella privata, ciò non è avvenuto eliminando, in generale, queste produzioni. Come si è tentato di dimostrare esse hanno piuttosto subito un processo di centralizzazione in alcune definite aree del nord ovvero un diffuso decentramento produttivo che si è mosso a livello planetario. Alcuni paesi, sia di forte industrializzazione che in ritardo di sviluppo hanno conseguito, in breve tempo, risultati produttivi eccezionali, invadendo i mercati mondiali e diventandone indiscussi leader. Nella Provincia di Salerno ha continuato ad agire ed ad operare, quasi esclusivamente seppure con buoni risultati, un segmento produttivo specifico e limitato concentrato intorno ad alcuni nuclei di particolare interesse quali “ il sistema moda Positano”. Qui produzioni di particolare gusto e stile ancora oggi continuano a proliferare in maniera significativa. 233


Il punto è garantire diffusione, specializzazione, commercializzazione, costante promozione di ciò che si continua a costruire nelle botteghe artigiane di questo centro costiero. Avere poi scuole qualificate di formazione permanente della produzione di settore è l’altro aspetto decisivo. In Campania esiste un’unica scuola di questa natura rivolta ad addestrare giovani nell’arte della produzione dei prodotti tessili, la Scuola di Poggioreale, istituto superiore di formazione.

041. TRA GLI ANNI 70 E GLI ANNI 90:L’ INDUSTRIA SI CONTRAE E CRESCONO I SERVIZI. Nel periodo intercorso tra il 1970 ed il 1991 in tutti i paesi industrializzati del Globo il peso del settore industriale rispetto all’intera economia si riduce in termini di valore aggiunto in relazione al PIL ed all’occupazione. Cresce invece la quota del valore aggiunto dei servizi, pubblici e privati che negli USA passa dal 43% al 72%, in Germania dal 47 al 58% , in Italia dal 50 al 60%. L’occupazione industriale in termini assoluti resta però costante, cresce leggermente in USA e nel Giappone calando in tutti i Paesi Europei. Oggi il settore del terziario non è più un settore esclusivamente calmiere della perdita dell’occupazione nell’industria ma contribuisce, sempre più attivamente, allo sviluppo di produzione e produttività d’insieme del sistema. L’industria è infatti ben altro del grande capannone in cui si svolgeva lavoro ripetitivo e produzioni standardizzate in serie per trasformarsi in un luogo dove sempre più decisivo diviene il peso della ricerca e della pubblicità. La trasformazione industriale richiede cioè sempre meno input fisici e sempre più intervento sul capitale umano. L’industria è oggi sempre meno fabbrica e sussiste sempre più complementarietà tra settore manifatturiero e terziario. L’acquisto di servizi nel mercato globale diviene pertanto sempre più essenziale per l’industria. Strutture industriali non integrate con attività terziarie avanzate rischiano di deperire inevitabilmente sia a livello nazionale che internazionale. L’idea di terziario come settore arretrato, ad alto contenuto di lavoro poco qualificato, appare sempre più sbagliata e lontana dalla realtà. In alcuni settori del terziario, come quello delle comunicazioni, la produttività è cresciuta in

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maniera superiore all’industria manifatturiera ( 5,2% contro dequalificazione del settore terziario va quindi evitata in ogni modo.

2,9%).

La

L’impresa sta puntando a forme di più ampia integrazione ma è evidente la difficoltà del sistema industriale italiano a svolgere, oggi, una forte funzione competitiva sul mercato globale. Negli ultimi anni si è intensificato il processo di trasferimento all’estero, nei paesi a più basso costo del lavoro, di fasi produttive che prima si svolgevano in Italia. All’inizio si sono decentrate fasi di lavoro scarsamente qualificato per passare poi anche a quelle a più alta qualificazione. Assume sempre più importanza la grande distribuzione che, ovviamente, mette in difficoltà i piccoli produttori staticamente posizionati sul mercato locale. I settori industriali tradizionali italiani possono reggere a condizione di utilizzare le tecnologie più moderne ed evolute. E’ stato il caso del tessile e dell’abbigliamento, almeno per una lunga fase. L’assenza di una forte capacità di ricerca e sviluppo ha però prodotto l’effetto centrifugo di una “ massa critica ” qualificata e l’assenza di attrazione di “ massa critica” dall’esterno e questa è una delle principali ragioni della definitiva fuoriuscita dell’Italia dallo spazio internazionale della ricerca avanzata. Il tessile e l’abbigliamento italiano hanno dimostrato, nei decenni passati, una grande capacità di innovazione. Si tratta di settori non necessariamente condannati a scomparire se sul territorio nazionale fossero state mantenute alcune funzioni qualificate, dal marketing, alla progettazione, alla distribuzione. Per la riuscita ed il successo di un progetto industriale è essenziale il controllo delle fasi strategiche, dell’ ideazione dei prodotti con la capacità di vendita. L’incidenza di esportazioni di prodotti manifatturiere dai paesi non OCSE è molto aumentata negli ultimi decenni. Il tessile già risente pesantemente, per calo dell’occupazione, di tali tendenze. I servizi tecnologicamente qualificati, collegati alla produzione industriale, oggi non hanno ancora un grande peso sul totale dei servizi. In Italia il terziario è ancora assai arretrato e la sua ristrutturazione costituisce perciò una priorità assoluta. Serve maggiore efficienza anche se da ciò potrà derivare un calo di occupazione. Un punto, decisivo, su cui è ancora gravemente latitante l’intervento pubblico. L’investimento massiccio in ricerca e formazione è quindi decisivo per contrastare, con efficacia, il processo di deindustrializzazione. Le stesse imprese manifatturiere si devono ristrutturare aumentando la propria dimensione media, incrementando la qualità dei prodotti, migliorando il livello di formazione dei propri addetti, così da raggiungere condizioni finanziarie e d’investimento più favorevoli per le trasformazioni necessarie. In specie verso i paesi dell’Europa dell’est si è accelerata la delocalizzazione all’estero delle tradizionali imprese tessili. Nel 1993 il TA ha concorso alla bilancia commerciale italiana con un saldo positivo di oltre 19.000 miliardi di lire. Il settore occupava a quella data 724.000 addetti. Il 20% dell’occupazione europea complessiva del comparto. Nel 1990 tessile, abbigliamento, pelli e cuoio davano lavoro in Italia al 22% dell’occupazione

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manifatturiera globale. In Germania il settore copriva il 6, 2%, in Francia il 9, 7%, in Gran Bretagna il 10,1%. In Italia assicurava il 13% del valore aggiunto manifatturiero del complesso del paese. Nell’abbigliamento l’Italia nel 1992 è ancora il secondo paese esportatore nel mondo dopo la Cina, il primo tra tutti i paesi industrializzati. Nel 1993 si è registrata una contrazione delle esportazioni italiane. Tra il 1988 ed il 1993 la Cina ha più che triplicato le sue esportazioni verso i paesi UE. Il modello italiano ha retto al meglio fino alla metà degli anni 80 mantenendo la gran parte della produzione e dell’occupazione. Distretti industriali ben organizzati e capaci di produzioni qualificate hanno fronteggiato bene l’urto della concorrenza, nei singoli comparti e nelle distinte fasi della produzione. Nel mercato le imprese italiane si sono progressivamente collocate nelle fasi di più alta qualità, ad alto contenuto moda e con forte capacità di differenziazione dell’offerta. Una migliore organizzazione interna aveva concorso ad elevare, notevolmente, la produttività. Intorno alla fine degli anni ’80 il modello italiano accentua la sua tendenza all’internazionalizzazione acquisendo imprese estere di abbigliamento in Francia, Germania, USA e decentrando parte della produzione in posti sempre più lontani dal luogo d’insediamento centrale dell’impresa prima all’interno del Paese poi all’estero. L’emersione di una concorrenza sempre più agguerrita da parte dei paesi a basso costo del lavoro ha accentuato tale necessità. L’avvio del processo di liberalizzazione nelle regole del commercio internazionale, con la decadenza dell’accordo Multifibre dal gennaio 2.005 ha prodotto come conseguenza, la piena liberalizzazione nelle esportazioni. L’apertura ad altri paesi dell’Est, a basso costo del lavoro ed a manodopera relativamente qualificata, ha accentuato sempre di più le difficoltà del settore in Italia. Un altro colpo al tessile italiano è stato sferrato dalla diversa organizzazione del settore della grande distribuzione e dalla maggiore concentrazione presente in altri paesi europei. Ben altro dall’estrema frammentazione del settore della distribuzione in Italia. Germania, USA, Regno Unito, con la diffusione di forti catene di grande distribuzione assai forti, possono piazzare sul mercato quantità di produzione elevatissime ed approvvigionarsi anche sui mercati più lontani a basso costo ed a livelli di qualità ormai sempre più elevati. La grande distribuzione riesce infine a monitorare, con rapidità, le mutazioni della domanda per tipologie di marca e di prodotto e può approvvigionarsi, tempestivamente, di quantità relativamente ridotte di prodotti distinti con tempi di consegna più stretti. Le grandi imprese italiane si sono riorganizzate per cogliere tempestivamente l’andamento della domanda con la sua evoluzione, hanno decentrano fasi sempre più diffuse di produzione organizzando una propria catena di vendita capace di far arrivare i prodotti finiti al posto giusto e nel momento giusto. Negli anni sono riusciti in qualche modo ad “ internazionalizzarsi ” a tempo. Il fatturato di alcuni grandi gruppi è così cresciuto notevolmente, ben oltre la percentuale crescita del settore nel suo complesso. Questi grandi imprenditori hanno 236


acquisito a sé, in uno stretto rapporto di dipendenza e di collaborazione, un produttore con una propria rete di distribuzione riuscendo a collocarsi su fasce di mercato medio-alte che ancora fanno richiesta del prodotto Made in Italy. L’occupazione di questo segmento d’ imprese è cresciuta nel mentre si è ridotta quella del settore nel suo insieme. Le industrie italiane che hanno effettuato massicce operazioni di delocalizzazione sono quasi solo quelle del Nord. Il traffico di perfezionamento passivo consiste nell’esportazione di un prodotto semi-lavorato, un tessuto, nella sua lavorazione nel paese perfezionatore, nella sua reimportazione. Una tale operazione si avvale del basso costo del lavoro nel paese trasformatore, un processo cui sono ricorsi, in maniera massiccia, Germania ed Italia. L’Italia si è rivolta, essenzialmente, all’Ungheria, alla Romania, alla Cecoslovacchia. In Italia dal 1988 al 1993 la delocalizzazione della produzione è passata dallo 0,4 al 9,4% e la percentuale tendenziale è di un forte ed ulteriore aumento. Queste fasi di lavoro di trasformazione si indirizzano ormai verso aree geografiche sempre più distanti. Il decentramento cresce a seconda della dimensione dell’impresa committente e delle sue disponibilità finanziarie. I prodotti più semplici da costruire sono quelli meno vantaggiosi da decentrare, nel mentre è assai conveniente decentrare lavorazioni a più elevata qualità, cosa questa ostacolata dal livello qualitativo ancora scarso dei sub-committenti. Oggi le cose sono profondamente cambiate. Le operazioni di decentramento hanno iniziato a diventare parte organica di una più generale strategia globale dell’impresa committente che, a questo punto, è interessata a favorire la crescita delle capacità qualitative e tecnologiche del sub-fornitore. Già oggi le commesse sono di quantità e qualità superiore. La delocalizzazione ha interessato per primo il settore abbigliamento, poi è passata al tessile ed al settore serico. I grandi produttori italiani per reggere hanno iniziato ad entrare, con i propri marchi, nel settore della grande distribuzione. Riorganizzazione d’impresa e concentrazione della distribuzione hanno inciso sui caratteri dell’intera filiera del tessile e dell’abbigliamento. Le numerosissime imprese piccole e piccolissime, nazionali e meridionali, ne hanno drammaticamente avvertito le conseguenze. I committenti ricavano vantaggi maggiori da attività svolte in aree vicine ai mercati di smercio delle produzioni. L’occupazione inevitabilmente è calata e la tendenza, seppure con difficoltà, potrebbe invertirsi solo grazie ad una rinnovata capacità di conquista di nuove quote di mercato nel Mondo. Il gap finale non potrà però che risultare negativo. La nuova impresa si configura oggi sempre di più come una centrale organizzativa di attività dislocate in diverse regioni e continenti. La qualità che ha consentito alle produzioni italiane di reggere nei decenni trascorsi ha iniziato a costituire sempre meno un vincolo al decentramento internazionale della produzione. Si riducono le funzioni manifatturiere, aumentano le funzioni di servizi avanzati. La vicenda del tessile è esemplificativa, e per più versi anticipatoria, dei futuri destini dell’insieme dell’impresa manifatturiera.

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042.RAGIONI STRUTTURALI DELLA CRISI DELL’INDUSTRIA ITALIANA. IL NODO STRATEGICO E VINCENTE DELLA RICERCA. Il bassissimo ricorso alla ricerca, l’assenza di integrazione tra pubblico e privato, l’estrema estensione dell’intervento pubblico nell’economia, d’una dimensione non comparabile con quanto avvenuto negli altri paesi industriali europei e mondiali più avanzati, d’una estensione solo paragonabile -sostiene polemicamente Turaniall’intervento dello Stato in Unione Sovietica, ha finito per introdurre potenti fattori distorsivi nei meccanismi di libero mercato al punto da ridurre – drasticamente - la capacità delle strutture industriali nazionali di cimentarsi, in maniera vincente, con la concorrenza europea e mondiale più qualificata. Sullo Stato hanno finito per riversarsi enormi oneri finanziari e sono stati bruciati migliaia e migliaia di miliardi per interi settori-ad iniziare da quello chimico al centro di imponenti fallimenti. Il paese è così progressivamente uscito dal ruolo di rilievo ricoperto, in più segmenti produttivi, nei decenni pregressi nel mercato mondiale. Oggi avvertiamo nitidamente le serie difficoltà che si presentano all’orizzonte in quanto l’Italia, da uno dei primi paesi industrializzati del mondo, dalla sesta o settima potenza mondiale del pianeta ha iniziato a diventare una nazione tendenzialmente marginale e sempre più dipendente dai grandi gruppi industriali europei e mondiali. Lo stesso modello del Made in Italy che, come si è appena visto, era in parte riuscito a tamponare la scia discendente anzitutto grazie ai fattori di qualità e innovazione immessi anzitutto nei settori dell’artigianato e della moda , oggi riesce a svolgere sempre di meno quel ruolo d’avanguardia. Le dimensioni estremamente ridotte delle 238


imprese e la difficoltà a “ fare sistema ” , l’impegno inefficace profuso a sostegno del modello del “piccolo e bello”, esplicitano le difficoltà dell’ora. Forte è l’ incapacità di fronteggiare la domanda attuale e quella potenziale che si va formando nel mercato globale e si persiste nel non riuscire ad assicurare , con avanzate tipologie produttive, quantità di prodotti consistenti che possono essere garantiti solo da imprese di grandi dimensioni, con sistemi produttivi e tecnologie avanzate e reti commerciali distribuite, in maniera capillare in più punti, a partire dalle grandi metropoli dell’Europa e delle parti del Mondo economicamente più evolute. Alle imprese italiane sono rimaste nicchie sempre più limitate di settori ormai tradizionali nel mentre neanche uno dei nuovi segmenti innovativi vede oggi la presenza di produzioni nazionali. Vengono al nodo tutti i vizi d’origine del capitalismo italiano, l’insieme dei fattori di intrinseca sua gracilità, di dipendenza e d’intreccio perverso col sistema politico, l’incapacità di reggere, con successo, a questo nuovo e più impegnativo livello della sfida globale. L’Italia è fuori da ogni campo della “ nuova rivoluzione industriale ” che si è andata profilando. Il nostro paese oggi non ha alcuna presenza importante in settori strategici quali la microelettronica, l’information technology, le biotecnologie, le nanotecnologie, i nuovi materiali. La ricerca pubblica, intesa come sistema universitario e laboratori, le imprese private ed il sistema finanziario non solo non collaborano nè si integrano tra di loro ma procedono separate e ciascuno per proprio conto nel mentre dovrebbero collaborare ed integrarsi tra di loro dando vita a strutture moderne ed avanzate. Il sistema paese appare invece troppo di frequente sbilanciato verso il vecchio modo di produzione continuando a perdere posizioni su posizioni. Non è apparso negli ultimi anni alcun nuovo gruppo industriale, di grandi dimensioni, all’altezza delle funzioni per qualche tempo esercitate dal vecchio tradizionale nucleo delle poche famiglie che, per una lunga fase, avevano plasmato il carattere e l’identità del capitalismo italiano. In Italia più che un vero capitalismo è esistito piuttosto un ristretto gruppo di soggetti industriali cresciuti creando aziende ma spesso mantenendole con l’aiuto dello Stato, grazie alle forniture di commesse pubbliche, civili e militari. Eppure questo capitalismo, nato coi vizi d’origine di cui si è detto, che negli anni 30 aveva dato vita all’IRI, era pur stato capace, alla fine degli anni 50 e per tutti gli anni 60, di grandi imprese. Ed era cresciuto col boom economico in maniera ben più consistente dei maggiori paesi d’ Europa, dando avvio ad una grande trasformazione, da società agricola a società industriale. Montecatini, Fiat, Olivetti, i principali simboli di questa ascesa. E’ stato quel ventennio il periodo migliore della storia del capitalismo familiare del nostro paese, prima dell’inizio della crisi e della china declinante, affrontata senza che fossero individuate e rimosse , a tempo , le principali ragioni che l’avevano causata. Anzi il sistema industriale ed il sistema paese nel suo complesso, proprio nella fase conclusiva del miracolo economico, all’avvio degli anni ‘70, dimostrano un’assoluta incapacità di riorganizzazione. 239


Le risorse ricavate dalle nazionalizzazioni sono state investite malissimo ed i soldi disponibili, che avrebbero dovuto essere finalizzati alla modernizzazione di gangli vitali del sistema, sono stati invece dirottati su investimenti fallimentari. Sono stati perseguiti indirizzi pseudo manageriali improvvisati e occasionali ed il sistema industriale è divenuto sempre più permeabile all’influenza ed al condizionamento del potere politico. La mano pubblica, che ha operato nell’industria attraverso l’IRI e l’ENI, ha influenzato e condizionato le scelte che sono state effettuate orientando gli interventi in maniera di frequente assistenziale, prescindendo da obiettive valutazioni d’efficienza e di efficacia, economica e produttiva. Di frequente anzi ha agito con l’intenzioen di non creare attriti con i rappresentanti del potere politico locale che, pur di mantenere stabile il proprio bacino di consenso elettorale, si sono fatti a loro volta garanti della continuazione dell’attività di aziende decotte e superate. L’impresa non si è riorganizzata nè ammodernata ed innovata a tempo. Le risorse distratte dall’investimento produttivo, le improvvise scalate finanziarie hanno finito per incrementare, ulteriormente, l’immensa voragine dell’indebitamento pubblico. In questa fase l’Italia non a caso è diventato il paese d’Europa che ha accumulato il debito pubblico più elevato. Dagli anni 70 in avanti si è messo in moto un processo di decadenza del sistema industriale italiano da cui il paese non è più riuscito a riprendersi negli anni a venire e che costringerà a futuri , consistenti ed inevitabili sacrifici. Sarà necessario adottare dure leggi finanziarie, per ridurre lo squilibrio tra debito e PIL ormai quasi del tutto fuori controllo. Solo in tale modo, per più versi miracoloso, si garantirà l’ingresso dell’Italia nella moneta unica assieme al primo gruppo di paesi più avanzati del continente europeo. La storia recente dell’industria dimostra come sia vincente non tanto chi agisce sulla compressione del costo del lavoro quanto piuttosto chi è in grado di governare e di impadronirsi, a tempo ed in anticipo, delle rivoluzioni tecnologiche innovative. Fino ad ora si è proceduto introducendo innovazioni, in specie nella piccola e media impresa, ma senza investire, con decisione, sul terreno strategico della ricerca. Noi rappresentiamo oggi non un capitalismo moderno quanto piuttosto un capitalismo periferico e primitivo, stanco e ripetitivo. Un capitalismo che ha a lungo barattato inefficienza in cambio di protezione. Spenta la propensione alla crescita ed alla modernizzazione, il sistema sembra come avvitato su sé stesso e prossimo alla marginalità definitiva per propria interna consunzione. La FIAT, il colosso nazionale dell’auto, si è avvolta in una crisi che in un solo anno ha prodotto una perdita d’esercizio di circa 10.000 miliardi. Eppure nei passaggi più ardui e significativi della sua storia il paese è stato capace di affrontare grandi sacrifici. Basti pensare solo che l’ingresso nell’Euro è costato ai contribuenti circa 400.000 miliardi di vecchie lire. Abbiamo perduto quote di mercato nei settori tradizionali, dove sempre più largamente siamo sostituiti dai paesi emergenti201, nel 201

Il caso della Cina su cui più avanti si tornerà in maniera più circostanziata. 240


mentre non abbiamo conquistato posizioni nei settori innovativi. La crescita degli ultimi 5 anni è stata inferiore a quella della Spagna, dell’Inghilterra, della Francia, degli USA: siamo agli ultimi posti, insieme alla Germania che ha però dovuto sostenere i costi enormi dell’unificazione. Gli investimenti esteri in Italia sono caduti progressivamente e nel 2000 sono stati l’1,1 % del PIL, pressoché zero. La Germania ne ha avuti nell’ordine del 9,4%, l’Inghilterra il 9,2%, la Spagna il 6,6 e la Francia il 3,4%. La crescita in Italia è stata dell’1,9% nel quinquennio 1980-1985 e del 2,6% tra il 1986 ed il 1991. Tra il 1992 ed il 1997 è stata dell’1,4% e nel periodo 1998-2002 dell’1,7%. Un lungo periodo di sostanziale stagnazione economica. Nel 1986-1991la Spagna è cresciuta del 4,2%, la Germania del 3,7%, la Francia del 2,8%. L’Italia del 2,6%. Nel 1996 l’area Euro è cresciuta in media del 2,6 , l’Italia solo dell’1,9%. Le previsioni 2001 - 2005, poi confermate dai fatti, sono state in Europa, in media, dell’1, 4% e solo dell’1, 2% per l’Italia. Le imprese nazionali sono entrate in crisi dalla fine degli anni 60 e per tutti gli anni 70. Dopo di allora non si è mai più registrata una vera inversione di tendenza. L’incremento, dissennato e senza controllo, della spesa pubblica per tutti gli anni 80 ha portato danni immensi al sistema. Si usava in sostanza danaro che non c’era. Nel 1977, ricorda Turani, il debito pubblico italiano è il 56,4% del Prodotto interno lordo nel mentre quello medio degli Stati d’Europa è del 31%. La Germania è al 26,8%, la Francia al 20,1%. L’Italia ha già il triplo del debito pubblico francese. La tendenza, anziché correggersi, negli anni a venire si è accentuata. Nel 1987 il debito pubblico italiano è stato equivalente al 90, 4% del PIL, raddoppiando rispetto a 10 anni prima. L’Europa in media si è attestato al 56%. Nel 1994 in Italia si è giunto al 123, 8%, ovvero la ricchezza prodotta in un anno non è sufficiente a pagare il debito pubblico accumulato. Nello stesso anno Germania e Francia si sono attestate sotto il 50%. Nel 2003 il debito pubblico italiano è sceso al 106, 4% nel mentre Germania e Francia sono giunte al 60%. La radiografia più accurata della situazione dei vari paesi del mondo nel mercato globale è stata fornita dalla rivista mensile americana “ Fortune ”. Nella classifica dei maggiori gruppi industriali, bancari ed assicurativi del mondo l’Italia è in una posizione quasi inesistente. Nell’edizione del 2002 nell’elenco dei primi 50 grandi gruppi per fatturato in Europa e nella classifica dei 500 maggiori gruppi mondiali l’Italia è stata presente solo con la Fiat, l’ENI e le Assicurazioni Generali. La Germania nella classifica europea ha avuto piazzate 16 società, la Francia 11, l’Inghilterra 8. Nella divisione auto la FIAT è crollata al quindicesimo posto restando l’unica azienda industriale presente. L’Europa è oggi un’area economica ed un mercato di consumo con oltre 450 milioni di persone ma le sue aziende sono state in genere tarate su dimensioni solo nazionali. Saranno necessarie in futuro aggregazioni ben più ampie, di più soggetti, per segnare una presenza in mercati di queste dimensioni.

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L’Italia non presenta alcuna forza capace di dirigere, con propri gruppi, processi di aggregazione e di concentrazione, in nessun settore. Di sicuro, di questo passo, potremo essere solo aggregati ad altri in funzione del tutto subalterna. L’Italia tra le 500 maggiori società del mondo era presente, nel 2000, solo con 9 soggetti, la Cina già con 11. L’Inghilterra aveva 34 presenze, la Francia 40, la Germania 35, il Giappone 88, gli USA 192. La FIAT tra le 500 era stata collocata al 46 posto. Nei 50 principali settori di attività del censimento di “ Fortune ”, nell’elenco tra categorie l’Italia appare un deserto, senza niente di davvero significativo nella chimica, nel comparto informatico, nell’hardward, nel software. Disastrosa la situazione ed i conti finanziari delle nostre multinazionali il cui fatturato ed i cui utili sono scesi sempre più continuando in qualche modo a resistere ancora per il fatto che, pur facendo poco o nulla in ricerca, sono andate a produrre nei paesi in cui più basso è il costo del lavoro. Le nostre multinazionali dispongono di produzioni a bassa tecnologia ed a basso costo nel mentre totale è la loro assenza nei settori ad alta tecnologia. Il fatturato FIAT del 2002 è stato di 56 miliardi di euro ed i suoi dipendenti sono rapidamente scesi da 233.000 a 209.000. L’Olivetti è passata da 67 a 57 miliardi di fatturato con una riduzione dei propri dipendenti da 116000 a 106.000. Il capitalismo nazionale si è contratto e l’occupazione si è compressa. La dimensione industriale del paese si è ristretta e si è tentato di proiettarsi nella direzione di altri comparti, soprattutto nei servizi. Dal 1999 al 2002 sono stati perduti nell’industria nazionale circa 50.000 posti di lavoro, come ha certificato l’inchiesta di Mediobanca su 2000 aziende nazionali. Nel mentre in precedenza la perdita di posti di lavoro nell’industria era compensata dalla crescita nel settore dei servizi, ora anche in questa area di attività è in atto una notevole contrazione. Nel 2.002 si sono infatti perduti 2.000 posti di lavoro nei servizi, una flessione che, seppur ben più contenuta di quanto è accaduto nell’industria, ha segnalato un’ennesima e preoccupante inversione di tendenza rispetto all’antecedente processo di crescita. Si è ampliata, in modo significativo, l’area di lavoro instabile e precario, a termine ed a progetto. Il volume di esportazioni delle 2.000 aziende censite nel censimento Mediobanca dal 1998 al 2002 è sceso dal 26,9 % al 25,7% medio del proprio fatturato. La relativa forza nel tempo accumulata in settori quali le calzature, le macchine agricole, il vetro, il sistema moda e dell’ abbigliamento ha ormai imboccato una scia declinante che pare inarrestabile. E’ infatti appena il caso di notare come nel 2004 le stime ufficiali del Governo in tema di crescita avevano previsto un aumento medio intorno al 2,2%, una percentuale appena superiore alla media europea. Si è trattato però di valutazioni assolutamente ottimistiche in quanto i dati sulle esportazioni misurate per il mese di gennaio 2004 sono risultate ben inferiori al punto da fare ritenere a vari centri studi economici che sarebbe stato già un bel risultato raggiungere, a consuntivo, la metà dei livelli di questa previsione, ovvero l’1,1%. Vero è che nel mese considerato le esportazioni italiane verso i paesi che non fanno parte dell’Unione Europea si sono ridotte nella misura del 15% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Le esportazioni verso gli Stati Uniti addirittura del 27%, quelle verso il Nord Europa hanno poi avuto una flessione del 25,5%. Una 242


situazione di crollo diffusa. Le nostre esportazioni si sono incrementate dell’1,4% verso la sola area territoriale della Russia. Tutte le produzioni che hanno recato vantaggi alla nostra bilancia commerciale, i prodotti tessili del “ Made in Italy ” nel gennaio 2004 segnalano una flessione media del 27%, i prodotti in pelle del 30%, i mobili del 21,4%. Altrove, in più punti del globo, si sono evidenziati molti elementi di dinamismo e di ripresa economica dell’economia, dagli USA che hanno ripreso il processo di crescita con una media del 4% annua, al Giappone che, dopo anni di stagnazione, ha realizzato una ripresa annua intorno al 7% , all’Argentina che, dopo la gravissima fase di crisi economica e finanziaria dei primi anni del 2.000, ha di nuovo imboccato il cammino di una crescita media del 10% annuo, meglio cioè del Giappone. La situazione attuale presenta poi elementi del tutto imprevedibili quali la crescita dell’India, che avanza al ritmo dell’8,4 , del Venezuela che cresce al 9%, della Turchia a sua volta in crescita ad una media intorno al 5%, fino alla Russia ed ai paesi un tempo a lei satelliti che si muovono su una media del 6%. Tra tutti il dato più straordinario è quello della Cina che ha una crescita media annua del 10%, percentualmente di gran lunga la maggiore di tutte. L’economia mondiale, come si vede, presenta un quadro ben variegato nel quale convivono aree in forte crescita economica ed altre in cui il processo di stagnazione continua. Tale è in genere la situazione del vecchio continente, dell’Europa. In questa area territoriale la situazione italiana è quella che appare più difficile e compromessa. In sostanza proprio nel mentre, dopo un lungo periodo di staticità, iniziano ad avvertirsi timidi segnali di ripresa dell’economia mondiale, la situazione europea ed in specie italiana continua ad essere caratterizzata da forte debolezza e precarietà. L’Italia è ultima in Europa per aumento di produttività (+5,7% rispetto al 1995 a fronte dell’Irlanda, prima con un aumento del 46,8%); ultima per livello globale di crescita del PIl e di competitività; terzultima, prima solo della Spagna e del Belgio per esportazioni HI-TECH (+ 7,1% nel mentre al primo posto sono Irlanda e Lussemburgo con + 29,1%); è terzultimaper laureati ( +10% a fronte della Danimarca, prima con +24%); è ultima per spesa in ricerca (+6,8% a fronte dell’Irlanda, prima con + 155 %); terzultima per creatività economica (+ 3,14 % a fronte della Finlandia, prima con + 5,74%); quartultima per collegamenti ad Internet ( + 39% a fronte dell’Olanda, prima con + 78%). E’ in compenso prima nell’Europa a 25 per inquinamento (+2.305,13) nel mentre il Lussemburgo è all’ultimo posto con + 20,28); è prima per costo dell’energia (0,1440) nel mentre l’Estonia è ultima con 0,0576); è terza, dopo Grecia e Germania per disoccupazione di lunga durata ( 4,0% nel mentre l’ ultima,la Gran Bretagna ha la media dell’1,00 ; è la seconda nazione europea per disoccupazione giovanile (24%) sopravanzata solo dalla Polonia (36,4%) e terza nell’Europa a 25 , con la Grecia al 27,8% nel mentre l’ultima , la Danimarca è al 7,1% e per finire è al secondo posto nell’Europa a 25 per entità del debito pubblico( 106,5%) nel mentre all’ultimo posto è collocata l’Estonia (5,5%) ed il 243


Lussemburgo ( 6,6%) . Il dato in prospettiva più allarmante è che il nostro paese è oggi al primo posto per la percentuale di popolazione a rischio di povertà ( 45%) nel mentre ultima è la Germania con il 36%.202 L’economia italiana è in sostanza in affanno su tutti i piani e dimostra di non sapersi in alcun modo agganciare al carro della pur flebile ripresa. Elemento preoccupante più di altri è poi il processo, non frenato, di fuga dei cervelli203. Si calcola che in Italia si formino, annualmente, meno di un quinto di ricercatori rispetto alla Germania e che globalmente in Italia manchino circa 3 milioni di ricercatori e specialisti. Senza una buona struttura di ricerca la battaglia è perduta già in partenza e per l’Italia è plausibile immaginare sia sancita la fine di una qualsiasi funzione di rilievo del capitalismo nazionale . Una delle ragioni più vere della crisi della industrializzazione e quindi della sempre più accentuata difficoltà di competizione del nostro paese sui mercati globali è senz’altro individuabile nell’incredibile sottovalutazione attribuita al decisivo problema della ricerca scientifica e tecnologica. Ripercorrere, seppur per grandi linee, i segni di tale devastante errore strategico è oltremodo necessario per comprendere come non si possa che convenire con una visione prospettica della situazione nazionale segnata da un allarmante ma ampiamente giustificato pessimismo. Il dato più drammatico è costituito dalla progressiva perdita di intelligenze e cervelli che hanno lasciato il nostro Paese e che, di frequente, svolgendo un’attività di ricerca adeguatamente valorizzata ed incoraggiata altrove, hanno concorso alla crescita di competitività di altre nazioni, degli USA e dei principali paesi europei. Energie che avrebbero dovuto costituire una risorsa da salvaguardare gelosamente e che invece è stata dispersa in altre direzioni. Il nostro paese è stato una straordinaria fucina di talenti, anche nella ricerca scientifica, ma è stato incapace di sfruttarli adeguatamente nell’interesse della Nazione. E’ infatti accaduto che nel mentre altrove si è realizzato uno scambio di esperienze e quindi una crescita delle conoscenze favorita dal movimento di fitti scambi internazionali, come è accaduto per Francia ed Inghilterra, realtà nelle quali si è sostanzialmente equivalso il numero di ricercatori scientifici inviati all’estero con quelli accolti all’interno, in Italia si è solo registrato un esodo di uscita a senso unico. Ricercatori stranieri non sono stati attratti nel nostro paese né ciò era in alcun modo possibile in quanto, da decenni, le scelte politiche adottate non hanno dimostrato alcuna capacità di costruire un “ ambiente endogeno favorevole alla ricerca scientifica ”. In Italia infatti non si è investito strategicamente sulla ricerca e sull’innovazione. Il nostro paese non ha garantito né stabilità né stipendi dignitosi né apparecchiature aggiornate, né una simbiosi, adeguata e costante, col sistema industriale al fine di consentire lo sfruttamento, tempestivo, dei risultati raggiunti. 202

Dati apparsi su “ Il Venerdì di Repubblica” n.931 del 20 Gennaio 2006. Vedasi al proposito, tra i vari lavori che si sono occupati del problema, il bel volume di Claudia Di Giorgio, “ Cervelli Export ”, Perché l’Italia regala al mondo i suoi talenti scientifici ”, Ed. “ L’Unità ”.

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Per queste ragioni il numero dei laureati italiani emigrati all’estero è sette volte superiore a quello dei laureati stranieri presenti nel nostro paese. Forte è altresì la propensione a rinunciare, in partenza, all’avvio di qualificati percorsi formativi per i giovani ricercatori. Negli ultimi decenni è apparso drammatico il persistere, da parte della classe politica nazionale, della grave e colpevole sottovalutazione della centralità della scienza. La perdita di risorse umane specializzate in ricerca e sviluppo è un delitto grave sia per la perdita in sé di risorse qualificate sia per il fatto che i risultati della ricerca si è poi costretti ad acquistarli, ad alti costi, all’estero, per tentare di mantenere un ruolo di avanguardia nel novero dei paesi più avanzati. Il movimento di capitale intellettuale produce sempre crescita di ricchezza per i paesi di destinazione ed un potenziale impoverimento per i paesi di origine. E’ accaduto infatti che l’emigrazione del capitale intellettuale, dai paesi in via di sviluppo verso i paesi industrialmente ed economicamente più progrediti, ha rinsecchito l’ossatura dei paesi di provenienza accentuandone i fattori di degrado e marginalità. Le nazioni più povere si sono drammaticamente indebitate per l’acquisto di innovazioni prodotte altrove da propri cervelli. Gli USA sono stati in questi decenni il Paese dove più diffuso è stato il trasferimento di intelligenze scientifiche e tecnologiche, cosa questa decisiva nell’assicurare agli americani un ruolo leader nello scenario mondiale. I brevetti, cioè le ricadute dei risultati scientifici, con il loro possesso, sono decisivi nella determinazione della competitività di una nazione. La perdita di capitale intellettuale, scientifico e tecnologico, impoverisce la nazione di origine ed ipoteca in negativo drammaticamente il suo futuro. Per tornare all’Italia sempre più spesso negli ultimi decenni è accaduto che il trasferimento di risorse intellettuali, scientifiche e tecnologiche, immaginato in origine quale esperienza nel tempo limitata, si sia trasformato in emigrazione definitiva all’estero. I vantaggi conseguiti dalla cresciuta esperienza di lavoro e conoscenza in altre ed avanzate realtà del mondo non sono state riutilizzate all’interno del Paese d’origine. Un’anomalia risultata particolarmente grave e che ha distinto l’Italia dalla Francia e dalla Germania o dalla stessa Inghilterra. L’Africa e l’America latina sono stati, a livello mondiale, i paesi con tasso migratorio più alto e il progressivo, gravissimo peggioramento della vita di quelle popolazioni è la conferma, più drammatica ed evidente, dell’assioma prima evidenziato. L’India soprattutto e la stessa Cina hanno esportato informatici, tecnici, scienziati e ricercatori. Il principale paese d’ingresso, gli Usa , risulta oggi fortemente dipendente da questa grande massa di scienziati e ricercatori nel senso che si fa fatica ad immaginare come quel sistema possa procedere allo stesso ritmo di crescita registrato negli anni pregressi senza il decisivo concorso degli immigrati intellettuali. Perciò il governo Usa è particolarmente attento ad operare in maniera tale da garantire alla forza lavoro intellettuale, nazionale e di immigrazione, tutte le condizioni ambientali, lavorative, di crescita della professionalità, di stabilità ed avanzamento di carriera e di salario in maniera tale che i ricercatori possano proseguire all’interno il proprio impegno senza fare ritorno nei paesi di origine. “…la condizio sine qua non di una moderna economia è una forza lavoro ben istruita , versatile , in grado di svolgere 245


attività di ricerca e sviluppo, e di convertirne i risultati in prodotti , processi e servizi innovativi”204. E’ così che si spiega il fatto che , a differenza di quanto accade in Italia ove in genere è aumentata, di molto, l’età media di scienziati e ricercatori, in Usa la presenza di questo personale qualificato è distribuita in ogni fascia di età, dai quarantenni ai cinquantenni e , soprattutto, tra giovani di 25-30 anni. Sono perciò notevolmente incentivati, nelle scuole inferiori americane , gli studi delle materie scientifiche e tecnologiche e viene fortemente stimolata la propensione all’iscrizione universitaria in tali discipline e questa politica si dimostra strategicamente efficace e lungimirante in quanto consente al paese di cautelarsi dal rischio, in realtà remoto, di un massiccio ritorno di scienziati e ricercatori nei paesi d’origine. Eppure l’Italia repubblicana non è stato sempre una nazione indifferente all’importanza della ricerca scientifica. Dopo il periodo delle leggi razziali, in una fase ormai avanzata dell’era fascista, che concorrerà ad indebolire decisamente alcuni settori delle scienze nazionali come quello della fisica, si avvierà una progressiva inversione di marcia negli anni dell’immediato secondo dopoguerra , quando si registrerà lo sviluppo di una nuova e rinnovata attenzione ai problemi della ricerca scientifica italiana ed al suo potenziamento. Percorso intellettuale e culturale questo piuttosto sottovalutato nel proliferare delle ricostruzioni storiografiche che si sono susseguite ma che risulterà un incubatore decisivo nel determinare l’accelerazione dello sviluppo economico nazionale che più avanti sfocerà, nell’arco degli anni 60, nella straordinaria ascesa coincisa col grande boom economico. All’indomani del secondo conflitto mondiale il settore della chimica è in una buona condizione. Ha stabilito uno stretto con l’industria e le grandi imprese del settore, come la Snia Viscosa e la Montecatini si sono dotate di laboratori di ricerca mantenendo uno stretto e proficuo rapporto con la comunità accademica e scientifica. La collaborazione tra industria e mondo scientifico appare in quel periodo costante ed una tale relazione, stabile e proficua, consente la produzione di beni a forte contenuto innovativo. E’ del 1954 la produzione delle prime fibre di polipropilene, le cui applicazioni saranno sperimentate fortemente nei laboratori industriali. Le materie plastiche, le fibre sintetiche , le pellicole da imballaggio vengono vendute dall’Italia in tutto il mondo. Il premio Nobel per la chimica verrà assegnato nel 1963 ad un italiano, Giulio Natta. Il settore della fisica, che è uno di quelli che ha poi subito il maggiore indebolimento, inizia una sua importante ripresa sollecitato da Eduardo Amaldi. In pochi anni arrivano fondi rilevanti , si creano nuove strutture di ricerca e si avviano qualificati processi di collaborazione internazionale. Strutture come la Snia Viscosa e l’ENI sollecitano ed aiutano ripresa e rilancio del settore della fisica. Nel 1951 era nato l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Particolarmente felice, negli anni 50, si era rivelata l’azione dell’Olivetti che nel 1958 aveva realizzato l’Elea 9003, il primo calcolatore elettronico sviluppato interamente in Italia, uno dei primissimi interamente a transistor. L’Olivetti era in breve tempo diventata 204

C. De Giorgio, cit. pag. 25. 246


un’azienda all’avanguardia mondiale nella produzione dei computer. L’impresa di Ivrea si espanderà a dismisura, acquistando l’americana Underwood riescendo a piazzare all’estero, alla fine degli anni ’50, più del 60% della sua produzione globale. E’ stato Adriano Olivetti a mettere su nella sua azienda un gruppo di lavoro particolarmente qualificato composto da fisici, matematici, ingegneri italiani e stranieri tra i quali Mario Tchou, figlio di un diplomatico cinese ma nato a Roma, a quel tempo tra i massimi esperti mondiali di calcolatori elettronici e già docente alla Columbia University. La fase conclusiva degli anni 60 è quella della definitiva scolarizzazione di massa. Gli studenti delle scuole superiori passano da mezzo milione a due milioni e mezzo nel mentre la scolarizzazione dei ragazzi tra 11 e 14 anni negli anni 70 è passata dal 30 al 98%. Lo Stato italiano sembra voler finalmente investire, massicciamente, sulla formazione dei suoi cittadini. Il settore chimico, puntando sull’innovazione, sembra resistere bene alle grandi sfide che ha di fronte ed evita la fuga dei suoi chimici. Crescono i finanziamenti pubblici dallo Stato al Consiglio Nazionale delle Ricerche, che passano dai 540 milioni del 1950 ai 4 miliardi del 1960. L’impresa scientifica italiana pare organicamente inserita in un più generale progetto di sviluppo del Paese e sembra avviata a realizzare continue innovazioni industriali nella consapevolezza dell’indispensabilità di questo fattore per la modernizzazione e la capacità di competizione globale del Paese. Lo Stato sembra deciso ad affidare una funzione strategica alla ricerca, potenzialmente forte della disponibilità di aiuti e sostegni finanziari da parte di soggetti pubblici e privati a partire da Montecatini, Olivetti, ENI. Ed è proprio l’ENI a decidere di investire sia nella chimica che nel nucleare costruendo la centrale di Latina. Il Nucleare evidentemente presuppone anche un forte sviluppo dell’elettronica. La campagna scatenata nel 1963 contro Felice Ippolito, presidente del Cnen, il comitato nazionale per l’energia nucleare, accusato di dissipare, per l’energia atomica, enormi capitali, è il punto di svolta decisivo della situazione. E’ da quel momento in avanti infatti che il governo italiano cambierà radicalmente linea giungendo a considerare la ricerca scientifica ed il suo sviluppo un lusso su cui è folle investire, un piano d’intervento troppo superiore alle possibilità di investimento strategico del paese. A quel punto si sosterrà la tesi che è più conveniente fare cimentare altri paesi con un tale nodo acquistando, se del caso, i risultati delle ricerche altrove realizzati. L’Espresso205, riferendosi tra l’altro al caso Ippolito, si esprimerà profeticamente in tal modo : “ Tra quaranta o cinquanta anni uno studioso dei problemi sociali che vorrà accertare le ragioni dell’arretratezza culturale ed economica del nostro paese individuerà certamente nello stentato sviluppo della ricerca scientifica una delle cause determinanti ”. In realtà si sono scontrate nella classe dirigente italiana due linee e due progetti alternativi, uno che riteneva decisivo lo sviluppo della ricerca e dell’innovazione, l’unico modo per consentire all’Italia di conservare una posizione di primo piano in 205

L’editoriale de “ L’Espresso” è dell’Ottobre 1965. 247


alcuni settori dove il paese aveva dimostrato di potersi espandere, l’altro secondo cui l’Italia non poteva nè doveva impegnarsi nella ricerca non avendo risorse sufficienti che glielo consentivano. Un lusso del tutto inutile. In realtà è da quel momento in poi che si verificano le crisi di liquidità della Montecatini e della Olivetti, entrambe aziende che hanno investito, molto, in ricerca e sviluppo. E’ dal 1965 in avanti che l’Italia ha iniziato a restare del tutto fuori dalla grande rivoluzione scientifica mondiale. I progetti di grande rilievo non sono più finanziati dal governo. Si inizia a bloccare la ricerca industriale, la Olivetti è costretta ad aprirsi all’ingresso di un gruppo di banche ed imprese italiane che impongono la cessione della Divisione Elettronica che, per pochi soldi, passa così alla General Elettric. E’ da quel momento che ha iniziato ad accentuarsi la fuga dei cervelli scientifici italiani ed è da allora che tale fuga ha finito per coinvolgere pressoché tutte le discipline scientifiche. Più forte la fuga dai settori dove ha iniziato a venire meno il supporto dell’industria. La classe dirigente politica nazionale, in conclusione, ha commesso un tragico errore non comprendendo affatto il rilievo decisivo per il futuro rappresentato dalla scelta di investire nella scienza, nella ricerca, nell’innovazione. I paesi nostri concorrenti più qualificati hanno reagito alla crisi dell’economia mondiale di questi anni incrementando gli investimenti in ricerca ed innovazione. L’Italia è l’unico dei paesi europei dove il numero dei ricercatori non è cresciuto ed anzi è regredito. Così le nostre esportazioni in tecnologie dal 1995 al 2000 decrescono verticalmente del 6%. Il passivo tecnologico del nostro paese dall’estero nel 2001 è di 845 milioni di euro. La spesa italiana in ricerca e sviluppo continua ad attestarsi sull’1% del Pil ed anzi con le successive leggi finanziarie si riduce ancora oltre. Altri paesi come la Spagna la hanno incrementata del 12,72% all’anno. Non esiste un censimento ufficiale sul numero dei ricercatori italiani emigrati all’estero e che lì lavorano. Nei centri di ricerca e nelle università italiane è ormai quasi del tutto assente la presenza di stranieri. Il processo migratorio dei cervelli, iniziato da tempo, è cresciuto ulteriormente negli ultimi anni e non investe solo giovani ricercatori ma persone adulte e di media età. Un quadro drammatico e desolante. Con la formazione acquisita in Italia i ricercatori trovano con facilità lavoro all’estero spesso conseguendo, con la loro attività, risultati particolarmente lusinghieri. La maggioranza lavora in Europa, nelle maggiori nazioni europee e nel Regno Unito, forte è al contempo la migrazione negli Usa. All’estero si stabilizzano perché dispongono di ampi mezzi ed attrezzature e per il fatto che hanno chiara la percezione di come il loro lavoro sia valorizzato ed apprezzato. Mancanza di strategie favorevoli alla ricerca, assenza di finanziamenti e strutture adeguate, carenza di criteri di valutazione trasparenti, questi i motivi che hanno spinto e spingono ad emigrare. Il valore sempre più scarso attribuito ai temi della scienza, della ricerca e dell’innovazione, sta rapidamente portando fuori il paese dalla comunità scientifica internazionale, interrompendo confronti e collaborazioni con altre realtà scientifiche europee e mondiali. Anche da tutto ciò si 248


spiegano le ragioni di un declino che appare sempre più vicino, una colpa ed un danno enorme per il destino delle generazioni future. In conclusione l’Italia nel suo complesso, pur avendo per mezzo di alcuni importanti soggetti economici intuito in largo anticipo, fin dai lontani anni 50, le enormi potenzialità espansive di alcuni settori innovativi, rinuncia a perseguire - con la convinzione e la determinazione necessaria - strade originali che ne avrebbero caratterizzato, in determinati segmenti produttivi - in termini di assoluta eccellenza la funzione. E’ il caso di richiamare al proposito la storia dell’Olivetti, ma è anche utile ricordare la vicenda dell’aereonautica civile206, segmento di rilievo dove pure il paese era in possesso di capacità notevoli, di risorse umane e di tecnologie importanti. Alcuni settori che avrebbero potuto ulteriormente espandersi non sono state più innervati dall’ingresso, necessario ed indispensabile, di supplementari masse critiche di conoscenza e di tecnologie innovative. E’ anzi accaduto che si è realizzato un processo di frantumazione del ciclo, come per l’elettromeccanica ad alta tecnologia, e si è così concorso a disegnare, in termini particolarmente seri e preoccupanti, i contorni della assai critica, contingente attualità. L’Italia è pressoché scomparsa in interi comparti produttivi tradizionali nei quali era riuscita a conseguire risultati di eccellenza ed ha in sostanza fallito nel tentativo, mai a fondo perseguito, di affermare un proprio ruolo, trainante e dirigente, in altri settori produttivi innovativi nei quali esistevano tutte le precondizioni perché tale funzione potesse esercitarsi. Straordinariamente elevati sono stati i costi subiti dal paese, dal punto di vista economico e sociale, per il fatto di essere stati sostanzialmente emarginati con la conseguenza della drastica perdita dell’occupazione che da ciò ne è conseguita. Si è riusciti ad essere del tutto esclusi da tutti i settori industriali tradizionali che, è il caso di osservare, riorganizzati, continuano ad operare, con profitto, in varie altre parti del mondo, con l’impiego di massicce quantità di forza lavoro. Si è poi accentuata, sempre di più, la dipendenza da altri produttori stranieri le cui merci continuano ad essere acquistati dal nostro paese dopo che l’Italia ha pressoché dismesso ogni propria specifica funzione. Oggi il paese presenta un quadro generale d’insieme in cui si sommano dismissioni e dipendenze. Attuale prossimo e concreto appare il rischio di essere definitivamente relegati ad una funzione di mera “ colonia dipendente ” da altri paesi industriali che invece in questa direzione hanno continuato ad operare ed ad investire a tempo. L’avere escluso d’optare, strategicamente, per la crescita dell’occupazione, con incentivi rivolti allo sviluppo di attività ad alta intensità di conoscenza, di ricerca, di sviluppo, ha inclinato la possibilità di crescita autonoma e qualificata del Paese. Interi settori industriali hanno registrato l’ingresso del capitale straniero che, con le operazioni di privatizzazione e di fusione realizzatesi negli anni più recenti, ha

206

L’Alitalia, pur di sopravvivere, sarà costretta, verso il settembre 2. 004, ad una drastica ristrutturazione, con verticale riduzione dei posti di lavoro e netto aumento dei carichi di lavoro individuali. 249


modificato l’ossatura di fondo della nostra tradizionale struttura produttiva e il contesto d’insieme della nostra economia. La scelta di ripianare immense perdite con l’esborso di migliaia e migliaia di miliardi, così come è accaduto per le partecipazioni statali nel comparto chimico, ha prodotto la distruzione di risorse consistenti che sono state in sostanza distratte da un possibile utilizzo in prospettive diverse, strategicamente vincenti. Interi settori come la telefonia mobile, dalla scoperta della radio in poi passata attraverso più livelli di tumultuoso sviluppo, ha fatto registrare il paradosso per cui altri sono stati i paesi capaci di comprendere le immense potenzialità espansive che potevano essere esplorate nei nuovi mercati di consumo. Identico processo è avvenuto per l’elettronica, le cui straordinarie potenzialità erano state individuate, come si è detto, proprio in Italia già nei lontani anni 50. E lo stesso ragionamento, forse aggravato dalla supplementare incapacità dimostrata in tempi più recenti, può essere proposto a proposito dell’aereonautica civile ove si è attribuita alla presunta estrema elevatezza dei costi l’opposizione del governo a concorrere, con proprie quote percentuali, all’entrata dell’Italia nell’impresa Airbus. Il risultato finale è stato quello di continuare a pagare a prezzi assai alti i C-130 americani. L’Italia avrebbe invece, entrando in partecipazione nel settore insieme a Germania, Francia, Spagna e Regno Unito concorrere ad un grande successo detenendo il possesso di importanti quote sul globale del 57% del mercato mondiale degli aerei commerciali con più di 100 posti. Operazione che ancora oggi consente all’Airbus di introitare risorse annue preventivate in 20-22 miliardi di Euro contro i 19,5 del 2002. L’Italia è riuscita a restare fuori, per l’incuria e l’assenza di visione strategica dei nostri governanti, dall’iniziativa europea meglio riuscita in campo economico e tecnologico fatta negli ultimi 50 anni. Se si fosse invece scelto di essere partner degli altri paesi d’Europa che questo indirizzo hanno seguito, pur soltanto con una quota del 20% , identica a quella di Spagna e Regno Unito, oggi si sarebbe potuto rimarcare, come paese, una importante presenza industriale in questo comparto. E si sarebbero occupati, col proprio diretto concorso all’intero ciclo di costruzione di un grande aereo, almeno 9.000 dipendenti diretti ed ad altri 25.000 – 27.000 nell’indotto, tutta manodopera altamente qualificata. Si è invece rinunciato ad essere parte della più grande filiera tecnologica, industriale, logistica che oggi esista in Europa, e si sono di converso attuate scelte, di segno difforme, che consolidano il carattere di mera e subalterna dipendenza rispetto agli USA. L’esempio appena considerato è solo uno degli innumerevoli casi di declino, marginalizzazione, dipendenza da altri produttori realizzatosi pressoché in tutti i tradizionali o nuovi segmenti del mercato industriale. Nell’informatica si è consumata la scelta dell’indebolimento progressivo dei soggetti imprenditoriali più avanzati del settore. E’ così mancato un serio aiuto pubblico, realizzabile tramite tempestivi e consistenti investimenti in ricerca ed innovazione. L’intuizione d’origine s’è resa in tale modo evanescente, non si sono seguite le strade d’innovazione di processo e di prodotto, si è progressivamente usciti dal mercato a 250


vantaggio della concorrenza giapponese, ma anche di paesi come la Svezia, la Finlandia, oltre che gli USA: (Nokia, Ericson, Motorola, Panasonic dominano per oltre l’80% oggi il nostro mercato interno di telefonia cellulare, nel mentre altre case detengono in Italia centri di ricerca ed impianti di sistemi di produzione e di assemblaggio). Ed ancora peggio è accaduto nel settore della TV a colori, alla cui ipotesi di produzione si è pervenuto in Italia soltanto nel 1977, nel mentre una tale scelta era maturata ben 10 anni prima, nel 1967, nel Regno Unito e poco dopo in Germania ed Olanda. Quanto è costato in termini di dipendenza e di perdita di potenziali posti di lavoro l’incapacità dimostrata nel comprendere a tempo l’orientamento ed il consolidamento del gusto e della domanda del mercato? E quanto ha pesato tutto ciò in termini diretti ed indotti, d’apertura di voragini nelle quali si sono inseriti altri concorrenti esteri che con questi prodotti hanno invaso il mercato e creato una propria duratura leaderscip? Smembramenti societari e cessioni, di pezzi o blocchi di attività, hanno finito per impoverire a tal punto il patrimonio industriale nazionale da configurarlo più debole, povero, ridotto sempre più drasticamente in dimensioni e qualità che oggi si presentano in sostanza del tutto residuali. Ora siamo noi a dovere acquistare prodotti da terzi che ristabiliscono prezzi e condizioni cui siamo costretti ad aderire, senza avere la possibilità d’esercitare alcuna forma di condizionamento. In tutti i settori industriali si sta consumando la definitiva fuoriuscita del nostro paese, l’accentuazione della dipendenza, la limitazione d’autonomia. Non si tratta di attività definitivamente scomparse dal mercato quanto piuttosto di funzioni produttive che s’indirizzano, nei loro centri di regia, in ben differenti aree, da cui emerge e si riscrive una nuova gerarchia dell’economia mondiale. RICERCA E SVILUPPO ( percentuale del PIL anno 2.002) PAESI EUROPEI -SPESA TOTALE Svezia

4,27

Finlandia

3,44

Germania

2,54

Danimarca

2,52

Francia

2,18

Belgio

2,17

Austria

1,94

Paesi Bassi

1,88

Gran Bretagna

1,87 251


Lussemburgo

1,75

Irlanda

1,14

Italia

1,11

Spagna

0,95

Portogallo

0,93

Grecia

0,65

Fonte : Eurostat PERSONE SENZA ISTRUZIONE SUPERIORE ( tra 25 e 34 anni) Svezia

8,5

Gran Bretagna

10,5

Finlandia

12,4

Austria

14,8

Danimarca

14,8

Germania

15,1

Francia

21,5

Olanda

22,7

Irlanda

23,0

Belgio

23,9

Grecia

25,8

Lussemburgo

31,6

Italia

40,3

Spagna

41,1

Portogallo

64,6

Fonte : Eurostat

252


043. IL TESSILE ITALIANO E IL FANTASMA DELLA CINA In questi ultimi anni si è infatti assistito ad un tumultuoso processo di scomposizione delle antiche gerarchie economiche tra i vari paesi mondiali che per secoli erano apparse del tutto inscalfibili. Estrema è diventata la mobilità delle imprese da una parte all’altra del mondo. E’ apparso all’orizzonte un nuovo gigante economico, la Cina, la cui avanzata appare inarrestabile e che senz’altro sempre più diventerà nell’immediato, prossimo futuro, un assoluto protagonista, di primissimo piano, dell’economia mondiale. La Cina, dopo molti decenni, presenta una situazione di sostanziale equilibrio tra importazioni ed esportazioni. Compra molto dal resto del mondo ma, al contempo, vende molto al resto del mondo. Confermandosi, con molta probabilità, le attuali linee di tendenza, è presumibile immaginare che quote sempre più ampie e consistenti dell’industria manifatturiera tradizionale europea e mondiale finiranno per trasmigrare in Cina. L’Europa dovrà, di conseguenza, optare per la riconversione delle proprie produzioni ad altissimo livello di capitale umano. Le produzioni a bassa quantità di capitale umano stanno emigrando, in maniera sempre più diffusa e definitiva, in quella direzione. Improbabile appare la possibilità, nel medio e nel lungo periodo, di mantenere, in Europa ed in Italia, la produzione di quel tipo di merci in una massiccia ed elevata quantità. Il tessile è uno degli esempi più eclatanti di una competizione, economica e di sistema, ormai troppo impari. 207 La Cina è entrata nel 2.001 nell’organizzazione del commercio mondiale. Si sapeva bene, fin dal 1995, che l’antecedente politica della distribuzione programmata delle quote tra i paesi produttori , sarebbe durata fino al 2.005. Da quel momento in avanti si sarebbe avuta la più ampia liberalizzazione dei prodotti e delle esportazioni. Non ci era trovati di fronte ad una decisione improvvisa. Da dieci anni ci si doveva muovere per consentire alle aziende minacciate dalla concorrenza dei nuovi paesi emergenti di ristrutturarsi. E’ accaduto invece che , nel mentre i produttori italiani ed europei hanno portato avanti posizioni di sostanziale stagnazione, non praticando scelte d’innovazione e qualificazione adeguate, la Cina ha prodotto uno sforzo eccezionale nei comparti manifatturieri. Il reddito procapite è aumentato notevolmente nell’ultimo ventennio. 400 milioni di persone, prevalentemente contadini, con reddito annuo di 100 euro all’anno, ora guadagnano 100 euro al mese ed altrettante già vivono in una condizione di relativo o pieno 207

Sul grande balzo in avanti della Cina assai illuminante la lettura dei testi di Maria Weber, professoressa dell’Università Bocconi di Milano, “ Vele verso la Cina”, Ed. MCF, 1996 pp. 236;” Il miracolo cinese. Perché bisogna prendere la Cina sul serio”, Ed. Il Mulino, Bologna, 2001, pp. 176; e “ Il dragone e l’acquila. Cina e Usa la vera sfida”, Ed. Università Bocconi, collana itinerari, 2006. 253


benessere. 20 milioni sono impiegati nel settore manifatturiero tessile. Altre stime parlano addirittura di 90 milioni di lavoratori nel settore. Capita sempre più spesso di reperire, sui mercati italiani, europei, mondiali, prodotti di buona qualità ed a basso costo. Scarpe a 6 Euro, valige a 12-13 euro, pantaloni da donna e da uomo a 3 euro, 3 euro e mezzo, abiti da donna a 5 euro. La Cina ha accettato le regole della competizione globale e, dopo essere stata invitata, si è affacciata, con prepotenza ed aggressività, sul mercato mondiale introducendo un evidente fattore di novità e di instabilità nelle vecchie consuetudini. Essa può costituire un pericolo ma anche un’opportunità. Può essere un pericolo mortale per le imprese obsolete, ostative ai processi di cambiamento indispensabili. Può essere anche l’occasione di una “ distruzione creativa ” di ciò che ha inquinato le regole e può concorrere a creare qualcosa di nuovo e di più solido. Può anche costituire un prospettico vantaggio per l’Italia nel senso che l’apertura dei mercati non è solo elemento di esportazione delle produzioni dalla Cina in altre parti del mondo ma anche occasione di esportazione dall’Italia e dall’Europa verso un grande continente fino ad ora in larga parte inesplorato. In tal senso appare del tutto anacronistico e perdente l’illusione di ergere improbabili difese elevando barriere protezionistiche verso i prodotti provenienti dalla Cina. La Cina ha operato una scelta che oggi appare vincente. E’ un paese che è anche grande produttore di macchinari tessili. Ha investito nel 2.004 almeno 80 miliardi di dollari nel processo di accelerata industrializzazione e modernizzazione. Per iniziative commerciali la Cina ha investito nel 2.003 oltre 3 miliardi di dollari e tale cifra ragguardevole nel 2.004 è più che raddoppiata. L’iniziativa commerciale è ottimo viatico per la fruttuosa stabilizzazione di investimenti produttivi. E’ certo complicato competere con successo con questo nuovo gigante, ma è necessario decidere di puntare sulle specializzazioni nazionali di moda e qualità, anche se esse rappresentano solo una parte minimale delle produzioni. Alcuni grandi impresari italiani di moda già oggi fanno grandi affari in Cina. Un imprenditore tessile come Zegna ha aperto 50 negozi in Cina. Gucci, Prada, Toys, possono essere espressioni ancora vincenti del Made in Italy. Certo si tratta di una fascia, alta, che satura solo il 4% del tessile italiano. E’ questa in ogni caso la tendenza, anzi la realtà dell’oggi. E’ certo importante la ridefinizione di chiare regole del gioco, valide per tutti, a partire dalla precisa indicazione dei marchi d’origine dei prodotti e l’imposizione dell’obbligo dell’etichettatura. E’ evidente l’esistenza di clausole di salvaguardia della comunità europea ancora evanescenti sui prodotti tessili nazionali ma è altresì chiaro come il consumatore si orienti in relazione al prezzo ed alla qualità. Misure limpide e comuni sono ancora osteggiate da paesi europei in cui agiscono aziende che hanno delocalizzato, magari proprio in Cina. Una situazione di chiarezza non è per loro conveniente. Le imprese italiane soffrono sia per non avere innovato a tempo sia per i più elevati costi generali , come l’energia pagata in media il 30% in più. E’ poi evidente l’elemento del costo del lavoro nettamente più basso in Cina che in Italia, in Europa, negli USA. 254


In Italia è ancora concentrata la metà della produzione tessile europea e la quota degli occupati nell’industria manifatturiera è in media il doppio del resto d’Europa. Il “ Sistema Moda ” italiano si è contratto dal 1991 al 2.001 del 27%, nel mentre è cresciuto il turismo. Le esportazioni cinesi sono aumentate del 46% con un abbattimento medio dei prezzi del 47%. Le produzioni di massa sono già appannaggio dei paesi come la Cina. Un problema, enorme, per i rischi occupazionali che ne derivano. L’Italia potrà mantenere ancora un qualche ruolo solo se continuerà a sentirsi sempre più pienamente interna all’Europa e se valuterà con favore l’attuazione di politiche di accorpamento di imprese, se riserverà consistenti incentivi alla ricerca ed all’innovazione, se si aprirà sempre di più ai mercati, se opererà politiche non di chiusura ed arroccamento ma di allargamento, se deciderà di produrre e vendere in Cina, stabilendo con quella realtà intese nelle quali non sia preclusa l’ipotesi di acquisto delle imprese italiane da parte dei cinesi. E’ all’ordine del giorno il problema di quale tipo di innovazione sia indispensabile per il sistema Italia. Se i cinesi produrranno manufatti noi dobbiamo produrre e vendere conoscenza. In Cina dovrà essere venduta la conoscenza italiana, il suo valore aggiunto. I cinesi hanno le risorse finanziarie per acquistare le aziende italiane avendo incamerato, nelle loro banche, centinaia e centinaia di milioni di dollari. E’ ormai evidente come l’articolazione dei settori manifatturieri tradizionali si vada spostando sempre più saldamente nelle loro mani. L’Italia potrà difendersi, parzialmente, mantenendo al proprio interno, per una fase di medio periodo, parti qualificate e di gusto elevato di tali produzioni. Se la qualità delle produzioni tessili di cui si è capaci si manterrà elevata e crescerà ancora , si potrà esportare anche in Cina. All’ordine del giorno è però il problema di una nuova riconversione produttiva di sistema. Dei cambiamenti, anche epocali, non si deve avere timore. In un grande mercato globale ci può essere spazio per tutti. Molto ci può essere da fare con le imprese cinesi in Italia. L’Italia è il paese ritenuto più maturo in queste produzioni tradizionali. I cinesi sono interessati alle materie prime ed alle tecnologie. In questi due campi va ricercata con loro la collaborazione, la commercializzazione, un’attiva politica degli scambi. Del tutto suicida invece una politica ed una cultura che teme e si rinchiude di fronte ai processi nuovi che si affacciano sullo scenario del mondo. Nell’Inghilterra di 50 anni fa si guardava all’Italia con orrore e senso di superiorità. Nella prima metà del secolo scorso scomparvero in Italia migliaia e migliaia di aziende agricole, sostituite da imprese industriali. Il nostro Paese fu capace di un grande cambiamento e di profonde innovazioni trasformandosi da paese agricolo in paese industriale. Crebbe un capitalismo nazionale che si dimostrò capace d’immettere nella realtà un elemento di forte dinamismo. Fu il periodo del boom e della grande avanzata della produzione e dei consumi. Sono poi emersi i vizi d’origine del capitalismo nazionale ed è iniziata, inarrestabile, la fase della sua contrazione, del rimpicciolimento, della decadenza. Un capitalismo che, come si è detto, oggi vede scricchiolare anche i suoi più simbolici santuari. 255


In nessun settore, questa la sintesi finale, né tradizionale né innovativo, l’Italia è in grado di presentare una propria fisionomia d’eccellenza e d’avanguardia, in grado di calmierare, almeno in parte, gli effetti di decadenza cui prima s’è fatto seppur fugace cenno. Questo il nodo, strategico ed estremo, che il paese si troverà di fronte negli anni a venire e che sarà il punto, dirimente, per affermare una prospettiva di crescita, d’identità, di ruoli e funzioni d’avanguardia ovvero l’inesorabile declino che farà tracimare verso i più infimi posti nel potere economico, politico e civile mondiale. 208 Opporsi, ostacolare, resistere nelle proprie pigre certezze da più parti messe in discussione o innovare ed integrarsi. Alla seconda tesi non sembra possa esistere alcuna valida alternativa. Rimettersi in moto, innovare ed innovarsi. E’ questa la vera sfida del futuro. In conclusione, a partire dal settore pubblico, si deve investire di più nella ricerca. Il governo deve poi sostenere tutte le tendenze alla cooperazione tra le diverse imprese, in specie piccole e medie. Esse devono essere riorganizzate almeno su base regionale e settoriale. Il governo deve inoltre favorire la crescita di servizi rivolti alla diffusione di nuove tecnologie garantendo facilità di accesso al credito e l’aumento del processo di patrimonializzazione delle imprese stesse anche per mezzo del mercato azionario regionale. Devono essere infine valorizzate, al meglio, tutte le risorse esistenti ed in specie quella umana. L’Italia ha bisogno di scelte di sostegno alla domanda aggregata e di politiche strutturali che non si basino solo sulla estrema flessibilità del lavoro. Ciò comporta politiche volte allo sviluppo della conoscenza e dell’istruzione e governo dei processi di mobilità della manodopera. L’Italia ha urgente bisogno di un sussulto. Si tratta oggi di reinventare politiche industriali nuove, individuando i poli su cui puntare e, condividendo gli obiettivi da perseguire, agire di conseguenza. Illusorio pensare che la situazione possa migliorare in poco tempo. I tempi di un recupero saranno necessariamente lunghi. Nell’attuale competizione chi non cresce è espulso. Solo da una profonda inversione di tendenza della politica economica ed industriale potrà ricavare un nuovo impulso l’insieme del paese. ( In www. versoil2006. com).

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Tesi sostenute da Luciano Gallino, “ La scomparsa dell’Italia industriale”, Einaudi, Piacenza, Giugno 2. 003. 256


044.CONSIDERAZIONI SULLA CONGIUNTURA ATTUALE MEZZOGIORNO D’ITALIA E DELLA PROVINCIA DI SALERNO

DEL

Nel Mezzogiorno d’Italia stiamo vivendo una svolta epocale che pone in luce alcune questioni rilevanti riproponendole con forza per la loro qualità. Dagli inizi degli anni 90 è iniziato un processo- accelerato- di costruzione della nuova Europa. L’ingresso nell’Euro, la istituzione, ancora più storica, della banca europea come momento regolatore della finanza a livello comunitario, l’avvio della Costituzione europea. In questo contesto di movimento del vecchio continente nell’ultimo quindicennio le condizioni generali di vita delle popolazioni meridionali, più che migliorare, sono sensibilmente peggiorate. L’auspicata modernizzazione del Sud non si è realizzata. E’ quanto attestano tutti i dati macroeconomici reperibili. Infatti il PIL, che è uno degli indicatori generali essenziali, pur avendo fatto qualche timido progresso, in questi anni è diminuito. La crescita del Mezzogiorno è stata ben inferiore a quella dei paesi dell’area mediterranea, Spagna, Grecia, Portogallo ed , ancora di più, rispetto ai nuovi 10 Paesi dell’Est che hanno aderito all’Europa ed il cui reddito pro-capite era pari alla metà di quello delle regioni dell’Italia meridionale. Ora invece sta crescendo molto rapidamente. Rilievi questi da coniugare con una serie di elementi strutturali, di natura non economica, ma con immediati risvolti economici. Anzitutto col fatto che, nel complesso del paese, non c’è stata capacità di crescita dei livelli di scolarizzazione e di istruzione delle persone. Oggi, per questo aspetto, siamo in coda all’Europa come numero annuale di diplomati ed ancora di più per i laureati. Il tasso di occupazione è risalito un poco dovunque ma assai poco nel sud e, soprattutto, è cresciuto qualitativamente male, con una accentuazione delle situazioni di particolare svantaggio, a partire dall’occupazione femminile che , mantenendosi sulla media del 30% , in sostanza non si muove. Lavorano solo 3 donne su 10, con punte al ribasso in province quali Brindisi e Caltanisetta, nell’ordine -addirittura- del 20%. E questo pone una serie di quesiti irrisolti sulla capacità del nostro Mezzogiorno di sviluppare un processo virtuoso in maniera da non restare ai margini dello sviluppo. Nel 2007 è previsto l’ingresso in Europa di Bulgaria e Romania che aumenteranno di oltre 30 milioni la quantità di popolazioni in ritardo di crescita. L’Europa si allargherà, seppure non immediatamente, alla stessa Turchia ed il dato appena rilevato diverrà numericamente ancora più alto Nei prossimi programmi di sostegno comunitario allo sviluppo il Sud dovrà fare necessariamente i conti con la possibile riconsiderazione delle aree-obiettivo 1. Le 257


priorità d’intervento dei fondi strutturali potranno pertanto essere individuate nelle aree che oggi si presentano in condizioni di svantaggio superiori rispetto al Mezzogiorno d’Italia. Avremo regioni che, sulla base del ricalcolo della quota del 75% medio rispetto al continente europeo, usciranno dall’obiettivo 1. Intendiamo riferirci soprattutto all’Abruzzo ed alla Basilicata, che in questi anni è cresciuta, mentre l’Abruzzo negli ultimi anni ha perduto 10 punti di PIL pro-capite. Era una regione che si era collocata abbastanza bene rispetto al resto del Mezzogiorno e poi ha subito un tracollo. La crescita di Campania, Calabria, Sicilia, si è mantenuta su livelli assai modesti. Nel mentre i consumi alimentari dei cittadini italiani del NordOvest tra il 2.000 ed il 2.005 sono cresciuti di oltre 10 punti quelli degli abitanti dell’Italia meridionale sono rimasti stagnanti ed anzi sono diminuiti. La disoccupazione rilevata nel Mezzogiorno d’Italia nel primo trimestre 2.005 è stata superiore al 25%, con picchi di oltre il 40% per le giovani donne. I dati sulla formazione appaiono poi allo stesso modo sconcertanti. Nel Sud l’investimento in formazione, sia di parte pubblica che privata, è stato in genere bassissimo. E’ quanto confermano le varie fonti, 209l’ Istat, la Banca d’Italia, le grosse agenzie, i ministeri, le varie organizzazioni tipo Cnel. Una marea di dati che, una volta esaminati e correttamente interpretati, confermeranno le tesi anticipate. Sul Sito www. Europa. eu, è possibile consultare notizie sulla Bei, che non è la Banca centrale ma che è la Banca che finanzia i progetti, con i rapporti dei vari anni ed i dati aggiornati rispetto al PIL pro-capite regionale. In realtà l’economia di alcune regioni meridionali ha avuto una lieve ripresa dopo il 1995, dopo la terribile fase del 1992 – 93 - 94 ma non comunque in maniera tale da riportare in equilibrio i tassi di crescita. Un rallentamento, comparativo, che ha molto a che vedere con le radici storiche del processo di industrializzazione nel Mezzogiorno. Uno dei fattori di riferimento continuamente considerato è quello relativo alla qualità della forza-lavoro e dell’apparato infrastrutturale. Si tratta di problemi antichi e di rilievo che, come anche in questa trattazione si è accennato, esistevano anche prima. Problemi che si sono scontrati con alcune direzioni dello sviluppo proprie del nostro Paese. Nel 1951 l’Italia aveva ancora circa i due terzi degli occupati in agricoltura con un’industrializzazione che, in alcune aree, si era avviata solo dopo la metà dell’Ottocento per poi stabilizzarsi su livelli abbastanza modesti di espansione. L’industrializzazione italiana è pertanto molto recente e sconta, rispetto ad altri paesi, tempi e modalità della sua accelerazione. In 20 anni , nel periodo 1950 - 1970 si è avuta la radicale trasformazione della manodopera realizzata in 20 anni, con una sostanziale inversione di tendenza che ha innestato un duplice problema. Un vincolo ed un limite. Il vincolo è stato quello della qualità della forza lavoro con una qualificazione minore nelle aree meridionali ed il limite quello non si è mai perseguito un serio programma d’investimento e di riqualificazione sul capitale umano. 209

In particolare il sito della Banca d’Italia nel rapporto sull’economia delle Regioni italiane, w w w . Banca d’Italia. it ed il sito w w w Senato. it, nei cui link istituzionali è possibile trovare una notevoledocumentazione statistica. 258


Uno dei grandi nodi della questione meridionale in Italia, un vizio d’origine comune a tutti i comparti industriali. Fanno eccezione solo alcuni settori, per altro relativamente recenti, dove si è creato qualcosa di simile ad un distretto industriale, ad esempio Solofra o i comparti che, per motivi “ impliciti ” si avvicinano all’alta tecnologia come l’elettronica, dove fare formazione è obbligatorio se non si vuole restare immediatamente fuori da ogni possibilità di competizione. Lì si è prodotto qualcosa ma, in generale, le grandi aziende non hanno mai investito sul capitale umano o lo hanno fatto pochissimo. Inoltre abbiamo avuto poche Università e di storia recente mentre in genere le regioni meridionali hanno fatto la formazione professionale poco e male con corsi per lo più gestiti, in massima parte, in maniera più o meno rituale che alla fine hanno dato diplomi per estetisti e parrucchieri. L’inadeguatezza di una tale politica è apparsa particolarmente chiara in settori come il turismo dove la vocazione del Sud è apparsa da sempre del tutto naturale. In questo campo ancora oggi la carenza di professionalità del personale appare esagerata. Ed infine gli annosi problemi infrastrutturali che, irrisolti, si trascinano ancora oggi. Il Sud ha meno ferrovie, meno e peggiori autostrade, è l’unica area del Paese quasi del tutto sfornita di aeroporti degni di questo nome, priva di centri internodali. L’integrazione del trasporto delle merci è operazione del tutto fittizia. Se si fa un confronto tra l’asse internodale Firenze-Bologna e quello di Napoli, Bari, Taranto, si comprende facilmente come ancora oggi sussistano molteplici problemi riguardanti il capitale umano e le infrastrutture materiali. Sul piano finanziario non ci sono le identiche difficoltà. Al limite i capitali, pur nelle difficoltà attuali del paese, potrebbero essere pure disponibili ma l’eventuale investimento nel territorio è reso assai meno fruttuoso in presenza di questi limiti. Nell’Italia meridionale è nata la prima ferrovia d’Italia, la Napoli-Portici, ma era anche l’unica. In relazione poi alle manifatture non essendo l’Italia paese produttore di macchinari, ma dovendoli importare, il loro costo era più alto in Campania che in Piemonte. Le macchine venivano importate in gran parte dalla Francia e dalla Germania. E ciò ha comportato più alti costi di produzione che pareggiavano, ampiamente, o superavano addirittura, gli eventuali vantaggi dovuti al minore costo del lavoro. Infine altri due elementi. Il più evidente è stato il trasferimento della manodopera, dal primario al secondario, dall’agricoltura all’industria. Esso è stato molto più lento nel Sud che nel Nord e di sicuro è avvenuto in forma non utile allo sviluppo locale, cioè attraverso l’emigrazione. L’Italia ha conosciuto due momenti di grandi flussi migratori che hanno profondamente segnato il Sud senza favorirne lo sviluppo. Il primo è stato quello della fine dell’Ottocento, in prevalenza verso gli Stati Uniti ma anche verso altri paesi europei, poi quello degli anni 50, verso il Nord e la Germania, la Francia, il Belgio, la Svizzera. Un processo che ha consentito una forma, modesta, di sviluppo legata alle rimesse degli emigranti con l’accumulo di risparmio finanziario che poi è servito ad acquistare la casa o ad aprire un negozio ma che, non essendo stato trasformato in investimento produttivo, non ha fornito alcun impulso allo sviluppo locale. 259


L’altro aspetto concerne la minore presa del Sindacato nelle aree del Sud rispetto al Nord. L’organizzazione dei lavoratori non a caso sarà forte nelle parti del Sud a marcata vocazione agricola, nel foggiano, nel Tavoliere delle Puglie e di sicuro non si tratterà del Sindacato in prevalenza operaio. Ulteriore indicatore può essere fornito dalla estrema diversità che hanno avuto, al Nord ed al Sud, le prime forme organizzate delle Società operaie. Nel Centro- Nord si sono caratterizzate, rapidamente, secondo una fisionomia di sinistra, in gran parte socialista ma anche repubblicana, di frequente anticipando funzioni poi esercitate dai due grandi partiti della sinistra e dal movimento operaio. E’ il caso di Milano , città d’origine di importanti battaglie socialiste. Nel Sud invece le società operaie sono rimaste ancorate alla vita delle campagne ed orientate, essenzialmente, in senso clericale. Pur raccogliendo i pochi operai che c’erano, con gli artigiani ed i primi commercianti, il grosso era costituito da lavoratori provenienti dall’agricoltura ed abituati a comportamenti mai decisamente conflittuali. Essi hanno così avuto una funzione di collaborazione e di sostegno, collaterale, ai vari governi democristiani che si sono succeduti. (la bonomiana). La lotta sindacale e politica nel Sud si è sviluppata solo in poche aree, come quella foggiana, dove esisteva una grande concentrazione agricola ed a tal punto forte da garantire pressoché la piena occupazione di tutta la popolazione, di basso ceto. Pur con decine di migliaia di braccianti impegnati nel lavoro agricolo la lotta non si è sviluppata in maniera assai forte ed incisiva. Nell’arco temporale di due secoli è esistito un altro elemento assai penalizzante per il Sud, mai considerato a sufficienza. L’Italia nel suo complesso, ed il Sud in essa, ha commesso vari errori di strategia in relazione all’individuazione, corretta, dei possibili percorsi dello sviluppo economico. Si è così esposta a tutta una serie di effetti negativi a partire dall’incapacità di tenere dietro allo sviluppo tecnologico. Limite assai grave se si considera che il nostro è un paese pressoché privo di materie prime e non è detentore di brevetti. Un paese che, ancora oggi, non investe risorse sufficienti in ricerca e sviluppo e che trasforma, con piccole aggiunte di now-how, qualcosa che è prodotto da altri. Noi purtroppo, pur avendo la possibilità di farlo, abbiamo perduto una serie di grandi occasioni. Gli errori più drammatici l’elettronica e l’Olivetti, fatta fallire e poi distrutta. Oggi siamo l’unico paese tra i G8 a non avere una presenza importante nell’elettronica. L’Olivetti era un’azienda forte ed importante. Non aver salvaguardato questa impresa è stato un drammatico errore strategico. L’Italia ha investito nelle macchine meccaniche mentre gli altri ormai facevano i computer. Una produzione che l’Olivetti, negli anni 50 e 60, poteva assolutamente garantire. Non c’è stata alcuna spinta in tale direzione. Una grave miopia dal punto di vista della strategia mondiale. Altro esempio riguarda proprio il tessile. L’Italia era entrata in competizione con un modello ancora derivato dal periodo tardo-rinascimentale, con la Francia, l’Inghilterra, le Fiandre sui tessuti di qualità. Questo modello ha retto bene fino a quando il tessuto di qualità ha avuto un suo mercato di nicchia che però garantiva 260


prezzi alti e costanti e la non esplosione del mercato dal versante della produzione. Si lavorava sul venduto e lì vince il cotone, la canapa, il lino, la seta. Negli anni 50-60 c’è l’altra grande rivoluzione della chimica che sarà applicata al tessile modificando la situazione antecedente alla radice. E’ la rivoluzione delle fibre sintetiche, un altro dei temi decisivi su cui non si è fatto praticamente nulla. Eppure esistevano tutte le possibilità, addirittura a livello pubblico, di favorire lo sviluppo di quel settore. Siamo progressivamente usciti dal mercato delle fibre artificiali, delle fibre sintetiche, dal mercato delle materie plastiche. Un altro modo per mettere in ginocchio la produzione di qualità. Per riconvertire un settore come quello tessile che in Italia era basato sulla qualità, ed in particolare sul cotone e sulla lana, le grandi stoffe italiane, erano necessarie risorse consistenti. Serviva il now-how che non c’era, servivano gli impianti ma bisognava farli. Quelli precedenti erano stati superati dai nuovi. Si è aperto un mercato di enormi dimensioni, con prezzi questa volta assai più bassi rispetto ai tessuti di qualità ed in esso noi non eravamo più presenti. L’Italia nel suo complesso, ed il Sud in particolare, è infine restata fuori dalla terza, grande rivoluzione degli anni 50 e 60, quella della distribuzione. Siamo rimasti al modello del piccolo negozio. Ultimo paese in Europa per numero di supermercati, inesistenti ipermercati e grande distribuzione e l’insieme di strutture ad essa collegate per acquisto e distribuzione di merci. Altrove, sempre nel tessile, gruppi come Likea o i francesi potevano permettersi di iniziare a ragionare sul mercato globale prendendo stoffe, anche di qualità, ma a costi inferiori perché provenienti da altri paesi, e potevano puntare sulla capacità di distribuzione di enormi quantità di merce. Noi invece abbiamo continuato a proteggere lo sviluppo economico italiano in base a due criteri, uno protezionistico, l’altro assistenzialistico, col risultato di portare a condizioni di non competitività alcune grandi aziende, pubbliche e private, che per troppo tempo erano state protette. Abbiamo rifiutato la globalizzazione ed il nuovo paradigma della competitività mondiale. Quando è accaduto che non si poteva più vendere l’IVA aggiuntiva sulle macchine straniere la Fiat, da un momento all’altro, è entrata in crisi. E’ anche fallita la politica assistenzialistica e non solo perché c’è stato un intervento pubblico enorme, troppo indistinto e variegato, in termini di piccoli aiuti, di sgravi fiscali, ma anche per la sostanziale tolleranza dimostrata verso l’evasione fiscale, per il ricorso reiterato a strumenti quali le cancellazioni del debito fiscale ed ai vari condoni. Meccanismi che hanno ridotto i costi a carico delle imprese consentendo a quella sorta di modello italiano del “ piccolo e bello ” di andare avanti ma perdendo, progressivamente, sempre più in competitività. Negli ultimi anni il nord-est è riuscito a reggere anzitutto perché è stato un vero e proprio modello di distretto organizzato bene con la messa in comune di alcuni oneri e la “ specializzazione flessibile ” settoriale. Su ciò è possibile convenire con Fortis ma in fondo è evidente come questo nuovo modello industriale non si sia mai posto a tempo e seriamente il problema della innovazione. Il nodo di fondo irrisolto del Mezzogiorno, perciò, riguarda ancora 261


il capitale umano, una questione decisiva che si è protratta nei secoli, più grave oggi in quanto ai giorni nostri esiste una competizione di un livello ben maggiore a prima. E’ problema che riguarda l’infrastrutturazione e la qualità dell’ apparato produttivo che, né a livello privato né a livello pubblico, è capace di creare quel nucleo di sinergie che esistono in tutte le situazioni più evolute. In ciò la mano pubblica potrebbe essere essenziale. Ad esempio per la commercializzazione e la distribuzione di alcuni beni, dai prodotti agro-alimentari al turismo. Da soli non si può procedere più. Regge ( ed è il caso del Cilento) il comparto, vince il distretto, vince l’unione, altrimenti non ce la si fa. Su ciò si è innestata un’ulteriore scelta sbagliata, per responsabilità quasi integrale del pubblico, che è stata quella di puntare, con la perniciosa disinvoltura di cogliere il momento più sbagliato, sui grandi impianti industriali. La qualità della politica dei “ poli di sviluppo ”, di Napoli, Taranto, Brindisi, Salerno. Una strategia che si è rivelata disastrosa e non solo per la chimica. Alle porte del Mediterraneo si è scelta la produzione di semi-lavorati metallici appena prima che chiudessero tutti i porti per la crisi petrolifera e che scoppiasse il problema arabo. Un investimento fatto nel posto più lontano possibile dall’Europa. Un vero disastro. Analoghe seppure non identiche sono state le esperienze di Gioia Tauro, dei poli energetici brindisini, dei poli di sviluppo napoletani e salernitani. E non sono state create le grandi infrastrutture che avrebbero invece potuto avere un senso. E’ l’insieme delle ragioni appena richiamate a fornire, almeno in parte, la spiegazione del declino del Mezzogiorno. Si pensi alla vicenda dei Porti. Mentre il resto d’Europa lavorava per migliorare la propria dotazione portuale ed aeroportuale e l’Italia stessa in alcune sue aree si muoveva in tale direzione ( Genova aveva iniziato ad investire dopo la crisi, Livorno diventava uno dei più grandi Porti del Mediterraneo, La Spezia rifaceva il porto), la Spagna stessa si attivava pensando sia al movimento delle merci che a quello delle persone, nel Sud una tale ipotesi di sviluppo non è stata mai presa in seria considerazione. Nel Mezzogiorno non c’è un solo porto degno di questo nome che serva da scalo merci e scalo passeggeri. Gli aeroporti di Napoli e Palermo non sono sufficienti alla gestione di grandi flussi di mobilità. Ancona è il porto che assicura il più ampio ed efficace collegamento con la Grecia. Il trasporto avviene tramite le vie dell’Adriatico. Per la Grecia ci sono solo alcuni, pochi collegamenti da Bari ma, soprattutto, da Ancona. Mancava la ferrovia. Fatta l’Italsider non sono state fatte le strade. Gli aeroporti sono recenti. A parte Napoli, che pure è insufficiente, si tratta di piccoli aereoporti. In tutto il Sud non esiste un aeroporto internazionale degno di questo nome, che permetta l’atterraggio di un Jumbo. Ciò vuol dire che i voli charter, organizzati su Jumbo, prendono diverse direzioni. Avendo il grande aeroporto si può fare come la Spagna che fa venire i charter da 400 posti dagli USA in Andalusia ed organizza un 262


turismo adeguato. Bari, Brindisi, Lamezia Terme, Palermo fino a pochi anni fa erano aeroporti neanche in grado di sostenere il normale traffico civile moderno. E’ sempre mancata, in conclusione, una logica di sistema, non incentrata cioè sulle singole opere spesso tra loro scollegate. Non è utile né produttivo, come invece potrebbe essere, investire su porti ed aeroporti non integrati a pieno con le reti ferroviarie primarie. L’efficienza del sistema economico e produttivo ne risulta verticalmente limitata. Problemi che ci siamo trascinati nell’arco di due secoli. Non aver puntato sullo sviluppo competitivo ha determinato il fatto che le aziende uscite per prime dal mercato, per il congiunto impatto dell’innovazione tecnologica e dell’assenza di nowhow, per il diverso meccanismo dei costi e dei i problemi legati alla distribuzione, da quelle tessili all’elettronica, sono scomparse. Sono rimaste poche ditte che, dopo un periodo di crisi, puntando ad un loro settore di nicchia, pian piano hanno superato le difficoltà, attraendo ancora per la tradizione e vocazione del Made in Italy. Hanno puntato sull’alta moda e si sono orientate verso produzioni di qualità di tipo nuovo. E’ quanto hanno fatto Bassetti o Della Valle, o il segmento del tessuto di biancheria per la casa, il letto, il bagno. Non si poteva certo competere con l’Est né con la Francia o la Germania. Sul cotone di altissima qualità, venduto a prezzo carissimo, chi ha fatto un poco di ricerca, investimenti in design, in gusto, in pubblicità ha ripreso in parte le quote antecedenti di mercato. In complesso il comparto si è però sempre più rimpicciolito. Per quanto riguarda un segmento produttivo particolare presente nell’area salernitana, ovvero l’artigianato tessile, la “ Moda Postano ”, con la sua unicità, ha rappresentato una situazione molto particolare per avere avuto un suo marchio, col tempo conosciuto in tutto il mondo ma rappresenta al contempo una situazione densa di contraddittorietà, in cui si spreca il lavoro nero e totale è l’evasione fiscale. Quel sistema produce capi di abbigliamento particolari che, se non sono prodotti a Positano, non li compra nessuno. In tal senso lavora in larga parte sul venduto. E’ però la stessa cosa dei tessuti provenzali, con le colorazioni ed i disegni particolari. Li potrebbero fare anche altrove ma hanno raggiunto un’esclusività che gli consente di reggere anche grazie ad una buona rete commerciale, ad una discreta collaborazione tra produttori, all’organizzazzione delle promozioni della moda di Positano nel Mondo, alle mostre. Positano è caso a sé; ricava un grande vantaggio dalla frequentazione di personaggi di rilievo internazionale che poi divengono veicolo di propaganda dei luoghi e dei prodotti. Sono in questo senso molto più intraprendenti dei ceramisti di Vietri. A proposito di quest’ultimo settore la ceramica di Grottaglie, ove si è capito che bisognava puntare sui mercati internazionali, fa molta pubblicità e promozione. E lo stesso fanno Faenza e Sassuolo. Piccoli distretti che lavorano bene. La piccola impresa che ha retto l’economia in Italia per tutto il periodo del boom economico è entrata in crisi alla fine degli anni 70 perché non era più in grado di competere se non grazie ad una serie di aiuti. E’ intervenuto il corporativismo dell’azione di governo 263


italiano con varie misure protezionistiche ogni volta che era possibile. E’ stata praticata la svalutazione della lira ed il meccanismo della fiscalità di vantaggio. Con l’Euro tutto è crollato. Nel Veneto oggi non a caso si assiste ad un processo di licenziamenti di massa. O ci si è spostati verso un mercato di nicchia forte dove si può competere o si muore. L’errore è stato il non aver considerato che dall’Ottocento in poi il Mondo iniziava ad essere dominato dall’economia capitalistica basata sulla ricerca, lo sviluppo e la competizione e che ciò poteva avvenire solo sulla base della capacità di innovare. La cultura d’impresa è mancata sia al Governo che agli imprenditori che, conseguentemente, alle OO. SS. Nel Sud il Sindacato ha avuto un’azione essenzialmente incentrata sulle rivendicazioni salariali, tipicamente bracciantile, che si è progressivamente estesa anche ai comparti industriali. Un grave limite in quanto ad un certo punto della sua storia il Sindacato non ha dimostrato una sufficiente capacità di imporre un confronto su un progetto. Al di là della rivendicazione di tipo salariale, c’era poi da contrastare il fenomeno della sempre più diffusa erosione della base lavorativa, della perdita di posti di lavoro. La capacità di condizionamento sindacale non è scindibile dall’andamento del ciclo economico. La spinta rivendicativa ha preso spesso troppo spazio e ciò ha portato di frequente a dei cattivi contratti, schiacciati sull’aspetto retributivo, con la conseguenza di un processo di più estesa corporativizzazione della società italiana. Più urgente appariva evitare la chiusura delle fabbriche. Due posizioni difensive quindi. Una verso la propria base, l’altra verso la società nel suo complesso. Il problema è diventato quello di difendere tutto, spesso a prescindere dall’analisi di merito delle cose. Difendere la Fiat, difendere l’Italsider. Gli anni 70 per più ragioni sono stati quelli decisivi. Si è poi accettata una situazione di cogestione, un poco finta, per esempio in un settore chiave come quello della formazione. Non c’è un tavolo di Regione meridionale con all’ordine del giorno il tema della formazione professionale. Fondi disponibili distribuiti in mille rivoli, senza nessuna indicazione di priorità. Responsabilità non solo del Sindacato ma anche e soprattutto politica. Più concause con una comune radice, ovvero l’incapacità di pensare in termini di “ progetto ”, di programmazione pluriennale rivolta al futuro del nostro Paese. Gli anni 50 e 60 sono stati anni troppo “ dorati ” ed hanno nascosto i problemi. Il PIL -come si è ricordato in premessa- cresceva allora ad un ritmo di oltre il 5% all’anno, più che in Germania, in Usa, nel Regno Unito e nella Francia (il Giappone intanto procedeva al 10% all’anno). Dopo il 1973 in tutti i paesi citati il PIL si è dimezzato in termini di tasso di crescita annuale. Il Giappone dal 10% passa al 5%. L’Italia dal 5% al 2, 5%. L’incapacità di pensare in termini di progetto ha comportato la contrazione del mercato interno (nel boom siamo andati avanti grazie ad un mercato interno in grandissima espansione, alla produzione ed alla vendita di frigoriferi, auto e televisioni) e si sono tenuti alti così i consumi. Un mare di persone dalle campagne alle città e nuovi consumi. 264


Abbiamo rigorosamente evitato di fare alcune scelte a partire da quella di capire su quali settori, nel lungo periodo, potevamo avere maggiori possibilità di espansione. (valorizzazione beni ambientali, archeologici, turistici, culturali). Abbiamo sottoutilizzato quanto non distrutto le risorse turistiche. Il Turismo richiede infrastrutture ma anche competenza e professionalità. E si sono indeboliti anche altri settori. L’agricoltura come tale e in specie quella di qualità era un’altra risorsa da potenziare. La Grecia e la Spagna hanno puntato molto sul loro olio e sul loro vino. La Germania produce una quantità di vino pari a quella della Puglia, cioè 10 milioni di ettolitri di vino all’anno, al 98% vino d. o. c. L’Italia produce invece solo il 10% di vino doc. Ecco la differenza. Non avere capito i settori da rafforzare e su cui puntare è stato l’errore più grave. Siamo rimasti ancorati al modello ottocentesco di industria fordista. In difesa dello stesso settore tessile si poteva fare di più, puntando sulla qualità, ma il settore ha avuto il grande problema di essere rimasto fuori dall’innovazione. Le aree periferiche nei periodi di contrazione dello sviluppo economico sono le prime a subire i colpi della crisi. E’ così scomparsa, come abbiamo ricostruito in questa trattazione, l’industria tessile nel Sud in ritardo sull’innovazione ed anche più lontana dai mercati. L’altra industria che non si è considerata è stata quella del commercio. Trenta anni di una politica di parte istituzionale, di parte sindacale e di lotte, arretrate, per difendere l’Italia dalla grande distribuzione, nel mentre altrove -ad esempio in Francia- si puntava su ciò con decisione. Il mercato interno, che ci ha tenuto in piedi nei due decenni del dopoguerra, con la crisi si è compresso. La folle politica di usare l’Euro per raddoppiare i prezzi, con il processo di forte speculazione cui si è assistito, ha compresso ulteriormente i consumi. Ed oggi, giorno dopo giorno, nuove aziende chiudono. Abbiamo puntato, come il Giappone, troppo quanto non solo sul mercato interno ma i giapponesi guadagnano in media 4 volte più di noi e quello è un paese di 120 milioni di abitanti. Oggi non ci sono più gli ombrelli protettivi di un tempo e, per di più, manca un’idea seria- di medio periodo -su come si determina l’accumulazione iniziale di capitali indispensabile agli investimenti. L’accumulazione originaria nel nostro paese è stata costruita grazie all’agricoltura. Oggi non si accumula niente ed il recupero di competitività non può avvenire. Gli anni 80 sono stati drammatici, più degli anni 90. Nel 1980 il nostro debito pubblico era al 60% del PIL, negli anni 1990 era il 101%. L’altissima crescita dell’indebitamento ha compromesso il destino dell’Italia. Anche all’inizio il processo di accumulazione non c’era stato o era stato insufficiente e ciò spiega la ragione per cui l’Italia è partita tardi e male. Torna qui un tema decisivo per le scelte istituzionali, industriali, sociali, il tema dell’agricoltura. In tutti i Paesi è stata la rivoluzione agricola che precede la rivoluzione industriale. In media la rivoluzione agricola anticipa, in tutti i paesi, di 30 anni la rivoluzione industriale. C’è stato un processo di miglioramento delle tecniche d’irrigazione, un 265


ampliamento delle colture e delle sementi. Il processo di accumulazione originario. La produzione alimentare agricola in Europa, per la prima volta da 10.000 anni, ha superato di una volta e mezza il fabbisogno alimentare, netto, della popolazione. Si è potuto avviare allora un processo di crescita della popolazione con la disponibilità di un surplus che consentiva di contrastare i periodi di carestia e permetteva al contempo di creare ricchezza. Con quella ricchezza è partita l’industrializzazione. L’Italia del Sud era l’Italia del latifondo. La produttività agricola era bassa. Non era la situazione della Val Padana dove in qualche maniera questo processo è stato ben più consistente. Nel centro-nord il processo di industrializzazione, grazie all’agricoltura più avanzata, è stato più rapido. Là gli agricoltori arricchiti sono poi diventati industriali e la stessa agricoltura si è industrializzata. Nel Sud d’Italia invece un tale processo non si realizzato per niente. Il capitale doveva per forza provenire da un’altra parte. O dal Nord o dall’estero o dallo Stato. Le premesse per un nuovo avvio dell’industrializzazione del Sud non esistono neanche oggi. La rete produttiva nel Mezzogiorno si basa infatti essenzialmente su una miriade di piccole e piccolissime imprese, con poche e significative eccezioni, e sul terziario o sui servizi pubblici, e poi su quel segmento che rientra nell’artigianato anche se proprio artigianato non è. I gommisti, i fabbri sono infatti espressione di un artigianato sui generis. La conseguenza è la disoccupazione strutturale che presumibilmente si protrarrà per decenni e decenni, fino a quando non si punterà su alcune precisi settori e prospettive di sviluppo che potranno svolgere funzioni di trascinamento, più generale, dell’economia e dei consumi. Per fare questo occorrono anzitutto che le istituzioni e le parti sociali si muovano insieme in una comune direzione scegliendo di investire in now-how, nel capitale umano, in ricerca e sviluppo; che si apra un reale dibattito sulle direzioni da scegliere e gli obiettivi da privilegiare perseguendoli con decisione nel medio e nel lungo periodo. E ciò al fine di pervenire a forme di specializzazione produttiva, di rilievo almeno nazionale, che consentano un salto in avanti a tutta la situazione.

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045.SALERNO E LA SUA PROVINCIA : PROGRESSO O DECLINO? CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Per quanto concerne, infine, l’attuale condizione dell’industria a Salerno si può per grandi linee rilevare come, dopo la pressoché definitiva scomparsa della grande e media impresa d’antica tradizione e dopo l’entrata in crisi delle strutture industriali sorte in coincidenza con la fase della politica dei “ poli di sviluppo ” si è assistito ad una mutazione profonda e radicale dell’assetto esistente in precedenza. La deindustrializzazione ha eliminato pressoché del tutto la presenza di nuclei operai compatti e concentrati al punto da fare da più parti ritenere improponibile un’aggiornata riedizione di quel tipo di modello di sviluppo. Non è scomparsa del tutto qualsiasi traccia dell’industria in quanto tale ed anzi si è creato un nuovo ceto imprenditoriale salernitano ma una vera e moderna cultura dell’industria in quanto tale oggi non c’è. Continuano a resistere pochissimi e circoscritti settori di nicchia con un proprio marchio ed una capacità di presenza sul mercato, ad esempio nel settore alimentare con Amato, ma non è sorto niente di simile ad un distretto industriale con specializzazioni definite e d’avanguardia , né nei comparti tradizionali né in settori nuovi e innovativi. A Salerno oggi è piuttosto presente un’imprenditoria di piccole e medie imprese a base essenzialmente locale che sconta pesantemente il limite che si trova di fronte chi vuole fare impresa nel territorio. Un’impresa che opera a Salerno dipende, per l’80%, da altre imprese del Nord tranne , forse, nel settore conserviero. L’acquisto dei macchinari rappresenta un onere potente, non esiste una forte rete d’indotto, né una robusta struttura di commercializzazione. Se una macchinario ha un guasto il tempo ed i costi di riattazione sono fino a 3-4 volte più lunghi ed onerosi. Una delle differenze sostanziali dell’industria salernitana rispetto al Nord consiste nel fatto che lì c’è un now-how circolante, con la presenza di professionalità “ alte ”molto più mobili che in qualche modo garantiscono il mantenimento dei livelli d’innovazione raggiunti. Se a Pavia serve un bravo tecnico lo si prende da Milano pur dovendolo pagare di più. A Salerno il bacino di selezione è invece molto più ristretto e ciò costituisce un freno, un’ ulteriore difficoltà nello sviluppo. Le imprese della provincia di Salerno hanno una forte difficoltà nell’allacciare e mantenere aperto un dialogo col mondo e sono, in larga parte, schiacciate sulla dimensione del mercato locale. Un imprenditore che agisce sul nostro territorio deve acquistare fuori le materie prime ed inviare fuori le proprie produzioni. I costi generali diventano così ben più alti di quelli delle aziende del Nord sia per la 267


lontananza dai principali centri di mercato sia per il fatto che è ancora troppo forte l’arretratezza delle infrastrutture materiali locali. Il Porto permette un buon livello di trasporto delle merci e ciò consente ancora di mantenere un buon livello di competitività. I costi sono in media inferiori di un terzo rispetto al trasporto su gomma ma è altresì evidente che il bacino del Mediterraneo non assicura un valore di mercato equivalente a quello del Centro Europa. Ulteriore problema, come prima si è spiegato, l’accentuazione del fenomeno della delocalizzazione produttiva. Per un piccolo imprenditore locale può essere conveniente pensare al decentramento produttivo in paesi dell’Est come la Romania. L’Unione Industriali di Vicenza ha già creato in Slovacchia un polo industriale. 60 piccoli imprenditori si sono insediati in un’area industriale attrezzata sotto l’ombrello protettivo di quello Stato. Hanno avuto il suolo a 3 Euro a mt. quadri nel mentre qui costa in media 100 euro. Poi l’approvvigionamento energetico viene assicurato alle imprese a costi assai più bassi La rapidità nelle decisioni è un ulteriore elemento di handicap per il mezzogiorno, per la Regione Campania e la Provincia di Salerno. Un insieme di ragioni che rafforzano la convinzione dell’utilità di dirottare gli investimenti altrove. Noi viviamo attualmente una fase di profonda crisi strutturale, ben più marcata di quanto avviene altrove e perciò un imprenditore di qualsiasi zona del mondo che intenda creare un’impresa non sceglie il Sud d’Italia o la provincia di Salerno per il fatto che un suo eventuale investimento gli appare ben più rischioso. Il persistere di una sostanziale assenza di coordinamento e di collaborazione tra imprese locali ed Università è l’ulteriore aspetto ostativo all’attecchire, al crescere ed al consolidarsi di una nuova, moderna e competitiva idea di nuova e vincente industrializzazione. L’università non rappresenta un bacino da cui l’industria locale possa attingere adeguatamente. I Laureati o i giovani ricercatori, già di per sé limitati nel numero, hanno in genere scarsi rapporti col mondo delle imprese e, a parità di salario, preferiscono optare per il lavoro in imprese di prestigio, come la IBM, piuttosto che con un’impresa di Salerno. Pur dovendo affrontare per tale ragione forti sacrifici, l’impresa già affermata sembra fornirgli maggiori garanzie di sicurezza per il futuro. Manca, per così dire, un orgoglio di appartenenza all’apparato produttivo locale, vissuto come qualcosa di assolutamente estraneo. In qualunque impiego un giovane chi si sente valorizzato ed incentivato rende di più anche se possiede una laurea breve e un tasso di specializzazione inferiore. I nostri giovani ricercatori andrebbero inviati all’estero per farli crescere ma , soprattutto, dopo avere investito su di loro, bisognerebbe assicurargli la certezza del ritorno. L’assenza di sinergia e di collaborazione sistematica tra imprese locali ed istituzioni universitarie non ha ancora consentito di prendere in seria considerazione l’utilità di realizzazione di una simile idea, semplice ed in prospettiva utile e vincente. Manca infine un livello accettabile di aggregazione tra imprese , un fattore anch’esso decisivo ed un limite grave. E’ infatti evidente come il persitere chiusi nella propria piccola ed esclusiva dimensione non basti più e come invece andrebbero rapidamente 268


accelerati i processi di aggregazione e di fusione. Su ciò è indiscutibile il sussistere di un grave limite imprenditoriale, che non nasce oggi. Nella nostra realtà ha storicamente pesato, in negativo, l’ eccessivo individualismo e l’indisponibilità ad ascoltare l’altro, diversamente da quanto, invece, è accaduto in realtà come l’ Emilia. L’industrializzazione nel Mezzogiorno ed a Salerno è avvenuta, come si è detto, in buona parte, “dall’alto”. E’ mancata una forte sinergia interistituzionale e non è mai stata scelta una sicura strategia. L’Europa contemporanea presenta differenze interne significative nello sviluppo economico. L’Irlanda ha avuto negli ultimi tempi importanti successi in quanto ha attivato un’agenzia di sviluppo per attrarre investimenti puntando su due fattori : la rapidità dei tempi d’insediamento delle imprese e la leva fiscale. L’Irlanda infatti offre una tassazione del reddito d’impresa al 12% nel mentre nei paesi di nuovo ingresso nell’Europa la media è intorno al 17% e nel Mezzogiorno è addirittura del 40%. Per una serie di ulteriori tassazioni indirette finisce per arrivare al 53-54%. 210 L’Irlanda è una nazione di 4 milioni di abitanti nel mentre la Campania, da sola, ne ha oltre 6. L’Irlanda è stato singolo e da noi non è possibile praticare la differenziazione del reddito d’impresa tra le diverse regioni. La Spagna a sua volta è stata la nazione che negli ultimi anni ha realizzato il livello di crescita e di sviluppo tra i più significativi d’Europa, favorita in ciò anche dalla politica praticata da una classe dirigente giovane che si è caratterizzata per la rapidità nelle decisioni e nell’abilità dell’uso delle risorse comunitarie. In Italia si è al contrario avuto il limite costituito da un eccesso di garantismo e di legislazione ed è risultata negativa la creazione di un apparato amministrativo gigantesco ed assai gelatinoso, con meandri di leggi nelle quali è grande la difficoltà di districarsi. La scarsità delle risorse disponibili impone la responsabilità di operare scelte e di concentrare gli sforzi su pochi e precisi punti e settori a partire dall’individuazione delle potenziali aree di sviluppo ed in tal senso nel prossimo futuro la Regione Campania dovrà considerare necessariamente ed in via privilegiata le aree a sud di Salerno così da favorire il decongestionamento dell’area napoletana. E’ già stato ricordato, a proposito della politica della formazione nelle regioni meridionali, come essa abbia rappresentato, per come è stata fatta, una obiettiva distrazione di risorse. E’ una questione importante e decisiva che non può in alcun modo prescindere dai bisogni reali del territorio. A Salerno abbiamo avuto unità produttive più che imprese e l’unità produttiva aveva convenienza fino a che era redditizia per il gruppo ed ha agito fino al momento in cui ha potuto disporre di svariati vantaggi, per i suoli, i macchinari, gli incentivi. 210

Osservazioni del Presidente Assindustria di Salerno esplicitate nel corso di un cordiale colloquio avuto con lui l’8 luglio 2005. 269


A Salerno e nel Mezzogiorno non si è mai storicamente e per davvero radicata una propensione ed una cultura del lavoro industriale. C’era stata un’attività industriale anche sotto i Borboni ma il Sud, a differenza del Centro-Nord, aveva una radice in larga prevalenza agricola e contadina e l’attività dei contadini era legata alla variabile indipendente costituita dalle condizioni metereologiche ed atmosferiche. Il guadagno era circondato da incertezze. Il raccolto poteva essere scarso o buono. Ciò ha col tempo generato un modo di pensare, una “ cultura ” per cui i figli avrebbero dovuto avere minori insicurezze dei padri. Dovevano perseguire la certezza del “ posto fisso”. Si è così verificata una rincorsa al pubblico impiego ed al posto fisso ed alcuni settori hanno finito per essere sovradimensionati. Ciò si è coniugato con una estesa pratica politica clientelare volta alla creazione ed al mantenimento del consenso. Nel Veneto c’era invece un radicamento ed una più forte propensione verso il lavoro in fabbrica e la bassa scolarizzazione era compensata da un maggiore pragmatismo. E’ inoltre esistita la tendenza ad emulare l’altro che è riuscito a realizzare il suo progetto, che ce l’ha fatta. Invece al Sud appare più diffusa una cultura per cui non si ha piacere per il successo del vicino, una cultura del sospetto. Al Nord, nel Veneto e non solo, le piccole imprese sono nate dai capi-officina che si sono messi in proprio. La popolazione che poi ha lavorato nelle imprese meridionali e salernitane è venuta dalla campagna. Al Sud l’assenteismo è stato più elevato rispetto al nord ed assai spesso dovuto al lavoro esterno, a partire da quello nel piccolo appezzamento di terreno, che facevano gli stessi operai. L’errore d’origine è stato di non avere scelto in relazione alle situazioni in precedenza esistenti puntando sulla specializzazione. Forse è tardi ma questa dovrebbe essere la strada obbligata. La ricostruzione per grandi linee proposta di alcuni importanti e peculiari snodi della vicenda dell’impresa manifatturiera salernitana si confonde con un pezzo importante della storia della comunità locale e ci consente di indulgere in alcune, conclusive, riflessioni. In un’economia sempre più globalizzata in cui è il mercato l’elemento destinato ad assumere funzioni selezionatrici e tali da determinare morte o sviluppo delle imprese, è perdente qualsiasi linea ostativa alla realizzazione di periodici processi di innovazione tecnologica e produttiva. L’accelerazione governata dei mutamenti tecnologici è anzi fattore, decisivo, per la crescita della produttività ed altresì elemento, indispensabile, per consentire di reggere sul piano della competizione tra le imprese e, più in generale, tra distinti sistemi territoriali, a loro volta inseriti e valutati in definiti schemi comparati. E il mutamento tecnologico, con le sue applicazioni, è sempre fattore decisivo per la crescita della produttività. Se la produttività diminuisce o non aumenta allo stesso ritmo ed in equilibrio con le aziende ed i sistemi territoriali più evoluti, ciò vuol dire che, nel più generale sistema d’impresa esaminato si è avuta una qualche strozzatura, sintomo di condizionamenti destinati a riproporsi, in termini fortemente penalizzanti, nel medio e lungo periodo.

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Dovrebbe a questo punto risultare chiaro cosa non è andato nel verso auspicato nella storia dell’impresa manifatturiera locale al punto da determinarne la definitiva e comatosa messa in agonia. In primo luogo il non avere effettuato la scelta strategica d’incrementare, in modo massiccio, le conoscenze tecniche e scientifiche. E’ apparso, col trascorrere del tempo, chiaro come il gap fondamentale consistesse in una errata visione strategica, o addirittura in un’assenza di volontà d’introduzione di nuove, innovative idee e funzioni scientifiche e tecnologiche di cui il sistema industriale avrebbe dovuto giovarsi in relazione all’opzione, limpida, della scelta strategica del terreno della qualità quale proprio distintivo paradigma. Si è invece offuscata, divenendo evanescente fino a scomparire, l’idea di tentare di affermare un ruolo vincente dell’impresa manifatturiera locale accettando la sfida proprio sul piano della maggiore qualità. Altri sono stati i paesi capaci di assumere la direzione della nuova fase d’innovazione produttiva ed hanno colto, a tempo, il segno dei cambiamenti che iniziavano a realizzarsi. L’assoluta sintonia stabilita con gli indirizzi di linea politica generale assunti dai loro governi presumibilmente consentirà di mantenere, nei tempi medio-lunghi, la direzione dei processi di modernizzazione industriale. Nella nostra realtà territoriale d’altronde la perdita di funzioni produttive, di occupazione industriale tradizionale, non sarebbe stata compensata con l’acquisizione, parallela, di un ruolo di guida in differenti settori alternativi ed innovativi. Non si svilupperà pertanto alcuna importante novità in comparti destinati col tempo a diventare, nell’evoluzione delle società moderne, esemplificativi esempi della nuova rivoluzione scientifica e tecnologica. Siamo in sostanza rimasti fuori, come sistema paese, dai processi di sviluppo di società avanzate in buona parte ormai proiettate in funzioni post-industriali. Elettronica, telecomunicazioni, chimica, biotecnologie, ingegneria, robotica, e l’insieme di attività in vario modo legate al ruolo decisivo assunto, nelle sue varie sfaccettature, dal grande tema dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile. La grave deficienza d’origine, cui si è fatto cenno, non riuscirà a compensare, in alcun modo, il processo di crisi inarrestabile che con sempre maggiore nitidezza alla fine si è compiuto. Fatto è che l’economia italiana da vari anni è in piena stagnazione. La produzione industriale appare in costante flessione, con un calo di occupazione nell’industria medio dell’8, 4% dal 2002 al 2005. La previsione di crescita per il 2.005, poi confermata, è stata di un PIL a crescita 0. Se si confrontano i dati degli ultimi 30 anni appare evidente come non si sia mai prima verificata una congiuntura a tal punto negativa. Tra i vari settori produttivi un vero e proprio tracollo si è verificato nei settori delle pelli e delle calzature, con un calo dal 2000 al 2005 del 33,6% nel mentre per il tessile il calo medio è stato del 18,7% e per gli apparecchi elettrici e di precisione del 29,3%.Le imprese italiane dei settori della chimica, della farmaceutica, dell’elettrotecnica di alta qualità, della telefonia mobile, degli elettrodomestici sono controllate sempre più massicciamente da aziende estere. E’ cresciuta solo l’industria alimentare, con un incremento del 6,6%. In Francia e Germania la crescita della 271


produzione industriale è andata di converso in misura eguale all’aumento del Pil. Eguale appare la linea di tendenza per tutto il 2006. La crescita economica appare in Italia in sostanza bloccata. Problema evidentemente ben più ampio e generale, che al livello del territorio della provincia di Salerno, della Regione Campania o dell’intera Italia meridionale si propone in maniera ancora più accentuato. E che pone, in tutta evidenza, l’ irrisolta e strutturale questione della inadeguatezza del sistema - paese nel suo complesso con il potente ritardo, destinato ad accentuarsi ulteriormente, ove non si determini una repentina inversione di marcia, nel rapporto con le realtà più avanzate del continente europeo ma, in specie, con gli Stati Uniti d’America e con la sempre più aggressiva concorrenza asiatica. Negli Stati Uniti da decenni il numero di scienziati e di ricercatori sul complesso della forza lavoro, in termini assoluti ed in percentuale, è di gran lunga, il più alto tra tutti i paesi del mondo. I paesi dell’Asia, a partire dall’India, dalla Cina, alla Corea, ad Hong-hong sono a loro volta cresciuti, moltissimo, nel campo dell’innovazione tecnologica e nella produzione di brevetti al punto da recuperare in gran parte il gap negativo precedente. Essi hanno così finito per proporsi, con sempre maggiore decisione, quali nuovi leader dei settori della ricerca nel mondo. Procedendo in tal senso soprattutto la Cina sembra destinata a ricoprire, in pochi decenni, un ruolo di primissimo piano nel contesto globale diventando la nuova potenza egemonica e moderna nell’ambito di un mondo globalizzato. Ciò anzitutto nei tradizionali settori manifatturieri, a partire dal tessile ma non solo. La spesa, nel settore della ricerca e dello sviluppo, è già oggi infatti la più alta rispetto al PIL ed essa è, in termini assoluti, la più consistente rispetto a qualsiasi altro paese del Mondo211. La Cina inizia a porsi quale primo interlocutore politico, economico, industriale e commerciale degli Usa, del paese che a lungo ha potuto disporre di più brevetti pro capite rispetto a tutto il resto del mondo. 212 Le più invasive innovazioni, che hanno strutturalmente concorso al cambiamento degli stili di vita e di consumo e quindi sulla stessa natura del mondo in cui viviamo, dai personal computer, ai videoregistratori, ai chip ed ai transistor e a quanto altro ancora sono state, in sostanza, tutte invenzioni americane. Anche quando importanti ed innovative scoperte si sono realizzate in altre parti del globo esse, a differenza di quanto accade da noi, sono state immediatamente importate dagli U. S. A. E la diffusione di questi risultati è stata automaticamente utilizzata. In una teorica gerarchia tra i paesi nei quali ricerca e innovazione si sono sviluppate maggiormente il secondo posto è stato occupato non molto tempo dopo il secondo conflitto mondiale dal Giappone nel mentre, come si è detto, fortissima è, nel tempo presente, 211

Sul grande balzo della Cina e sull’irrefrenabile sviluppo della sua industria manifatturiera nel mondo vedasi in particolare il numero monografico n. 4 del 2005 di “ Limes”, “ Cindia- La Sfida Del Secolo”, in specie gli articoli di Luca Birindelli:” L’Ingloriosa parabola dell’Italia in Cina”alle pag. 225-231; di Giovanni M. Del Re, :” Il “pericolo giallo “ visto da Bruxelles”pp. 219-224;e quello di Giuseppe Cucchi, ”La Cina in fabbrica”, pp. 231-236. 212 Economic Report of the President, Washington, gennaio 1987, pag. 295. 272


la marcia della Cina. Oggi non esiste più il monopolio, unico, assoluto ed indiscusso che si poteva registrare nel più recente passato. Per incrementare la propria produttività le imprese devono acquisire, costantemente, nuove tecnologie investendo, con decisione, sulla propria forza-lavoro, in maniera da padroneggiare attivamente le innovazioni. Da quanto fino ad ora sostenuto ampliando appena un poco gli orizzonti oltre i nostri confini territoriali risalta, in maniera forte e stridente, l’elemento di obiettivo squilibrio ed arretratezza, per più ragioni accumulato, nella nostra provincia, nella Regione Campania ed in grande parte di tutto il Mezzogiorno. Il Sud d’Italia come si è visto continua, per più ragioni, a vivere un momento assai delicato, soprattutto per non essere riuscito, nel suo complesso, a determinare una più netta accelerazione sul terreno della crescita diffusa di un’occupazione ampia, solida, duratura, di qualità e non assistita in grado d’inglobare la grande massa di giovani scolarizzati nel circuito produttivo locale e territoriale. Eccezione pressoché unica l’esperienza di Catania. Alla pressione demografica si è aggiunta poi la necessità di una ristrutturazione profonda di tutto il vecchio apparato produttivo. Non poteva, come i fatti hanno dimostrato, affrontarsi e proporsi una credibile soluzione del problema del Mezzogiorno elidendo il nodo, dirimente, della competitività. Né era possibile procedere senza tentare di riflettere, criticamente, su una storia pregressa troppe volte caratterizzata da pratiche politiche assistenziali, protratte a lungo, che hanno comportato uno straordinario spreco di risorse pubbliche, con danni elevatissimi, difficilmente quantizzabili per le conseguenze sociali che hanno comportato. L’insieme degli interventi, di volta in volta approntati, non è riuscito nei fatti a ridurre in alcun modo il forte divario accumulato rispetto ad altre aree del centro-nord del Paese, dell’Europa, della parte del mondo produttivamente più evoluta. Una contraddizione, acuta, ed ancora più stridente se rapportata da un lato all’esistenza di alcune condizioni antecedenti, oggettivamente favorevoli a partire dalla capillare presenza di una manodopera potenzialmente valida che si è però trovata collocata in un contesto non recettivo. In esso contesto ha continuato a proporsi un complesso di diseconomie e distorsioni, nel sistema ambientale circostante, tali da risultare negativamente condizionanti la qualità della crescita, dello sviluppo, la competitività d’insieme del sistema. Fattori così penalizzanti che non hanno consentito di superare la contraddizione tra impresa che nasceva ed insufficiente contesto di efficienza ambientale, produttiva, sociale, istituzionale, culturale. La qualità dell’ infrastrutturazione globale del territorio circostante è risultata, e risulta ancora oggi, decisamente negativa e tale da incidere sulla capacità di strutturazione e sviluppo, duraturo ed equilibrato, del complesso di sistema. Il quadro di convenienze per potenziali investitori è ancora ben inferiore rispetto agli insediamenti realizzatisi in altre aree, ove un’impresa avverte di essere inserita in un contesto produttivo ed in un sistema di servizi territoriali organizzati ben più 273


stimolante e vantaggioso. L’occasione offerta dall’apparire delle nuove tecnologie e dalla loro estesa diffusione dovrebbe riuscire a rendere più economica la produzione, sia quella specializzata che quella caratterizzata da più segmenti decentrati. Dovrebbe essere accresciuta la dotazione di infrastrutture innovative nel territorio garantendone la più ampia e diffusione ed utilizzazione.. La formazione diretta ai giovani andrebbe decisamente qualificata e rafforzata in modo tale da consentire un loro inserimento più rapido, attivo ed incisivo nel mondo della produzione. Con tali interventi mirati potrebbe essere colmato, in un lasso di tempo relativamente breve, il grave ritardo che si è accumulato negli anni. Il Mezzogiorno ha tutte le condizioni di partenza per diventare, in futuro, una grande occasione per l’Italia e per la stessa Europa, in termini di occupazione e di sviluppo. E’ naturalmente necessario rafforzare collaborazione e sinergie di tutti i soggetti e dell’insieme delle attività che allo sviluppo del territorio possono concorrere. E’ decisivo un riassetto equilibrato del territorio, dalle aree urbane ai centri intermedi, all’area costiera ed a quelle collinari e di montagna dell’interno. Le grandi metropoli dovrebbero continuare ad essere oggetto di forti interventi di risanamento. Il turismo, l’ambiente, il mare, i territori di collina e di montagna, i beni culturali potrebbero di per sé costituire, ben diversamente da quanto si è riuscito a fare nel corso degli anni, un’insieme di risorse assai preziose e decisive, un primo e potente elemento di caratterizzazione locale e di area destinato a diventare volano decisivo per la crescita dell’occupazione. Un campo, questo, restato a lungo sotto utilizzato ed in larga parte sottovalutato dalla classe politica. Ed infine si deve considerare un ulteriore e preoccupante elemento. Abbiamo una nuova situazione dal punto di vista demografico. Il nostro è un paese che invecchia rapidamente. Pur con altalenanti avanzamenti il problema più serio che travaglia la comunità nazionale, e soprattutto il Mezzogiorno d’Italia, continua ad essere quello dell’alta disoccupazione, in specie giovanile. Il costante tasso di disoccupazione è anche il riflesso dei profondi cambiamenti che hanno investito la società. Si è diffusa, più che nel passato, la domanda di lavoro. La maggiore propensione al lavoro è senz’altro un fattore positivo, l’indicatore di una esplicita volontà d’inserimento di donne ed uomini nel mondo della produzione e della ricerca d’una propria autonomizzazione rispetto alla famiglia d’origine. Un importante sintomo, in ogni caso, di crescita e di maturazione di mentalità. Nodi però non affrontabili con l’improponibile idea di una ulteriore spropositata dilatazione del settore pubblico, usato spesso negli anni passati quale strumentazione calmieratrice rispetto alla perdita di posti, percentuali ed assoluti, determinatosi nell’impresa manifatturiera pubblica e privata. Le politiche assistenziali che si sono succedute hanno finito obiettivamente per ampliare -a dismisura- la spesa pubblica, non riuscendo al contempo a contenere la disoccupazione con la creazione di un’ occupazione stabile e duratura il cui incremento può derivare soltanto dalla crescita economica e dal perseguimento di un incremento della produttività del sistema nel suo complesso. I cambiamenti profondi 274


negli apparati produttivi dei maggiori paesi industrializzati esigono che si attui -con celerità- un cambiamento nella modernizzazione e nell’adeguamento del sistema scolastico e formativo complessivo. Bisogna puntare, con grande decisione,alla crescita qualitativa del prodotto finale della “ risorsa scuola”. E va intrecciato, sempre più e meglio, il rapporto integrato tra sistema formativo -ai vari gradi e livellie contesto territoriale circostante. Il percorso di formazione e adeguamento professionale deve essere continuo, aderente, sintonico ed anzi anticipatorio dei processi d’innovazione che si affermeranno nelle realtà più avanzate del mondo. Le risorse da impiegare dovranno pertanto essere prioritariamente impegnate ad accrescere la qualità del prodotto della scuola e della formazione di qualità. Preparare i giovani e le loro coscienze in formazione a percorsi di conoscenza e sperimentazione che, nel concreto, consentano loro di acquisire le maggiori e più aggiornate competenze, conoscenze, capacità di flessibilità e di adattamento in ognuno dei campi in cui si intenderà operare. E tutto ciò senza che si accentui, ulteriormente, l’attuale condizione di precarietà ed insicurezza nel rapporto dei giovani col mondo del lavoro. A tale proposito è utile ricordare come da alcuni anni si è particolarmente espansa a dismisura la proliferazione di distinte tipologie contrattuali. Oggi è possibile assumere, in seguito alle varie misure introdotte nelle regole del mercato del lavoro, attraverso ben 48 distinte forme di contratti di lavoro “ flessibili”. Alcune di queste modifiche erano già state introdotte dal “ Pacchetto Treu” del 1997 ma esse si sono poi particolarmente dilatate grazie alla legge 30/2.003. Meccanismi di assunzione, per pochi mesi o addirittura per pochi giorni, cui ormai si ricorre sempre più di frequente e che, come appare del tutto evidente, accentuano tutti gli elementi di precarietà e di insicurezza in strati sempre più ampi di giovani lavoratori che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro. Nuove modalità d’impiego che non prevedono alcuna forma di tutela e salvaguardia normativa e salariale nelle fasi intermedie di passaggio da un lavoro ad un altro.213 E’ evidente come una tale situazione di lavoro perennemente instabile renda sempre più difficile progettare un percorso di vita futura. In ogni caso, per un insieme evidente di ragioni, istruzione e formazione permanente sono i fattori strategici, obbligati e dirimenti, da cui non è possibile prescindere avviando un nuovo e più efficace progetto di crescita economica e dell’occupazione. Un’attenzione peculiare dovrà infine essere rivolta alla miriade di piccole imprese, rafforzandone la vitalità, aiutandone la coesione e la collaborazione. Il loro diffuso espandersi è fattore distintivo della diversità di fase rispetto a quella del periodo del grande sviluppo dei grossi complessi industriali manifatturieri di cui ci si è occupati in questa trattazione. Le imprese piccole, medie, grandi dovranno poter disporre, al medesimo grado, di un più rapido utilizzo delle nuove tecnologie. Il mantenimento e la crescita della loro vitalità, tutt’altro che scontata, appare quanto mai essenziale per la competitività della Nazione. 213

Problema di stringente attualità lucidamente affrontato da Luciano Gallino in “ Italia in frantumi” Editori Laterza, Roma-Bari 2.006. Il testo è composto dalla raccolta di vari articoli apparsi sulla stampa nazionale dal 2.002 al 2.005. 275


Oggi è di fronte al paese ed al mezzogiorno la grande sfida del mercato mondiale e della realizzazione dell’Europa Unita. La lunga transizione, istituzionale e politica, di questi anni merita uno scatto eccezionale d’intelligenza, d’impegno e di passione di tutte le componenti culturali, politiche, imprenditoriali, del lavoro della nostra società nazionale. Non si tratta di impegnare il governo a spendere più soldi. Pare piuttosto necessario optare per scelte che prevedano la rinuncia a qualche cosa in modo da destinare le risorse risparmiate su alcune voci di spesa, selezionate e precise, che possano consentirci di accrescere la nostra presenza sui mercati internazionali. Una spesa perciò diversa, a parità di risorse impiegate, non aggiuntiva a quella che il paese, per i vincoli che ha deciso di accettare, si può consentire. Si può forse ancora puntare su singoli microsettori. Possiamo ancora recuperare spazi in alcuni segmenti in modo da riconquistare posizioni di prestigio tali da essere annoverati tra i leader mondiali. In tale quadro è possibile ad esempio riconsiderare il comparto delle biotecnologie o dell’elettronica in cui il paese inizia ad essere, su basi diverse dal passato, nuovamente presente. Un’opera nuova, di rinnovamento della nazione, un’azione tenace e chiara nei suoi proponimenti di fondo da vivere mobilitando le competenze scientifiche e professionali esistenti in modo da consentire al nostro paese di riprendere, ancora a lungo e bene, il posto che gli compete tra i paesi più civili, moderni, democratici, evoluti. 046. Postfazione di Guglielmo Scarlato.

POSTFAZIONE Piero Lucia mi ha appena consegnato le bozze della sua opera dedicata all’industria tessile ed alle lotte operaie in provincia di Salerno. Ho cominciato a sfogliarla e l’ho letta d’un fiato. Ciò perché contiene frammenti della mia vicenda umana e, prima ancora, di quella di mio padre. Ma ancor di più perché il lavoro ha lo stringente spessore scientifico proprio della storiografia unito alla passione divorante dell’autobiografia. Chiudendo l’ultima pagina, si ha la malinconica sensazione di aver seguito il racconto di un’ambiziosa ascesa e di un triste declino. L’industria tessile in provincia di Salerno aveva rappresentato un volano economico ed una prospettiva industriale inimitabile. Gli insediamenti degli industriali svizzeri potevano qualificare intere generazioni di mano d’opera, proiettandole verso una specializzazione d’avanguardia. D’altra parte, perfino la cura nell’architettura industriale e la particolare qualità delle produzioni davano la netta impressione che il settore potesse diventare un simbolo, un elemento d’identificazione, quasi un “must”. Ecco perché l’analisi dell’evoluzione ottocentesca di queste produzioni sofisticate è severa nello stigmatizzare lo sfruttamento intensivo della mano d’opera, perfino femminile ed infantile. E’ netta nel rammentare il frequente ricorso a bassi salari, ad una durissima disciplina ed all’applicazione di multe per evitare comportamenti non in linea con il rigore con cui il padronato svizzero interpretava il lavoro. Per altro verso, Piero Lucia sottolinea la propensione “ante litteram” per la continua ricerca di interventi innovativi, tanto negli impianti quanto nell’organizzazione:una sorta di rivoluzione produttiva fu garantita dalla sostituzione della forza motrice idraulica con le macchine a vapore. Ne scaturisce una puntuale e non contraddittoria sintesi storiografica di un’esperienza industriale che ha saputo 276


coniugare sfruttamento del lavoro e tecnologie d’avanguardia, prospettive di sviluppo per l’economia del territorio e opaco conservatorismo nella gestione della mano d’opera. A questo, Piero Lucia aggiunge un’analisi sociologicamente accurata del rapporto tra una comunità d’imprenditori, segnata dal respiro europeo e dall’etica protestante, e la dimensione locale. Ciò rappresentò un curioso “melting pot”, che se avesse resistito all’usura della storia, avrebbe potuto concedere spazi di modernità e di affrancamento ad una realtà d’impresa che ha spesso conosciuto una vocazione gregaria. Quivi si coglie tutto lo slancio di chi ricostruisce i primordi organizzativi attraverso i quali le società di mutuo soccorso assurgono progressivamente al rango di vere e proprie organizzazioni sindacali. Si passa dall’avvio di scuole serali, biblioteche, corsi di perfezionamento per artigiani ed agricoltori a strutture organizzate per la tutela dei lavoratori, troppo spesso sfruttati sino all’avvilimento della propria dignità. Nasce così un sistema di relazioni aziendali che evolve dal paternalismo e dall’autoritarismo a forme sempre più rigorose di tutela dei diritti. Naturalmente partiamo da condizioni di lavoro durissime : 12 ore al giorno e 4 in media per raggiungere a piedi la fabbrica dalle campagne e per tornare a casa; bambini di 5 o 6 anni impegnati per 12 ore al giorno; ritmi di lavoro spossanti; salari differenziati tra uomini, donne e bambini a fronte dello stesso sforzo lavorativo; nessun risarcimento per malattie ed infortuni sul lavoro; alcun reddito in grado di ristorare lavoratori anziani o espulsi dalle aziende; libertà insindacabile di licenziamento. Ecco spiegata l’autentica epopea con cui le rivendicazioni sindacali rincorrono l’obiettivo delle 8 ore e dell’obbligo del riposo settimanale. Considerare questo approdo l’esito di un conflitto che impegnerà il sindacato fino ai primi del ‘900 rivela come forme dignitose di esercizio del lavoro siano conquiste relativamente recenti, per quanto entrate nella normale biologia delle società occidentali, senza che nulla resti del ricordo di condizioni umane insopportabili da non consegnare alla notte dei tempi. Particolarmente felice mi è parso il racconto dello sciopero che bloccò la fabbrica tessile Wenner di Scafati per 134 giorni. Tanto, a seguito dell’inasprimento della tassa di famiglia, ma, successivamente, per il rilancio delle richieste basilari imperniate sulla giornata di 8 ore, sul riposo festivo e su aumenti salariali. Lo scontro si tinse di giallo, allorquando il treno della Circumvesuviana che trasportava molte operaie sul luogo di lavoro fu raggiunto da oltre 5 colpi di rivoltella e 3 giovani operaie rimasero ferite a causa delle scheggie dei vetri dei vagoni colpiti dai proiettili. Il processo per gli spari al treno si concluse con una sentenza di colpevolezza per i due dirigenti sindacali che avevano guidato la protesta e cioè Felice Guadagno e Raffaele Nitti. Inopinatamente severa la condanna a 4 anni di carcere per il Guadagno, che concorse a privare di direzione l’organizzazione sindacale, recando anche un segno di come la sede giurisdizionale di regolazione del conflitto sociale difettasse d’equilibrio nella scelta delle risposte repressive da assumere. La traccia ricostruttiva di Piero Lucia recupera, dunque, in un unico intreccio, l’evoluzione dei processi produttivi, il miglioramento delle condizioni di vita nei luoghi di lavoro dopo lotte e strappi ed il mutare del contesto sociale con il progressivo imporsi degli strumenti di garanzia offerti dallo Stato di diritto. L’opera saprà rispettare l’impegno civile e la fedeltà storiografica anche nella descrizione degli effetti d’incremento produttivo frutto dell’esigenza imposta dalla Grande Guerra, così come delineerà con cura la ristrutturazione imposta dal passaggio ad una nuova economia di pace. Colpisce, comunque, come, a fronte della volubilità dei tempi e della severità anche di certi passaggi congiunturali, si sia al cospetto di un settore produttivo pronto ad adeguarsi alla dura legge degli imperativi economici. In sostanza, Piero Lucia sembra descrivere un settore industriale capace di flettersi al cospetto delle crisi e d’impegnarsi ex novo, subito dopo averle superate. Ciò fino agli anni ’80, epoca nella quale assisteremo ad un crepuscolo apparentemente definitivo, ad onta dell’intervento pubblico, inizialmente avvertito come strategico e poi condannato all’abdicazione. Ed è proprio nella narrazione dei conflitti che hanno segnato l’ultimo trentennio del secolo scorso che la passione autobiografica di Piero Lucia manifesta i propri accenti più veri. Egli sarà sagace nel descrivere le rivolte della Piana del Sele 277


(Battipaglia 1969 ed Eboli 1973) come occasioni mancate per delineare una strategia coerente di sviluppo del territorio. Sconfinerà nella storiografia politica descrivendo i conflitti interni alla DC ed i diversi orientamenti con cui i leaders contrapposti tentavano di imporre i rispettivi radicamenti territoriali e le proprie letture del futuro. Da figlio, credo di aver colto, dietro la nuda cronaca con cui Piero tratteggia le giornate di Eboli, una qualche simpatia per il disegno strategico con cui Vincenzo Scarlato si proponeva all’interno di quel particolare scontro politico. Sarà che quel disegno fu sconfitto e ne segnò tutta la vicenda futura, sarà che il giudizio degli storici è tendenzialmente generoso con chi perde, così come è severo con chi vince, ma è certo che le pagine con cui Piero Lucia descrive le torride giornate di Eboli mi sembrano un omaggio a mio padre come tessitore di un progetto possibile che, se realizzato, avrebbe decretato un diverso destino per il nostro territorio. Tornando al tessile, l’analisi dell’ingresso dell’ENI, l’approccio d’ampio respiro con cui si valuta il rapporto tra le Partecipazioni Statali e questo particolare settore produttivo rivelano ab origine tutto lo scetticismo con cui lo studioso si confronta con una realtà d’impresa che sembra più sintonizzata sulle emergenze politiche che nascono dall’evolversi dei rapporti di potere che su una vera programmazione imprenditoriale. Ecco, dunque, l’incedere di interventi che nel tentativo di salvaguardare una quota d’occupazione essenziale nel Mezzogiorno del nostro Paese finiscono per non innovare tecnologicamente la produzione ed il prodotto, caratterizzando gli stabilimenti locali come strutture gregarie al servizio di centri produttivi situati nel Nord del Paese. Il risultato, sia pure da diversificare per ciascuna azienda, diventa non esaltante e di corto respiro. Le maestranze non sono motivate, le produzioni non sono né strategiche, né infungibili. Inoltre, non si crea né una filiera,né un distretto industriale. L’idea di poter saldare in un unico intreccio simbolico il polo conciario di Solofra, il settore tessile di Salerno e dell’Agro Nocerino, il comparto moda di Postano, introducendo una suggestiva sintesi tra marketing territoriale e promozione di imprese sinergiche, non lievita. Si lascerà al declino lento ed inesorabile ciò che non appartiene ai disegni delle centrali governanti, siano esse pubbliche o private, non ricercando modelli d’impresa più adatti alle moderne sfide della fantasia. Per altro, se l’analisi descrive l’impietoso inaridirsi di un circuito non in linea con le richieste di mercato ed i tempi accelerati della produzione, sottolinea la qualità della proposta sindacale. Essa non si limita ad una asfittica protezione del posto di lavoro così com’è. Stimola, al contrario, l’impresa nella ricerca di soluzioni organizzative e moderne premianti la produttività. Si rifiuta di tutelare ogni forma di parassitismo ed alimenta, nella mano d’opera, forme di cooperazione con il disegno riorganizzativo che può scaturire da una sana collaborazione con l’imprenditore. Giunge, persino, attraverso l’apporto dei suoi uffici studi, a concepire e proporre una relazione evoluta tra impresa e territorio, tra prospettive di settore e bisogni di una comunità. V’è in questa sinfonia di occasioni mancate e di nostalgica rievocazione di un tempo nel quale il sindacato si segnalò per realismo e sapiente collaborazione con le istituzioni, una evidente insoddisfazione rispetto ad un presente che non si riconosce più come proprio. Piero Lucia si sente distante da una stagione nella quale le grandi organizzazioni collettive ( partiti, sindacati) hanno rinunciato a guidare e formare le generazioni. Una funzione rivendicativa, negoziale o di semplice raccolta del consenso costruisce caste professionalmente attrezzate, ma senza calore e senza passione. Così le comunità civili e quelle dei lavoratori vedono lacerarsi il comune tessuto sociale. Si smarrisce lo spirito di bandiera, i campanili si abbassano e vi sono sempre meno rintocchi di campana che chiamano a raccolta le comuni passioni. Per altro, anche l’impresa finisce per perdere la propria identità. Diceva Winston Churchill che “l’impresa privata non è una tigre feroce da uccidere; non è neppure una vacca grassa da mungere. Essa è un robusto cavallo che traina un carico molto, molto pesante”. Questa idea vera e sana d’impresa in una società, quale quella nostrana, rischia di non appartenere più a nessuno. Non a chi ricorda con nostalgia tempi di assistenzialismo più 278


generoso dell’attuale e pronto a compensare i deficit produttivi con iniezioni di pubblico soccorso. Non a chi professa forme accentuate di liberismo, salvo pretendere per sé settori di mercato sottratti alla regola della concorrenza e della competizione. Insomma, sembra che l’etica che appariva soffiare calore nelle vene dei vari attori chiamati sulla scena del conflitto sociale, abbia lasciato il posto ad un cinismo arido e distratto; e questo abbia indotto Piero Lucia ad un riesame di un tempo storico nel quale il ruolo del sindacato, in una difficile congiuntura, gli era parso consapevole e maturo. Ma forse dietro questa ricostruzione quasi epica del passato, come specchio concavo nel quale si proiettano i contorni incerti di un presente senza luce, si nasconde molto altro. V’è, probabilmente, il retaggio di un’aristocrazia del pensiero che sente aprirsi davanti a sé i vuoti dovuti all’assenza della proposta e dell’impegno civile. Le tante conversazioni che hanno preceduto queste note mi hanno consegnato il suo rammarico e le sue suggestioni: in questa miscela si fondono il dinamismo del militante ed il rigore del teorico. Ed ecco immaginata un’iniziativa politica, semmai con la regia dell’ente Provincia, che promuova il recupero ed il rilancio delle aree industrializzate con la legge 219/81, la cui infrastrutturazione ha aperto un libro fatto di speranze disattese e di vani conflitti interprovinciali. Ecco rimarcata la necessità di un rapporto costante tra territorio e Università che concorra alla continua formazione di forza-lavoro qualificata, ma più ancora al fiorire di un’imprenditoria evoluta, sostenuta dalla ricerca e sostenitrice della ricerca, svezzata dalla dipendenza esclusiva dai pubblici sussidi. Tutto ciò in una chiave che identifichi e valorizzi tutti gli elementi di riconoscimento e di lustro per una comunità ed un’area territoriale e li proietti in una dimensione internazionale. E’ la nuova frontiera del marketing territoriale, attraverso cui si inonda il circuito mediatico con messaggi espliciti e sublimali che alludono ad un’immagine suggestiva di una terra e dei suoi abitanti, sino a creare un’icona. Il cinema ha veicolato nell’immaginario collettivo il sogno americano. Ma prima ancora, nel ‘700 e nell’800, l’immagine planetaria della penisola italiana era portato dei grandi romanzi, nati dai viaggi di formazione in Italia, che rappresentavano il percorso obbligato di tutta l’aristocrazia europea e forse mondiale. Se Byron o Flaubert hanno reso l’Italia teatro dei loro intrecci narrativi è perché non potevano concepire uno sfondo migliore dei luoghi che ospitavano(ed ospitano) il più grande patrimonio culturale che l’umanità abbia mai prodotto. Il cruccio di Piero Lucia è che l’Italia delle 100 città, imperniata sulle specificità dei suoi campanili, delle sue produzioni territorialmente marcate, dei suoi distretti industriali armonici, delle sue filiere produttive integrate, possa smarrirsi in un crepuscolo indistinto. Così come il polo conciario di Solfora ed il tessile salernitano non hanno saputo coordinarsi in un profilo compatto, capace di una grande impennata e di una forte proiezione. E’ intrigante il modo con cui il gusto evocativo dello storico si fonde con il pessimismo della sua analisi di contemporaneo. Ne nasce una singolare equazione che coglie in una curiosa sintonia il declino di un settore industriale, l’inaridirsi di una moderna azione sindacale e l’assenza di un romanzo di forte impatto sul presente. Corollario forse non del tutto casuale a questo è la perdita di potere contrattuale della classe politica meridionale e, in particolare, campana. Piero Lucia ha conosciuto i tempi in cui Gava, Pomicino, Scotti, De Lorenzo, Di Donato, Conte, De Mita, Mancino, Bianco, Napolitano, Bassolino, Chiaromonte occupavano saldamente il centro della scena politica nazionale, sia pure con qualche sensazione di subalternità avvertita in area salernitana rispetto alle trincee più guarnite di Napoli ed Avellino. Ma se quelli erano tempi nei quali le province campane si misuravano su prospettive di sviluppo nelle quali tutti rivendicavano d’essere “polpa”, rifiutando l’amara sorte che spetta all’ “osso”, oggi si ha la sensazione che tutta la regione ( o forse l’intero mezzogiorno) sia tagliata fuori dalle linee-guida dello sviluppo, senza che il personale politico abbia adeguati strumenti per intercettare il declino.

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Insomma, leggendo il libro di Piero, mi sono nutrito delle sue parole e più ancora dei suoi silenzi. Il suo lavoro, infatti, è il compendio di una stagione incompiuta, di un’attesa delusa, di una speranza vanificata. Guglielmo Scarlato

Il settore tessile in Italia oggi: imprese del comparto moda in Italia : 79. 735 ( 600mila addetti) Imprese del comparto moda in Campania: 6. 568 Di cui - settore tessile : 1. 222 - settore confezioni : 5. 346 NB: assai difficile il calcolo esatto degli addetti a causa dell’eccesso di presenza di lavoro nero e sommerso. Comuni della Campania con maggiore numero di imprese tessili: Grumo Nevano, Aversa, Calitri, San Giuseppe Vesuviano, Sant’Agata dei Goti, San marco dei Cavoti Fonte : “ Il Mattino” del 3 Marzo 2005.

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047.

SCHEDE SUL SETTORE TESSILE

Il settore tessile- abbigliamento in Italia oggi. Il settore tessile –abbigliamento e calzature, circa 800. 000 addetti occupati a livello nazionale in 80. 000 aziende, ha oggi un attivo commerciale di 16 (sedici) miliardi di Euro, pari al 43% di tutto l’attivo commerciale dell’industria manifatturiera. Secondo l’Istat il 17% dell’occupazione complessiva, il 10% del valore aggiunto ed il 15% dei flussi commerciali con l’estero. Nonostante la pesante crisi che da tempo sta attraversando il settore resta un pilastro del made in Italy. Affanna però vistosamente : per il quarto anno consecutivo il sistema registra un forte indebolimento della struttura produttiva. All’interno di un sistema manifatturiero che segnala una generale difficoltà di tenuta ( la produzione media diminuisce dell’1% ed il fatturato a prezzi correnti aumenta poco più dell’inflazione), il settore della moda rappresenta la situazione più critica. La crisi non risparmia alcun comparto. Il più colpito è quello delle calzature (con il fatturato in diminuzione del 13%), ma la flessione riguarda anche il tessile ( -7%) e l’abbigliamento (-6%). L’export è diminuito di oltre il 3%. La dinamica degli scambi con l’estero è essenziale per il settore; la componente della domanda estera è infatti di poco inferiore alla metà della produzione (44%), quando in genere, negli altri settori produttivi si ferma al 30%. I risultati del 2004 seguono quelli, altrettanto negativi, dell’arco di tempo 2. 000-2. 003, quando l’occupazione si è ridotta di 75. 000 unità ( -8%), il valore aggiunto del 13, 4% e le vendite all’estero di oltre il 5%. Il peggioramento complessivo degli ultimi anni non ha però in sostanza modificato la struttura industriale del sistema, caratterizzato da un forte frazionamento dell’organizzazione produttiva ( nelle imprese fino a 20 addetti si concentra infatti il 46% del totale dell’occupazione totale). Nelle regioni meridionali prevale l’abbigliamento ( 56% degli occupati), nel Centro calzature e pelletterie ( 42%), il Nord invece è più specializzato nelle attività tessili ( 46%). Su “ L’Unità” domenica 6 marzo 2. 005 –.

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La crisi del tessile viene da lontano e dal 2.001 ha subito una forte accelerazione. Il drastico calo dei consumi si è innestato su un sistema già indebolito e la sfida dell’internazionalizzazione sempre più spinta si è scontrata con un forte ritardo dei processi innovativi necessari delle imprese nazionali molte delle quali hanno fatto la scelta di ripiegare sul mercato interno o, al massimo, europeo. Una scelta rivelatasi drammaticamente perdente. Tanto più di fronte ai nuovi mercati dell’Est Europa, dell’India e della Cina. La tenuta del Made in Italy è stata sempre garantita dai suoi caratteri di qualità e di eccellenza. La crisi congiunturale di questi ultimi anni è la più lunga degli ultimi 30 anni. Il settore è composto, a larga prevalenza, da manodopera femminile. Solo negli ultimi due anni si sono persi 56. 000 posti di lavoro col altri 95. 000 a rischio nel 2005. Negli ultimi 4 anni, calcolando anche il settore calzaturiero sono state 7. 500 le imprese costrette a chiudere. Al Made in Italy sono necessarie le condizioni di ingresso eguali per i propri prodotti per entrare nei più importanti mercati di sbocco come Cina ed India, a partire dall’obbligatorietà delle etichettature sui prodotti, sia in uscita che in entrata. Non si tratta di introdurre dazi ma di darsi regole, reciproche, che siano rispettate da tutti. Servono anche incentivi alle aggregazioni di imprese e forti investimenti per la formazione e la riqualificazione, con risorse per l’innovazione dei materiali e dei processi produttivi. Serve infine l’intensificazione della lotta alle frodi ed alle contraffazioni, sia quelle che vengono da fuori Europa sia quelle che si fanno sul territorio nazionale. Va sostenuta, in conclusione, la crescita del processo di internazionalizzazione. Prato, Biella, Como esempi di antichi poli produttivi e distretti industriali tessili. Nell’ultimo anno, nel 2005, in Italia si è fortemente accentuata la grave situazione di difficoltà del settore. In particolare è cresciuta a dismisura la quantità di prodotti tessili e dell’abbigliamento importati dalla Cina. Nel dettaglio secondo l’Istat nel febbraio 2. 005 l’import di tessile è aumentato del 63, 7% rispetto allo stesso mese del 2. 004; quello dell’abbigliamento del 41, 3%. Le importazioni dalla Cina per tutti i settori commerciali sono stati pari a 1. 151 miliardi di Euro nel mentre le esportazioni dall’Italia verso la Cina si fermano a quota 311 milioni. Nel gennaio 2005 si è registrato un calo dei consumi rispetto al gennaio 2004 del 2, 4% nell’abbigliamento, del 2, 7% nelle calzature, del 3% negli articoli tessili ( In “La Repubblica” del 24 Marzo 2. 005). Sono aumentate le spese per ristoranti e per prodotti legati alla cura del corpo, oltre a quelle della telefonia mobile.

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Il Tessile in Campania oggi Il dossier presentato dalla Cgia di Mestre , l’associazione delle piccole e medie imprese venete, a proposito della situazione del comparto tessile in Campania sostiene che le esportazioni, il numero delle imprese e dei lavoratori impiegati nel settore sono crollati negli ultimi anni. Le esportazioni dal 2. 000 al 2. 004 si sono ridotte del 29, 8%. Ha fatto peggio della Campania solo il Lazio, con il 31, 6%. La Sardegna ha ridotto le esportazioni del 29, 1%. In Campania dal 2000 al 2004 si è registrata una riduzione di 224 imprese regionali. Nel 2004 le unità attive erano 9. 424. Dal 2. 000 al 2. 004 c’è stata una riduzione del 2, 3% delle aziende. A livello nazionale, dal 2. 001 al 2. 004, le aziende si sono ridotte di 10. 387 unità, il 9, 1%. La Lombardia è la regione che ha registrato le difficoltà maggiori ( -2. 348 imprese, -11, 6% tra il 2. 000 ed il 2. 004) la Toscana ( -2. 239 imprese pari al 10, 1%) ed il Veneto (-1. 535, ovvero il 12, 2%). Gli addetti I posti di lavoro persi nel periodo 2. 000 -2. 004 sono stati 273. 926, sempre secondo il censimento Cgia di Mestre. Nel Veneto si sono perduti 88. 845 addetti, (il 45%), in Emilia Romagna 57. 024, (il 52%). In Campania si sono persi 16. 447 posti di lavoro, cosa assai grave se si considera il sommerso. In Campania nel 2. 004 gli addetti censiti sono stati 32. 724. In 4 anni ha perso il lavoro la metà degli addetti totali regolarmente censiti, il 33, 4%. La Campania è tra le regioni che hanno registrato il più grave crollo dell’occupazione. E’ per questo dato al quinto posto. Stanno peggio della Campania solo la Calabria ( 77, 4%), la Sicilia ( -65, 2%), L’Emilia Romagna (-52%), il Veneto ( 45, 6%). Il Lazio e la Puglia con il -10, 06% ed il -8, 8 % stanno molto meglio della Campania. Da “ Il Corriere del Mezzogiorno” del 9 Marzo 2. 005.

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Accludere alle schede esistenti, in parte su “tessile in Campania oggi”. Da seguire con attenzione è il tentativo di creazione, a Marcianise, in Provincia di Caserta, del “ Polo della qualità”. Si tratta di un’operazione localizzata nell’area ASI di Marcianise. E’ un centro poliproduttivo multifunzionale che punta alla creazione della cittadella dell’eleganza. E’ il tentativo di valorizzazione del “Made in Campania” che da oltre un secolo è simbolo di arte, creatività, tecnica sartoriale, in specie nel taglio maschile. Il “Polo”, sorto su 12 ettari di terreno e 131. 000 metri quadri di superficie utile, con sale attrezzate per sfilate di moda, eventi, riunioni, con intorno un’ampia area verde è stato ideato per offrire alla Regione un modello di aggregazione per le aziende che operano nel campo dell’alta qualità. Esso intende promuovere a livello internazionale la conoscenza di aziende produttive di alto valore. Essa potrà ospitare fino a 400 imprese con l’esposizione delle loro produzioni. Hanno già aderito grandi firme napoletane e campane come Mario Valentino, Kiton, Rubinacci, Eddy Monetti. Oltre che i servizi il “polo” intende fornire un supporto utile al consorzio di piccole e medie imprese del sistema moda per favorire la loro crescita sui mercati mondiali. L’obiettivo è diventare parte integrante del più qualificato del Sistema Moda Italia. Guglielmo Aprile, Presidente del “Polo della qualità” prevede per il Giugno 2006 l’inaugurazione della cittadella del lusso. A supporto del progetto dovrebbe anche sorgere una rete televisiva all’interno della struttura, per aiutare in modo sistematico, le azioni di costante ed indispensabile promozione. Si trasmetterebbero così in tutto il mondo, in tempo reale, le sfilate e le altre iniziative sviluppate nella struttura. Un progetto su cui è previsto un investimento di 150 milioni di Euro. curato dall’Unione Industriali della Provincia di Caserta, ( Notizie tratte dal Supplemento al “ Mattino” “Caserta dossier economia” dell’8 luglio 2005. (art. Lidia Luberto)

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Le Manifatture Cotoniere Meridionali oggi Le Manifatture Cotoniere Meridionali nacquero per iniziativa dello svizzero Giacomo Meyer che, associatosi agli inizi del XIX secolo con Giovanni Rodolfo Zollinger, avevano costituito nella Valle del Sarno una piccola impresa familiare. Grazie alla buona qualità dei tessuti l’azienda aveva progressivamente incentivato la propria capacità produttiva divenendo, in un arco di tempo relativamente breve, la più importante impresa tessile dell’Italia Meridionale. Si sono già esaminati, nella parte iniziale di questa trattazione, snodi fondamentali della sua storia.

tappe essenziali e

Nel 1996 l’azienda è rilevata dall’ENI dal gruppo che fa capo a Gianni Lettieri. L’impresa presentava in quel momento un deficit di 19 miliardi di lire, con 480 lavoratori in cassa integrazione. Da allora consistenti investimenti finanziari ed obiettivo impegno della proprietà subentrante hanno consentito di portare il fatturato a 50. 000. 000 di Euro, con l’ immissione in attività di circa 430 addetti. Il vecchio numero dei cassintegrati è stato quasi del tutto assorbito. L’attività aziendale della MCM si presenta divisa ora in questi settori:lavoro in conto terzi; indirizzato essenzialmente al processo di nobilitazione dei tessuti con varie tecniche di finissaggio e “denim”, che consiste nella lavorazione e commercializzazione di tessuto in cotone per jeans, detto appunto “denim”, la cui produzione avviene nello stabilimento di Calitri ad opera della controllata CDI Surl. L’attenzione alle esigenze del mercato, unita alla costante ricerca di proposte stilistiche in sintonia con le domande del pubblico, costituiscono i punti fondamentali su cui si è tentato il rilancio delle MCM. L’aspirazione dichiarata dall’azienda è quella di perseguire la qualità anche con un nuovo impegno nel campo della ricerca. Il ciclo produttivo dello stabilimento di Fratte si articola in diverse fasi quali il “bruciapelo”, la “ sbozzima”, il “candeggio”, il “mercerizzo”, la “tintura”, la “Stamperia”, il “Finissaggio”. Con la fase di finissaggio il tessuto acquista gradevolezza al tatto, indossabilità, performance tecniche. I metodi usati si differenziano per trattamenti con sistemi meccanici o chimici. Svariate le macchine utilizzate per il finissaggio. Tra le più importanti le “ramose”. Nelle MCM ce ne sono quattro. Il primo stadio di lavorazione della fibra per le successive lavorazioni è combinare le diverse qualità di cotone per ottimizzarne le caratteristiche. Ci sono poi le fasi di apertura e pulizia, dove sono miscelate -sempre più strettamente- le varie qualità di cotone: durante questo processo le fibre corte o deboli, cioè quelle di minore qualità, sono eliminate ed è utilizzata solo la parte migliore e più omogenea del cotone. L’apertura della fibra avviene con prelevatori automatici che, dopo il passaggio in particolari miscelatori-pulitori, inviano il cotone direttamente a macchine-card computerizzate ad alta velocità. Un doppio passaggio agli stiratori, per ottenere una 285


mischia più omogenea, ne garantisce una migliore qualità e il passaggio dei nastri dagli stiratori ai banchi a fusi precede la filatura ad anello che rappresenta il cuore del sistema. Qui si ottiene la definitiva filatura detta “rings”, di ottima qualità, una delle principali caratteristiche della CDI, l’azienda del gruppo “Lettieri” finalizzata alla produzione del denim per jeans. Il filato ad anello, più morbido e resistentee più adatto alla tintura indaco ed allo stone-washed risulta infatti il più indicato a produrre l’autentico tessuto jeans. Quanto allo stabilimento CDI di Calitri esso comprende magazzino cotone, filatura, tessitura, tintoria, finissaggio, magazzino prodotti finiti. L’impiantistica è moderna e sofisticata. Dispone anche di un impianto all’avanguardia di cogenerazione, che soddisfa tutti i bisogni di energia termica ed elettrica. Si tesse un denim di altissima qualità grazie ad un modernissimo ciclo integrato, dal cotone al prodotto finito. Si tratta dei jeans dei pionieri del vecchio west. (articolo di Claudia Marra, “ Il Mattino” di giovedì 3 marzo 2005). Nella stessa pagina del giornale napoletano compare un’intervista di Giustino Illiano, direttore della Calitri Denim Industries in cui si precisa ancora che l’azienda ha una superfice di 85. 000 mq, di cui 35. 000 coperti e che fa capo al gruppo MCM di Lettieri. In provincia di Avellino produce tessuto per jeans di tutte le marche più conosciute. La maggior parte del loro denim finisce sui jeans che diventano i Wrangler ed i Levi’s. Una forte quota di denim è venduta negli USA, un’altra parte ai paesi europei. Solo il 30% è utilizzata per il mercato interno. Secondo Illiano per competere è decisivo innovarsi continuamente e fare costantemente ricerca. L’azienda di Calitri è nata nel 1990 con i finanziamenti del dopo terremoto per quell’area e produce, giornalmente, tra i 35. 000 ed i 40. 000 metri di tessuto. Il fatturato è di cinquanta milioni di Euro. L’idea è stata quella di fare un tipo di denim morbido come quello dei cow boy. Un denim lavorato con filato detto rings (tipica lavorazione denim ad anello) più morbido di quello prodotto negli anni 80, l” openend”, più economico del primo ma meno nobile. Lettieri ha avuto l’intuizione di tornare all’antico “rings” ed è stato il primo ad inserire nell’ Europa in una tale tecnologia. La CDI da lavoro a 280 addetti e del gruppo fa parte la Vetex, un’altra impresa tessile, con 150 addetti, impegnata in abbigliamento sportivo che vende col marchio Braddok. Entrambe le imprese confluiscono nelle MCM, ove si nobilita il prodotto. L’industria tessile è in forte evoluzione. I paesi dell’Est sono forti competitori sui prezzi. Per fronteggiare la sfida, impossibile, sul costo del lavoro è indispensabile che i produttori occidentali si dotino di know-how sempre nuovi ed aggiornati.

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Schede complementari maggio-giugno 2. 005 Tutta la ricostruzione storica fino ad ora proposta è antecedente all’esplosione della crisi del settore tessile italiano ed europeo avvenuta in conseguenza della massiccia invasione del mercato occidentale da parte dei prodotti cinesi. La fine dei vincoli previsti dal trattato Multifibre del 1 gennaio 1974 che prevedeva la scomparsa delle quote di produzione predefinite a partire dal 2. 005 e l’iscrizione della Cina al Wto ha prodotto la totale liberalizzazione e l’assoluta apertura dei mercati. Gli imprenditori tessili sono in fibrillazione. Nei primi 3 mesi del 2. 005 le importazioni in Europa dalla Cina sono cresciute per le t-shirt del 358%, i pantaloni del 738%, i maglioni dell’895% con un abbassamento medio dei prezzi del 40%. Nel settore calzaturiero le importazioni cinesi sono aumentate del 1. 800%, con un livello dei prezzi che si è in media contratto del 26%. Dal primo gennaio 2. 005 non ci sono più quote, ovvero tetti alle importazioni, così come era stato previsto dal gennaio 1974. Gli industriali del settore nel frattempo non hanno innovato ed oggi chiedono un intervento dell’Europa in loro difesa. Intendono cioè far scattare le clausole di salvaguardia introdotte al momento dell’ingresso della Cina nel WTO, l’organizzazione del commercio mondiale previste nel caso si fossero registrati sconvolgimenti nei mercati mondiali. Essi chiedono di reintrodurre , almeno per un anno, le quote. Il fatto è che una maglietta cinese costa un decimo rispetto alla stessa maglia prodotta in Italia. La qualità italiana non è migliore. In passato noi acquistavamo la lana delle pecore merinos dall’Australia a 18 micron ( unità di misura della finezza del filo) ed i cinesi a 23-24 micron. Da 2 anni anche loro si sono adeguati a tali stati di eccellenza. Il prezzo di produzione ed al dettaglio è però infinitamente minore. I prezzi della materia prima sono identici per italiani e cinesi. Cotone, seta e molti altri tessuti sono beni di base i cui prezzi, come per il petrolio, seguono una quotazione internazionale. Lo stesso vale per macchinari e tecnologie dove i cinesi oggi sono all’avanguardia. Il costo del lavoro è invece nell’ordine di 1 a 40. La differenza pesa non tanto sulle magliette quanto sui capo-spalla e sugli abiti da uomo, che richiedono 4-5 ore per essere prodotti. Il lavoratore cinese ha in media una produttività superiore di un terzo a quello italiano. Le aziende sono immense, di grandezza anche 10 volte superiore a quelle italiane, con sfilze di telai lunghe anche un chilometro. Il prezzo dell’energia è meno di un terzo di quello italiano e per essa i cinesi godono di notevoli provvidenze statali. Eguale a zero il loro costo per ricerca e sviluppo. I canali di distribuzione dei prodotti cinesi sono diversi. In Cina sono regolati da un’asta, con un prezzo base e spesso via internet ed al ribasso tra i produttori. La merce è spedita via mare in container e subito piazzata dai rivenditori con ricarichi del 80 e il 300-400%. Il prodotto italiano invece, già molto più caro, all’uscita dalla fabbrica segue i canali distributivi consueti dell’Italia. Tanti i processi 287


di intermediazione che moltiplicano per quattro o cinque volte il “ cartellino”. In Italia il 50% dei consumi delle famiglie passa ancora per il dettaglio indipendente, per i negozi sotto casa. Costi ben più elevati rispetto alla grande distribuzione. Sono così in gioco in Italia centinaia di migliaia di posti di lavoro e 30. 000 aziende già si trovano sull’orlo del fallimento. Forte è la tentazione protezionistica. Sarà indispensabile investire e specializzarsi, fare iniezioni di valore aggiunto. Frattanto su vari prodotti di largo consumo, come le magliette, la gara è già da tempo definitivamente perduta. Si potrebbe tentare ancora di puntare con decisione sul mercato cinese in quanto i cinesi sono affascinati da tutto ciò che è Made in Italy e già oggi su 1 miliardo e 300 milioni di popolazione già 300 milioni di cinesi dispongono di un tenore di vita medio-alto, del tipo agiato di quello occidentale. Le piccole e medie imprese cinesi poi sono affamate di tecnologia. Lì dovrebbe penetrare la tecnologia innovativa italiana, e grande spazio potrebbero avere anche la meccanica, le macchine utensili, gli elettrodomestici italiani. La buona qualità dei prodotti cinesi e soprattutto il costo dei prodotti estremamente più basso ha messo in moto una miscela esplosiva che ha prodotto forti conseguenze in Europa. Solo nel 2004 in Italia sono stati perduti 20. 000 posti di lavoro nel settore e la previsione per il 2005 è di una contrazione ulteriore di 40. 000 posti. Il costo del lavoro bassissimo, equivalente in media a meno di un decimo del costo del lavoro italiano, le ore di lavoro medio di un operaio cinese, nell’ordine di 2. 200 all’anno a fronte delle 1. 600 ore medie di un operaio italiano sono solo alcune delle più evidenti discrasie a tutto vantaggio dei produttori asiatici. Vediamo nel dettaglio alcuni ulteriori parametri: Materia Prima

Italia

Cina

È interamente importata. La lana

per molta materia prima

in prevalenza dall’Australia, grande

e in specie per il cotone

produttrice di lane fini. Per il cotone

la Cina è insieme grande

i paesi di approvvigionamento sono

produttrice e grande

molti: di grande interesse Egitto, Siria

importatrice.

e le nazioni dell’Africa Occidentale;

I prezzi sono gli stessi. Una differenza può derivare Dai grandi quantitativi Acquistati.

MACCHINARI 288


Italia

Cina

Le aziende italiane sono all’avanguardia

I produttori cinesi comprano

Tecnologica, anche per il fatto che molti

macchinari da tutto il

Macchinari sono prodotti in Italia( ad es.

mondo, Italia per prima.

La Lonati di Brescia). La crisi degli ultimi

Le loro imprese sono però

Anni ha però ridotto gli investimenti.

Fino a 10-15 volte superiori A quelle italiane: ottengono Così prezzi migliori anche Sugli acquisti di tecnologia. Secondo gli industriali Italiani gli investimenti Godono di forti Sovvenzioni.

COSTO DEL LAVORO Italia

Cina

La media del costo del lavoro nel

In Cina è di 0, 41 dollari

Settore tessile-abbigliamento in

all’ora.

Italia è di 15, 6 dollari all’ora.

Per fare una maglietta Occorrono 15 minuti, per un abito da uomo 250 minuti.

ALTRI COSTI Italia

Cina

L’Italia è seconda in Europa, dopo

Se il costo dell’energia

La Germania, per il costo dell’energia

in Italia è 100 in Cina

Industriale.

Scende a 30.

1600 le ore medie di lavoro annue operaio italiano

Forti sostegni pubblici in campo energetico. 2200 le ore lavorate in un anno. La grandezza delle imprese consente forti economie di scala. 289

Di un


RICERCA E INNOVAZIONE Italia

Cina

Poche aziende italiane si avvalgono

Ricerca e innovazione

ancora della ricerca di base, altre

del tutto assenti.

sono concentrate sull’innovazione

Non sono perciò un

tecnologica e soprattutto stilistica.

Costo industriale.

La media di tale voce raggiunge Il 3% sul fatturato. RAPPORTI DI CAMBIO Italia

Cina

L’Euro è valutato 1, 3 rispetto al dollaro.

Lo yuan è sottovalutato

La valuta europea, a detta degli esperti,

almeno del 30% rispetto

è sopravvalutata del 10-15% rispetto al dollaro. L’equivalente quella statunitense

di un “dazio” del 40-45% sulle importazioni in Cina dall’area euro e a un sussidio di pari entità alle esportazioni verso i Paesi della UE.

MARGINI DI PROFITTO Italia

Cina

Il margine operativo lordo

Il margine può essere dell’1%

del tessile-abbigliamento

o addirittura nullo nel caso di

È attualmente del7-8% sul

vendite in dumping, ovvero

Fatturato. E’ sceso di due

sottocosto. L’obiettivo delle

Punti in due anni.

Aziende cinesi resta infatti quello di penetrare sui Mercati occidentali; 290


Note ricavate dal “ Venerdi’ di “ Repubblica”n. 894 del 6-5-2. 005

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048. ALLEGATI REGOLAMENTO SUL LAVORO DELLE TESSITRICI E DEI SOTTOMAESTRI- ANGRI MARZO 1896- DITTA SCHLAEPFER WENNER e C. 1- Per essere ammessa quale tessitrice in questo Stabilimento , bisogna avere i seguenti requisiti ( a) essere abile a poter tenere due telai (b)avere buona condotta e non essere stata precedentemente espulsa. 2- Per essere ammessa quale apprendista bisogna avere l’eta’ di anni 12 a 15; a patto però che se tra due mesi non avrà appreso bene a lavorare su un telaio verrà licenziata. 3- La tessitrice che in breve tempo abbia ricevuto multe, sia per cattivo lavoro, sia per insubordinazione , sia per rissa o che manchi spesso per causa di malattia, verrà licenziata, come pure sarà temporaneamente licenziata, quando per inoltrata gravidanza venga giudicata dalla Direzione inabile al lavoro. 4- Verificandosi la mancanza di tessitrici, potranno i Sottomaestri avvisarne altre, le quali con biglietto della Direzione e con annotazioni nel registro degli operai, verranno ammesse al lavoro. 5- Le Tessitrici che chiederanno un permesso di assenza dovranno presentare alla Direzione un biglietto a firma del rispettivo Sottomaesro, col visto del Capomastro; come pure domandando licenza per oltre tre giorni e non ritornando allo scadere di detto termine, potranno perdere i loro telai e dovranno poi attendere fino a che non vi siano altri telai disponibili. Quando le medesime si assenteranno senza permesso alcuno, verranno multata e perdendo il telaio e ripetendosi l’abusiva assenza , saranno licenziate. 6- Le defalcazioni per cattivi tessuti sono fatte solo dalla Direzione;i Sottomaestri però osservando anticipatamente qualche grave fallo nel tessuto potranno essi defalcare (?), ed in tal caso per detto fallo la Direzione alla verifica dei tessuti non infliggerà altra defalcazione, né alla tessitrice né al Sottomaestro. 7- I Sottomaestri rispondono della perfetta esecuzione delle cimose e dei colpi che ogni qualità di tessuto deve avere;come ancora della qualità dello sfrido risultante dalla trama. Devono vigilare attentamente a che la qualità dello sfrido sia ridotta al meno possibile, e pure dovranno sorvegliare a che le Tessitrici puliscano le pezze da un lato sul telaio durante la lavorazione di esse. 8- Per i detti Sottomaestri la defalcazione avverrà nella seguente misura; se le Tessitrici da essi dipendenti avranno nella quindicina riportate delle defalcazioni per cattivo tessuto che complessivamente non ammontino a lira una, da essi verrà pagata una somma , corrispondente a 3, 4 di detta lira , come pure quando le Tessitrici saranno defalcate nella quindicina per somma 299


maggiore di lira una, i Sottomaestri sottosterranno alla multa di 3, 4 parti sulla prima lira , più la metà(?) dell’eccedenza pagata dalle Tessitrici. 9- Per i Sottomaestri le defalcazioni avverranno se per causa dipendente dal meccanismo del Telaio si abbia roba mal confezionata come cimose cattive e irregolarità di colpi. 10- -I Sottomaestri non potranno assentarsi dalle sale ove esercitano la vigilanza, salvo che venissero chiamati ad assistere alla verifica dei tessuti o per disposizione che potranno ricevere dalla Direzione. Sono tenuti poi a mantenere l’ordine delle Tessitrici, sorvegliare la condotta, far pulire il telaio scrupolosamente ogni Sabato, quando si cambia il subbio e possibilmente ogni giorno, ma sempre quando il Telaio stia fermo; e ciò sotto pena di severi provvedimenti: Debbono infine curare il lubrificamento del Telaio allo scopo di mantenere in buono stato il macchinario ed evitare macchie ai tessuti. 11-Le Tessitrici tenendo reclami a fare in rapporto al lavoro in generale potranno farli esporre alla Direzione da una commissione composta di 2 o 3 di esse per ogni sezione. Giammai ed in nessun caso è permesso fare altrimenti, specialmente fermando il Telaio, allo scopo di sospendere il lavoro, mezzo questo, che potrà provocare dalla Direzione severissimi provvedimenti.

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MCM Nocera Dal Memoriale di Escher “ …Di tanto in tanto era necessario applicare una leggera bastonatura ai ragazzi. Le femmine però dovevano essere rispettate con molto riguardo. Per non urtare la loro rispettabilità era importantissimo di accoglierle con garbo. Tutti e tutte erano analfabeti. Le ragazze lavoravano generalmente solo nell’inverno, perché aiutavano in estate i loro genitori sui campi. Così mi mancavano regolarmente in estate degli operai. Nel passare degli anni però la gente si disinteressava sempre più a lavorare in campagna durante il gran caldo d’estate. Molta difficoltà mi fece la mentalità purtroppo tradizionale nel Mezzogiorno, che mirava a distinguere classi sociali di diverso grado : c’erano i cosiddetti galantuomini o possidenti, riconosciuti dalla classe lavorativa come una casta privilegiata. A questa seguiva la classe degli artigiani e poi la grande folla di gente non qualificata. Per combattere questi pregiudizi dissi per esempio :” Ah, tu non sai come si fa, aspetta che te lo faccio vedere! “. . E pian piano vidi crescere nello stabilimento fra di noi un notevole senso di uguaglianza rispettata e vissuta. D’altra parte, nei miei rapporti con le maestranze, ho usufruito dell’antico rispetto dell’operaio verso il signore. Il signore era stato una volta il padrone assoluto e, in analogia ai rapporti che valevano all’epoca dei baroni, mi consideravano in un certo qual modo anche padrone della loro famiglia fuori stabilimento. Indubbiamente era importante curare con molto tatto i rapporti con le famiglie degli operai. Col tempo guadagnai una fiducia tale che potevo persino incaricare i genitori di punire i loro figliuoli, se non si comportavano bene in fabbrica. Li potevo per esempio sospendere nel lavoro e mandarli a casa, dove furono ricevuti con saporite bastonate. In contropartita ero disposto d’assistere le famiglie in situazioni che non avevano niente da fare col lavoro in stabilimento. Cercai di aiutare i miei operai nelle loro difficoltà private. L’operaio, una volta assunto in fabbrica era convinto di essere sistemato per tutta la sua vita. Le ragazze che sposavano, si congedavano sempre solennemente da me raccomandandomi i loro futuri figli… Ho fatto anche buone esperienze riguardanti l’influenza del lavoro sul modo di vivere : la gente aveva spesso gran difficoltà nell’adattare le sue abitudini di contadino alle esigenze di un lavoro più pesante. Il mangiare…che poteva essere sufficiente per un agricoltore non bastava in manifattura. Benché non si trattasse di un lavoro estremamente pesante e malgrado la buona ventilazione nei nostri saloni, costatai presto che molte donne cominciavano a lagnarsi delle loro gambe stanche e che le ragazze impallidivano… Intorno al 1890 i salari giornalieri degli operai a Nocera erano i seguenti:: capo operaio lire 3-3, 30; uomo di filatura e ritorcitura lire 2, 20-2, 50; uomo in carderia lire 1, 75-1, 95; ragazzo in filatura lire 0, 90; donna in filatura e ritorcitura lire 0, 90; donna in preparazione lire 1-1, 10; ragazza alle rocche lire 0, 80-0, 90; ragazza 301


in aspatura lire 0, 90-1:; macchinista lire 3-3, 30; fuochista lire 2-2, 20; uomo in magazzino lire 1, 50-1, 70�.

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“Cronache Meridionali” Aprile- Maggio 1955- Numero4-5 Anno II -Stralci Relazione di Clemente MagliettaIl 16 Aprile 1955 è organizzato a Napoli da esponenti del Comitato Nazionale per la Rinascita del Mezzogiorno, da esponenti sindacali delle province di Napoli e di Salerno, da tecnici e studiosi un partecipato Convegno sulle Manifatture Cotoniere Meridionali. La relazione , di Clemente Maglietta, sintetizza , a grandi linee, storia e funzioni del grande complesso industriale a partire dai principi del 900. E’ già in atto una trasformazione societaria rispetto ai caratteri originari, che sono stati ricordati in premessa di questo lavoro, e si sta procedendo attraverso un sostanziale cambio di fisionomia proprietaria, con processi di fusione che hanno lo scopo di intervenire in supplenza ed in sostituzione del vecchio capitale svizzero delle grandi famiglie imprenditoriali elvetiche che per decenni hanno dato il segno politico, culturale e produttivo all’inedita esperienza di produzione industriale, su larga scala, del cotone. Ecco ampi stralci della relazione: Nei primi anni del 900 gli stabilimenti cotonieri del salernitano, con 5400 dipendenti, 149. 000 fusi per filare, 11. 600 fusi per ritorcere, 1. 500 telai e 12 macchine stampatrici, si raggrupparono ed edificarono la loro ragione sociale, creando le Manifatture Cotoniere Meridionali. Negli stessi anni, per effetto della legge speciale per Napoli, sorge in questa città il primo stabilimento cotoniero con capitali ligurinapoletani giungendosi qualche anno dopo alla costituzione della Società Industrie Tessili Napoletane. La fusione del gruppo napoletano e del gruppo salernitano avviene nel 1915, con lo scoppio della guerra e la espropriazione dei beni nemici. L’operazione viene condotta a termine dalla Banca Italiana di Sconto e comprende oltre i 2 gruppi citati anche : il cotonificio di Spoleto, la tessitura di Lambrate, il cotonificio di Piedimonte. Durante la guerra la produzione assume un ritmo vorticoso ed alla fine della prima guerra mondiale le M. C. M. hanno notevolmente accresciuto il proprio potenziale. Nei soli stabilimenti di Salerno contiamo 4 filature con 180. 000 fusi, 3 tessiture con 1. 600 telai, una stamperia con 12 macchine, 2 tintorie, 2 stabilimenti per il candeggio e la apparecchiatura. I lavoratori erano 12. 000 per tutto il ciclo di produzione. Le M. C. M. possedevano inoltre una società per la coltivazione del cotone in Sicilia, una società immobiliare, un quotidiano politico, una rivista di aeronautica, una nave per il trasporto del cotone. La crisi del 1929-30 e le sanzioni economiche ebbero un’ influenza dannosa per il complesso delle M. C. M. che incontrò tali difficoltà da esigere l’intervento, per imposizione governativa, del Banco di Napoli che divenne azionista e finanziatore del gruppo. E’ bene però rappresentarsi le proporzioni del nostro complesso rispetto all’industria cotoniera italiana : nel 1930 vi erano in Italia 993 aziende cotoniere con 1. 250 stabilimenti. Nell’Italia Meridionale vi erano nello stesso periodo solo 24 aziende 307


cotoniere con 30 stabilimenti, che rappresentavano, quindi, soltanto il 2% del potenziale nazionale. Le cifre sono leggermente migliori per l’occupazione operaia, ma sono anch’esse rivelatrici di un’arretratezza degli impianti. Secondo il censimento del 1937 la percentuale meridionale degli addetti alla industria cotoniera era del 3, 8 % per la filatura e ritorcitura e del 3, 3% per la tessitura del cotone puro e misto. L’autarchia fascista compromise ancora di più le sorti della nostra industria cotoniera , obbligando le M. C. M. a sviluppare la coltivazione del cotone nell’Agro di Salerno e ad impiegare su vasta scala surrogati di scarso valore. La follia imperiale obbligò le M. C. M. a creare la S. A. Manifatture Cotoniere d’ Etiopia con uno stabilimento a Dire Daua di 10. 000 fusi e di 600 telai. Nel 1939-40 le M. C. M. producevano : 7, 5 milioni di kg. di ritorto; 38, 5 milioni di metri di tessuto. La guerra si concluse per le M. C. M. nel modo seguente. A seguito di bombardamenti, ma soprattutto per le mine tedesche e poi per l’occupazione americana durante la quale fu distrutta una parte del macchinario utilizzabile per trasformare un grosso capannone in locale di trattenimento, si sono avute le seguenti distruzioni globali:distrutto il 40% degli immobili; filatura: ridotto il potenziale produttivo del 73%: ritorcitura: ridotto del 96%; tessitura : ridotto del 44%; Stabilimento di Dire Daua: confiscato; spesi per ricostruzione dei danni di guerra :9, 5 miliardi oltre 1, 5 per l’esercizio; impossibilità di realizzare” utili di congiuntura” per l’obbligo di vendere a prezzi di imperio una buona parte del materiale esistente in magazzino ( 350. 000 Kg di filati e 15 milioni di metri di tessuto) Il capitale sociale è aumentato nel 1951 da 540 milioni a 1. 440 mediante erogazione gratuita di azioni. Nel 1952 il capitale si eleva a 2. 800 milioni mediante versamento. Il capitale è così ripartito :41, 64% del Banco di Napoli; 18, 96% per conto di altri istituti bancari ( Banca Comuni vesuviani); il resto a 3. 600 azionisti intestatari. Il bilancio dell’esercizio chiuso il 31 dicembre 1953 reca i seguenti dati : Capitale versato: 2. 800 milioni 14. 945

=

immobili, impianti e macchinario ( ammortizzati per 5. 427 milioni)

1. 003

=

riserve, accantonamenti e fondi vari

4. 418

=

cassa, titoli, partecipazioni e crediti diversi

5. 327

=

materie prime e scorte

17. 031

=

debiti diversi

3. 641

=

perdita esercizio 1953

rivalutazione) il rimborso danni di guerra.

( sanata per 1. 947 milioni con utilizzo saldi attivi di resto riportato su

308


L’attrezzatura è la seguente : 200. 000 fusi di filatura, 33. 000 fusi di torcitura, 2. 230 telai. Il credito del Banco di Napoli deve essere attualmente valutato tra i 9 e gli 11 miliardi. Secondo un calcolo approssimativo gli indici di produzione hanno avuto il seguente decorso (cifre non ufficiali), calcolato sugli stabilimenti di Napoli : 1945 = 100; 1946-48 = 800;1949 =700; 1950= 680; 1952=300: 1953= 400. Per ben valutare la situazione delle M. C. M. situazione nazionale.

bisogna rifarsi brevemente alla

La produzione complessiva è stata di 193. 000 tonnellate di filati contro 203. 245 tonnellate nel 1952( con una diminuzione del 5%), mentre pressappoco stazionaria è stata la produzione di tessuti ( 197. 000 tonnellate contro 146. 500 nel 1952). Notevole risulta perciò la contrazione rispetto al 1951, anno in cui si produssero 231. 000 tonnellate di filati e 178. 000 tonnellate di tessuti. La particolare gravità della crisi attraversata dall’industria cotoniera è attualmente caratterizzata dalla continua diminuzione della utilizzazione della capacità produttiva esistente. Infatti nel settore della filatura l’utilizzo della capacità produttiva è diminuito del 5% rispetto al 1952 ed è stato pari all’84% della capacità produttiva totale, mentre nel settore della tessitura esso è diminuito del 4% rispetto al 1952 ed è pari al 77% della capacità totale: Risulta perciò diminuita anche la quantità delle materie prime entrate in lavorazione e precisamente del 3, 9%. L’andamento delle esportazioni cotoniere ha continuato a determinare in modo negativo la dinamica produttiva anche nel 1953. Le esportazioni cotoniere, infatti, sono ancora diminuite rispetto al 1952. Dai massimi del 1951 ( 34. 000 tonn. Di filati e 49. 000 tonn. Di tessuti) esse sono scese nel 1953 a 13. 400 per i filati ed a 26. 800 per i tessuti e sono state pari rispettivamente al 40% ed al 50% del volume registrato il 1951. Le difficoltà di collocamento sui mercati esteri sono inoltre documentate dalla caduta del valore delle esportazioni che è stata nettamente superiore a quella registrata nel peso. Nel 1954 la produzione è leggermente aumentata rispetto all’anno precedente ma non vi sono elementi che possano fare presumere un proseguimento stabile di questa tendenza. Dalla fine del 1954 anzi si è registrata una progressiva caduta degli indici produttivi che sembra continuare anche nel 1955. Le esportazioni hanno avuto un’ulteriore caduta soprattutto nel settore dei prodotti finiti. Gli industriali tessili reagiscono, come hanno già fatto in precedenza, in modo empirico. Loro obiettivo fondamentale rimane sempre lo stesso : accettare i termini della situazione e cercare di forzare con tutti i mezzi i mercati esteri, per usufruire di volta in volta delle condizioni offerte dalla concorrenza internazionale, manifestando un disinteresse fondamentale per le possibilità di sviluppo del mercato interno. 309


Per gli industriali tessili il mercato italiano viene considerato importante, ma non modificabile nei suoi termini e dimensioni essenziali, per una sua insuperabile rigidità di assorbimento. Alcuni strati della domanda nazionale vengono, invece, considerati come altrettante occasioni di mercato di cui è opportuno tener conto in determinati momenti, ma che vengono comunque reputati insufficienti a determinare con il loro peso l’indirizzo generale delle produzione tessile. Si pensa di influire sul mercato solo in termini di “ educazione del gusto del consumatore” e con la moltiplicazione dei tipi pregiati, aderenti alle mutevoli esigenze del mercato di lusso con la ricerca del maggior profitto unitario : problemi questi che, se effettivamente esistono, riguardano però, la domanda di una parte molto ristretta della popolazione consumatrice, e, certamente, non si pongono per il mercato delle vaste masse lavoratrici soprattutto del Mezzogiorno d’Italia. Quindi, in conclusione, si preme sul Governo perché attui una politica di esportazioni finanziate. L’occupazione operaia è diminuita in modo costante dal 1948 ad oggi. Dai 265. 000 occupati del 1949 si è passati ai 240. 000 del 1952, ai 220. 000 del 1953 ed ai 210, 000 del 1954. Gli industriali tessili hanno investito i loro guadagni nel modo seguente: in proprietà terriere, in imprese immobiliari, , in traffici occasionali e speculativi, in azioni di complessi industriali di diversa natura, all’estero, oppure esportati clandestinamente per depositi esteri. I salari non hanno subito aumenti di rilievo e risultano percentualmente più bassi in rapporto alla mano d’opera femminile impiegata. La CGIL in documenti elaborati, al di là delle soluzioni contingenti dichiara che l’orientamento per la soluzione della crisi del settore è :1) Avviare immediatamente una vera trasformazione della stessa struttura della industria tessile, attraverso il finanziamento di un vasto programma di ammodernamento e di tipizzazione del macchinario esistente, sulla base del ristabilimento di un rapporto più economico e civile fra lavoratore e macchina; 2) orientare la produzione tessile verso mercati vasti ed omogenei nella loro composizione, riorganizzare i sistemi di produzione su basi più moderne attraverso una maggiore tipizzazione che consenta di ottenere rapidamente una produzione di massa a costi decrescenti. Invece di imboccare questa strada i grandi gruppi cotonieri stanno tentando con tutta una serie di manovre finanziarie e, fagocitando complessi produttivi, di consolidare in modo definitivo il loro dominio sul settore attraverso la creazione di un Cartello unico che dovrebbe ridistribuire il peso della crisi con un piano di smobilitazione degli impianti esuberanti e con il licenziamento di altri 60. 000 operai. Secondo le notizie trapelate l’ immediata riduzione riguarderebbe un 30-40% del potenziale produttivo.

310


Nostro primo obiettivo è quello di impedire, con tutti i mezzi, che le M. C. M. siano infeudate nel progettato Cartello che, ove si verificasse, decreterebbe la morte od almeno la riduzione massima del nostro potenziale produttivo. Non a caso, infatti, durante la discussione al Parlamento per la erogazione di sei miliardi a parziale rimborso dei danni di guerra , gli industriali settentrionali hanno scatenato una campagna contro il provvedimento e contro le MCM. D’altra parte esistono purtroppo evidenti collegamenti tra la Direzione delle Cotoniere e certi forti gruppi del Nord. Basti citare due casi. Masci, licenziato dalle MCM di Napoli, passa alla vicepresidenza del Cotonificio Olcese della Snia Viscosa e Randone, attuale Amministratore delle MCM, viene dalla de Angeli Frua. Le M. C. M. , grande complesso produttivo del Mezzogiorno, non può non essere legato allo sviluppo del mercato meridionale; proprietà in grande parte del Banco di Napoli, non può essere collegato ad interessi di gruppi, praticamente monopolistici, del Nord. In questa situazione s’ inserisce la crisi delle Mcm. Nel 1954 si è condotta a termine l’operazione Frattamaggiore con la liquidazione di uno stabilimento e nello stesso anno in coincidenza con le operazioni che si compiono su scala nazionale è cominciata a manifestarsi la volontà di applicare drastici criteri di riduzione delle maestranze e dell’orario di lavoro. Circola con insistenza la voce che lo stabilimento di Fratte di Salerno debba seguire la sorte di quello di Frattamaggiore ed in questo ordine si troverebbero i recenti trasferimenti di manodopera. La recente storia delle MCM in questo dopoguerra provoca le legittime preoccupazioni di quanti si sono occupati delle questioni in questi anni. Le M. C. M. hanno sempre annaspato per difetto di direzione e di programmi. Fino a che il problema della ricostruzione assorbiva tutta l’attenzione si poteva anche non soffermarsi su questa organica debolezza del complesso, mentre oggi, in piena crisi del tessile e con la ricostruzione compiuta, è molto difficile sfuggire alla domanda : ma può andare avanti così? Sintomatico è il fallimento delle due assemblee di azionisti per volontà del Banco di Napoli e sintomatico è il conflitto che si è aperto sulla stampa per affermare il diritto all’ utilizzazione dei sei miliardi erogati a parziale rimborso dei danni di guerra. Anche la notizia delle dimissioni offerte dal Consiglio di Amministrazione ma non presentate, ha una suo significato. Un capo presiede alla Amministrazione delle MCM e si chiama Randone ing. Bruno. Ed oggi Randone ed il Banco di Napoli sono gli arbitri della vita di circa 7. 000 dipendenti. Certo si deve tenere conto dell’ eredità che il fascismo e la guerra hanno lasciato agli attuali amministratori, ma non credo che dopo dieci anni questi si possano trincerare dietro questo argomento. 311


Si sono perduti dei mercati, ma non se ne sono conquistati altri né si è tentato di riprendere il posto perduto. Si operava sulla base di tranquille e poco controllate commesse statali, ma dopo dieci anni si tenta la stessa via pericolosa invece di cercare le vie normali dei traffici ed ancora si lamenta l’assenza di un vero e proprio ufficio commerciale. Si affidava la direzione a persone politicamente influenti e si continua oggi a non andare alla ricerca della serietà e della capacità. Scarsa era la unità aziendale per le ambizioni, le camarille, i tentativi , i tentativi dei vari direttori degli stabilimenti e degli uffici ed oggi, con le dovute differenze, si ha la impressione che le cose procedano alla stessa maniera . Si è sempre notata una scarsa unità organizzativa ed una scarsa disciplina aziendale del quadro dirigente e sembra che le cose continuino, esercitandosi tutta l’autorità sui lavoratori subordinati. Randone è un po’ la espressione autentica di questo. . Nel 1940 era il direttore dello stabilimento di Dire Daua e lasciò in tempo utile l’Etiopia restando alle Cotoniere fino al 1943 come direttore degli uffici tecnici. Abbandonò il proprio posto nei più duri frangenti delle distruzioni tedesche e della occupazione americana esercitando la professione dell’appaltatore edile. Improvvisamente si assiste alla sua intromissione alla Navalmeccanica e nelle cotoniere. Ma poi scomparve e va nel Nord a realizzare la sua esperienza con la De Angeli Frua smobilitando i due stabilimenti ai quali era stato preposto. Dopo di che torna alle Cotoniere per diventarvi Amministratore delegato, mentre ha lo stesso incarico presso la Navalmeccanica: Ci sembra lecito domandare: ma se era un buon dirigente perché fu mandato via due volte? E se non era un buon dirigente, perché per tre volte è stato richiamato? A noi non interessa la figura privata del Randone , ma la sua attività è ( in pratica) pubblica funzione: La Navalmeccanica è infatti per il 100% patrimonio dell’I. R. I. e le M. C. M. per il 42% sono di proprietà del Banco di Napoli. La polemica si è stranamente sviluppata intorno alla erogazione ed alla utilizzazione dei miliardi disposti per il rimborso dei danni di guerra. Che se ne fa di 6 miliardi? Chi li deve prendere? L’azienda “ per l’esercizio” o il Banco di Napoli a parziale rimborso del suo avere? Intanto i 6 miliardi stanno lì e nessuno può toccarli, con il risultato che la situazione aziendale si aggrava sempre più e con l’acutizzarsi delle contraddizioni che si sviluppano tra la possibilità di un rinnovamento ed il persistere di vecchi metodi di lavoro, di organizzazione e di direzione. Ci sono 18 miliardi di debiti con un creditore che da solo vanta oltre la metà del credito ( il Banco di Napoli). Si paga ogni anno più di un miliardo di lire di interessi. Siamo curiosi di vedere che cosa deciderà la prossima riunione degli azionisti, ma dubitiamo che si osi affrontare il problema in tutta la sua complessità. A nostro giudizio, infatti, il problema non è tanto di danaro, quanto di sapere che cosa fare. . Smobilitare non si 312


può, potenziare non si vuole e non si sa. Ed allora? A noi interessa in primo luogo che si conservi e garantisca il lavoro e che si aumentino le lavoratrici occupate, ma noi non ci limitiamo a considerazioni di ordine strettamente sindacale. A noi interessa la sorte di questo stabilimento, la sorte dell’industria manifatturiera. Ai lavoratori interessa che ci sia lavoro, ma interessa anche sapere anche che sorta di lavoro e che produzione se ne ricava. Il ritmo produttivo, la qualità della merce, la diminuzione degli scarti, la esistenza di mercati di sbocco, l’aumento della produzione del guadagno, non sono cose che lasciano indifferenti i lavoratori. Noi riteniamo che al centro del problema non siano i 6 miliardi, ma il programma di lavoro, il piano di riorganizzazione aziendale, l’inserimento delle Manifatture nel processo della industrializzazione ed il legame tra la Manifattura e lo sviluppo del mercato di consumo meridionale. Noi pensiamo che le M. C. M. non abbiano alcun interesse a legarsi, né finanziariamente, né con combinazioni di altro genere, con gruppi finanziari e manifatturieri del Nord che tendono a realizzare una politica di limitazione degli impianti e di assicurati profitti. Randone non ha un programma. Questo è il punto centrale. Il Banco di Napoli non ha un programma : eppure il solo modo concreto per garantire il proprio avere sarebbe un programma che prevedesse la sistemazione aziendale , lo sviluppo del lavoro secondo un piano economico tra i vari stabilimenti, la produzione in serie di prodotti tipo per certi mercati a costi decrescenti e per un pubblico di massa. Il programma deve prevedere il controllo per l’accurata preparazione del manufatto, una politica commerciale di acquisti e di vendite corrispondente agli interessi dell’azienda alla quale non è indifferente dal punto di vista economico e commerciale acquistare cotone siciliano o egiziano o russo o americano. Il programma deve prevedere una sistemazione finanziaria dell’azienda che non può certo continuare a vivere con un debito enorme che tende a crescere e non a diminuire. Noi pensiamo che sia giusto avanzare le seguenti proposte:1)Rifiuto di aderire al Cartello smobilitatore dei grandi gruppi cotonieri settentrionali e denunzia, sul piano del lavoro e della tecnica, del carattere speculativo e monopolistico di quella iniziativa che tende a controllare tutta la produzione;2)modifica degli attuali orientamenti produttivi: scendendo sul terreno della concorrenza con la quantità e con la qualità del prodotto e battendo i concorrenti sul costo e producendo cotonate standardizzate per il consumo di massa;3) inserimento delle MCM nei finanziamenti per l’industrializzazione del Mezzogiorno per quelle modificazioni di impianti che si stimassero necessarie quantunque si possa affermare che, già oggi, le MCM possono battere la concorrenza per la nuova modernissima filatura di Poggioreale che è la più importante d’Italia:4) creazione di nuove iniziative produttive come quella più volte suggerita di creare il maggior complesso canapiero capace di produrre a costi ribassati prodotti che anche commercialmente si abbinano alle cotonate; 5) rinnovamento della direzione tecnica, amministrativa, commerciale con uomini nuovi non …scelti per legami politici ma tecnicamente capaci e con autorità sufficiente per realizzare la unità organica degli stabilimenti e degli uffici; 6)risanamento finanziario sulla base di un preciso programma produttivo da affidare 313


all’IRI perché vi adempia nel preciso espletamento della sua funzione statutaria; l’IRI, infatti, che ha partecipazioni nella Montecatini, nella SME e persino sul Monte Faito, dovrebbe partecipare alla vita ed all’attività del maggior complesso meridionale;…7) produzione per il mercato nazionale e conquista stabile di mercati stranieri, ristabilendo anche certe correnti di interscambio tra fornitura della materia prima e del manufatto;8) mutare atteggiamento verso i lavoratori che vanno considerati come elementi preziosi di collaborazione per lo sviluppo dell’azienda e per la ricerca tecnica e organica delle soluzioni migliori

Salerno Dicembre 1982, dati Cig Industria “Il MATTINO” 11-1-1983. ( in parte seconda credo vada meglio, magari in schede finali) CERAMICA D’AGOSTINO- Salerno : dei 280 dipendenti assorbiti dalla Ceramica Nuova D’Agostino(Gepi, Rodinò, altri), fin’ora hanno ripreso effettivo lavoro gradualmente circa 160 lavoratori. Gli altri 130 sono ancora in C. I. G. CERAMICA CAVA, Cava dei Tirreni314


Con 250 dipendenti in cassa integrazione per crisi aziendale dal 1977. La ditta, dopo il fallimento, è in stato di liquidazione. CORAL IME- Salerno- metalmeccanica. 120 dipendenti in cassa integrazione su 160. E’ in fase di costruzione il nuovo stabilimento nella zona industriale di Salerno. Attualmente i lavori di costruzione sono fermi per mancanza di fondi. Si attende che entri un altro socio. CISA- Mercato San Severino- metalmeccanica. Dal 15 ottobre 1981 al 2 gennaio 1982 con 30 operai su 40 a zero ore in Cig ordinaria per mancanza di commesse. Dal 3 gennaio 1982 è in liquidazione. LANDIS§ GYR Spa- Salerno- metalmeccanica. Con 480 dipendenti a zero ore per una settimana ogni due mesi per crisi aziendale. BROLLO SUD Spa – Salerno- metalmeccanica Dal 6 giugno 1981 in cig. Straordinaria per ristrutturazione con 220 operai su 250 a zero ore. Graduale ripresa lavorativa dal 1 gennaio 1983 con ulteriori 60 operai a 40 ore. PARAVIA ASCENSORI- Salerno- metalmeccanica. Su 122 lavoratori 65 sono in cig a zero ore o ad orario ridotto per crisi aziendale dall’1-10-1980. CLM- Mercato san Severino- metalmeccanica. Dal 14 ottobre in cig straordinaria per temporanea mancanza di commesse, con 30 dipendenti su 50 a zero ore. IMAS – Materassi a molle- SalernoDall’11-10-1982 in cig straordinaria per crisi aziendale con 20 operai a zero ore. FONDERIE PISANO- Baronissi In cig. Ordinaria con con 20 operai a zero oredall’1-11-1982. MANIFATTURE TESSILI DI VIETRI- Vietri sul mare. Tutti i 16 dipendenti a zero ore per CIG straordinaria dal 1-10 – 1982. TEX SAL – Tessile-Salerno In cassa integrazione speciale a zero ore per crisi aziendale dal 2 Marzo 1981. Sono rientrati al lavoro gradualmente 143 operai. I rimanenti 193 resteranno in CIG in attesa di altre eventuali attività da installare in zona. PROMEDO SUD- Salerno- laterizi. Dal Marzo 1981 con 12 operai su circa 60 dipendenti in CIG straordinaria a zero ore per crisi aziendale. PARAVIA ELEVATORS SERVICE- Salerno- metalmeccanica. 315


Con 20 dipendenti in cig a zero ore su circa 120 addetti per crisi aziendale. INDUSTRIALFIN- Pontecagnano – alimentari. Con 90 operai a zero ore in CIG straordinaria per crisi aziendale dall’ottobre 1979. SOPAM- Mercato San Severino- Alimentare. In CIG straordinaria dal 24-11-1980 con tutti i 40 lavoratori a zero ore per danni del terremoto. FLORIO § C- Pontecagnano-alimentare96 dipendenti a zero ore per crisi aziendale dall’11-12-1981. GOMMATECNICA- Pellezzano 110 dipendenti in CIG a zero ore dal 1978 per crisi aziendale. L’attività è stata ripresa nel Marzo 1981 con circa 50 lavoratori da una nuova società. ISSIMO Spa- Salerno-abbigliamento. Dal 1 ottobre 1982 in CIG straordinaria per crisi aziendale con 200-300 operai a zero ore. FONDERIE DI SALERNO-Salerno Dal 1 ottobre 1982 in CIG ordinaria con 110 operai a zero ore per mancanza di commesse. SEDI Spa- Fisciano- Chimica. Dal 23-8-1982 con 20 dipendenti in CIG straordinaria a zero ore per crisi aziendale. FULGORCAVI- Fisciano- Cavi Elettrici e telefonici. A seguito del terremoto che ha causato gravi danni alle strutture sono in CIG 320 dipendenti su 393 dal 24-11-1980. VERNANTE PENNITALIA- Salerno-Vetro In CIG straordinaria per ristrutturazione aziendale (installazione nuovo forno) con circa 200 dipendenti ad orario ridotto e a zero ore su 300 in totale, a decorrere dal 15 Maggio 1982 e per la durata di 18 mesi.

Una nota della Camera del Lavoro di Salerno così riassume la situazione che si è venuta a determinare nell’area salernitana all’indomani della fase di attacco più acuto al settore tessile territoriale : AREA TESSILE DI SALERNO La crisi del settore tessile nell’area salernitana ha segnato una grave inversione di tendenza nello sviluppo economico del territorio, già entrato in fase di stasi negli

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anni’70. Ne è dimostrazione l’altissimo numero di persone in cerca di occupazione( circa 30. 000) ed in cassa integrazione straordinaria ( oltre 3. 500). In tale contesto si inseriscono le crisi delle imprese dell’ENI-Lanerossi, della Marzotto e della Snia. Per la Lanerossi le soluzioni scaturiranno dal confronto aperto presso il Ministero delle PPSS; per la Marzotto è necessario un intervento della Gepi congiuntamente alla Marzotto stessa sia per la ristrutturazione che per la rioccupazione degli eventuali esuberi con operazioni di mobilità;Per la Snia vanno portate a compimento le ipotesi di soluzione in discussione sul tavolo del Ministero del Lavoro. Il Governo attiverà in tale area un’azione di sostegno speciale, in sinergia con interventi previsti per l’area di Napoli;in questo senso viene accolta la richiesta avanzata dalle OO. SS. di prevedere per l’area salernitana condizioni particolari di incentivazione tendenti a realizzare le necessarie convenienze per il processo di reindustrializzazione dell’area. Un ceto economico e politico che darà prova di grave, pietrificata e inerme arretratezza. MCM : PIANO GESTIONALE 1986 214 Il giorno 8 luglio 1986 in Salerno si sono incontrati la MCM, assistita dall’ASAP delegazione Centro Sud, la Monti finanziaria e il consiglio di fabbrica delle unità produttive assistite dalla Fulta regionale e territoriale. L’azienda ha illustrato le linee strategiche entro le quali operare nel corso del 1986 per realizzare il miglioramento della gestione economica. Le linee fondamentali d’intervento dovranno determinare : l’acquisizione di maggiori quote di mercato e la diversificazione delle produzioni; il recupero di produttività mediante innovazioni tecnologiche, razionalizzazione del lay–out, maggior utilizzo degli impianti e sperimentazione di diversi modelli di organizzazione del lavoro e delle assegnazioni in funzione della produzione, salvaguardandone la qualità ed il miglioramento della produttività consolidata; il consolidamento del contenimento dei costi e delle spese generali; la realizzazione del piano di investimenti così definito: Angri Gli investimenti ammonteranno a 1, 5 miliardi per modifiche e migliorie tecnologiche sui telai, installazione pulitori viaggianti, sistemazione locale tessitura ed altre migliorie ad impianti e macchine. Fratte

214

Archivio ASAP, 8 Luglio 1986. 317


Gli investimenti previsti ammontano a 2, 7 miliardi per l’adeguamento dell’impianto di trattamento delle acque reflue e l’ammodernamento e potenziamento ad impianti e macchinari. Nocera Gli investimenti previsti ammontano a 3, 6 miliardi dei quali 3, 2 per l’acquisto e l’installazione di 6 nuovi telai O. E di cui 4 già installati. La differenza riguarderà aggiornamenti e migliorie tecnologiche ad impianti e macchinari. Le OO. SS. riconoscono la validità delle iniziative intraprese dalla società MCM e ribadiscono che il complesso delle iniziative definite si inquadri in un programma organico ed articolato di interventi coerenti con l’obiettivo della messa a regime in un quadro di redditività. Le parti concordano che venga avviata la sperimentazione di nuovi modelli produttivi come da schemi allegati A-B-C- già proposti ai consigli di fabbrica che saranno coinvolti nella verifica dei programmi in specifici incontri. L’organico operativo della società previsto al 31-12-1986 è di Filatura

231 di cui Op. 211

Imp. 20

Dir.

Tessitura

519 “

484

“ 34

1

Finissaggio 159 “

139

“ 19

1

19

“ 63

10

Sede Totali

92 1001

“ “

853

“ 136

12

• in conseguenza dell’esigenza di intensificare le operazioni di verifica l’organico viene incrementato di 10 unità. • Per la gestione degli eventuali esuberi derivanti dalla nuova organizzazione del lavoro e dall’ingresso di nuove tecnologie, le parti, al fine di superare, per quanto possibile, il ricorso alla Cassa integrazione guadagni, promuoveranno tutte le opportune verifiche per l’utilizzazione di strumenti alternativi quali : part-time, riduzione degli orari di lavoro, accordi di solidarietà, nuovi schemi di orario e mobilità interaziendale e di Gruppo. Inoltre, le parti si adopereranno per promuovere opportuni incontri, con Ageni e Monti, per la gestione e la ricollocazione produttiva degli esuberi strutturali. Le parti si danno atto che la situazione dei lavoratori in Cig a 0 ore all’8/7/ 1986 è la seguente: Sede

19

di cui 8 operai

Fratte

11

“ “ 10

1

Angri

33

“ “ 30

3

“ “ 111

6

Nocera 117

e

11 impiegati

318


Totale: 180

“ “ 159

21

I processi sopra esposti non determineranno l’incremento delle entità suddette, intendendosi che la cassa integrazione necessaria avverrà con le modalità della rotazione. Trimestralmente le parti verificheranno lo stato di attuazione del progetto con particolare riferimento all’andamento degli organici. Allegato A Budget 1986 -Tessitura Dati principali 1) Graduale inserimento di filati prodotti su nuove macchine OE di qualità migliore con rocche metrate e peso oltre 3, 0 Kg. Miglioramento delle caratteristiche dell’attuale filato anello. Tutto ciò consentirà di migliorare le rese dei telai. 2) Eliminazione della ritoccatura delle formaggelle OE grazie all’introduzione delle nuove macchine OE. 3) Maggior verifica dei tessuti prodotti rispetto alla situazione attuale. Mediamente si verificherà circa il 70% della produzione totale, contro il 40% circa del 1985. 4) Maggiori cambi articoli/ giorno. Produzioni La produzione prevista globale / anno risulterà di Km. 20. 115 così articolata. Budget / 1986 Km.

stima 1985

%

Km.

%

Teleria

12. 679

63, 0%

8. 593

43, 7

Militari

1. 772

8, 8

2. 052

10, 4

Abbigliamento 1. 353

6, 8

7. 853

40, 0

Denim

3. 301

16, 4

1. 164

5, 9

Velluti

1. 1010

5, 0

-

-

-----------------------

----------------------

20. 115

19. 662

100

100

La produzione totale sarà sostanzialmente uguale a quella degli anni precedenti, anche se sono prevedibili modifiche del mix. Produttività La produttività dello stabilimento passa da 14, 4 ore lavorate per ml. Di battute omogenee a 13, 9 con un miglioramento del 3, 47% 319


Investimenti Gli investimenti previsti ammonteranno globalmente a 1, 5 miliardi riguardanti modifiche e migliorie tecnologiche ai telai ( 0, 3 miliardi), installazione pulitori viaggianti (0, 6 miliardi), sistemazione locale tessitura (0, 3 miliardi) ed altre migliorie ad impianti e macchine. Organici Gli organici previsti al 31/12/ 1986 saranno di 519 unità, di cui 488 operai e 35 impiegati/ dir. Qualità Miglioramento della qualità del prodotto greggio, grazie a una migliore qualità filato ed una maggiore attenzione da parte delle maestranze. Allegato B Budget 1986 – Finissaggio Produzioni Le produzioni globali giorno previste sono di circa 72. 400 mt, così ripartite: Consuntivo

Budget

1985 ---------------

1986 -------------------

- Tessuti candidi

24. 700

30. 800

- Tessuti tinti

35. 000

36. 500

4. 600

5. 100

- Tessuti stampati

-----------------------

---------------------

64. 300

72. 400

Il volume produttivo annuo sarà di poco superiore al consuntivo 1985 ( 16. 700 Km. contro i 15. 000 del 1985). Produttività Migliora dell’8, 2 % passando da 19, 6 ore lavorate per 1. 000 mt. Omogenei a 17, 9. Il miglioramento è dovuto alla migliore saturazione degli impianti. Investimenti Gli investimenti globali ammontano a 2, 7 miliardi di cui 1, 6 miliardi solo per l’adeguamento dell’impianto di trattamento delle acque reflue. Gli altri investimenti riguardano ammodernamento e potenziamento ad impianti e macchinari. Organici

320


Gli organici operativi previsti al 31. 12. 1986 sono di 159 unità, di cui 139 operai e 20 impiegati/ dir. Qualità Maggiore attenzione al fine di contenere la difettosità nei limiti accettabili. Allegato C Budget 1986- Filatura Produzione Linea anello Produzione di circa 11. 000 kg. Al giorno a Ne medio 31, 5con il 43%di filato pettinato, 18% misto e il rimanente cardato. Le macchine attive saranno 66. Linea Oe Le nuove macchine faranno fronte alla totale richiesta della tessitura con una produzione di 9. 500 kg. Al giorno a Ne medio 12, 4. Investimenti Gli investimenti globali ammonteranno a 3, 6 miliardi dei quali 3, 2 miliardi per l’acquisto e l’installazione di 6 nuovi filatoi Oe, di cui 4 già installati. La differenza riguarderà aggiornamenti e migliorie tecnologiche ad impianti e macchinari. Produttività Le produttività previste dal budget 1986 sono le seguenti : Hok Aci Linea anello ( Ne 24)

8, 46

Linea Oe

1, 25

( Ne 12)

Media Aci prime filature ott. 85 Linea anello ( Ne 24)

5, 30 ( prime 10 su 39 filature)

Linea Oe

1, 31 ( “

( Ne 12)

5 su 18 filature)

• i suddetti valori collocheranno la nostra filatura ad anello alla 25 posizione su 39 filature e la filatura Oe alla 4 posizione su 18 filature partecipanti all’indagine Aci. Le produttività globali al costo raggiungeranno i seguenti valori : Hok al costo Linea anello (Ne 24) Linea Oe

(Ne 24)

Consuntivo 1985

10, 02

11, 2

3, 81

11, 6

-----------------

----------------------321


Media

8, 20

11, 3

I miglioramenti derivano da una serie di interventi di carattere organizzativo e dall’inserimento della nuova tecnologia Oe che consente elevate produzioni con organici ridotti. Miglioramenti organizzativi e nuove assegnazioni Il budget 1986 prevede i seguenti interventi operativi : 1)applicazione dei precedenti accordi di cui al budget 1985, per quanto riguarda la pulizia delle cilindrate da parte dei filatoi rings e modifica delle assegnazioni sui vecchi filatoi Oe 2) carderia e preparazione. Gli addetti carde effettueranno anche il caricamento dei Blenders per i quali è previsto l’allungamento del tappeto. E’ previsto un addetto che lavorerà a turno unico per la pulizia delle mischie dei prelevatori automatici e svolgerà altre funzioni indirette di reparto. Allo scopo si procederà all’allungamento del tappeto dei prelevatori per consentire il cambio delle balle una sola volta al giorno. 3) banchi. In conseguenza del miglior andamento delle rotture e del minor numero di interventi operativi, l’assegnazione passa da 2 a 3 macchine. 4) Roccatura. Fermata delle roccatrici Schlafhorst “S” a seguito dell’avviamento dei nuovi filatoi Oe che producono filato su rocche di diretta applicazione. Per le roccatrici di filato anello l’assegnazione passa da 2, 6 a 3 macchine per addetto, il quale provvederà anche al ritiro delle rocche ed all’alimentazione tubetti. Ciò sarà possibile grazie a miglioramenti tecnologici previsti sulle roccatrici in oggetto che saranno dotate di riciclatore di spole. 5) stiratoi Oe. Cambio di assegnazione da 5 a 6 macchine per addetto, per la sostituzione dei vasi di alimentazione dei filatoi dagli attuali 12” a 18 x 42”. 6) filatoi Oe assegnazione Ne 6

teste / operaio 811

Ne 8

1050

Ne 10

1369

Ne 12

1690

Ne 16 Ne 18

2130 “

2239

7) Ritiro cascami e pressa. Mansione distribuita ad altri indiretti di reparto per l’installazione di una nuova pressa automatica. 8) manutenzione e Servizi. Si procederà ad unificare i servizi di manutenzione e cdz, al fine di utilizzare gli operatori indifferentemente su tutte le macchine e gli

322


impianti;ciò consentirà un utilizzo più razionale delle risorse umane. All’uopo si procederà ad un opportuno addestramento del personale interessato. 9) portineria. Eliminazione della portineria con l’adozione di sistemi audiovisivi di controllo e sorveglianza degli ingressi. Installazione di allarmi di sicurezza in opportuni locali. Nocera Filatura Nel quadro delle iniziative finalizzate al miglioramento della gestione economica dello Stabilimento di Nocera, l’azienda intende, per l’anno 1986, attuare la riorganizzazione dei processi produttivi, ed una migliore differenziazione dei prodotti pur mantenendo gli attuali volumi produttivi di circa 6. 000 tonn. Anno. La notevole concorrenza dei filati cardati di provenienza turca rende economicamente non conveniente la lavorazione di questo tipo di filato e pertanto il budget 1986 prevede lo spostamento del mix produttivo della linea anello verso filati di tipo pettinato meno concorrenziali dal mercato. L’azienda ha in programma l’introduzione di tecnologie avanzate già largamente diffuse presso la migliore concorrenza le quali permetteranno la produzione di filati Oe fino al titolo Ne 24 con possibilità di lavorare anche il titolo Ne 30. Nuove tecnologie In concomitanza con l’avviamento dei nuovi filatoi Autocoro, le parti riconoscono che i nuovi filatoi sono tecnologicamente strutturati per un funzionamento continuo e ne viene garantito il loro pieno e razionale sfruttamento. Le parti, per evitare fermate pregiudizievoli all’integrità dei meccanismi, concordano che detti impianti abbiano un funzionamento ininterrotto. Anche da ciò l’esigenza di definire un orario di lavoro che copra la domenica. Dopo ampia discussione, si conviene quanto segue : orario di lavoro Il lavoro continuo verrà realizzato con l’utilizzo di uno schema di turnazione che preveda cicli di lavoro di 6 giorni alternati a 3 giorni di riposo consecutivi, a scorrimento su tutti i giorni della settimana. L’organico necessario alla realizzazione del suddetto schema comporta l’impiego di 9 mezze squadre pari a 4, 5 unità per posto di lavoro. Finchè non verrà installato un numero sufficiente di macchine, la mezza squadra E completerà l’orario settimanale lavorando fuori reparto ed intervenendo in via prioritaria alla sostituzione di eventuali assenti. L’orario giornaliero sarà di 8 ore ivi compresa la mezz’ora di intervallo con macchine attive. L’orario medio settimanale viene determinato in 34 ore e 40 minuti;esso è raggiunto con la concessione di 2 giornate aggiuntive di riposo che matureranno con le stesse modalità delle ferie. Pertanto ciascun lavoratore presterà la propria opera per 210, 5 giornate annue determinate nel seguente modo : 365- giornate annue disponibili 323


31-fermate aziendali come da allegato calendario industriale (all. C2) 112-riposi derivanti dalla turnazione 6-3/ 6-3 4-ex festività 1- Recupero Epifania 4, 5-una settimana di ferie scaglionata 2-riposi aggiuntivi derivanti dal presente accordo --- 210, 5 giornate lavorabili. La giornata dell’Epifania sarà lavorativa a tutti gli effetti. Essa verrà recuperata individualmente in data da convenire. Le fermate degli impianti indicate nel calendario industriale sono da considerarsi neutre ai fini della turnazione, per cui il riposo cadrà sempre dopo 6 giorni lavorativi. Di norma i lavoratori che intenderanno usufruire delle giornate di assenza individuale dovranno darne comunicazione alla Direzione di stabilimento 48 ore prima, compatibilmente con le esigenze tecniche e produttive. Il valore unitario con il quale verranno calcolate le assenze di cui all’art, 36 del vigente CCNL sarà ottenuto dividendo la retribuzione mensile per 153, 45 per i mesi di 31 giorni, 148, 5 per i mesi di 30 giorni e 136, 6 per il mese di febbraio. Le parti verificheranno nel corso della sperimentazione, a fronte di specifiche richieste sindacali, l’opportunità di una diversa turnazione ( da 6-3 a 4-2 o 2-1) Indennità di reperibilità Viene istituita per gli addetti Open end un’indennità di reperibilità da corrispondere in aggiunta alle competenze contrattuali spettanti. L’indennità è commisurata a L. 1. 000 giornaliere senza incidenza su tutti gli altri istituti contrattuali e Trattamento fine rapporto. Nel caso di assenza esclusi i riposi questo importo non verrà corrisposto. Stiratoi Open end Quanto relativo al lavoro su 7 giorni definito nel presente accordo, si intende esteso anche agli stiratoi Open end, che sono impegnati nel lavoro domenicale dal 7-7 1986 e agli altri reparti per i quali sarà contrattato il lavoro domenicale. Carderia Il reparto carderia e preparazione allo scopo di assicurare il semilavorato necessario all’attività domenicale degli Open end e contemporaneamente di assorbire eccedenze di manodopera, limitatamente alla linea nuova Open end, dal 7-7 1986 lavorerà secondo l’orario previsto a pag. 2 nell’accordo aziendale 29-31974. Accordi di reparto

324


A modifica degli accordi del 3-6-1983 relativi ai reparti Open end e carderia e del 26-3-1985 relativo al reparto Rings, si stabilisce di erogare per effettiva prestazione e secondo quanto già convenuto in detti accordi le seguenti cifre: Reparto Oe

L. 1. 100

Reparto carderia L. 2. 000 Reparto Rings

L. 2. 000

Organici Nell’ipotesi di realizzazione di quanto sopra si prevede un organico operativo al 31-12-1986 di circa 231 unità di cui 20 impiegati e 211 operai. I lavoratori che risulteranno progressivamente esuberanti verranno posti in Cassa integrazione guadagni mensile, a rotazione, con il coinvolgimento di tutta la maestranza. L’azienda anticiperà l’intero trattamento alle normali scadenze e limitatamente ai lavoratori interessati. Resta inteso che la Cassa integrazione guadagni a rotazione avrà termine solo al completo assorbimento delle esuberanze. La cassa integrazione guadagni a rotazione è elemento decisivo per la valenza del presente accordo. Fermo restante il carattere integrativo, tutto quanto forma oggetto del presente accordo, verrà di nuovo concordato ed armonizzato con eventuali nuove disposizioni che in materia dovessero venire emesse in sede legislativa e contrattuale sia di categoria che confederale. Allegato C2 Ferie collettive n. 3 settimane nel periodo estivo (a partire dall’estate 1987). Fermate collettive -Capodanno;vigilia di Pasqua;Lunedì dell’Angelo;Santo Patrono;Primo Maggio; Vigilia di Natale; Natale; Santo Stefano;San SilvestroSpostamento festività: Utilizzo del 15 agosto “

“ 25 aprile

per la vigilia di Pasqua “

Pasqua

1 Novembre

Vigilia di Natale

8 dicembre

S. Silvestro

ore di attività di impianti Giorni 365 – 21 (ferie) -10 festività = 334. Giorni 334 x24 ore

= 8. 016 ore annue di attività.

Ambiente Nufi

325


Le parti riconoscono l’esigenza di riverificare i problemi legati all’ambiente di lavoro, rimuovendo le disfunzioni esistenti. Si definisce uno specifico incontro da tenersi in sede aziendale il corrente mese di Luglio. Ambiente Angri Le parti convengono sull’esigenza di accelerare i tempi di realizzazione degli impegni già definiti di adeguamento e miglioramento dell’ambiente di lavoro ed ancora sulla necessità di chiudere, entro luglio, l’indagine sulla salute dei lavoratori e sull’ambiente di lavoro nel reparto lavorazione Denim, come concordato nell’accordo aziendale del 2-4-1986.

049.

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330


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50.

INDICE DEI NOMI 331


Abbundo Ugo, 179 Accardo Bruno, 282 Agnelli Gianni, 30 Alfani Gino, 122, 123 Alfano Nicola, 334 Alfonso D’Aragona, 54 Aliberti Carlo, 187 Alicata Mario, 207 Alinovi Abdon, 186, 194 Amaldi Eduardo, 370 Amarante Giuseppe, 142, 221, 223, 259 Amato Antonio, 221, 222, 248 Amato Domenico, 334 Amatori Franco, 46 Amendola Giovanni, 182, 186, 196, 199 Amendola Giorgio, 21, 202, 207 Amendola Pietro, 186, 200, 215, 216 Amoretti Aldo, 314 Andreotti Giulio, 309, 312, 333 Andreucci F., 147 Angrisani Luigi, 200, 216 Aprile Guglielmo, 424 Arcaini, 211 Archinto Filippo, 42 Argentino Fernando, 6, 221, 334 Armani Giorgio, 348 Arkwright Richard, 38 Aselmeyer Giulio, 70, 73, 88, 89, 95, 102, 128 Autori Margherita, 146, 157 Avagliano Anna, 303 Azone, 230 Bagnasco Arnaldo, 170, 391 Baiocchi Giuliano, 6, 259, 260 Baratta Primo, 203 Barba Enzo, 193 Barbagallo Carlo, 61 Barbagallo Francesco, 84, 149 Barbarulo, 106 Barberis Guido, 339 Barbieri Angelo, 154 Barneschi Gianluca, 181 Baselice Orazio, 102 Bassetti Piero, 288, 319, 320 Bassolino Antonio, 405 Bastianelli, 161 Beecher Stowe Harriet, 183 Belmonte Arturo, 198 Benetton Luciano, 328, 388 Beraglia Roberto, 327 Berlusconi Silvio, 203 Berta Giuseppe, 339 332


Bertoldi Silvio, 181 Bianco Gerardo, 265, 405 Biavati Orazio, 213 Birindelli Luca, 396 Bombacci Nicola, 159 Bo Carlo, 232 Bonaparte Napoleone, 61 Bonito Raffaele, 327 Bonomi Ivanoe, 194 Bonazzi Giuseppe, 170, 391 Bordiga Amadeo, 137, 147, 150 Borsetti Giancarlo, 25 Bottiglieri Girolamo, 215 Brusadetti, 165 Brusco Sergio, 312 Buchy Fernando, 134 Buchy Filippo, 74 Buchy Giuseppe, 82 Budi Francesco, 114, 115 Byron George Gordon, 404 Cacciatore Francesco, 160, 186, 187, 198, 215 Cacciatore Luigi, 141, 142, 158, 160, 185, 186, 187, 198 Cacciapuoti Raffaele, 223 Calice Nino, 273 Calvino Italo, 29 Campilli Pietro, 172, 207, 211 Canto Bruno, 127, 133, 136, 139, 166, 167 Cantoni Eugenio, 43, 44, 45, 49, 230 Cantore, 134 Carcano Paolo, 121 Carlo III, Duca di Borbone, 55 Carniti Pierre, 32 Carocci Gianpiero, 27 Carotenuto Mario, 187 Carrara Anna, 299 Cartwright Edmund, 38 Casillo Salvatore, 6, 170, 203, 391 Cassese Antonio, 202 Castronovo Valerio, 17 Catalano Oreste, 187, 202 Cavotta Aniello, 334 Cerchia Gianni, 202 Cestaro Antonio, 64 Chiaromonte Gerardo, 405 Chieffi Italo, 180 Chieffi Mary, 197 Child John, 39 Churchill Winston, 403 Ciccotti Ettore, 122 Cilento Raffaele, 71, 73 Cilento Martino, 71, 73 333


Cimmino, 248 Cinque Gabriele, 327 Cirio Giuseppe, 170 Ciuffi M. , 64 Codugno, 122 Compagna Francesco, 253, 254 Conforti Raffaele, 57, 182 Conte Carmelo, 273, 405 Cortese Nino, 172 Corvino Gennaro, 291 Cosimato Donato, 72, 94 Costabile, 201 Covino Renato, 339 Croce Benedetto, 253 Crompton Samuel, 38 Crucito Luigi, 334 Crudele Silvestro, 203, 221 Cucchi Giuseppe, 396 Cuomo Alfonso, 203 D’Acunto Franco, 317, 334 D’Agostino Matteo, 180, 311 D’Aiello Niccolò, 55 D’Ambrosio Antonio, 334 D’Ambrosio Vincenzo, 334 Dall’Ara Giordano, 186 D’Andrea Raffaele, 74, 107 D’Arezzo Bernardo, 203, 215, 239 D’Arienzo Gaetano, 198 D’Auria Vincenzo, 334 D’Epifanio Luigi, 155 De Agostini, 321 De Angeli Ernesto, 230, 273, 334 De Bartolomei Gennaro, 160 De Caro, 152 De Felice Renzo, 183 De Lorenzo Francesco, 405 De Luca Vincenzo, 317 Del Gaizo Angelo, 136, 172, 212 Del Re Giovanni M., 396 Della Rocca Saverio, 202 De Santis Raffaele, 327 Della Valle Diego, 348 Del Mese Paolo, 333 De Martino Carmine, 203, 208, 216,236, 237, 238, 239 De Matteo Luigi, 96, 97, 100 De Michelis Gianni, 284, 286 De Mita Ciriaco, 203, 242, 261,262,263, 265, 405 Dente Donato, 94 De Rosa Gabriele, 64 De Rosa Luigi, 94 D’Epifanio Luigi, 155 334


Di Blasi Rocco, 239, 262 Di Donato Giulio, 405 Di Giorgio Claudia, 367, 369 Di Marino Gaetano, 6, 163, 171, 185, 187, 198, 200, 217, 239, 305 Di Marino Lucia, 197 Di Massa Giuseppe, 334 Di Mauro Giovanni, 198 Di Vittorio Giuseppe, 11 Donat Cattin Carlo, 30, 263 Dorso Guido, 254 Dragone Alfonso, 193, 223, 233 Duò Gilmo, 284 Egg Giangiacomo, 70, 95, 100 Einaudi Luigi, 206 Errico Ernesto, 207 Escher Alberto, 70, 71, 77, 87 Escher Alfonso, 102 Escher Gaspare, 77 Fabbrocino Gennaro, 221 Falcone Antonio, 3 34 Falcone Enea, 279 Falivena Aldo, 206 Fanfani Amintore, 24, 230, 238, 239 Fantoni Guido, 296, 297 Favilla, 75 Favrin Antonio, 321 Fedeli Valeria, 6, 16 Fehlmann Giovanni, 73 Fenio Giovanni, 202, 223 Ferdinando II, 77 Ferdinando IV di Borbone, 63 Fermariello Carlo, 224, 306 Ferragamo Ferruccio, 319 Ferraiolo Mario, 203 Ferrara Pietro, 62 Ferri Errico, 146 Ferro Luciano, 118, Ferro Marco Antonio, 203, 222, 248 Festa Gianni, 227 Festa Guglielmo, 6 Fichera Franco, 239, 262, 263 Filippelli, 192 Fiore Nicola, 11, 110, 133, 142, 145, 146, 147, 148, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 159, 160, 161, 162, 163 Flaubert Gustave, 405 Florio Domenico, 203, 216 Foa Vittorio, 224 Formica Ciro, 200 Fortis Marco, 345, 346, 347, 348 Fortunato Anna, 303 Fortunato Michele, 334 335


Francesco I, 42 Franchomme ,74 Freitag Dittelo, 70, 73, 90 Freitag Giovanna, 79 Freitag Rudolf, 78, 79, 80, 95, 100, 113, 115 Frua Giuseppe, 230 Fruscione Nicola, 187 Fugier Andrè, 60 Fumagalli Saverio, 77 Fumi Gianpiero, 39 Fusco Vincenzo, 73 Galante Nino, 300 Galante – Fumo, 83 Galanti Giuseppe Maria, 60 Galasso Giuseppe, 54 Galdi Genoveffa, 303 Gallino Luciano, 379 Gargani Giuseppe, 265 Garibaldi Giuseppe, 118 Garofalo Teresa, 303 Garuglieri Mario, 186 Gava Antonio, 211, 405 Genoino Antonio, 83 Genovesi Antonio, 59 Giannattasio Alfonso, 334 Giardino Renzo, 284 Giglio, 309, 312 Giolitti Giovanni, 10, 138 Giovene e Raffaele, 100 Giunti Aldo, 259 Glarner Federico, 74 Glarner Rodolfo, 82 Gobetti Piero, 254 Gomez D’Ayala Mario, 194 Gramsci Antonio, 158 Granati Feliciano, 200, 213, 215 Granelli Luigi, 329 Graziano Luigi, 259 Grieco Ruggero, 147 Grimaldi Errico, 155 Grimaldi Guerino, 317 Gruber Alberto, 72 Gruber Federico, 72, 73, 95 Guadagno Felice, 121, 122, 123, 124, 401 Gualtieri,129 Gullo Fausto, 195, 223, 245 Hargreaves James, 38 Ianniciello Franco 296 Iemma, 182 Illiano Giustino, 428 Imbucci Giuseppe, 140 336


Inghirami Paolo, 328 Ingrao Pietro, 264 Ippolito Felice, 371 Isaia Gianluca, 352 Isolani Pieraldo , 284 Ivone Diomede, 117, 140 Jannelli Mario, 187, 215 Kay John, 38 Krumm, 43 La Feuillade, 60 Lama Luciano, 259 Lambiase Antonio, 202 Lambiase Filomena, 303 Landi Alferio, 334 Lanocita Giuseppe, 182, 194, 195, 196 Laulonio Carmine, 192 Lauro Achille, 203 Lauro Pietro, 73 Laveglia Pietro, 192, 239 Leone Massimo, 334 Lepre Aurelio, 183 Lettieri Giovanni, 273, 334, 427, 429 Lettieri Nicola, 309 Levrero Silvano, 194, 258 Liguori Guido, 28 Limodio Gaetano, 334 Linguiti , 213 Lisi Nino, 246, 248 Livini Ettore, 322 Lizzadri Oreste, 147 Lombardi Anna, 199 Lonardi Giorgio, 320 Longobardi Mario, 327 Lopardo Angelo, 155 Loreto Fabrizio, 6, 16 Luberto Lidia, 425 Lucia Piero, 7, 12, 13, 16, 22, 180, 334, 400, 401, 402, 403, 404, 405 Luciani Matteo, 203, 206 Lungonelli Michele, 339 Lussana Carolina, 339 Lutrario, 139 Luzzatto Luigi, 17 Maglietta Clemente, 214 Maiorano Gaetano, 260 Malaparte Curzio, 178 Mancino Nicola, 265, 405 Manzo Amedeo, 223 Marchall George Catlet, 168 Marcellino Nella, 334 Marino Maria, 303 Marra Claudio, 428 337


Marstaller Ettore Giulio, 95 Martuscelli Guido, 200 Marzotto Pietro, 216, 224, 230, 248, 309, 319, 320, 321, 322, 328, 329 Marzotto Paolo, 321 Masseroli Franco, 301 Materazzo , 155 Matteotti Giacomo, 10, 141 Mauke, 79 Medici Luigi De’, 172 Memmi Piero, 195 Menichella Donato, 172, 211 Menna Alfonso, 179, 180, 187, 203, 225, 226, 238, 239, 241, 243, 244, 245, 246, 247, 249, 262 Meyer Arnoldo, 80 Meyer Giangiacomo, 43, 77, 78, 79, 83, 95, 100, 101, 115 Milite Claudio, 221, 223, 260, 262 Mion Gianni, 319 Monetti Eddy, 424 Morandi Rodolfo, 61 Moro Aldo, 24, 309 Moscati Demetrio, 206 Mossuto Pina, 303 Mott, 211 Murat Gioacchino, 67, 77 Murino Raffaele, 215 Muscolino Piero, 181 Mussolini Benito, 160, 181, 183 Napoli Matteo, 160 Natella Pasquale, 72, 94 Natta Giulio, 370 Nitti Francesco Saverio, 153 Nitti Raffaele, 124, 401 Nocera Raffaele, 102 Notari Gabriele, 212 Notarianni, 138, 139 Novella Agostino, 224 Oboe Bruno, 314 Olivetti Adriano, 338, 366, 370, 371, 373 O’Nelly , 74 Ottiero Ottieri, 29 Pagano Raffaele, 334 Pajetta Giancarlo, 198 Panfilo Longo, 160, 215 Panico Guido, 91, 207, 389 Paone Gino, 352, 424 Papileo, 160 Pappalardo Alberto, 193 Paratore Giuseppe, 167, 211 Parrilli Mario, 187, 203 Pasolini Pierpaolo, 25 Passerin Costantino, 319 338


Pastore Vitantonio, 77 Pellecchia Corradino 207 Pepe, 74 Perfetti Francesco, 181 Perrone Vincenzo, 142, 160 Perrotta Gianbattista, 200 Pesce Angelo, 115 Petrone Carlo, 203, 236, 237 Petti Raffaele, 158, 179, 187, 215 Pezzullo, 248 Pfister, 70, 89, 95 Piccoli Flaminio, 263 Pio X, 146 Pisapia Gerardo, 334 Placanica Augusto, 194 Polli Eduardo, 273, 288, 334 Pollio Gaetano, 317 Polsinelli Giuseppe, 98 Pomicino Paolo Cirino, 273, 405 Ponzini Pino, 6 Popper Karl, 25 Possamai Paolo, 322 Prete Andrea, 6, 394 Prodi Romano, 334 Prudenza Tommaso, 203 Ragosta Matteo, 201, 202, 223 Rainone Mario, 223 Raiola Margherita, 303 Ramella Franco, 9 Randone Bruto, 211, 231 Ravera Bruno, 309, 311 Rea Domenico, 179 Rescigno Giuseppe, 58 Reviglio Franco, 301 Ricciardi Cesare, 198, 212 Rigoli Rinaldo, 122 Rinaldi Olga, 303 Riva Domenico, 42 Roberts Richard, 38 Robustelli Domenico, 74 Romano Riccardo, 202 Romano Salvatore (? ??????) Romeo Rosario, 17, 18, 131 Ronca Filippo, 155 Rossi Ernesto, 118 Rossi Ignazio, 188 Rossi Michelino, 200 Rovelli Nino, 264 Rovito Pierluigi, 6 Rubinacci Leopoldo, 211, Rubinacci Mariano, 424 339


Ruesch Arnoldo, 134 Ruggiero Romano, 63 Rumor Mariano, 264 Ruocco Silvio, 73, 74 Russo Gaspare, 263 Sabatino Alfredo, 299 Sala Maria, 303 Salis R., 72 Salsano Nicola, 303 Salvati Michele, 391, 392 Santoro Giuseppe,tipografo, 75 Santoro Giuseppe, 113, 341 Saragat Giuseppe, 172, 187 Scalfaro Oscar Luigi, 281 Scaramella Domenico, 179, 182, 221, 222 Scarlato Guglielmo, 6, 405 Scarlato Vincenzo, 199, 239, 262, 263, 264, 402 Scarsi Giacomo, 163 Scarsi Giovanna, 163 Scelba Mario, 206 Scheda Rinaldo, 259 Schettini Mario, 199 Schiavo, 179 Schiavone Lelio, 188 Schlaepfer Giovanni Corrado, 44, 70, 71, 72, 73, 74, 76, 82, 85, 87, 88, 90, 95, 100, 101, 106, 114, 119, 125 Schioppa Umberto, 98 Scotti Enzo, 310, 312, 405 Secchia Pietro, 200 Segni Antonio, 215, 223 Senape Giuseppe, 334 Serio Raffaele, 334 Sgarbi Giorgio, 270 Sgroia Paolo, 105 Sicignano Ludovico, 199 Siciliano Mario, 187 Sideri Augusto, 74 Siniscalchi Filippo, 178 Sinno Andrea, 61 Somma Pina, 299 Sorgenti Carmine, 155 Soriente, 171, 180, 221 Spadolini Giuseppe, 54 Sparano Emilio, 202 Sparano Vincenzo, 202 Storer Silvano, 321 Stragmann , 74, 134 Subbrero Giancarlo, 339 Sullo Fiorentino, 203 Tamigi Francesco, 299 Tancredi D’Altavilla, 55 340


Tarle Evgenij Viktorovic, 61 Tasso Torquato, 117 Tchou Mario, 370 Tesauro Giuseppe, 216 Tiranna Giuseppe, 253 Togliatti Palmiro, 186 Tomei Sandro, 274 Topatino Giuseppe, 303 Tortorella Almerigo, 188 Toscano Domenico, 199 Trapanese , 123 Tremelloni Roberto, 61 Trentin Bruno, 28 Turani Giuseppe, 17, 361, 365 Turco Bruno, 193 Turco Tina , 193 Turner James, 74 Turner Joseph, 74, 136 Umberto I, 179 Valentino Mario, 424 Valmarana , 211 Vanoni Ezio, 211 Verdinois Giovanni, 73 Vettraino Bruno, 325 Vicidomini Giuseppe, 118, 158 Vignola Giuseppe, 6, 186, 221, 224, 229, 231, 305, 306 Villabruna , 211 Villani Pasquale, 60, 62 Viola Manlio, 187 Virilio Paul, 25 Visconti Raffaele, 178, 192 Visconti Luchino, 26 Vitolo Alfonso, 233 Vittorini Elio, 29 Viviani Armando, 223 Volino Alfonso, 223 Volpe Roberto, 187 Volpe Maria Teresa, 187 Volpe Paola, 187 Volponi Paolo, 29 Volzone Onorato, 318 Vonwiller Davide, 70, 71, 73, 76, 82, 84, 85, 86, 87, 88, 89, 90, 95, 100, 102, 169 Weber Maria, 376 Weemals Eugenio, 73, 74 Wenner Federico Alberto, 44, 76, 79, 82, 85, 87, 88, 91, 95, 100, 101, 102, 106 Wenner Alberto, 71, 73, 77, 91, 102, 115 Wenner Federico, 76, 102 Wenner Giovanni, 91 Wenner Giulio, 91, 102 Wenner Roberto, 79, 80, 91, 95, 102, 113, 114, 115, 119, 122, 123, 124, 125, 126, 128, 401 341


Wenner Rodolfo, 127 Zollinger Giovanni Rodolfo, 70, 77, 78, 83 Zueblin Corrado, 73, 77 Zueblin Emilio, 72 Zueblin Gaspare, 77 Zueblin Giulio, 73 Zueblin Federico, 70, 71, 95 Zegna, 377

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