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Trimestrale, marzo 2013-giugno 2013 - Anno IV, numero 14 - Poste Italiane SpA - Spedizione in Abbonamento Postale - 70% NE/PN
primavera 14
Pietre colorate stringi tra le mani. Ruvide, liscie, porose, fragili o dure. Minerali o calcaree. Le pietre come il vino. Nei colori del vino. La negazione delle parole. Non parlare del vino. Lo sciupi. Bevilo, in silenzio. Scegli, prova, avvicina, sbaglia. Il vino parla. Noi no. Non accettare consigli. Non servono i sommelier, non servono i giornalisti, non servono i fotografi. Fatti spiegare da chi il vino lo fa. Come lo fa. Tutto il resto è tuo.
tornareacolori Pietre colorate, racconta il lavoro, racconta gli uomini. Un giornale per sapere e per immaginare. Per assaporare, non cercando significati. L’unico significato è nel vino.
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pietre colorate
Uomini Dentro al quadro, oltre la bottiglia p. 4
Foglio trimestrale dell’associazione culturale The wine-ers, gli uomini del vino Via Favola, 18 - 33070 Polcenigo (PN), registrato presso il Tribunale di Milano il 12/10/2009, n. 462, da Federico Graziani Anno IV, numero 14 Marzo 2013 - Giugno 2013 Euro 11,00
Viaggi Valle D’Aosta colore pastello p. 6 Giorgio Bocca Incontri Esterno piacentino p. 8
Direttore responsabile Marco Pozzali Redazione Via Favola, 18 - 33070 Polcenigo (PN) redazione@pietrecolorate.com Testi Marco Mantovani, Francesco Orini, Marco Pozzali, Leila Salimbeni, Sandra e Marco Sara, Andrea Scaramuzza, Diego Sorba, Paolo Tegoni, Riccardo Vendrame Foto Le foto dove non diversamente specificato sono di ©Francesco Orini
Incontri/2 My favorite things p. 10 Marco Cassini Suggestioni Per immagini e parole p. 14 Miraggi Trasparenze rosa marroni p. 15
Comitato editoriale Roberto Barchi, Federico Graziani Ivan Messone, Francesco Orini Marco Pozzali
Dispensa Il senso della cucina per Ettore p. 16
Ci hanno aiutato Stefano Magnanini, Agata Del Grano
Ricreazioni A.A.A. “figaro editore” cercasi p. 18
Progetto grafico Daniela Beati Contatti www.pietrecolorate.com info@pietrecolorate.com Stampa Arti Grafiche Castello SpA via Europa, 33 46019 Viadana (Mn) Stampato su carta Fedrigoni Arcoprint Edizioni 1.7 gr. 80
Nella Vigna Come sta andando la stagione a Valgiano? p. 21 Carlo CasolaValerio Varesi Ettore De Bortoli Fuori dal tempo Cuprese de la Colonnara p. 22 Pensiero di primavera p. 24
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Editoriale
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Quante primavere... di Sandra e Marco Sara, Az. Ag r. Marco Sara La Primavera del Botticelli La Primavera di Praga La Primavera di Bellezza di Fenoglio La Primavera di Vivaldi La Primavera araba Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera di Kim Ki-Duk La Primavera dei popoli Alla Primavera di Leopardi 36 e 38 Primavere... le nostre.
Sandra: quante primavere! Alcune le abbiamo vissute, altre sostenute, altre sognate, alcune soltanto sentite. Le nostre, invece, sono cambiate. Marco: sei sempre un po’ nostalgica... Certo la Primavera è il momento in cui la bellezza della natura diventa più accessibile e visibile a tutti e questo è innegabile... Ma fa pur sempre parte di un tutto e così deve essere vista; l’“esame delle parti non porta mai alla comprensione del tutto” diceva Fukuoka. Non possiamo godere del tepore primaverile senza il rigido inverno; tutto è profondamente legato e ciclico. Per me Primavera significa riprendere contatto con tutto ciò che ci circonda dopo mesi passati in cantina; quindi per me inizia prima. Anche se non si vede, se il tempo è ancora freddo e ostile riesco a sentirla e questo mi dà un forte senso di appartenenza. Sandra: la Primavera è stata il tempo dei nostri viaggi, della scoperta dell’altro “diverso” da sé. Ora è diventata il tempo dei compleanni dei bimbi, della loro voglia di stare fuori. Sono state le Primavere della leggerezza ora sono diventate le Primavere della consapevolezza. Marco: la Primavera è, ogni volta, un nuovo inizio, una nuova opportunità; ci viene incontro un mondo nuovo, ricco di fertilità, di apertura, di possibilità. Sandra: importante resta la consapevolezza di una profonda unità che lega tutti i viventi e che si esprime nei ritmi del giorno, delle stagioni annuali, delle fasi della vita fisica e dei momenti della Luna e del Sole; viviamo inseriti in un tutto in cui ogni parte è interdipendente dalle altre; noi stessi dipendiamo da animali e piante, e loro sono legati a noi: questa è la radice della nostra responsabilità. Marco: credo che a noi agricoltori sia data questo privilegio-possibilità: di percepire la natura nel suo insieme.
DICI MANI Erano bei giorni di primavera, nei quali «l’inverno dell’umano scontento» si sgelava come la terra, e la vita - che fino allora aveva torpito - incominciava a risvegliarsi. (H. D. Thoreau, Walden, ovvero la vita nei boschi)
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i G i o rg i o E r i o l i j
Dentro al quadro, oltre la bottiglia Nel ricordo di un incontro, uno di quei momenti in cui la notte sembra non arrivare mai perché le giornate, di colpo, ci si allungano sotto al naso e Leila Salimbeni
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ono passati più di tre mesi da quando ho sentito per l’ultima volta il rintocco di quell’orologio a pendolo. Erano precisamente le cinque del pomeriggio e il sole, filtrando dalle tendine ricamate alle finestre, sembrava languire ancora alto, nel cielo, mentre una nebbiolina leggera come una coltre di borotalco sporcava di rosa antico il profilo rozzo di un arnese che ricordava un aratro e, più in là, anche la vigna, posandosi sul suo reticolo di filari, non più nitidi, che a perdita d’occhio sembravano messi lì per indicare al sole la strada fino all’orizzonte. Era una di quelle giornate in cui la notte sembra non arrivare mai, e non perché ci si è svegliati troppo presto, ma perché le giornate, di colpo, ci si allungano sotto al naso. Eravamo arrivati da Erioli almeno sei ore prima, ma la percezione del tempo, quel giorno, a prescindere dall’asse terrestre e nonostante i rintocchi dell’invadente orologio appeso al muro, proprio dinnanzi a me, era andata a farsi benedire già al secondo calice di Maiolus, rapita, nella fattispecie, da una molteplicità di soggetti tra cui quelli del quadro che avevo davanti. Una faina e un fagiano, per la precisione, intenti a fornicare su uno sfondo verde iridescente, un colore che mi ricordava, bontà sua, precisamente la tonalità dei pappagalli che avevo visto, molto tempo prima, a Malaga. Questa petit madeleine, scomodando Proust,
quel giorno di gennaio nei pressi della fredda e umida Bazzano, mi sbalordiva al punto da suscitarmi un senso di crescente ilarità, un’ilarità che a stento riuscivo a nascondere. Quel vino, ad ogni modo, lo avvertivo come un prodigio, non avevo ancora bevuto un rosso così originale in tutta la mia vita, il profumo dei petali rosa arancio, la melagrana, i netti sentori di salamoia, perfino qualcosa d’olio d’oliva, mi stavano provocando un appetito viscerale, rapace. Si trattava di un Negretto in purezza, mi informa l’uomo che mi stava davanti, proprio sotto al quadro, Giorgio Erioli, che con la mano e con la voce ricamava ghirigori leggeri sul tempo e su tutte le cose del mondo fenomenico. Un rumore improvviso, a quel punto, mi costrinse a ricordare che, da ore, qualcuno stava armeggiando in cucina, manco a dirlo, e sua madre ci si svela portando seco una zuppa inglese così delicata e soffice che al ricordo ancora mi si stringe il cuore: l’Alchermes, pensai in quel momento, è quello delle nuvole che, ora, finalmente, caduche ammiccano alla notte imminente compiacendo ruffiane l’esteta un po’ brillo che ospito da sempre dentro di me.
Albe senza rumore, luminosi fili d’argento sull’iride delle onde ricamano mille voli le rondini, al limitare del cèduo bosco gorgheggia l’usignolo a più voci:
canto lieve di un animo senza pene e tante memorie […] A distanza di tre mesi, dicevo, irretita nel qui e nell’ora dei primi tepori e del sole che adesso tramonta che quasi si cena, senza pensarci, senza occasione e senza compagnia stappo un’altra bottiglia Badianum, me lo merito, mi dico, nemmeno il tempo di annusare il calice che mi trovo di nuovo nell’altrove, nel tempo della narrazione, quello del ricordo di quella bolla spazio/tempo scandita dai rintocchi dell’orologio a pendolo e dalle suggestioni della faina e del fagiano su uno sfondo verde esotico color pappagallo malagueño. Quel giorno la luce irradiata dal cielo, appena filtrata dalle nubi disposte come ossi di seppia altissime nel cielo, era fragola e vaniglia, come il gelato della mia infanzia; l’attenzione degli astanti, anche durante la zuppa inglese, era tutta concentrata su di lui, il mattatore, l’istrionico Patron, ma anche chef de cave, dal 2010. Fatto sta che arrivati al Badianum un po’ vacillo, giacché coi suoi occhi furbi Giorgio si mette a interrogarmi con l’aria di chi vuol scrutare ciò che il mio naso ha da dire… non so come, ma riesco a stupirlo trovando una somiglianza tra il suo Pignoletto e un Riesling renano bevuto anni prima in Germania. Lui, che adesso pare fidarsi, mi incalza sorridente interpellando di nuovo il mio olfatto sui sentori di ananas maturo, di in-
...giorgio porta seco la scia del demiurgo scatenato, con un’incontenibile energia, mi si palesa come un uomo magico, capace di sequestrare il tempo 4
uomini calore, calore è questo bicchiere, calore umano, filigranato, che accompagna l’anima in un cielo color alchermes censo, dico io, o ancora di un ananas così maturo da giocare col limite incerto della putrefazione. Quello che penso ma che non posso dire, è che questo nettare profuma così seducentemente la bocca che quasi ti vien voglia di tornare indietro a sussurrare all’attaccatura dell’orecchio di tutti i flirt mai consumati. A un certo punto devo chiedergli di quel quadro, naïf è dir poco, e Giorgio mi spiega che alcuni dei suoi quadri sono stati premiati, quello di cui vorrebbe mandarmi il pdf è uno dei più belli, dice, porgendomi un voluminoso catalogo di artisti contemporanei emiliani mentre lui rosso in viso, forse per modestia, si dilegua in direzione della cucina. I suoi quadri sono ritratti di creature animali a fuoco nei primi piani e indefiniti sullo sfondo: qui il colore dominante è l’argenteo, ma un argento addolcito da un tocco di calore, quello del piumaggio del rapace che, in primo piano, urla a sua volta al grido del fulmine che squarcia il cielo durante una tempesta, a cui fa eco, penso, nell’intento di mitigarla.
[…] Vola alto il falco come da millenni e veloce è la lepre mentre corre per i smeraldini prati, meglio dell’arcobaleno la paziente ruota del pavone e un gatto saggio sbatte le palpebre poiché sogna l’aldilà. Un pastore tedesco fedele abbaia, luce perfetta è quella della lucciole, volo a rumore zero del gufo nella radura buia. Mi riconosco fra tutte queste umili creature, qui ritrovo le mie ancestrali radici: gli antenati degli antenati, ed è subito mia pace in questa loro armonia di cuori. [Radici, di Giorgio Erioli] Ecco che torna, non chiede nulla ma porta con sé una delle ultime bottiglie di Salèbra, uno dei
quei sapori che non farò che ricercare, vanamente, in futuro. Oltre alla bottiglia, Giorgio porta seco la scia del demiurgo scatenato, con un’incontenibile energia, mi si palesa come un uomo magico, capace di sequestrare il tempo, per ore che passano come minuti, mentre ti regala la sua vita interiore di artista, enologo, pittore, poeta, filologo, ricercatore, contadino, e si interrompe al tonfo del tappo estratto dalla bottiglia di turno, stavolta, questo assemblaggio di autoctoni emiliani. Questo brut 2010, un esperimento a detta di chi l’ha creato, mi delizia malizioso per via dei
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meravigliosi fiori bianchi che fanno le fusa come gatti su un letto di zafferano e scorza d’arancia. Calore, calore è questo bicchiere, calore umano, filigranato, che accompagna l’anima in un cielo color Alchermes, mentre nel verde iridescente di un campo d’erba una faina flirta allegra con un fagiano. Col Salèbra arriva la primavera e non sai se è per via del vino o per via dei colori, quel tepore è qualcosa di esistenziale, che sembra appena fuoriuscito dall’invisibile vaso di Pandora che Giorgio custodisce tra le grandi mani tinte dalla terra e dal tannino di chissà quale vendemmia.
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va l l e d ’ ao s ta
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Valle d’Aosta colore pastello La suggestione di un viaggio a piedi, il disgelo, il verde che lentamente prende forma punteggiato da piccoli fiori bianchi, sottili come vini dal tratto elegante e raffinato e Marco Pozzali
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tetti delle case sopra Dolonne sono lastre di pietra naturale, a lose, come si dice qui. Con il sole si scaldano e luccicano, con la pioggia si fanno grigi, plumbei, opachi. Camminare sopra Courmayeur, ultimo passeggio di una settimana valdostana, per respirare l’estremo, piccolo sole di una primavera appena cominciata che sta sconfiggendo questo lungo inverno. Dopo il ponte di legno e il sentiero di sassi battuti sulle radici affioranti dei pini, abbiamo girato a destra uscendo dal bosco per oltrepassare il torrente e poi risalire verso il centro abitato da sud, costeggiando una stalla di mucche. Proprio lì a fianco abbiamo calpestato una piccola lingua di prato verde e freschissimo d’erba nuova e croccante. Il profumo e il colore di quell’erba portano rinnovamento, rinascita, natura che perpetua le sue nuove forme in ogni stagione; un’altra primavera è tornata, dopo il freddo inverno e sta manifestando la sua im-
mediata bellezza. E il vino per questa primavera ha gli accenti pastello dei bianchi valdostani, tratteggiati, esili e tenui. Scoprire vini, in una piccola regione che presenta i più alti monti della nostra penisola, dove lo spazio per l’agricoltura e le coltivazioni è davvero esiguo, è stato il tema del nostro camminare. La Valle d’Aosta presenta una grande valle centrale, lunga circa novanta di chilometri, da cui si irradiano altre piccole vallate. Le altissime montagne, Monte Bianco, Monte Rosa, Gran Paradiso e Cervino, i ghiacciai, il fiume, la Dora Baltea, e la conformazione orogenetica dei terreni sono venuti a determinare un microclima particolare che si è dimostrato nel tempo adatto alla produzione di rossi, di passiti, ma anche, appunto, di bianchi dalla spiccata acidità. Queste sono le vigne più alte d’Europa e si sviluppano su terre povere, segnate dalla neve dal primo autunno fino alla primavera inoltrata.
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Senza contare poi i disagi per l’innesto, i dislivelli, le pendenze faticosissime; motivi, questi, che fanno dei viticoltori aostani veri e propri pionieri del vino. Pensate che, solo per menzionare un caso significativo, visto nel nostro passeggiare, tra i comuni di Montjovet e Arvier i vigneti sono disposti a gradoni e partono dalle rive del fiume per arrivare quasi in verticale alla parete rocciosa della montagna: una salita pazzesca che ricorda la raffigurazione dell’inferno dantesco. Per ottimizzare produzione e vendita in Valle d’Aosta è molto diffusa la costituzione di cooperative che hanno permesso, nel tempo, di pianificare il rilancio di vitigni tipici e di antica coltivazione. La Valle d’Aosta conta oggi su otto denominazioni di origine controllata che si identificano con le località di provenienza. La Doc generica Valle D’Aosta, che si estende per ottanta chilometri, lungo la valle della Dora Baltea e altre sette localizzate, appunto.
viaggi
La Doc Blanc de Morgex et de La Salle, nei comuni omonimi della Valdigne. La Doc Chambave, tra i comuni di Chambave, Saint-Vincent, Pontey, Châtillon, Saint Denis, Verrayes, Montjovet. La Doc Nus, nei comuni di Nus, Verrayes, Quart, Aosta, Saint-Christophe. La Doc Arnad-Montjovet, nei comuni di Arnad, Verrès, Issogne, Challand-Saint Victor, Hône, Champ-Depraz, Montjovet. La Doc Torrette, nei comuni di Quart, Saint-Christophe, Aosta, Sarre, Saint-Pierre, Charvensod, Gressan, Jovençan, Aymavilles, Villeneuve, Introd. La Doc di Donnas, nei comuni di Donnas, Pierloz, Pont St. Martin, Bard. E, infine, la Doc di Enfer d’Arvier nel solo comune di Arvier.
In viaggio con i vini (a piedi) Cave du vin Blanc de Morgex et de la Salle, Blanc de Morgex et de La Salle Brut Vini Estremi. La viticoltura raggiunge qui i suoi estremi; vigneti al limite della resistenza climatica, con inverni rigidi e prolungati, che lasciano spazio a primavere brevi ed estati tiepide appena sufficienti a produrre quel poco di zucchero indispensabile per la produzione di vini di qualità. Il risultato è un vino estremamente fine nei profumi, freschi, delicati e sottili nel corpo, con una caratteristica colorazione quasi trasparente del vino a indicare la difficoltà, a queste altitudini, di elaborare sostanze coloranti durante la maturazione delle uve. Sono vini che affascinano per la loro delicata sinfonia, composta, con una nota leggermente acidula e particolarmente fine nell’espressione. Ottimo lavoro per gli oltre cento conferitori che, con produzioni inferiori a quelle consentite per il consumo personale di vino (circa mezzo ettaro), rappresentano un mosaico unico nella realtà del panorama italiano. Cave du vin Blanc de Morgex et de la Salle, Blanc de Morgex et de La Salle Vin de Glace I vini di ghiaccio sono tipici della Germania più fredda e oggi del Canada, che per ovvie condizioni climatiche si presenta come uno dei maggiori e migliori paesi produttori di icewine. Infatti non capita sempre nel vecchio continente Europa di avere le condizioni ottimali per la produzione di questi vini, dove ricordiamo che la temperatura al momento della raccolta deve essere compresa tra i –8 e i –12 °C. Queste temperature sono indispensabili per permettere il congelamento di parte del succo contenuto nella polpa delle uve ancora appese alla pianta; le molecole di acqua che per prime ghiacceranno, sa-
Les Crêtes, Cuvée Bois Si propone come un vino ricco e intenso per la zona di origine, con un colore giallo oro che sfuma verso il paglierino, colore atipico per queste zone, ove la trasparenza e le tinte più vicine a quelle dell’acqua che a vini bianchi regnano come legge della natura. Il naso, in armonia con il colore, sprigiona aromi che sono un poco slegati in gioventù, ma che si avvicinano e si fondono con un ulteriore affinamento in bottiglia. Questi profumi, di frutta tropicale fresca, bianca come ananas e mango non particolarmente maturi, si avvicinano a sensazioni più calde, leggermente tostate, di caffè, cacao e vaniglia. Come ricorda il nome, questo vino si ottiene dalle migliori vigne di Chardonnay che vengono poi messe a fermentare e maturare in barrique per circa un anno.
La Crotta di Vegneron, Nus Malvoise Flètri Nonus Ci piace molto la cooperativa vinicola La Crotta; testimone di una vitivinicoltura difficile, quella della montagna valdostana, ma anche di varietà d’uva locali interessanti e poco conosciute fuori dai confini regionali. I vitigni dei soci conferitori si trovano nelle zone più vocate nei comuni valligiani di Nus, Varrayes, Saint-Denis, Chambave, Chatillon e Saint-Vincent. Le elevate temperature che si raggiungono durante il giorno, a confronto con quelle assai basse registrate durante la notte, offrono uve raffinate, dai contenuti aromatici peculiari che si riverberano nel tratto dei vini. Il Nus Malvoisie Flètri Nonus ci racconta questo luogo. Dal colore ambrato brillante con sfumature rosa antico, al naso il vino è molto intenso, persistente; sentori di frutta matura, prugna, marasca, fico secco, dattero si incontrano con una leggera speziatura e vaniglia. Al palato l’ingresso dolce non è svenevole, anzi. Il corpo molto denso e zuccherino del vino incrocia una nota amarognola e, ancora, piccante di pepe bianco. La nostra passeggiata enologica si chiude con un Pinot Noir, il più bianco tra i vitigni a bacca rossa.
Les Crêtes, Petite Arvine Vigne Champorette Les Crêtes è un’azienda emergente nel panorama vitivinicolo della Valle d’Aosta e, sebbene sia piuttosto giovane, ha già lasciato intendere il ruolo di leader rispetto a una regione piccola e non molto significativa dal punto di vista delle quantità prodotte, ma che si differenzia per la freschezza e l’eleganza dei suoi vini. Infatti oggi, dove la viticoltura moderna porta a più elevate concentrazioni in zuccheri e quindi a tenori alcolici più elevati, risulta sempre più difficile reperire sul mercati vini di qualità, non eccessivamente alcolici. Ecco perché apprezziamo i vini valdostani che riescono a coniugare personalità e finezza in un’unica materia. Il Petite Arvine si apre con aromi di frutta agrumata fresca, bianca, fine e con aromi che riportano ai fiori di pesco e acacia. Al palato prevale una freschezza che avvolge e pulisce. Vino che nella maturazione sviluppa aromi decisamente più floreali, tipici di questo vitigno, che lo avvicinano a gamberi di fiume saltati con erbe aromatiche, griglia. Dalla Cooperativa La Crotta di Vegneron una Malvasia (100%) in versione Passito.
Gabriella Minuzzo, Pinot Noir Definire queste produzioni vinicole fa quasi sorridere, eppure questa è la realtà valdostana, ricca di microscopici produttori che comunque riescono a distinguersi per una qualità dei vini eccelsa. Parlare e descrivere il Pinot Noir e le montagne è come associare, almeno per quanto riguarda l’Italia, due valori concatenati, gli uni e gli altri legati e inseparabili in quell’espressione di purezza e finezza. Se il vento si potesse rappresentare con un vino sarebbe sicuramente questo, fine e sottile, a volte pungente, che accarezza ma non tocca. Peccato, o per fortuna, queste aziende sono così piccole da non essere significative nel panorama italiano, ma sono quanto di più si avvicina alla realtà di una regione che vede frammentata la produzione e che fatica per i numeri oggettivi di bottiglie prodotte a varcare i confini regionali o piemontesi. Struggente questo Pinot Noir, nella sua freschezza e fragranza, leggero e sottile come il profumo dell’ultima neve che lentamente si è sciolta per lasciare una traccia di verde sulla montagna; dentro di noi.
ranno quelle con una percentuale di zuccheri inferiori che, separate, determinano così una concentrazione per freddo, inversa a quella classica di produzione dei passiti per disidratazione da elevate temperature. Il Vin de Glace, sempre ottenuto con Prié Blanc, è raccolto a dicembre, con profumi delicati di fiori bianchi, pera e leggermente alcolico, con buona lunghezza di bocca.
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i A n d r e a na B a rg u z z i j
Esterno piacentino Una piccola azienda che si propone di mettere in risalto le qualità delle uve rosse autoctone Barbera e Croatina, ma anche gli aromi della Malvasia di Candia e dell’Ortrugo e Paolo Te goni
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attino di metà febbraio sulla via Emilia che marchia di netto l’immobile pianura innevata di fresco. In direzione Piacenza, devio verso l’Appennino sul sentiero della Val Nure, antica via del sale percorsa da carovaniere che trasportavano grano e vino padani scambiandoli con cristalli d’oro bianco, olio d’oliva e spezie provenienti dalla Liguria. A Ponte dell’Olio, in passato punto nevralgico per questi fitti contatti commerciali, salgo in collina alla frazione di Castione nella piccola azienda “Baraccone” di Andreana Barguzzi. Qui Andreana lavora la vigna con incessante passione dai primi anni ’90, anni durante i quali col marito Gigi decise di riprendere in mano i terreni dei nonni materni, trasformando un hobby nel mestiere di vignaiolo. Una bella sfida per una laureata in lettere e un farmacista. I due puntano da subito a mettere in risalto la qualità delle uve rosse autoctone dei colli piacentini e nel 1995 esce la prima annata del Baraccone, vino fermo a base di Barbera e Croatina (detta localmente Bonarda). Le altre uve coltivate sono Malvasia di Candia aromatica, Ortrugo, Chardonnay, Trebbiano, Greco e, da pochi anni anche alcuni filari di Cabernet Sauvignon, impiegati per ottenere un vino passito. Al mio arrivo, ammiro il panorama circostante coi boschi e coi filari imbiancati e ricevo il benvenuto da una coppia di merli che stacca in volo dal niveo candore. Andreana è intenta a ravvivare il caminetto dell’accogliente casa in pietra. Mi racconta dell’entusiasmo iniziale, del sogno che da lì a poco, purtroppo, avrebbe subito un duro contraccolpo per l’improvvisa scomparsa di Gigi. «Mi sono ritrovata ad un bivio e così ho deciso di continuare da sola dalla vendemmia 1998, proseguendo la tradizione della mia famiglia. Una tradizione che ha visto la donna sempre protagonista, soprattutto con mia zia Bianca, attrice della filodrammatica di Ponte dell’Olio, barbiera e viticoltrice, come me». E Andreana ammette di amare questo mestiere «perché ti fa essere tramite tra la natura e coloro che godranno dei vini che produci. Plasmare i frutti della vite per me è fondamentale e le energie spese dal filare al prodotto vino mi fanno sentire parte di un continuum spazio temporale, un cerchio senza fine». Cerchio come ciclo delle stagioni, cerchio come giostra vitale. Giostra in piacentino si dice “baracco-
Foto archivio Az. Baraccone
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incontri ne” e i baracconi itineranti si fermavano in passato proprio a Folignano di Ponte dell’Olio dove, a inizio Novecento, fu creata la prima cantina famigliare. Proprio da questo deriva l’appellativo aziendale, e le reminescenze giocose e festaiole di funamboli, cantastorie e saltimbanchi hanno ispirato il giocoliere stilizzato che campeggia su ogni etichetta. Le giostre regalano emozioni, piacere condiviso per chi sa cogliere: proprio come i vini di Andreana. Con “Baracca e Burattini”, la festa in cantina che Andreana ripropone ad ogni tarda primavera, intende recuperare quelle atmosfere, colmando l’aia di calici e danze turbinanti. Le uve bianche lavorate in uvaggio danno un vino brioso e fragrante, chiamato “Zagaia” come l’antica denominazione dialettale del vigneto. Chardonnay e Greco gli conferiscono stile e strut-
Gutturnio Superiore - denominato così dal toponimo del vigneto - macerato sulle bucce per due settimane con frequenti follature e rimontaggi, pieno e verticale allo stesso tempo, e il Riserva “Ronco Alto” dall’omonima piccola e vecchia vigna posta a quattrocento metri s.l.m.. Prodotto solo nelle migliori annate e in limitata quantità, Ronco Alto è l’archetipo del Gutturnio di razza, dove Croatina e Barbera si fondono all’unisono cantando assieme. Lo degusto lentanente davanti al fuoco del camino, poi a passeggio nella neve: il freddo profumo invernale si compenetra con i suoi balsamici calori. Questo trittico rosso esprime fortemente il saper fare e il tocco mulìebre di Andreana, che riesce ad amalgamare con mano di viticoltrice le diverse anime delle uve, come nel castone due pietre preziose. L’ultimo vino nato in casa Barguzzi è il “Filiblù”,
Foto archivio Az. Baraccone
tura, Trebbiano e Ortrugo acidità e la Malvasia di Candia aromatica guizzi profumati inimitabili. Proprio su quest’ultimo nobile vitigno padano - che nel piacentino ha trovato la sua terra d’elezione Andreana ha scommesso molto, mettendo recentemente a dimora un nuovo vigneto utilizzando un clone di proprietà: «vorrei produrre una Malvasia ferma ben rappresentativa del nostro terroir, figlia di queste alte colline dai substrati ferrosi, e ottenere le stesse soddisfazioni che ho con Croatina e Barbera per i miei Gutturnio». I suoi Gutturnio sono tre: il “Ri’ More” - dal nome del piccolo corso d’acqua che scorre a valle della collina vitata - giustamente frizzante, immediato e di proverbiale bevibilità, il “Colombaia”
La giostra Jardin du Luxembourg Con un tetto e con la sua ombra gira per breve ora la giostra dei cavalli multicolori, tutti del paese che lungamente tarda a tramontare. Molti sono attaccati alle carrozze, eppure tutti hanno un cipiglio fiero, e un feroce leone, tinto in rosso, va con loro, e a quando a quando un elefante bianco. Perfino un cervo c’è, come nel bosco, ma porta sella e, fissa alla sua sella, una minuscola bambina azzurra. E cavalca il leone un bimbo bianco tenendosi ben fermo con la mano che scotta, mentre il leone scopre lingua e zanne. Foto archivio Az. Baraccone
battezzato così per il colore blu di Prussia che assume la buccia del Cabernet Sauvignon dopo l’appassimento. Sotto il portico orientato a sud vengono appesi i grappoli a festone che saranno vinificati a inverno inoltrato. Ne risulta un vino stratificato e cremoso e dalla sensuale carica tattile. Il naso non vorrebbe più staccarsi dal bicchiere per la giostra di aromi che ne fuoriesce. Succede come quando le mie orecchie ascoltano le graffianti note di “So What” di Miles Davis. Chiudo il cerchio, a mia volta, della visita ad Andreana prenotandomi tosto per la prossima edizione di “Baracca e Burattini” o per un giro di giostra al primo passaggio dei baracconi.
E a quando a quando un elefante bianco. E passano su cavalli anche fanciulle in vesti chiare, quasi troppo grandi per questi giochi e nella corsa alzano lo sguardo in su, verso noi, chi sa dove. E a quando a quando un elefante bianco. E il tutto va e s’affretta alla sua fine, e gira e gira in cerchio e non ha meta. Un rosso, un verde, un grigio che balena, un breve, appena abbozzato profilo. E ogni tanto rivolto in qua, beato, un sorriso che abbaglia e che si dona al cieco gioco che ci toglie il fiato... Rainer Maria Rilke
con “baracca e burattini”, la festa in cantina che andreana ripropone a ogni tarda primavera, intende recuperare quelle atmosfere, colmando l’aia di calici e danze turbinanti 9
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My favorite things Trent’anni senza sosta fatti di calci a un pallone, di jazz nei club fumosi di Parigi e di belle donne pronte a fargli dimenticare tutto il resto. Poi il vino e
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upero Ovada verso Rocca Grimalda, guidato al telefono dalla voce di Pino; lascio la via principale per una stretta strada tutta curve, bosco, vigne, perdendo velocemente ogni riferimento. Il cielo terso lascia brillare la poca luce rimasta, mentre Pino sulla porta di casa mi fa segno di sbrigarmi: sono in ritardo e la cena è pronta. Qui la vita segue quella del sole. All’ingresso subito la tavola: asparagi e uova; il pane sul tagliere con il suo coltello, da tagliare secondo il bisogno; due caraffe piene di vino, e i miei occhi a cercare le bottiglie de ‘Le Olive’ e ‘Gli Scarsi’, lasciate quasi in disparte. L’imbarazzo del non conoscersi si supera facilmente seduti a un tavolo: le mani hanno il loro da fare, una pausa per togliere dalla stufa a legna il brasato, annuso mentre ascolto, la bocca si riempie e si svuota di parole, il vino diventa punteggiatura dei discorsi, che presto prendono la forma dei ricordi. Trent’anni senza sosta, fatti di calci a un pallone e di jazz nei club fumosi di Parigi, di studio per diventare “dottore in farmacia” - come lo presenta Mario Soldati -, e di belle donne, pronte a fargli dimenticare tutto il resto. Poi quasi un ricatto, la necessità di una scelta: «Mio padre aveva deciso che o il terreno lo prendevo io, o l’avrebbe venduto. Allora mi sono domandato se ce l’avrei potuta fare; ho tentennato un po’, perché alla fine ho studiato per non venire nella vigna, però di fronte all’alternativa della vendita dei vigneti ho deciso di provarci, e da lì è iniziato tutto, nel ’67». Nessuna scuola, non c’era il tempo né la voglia, e a quel tempo gli incontri avevano ancora un valore, come quello di un mestiere da insegnare: «C’era una famiglia in Piazza S. Domenico a Ovada che veniva da Barcelonette, nel Delfinato: gli Aubert, in italiano poi Oberti. Ogni anno producevano diecimila quintali di vino, che dopo quaranta anni non erano ancora ossidati. Quando ho iniziato, il loro vecchio capo cantiniere mi ha beccato un sabato sera al caffé, e mi ha chiesto se volevo imparare a fare i vini come li faceva lui. Aveva novantasette anni, e io gli ho detto di sì». Un percorso faticoso, l’alluvione del ’77 e i debiti: «Ho dovuto per forza lottare: non potevo fare la fine di quello che al primo contrasto decide di mollare.Ho continuato, quindi, cercando di fare quello che pensavo fosse più adatto all’ambiente, ai miei terreni, criticando tutti e in primo luogo me stesso, in modo tale che ogni volta che qualcuno mi diceva qualcosa, io me l’ero già detta da solo. Da lì è stata sempre una lotta, una partita, non so se di finale o di semifinale, ma di quelle combattute a denti stretti». Il calcio, come le donne, torna spesso nelle sue parole, le mani a seguirle tra dribblaggi e attese: una sorta di filtro per tradurre e osservare le tante sfaccettature di una ‘partita’ che stava diventando sempre più importante. Dopo tanto correre, si stava creando un legame con quel luogo, che un po’ alla volta si lasciava conoscere: «Anche se ora mi rendo conto che ne sapevo di più quarant’anni fa rispetto a oggi. Ieri era molto più semplice: uno più uno faceva due, e quando si è giovani si è pieni di certezze, man mano che si invecchia, però, i “ma” e i “se” diventano sempre più frequenti». Il tono della voce di Pino muta continuamente: in
alcuni momenti mi trovo davanti un ragazzo divertito, sempre pronto a lanciare una provocazione, a mettere in dubbio tutto anche solamente per il gusto di farlo, e qualche minuto dopo la consapevolezza matura di anni, di sguardi attenti stagione dopo stagione, e quella determinazione che non lascia spazio all’incertezza. «Con carne di capra nessuno farà mai arrosto di vitello, e per fare un grande vino ci vuole della grande uva. Questo dipende in gran parte dal terreno, dai cloni, dalle potature, dalle varietà: dall’ambiente naturale quindi, con un pizzico di cura e di attenzione da parte del proprietario. Penso che la natura sia quella che fa gran parte del lavoro in qualsiasi produzione; l’uomo interviene soltanto a mantenere, o in caso a migliorare se possibile, le caratteristiche della zona, senza però interferire in senso negativo. Il ruolo dell’uomo è quello di facilitare il compito della natura, di non andarle contro». L’apporto dell’uomo nei confronti della vigna e del vino dovrebbe quindi essere un delicato equilibrio basato più sul togliere che sul mettere, senza che nulla sia lasciato al caso: «Tutto dipende dall’intelligenza di chi lo fa e dalla sua istruzione, dalla sua cultura e dalla sua storia, perché per un caso si può anche fare un tredici, ma non per ragionamento. Nel vino non cerchiamo di fare tredici: cerchiamo di dare il massimo, senza però andare contro la natura e con-
zioni, ci sono sempre più occasioni di confronto con altri vignaioli: «Chi fa il contadino e il viticoltore è un single, per mentalità, per forma e per ragionamento. È abituato a essere indipendente e non può mettere in piedi un’associazione, se non formalmente. Ci hanno provato anche con le cantine sociali, dopo la prima e la seconda Guerra, ma il loro fallimento è evidente. È il contadino che comanda sulle sue terre, e non vadano a dargli fastidio, perché sopravvive - il più delle volte - per il desiderio di essere lui il padrone». Penso quindi ai tanti problemi e alle contraddizioni emersi negli ultimi anni nel rapporto di molti vignaioli con Denominazioni d’origine e certificazioni, che spesso rischiano di schiacciare questa individualità sulla base di esami organolettici, parametri prefissati e uniformità qualitativa. Mi alzo per prendere una bottiglia dalla credenza: “Le Olive”, vino da tavola, nessun riferimento dunque al dolcetto e a Ovada. «Sono uscito dalla Denominazione, perchè tutti i regolamenti che ci sono servono solo per mungere soldi dal produttore. Non ci sto. Ero uno di quelli che ci ha creduto, sono stato tra i primi a formare una Doc, ma ora non ci sto più. È tutto troppo inquinato da ragionamenti politici, e questi, come la religione, credo servano solamente a tenere bene in riga le persone per poter fare una bella guerra». È una scelta incredibilmente difficile, che mette in
l’apporto dell’uomo nei confronti della vigna e del vino dovrebbe essere un equilibrio basato più sul togliere che sul mettere, senza che nulla sia lasciato al caso tro il vino. È una cosa semplice, ma solo in apparenza». Inevitabilmente, nel ragionare sulle responsabilità del vignaiolo, finiamo per discutere di vini ‘artigianali’ e vini ‘industriali’: «Sono completamente diversi. Quello industriale non lo considero vino con la “V” maiuscola; è una bevanda ottenuta dalle uve, nella stragrande maggioranza dei casi, perché anche lì poi ci sono delle eccezioni. Il vino artigianale, fatto con cognizione di causa, con istruzione, cultura e sensibilità è tutta un’altra cosa. Non dico che sia perfetto, anzi, non lo è nel modo più assoluto, però lascia l’impronta. E io penso che quest’impronta - l’emozione, l’urlare “Porco cane che bello, come mi piace!” - sia tutto... no? Ci si dovrebbe tornare a emozionare e basta davanti a un bicchiere, senza tanti ragionamenti, né prima né dopo. Come fai a innamorarti di una donna affascinante? Me lo spieghi? È una cosa che mi interessa. È la stessa cosa». Gli occhi si allontanano per un momento, forse a rincorrere un viso, poi ritornano a me, sorridenti di soddisfazione e gioco, di sfida subito dopo sollevata. Silenzio. «Io do l’impressione di fare la rivoluzione ma in realtà non ne ho mai fatte, non sono un rivoluzionario. Discuto molto animatamente - discutevo ormai - con persone che la pensano diversamente, a cominciare da mio padre, ma di lì a fare la rivoluzione ne passa. Da sempre però non perdo un’occasione per discutere con me stesso, altrimenti che gusto c’è?». Ultimamente, grazie anche alle numerose associa-
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primo piano aspetti molto diversi da quelli - classificazioni qualitative, zone e vitigni noti, facile reperibilità - che richiede il mercato: «Vorrei che il mio vino fosse accettato come un vino locale, fatto da me, e con metodi tradizionali, sperando che possa piacere». Una tradizione che sembra venire da molto lontano, e che si ritrova nel colore impenetrabile del vino che faccio roteare nel bicchiere: «Chi mi ha insegnato, nel ’67 aveva novantasette anni, quindi era dell’Ottocento; penso abbia imparato da questa famiglia francese che a sua volta si sarà basata su altri insegnamenti. Non dimentichiamoci che noi parliamo di vino, ma in Francia nell’anno mille cominciavano a fare lo Champagne. In tutti questi anni per me è cambiato ben poco, e molti dicono che i miei vini sanno un po’ di Francia, può darsi, non lo so. Io il mio vino lo bevo, lo digerisco - e credo che sia già una grande cosa -, e per il resto... sembra che anche uno che si chiamava Leonardo non giudicasse i suoi quadri. A proposito di Francia...» Pino sparisce in un’altra stanza, tornando dopo qualche minuto con un’audiocassetta, che infila in un vecchio stereo portatile: «Qui ero a Parigi, qualche anno fa...». L’aria si riempie degli scricchiolii lontani di una vecchia registrazione jazz consumata dal tempo e dai tanti ascolti; gli occhi si illuminano a rincorrere le note, fuori dalla finestra nemmeno una luce in lontananza, è ora di andare a dormire.
op P er
immagini e parole
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miraggi
o Marco Mantovani
Trasparenze rosa marroni Varianti e significati di un alimento antico e prezioso, il sale, capace di guidare una rivoluzione e ispirare i nostri giorni
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to della Namibia, dove troviamo il “sale integrale Kalahari”, estremamente puro, senza iodio aggiunto e privo di qualsiasi forma inquinante, di elevato equilibrio e delicatezza. Oppure il “sale Maras” del Perù, raccolto sulle Ande a oltre tremila metri; alle stesse altitudini troviamo il “Mirror” in Bolivia che prende il suo nome dal forte potere riflettente vista la sua alta concentrazione di sali minerali. Passando ai sali marini abbiamo: il “Maldon” in Gran Bretagna dove prima di effettuare l’essicazione si eseguono purificazioni dell’acqua fino a 5 volte e si può trovare anche nella variante affumicata, poi troviamo il nostro “sale di Cervia” conosciuto ed estratto già all’epoca dei Romani, il sale “Salish” raccolto nelle coste occidentali degli Stati Uniti, affumicato con legni di olmo rosso e dal tipico color terra, il “Vichingo” raccolto e affumicato in Norvegia, il “Sale Rosa Australiano”, di color albicocca e raccolto nel bacino Murray e per finire il “sale di Djibout”, raccolto nel lago di Assal in Etiopia: la sua particolarità sta nella forma simile a piccole perle. Per finire, affinché il valore semantico del proverbio cinese non rimanga incompiuto, farò luce sul gesto del salare e per rappresentarlo al meglio, vi citerò questo aneddoto tratto dal libro di Pierre Lazslo, Storia del Sale, miti cammini e saperi: “Costa del Kathiawar, Dandi, è il 6 aprile del 1930 al mattino presto sulla riva del mare in una spiaggia sconfinata, a fatica si riusciva ad identificare la fine, c’era un enorme distesa di sabbia melmosa in parte indurita, con chiazze biancastre di sale rimasto dall’acqua evaporata da quel sole intenso. Già dal 1919 si rimuginava una protesta per il fatto che ciascun indiano sia povero che ricco dovesse pagare una tassa sul sale alla corona britannica, come qualsiasi imposta indiretta era ingiusta, per di più questa, che veniva applicata ad un prodotto di prima necessità. Fu così che un giorno, ben 11 anni dopo, all’età di sessantuno anni seguito da sessantotto fedeli partì dal suo quartier generale ad Ahmedabad a 600 km da Nuova Delhi e si diresse verso il mare. Il gruppetto di fedeli si era man mano infoltito passando di villaggio in villaggio fino ad arrivare davanti al mare in quel fatidico giorno dove proprio quella mattina migliaia di persone osservarono immobili ed in silenzio questo piccolo uomo, vestito di bianco avanzare verso il mare, senza togliersi i suoi distintivi occhiali tondi, entrò fino alle ginocchia, si cosparse di acqua, fece purificazioni per alcuni istanti come se fosse un classico rito religioso, si raddrizzò, si girò e riprese a camminare verso la folla, poi si chinò su uno di quei residui biancastri lasciati dalla marea ed incrostati dal sole e prese una manciata di quello che poteva considerarsi sale grezzo. [...] il gesto suscitò un’esclamazione collettiva che ricordava l’ululato di una bestia selvaggia, un urlo liberatorio che aveva più che altro la funzione di un enorme boccata di ossigeno dopo anni in una stanza buia. Questa rivendicazione di indipendenza era stata annunciata attraverso una lunga lettera dal tono molto amichevole al viceré delle Indie Lord Irwin proprio dalla stessa persona che quel giorno diede quell’esempio: Gandhi. L’episodio innescò una serie di manifestazioni a catena in tutta l’India, quello splendido gesto di abbassarsi a raccogliere un pugno di sale sulla riva dell’oceano provocò una potente deflagrazione, moltissimi indiani andarono a prendersi il proprio sale e diedero a distribuirlo ai loro compatrioti, violando la legge ed aprendo uno squarcio nel monopolio della corona britannica tanto che a quel punto, le autorità reagirono e furono arrestati oltre sessantamila indiani. Attraverso la “Marcia del Sale”, la popolazione colonizzata volle prendere coscienza delle propria forza ancora più di quanto non volesse ottenere l’indipendenza, questo perché, sempre secondo Gandhi, il processo di quella forza è l’indipendenza. La genialità del gesto sta nel fatto che concentrandosi per ritrovare un’ autonomia economica,la potenza coloniale apparirà quello che è, un corpo estraneo che la nazione India eliminerà appena avrà coscienza della propria forza di autosufficienza”. In momenti di vita così austeri che minano la nostra fiducia occorrerà riscoprire il “gesto di salare” le pietanze per rendere la nostra vita meno scipita. Ciascuno di noi può iniziare la propria marcia del sale.
n granello di sale, se chiudi gli occhi non riesci a riconoscerlo al tatto, tanto meno all’olfatto, per capire che cosa è devi assaggiarlo e in quel preciso istante dà il meglio di sé, concentra tutta la sua personalità in una vigorosa intensità di sapore, si percepisce energia tale è deciso il gusto. È come un pugno, ti stordisce ma nello stesso tempo non ne puoi più fare a meno e diventa una piccola dipendenza. Recita un antico proverbio cinese: “Senza il sale non si può venire a capo della scipitezza”. Risale agli albori della dinastia Ch’ing che corrisponde al nostro XVII secolo, ed esalta l’utilizzo e soprattutto l’atto di cospargere sale sulle pietanze per renderle più piacevoli. Il gesto rischia di non essere più valorizzato come un tempo per colpa delle frenetiche abitudini attuali ma è assodato che rimane un’azione arcaica che in certe circostanze ha segnato anche politicamente il nostro passato prossimo.
Nella maggior parte delle religioni (Cristiana, Giudea, Orientale) l’associazione del sale con il rituale religioso va ricondotto alla medesima funzione: l’inalterabilità. Il sale è una sostanza incorruttibile, simboleggia la permanenza e quindi è sempre stato considerato un attributo del Divino; se pensiamo quanti problemi di conservazione alimentare ha risolto la salatura delle derrate non si possono sicuramente biasimare queste antiche credenze. È curioso scoprire che per più di duemila anni l’uomo ha manifestato enorme rispetto per questo minerale per poi conoscere pochi anni orsono che anche l’essere umano è costituito da sali minerali e, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, necessita per la sua sopravvivenza di circa 6 grammi di sale al giorno. Già nel V secolo a.C. Erodoto metteva in relazione le risorse di sale con gli insediamenti nella Mesopotamia, ma si trovano notizie non scritte che l’utilizzo del sale era ampiamente sfruttato in tempi ancora più remoti. Si presume che la nascita del sale sia stata all’epoca del Giurassico, circa duecentocinquanta milioni di anni fa. Quando l’enorme mare si ritirò milioni di tonnellate di detriti ricoprirono gli enormi quantitativi di sostanze minerali accumulate. Il sale si insinuò tra le fessure delle rocce e sotto quell’enorme peso è risalito e si è stabilizzato nelle vicinanze della superficie terrestre. Questo flusso è definito scorrimento e il risultato è che oggi troviamo miniere di sale nei luoghi più sperduti e remoti del nostro pianeta. La provenienza del sale può avvenire attraverso due metodologie: per estrazione da miniera oppure per evaporazione dell’acqua salata. Mi permetto una libertà; chiamerò sale “indiretto” quello ottenuto dall’essiccazione dell’acqua marina (o comunque salata) e sale “diretto” quello ottenuto da estrazione nelle miniere di sale. Abbiamo svariate tipologie, ne cito qualche esempio: il “Sale Rosa dell’Himalaya” è un sale di roccia, raccolto nelle miniere di Kewra situate al confine con il Pakistan. Trattasi di un prodotto molto asciutto, con sapore delicatamente morbido che si presta ad insaporire piatti delicati. Fra i sali di roccia, troviamo in Austria altre miniere di altitudine, situate nella borgata di Hallstatt, sulle rive del Hallstattersee. Questi prende il nome da “HALS” che era uno dei sinonimi di mare utilizzato dai greci; se associamo che questo sito è stato l’ultimo demanio privato degli Asburgo è presto svelato qual è il nome della città di rifermento: Salisburgo. Un altro interessante luogo di estrazione del sale da miniera è situato nel deser-
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dispensa
o Marco Pozzali
Il senso della cucina per Ettore Di Bocchia si è parlato e scritto molto e, spesso, con molta superficialità, rincorrendo luoghi comuni fuorvianti e del tutto estranei al portato della sua figura di appassionato professionista costantemente in tensione verso l’alto, l’assoluto, l’eccellente
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“Solo con grandi prodotti è possibile fare cucina vera, cucina onesta e rispettosa, trasparente”, virgolettato che riprende un concetto espresso da Ettore durante una recente conferenza presso l’Accademia delle Belle Arti di Brera in Milano. Un assunto su cui si appoggia l’approdo della “sua” cucina molecolare italiana. Un esito che pare essere in antitesi con il portato di contemporaneità, meglio sarebbe scrivere futuribilità, che lo studio scientifico porta con sé e, quel che più emerge, è un’incongruenza (apparente si intende) con il percepito che da sempre il lemma molecolare porta con sé. Viene facile chiedersi come sia possibile questo anelito profondo di ritorno alla Terra dopo avere indagato sui cambiamenti molecolari dello stato della materia, sulla ricerca di nuove texture, nuove espressioni gustative, basate su nuove architetture microscopiche.
ttore Bocchia è un mio caro amico. L’amicizia è una cosa seria, profonda e nulla ha a che vedere con questo pezzo. Il privato è nostro, le bottiglie che abbiamo aperto insieme negli ultimi otto anni sono ricordi nostri, anche se proprio il privato mi ha fatto conoscere in profondità le sue idee, la sua cucina e il suo modo di viverla. L’uomo e lo chef, mai come in questo caso il profilo personale e quello professionale coincidono simbioticamente, meritano un approfondimento, possibile anche solo attraverso il controluce dei concetti, dei piatti che realizza. Il suo tratto personale rivela una costante, assidua curiosità intellettuale, un desiderio di conoscere e di sapere. Di lui tutto si può affermare ma non certo che non sia una persona vera, a volta talmente sincera, diretta e addirittura cruda.
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Del resto il manifesto della cucina molecolare lo dice a chiare lettere: ogni novità deve ampliare, non distruggere, la tradizione gastronomica italiana, le nuove tecniche e i nuovi piatti devono valorizzare gli ingredienti naturali e le materie prime di qualità; è una cucina attenta ai valori nutrizionali e al benessere di chi mangia, non solo agli aspetti estetici e organolettici. Trent’anni di cucina lo hanno portato a un grado di preparazione, perseguita con quegli studi, quelle esperienze professionali, quel determinato e ostinato rigore scientifico che lo rendono, oggi, uno tra i testimoni più completi e autorevoli del panorama gastronomico mondiale. Ascoltarlo parlare dei suoi prodotti, degli uomini e delle donne che li coltivano, li allevano o li preparano, delle storie che vi sottendono, emoziona e fa venire i brividi. Il livello nella ricerca delle materie prime è, oggi, al suo punto più alto; culmine raggiunto dopo un ventennio di contatti, visite, scambi, osservazioni e trattative con gli stessi produttori. È questo il senso più vero della sua indagine nel gusto: massima espressione possibile del prodotto, portata al massimo grado di fruizione dal sapere scientifico-tecnico. Cosa significa, dunque, cucina molecolare? Si tratta di un’enorme combinazione di conoscenze a disposizione per offrire il massimo dell’espressione gustativa, il massimo del gusto, la migliore combinazione degli ingredienti, la migliore cottura, la migliore texture, la migliore forma, al massimo grado di salubrità. Si rischierebbe di banalizzarne il portato qualora si scrivesse il massimo piacere equivale alla massima salute, ma di questo, in ultima analisi si tratta. Ettore non fa il cinema in cucina. Non sono le sue parole ma è la sua cucina che, meglio di qualsiasi teorema o assunto, è in grado di colpire al cuore e di rimanere come traccia indelebile nella memoria gustativa. Un viaggio nel gusto che emoziona per equilibrio, composizione, linearità ed espressione. Dicevamo prima, cucina di prodotto, nulla di destrutturato, né schiume, spume o aria aromatizzata. Eccolo il grande malinteso: la completa trasposizione di un fatto circostanziato di cui lo chef è stato spesso vittima; la cucina è materia, è prodotto, volume, fisicità, tessuto, masticazione, deglutizione, elementi tradizionali che brillano di una nuova luce, offerta dalla codificazione scientifica delle reazioni che a essi si riferiscono. La sua indagine scientifica, chimico-fisica, analizza la fisiologia di tutti gli ingredienti, nelle loro interazioni per arrivare al miglior risultato possibile: tendere alla perfezione. Lo studio molecolare non è altro se non passaggio tecnico che consente di offrire al massimo grado di fruizione un elemento, una cottura, un tipo di lavorazione e un procedimento. Il cliente seduto al tavolo che ordini una sua portata potrà, oppure non potrà, sapere tutto questo perché l’esito, il risultato non cambia: avrà dinnanzi un piatto di altissimo livello gastronomico, nel quale saranno messe in risalto le sue migliori caratteristiche. La tecnologia e lo studio servono, dunque, strumentalmente a portare al “diapason” un alimento che già di per sé è di altissima qualità. Sono principalmente tre, dunque i passaggi fondamentali della cu-
cina di Ettore. La ricerca di gusti primari, non sovrapposti tra loro ma lineari. La “texture” degli ingredienti con una particolare, maniacale attenzione alle cotture e ai punti di fusione, infine, la geometria e l’aspetto cromatico dei piatti. Terzo aspetto, questo, che merita una analisi approfondita e testimonia ancor più, qualora ve ne fosse bisogno, il pensiero e la visione unilaterale, ortodossa, dello chef parmense. Anche qui nulla è lasciato alla finzione, all’artificio, al colpo di teatro, al cinema, considerati dall’autore inutili e fuorvianti. La realtà, nella sua visione effettuale, è una migliore verità della scena. La natura del prodotto lavorato è la base su cui innervare la costruzione geometrica del piatto. Le forme hanno declinazioni circostanziate e assolute, non lasciando spazio a una fantasia apparente o meno ancora appariscente. Le linee di disposizione seguono l’ordine e non il disordine. Se i pesci e le carni inseguono linee piane e spesso parallele, i vegetali e le paste rendono accoglienti le curve e le sinusoidi. Gli spazi nel piatto sono occupati sapientemente, il prodotto centrale trova un suo respiro, spazio vuoto quasi musicale (il silenzio), nella non continuità della disposizione. L’aspetto generale delle sue preparazioni gastronomiche accorda grande attenzione ai volumi occupati: non troviamo costruzioni che tendano troppo alla verticalità, oppure alla larghezza; la misura degli spazi è, ancora una volta, dinamica e plastica e, mai troppo rigida, in modo che l’architettura del piatto non risulti monolitica ma accordi sempre al cliente la via di fuga, quello spazio neutro su cui riposare lo sguardo. Le disposizioni se da un lato richiamano un certo rigore scientifico non sono però mai troppo minimal, retaggio della nouvelle cuisine, troppo neutre o, peggio, troppo asettiche. La conoscenza dell’Oriente rientra in alcuni casi come citazione dotta alla Natura, regno vegetale dell’ordine e della temperanza. Elementi di diversa consistenza, il solido, il cremoso, il liquido, si esprimono sempre in un metodo ordinato di visione scientifica in cui gli elementi si muovono per funzionalità. I colori sono trasparenza della realtà, di quello sterminato mondo di prodotti che Ettore ama e rispetta, esaltandone le caratteristiche. Sono di volta in volta espressioni vitali, forti, appassionati, delicati quando debbano esserlo ma mai neutri o pastelli appassiti da una vita in serra. Sono rosso del sole nella passata verace di pomodoro, giallo lucente mediterraneo delle zeste di limone. Le cotture perfette, in particolare dei vegetali, regalano verdi accesi e pulsanti, mai smunti o, peggio, appassiti. Le salse e le creme, diventano movimenti sinuosi e liquidi dai colori morbidi e creano dinamicità. Risulta peraltro sempre chiara la ricerca verso il rispetto della materia prima: la figura dello chef, architetto di una struttura portante, si pone sempre in secondo piano. La luce della ribalta è accordata al piatto stesso come latore di scientifica bontà, tecnica assoluta, materia assoluta, gusto assoluto. Ancora una volta Ettore Bocchia, defilandosi, preferisce lasciare il centro della scena alla sua creazione.
La ricerca di gusti primari, non sovrapposti tra loro ma lineari. La “texture” degli ingredienti con una maniacale attenzione alle cotture e ai punti di fusione, per raggiungere una perfetta sfericità al palato 17
ri creazioni
Die go Sorba
a.a.a. “figaro editore” cercasi Come sfruttare l’ospitalità di “Pietre” per dare un taglio netto alla propria barbosa routine il Morandini, il Mereghetti, il Persichetti, e compagnia cantante. Qualcuno spieghi, per favore, perché a tutt’oggi non debba esistere una “Guida Figaro” dei barbieri. Alt! S’è detto “barbieri”. Non parrucchieri per uomini. E neppure hair stylist, magari e peggio se bisex. Quello del taglio di capelli (per chi li ha ancora) è un altro discorso. Qui, la discriminante assoluta è anzitutto un fatto filologico: in primis lei, la barba; poi, anche la chioma (se non sei capace o non hai voglia di radere, allora che barbiere sei mai? – d’altronde, nella società di voi convinti Contemporaneisti, voi nichilistici Post-Postmoderni e voi cronici Nuovomondisti tanti sono i macellai che non macellano, i panettieri che non panificano, i vignaioli che non vinificano, mentre nelle Riserve Federali dei Bottigrandisti, dei Nostalgiconi, dei Passatisti, noi per fortuna si cerca doverosamente di reagire, alimentando le sacche di resistenza).
Foto Andrea Scaramuzza
Porca miseria, possibile che nessuno abbia ancora pensato alla grande utilità di un siffatto vademecum? Se siamo uomini, e non caporali, un po’ di barba ci vuole, dài. Piccolo parterre in carrellata: Orson Welles, il Generale Grant, Garibaldi, il Cigno di Busseto, i Sikh al Tempio d’Oro di Amritsar, tutte grandissime barbe, e molto ben curate; Zeus, Mosé, Darwin, Tolstoj, Whitman, facce e corredo monumentali; poi Cecco Beppe, Rasputin, i rabbini chassidici, Buffalo Bill, tutte deviazioni al limite del freak, ma pur sempre nobili, autorevolissimi peli.
I. Fu allora che capii che un barbiere che ti rade in silenzio, senza cavarti di bocca neanche una parola o intavolare alcuna chiacchiera di quartiere o di politica, e senza imprecare contro chicchessia, non è affatto un barbiere. O. Pamuk, Altri Colori
Questo è la barba di un uomo: nido di tempo e memoria, boscaglia di leggende andate in fumo. Capita di leggere che un probabile sedicente pseudosofista da banchetto di epoca Edwardiana, tale Upton Uxbridge Underwood, aveva composto un trattato intitolato The Language of the Beard, in cui cercava di evidenziare i tratti della personalità, le inclinazioni, i lati forti e i lati deboli del carattere dei soggetti dotati di barba attraverso la disamina di tessitura, fittezza, contorni e struttura della crescita delle di loro medesime barbe (barba a punta = audacia, determinazione; barba biforcuta e cadente = creatività, genio; barba folta = generosità; ecc.).
Posto che quanto segue riesca a interessare qualcuno, qui è detto e qui è sottoscritto: chi ruba questa idea è un grandissimo farabutto, e che il diavolo se lo porti. L’appello si rivolge a tutti coloro che, per svogliatezza mattutina, scelta di immagine o sorte fisiognomica, sono detentori di barba – uniche due signore ammesse al dibattito, la “Bearded Lady” del Barnum Sideshow e la “Bambina Barbuta” Antonietta Gonzalez di un celebre ritratto tardomanierista (nel ruolo di Grand Jury International, invece, metteremo il simpatico Ciubecca).
Da simili esempi di pogonologia applicata (πώγων = barba, dice il Rocci) alla pogonomanzia, si capisce, il salto sarà breve. Difficile però credere alla predizione del futuro tramite accurata lettura della barba (e perché no? mica esistono solo il palmo della mano, gli spiriti o i tarocchi!). Allo stesso modo, sempre in quegli anni non troppo arduo dovette essere lo smascheramento di un certo Prof. Modevi, esperto ciarlatano, lui e quel suo portentoso liquido “THE BEARD GENERATOR” che avrebbe dovuto riempire di barbe il Mondo intero.
Ecco quanto. Guide, ne abbiamo viste di tutte le salse e di tutti i colori: la guida verde del turista, la guida sentimentale del flâneur, la Guida del Pianeta Solitario, la guida del Signor Baedeker, la guida dei ristoranti rossa, la guida dei ristoranti arancione, la guida dei locali con la chiocciola, la guida dei vini blu, la guida dei vini bianca, la guida dei vini online, la guida dei vini che ogni anno cambia colore,
Concretamente, la barba esiste proprio in ragione del fatto che la si possa far crescere o sparire, coltivare o ripudiare. Non devi far finta di non
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avercela, se sei uno di quelli che gli bastano due giorni lontano dal rasoio per sembrare Lucio Dalla. Allo stesso tempo, non devi insistere troppo a volerla se il sottosuolo delle tue gote scarseggia di minerali piliferi e ti nascono due sprocchi qui e uno là ogni tre settimane. Senza, si potrebbero guadagnare manciate d’anni, e questo lo sai bene. Con, sembrerai senz’altro più vecchio, a volte un filo trasandato e per di più quanto prima ti verrà dato del Lei. Ma ognuno si faccia le sue prove, e alla fine scelga di tenersi la faccia che meglio gli calza. Anche se troppe sono quelle che senza almeno un po’ di pelo restano anonime e incolori, quasi fossero pagnotte “sciocche” di sale.
E così, sulle mensole e nei cassetti delle botteghe di barbiere posano oggetti un tempo d’uso quotidiano, veri e propri capolavori di meccanica e artigianato, diventati suppellettili da Mercanteinfiera. Affilalamette, pietra belga e coramella, allume di potassio, tazze da barba in ceramica istoriata, lame Astra, shavette Dovo, scaldariccioli, pennelli in pelo di tasso… aaah, se solo il WWF si impegnasse anche qui come per il leopardo delle nevi…
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Or che s’aspetta? Questa barba benedetta la facciamo? Sì o no? G. Rossini, Il Barbiere di Siviglia (ATTO II, Scena 4)
La bottega? Non si sbaglia, guardi bene: eccola là. (additando fra le quinte) Numero quindici a mano manca, quattro gradini, facciata bianca, cinque parrucche nella vetrina, sopra un cartello «Pomata fina», mostra in azzurro alla moderna, v’è per insegna una lanterna... là senza fallo mi troverà. G. Rossini, Il Barbiere di Siviglia (ATTO I, Scena 4)
mancare un’edicola, l’ortolano, il salumiere, il lattaio e un Tabacchi. “DO IT YOURSELF” ’na sega (per l’appunto)!
E se proprio una mattina tu e la tua barba foste in vena di revisionismo e decideste che è ora di intervenire, come potervi biasimare? La libidine dello spennellamento, il balsamico che monta dalle nari (eucalipto e mentolo), l’asciugamano caldo avvolto attorno al viso, la radio di sottofondo, e in che modo gliela si descrive al gentil sesso quella frustata d’aria fresca sulle guance, appena usciti da una bella sbarbata fatta a modo? Non è da signori sapere cosa provi una gamba o un’ascella depilata di fresco, ma conoscere perfettamente come ci si sente prima, dopo e durante una visita da un vero barbiere – allegri, sollevati, disinvolti e galantuomini – questo sì.
FACSIMILE SCHEDA TECNICA (à la façon de Georges Perec) (qualunque riferimento ad attività commerciali esistenti non corrisponde a un’inserzione pubblicitaria, ma è da vedersi come consiglio amichevole e disinteressato, ché altrimenti la missione di “Pietre” va a ramengo).
“La rasatura, in fondo, non è che una carezza a fil di lama”, è l’elegantissimo motto della famiglia Preattoni, che vende e arrota lame di tutti i tipi e fogge dal 1902 a quattro passi dalla Scala. Non se ne abbiano, però, i pur lodevoli revivalisti della pogonotomia (“arte di radersi”), scienza primamente diffusa dal trattato L’art d’apprendre à se raser soi-même, di un tale Jean-Jacques Perret, coltellinaio illuminista in Parigi nel 1770. A loro concederemo l’inserimento della voce “Attrezzatura del rasatore” nella recensione (per intenderci, è come se nelle guide dei vini oltre alla dicitura botte grande/botte piccola e al tipo di legno, rovere, acacia, ciliegio, castagno, trovassimo anche il nome del bottaio, da Garbellotto a Pauscha, da Vicard a Severino Comola…). Purtroppo, però, davvero non si può non ricordare come il maggior contendente dei barbieri dopotutto sia stato proprio il fai-da-te del rasoio con lama intercambiabile, prima che gli usa-e-getta di Mister Gillette, le triple testine rotanti Philips e le lamine Braun sancissero il definitivo De Profundis.
Nome Esercizio: “SALONE DI TOELETTA” Ubicazione: Via Nino Bixio, 109/A – PARMA Mastro Barbitonsore: Adriano Balestrieri (60 anni di servizio). Data Ultima Visita: venerdì 8 maggio 2009, pomeriggio. Su appuntamento: sì, prego. Carte di Credito: no, grazie. Listino: Barba € 10; Capelli € 15; Barba + Capelli € 24; Barba + Capelli + Shampoo € 26 * * (+ Lozione € 30) Prodotti storici in mostra: Creme Proraso (“pre-barba miracolo!”), Brillantina Linetti (“dona e mantiene l’ondulazione!”), Alpecin con complesso attivo alla caffeina (“stimola il bulbo pilifero!”). Attrezzatura del Rasatore: sfoltita con rasoio elettrico (–1 punto), poi rasoio a mano libera, su richiesta anche vintage (Wicawa, Solingen) Riviste: Gazza, “Rosea”, Tuttosport, Eva Tremila (forse nascosti Tex, Zagor e Lanciostory). Interno: notevole il gioco di specchi dalla poltrona, il cliente si vede fino a 5 volte, come in un diorama profondo 20 metri; attorno si scorge un retro con porta di legno verniciata e specchio verticale, luci al neon, legno formicato, finta piastrella di marmo, sedile in pelle fine anni ’50, stufa a gas Argo nell’angolo, con sopra bollitore e “borasso”; ai muri coppia di gagliardetti di Milan AC e Parma FC (bigamia fútbolistica), diploma originale “Società Pro-oltretorrente” conferito a Bianchi Umberto nel 1923, n. 4 fotografie ingiallite della Parma Vecchia ai tempi delle Barricate di Picelli (due sono di Borgo delle Carra, il temibile “forte di Makallé”, dal quale i gendarmi giravano alla larga), poster Auronzo/Misurina/Tre Cime di Lavarone, cartoline varie.
(Questa mania del potersi fare tutto da soli, tutto in casa, dal cinema all’acconciatura, in fila indiana alle casse della G.D.O. con uno stiracapelli e quattro gomme dell’utilitaria sottobraccio senza magari sapersele montare, che vittoria alienante del Nemico, che distruzione di tempi e riti, che spreco, che sfascio, che omicidio plurimo di conoscenze e socialità!). I barbieri di una volta, erano loro i veri jolly a tutto campo. Per secoli praticarono salassi e piccoli interventi di chirurgia (ascessi, emorroidi, verruche, suture varie), e all’occorrenza ti cavavano un dente, mentre alcune sale fornivano addirittura il servizio “sciuscià” e un’orchestrina per l’intrattenimento. Puro multitasking. Praticamente, una specie di teatrino di piazza di paese, il classico negozio di vicinato che nel tessuto sociale di un quartiere o di un centro abitato dovrebbe mancare alla comunità come può
Il Personaggio: camice azzurro, manica corta, lingua ben sciolta (“ecco fatto, Egregio!”),
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ri creazioni
un occhio un po’ chiuso, sorriso bonario; si preoccupa di partecipare delle vite degli altri ma sempre alla giusta distanza; padroneggia il dialetto (“...aah, par dìnci, oh... alòra lù s’n’inténda ’d vén!”); i “suoi” li chiama tutti per nome, cognome o soprannome (Otello, Filippo, Dalla Tana, un certo “caro Dòctor”); tende ovviamente a spostare la conversazione sul passato, fornendo aggiornamenti sulle persone conosciute, sopravvissuti e non (“lavorava da Fagioli, trasporti speciali”).
chiusa ma i vetri dentro fanno condensa, c’è gente che respira, dialoga, fa battute… il sogno sarebbe scovare un negozio di barbiere anni ’50 con tutte le pianelle di ceramica bianca e gli specchi e il giornale letto sulla sedia, come quella dei Fratelli Coen per “L’uomo che non c’era”, giuro che prima o poi Glielo trovo... Per il momento, si accontenti delle schede che ho già pronte, una di Còrdoba (E. Sánchez Monroy, peluquería de caballeros), una di Londra (Geo F. Trumper a St. James’s), una di Roma (Via dei Pianellari, 31), una di Milano (Antica Barbieria Colla, dietro la casa del Manzoni), una di Genova (Barberia Giacalone, protetta dal FAI), una di Vescovado di Murlo (Siena, cessata attività), una di Traversetolo (“da Baffo”, barbierescultore), un’altra di Monleale (Colli Tortonesi).
Esterno: insegna in marmo con scritta déco arabescata “SALONE DI TOELETTA” protetta dalle Belle Arti (1922); posizione ottimale, la vita sembra entrare dentro, poiché le strisce zebrate arrivano proprio davanti alla vetrina, fantastico punto di osservazione; escono i ragazzi dalle scuole qui vicino al pomeriggio, passa una suora dal velo bianco che tiene per mano un bambino nero, le nonne portano gli zaini, c’è stata educazione fisica alle Medie, son tutti sudati, è giorno di gelati.
C’è materiale per un Giro completo d’Italia! E città ad altissimo potenziale di barberia storica, mi faccia solo verificare in loco, sono sicuramente Trieste, Napoli, Palermo, Bologna, Torino, Livorno, Bari, Ancona… a Modena, per esempio, pare ci sia un barbiere che la sera si trasforma in rock-club con concerti dal vivo a porte chiuse, bisognerebbe andare a dare un’occhiata, sa... qui, se non si punta sui giovani non c’è ricambio generazionale, e rimaniamo fregati...
Dintorni: negozio pasta fresca “Al Caplètt”, negozio di specialità “La Casa del Formaggio” (prodotti eccelsi, staff tutto al femminile), il bar di Ricky (bollicine e paninetti niente male, aria amichevole e oste one-man-band appassionato, frequentazione giusta, cioè bicchiere rapido e chiacchiera loquace), Macelleria Danilo Mantovani (carne di razza piemontese), Macelleria Equina Schivazappa (ideale punto di partenza per il “Manuale del Caval Pìst”, prossimo volume della collana), Pasticceria Montali (cannoncini e torta chantilly), Drogheria Viani (dove si vendono ancora le caramelle Rossana e i pinoli a peso, il bottegaio indossa la “giga” marrone e tu puoi comprare in tutta nonchalance un flacone di Spic & Span, due chili di zucchero Eridania, le liquirizie Haribo, un Pié Franco di Cappellano e un vecchio Port Ellen full proof).
Dice che si potrebbe dedicare un capitolo allo studio del sottogola di Cavour? E un serio approfondimento sul baffo – quello corto su faccia grossa del Maigret di Gino Cervi, quello lungo su faccia stretta del Chisciotte, quello fulvo da navigatore danese di un Romeo Benetti o un Robert Redford in “Butch Cassidy”, quello da gran guzzatore di Magnum P.I. – non lo facciamo? In appendice, come la vedrebbe una panoramica attraverso le grandi capitali della barba e dei mustacchi? Una città una specialità, stia a vedere: Parigi (indirizzo per baffo a manubrio: Alain Maître Barbier, Rue St.Claude 8, Nord Marais), Madrid (mi paga anche il biglietto per la Plaza de Toros, giusto?), Praga (taglio guerriero alla San Venceslao), Vienna (e qui scattano le “favorite”), Budapest (baffo alla ussara), Danzica (baffoni Solidarnosc), Mosca (barbone imbiancato da metropolita), Odessa (boccolo arricciato laterale ultraortodosso), Salonicco (pelo ruvido, stile Anthony Quinn), Istanbul (look derviscio).
Valutazione complessiva: una delle ultime barberie storiche della città, per atmosfera, dedizione, tipicità, simpatia, “senso del mestiere”, il salone dei Fratelli Balestrieri (“Renzo è andato, povrén”) merita a pieno titolo l’assegnazione delle prestigiose 5 FORBICI FIGARO!!! Complimenti!!! (NB: presentandosi con la guida celeste sotto il braccio, come suggeriva di fare la Michelin ai suoi albori, si avrà diritto a uno sconto sulla lozione Mennen for Men, “dall’aroma decisamente virile”).
Mi ce lo mette poi di fianco un bravo fotografo, vero? Che gentile… Guardi, siccome vedo che è disponibile, avrei anche scritto l’introduzione, Gliene leggo un pezzetto, poi non La disturbo più, mi creda:
IV. […] Mi dica, invece, perché scrive?
C’è un momento durante la seduta in cui barbiere e cliente si guardano, è una frazione di secondo, e avviene sempre attraverso lo specchio, è lì che la forbice o il rasoio si bloccano per un istante e nel silenzio si capisce tutto, se c’è scambio, comprensione, intesa, simpatia, rilassamento, in una sola parola, fiducia. Al tuo matrimonio e al tuo funerale, per capirci, se gli sarai diventato amico, ci sarà anche il tuo barbiere. Spetterebbe a lui sbarbarti e pettinarti in casa (le donne già lo fanno), mentre il tuo “best man” intrattiene gli ospiti con spumante e salatini. Lui, e soltanto lui, avrebbe l’onere e l’onore di ricomporti il volto nella cassa, poggiato sul drappo di seta. In tante occasioni, è stata la persona a contatto più ravvicinato con la tua scatola cranica. Inconsapevole, ha respirato i tuoi pensieri. E come te l’ha vista da vicino lui, la tua faccia, te l’ha guardata soltanto tua madre mentre ti esaminava la crosta lattea, o forse la tua donna, quella notte che non riusciva a dormire e s’è messa a studiarti il profilo nella penombra, misurandoti la curva del naso, la virgola della basetta, l’elice dell’orecchio sinistro.
«Perché qualcosa resti. Perché resti un segno, una testimonianza della propria vita. L’uomo deve lasciare una traccia del suo passaggio su questa terra. Di me altrimenti non resta niente: i capelli crescono e se ne vanno. E allora scrivo». Franco Bompieri, barbiere-scrittore Quest’ultima parte interessa esclusivamente l’ipotetico Editore, poiché qualora la proposta avesse destato attenzione, onestà e correttezza obbligano a confessarGli tutta una serie di problematiche aggiuntive da affrontare: “Mi spiego, Dottore, non è che un ispettore della Guida Figaro va in giro a farsi una barba e basta... c’è tutto un prima e un dopo, vede, il viaggio, la trasferta, bisogna cercare, parlare con qualcuno del luogo, il lavoro è lento, ci vuole la stessa accuratezza con cui il barbiere cambia le sue forbici... va considerato cosa si può fare nelle vicinanze prima e dopo la seduta, o durante l’attesa, il consiglio è di arrivare in anticipo sulla prenotazione, così ci si gode lo spettacolo… barberia fa rima con osteria, c’è sempre qualcuno con cui poter parlare, entra un amico, appoggia la bici sulla vetrina, la porta è sempre aperta, magari d’inverno la trovi
Cosa dice, allora, L’ho convinta? Me li trova ’sti soldi? Me lo vuole dimostrare sì o no, che di noi due il più matto è indubbiamente Lei?
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Nella
vigna
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Come sta andando la stagione a Valgiano? Una camminata fra i vigneti delle colline lucchesi stretti tra l’Appennino e il Tirreno nei morbidi profili di una terra che respira il mare
L
a neve che ha ricoperto la nostra collina il 12 febbraio è bastata a rallentare il risveglio della terra, la partenza della primavera sarà più tardiva quest’anno. Anche se non è stato un inverno freddissimo, i fiocchi sono arrivati dalla Liguria, hanno ben imbiancato la Val Freddana, e raffrescato il terreno. Lo si nota anche dalla mimosa, che tra qualche giorno fiorirà, ma, l’anno scorso, a quest’ora, era già sfiorita. I primi di gennaio abbiamo iniziato la potatura, e terminata a metà febbraio, ora si stralcia, si lega. Fossimo veramente virtuosi, utilizzeremmo il salice per legare, sarebbe bello... Poi c’è da fare la manutenzione dei pali, quanti pali da sostituire! tra quelli rotti o marciti, a decine e decine. Insomma, una tragedia; che potrebbe portarci alla decisione sulla scelta dei pali zincati quando ripianteremo la vigna dello “Scasso dei Cesari” nel 2014. Questa vigna è stata tolta nell’estate 2011. Fu piantata nel 1959, quando 30 famiglie fecero uno “scasso imperiale”, che consisteva nello scassare a mano fino a un metro di profondità tre ettari di terreno. Ci lavorarono per tre anni. Quando finirono sapevano cosa piantare, non avevano bisogno di profili pedologici, il terreno l’avevano passato tutto a fil di vanga. Così scelsero le varietà più adatte che sono quelle che adesso utilizziamo dovunque; Sangiovese, Canaiolo, Merlot, Montepulciano, Ciliegiolo, Syrah, Barbera e un pugno di altre varietà poco note ma capaci di dare, nelle annate estreme che caratterizzano la nostra zona, stretta tra l’Appenino e il Tirreno, l’armonia e l’equilibrio senza i quali non si può parlare di Colline Lucchesi. Tanti anni di agricoltura speculativa, senza che nessuno si prendesse veramente cura dell’azienda hanno tirato il collo a questo vigneto. La produzione era ridicola, l’abbiamo mantenuto solo per poterlo capire, per selezionare i biotipi e per ricreare un’azienda sana, che continui a rinnovarsi senza impoverirsi, vigneti giovani affiancati dai vecchi, saggi, vigneti anziani. Tra il nostro primo impianto e l’ultimo ci corrono vent’anni. Il terreno è stato lavorato, sono state tolte le pietre, e il rehabilitator (ripper di concezione australiana - Alex Podolinsky - che si può definire “ristrutturatore”), ha fatto il suo dovere di ossigenazione. La terra deve riposare quindi abbiamo seminato 1,5 ha di grano, (Gentil rosso e Verna, antiche varietà che superano i 2 metri di altezza); accanto, 1,5 ha di favino. Le abbondantissime piogge di dicembre e gennaio: 240 mm + 217 mm: piovosità totale = 457 mm = mezzo metro (solitamente in questa zona piove 1.500 mm l’anno), hanno provocato un solco di erosione in fondo allo scasso. Esaminando il corso, la superficie del terreno in prossimità del solco, si deduce che l’apparato radicale del favino, esplorante in profondità, ha retto meno i fiumi d’acqua rispetto a dove c’è il grano, con il suo apparato radicale fittissimo, il terreno rimane più resistente a queste abbondanti precipitazioni.
Occorrerà fare un drenaggio per evitare frane, che benché il nostro terreno sia vivo ed equilibrato, piogge come queste sono sempre delle minacce preoccupanti. Per il resto, i primi di febbraio abbiamo incominciato la potatura degli ulivi, a questo punto, il rischio che parta la linfa è passato, e ci auguriamo che non arrivi un’improvvisa ondata di freddo che danneggerebbe le piante. Mentre le api sono ancora a riposo, qualche operaia qua e là fa un giretto di ricognizione e i maiali appena macellati sono adesso profumati salami, appesi nel tinaio a maturare assieme al vino dell’ultima vendemmia. L’annata 2012 potremmo definirla un’annata abbastanza classica; la vendemmia, iniziata il 24 agosto in un clima torrido, si è poi svolta abbastanza regolarmente, con una resa inferiore solo nei bianchi (30%). Mentre aspettiamo che maturi nelle botti, saluto tutte le sere un pettirosso che viene davanti a casa, e anche una merla, ma lei viene la mattina presto, a mangiare le briciole..., è una furba quella lì!
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f u o r i da l t e m p o
Riccardo Vendrame
Cuprese de la Colonnara Una degustazione a ritroso che lambisce tre decenni di Verdichio dei Castelli di Jesi nelle note di idrocarburi tartufo e caffè
q
uando ti trovi dirimpetto la verticale di un vino elaborato da una cantina composta da 110 soci conferitori, e con una produzione superiore al milione di bottiglie, verrebbe spontaneo, soprattutto per un degustatore che come me predilige i vini così detti naturali, infilare il naso nel calice in modo titubante, quasi scettico. Comincio a roteare il vino nel bicchiere, chiudo gli occhi, e con fare dimesso comincio ad assaggiare il Cuprese de la Colonnara, Verdicchio dei Castelli di Jesi presente in nove annate che con passo di gambero giungono fino a metà degli anni ’80. CUPRESE 2011 Bussa al naso col suo vestito ancora verde e stropicciato lasciando appena intravedere il suo fisico slanciato e nervoso. Sembra un vino promettente, incerto nei suoi effluvi che richiamano ora la spumiglia ora la foglia di pomodoro strizzando l’occhio al Sauvignon. Un vino adolescente, con qualche foruncolo sul viso e musica commerciale nell’iPod. Magro, giovane ma con un certo carattere. CUPRESE 2008 Gioca a nascondino; corre e ti chiama; sembra lasciarsi afferrare e poi scappa nuovamente. Se fosse una donna l’avrei già maledetta rischiando di spendere uno sproposito in sms e telefonate nel convincerla a uscire assieme. Fortunatamente è “solo” un vino che alterna note evolutive di pepe, biancospino, iodo e spezie a sentori più monocordi che non danno spessore a un corpo fragile.
Ci addentriamo nei vini monumentali, liquidi odorosi che strappano un applauso, emozionano e pongono domande… CUPRESE 1997 Ancora fresco e tirato senza ricorrere alla chirurgia plastica, almeno in tempi recenti. Ricorda la pietra focaia, le note di cedro e mentolo, si irrigidisce sulla schiena come soldato sull’attenti. Acido e vibrante con chiusura degna degli assoli di Jimi Hendrix.
CUPRESE 1988 Ancora fresco con profumi che camminano attorno all’acqua di rose e delicati fiori bianchi senza voler entrare in modo prepotente. Un vino fine, leggiadro, mai sgarbato o grossolano; solo una leggera matrice poco netta ne sporca l’olfatto mentre il suo suono sulla lingua ha ancora note di bella struttura. “Wild World” di Cat Stevens lo descrive perfettamente.
CUPRESE 2001 Sembra una canzone di Leonard Cohen, forse proprio “Famous blue raincot” così profonda e malinconica. Un vino che ricorda il sentore di tabacco dei vecchi club, le rughe disegnate sul volto e note ossidative di vecchiaia, l’aria salmastra, il gusto pieno, vivo, sapido e tenace. Decadente ma non noioso.
CUPRESE 1992 Vino aristocratico, elegante ed equilibrato. Ti parla colpendo in profondità con la sua pienezza gustativa ed olfattiva. Note di pasticceria con la crema catalana prepotente e invitante, mentre evolve su note di miele sprigionando un carnevale di profumi come fossero coriandoli. Resta imprigionato sulla lingua con preponderante mineralità. Immortale come “Heros” di David Bowie, il duca bianco.
CUPRESE 1985 Vino maestoso. Commovente. Tra i più bei ricordi di degustatore che possa annoverare. Dotato di acidità verticale che mira ancora al cielo. Sembra infinito e irraggiungibile per la sua aitante bellezza. Ti colpisce con l’idrocarburo, le note di tartufo, caffè e l’incidere deciso e alcolico. Quando ascoltai per la prima volta “Another Brick” in “the Wall” dei Pink Floyd mi emozionai allo stesso modo… pensare che durante la vendemmia il muro divideva ancora Berlino.
CUPRESE 1999 Ti affascina per la sua materia elegante, l’aria vanitosa, lo sguardo rivolto verso l’alto e la superbia; nemmeno fosse Liam Gallagher davanti al microfono. Ciò che emerge è invece un vino composto e discreto nelle sue note torbate con richiami ai whisky di Islay, mela cotogna, grafite e compostezza, perdendo con il passare del tempo quell’aria da sbruffone britpop.
CUPRESE 1991 Ricorda nettamente le girelle di liquirizia restando imprigionato in una profondità meno pop del precedente. Fosse una canzone potrebbe ricordare “Show must go on” dei Queen, con quel suono più lineare e meno scoppiettante. Cogli lo spessore, l’intimità e l’integrità di un vino con più di vent’anni sulle spalle senza però trovare un bagliore più acceso. Intimo.
Dopo questi assaggi ho appoggiato il calice sul tavolo. Ho guardato l’etichetta dei vini. Ho contemplato sulla forza del verdicchio e la capacità di una cantina sociale con una produzione di un milione di bottiglie. Niente diatribe sulla naturalità, sui quantitativi di solforosa, sull’utilizzo di lieviti selezionati o filtrazioni. Eppure mi sono emozionato ascoltando il vino senza preconcetti, ma non voglio aprire questioni fin troppo dibattute.
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pietre colorate Molte pagine sono state scritte sul primo boccone, sul secondo, sul terzo… Il punto non è mangiare né vivere. È sapere perché. Muriel Barbery, Estasi culinarie, edizioni e/o