Grassroots magazine: il fenomeno odierno dell'editoria periodica indipendente

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a Titta e alle mie due famiglie (la seconda è la Bovisa)



INDICE DEI CONTENUTI

p. 8

Abstract (Italiano)

p. 9

Abstract (English)

pp. 10-11

Introduzione al capitolo primo

pp. 12-33

Capitolo primo – Tre fenomeni e un fatto riguardanti l'epoca della profonda pervasività del digitale

pp. 12-17

1.1 Il movimento ‘slow’: la lentezza richiesta anche online

pp. 18-23

1.2 Filtraggio da ex-ante a ex-post: la prima aggravante dell'information overload

pp. 24-28

1.3 Longform journalism: due tentativi di ritorno al ‘senso della fine’. Esempi dal mondo del racconto calcistico

pp. 29-33

1.4 La carta come notizia in se stessa

pp. 34-35

Introduzione al capitolo secondo

pp. 36-54

Capitolo secondo – La situazione attuale dell’editoria periodica ‘tradizionale’: crisi o evoluzione?

pp. 36-40

2.1 I numeri attuali del consumo mediale a livello globale: il trend dell’allineamento tra ricavi pubblicitari e ricavi di circolazione

pp. 41-45

2.2 I numeri attuali del consumo mediale in Italia: la crossmedialità come trend in linea con gli altri paesi sviluppati

pp. 46-50

2.3 Davanti a nuovi pattern di consumo mediale: la necessità di nuove metriche di rilevamento e di nuove forme advertising

pp. 51-54

2.4 La necessità di nuove terminologie attorno a prodotti periodici: la preponderanza del linguaggio audiovisivo e la ricerca di nuovi modelli di business

pp. 56-57

Introduzione al capitolo terzo

pp. 58-151

Capitolo terzo – L'emergente fenomeno dell'editoria grassroots periodica

pp. 58-69

3.1 Di cosa si tratta? A confronto con delle esperienze antecedenti

pp. 70-80

3.2 Oggi: presentare un fenomeno a partire da quello che nasce attorno ad esso

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INDICE DEI CONTENUTI

pp. 81-106

3.3 Megan Le Masurier: il suo tentativo di definizione di ‘magazine’ e la necessità di uno ‘spettro’. Quale posizione per i ‘magazine indipendenti’?

pp. 107-126

3.4 Come si differenziano da fanzine e magazine mainstream in merito alla dimensione commerciale

pp. 127-151

3.5 “Graphic design is content”: l'allineamento tra cultural journalism e direzione artistica

pp. 152-153

Introduzione al capitolo quarto

pp. 154-196

Capitolo quarto – Il perché di questo fenomeno: dal tipo di cultura in cui si vive, alcune direzioni di risposta

pp. 154-166

4.1 Le diverse spiegazioni proposte: quattro ordini di ragioni

pp. 167-171

4.2 Il paradigma della cultura convergente come condizione necessaria

pp. 172-179

4.3 La conseguenza del paradigma della cultura convergente: «If it doesn't spread, it's dead»

pp. 180-198

4.4 Le ragioni per cui questo fenomeno sussiste: contrasto al tipo di individualizzazione proposto dalla società dei consumi e alla 'sindrome consumista'

p. 199

Conclusioni (avvertenza)

pp. 200-208

Conclusioni

pp. 210-211

Bibliografia

pp. 212-213

Periodici

p. 214

Reports

p. 215

Sitografia

pp. 216-217

Indice dei nomi principali

pp. 218-219

Thanks

p. 220

Colophon

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ASBTRACT

Questa tesi di laurea nasce, fondamentalmente, per due ragioni. La prima è di carattere ‘personale’ di chi scrive, mentre la seconda riguarda delle ‘problematiche’ e delle questioni provenienti dal momento storico di profonda pervasività del digitale in cui ci si trova oggi. Sulla prima: il sottoscritto, lungo il suo percorso di studi (e le sue – per ora – acerbe esperienze lavorative) ha maturato una particolare inclinazione per il design editoriale e, in particolare, per quello che si può definire come ‘oggetto magazine’. Non si tratta dell’unica area del design della comunicazione che appassiona chi scrive (seconda fra tutte è quella della motion graphics) ma è, ad oggi, quella che ci si sente ‘più vicina’. A partire da ciò si è deciso che, in questa sede, si sarebbe voluto indagare ‘qualcosa’ circa il mondo dell’editoria periodica. Questo ‘qualcosa’ che sarebbe dovuto divenire l’oggetto del presente studio si è identificato guardando a un fenomeno oggi in atto: quello dei cosiddetti ‘independent magazines’, che fanno sempre più ‘seguaci’ malgrado l’epoca ‘dei 140 caratteri’ e della nowness della rete. Come e perché c'è ancora chi si lancia in queste avventure ‘dal basso’, spesso caratterizzate anche dalla ridotta longevità e da bassi valori di tiratura? Sono queste due, alla radice, le domande a cui si sono voluti dare dei tentativi di risposta nella speranza che possano essere, in qualche maniera, un contributo alla discussione tutt’oggi in atto circa tale fenomeno. Venendo ora al percorso che la tesi sviluppa: esso è suddiviso in quattro capitoli. All’inizio di ognuno di essi è presente una breve introduzione ad hoc. All’inizio, nel primo capitolo, la questione viene presa ‘alla larga’ (ovvero senza cominciare immediatamente a parlare di esperienze editoriali) descrivendo tre fenomeni e un fatto riguardanti l’epoca del continuo stream digitale attuale. Nel secondo capitolo, la questione dell’editoria comincia a emergere in tale panorama: la volontà è quella di, anzitutto, mostrare come – malgrado le problematiche discusse nel primo capitolo – la situazione dell’editoria periodica cartacea (a livello mondiale) non sia certamente rosea. Vengono però successivamente espresse argomentazioni che portano a chiedersi: è una ‘crisi definitiva’ o un momento di transizione? Successivamente, nel capitolo terzo, si entra più strettamente nel merito del fenomeno oggetto della tesi. Si fa anzitutto un breve excursus storico per comprendere come non sia qualcosa di inedito il dire ‘editoria indipendente’. Dopodiché si cerca di avvicinarsi a ciò che accade nell’attualità anzitutto presentando la produzione di letteratura che attorno ad essa ruota e, poi, tentando di definire quanto più possibile i ‘confini’ del fenomeno studiato. L’ultimo paragrafo riguarderà invece queste realtà osservate da due punti di vista ritenuti di primaria importanza: il progetto grafico elevato a ‘contenuto’ e i rapporti con la dimensione commerciale. Infine, nel capitolo quarto, vi saranno tre passaggi: quali sono le ‘condizioni’ che rendono possibili il verificarsi del fenomeno studiato e come, in questo panorama, i contenuti mediali si comportano (o dovrebbero comportarsi). Da ultimo, si tenterà di delineare le motivazioni che spingono i cosiddetti maker a lanciarsi in queste esperienze di produzione di contenuti grassroots. Nelle conclusioni si andranno poi a toccare quattro punti ritenuti di fondamentale importanza per chi volesse cimentarsi in una esperienza di creazione di contenuti come quelle indagate. Vi sarà poi un punto-cappello che vuole esplicitare una potenzialità – sottesa lungo i capitoli della tesi – circa queste esperienze editoriali grassroots. 8


ABSTRACT

The concept of this thesis comes from two main reasons. The first one is something ‘personal’ and regards the undersigned while the second one is about some problems and issues on the current moment characterized from a very permeating presence of digital in which people live nowadays. Talking about the first one, the undersigned has developed a passion for editorial design and for magazines in particular along his university years and his still green work experiences. This is not the only communication design area which impassions the undersigned (the second one is motion graphics) but it is the area which is felt ‘close’ the most. For these reasons the undersigned decided to investigate something about magazines. But what? The theme of the thesis came out from observing an actual phenomenon: the so-called ‘independent magazines’ in which many and many people are getting involved despite the ‘140 characters’ and ‘nowness’ era of the web. This research tries to answer two main questions: how and why do some people decide nowadays to begin grassroots editorial experiences which are often characterized by short longevity and low circulation values? The undersigned hopes that his attempt in answering these questions will be something useful in the current discussion about this phenomenon. Talking about the ‘path’ of the thesis, it is composed by four chapters. At the beginning of every chapter there is a short ad hoc introduction. In the first chapter, the issue is considered from a more general point of view: in it are presented three trends and one fact about the actual very permeating presence of digital. In the second one, the ‘editorial issue’ begins to emerge: here the undersigned wants to show that print magazines don’t seem to be in a good situation in despite of the ‘problems’ of the digital era presented in the first chapter. After that the undersigned presents some arguments which wants the reader to ask himself: is it a definitive crisis or is it a transition moment? Later in chapter three the topic of the thesis is analysed in a more focused way. At the beginning there is a short historic digression in order to show that ‘independent magazine’ is not an innovative term. After that the topic is observed through the lens of the today’s cultural production about it and, later, the undersigned tries to shape the ‘borders’ of the subject analysed in the thesis. The last paragraph of this chapter is about these grassroots experiences seen from two points of view: the graphic design considered as content and the relationships between them and the commercial dimension. Finally in the last chapter there are three steps: which are the ‘conditions’ which allow this phenomenon to exist and how media behave (or should behave) in the actual media scenario. After that the undersigned tries to shape the motivations which encourage the so-called maker to begin these grassroots experiences. In the conclusions the undersigned talks about four topics that are considered to be fundamental for who might want to begin an editorial adventure like the ones investigated in this thesis. There also is a fifth final point in which is highlighted a potentiality of these grassroots experiences: this is subtended along the thesis, but in this point it is explained.

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INTRODUZIONE CAPITOLO AL CAPITOLO PRIMO PRIMO

Tre fenomeni e un fatto riguardanti l’epoca della profonda pervasività del digitale In questo primo capitolo della trattazione si intende presentare al lettore tre fenomeni riguardanti il web odierno e, da ultimo, un fatto riguardante la carta stampata. I tre fenomeni di cui si parlerà vogliono fare intendere come, pur nel momento storico caratterizzato da una potente pervasività del digitale in cui ci si trova attualmente, non manchino però delle problematiche legate a questa realtà: non tutti gli utenti della rete sembrano trovarsi ‘a proprio agio’ con le dinamiche del ‘tutto e subito’ che Internet fa vivere ai propri naviganti. Si andrà quindi a raccontare ciò che è il movimento Slow, costituito da chi (come ad esempio Jack Cheng) trova che lo ‘stream’ continuo e ininterrotto che il web è divenuto non sia qualcosa di aiuto alla comprensione di chi fruisce della rete. In seguito si parlerà del filtraggio operato in base alla qualità dei contenuti che – oggi più che mai – è un onere dell’utente finale, grazie al crollo dei ‘muri’ posti all’ingresso del mondo della comunicazione e ciò che questa dinamica comporta. 10


TRE FENOMENI E UN FATTO RIGUARDANTI L’EPOCA DELLA PROFONDA PERVASIVITÀ DEL DIGITALE

Da terzo, si andrà ad indagare il fenomeno del cosiddetto ‘longform journalism’ il quale mette in luce come, pur nell’epoca del ‘tutto e subito’, non si sono verificate quelle previsioni secondo cui la rete avrebbe fatto sparire forme di storytelling lunghe e distese. Come punto finale del capitolo si andrà a mostrare come, pur nell’epoca odierna, la carta stampata abbia talvolta una forza comunicativa tale da arrivare a costituire una notizia in se stessa.

11


CAPITOLO PRIMO

1.1 IL MOVIMENTO SLOW: LA LENTEZZA RICHIESTA ANCHE ONLINE

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JOHN BORTHWICK

Bortwick John (2009) http://www. borthwick.com/ weblog/2009/04/19/699/

2 Definizione di ‘One Page website’ da onepagelove. com: «A One Page website aims to provide the perfect (could read minimum) amount of information for a user to make a decision and act upon it. This single page website has no additional pages (like about, services, contact) and tries to remove as much “clutter” as possible, focusing the user’s attention to the most important content»

Nel 2009, il fondatore e CEO della società statunitense Betaworks John Bortwick pubblica sul proprio blog un post dal titolo Distribution… now. Si tratta di uno scritto rilevante in quanto viene usata per la prima volta la metafora del fiume, del flusso (in inglese: ‘stream’) per descrivere Internet. Bortwick contrappone la visione di Internet come flusso continuo (ricordando in qualche maniera il celebre aforisma di Eraclito) a quella di Internet come luogo ‘discreto’, diviso cioè in tanti atomi ovvero le singole pagine HTML. Afferma l’autore:

«In the initial design of the web reading and writing (editing) were given equal consideration – yet for fifteen years the primary metaphor of the web has been pages and reading. The metaphors we used to circumscribe this possibility set were mostly drawn from books and architecture (pages, browser, sites etc.). Most of these metaphors were static and one way. The stream metaphor is fundamentally different. It’s dynamic, it doesn’t live very well within a page and still very much evolving. A stream. A real time, flowing, dynamic stream of information — that we as users and participants can dip in and out of and whether we participate in them or simply observe we are a part of this flow».1

3 Definizione dal sito di Awwwards: «The awards that recognize the talent and effort of the best web designers, developers and agencies in the world»

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fig.1 Screenshot della landing page di www.onepagelove.com (10 gennaio 2017)

Insomma: un flusso mai interrotto di notizie, immagini, suoni, reazioni e commenti in cui l’importante diventa quello che in inglese viene descritto con il termine ‘nowness’, difficilmente traducibile in italiano. A sostegno di ciò, si può ad esempio notare come molti e molti siti web abbiano adottato la cosiddetta Onepage2 come modalità di fruizione e visualizzazione dei contenuti proposti. Esistono siti di template specializzati nell’offrire agli utenti esclusivamente dei modelli Onepage, ad esempio www.onepagelove.com oppure si può vedere come Awwwards3 premi ogni anno i siti che più apprezza dedicando ai siti Onepage una apposita nomination. Dall’altra parte e in continuità con ciò basti semplicemente notare che la forma dello stream, dello scorrimento, è quella scelta anche da social

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Definizione di Riccardo Perini: «Il Cluetrain Manifesto è un elenco di 95 tesi o “comandamenti” proposti come inviti all’azione per tutte le aziende che comunicano e fanno marketing ai tempi di Internet»

5 Vietti Piero (2014) http://www.ilfoglio. it/articoli/2014/08/31/ news/generazione-slowweb-76181/ 6 http://www.nytimes. com/2012/07/24/ technology/silicon-valleyworries-about-addictionto-devices.html

network come Facebook, Instagram o Twitter. Si ritiene che tutto ciò faccia parte di quell’entusiasmo con cui si guarda alla pervasività di Internet nelle nostre vite che era nutrito, per esempio, dagli scrittori del Cluetrain Manifesto4 nel 2000. La provocazione è forte in quanto tale documento si compone di 95 tesi ricordando così quanto edito da Martin Lutero nel 1517. Tra le altre cose, i quattro autori affermano che «attraverso Internet la gente sta scoprendo e inventando nuovi modi di condividere conoscenza rilevante a una velocità accecante». Non si vuole contraddire tale affermazione, ma si prendono in prestito le parole scritte da Alexis Madrigal, vice direttore de The Atlantic che nel 2013 afferma:

«The stream is fun and fast, but don’t you miss the sense of an ending?» e Piero Vietti commenta queste parole da Il Foglio affermando:5

«Noi, creature finite, abbiamo a che fare con qualcosa di continuamente non-finito. Sempre più incapaci di giudicare, abbiamo preferito la meno impegnativa nowness per gerarchizzare letture e attenzione, divisi tra la convinzione che la cosa interessante da leggere sia appena uno scroll più in là e la paura di esserci persi qualcosa di decisivo. La rete è diventata un già e non ancora che ha cominiciato a stancarci».

7 Definizione della Wisdom 2.0 dalla pagina About di wisdom2summit.com: «Wisdom 2.0 addresses the great challenge of our age: to not only live connected to one another through technology, but to do so in ways that are beneficial to our own wellbeing, effective in our work, and useful to the world»

8 Definizione di Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders da dsm5. org: «The Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM–5) is the product of more than 10 years of effort by hundreds of international experts in all aspects of mental health. Their dedication and hard work have yielded an authoritative volume that defines and classifies mental disorders in order to improve diagnoses, treatment, and research»

Proprio il senso della fine, della finitezza, sembra essere ciò di cui sempre più si sente la mancanza e questa necessità arriva a farsi sentire fin laddove la tecnologia e la sua pervasività sembrerebbero essere totem insormontabili, ovvero nella Silicon Valley. Infatti, nel 2012 appare su The New York Times un articolo firmato da Matt Richtel dal titolo Silicon Valley Says Step Away From the Device.6 L’articolo in questione inizia descrivendo come Stuart Crabb, allora stretto collaboratore di Mark Zuckerberg, mai mancasse di descrivere gli straordinari benefici dei computer e degli smartphone. Oltre a ciò, però, nell’articolo si segnala che Crabb lancia anche un monito: «In a place where technology is seen as an all-powerfull answer, it is increasingly being seen as too powerful, even addictive». Non sorprende tanto leggere parole come queste: più che altro è sorprendente che vengano dette in un contesto come quello della Silicon Valley. Alla ultima edizione della Wisdom 2.0,7 finanziatori di società come Facebook, Twitter, eBay e PayPal hanno partecipato a incontri con esperti di yoga e meditazione, e ciò va a braccio col fatto che per il 2017 la Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders8 stia progettando di inserire un disturbo denominato ‘Internet use disorder’ nel proprio elenco. Dopo aver tentato di descrivere brevemente come vi siano anche sentori non entusiastici circa l’avanzata ormai irreversibile del digitale e le loro ragioni, si vuol ora passare a descrivere – a titolo di esempio – quattro fenomeni che in questo bacino si collocano. Il primo è quello de The Slow web Movement, fondato nel 2012 da Jack Cheng. Per descrivere ciò, ci si rifà al manifesto che il fondatore scrisse, estrapolandone dei passaggi. Innanzitutto, dopo una breve introduzione, Cheng afferma che il suo 13

STUART CRABB

4

ALEXIS MADRIGAL

TRE FENOMENI E UN FATTO RIGUARDANTI L’EPOCA DELLA PROFONDA PERVASIVITÀ DEL DIGITALE


CAPITOLO PRIMO

9 Estrapolato da https:// jackcheng.com/ the-slow-web

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«What is the Fast web? It’s the out of control web. The oh my god there’s so much stuff and I can’t possibly keep up web. It’s the spend two dozen times a day checking web. The in one end out the other web. The web designed to appeal to the basest of our intellectual palettes, the salt, sugar and fat of online content web. It’s the scale hard and fast web. The create a destination for billions of people web. The you have two hundred twenty six new updates web. Keep up or be lost. Click me. Like me. Tweet me. Share me. The Fast web demands that you do things and do them now. The Fast web is a cruel wonderland of shiny shiny things».9

JACK CHENG

ibidem

movimento è qualcosa in continuità con il movimento Slow Food che nacque grazie a Carlo Petrini in Italia, come reazione all’apertura di un fast food Mc Donald’s in Piazza di Spagna a Roma. Una volta introdotto questo parallelismo tra movimento Slow Food e movimento del web lento, Cheng decide di descrivere cosa sia il web lento per contrasto, ovvero dando una colorita descrizione di cosa sia il ‘fast web’:

Si vede come la visione dell’autore di questo manifesto sia quella dell’‘Internet veloce’ come un mondo infido, in cui le modalità in cui sono disegnate le interfacce vengono descritte come il sale, i grassi e lo zucchero digitali in parallelo con gli ingredienti dei cibi dei fast food. Il secondo passaggio del suo discorso parla del ‘real-time’ contrapposto a ‘timely’. Si tratta della contrapposizione tra tempo reale e ‘al tempo opportuno’: un esempio semplice e lampante di come il cosiddetto web veloce ci porti a essere sempre aggiornati senza alcuno scarto temporale è la banda laterale dell’applicazione del servizio di streaming di brani musicali Spotify. Infatti, in questa banda viene mostrato che brano stanno ascoltando, minuto per minuto, i nostri contatti. Sul finire di questo punto del suo discorso, l’autore segnala però che non è sufficiente ‘il tempo della differita’ perché qualcosa sia definibile come parte dello ‘slow’ web: è necessario anche quello che lui definisce come ‘ritmo’ e che viene descritto in seguito. Persino le mail, sostiene l’autore, per quanto ‘lente’ e ‘finite’ non sono classificabili come facenti parti della filosofia del web lento in quanto, al contrario del ritmo, esse hanno un “andamento” aleatorio: la posta elettronica, per dire, non arriva ogni giorno ad un orario prefissato o almeno non tutta. Per contrasto, Cheng cita I Done This come esempio di servizio dotato di una regolarità ritmica. Si tratta di un servizio per aiutare chi lavora in team a gestire i diversi compiti, monitorare l’avvicinarsi delle scadenze eccetera. Una caratteristica particolare di questo servizio è che le e-mail riguardanti il lavoro arrivano ogni giorno ad un orario stabilito. Caratteristica che può parere banale ma enormemente in antitesi alla ‘febbre del refreshing compulsivo’. L’ultimo nodo di questo manifesto mette in contrapposizione Information e Knowledge: informazione contro conoscenza. L’autore afferma che questa è forse la più sostanziale differenza tra web lento e web veloce. Per parlare di questo punto, Cheng si riferisce ancora al servizio I Done This insieme con un’altra piattaforma di nome TimeHop: «Again, iDoneThis serves as a fitting example. After you use it for a few days, you start seeing at the bottom of 14


TRE FENOMENI E UN FATTO RIGUARDANTI L’EPOCA DELLA PROFONDA PERVASIVITÀ DEL DIGITALE

http:/slowcommunication. it/archives/

12 Freeman John (2009) http://www.wsj.com/ articles/SB1000142405297 020355060457435864311 7407778

your daily emails the things you’ve done in the past, a day or a week before. It’s kind of a contained version of Timehop, Benny and Jon’s product that, once you’ve connected it to your various social accounts, sends you a daily—get ready for this word—digest with everything you did a year ago on that day».10 In Italia sono nate esperienze simili a quella fondata da Cheng: si parla di Slow Communication, movimento nato da Andrea Ferrazzi. Sul sito di questa realtà si legge:

«Il Movimento “Slow Communication” intende diffondere anche in Italia una nuova cultura digitale, una nuova alfabetizzazione mediatica e una nuova etica intellettuale fondata sulla ricerca di un equilibrio sostenibile tra la velocità e l’immediatezza del web e il pensiero lento, lineare e approfondito che utilizziamo per seguire una lunga narrazione e un’argomentazione complessa oppure per riflettere sulle esperienze della nostra esistenza».11

13 http://www.chronotext. org/

ANDREA FERRAZZI

11

«Given that our days are limited, our hours precious, we have to decide what we want to do, what we want to say, what and who we care about, and how we want to allocate our time to these things within the limits that do not and cannot change. In short, we need to slow down».13

fig.2 Screenshot de He Liked Thick Word Soup di Ariel Malka. (11 gennaio 2017) goo.gl/Qnvm8z

Di esperienze che gridano la necessità di ‘staccare il piede dall’acceleratore’ (o almeno di provarci) ve ne sono diverse oltre a quelle appena presentate. Ma di cosa si occupano, poi, queste avventure? Nella pratica, esse si spendono certamente per informare, far riflettere e diffondere i loro messaggi anche mettendo in guardia le persone circa gli effetti – come una maggior propensione ad una lettura veloce e superficiale, o l’incapacità di mantenere l’attenzione su un tale contenuto per un lasso significativo di tempo – di usi ‘eccessivi o errati’ di Internet. Oltre a ciò, parlano e promuovono anche artefatti e progetti che incarnano la loro filosofia. Se ne vogliono proporre qui due a titolo di esempio. Il primo progetto si chiama He Liked Thick Word Soup ed è stato concepito da 15

JOHN FREEMAN

Parole che ricordano molto quelle del manifesto scritto dall’americano Cheng, ed è interessante come entrambi i fondatori – Cheng e Ferrazzi – si rifacciano a ciò che ha fondato Carlo Petrini. Per rafforzare le ragioni di quanto da lui cominciato, Ferrazzi parla del fatto che nel 2009 uscì sul Wall Street Journal il Manifesto for the Slow Communication12 a firma del critico letterario e scrittore John Freeman, il quale affermava:

2


CAPITOLO PRIMO

14 Carr David (2014) https://www.nytimes. com/2014/06/30/business/ media/for-email-a-deathgreatly-exaggerated.html

15

«How can that be? With social media, mobile apps and dynamic websites that practically stalk the reader, how can something that sometimes gets caught in a spam filter really be taking off? Newsletters are clicking because readers have grown tired of the endless stream of information on the Internet, and having something finite and recognizable show up in your inbox can impose order on all that chaos. In fact, the comeback of email newsletters has been covered in Fast Company, The Atlantic and Medium, but I missed those articles because, really, who can keep up with a never-ending scroll of new developments? That’s where email newsletters, with their aggregation and summaries, come in. Some are email only, others reprise something that can be

DAVID CARR

PIERO VIETTI

ibidem

Ariel Malka, docente associato di Psicologia presso la Yesha University, ateneo ebraico degli Stati Uniti d’America. Questo progetto, datato 2014, è l’ultimo di una decennale serie di sperimentazioni denominati Chronotext experiments. Un insieme di esperimenti in ambiente software volti a «esplorare la relazione tra testo, spazio e tempo», come si legge nella landing page del portale dedicato. Si tratta di un esperimento interessante e atto cercare di “rallentare” i ritmi in quanto l’ideatore chiede all’utente di compiere una operazione che è addirittura più lenta che quella della lettura: l’utente deve, con le proprie dita (è quindi necessario un dispositivo con schermo touch) letteralmente ‘lottare’ col testo per districarlo in quanto si presenta tutto intrecciato e quindi incomprensibile. Una volta compiuta tale operazione con una frase, si passa alla matassa (frase) successiva e così via per tutta la lunghezza dell’Ulisse di James Joyce, l’opera selezionata per questo esperimento. Un altro esempio di progetto è stato reso pubblico (era presente dal 2014, ma solo su invito se ne poteva divenire utenti) da Andrew Golis nel 2015 e si chiamava This.: si tratta di un tentativo ormai fallito ma significativo per ciò che ha proposto agli utenti. Si trattava di un social network il quale aveva una caratteristica precisa: permettere ai propri utenti di condividere un unico link al giorno (un link, non un post: si trattava semplicemente di copiare ed incollare la url di un articolo che si reputava particolarmente interessante). Difatti, il pronome dimostrativo “this” riassume quindi l’azione che questa piattaforma permetteva di compiere. Quale era dunque la filosofia dietro a questa scelta che al giorno d’oggi potrebbe suonare come una mal sopportabile costrizione? Spronare gli utenti ad usare la propria capacità critica e di selezione. Da ultimo, si intende presentare non tanto un progetto preciso quanto una tendenza, un trend: si parla delle e-mail. Sempre Piero Vietti, nel sopra citato articolo apparso su Il Foglio, descrive come la posta elettronica non sia morta (come diversi attori prevedevano) ma sia riuscita a sopravvivere persino nella sua forma a prima vista più ‘anacronistica’: la forma della newsletter. Vietti si rifà a quanto scritto dall’ormai defunto docente della Boston University David Carr sulla versione digitale de The New York Times il 29 giugno 201414. Questo docente parla di come l’’antico’ strumento della posta elettronica trovi nel continuo stream senza un inizio e una fine di informazioni uno spiraglio da cui farsi largo:

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TRE FENOMENI E UN FATTO RIGUARDANTI L’EPOCA DELLA PROFONDA PERVASIVITÀ DEL DIGITALE

found on the web. At a time when lots of news and information is whizzing by online, email newsletters — some free, some not — help us figure out what’s worth paying attention to».15

16 Winfrey Graham (2014) http://www.inc.com/ graham-winfrey/whyemail-newsletters-areking.html

Questo perché una delle caratteristiche fondamentali di un messaggio di posta elettronica è che ha un inizio e una fine, sempre. Per corroborare quanto sostiene, Carr parla di come grandi testate giornalistiche come Bloomberg, Politico o lo stesso The New York Times si stessero sempre più avvalendo di tale strumento. Per capire i numeri di tale fenomeno, osserva Vietti, basterebbe guardare alle statistiche riguardanti MailChimp, servizio online per la diffusione di messaggi di posta elettronica a migliaia di indirizzi contemporaneamente: secondo il report del 2014 dell’azienda citato da un articolo di Graham Winfrey16 uscito il 30 giugno 2014 su Inc, la piattaforma MailChimp aumentava il proprio numero di utenti di circa diecimila unità al giorno. Una nota personale di chi scrive è da dire sul fatto che questi messaggi, per la regolarità con cui vengono mandati (a titolo di esempio, la piattaforma Medium manda ai propri iscritti alla newsletter un messaggio intorno alle 08:30 di mattina, proprio quando le persone, arrivate in ufficio, si dedicano a leggere la posta elettronica prima di iniziare il lavoro vero e proprio) entrano in quelle modalità definibili come parte dello Slow web di cui parla Cheng.

17


CAPITOLO PRIMO

1.2 FILTRAGGIO DA EX-ANTE A EX-POST: LA PRIMA AGGRAVANTE DELL’INFORMATION OVERLOAD

17 Ruff Joseph (2002) Si veda la bibliografia.

18 Hwang Mark, Lin Jerry (1999) https://www. researchgate.net/ publication/242926164_ Information_Dimension_ Information_Overload_ and_Decision_Quality

19 Si veda la nota 17.

Un argomento che ha destato l’interesse di chi scrive in quanto possibile catalizzatore di un rinnovato interesse nei confronti del cartaceo è qualcosa che va in parallelo con la ‘richiesta di lentezza’ e di ‘ritrovamento di un senso della fine’ descritti nel paragrafo precedente: si tratta del tanto discusso sovraccarico cognitivo o, in inglese, information overload. Per la verità, più che l’information overload in se stesso, è interessante un ulteriore passaggio che viene fatto nel 2008 da Clay Shirky, statunitense saggista e docente della New York University. Prima di venire però alla riflessione di Shirky, si ritiene sia bene fare una breve introduzione al tema dell’information overload per comprendere poi meglio la sua tesi. Per tentare di dare una definizione (difficile darne una univoca per via della sterminata quantità di produzione letteraria sull’argomento, fatta da rappresentanti di mondi diversi come il marketing, la psicologia cognitiva, il design, l’informatica, la finanza, l’informazione, l’intrattenimento eccetera) si vuole adottare quella che, nei testi letti, sembra essere la più essenziale e capace di accogliere anche le altre. Ci si rifà ad un paper del 2002 scritto da Joseph Ruff, che dal 2002 al 2005 fu ricercatore presso l’università di Harvard. In questo documento edito appunto dalla Graduate School of Education della prestigiosa università statunitense, Ruff inizia affermando:

JOSEPH RUFF

«Considerable research has been conducted on the topic of information overload in a variety of settings and disciplines (i.e. finance, marketing, pharmacology, library science, and technology). A common definition includes the negative impact on performance due to the quantity of (too much) information. Performance usually relates to information processing and is measured by decisionmaking ability».17

MARK HWANG

information processing & decision accuracy

3

Ruff si spiega ulteriormente subito dopo, quando presenta il grafico da lui chiamato capacity Grafico della U ribaltata in cui si illustra come la capacità di elaborazione di stimoli provenienti dall’esterno, una volta raggiunta la massima quaninformation overload tità di stimoli processabili, cali classificando l’informazione in eccesso come ‘rumore’, come scritto nel 199818 da information load Hwang, attualmente docente alla Central Michigan University: «Once capacity is surpassed however, additional information becomes noise and results in a decrease fig.3 Il Grafico della U in information processing and decision quality». Ciò va ad inficiare l’abilità ribaltata proposto da Joseph Ruff nel 2002. di prendere decisioni: «[…] after certain point is reached, the decision-maker has obtained more information than he can process, information overload has occurred and decision-making ability decreases».19 Del sovraccarico cognitivo è stato scritto molto anche da psicologi o 18


Kundtz David (1998) Si veda la bibliografia.

21 ibidem

22 Walter Jackson (2001) Si veda la bibliografia.

psicoterapeuti come David Kundtz, le cui parole vengono prese in prestito per descrivere parte dei sintomi di chi soffre di quella che è stata definita come Information Fatigue Syndrome (IFS), termine apparso per la prima volta su The Straits News nel 1994, secondo oxforddictionaries.com. Ruff elenca, nel suo articolo, i principali sintomi di questo disturbo, tra cui figurano: scarsa capacità di concentrazione, uno stato cronico di forte irritabilità, ‘compulsività’ nel controllo di e-mail, notifiche eccetera, abbassamento delle difese immunitarie e altro ancora. Nel 1998 esce un libro di David Kundtz chiamato Stopping: How to Be Still When You Have to Keep Going20 in cui l’autore parla di pazienti che giungono da lui «at the end of their rope and in tears»,

«While they are highly successful, very intelligent professionals, they are in trouble: anxious, stressed, unfocused, irritable, unable to sleep, overwhelmed by life, and frustrated with their inability to manage it»21

23 Blair Ann (2011) https://hbr.org/2011/03/ information-overloads2300-yea.html

insomma giungono in uno stato di stress tale da metterli in ginocchio. È interessante notare come il paper scritto da Joseph Ruff di cui si riportano qui dei passaggi sia stato scritto più di dieci anni fa, questo soprattutto per via di alcuni numeri che vengono snocciolati in un paragrafo chiamato What is the practical impact of all this information?. Ad esempio, l’autore si rifà ad una ricerca di Thomas W. Jackson (docente della Austin University, Texas) uscita nel 2001 dalla quale risultava:

«20 million words of new technical information are recorded each day. If one reads 1,000 words/minute and spent eight hours/day reading, it would require six weeks to read the information for that one day. However, at the end of the six weeks, the reader would have fallen behind by six weeks or 5.5 years worth of reading».22 Poco prima si affermava che ciò è interessante specialmente perché si tratta di ricerche dei primi anni Duemila, quindi effettuate in un mondo che era molto diverso rispetto ad oggi in merito alla pervasività di Internet e della tecnologia (basti pensare che, all’epoca, mancavano ancora sei anni all’uscita del primo Apple iPhone). La lettura di tali sintomi così legati al rapporto che le persone hanno con i propri dispositivi digitali nonché la lettura di numeri come quelli snocciolati da Jackson potrebbero far pensare che il sovraccarico cognitivo sia qualcosa ‘della contemporaneità’, qualcosa che era estraneo a chi è venuto prima di noi e che con il digitale niente ebbe mai a che fare. Non è così: certamente il problema è aumentato in modo esponenziale con l’avvento di Internet e del digitale, ma si tratta di qualcosa conosciuto anche in tempi remoti. Fa infatti effetto leggere quanto scritto in un articolo23 di Ann Blair, studiosa e docente di storia dell’università di Harvard specializzata in storia e cultura dell’inizio della modernità in Europa. Nel 2011, la Blair scrive un paper dal titolo Information Overload’s 2,300 Year-Old History, sciogliendo fin dal titolo ogni equivoco circa la non-novità del fenomeno del sovraccarico cognitivo. Ella dice che è un fenomeno dalle radici profonde da ricercare persino prima del XIV secolo durante cui Johannes Gutenberg inventa la stampa con la sua edizione della Bibbia (molti tendono ad individuare quanto fatto da Gutenberg come il punto da cui inizia l’information overload 19

THOMAS JACKSON

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DAVID KUNDTZ

TRE FENOMENI E UN FATTO RIGUARDANTI L’EPOCA DELLA PROFONDA PERVASIVITÀ DEL DIGITALE


CAPITOLO PRIMO

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ADRIEN BAILLET

VINCENZO DE BEAUVAIS

Baillet Adrien (XVI sec.) Si veda la bibliografia.

per via del fatto che la stampa rendeva più agile e rapida la diffusione dei testi così da far sì che più persone venissero più celermente a trovarsi davanti a un divario, ovvero quello tra quanta informazione potevano elaborare e quante informazioni avevano a disposizione contemporaneamente). La Blair parla di un versetto del Libro del Qoelet (Qoelet, 12:12), che compone la Bibbia ebraica e cristiana, il quale recita: «Quanto a ciò che è in più di questo, figlio mio, bada bene: i libri si moltiplicano senza fine ma il molto studio affatica il corpo». Nella sua trattazione, la Blair va anche più avanti nel corso degli anni raccontando ad esempio come nel 1255 un letterato e frate domenicano francese di nome Vincenzo de Beauvais disse:

«Since the multitude of books, the shortness of time and the slipperiness of memory do not allow all things which are written to be equally retained in the mind, I decided to reduce in one volume in a compendium and in summary order some flowers selected according to my talents from all the authors I was able to read». Il frate decise, quindi, di redigere di proprio pugno un’opera letteraria che – come una enciclopedia – raccogliesse le principali nozioni del sapere del suo tempo come per ‘avere una roccia sicura’ su cui poggiare malgrado la mancanza di tempo e la limitatezza della memoria umana di cui il frate parla nella citazione sopra, nel già presente sovraccarico cognitivo dell’epoca (circa due secoli prima dell’invenzione di Johannes Gutenberg). Si tratta dello Speculum Maius, opera edita in ottanta libri composta da circa quattro milioni e mezzo di parole. Si componeva di tre parti: lo Speculum Naturale, composto di trentadue volumi, riportava quanto allora conosciuto sulle scienze naturali. Seguiva poi lo Speculum Doctrinale (diciassette volumi) in cui erano riportate nozioni di dottrina e arti. Il terzo era lo Speculum Historiae il quale narrava la storia dell’umanità da Adamo al 1250 e si componeva di trentuno libri. Vi era poi una quarta sezione denominata Speculum Morale, la quale è apocrifa. Fa effetto pensare che, già addirittura prima dell’invenzione della stampa a caratteri mobili, un uomo avesse sentito così fortemente l’urgenza di ‘un punto fisso’ in tutta la produzione della conoscenza del suo tempo. La studiosa di Harvard prosegue ricordando che nel XV secolo la invenzione di Gutenberg portò il fenomeno del sovraccarico cognitivo ad essere conosciuto anche da persone meno abbienti, lo ‘democratizzò’. Più avanti, nel XVII secolo, le persone che notano l’esistenza di un problema di sovraccarico non diminuiscono, anzi. Un esempio è costituito da Adrien Baillet, presbitero, teologo e letterato francese (la cui fama è dovuta soprattutto alla biografia di Cartesio da lui redatta) che afferma:

«We have reason to fear that the multitude of books which grows every day in a prodigious fashion will make the following centuries fall into a state as barbarous as that of the centuries that followed the fall of the Roman Empire […] unless we try to prevent this danger by separating those books which we must throw out or leave in oblivion from those which one should save and within the latter between what is useful and what is not».24 20


Insomma: chiaramente, con l’arrivo della stampa, la percezione del problema cresce. Dunque: da questa breve rassegna di casi del passato in cui si vede come delle persone abbiano mostrato preoccupazione circa il problema del sovraccarico cognitivo, si può vedere come davvero non sia ‘nulla di nuovo’: cos’è cambiato dall’epoca di Vincenzo de Beauvius o da quella di Adrien Baillet rispetto alla attuale? Certamente, la quantità di stimoli e informazioni cui siamo sottoposti, che è cresciuta in modo esponenziale. Ma non è tutto qui. Clay Shirky, docente statunitense della New York University, saggista in particolare sugli effetti sociali che le tecnologie possono avere, tiene nel 2008 a New York un talk circa quello che lui chiama ’filtering process’. Lo studioso inizia la sua dissertazione affermando che sono anni, oramai, che si leggono e odono le stesse cose sull’information overload: ormai è chiaro, non serve più parlare di questo fenomeno in se stesso. C’è, c’è sempre stato e sempre ci sarà perché mai quel gap tra la nostra capacità elaborativa e la nostra produzione si colmerà. Mostra un grafico in cui mostra come la produzione di informazione stia vertiginosamente accelerando nel mondo, dicendo che è la ‘versione’ della IDC di come il fenomeno sta crescendo, ma non è importante: chiunque faccia un grafico per mostrare tale dato, il risultato sarà sempre una curva esponenziale. Ciò che è cambiato oggi, col digitale, lo dice poco più avanti: «There have been many media revolutions between Gutenberg and now, by the middle of the 21st century we had recorded music, movies, televisions, but the curious thing is all of those other media types had the same economics. Whether it is the printing press or a TV tower, it costs one a lot of money to get started and one had to filter for quality». Insomma, quel che Internet ha permesso è stato di:

«introduce for the first time postGutenberg economics. The cost of producing anything by anyone has fallen through the floor, famously, and as a result, there is no economic logic that says you have to filter for quality before you publish» ovvero abbattere quel filtro per cui una cosa, prima di essere pubblicata, doveva ‘passare’ la selezione di cosa mettere e cosa non mettere nella limitata superficie cartacea data. È come se l’onere della selezione fosse passato oggi, ancor più che prima, in mano al destinatario della comunicazione. Ciò è sicuramente esaltante da una parte, ma dall’altra aggrava la situazione: l’utente deve diventare ancora più abile e meno ingenuo di prima, deve farsi degli ancora migliori ‘anticorpi’. Un esempio che Shirky fa di ciò è lo spam, la posta indesiderata, parlando di un vero e proprio ‘filter failure’ in riferimento al fatto che non sempre gli algoritmi che dovrebbero setacciare e separare la posta spazzatura da quella autentica funzionano, e allora entra in gioco la capacità di discernimento dell’utente. Un altro esempio, magari anche più attuale dello spam, è ciò che l’utente si trova davanti ‘scrollando’ lungo i post nella propria bacheca Facebook. Si sta parlando del cosiddetto ‘click-baiting’ (‘bait’ significa ‘esca’ in inglese) ovvero quei link, quei post dai titoli ambigui, incompleti e tentativamente ‘catchy’ per indurre gli utenti a cliccarvi sopra, non col fine di proporre un contenuto di valore di qualsivoglia genere ma accrescere il numero di click che la tal pagina fa registrare di modo da avere dei dati più attraenti per gli inserzionisti pubblicitari. Si parla di post con titoli che iniziano in modi come “Non crederai mai a quello che è successo a Britney Spears”, “Sembrava tutto andasse per il meglio… guarda come è finita questa festa di matrimonio” oppure “Fai ameno di queste diciotto cattive abitudini per

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CLAY SHIRKY

TRE FENOMENI E UN FATTO RIGUARDANTI L’EPOCA DELLA PROFONDA PERVASIVITÀ DEL DIGITALE


CAPITOLO PRIMO

25 Eppler Martin, Mengis Jeanne (2004) Si veda la bibliografia.

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fig.4

MARTIN EPPLER

Screenshot di un post click baiting condiviso dalla pagina Facebook de Il Fatto Quotidiano in data 4 gennaio 2017. (11 gennaio 2017) https://goo.gl/5fNX4i

una vita più sana e serena”. Anche agli utenti più esperti può capitare la tentazione di vedere come quel matrimonio sia finito, o di scoprire cosa sia mai successo a Britney Spears. Per la verità, ciò che fa più effetto, è che nell’arena del click-baiting sono scese anche testate giornalistiche che – almeno in teoria – dovrebbero proporre contenuti di valore ai propri utenti. Viene da sorridere guardando cosa non farebbero (ad esempio) Repubblica o Il Fatto Quotidiano ‘per un pugno di click in più’: infatti le pagine Facebook di queste testate pubblicano spesso contenuti dal valore giornalistico nullo, col solo scopo di aumentare il numero di click sul proprio sito. In particolare, Il Fatto Quotidiano sembra usare il tema erotico-sessuale come esca prediletta: articoli con titoli come Le dimensioni contano? Sì (ma non sempre) oppure Masturbarsi durante l’orario lavorativo aumenta la produttività. Altra strategia, più ‘soft’, quella adottata dalla pagina Facebook di Repubblica: il ‘re-post’ di articoli non editi dalla redazione ma da The Huffington Post dai titoli come Compra iPhone nuovo, ci trova il numero di telefono di Adele e delle Spice Girls. The Huffington Post è una testata statunitense online popolarmente considerata come ‘la Wikipedia giornalistica’ in quanto ricorda più un blog su cui chiunque è libero di scrivere contenuti rispetto ad una vera e propria redazione. Certamente, il crollo del muro dei costi per entrare nel mondo dell’informazione di cui parla Shirky e che Internet ha permesso, ha dei lati considerati negativi come questo. Dall’altra parte, però, è bene notare che probabilmente, senza tale democratizzazione, non vi sarebbe nemmeno questa tesi di laurea: come verrà esposto nei capitoli successivi, Internet è stato uno dei principali catalizzatori del ‘rinascimento del cartaceo’ oggi in atto poiché ha reso possibile per tanti ‘piccoli avventurieri’ il farsi conoscere a prezzo zero, magari con una pagina Facebook. O ha permesso, ancora più incredibile prima dell’avvento del web, di scavalcare i canali di distribuzione tradizionali permettendo a un piccolo editore indipendente di darsi alla vendita diretta del proprio prodotto malgrado il cliente si trovi dall’altra parte del mondo, magari con un Google Form incorporato nella propria pagina web o Facebook atto a raccogliere le informazioni di chi ordina una pubblicazione. A conclusione di questo paragrafo sul sovraccarico cognitivo e sulla filtering failure predicata da Shirky, è interessante notare che Martin Eppler, docente di Media & Communication Management presso l’Università di San Gallo in Svizzera, afferma:

«The final causes of information overload are the characteristics of the information itself. For example, improving the quality of the information reduces the occurrence of information overload»..25 Ovvero: certamente l’ammontare enorme di quantità di stimoli e informazioni cui siamo sottoposti non è un aiuto, ma bisogna anche notare che vi sono attributi delle notizie e dei ‘testi’ (in senso lato) che determinano quanto esse vanno a pesare in termini di sovraccarico cognitivo sulla mente dell’utente.

22


26 http://www. francescofranchi.com/ projects/infographics

Lo studioso elvetico propone poi un elenco di tali attributi, tra cui: numero di elementi ‘di contorno’ che vanno a interferire con il cuore del messaggio (si pensi, per esempio, ai banner pubblicitari animati lungo le pagine web dei siti di informazione), incerta autorevolezza delle fonti a cui si è attinto per redigere il contenuto, e altre ancora. Ruff, a sua volta, si permette di affiancare all’elenco di attributi redatto da Eppler un elenco di ‘consigli’, come ad esempio: «Use charts, graphs and other graphical representations that allow data to be viewed and assessed more quickly», facendo per esempio venire alla mente il mondo della infografica che ha visto in Francesco Franchi il proprio ‘portabandiera’ italiano. Per esempio, basti pensare alla serie di infografiche raccolte sotto il nome di Analisi Grafica che l’art director ha concepito durante i primi anni di Intelligence & Lifestyle Magazine di cui si legge, sul sito di Franchi: «An information graphic has to be an intelligent representation. The effort of Analisi Grafica spread is to combine and organize data, select and choose how to display it in order to tell a story that can be an alternative to writing an article of ten thousand words or more. In this way an infographic is at the same time design but also narrative».26 Notare che anche la modalità in cui un tale contenuto viene presentato ha un ruolo importante nel comportare più o meno sovraccarico cognitivo è utile come introduzione per il terzo punto di questo capitolo.

FRANCESCO FRANCHI

TRE FENOMENI E UN FATTO RIGUARDANTI L’EPOCA DELLA PROFONDA PERVASIVITÀ DEL DIGITALE

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fig.5 Infografica sul mercato delle biciclette facente parte de Analisi Grafica. IL Magazine #7. Immagine disponibile presso la pagina Flickr di Francesco Franchi. https://www.flickr.com/ photos/ffranchi/

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CAPITOLO PRIMO

1.3 LONGFORM JOURNALISM: DUE TENTATIVI DIVERSI DI RITORNO AL ‘SENSO DELLA FINE’. ESEMPI DAL MONDO DEL RACCONTO CALCISTICO.

27 Mahler Jonhatan (2014) https://www.nytimes. com/2014/01/25/opinion/ when-long-form-is-badform.html

28 ibidem

fig.7

JONHATAN MAHLER

Screenshot del longform My four months as a private prison guard. (13 gennaio 2017) https://goo.gl/EoWSEL

Prendendo le mosse da quanto detto a conclusione del sottopunto precedente, si passa ora a descrivere un fenomeno comunemente definito ‘longform journalism’, ‘longreads’ o semplicemente ‘longforms’. Sono tre termini, questi, che si focalizzano su un preciso aspetto: la lunghezza, il numero di battute di un dato contenuto in forma scritta (da fruire via web). Una delle affermazioni più radicate nel sentire comune era, fino a qualche anno fa, che la fruizione di testi scritti in via digitale avrebbe portato alla scomparsa della lettura di ‘articoli lunghi’, la produzione di contenuti ‘da secondo giorno’ e ‘da poltrona’ che avrebbero ceduto completamente il posto alla immediatezza delle breaking news enunciate in poche centinaia di caratteri e in cui il ‘nocciolo’ della notizia sarebbe arrivato subito, magari già nella prima frase. Così non è successo, e questa tendenza che vede un risorgimento per il gusto dell’articolo dal gusto letterario, disteso, analitico e che vada in profondità, oggi si è affermato fino ad arrivare a costituire un genere a sé, e non qualche sparuto caso. Tutto questo, sembrerebbe, si mette in antitesi con la tanto predicata nowness del digitale e di cui si è parlato precedentemente. Ma da dove nasce tutto ciò? In un suo articolo apparso su The New York Times nel gennaio del 2014, il columnist de The Bloomberg View Johnatan Mahler afferma: «It wasn’t so many years ago that people assumed the Internet would make long magazine-style stories obsolete. Paradoxically, it now seems to have revived this once threatened medium. Magazines may be disappearing, but that’s O.K.; we still have “long-form.”»,27 Mahler riconosce quindi che ciò che si tendeva a dare per morto stava avendo, già nel 2014, un momento di rinascita il quale non sembra oggi accennare a diminuire. L’autore dell’articolo parla anche del fatto che l’origine di questa terminologia (longforms, longreads o longform journalism) arriva dal social newtork Twitter: si è iniziato ad etichettare quei contenuti lunghi, dal sapore di approfondimento e passione per quel che si scrive, con l’hashtag #longform, per esempio. Dice infatti Mahler:

«What started as a Twitter signifier (#longreads or #longform), a way to get the attention of people who might be looking for a substantive read, has morphed into its own genre. In the process, a long magazine story went from being one part of a steady diet of journalistic consumption to something artisanal, a treat for connoisseurs».28 Un modo per far capire che quel tale contenuto fosse qualcosa di sostanziale, di cui ‘ci si poteva fidare’. Prima si è affermato che il cosiddetto longform journalism è arrivato, nel tempo, a formare un genere a sé stante: vi sono vari modi per argomentare questa affermazione. Il primo è guardare alla nascita di portali web che sono nati con lo scopo di raccogliere questo genere di racconti, come ad esempio longform.com. Su questo sito è possibile trovare collegamenti a questo genere di articoli divisi per argomento, nonché una classifica annuale dei longform più apprezzati. 24


TRE FENOMENI E UN FATTO RIGUARDANTI L’EPOCA DELLA PROFONDA PERVASIVITÀ DEL DIGITALE

Screenshot della landing page di www.https://longform. org/ (13 gennaio 2017)

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SUSAN GLASSER

fig.6

Un altro fatto interessante da segnalare è che diverse redazioni in giro per il mondo, negli ultimi anni hanno cominciato ad assumere figure atte a prendersi cura esclusivamente, per l’appunto, dei cosiddetti ‘articoli lunghi’. Un esempio è la information company statunitense Politico, che è sia un sito online che due prodotti cartacei (Politico Magazine, periodico bimestrale con una tiratura di 33mila copie e il quotidiano The Washington Times, con una tiratura di 29mila copie). Nel febbraio 2013, appare sul sito di Politico un articolo firmato da Dylan Byers (membro della redazione) dal titolo POLITICO hires FP’s Susan Glasser to head new long-form journalism, opinion Divisions. In questo pezzo dal sapore di un vittorioso proclama, Byers racconta del fatto che l’azienda ha pensato fosse il caso di assumere qualcuno in grado di occuparsi di quel che fino a qualche anno prima era in qualche modo il ‘format standard’ del giornalismo (infatti Byers afferma: «Susan Glasser, the editor-in-chief of Foreign Policy, will be joining us next month as a top editor charged with creating and running new editorial divisions that produce deep, magazine-style journalism and in-themoment opinion pieces»), ma che ora non lo è più: si parla di una produzione di contenuti ‘magazine-style’, alla maniera dei vecchi articoli di approfondimento dalla grande lunghezza tipica del magazine cartaceo. La sfida è chiara, ed è quella di cui si parla all’inizio di questo sottocapitolo: «With Susan’s help, we intend now to tackle a fresh challenge: embracing what we see as a coming renaissance in long-form journalism, as readers search for distinctive work that cannot be easily cannibalized or commoditized». Malgrado questo rinnovato interesse per un giornalismo ‘che si dilunghi di più’, bisogna anche notare che non mancano delle critiche a questo genere di narrazione estesa: i primi imputati paiono essere i nomi stessi del fenomeno in quanto si concentrano sulla parola ‘long’: la lunghezza di un articolo non è in

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CAPITOLO PRIMO

fig.8

JAMES BENNET

Screenshot del longform Snow Fall – The avalanche at tunnel Creek. (14 gennaio 2017) https://goo.gl/M9jV1Y

29 Bennet James (2013) http://www.theatlantic. com/business/ archive/2013/12/ against-long-formjournalism/282256/

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MARGARET SULLIVAN

Sullivan Margaret (2014) https://www.nytimes. com/2014/01/26/publiceditor/just-the-facts-maamno-more.html?_r=2

se stessa garanzia di qualità, ovviamente. Ancora Mahler parla di una sorta di ‘feticismo della lunghezza’:

«When we fetishize “long-form,” we are fetishizing the form and losing sight of its function». Il rischio da cui Mahler mette in guardia è chiaro: far passare la forma in primo piano rispetto al contenuto, il che sarebbe paradossale poiché questo discusso genere è nato proprio per via di un diffuso bisogno di ‘contenuti di valore’ all’interno del mai fermo e frenetico stream che il web è. Oltre a Mahler, in altri hanno messo in guardia da questo rischio. Uno di questi è James Bennet, giornalista de The Atlantic. Egli afferma, in un suo articolo pubblicato nel dicembre del 201329 di essere stufo del termine ‘longform’ in se stesso. Afferma ironicamente Bennet: «Would you feel drawn to a movie or a book simply because it is long? (“Ooooh–you should really read Moby Dick–it’s super long”)». Certamente i moniti di Mahler e Bennet hanno le loro ragion d’essere: è evidente che c’è un enorme rischio di confondere il fine coi mezzi, anche perché un autore che decidesse di redigere un cosiddetto ‘articolo lungo’ nemmeno troverebbe davanti a sé, al contrario che nel mondo cartaceo, il limite oggettivo della ‘capienza’ del supporto fisico. Malgrado questi rischi e queste condivisibili critiche che sono nate a questo trend, questo però rimane e vale la pena chiedersi quali siano le sue ragioni. Si ritiene che queste si possano suddividere in tre ordini principali: il primo ordine è di ragioni ‘di nostalgia’. Si tratta di una ragione-cappello, che ne contiene di più al proprio interno come, per esempio, il ‘senso della fine’ di cui si è parlato in precedenza. Un articolo longform, per quanto ‘long’ esso sia, avrà sempre una fine. Come un messaggio di posta elettronica. Vi è poi quel senso di una (presunta) garanzia di qualità, come a dire che se quel tale pezzo è così lungo, allora sarà stato scritto da una penna valida e competente in materia. Un secondo ordine di ragioni è di tipo strettamente tecnologico: in primis, il fatto che da ormai un po’ di anni i dispositivi elettronici siano dotati di schermi ad alta definizione (oppure, come Apple ha chiamato i suoi monitor, ‘retina’, introdotti nel 2010 con iPhone 4) gioca sicuramente un ruolo importante: l’impercettibilità (a occhio nudo) dei pixel che compongono i display fa in modo che la lettura sia più piacevole alla vista rispetto a prima. L’ultimo ordine di ragioni si ritiene sia costituito dal dove le persone vanno ad attingere per avere le breaking news: esse sono costantemente investite da esse, e man mano serve sempre meno – si ritiene – avere gli ultimi aggiornamenti da articoli di giornale, siano essi online o cartacei. Di ciò parla la public editor del New York Times Margaret Sullivan in un suo articolo30 pubblicato a gennaio 2014. Qui l’autrice riflette sul fatto che, in effetti, vi è «an emphasis on interpretive and enterprise journalism. I also found many examples of interesting and well-written articles with little news value». Vi sono opinioni diverse in merito a questa tendenza e non sempre entusiastiche: come la Sullivan racconta nel suo articolo, non è raro sentire lettori lamentare il fatto che sulla prima pagina del quotidiano cartaceo (New York Times) non vi sia (o quasi) alcuna news bensì notizie trattate in ottica già riflessiva, da ‘secondo giorno’, per rubare l’espressione usata dalla giornalista. Chi scrive ritiene semplicemente che ciò sia una conseguenza naturale dell’evoluzione di mezzi in atto e che il fenomeno del longform journalism ne sia una delle massime conseguenze (oltre a ritenere che, per quanto prima dell’avvento del digitale le testate fossero più ‘tenute’ a concentrarsi sul

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TRE FENOMENI E UN FATTO RIGUARDANTI L’EPOCA DELLA PROFONDA PERVASIVITÀ DEL DIGITALE

http://www.nytimes.com/ projects/2012/snow-fall/

32 Isotype (un acronimo di International System of Typographic Picture Education) è un sistema basato su pittogrammi, progettato dall’insegnante e filosofo austriaco Otto Neurath e dall’illustratore Gerd Arntz per comunicare le informazioni in modo semplice e visuale, senza l’utilizzo (o con un uso limitato) della lingua scritta e parlata.

«In many ways, the project began as a traditional newspaper article. A smart editor was curios, an assignement was made, and a gifted reporter got to the right sources to determinate that the story had potential. But when it came to the editing, the process was a little different. Early on, the idea surfaced to put most of the visual elements […] into the body of the written piece. […] The combination between these elements would require an overlap between editing and designing that had not been the norm».32

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STEVE DUENES

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dare semplicemente la notizia nuda e cruda già dal primo paragrafo e non più in giù, l’interpretazione è sempre inevitabile: sia essa involontaria o per ragioni politiche o di altra natura che la testata e chi scrive hanno). Guardando indietro nel tempo, è difficile comprendere quando questa tendenza sia precisamente iniziata. Vi è però un progetto, chiamato Snow Fall: The Avalanche at Tunnel Creek31 che sembra mettere d’accordo i più: viene generalmente ritenuto il ‘capostipite’ di questo tipo di articoli (ma sarebbe meglio dire, si ritiene, “narrazioni”, perché come afferma sempre Bennet: «Industry is moving past lazy dichotomies of print versus digital to a fusion of old values, ambitions and techinques with new ways and means of reporting and storytelling»). Difatti, in accordo con questa affermazione di Bennet, bisogna notare che le persone coinvolte in Snow Fall non sono persone esclusivamente dedicate all’online, ma anche al cartaceo: la linea di confine si sfuma. Di questo progetto parla Francesco Franchi nel suo libro Designing News e ne fa un caso studio nel sottocapitolo intitolato Information graphics as visual journalism, che inizia raccontando quanto concepito da Otto Neurath, ideatore di Isotype negli anni Trenta del XX secolo. Passando poi a tempi più recenti, Franchi ‘lascia la parola’ a Steve Duenes, direttore grafico della testata USA dal 2004. In breve, questo progetto viene considerato da chi scrive come d’avanguardia per due ragioni principali. La prima è costituita dal ruolo che i designer coinvolti nel progetto hanno giocato, scrive infatti Deuens in merito alla genesi di Snow Fall:


CAPITOLO PRIMO

33 Alderson Rob (2016) http://magculture.com/ the-fall-and-rise-of-thefootball-magazine/

Questo overlap tra il ruolo dell’editor e quello del designer è qualcosa che non è a livello di output, ma prima ancora: è a livello di processo e si rivela necessario se si vuole tentare di creare un prodotto che sia una narrazione in cui si vada oltre il semplice ‘testo affiancato ad immagini’ o ad altri medium come video, grafici eccetera. Difatti si nota, facendo ‘scrolling’ lungo i capitoli di Snow Fall, l’evidente sforzo compiuto per arrivare a ciò. Come racconta ancora Duenes:

«We did not want readers shifting to a different kind of concentration when they went from text to image. We wanted them to read everything, including the pictures».

fig.9 Screenshot di un longform circa il calciatore Pablo Armero sul portale de The Green Soccer Journal. www.thegreensoccer journal.com/pabloarmero (13 gennaio 2017)

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E difatti, ‘leggendo’ Snow Fall, si capisce come mai Franchi abbia definito questo longoform «a seamless experience» (‘seamless’ significa, in inglese, ‘continuo’, ‘senza cuciture’). Ed è questa la seconda ragione che fa ritenere che Snow Fall sia un ‘capostipite’ nel suo genere. A parere di chi scrive, Snow Fall costituisce sì un apripista ma di un certo genere di longform: si vuol ora passare a mettere in luce due differenti filoni di longform ritenuti individuabili. Lo si vuol fare prendendo come ‘area di indagine’ quella della produzione di contenuti legata al mondo del calcio, per due ragioni. La prima è che il calcio, in quanto fenomeno catalizzatore dell’interesse di milioni e milioni di persone, ha visto un fiorire rigoglioso di esperienze editoriali attorno a sé negli ultimi anni (si veda, a tal proposito Intelligence in Lifestyle Magazine di aprile 2014, chiamato The Football Issue che si concentra su tale produzione, oppure l’articolo The fall and Rise of Football Magazines33 apparso su magCulture nel luglio del 2016, a cura di Rob Alderson). La seconda ragione risiede nel fatto che qualcosa come uno sport si ritiene un ottimo esempio per mettere in luce quella tendenza al ‘racconto elegiaco’ di cui si è prima parlato: di per sé, il racconto sportivo potrebbe concentrarsi solamente sulle news, ma si è rafforzata sempre più la tendenza a parlarne con tono culturale, elevandolo. Il primo filone è quello in cui risiede Snow Fall, ed è quello di un racconto più palesemente visuale, in cui si notano gli sforzi descritti da Deunes per far sì che ‘tutto si legga: le immagini come i testi’. Un esempio di ciò nel mondo della produzione sul calcio è costituito da The Green Soccer Journal, media brand inglese improntato al racconto calcistico. La seconda tendenza è quella in cui si colloca per esempio The Blizzard, periodico calcistico inglese che pubblica i propri articoli anche sul sito. Si vede che, in questo caso, l’intento è quello di mantenere la ‘purezza’ della parola scritta e in ciò gioca un ruolo importante il fatto di lasciare degli ampi margini bianchi ai lati del corpo di testo, privi di elementi correlati, suggeriti nonché di banners pubblicitari.

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TRE FENOMENI E UN FATTO RIGUARDANTI L’EPOCA DELLA PROFONDA PERVASIVITÀ DEL DIGITALE

1.4 LA CARTA COME NOTIZIA IN SE STESSA

fig.10 Prima pagina de Il Messaggero del 21 luglio 1969, curata da Piergiorgio Maoloni. Immagine disponibile presso https://goo.gl/ YC5E9K

A conclusione di questo primo capitolo, si vuole soffermarsi su qualcosa che non è un trend, una tendenza quanto piuttosto una ‘potenzialità’ che si esprime attraverso qualche esempio che verrà illustrato. La potenzialità è quella del medium ‘carta stampata’ di arrivare a costituire, in alcuni casi, una notizia in se stessa per la forza di quel che esprime facendolo, al contrario di ciò che si trova sul web, in modo definitivo e quindi ancora più impietoso o memorabile, a seconda del tipo di notizia: qualcosa che viene pubblicato online può venire rimosso nel giro di pochissimo tempo mentre invece, una volta stampata nero su bianco e diffusa, non si può più tornare indietro. Per illustrare ciò, si prenderanno come esempio sia casi di periodici che di quotidiani. Da una parte, ciò che sta sulla carta può conservare come una immortalità che sopravvive al tempo e un esempio di ciò è la prima de Il Messaggero del 21 luglio 1969 curata da Piergiorgio Maoloni, uno dei padri della grafica italiana, e che ancora oggi viene ricordata e presa a modello da mostrare agli studenti di grafica e design della comunicazione. Grazie ad un sapiente uso della grafica ed in particolare della tipografia e della fotografia, il designer italiano seppe trasmettere con formidabile potenza la grandezza del traguardo appena raggiunto dall’umanità. Arrivando invece ai giorni nostri, nell’epoca del ‘tutto e subito’, dei 140 caratteri eccetera che si è precedentemente cercato di descrivere, un caso interessante è ciò che ha fatto The New York Times sul numero del 24 ottobre 2016. Il newspaper statunitense ha infatti progettato una doppia pagina di ‘puro piombo’ contenente gli insulti che Donald Trump ha rivolto a cose o persone dal momento in cui annunciò la sua candidatura a presidente degli Stati Uniti. Si tratta di un lapidario e impietoso elenco composto da 281 voci. A seguito della versione cartacea del progetto, ne è stata realizzata anche una versione digitale che però, si ritiene, non ha la stessa forza: non sa altrettanto di j’accuse e l’impatto visivo – forse la parte più fondamentale – è meno potente in quando non vi è la possibilità di vedere ‘tutto insieme’, con un unico colpo d’occhio per via del fatto che serve fare scrolling lungo la pagina. Invece, sulla copia fisica, questo lungo elenco scritto in un corpo ridotto e visibile in una sola occhiata appare come molto più lapidario. Anche la scelta di non mettere alcuna fotografia, grafico o elemento visivo di altro tipo contribuisce a rafforzare l’effetto finale, come a dire “non serve riempire spazio con altro: è tutto puro contenuto, non servono riempitivi e, anzi, rischiavamo quasi che una doppia pagina non ci bastasse”. Passando invece a dei casi riguardanti il mondo dei periodici, un primo esempio può essere quello del settimanale satirico francese Charlie Hebdo, divenuto famoso anche ai non addetti ai lavori per l’attacco terroristico subito nel gennaio del 2015. Charlie Hebdo, fondato nel 1970, ha sempre avuto toni assolutamente caustici e dissacranti nei confronti di qualunque possibile argomento, in particolare la politica e la religione. Ad esempio, nel febbraio del 2016, Charlie Hebdo ripubblica delle vignette

29

10


CAPITOLO PRIMO

11

RENALD LUZIER

fig.11 Doppia pagina de The New York Times del 24 ottobre 2016 contenente tutti gli oggetti o persone insultate da Donald Trump dall'inizio della campagna elettorale a quel giorno. Immagine disponibile presso https://19818-press cdn-pagely. netdna-ssl.com /wp-content/ uploads/8fd/ 9b/f8f1d0c8889a 10dbd9d5df2e3a8 fa5eb.jpg

satiriche su Maometto originariamente pubblicate da Jyllands-Posten: vignette che già in precedenza avevano scatenato grandi polemiche. Operazione che probabilmente aiutò a far crescere l’odio dei fondamentalisti islamici fino alla strage del 7 gennaio 2015. La ‘carta come notizia in sé’, però, è il numero di Charlie Hebdo successivo alla strage: la famosissima copertina Tutto è perdonato. In Italia, quel numero di Charlie Hebdo uscì in allegato a Il Fatto Quotidiano. Copertina dall’epiteto umano, come provano le parole di Renald Luzier (in arte Luz) in una conferenza stampa post-uscita del numero. Racconta il vignettista che l’ha disegnata: «Ho disegnato Maometto e poi ho scritto “Io sono Charlie”. L’ho guardato e ho aggiunto: “Tutto è perdonato”. Poi ho pianto. Avevo trovato la soluzione. Ed era la nostra soluzione, non era tutto quello che gli altri volevano che noi facessimo». Malgrado ciò, la copertina ha ulteriormente inasprito la controversia circa la libertà di parola e di stampa. Anche per i connotati evidentemente fallici del Maometto disegnato da Luz. Per esempio Youssef al-Qaradawi, capo dell’Unione Mondiali degli Studiosi Musulmani, definì come ‘non saggia’ tale copertina. Oppure la condanna mossa dall’Iran tramite il portavoce del ministero degli Esteri Marzieh Afkham: «Un atto che prova i musulmani del mondo. […] La libertà di parola è abusata in Occidente e deve essere fermata». Un altro esempio proveniente da un periodico è costituito dalla copertina di un New York Magazine uscito a luglio 2015. Si tratta di una copertina circa 30


TRE FENOMENI E UN FATTO RIGUARDANTI L’EPOCA DELLA PROFONDA PERVASIVITÀ DEL DIGITALE

fig.12 Un cittadino parigino in lacrime si fa ritrarre con una copia del numero de Charlie Hebdo uscito il 14 gennaio 2015. Immagine disponibile presso http://cache.20minutes. fr/photos/2015/01/14/ the-new-editionof-charlie-ad84diaporama.jpg

34 Sarica Federico (2015) http://www.rivistastudio. com/standard/ la-forza-di-una-copertina/

diversi casi di violenza sessuale operati da Bill Cosby (famoso comico, attore e produttore statunitense) negli ultimi quarant’anni. L’immagine di copertina è quella di trentacinque donne sedute una affianco all’altra, in bianco e nero, con una sedia vuota all’ultimo posto. Vi è una scritta, in basso a destra, che recita «Cosby: The Women. An Unwelcome Sisterhood», donne messe nella condizione di essere “sorelle” in una situazione indesiderabile ovvero aver tutte subìto un ‘sexual assault’ da Bill Cosby. Si tratta di una copertina che ha richiesto mesi di lavoro: rintracciare, intervistarle, scrivere su loro. Su questa copertina ha scritto un articolo Federico Sarica, direttore responsabile e fondatore di Rivista Undici. Nel suo articolo La forza di una copertina,34 Sarica tesse le lodi di questa operazione del magazine statunitense contrapponendo la ‘fermezza’ dell’inchiostro sulla carta a ciò che stampato nero su bianco non è. Non per questo egli disdegna il digitale in sé, ma quando parla del perché ha ancora senso la carta oggi, afferma:

«Ecco quindi spiegato molto bene a cosa servono i magazine, oggi più che mai: a dare profondità alle cose che ci passano per gli smartphone ogni minuto e bloccarle per sempre. In un’immagine, in un titolo, in uno o più volti, con una firma. La scommessa che di tutta questa triste vicenda [le vicende giudiziarie di Bill Cosby], fra cinquant’anni, resterà soprattutto la copertina del New York, credo non la quotino neanche i più

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FEDERICO SARICA

12


CAPITOLO PRIMO

spericolati fra i bookmarket inglesi».

fig.13 Copertina de The New York Magazine del 27 luglio - 9 agosto 2015. Immagine disponibile presso https://goo.gl/ HWnavG

E aggiunge: «Non è un discorso romantico, è un ragionamento concreto, quasi industriale. Che trova conferme economiche proprio in questi giorni: andatevi a leggere quanto valutano il 50% dell’Economist, altra rivista che in quanto a credibilità e riconoscibilità sa il fatto suo, adesso che l’editore Pearson sembra averla messa in vendita».

32


TRE FENOMENI E UN FATTO RIGUARDANTI L’EPOCA DELLA PROFONDA PERVASIVITÀ DEL DIGITALE

13

33


INTRODUZIONE CAPITOLO AL CAPITOLO PRIMO SECONDO

La situazione attuale dell’editoria periodica ‘tradizionale’: crisi o evoluzione? Nel primo capitolo di questa trattazione si è cercato di osservare con occhio critico dei fenomeni (il movimento ‘slow’, il passaggio da ex-ante a ex-post del filtraggio dei contenuti e il cosiddetto ‘longform journalism’) che denotano come, pur nel momento storico di potente pervasività del digitale in cui ci si trova, vi siano comunque dei segnali che parlano di problematiche inerenti questa realtà dei fatti. Una volta riconosciuto che la rete e la sua fruizione portano con sé delle problematiche, bisogna però anche notare che il settore dell’editoria periodica cartacea non sembra versare in buone condizioni, eccezion fatta per le due grandi economie cinesi e indiane, in via di sviluppo. In questo secondo capitolo viene inizialmente presentata la situazione dell’andamento su diversi medium distinti, per poi arrivare a comprendere – grazie ai report degli istituti di ricerca che si sono osservati – come oggi risultino alquanto anacronistiche tali metodologie di rilevamento: sono poco in linea con i reali pattern di consumo mediale odierni. 34


TRE FENOMENI E UN FATTO RIGUARDANTI L’EPOCA DELLA PROFONDA PERVASIVITÀ DEL DIGITALE

Ci si chiede dunque: è in atto una definitiva crisi della carta stampata oppure la carta stampata si trova anch’essa in un’epoca di profondi cambiamenti e deve pertanto capire come ‘ricollocarsi’?

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CAPITOLO SECONDO

2.1 I NUMERI ATTUALI DEL CONSUMO MEDIALE A LIVELLO GLOBALE: IL TREND DELL’ALLINEAMENTO TRA RICAVI PUBBLICITARI E RICAVI DI CIRCOLAZIONE

1 http://epceurope.eu/wpcontent/uploads/2015/10/ Magazines_newspaperEPC-chapter-5.pdf

2 Price Waterhouse Coopers (PWC) è un network internazionale. É operativo in 158 Paesi con oltre 223.000 professionisti e fornisce servizi professionali di revisione di bilancio, consulenza di direzione e strategica, e consulenza legale e fiscale.

Come recita nelle sue prime righe il report di EPC (European Press Council) Global Digital Magazine and Newspapers Trends 2015,1 i ricavi provenienti dal mercato dei magazine consumer mostrano dati che sono unici per ogni diverso paese del mondo. Il documento in questione, nelle sue fasi iniziali, si rifà a quanto operato dall’istituto PWC2 per il proprio report Global Entertainment and Media Outlook 2015-2019. PWC ha infatti suddiviso in quattro settori il mercato magazine per meglio analizzarlo: ricavi provenienti dalla circolazione di carta stampata, ricavi provenienti dagli investimenti pubblicitari nella carta stampata, ricavi provenienti dalla circolazione digitale ed infine ricavi provenienti dagli investimenti pubblicitari nel digitale. Il documento redatto da PWC mette in luce principalmente due maggiori trend: ciò che accade nei paesi sviluppati e ciò che accade nei paesi in via di sviluppo. Viene citata l’America Latina come caso in cui la circolazione di magazine cartacei è in crescita, oppure ciò che avviene in Cina e in India: lo si potrebbe definire come ‘fenomeno asiatico’. Difatti, a fronte di un generale declino dei ricavi provenienti dalla carta stampata, questi due paesi aiutano a far sì che questi valori rimangano sostanzialmente sempre allo stesso livello per via del grande trend in ascesa che in essi si verifica. Dall’altra parte, viene detto che la maggior parte dei paesi europei vede un declino dell’industria della carta stampata, con l’eccezione del Regno Unito e di alcuni paesi nordici. Inoltre, si prevede che entro il 2019 i ricavi provenienti dall’advertising online sorpasseranno, a livello mondiale, quelli provenienti dai ‘magazine tradizionali’. Ancora a confermare l’andamento negativo riguardante l’industria magazine in merito alla pubblicità, nel report viene poco dopo mostrata una tabella riguardante lo share di ricavi di raccolta pubblicitaria per ogni diverso medium. Vengono messi a confronto i dati consolidati del 2014 con una previsione riguardante l’anno 2017: il ‘peso’ che i periodici

Percentuali di ricavi pubblicitari per mezzo, 2014 e 2015

[graf1] mezzo

2017

1

television

37.3%

-0.1%

2

desktop internet

18.7%

15%

-3%

3

mobile internet

12.7%

magazines

7.3%

-1.4%

4

newspapers

12%

5

outdoor

6.8%

-0.2%

5

outdoor

6.6%

6

radio

6.8%

-0.5%

6

radio

6.3%

7

mobile internet

5.3%

+7.4%

7

magazines

5.9%

8

cinema

0.5%

same

8

cinema

0.5%

mezzo

2014

differenza

1

television

39.4%

-2.1%

2

desktop internet

18.8%

3

newspapers

4

fonte: EPC Global Newspapers/Magazines Trends 2015

36


LA SITUAZIONE ATTUALE DELL’EDITORIA PERIODICA ‘TRADIZIONALE’: CRISI O EVOLUZIONE?

avevano in fatto di investimenti pubblicitari nel 2014 era pari al 7.3% sul totale dei mezzi mediatici mentre, per il 2017, si prevede scenderà fino al 5.9%. [graf1] Quindi: non vi sono buone aspettative per il mercato pubblicitario dell’industria editoriale periodica. Ma occorre fare un distinguo: bisogna notare che sempre lo stesso report parla di una previsione di ripresa dell’industria dei periodici tra il 2016 e il 2019 per quanto riguarda la circolazione:

«Total global magazine revenue will reverse its downward trend and grow steadily from 2015 to 2019. […] PwC reports that total magazine revenue will grow from US$95.33billion in 2014 to US$97.42 billion in 2019 […] consumer magazine revenue will see only a 0.2 percent increase in 2016». Lo scenario da cui la circolazione di periodici arriva è quello di un trend negativo negli ultimi dieci anni. C’è però da dire che sarebbe incauto lasciarsi andare a facili entusiasmi in merito a queste previsioni di ripresa, infatti più avanti si legge:

«Global print circulation revenues grow 0.3% in 2015 from a year earlier and are up 2.7% over five years. This stable picture is largely the result of continued growing circulation in India, China and elsewhere in Asia. The two countries combined account for an astonishing 62% of global average print circulation in 2015, up from 59% in 2014».

La minimale ripresa dei ricavi dei consumer magazines tra 2016 e 2019

[graf 2]

In milioni di dollari, ricavi dal digitale e ricavi dal cartaceo

$90,000 $80,000 $70,000 $60,000 $50,000 $40,000 $30,000 $20,000 $10,000 $0

2010

2011

2012

2013

fonte: PWC Global Entertainment and Media Outlook 2015-2019

37

2014

2015

2016

2017

2018

2019


CAPITOLO SECONDO

Ricavi a livello mondiale dell’informazione su carta stampata 2011-2015

[graf 3]

Ricavi a livello mondiale dell’informazione in digitale 2011-2015

In milioni di dollari

In milioni di dollari

100,000

4,000

75,000

3,000

50,000

2,000

25,000

1,000

0

2011

[graf 4]

2012

2013

2014

0

2015

fonte: WPT Analysis 2016, WAN-Ifra National Associtations

2011

2012

2013

2014

2015

fonte: PWC Global Entertainment and Media Outlook 2016-2020

Media giornaliera di consumo mediale per singoli mezzi in Cina 2010-2018

[graf 5]

In minuti 400 350 300 250 200 150 100 50 0

2010

2011

2012

2013

2014

2015

2016

2017

2018

fonte: Zenith Optimedia - Media Consumption Forecast 2016

Media giornaliera di consumo mediale per singoli mezzi in India 2010-2018 In minuti

400 350 300 250 200 150 100 50 0 2010

2013

2014

2015

fonte: Zenith Optimedia - Media Consumption Forecast 2016

38

2016

2017

2018

ers Newspap Outdoor Television Radio Internet Cinema Magazine

[graf 6]


LA SITUAZIONE ATTUALE DELL’EDITORIA PERIODICA ‘TRADIZIONALE’: CRISI O EVOLUZIONE?

Ricavi dell’industria dell’informazione suddivisi per fonti di guadagno 2011-2015

[graf 7]

In milioni di dollari

$200,000

digitale Circolazione itale Advertising dig mpa Advertising sta mpa sta Circolazione

$150,000

$100,000

$50,000

$0

2011

2012

2013

2014

2015

fonte: WPT Analysis, E&Y, Zenith, PWC Global Entertainment and Media Outlook: 2016-2020

3 Report riservato di WAN Ifra. Gentile concessione di Gabriele Gehring, information scientist del suddetto istituto.

4 L’Associazione mondiale della carta stampata, in inglese World Association of Newspapers (WAN), è un’associazione no-profit, non governativa costituita da 76 associazioni nazionali di giornalismo, 12 agenzie di stampa, 10 organizzazioni regionali di media e redattori e giornalisti in 100 paesi. Rappresenta circa 18mila pubblicazioni. Tra i suoi scopi: la difesa della libertà di stampa, sostenere lo sviluppo della carta stampata e promuovere la cooperazione tra i propri aderenti.

Insomma, questa seppur modesta crescita nei ricavi provenienti dalla circolazione della carta stampata sembra essere dovuta, in gran parte, a ciò che accade nei mercati cinesi e indiani. [graf3, graf4, graf5, graf6] In particolare, a proposito della situazione indiana, si legge: «India has the highest print circulation of any country. Despite the single-copy prices being the lowest in the world, the trends in India just confirm the global trend with circulation revenues surpassing advertising revenues». Nella citazione sopra si parla di un trend di livello mondiale: la tendenza dei ricavi proveninenti dalla pubblicità e dei ricavi provenienti dalla circolazione ad allinearsi tra loro. A tale proposito, è utile chiamare in causa il report World Press Trends 20163 redatto dall’ente WAN Ifra.4 Infatti, in tale documento realizzato dall’ente che si definisce come «the global organisation of the world’s press», si legge dello stesso trend di cui sopra: «World Press Trends data shows that newspapers generated an estimated US$ 168 billion in circulation and ad revenue in 2015. Eighty-nine billion dollars (53%) came from print and digital circulation, whily $79 billion came from advertising. Together with magazines, newspapers are the third largest among all cultural and creative industries globally, and the two sectors are said to be creating around 2.9 million jobs worldwide». Questa tendenza si può vedere anche da un grafico elaborato da PWC. [graf7] Come afferma ancora una volta World Press Trends 2016:

«Content will truly be the king. […] Succesfull print products are smaller, community and interest focused and follow needs and habits of different audiences» e ciò costituisce, si ritiene, una sfida affascinante. Ciò può apparire come una conferma di quanto Federico Sarica, di cui un articolo è stato citato nel capitolo precedente, affermava:

39


CAPITOLO SECONDO

Ricavi da pubblicità e da circolazione nell’industria della carta stampata negli USA 2005-2015

[graf 8]

In miliardi di dollari tising Adver zione Circola

50 40 30 20 10 0

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

2012

2013

2014

2015

fonte: WPT Analysis, E&Y, Zenith, PWC Global Entertainment and Media Outlook: 2016-2020

«Passi gran parte del tempo, in quanto direttore e co-editore di un piccolo giornale periodico che ha l’ambizione di cavalcare questi tempi di enormi cambiamenti mediatici (e non solo), a cercare di spiegare che quel che fai non è solo una rivista, è un media brand [...] il quale cerca di ricostruire un modello di business attorno all’antico mestiere di raccontare delle storie a chi le vuole leggere, ascoltare, vedere».5

5 http://www.rivistastudio. com/standard/ la-forza-di-una-copertina/

Si pensa che, in fondo, sia proprio questa quella sfida raccolta dai cosiddetti ‘magazine indipendenti’ attuali e di cui in seguito si entrerà nel merito: il contenuto preso come il re della ‘questione editoriale’ e ‘targettizzato’ in modo molto preciso, per risultare interessante ad un certo spettro specifico di persone piuttosto che alle grandi audiences. Inoltre, una particolarità cui ora si accenna e che verrà più avanti esplorata in modo più dettagliato, consiste nel fatto che sì si parla di contenuti per audience più piccole e quindi più ‘targettizzati’, ma tale termine potrebbe trarre in inganno: la logica non è, per questi prodotti che in seguito verranno analizzati, “cosa piace ai consumatori?” bensì “cosa piace a me a tal punto da iniziare a scriverci sopra?”. In linea con questa tendenza, si può ad esempio vedere il caso studio che World Press Trends 2016 fa degli Stati Uniti in merito a tale tema: se nel 2005 la differenza tra advertising revenue e circulation revenue era di circa 50 miliardi di dollari, nel 2015 questo si è ridotto a poco più di 10 di dollari. [graf8]

40


LA SITUAZIONE ATTUALE DELL’EDITORIA PERIODICA ‘TRADIZIONALE’: CRISI O EVOLUZIONE?

2.2 I NUMERI ATTUALI DEL CONSUMO MEDIALE IN ITALIA: LA CROSSMEDIALITÀ COME TREND IN LINEA CON GLI ALTRI PAESI SVILUPPATI Passando ora ad un focus sulla situazione italiana, bisogna anzitutto dire che i trend di consumo mediale del Paese si possono dire in linea con ciò che accade nelle altre nazioni non definibili come ‘in via di sviluppo’. A livello di ‘panoramica’, si può qui riportare quanto afferma il primo paragrafo dell’executive summary de Entertainment and Media Outlook in Italy 20162020 realizzato dall’istituto PWC. In queste prime righe del sommario si dice che il mercato italiano dell’intrattenimento e dei media (d’ora in poi: E&M) ha registrato un aumento significativo nel 2015 (3,1%, per un valore totale complessivo di circa trenta miliardi di euro). Si parla di una crescente fiducia nel Paese sia da parte degli inserzionisti che dei consumatori. E più avanti:

«Le previsioni per gli anni a venire sono decisamente positive: si stima che il mercato E&M varrà circa trentasei miliardi di euro nel 2020. In linea con l’andamento globale, l’accesso a Internet e la pubblicità registrano, complessivamente, la crescita stimata più accentuata con un CAGR del 7,2%, raggiungendo 15,5 miliardi di Euro nel 2020. Nel loro complesso, anche i segmenti di TV e Video e della pubblicità crescono in maniera sostenuta con un CAGR del 4,6%, raggiungendo 10 miliardi di ricavi per il 2020. Si stima che il peso dei ricavi provenienti da questi ultimi due segmenti sul totale del mercato E&M aumenterà dal 64% nel 2015 al 71% nel 2020. Inaspettatamente, il 2015 è stato il primo anno in cui i ricavi derivanti dalla radio sono aumentati con un tasso di crescita pari al 7,3% rispetto al 2014, registrando un ricavo pari a 480 milioni di Euro». In questo quadro globalmente positivo del mercato E&M, occorre però notare che «La crescita del mercato non è suddivisa equamente tra tutti i segmenti: libri, periodici e quotidiani continuano con un trend negativo anche secondo le previsioni dei prossimi anni». Quindi, pur essendo la crescita italiana dei ricavi del mercato E&M addirittura superiore a quella media dell’Europa Occidentale, [graf9] occorre avere cautela. Anche proseguendo nella lettura del documento ciò viene riconfermato, affiancando la situazione di fatica dei media tradizionali con l’ascesa digitale che non è destinata a fermarsi: «Si stima che i ricavi attribuibili al settore digitale saliranno da 12,0 miliardi di Euro registrati nel 2015 a 17,3 miliardi di Euro nel 2020, con un CAGR del 7,7%. Al contrario, i ricavi derivanti dal settore “tradizionale”, non digitale, risultano essere più in difficoltà, crescendo con un CAGR pari all’1,1%, da 17,7 miliardi di Euro nel 2015 a 18,7 miliardi di Euro nel 2020».

41


CAPITOLO SECONDO

Andamento dei ricavi del mercato E&M in Italia e in Europa Occidentale 2012-2020

[graf 9]

In percentuale

6 5 4 3 2 1 0 -1 -2 -3 -4

Euro Itali pa Occ a iden tale

2012

2013

2014

2015

2016

2017

2018

2019

2020

fonte: PWC, Ovum

6 ZenithOptimedia è parte di Publicis Groupe, agenzia media italiana. Si occupa di communication planning, ottimizzazione di valore e creazione di contenuto per i propri clienti.

Si vuole ora iniziare ad addentrarsi in una questione che meglio verrà analizzata nel sotto capitolo successivo, e per farlo si prendono in prestito le parole del documento Media Consumption Forecast 2016 redatto da Zenith.6 Questo report si pone l’obiettivo di esplorare come i pattern di consumo mediale varieranno tra il 2016 e il 2018. Il documento guarda a quanto tempo viene speso leggendo giornali e magazine, guardando la televisione, ascoltando la radio, andando al cinema, navigando su Internet e vedendo l’outdoor advertising. Questa edizione di Media Consumption Forecast si occupa di studiare settantuno diversi paesi, tra cui l’Italia. Dopo l’esposizione di alcune tabelle in cui viene mostrato il consumo mediale (in minuti/giorno) per le diverse regioni del mondo (tra cui l’Europa meridionale) in cui si vede, fra l’altro, come il consumo in minuti/giorno dei cosiddetti ‘magazine tradizionali’ sia, secondo Zenith Optimedia, destinato a scendere in modo inesorabile, viene mostrata una lista di tabelle ciascuna attinente a ognuno dei settantuno paesi presi in esame dal report. Andando alla tabella riguardante l’Italia, la quale non costituisce un caso ‘d’eccezione’ rispetto alle altre, si legge:

«Multiscreen viewing is changing the way Italians consume media. Time dedicated exclusively to individual media is in decline, in favour of more integrated usage of platforms […] Over time the average number of platforms used by Italians has increased; 81% now own and use at least four devices, and 27% own and use at least eight. Mobile Internet use is rising rapidly, but overlaps substantially with consumption of other media, particularly TV. The total amount of time spent with media is no longer the sum of the time spent with individual media, but instead rather less. […] Mobile consumption is growing at the expense of traditional media, and is likley to continue to grow».

42


7 AGCOM è l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. Si occupa di fare da regolatore per la concorrenza e competizione tra attori dell’industria della comunicazione in Italia.

8 https://www.agcom.it/ relazioni-annuali

A parte l’annotazione sulla conclamata crescita esponenziale della fruizione di contenuti da dispositivi mobile, si vuole fissare la frase «time dedicated exclusively to individual media is in decline, in favour of more integrated usage of platforms» e in particolare sull’avverbio “esclusivamente”. Come a dire: il modo di consumare prodotti mediali è in evoluzione e uno dei caratteri di questa evoluzione è la perdita di specificità delle singole piattaforme, dei singoli mezzi: si consuma informazione in modo integrato, attraverso diversi canali e i confini si sfumano. E allora, forse, rilevare il consumo mediale suddividendolo in aree tra loro ben delimitate (nominate coi nomi dei mezzi stessi) non è una operazione che ancora oggi ha pienamente senso: non rispecchia il quadro attuale del consumo mediale. È stato doveroso, finora in questo secondo capitolo, mostrare comunque i dati suddivisi per singoli mezzi elaborati dai diversi enti, ma lo si è fatto sostanzialmente per far comprendere come questa risulti una metodologia ormai anacronistica. Se ne è accorto in modo netto Angelo Marcello Cardani, attuale presidente di AGCOM.7 Cardani scrive la prefazione alla Relazione Annuale8 di AGCOM nella quale esordisce dicendo:

«Una Relazione annuale è sempre momento di rilettura sistematica dei fenomeni, nonché occasione di bilanci e programmi. E in una Relazione che fa il punto sul mondo dei media, delle comunicazioni elettroniche e dei servizi postali, il primo elemento da offrire alla riflessione è quello relativo all’andamento dei mercati. I dati che pubblichiamo sono a prima vista quelli di un perdurante stato di crisi». Prosegue però subito dopo affermando:

«Le dinamiche in atto, tuttavia, suggeriscono di leggere questa crisi non già nei termini di declino strutturale dei mercati vigilati, ma piuttosto nei termini di una delicata fase di transizione che ha le dimensioni e le caratteristiche – in quanto tale densa di promesse e opportunità – del cambio di parametro e del mutamento di scenario. E allora l’immagine appropriata, nonostante i morsi della crisi, non è quella del declino, ma piuttosto quella del mutamento. Di scenari, di parametri, di abitudini. Un mutamento che richiede coraggio, innovazione, espansione delle dimensioni aziendali, economie di scala, internazionalizzazione, diversificazione dei modelli di business». Dopo aver affermato ciò, si cimenta in una breve serie di esempi a supporto della sua tesi:

43

ANGELO MARCELLO CARDANI

LA SITUAZIONE ATTUALE DELL’EDITORIA PERIODICA ‘TRADIZIONALE’: CRISI O EVOLUZIONE?


CAPITOLO SECONDO

Andamento SIM ‘solo voce’ e SIM ‘voce e dati’ in Italia 2010-2015

[graf 10]

In milioni di unità

80

70,8

69,1

60

66,8

40

20

0

27,0

22,9

2010

2011

30,4

2012

60,0

36,9

2013

50,6

50,2

43,6

42,3

2014

2015

fonte: AGCOM, Relazione annuale 2016

[graf 11] Traffico internet delle SIM che effettuano traffico dati in Italia 2010-2015 In gigabyte/mese 1,30

1,3 1,2

1,04

1,1 1,0

0,84

0,9

0,75

0,8 0,7 0,6 0,5

0,64

0,60 2010

2011

2012

2013

2014

2015

fonte: AGCOM, Relazione annuale 2016

«Sono molte le istantanee che confermano questa nostra lettura. Ad esempio il successo travolgente dei social e la moltiplicazione delle app. Ad esempio i mutamenti in atto nella fruizione dei contenuti. Ad esempio l’evidenza che sempre più utenti di smartphone non fanno telefonate nel senso tradizionale del termine col proprio device. Ma forse un dato più di tutti ci suggerisce che assistiamo ad una crisi congiunturale, di transizione e, auspicabilmente, di crescita: il fatto che molti studi recenti siano concordi nel dirci che nel 2015 sono ripartite con forza le attività».

9 Mangini Daniela (2016) https://www. wired.it/economia/ business/2016/08/01/ pubblicita-italia/

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A supporto di quanto da lui affermato si può guardare, per esempio, ai dati rilasciati appunto da AGCOM per quanto riguarda la crescita di circolazione di schede SIM “Dati e voce” a discapito di quelle solo “Voce”, [graf10] oppure a un grafico che mostra come – tra il 2010 e il 2015 – sia aumentato esponenzialmente il rapporto Gigabyte/mese delle schede SIM in Italia [graf11]: un delta del 116% tra il 2010 e il 2015. A fronte di questa epoca di cambiamenti che Cardani ben descrive nella sua prefazione al report 2016 di AGCOM, bisogna però notare che non sembra che in Italia la fase transitoria sia ancora ben recepita dagli addetti ai lavori. Per spiegare ciò, viene in aiuto un articolo dal titolo Come va il mercato della pubblicità in Italia9 apparso sul sito di Wired Italia in data 1 agosto 2016 firmato da Daniela Mangini. In questo articolo, la Mangini afferma:

«Per quanto riguarda Internet, se non si fosse fatta la proiezione sul mondo del web advertising legato a Google e Facebook, Nielsen avrebbe registrato un decremento dell’1,9% nel periodo cumulato e un calo, da giugno 2015 a giugno 2016, del 2,1%. Nielsen ha quindi, come già detto, integrato il dato con stime sull’intero mondo del web advertising (aggiungendo principalmente search e social), correggendo i numeri con un più attendibile +8,3% per i primi sei mesi dell’anno (giugno a +9%). La proiezione Survey sul Digital Advertising ha coinvolto i direttori marketing/comunicazione di circa 150 aziende, in gran parte top spenders in Italia». Insomma: restano fuori dai rilevamenti Nielsen attori importantissimi al giorno d’oggi, anche per la crescita esponenziale del ‘social media web’ contro il ‘search web’. Nel punto seguente verranno esposti, tra l’altro, casi di enti che si pongono il problema di far divenire le stime (come quelle elaborate da Nielsen) vere e proprie raccolte di dati, ritenuti ormai essenziali per monitorare il livello di engagement che un certo media brand esercita. La Mangini, in linea con quanto sostenuto da Cardani, afferma inoltre: «Il futuro fa prevedere un passaggio alla crossmedialità» il che è ritenuto evidente ad esempio guardando a Brand Connect, divisione di System24 (concessionaria pubblicitaria del Gruppo 24 Ore) che si occupa di progetti di advertising multipiattaforma. Malgrado diverse realtà di questo genere siano presenti in Italia, bisogna però notare quanto scritto nel report di PWC Entertainment and Media Outlook 2016-2020 già menzionato in precedenza in merito all’advertising online nella penisola italiana: «La crescita del programmatic advertising ha assunto grande importanza nel settore pubblicitario. Infatti, in mercati come gli Stati Uniti e Regno Unito, oltre la metà degli annunci digitali vengono scambiati automaticamente. Tuttavia il livello di adozione in Italia è ancora poco diffuso, secondo IAB Italia nel 2015 solo il 19% degli annunci viene scambiato tramite questa modalità. I critici, tra cui le agenzie che sostengono una perdita di guadagni dall’adozione della tecnologia, associano lo scambio programmatico a spazi di basso valore e sostengono che la diffusione della tecnologia programmatica farà diminuire il valore del mercato. Tuttavia le potenziali efficienze derivanti potrebbero, in futuro, consentire una migliore ‘targetizzazione’ anche per gli annunci premium, aumentando così il valore generato». Anche di quest’ultimo tema (nuove modalità di fare advertising) si andrà a parlare meglio nel punto successivo. 45

DANIELA MANGINI

LA SITUAZIONE ATTUALE DELL’EDITORIA PERIODICA ‘TRADIZIONALE’: CRISI O EVOLUZIONE?


CAPITOLO SECONDO

2.3 DAVANTI A NUOVI PATTERN DI CONSUMO MEDIALE: LA NECESSITÀ DI NUOVE METRICHE DI RILEVAMENTO E DI NUOVE FORME ADVERTISING

10 Intervista rilasciata a fipp.com da Mary Berner (2015) http://www.fipp.com/news/ insightnews/why-youshould-pay-real-attentionto-what-is#sthash. GiRo1Vdy.dpuf )

Nel punto precedente si è accennato al fatto che i pattern di consumo mediale sono in evoluzione: le parole di Angelo Marcello Cardani precedentemente citate descrivono bene questa epoca di mutamenti. Per quanto diversi paesi (come ad esempio l’Italia) siano ancora alquanto indietro rispetto a ciò che concerne la rilevazione del consumo mediale come esso oggi sempre più avviene (si veda il caso dell’istituto Nielsen, sempre nel punto precedente) vi sono però anche casi di realtà che a questi nuovi pattern stanno cercando di adeguarsi andando oltre le stime. Si tratta di una delle sfide maggiori che il mondo mediale ha da affrontare anche secondo il già menzionato report World Press Trends 2016 di WAN Ifra:

«One of the primary challenges for the industry remains new analytic tools and new metrics for news media content on all platforms». Un primo caso è ciò che MPA (la US-Based Association of Magazine Media) ha rilasciato a settembre 2014: si tratta di un progetto chiamato Magazine Media 360° Brand Audience Report (d’ora in poi: MM360°) il quale è uno strumento che si pone l’obiettivo di rilevare la domanda di contenuto mediale tramite il monitoraggio dell’audience attraverso molteplici piattaforme (incluse le edizioni cartacee e digitali dei propri clienti) e usando dati che vengono raccolti da parti terze. Mary Berner, fondatrice e direttrice del progetto MM360° dichiara in un’intervista rilasciata a fipp.com:10

«Currently covering approximately 145 magazine media brand from over 30 companies, representing 95 per cent of the reader universe, the data is released monthly with complete transparency via The MPA Magazine Media 360° Brand Audience Report. This effort, which provides a comprehensive and accurate picture of magazine media vitality, was launched in September 2014 and marks the first time ever any media industry has measured and communicated crossplatform consumer demand by brand. The Magazine Media 360° Social Media Report is released separately». Si è anche compresa, quindi, la vitale importanza della parte social dei media brand di cui viene fatto un report in modo separato. Si tratta di un report quadrimestrale nel quale viene illustrata anzitutto la situazione generale dei social media in quel tale quadrimestre: chi è salito, chi è sceso in termini di iscritti e followers. Nella seconda parte si passa agli specifici media brand: classifiche di chi in quel tale quadrimestre è sceso o salito in termini di like e followers e due classifiche top ten: una chiamata Top 10 Magazine brand – Likes/Followers by Social Network e la seconda chiamata Top 10 Magazine brand – % Growth by Social Network. Nella terza sezione si passa ad

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LA SITUAZIONE ATTUALE DELL’EDITORIA PERIODICA ‘TRADIZIONALE’: CRISI O EVOLUZIONE?

Davies Pete (2013) https://medium.com/ data-lab/mediums-metricthat-matters-total-timereading-86c4970837d5#. e6afj6d0p

analizzare lo share che ogni categoria editoriale (ad esempi: motociclismo, giardinaggio, salute) detiene sui principali social network. Viene infine redatta una parte di analisi discorsiva dei dati con suggerimenti, ad esempio si legge nell’ultimo Social Media Report del 2016, fra l’altro, che concentrare la pubblicazione di contenuti durante il weekend potrebbe essere una buona idea. Questo esempio, MM360°, viene ritenuto interessante soprattutto per via del fatto che il rilevamento multi-piattaforma tiene in considerazione anche il canale cartaceo. Un altro caso studio da menzionare è Total Time Reading (d’ora in avanti: TTR), modalità di rilevamento concepita da e per la piattaforma di condivisione di idee e paper Medium. È un caso degno di attenzione perché si ritiene perfettamente in linea con quanto affermato in World Press Trends 2016:

«There is an increased understanding that “If nobody actually reads the article they’ve clicked on, what value is there in that click?”». Un altro modo di vedere lo stesso concetto è quanto detto poco dopo sempre nel medesimo documento: «The emphasis on measuring print sold circulation as precisely as possible has reflected the business model of the industry for decades. This model has been simply copied to the digital sphere, where the only indicator that was possible to reliably measure was the number of page views. The wole news publishing industry has relied on this measurement, and it became embedded in the culture and business goals» e più avanti: «Furthermore, by using inadequate metrics, the industry has missed the opportunity to estabilish a new business model based on true value of the content». Quest’ultima citazione si focalizza sull’errore costituito dal traslare le tecniche di rilevamento ante-digitale alla situazione attuale lasciandole così come sono. Ritornando al caso di TTR, questo metodo di rilevazione si concentra quindi su un problema: non “quanto gli utenti fanno click sui nostri articoli?” ma “quanto gli utenti effettivamente leggono dei nostri articoli?”. Di questo parla (appunto tramite un articolo11 su Medium) Pete Davies, il quale, dopo un sarcastico elenco di metriche generalmente utilizzate dalle compagnie (“One million page views! 50,000 signups! Five million posts! 165 million active users!”) scrive: «At Medium, our number is Total Time Reading, or TTR». Proseguendo, Davies descrive come, con l’avvento di Internet, ci si sia potuti (inizialmente) basare soltanto su degli ‘eventi’ per poi, con l’avanzare della tecnologia, poter arrivare a parlare anche degli utenti:

«When the web took hold (and e-commerce was just a glint in its eye), only events — like page views and, later, clicks—could be measured. With the widespread use of cookies (and Google Analytics), we progressed to talking about users». Subito dopo approfondisce ciò che questi avanzamenti tecnologici comportano: «“Big data” has brought with it the luxury of being able to measure any (and every) interaction that a user has with an application. We can record what a user does, with what device, when, and for how long. The data is cheap to store and relatively easy to process». Tutto questo permette a Medium di avventurarsi nel monitorare il livello di engagement che esso esercita sui propri utenti, ovvero di coinvolgimento. Ne parla poco dopo: 47

PETE DAVIES

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CAPITOLO SECONDO

«There’s no shortage of hand-wringing around what exactly “engagement” means and how it might be measured — if it can be at all. Of course, it depends on the platform, and how you expect your users to spend their time on it. For content websites (e.g., the New York Times), you want people to read. And then come back, to read more. A matchmaking service (e.g., OkCupid) attempts to match partners. The number of successful matches should give you a pretty good sense of the health of the business. What about a site that combines both of these ideas? I sometimes characterize Medium as content matchmaking: we want people to write, and others to read, great posts. It’s twosided: one can’t exist without the other. What is the core activity that connects the two sides? It’s reading. Readers don’t just view a page, or click an ad. They read. At Medium, we optimize for the time that people spend reading».

12 http://digiday.com/ platforms/what-isprogrammatic-advertising/

È evidente, per il caso di TTR, che il ‘problema’ da verificare è diverso rispetto alle tradizionali page view come invece nel caso di, ad esempio, Gawker Media, citato dal report World Press Trends 2016: «Different media organizations have tried various models of measuring success and the reach of their digital content with single metrics and also have used different metrics as a basis for paying journalists. Already in 2008, Gawker Media started paying writer bonuses based on the number of page views that their posts received each month». A conclusione di questo punto, si vuol mettere in evidenza brevemente ciò che si sta delineando nel mondo dell’advertising online in quanto si ritiene che sia qualcosa in linea con strumenti come, ad esempio, TTR. La questione advertising vuol qui essere guardata da due punti di vista: il primo è quello della vendita degli ‘spazi’, e qui entra in gioco il tema del ‘programmatic advertising’. Un altro modo di chiamare il ‘programmatic advertising’ è ‘programmatic ad buying’, perché di questo si tratta: l’automatizzazione della vendita di pubblicità. Ne dà una coincisa definizione Jack Marshall in un suo articolo su digiday.com:12

«“Programmatic” ad buying typically refers to the use of software to purchase digital advertising, as opposed to the traditional process that involves RFPs, human negotiations and manual insertion orders. It’s using machines to buy ads, basically». E più avanti, chiedendosi la ragion d’essere del programmatic advertsing scrive: «Efficiency. Before programmatic ad buying, digital ads were bought and sold by human ad buyer and salespeople, who can be expensive and unreliable. Programmatic advertising technology promises to make the ad buying system more efficient, and therefore cheaper, by removing humans 48


LA SITUAZIONE ATTUALE DELL’EDITORIA PERIODICA ‘TRADIZIONALE’: CRISI O EVOLUZIONE?

13 http://www. pangaeaalliance.com

14 Redazione de The Guardian (2015) https://www.theguardian. com/gnm-pressoffice/2015/mar/18/ worlds-leading-digitalpublishers-launch-newprogrammatic-advertisingalliance-pangaea

15 http://www.outbrain.com/ native-advertising

16 https://sharethrough. com/resources/ in-feed-ads-vs-banner-ads/

from the process wherever possible. Humans get sick, need to sleep and come to work hungover. Machines do not». Chi ritiene che il futuro dell’advertising stia andando verso il programmatic sono, ad esempio, i media brand che hanno dato vita a Pangea Alliance13 nell’aprile del 2015. Si legge su un articolo14 de The Guardian, avanguardia di Pangea Alliance: «A new digital advertising proposition that will allow brand to collectively access a highly influential global audience via the latest programmatic technology. Spearheaded by the Guardian, Pangea brings together CNN International, the Financial Times and Reuters as founding partners, with The Economist also providing access to advertising inventory». Oltre alle testate appena citate, nel tempo se ne sono aggiunte altre. Si tratta di un network che dà la possibilità, agli inserzionisti, di raggiungere ‘insieme’ le audience di questi grandi media brand. Gli spazi vengono assegnati in modo programmatic. Afferma sempre Marshall nel medesimo articolo: «Is programmatic “the future of ad buying”? Probably, yes. It’s impossible to tell what portion of advertising is now traded programatically, but it’s definitely on the rise. Some agencies now say they’re eager to buy as much media as possible through programmatic channels, and some major brand have even built out in-house teams to handle their programmatic ad buying as they spend more of their marketing budgets that way [come, ad esempio, Pangea Alliance]. At the moment, it’s mainly online ads that are traded programatically, but increasingly media companies and agencies are exploring ways to sell “traditional” media this way, including TV spots and out-of-home ads». In accordo con quanto affermato in questa citazione è uno stralcio di World Press Trends 2016 il quale si concentra sulla situazione del programmatic advertising mettendo a fuoco il Regno Unito come caso in cui il programmatic è in forte crescita: «[in the United Kingdom] 60% of all digital advertising is traded programmatically in 2016 according to the Interactive Advertising Bureau (IAB)». Se il programmatic advertising si interessa del processo di vendita e assegnazione di spazi, il ‘native advertising’ si interroga invece sul “come fare advertising?” e sul “dove metterlo?”. Di cosa si tratta? Ne dà una breve definizione outbrain.com15:

«Native advertising is a form of paid media that is frequently adopted by content marketers. By definition, it is any paid content that is “in-feed” and inherently non-disruptive. This includes promoted tweets on Twitter, suggested posts on Facebook, and editorial-based content recommendations from content discovery platforms […] Content marketers are increasingly turning to native advertising as it is understood to be better at building trust and engagement with prospective customers than traditional display ads». Oltre ad avere la caratteristica di essere, appunto, ‘in-feed’, un altro aspetto importante del native advertising viene illustrato da sharethrough.com:16

«Native ads are defined by advertising formats that are consistent with the form, style and voice of the platform they appear on. Major social media platforms including Twitter, Facebook, Foursquare and Tumblr, 49


CAPITOLO SECONDO

have focused their monetization strategies around these new forms of online ads».

17 https://sharethrough.com/ neuroscience/

Il termine su cui ci si vuole soffermare è ‘consistent’, consistente: qualcosa che non interrompa lo stream di fruizione dei contenuti (si pensi ad esempio allo scrolling di video su Facebook, ad esempio) per via di come si presenta: qualcosa che sia ‘congruente’ coi contenuti ‘editoriali’ e che venga il meno possibile percepito come aside of. Sull’efficacia di questa modalità di fare advertising si sono realizzate anche analisi scientifiche. Un esempio di ciò è una ricerca17 realizzata da Sharethrough dal titolo Assessing Visual Focus, Message Processing & The Ability To Strengthen Associations Through Mobile Native Advertising. Ci si concentra quindi sul mobile. Il ‘key finding’ di tale ricerca è il seguente:

«Across native ads and banners, eye gaze appeared to be consistently more concentrated on the native, even though both formats were placed in-feed. Previous studies have demonstrated native’s impact on desktop, where native ads receive 52% more visual focus than banners (IPG Media Lab). This latest study confirms that this behavior is also true on tablet devices». Quindi, oltre al posizionamento del messaggio pubblicitario nella pagina, importante è anche la natura del messaggio: i banner, anche se ‘incorporati’ nello scorrimento del contenuto, sempre banner rimangono e ormai la nostra attenzione ha sviluppato dei buoni ‘anticorpi’ nei loro confronti».

fig.1 Immagini della ricerca Assessing Visual Focus, Message Processing & The Ability To Strengthen Associations Through Mobile Native Advertising a cura di Sharethrough. Disponibile presso www.sharethrough. com

Oltre al digitale, si ritiene che una tendenza verso qualcosa di analogo al native advertising si stia verificando anche su quei prodotti cartacei che più avanti verranno trattati. È comunque sostenibile che questi sviluppi del mercato pubblicitario (prevalentemente online) facciano intuire come gli utenti siano sempre più ‘preparati’ in materia di ‘discernere tra cosa vale e cosa non vale’ nella loro fruizione di contenuti, rendendo l’affermazione “Content is the king”, già menzionata nei paragrafi precedenti ancora più calzante.

1

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LA SITUAZIONE ATTUALE DELL’EDITORIA PERIODICA ‘TRADIZIONALE’: CRISI O EVOLUZIONE?

2.4 LA NECESSITÀ DI NUOVE TERMINOLOGIE ATTORNO A PRODOTTI PERIODICI: LA PREPONDERANZA DEL LINGUAGGIO AUDIOVISIVO E LA RICERCA DI NUOVI MODELLI DI BUSINESS Quest’ultimo paragrafo posto a conclusione del secondo capitolo intende focalizzarsi su una questione ‘lessicale’: oggi, pronunciando la parola “magazine”, vi è ancora una certa tendenza a rivolgere il proprio pensiero al prodotto cartaceo in se stesso, fatto di pagine con immagini, testi, illustrazioni e altro ancora. La valenza di questo termine si sta però ampliando. Infatti, anche leggendo fino a questo punto la presente trattazione, si nota come si sia spesso usato, per esempio, il termine ‘media brand’. Non è il solo termine utilizzabile: nella già menzionata intervista a Mary Berner, ‘madre’ del progetto MM360°, anch’ella si preoccupa di questioni lessicali. Nell’intervista le viene rivolta la seguente domanda: «There is such a strong association between magazines and print; it was important to show that magazines today are more than print alone, thus the use of “magazine media” to reflect its multior omni-channel nature. How does MM360º help to change this?» a cui lei risponde affermando:

«You’re right. Yesterday’s print “magazine” company is today’s “magazine media” company reflecting the fact that almost all magazine brand produce content across multiple platforms and formats in addition to print. By capturing and communicating (every single month) consumer demand for magazine brand across their whole content ecosystem, Magazine Media 360° reinforces and validates this fact». D’ora in avanti, in questa trattazione, si vuole utilizzare il termine pronunciato dalla Berner “magazine brand” in quanto si ritiene che ella lo abbia usato con la stessa coscienza (o almeno: con lo stesso sentore) di chi scrive: al giorno d’oggi è fortemente riduttivo pensare al magazine come l’oggetto cartaceo in se stesso. Non si ritiene che dire ciò sia ‘qualcosa di nuovo’, ma si ritiene che sia oggi qualcosa di più che mai forte. Per capirlo meglio, si può ad esempio guardare a quanto scritto nel report World Press Trends 2016 in un paragrafo chiamato Global mobile and desktop Internet usage 2016: «The global population is increasingly connected and social: 51% are using mobile phones and 31% are social media users. The worldwide smartphone market saw a total of 1.4 billion units shipped in 2015. […] Around 30% of the world population own a smartphone today. […] Recent market research shows that nearly 90% of American now access news and information on smartphones and other mobile devices. According to comScore, the average top 10 digital media have 37% of their audience visiting only on mobile and 31% visiting both on mobile and desktop». Dunque, anche i pattern riguardanti la fruizione di contenuti di informazione sul solo digitale si sta sempre più dividendo (tra desktop, stabile o in calo, e mobile, sempre più in crescita). In questo quadro, un fenomeno da guardare attentamente per capire come l’informazione si stia sempre più atomizzando (il problema non è più il ‘come viene trasmesso’, ma: dato che ormai il contenuto è estremamente atomizzabile, che forme prende per comunicarsi?) è certamente quello del

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CAPITOLO SECONDO

fig.2 Screenshot di una Instagram Story dell'account @chiaraferragni pubblicata in data 28 gennaio 2017.

video, dell’audiovisivo. Sempre in World Press Trends 2016, poche righe dopo la precedente citazione e nel medesimo paragrafo, si legge:

«Among online 16-34s, almost 95% watch video, and even among the oldest group tracked by Global web Index (the 55-64s), 8 out of 10 engage with video. Furthermore, about half of Internet consumers upload their own videos, 8 to 9 billion videos per day are watched on Facebook, 8 billion per day on Snapchat, and 4 billion on YouTube» (fa pensare, fra le altre cose, che i video visti giornalmente su Facebook siano circa il doppio di quelli che vengono fruiti giornalmente su YouTube: la piattaforma che fino a tempi recenti era ‘preposta’ alla fruizione video viene superata (e doppiata) da un social network su cui gran parte dei video che vengono visti vengono originariamente ‘uploadati’ su YouTube: la partita dell’atomizzazione del contenuto sta venendo largamente vinta, come per altro i diversi report citati in questo capitolo raccontano, dai social media). Anche il report EPC Global Media Trends Book 2015 afferma:

«Video usage and revenues are growing exponentially around the world. Publishers should drive strategies to leverage this inexorable trend» e poco dopo lo stesso report di EPC si domanda su quale tipo di video ci si debba concentrare: che ‘tone of voice’ deve avere, quale ‘stampo’? Secondo il report:

«According to video publishers interviewed for this report, producing video for multiple digital devices is not about creating television-style news with talking heads blandly announcing the news of the day. […] Publishers are finding that audiences are demanding different kind of video experience using their mobiles, desktops and laptops to access video content. They want to immerse themselves in the experience. […] They don’t want TV on the web. They want something they feel a connection to, therefore, what they will share with their networks». Insomma: non ‘la televisione sul web’, non quell’aria artefatta da programma televisivo ma qualcosa che faccia sentire le persone in relazione con il contenuto stesso del video e chi ne è personaggio. A tal proposito si potrebbero guardare le Instagram Stories come esempio di quanto descritto in questa ultima citazione: almeno in apparenza e almeno solitamente, si tratta di qualcosa dal sapore profondamente genuino. Filmato direttamente (o poco prima) al momento dell’apertura dell’app di Instagram e caricato pochi istanti dopo. C’è giusto la possibilità di inserire un filtro colore, qualche scritta e delle emoji se lo si desidera e il ‘prodotto audiovisivo’ è già pronto per essere lanciato. Con questa feature si può, per esempio, ‘entrare’ nella quotidianità delle celebrità e vederle in quei momenti ‘domestici’, non di 52


LA SITUAZIONE ATTUALE DELL’EDITORIA PERIODICA ‘TRADIZIONALE’: CRISI O EVOLUZIONE?

18 https://www.youtube.com/ watch?v=Kifn_WVGReM

19 https://www.youtube.com/ watch?v=-MukYWwuWqk

fig.3 Screenshot del video ROVAZZI VLOG #2 LOS ANGELES caricato su YouTube dall'account di Fabio Rovazzi in data 17 gennaio 2017

palcoscenico. Un esempio italiano di ciò potrebbero essere le Instagram Stories del ‘gruppo’ composto da Fedez, Fabio Rovazzi, Chiara Ferragni e J-Ax. Anche il settore dell’informazione sta recependo, in alcuni casi, tale tendenza: un esempio è il magazine brand tedesco Slanted. Esso si focalizza sul graphic design ed in particolar modo sulla tipografia e sul type design e non è raro che esso ‘carichi’ Instagram Stories di momenti ‘domestici’ della testata come, ad esempio, dei brevi filmati delle macchine da stampa che danno luce al prossimo numero in uscita. Bisogna però notare che questi prodotti audiovisivi che non sanno di ‘televisione traslata su Internet’ non devono essere necessariamente caratterizzati da una ‘istantaneità di pubblicazione’ come nel caso, ad esempio, delle Instagram Stories. Infatti, l’altro ‘polo’ è costituito da prodotti video che, pur mantenendo un sapore genuino e non artefatto, sono però il frutto di una grande attenzione e cura in fase di concezione, riprese, montaggio, postproduzione e così via. A tal proposito, sempre per restare tra le odierne celebrità del panorama italiano poco prima citato, si potrebbe guardare al caso dei video pubblicati dallo ‘youtuber’ Fabio Rovazzi: essi sono il frutto di competenze tecniche (nonché di talento personale, chiaramente) maturate negli anni e nulla, in questi prodotti, è lasciato alla casualità. Due esempi sono il videoclip del singolo Andiamo a Comandare,18 pubblicato su YouTube in data 28 febbraio 2016 e che a gennaio 2017 vanta circa 117 milioni di visualizzazioni. Altro esempio sono i cosiddetti ‘vlog’ realizzati come video di narrazione e racconto di viaggi e vacanze. Uno di questi si chiama ROVAZZI VLOG #2 – LOS ANGELES.19 Quest’ultimo genere si differenzia dai videoclip musicali per il fatto che, in buona parte, si tratta di montaggi di riprese ‘sorgenti’, che non sono state girate con una troupe o comunque su un set. Una grande media company che di ciò si è resa conto (e da tempo) è per esempio Condé Nast. Si legge a proposito di essa su World Press Trends 2016: «Condé Nast launched its digital video network in March 2013 as part of its entertainment division, Condé Nast Entertainment. In July 2014, CNE launched The Scene, an online hub that publishes Condé Nast magazine title’s video content». Oltre al discorso sul consumo mediale in mutamento (con il video fruito via social media come primo attore del cambiamento) di cui si è appena parlato e che spinge a non parlar più di ‘magazine’ ma piuttosto a cercare altre terminologie come ‘media brand’ o ‘magazine brand’, vi è da considerare il fatto che anche i modelli di business tendono ad evolvere. Nei paragrafi precedenti si è mostrato come il ricavo proveniente dalla raccolta pubblicitaria e il ricavo proveniente dalla circolazione dei contenuti tendano sempre più ad allinearsi. Questo comporta quanto affermato, ancora una volta, da World Press Trends 2016:

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2

3


CAPITOLO SECONDO

«While the dual revenue model is not disappearing, it is evolving into something completely different. Print advertising is fast diminishing as a 50/50 revenue partner with content to deliver overall revenues for newspapers. Content is increasingly becoming the key source of revenue for many, with print and digital advertising being part of the product and service portfolio, alongside other diversification strategies such as events, newsbrands’ e-commerce and full service marketing agency initiatives». Insomma: nuovi modelli di business, nuove voci di guadagno da ricercare. Di questo si rendono bene conto i magazine brand di cui si parlerà più avanti in questa trattazione: non è raro (anzi: è quasi usuale) che queste realtà che nascono dal basso si foraggino tramite eventi, fungendo anche da piattaforma e-commerce per prodotti realizzati da terzi o divenendo anche studio di comunicazione oltre che una redazione.

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INTRODUZIONE CAPITOLO AL CAPITOLO PRIMO TERZO

L’emergente fenomeno dell’editoria grassroots periodica

A questo punto della trattazione si intende ‘immergersi’ nel cosiddetto fenomeno dei ‘magazine indipendenti’ facendo anzitutto, nel primo paragrafo, una importante distinzione di carattere linguistico per spiegare come mai si preferisca parlare di queste realtà appellandole come ‘grassroots’ piuttosto che come ‘indipendenti’. Viene in seguito tracciato un breve percorso storico volto a far comprendere come, per quanto quello odierno venga spesso considerato come un fenomeno ‘nuovo’ e ‘inedito’, esso affondi le proprie radici ben in profondità in esperienze passate. Successivamente si inizierà a guardare all’odierno a partire dalla produzione culturale che attorno ad esso nasce: libri, realtà online, saggi e altro. Proprio uno di questi saggi verrà poi largamente esplorato per tentare di rispondere alla domanda “Cosa si può dire o non dire esser facente parte di questo fenomeno?”. Questo perché si tratta di un fenomeno dai confini molto sfumati e – si ritiene – impossibili da tracciare in modo netto e pienamente oggettivo. 56


TRE FENOMENI E UN FATTO RIGUARDANTI L’EPOCA DELLA PROFONDA PERVASIVITÀ DEL DIGITALE

In seguito, si prenderà ad osservare queste realtà editoriali da due punti di vista ritenuti salienti: il rapporto che essi intrattengono con altri attori commerciali (in primis: come questi piccoli editori vedono il rapporto con l’inserzionismo pubblicitario) e, in secondo luogo, l’importanza del graphic design il quale viene elevato, in questi prodotti, al livello di vero e proprio contenuto spesso a sé stante.

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CAPITOLO TERZO

1 Jenkins Henry (2007) Si veda la bibliografia.

2

HENRY JENKINS

Jenkins Henry (2001) https://www technologyreview com/s/401042/ convergence-i-diverge/

3.1 DI COSA SI TRATTA? A CONFRONTO CON DELLE ESPERIENZE ANTECEDENTI Si vuole iniziare questo terzo capitolo della trattazione evidenziando come, pur trattando qui di un fenomeno odierno, esso abbia radici profonde e largamente frastagliate. L’editoria indipendente, slegata dalle istituzioni del settore come grandi gruppi editoriali e holding, non è certo cosa nuova. Nella bibliografia e fonti consultate per la stesura del presente paragrafo, più di un autore afferma come le origini più remote del fenomeno ‘indipendente’ si vadano a collocare già nel corso del Cinquecento, più precisamente immediatamente dopo l’invenzione della stampa a caratteri mobili per mano del già citato Gutenberg. L’utilità di evidenziare qualche antecedente storico (la produzione clandestina editoriale russa, sotto il nome di Samizdat, l’esperienza delle riviste delle Avanguardie artistiche del primo Novecento e infine lo sterminato panorama della produzione della così chiamate fanzines) risiede nel fatto che si crede che avere un minimo di coscienza di ‘ciò che è stato’ possa far leggere in modo più critico ciò che si vede nella scena odierna, diminuendo il rischio di prenderlo come qualcosa di inedito. Si ritiene, invece, che ciò che accade ai giorni nostri sia in larghissima parte frutto di evoluzioni e esperienze passate. Prima di passare alla descrizione dei tre fenomeni sopra menzionati, si vuole però chiarire una importante questione di linguaggio: così come il titolo di questa trattazione recita, si preferisce non parlare di ‘editoria indipendente’ bensì di ‘editoria grassroots’ riferendosi alla contemporaneità. Per capire la ragione di questa scelta bisogna far riferimento a quanto affermato dall’accademico e saggista statunitense Henry Jenkins, il quale si occupa di media, comunicazione e giornalismo. Egli parla, ormai da diversi anni, di un paradigma: il paradigma della cultura convergente sul quale ha anche pubblicato un libro dal titolo omonimo, uscito in Italia nel 2007.1 Di tale paradigma si parlerà largamente più avanti nel corso di questa trattazione. Per il momento, ci si vuole limitare a chiamare in causa un articolo2 di Henry Jenkins pubblicato nel giugno del 2001 su Technology Review. L’articolo ha come titolo Convergence? I diverge e cerca di ‘mettere ordine’ attorno alla dizione ‘cultura convergente’. Il saggista statunitense inizia affermando che dire ‘convergenza’ non significhi per lui ritenere che un giorno tutti i media si ‘fonderanno’ in un unico, perdendo così ogni differenza e ogni campo di competenza degli specifici e diversi mezzi. Afferma l’autore:

«Consider this column a primer on the real media convergence, because it’s on the verge of transforming our culture as profoundly as the Renaissance did. Media convergence is an ongoing process, occurring at various intersections of media technologies, industries, content and audiences; it’s not an end state. There will never be one black box controlling all media. Rather, thanks to the proliferation of channels and the increasingly ubiquitous nature of computing and communications, we are entering an era where media will be everywhere, and we will use all kinds of media in relation to one another».

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3 Matthews Laura Isabella (2015) https://www. businessoffashion.com/ articles/intelligence/howindependent-magazinesmake-money

The Gentlewoman

Proseguendo, Jenkins afferma che gran parte della confusione attorno al dire ‘cultura convergente’ derivi dal fatto che, quando le persone ne parlano, esse si riferiscono ad almeno cinque differenti processi: convergenza tecnologica, convergenza economica, convergenza sociale, convergenza culturale e convergenza globale. Per il momento, in questo punto della trattazione, ciò che interessa di più è sottolineare dei concetti attorno a ‘convergenza economica’. Jenkins, oltre a ciò, parla spesso di ‘cultura partecipativa’ e, parlando di queste due cose, afferma come sia sempre più frequente notare che realtà economiche nate ‘dal basso’ (come nel caso di una rivista, ad esempio) arrivino poi ad ‘immischiarsi’ e collaborare con le corporation, con dei grandi brand dichiaratamente commerciali. Di questi esempi se ne possono trovare svariati anche nel corpus di pubblicazioni presi in esame per la stesura di questa trattazione. Un caso eclatante è costituito dalle cosiddette ‘riviste indipendenti’ che trattano di moda e fashion. All’interno di queste, sicuramente l’inglese The Gentlewoman è un caso molto esplicativo. Essa è nata ‘dal basso’ nel 2010 in Inghilterra per mano di Gert Jonkers e Jop van Bennekom, due privati cittadini. Penny Martin, oggi editor in chief de The Gentlewoman, dichiara:

«The majority of the magazine’s revenue comes from its strong relationships with advertisers. The Gentlewoman counts brand Céline, Miu Miu, Balenciaga Saint Laurent, Gucci and Prada amongst its advertisers, for whom the magazine’s tactile print quality is a part of what makes it a desirable place to market their brand».

si vedano pp. 60-61

La citazione è ripresa da un articolo3 apparso su businessofffasion.com il 23 luglio 2016 dal titolo How do Independent Magazines Make Money? Nel quale ci si interroga su come, nel momento di pervasività digitale attuale, certe realtà editoriali grassroots non solo sopravvivano ma addirittura crescano. Si sottolinea, appunto, il termine ‘grassroots’ contro il termine ‘indipendente’ poiché, per quanto The Gentlewoman o altri casi analoghi (si vedano, menzionati nello stesso articolo, esempi come Inventory o Kinfolk) siano nati dal basso, risulta poi spesso difficile dichiararli come ‘puramente indipendenti’ per via anche delle implicazioni della cultura partecipativa in cui ci troviamo di cui parla Jenkins, il quale evidenzia come i rapporti tra le corporate e le realtà grassroots siano sempre più frequenti. Non in tutti i casi si tratta, come per The Gentlewoman, di advertising tradizionale: si può trattare di ‘branded content’ oppure di far fungere il proprio sito come piattaforma e-commerce per i prodotti di una tal marca: le fonti di guadagno di queste realtà sono molteplici e se ne parlerà più largamente successivamente. Fatta questa rilevante precisazione di lessico, si può ora procedere ad illustrare dei casi del passato. Il primo filone, quello delle Samizdat russe, viene rapidamente presentato per delineare come, in certi casi, quello dell’editoria grassroots sia un fenomeno che nasce da una situazione di disagio e restrizione della propria libertà. Le Samizdat nacquero infatti sotto l’Unione Sovietica, e presero sempre più piede – pur rimanendo prodotti illegali – dopo la morte di Stalin avvenuta nel 1953. Il tema più ricorrente e sotteso a queste pubblicazioni era, come è facile immaginare, una critica nei confronti dell’estabilishment e del governo sovietico. Proprio per via del forte controllo monopolizzato del governo sulle macchine da stampa, queste pubblicazioni erano usualmente dei fogli (dei ‘bollettini’) scritti con macchina da scrivere e poi segretamente diffusi di mano in mano. Stando a quando affermato da Encyclopedia Britannica:4 59

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PENNY MARTIN

L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA


THE GALLERIA GENTLEWOMAN MAGAZINES ISSUE 6

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NOME MAGAZINE IN PAGINA BU

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CAPITOLO TERZO

«In its earliest days, Samizdat was largely a product of the intelligentsia of Moscow and Leningrad. But it soon fomented analogous underground literatures throughout the constituent republics of the Soviet Union and among its many ethnic minorities».

4 https://www.britannica. com/technology/Samizdat

Qualcosa che si è andato a diffondere sempre più, ‘dall’alto al basso’. Questo genere di pubblicazioni vide poi un periodo di ‘splendore’ a metà degli anni Ottanta del Ventesimo secolo per via della politica glasnost (che significa ‘apertura’) operata da Gorbaciov: il ‘pugno di ferro’ si andava almeno teoricamente allentando e da qui derivò una variegata produzione di pubblicazioni che forse nemmeno si potevano più definire propriamente e totalmente come clandestine. La produzione delle Samizdat andò definitivamente scemando agli inizi degli anni Novanta per via del fatto che, con il collasso fine dell’Unione Sovietica, nascevano diversi media outlet largamente indipendenti dal controllo del governo. Un secondo esempio di questo genere di produzioni ‘dal basso’ può essere visto nell’editoria che nasceva per mano degli aderenti alle avanguardie fig.1 Scansioni del primo numero de Der Sturm (uscita: 3 marzo 1910) a cura de The Blue Mountain Project (si veda la sitografia). https://goo.gl/ma7jyT

1

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L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

fig.2 Scansioni del primo numero de Dada pubblicato nel luglio del 1917. A cura de Monoskop (si veda la sitografia). Disponibile presso https://monoskop.org/ images/5/52/Dada_1_ Jul_1917.pdf

2

artistiche del Ventesimo secolo: esperienze come Ver Sacrum, Der Sturm o The Mask, per citarne qualcuna. Per ulteriori casi, si vuole indirizzare al progetto The Blue Mountain Project, archivio online votato a raccogliere le scansioni di queste riviste di inizio del secolo scorso. Le avanguardie artistiche erano caratterizzate, tra le altre cose, dalla volontà di promuovere degli ideali e delle mentalità che andassero oltre i precisi ‘settori’ quali quello dell’arte figurativa, della musica e così via. Avevano in esse, inoltre (alcune maggiormente, altre in via minore) la caratteristica di voler comunicare al mondo le proprie idee e ideologie avvalendosi di certi strumenti per farlo (dal manifesto, come ad esempio quello del Futurismo redatto da Marinetti, alla rivista, per l’appunto). Un esempio è quello della rivista Dada, bandiera dell’omonima avanguardia nata – tra gli altri – dallo svizzero Tristan Tzara. In analogia con ciò, un’altra esperienza editoriale nata dalla volontà di ‘diffondere il verbo’ del proprio credo è quella di Der Sturm, rivista nata a Berlino come voce dell’Espressionismo (in particolare, appunto, di quello berlinese). Viene fondata nel 1910 da Herwarth Walden, esponente dell’avanguardia espressionista. Questo prodotto fa da catalizzatore per l’ampliarsi delle tematiche trattate dalla avanguardia stessa: oltre all’arte in sé, viene usata come organo per diffondere appelli agli altri movimenti artistici europei, si pongono problematiche sociali, si incontrano altri settori espressivi come quello della letteratura. Si vuole usare un dato di fatto per passare poi al bacino di analisi successivo (ovvero quello delle fanzines): su queste testate scrivevano e si mettevano 63


CAPITOLO TERZO

5 Alferj Pasquale, Mazzone Giacomo (1979) Si veda la bibliografia.

GIANLUCA UMILIACCHI

GIACOMO MAZZONE e PASQUALE ALFERJ

6 Intervista rilasciata a fanzineitaliane.it da Umiliacchi Gianluca (2006) http://www.fanzineitaliane.it/fanzinoteca/index. phpln g=it&mod=articoli&pg=pagina&c=fc&articolo=1401182521

in mostra gli esponenti della cultura e del gusto, magari non ben digeriti dagli accademici e dalle istituzioni, ma pur sempre personaggi di rilievo come ad esempio l’architetto Adolf Loos nel caso della rivista Der Sturm. Questo è in contrasto con quanto avviene invece nel caso delle cosiddette fanzine, termine derivante dalla contrazione di ‘fans’ e ‘magazine’. Per iniziare a parlare di questa variegata e transnazionale tipologia di pubblicazioni, si citano le parole contenute ne I fiori di Gutenberg,5 a cura di Giacomo Mazzone e Pasquale Alferj che ne danno una definizione. Essi affermano:

«Le fanzines (vale a dire fans-magazines) sono nate insieme al fenomeno ‘punk’ e rappresentano nella stampa quello che il ‘punkrock’ ha rappresentato in campo musicale. Concepite, almeno agli inizi, come fogli stampati male e impaginati peggio, esse non si occupavano solo di musica, ma anche di tutto ciò che riguarda la vita dei kids. […] Le fanzines, per la maggior parte, non escono regolarmente, bensì quando dispongono di abbastanza materiale e soldi per comporre un numero, hanno una distribuzione limitata se non limitatissima, sono quasi sempre in perdita, e sono scritte da persone che le creano solo per il gusto di fare qualcosa di autogestito. Per questo non tutti i giornali che si occupano di new-wave sono fanzines, esistono infatti delle riviste che si dedicano interamente alla new-wave ma che hanno la tiratura e la veste grafica di un normale giornale musicale». Ciò che risulta evidente leggendo le fonti per meglio conoscere la storia di questi prodotti è il fatto che esse ebbero un forte e prevalente legame col mondo della produzione musicale ‘dal basso’, a discapito dell’attenzione ad altre tematiche. Certamente altri temi erano comunque trattati (si veda ad esempio il caso della fanzine bolognese Coca-Scola la quale, pur trattando prevalentemente di musica, non disdegnava però di allargarsi anche ad altri argomenti). Occorre però una precisazione circa la nascita di questi prodotti e viene in aiuto Gianluca Umiliacchi, vicepresidente di Fanzine Italiane la quale è una associazione (definita come ‘fanzinoteca’) volta a fare da archivio a questo genere editoriale. Nell’ottobre del 2006, Umiliacchi rilascia un’intervista6 al portale fanzineitaliane.it nella quale afferma:

«Anche se la storia delle fanzine come le consociamo oggi affonda le proprie radici nella seconda metà del ‘900, già a metà del ‘500 possiamo scorgere i primi germi di questo tipo di pubblicazioni, nei cosiddetti “Fogli volanti”». E prosegue dicendo: «Questa produzione culturale, all’origine dell’editoria, era diffusa sostanzialmente dai girovaghi assieme al materiale effimero. Con l’evoluzione del mercato editoriale arriva ad avere una grande diffusione, specialmente nella seconda metà dell’Ottocento. I fogli volanti si 64


L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

Copertina de Weird Tales, maggio 1934. Disponibile presso https://it.wikipedia.org/ wiki/Pulp_magazine#/ media/File:Weird_ Tales_May_1934.jpg

«Le fanzines, infatti, nascono in Italia, come già accaduto negli altri paesi, per rispondere ad un bisogno di informazione prepotente su dei fenomeni di insubordinazione musicale che sfuggivano fin dall’origine al controllo delle case discografiche maggiori, che poi sono quelle che determinano il livello ed i temi dell’informazione discografica ufficiale. Questa frattura fra una produzione 65

3

GIACOMO MAZZONE

fig.3

diffondono soprattutto fra il popolo sotto le spoglie di indovinelli, delle cicalate e delle canzonette, attraverso cui emergono la vita quotidiana del lavoro nei campi, i fatti storici, i contrasti per amore, i lutti e le guerre. Insomma, una produzione editoriale che taglia trasversalmente tutta la società e che rappresenta una delle prime forme di divulgazione di quei documenti antagonisti al potere costituito. Si tratta comunque di una circolazione sempre estremamente limitata. Queste opere difficilmente riescono a salvarsi dalla distruzione fisica, poiché il loro scopo è quello di circolare il più possibile, passando di mano in mano, fino a scomparire per usura. Sono stati così compiuti i primi passi verso la diffusione delle informazioni di carattere più spontaneo, meno preoccupate della forma ma più aderenti al vivo degli avvenimenti, proposte con toni senza dubbio realistici e spesso anticonformisti, ma pur sempre vicini alla coscienza popolare. La vera svolta per la nascita delle fanzine arrivò, però, negli anni ’20 del novecento con i pulp magazine americani. Queste riviste, stampate su carta scadente e scritte con un linguaggio comprensibile a tutti, erano economicamente accessibili ad ampi strati di popolazione ed ebbero subito un enorme successo». È importante quanto qui affermato da Umiliacchi per capire come, ancora una volta, trovare una ‘data di nascita’ precisa sia alquanto difficoltoso. L’intervistato trova comunque nei pulp magazine americani degli anni Venti del XX secolo un plausibile predecessore delle fanzine che vedono una ‘esplosione’ nella seconda metà del Novecento, infatti continua: «Nel giro di pochi anni, dallo spazio angusto delle pagine dei magazine, gli appassionati conciarono a riunirsi fisicamente in piccoli gruppi all’intero di fan club, con lo scopo di avere un contatto più diretto tra loro. […] Questi gruppi hanno continui rapporti tra loro, e per rendere ancora più chiara e rapida la comunicazione ricorrono alla creazione delle prime stampe libere, cioè bollettini interni in grado così di approfondire quei discorsi non del tutto presenti nei pulp magazine. In questo contesto si sono mossi i primi passi che hanno portato alla nascita, in modo del tutto spontaneo, dei primi esemplari della fanzine. Le prime fanzine americane sono così la voce degli appassionati che in questo modo riescono a confrontarsi tra loro e, soprattutto, possono “andare oltre” le informazioni che arrivano dal mondo delle riviste ufficiali, creando essi stessi i presupposti per una conoscenza e una comunicazione più libera». Resta però il fatto che le fanzine come oggi vengono conosciute sembrano essere legate in modo indissolubile a fenomeni musicali grassroots, come afferma il già citato Mazzone in un’altra sua pubblicazione chiamata Compra o Muori, edita da Stampa alternativa nel 1983:


CAPITOLO TERZO

musicale stimolante ed indipendente (ma trascurata dai mezzi di comunicazione ufficiali) ed un’informazione musicale specializzata che s’interessava solo di musicisti pompati dalle case discografiche, ma non più seguiti dal nuovo pubblico emergente, ha fatto sì che ci fosse bisogno delle fanzines». Questa citazione di Mazzone è utile per capire per quanto la situazione dell’Unione Sovietica che fece nascere le Samizdat e quella qui descritta da lui stesso siano chiaramente due cose differenti, si può però affermare che – in qualche modo – anche la produzione fanzine, di ‘fogli impaginati male e rilegati peggio’ nasceva da una situazione di disagio. La volontà di crearsi degli ‘alvei’ in cui il ‘fandom’ (neologismo inglese che nasce dalla contrazione dei termini ‘fan’ e ‘kingdom’) potesse parlare di ciò che davvero gli stava a cuore aveva sì una carica ‘positiva’ ma anche uno slancio di tipo ‘antagonistico’, di ‘essere contro’ l’informazione ufficiale:

«[Le fanzine] rappresentano nella stampa quello che il ‘punkrock’ ha rappresentato in campo musicale» 4

affermavano i già citati Mazzone e Alferj. Si ritiene che ciò sia interessante per capire anche un fenomeno dei giorni nostri: il corpus di magazine grassroots presi in esame più avanti in questa trattazione è composto da prodotti in larghissima parte concepiti nel Regno Unito e non si ritiene che ciò sia un caso: si ritiene piuttosto che questa realtà dei fatti sia dovuta al fatto che negli anni Sessanta e Settanta fu proprio il Regno Unito, per l’Europa, la culla del fenomeno punk: realtà come i Sex Pistols, per citare un esempio, fomentavano la nascita di fanzine (o punkzine che dir si voglia) come Sniffin’ Glue, che Vittore Baroni nel 1993 in Rumore definisce come «la prima e la più influente e anche la più venduta delle fanzine», nata nel 1976 per mano del disoccupato londinese Mark Perry. Per sottolineare il forte legame di questa esperienza col mondo musicale punk, basti pensare al fatto che il nome stesso della fanzine si rifaceva a una canzone del complesso punk statunitense The Ramones, ovvero Now I wanna sniff some glue. Oltre a questo fattore di ‘ra-

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L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

dici storiche’ proprie del Regno Unito, bisogna anche guardare al fatto che ancora oggi le ‘sfide burocratiche’ che devono essere affrontate in Italia e nel Regno Unito per poter vendere una pubblicazione sono molto diverse, come ancora affermano Alferj e Mazzone in I fiori di Gutenberg:

«Particolarmente grave qui da noi è il problema della distribuzione, oltre a quello della stampa, non essendoci posti fissi in cui portare il giornale. Altro problema è la sua legalizzazione, piuttosto complicata e difficile da ottenere, a differenza, ad esempio, dell’Inghilterra, dove si può vendere un giornale senza autorizzazione».

fig.5 Copertina de Sniffin' Glue (novembre 1976). Immagine disponibile presso https://s-mediacache -ak0.pinimg.com/736x/ 54/b8/7c /54b87c3912367da 56460b2 5f9c510187.jpg

In chiusura di questo paragrafo, si vuole evidenziare come pur essendo il fenomeno dell’editoria grassroots odierna e che fa parlare di sé (come si vedrà nel prossimo punto) qualcosa che affonda le proprie radici nel passato, esso abbia una forte differenza coi propri ‘antenati’. In realtà vi è più di una discriminante, ma quella che ora preme sottolineare sta nel fatto che questi prodotti, specialmente le cosiddette fanzine e affini, si caratterizzano per una certa ‘arrabbiatura’ nel loro essere ‘contro’ le istituzioni, l’informazione ufficiale e così via. Difatti, leggendo del materiale bibliografico per redigere questo paragrafo, non è raro leggere di come questi prodotti e i loro creatori si ponessero come ‘antagonisti’ in aperta ostilità con ciò che era ‘costituito’. Ad esempio, leggendo una recensione su lamette.it del libro Rumore di carta – Storia delle fanzine punk e hardcore italiane dal 1977 al 2007 del 2007 scritto da Diego Curcio e pubblicato da Red@azione, le fanzine vengono etichettate come

DIEGO CURCIO

Copertina de Sniffin' Glue (settembre 1976). Immagine disponibile presso https://s-mediacacheak0.pinimg.com/736x/ dc/11/22/ dc1122ab390a2fdd 9d77653f0175a749.jpg

«Un’isola antagonista, popolata da individualità fortissime che si abbracciano, si scontrano e si dilaniano tra loro in pericoloso Frankenstein ideale». Oppure, ancora, Gianluca Umiliacchi nella sua già menzionata intervista rilasciata nel 2006 a fanzineitaliane.it parla delle fanzine come di

«Una delle prime forme di divulgazione di quei documenti antagonisti al potere costituito». Oppure ancora Mazzone, che nel già citato libro Compra o Muori, parlando della produzione di fanzine italiane dal 1977 in poi, parla delle «arrabbiate fanzine Attack di Bologna, Alternative Music di Roma, Krysi, Black out rock di Torino» e così via. Ecco, quel che oggi accade nell’editoria grassroots si ritiene sia qualcosa di diverso: questo tono antagonista (si pensi anche al termine ‘controgiornale’ utilizzato in quegli anni) sembra essere venuto meno. La produzione bottom-up di oggi non sembra avere più quel carattere, non è un semplice ‘essere contro’ le istituzioni: è qualcosa di più complesso. Viene qui in aiuto Spreadable Media, redatto da Henry Jenkins, Sam Ford e Joshua Green (si veda la bibliografia). In questa pubblicazione, ad un certo punto si afferma:

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HERNY JENKINS, SAM FORD e JOSHUA GREEN

fig.4


CAPITOLO TERZO

«Quel che si guadagna nell’ampliare l’accesso alle piattaforme mediali in un mondo digitale spesso viene dipinto come una resistenza alle industrie dei media mainstream. Per esempio, sia portavoce dell’industria che attivisti e blogger hanno spesso descritto il potere crescente de ‘la blogosfera’ come una sfida ai giornalisti e ai media commerciali, parlando del declino dell’autorevolezza dei ‘big media’ o della minaccia che queste fonti mediali libere pongono alle istituzioni e alle pratiche ‘tradizionali’» e si continua, però, affermando:

«Tuttavia, come certi esperti hanno commesso l’errore di dare un ordine di priorità alle attività del pubblico sulla base del livello di competenza tecnologica coinvolto, molti hanno analogamente letto la creazione di media grassroots esclusivamente come una forza di opposizione o di rivoluzione contro i media commerciali. Quello che sta succedendo, invece, è un po’ più complesso». Questa complessità di cui si parla consiste nel fatto che:

«Questo porre l’accento sulla ‘resistenza’ è coerente con il modo di parlare degli autori nel solco della tradizione di critical e cultural studies a partire dagli anni Ottanta. Gli accademici di oggi è molto più probabile che parlino di politica basata sulla ‘partecipazione’, rispecchiando un mondo in cui il potere dei media sta in misura maggiore nelle mani di cittadini e membri del pubblico, anche se i mass media continuano ad avere una voce privilegiata nel flusso delle informazioni. La sintassi ci dice qualcosa di importante su questi due modelli. Facciamo resistenza contro qualcosa: ci si organizza per opposizione contro un potere dominante. Si partecipa invece a qualcosa, si ha parte in qualcosa, cioè la partecipazione è organizzata in e attraverso collettività e connettività sociali». Si ritiene che quanto affermato in queste ultime tre citazioni sia fondamentale da tenere a mente guardando al fenomeno odierno dell’editoria che nasce dal basso: è più che un semplice essere contro qualcosa che si ritiene poco interessante o poco credibile. Certamente questo aspetto fa parte delle motivazioni per cui questo fenomeno esiste ma non basta ad

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L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

esaurirlo, non fosse altro che per il fatto che gran parte delle esperienze editoriali presentate in questa narrazione non hanno minimamente toni ‘da antagonisti’. Un esempio è il magazine brand inglese Anorak, che tratta di infanzia ed è rivolto ai bambini. Quanto spiegato da Jenkins, Green e Ford serve anche per motivare ulteriormente la scelta semantica di cui si è parlato precedentemente in questo paragrafo: si ritiene che parlare di media ‘grassroots’ piuttosto che di media ‘indipendenti’ abbia anche una connotazione che fa rischiare di meno di percepire questi prodotti come qualcosa di ‘contro’ e di ‘alternativo’. Anche perché – si vedrà più avanti – questi prodotti editoriali non si ritiene si possano definire nemmeno più ‘alternativi’ in quanto non si pongono come alternativa – in buona parte dei casi – all’attuale ‘agone dei media’. O meglio: in un certo senso lo fanno, ma con modalità e fini differenti rispetto ai casi qui presentati.

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CAPITOLO TERZO

7 Leslie Jeremy (2003) Si veda la bibliografia.

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fig.6

JEREMY LESLIE

Copertina de Leslie Jeremy (2003) Si veda la bibliografia.

3.2 OGGI: PRESENTARE UN FENOMENO A PARTIRE DA QUELLO CHE NASCE ATTORNO AD ESSO In questo punto del terzo capitolo della trattazione si vuole iniziare a focalizzarsi in modo più preciso su quanto accade al giorno d’oggi tramite una precisa lente di ingrandimento: quella costituita dalla produzione attorno al fenomeno preso in esame. Si andranno quindi a presentare diversi oggetti: la produzione letteraria, i portali web inerenti questo tema, qualcuno dei tanti eventi ad esso inerenti, qualcuno dei tantissimi awards. Non si è ritenuto opportuno, per questa parte del discorso, esaminare anche la produzione di ‘testi’ (nel senso più ampio di questo termine) prodotti da persone ed enti che non sono ‘immersi’ in questo campo. Questo perché si preferisce tentare di mettere in luce il fatto che è un mondo che è in se stesso vivo, ‘parlante’: ciò che poi dall’esterno viene detto in merito ad esso è un’altra questione. La prima categoria di oggetti che si intende presentare è costituita da alcuni libri. Infatti, per quanto larga parte delle fonti per redigere questa tesi sia stata trovata sul web, pochi e ‘mirati’ libri cartacei hanno svolto una funzione essenziale nei confronti di chi scrive, per permettergli di conoscere meglio questo variegato mondo. Il primo libro è il meno recente: si tratta di una pubblicazione7 di Jeremy Leslie, pubblicata nel 2003 dall’editore Laurence King. Già la data di pubblicazione in se stessa fa intendere come, per quanto ‘contemporaneo’ sia il fenomeno in questa trattazione analizzato, esso riscuotesse attenzione già diversi anni fa. Il titolo è magCulture: new magazine design e si tratta di una raccolta di saggi (alcuni autografi dell’autore, altri no) e interviste volte a ‘sentire il polso’ del mondo della produzione di editoria periodica fino al 2003. Ci si concentra per lo più su prodotti inglesi, così come fanno anche i libri che verranno successivamente presentati in questo paragrafo. Jeremy Leslie è attualmente creative director del blog magCulture nato nel 2006, che ha preso il nome proprio dal libro di cui si sta parlando. Leslie vanta un’esperienza di circa trent’anni nel mondo editoriale: ha curato la direzione artistica di prodotti come BSkyB, Virgin Atlantic e altri. Oltre al blog, attualmente dirige anche lo studio creativo che dal blog stesso è nato nel 2010. La sua ultima pubblicazione, Independence, è anch’essa presente nel bacino di libri consultati per questa tesi e verrà presentata più avanti. Tornando ora a magCulture: new magazine design, l’aspetto più interessante che qui preme sottolineare consiste nel fatto che l’autore, parlando del fenomeno dell’editoria periodica allora in corso, usa spesso il neologismo ‘microzines’. Ci si permette qui di affermare come, una volta passati quattordici anni dal momento in cui Leslie pubblicò questo libro, il termine ‘microzines’ appaia ormai poco calzante con la realtà del fenomeno in atto. O meglio: ‘microzines’ è un termine che si ritiene possa essere usato, ma non per descrivere l’intero fenomeno dell’editoria grassroots contemporanea. Lo si può usare, al giorno d’oggi, per descriverne una porzione facente parte di uno ‘spettro’ più ampio, come verrà spiegato nel successivo paragrafo di questo terzo capitolo. Non bisogna però ritenere che nel 2003, per Leslie, il termine ‘microzine’

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L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

8 Jamieson Ruth (2015) https://www. theguardian.com/media/ shortcuts/2015/apr/06/catpeople-riposte-and-worksthat-work-the-niche-worldof-indie-magazines

descrivesse solo realtà ‘personali’ o ‘domestiche’: nel libro è presente un saggio di Michael Jacovides nel quale si parla di come queste ‘microzine’ (e soprattutto quelle inerenti il mondo della moda e del fashion) influenzino anche la produzione di magazine mainstream. Dopo aver parlato del termine ‘microzine’ che Leslie utilizza, ci si vuole concentrare su un altro aspetto di questa pubblicazione che si ritiene sia saliente: l’attenzione data ai brand magazine, agli house organ. Questo si ritiene importante per un aspetto che verrà approfondito più avanti nel corso della trattazione, ovvero ciò che concerne il ‘ricollocamento’ dell’oggetto magazine a fronte della crisi dei ‘magazine tradizionali’ come sono stati conosciuti lungo l’arco del Ventesimo secolo. Difatti, nel libro, è presente un breve saggio autografo dell’autore nel quale egli spiega come le riviste più vendute nel Regno Unito, almeno nel 2003, non fossero vendute secondo le tradizionali modalità:

«The highest circulation magazines in the UK are Sky Magazine, O Magazine and the AA Magazine. None of these titles are available on the newsstand, none are available by subscription». Quindi, già nel 2003, questo osservatore pienamente immischiato nel mondo dell’editoria periodica nota che vi sono delle – seppur non macroscopiche – ‘traslazioni’ del ruolo del magazine, e prosegue a parlarne affermando:

«Magazines have always been vehicles for communicating with consumers – the income from advertising is a vital part of magazine economics (in the US it is the vital part). So it was pheraps inevitable that advertisers and marketers would eventually make the jump from buying advertising space in consumer magazines to publishing their own magazines». fig.7 Copertina de Jamieson Ruth (2015) Si veda la bibliografia.

Si è coscienti del fatto che la produzione di house organ da parte dei brand non è cosa nuova, ma è comunque da notare – come verrà fatto anche nel corso del quarto capitolo di questa tesi – che qualcosa già nel 2003 si stava muovendo. L’ultimo tema cui si vuole qui accennare tra quelli trattati da Leslie in questo libro riguarda ‘le riviste come metodo per sentire il polso e i trend del graphic design’: in particolare, ci si riferisce ad una intervista fatta a Andy Cowles che narra di come, negli ultimi vent’anni, lo sviluppo di tecnologie sempre più accessibili abbia portato ad uno stravolgimento in ciò che vuol dire progettare un magazine: si tratta di un aspetto che verrà meglio approfondito più avanti nel corso di questo capitolo. Il secondo volume che è stato utile consultare per questa tesi è stato scritto da Ruth Jamieson. La Jamieson è senior strategic creative, copywriter e giornalista. Collabora con The Guardian (per cui ha, tra l’altro, scritto un articolo9 circa le nicchie tematiche dei ‘new indie magazines’) e nel marzo del 2015 ha pubblicato Print is Dead. Long Live Print - The World’s Best Independent Magazines con l’editore Prestel. 71

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CAPITOLO TERZO

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fig.8, fig.9 Doppie pagine de Jamieson Ruth (2015) Si veda la bibliografia.

9 King Alex (2015) http://www. huckmagazine.com/artand-culture/print/toppicks-print/living-indiepublishing-revolution/

Si tratta di un sostanzioso volume nel quale l’autrice stila una ‘rassegna’ di quelli che per lei sono considerabili – come recita il titolo del libro stesso – tra i migliori magazine indipendenti (ma qui si preferisce dire grassroots) in circolazione. Prima di passare a quello che è un effettivo elenco di titoli (brevemente presentati con l’aggiunta di un breve discorso da parte del fondatore di ogni rivista) la Jamieson scrive un’introduzione. Però, prima di riportare brevemente quanto enunciato dall’autrice nell’introduzione, si vuole citare una risposta che ella dà in una intervista9 rilasciata in data 11 marzo 2015 a Huck Magazine, uno dei magazine presi in esame in questo libro. L’intervistatore chiede alla Jamieson di raccontare proprio la genesi della sua ultima pubblicazione e, tra le altre, le rivolge questa domanda: «What makes a great independent magazine? How did you make your 72


L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

«I chose magazines that were gamechanging in some way. Either through their core idea, their art direction, their readership or their ethos. Magazines like Works That Work, WRAP, Riposte, Delayed Gratification, and of course Huck and Little White Lies. I included ones that didn’t just have great art direction and editorial but also had a strong, unique concept their core. It wasn’t enough to just be pretty. Selecting the magazines was very hard. At one point I had a shortlist of 225. I could easily have filled another three books. I hope that’s reflected in the incredibly high quality of the magazines that did make it in». Insomma: nel momento in cui all’autrice viene chiesto come abbia selezionato alcuni casi studio ed escluso alcuni altri, fa fatica a trovare criteri oggettivi di discrimine. Dire «I chose magazines that were game-changin in some way» non è certamente un metodo di selezione inopinabile. Questo apre una problematica che si tenterà di presentare più dettagliatamente nel seguente paragrafo del presente capitolo. Focalizzando ora l’attenzione su quanto la Jamieson afferma nell’introduzione del suo libro, si può dire che ella si concentri anzitutto sul declino dell’editoria periodica da lei stessa definita come ‘tradizionale’: si chiede se per sempre esisterà qualcosa come, ad esempio, Vogue. Spiega che per capire questa crisi bisogna anzitutto chiedersi chi siano al giorno d’oggi i veri ‘clienti’, fruitori dei magazine. Ella afferma:

«To truly understand the demise of print, we need to understand who its real customers are. Traditionally, magazines don’t make their money from the cover price […]. Magazines make their real money from selling advertising; to put in another way, they sell brand access to their readership. The magazine is not the product for sale – its readers are. Readers are not the customer – the advertisers are. The unspoken agreement between the publisher and the reader is the readers get cheap content in return for looking at some adverts. Meanwhile, advertisers get access to readers in return for funding the magazine. The upshot of this is that even if a magazine maintains its readership, if advertisers can reach that readership somewhere else, somewhere cheaper, more direct and measurable – like, say, online – then the magazine is in trouble. Digital attacks traditional magazines on two fronts: it erodes their readership and tempts away their advertisers». 73

RUTH JAMIESON

selection for the book?» a cui l’autrice risponde nel seguente modo:


CAPITOLO TERZO

L’autrice afferma quindi che, nel mercato dei magazine di stampo tradizionale, con un modello di business basato (quasi) totalmente sui guadagni provenienti dall’advertising, i veri clienti non erano i lettori bensì gli inserzionisti e sostiene che, con ciò che accade al giorno d’oggi e di cui ella dà una panoramica nel suo libro, la ‘clientela’ si stia traslando, cambiando:

RUTH JAMIESON

«And yet, look at any newsstand and you will see shelves stacked with more magazines than ever before. Fewer magazines may be being bought in total, but the number of titles on offer has never been greater. While the old-school, advertising-reliant magazine industry is shrinking, business is booming for a new generation of independent mags, which tend to be niche, largely ad-free, ideas-led, design focused and reader funded». La Jamieson prosegue facendo una affermazione con cui si trova pienamente d’accordo: dire che sia il web la causa del declino dell’editoria periodica ‘tradizionale’ è una verità detta solo a metà. Parlando del web afferma: «It can help even the most niche magazines find readers». Si ritiene che questa sia una cosa vera ma verrà poi analizzata più avanti nel corso di questa trattazione. Prosegue poi parlando chi siano i fautori, i fondatori di questi prodotti editoriali da lei osservati:

«For some, publishing is a labour of love, undertaken as a creative but unprofitable counterpoint to an unsatisfying day job. […] But for a significant number, magazines are not hobby projects or portfolio pieces but proper, grown-up, rent paying, person employing, family supporting businesses. […] These magazine maker aren’t just creative – they are entrepreneurs, and they reinvening an industry». Questa varietà di approcci presenti fra chi si lancia in una di queste avventure editoriali odierne costituisce una netta differenza con il mondo delle fanzine presentato nel precedente paragrafo. Infine, nell’introduzione, l’autrice parla di due aspetti chiave che riguardano i magazine da lei presentati: la distribuzione e l’advertising. Per quanto concerne la distribuzione, afferma brevemente che questi prodotti editoriali hanno chiaramente dovuto trovare nuovi metodi e nuove vie di distribuzioni diverse dai canali usati dall’editoria periodica mainstream. Cita l’esempio del distributore londinese di libri d’arte Antenne Books, che viene spesso utilizzato da questi magazine in quanto esperti nella distribuzione di prodotti editoriali ricercati. Viene anche menzionato il caso del servizio Stack Magazines, fondato dall’inglese Steve Watson: è una piattaforma che verrà brevemente presentata nel presente paragrafo, più avanti. Da ultimo, preme riportare quanto affermato dalla Jamieson in merito al rapporto che i magazine da lei presentati hanno con l’advertising, tradizionalmente ‘pilastro’ fondamentale nei modelli di business dei magazine di largo consumo. Ella afferma:

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L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

Lewis Angharad (2015) Si veda la bibliografia.

fig.10 Copertina de Lewis Angharad (2016) Si veda la bibliografia.

Non si è del tutto in accordo con quanto affermato dalla Jamieson: il panorama è molto variegato. È vero che in molti casi – alcuni dei quali verranno presentati più avanti in questo terzo capitolo – si possono riscontrare degli approcci innovativi operati nei confronti del rapporto con altri brand e con gli inserzionisti pubblicitari, ma non si ritiene corretto dire «Indie magazine maker reject advertising, first so as not to spoil the ‘flow’ of their magazines and to ensure they really do create each issue for the readers, and no one else»: esistono diversi casi di magazine i cui fondatori affermano che le inserzioni pubblicitarie erano qualcosa che fin dalla progettazione veniva messo in conto, sia per ovvi motivi di sostentamento economico dell’azienda sia per arrivare a costituire – in alcuni casi – l’advertising stesso ‘contenuto di valore’ per i lettori, questo andando oltre al tradizionale ‘accostamento tematico’ tra advertising e contenuto editoriale degli articoli presenti nella rivista. In parziale disaccordo con questa affermazione della Jamieson potrebbe essere anche Angharad Lewis, autrice di So you want to publish a magazine?10 pubblicato da Laurence King nel 2016. Angharad Lewis è attualmente, tra le altre cose, editor di Grafik, blog nato dalle ceneri di una precedente esperienza su carta stampata. Oggi Grafik è una delle più autorevoli voci online per quanto riguarda la design inspiration, su più discipline. Una di queste è sicuramente l’editorial design. Concentrandosi sull’ultima pubblicazione della Lewis, So you want to publish a magazine? è una raccolta di esperienze (sotto la forma di interviste) a cinquanta attori del mondo dell’editoria periodica. Si spazia dai creatori stessi delle testate fino a personaggi ‘tangenziali’ ma che hanno cose essenziali da dire su questo mondo come distributori, stampatori o inserzionisti pubblicitari. Si potrebbe dire che si tratta di un vasto vademecum per chi volesse cimentarsi nella creazione di un magazine brand grassroots al giorno d’oggi. Uno degli obiettivi del libro, dichiara la Lewis nella prefazione, è quello di rappresentare i poli dell’editoria indipendente (dai ‘bedroom projects’, come lei li definisce, a ‘successful business ventures’): questo concetto dei ‘poli’ verrà analizzato meglio nel successivo paragrafo. Prima si affermava che la Lewis potrebbe trovarsi in disaccordo con quanto affermato dalla Jamieson in merito al rapporto tra editori indipendenti (grassroots) e inserzionisti pubblicitari. Si afferma ciò per via del fatto che la Lewis dedica un’intera sezione del suo libro alla questione dell’advertising. In tale sezione del libro, la posizione dei vari intervistati è molto diversificata: c’è chi rifiuta il rapporto con esso e chi invece, come Agerman Ross (direttrice di Disegno) afferma:

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ANGHARAD LEWIS

«Indie magazines are also defined by their fresh approach to advertising. Ads are either minimal, carefully curated, specially created or completely absent. Indie magazine maker reject advertising, first so as not to spoil the ‘flow’ of their magazines and to ensure they really do create each issue for the readers, and no one else».

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CAPITOLO TERZO

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fig.11, fig.12 Doppie pagine de Lewis Angharad (2016) Si veda la bibliografia.

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Leslie Jeremy (2016) Si veda la bibliografia.

C’è, inoltre, anche chi mostra modi innovativi di includere la pubblicità all’interno del proprio prodotto, come nel caso di Offscreen. L’ultimo di questa serie di libri che si intende menzionare è Independence – 12 interviews with magazine makers11 scritto dal già citato e presentato Jeremy Leslie. Una delle tematiche più interessanti toccate dal libro in questione è sicuramente la questione della ‘indipendenza’: cosa significa ‘indipendente’? Nell’introduzione, l’autore scrive:

«We know them as ‘independent’ magazines, a vague term that – having largely seen off the ‘what a magazine’ query – now invites the question, ‘what is independent’? What that term defines is a clear distinction from the mass, mainstream magazine market».

fig.13, fig.14 Copertina e doppie pagine de Leslie Jeremy (2016) Si veda la bibliografia.

Anche qui, come nel caso della risposta data dalla Jamieson al suo intervistatore, la risposta non è dai confini netti, oggettivi: è davvero difficile (chi scrive ritiene sia addirittura impossibile) tracciare una linea pulita di demarcazione tra cosa è e cosa non è indipendente. Si tratta, come già detto, di una problematica che verrà meglio affrontata nel successivo paragrafo. Sul già citato blog magCulture è presente una presentazione de Independence

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JEREMY LESLIE

«Ads are something that complements our content. I have always seen ads as a valuable part of the magazine».

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JOANNA AGERMAN-ROSS

L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

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CAPITOLO TERZO

nella quale si afferma che il libro si pone anche le seguenti domande: «Why did these people launch a magazine now? What day are the day-to-day challenges do they face? What is the toughest part of the role? What is success? Is independence on it own a trait that matters?» sottolineando come

«these projects are growing beyond their DIY roots to become serious businesses».

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fig.15 Screenshot della sezione FAQ del portale de Stack Magazines. (27 febbraio 2017)

Il libro si compone dello sbobinato di dodici interviste realizzate da Jeremy Leslie durante l’edizione del 2015 del festival annuale Pick Me Up a fondatori di testate cosiddette ‘indipendenti’: personaggi come Rob Anderson (Printed Pages), David Lane (The Gourmand) e altri. Oltre ai libri appena presentati, per mostrare come quello analizzato sia un mondo ‘in fermento’ e ‘dialogante’ si possono prendere in osservazione i diversi portali online e blog che nascono attorno ad esso. Queste piattaforme si potrebbero dividere per tipologie: i siti ‘vetrina’ sono un primo esempio. Di questa categoria fa parte, tra gli altri, indiemags.de: si tratta di una piattaforma tedesca nella quale vengono presentate le testate e di ognuna di esse vengono scritte delle caratteristiche, oltre al sito o pagine social per indirizzare chi poi è eventualmente interessato all’acquisto. Un secondo esempio è costituito dal caso di Stack Magazines, una piattaforma ideata da Steve Watson. Si tratta di un servizio grazie al quale chi vi si abbona può ricevere a casa (mensilmente) una selezione di magazine tra quelli presenti in catalogo. Non è possibile selezionarli, come scritto nella sezione Frequently Asked Questions del portale: «Each Stack delivery is a surprise, so there’s no way of knowing which magazines you’ll receive. But we can guarantee they’ll be top quality – take a look at the Stack roster to see for yourself». Ogni volta è quindi una sopresa, ma è possibile almeno verificare la qualità dei prodotti presenti in catalogo visitando la sezione Stack roster del sito. La cura con cui la presentazione delle riviste è fatta è molto alta: anzitutto, le Video review sono brevi audiovisivi che consentono di farsi efficacemente un’idea di come una tal rivista sia da sfogliare. In secondo luogo, ogni magazine è anche presentato grazie ad una intervista al proprio fondatore. Un paradosso riguardante questa piattaforma consiste nel fatto che, almeno teoricamente parlando, trattandosi di prodotti spesso assai di nicchia per i temi particolari trattati, una vendita ‘random’ di un certo numero di pezzi dovrebbe funzionare poco. Il fatto che però questo scoraggiamento non si registri fa presupporre che le decisioni di abbonamento a questo servizio siano per lo più guidate da motivazioni, se così si può dire, ‘estetiche’: la ricerca di ‘pezzi belli’, aldilà poi del tema che desta più o meno interesse. Ciò sembra essere un indicatore – seppur parziale – del fatto che l’affermazione “Graphic design in indie magazines is content” (che verrà guardata più attentamente nel successivo paragrafo) ha qualcosa di vero. Sempre a riguardo di questa tematica dettata – in qualche misura – dalla ricerca estetica, si può citare il caso di Cover Junkie. Si tratta di un servizio ideato da Jaap (pseudonimo) il quale l’ha fatto nascere dal preesistente 78


L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

Screenshot della homepage del portale de Cover Junkie. (27 febbraio 2017)

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LUCA PIANIGIANI e GIOVANNA SALA

fig.16

blog da lui creato. Quando un utente si registra a Cover Junkie ha la possibilità di ‘pinnare’ (come avviene sulla piattaforma Pinterest, ad esempio) le cover dei magazine che ritiene più interessanti per salvarle in una propria bacheca personale. Oltre a ciò, l’utente ha anche la possibilità di proporre, tramite un form, delle cover da caricare sul sito. Un ulteriore esempio di piattaforma online si discosta dai due appena citati: si tratta di magCulture (fondato nel 2007 dal già menzionato Leslie) il quale è ormai diventato un’autorità nel mondo dell’editoria grassroots, online e stampata. Di fatto, il blog è solo una parte di un progetto più ampio: oltre ad esso esistono magCulture Shop (un negozio fisico che si trova a Londra), una piattaforma e-commerce e magCulture Studio. Un altro esempio, più simile al già citato Grafik in quanto più di respiro generale sul design, è il blog It’s Nice That, anch’esso parte di un progetto più ampio contenente, tra l’altro, anche un magazine brand semestrale cartaceo dal nome Printed Pages. It’s Nice That viene fondato nel 2007. Esiste una realtà ritenuta interessante anche in Italia: si tratta di MGZN – Riviste, in breve fondato da Luca Pianigiani e Giovanna Sala. Si tratta di una piattaforma che i due fondatori portano avanti parallelamente ad altre attività (ad esempio, Pianigiani e la Sala hanno realizzato il primo magazine su iPad italiano dal nome JPM) e la funzione primaria sembra essere quella di essere un ‘osservatorio’ di ciò che accade nel mondo dell’editoria grassroots in paesi in cui, a detta dei fondatori, questa cultura è più diffusa (primo caso fra tutti, quello del Regno Unito). Ad esempio, la Sala partecipa ogni anno a The Modern Magazine, festival dell’editoria indipendente organizzato dal blog magCulture a Londra. Di quanto osservato e ascoltato stende poi un dettagliato report consultabile liberamente online, in lingua italiana. Oltre alla funzione di ‘osservatorio’, certamente un secondo obiettivo che Pianigiani e la Sala si pongono è quello di ‘portare’ in Italia, per quanto nelle loro forze, un po’ di questa cultura organizzando cicli di incontri e seminari con personaggi stranieri come ad esempio lo stesso Jeremy Leslie. Sono tutti visibili sul loro canale YouTube. Spesso, di pari passo con queste realtà sul web, vi sono degli eventi. Per la verità, gli eventi ed i festival sono anche una di quelle fonti di guadagno ‘alternative’ che diverse testate grassroots tentano di adottare, e di cui si parlerà più in dettaglio successivamente. Vi sono eventi annuali come invece cicli di incontri mensili. Un esempio di quest’ultima tipologia è Nicer Tuesdays, organizzato da It’s Nice That. Un caso interessante, tra tutti quelli che sarebbe possibile nominare, è l’evento spagnolo C’mon Papel. Si ritiene interessante poiché esso è sì un festival riguardante la tematica della ‘editoria indipendente’ in generale, ma vi è un accento particolare posto sulle problematiche riguardanti la distribuzione, uno dei problemi chiave e più gravosi che i maker di questi magazine brand hanno da affrontare. L’ultimo evento che si vuole presentare è quello di SPRINT – Independent Publishers and Artists’Books Salon che si tiene a Milano. La prima edizione avvenne nel 2013 e il sottoscritto ha visitato l’ultima tenutasi dal 25 al 27 novembre 2016. La sensazione, visitando tale evento, è stata quella di avere davanti a sé una larga produzione (e autori) di riviste grassroots che però si andavano tutte


ALBERTO MOTTA

CAPITOLO TERZO

a collegare all’estremo che si potrebbe definire ‘del progetto personale e restrittivo’ di cui si parlerà più approfonditamente nel paragrafo successivo. La sensazione era quella di autori che avevano interesse solamente per la carta in se stessa, senza che vi fosse – almeno, per i casi visti – un’intenzione di gettarsi nell’‘agone’ dei media ‘diffondibili’ (di cui si parlerà in seguito). Un esempio è sicuramente Rivista Letteraria, ideata e realizzata da Alberto Motta, pubblicista e curatore video Wired Italia. Oltre che con il sottoscritto, Motta ha parlato della sua creazione anche in un’intervista rilasciata in data 19 novembre 2014 a modalitademode.com. In questa intervista, Motta descrive la sua rivista come un incrocio «tra una fanzine punk e una rivista letteraria. Ma ci trovate dentro anche dei quadri molto belli. Per dirla altrimenti: è una rivista indipendente quadrimestrale che pubblica i migliori scrittori italiani ed esteri. Nasce al Bar Picchio di Milano». Chiaramente, essendo lui lavoratore presso Wired Italia, Rivista Letteraria non costituisce ‘il suo lavoro’, anche perché si tratta di un prodotto che viene distribuito gratuitamente.

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L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

3.3 MEGAN LE MASURIER: IL SUO TENTATIVO DI DEFINIZIONE DI ‘MAGAZINE’ E LA NECESSITÀ DI UNO ‘SPETTRO’. QUALE POSIZIONE PER I ‘MAGAZINE INDIPENDENTI’?

11 Le Masurier Megan (2014) Si veda la bibliografia.

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Maillard Chris (2013) http://flippingpagesblog. com/what-is-a-magazinechris-maillard/

«It’s alway been difficult to establish what a magazine actually is, and near-impossible to get a consensus on that». Questa enorme difficoltà è notata anche, fra gli altri attori, anche da Peter Houston, citato dalla studiosa australiana:

«Over the last decade magazines and magazine publishing have changed beyond recognition. No one really knows what a magazine is – or should be – anymore. What was once a simple noun has become the subject of an existential debate along the lines of “Is there a God?” or “Can violence ever be justified?”». Quando Peter Houston afferma che i magazine sono cambiati lungo il corso degli ultimi decenni si riferisce, è facile presumerlo, al fatto che con l’avvento di Internet la questione si è andata enormemente complicando. Non è certo più sufficiente fare riferimento alla etimologia della parola ‘magazine’ per poter giungere ad una soluzione. La radice della parola ‘magazine’ risiede nella lingua araba, nella quale il vocabolo ‘makhazin’ è il plurale di ‘makhzan’ che indica il magazzino, il luogo votato a riporre le cose, gli oggetti. In tempi relativamente recenti, la parola ‘magazine’ venne associata al titolo della pubblicazione per la prima volta nel 1731, quando uscì il primo numero de The Gentleman’s magazine, edito a Londra. Si trattava di una pubblicazione volta, per l’appunto, a fare da ‘magazzino’ di 81

CHRIS MAILLARD

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Fino a questo punto della trattazione non si è esplicitamente cercato di ‘definire’ l’oggetto ‘magazine’ ma, ora che si intende tentare di ‘dare una collocazione’ ai cosiddetti magazine indipendenti (ma che, come è già stato spiegato in precedenza, si preferisce chiamare ‘grassroots’) presi in esame, viene in aiuto la docente universitaria Megan Le Masurier. La Le Masurier insegna all’Università di Sidney ed è parte del dipartimento Media and Communication. Ha lavorato per diverso tempo nel settore dell’editoria periodica come direttrice e giornalista ed oggi è ricercatrice nelle aree dello slow journalism e dell’editoria bottom-up: le sue indagini in questi campi hanno fatto sì che il sottoscritto trovasse ciò che l’autrice pubblica come qualcosa di molto utile e profondamente legato a ciò che viene discusso in questa trattazione. In questo paragrafo della tesi si vuole prendere in considerazione due pubblicazioni della studiosa australiana. La prima si chiama What is a Magazine?11 e la seconda è Independent magazines and the rejuventation of print12 e si intende utilizzare questi due documenti come base per aprire altre direzioni di riflessione che esulano dal contenuto dei due testi stessi. Prima di entrare nel merito di quanto la studiosa afferma in What is a Magazine? occorre farvi una premessa: l’autrice stessa coglie la estrema difficoltà provocata dal tentare di dare una definizione esaustiva e univoca all’oggetto in questione. L’impresa è resa ancora più ardua dall’avvento del web e del digitale. Afferma Chris Maillard in un articolo13 pubblicato nel 2013 sul blog Flipping Pages:

PETER HOUSTON

Le Masurier Megan (2012) Si veda la bibliografia.


CAPITOLO TERZO

informazioni per i propri lettori: si spaziava dalla poesia fino al costo delle materie prime. Come però nota la Le Masurier, limitarsi ad affermare che un magazine è un ‘contenitore di oggetti’ è qualcosa di troppo generico: MEGAN LE MASURIER

«But that is far too general. A book is a storehouse of information. So is a newspaper for that matter. The storehouse however does direct us to the miscellany – ‘a form marked by variety of tone and constituent parts’– and the first magazines did indeed display miscellaneous content that distinguished them from newspapers or books (although books can be a miscellany too)». La studiosa prosegue quindi dicendo come vi siano state figure, ad esempio quelle di Tim Holmes e Liz Nice, che si sono limitate ad affermare che i magazine si possono suddividere in quattro macrocategorie: ‘consumer’, ‘B2B’ (business-to-business), ‘customer’ ed ‘electronic’. Gli autori ne parlano nella loro pubblicazione Magazine Journalism del 2012 edita da SAGE. Questa categorizzazione risulta debole immediatamente sia alla Le Masurier sia a chi scrive: non si ritiene un’operazione corretta quella di fare di ciò che è ‘electronic’ una categoria in quanto ciò che sta avvenendo nel presente è una sempre più decisa sfocatura dei confini che segnano la specificità dei singoli media, come testimoniato anche dai tentativi di elaborazione di ‘nuove metriche’ per la rilevazione del consumo mediale di cui si è parlato nel secondo capitolo di questa tesi. Ci sono attori che si sono basati su criteri differenti per categorizzare i magazine. Ad esempio, John Morrish e Paul Bradshaw in Magazine Editing – In print and online edito da Routledge nel 2011 tentano una categorizzazione operata a partire dai modelli di business di questi prodotti: ‘reader-funded publishing’ e ‘advertiser-funded publishing’ ed infine ‘promotion publications’ (prodotti editoriali volti a promuovere e comunicare l’azienda che la produce). Anche la Periodicals Publishers Association (PPA) redige, nel 2011, una propria definizione parlando dell’esistenza di quattro categorie: ‘consumer media’, ‘specialist consumer media’, ‘business media’ e ‘customer media’. Parlando di queste diverse categorizzazioni, la Le Masurier afferma:

«However we categorise the universe of magazines, the range indicates their ability to speak to and for almost every conceivable general or niche interest and market. Because of this, defining a magazine via categories of subject matter or revenue models is unlikely to be helpful». L’autrice va quindi alla ricerca di altri metodi per poter capire cosa effettivamente un magazine sia e quali caratteristiche di essi si debbano considerare per definirli. Per fare ciò, sostiene che sia necessario andare oltre il magazine come oggetto in se stesso:

«it needs to be considered as a range of practices».

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«To many it’s no longer clear exactly what a magazine is; to others the shake-up had opened their eyes to what it always was: something that cannot be reduced to mere paper». Insomma, una ‘crisi’ che ha avuto in qualcuno l’effetto di generare smarrimento e che, invece, ha in altri aperto gli occhi su cosa il magazine è sempre stato, anche prima dell’arrivo delle tecnologie digitali: qualcosa che non può essere ridotto alla mera carta stampata. Qualcosa che va oltre il medium, il mezzo, come già prima affermato dalla Le Masurier quando afferma di dover andare oltre all’oggetto in se stesso. È qualcosa che trascende il mezzo, e che in diversi mezzi (moltiplicatisi negli ultimi decenni) si manifesta. Vengono in aiuto anche delle parole di Andrew Losowsky, contenute in Colophon 2009 international magazine symposium Luxembourg press kit:

«Be it online, downloaded, could be a poster, could be graffitied on a wall». Il primo apporto alla riflessione contenuto in questo paragrafo della Le Masurier risiede, quindi, nel fatto che per capire cosa i magazine siano è necessario ‘esulare’ dal medium, dalla piattaforma a sé stante. È questa, per altro, una riflessione che risulta in linea con quanto affermato non solo dagli addetti ai lavori di questo mondo, ad esempio fra quelli intervistati dalla Lewis per il suo libro So you want to publish a magazine?, ma è qualcosa in linea anche con le necessità di rinnovo dei metodi di rilevazione della penetrazione dei prodotti mediali nell’audience così come esposto nel secondo capitolo. Il secondo paragrafo (Magazine have an editorial philosophy) si concentra sul fatto che questi prodotti hanno, appunto, una filosofia editoriale, una visione (quest’ultimo è un termine utilizzato dalla Le Masurier stessa) che guida la selezione dei contenuti da pubblicare e come questi vengono trattati sotto diversi punti di vista. Chiaramente, anche altri prodotti editoriali – ad esempio i quotidiani – sono guidati da una linea editoriale, ma si tratta di qualcosa di differente: nel caso dei magazine non si risponde alla logica temporale delle news da dare ai propri lettori ma si tratta di una attività dal carattere più riflessivo, di interiorizzazione delle tematiche e poi della restituzione ai propri lettori sotto la guida di una data filosofia editoriale. A tal proposito sono utili le parole del graphic designer svizzero Ludovic Balland, contenute in Turning Pages – Editorial design for print media pubblicato da Gestalten nel 2010:

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ANDREW LOSOWSKY

Dopo aver affermato ciò, l’autrice redige sette paragrafi (di cui si prendono qui in esame i primi cinque) nei quali tenta di mettere in luce come l’oggetto di studio sia stato definito, in ognuno dei sei casi, a partire da un certo aspetto di esso. Il primo di questi si chiama Magazines as medium ed in esso l’autrice nota come spesso, a partire da quando le evoluzioni tecnologiche hanno fatto in modo che il magazine non fosse più semplicemente e solamente un oggetto fatto di carta stampata, in molte persone sia sorta la confusione. L’autrice vede però, in questo apparente sfaldamento, una possibilità di capire meglio e più profondamente cosa un magazine sia, e lo fa intendere citando delle parole del già menzionato Morrish, contenute anch’esse in Magazine Editing – In print and online. Afferma Morrish:

JOHN MORRISH

L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA


CAPITOLO TERZO

«The tight concept under a publication should spread its influence over every part of the creation process, from style of commissioning to the choice of materials. If succesfull, the individual emotional charge of every element will combine to create a holistic, coherent package».

14

CRISTOPHER PHIN

LUDOVIC BALLAND

Phin Cristopher (2013) http://flippingpagesblog. com/what-is-a-magazine/

Balland parla qui di uno ‘spalmarsi’ della filosofia editoriale su tutti gli aspetti che compongono il magazine, e sicuramente la veste grafica, il design non ne è escluso. È questo un aspetto che sembra essere più importante che mai nei cosiddetti ‘independent magazines’ studiati in questo percorso di ricerca, e si andrà più a fondo di tale tematica più avanti nel corso di questo terzo capitolo. Nel terzo punto la Le Masurier decide di analizzare il magazine dal punto di vista della direzione. Ella afferma che il compito di mettere ‘in pratica’ la filosofia editoriale di cui al punto precedente è un compito che spetta al direttore. Cita le parole di Cristopher Phin da lui pubblicate nel 2013 in un articolo14 sul blog Flipping Pages:

«A magazine is a curated thing […] part of what you buy a magazine for is trusting that someone’s curated or created the best stuff about the things you care about». L’autrice cita l’esempio del magazine finlandese Olivia il quale, dal 2010, ‘aprì le proprie porte’ ai lettori una volta all’anno facendo di contenuti editoriali per un’uscita. Ciò avveniva attraverso una piattaforma social media chiamata Omaolivia, ora non più online. La presa di partecipazione da parte dei lettori non mancò, ma la direttrice della rivista Marjaana Toiminen afferma: «At first the team was very careful about giving enough voice to the participators, so actually they made a magazine that wasn’t really Olivia’s concept» e prosegue: «It was much looser and had less narrative and fewer good, wellwritten stories, because they just wanted to let out all the voices within. That was a disappointment for the crowdsourcing people and for the journalists and for me as a CEO». Quanto affermato dalla Tomiminem risulta qualcosa di particolare importanza anche per chi scrive in quanto il sottoscritto trova che l’autorialità, pur nell’epoca di cultura partecipativa in cui si è immersi, sia un aspetto fondamentale dei magazine e dei magazine brand, grassroots o top-down che siano: si ritiene che sempre ci debba essere qualcuno ‘dietro le quinte’ deputato alle scelte attinenti il ‘cosa’ pubblicare e cosa non pubblicare e, nel caso venga pubblicato, come debba essere svolta tale operazione. Ciò spiega anche, parzialmente, quella tendenza di cui si è discusso nel primo capitolo di questo percorso e che riguarda il cosiddetto longform journalism, termine che nacque come hashtag sul social media Twitter per ‘marchiare’ quegli articoli caratterizzati da una certa quantità di battute e dal tono autoriale, come ad indicare che l’autore di quel tale contenuto era ‘un esperto’. In questo senso, la piattaforma Flipboard (lanciata nel 2010) è qualcosa che pone una sfida a questa concezione di autorialità in cui sia la studiosa australiana che il sottoscritto credono: si tratta di un servizio che si autodefinisce ‘social magazine’. Si tratta di un luogo in cui gli utenti possono ‘comporre’ da sé la propria ‘rivista’, i propri contenuti sia cercando nelle aree di interesse proposte dalla piattaforma stessa sia caricando essi stessi materiale rinvenuto dal web. Il servizio restituisce poi i contenuti organizzati in un layout che ricorda quello di una rivista digitale. A chi scrive sorge una domanda: è davvero possibile definire questo servizio 84


L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

come un magazine? Certamente lo è nel senso etimologico del termine poco prima citato, ma la componente autoriale manca. O meglio: l’autore sei tu, chiunque tu sia. Il successivo aspetto che la Le Masurier prende in esame è quello dei modelli di business. In questa sezione, la studiosa si concentra su quelle definizioni che prendono piede a partire dalle voci di guadagno che i magazine ricercano per sostentarsi e crescere. Vi sono alcune definizioni di magazine che si focalizzano sull’aspetto commerciale, come ad esempio quella di David Sumner e Shirrel Rhoades contenuta nella loro pubblicazione Magazine: A complete guide to the industry, edito da Peter Lang Inc nel 2006. Affermano Sumner e Rhoades:

Al sottoscritto risulta che si tratti di una definizione vera ma parziale: si focalizza solamente su quei prodotti definibili come mainstream o ‘commerciali’ durante la concezione e progettazione dei quali ci si chiede “Che tipo di magazine dobbiamo creare perché vi sia una fetta di inserzionisti pubblicitari che sarebbero attratti dal far pubblicità sul nostro prodotto?”. Come spiega Ruth Jamieson nella sua già menzionata introduzione a Print is Dead. Long Live Print, nel caso dei magazine di stampo puramente commerciale il vero cliente non è il lettore bensì l’inserzionista. Il contenuto è – in alcuni casi di più, in altri di meno – secondario: il lettore che compra quel tal magazine di stampo commerciale ha, come ricompensa per essersi esposto alla visione di un certo numero di annunci pubblicitari, anche del contenuto ‘editoriale’. Non si intende qui cimentarsi nel giudicare la eticità o meno di questo modello di guadagno: quella mediale è un’industria, e come tale deve cercare di avere un profitto. Però, affianco a tale modello di guadagno proveniente dal Ventesimo secolo, l’autrice australiana afferma:

«The importance of advertising revenue does not apply to all [kind of magazines]». L’oggetto di studio di questa tesi, ad esempio, è un caso in cui sì diversi attori si relazionano in modi differenti con l’advertising: c’è chi lo rifiuta a spada tratta e c’è chi ne trae dei guadagni. C’è anche chi lo vorrebbe ma non riesce ad ottenerlo. Si ritiene però che, in tutti questi casi – di cui verrà esposto qualche esempio esistente nei paragrafi successivi – la vendita di pubblicità non sia mai l’unica e fondante causa di lancio di un’esperienza editoriale. Vi è poi la sfida posta dalle evoluzioni tecnologiche le quali hanno messo in seria difficoltà i modelli di business advertising-based dei magazine: se ne è già accennato nel capitolo secondo della trattazione e se ne parlerà anche più avanti nel corso di questo capitolo. Il quinto aspetto preso in esame è quello della serialità: si è abituati a pensare che un magazine debba essere mensile, o bimestrale, o annuale, o che abbia un’altra periodicità purché sia regolare e rispettata. A mettere in discussione questa caratteristica che i magazine dovrebbero avere è il già citato Jeremy Leslie, che in un articolo pubblicato nell’agosto 2009 su Creative Review afferma:

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RUTH JAMIESON

«Here’s a definition of magazine: a regularly published periodical offering specific editorial content to a clearly defined audience with common interests that advertisers or a sponsoring organisation want to reach».


CAPITOLO TERZO

JEREMY LESLIE

«A magazine is part of a series, an ongoing project that gets published under a single banner. The period between issues might be weekly, monthly, quarterly, annual or irregular, but another issue is always on its way. It is this that allows the reader to develop an ongoing relationship with a publication, and is what publishers rely on to create loyalty and continuing sales».

fig.17 Copertina de The Ride Journal issue 5. Immagine disponibile presso https://goo.gl/ udnpwg

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Dunque, parlando della periodicità dei magazine, Leslie accetta che questa possa essere irregolare: l’importante, afferma, è che vi sia sempre un successivo numero che stia venendo ‘costruito’. Questa possibilità si ritiene in linea con la maggior parte dei magazine grassroots presi in esame per questa tesi: nel momento in cui la prima ‘entità’ da soddisfare sono i lettori (e, in qualche modo, se stessi) allora non diventa impensabile il fatto di pubblicare un numero della propria rivista ‘quando finalmente ci sarà abbastanza materiale interessante per crearne uno’. Nei fatti, poi, guardando alle testate prese in esame per questa ricerca, quelle che dichiarano una frequenza irregolare sono tutte appartenenti a quella sfera di riviste con bassi valori di tiratura. Alcuni esempi sono Teller (mille copie), The Ride Journal (tra le cinquemila e le seimila copie) oppure Acid (tra le duemila e le tremila copie). Come conclusione di questa pubblicazione, la Le Masurier propone la sua definizione di magazine:

MEGAN LE MASURIER

«Magazines are containers for the curated content of words, images and design, where each of these elements is as important as the other and the entire content is filtered through an editor via an editorial philosophy that speaks and responds to the specific needs of a niche readership. Magazines are serial in nature and finite in execution. Each issue is almost always produced and consumed in a mid-temporal media space, allowing time for contemplation and desire».

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fig.18 Copertina de Teller issue 2. Immagine disponibile presso https://goo. gl/5fqURf

Sostanzialmente, ci si trova in accordo con tale tentativo di definizione conservando però una perplessità circa la ‘finitezza’ di cui parla l’autrice. Ci si domanda se, una volta ‘sfaldati’ i confini del ‘magazine come oggetto fisico composto di carta stampata’ cioè del medium in se stesso, parlare di finitezza sia ancora opportuno. Questo perché il portale web di un magazine, si ritiene, non potrà mai dare al lettore quel senso di finitezza proprio invece di un artefatto fisico che ha un inizio e una fine. A tale domanda, si ritiene che gli autori che operano nell’online stiano dando dei tentativi di risposta (tra cui il cosidetto longform journalism di cui al primo capitolo).

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L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

Una volta presentato – più che per definire cosa sia un ‘magazine’ in modo compiuto per far comprendere quali siano gli aspetti essenziali da tenere in considerazione per tentare di definirlo – questo primo paper della Le Masurier, si intende passare ad un’altra sua pubblicazione chiamata Independent magazine and the rejuvenation of print. Si ritiene che quanto scritto in tale documento sia utile ai fini del presente percorso in quanto la studiosa australiana si pone l’obiettivo di tentare di ‘circoscrivere’ il fenomeno della cosiddetta ‘editoria indipendente’ provando a mettere dei ‘confini’ per dire cosa fa parte di tale realtà e cosa no, individuando dei ‘criteri basilari’ fig.19 Doppia pagina de Acid issue 2. Immagine disponibile presso https://goo.gl/ rlpbBV

da usare come discriminanti. La Le Masurier afferma che studiando la produzione letteraria contemporanea che riguarda tale fenomeno non risulta difficile comprendere che sia qualcosa di utopistico ritenere di trovarsi di fronte a una singola entità. Ciò è parso da subito chiaro anche a chi scrive, mentre era intento nella lettura di pubblicazioni come So you want to publish a magazine? Oppure Independence – 12 interviews with magazine maker. Afferma infatti la professoressa, nelle prime battute di questo documento:

«In reading many of these magazines, the design publications that have accompanied the indies’ proliferation […] it is clear that independent magazines are not a singular entity. It is useful to imagine them as ranging across a spectrum, where zines mark the border at one end and mainstream niche magazines mark the other». Chi scrive ritiene che non ci si trovi davanti a un oggetto di studio che può essere delimitato con confini dal rigore scientifico: d’altronde, anche la scelta di volerli definire ‘grassroots’ anziché ‘independent’ (scelta motivata all’inizio di questo capitolo) denota una certa difficoltà nel sancire, in ogni caso, quanto una data testata sia effettivamente ‘indie’ o meno. La studiosa propone comunque dei criteri affermando:

«Within that spectrum lie domains of activity characteristic of magazine production: motivation, ownership, sources of funding, relationship to advertising and market research, the role of the editor and art director, contributor policies, organizational structure, work ethos and distribution. Not all indie magazines operate in the same way, thus the utility of thinking about a spectrum of operations in the various domains».

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CAPITOLO TERZO

Delle voci che la Le Masurier cita come inerenti quelle cose a cui guardare per giudicare o meno se un magazine sia ‘indipendente’, chi scrive intende trattenerne quattro: motivazione, proprietà, provenienza dei finanziamenti e ruolo del direttore e dell’art director. Il criterio della motivazione viene ritenuto come importante perché, come già detto precedentemente, queste realtà grassroots, tra le differenze che hanno con l’editoria periodica commerciale, hanno quella del ‘punto di partenza’, appunto del motivo per cui nascono. Non nascono guardando a dati demografici o interrogandosi su quali tematiche renderebbero appetibile un magazine per dei potenziali inserzionisti pubblicitari. Chi si cimenta in una avventura del genere lo fa, innanzitutto, partendo da sé: da quello che gli interessa. È chiaro poi che ciò non esclude la domanda “avrà mercato il mio prodotto? Tratterà di qualcosa che interessa solo a me?” ma questo non è lo scopo primario. Il secondo criterio trattenuto è quello della proprietà dell’azienda: si ritiene semplice comprendere come mai lo si sia voluto mantenere come punto discriminante. Ciò ha fatto sì che venissero escluse dagli studi di chi scrive tutte quelle testate nate sì ‘dal basso’ che poi hanno visto passare la proprietà nelle mani di una corporate. Un esempio può essere quello di Vice, che nacque come fanzine nel 1994 in Canada per poi divenire ciò che è oggi: una media company di livello internazionale. Anche il criterio sources of funding si ritiene di facile comprensione: da dove proviene il denaro che è servito per lanciare l’impresa? Non è cosa rara, tra chi si lancia in queste avventure, ricorrere all’uso di piattaforme di crowdfunding come Indiegogo. Si veda ad esempio il caso di Print isn’t Dead, magazine brand che verrà presentato successivamente nel corso di questo capitolo: il suo fondatore, Marcroy Smith, ha utilizzato la piattaforma Kickstarter per il finanziamento e lancio dei primi due numeri. L’ultima voce trattenuta è quella chiamata ‘the role of the editor and art director’: ci si è già brevemente soffermati sull’importanza che chi scrive conferisce alla figura del direttore in una esperienza editoriale, top-down o bottom-up che essa sia. È la figura deputata a far sì che tutto veicoli la ‘filosofia editoriale’ di cui la Le Masurier parla nel suo studio precedentemente citato, così come anche Ludovic Balland. Però, come appena affermato: la figura e l’importanza della direzione editoriale non è qualcosa peculiare solo ai media grassroots. Difatti, questo criterio non sarebbe stato trattenuto se la Le Masurier non avesse affiancato al termine ‘editor’ il termine ‘art director’. Risulta ben visibile, guardando al corpus di testate esplorate per la ricerca (molte delle quali saranno state osservate anche dalla studiosa australiana) che tende ad esserci, in questi media bottom-up, una grande rilevanza assunta dal direttore artistico. Si può parlare, si ritiene, di un allineamento tra le due figure per via del fatto che davvero, in queste esperienze editoriale più che in quelle di stampo commerciale, “Graphic design is content”. A testimonianza di ciò, si può vedere ad esempio il caso del magazine grassroots tedesco mono.kultur o l’appena menzionato Print isn’t Dead. A tale tematica verrà riservato un paragrafo a sé più avanti in tale capitolo. Una volta elencati e brevemente spiegati i criteri che si sono voluti trattenere in quanto aspetti giudicati rilevanti per determinare l’essere grassroots o meno di un magazine brand, si vuol fare qualche esempio di ciò che sta agli estremi e nel mezzo di quello ‘spettro’ di cui la Le Masurier, di fronte al fatto che questi prodotti non sono una singola entità, traccia. La studiosa afferma che questi cosiddetti ‘independent magazines’ si trovano in quello spazio tra le fanzine e i magazine commerciali di nicchia. Le fanzine, quella produzione ‘domestica’ caratterizzata anche da un certo carattere di antagonismo, sono state presentate precedentemente nel corso di questo terzo capitolo. All’estremo opposto, i magazine commerciali di nicchia sono quei prodotti in cui è evidente una cura maggiore rispetto agli altri prodotti 88


L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

15 intervista rilasciata a It's Nice That. Gregor Steven (2016) http://www.itsnicethat. com/news/gym-class-lastissue-interview-stevengregor-210916

commerciali sia nella scelta dei contenuti editoriali che nella progettazione grafica. Risultano però riconoscibili ad esempio per via del fatto della grande percentuale di pagine occupate dalla pubblicità. Un esempio può essere il caso dell’italiano How to spend it, rivista di grande formato e dalla carta pregiata del gruppo Gruppo Gruppo 24 Ore. Si tratta di una rivista che racconta il made in Italy di lusso, e la sua natura esclusivamente commerciale si può comprendere, ad esempio, leggendone la descrizione che è presente sul portale di System24, la concessionaria pubblicitaria del gruppo Gruppo Gruppo 24 Ore: «How To Spend It è il piacere di scrivere la propria storia attraverso i propri gusti. Quale migliore sintesi del Made in Italy, con un passaporto internazionale? Il lusso è il bello che ci narra e rappresenta, il bello di una realtà di eccellenza artigianale e imprenditoriale, che affonda le radici in una storia tutta italiana. Raccontare storie uniche, col piacere di una narrativa fatta di immagini e pezzi autoriali. Firme eccellenti del racconto fotografico e giornalistico culturale. Un appuntamento mensile con autori che si interrogano su come e che cosa vogliono e chiedono concretamente al loro tempo. Un giornale-esperienza, a partire dal grande formato e dalla carta di alta grammatura». Si tratta di una descrizione rivolte, chiaramente, ai potenziali inserzionisti e non certo ai potenziali lettori del prodotto. Venendo ora al vero e proprio ‘spettro’ di cui la Le Masurier parla, si intende fare degli esempi di ciò che – si ritiene – stia ai due estremi di questo spettro. Per meglio introdurlo, si vogliono qui citare anche delle parole di Angharad Lewis contenute in So you want to publish a magazine?. In esso, l’autrice afferma:

Gym Class

si vedano pp. 90-91

Da un lato vi è quindi l’estremo dei ‘piccoli’, delle esperienze editoriali a bassa tiratura e che hanno spesso un carattere di progetto personale (non è raro, nella bibliografia consultata, trovare termini come ‘one-man magazine’) e di ‘labour of love’. Spesso, quando si sente parlare di ‘editoria periodica indipendente’ si è portati, con l’immaginazione, a focalizzarsi maggiormente su questo tipo di produzioni. Ne verrà ora mostrato qualche esempio. Un caso estremamente esemplificativo è quello di Gym Class: non si sono trovate altre esperienze editoriali grassroots con tirature così basse. Infatti, il suo fondatore (il designer Steven Gregor) dichiara di stampare 250 copie ad ogni uscita. Da ottobre 2016 questa esperienza editoriale è terminata, essendone uscito l’ultimo numero. Resta comunque un caso interessante che illustra come vi siano casi nei quali si possa verificare, come dice lo stesso Gregor, ‘a one-man show’ in cui l’unico personaggio coinvolto si occupa di tutto, anche della distribuzione (chiaramente, senza passare per canali tradizionali ma distribuendolo da sé). Dalla chiusura di Gym Class in poi, Steven Gregor pianifica il lancio di una nuova testata nel corso del 2017, come egli stesso racconta in un’intervista15 rilasciata a It’s Nice That. In questa intervista, Gregor dichiara di aver sfruttato l’esperienza one-man magazine di Gym Class come base per poter poi progredire nel creare un’esperienza

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STEVEN GREGOR

«At one end of the spectrum, you might be printing 500 copies of a 32-page A4 (or 8.5 x 11 inch) stapled magazine to send to blog readers or members of your club twice a year. At the other end is a monthly magazine printing 100,000 copies, to be sold in bookshops and newsagents around the world, carrying advertising from highend global brand. Most indie magazines sit somewhere between these poles».


GALLERIA GYM CLASS MAGAZINES ISSUE 15

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NOME MAGAZINE IN PAGINA BU

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CAPITOLO TERZO

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più articolata, nella quale la frequenza di uscita non sarà più:

Leslie Jeremy (2014) http://magculture.com/ at-work-with-jessica-lowecat-people/

Cat People

«Ad hoc: I try to aim for two or three per year» o in cui il cover price non sarà più:

«Variable: approximately £6».

MORGANE REBULARD e COLIN CARADEC

si vedano pp. 94-95

The Shelf Journal

Un secondo esempio è costituito dal magazine fondato a Melbourne Cat People dalla designer Jessica Lowe e dalla fotografa Gavin Green. Si tratta di una pubblicazione a frequenza annuale fondata che nasce nel settembre 2013. La tiratura dichiarata dalle fondatrici è di mille copie per numero e il prezzo di copertina è di trenta dollari australiani. Si tratta di una pubblicazione che tratta sì di animali domestici (i gatti) ma con l’attenzione, dichiara Jessica Lowe in un’intervista16 rilasciata a magCulture, a non scadere nel divenire un ‘Lolcats Internet spin-off’ bensì creare del contenuto editoriale di qualità che ha alla base uno sguardo, un taglio originale e raro sull’argomento ‘amore per i gatti’. Il particolare taglio editoriale di Cat People sarà oggetto di esempio in un successivo paragrafo di questo terzo capitolo. Un ultimo esempio di prodotti editoriali che stanno all’estremo ‘dei piccoli’, dei ‘labour of love’ che non costituiscono un lavoro a sé stante, è quello de The Shelf Journal. Si tratta di una pubblicazione semestrale fondata nel febbraio del 2012 a Parigi dai due graphic designer Morgane Rébulard e Colin Caradec. La tiratura dichiarata è di 1500 copie e il prezzo di copertina è di venti euro. Non si tratta, quindi, esattamente di un ‘progetto personale’ ma di un progetto ‘bi-personale’. I due graphic designer sono colleghi e soci: hanno uno studio di design della comunicazione (The Shelf Company) ed è quella l’attività che li sostenta. Dall’altra parte, The Shelf Journal

«Washes it’s face financially, but does not earn its creators a living. The magazine has its own economic balance […] Money from the previous issue allows us to print the next one… We run an art-direction studio, which is what we really do for a living» si vedano pp. 96-97

Port

si vedano pp 98-99

dichiarano i due designer alla Lewis ne So you want to publish a magazine?. Guardando invece ora all’estremo opposto di cui parlano la Le Masurier e la Lewis, si possono vedere altri esempi. Uno è costituito da Port, magazine brand nato nella primavera del 2011 a Londra. Dichiara una tiratura di 73mila copie e edizioni curate ad hoc per il mercato dell’Europa dell’est. Nacque come quadrimestrale per poi trasformarsi in un semestrale. Si tratta di un caso emblematico nell’illustrare ‘fino a dove’ i magazine che nascono ‘dal basso’ possono arrivare: Port è più che il magazine in se stesso. Ciò si può comprendere, ad esempio, guardando a come esso ha preso parte alla Design Week milanese (edizione del 2012). La redazione ha infatti organizzato un ricevimento presso il Grand Hotel de Milan per celebrare il primo compleanno del progetto a cui hanno preso parte designer, architetti, grafici e giornalisti. Oltre a ciò, si ritiene che la cosa più interessante è che viene dichiarato che il modello di business della testata si fonda sull’advertising. Dichiara Daniel Crowe, editor-in-chief di Port, in una intervista rilasciata ad Angharad Lewis:

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The Lucky Peach

si vedano pp. 100-101

Nel 2012, Port è entrato in nomination per il prestigioso award della Society of Publication Designers Magazine of the Year al fianco di titoli top-down come Time, GQ e New York. Un altro esempio al ‘livello’ di Port è sicuramente The Lucky Peach, magazine brand statunitense nato nel 2013. Dichiara una tiratura di 100mila copie, una periodicità quadrimestrale e un prezzo di copertina di dodici dollari americani. Una nota va fatta circa la sostanziosa foliazione di 172 pagine. Anche in questo caso, il rapporto con l’advertising è presente e auspicato: Adam Krefman, in un’intervista rilasciata per So you want to publish a magazine? dichiara che il sostentamento dell’azienda proviene in parti uguali da vendite e pubblicità (sia online che su carta stampata). Si tratta di un caso emblematico poiché, pur The Lucky Peach nascendo dalle menti di due persone profondamente ‘del settore food’, il successo e gli alti numeri di tiratura non sono arrivati immediatamente. Infatti, i due fondatori sono David Chang e Peter Meehan. Chang è un famoso chef e fondatore del gruppo di ristorazione Momofuku. Dall’altra parte, Meehan è un ex critico di ristorazione che scriveva per The New York Times. Malgrado questi curriculum vitae (e, presumibilmente, malgrado anche le quantità di fondi a loro disposizione probabilmente ben diversi da quelli che aveva a disposizione Steve Gregor mentre fondava Gym Class), comunque, i due soci hanno dovuto iniziare dal basso. Afferma Peter Meehan, intervistato da Ruth Jamieson per Print is dead – Long live print:

«In the early issues we cursed a lot and were bit piratey. There was no front-ofbook – we opened the first issue with a 27-page travelogue. It was not a pretty magazine. There were no pictures of preparated food, nothing to entice you the way that food magazines are supposed to».

Disegno

si vedano pp. 102-103

Si passa ora a illustrare due esempi di esperienze editoriali che si collocano ‘nel mezzo’ dell’ipotetico spettro di cui parlano la Lewis e la Le Masurier. In questo ‘mezzo’ si collocano la maggior parte dei magazine brand grassroots in circolazione. Il primo caso è quello di Disegno, magazine che tratta di design fondato nel 2011 da Johanna Agerman-Ross in Inghilterra. Ne escono due edizioni all’anno: è un semestrale e la tiratura dichiarata è tra le 20mila e le 30mila copie. Il prezzo di copertina è di otto sterline. Per quanto questa esperienza editoriale, visti i numeri delle tirature, si collochi nel mezzo dei due estremi costituiti da casi come Gym Class da una parte e The Lucky Peach dall’altra, la redazione è composta da ben otto persone impiegate a tempo pieno. Malgrado ciò, però, l’attività è molto diversificata: il magazine è solo una delle voci in un contesto più ampio il quale si compone anche di eventi e un’attività di studio creativo che produce contenuti e servizi editoriali per 93

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PETER MEEHAN

«Magazine have become so dependent on advertising that the fun in editorial gets diminished. […] Thumb through GQ and you cannot find a single piece of editorial that has any integrity, that is disconnected from a financial relationship. What we do in Port is to mix that kind of behaviour – handsom men wearing clothes and advertisers supporting that – with features that are uncommercial and sometimes difficult to read. That’s called content…».

DANIEL CROWE

L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA


GALLERIA CAT PEOPLE MAGAZINES ISSUE 1

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NOME MAGAZINE IN PAGINA BU

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THEGALLERIA SHELF JOURNAL MAGAZINES ISSUE 2

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NOME MAGAZINE IN PAGINA BU

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GALLERIA PORT ISSUE MAGAZINES 16

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NOME MAGAZINE IN PAGINA BU

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THE GALLERIA LUCKY PEACH MAGAZINES ISSUE 18

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NOME MAGAZINE IN PAGINA BU

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GALLERIA DISEGNO MAGAZINES ISSUE 10

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NOME MAGAZINE IN PAGINA BU

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GALLERIA FUKT ISSUE MAGAZINES 11

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NOME MAGAZINE IN PAGINA BU

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CAPITOLO TERZO

JOHANNA AGERMAN-ROSS

diversi marchi. Inoltre, così come nei casi di The Lucky Peach o Port, l’apporto economico dell’advertising risulta fondamentale sentendo le parole della fondatrice Agerman-Ross:

«Advertising is something that is developing and becoming stronger issue on issue. […] We were lucky that, from issue 3, Saint Laurent came to us wanting to advertise. It meant a lot, because their interest confirmed what I had set out to do: to make a design magazine that carried fashion advertising». Fukt

si vedano pp. 104-105

Un altro esempio è rappresentato da Fukt. Si tratta di un magazine che è in qualche modo stato ‘pioniere’ della cosiddetta ondata dei magazine indipendenti cui ci si trova di fronte oggi. Nasce infatti nel 1999 in Norvegia per poi spostare la sua sede a Berlino, nel 2001. Dichiara una tiratura di tremila copie per ogni uscita e la sua frequenza è annuale: ne esce un numero, secondo le parole della redazione, intorno al periodo di settembre di ogni anno. Si tratta di un magazine che vuole trattare di contemporary drawing ovvero dare un resoconto e proporre riflessioni sulle opere di disegno manuale odierne operate da diversi artisti, diversi numero per numero. Si tratta di uno di quei casi editoriali in cui si è – seppur piuttosto lentamente – ‘scalato’ lo spettro dalla zona del ‘piccolo’ alla zona del ‘medio-piccolo’: al momento della sua fondazione, infatti, Fukt aveva una tiratura di cinquecento copie rilegate a punto metallico. Non si tratta di un business che sostenta il proprio fondatore (l’artista norvegese Björn Hegardt) ma che si muove in parallelo con la sua attività professionale. Una differenza sostanziale rispetto all’altro esempio della ‘fascia media’ (Apartamento) è che Hegardt, il fondatore, non ospita alcun tipo di advertising e nemmeno lo cerca. Come già accennato in precedenza, la questione dell’advertising nei cosiddetti magazine indipendenti divide sostanzialmente in due ‘schieramenti’ la scena: c’è chi lo considera un venir meno alla propria ‘missione’ e invece chi lo adotta (o chi lo vorrebbe adottare ma non ha numeri di tiratura sufficientemente attraenti per gli inserzionisti) sostenendo che anch’esso possa potenzialmente essere un contenuto di valore agli occhi dei lettori. Di questo punto si tratterà in modo più approfondito nel paragrafo seguente.

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L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

3.4 COME SI DIFFERENZIANO DA FANZINE E MAGAZINE MAINSTREAM IN MERITO ALLA DIMENSIONE COMMERCIALE

«Anti-commercial, cut-and-paste zines they are not». Questo dato di fatto lo si è già esposto nel paragrafo precedente citando casi come The Gentlewoman oppure The Lucky Peach. Colpisce però notare che Jacovides scriva queste parole nel 2003, quando l’ondata (dal sapore spesso anche ‘modaiolo’) dei cosiddetti ‘magazine indipendenti’ non era ancora arrivata come oggi la si conosce. Di contro, però, bisogna notare che – pur queste esperienze non rifiutando completamente un rapporto con altre realtà commerciali – ciò che le differenzia dalle cosiddette ‘testate mainstream’ (ovvero quelle realtà di respiro puramente commerciale) è proprio che la questione principale per i loro fondatori pare essere, di solito, qualcosa d’altro dal ricavo economico a sé stante. Vengono qui in aiuto delle parole pronunciate da David Lane, fondatore del magazine brand The Gourmand, nato nel 2012 e con sede a Londra. Lane si sente chiedere da Jeremy Leslie:

MICHAEL JACOVIDES

Chi scrive ritiene che uno degli aspetti salienti che caratterizza il corpus tanto variegato di produzioni editoriali che questo studio intende conoscere sia il rapporto tra queste realtà e la dimensione commerciale. Pertanto, in questo paragrafo, verrà trattata questa tematica e si intende far ciò analizzando la questione da, fondamentalmente, due punti di vista: il rapporto con l’inserzionismo pubblicitario e, in secondo luogo, i modelli di business di queste esperienze mediali. Si ritiene che un modo calzante per iniziare ad affrontare l’argomento consista nel prendere in prestito delle parole del già menzionato Michael Jacovides. Come già detto prima, è presente un suo breve saggio in magCulture: new magazine design di Jeremy Leslie. In questo breve scritto Jacovides afferma, tra le altre cose:

«Would the magazine work on its own? Or do you need the studio income to pay for the magazine?».

«The magazine would survive, I don’t know if any of us would survive around it. If it was its own living thing, it would carry on living. Everyone puts in far more effort for far less than they earn. Ourselves included. If everyone got paid their full day rates, the sales wouldn’t pay for the production». Risulta dunque chiaro che l’aspetto economico è ritenuto sì importante ma non è ritenuto essere la prima ragione che sta alla base dell’inizio di un’esperienza editoriale come, ad esempio, quella de The Gourmand. Ci si trova davanti a qualcosa di differente rispetto a quanto detto dalla Lewis in So you want to publish a magazine?:

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DAVID LANE

A questa domanda, Lane risponde nel seguente modo:


CAPITOLO TERZO

17 Iabichino Paolo (2009) Si veda la bibliografia.

«In large-scale corporate publishing, magazines are set up entirely as a veichle for advertising, and money from advertising sales is by far the biggest revenue stream»

ANGHARAD LEWIS

(anche se, come mostrano i grafici del capitolo secondo di questa trattazione, nel corso degli ultimi anni il divario tra l’ammontare di guadagni provenienti dalla pubblicità e l’ammontare di guadagni provenienti dalle vendite tende sempre di più ad assottigliarsi). Si ritene poi che vi siano due ‘punti di vista’ all’interno di chi, tra i grassroots magazine, accoglie o almeno cerca un rapporto con inserzionisti pubblicitari: c’è chi li vede come un ‘male necessario’ per poter sopravvivere ma c’è anche chi, invece, giudica questi rapporti come qualcosa di pienamente positivo, così come afferma ancora una volta la Lewis:

«Some independent magazines opt to eschew advertising revenue altogether, relying solely on the income from copy sales. If they do carry advertising it might be somewhat of a ‘necessary evil’, or tightly controlled by being framed in a particular visual context. Other independent publishers, however, regard relationships with advertisers as something extremely positive».

PAOLO IABICHINO

Risulta evidente che la scelta di ciascun editore dipenderà anche dalle proprie ambizioni. Per iniziare ad affrontare la questione della relazione tra editoria periodica grassroots e inserzionismo pubblicitario ci si vuole ora rifare a quanto narrato da Paolo Iabichino in Invertising – Ovvero, se la pubblicità cambia il suo senso di marcia.17 Nel suo saggio, Paolo Iabichino inizia la sua introduzione con una affermazione secca e che non lascia spazio ad alcun equivoco:

«Il mio punto di vista è di una semplicità disarmante: l’advertising, per come è stato concepito fino a qui, deve cambiare il proprio senso di marcia. Deve ‘invertire’ la propria rotta». Ci si chiede dunque: in che senso l’advertising deve ‘invertire’ la propria rotta? Cosa intende Iabichino? Il suo saggio è diviso in più parti e, nella prima, il direttore creativo di Ogilvy & Mather Italia accompagna il lettore in un excursus storico della pubblicità. È chiaro che quella di Iabichino è una visione di più ampio respiro rispetto alla sola pubblicità su carta stampata, ma chi scrive ritiene che queste riflessioni di carattere più generale o addirittura attinenti ad altre ‘piattaforme’ siano calzanti col punto presente della trattazione. In questa prima parte della sua pubblicazione arriva, dopo qualche pagina, ad un paragrafo chiamato Il 2000 e la fine del mondo. In esso, Iabichino afferma:

«Ed è proprio la cultura di marca, unita alle brutture della globalizzazione, a far 108


L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

ritornare in auge quel risentimento che l’advertising era riuscito a smorzare tra i lustrini, le nudità e le suggestioni degli anni precedenti. Qui non interessa guardare al 2000 come l’anno del millenium bug o della bolla speculativa legata alla new economy: ai fini del nostro percorso è molto più interessante annotare la pubblicazione No Logo di Naomi Klein, pluripremiata giornalista canadese, che in pochissimo tempo diventa icona del movimento Noglobal in tutto il mondo […] esportando a tutte le latitudini una nuova consapevolezza critica nei confronti delle multinazionali, delle loro politiche economiche e – inevitabilmente – della loro pubblicità». Quello che Iabichino prende a descrivere in questo paragrafo è – tra l’altro – una crescente sensazione di disagio e ostilità che viene provata dai fruitori di contenuti mediali. Continua l’autore, sempre in riferimento al movimento No Logo:

«No Logo relega i pubblicitari tra gli orrori della società dei consumi, mentre l’advertising diventa complice, più o meno consapevolemente, di una seduzione colpevole ed esecrabile». A questo quadro impietoso nei confronti degli addetti ai lavori di questo campo (quello pubblicitario) che, almeno nei primi anni Duemila e secondo Iabichino, è alimentato in gran parte dalle visioni No-global come, per esempio, quella di Naomi Klein, si aggiunge però una ulteriore aggravante. Infatti scrive l’autore a proposito degli anni seguenti:

«Tra il 2006 e il 2007, una serie di circostanze avrebbe dovuto farci riflettere sullo stato di salute di questo mestiere. E questa volta non c’è l’astio dei No-global a fornirci l’alibi dell’ideologia, adesso si diffonde una certa insofferenza che sembra insinuarsi nell’opinione pubblica, a prescindere dalle posizioni politiche. La pubblicità che gonfia i conti, invade, eccede e straborda fatica a trovare l’ascendente sul pubblico a cui è destinata. […] Nel pacifico Belgio prende forza un movimento si sensibilizzazione delle coscienze che si definisce R.A.P. – Résistance à l’Agression Publicitaire». Per meglio spiegare in cosa consista questa insofferenza nutrita dall’opinione pubblica nei confronti della pubblicità e la nascita di movimenti come Résistance à l’Agresion Publicitaire, Iabichino chiama in causa una ricerca condotto da Enrico Finzi, ricercatore sociale impegnato da circa trent’anni in indagini di mercato e analisi di scenari. Finzi è presidente dell’istituto Astra Ricerche, col quale ha condotto una indagine che riguarda, tra 109


CAPITOLO TERZO

l’altro, il crollo del consenso nei confronti della pubblicità negli anni che vanno dal 1997 Odio la pubblicità e cerco di non 18% 13% al 2008. I dati mostrano come, guardarla mai nel corso del tempo, il consen41% 37% La pubblicità non mi interessa ma so nutrito nei confronti delc’è qualche annuncio che mi piace le inserzioni pubblicitarie sia calato. La maggior parte della pubblicità 16% 24% non mi piace ma guardo con Iabichino commenta i risultainteresse molti annunci ti di questa ricerca affermando: «aver calcato la mano con Malgrado i suoi limiti guardo la 19% 22% troppi annunci, troppo invapubblicità con interesse sivi, troppo disturbanti, ha fiSono un appassionato della 6% 4% nito pure per determinare il pubblicità paradossale indebolimento fonte: Astra Ricerche. Ricerca sul crollo del consenso nei confronti della pubblicità dei mezzi costituenti il contedal 1997 al 2008. sto dei messaggi pubblicitari: per esempio, l’asservimento di molti periodici alla pubblicità, con la conseguente per2008 1997 dita di credibilità e di appeal Spesso [la pubblicità] tratta la gente 78% 59% editoriali, ha finito per segacome se fosse scema re le gambe della poltrona su cui stavano assisi i messaggi Dà utili informazioni sui prodotti e 44% 57% pubblicitari, che quindi finisulle marche scono per terra avendo decerSpesso è volgare 58% 49% tificato (resi appunto meno ‘reliable’) molti settimanali, Diffonde valori negativi 56% 48% molti mensili, diversi quotifonte: Astra Ricerche. Ricerca sul crollo del consenso nei confronti della pubblicità diani eccetera». dal 1997 al 2008. Non interessa particolarmente, ora in questa trattazione, analizzare cosa poi Paolo Iabichino intenda quando parli di ‘inversione di rotta’; ci si chiede piuttosto: visto che l’advertising è anche ciò di cui Iabichino parla in questi passi de Invertising, in che modo i fondatori di esperienze editoriali periodiche grassroots si relazionano con esso? Come già accennato precedentemente, le posizioni di fronte ad esso sono varie. Ci sono realtà editoriali che rifiutano completamente rapporti con inserzionisti pubblicitari (si veda, a tale proposito, il caso della discussa testata grassrtoots AdBusters). Di questa categoria fanno parte, ovviamente, anche quelle realtà editoriali che – magari pur desiderando delle inserzioni pubblicitarie – non hanno però valori di tiratura sufficientemente alti da attirare l’attenzione. C’è chi, ovviamente, inizia la propria avventura editoriale senza inserzioni pubblicitarie per poi attirarne una volta cresciuto come dimensioni. Un esempio di ciò è sicuramente Cereal, fondato da Rosalia Park. Cereal Rosalia Park, intervistata da Jeremy Leslie (l’intervista in questione fa parte di quel corpus di dialoghi che compongono il già menzionato Independence – 12 interviews with magazine maker) che le dice: 2008

1997

ROSALIA PARK

«There’s sometimes an assumption that independent magazines don’t carry ads because they’re loftier or higher than that, but actually most of them sell so few copies that advertisers aren’t interested in them» risponde affermando: «We waited an entire year before looking at ads. It’s the same as how we approached distribution, you

si vedano pp. 112-113

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have to take it at your own pace. We anted ads, but to go from none to 50 would be jarring. We took it in very slow increments. The first issue that had adverts had three adverts, two Rich photographed and designed himself in tandem with the brand, and now we have 15. It’s been slowly growing, with no complaints from our readers».

Human After All (2014) Si veda la bibliografia.

fig.20 Copertina de The Publishing Playbook a cura de Human After All. Documento disponibile presso https://goo.gl/dAcY1q

Colpisce che, oltre a ciò, vi siano – nelle produzioni di letteratura realizzate da addetti ai lavori di questo campo – suggerimenti e incoraggiamenti a procurarsi, se possibile, l’appoggio di una media agency, cioè di una concessionaria di pubblicità. Viene qui in aiuto, ad esempio, The Publishing Playbook.18 Si tratta di una pubblicazione redatta da Human After All, agenzia creativa con sede a Londra di cui Danny Miller è CEO. La particolarità di questa pubblicazione consiste principalmente nel fatto che si tratta di un progetto open source: è liberamente consultabile e editabile grazie al fatto che è diffuso tramite Google Docs. All’inizio del documento, gli stessi autori spiegano come agire nel caso si vogliano apportare migliorie al testo o muovere delle critiche. Si tratta di una risorsa condivisa creata da persone che, vista la loro esperienza nel settore editoriale, decidono di creare uno strumento per aiutare chi pensa di lanciare un proprio magazine, una propria esperienza editoriale. Lo spirito, per cui, è molto simile a quello che ha mosso la Lewis nello scrivere So you want to publish a magazine? e ciò che interessa di più de The Publishing Playbook, in questo momento, è il capitolo dedicato all’advertising in quanto, in esso, vengono anche dati consigli circa ‘l’appoggio’ che si potrebbe cercare, nel caso se ne sia in grado economicamente, in una media agency la quale rappresenta molteplici brand. Vengono citati i casi delle media agency Carat, Mediacom, Vizeum e Mindshare). L’organico delle media agency si può suddividere fondamentalmente in due categorie: i media planner e i media buyer. In The Publishing Playbook viene narrata l’importanza di stabilire un contatto con i media buyer, che sono coloro che si occupano di trovare gli ‘spazi’ rilevanti per le campagne concepite dai planner. Queste indicazioni vengono ritenute come ‘sintomi inconfutabili’ della natura commerciale dei cosiddetti magazine indipendenti. A tale proposito, sono esemplificative le parole della già menzionata Johanna Agerman-Ross, fondatrice del magazine Disegno. In una intervista rilasciata ad Angharad Lewis per So you want to publish a magazine? la Lewis domanda: «What’s the publishing model for Disegno?» e la Agerman-Ross risponde affermando:

«I can’t claim that it’s in any way revolutionary, because it’s supported by advertising». Affianco all’advertising, un’altra importante risorsa – non solo per Disegno ma per svariati magazine guardati per questa tesi di laurea – sono le sponsorizzazioni. Afferma infatti ancora la Agerman-Ross nella medesima intervista, dopo che la Lewis le chiede quale fosse stata l’importanza delle partnerships:

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JOHANNA AGERMAN-ROSS

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GALLERIA CEREALMAGAZINES ISSUE 11

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NOME MAGAZINE IN PAGINA BU

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«I felt paper and print were very important, and [that it was crucial] for me as a publisher and founder of the business to be very involved with those things and have an understanding of what they mean for the magazine. We worked with Fedrigoni paper from the start. […] It has always been a part-sponsorship: we have always paid [for the paper] but maybe not the full price. And we always do other things with them. It’s a good working relationship. We were sensitive to what they were interested in promoting. That relationship with Fedrigoni was a good foundation to start [the magazine] with».

fig.21 Doppia pagina 'sponsor' de Offscreen issue 7. Gentile concessione di Kai Brach.

fig.22 Doppia pagina 'sponsor' de Offscreen issue 11. Gentile concessione di Kai Brach.

KAI BRACH

Offscreen

Di sponsorizzazione si può parlare anche in altri casi. Un esempio è quello costituito dal magazine Offscreen, il quale si ritiene particolarmente interessante in quanto si nota, in esso, un tentativo innovativo di approccio al tradizionale advertising su magazine cartaceo, che il fondatore chiama ‘sponsorships’. Per introdursi all’operazione concepita da Kai Brach che ne è il fondatore e one-man magazine, così come affermato anche nella sezione About del potale della testata, si prendono ancora in prestito delle parole di Angharad Lewis che parla, appunto, di Offscreen:

«You can even approach traditional onpage adverts in a fresh way to make them more compliant with your editorial vision, as Kai Brach has done in his magazine Offscreen».

si vedano pp. 116-117

In cosa consiste tale fresh way di cui parla la Lewis?

«Advertisers pay for a ‘sponsor’s’ page with a logo, link and paragraph of text treated in the standardized visual format of white logo and text out of a black page. Kay Brach funds the production costs of each issue from these ad sales». Brach parla di ciò anche in un suo articolo dal titolo Indie Magonomics pubblicato in data 13 aprile 2016 sulla piattaforma Medium. In esso, a proposito del suo approccio con l’inserzione di pagine di contenuto non editoriale lungo il flusso della pubblicazione, afferma:

«Indie publishers tend to have strong ideals which don’t always mix with advertising dollars. That’s the general assumption. However, I’m not categorically against advertising. I believe readers generally don’t mind advertising if it doesn’t devaluate the reading experience. And I believe that not all advertising has to be evil».

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GALLERIA OFFSCREEN MAGAZINES ISSUE 11

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Dunque, quel che si vede in questo caso, è una interessante commistione tra l’inserzionista pubblicitario e la direzione artistica del magazine e tale commistione consiste nel fatto che la pubblicità della tal azienda non è un file PDF che viene inviato e posizionato in pagina così come è ma essa si ‘piega’ alle scelte grafiche del fondatore. Si ritiene che Brach sia riuscito, in questo modo, ad operare una proposta efficace per rendere anche l’inserzione pubblicitaria ‘contenuto di valore’ per gli occhi di chi fruisce il prodotto. Egli spiega meglio il suo approccio sul proprio blog:

«Don’t start with the Google of your industry, start with a company you already have close contacts with, maybe even a local one. Set you initial fee very low. Sponsoring the first issue of Offscreen cost $400 and barely made a dent in the cost of everything, but it helped establish a relationship with those companies. I got a chance to prove that Offscreen is a product worth investing in, and as a result many of those companies are still sponsoring the magazine today». Si vuole ora passare a esporre due esempi che si ritengono in analogia con le operazioni concepite da Brach: non si tratta di esperienze definibili come grassroots, perché non nascono ‘dal basso’. Malgrado ciò, questi due casi si ritengono di tale rilevanza da decidere di presentarli (per risultare poi, magari, di esempio anche per delle testate grassroots). Il primo esempio proviene dal magazine Undici, rivista italiana che tratta di sport – prevalentemente di calcio. Si tratta di un prodotto estremamente curato sia a livello di selezione ed esposizione dei contenuti che di progetto grafico. Rivista Undici, per la propria raccolta pubblicitaria, si rifà a System24, concessionaria di pubblicità del gruppo Gruppo 24 Ore. Ciò che ha colpito proviene, in particolare, dall’undicesimo numero della rivista: quello di agosto 2016 focalizzato quasi totalmente sulle Olimpiadi che erano in corso durante l’estate. All’interno di questo numero, chi scrive è stato colpito dal notare una inserzione pubblicitaria che non aveva per niente l’aria di esserlo: si trattava di una fotografia di Federico Buffa in abito elegante, ai confini di un campo di gioco da calcio, che guardava all’orizzonte come farebbe un allenatore assorto a ‘visualizzare’ schemi di gioco e strategie. Tra le altre cose, Buffa indossava anche un paio di scarpe di pelle: erano esse l’oggetto dell’inserzione, commissionata da – appunto – un brand di scarpe eleganti. Ciò che ha colpito l’attenzione di chi scrive consiste nel fatto che, di primo acchito, non si era compreso che quella immagine di Federico Buffa fosse una inserzione pubblicitaria: essa era sembrata, invece, contenuto editoriale a cura della redazione di Rivista Undici. A livello legale, tutto era conforme alla legge in quanto – per via del marchio del brand di calzature – il suo ‘essere pubblicità’ era esplicitamente dichiarato. Tuttavia, il linguaggio visivo – e con questo si intende il trattamento dell’immagine fotografica: correzioni cromatiche, inquadratura, impaginazione al vivo – era esattamente quello adottato dalla testata per le immagini ‘di contenuto editoriale’. Non si percepiva, almeno a prima vista, uno stacco o interruzione del flusso di contenuti editoriali. Se è vero che in testate come questa “Graphic design is content”, questa inserzione si poneva nel flusso editoriale anch’essa come contenuto grafico di valore per gli occhi dei propri lettori. Non è purtroppo concesso sapere se la stessa immagine pubblicitaria sia stata elaborata da System24 o direttamente dalla direzione artistica della pubblicazione, o se vi sia stata in qualche modo una collaborazione tra le due parti: è stata rivolta 118


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fig.23 Copertina de Monocle issue 98, novembre 2016. Immagine disponibile presso https://goo.gl/S0XG5D

fig.24 Pieghevole 'Air Canada X Monocle' (in Monocle issue 98) realizzato da Tom Froese. Immagine disponibile presso https://goo.gl/P5agPh

questa domanda con molteplici messaggi di posta elettronica, ma una risposta non è mai arrivata. Un secondo esempio proviene invece dal numero 98 (ovvero, l’uscita di novembre 2016) della pubblicazione Monocle. In questo numero della rivista, il focus editoriale è sul Canada. Il titolo recita infatti: «Canada calling: why it’s time to take a fresh look north» e il sottotitolo afferma: «From Toronto to the high north – Monocle reports on a nation that’s flexing mind and muscle, re-engaging diplomatically and spreading its wings». In particolare, all’interno di questa uscita della testata concepita da Tyler Brüle, preme focalizzarsi sull’operazione di collaborazione tra Monocle e la compagnia di volo canadese Air Canada. Quest’ultima azienda ha infatti ‘colto l’occasione’ per mettersi in mostra, dal momento che il numero in questione tratta del Canada. Ciò non stupisce, ma ciò che risulta interessante è la modalità con cui si è deciso di farlo: si sarebbe potuto optare per delle inserzioni pubblicitarie di stampo ‘tradizionale’ nelle pagine del magazine ma così non è stato. Si è invece voluto creare, in collaborazione con Monocle, qualcosa che fosse sì una pubblicità ma che al tempo stesso fosse contenuto di valore per i lettori e non interrompesse il flusso editoriale. Il tutto dichiarato con la sigla Air Canada X Monocle che quindi, esplicitando la natura commerciale dell’operazione, si mette al riparo dall’essere considerato contenuto di tipo advertorial. Cosa si è voluto creare? Ad esempio, tra l’altro, un pieghevole inserito nella rivista. Una volta aperto, tale pieghevole illustra dieci personalità e aziende interessanti presenti sul territorio nazionale canadese e che si ritengono degne di essere conosciute. È stato realizzato dall’artista canadese Tom Froese. Da un lato, il valore di questo prodotto risiede nel fatto che porti la dizione Air Canada X Monocle, esplicitando così il rapporto di collaborazione delle due aziende senza tentare di nasconderlo in alcun modo. Dall’altro lato, il valore risiede anche nel fatto che tale pieghevole è sì una pubblicità all’azienda Air Canada, ma mostra informazioni che sono potenzialmente interessanti per il ‘target’ di Monocle (ovvero, prevalentemente, uomini d’affari) integrandole nel flusso editoriale della testata e andando, quindi, oltre la classica associazione di pubblicità di tematiche affini a quelle trattate dal contenuto editoriale. Monocle non è insolita a questo genere di operazioni: un altro caso interessante può essere trovato nel numero 92 della testata, uscita nell’aprile del 2016. Aprile significa, fra le altre cose, la Design Week milanese. In quella occasione,

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fig.25, fig.26 Copertina e doppia pagina de Running Guida 06 Milan (in Monocle issue 92), collaborazione tra Nike e Monocle.

fig.27 Screenshot della sezione Shop (prodotto 'Evening Candle') del portale de Cereal . (27 febbraio 2017)

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per la realizzazione dell’uscita mensile, Monocle ha collaborato con diverse aziende tra cui Nike, in particolare con la divisione Nike Running. La collaborazione tra i due brand ha prodotto un libretto rilegato a punto metallico composto da venti pagine interne con suggerimenti circa la città di Milano durante la Design Week. Come nel caso della collaborazione tra Monocle e Air Canada, anche in questo caso si tratta certamente di una forma di inserzione pubblicitaria da parte di Nike, ma si ritiene che anch’essa non interrompa il flusso editoriale dando invece, ai lettori della testata, informazioni di valore. L’advertising, realizzato in modi quindi più o meno convenzionali, può essere giudicato a tutti gli effetti come una delle voci di guadagno nei modelli di business di queste esperienze editoriali grassroots. Dopodiché, ben presto studiando questi prodotti, ci si accorge di come essi siano qualcosa di ben più complesso che il medium magazine in se stesso. È anche per questo motivo che si è deciso, come enunciato nel secondo capitolo di questa trattazione, di guardare a questi prodotti preferendo l’utilizzo del termine ‘magazine brand’, utilizzato – tra gli altri – da Mary Berner, fondatrice del progetto MM360° di cui si è precedentemente discusso. Si afferma ciò guardando, ad esempio, come gli stessi portali web di queste realtà editoriali assolvano, spesso e volentieri, funzioni più ampie del solo ‘mettere online contenuti più o meno direttamente ritrovabili nella edizione cartacea’. Ad esempio, diversi di questi siti web svolgono anche la funzione di piattaforme per il commercio elettronico (di oggetti che non sono solamente i numeri cartacei del magazine). Si può, per esempio, vedere il caso della già menzionata Cereal la quale, espandendosi nel corso di un certo arco di tempo, ha poi deciso di realizzare prodotti in collaborazione con altri brand tra i quali, ad esempio, l’azienda londinese Perfume H. Un altro esempio viene raccontato dalla Park in un’intervista rilasciata a Jeremy Leslie, e facente parte de Independence: 120


fig.28 Screenshot della homepage del portale di e-commerce www. department-store.co (27 febbraio 2017)

Un altro caso è quello del magazine brand Wrap, fondato da Polly Glass. Si tratta di un magazine che intende documentare e celebrare il mondo dell’illustrazione contemporanea, con una periodicità di uscita irregolare: tra una e due pubblicazioni ogni anno. Nello shop online di tale testata vengono venduti, oltre ai cartacei del magazine brand, anche prodotti di illustratori menzionati nel contenuto editoriale. Si tratta di prodotti come poster o piccole pubblicazioni. Parte del ricavo di ciò che è venduto con questo tramite viene poi chiaramente trattenuto da Wrap. Un altro esempio, lievemente differente dai due precedenti, è quello del magazine brand Print isn’t Dead. Si afferma che si tratta di qualcosa di differente poiché Print isn’t Dead è sì un magazine cartaceo ma che nasce però da una precedente esperienza online avviata nel 2008 dal nome People of Print, nata dall’iniziativa di Marcroy Eccleston Smith il quale desiderava creare una ‘piazza di discussione’ per illustratori, designer, stampatori e così via. Dalle ‘costole’ di People of Print sono nate, negli anni a venire, svariate realtà (tra cui anche un periodico cartaceo di cui si parlerà nel paragrafo successivo) tra cui anche uno store online a sé stante dal nome Department Store il quale è una piattaforma di e-commerce sia per prodotti realizzati dalla ‘media company’ People of Print che per altri prodotti realizzati da altre realtà che desiderano sfruttare la visibilità offerta da questo canale. Si ritiene che questi prodotti magazine, più che ‘magazine’, dovrebbero essere chiamati ‘magazine brand’ anche per l’attività di consulenza o di agenzia creativa che in più casi esercitano. Vi sono diversi esempi di ciò: uno è costituito dalla già menzionata The Gentlewoman, la quale redazione realizza, tra l’altro, anche il magazine per il brand di abbigliamento COS. Si tratta, a tutti gli effetti, di un house organ, un brand magazine. L’azienda COS, colpita dalla qualità de The Gentlewoman, si è messa in contatto per richiedere che il team si occupasse anche di questo loro organo che viene esposto nei COS stores ed è consultabile gratuitamente online alla voce ‘magazine’ del brand di abbigliamento. Come afferma la Lewis in So you want to publish a magazine?:

«As a publisher, you can also sell your creative resources to a brand, using your team and access to great contributors to make content for brand. This is something 121

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ANGHARAD LEWIS

«We also create products with brand that we really love. We had a project called Cereal Winter Store last winter where we created, I believe it was ten products and we launched it for the Christmas season, giftable items for our readers».

ROSALIA PARK

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CAPITOLO TERZO

CATHY OLMEDILLAS

a lot of independent magazines do, and counts as an essential part of their revenue». Un altro esempio di questa ‘amplificazione’ delle attività del ‘semplice’ magazine è sicuramente Studio Anorak, nato dall’esperienza editoriale Anorak, magazine rivolto ai più piccoli concepito nel 2006 grazie a una madre (la fondatrice Cathy Olmedillas) insoddisfatta della qualità media dei prodotti editoriali per l’infanzia. In Independence – 12 interviews with magazine maker la Olmedillas racconta di come, a partire dal magazine, si sia poi ritrovata proposte per una serie di attività che l’hanno spinta a dare un nome a tutto ciò, ovvero il nome di Studio Anorak:

«We have great partnerships and great associations with a few carefully picked brand. We did some Top Trumps for H&M quite a while back, and we did some activity sheets for Gwyneth Paltrow’s lifestyle site Goop. We did a retail tour with H&M where we had colouring corners and activity corners in each of their retail stores. This work goes under the name of Studio Anorak». Ciò che risulta più interessante della vicenda imprenditoriale della Olmedillas non è tanto il fatto di portare avanti attività di collaborazione con altri brand come H&M: quel che più colpisce è il fatto che ella non abbia voluto ‘tenere nascosto’ tutto ciò come invece fanno altri magazine brand. Afferma infatti la fondatrice di Anorak Studio, sempre menzionata in Independence:

ROSALIA PARK

«I think at one point a lot of independent publishers hide the fact that they also have a studio and were surviving by doing brand work. I thought about it and thought that’s silly because the more people who know about it, the more work that I’ll attract, and then I can launch more magazines and create really nice pieces of communication for brand» e prosegue affermando: «So I just thought I’m going to make it official, but we have been doing it for quite a while. I was always a little bit, oh yes, of course, we survive through sales, which we don’t. And very few magazines do. A lot of magazines will survive through brand work […] so I just decided to be produt about it». Questa mentalità si differenzia, ad esempio, rispetto a quella di Rosalia Park di Cereal la quale ha affermato:

«We do consultancy work for brand where we do get paid by the brand to create content for their website and provide 122


L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

Oltre alle attività di consulenza e agenzia creativa, questi magazine brand diversificano le proprie voci di guadagno concependo e creando anche prodotti editoriali che si vanno ad affiancare al prodotto ‘madre’ il quale è Anorak magazine nel caso di Anorak e Cereal magazine nel caso di Cereal. Nel caso di Anorak, si può ad esempio notare come, nel tempo, la produzione editoriale abbia visto nascere anche altre riviste affianco ad essa come ad esempio DOT o TeePee. Dot, ad esempio, è stato concepito per rivolgersi ad un pubblico ancora più giovane di quello cui si rivolge Anorak ma, osservandolo, si nota una profonda continuità col prodotto ‘madre’. Dall’altra parte, guardando invece a Cereal, si possono osservare le travel guide concepite per città come Londra o New York. Esistono anche versioni online liberamente consultabili di queste guide, prodotti volti a diversificare e amplificare l’offerta del magazine brand in questione. Comunque, di questi prodotti ‘laterali’ si intende parlare in modo più approfondito più avanti nel corso di questa trattazione, andando a vedere anche altre tipologie di produzioni che esulano dall’editoriale (come, ad esempio, le playlist proposte da Cereal ogni mese). Un altro capitolo di cruciale rilevanza nel mondo dei cosiddetti magazine indipendenti è sicuramente quello della distribuzione, e si ritiene valga la pena parlarne brevemente per mostrare come questo ‘problema’ viene affrontato in maniere più o meno creative a seconda dei casi. La prima cosa da constatare è che alcuni editori indipendenti, tipicamente con una testata dal basso valore di tiratura, non si appoggiano ad alcun distributore ma cercano di fare tutto ‘da sé’. Un caso è quello di Wrap il quale, pur avendo attualmente una tiratura di circa 15mila copie, vede il proprio team come l’unico organico impegnato nella sua distribuzione. Polly Glass, fondatrice di Wrap, racconta che, all’inizio della sua avventura editoriale e per i – circa – tre anni seguenti, andava in giro per Londra a bordo di una bicicletta ‘customizzata’ per il trasporto delle riviste. Questo momento è finito, ma è stato necessario per conoscere i potenziali buyer (‘business to business’, si intende) di Wrap, coi quali intrattiene rapporti ancora oggi. Ancora oggi che la distribuzione è ancora ‘fatta in casa’, come afferma la Glass stessa intervistata da Jeremy Leslie. Leslie chiede poi in quali luoghi Wrap viene venduto, domandando se esso vada ‘oltre’ gli shop di editoria indipendente per finire anche in negozi di carattere più generale. Polly Glass risponde affermando:

«It’s in places like Paperchase, Anthropologie, so it is in some departmentstores type places. Lots of independent bookshops and newsagents around London. And then abrod it’s in lots of galleries. Galleries are a key area for us. Tate Modern, V&A London, MoMa in New York City, LACMA in Los Angeles». Sentendo queste parole si comprende come questi prodotti editoriali si ‘ricollochino’ rispetto ai loro ‘simili’ di stampo più propriamente commerciale e tale traslazione avviene anche a livello del luogo in cui ne avviene la vendita. Non è sicuramente un caso, quindi, che una buona parte di magazine ‘esplorati’ per questa ricerca abbiano scelto come società di distribuzione, tra le altre, Antenne Books. Si tratta di una piattaforma di distribuzione nata a Londra nel 2010 rivolta, in primis, a editori indipendenti. Come 123

POLLY GLASS

them with a service. That other stuff isn’t necessary linked to Cereal at all, it’s very separate».


CAPITOLO TERZO

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descrizione di sé, tale piattaforma afferma, tra l’altro:

LUKE WOOD

https://vimeo. com/59732766

«In the last decade, independent publishing rapidly grew, with many emerging publishers utilising new technologies and the ability to produce books on small scales and at low costs. Antenne Books was realised as a distribution platform against this background, initiated to support the large growth of these emerging publishers, who at the time had limited means to distribute their work using traditional models of book distribution». La cosa che risulta interessante è che, per rispondere all’esigenza di cui parlano raccontandosi, quelli di Antenne Books hanno risposto specializzandosi in luoghi di vendita come gallerie d’arte o librerie devolute a produzioni editoriali artistico. Un esempio di ciò è il magazine brand Noon, fondato a Londra nel 2014 e con una tiratura attuale di circa quattromila copie il quale si appoggia al servizio di distribuzione offerto da Antenne Books andando a collocarsi, soprattutto, in gallerie d’arte. Non sempre, però, è necessario o auspicabile dotarsi di un servizio di distribuzione: non è raro che realtà editoriali di dimensioni minori scelgano di operare da sé la distribuzione (come nel caso precedentemente citato di Wrap) o, addirittura, che si dedichino essi stessi alla vendita diretta del prodotto. Un esempio di ciò è costituito da A Head Full of Snakes, realtà editoriale di cui si parlerà anche nel seguente paragrafo del presente capitolo. Afferma infatti Luke Wood, fondatore della suddetta testata, menzionato dalla Lewis in So you want to publish a magazine?:

«Sell as many copies as you can yourself, that way you get all the money!». Non sempre ciò è possibile, ma finché le tirature sono basse può risultare fattibile, soprattutto grazie all’utilizzo di una piattaforma di e-commerce già ‘pre-esistente’ come, ad esempio, Amazon. Se si desidera, invece, integrare la piattaforma di commercio all’interno del proprio portale, si può guardare a diversi servizi come ad esempio PayPal o Stripe, i quali permettono di integrare un form per il pagamento all’interno di una pagina web. In merito alla questione della distribuzione, si vuole citare un caso emblematico, ovvero quella della cosiddetta ‘social distribution’ ideata da Peter Bil’ak, graphic designer di origini cecoslovacche ora operante in Olanda. Nel febbraio del 2013, Bil’ak lancia un magazine brand chiamato Works That Work, votato alla celebrazione della ‘creatività inaspettata’, ovvero soluzioni con un tocco di genialità concepite dalle persone che intendono rispondere, in diverse maniere, ai piccoli o grandi problemi pratici posti dalla vita quotidiana. In questa sede, più che concentrarsi sulle tematiche e sulla linea editoriale de Works That Work, si intende focalizzarsi sul sistema di distribuzione concepito per ‘scavalcare’ le spese e le gravosità dei metodi tradizionali di diffusione del proprio prodotto editoriale. È presente sul web, sulla piattaforma Vimeo, un video19 animato che spiega brevemente la dinamica pianificata. Gli obiettivi della social distribution sono fondamentalmente due: il primo è quello di permettere all’editore di massimizzare i ricavi delle vendite del suo prodotto. Il secondo è quello di approfondire il rapporto tra l’editore e i propri lettori o futuri tali ‘eliminando’ la filiera della distribuzione che solitamente si interpone tra queste due parti. Ci si rifà alla casistica 124


mostrata nel video sopra citato. Lo scenario ipotetico è quello di una persona che conosce Works That Work e lo apprezza. Questa persona vive in un luogo in cui questa testata non è venduta, ma conosce – ad esempio – una libreria che potrebbe essere interessata alla vendita di essa. Una volta appurato l’interesse che l’ente avrebbe nel vendere Works That Work, il lettore si mette in contatto con la redazione la quale gli recapita, quando l’interessato si troverà in un luogo in cui delle copie di Works That Work sono effettivamente presenti, un certo numero di copie vendendogliele con uno sconto del 50% (per avere questo sconto sul prezzo di copertina è necessario acquistare almeno sette copie del magazine). A questo punto, il lettore si mette in viaggio con il proprio carico di magazine che dovrà recapitare all’azienda rivenditrice una volta giunto a destinazione, la quale pagherà ogni copia al 60-75% del prezzo di copertina donando così al lettore un guadagno di valore pari al 10-25% del prezzo di copertina. Sarà poi compito della libreria, galleria d’arte o altro ente occuparsi della vendita delle copie che le sono state recapitate. Ovviamente, tale dinamica può essere applicata anche quando l’ipotetico lettore non ha in mente un esercizio commerciale come una libreria ma, magari, dei propri amici che potrebbero essere interessati a Works That Work. Questa idea di ‘distribuzione sociale’ non è nata dopo la fondazione del magazine brand ma proprio insieme ad esso, infatti il voler sperimentare tale sistema ha comportato che Bil’ak ponesse attenzione a certe caratteristiche dell’oggetto fisico in fase progettuale. Infatti, il prodotto è stato concepito di modo tale che una pila di dieci arrivasse a pesare esattamente un chilogrammo di modo da non costituire una mole troppo invadente qualora il social distributor si trovi a dover viaggiare in aereo e quindi dovere attenersi ai limiti di peso dei bagagli. Anche il formato chiuso di dimensioni non eccessive (170 per 240 millimetri) è stato selezionato per massimizzare le potenzialità della social distribution. Per Bil’ak, quello della distribuzione è stato fin da subito il primo problema a cui guardare per far sì che Works That Work fosse davvero

«a magazine for the readers […] starting from distribution, because distribution is set up around the model of magazines being made for advertisers» come afferma in una intervista rilasciata a Angharad Lewis per So you want to publish a magazine?. Come già accennato poco sopra, con questo sistema Peter Bil’ak mira anche ad allargare la potenziale audience del proprio prodotto editoriale. Ancora nella sopra citata intervista, egli afferma:

«Our magazine is designed for the wider public, it is a design magazine for nondesigners. But most of the people who come to our website are designers; the people who are most loyal are designers. We are interested in their friends too, the biggest group of people, [but] it’s really tricky to get there. This [social distribution] was an attempt to get outside the circle. […] social distribution may not be financially the most rewarding [method], but it really enlarges the circle».

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PETER BIL’AK

L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA


CAPITOLO TERZO

Bil’ak parla, inoltre, anche del fatto che questo sistema distributivo – pur restando il fatto che la maggior parte delle copie de Works That Work non viene distribuita con questo metodo innovativo – porta la comunità nata attorno alla testata ad allargarsi:

PAOLO IABICHINO

«Because of social distribution, people have seen the magazine and ask for it again. So we organize more events there – with our readers’ help and we create a kind of community». A conclusione di questo paragrafo si vuole ritornare ancora una volta sull’advertising realizzato su carta stampata di cui si è fatto precedentemente qualche esempio di casi ritenuti interessanti (Monocle, Rivista Undici e la testata grassroots Offscreen) esponendo come si sia trovata una analogia tra il cosiddetto ‘native advertising’ e queste proposte progettuali di inserzioni pubblicitarie che cercano di non andare ad interrompere – nei limiti del possibile – il flusso della narrazione editoriale risultando invece anch’esse potenziali contenuti di valore per i lettori. Si ritiene che si tratti di proposte che vanno, in qualche maniera, verso una ‘inversione di rotta’ come quella proposta da Paolo Iabichino, il quale a pagina ottantatré del suo già citato saggio Invertising – Ovvero, se la pubblicità cambia il suo senso di marcia prende in prestito parole scritte da Piero Ottone, giornalista ed ex direttore di quotidiani del calibro di Il Secolo XIX o Il Corriere della Sera. Iabichino le prende in prestito affermando:

«L’articolo [di Piero Ottone] prosegue con una critica all’invadenza della pubblicità televisiviva, con le colpe che sono quelle dell’interruzione, dell’invadenza e della frivolezza repentina». Ecco, si ritiene invece che casi come quelli riguardanti Offscreen o Monocle che si sono illustrati vadano nella direzione opposta e non abbiano tali colpe, costituendo qualcosa che è in analogia con il native advertising, di cui si è già discusso nel secondo capitolo di questo percorso.

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L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

Dopo aver osservato, nel paragrafo precedente di questo capitolo, il rapporto che i cosiddetti ‘independent magazines’ intrattengono con la dimensione commerciale, si vuole ora passare ad un aspetto che attiene più strettamente ai prodotti a sé stanti che i maker producono. È infatti visibile, in questi prodotti, una grande attenzione nutrita nei confronti dell’estetica e del progetto di design grafico. L’affermazione “Graphic design is content” viene spesso individuata – seppur esternata, magari, con formulazioni differenti – nella bibliografia e nelle fonti consultate per redigere la presente ricerca. Affianco ad essa troneggia un’altra affermazione, ovvero “Content is the king”, anch’essa esternata in diverse modalità. A dirlo, per esempio, è il già menzionato (nel secondo capitolo) rapporto dell’istituto WAN Ifra chiamato World Press Trends 2016. Notando come i ricavi provenienti dalla pubblicità e quelli provenienti dalle vendite di contenuto tendano sempre più ad allinearsi a livello mondiale per quanto concerne il mercato mediale e anche quello della carta stampata, viene affermato: «Content will truly be the king». Si ritiene che questa affermazione sia veritiera, guardando a quanto succede nel mondo odierno della produzione di contenuti mediali grassroots, dal basso, come quelli presi in esame in questa trattazione. Ma cosa si può intendere come ‘contenuto’? Certamente, a un primo livello di analisi, il contenuto è l’insieme di nozioni e informazioni che possono essere assunte da chi fruisce un ‘testo’, nel senso più ampio del termine. Ecco, di fronte alla produzione dei magazine brand grassroots qui presi in esame si ritiene di poter affermare che il graphic design è parte integrante di questo ‘testo’ e che sia bene non scinderlo dalla parte letteralmente ‘testuale’ dei contenuti e delle narrazioni. Come afferma Megan Le Masurier in un passaggio del suo già menzionato studio Independent Magazines and the Rejuvenation of Print:

«Graphic design in indie magazines is content». Come mai si verifica, nei fatti, questo allineamento tra contenuto testuale e contenuto visivo all’interno di queste produzioni editoriali? Si ritiene che vi sia una serie di motivi che si cercherà di presentare nel corso di questo paragrafo. Il primo di questi motivi, per essere compreso, richiede di ‘allontanarsi’ dagli oggetti editoriali in sé e allargare lo sguardo osservando chi produce tali oggetti. Infatti, i prodotti editoriali in questione vengono realizzati, nella maggior parte dei casi, da redazioni e squadre di persone dalle dimensioni notevolmente ridotte rispetto alle grandi redazioni dei magazine ad alta diffusione di stampo puramente commerciale. Per avere un’idea dell’organico di questi team editoriali, vengono in aiuto due grafici elaborati da Angharad Lewis per la sua pubblicazione So you want to publish a magazine? che prende ad oggetto trentaquattro testate grassroots i cui valori di tiratura spaziano da un minimo di mille copie a un massimo di 75mila. La Lewis ha voluto indagare come i core team di queste realtà siano composti: dei trentaquattro soggetti intervistati, quattordici di loro affermano di avere almeno una persona – magari loro stessi – impiegata a tempo pieno nel progetto. Di questi quattordici, undici di essi affermano di ‘utilizzare’ un mix tra impiegati full-time e impiegati part-time. Più della metà delle realtà editoriali in questione (59%) afferma di non aver alcuna figura impiegata a tempo pieno. Vi è poi, anche, un nutrito numero di realtà editoriali identificabili con il

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MEGAN LE MASURIER

3.5 "GRAPHIC DESIGN IS CONTENT": L’ALLINEAMENTO TRA CULTURAL JOURNALISM E DIREZIONE ARTISTICA


CAPITOLO TERZO

neologismo ‘one-man magazine’, ovvero quei casi in cui la Quante persone lavorano part-time nel tuo team editoriale? redazione è composta da una 0 1 2 3-5 6+ persona sola (la quale però, talvolta, intraprende delle pre59% 14% 9% 12% 6% stazioni lavorative occasionali con persone che restano però, appunto, collaboratori esterQuante persone lavorano full-time nel tuo team editoriale? ni; è il caso, ad esempio, degli illustratori) che svolge la fun0 1 2 3-5 6+ zione di direttore editoriale, direttore artistico, intrattie9% 9% 34% 30% 18% ne i rapporti con gli ipotetici investitori pubblicitari e così Survey realizzato da Angharad Lewis interrogando 34 magazine maker tra quelli coinvolti via. Un esempio di ciò è il caso in So you want to publish a magazine? (Lewis Angharad 2015). Si veda la bibliografia. del già citato Offscreen, di cui Kai Brach, il fondatore, è l’unica figura impiegata. Non a ca20 so, tra le diverse definizioni assegnate ai magazine indipendenti, è anche Sbarbati Simone (2015) stata elaborata quella di ‘perzine’ che deriva dalla contrazione delle parole https://www.che‘personal’ e ‘magazine’. fare.com/magazineQuella della composizione delle redazioni di queste realtà è una tematica indipendenti-innovazionee-sostenibilita/ che vede svariate casistiche: vi è, ad esempio, chi ha una redazione ‘nomade’ come il magazine brand di viaggio Boat. Si tratta di un’idea ritenuta davvero affascinante: una redazione che si trasferisce fisicamente nel luogo di cui intende parlare per la successiva uscita del periodico. Una volta lì, poi, si collabora con persone indigene del posto, come raccontato sul portale stesso di Boat:

«For each issue, we physically move to the focus city for a few weeks setting up our studio and working with locals to create the content. The locals get to decide what they want the world to know about their city, and we work day and night to uncover stories that don’t usually get told». Anche Simone Sbarbati parla di queste particolari realtà di redazioni facendo alcuni esempi in un suo articolo20 apparso su che-fare.com in data 1 dicembre 2015. Egli parla, tra l’altro, del caso di A magazine curated by, prodotto editoriale che, per il progetto di ogni sua edizione, coinvolge una figura (privata o aziendale che sia) del mondo del fashion e della moda per curare la futura uscita, facendo in questo modo collaborare elementi ‘permanenti’ del core team con la tale personalità selezionata. Ogni numero prende pertanto il nome di “A magazine curated by” seguìto dal nome della figura curatrice di quella edizione. Aldilà di questi casi di carattere particolare che si sono voluti menzionare per dare un assaggio delle configurazioni di redazioni variegate che si possono avere, preme qui sottolineare il fatto che, dunque, l’organico dietro alle quinte di questi media sono di dimensioni ristrette se non, addirittura, composte da un singolo individuo che ricopre tutte le funzioni necessarie. Questo porta dunque al verificarsi di ‘sovrapposizioni’ tra ruoli, e in particolare tra i ruoli di direttore editoriale e direttore artistico. Come afferma ancora una volta Megan Le Masurier:

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L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

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«They [the independent magazine maker] escape easy categorization, but are often producers, designers, retailers and promoters all at the same time».

fig.29 Copertina de A magazine curated by issue 14 (Delfina Delettrezz). Immagine disponibile presso https://goo.gl/ hKpSI0

fig.30 Copertina de A magazine curated by issue 9 (Proenza Schouler). Immagine disponibile presso https://goo.gl/ cXDUYJ

A questo fattore di ‘sovrapposizione di ruoli’ va poi affiancata anche una realtà che viene implicata dal fatto che le modalità con cui l’organico prende decisioni sono intuibilmente di stampo molto più orizzontale che verticale, come avviene nei piccoli studi di design composti da poche figure e come non avviene, invece, nelle redazioni dei media di stampo commerciale e ad alta diffusione. Come afferma ancora la Le Masurier:

«In the hierarchically organized workplace of mainstream magazine production there is a chain of approval that can inhibit orginality and a sense of commitment to the whole magazine». La Le Masurier parla di come una struttura decisionale di stampo verticale possa inibire l’originalità, la creatività. Questo viene ritenuto come vero e quindi, al contrario, si crede anche che una maggior orizzontalità metta un designer nelle condizioni di tentare di realizzare soluzioni progettuali che, in un contesto lavorativo differente, si vedrebbero ben presto venire scartate. Si è deciso di utilizzare il termine ‘designer’ in modo non casuale. Questa decisione deriva dal fatto che, come afferma ancora Megan Le Masurier:

«While few indies maker have prior professional experience as editors, publishers or journalists, because of the importance of high-quality design, there is usually a trained designer on the team». 129


CAPITOLO TERZO

Esempi di ciò possono essere trovati nel già precedentemente citato caso dell’ormai defunto one-man magazine Gym Class, condotto dal graphic designer Steven Gregor oppure nel caso – anch’esso già menzionato – de The Shelf Journal, pubblicazione curata dai due graphic e type designer francesi Colin Caradec e Morgane Rébulard come ‘vetrina’ delle loro abilità professionali, ‘portfolio’ in costante aggiornamento delle capacità del loro studio. Inoltre, si ritiene anche che il fatto che queste realtà editoriali trattino per lo più di argomenti assai ristretti parlando quindi a diverse nicchie di interessati comporti di dover adottare anche un linguaggio visivo e grafico ben specifico e riconoscibile: è una conseguenza naturale della linea editoriale da condurre. Quest’ultima, la linea editoriale, ovvero il ‘tono del giornalismo’ prodotto da queste realtà editoriale non va fatto passare in secondo piano rispetto al linguaggio visivo. Difatti, ad esempio Jop Van Bennekom si preoccupa di ciò. Delle riflessioni di Bennekom parla anche la Le Masurier sempre in Independent Magazines and the Rejuvenation of Print affermando:

«Crucially, Bennekom stresses the role of the art director as much as the editor. And this is another distinguishing feature of many of the indie magazines – graphic design is as important as journalistic content, art direction as important as editing». Se, dunque, anche il ruolo del direttore editoriale è di tale importanza, ci si domanda: che tipo di giornalismo propongono questi piccoli editori di prodotti grassroots? La Le Masurier parla di cultural journalism:

«The editorial focus of indie magazines is cultural journalism, reporting on the ‘new’ in their niche area, in words and images. It is not a practice of journalism driven by standards of neutrality and objectivity. These editors and journalists see themselves as participants in a cultural community. In a way, this approach could be considered ‘native reporting’, even ‘native editing’, where journalists work within their communities ‘to present news that is relevant to those communities’ interests, presented in a manner that is meaningful to them and with their collaboration and support. The magazine becomes a part of the culture, a way to develop the culture, not a neutral reporter». Parlando di cultural journalism la Le Masurier tenta anche di definire cosa ella intenda. Parla di un giornalismo che si preoccupa di riportare il ‘nuovo’ su un certo argomento ai propri lettori slegandosi però dagli standard giornalistici della neutralità e dell’oggettività dettati dai codici deontologici della professione. È pertanto una forma di narrazione che è più simile alla critica, dai toni riflessivi (‘l’approccio da secondo giorno’ di cui si è parlato al capitolo primo della presente ricerca). Ma la cosa ancora più interessante, si ritiene, è che la Le Masurier dice

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L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

«These editors see themselves as participants in a cultural community»

21 http://www.treccani.it/ vocabolario/cultura/

per la quale comunità viene da essi prodotto contenuto di valore. Non si ritiene casuale, infatti, che gran parte di queste realtà mediali affianchino al titolo della propria testata la parola ‘cultural’ o ‘culture’, come ad esempio fa The Gourmand il cui sottotitolo recita A food and culture journal oppure Boat (A travel and culture publication). Ma cosa si intende con l’aggettivo ‘culturale’? Viene qui in aiuto il dizionario curato da Treccani, il quale assegna diversi significati al vocabolo ‘cultura’.21 Ci si vuole qui concentrare su due di queste definizioni. La prima recita:

«L’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della sua personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo».

fig.31 Copertina de The Gourmand issue 6. Immagine disponibile presso https://goo.gl/ J62bIu

Si ritiene che questa definizione della parola ‘cultura’ possa essere presa a modello per quanto concerne l’operare dei cosiddetti maker di realtà editoriali grassroots: per loro, la ‘scrittura’ (in senso ampio) di ‘testi’ (ancora in senso ampio) si ritiene essere, appunto, la conversione delle nozioni (ovvero le ‘notizie’ in questo caso) da semplici forme di erudizione in elementi costitutivi della propria personalità morale, della propria spiritualità e del proprio gusto estetico nella consapevolezza di sé e del mondo (o meglio, della ‘comunità’ a cui si intende parlare). La seconda definizione data dalla Treccani è, invece, la seguente:

«In etnologia, sociologia e antropologia culturale, l’insieme dei valori, simboli, concezioni, credenze, modelli di comportamento, e anche delle attività materiali, che caratterizzano il modo di vita di un gruppo sociale».

22 Skulte Ilva (2015) The Concept of Cultural Journalism: What the Editors in Latvia Think They Do When Doing Cultural Journalism. Articolo in Science journal (Communication and information) nr. 8/2015. http://www.zurnalai. vu.lt/zurnalistikostyrimai/article/ download/8842/6571

Questa definizione si ritiene che ricalchi, dall’altra parte, il ‘pubblico’ cui queste pubblicazioni si rivolgono. Si tratta di gruppi uniti da una comune passione o interesse che non hanno quasi mai confini definibili a livello locale, e ciò è causato soprattutto dal fatto che la rete è spesso il primo luogo di aggregazione. Tornando ora brevemente alla prima delle due definizioni citate, si vuole ancora una volta sottolineare come chi scrive questi ‘testi’ è parte, come afferma la Le Masurier, del tessuto di un gruppo di persone che si riconosce unito da un particolare interesse. Si vuol far ciò menzionando uno studio22 dal titolo The Concept of Cultural Journalism: What the Editors in Latvia Think They

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CAPITOLO TERZO

Do When Doing Cultural Journalism a cura di Ilva Skulte, docente della Riga Stradins University presso la Faculty of Communication. In questa trattazione il cui obiettivo «is to explore how the editors and producers, working in the Latvian cultural journalism field, conceptualize culture as the object field of their journalistic practice» l’autrice si interroga anche su cosa sia il cosiddetto cultural journalism, e si ritiene che ella proponga alcune riflessioni utili anche alla presente trattazione. All’inizio del suo discorso, la Skulte sgombra il campo da ogni possibile equivoco: tentare di dare una definizione circoscritta e univoca di ‘cultural journalism’ è un’impresa ardua. Afferma infatti:

ILVA SKULTE

«Cultural journalism is a matter of current discussions in journalism theory and practical research. As a relatively small and specific area of journalistic practice, it operates in the intersection between media, culture in general, and arts and creative industries. The complexity, heterogeneity and variability of the field is determined by the major changes transforming all three intersecting areas – the new media, diversity of genres and the audience practices that characterize contemporary communication». Una volta fatte queste doverose premesse, la Skulte scrive un paragrafo dal titolo Theoretical framing of the field of cultural journalism nel quale ella spiega come, usualmente, cultural journalism sia qualcosa di relegato al trattare di produzione e attività solo se attinenti in senso stretto a industrie di stampo strettamente culturale:

«Cultural journalism is usually perceived as covering products of cultural or creative industries: literature, theatre, visual arts, cinema, music or architecture. The question of borders (of the culture to cover) is rising when discussing the inclusion of some other areas of the human creative production, such as, for example, television, popular music, fashion, lifestyles or traditional cuisine […] To include all aspects, areas and complexity, one must look at everything that is done and produced by human beings with some sense and having some meaning that must be accepted». Si parla quindi di un dominio del termine ‘cultural journalism’ che si va ad allargare oltre i confini di ciò che è, ‘accademicamente’ parlando, considerabile come ‘culturale’: viene abbracciato tutto ciò che è produzione dell’essere umano, così come – tra l’altro – recita la precedentemente citata definizione curata da Treccani. Sempre nello spirito di questo ‘allargamento del dominio’, la Skulte prosegue concentrandosi, ora, sulla figura del ‘giornalista culturale’ piuttosto che sul cultural journalism. Afferma che non è necessario che il produttore di contenuti abbia la percezione di sé come di qualcuno deputato a ‘guardiano’, ‘garante’ della ‘cultura alta’, 132


L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

ideologicamente posizionato ‘contro la cultura di massa’:

Renard David (2006) Si veda la bibliografia.

«The search for a distinct quality that distinguishes cultural journalism is often understood and critically analyzed as connected to the conceptual positioning and cultural journalists’ self-perception as being the guardians of the high culture, taste and spirit, ideologically positioned against the mass civilization». Per la Skulte è più importante, e chi scrive si trova in accordo con lei guardando a chi sono i maker di questi prodotti mediali, che il cultural journalist sia un insider, membro legato e interno a una tal comunità:

«In this world, a journalist is an insider, connected with invisible and visible ties with other members of the community. He/ she participates in the social life of cultural scene, makes friends, knows everyone, is part of the cultural elite whose life he is covering».

«Indie magazines are not produced: they are lived». Esempi di ciò sono, ad esempio, la già menzionata Cathy Olmedillas, fondatrice di Anorak, la quale ha deciso di intraprendere la sua avventura editoriale perché pienamente coinvolta in una situazione problematica, ovvero quella di non trovare prodotti editoriali per l’infanzia che lei giudicasse come soddisfacenti per la propria prole. Altro esempio è costituito da Björn Hegardt, l’artista e disegnatore norvegese fondatore di Fukt. Si vuole segnalare, per quanto riguarda l’approccio cultural journalism parzialmente congruente – si ritiene – con ‘l’approccio da secondo giorno’ anche il caso di Delayed Gratification – The Slow Journalism Magazine. Intervistato da Jeremy Leslie (si tratta di una delle dodici interviste che compone Independence – 12 interviews with magazine maker) il fondatore Rob Orchard spiega l’approccio al racconto delle notizie facendo un esempio, ovvero come è stata trattata la notizia di un tragico incidente avvenuto in una miniera di carbone in Somalia il 13 maggio 2014. A Delayed Gratification cercano di tornare sulle notizie quando ‘il polverone si è diramato’:

«We return to stories after the dust falls. One of the stories that I’m proudest of was the Soma Mining Disaster last year. […] After a week of political promises, of people rallying round, of retributions being made, which actually never turned up, everyone moves to Ukraine and Isis and other stories. We sent somebody back three months later to find out what was happening». 133

JAN-WILLEN DIKKERS

Insomma, qualcuno che viva ciò di cui intende trattare, in sintonia con quanto affermato da Jan-Willem Dikkers nel suo articolo The Issue Journey contenuto in The Last Magazine,23 a cura di David Renard:

ROB ORCHARD

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CAPITOLO TERZO

fig.32

MICHAEL JACOVIDES

Copertina de Warde Beatrice (1956) Si veda la bibliografia.

Quanto in questi ultimi paragrafi affermato circa l’approccio editoriale che queste piccole (se non addirittura personali) redazioni tentano di adottare non va, come affermato all’inizio, scisso dall’aspetto del graphic design. Che genere di grafica propongono, questi prodotti? È chiaramente arduo – se non semplicemente impossibile – riuscire a definire ciò in modo univoco, non fosse altro per la sterminata varietà di tematiche e stili proposte da questi media. Si è però ritenuto d’aiuto quanto affermato da Michael Jacovides in un suo già citato articolo contenuto in magCulture: new magazine design. Jacovides parla, tra le altre cose, del concetto di ‘slickness’. Afferma:

«Their defining characteristics are high production values, a lavish use of photography, an emphasis on design – in a word, slickness». Si tratta di un termine non facilmente traducibile in italiano. Il portale wordreference.com, per quanto concerne il significato metaforico del termine ‘slick’ propone: ‘agile’ e ‘sciolto’. La versione online dell’Oxford Dictionary, sempre per il termine ‘slick’ propone una varietà di significati tra cui: «Done or operating in an impressively smooth and efficient way», «smooth, wet, and slippery» (in riferimento ad una superficie fisica) oppure «smooth and glossy» (in riferimento alla superficie della pelle o al cuoio capelluto). Spostandosi dunque dal campo semantico di superfici fisiche (anche corporee) si può intuire come si parli di qualcosa che appaghi il senso della vista e del tatto, che sia realizzato di modo da produrre piacere visivo e tattile in chi fruisce del prodotto. Si tratta, come è evidente, di un concetto molto difficilmente definibile in un modo oggettivo. Forse, però, può essere d’aiuto quanto affermato sempre da Jacovides un poco più avanti nel medesimo testo:

«It makes for a pleasurable pace, after the visual information overload frequently found in most mainstream titles». Jacovides parla di un ‘sollievo’ offerto da questi media rispetto al ‘sovraccarico cognitivo-visivo’ che è usualmente comportato dalla veste grafica di certi titoli mainstream. Quanto qui affermato da Jacovides permette di parlare di una caratteristica ritenuta saliente in molti dei casi osservati per redigere questa ricerca, ovvero la caratteristica ‘del bianco’. Difatti, osservando molti dei titoli in questione, si nota come essi non abbiano ‘timore’ di proporre un design grafico in cui ampio respiro è lasciato al bianco della carta e senza la presentazione di informazioni sotto molteplici livelli di lettura che potrebbero risultare confusionari. Viene qui alla mente la metafora concepita dall’esperta di tipografia Beatrice Warde, americana vissuta nella prima metà del Ventesimo secolo. Una delle sue più famose pubblicazioni è certamente The Crystal Goblet – Sixteen essays on typography nella quale l’autrice chiama il primo dei sedici saggi The crysal goblet or why printing should be invisible. In esso, la Warde chiede al lettore se preferirebbe bere del buon vino rosso da un bicchiere d’oro massiccio, preziosissimo e finemente elaborato oppure se preferirebbe, dall’altra parte, un più semplice calice di cristallo perfettamente trasparente. Chiaramente, la risposta ‘corretta’ secondo la Warde è la seconda, poiché chi si intende di vino sa quanto sia importante ‘gustare’ il prodotto anche con la vista oltre che con il gusto e con l’olfatto. La metafora con la composizione tipografica (ampliando, per il caso di questa trattazione, da ‘composizione tipografica’ a ‘progetto 134


L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

grafico nel suo insieme’) gioca sul fatto che, secondo l’autrice, una buona composizione dovrebbe far sì che il lettore ‘non la veda’ ma ‘veda’ solamente il contenuto senza perdersi in distrazioni derivanti da un layout non ‘trasparente’. La Warde sa che questo non è un obiettivo progettuale semplice:

24 intervista rilasciata a Stack Magazines da Smith Marcroy (2016) http://www. stackmagazines. com/the-magazines/ print-isnt-dead/

Put A Egg On It

si vedano pp. 140-141

Print isn’t dead

Ciò è in contrasto con la ‘filosofia’ della maggior parte dei titoli commerciali ad ampia diffusione che vedono ogni centimetro quadrato della superficie cartacea come spazio in cui mettere ‘quella tal informazione in più’. In questi casi, invece, anche il bianco della carta ‘nuda’ è considerato come una informazione: la scelta di essa ha – probabilmente – richiesto tempo per la selezione cercando di destreggiarsi al meglio tra aspirazioni e limitazioni economiche. Se “Graphic design is content”, allora anche la carta bianca è considerabile come contenuto. Un esempio calzante di ciò è il caso del già citato Cereal, che fa delle ampie aree di bianco una caratteristica visiva che lo distingue. Accanto ad essa si può collocare anche The Gourmand oppure Works That Work oppure ancora Riposte. Non si tratta di tre prodotti con lo stesso stile grafico, ma tutti e tre fanno loro quanto affermato da Jacovides ritenendo anche la carta bianca come contenuto a tutti gli effetti. Certamente, non tutti i prodotti editoriali in questione adottano questa ‘poetica del bianco’: ciò dipende da cosa si vuole trasmettere – di caso in caso – ai propri lettori. Per esempio, un altro versante riscontrato è quello di chi si riconduce al patrimonio visuale delle fanzine degli anni Sessanta e Settanta (a tale proposito si veda il primo paragrafo del presente capitolo) come nei casi di, ad esempio, Manzine e Put A Egg On It. Vi sono poi casi ritenuti ancor più ‘estremi’ che vanno verso una più pronunciata tendenza all’estetismo e verso un’ideale “del pezzo unico” contrapposto a una logica di produzione seriale e di linee guida tracciate all’inizio di un progetto e poi destinate a durare a lungo. Un rappresentante di queste tendenze è sicuramente Print isn’t Dead, il quale è considerabile alla stregua di un house organ de People of Print da cui viene prodotto e di cui si è precedentemente accennato. Si tratta di un prodotto editoriale il cui focus sono le creazioni di diversi graphic designer di numero in numero, mostrate al fine di fare da ‘vetrina’ a tutto ciò che può essere creato oggi a mezzo stampa utilizzando i linguaggi di tecniche di disegno manuale così come le ultime possibilità offerte dai mezzi digitali. Il titolo della pubblicazione vuole, insomma, testimoniare come le possibilità offerte dalla stampa (offset, digitale, serigrafica e così via) la facciano qualcosa di del tutto diverso da una realtà che ha ormai ‘dato tutto’. La tendenza all’estetismo di cui si è poco prima parlato può essere spiegata prendendo in prestito delle parole di Marcroy Smith pronunciate durante un’intervista24 realizzata da Steve Watson, fondatore di Stack Magazines. In essa, Smith racconta:

«Our magazine is designed differently for each issue – we use different typefaces from independent type foundries, which means the baseline grid has to be adjusted each time. We like to introduce something

si vedano pp. 142-143

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BEATRICE WARDE

«Printing demands a humility of mind […] There is nothing simple or dull in achieving the transparent page. Vulgar ostentation is twice as easy as discipline».


CAPITOLO TERZO

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fig.33, fig34, fig35 Doppie pagine de Works That Work issue 1. Immagini disponibili presso https://goo.gl/xde8Iv

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L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

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CAPITOLO TERZO

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L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

fig.36, fig37, fig38 Doppie pagine de Riposte issue 1. Immagini disponibili presso https://goo.gl/ ZLL7XX

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PUT GALLERIA A EGG ON MAGAZINES IT ISSUE 5

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NOME MAGAZINE IN PAGINA BU

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PRINT GALLERIA ISN’T MAGAZINES DEAD ISSUE 3

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NOME MAGAZINE IN PAGINA BU

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CAPITOLO TERZO

special each time, for instance a limited run of screen printed covers or a variable data over printing white ink onto black paper».

Lanham Richard (2006) Si veda la bibliografia.

Ad esempio, la fonderia di caratteri utilizzata per la prima uscita fu Colophon, Swiss Typefaces per la seconda e Milieu Grotesque per la terza. Chiaramente, come spiega lo stesso Smith, il fatto di cambiare fonderia e caratteri tipografici ad ogni ‘Element’ comporta che anche la griglia delle linee di base venga modificata di volta in volta. Forse, ancor più che questi cambi di griglie e di caratteri tipografici, ciò che è più rappresentativo della tendenza al ‘pezzo unico’ è la serie di differenti copertine realizzate con stampa serigrafica che vengono realizzate per ogni uscita. Affianco a Print isn’t Dead, si vuole segnalare anche un altro progetto editoriale lanciato anch’esso da People of Print, ovvero Posterzine. Si tratta di un magazine che, una volta aperto, può essere spiegato come un poster (un poster di dimensioni 841 per 594 millimetri) per poter, ad esempio, essere appeso ad un muro. Ogni uscita di Posterzine racconta un certo graphic designer tramite una breve descrizione e un’intervista, per poi lasciargli ‘spazio’ con una sua creazione di dimensioni 841 per 594 millimetri. Vengono qui proposti degli scatti dell’uscita numero quattordici, dedicata a Mike Perry. Ci si chiede però: perché succede tutto questo? Come mai questa diffusa tendenza a dare un’importanza tale al contenuto grafico la quale ha un picco, ad esempio, nel caso di Print isn’t Dead o di Posterzine? Una risposta sembra provenire da quanto scritto da Richard Lanham il quale afferma, nella sua pubblicazione The economics of attention:25

«Desktop publishing has made typographical layout and font selection matters of everyday expressive concern. We no longer take them as givens; we can make the choices ourselves, and thus we become ever more conscious that they are choices and that other choices might be made».

RICHARD LANHAM

MARCROY SMITH

25

fig.39 Immagini de Posterzine issue 14 (dedicato a Mike Perry). Immagini disponibili presso https://goo.gl/ b492T7

Lanham riconduce quindi queste tendenze alle possibilità offerte dal digitale e dalla messa a disposizione di un pubblico sempre più ampio di applicativi digitali per, in questo caso, la progettazione grafica: grazie a questi sviluppi, certe scelte non vengono più prese come ‘date’ e ci si interroga quindi su come esse possano variare o migliorare.

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L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

«Condé Nast Traveller is the most recognised travel title out there. But I never feel that I get a sense of place when reading it, because they have so much content, they really can’t dedicate that much real estate within their pages to a single place. They do round-ups, lists, restaurant reviews. There is nothing wrong with that, but that’s not what we wanted. I said, wouldn’t it be nice if we could give 30 or 40 pages to a single place?». Dunque, la Park ha voluto distaccarsi da come questi grandi titoli raccontano i luoghi operando su due livelli. Il primo è quello della quantità di pagine dedicate ad un luogo singolo, in modo da aiutare il lettore nella ‘immersione’ nello stesso. Il secondo, che viene ora illustrato, consiste nel non ‘investire’ il lettore con svariate e molteplici informazioni di tipo didascalico e nozionistico (come lunghi elenchi di ristoranti o punti di interesse del tal luogo) ma fargli ‘gustare’ il posto in questione tramite grandi e ariosi scatti fotografici senza che venga aggiunto nient’altro. Ciò che ‘sta alle spalle’ di questi scatti è meticoloso: la Park ne parla riferendosi a come opera il suo socio e anch’egli fondatore di Cereal Richard Stapleton che si occupa, tra le altre cose, anche lui degli scatti fotografici:

«He’ll never take a photo between sunrise and sunset when people are actually out, because our rule is that there isn’t allowed to be a single person in our photography. That is something that we’re very adamant about. I don’t know if people notice that. That’s the aesthetic that we’ve driven forward». Questi scatti, poi, sono contenuto a sé stante al punto tale che, visitando il portale online di Cereal si può notare come vi sia una sezione chiamata Gallery la quale è deputata a raccogliere gli scatti fotografici ‘estrapolati’ dagli articoli del cartaceo che vengono mostrati quindi estraniati dal loro contesto originario assumendo così lo status di contenuti a sé stanti, così come mostrato a pagina centocinquanta e centocinquantuno.

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ROSALIA PARK

Esulando dal campo della tipografia e della selezione di caratteri tipografici di cui parla Lanham – ma restando comunque nell’alveo del graphic design – si vuol concludere il presente paragrafo facendo un esempio di chi non ha preso come ‘date’ certe convenzioni grafiche proprie dell’editoria periodica mainstream arrivando invece a proporre una soluzione personale per la propria avventura editoriale. Ci si riferisce alla già menzionata fondatrice di Cereal Rosalia Park, la quale racconta a Jeremy Leslie (in una delle dodici interviste contenute in Independene – 12 interviews with magazine maker) come ella abbia voluto concepire un magazine inerente al viaggio distaccandosi da come certi titoli ad ampia diffusione trattano l’aspetto della fotografia. Infatti, nell’intervista, la Park parla di come ella abbia voluto far qualcosa di diverso da ciò che fa, per esempio Condé Nast Traveller in merito al trattamento del materiale fotografico. Afferma Rosalia Park:


CAPITOLO TERZO

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fig.40 Copertina de Cereal issue 4. Immagine disponibile presso https://goo.gl/DTLKHX

fig.41 Copertina de CondĂŠ Nast Traveller, gennaio 2015. Immagine disponibile presso https://goo.gl/Hz8YiW

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CAPITOLO TERZO

fig.42 Doppia pagina de Cereal issue 4. Immagine disponibile presso https://goo.gl/ egLbon

fig.43 Doppia pagina de CondĂŠ Nast Traveller, gennaio 2015. Immagine disponibile presso https://goo.gl/4kG3xa

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L’EMERGENTE FENOMENO DELL’EDITORIA GRASSROOTS PERIODICA

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fig.44, fig.45 Screenshot della sezione Gallery del portale de Cereal. (2 marzo 2017)

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INTRODUZIONE CAPITOLO AL CAPITOLO PRIMO QUARTO

Il perché di questo fenomeno: dal tipo di cultura in cui si vive, alcune direzioni di risposta Negli ultimi due punti del precedente capitolo si è guardato in che modo i cosiddetti ‘independent (grassroots) magazine’ si rapportano con altri attori commerciali (inserzionismo, canali di distribuzione e via di questo passo) e, dopodiché, si è mostrato come quello del graphic design sia un aspetto che viene elevato al livello di ‘contenuto’ a sé stante in queste pubblicazioni. Ora, dopo aver quindi parlato del ‘come’, ci si vuole domandare il perché: come mai nel momento storico presente vi sono delle persone (nella maggior parte di giovane età e che hanno confidenza col digitale) che continuano a voler stampare carta? Il percorso del capitolo quarto sarà il seguente: innanzitutto si presenteranno i quattro filoni di ragioni che si ritiene possano riassumere quanto le persone che si interessano di tale fenomeno indicano come spiegazioni. Si andrà poi ad ‘allargare lo sguardo’ chiedendosi: in che tipo di cultura viviamo? C’è qualche aspetto della cultura in cui si vive che può aiutare a comprendere il perché di questo fenomeno? Si troverà nel paradigma della 152


TRE FENOMENI E UN FATTO RIGUARDANTI L’EPOCA DELLA PROFONDA PERVASIVITÀ DEL DIGITALE

Cultura convergente (concepito da Henry Jenkins) una prima spiegazione. Si passerà poi a vedere come, in tale tipo di cultura, gli attori mediali si comportano (o come si dovrebbero comportare). Dopo questi due primi e necessari passaggi, si arriverà dunque al cuore della questione, ovvero ‘il perché’. Chiaramente, chi scrive non ha la pretesa di dare ‘la risposta giusta’: è un tentativo e – auspicabilmente – un contributo alla discussione tutt’oggi in atto attorno a tale fenomeno.

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CAPITOLO QUARTO

BENJAMIN EASTHAM

DAN CROWE

4.1 LE DIVERSE SPIEGAZIONI PROPOSTE: QUATTRO ORDINI DI RAGIONI Nel corso delle ricerche svolte al fine di redigere questa trattazione si sono incontrati svariati testi che si interrogano sul come mai questo fenomeno dell’editoria periodica grassroots non sia già morto, non sia in agonia ma – al contrario – acquisisca sempre più ‘seguaci’, che si fanno maker di questi prodotti editoriali cartacei. Le ragioni incontrate sono suddivisibili in quattro ordini. Il primo ordine di ragioni si focalizza sulla dimensione collaborativa (opposta ad un atteggiamento autoreferenziale) che i maker adottano e portano avanti: il fatto di produrre – o di tentare di produrre – prodotti cartacei in un’epoca di profonda pervasività del digitale come quella attuale viene fatta ricadere sul dialogo che questi produttori cercano di instaurare con altri soggetti e tra di loro. All’interno di questo approccio ‘dialogico’, si sono riscontrate tre principali tipologie di realtà cui con cui i maker cercano di intrattenere delle relazioni fruttifere. La prima di queste tre è costituita da altre realtà commerciali: brand (più o meno affermati, riconosciuti e noti) e potenziali inserzionisti o acquirenti di branded content o soci per partnership. Un caso interessante da illustrare per questa voce è quello costituito da Port magazine, il cui oramai ex editor-in-chief Dan Crowe ha dichiarato:

«You’ve got to start right at the top, and that’s why I poach writers from the New Yorker». Altra figura sempre attinente l’universo di Port è quella del suo fondatore Matt Willey, il quale ha poi abbandonato tale esperienza editoriale per divenire art director presso The New York Times Magazine. Certamente, non tutti i maker di questi prodotti mediali hanno la fortuna di iniziare «right at the top» come nel caso di Dan Crowe: la collaborazione e il rapporto con altri attori di settori attinenti (distribuzione, inserzionismo, stampa e via di questo passo) è, nella maggior parte dei casi, un lungo e travagliato percorso. Un esempio è quello della già menzionata fondatrice de Disegno Johanna Agerman-Ross, la quale – dichiara – ha dovuto impiegare un anno del suo tempo per trovare il rivenditore di carta da stampa più calzante con le proprie esigenze e la propria disponibilità economica. Percorso, questo attinente la ricerca di rapporti soddisfacenti con chi è nel mondo della fornitura di carta e della stampa, che è stato lungo anche per – ad esempio – Benjamin Eastham de The White Review. Afferma Eastham in un dialogo avvenuto con Angharad Lewis per la redazione di So you want to publish a magazine?:

«The way to bring costs down is to develop personal and mutually beneficial relationships with people you’re working with» e poi prosegue:

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IL PERCHÉ DI QUESTO FENOMENO: DAL TIPO DI CULTURA IN CUI SI VIVE, ALCUNE DIREZIONI DI RISPOSTA

«Then it becomes possibile to make something that would otherwise be impossible. We have a very good relationship with our printer, Push, in Bermondsey. They have given us a very good deal from the start. They use the magazine as a showcase for what they can do».

1 Daniels Steve (2015) https://medium.com/swlh/ how-to-start-a-magazinef510f14566c5

fig.1 Le sei quarte di copertina de Printed Pages acquistate da Paul Smith su cui lo stilista ha posizionato sei scatti da lui realizzati e precedentemente caricati su Instagram.

La parte finale di questa affermazione di Eastham si ritiene come strettamente legata a quanto affermato nell’ultimo paragrafo del precedente capitolo: il fatto che si verifichi un ‘allineamento’ tra la direzione editoriale e la direzione artistica può far sì che, in certi casi, l’oggetto magazine da produrre diventi di valore anche agli occhi dello stampatore il quale potrebbe decidere di usarlo come ‘oggetto-vetrina’ delle sue qualità lavorative e produttive, rendendolo così più disponibile a delle agevolazioni. Un altro caso – si ritiene – felice è quello della avvenuta collaborazione tra il fashion designer Paul Smith e il magazine brand Printed Pages. Printed Pages nasce dell’antecedente blog It’s Nice That, riconosciuto luogo di showcasing del meglio del design (per lo più grafico) contemporaneo. Nel 2015, il brand di moda e il media grassroots britannico hanno avviato una collaborazione per cui la testata ha raccontato diverse fashion stories legate a Paul Smith: si può definire, a tutti gli effetti, come una operazione di branded content. Un altro esempio, forse ancora più interessante, è stata la vendita della quarta di copertina di Printed Pages ancora al brand di Paul Smith. Si tratta, per la precisione, della vendita della quarta di copertina di sette uscite del periodico cartaceo che poi Paul Smith ha utilizzato per mostrare sette scatti da lui realizzati e condivisi tramite la piattaforma social Instagram. È bene notare che queste sette fotografie non sono state caricate online dall’account ufficiale del brand Paul Smith bensì proprio dall’account personale dello stilista con tanto di hashtag #takenbypaul. Si è parlato, anche precedentemente nel corso di questa trattazione, di realtà editoriali grassroots che, non riuscendo a sostentarsi solamente grazie alle vendite e – se presente – ai ricavi dell’advertising, devono reinventarsi e divenire anche agenzia creativa producendo così contenuti per dei soggetti terzi. Vi sono poi casi considerabili come ‘opposti’, ad esempio quello del magazine brand Weapons of Reason, che è nato dall’agenzia creativa londinese Human After All. Human After All ha lavorato per aziende del calibro di Google e la collaborazione tra quest’ultima e l’agenzia creativa si è poi andata a ‘traslare’ anche sul versante del prodotto editoriale. Altro caso, di tipo più usuale, è quello della già menzionata attività di consulenza portata avanti dalle menti alle spalle di Cereal. Tutto ciò risulta in linea con quanto affermato da Steve Daniels, fondatore dell'ormai defunto Makeshift. Egli, in un suo articolo1 pubblicato sulla piattaforma Medium nel quale racconta cosa ha imparato dai primi quattro anni lavorativi passati nel settore editoriale, scrive un paragrafo dal titolo The magazine is not your product nel quale afferma:

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1


CAPITOLO QUARTO

STEVE DANIELS

«The reality is no independent magazines survive on the traditional model of magazine and ad sales. You will become a B2B company as much as a B2C company».

2

fig.2 Screenshot della sezione Shop del portale de Madewell in cui viene venduto Cherry Bombe. (17 marzo 2017).

Un caso considerato limite è, infine, quello di Cherry Bombe. Si tratta di un magazine brand fondato nel 2014 grazie all’intuizione di Claudia Wu e Kerry Diamond. Il lancio è avvenuto grazie a una campagna di crowdfunding avviata sulla piattaforma Kickstarter che a maggio 2014 ha portato nelle mani delle fondatrici circa 42mila dollari. Si tratta di un prodotto editoriale volto a raccontare l’amore per il cibo vissuto da parte delle donne. Poi, dal secondo numero (compreso) di Cherry Bombe in avanti, la testata è stata sponsorizzata dal brand di jeans (e, più in generale, di abbigliamento) Madewell. Madewell ha anche coperto le spese per l’evento di inaugurazione della realtà editoriale in questione e oggi, in cambio del sostentamento economico necessario, ha diverse pagine dedicate al suo advertising e articoli di branded content lungo il flusso del cartaceo. La sponsorizzazione è arrivata poi, di fatto, a ‘snaturare’ quello che era il focus editoriale originario della testata facendola passare dal cibo a il cibo unito però anche all’abbigliamento e alla moda. Inoltre Cherry Bombe può essere acquistato online dal portale del brand Madewell e la descrizione che qui ne viene fatta conferma quanto appena affermato circa la ‘modificazione’ editoriale: «Cherry Bombe is dedicated to food and the women who love (and make) it. Founded by former coworkers Kerry Diamond (a one-time magazine editor and PR exec turned Brooklyn restaurateur) and Claudia Wu (a creative director and entrepreneur), this biannual delicacy combines a fashion mag sensibility with must-try-now recipes». In secondo luogo, accanto alle collaborazioni e ai rapporti che vengono intrattenuti con realtà commerciali, i maker di questi prodotti mediali cercano, nell’era che secondo Henry Jenkins è caratterizzata – tra le altre cose – da quella che viene da lui definita ‘cultura partecipativa’, di coltivare relazioni anche con i privati cittadini. Esempio ‘luminoso’ di ciò è la già menzionata (nel capitolo precedente) social distribution concepita e messa in pratica dal fondatore de Works That Work, Peter Bil’ak. Un secondo esempio costituente questo filone è il caso del già menzionato e defunto Makeshift, il quale (conscio dell’importanza del progettare per la ‘diffondibilità’ mediale della quale si parlerà in modo più approfondito nel paragrafo successivo) decise di offrire sconti sul prezzo degli abbonamenti digitali e cartacei ai propri utenti, basandosi sul numero di condivisioni che questi effettuavano dei contenuti del magazine brand. In terzo luogo, una delle ragioni che vengono enunciate per dar ragione dell’avvenire di tale fenomeno è quello delle associazioni che nascono per raccogliere-accogliere i maker. Un esempio di tali associazioni è costituito dall’ente Little magazine coalition, con sede a New York City. Nella sezione About del portale si legge:

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IL PERCHÉ DI QUESTO FENOMENO: DAL TIPO DI CULTURA IN CUI SI VIVE, ALCUNE DIREZIONI DI RISPOSTA

«Through gatherings, workshops and the fostering of business partnerships, The little magazine coalition strives to make small magazines more visible and professionally viable».

«The Internet is an essential tool for independent magazine businesses to spread the world, talk more frequently to their community and mantain a shopfront». Paradossalmente, quel che spesso si sente definire come la causa del declino dell’editoria periodica di stampo puramente commerciale e mainstrem (ovvero: l’ascesa del digitale) sembra essere, per questi (più o meno) giovani e piccoli maker, un volano irrinunciabile. Da nativi digitali quali sono, comprendono le dinamiche dell’online e ‘giocano al suo gioco’, come si cercherà di illustrare meglio più avanti. Inoltre, non è nemmeno più necessario ‘scontrarsi’ duramente (come accadeva in un tempo non distante) con le difficoltà portate dal non conoscere i linguaggi di scrittura delle pagine web o della programmazione. L’ascesa dei social network permette addirittura di non doversi nemmeno più rapportare con template preconfezionati che potrebbero andare incontro a possibili e magari difficoltose necessità di modifiche. Ciò è vero sia per la promozione e la awareness del proprio prodotto che per la sua vendita: essa può essere realizzata completamente in digitale appoggiandosi a servizi e piattaforme già esistenti come Amazon oppure decidendo di integrare un servizio di pagamento con una delle stringhe di codice all’interno dalla propria pagina web. Un esempio è costituito dal servizio Paypal. Molte delle realtà editoriali cartacee grassroots sono nate proprio dopo aver guadagnato una certa awareness grazie, ad esempio, a un blog online. Un esempio è quello costituito da Sidetracked il cui fondatore (il graphic designer John Somerton) afferma, in dialogo con Angharad Lewis:

«The website had grown to a point that it had become a respected and valued source of adventure-related content… So, with the recent resurgence of independent print, I thought it was time to give it a go». Oggi, oltre che un blog, Sidetracked è anche una pubblicazione periodica che esce tre volte all’anno. Certamente, però, bisogna notare che non tutti questi editori sposano l’uso delle piattaforme social: un caso di chi le rifiuta è costituito da Delayed Gratification, il cui fondatore (Rob Orchard) afferma in una delle interviste realizzate da Jeremy Leslie, poi confluite in Independence – 12 interviews with magazine maker: «I hate social media, I don’t understand it. If you look 157

ANGHARAD LEWIS

Marchio de Little magazine coalition. Immagine disponibile presso https://goo.gl/ wmxKzB

3

JOHN SOMERTON

fig.3

La volontà è quella di formare un network di piccoli produttori (il valore minimo di tiratura per ‘accedere’ all’associazione è pari a mille copie mentre il massimo è di diecimila) perché sia per loro più facile venire a conoscenza di fornitori, attori del mondo della distribuzione e via di questo passo. Il secondo ordine di ragioni attiene, invece, il ruolo che il digitale ha avuto ed ha nel ‘facilitare’ i maker nel far venire a conoscenza del proprio prodotto le persone a cui intendono rivolgersi. Il contenuto di questa ragione è di facile comprensione, come afferma Angharad Lewis in So you want to publish a magazine?:


CAPITOLO QUARTO

at our Facebook timeline, it foes January 2011 ‘We’ve launched, hooray!’, February 2011 ‘We were on the BBC Today programme’, and then just years of nothingness». Aldilà del sentimento di ‘odio’ che Orchard potrebbe provare o meno nei confronti dei social network come Instragram o Facebook, si ritiene che Delayed Gratification sia uno di quei casi in cui, a livello di identità del proprio brand, un’assenza dall’agone dei social media possa avere senso. Per comprendere ciò, si vada a vedere quanto affermato circa il tipo di racconto giornalistico che questa realtà editoriale propone, di cui si è discusso lungo l’ultimo paragrafo del terzo capitolo. Di seguito, dopo questo ampio secondo ordine di ragioni, ve ne è un terzo che si concentra sull’oggetto fisico e sulla sua materialità focalizzandosi sul fatto che, se qualcosa è stampato su carta, questo acquista un valore che non potrebbe acquistare rimanendo rappresentato dai pixel di un monitor. La carta come ‘luogo di valorizzazione’ del contenuto. Tali tesi non risultano come anacronistiche se si guarda, ad esempio, all’importanza che certi grandi marchi conferiscono al veicolare i propri messaggi, i propri credo affidandosi anche al supporto cartaceo, con una pubblicazione periodica. Di ciò ha parlato anche, tra gli altri, Jeremy Leslie in un suo scritto dal titolo Take me… magazines as brand messengers, contenuto in magCulture: new magazine design (si veda la bibliografia). In tale scritto, l’autore racconta di come (siamo nel 2003) i magazine che godono dei maggiori valori di circolazione nel Regno Unito siano di tipo ‘customer’: JEREMY LESLIE

«As I write this, the highest circulation magazines in the United Kingdom are Sky magazine, O magazine and the AA magazine. None of these titles are available on the newsstand, none are available by subscription. If you watch Sky television, use an Orange mobile phone or are a member of the AA car rescue service you will receive them. […] They are produced and distributed by publishers on behalf of commercial clients and are the clearest marker of the growth of customer publishing». Si tratta quindi di quelle pubblicazioni prodotte dai brand al fine di comunicarsi ai propri potenziali o effettivi consumatori. Questi prodotti vengono anche definiti come ‘house organs’. Poco più avanti, parlando ancora di questi house organs, Leslie afferma:

«Magazine designers have become brand experts, responsible for some of the strongest brand around today». Aldilà del fatto che i magazine designer siano effettivamente o meno ‘responsabili’ di alcuni tra i più grandi brand di oggi (l’affermazione risulta, a chi scrive, un poco esagerata per via della sua portata) è però vero che ci sono stati e ci sono brand fortemente riconosciuti che hanno deciso di affidarsi (tra gli altri) anche a magazine designer per comunicarsi. Non si tratta di niente di nuovo, ma sorprende che il medium cartaceo venga ancora oggi, in alcuni casi, selezionato. Interrogandosi sul perché ciò avvenga, vengono in aiuto le parole di Henry Jenkins e di Jay David Bolter e Richard Grusin. Jenkins, nel suo già menzionato documento Convergence? I diverge scrive, tra le altre cose:

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Bolter Jay David, Grusin Richard (a cura di) Marinelli Alberto (traduzione di) Gennato Benedetta (2002) Si veda la bibliografia.

Ciò che lo studioso statunitense afferma si ritiene in linea con quanto descritto da Jeremy Leslie: quello del magazine cartaceo è sì un medium che ha davanti a sé una dura lotta per la sopravvivenza nel momento di profonda pervasività del digitale in cui ci si trova ma, al contempo, resta comunque una ‘piattaforma’ che ha saputo ottenere una propria autorevolezza nel corso del tempo e che, quindi, ancor oggi viene utilizzata (seppur spesso in modi molto diversi rispetto al passato, come anche le realtà editoriali grassroots raccontate in questa trattazione mostrano). E questa autorevolezza risulta in linea con quanto affermato da Bolter e Grusin, autori de Remediation – Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi.2 Gli autori affermano:

«L’età relativa di ogni tecnologia rappresenta indubbiamente un fattore importante rispetto al suo specifico significato culturale. Per esempio, i sostenitori del libro a stampa reclamano uno status speciale in ragione della venerabile età della carta stampata».

fig.4 Copertina de Sky Magazine, maggio 2003. Immagine disponibile presso https://goo.gl/ Oz4mMg

È proprio lo ‘status speciale’ di cui parlano Grusin e Bolter quel che sembra venire percepito come reale ancora oggi (quattordici anni dopo le sopra citate affermazioni di Jeremy Leslie) persino da certi grandi marchi e multinazionali del calibro di, ad esempio, Airbnb. Nell’inverno del 2014, infatti, il riconosciuto servizio Airbnb ha lanciato il magazine Pineapple con il fine di raccogliere, rielaborare e pubblicare racconti di vita ed esperienze dei fruitori del servizio. Da allora è uscito solo il primo numero, e non è tuttora chiaro cosa ne sarà di Pineapple. Malgrado ciò, l’intuizione che ha indirizzato Airbnb verso la pubblicazione di un prodotto cartaceo si ritiene in linea con quanto affermato dagli studiosi Jenkins, Grusin e Bolter: la carta come luogo di ‘ascesi’ del proprio contenuto che sul supporto materiale sta e da lì mai si muoverà, mai sparirà. È tra l’altro interessante notare uno sviluppo avvenuto dal momento (2003) in cui Leslie parlava di certi house organ come O magazine o Sky magazine: il caso di Pineapple è diverso. Ciò si può notare in primo luogo dal nome della testata, che è diverso dal nome del brand. Questa operazione, per quanto possa sembrare banale, viene ritenuta come decisiva per via di come e cosa tale pubblicazione vuole comunicare ai lettori. Non si tratta infatti di un ‘catalogo cartaceo’ di Airbnb e delle sue offerte, bensì una raccolta di storie e testimonianze di esperienze vissute da chi ha utilizzato il servizio: il focus non è sul servizio in sé bensì sul mondo che vi ruota attorno. Cosa ruota attorno a ciò che Airbnb offre? Le storie delle persone, le loro esperienze di viaggio e via di questo passo. In questo modo, focalizzandosi su tali tipologie di contenuti, il lettore può essere portato a provare interesse per le offerte di Airbnb venendo esse ‘prese alla larga’; qualcosa che risulta in analogia con 159

BOLTER JAY DAVID e GRUSIN RICHARD

«A medium’s content may shift, its audience may change and its social status may rise or fall, but once a medium establishes itself it continues to be part of the media ecosystem».

2

HENRY JENKINS

IL PERCHÉ DI QUESTO FENOMENO: DAL TIPO DI CULTURA IN CUI SI VIVE, ALCUNE DIREZIONI DI RISPOSTA

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CAPITOLO QUARTO

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fig.5 Doppie pagine de Pineapple issue 1. Immagini disponibili presso https://www. airbnb.com/pineapple

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DILLON BAKER

Baker Dillon (2015) https://contently.com/ strategist/2015/07/20/7brand-with-printmagazines-that-areactually-awesome/

la frase di Antoine de Saint Exupéry contenuta in Cittadella: «Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito». Per altro, sfogliando le pagine di Pineapple, si può notare come esso, a livello di veste grafica, ricalchi in qualche maniera quella ‘estetica del bianco’, del non aver paura di lasciar ‘respirare la carta’ peculiare di tante pubblicazioni grassroots e di cui si è fatto qualche esempio nell’ultimo paragrafo del capitolo precedente. Di questa prima uscita di Pineapple ha parlato anche un articolo3 apparso su Contently nel giugno del 2015:

«The magazine’s initial run of 18,000 copies was distributed to hosts in Airbnb’s network as a kind of coffee table centerpiece, tangible piece of traveloriented storytelling that makes staying at an Airbnb a bit more of a branded experience than simply using the app to crash at someone’s house». Come si evince da questa citazione dell’autore dell’articolo Dillon Baker, con questa pubblicazione la volontà è stata quella di tentare di far percepire l’esperienza proposta da Airbnb come qualcosa di più che un’applicazione con cui ‘fare irruzione’ nella casa di qualcuno. Un altro esempio è quello costituito da The Red Bulletin, media company nata da Red Bull la quale è, fra le altre cose, anche un magazine mensile cartaceo, distribuito in dieci paesi. Chiaramente, il focus editoriale mira a raccontare storie di sportivi e avventurosi con le loro imprese estreme, il tutto in linea con l’identità di marca di Red Bull.

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IL PERCHÉ DI QUESTO FENOMENO: DAL TIPO DI CULTURA IN CUI SI VIVE, ALCUNE DIREZIONI DI RISPOSTA

fig.6 Copertina e doppia pagine de The Red Bulletin, ottobre 2013. Immagini disponibili presso https://goo.gl/ MpDTil

4

Un successivo ordine di ragioni che viene variamente spiegato riguarda i topic, i focus editoriali che queste pubblicazioni perseguono. Di ciò parla anche un articolo4 apparso su strategy-business.com nell’agosto del 2009, il quale – ad un certo punto – si focalizza su cosa dovrebbe fare l’industria della carta stampata periodica (gli autori Matt Egol, Harry Hawkes e Greg Springs non si focalizzano su media grassroots o mainstream: sono osservazioni ‘ad ampio raggio’) e affermano, tra l’altro:

Egol Matt, Hawkes Harry, Spring Greg (2009) http://www.strategybusiness.com/ article/09308?gko=2c407

«The first strategy is to develop deeper relationships with readers around targeted interest areas. This builds on a strength that has always been at the heart of publishing: strong print brand enjoy a trusted relationship with their audience; readers are loyal to print publications because they provide high-quality content about specific interest areas». Gli autori parlano qui della necessità di costruire una relazione profonda con i propri lettori mediante la scelta di un’area di interesse molto specifica, circoscrivibile. Il fatto è che, per le pubblicazioni grassroots che in questa trattazione vengono narrate, ciò non viene concepito tanto come una ‘strategia’ bensì come qualcosa che – semplicemente – è così, senza che nemmeno ci si debba ragionare sopra. Ciò è comprensibile, in primo luogo, guardando alla conformazione dei ‘team editoriali’ che stanno alle spalle di queste pubblicazioni. Come è stato discusso nel corso del capitolo precedente, si tratta di team molto ristretti, a volte addirittura composti da una singola persona. Ciò comporta il fatto che, non avendo una grande redazione sulla quale contare, non vi siano fisicamente forze per coprire molteplici aree di interesse. Si ritiene che questa limitazione oggettiva sia in realtà uno dei maggiori vantaggi di questi prodotti editoriali perché essa è una di quelle ragioni che fa sì che essi non vadano a rendersi ‘sovrapponibili’ con prodotti generalisti di stampo commerciale, ovvero quei prodotti in declino di cui si è discusso nel corso del secondo capitolo. Nel momento in cui un privato cittadino decide di lanciarsi in un’avventura editoriale, è molto probabile che lo faccia spinto da una passione particolare, molto circoscrivibile. È quindi possibile che egli diventi una voce ‘autorevole’ per quell’area di persone che, come lui, nutrono quel tale interesse. 161

EGOL MATT, HAWKES HARRY e SPRING GREG

6


CAPITOLO QUARTO

DAVID LANE

Per la verità, osservando i magazine brand citati nel corso di questa trattazione, chi scrive si è accorto di come il distaccarsi da un approccio generalista veda due modalità di compiere tale operazione. La prima modalità consiste nel trattare un topic usuale (cucina, viaggi e via discorrendo) adottando però un taglio molto particolare per narrarlo. Un esempio è costituito da The Gourmand, il quale tratta sì di cibo e cucina ma con un taglio grazie al quale non si tratta più ‘solamente di cibo’ come argomento in se stesso bensì come ‘volàno’ per qualcosa d’altro, come afferma il fondatore David Lane in una delle dodici interviste che va a comporre Independence – 12 interviews with magazine maker:

«It’s food as a form of communication, food as a way to discuss art, music, film, fashion, literature and all sorts of other things. Food as a way to interview people, food as an inspiration for creatives to produce new work. Meals are a time when you sit down with people you know and talk about things. It’s a time when you are a creative even if you are not a creative person». Qualcosa di analogo a questo taglio operato al tema del cibo è operato anche dalla già menzionata testata Put A Egg On It, la quale si preoccupa di guardare il ‘food’ sotto la lente di vista della convivialità: narrazioni di discussioni e momenti passati insieme attorno ad un tavolo prima ancora che narrazioni delle qualità o caratteristiche di certi alimenti. Altro esempio attinente invece il mondo del viaggio e della scoperta di nuovi luoghi è quello, ancora una volta, di Cereal: si veda quanto detto a proposito di questo magazine brand nel corso dell’ultimo paragrafo del capitolo precedente. Spostandosi invece sul topic del fashion si può vedere, ad esempio, The Gentlewoman. Penny Martin, editor-in-chief del magazine brand in questione, intervistata da Angharad Lewis per So you want to publish a magazine? afferma:

PENNY MARTIN

«We started the magazine as an alternative to the women’s fashion magazines industry out there, but speaking from inside the industry; we weren’t trying to bit the hand that feeds us, because we love fashion. It’s possible to present an intelligent view of fashion if it’s done with high standards and reflects an appreciation of why most people are fascinated with fashion in the first place». In cosa consiste questa intelligent view di cui Penny Martin parla? Lo spiega brevemente la fautrice dell’intervista in questione:

«Defying conventions about women’s magazines and fashion titles, it has carved out a unique place in the publishing firmament with intelligent, witty journalism, exemplary standards in design and photography, and a focus on real women’s life, rather than products and 162


IL PERCHÉ DI QUESTO FENOMENO: DAL TIPO DI CULTURA IN CUI SI VIVE, ALCUNE DIREZIONI DI RISPOSTA

slavish adherence to commercial fashion cycles».

http://magculture.com/ magazine-of-the-weekmc1r-2/

fig.7 Doppia pagina de Perdiz issue 6. Immagine disponibile presso https://goo.gl/ Em21th

Sempre restando ancora nell’area della moda e del fashion, si può prendere Pylot magazine come altro esempio di realtà editoriale che tratta un tema già largamente esplorato ma in una modalità particolare. Si tratta di una pubblicazione che esce due volte all’anno e che ha, come sua peculiarità, quella di proporre esclusivamente immagini realizzate in analogico bandendo, di fatto, ogni forma possibile di post produzione e fotoritocco. A parte la loro scansione per poter essere portate sul portale o sui file di impaginazione della pubblicazione, le fotografie analogiche non subiscono trattamenti. Ciò risulta come una ‘presa di posizione forte’ e quindi un taglio particolare soprattutto se si considera il principale tema della rivista, ovvero quello della moda. La seconda modalità è, invece, quella di trattare topic e tematiche meno usuali se non addirittura inedite. Queste si distinguono spesso per la loro eccentricità e singolarità. Il primo esempio di ciò è costituito da Perdiz, media spagnolo con sede a Barcellona il quale si occupa di ‘ciò che fa felice le persone’. La fondatrice, Marta Puigdemasa, ha fatto suo un focus editoriale particolare: raccogliere e proporre storie di persone reali che spiegano cosa fa loro provare gioia nella vita quotidiana. Un esempio è quello di una narrazione illustrata a cura dell’illustratore spagnolo Alexis Nolla, contenuto nella sesta uscita di Perdiz: la storia di un uomo che ha perseguito per venticinque anni della sua vita un sogno d’infanzia, ovvero quello di trovare e vedere il mostro di Lochness. Il racconto illustrato è nato da una intervista realizzata ad un uomo che ha veramente, per un quarto di secolo, ricercato il leggendario mostro acquatico. Un secondo esempio è quello di MC1R. MC1R è un magazine brand volto a raccontare storie di vita di coloro i quali sono nati con i capelli rossi. Infatti, ‘MC1R’ è il nome del gene recessivo che si trova sul cromosoma 16 e che nel caso di queste persone ha due coppie mutate. Questo dà origine al rutilismo, caratteristica che ha chi ha i capelli di questo colore. Quando al fondatore Tristan Rodgers viene chiesto in una intervista5 a cura di magCulture da dove sia nata questa idea editoriale, egli risponde affermando:

«Red-heads are one of the smallest minorities in society, and they often grow up without the kind of self-understanding that would protect them from discrimination, stereotyping and bullying. When I was a child, I had no support or anyone to look up to or learn from. With this project, I hope to give younger red-head the experience that I missed».

MC1R

si vedano pp. 164-165

Da ultimo, si vuol chiudere questa breve esposizione di esempi editoriali che si concentrano su tematiche considerabili come eccentriche con il caso di Guts magazine. ‘Gut’ si può tradurre in italiano con ‘cose intime, personali’ o, nella valenza fisica del termine, con ‘l’atto di eviscerare’. 163

166

7

TRISTAN RODGERS

5


GALLERIA MC1R ISSUE MAGAZINES ISSUE 2

164


NOME MAGAZINE IN PAGINA BU

165


CAPITOLO QUARTO

Difatti, si tratta di una pubblicazione il cui focus sono appunto i segreti, i misteri personali e intimi delle persone. Tra le altre cose, viene data tale descrizione sul portale stesso del medium:

«We’re obsessed with the presence of people’s privacy and secrets gyrating publicly across every platform. We have an uneasy love for it. Public confessing has become a common way we interact with each other. We’re jumping on the bandwagon of self-evisceration and taking advantage of your voyeuristic itches to stuff some printed pages down your throats». Da ciò deriva una linea editoriale spesso ‘scomoda’, che potrebbe mettere in soggezione o a disagio. Ad ogni numero viene trattato un tema specifico diverso, come ad esempio il ‘non sapere cosa e chi si è’ che spinge poi a compiere azioni classificabili – per l’appunto – come ‘inconfessabili’ della seconda uscita, oppure la tematica del disagio provato davanti a chi ‘dà ordini senza però seguirli nemmeno per se stesso’ del numero cinque. Da ultimo, una sorta di ‘ragione-cappello’ al di sopra delle tre finora elencate, pare essere quella di una forte attenzione per il design grafico, di cui si è peraltro parlato nel capitolo precedente. Si ritiene che questo aspetto abbia certamente un peso, anche guardando alle parole di Richard Lanham prima citate, ma su tale aspetto si ritornerà in modo più esteso più avanti e poi nelle conclusioni.

166


IL PERCHÉ DI QUESTO FENOMENO: DAL TIPO DI CULTURA IN CUI SI VIVE, ALCUNE DIREZIONI DI RISPOSTA

Jenkins Henry (2010) Culture partecipative e competenze digitali. Guerini e Associati

7 Jenkins Henry, Green Joshua, Ford Sam (2013). Si veda la bibliografia.

fig.8 Immagini del fotomontaggio realizzato da Dino Ignacio nel 2001.

Il paragrafo precedente del presente capitolo mirava a dare una breve ‘rassegna’ delle ragioni che oggi vengono proposte come spiegazioni alla domanda: come mai questo fenomeno sussiste? Si ritiene che gli ordini di ragioni poco prima presentati facciano tutti parte di una possibile risposta, ma si crede – al contempo – che si debba ulteriormente ‘allargare lo sguardo’ per meglio comprenderla. Quel che viene proposto in questo paragrafo non ha la pretesa di essere una risposta univoca ed esauriente, ma si ritiene comunque essere parte fondamentale dei fattori di cui tenere conto. Viene qui in aiuto Henry Jenkins, noto accademico e saggista statunitense il quale si occupa di media, giornalismo e comunicazione in senso ampio. Attualmente è docente alla University of Southern California. In precedenza ha avuto una cattedra anche al MIT. Uno dei temi a lui più cari e che più l’hanno reso noto è quello della cultura partecipativa. Egli spiega di cosa si tratti nella sua pubblicazione Culture partecipative e competenze digitali6 affermando: «Una cultura partecipativa è una cultura con barriere relativamente basse per l’espressione artistica e l’impegno civico, che dà un forte sostegno alle attività di produzione e condivisione delle creazioni e prevede una qualche forma di mentorship informale, secondo la quale i partecipanti più esperti condividono conoscenza con i principianti. All’interno di una cultura partecipativa, i soggetti sono convinti dell’importanza del loro contributo e si sentono in qualche modo connessi gli uni con gli altri (o, perlomeno, i partecipanti sono interessati alle opinioni che gli altri hanno delle loro creazioni)». Una delle ragioni per cui una cultura può effettivamente partecipativa (malgrado le difficoltà e gli ‘attriti’ che questo tipo di mentalità può portare come illustra lo stesso Jenkins assieme a Sam Ford e Joshua Green in, ad esempio, Spreadable Media7) risiede nella cosiddetta ‘convergenza culturale’ anche detta ‘paradigma della cultura convergente’. In cosa consiste tale paradigma? La risposta è difficoltosa da dare in forma univoca e precisa, ma si cercherà di aiutarsi con il pensiero di Henry Jenkins anche provando ad affiancarlo ‘per contrasto’ con tesi opposte, come quella del paradigma della rivoluzione digitale teorizzato, ad esempio, da Nicholas Negroponte. ‘Cultura convergente’ è anche il titolo di una pubblicazione di Jenkins, portata in Italia da Apogeo nel 2007 (a tal proposito, si veda la bibliografia). Nell’introduzione, l’autore americano inizia con un esempio per far capire, nella pratica, cosa significhi il paradigma della cultura convergente. Cita il caso di Dino Ignacio, un ragazzo filippino che vive in America il quale, nel 2001, realizza un ironico fotomontaggio in cui affianca Osama Bin Laden con Bert, personaggio della serie televisiva Sesame Street tramite l’uso dell’applicativo Adobe Photoshop. L’immagine viene poi caricata sulla rete dal giovane autore e, dopo i fatti dell’Undici settembre, un editore del Bangladesh ‘scansiona’ la rete alla ricerca di immagini pro al-Qaida e Bin Laden e anti-statunitensi per realizzare manifesti, magliette, poster e via discorrendo. Nel mondo arabo, eccezion fatta che per il Pakistan, la serie Sesame Street non veniva diffusa, pertanto non era conosciuta. Ciò ha fatto sì che l’editore non riconoscesse la figura di Bert e quindi non riconoscesse nemmeno il carattere ironico

167

HENRY JENKINS

4.2 IL PARADIGMA DELLA CULTURA CONVERGENTE COME CONDIZIONE NECESSARIA

6

8


CAPITOLO QUARTO

dell’immagine. I reporter della CNN, nei tempi immediatamente successivi l’attentato al World Trade Center, si sono trovati a riprendere scene di proteste popolari nel Medioriente in cui, qua e là, apparivano manifesti e stendardi riportanti l’immagine di Bin Laden al fianco di Bert. Ciò generò una controversia in cui i produttori di Sesame Street si dichiaravano come parte lesa, minacciando azioni legali. Come afferma Henry Jenkins:

«From his bedroom, Ignacio sparked an international controversy. His images crisscrossed the world, sometimes on the backs of commercial media, sometimes via grassroots media. And, in the end, he inspired his own cult following» e prosegue affermando:

«Welcome to convergence culture, where old and new media collide, where grassroots and corporate media intersect, where the power of the media producer and the power of the media consumer interact in unpredictable ways». E si ritiene che questo sia un primo aspetto comportato dal paradigma della cultura convergente: forze top-down e forze bottom-up (grassroots, che nascono dal basso) che vengono ad incontrarsi da qualche parte, a ‘metà della strada’. Ciò è visibile anche guardando alle esperienze editoriali raccontate in questo studio, ed è uno dei motivi per cui si è preferito – come dichiarato all’inizio del capitolo terzo – parlare di realtà grassroots piuttosto che di realtà ‘indipendenti’. Sempre secondo Henry Jenkins, una caratteristica basilare del paradigma della cultura convergente è quella riguardante il comportamento dei vecchi media (ad esempio: i libri, le riviste cartacee e più in generale i prodotti a stampa) in rapporto con i nuovi media digitali: secondo il saggista statunitense, ciò che avviene dopo la ‘collisione’ è, per parte delle piattaforme vecchie, un ricollocamento, una traslazione della loro audience, del loro ruolo e della loro concezione. Questo risulta di facile comprensione se si osserva, ad esempio, l’accento sul tipo di giornalismo (cultural journalism, di cui all’ultimo paragrafo del capitolo terzo) che i maker in questione adottano: chiaramente, è ormai impensabile che un prodotto cartaceo tratti di news. Spiega questo aspetto di ‘ricollocamento’ poco più avanti quando afferma:

«Sometimes, the new media companies spoke about convergence, but by this term, they seemed to mean that old media would be absorbed fully and completely into the orbit of the emerging technologies». Il ‘ricollocamento’ è quindi qualcosa di molto diverso dal ‘venire assorbiti’ dei media vecchi da parte dei media nuovi, digitali. Al contrario, i vecchi si ‘reinventano’ e si spostano, appunto. Un altro esempio per far capire ciò nel campo dell’editoria periodica grassroots oggetto di questa tesi risiede nel fatto che oggi, nella assoluta maggioranza dei casi, tali prodotti cartacei non vengono più distribuiti nelle edicole utilizzando i canali di

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IL PERCHÉ DI QUESTO FENOMENO: DAL TIPO DI CULTURA IN CUI SI VIVE, ALCUNE DIREZIONI DI RISPOSTA

Asher Marty, Negrponte Nicholas (edizione 2000) Being digital. Vintage books

9 Gilder George (1994) Life After Television: The Coming Transformation of Media and American Life. W. W. Norton & Company

distribuzione propri delle realtà commerciali e mainstream ma vanno a finire, per esempio, negli scaffali espositivi delle gallerie d’arte, ad esempio grazie al distributore inglese Antenne Books, specializzato nella diffusione di libri d’arte. Tutto ciò è in contrasto con un altro tipo di paradigma, quello che si può chiamare come ‘Paradigma della rivoluzione digitale’, che vedeva e vede non delle ‘nuove tipologie di rapporti’ tra vecchi e nuovi media bensì una completa distruzione-assorbimento operata da questi ultimi nei confronti degli altri. È un paradigma a cui viene da credere guardando, ad esempio, ai dati del mercato editoriale periodico di stampo mainstream e commerciale, mostrati anche nel corso del capitolo secondo. Tale pensiero inizia però a vacillare guardando a come il settore mediatico-editoriale sta venendo ‘reinventato dal basso’, dai piccoli editori e maker oggetto di questa ricerca. Uno dei fautori del paradigma della rivoluzione digitale è Nicholas Negroponte, che nel 1990 pubblicò un libro assieme a Marty Asher dal titolo Being Digital8 nel quale veniva disegnata una netta linea di separazione tra i vecchi media (definiti come ‘passivi’) e i nuovi media (definiti come ‘interattivi’). In questo bestseller viene predicata l’imminente e totale distruzione dell’industria mediale di tipo broadcast (quella che si occupa quindi della cultura di massa) operata dalla ‘cultura popolare’ cioè quella che nasce dal basso. A chi scrive viene però da dare ragione ad Henry Jenkins piuttosto che a Marty Asher e Nicholas Negroponte, in quanto, nei fatti, la morte dell’industria mediale broadcast non pare vedersi: è certamente in declino almeno nell’editoria periodica, ma continua a fare da controparte a quella produzione culturale grassroots, oggetto di questa tesi per quanto riguarda il suo aspetto di, appunto, editoria periodica. Altra linea di pensiero simile a quella proposta da Asher e Negroponte è stata esplicata da George Gilder, filosofo e scrittore statunitense. In una sua pubblicazione9 originalmente uscita nel 1990, Gilder afferma:

«The computer industry is converging with the television industry in the same sense that the automobile converged with the horse, the TV converged with the nickelodeon, the word-processing program converged with the typewriter, the CAD program converged with the drafting board, and digital desktop publishing converged with the linotype machine and the letterpress». Gilder è dunque un altro pensatore secondo il quale l’innovazione digitale non è venuta a trasformare la cultura ‘di massa’ bensì a distruggerla. Le osservazioni di Gilder, Asher e Negroponte risultano però poco in linea, come già accennato, con la realtà della situazione attuale. Le loro frasi non danno ragione del fenomeno editoriale cartaceo grassroots oggi in atto e pertanto, a chi scrive, è venuto da ritenere come più veritiero il paradigma della cultura convergente proposto da Jenkins. Preme qui sottolineare come per l’autore americano il fenomeno della convergenza culturale non veda nell’evoluzione tecnologica la sua prima ragion d’essere: per Jenkins, la convergenza è un processo anzitutto di tipo culturale e che ha la sua prima sede nella mente dei consumatori di contenuti mediali. Come afferma, ancora una volta, Jenkins:

«I will argue here against the idea that convergence should be understood primarily as a technological process 169

GEORGE GILDER

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CAPITOLO QUARTO

bringing together multiple media functions within the same devices. Instead, convergence represents a cultural shift as consumers are encouraged to seek out new information and make connections among dispersed media content». Quest’ultima affermazione di Jenkins richiede di effettuare due sottolineature. La prima riguarda il fatto che, secondo l’autore, non vi sarà una diminuzione del numero di device (in italiano: ‘dispositivi’) dettato dal fatto che i diversi canali mediali andranno a fondersi in uno unico. Di ciò parla anche in un articolo pubblicato nel 2001 dal titolo Convergence? I diverge, contenuto nella rivista Technology Review, già menzionato all’inizio del capitolo terzo. Tra le altre affermazioni, Jenkins dice qui:

«No single medium is going to win the battle for our ears and eyeballs. And when will we get all of our media funnelled to us through one box? Never» e in seguito:

«We will use all kinds of media in relation to one another». E, ancora, ciò sembra calzare con quanto è oggi visibile osservando i magazine brand grassroots oggetto della trattazione: nella maggior parte dei casi, i loro maker non ragionano solamente affermando “voglio realizzare un magazine”, ma qualcosa che è di più di un magazine, perché la convergenza culturale comporta il fatto che la specificità dei singoli medium vada a scemare, a sfocarsi. La seconda sottolineatura che preme fare in merito a questa citazione riguarda il cultural shift di cui l’autore parla. Infatti, secondo Jenkins, la convergenza è un processo di carattere anzitutto culturale. Si è già accennato poco prima questo concetto, e lo si vuole ora esplicitare meglio: le tecnologie in evoluzione non sono il ‘cuore’ della questione, bensì sono la conditio sine qua non grazie alla quale può avvenire, a livello di mente nelle persone, uno ‘spostamento’. Di che tipo di ‘spostamento’ si sta qui parlando? Viene ancora in aiuto Jenkins, quando parla di ‘Social or organic convergence’ nel suo già menzionato articolo pubblicato su Technology Review:

«Organic convergence is what occurs when when a high schooler is watching baseball on a big-screen television, listening to techno on the stereo, wordprocessing a paper and writing e-mail to his friends» e conclude affermando:

«It may occur inside or outisde the box, but ultimately, it occurs within the user’s cranium».

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10 http://www.pwc.com/ gx/en/industries/ entertainment-media/ outlook/data-insights.html

È qualcosa, quindi, che viene ‘innescato’ da condizioni (tecnologiche) esterne, per cui i contenuti si spalmano su varie piattaforme e possono essere fruiti in modo integrato (si veda, a tal proposito, i pattern di consumi mediali di cui si parla nel capitolo secondo) ma che ha poi un effetto sulla percezione che gli uomini hanno del consumo mediale. Tale percezione consiste nel ‘non vedere più’ come ben demarcati i confini di specificità di ogni medium. In che modo ciò riguarda anche il mondo della produzione dei periodici cartacei grassroots trattati in questa ricerca? Semplicemente, si ritiene che ciò sia la condizione grazie alla quale questo fenomeno ha la possibilità di esistere. Il ‘perché’ è un’altra questione che verrà analizzata più avanti nel corso di questo capitolo. Ciò è una ragione-cappello posta sopra le quattro categorie di ragioni di cui si è discusso al paragrafo precedente. Per spiegare ciò ulteriormente, possono essere prese in prestito le parole di Marcel Fenez, presidente di Fenez media, contenute in un suo articolo10 a commento del report Global Entertainment & media outlook 2015-2019 a cura dell’istituto PWC. A partire dal sottotitolo stesso dell’articolo, il messaggio risulta chiaro:

«Beyond digital: empowered consumers seek out tailored, inspiring content experiences that transcend platforms». Secondo l’autore, non si può più progettare la creazione di contenuti mediali ragionando ‘per compartimenti stagni’ circa le diverse piattaforme oggi disponibili ma, al contrario, occorre adottare un approccio transmediale. Inizia in questo modo Fenez: «It’s increasingly clear that consumers see no significant divide between digital and traditional media». Di seguito, l’autore prova a descrivere quale è la ‘situazione’ dei media di stampo tradizionale nel contesto attuale: «A key feature of this multifaceted environment is the resilience – and in some cases resurgence – of aspects of ‘traditional media’, including the shared, live experiences». Si ritiene che il caso dei media grassroots (con, anche, un canale cartaceo) in questione sia uno di quei casi resilienti o addirittura, forse, in ‘via di risurrezione’ di cui Fenez parla. Da notare che il presidente di Fenez media parla anche, poi, delle ‘live experiences’, che sono dei canali adottati da diverse delle testate prese qui ad oggetto: eventi di lancio di un tale issue, talks, workshops e via di questo passo sono tra le vie selezionate per farsi conoscere e tentare di ‘alimentare’ una comunità di interlocutori di un tale magazine brand. A tale proposito, si rimanda alle battute finali del terzo paragrafo del terzo capitolo in cui vengono presentati alcuni di questi casi, come ad esempio C’mon Papel o Nicer Tuesdays.

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MARCEL FENEZ

IL PERCHÉ DI QUESTO FENOMENO: DAL TIPO DI CULTURA IN CUI SI VIVE, ALCUNE DIREZIONI DI RISPOSTA


CAPITOLO QUARTO

4.3 LA CONSEGUENZA DEL PARADIGMA DELLA CULTURA CONVERGENTE: «IF IT DOESN’T SPREAD, IT’S DEAD»

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HENRY JENKINS, SAM FORD e JOSHUA GREEN

Bauman Zygmunt (2002) Si veda la bibliografia.

Il paradigma della cultura convergente presentato nel precedente paragrafo risulta come una premessa, un dato a cui guardare imprescindibilmente se si vuol comprendere come gli attori mediali si comportano (o come si dovrebbero comportare) nel contesto – appunto ‘convergente’ – nel quale si vive in questo momento storico. Vengono qui in aiuto, per meglio comprendere ciò, il già menzionato Henry Jenkins insieme a Joshua Green e Sam Ford. I tre autori hanno scritto, insieme (si veda la nota numero sette del presente capitolo), una pubblicazione dal titolo Spreadable Media – I media tra condivisione, circolazione, partecipazione, già menzionato poco prima. Il messaggio del libro in questione è semplice e diretto: se i contenuti mediali progettati non si ‘spalmano’, sono morti. Come affermano gli autori:

«If it doesn’t spread, it’s dead». Cosa si intende per ‘spread’ (che il curatore della traduzione in italiano del volume, Virginio Sala, ha tradotto con i neologismi ‘‘diffondibilità’’ e ‘spalmabilità’)? Vengono in aiuto i tre studiosi statunitensi:

«Diffondibilità si riferisce al potenziale (tecnico e culturale) di condivisione da parte dei pubblici per le loro finalità». È, insomma, la predisposizione, il ‘potenziale’ che dei contenuti mediali hanno (o non hanno) alla circolazione, alla condivisione da parte dei fruitori. Per meglio far capire ciò, vengono messi a confronto i modelli cosiddetti ‘della presa’ (in inglese: ‘stickiness’) e quello della ‘diffondibilità’ (in inglese: ‘spreadability’) in un paragrafo del libro che ha per titolo Attrarre e mantenere l’attenzione contro motivare e facilitare la condivisione:

«Poiché i modelli di business della presa sono basati su dati demografici, le audience sono spesso pensate come una collezione di individui passivi. La diffondibilità, invece, attribuisce valore alle attività dei membri dell’audience, che possono contribuire a generare interesse». Ciò viene ritenuto come in analogia con quanto detto da Zygmunt Bauman nella sua pubblicazione Modernità Liquida11 nella quale il famoso sociologo di origini polacche afferma:

«Quella parte di storia, ora in procinto di concludersi, potrebbe essere definita, in mancanza di un aggettivo migliore, l’era “hardware” o della modernità pesante: una modernità ossessionata da tutto ciò che è enorme. […] Ricchezza e potere che dipendono dalla dimensione e dalla qualità del potenziale hardware tendono ad essere inerti e poco dinamici. Entrambi sono fissi 172


IL PERCHÉ DI QUESTO FENOMENO: DAL TIPO DI CULTURA IN CUI SI VIVE, ALCUNE DIREZIONI DI RISPOSTA

e cristallizzati, scavati nell’acciaio e nel cemento».

12 Manovich Lev (2010) Si veda la bibliografia.

«Tutto ciò venne a cambiare con l’avvento del capitalismo ‘software’ e della modernità leggera». Una caratteristica di questa ‘modernità software’ di cui Zygmunt Bauman parla si comprende essere, tra le altre cose, un minor determinismo, che vede – anche – un declino di quelle industrie proprie della ‘modernità hardware’. Si ritiene che tra queste tipologie di industrie vi sia anche quella mediale dell’editoria periodica ‘tradizionale’ e di stampo prettamente commerciale, così come essa si è fatta conoscere lungo il corso del Ventesimo secolo. Al contrario, il comportamento ‘della diffondibilità’ di contenuti mediali punta, più che sulla ‘grandezza dell’hardware’ e sul mantenere l’attenzione il più possibile fissa su di esso, sul ritenere come fondamentale l’attività degli utenti costituita dal far circolare, condividere i propri contenuti. Si cerca quindi di incoraggiare la condivisione e lo scambio tra utenti, attraverso – pare – due principali strade (che non si escludono vicendevolmente). La prima è quella di incoraggiare la condivisione di contenuti attraverso delle ricompense per gli utenti: un caso da guardare, nel mondo digitale e dei social media, è quello del già citato (e recentemente chiuso) Makeshift magazine. La «multi-platform media and consulting company»(così essa si definisce nella sezione About del proprio portale web) in questione offriva sconti sul prezzo dell’abbonamento digitale e cartaceo alla testata in base al numero di condivisioni di contenuti di Makeshift che gli utenti condividevano. Se un beneficiario dell’abbonamento digitale o cartaceo condivideva sulle piattaforme Twitter o Facebook contenuti di Makeshift, poteva ottenere uno sconto del 5% dell’abbonamento digitale o cartaceo. Dall’altra parte, un caso analogo traslato però nel mondo ‘reale’ è quello della social distribution ideata da Peter Bil’ak per Works That Work. In questo caso, la ricompensa economica è costituita dal guadagno che l’utente ha quando rivende al 60-70% le copie acquistate al 50% del prezzo di copertina. Bisogna però notare che il modello di ‘diffondibilità’ che questi editori grassroots adottano pare qualcosa di diverso da, ad esempio, quanto operato da Doctorow, all’anagrafe Cory Efram Doctorow, noto giornalista, blogger e scrittore canadese. Egli ha sì distribuito i propri scritti tramite case editrici commerciali ma ha ottenuto una maggior visibilità come autore grazie al fatto di aver diffuso i propri testi in rete, rendendoli liberamente scaricabili e suscettibili di processi di remix, pratica fondante della cultura in cui si vive oggi e per un approfondimento della quale si rimanda a Software Culture12 di Lev Manovich. Alcuni stralci del pensiero di questo autore verranno menzionati poco più avanti, quando si parlerà di audiovisivi per la ‘diffondibilità’. Ritornando a Doctorow, viene qui in aiuto un suo articolo13 pubblicato sul periodico Locus nel maggio del 2008, riproposto poi anche online dalla testata stessa. In esso, l’autore afferma:

«Dandelions and artists have a lot in common in the age of the Internet. This is, of course, the age of unlimited, zeromarginal-cost copying. If you blow your works into the net like a dandelion clock on the breeze, the net itself will take care of the copying costs. Your fans will 173

ZYGMUNT BAUMAN

Doctorow Cory Efram (2008) http://www.locusmag. com/Features/2008/05/ cory-doctorow-think-likedandelion.html

Poche righe più avanti, l’autore parla di come

CORY EFRAM DOCTOROW

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CAPITOLO QUARTO

paste-bomb your works into their mailing list, making 60,000 copies so fast and so cheaply that figuring out how much it cost in aggregate to make all those copies would be orders of magnitude more expensive than the copies themselves. What’s more, the winds of the Internet will toss your works to every corner of the globe, seeking out every fertile home that they may have — given enough time and the right work, your stuff could someday find its way over the transom of every reader who would find it good and pleasing». Inoltre, egli si cimenta anche nel dare un consiglio circa il formato che le proprie opere devono avere per essere più suscettibili di essere diffuse:

«Your work needs to be easily copied, to anywhere whence it might find its way into the right hands. That means that the nimble text-file, HTML file, and PDF (the preferred triumvirate of formats) should be distributed without formality — no logins, no e-mail address collections, and with a license that allows your fans to reproduce the work on their own in order to share it with more potential fans». Ecco, si ritiene che la ‘diffondibilità’ che gli editori grassroots oggetto di questa tesi vanno cercando sia qualcosa di diverso: ragionando per analogia, non pare che essi adottino la metafora del dente di leone di cui l’autore canadese parla in questo articolo. Presumibilmente, la ragione di questa differenza risiede nel fatto che Doctorow parla di ‘artisti’: questi maker non sono ‘artisti’, e il loro portare avanti esperienze grassroots non comporta necessariamente che essi siano insensibili alla possibilità di aumentare i propri profitti (come già spiegato nel corso del terzo capitolo) tramite l’applicazione di paywalls, come nel caso di Makeshift. Nel corpus di testate prese in esame, ancora ragionando per analogia con quanto affermato da Doctorow, non si sono trovati autori che fornissero i propri contenuti nel triumvirato di formati aperti di cui egli parla: non si sono rintracciati file PDF aperti degli oggetti cartacei liberamente reperibili online. Ne vengono offerti dei ‘pezzi’, in accordo con una logica transmediale secondo la quale l’offerta viene diversificata a seconda della piattaforma su cui ci si trova in un tal momento: un esempio è quanto operato da Cereal, la quale non offre sempre la libera visione degli articoli presenti sul cartaceo bensì ‘estrapola’ da essi le immagini fotografiche, più facili alla condivisione e alla diffusione rispetto al testo in forma scritta. In continuità con questa operazione svolta dal magazine brand Cereal, è importante notare come un elemento ‘cuore’ del discorso sulla ‘diffondibilità’ sia costituito dai video, dai prodotti audiovisivi. Questo ha, in primo luogo, una ragione che viene esplicata da dati come quelli, ad esempio, presentati dal report World Press Trends 2016 a cura di WAN Ifra, presentato nel corso del capitolo secondo della trattazione. In esso, tra le altre cose, viene fatto notare come la fruizione di contenuti video tramite social media stia esponenzialmente crescendo:

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IL PERCHÉ DI QUESTO FENOMENO: DAL TIPO DI CULTURA IN CUI SI VIVE, ALCUNE DIREZIONI DI RISPOSTA

«Among online 16-34s, almost 95% watch video, and even among the oldest group tracked by Global web Index (the 55-64s), 8 out of 10 engage with video. Furthermore, about half of Internet consumers upload their own videos, 8 to 9 billion videos per day are watched on Facebook, 8 billion per day on Snapchat, and 4 billion on YouTube».

14 Jameson Fredric (1991) Si veda la bibliografia.

Guts

si vedano pp. 176-177

Vengono qui in aiuto, ancora una volta, Bolter e Grusin, autori de Remediation. In tale pubblicazione, gli autori parlano di come «i media visuali stanno sfidando la dominanza dei vecchi media basati sul linguaggio. La forma più forte di questa “sfida critica e dirompente” è rappresentata dal video, il “flusso totale” mette in pericolo le differenze fisiche e temporali che costituiscono l’essenza del significato linguistico». Viene in aiuto anche Fredric Jameson, critico letterario e teorico politico statunitense, autore de Postmodernismo14, secondo cui il video è il linguaggio principale dell’era postmoderna di cui parla in questa sua pubblicazione. Il video, insomma, viene definito dallo studioso statunitense come il ‘medium dominante’ e sostiene che tutta la produzione culturale sia stata ridefinita dalla cultura popolare di tipo visuale, e in particolare video. Davanti alle tesi proposte da Jameson, Bolter e Grusin, che hanno un sapore pessimista (nel senso che si vede come minacciata, tra le altre cose, la peculiarità della parola in forma scritta e della sua lettura) si può notare come certi maker presi in oggetto per questo studio rispondano a tale ‘minaccia’: si vede la volontà, in tanti di questi piccoli editori, di tentare di sfruttare tale trend a proprio favore. Sostanzialmente, si ritiene, chi tra questi produttori decide di usare il mezzo video lo fa, spesso, facendo proprie quelle pratiche di remix e assemblaggio profondo di cui Lev Manovich parla approfonditamente in Software Culture, rese possibili dalla nascita di strumenti composition-based (e non più time-based) come l’applicativo Adobe After Effects, nato nel 1993. Un esempio è costituito dagli audiovisivi realizzati (con l’aiuto di collaboratori esterni) da Guts magazine. Sono prodotti concepiti per il lancio di ogni singola uscita del cartaceo, dei trailer in cui l’estetica del remix (e anche dell’assemblaggio profondo) sono evidenti. Non viene in questi prodotti di Guts proposta la visione dell’oggetto cartaceo in sé, ma ci si focalizza sulla tematica di quel tale numero, raccontandolo con immagini animate che provengono da vecchi filmati, pellicole d’epoca e così via per sposare l’aspetto visuale del magazine cartaceo. Guardando a questi prodotti audiovisivi realizzati da Guts, si può anche capire come il primo loro ‘obiettivo’ sia quello di diffondere – si ritiene – il carattere visivo del prodotto cartaceo, prima ancora che i contenuti letterari in senso stretto: è un prodotto audiovisivo realizzato sì per promuovere il cartaceo, ma si fa tale operazione senza citare direttamente quest’ultimo; dal momento che “Graphic design is content” (a tale proposito si veda l’ultimo paragrafo del terzo capitolo), allora anche il remix e l’assemblaggio profondo di contenuti che è possibile realizzare grazie ad After Effects può essere una buona modalità di far ‘prevedere’ di che tipo sarà il ‘pezzo’ di graphic content che si andrà ad acquistare assieme ai testi strettamente letterari contenuti nel cartaceo. Si ritiene, questo, un tipo di approccio ‘della trasparenza’, secondo il pensiero di Bolter e Grusin contenuto in Remediation e esplicitato da Alberto Marinelli nella sua prefazione a tale volume:

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GALLERIA GUTS ISSUE MAGAZINES 4

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NOME MAGAZINE IN PAGINA BU

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CAPITOLO QUARTO

ALBERRTO MARINELLI

«La cultura contemporanea – affermano Bolter e Grusin – sembra esprimere una strategia duplice e apparentemente contraddittoria: vorrebbe allo stesso tempo moltiplicare le forme mediali ed eliminare ogni traccia di mediazione. È questa la doppia logica della remediation: nominare l’immediatezza (trasparenza) e l’ipermediazione (opacità) all’interno dei vari ambienti mediali». Dall’altra parte, un caso diverso è costituito da, ad esempio, gli audiovisivi prodotti dal servizio Stack Magazines. Essi prendono il nome di Video Review e consistono in una breve presentazione (circa due minuti per video) del prodotto cartaceo in questione: come in una ripresa soggettiva, vengono riprese due mani intente a sfogliare la pubblicazione e, a corredo di essa, la voce di Steve Watson (fondatore di Stack Magazines) commenta ciò che vede e esprime le sue impressioni. Un esempio di queste Video Review è la centotrentunesima, quella di Rueville magazine. Si ritiene che questo tipo di prodotti video perseguano lo stesso obiettivo di quelli prodotti da Guts: promuovere l’oggetto cartaceo e aumentarne la ‘diffondibilità’ (ovviamente, non dell’oggetto in sé bensì di una sua rappresentazione in ambiente audiovisivo) adottando però, in questo caso, non la logica della trasparenza ma quella della ‘ipermediazione’, della opacità.

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IL PERCHÉ DI QUESTO FENOMENO: DAL TIPO DI CULTURA IN CUI SI VIVE, ALCUNE DIREZIONI DI RISPOSTA

TRASPARENZA

Screenshot del video trailer de Guts issue 4. Visibile presso https:// vimeo.com/139963951 (15 marzo 2017)

IPERMEDIAZIONE

Screenshot della Video Review 131 a cura di Steve Watson de Reuville. Visibile presso https:// vimeo.com/177073625 (15 marzo 2017)

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CAPITOLO QUARTO

4.4 LE RAGIONI PER CUI QUESTO FENOMENO SUSSISTE: CONTRASTO AL TIPO DI INDIVIDUALIZZAZIONE PROPOSTO DALLA SOCIETÀ DEI CONSUMI E ALLA ‘SINDROME CONSUMISTA’

15 ‘Nativo digitale’ è un neologismo coniato nel 2001 da Mark Prensky, contenuto nel suo articolo dal titolo Digital Natives, Digital Immigrants. Secondo il vocabolario online Treccani (ricerca effettuata nel 2013), si possono riscontrare tre tipologie differenti di nativi digitali, che segnano la transizione dall’analogico al digitale dei giovani nei paesi sviluppati. La prima tipologia viene definita ‘pura’ (da 0 a 12 anni), la seconda viene definita come ‘i Millenials’ (tra 14 e 18 anni) ed infine i nativi digitali ‘spuri’ (tra i 18 e i 25 anni). L’aggettivo ‘spuri’ è stato utilizzato la prima volta in un articolo pubblicato su wired.it il 16 novembre 2010, a cura di Paolo Ferri. Vi sono poi i tardivi digitali (coloro i quali sono cresciuti senza digitale e che, pur usando ora queste tecnologie, restano comunque scettici nei loro confronti) ed infine gli immigrati digitali, ovvero coloro i quali sono nati in un mondo analogico ma che si sono ormai adattati ai passi della tecnologia.

16 Bauman Zygmunt (2002) Si veda la bibliografia.

Fino ad ora, nel corso del presente capitolo, ci si è interrogati su due cose: quali siano le condizioni che permettono la sussistenza del fenomeno preso in analisi in questa trattazione (quando si è parlato del paradigma della cultura convergente) e, successivamente, dato questo tipo di cultura convergente, come i contenuti mediali si comportano (o come si dovrebbero comportare) in tale contesto (quando si è parlato della ‘diffondibilità’) per non rimanere ‘relegati’ in un singolo ambito specifico (una sola piattaforma) e quindi al di fuori della convergenza culturale. Nel corso di questo paragrafo si tenterà invece di andare oltre le ragioni di ordine tecnologico (seppur queste inneschino, come si è visto grazie ad Henry Jenkins, un processo di convergenza che risiede prima di tutto nelle menti dei fruitori di contenuti) andandosi a chiedere: posto che queste appena presentate sono le condizioni, quale è la causa? Ci si chiede: perché dei giovani, nella maggior parte dei casi definibili come ‘nativi digitali’15 (o, comunque, persone che hanno dimestichezza con il mondo del digitale), si cimentano oggi nel concepire e realizzare dei media brand che fanno della carta stampata il loro ‘cuore’? Si tratta, nella maggior parte dei casi, dei nativi digitali che vengono definiti come ‘spuri’ (si veda la nota quindici del presente capitolo), ma ciò non toglie che restino comunque persone che – per via della loro età – si son trovate fin da molto giovani in un mondo ormai profondamente permeato dal digitale. La questione che ci si pone di affrontare in questo paragrafo vuole essere guardata ‘assieme’ a Zygmunt Bauman, uno dei più famosi e riconosciuti filosofi, docenti e sociologici della contemporaneità. Infatti, negli ultimi lavori da lui compiuti prima della sua morte avvenuta il 9 gennaio 2017, Bauman ha voluto concentrare le sue forze sull’analisi della postmodernità (il momento storico variamente definito che ora ci si trova a vivere) utilizzando una metafora: quella della liquidità. Cosa intende Bauman con il termine ‘modernità liquida’? Si vuole partire dall’aggettivo ‘liquido’. Nella prefazione alla sua pubblicazione del 2002 Modernità liquida,16 l’autore spiega la scelta di questo aggettivo per descrivere il momento storico contemporaneo. Dopo aver citato la spiegazione fisica che Encyclopedia Britannica dà delle proprietà dei materiali liquidi, Bauman afferma:

«Tutte queste caratteristiche stanno a significare che i liquidi, a differenza dei corpi solidi, non mantengono di norma una forma propria. I fluidi, per così dire, non fissano lo spazio e non legano il tempo. […] I fluidi non conservano mai a lungo la propria forma e sono sempre pronti (e inclini) a cambiarla» per poi dire, poco più avanti: «Sono questi i motivi per considerare la “fluidità” o la “liquidità” come metafore pertinenti allorché intendiamo comprendere la natura dell’attuale e per molti aspetti nuova fase nella storia della modernità».

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Bauman Zygmunt (2006) Si veda la bibliografia.

Dei periodi testuali che ben si prestano a far in questa sede comprendere come poi questi aspetti caratteristici dei materiali fluidi siano utilizzabili come metafore per descrivere lo stadio della modernità in cui ci si trova si sono identificati in un altro testo di Bauman: Vita liquida.17 In questa pubblicazione, l’autore afferma:

«“Liquido” è il tipo di vita che si tende a vivere nella società liquido-moderna. Una società può essere definita “liquidomoderna” se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. […] Vita liquida, come la società liquido-moderna, non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo». In che modo la ‘liquidità’ di cui parla Zygmunt Bauman è calzante anche con il soggetto di questo studio? La prima ragione risiede in ciò che è stato affermato agli inizi del terzo capitolo: la prima e la più ardua sfida è stata, per chi scrive, tentare di tracciare dei limiti nettamente disegnati all’oggetto di studio. Cosa tenere ‘dentro’ e cosa, invece, tenere ‘fuori’? Non si è ritenuto possibile tracciare un recinto ‘oggettivo’: infatti, si è preferito seguire la proposta della docente e studiosa australiana Megan Le Masurier, la quale ha riconosciuto l’impossibilità di considerare come una entità unica questi prodotti editoriali suggerendo di pensarli come ‘scorrevoli’ lungo un ipotetico spettro. Peraltro, tale intuizione era sorta anche a chi scrive prima ancora di imbattersi nella studiosa di Sidney attraverso la lettura di, in particolare, un testo, ovvero So you want to publish a magazine?. In ogni caso, per uno sguardo più approfondito sulla questione ‘dello spettro’, si rimanda al capitolo terzo. Ritornando al pensiero di Bauman, una delle conseguenze dell’epoca (da lui definita, appunto, come ‘liquida’) che ci si trova a vivere oggi è, secondo lui, quella di ritrovarsi immersi in un mondo che è ‘pieno di possibilità’. Afferma ancora una volta il famoso pensatore, in Modernità Liquida, nel capitolo secondo chiamato Individualità:

«Vivere in un mondo ricolmo di opportunità […] è un’esperienza eccitante. In siffatto mondo c’è ben poco di predeterminato e ancor meno di irrevocabile; ma non esiste neanche una vittoria definitiva. […] Vivere in mezzo a un numero apparentemente infinito di opportunità (o quantomeno superiore a quelle che è possibile perseguire) ha il dolce sapore della “libertà di poter diventare chiunque”. Tale dolcezza nasconde tuttavia un retrogusto amaro, dal momento che quel “diventare” implica che niente è stato ancora raggiunto e che tutto è ancora di là da venire». Per onestà intellettuale, è bene segnalare che queste righe vennero scritte da Bauman in merito alla infinita possibilità di consumi, di beni di consumo tra i quali un individuo della società odierna può scegliere. Non si

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ZYGMUNT BAUMAN

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CAPITOLO QUARTO

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GIOVANNI SIRI

Siri Giovanni (2001) Si veda la bibliografia.

riferiva, quindi, in modo diretto alle infinite possibilità legate alla produzione di oggetti da parte di privati cittadini, grassroots, ma alle opportunità aperte dalla società dei consumi. Malgrado ciò, il «mondo ricolmo di opportunità» è oggi qualcosa che si può dire anche in merito alle possibilità di creazione e produzione di contenuti. Difatti, chiaramente, una delle condizioni fondamentali grazie alle quali i maker creano i prodotti che sono oggetto di indagine di questa tesi, è l’abbattimento delle ‘barriere all’ingresso’ delle tecnologie e degli applicativi per il motion design, il design editoriale e via di questo passo. È la nascita, nel corso degli anni Novanta, del ‘software culturale’, come viene chiamato da Lev Manovich nella sua pubblicazione dal titolo Software Culture, per la quale si rimanda alla bibliografia. Per ‘software culturale’ si intendono quegli applicativi nati per scopi non specialisti e dotati di interfaccia grafica che hanno come fine quello di creare e far accedere a oggetti e ambienti mediali, quindi anche la produzione di contenuti mediali. Gli esempi più immediati di ciò sono gli applicativi della Creative Suite (o, ormai, Creative Cloud) di Adobe oppure i programmi Autodesk. Come si alimenta tale tipo di società liquida di cui parla Zygmunt Bauman? Attraverso la continua domanda, da parte dei propri cittadini, di beni di consumo da, appunto, consumare il più rapidamente possibile così da tornare, molto presto, a desiderare qualcos’altro che, una volta ottenuto, verrà buttato e rimpiazzato in poco tempo anch’esso, e via di questo passo. Infatti, in quelle ultime righe sopra citate, l’autore si riferiva – come già affermato – alle infinite possibilità delle persone di scegliere cosa consumare: è quella che Bauman definisce come ‘sindrome consumista’ (interessante la presa in prestito di un termine proveniente dal mondo della patologia) e che è stata definita, più largamente, come ‘società dei consumi’ o ‘società consumista’. Uno studioso che ha utilizzato questi due ultimi termini è, tra gli altri, Giovanni Siri. Siri nasce a Genova nel 1946 e dopo la laurea si specializza in Psicologia del Lavoro presso l’Università Cattolica di Milano. Diventa ordinario di Psicologia Generale ed insegna nelle Università di Padova, Torino, Genova, IULM di Milano prima di trasferirsi all’Università Vita Salute del San Raffaele di Milano dove svolge tuttora la sua attività accademica occupando da diversi anni la cattedra di Psicologia dei Consumi. Nel corso degli ultimi anni rivolge il proprio interesse di insegnamento e ricerca sul rapporto tra personalità e consumi, sulla ricerca qualitativa e sul rapporto consumatore-brand. Infatti, una delle sue opere è chiamata La psiche del consumo, e vuol essere in questa sede utilizzata per spiegare brevemente come si è arrivati alla società dei consumi odierna per tentare di meglio comprendere l’attualità e le ragioni che spingono all’azione i maker oggetto di questa tesi. Prima di utilizzare quanto Siri afferma circa la formazione della società dei consumi, si vuole segnalare che – per lui – quella che Zygmunt Bauman definisce come ‘modernità liquida’ viene appellata come ‘postmodernità’: vi sono stati diversi modi di chiamare l’epoca storica in cui ci si trova attualmente, come nota anche lo stesso studioso nelle righe che vengono ora citate. Giovanni Siri ne dà questa definizione:

«La definizione di postmodernità – o modernità avanzata, o iper-moderno – si è affermata nella letteratura come il modo prevalente di indicare la fase storica (sociale, culturale, psicologica) in cui si troverebbe l’Occidente industrializzato. La postmodernità sarebbe caratterizzata dalla perdita della centralità di sistemi ideologici e metafisici che organizzavano il “senso della vita” dall’alto, trasformando 182


IL PERCHÉ DI QUESTO FENOMENO: DAL TIPO DI CULTURA IN CUI SI VIVE, ALCUNE DIREZIONI DI RISPOSTA

l’azione individuale quotidiana nella ricerca di realizzare nella prassi i valori (ideale, princìpi, verità) a cui si aderisce a livello astratto e di principio». Aldilà della questione della perdita di centralità di sistemi ideologici che caratterizzano la postmodernità (si tratta di una questione che verrà affrontata poco più avanti), preme ora segnalare che la definizione che Siri enuncia di ciò è la stessa cosa (ovvero: la stessa fase storica, cioè quella attuale) di cui parla Bauman quando scrive di ‘modernità liquida’. All’interno di essa, si diceva, si è andato ad instaurare il cosiddetto ‘consumismo’. Vengono qui presi degli stralci della prima parte de Psiche del Consumo per capire come si è arrivati a ciò. Nelle prime battute, l’autore afferma: «L’ovvietà con cui si “comperano” le cose […] non desta oggi nessun brivido di riflessione in quanto la dimensione dell’acquisto riguarda tutte le sfere di esperienza individuale e sociale e non solo più la sussistenza o la facilitazione del lavoro». Cosa si intende con ‘consumo’? Siri racconta come un dizionario italiano risalente al 1906 definisse ‘consumo’ come la controparte della ‘produzione’: ciò che, insomma, permette che la produzione abbia una destinazione. Nella società consumista si va oltre ciò: non vi è più solo la razionalità a guidare l’acquisto di beni (“Ho un bisogno oggettivo che può essere soddisfatto tramite l’acquisto di quel tale bene”, quindi una logica lineare di tipo mezzo-fine o problema-soluzione) ma anche qualcosa d’altro. Aiutati dal docente genovese, si possono tracciare delle linee evolutive che danno oggi origine al termine sintetico ‘società dei consumi’ o ‘consumismo’ o, come dice Bauman, ‘sindrome consumista’. Secondo Siri, prima dell’avvento della Seconda Guerra Mondiale e del conseguente secondo dopoguerra, la logica d’acquisto è ancora leggibile in un’ottica razionale, di sostentamento. Dopodiché:

«Nel corso degli anni Sessanta vengono contemporaneamente a maturazione più nodi latenti che nella loro dialettica gettano le basi per il passaggio da una cultura del benessere industriale [che risponde alla logica di ‘sostentamento’ prima indicata] a una vera e propria cultura dei consumi». In sostanza, sostiene lo studioso, l’indispensabile era ormai già stato acquisito dal mercato e, pertanto, occorreva trovare nuove leve motivazionali per «spingere all’acquisto oltre la logica “razionale” del mezzo-fine o problema-soluzione». Un secondo fattore è costituito dal maturare, sempre negli anni Sessanta, dall’esperienza dei mass-media i quali stavano abituando le persone

«Ad un linguaggio di segni e simboli che creava una cultura semiotica e che soprattutto generava una sensibilità alle valenze immateriali e a-razionali dell’esistenza». Così, in quel momento storico, comincia a trasparire la funzione socioculturale del consumo e – soprattutto, secondo Siri – la possibilità di ‘scrivere’ la propria appartenenza sociale e la propria identità attraverso la pratica dell’acquisto. Si aggiungono a ciò i fatti del Sessantotto, che portano «ad evidenza la contrapposizione avvertita dalle nuove generazioni tra 183


CAPITOLO QUARTO

individuo (libertà, fantasia, autenticità) e società (dominio, condizionamento, alienazione e massificazione)». Infine, tutto ciò che Siri definisce come ‘ascesa della individualità narcisistica’ accade

ZYGMUNT BAUMAN

«Sullo sfondo di una caduta verticale del ruolo delle istituzioni come organizzatori del significato della vita e del convivere sociale: partiti, chiese, fedi ed ideologie non sono più in grado di proporre progetti che generano consenso e guidelines per l’aggregazione sociale». Si ritorna a farsi aiutare da Zygmunt Bauman dopo questo breve tracciamento di linee evolutive che hanno portato alla situazione odierna. Come si comporta, che modo di procedere adotta la società dei consumi o della sindrome consumista? Afferma Bauman in Vita liquida:

«L’industria di smaltimento dei rifiuti assume un ruolo dominante nell’ambito dell’economia della vita liquida. La sopravvivenza di tale società e di coloro che ne fanno parte dipendono dalla rapidità con cui i prodotti vengono conferiti alla discarica e dalla velocità e dall’efficienza con cui gli scarti vengono rimossi». Detto, sempre da Bauman, più sinteticamente poche righe oltre:

«La “distruzione creatrice” è il modo tipico di procedere della vita liquida». E come mai questa società pare riuscire a procedere in questa maniera, adottando tale ‘distruzione creatrice’? Per rispondere a ciò bisogna considerare che, come sostiene Bauman, ogni essere umano cerca la propria realizzazione, tramite la individualizzazione, come sostiene nel capitolo dal titolo Emancipazione de Modernità liquida:

«Il processo di “individualizzazione” consiste nel trasformare l’”identità” umana da una “cosa data” in un “compito” e nell’allocare ai singoli attori la responsabilità di assolvere tale compito». Vi è dunque, per ogni essere umano facente parte della modernità liquida, una missione: quella di ‘lavorare’ sulla propria identità, edificarla in quanto essa non è qualcosa di ‘dato’ come poteva essere, invece, durante la ‘modernità pesante’ (si veda il paragrafo precedente del presente capitolo) per via di, ad esempio, l’appartenenza a un certo ceto sociale. Come si fa, dunque, a ‘lavorare’ alla edificazione della propria individualità? La modalità che la società dei consumi propone è semplice: l’acquisto. Come afferma, ancora una volta, Giovanni Siri in La psiche del consumo:

«Consumare è ormai ben più che risolvere un problema o migliorare il proprio status […] Il consumo è lo spazio di sperimentazione della soggettività e 184


di making sense quotidiano. Il consumo si intesse così con la propria ricerca personale: il consumismo segue lo stesso clock della nostra vita e finisce per costituire lo spazio di sperimentazione dei nostri possibili modi di essere». Dunque: il consumo come strada proposta ai membri che vivono la modernità liquida per la realizzazione della propria individualità, per la propria ricerca su se stessi. Ora, di conseguenza, ci si domanda: il consumo di che cosa? È presto detto: il consumo di beni che siano, appunto, ‘di consumo’. Quali sono le caratteristiche che qualificano un oggetto (in senso lato) come ‘bene di consumo’? Quelle per cui essi rispondono alla logica della ‘distruzione creatrice’ di cui parla Zygmunt Bauman. Ci si fa quindi aiutare da lui per meglio inquadrarli. Afferma l’autore ancora in Vita liquida:

«Oggetti che perdono la propria utilità (e con essa il lustro, l’attrazione, il potere di seduzione, e dunque il valore) man mano che vengono usati. […] Gli oggetti di consumo hanno una limitata aspettativa di vita utile, e una volta superato tale limite diventano inadatti al consumo; e, poiché “poter essere consumati” è la sola caratteristica che ne definisca la funzione, essi diventano inadatti a qualsiasi cosa: inutili, insomma» o come afferma poco più avanti guardando la questione dal punto di vista delle necessità dell’economia:

«È necessario che l’economia dei consumi sia una economia di oggetti che invecchiano rapidamente, di obsolescenza quasi istantanea e rapida rotazione di prodotti, e perciò anche di eccesso e di scarto». I maker che si lanciano nelle esperienze mediali ed editoriali prese ad oggetto di questo studio sono, anche loro, membri della società dei consumi e, in quanto tali, si sentono rivolgere la stessa proposta che tutti si sentono fare: il consumo di questo tipo di oggetti come via per definire la propria individualità. Però loro, per perseguire l’obiettivo che tutti perseguono nella società consumistica, fanno qualcosa di opposto: producono, progettano, realizzano ‘attori’ del panorama mediale. Cercano di realizzare la propria individualità producendo. Non si vuole qui dire che essi non consumino oggetti di consumo astraendosi dalla società dei consumi: ciò risulta chiaro. Si intende però dire che vi sono persone per cui, pur essendo esse consumatrici, il ‘fare produttivo’ diventa aspetto essenziale del loro vivere nella società dei consumi. Da qui il termine ‘maker’ usato, ad esempio, da Jeremy Leslie, Ruth Jamieson e Angharad Lewis. Questo fare produttivo di cui si sta qui parlando non va confuso con il fare produttivo che ogni lavoratore salariato (dipendente o libero professionista che sia) realizza: c’è, nel caso di questi maker, un aspetto di incognita e di slancio personale, che non è conseguenza di un contratto di lavoro appena firmato.

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GIOVANNI SIRI

IL PERCHÉ DI QUESTO FENOMENO: DAL TIPO DI CULTURA IN CUI SI VIVE, ALCUNE DIREZIONI DI RISPOSTA


HENRY JENKINS

CAPITOLO QUARTO

Si ritiene che quella della ricerca della propria individualità sia, per i maker in questione, la motivazione per cui essi si lanciano in tali esperienze editoriali, spesso senza alcuna garanzia e ancor spesso con un lungo cammino da fare per – ad esempio – stabilire un rapporto con inserzionisti, stampatori e via di questo passo, oltre al fatto di dover quasi sempre sostentarsi con attività parallele come, ad esempio, quella di agenzia creativa. Il tipo di cultura convergente in cui si vive ha reso e rende possibile tutto ciò, ma la causa – si ritiene – è un’altra. Ancora a proposito degli effetti della cultura di tipo convergente in cui si vive attualmente, Henry Jenkins afferma, nel suo articolo dal titolo Convergence? I diverge pubblicato sul periodico Technology review nel giugno del 2001:

«Today, media convergence is sparking a range of social, political, economic and legal disputes because of the conflicting goals of consumers, producers and gatekeepers» e prosegue affermando:

«These contradictory forces are pushing both toward cultural diversity and toward homogenization, toward commercialization and toward grassroots cultural production».

HANNAH ARENDT

Ovviamente, insieme alla convergenza culturale e a ciò che essa comporta, bisogna tenere conto delle già menzionate ‘rotture’ (almeno parziali) delle barriere poste all’ingresso del mondo dei produttori di contenuti mediali. La questione è ora: cosa producono tali maker? Guardando ai prodotti analizzati per la redazione di questa ricerca, si ritiene di poter affermare che essi producono degli oggetti culturali. Ciò si ritrova ad essere in linea con il discorso attorno al cultural journalism realizzato durante il terzo capitolo della presente trattazione. Viene qui in aiuto Hannah Arendt, per definire quali siano le caratteristiche di un oggetto definibile come ‘culturale’ contro quelle di un oggetto di consumo. La filosofa, scrittrice e storica tedesca naturalizzata statunitense pubblica, nel 1968, un libro dal titolo La crise de la culture (si veda la bibliografia) nel quale afferma:

«Un oggetto può dirsi culturale nella misura in cui resiste al tempo; la sua durevolezza è in proporzione inversa alla funzionalità. Quest’ultima è la caratteristica che fa di nuovo sparire l’oggetto dal mondo fenomenico attraverso l’uso e la comunicazione» e poi, proseguendo:

«Quando tutti gli oggetti e le cose di questo mondo, prodotti oggi o nel passato, diventano mere funzioni del processo vitale della società, quasi la loro esistenza fosse giustificata solo dalla soddisfazione di qualche bisogno, la cultura è minacciata».

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IL PERCHÉ DI QUESTO FENOMENO: DAL TIPO DI CULTURA IN CUI SI VIVE, ALCUNE DIREZIONI DI RISPOSTA

fig.9 Doppie pagine de The Happy Activity Book Volume 3. Immagini disponibili presso https://goo. gl/1nlDe2

Viene in aiuto a quanto afferma Hannah Arendt anche, ancora una volta, Zygmunt Bauman in Vita liquida:

«La cultura punta, se così si può dire, “più in alto” di qualunque cosa passi, in un determinato momento, per “realtà”. Non si cura di ciò che è stato inserito all’ordine del giorno e definito l’imperativo del momento, e fa di tutto per trascendere l’effetto limitante della “attualità” […] I prodotti culturali non sono fatti per essere usati/ consumati sul momento o per dissolversi in un processo di consumo istantaneo».

fig.10 Copertina de Food is Fun. Immagine disponibile presso https://goo.gl/HFlh6d

Queste ultime parole di Bauman e della Arendt aiutano a capire più di una cosa. Anzitutto, possono aiutare ad intendere meglio come mai questi giovani maker facenti quasi sempre parte della categoria dei cosiddetti ‘nativi digitali’ decidano di stampare sulla carta i loro contenuti, proprio oggi e nell’epoca che si vive: lo fanno anche per resistere al tempo, come dice la Arendt. Per di più, si tratta sì di prodotti periodici che, però, in quasi la totalità dei casi, non si allineano con le classiche periodicità mensili o settimanali proprie dell’editoria periodica di stampo commerciale: ciò è dovuto a due ordini di ragioni. Il primo è di tipo ‘materiale’ e di liquidità: per come sono fatti i modelli di business di questi piccoli editori, è per loro difficile ‘stare al passo’ con una frequenza di uscita troppo ‘incalzante’. Per la maggior parte dei casi si tratta di pubblicazioni che escono poche volte all’anno, o addirittura a frequenza irregolare. Il secondo ordine di ragioni si ritiene in linea con una volontà di distaccarsi dalle ‘convenzioni’ dell’editoria periodica di stampo commerciale, anche rendendo più ‘rade’ le uscite e far quindi percepire il prodotto cartaceo come qualcosa che è a metà strada tra un magazine e un libro (da qui la nascita del neologismo ‘bookazine’ e la frequente associazione del termine ‘culture’ al nome della testata, come mostrato lungo il capitolo terzo). Ancora nell’ottica di mettere in luce come questi prodotti editoriali si pongono sulla scena mediale come ‘oggetti culturali’ (nella accezione del termine proposta da Hannah Arendt) si può vedere come essi, spesso e volentieri, non alimentino la logica della ‘distruzione creatrice’ – di cui sopra – mediante certe operazioni. Una di queste operazioni consiste nel non far apparire come ‘obsoleto’ l’oggetto libro, come si può notare visitando – ad esempio – la sezione Shop del portale di Anorak: oltre al magazine cartaceo dal nome Anorak, la società produce anche altri magazine (ad esempio Dot) ma, affianco ad essi, ha deciso di lanciarsi anche nella produzione di libri. Alcuni esempi sono: Food is Fun, dedicato all’educazione infantile circa l’alimentazione. Vi

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CAPITOLO QUARTO

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fig.11

CATHY OLMEDILLAS

Copertina e doppie pagine de The Big Book of Anorak. Immagini disponibili presso https://goo.gl/aZzlvj

è poi, tra gli altri, la serie dei cosiddetti Happy Activity Books, con attività che vanno da giochi dedicati all’attività di colorare a esercizi ‘spot the difference’. Forse, un caso ancor più interessante che libri come Food is Fun o la serie de Happy Activity Book è costituito da The Big Book of Anorak. Si tratta di un libro realizzato in occasione del settimo anniversario dalla nascita della realtà editoriale, il quale si pone di essere una ‘rassegna’ di quanto è stato realizzato, in termini di contenuti editoriali, nei primi sette anni di attività, come afferma Cathy Olmedillas in dialogo con Jeremy Leslie (in una delle dodici interviste oggetto de Independence – 12 interviews with magazine maker):

«It was lovely to look back through the archive at how the magazine has evolved and pick not so much the best because it is really difficult to figure out what is the best, but make a selection out of al those pages. The book is big, it’s about 240 pages, hardback». Ciò che è ‘del passato’ non risulta quindi obsoleto, ma addirittura degno di essere raccolto in un libro di 240 pagine e dalla copertina rigida. Anorak non è la sola realtà editoriale a realizzare, affianco del proprio ‘cuore’, anche oggetti editoriali che si pongono come libri e non come 188


IL PERCHÉ DI QUESTO FENOMENO: DAL TIPO DI CULTURA IN CUI SI VIVE, ALCUNE DIREZIONI DI RISPOSTA

fig.12 Copertina e doppie pagine de London City Guide realizzata da Cereal. Immagini disponibili presso https://goo.gl/Pxt4Qa

19 https://www.offscreenmag. com/about

periodici: un altro esempio è Cereal, che realizza delle guide turistiche chiamate City guides, già menzionate nel precedente capitolo. Tornando ora, invece, al discorso sulla individualizzazione proposto da Zygmunt Bauman secondo cui, nella società liquido-moderna in cui ci si trova a vivere, l’identità di un individuo non risulta più come ‘data’ ma come qualcosa ‘da conquistarsi’, ciò risulta in linea con un neologismo che spesso si trova tra le righe delle fonti consultate per la stesura di questo studio: one-man magazine. La produzione di tali oggetti culturali prende, spesso, le forme di un one-man show, un’estensione della personalità (con tutto ciò che ad esso si collega: passioni, desideri, competenze e così via) del proprio fondatore. Ciò si collega a quanto detto circa il cultural journalism di cui al capitolo terzo, di cui una delle caratteristiche è quella di – in questa accezione – venire scritto da chi effettivamente vive quel di cui intende parlare e alla questione “Graphic design is content”. Ciò perché, nel momento in cui la ‘redazione’ è composta da una sola persona, è necessario che tale persona sia, tra le altre cose, anche un designer (o che diventi tale). Si possono qui citare due esempi, di nuovo: il caso della ormai defunta esperienza editoriale Gym Class, portata avanti ‘in solitaria’ dal graphic designer Steven Gregor e, in secondo luogo, il caso di Offscreen, condotto dal tedesco – ora residente a Melbourne, in Australia – Kai Brach. Lo stesso Brach dichiara, sul proprio blog19 (che è poi il blog stesso di Offscreen, a corroborare quanto si sta qui sostenendo) che

«Offscreen largely remains a one-man operation and a proudly independent 189

KAI BRACH

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CAPITOLO QUARTO

20 De Martini Alberto (2008) Si veda la bibliografia.

13

14

fig.13 Screenshot della pagina About (all'altezza di A one-man magazine) del portale offscreenmag.com (15 marzo 2017)

fig.14

ROSALIA PARK

Screenshot della pagina About (all'altezza di Patrons) del portale offscreenmag.com (15 marzo 2017)

magazine supported by readers, patrons, and sponsors». Vi sono quindi due aspetti: quello ‘centrale’ è il fatto che Offscreen è il frutto della ‘mente’ di una sola persona, la quale ha una visione ben chiara. Col termine ‘visione’ ci si riferisce al segmento di realtà su cui BrachOffscreen intendono intervenire, in accordo con la definizione di ‘visione’ (Brand Vision) proposta da Alberto De Martini nella sua pubblicazione La Comunicazione People-Oriented – Edizione aggiornata con il “punto d'illuminazione”.20 La loro visione è quella di mettere in luce i volti e le storie umane che stanno «behind the pixels», dietro i monitor dei computer e, in secondo luogo, quella di interrogarsi sul rapporto di reciproca modificazione che c’è tra l’uomo e la tecnologia. Il secondo aspetto della frase estrapolata dal blog di Offscreen e poco prima citata che si vuole mettere in evidenza è che viene dichiarato che tale esperienza editoriale è sì «largely a one-man operation» ma che, a supporto di essa, vi sono altre persone e altre realtà commerciali. Ciò è in accordo con quanto affermato lungo il capitolo terzo circa la dimensione collaborativa che queste esperienze hanno, nei confronti delle aziende così come nei confronti dei privati cittadini. A proposito di ciò, si può notare come Brach abbia deciso di battezzare col nome di ‘Patrons’ (in italiano: patroni) quelle realtà che, più di altre, hanno deciso di sostenerlo. Un altro caso è quello di Cathy Olmedillas, che racconta di essersi lanciata nell’avventura editoriale di Anorak a causa di una situazione di disagio: quella di non trovare, per il proprio figlio neonato, dei prodotti editoriali soddisfacenti. Ci si trova quindi davanti a dei casi di esperienze editoriali nelle quali il brand che sta dietro al prodotto non viene – o almeno, non sempre – costruito in modo ‘artificioso’: è la personalità stessa di colui il quale fonda tale esperienza editoriale. Ciò fa sì che, nello schema [4.4gr1] proposto da Alberto De Martini (si veda la nota numero diciannove del presente capitolo) che illustra in che relazione stanno reciprocamente marca, prodotti e realtà modificata, laddove sta scritto ‘marca’ si potrebbe scrivere il nome proprio (ad esempio: Kai Brach, Steven Gregor, Rosalia Park e così via) del fondatore. Si è citata nuovamente la figura di Rosalia Park poiché ella, in un’intervista rilasciata a Jeremy Leslie, dichiara:

«I have a certain sense of aesthetics that I think kind of comes from my parents, they are ultimate minimalists. When my friends come over to my family home they’re like “Oh, this is where Cereal comes from!” One chair, white walls. It all makes sense if you get to know me». 190


IL PERCHÉ DI QUESTO FENOMENO: DAL TIPO DI CULTURA IN CUI SI VIVE, ALCUNE DIREZIONI DI RISPOSTA

Processo di realizzazione dell’idea della marca attraverso i prodotti idea (anima)

azione (corpo)

idea realizzata

[4.4gr1]

MARCA

PRODOTTO 1

PRODOTTO 2

PRODOTTO 3

PRODOTTO 4

REALTÀ MODIFICATA

Grafo contenuto in De Martini (2008) Si veda la bibliografia. p.47.

Ciò che afferma la Park risulta perfettamente in accordo con quanto finora detto a proposito di ‘queste esperienze editoriali come prolungamento della propria personalità e ricerca della propria individualità’: il gusto e la ricerca estetica estese (e ben intuibili) che stanno ‘dietro alle quinte’ della realizzazione dell’identità visiva (e del trattamento delle immagini fotografiche) adottato da Cereal affonda le sue radici nella personalità della fondatrice, tanto che se qualcuno si trova con ella in casa dei suoi genitori esclama “Oh, è da qui che Cereal proviene!”. Sempre a proposito di tale ‘congruenza’ tra la persona fondatrice e il media grassroots di cui si sta ora parlando, tale cosa può essere notata anche guardando, ad esempio, a come queste realtà operano sui social media. Come è già stato esposto, non tutte fanno uso di queste piattaforme ma è bene focalizzarsi sull’uso che alcuni maker adottano di tali strumenti. In particolare, ci si riferisce alla piattaforma social Instagram. In un approccio di narrazione transmediale dei contenuti secondo il quale la ‘offerta’ ai fruitori si diversifica su ogni piattaforma, ciò che accade su Instagram è spesso qualcosa di particolare: la ‘sovrapponibilità’ di cui si parla si mostra anche attraverso i feed fotografici degli account dei fondatori confrontati con gli account delle realtà editoriali. Questo sia a livello di scatti fotografici che sono spesso gli stessi (che vengono quindi caricati sia dall’account del fondatore che da quello del medium) sia a livello di trattamento e sensibilità nel gusto fotografico. Ciò si può notare, ad esempio, mettendo a confronto il feed dell’account di Rosalia Park con quello di Cereal, come mostrato nelle pagine successive. A tal proposito, si vedano le pagine seguenti. Vi è poi anche chi, come Kai Brach, ha ritenuto una scelta migliore quella di non aprire due profili Instagram separati (uno per se stesso e uno per Offscreen) bensì di aprirne uno solo che recita ‘Offscreen / Kai Brach’ in cui scatti inerenti la ‘vita’ (produzione, progettazione e così via) del prodotto cartaceo si intervallano con scatti riguardanti la vita privata di Kai Brach (fotografie di vacanze, ad esempio): si vedano le pagine seguenti. Un altro caso che in questo senso può essere segnalato è quello di Gnambox, esperienza editoriale italiana nata dalle menti dei due giovani brianzoli Riccardo Casiraghi e Stefano Paleari. Gnambox non è anche, tra le altre cose, 191

198


FEED INSTRAGRAM DI @ROSALIAPARK (ULTIMI 180 SCATTI VISIBILI IN DATA 23/03/2017)

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FEED INSTRAGRAM DI @CEREALMAG (ULTIMI 180 SCATTI VISIBILI IN DATA 23/03/2017)

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FEED INSTRAGRAM DI @OFFSCREENMAG (ULTIMI 360 SCATTI VISIBILI IN DATA 23/03/2017)

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QUANTI DI QUESTI RIGUARDANO OFFSCREEN E QUANTI RIGUARDANO ALTRO?

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SCATTI CONTENENTI RIFERIMENTI ESPLICITI AD OFFSCREEN & SCATTI RIGUARDANTI LA VITA PERSONALE DI KAI BRACH

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197


CAPITOLO QUARTO

una pubblicazione cartacea ma in questo punto del discorso (la sovrapposizione dei contenuti pubblicati dagli account di social media come segnale della brand identity sovrapponibile con la persona stessa dei fondatori o – in accordo con Bauman – sovrapponibile con la loro ricerca di individualità) risulta anch’esso un caso interessante. I due fondatori, nella sezione About del portale di Gnambox, dichiarano, come battuta finale della descrizione:

«Gnambox è il nostro amore». Guardando ai contenuti pubblicati dall’account Instagram di Gnambox ci si rende poi conto che tale affermazione ha una doppia valenza: da un lato, sta a significare la loro dedizione nel progetto che hanno avviato e che stanno portando avanti. Dall’altro, in un certo senso, Gnambox è davvero – anche – ‘il loro amore’: infatti, i due formano una coppia e la storia del loro amore viene sì raccontata dai loro due account personali della piattaforma Instagram ma, inoltre, essa viene narrata anche dall’account di Gnambox. Si può, infatti, notare una commistione tra scatti (e Instagram Stories) riguardanti piatti, ricette, locali consigliati e via di questo passo e, oltre ed insieme a ciò, ritratti dei due partner intenti in una vacanza insieme, in un momento di relax o mentre si scambiano delle effusioni.

15

fig.15 Screenshot del feed Instagram de @gnambox (21 marzo 2017)

198


CONCLUSIONI

24

Conclusioni

Man mano che lo studio del sottoscritto procedeva per la redazione di questa tesi di laurea è sempre più maturato un giudizio: le realtà editoriali tutte (quindi anche quelle grassroots, che nascono dal basso) sono a tutti gli effetti delle marche. Ciò, ovviamente, non suona come una affermazione ‘inedita’ ma è quel che ha spinto il sottoscritto, anche per via delle parole di FedericoZSarica di cui al capitolo primo e quelN A TE Ral E V le di Mary Berner di cui capitolo secondo, a chiamare gli oggetti di V A indagine di questo studio come ‘magazine brand’ o, volendo, ‘mediabrand’ e non semplicemente ‘magazine’. In quanto brand, marche, le ricerche sono andate ad esulare dal solo settore dell’editoria periodica per andare a toccare anche tematiche come il branding, l’identità di marca e la disciplina del metaprogetto (come si vedrà nel punto seSi vogliono qui spendere poche righe per una breve avguente di queste conclusioni). In particolare, in merito alla letteratura si occupa di definire cosa vertenza. Ciò che preme esprimere è ilchefatto che, in queuna marca effettivamente sia, si è rimasti colpiti da una pubblicazione ste conclusioni, si parlerà aspetti dell’editoria di Alberto De Martini(anche) (uno dei piùdi noti copywriter italiani) dal titolo La comunicazione people-oriented – Edizione aggiornata con il punto grassroots che, lungo il corso della trattazione, sono stad’illuminazione1 pubblicato da Guerini e Associati nel 2008. In questo ti toccati prendendo, ogni unvolta, alcune realtà d’impresa esistenlibro, l’autore propone approccio alla comunicazione come prodotto in sé e non come ‘pubblicità’, ‘promozione’ di prodotti. ti a titolo di esempio per illustrare questo o quell’altro De Martini cerca di spiegare come poter creare una strategia di valoaspetto. In questa sede si vuole invece evitare di fare re che metta in rapporto marca e cliente e come, in tale strategia, non ci debba essere scissione tra impresa e comunicazione di essa. In queciò: si preferisce non esemplificare con casi esistenti sta sede preme sottolineare due passaggi di De Martini che si vogliono quel che si suggerisce neiilluminare’ punti due diaspetti cui ritenuti si compone utilizzare per ‘meglio salienti circa la l’editoria grassroots esplorata. Afferma l’autore: «Una marca, per essere fase conclusiva di questa tesi. Questa decisione è stata tale […] deve essere il significato di tutte le attività svolte sotto quel nopresa perché,me.appunto, si tratta di alcuni suggerimenti Ricordai che questa era la definizione che Hillmann, uno dei più grandi psicologi del nostro tempo, assegnava all’anima: ciò forniche, in quanto tali, vogliono (si spera) avere unache qualsce significato a ogni nostra azione». che utilità per chi dalegge. Pertanto, il‘lafare esempi A partire tale affermazione che vede marcadegli come anima’ (intesa nel senso che De Martini dà a ciò rifacendosi al pensiero di Hillmann) è stato reputato come una operazione che potrebbe far è interessante guardare con particolare attenzione ai cosiddetti ‘onepensare al lettore qualcosa “Il esempi meglio quanto man magazine’ di cui si come: son fatti degli lungoper la trattazione. In questi casi si nota con particolare chiarezza come vi sia una continuità attiene questo particolare aspetto è già stato raggiunto tra la persona fisica fondatrice e la testata. È come se la ‘image’, intesa da questa talcome realtà”. Non è questa la volontà delle prela intende Giovanni Anceschi, ovvero «l’immagine della persona associabile a ciascuna organizzazione e disenti conclusioni: non si vuole finire affermando che stinta dall’entità-impresa in quanto tale»2 per ognuno dei punti che toccati si siaqualcosa già arvedesse, in questi casiverranno definiti come one-man magazine, di ‘nuovo’. La vita del medium e quella del suo fondatore tendono a ‘fonrivati ‘al meglio’. Al contrario, si intende suggerire deldersi’, e il fondatore stesso diventa la incarnazione della image del mabrand nelper mondo fisico. Per questo aspetto si rimanda, ad esemle attenzionigazine da avere poter arrivare a fare, magari, pio, al discorso circa gli account della piattaforma Instagram di cui alla qualcosa di ancor più ‘riuscito’ dei tanti casi analizzati fine del capitolo quarto. Una seconda affermazione di De Martini, in continuità con la precein questa tesi, per quanto diversi fra loro presentino – dente, preme ora fare. Egli parla del fatto che serva secondo chi scrive – didei punti beninriusciti quindisi «La creazine un unico ambiente, cui impresaee che comunicazione confrontino e si ascoltino per integrarsi in una proposta fatta di forme sono stati segnalati lungo i capitoli. e contenuti, segni e significati» e questo ‘unico ambiente’ di cui l’autore parla si ritiene che veda delle ottime esemplficazioni, ancora una volta, in quelle esperienze definite come ‘one-man magazine’. Ciò è dovuto anzitutto, come è facile intuire, al fatto che queste ‘redazioni minime’ siano di dimensioni tali da rendere inevitabile il dialogo tra la parte di ‘produzione di contenuti’ e quella ‘di comunicazione’, essendo spesso una sola persona a occuparsi dei due aspetti. Nell’ottica di De Martini, tutto ciò che un’azienda fa è comunicazione: Lanham Richard (2006) Si veda la bibliografia.

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CONCLUSIONI

1. IL MAGAZINE BRAND COME MARCA E LA MARCA COME ANIMA

1 De Martini Alberto (2008) Si veda la bibliografia.

2 Ciuccarelli Paolo (2007) La marca come sistema complesso. Articolo in Sistema Design Italia, nr 05/2007.

Man mano che lo studio del sottoscritto procedeva per la redazione di questa tesi di laurea è sempre più maturato un giudizio: le realtà editoriali tutte (quindi anche quelle grassroots, che nascono dal basso) sono a tutti gli effetti delle marche. Ciò, ovviamente, non suona come una affermazione ‘inedita’ ma è quel che ha spinto il sottoscritto, anche per via delle parole di Federico Sarica di cui al capitolo primo e quelle di Mary Berner di cui al capitolo secondo, a chiamare gli oggetti di indagine di questo studio come ‘magazine brand’ o, volendo, ‘media brand’ e non semplicemente ‘magazine’. In quanto brand, marche, le ricerche sono andate ad esulare dal solo settore dell’editoria periodica per andare a toccare anche tematiche come il branding, l’identità di marca e la disciplina del metaprogetto (come si vedrà nel punto seguente di queste conclusioni). In particolare, in merito alla letteratura che si occupa di definire cosa una marca effettivamente sia, si è rimasti colpiti da una pubblicazione di Alberto De Martini (uno dei più noti copywriter italiani) dal titolo La comunicazione people-oriented – Edizione aggiornata con il “punto d’illuminazione”1 pubblicato da Guerini e Associati nel 2008. In questo libro, l’autore propone un approccio alla comunicazione d’impresa come prodotto in sé e non come ‘pubblicità’, ‘promozione’ di prodotti. De Martini cerca di spiegare come poter creare una strategia di valore che metta in rapporto marca e cliente e come, in tale strategia, non ci debba essere scissione tra impresa e comunicazione di essa. In questa sede preme sottolineare due passaggi di De Martini che si vogliono utilizzare per ‘meglio illuminare’ due aspetti ritenuti salienti circa l’editoria grassroots esplorata. Afferma l’autore: «Una marca, per essere tale […] deve essere il significato di tutte le attività svolte sotto quel nome. Ricordai che questa era la definizione che Hillmann, uno dei più grandi psicologi del nostro tempo, assegnava all’anima: ciò che fornisce significato a ogni nostra azione». A partire da tale affermazione che vede ‘la marca come anima’ (intesa nel senso che De Martini dà a ciò rifacendosi al pensiero di Hillmann) è interessante guardare con particolare attenzione ai cosiddetti ‘oneman magazine’ di cui si son fatti degli esempi lungo la trattazione. In questi casi si nota con particolare chiarezza come vi sia una continuità tra la persona fisica fondatrice e la testata. È come se la image, intesa come la intende Giovanni Anceschi, ovvero «l’immagine della persona associabile a ciascuna organizzazione e distinta dall’entità-impresa in quanto tale»2 vedesse, in questi casi definiti come one-man magazine, qualcosa di ‘nuovo’. La vita del medium e quella del suo fondatore tendono a ‘fondersi’, e il fondatore stesso diventa la incarnazione della image del magazine brand nel mondo fisico. Per questo aspetto si rimanda, ad esempio, al discorso circa gli account della piattaforma Instagram di cui alla fine del capitolo quarto. Una seconda affermazione di De Martini, in continuità con la precedente, preme ora fare. Egli parla del fatto che serva «La creazine di un unico ambiente, in cui impresa e comunicazione si confrontino e si ascoltino per integrarsi in una proposta fatta di forme e contenuti, segni e significati» e questo ‘unico ambiente’ di cui l’autore parla si ritiene che veda delle ottime esemplificazioni, ancora una volta, in quelle esperienze definite come one-man magazine. Ciò è dovuto anzitutto, come è facile intuire, al fatto che queste ‘redazioni minime’ siano di dimensioni tali da rendere inevitabile il dialogo tra la parte di ‘produzione di contenuti’ e quella ‘di comunicazione’, essendo spesso una sola persona a occuparsi dei due aspetti. 200


CONCLUSIONI

3 Mendini Alessandro (1969) Metaprogetto sì e no. Articolo in Casabella nr. 333, febbraio 1969.

Nell’ottica di De Martini, tutto ciò che un’azienda fa è comunicazione: non solo la ‘comunicazione’ propriamente detta: «Comunicazione è la sede dell’azienda, il modo in cui si occupa dei collaboratori, il modo in cui agiscono e comunicano i collaboratori, le tecniche di produzione […] lo stile di vita del presidente. Tutto. Tutto ciò che fa ed è l’azienda, non solo ciò che dice, è comunicazione». Continuando a mettere in luce quanto si è percepito – in particolar modo – in merito alle esperienze one-man, esse risultano anche da questo punto di vista molto interessanti per due ragioni. La prima consiste nel fatto che l’ideologia di marca (come afferma, ancora nel medesimo libro, De Martini: «La marca è un’ideologia costituita da una visione della realtà e dall’ambizione di modificarla») è l’ideologia (o l’ideale) stesso della persona fondatrice, che si è lanciata in tale avventura non, in primo luogo, per gratificazioni economiche (se la prima ragione a muoverlo fosse stata di tipo economico, probabilmente avrebbe scelto di percorrere altre strade). Per questa ragione è poi – spesso – immediato notare coerenza tra il ‘muoversi’ del fondatore e il ‘muoversi’ dell’impresa. La seconda ragione (in continuità con la prima) riguarda invece il fatto che, per via delle dimensioni ridotte del core team, una sinergia tra ciò che la marca dice e ciò che essa effettivamente fa è anch’essa immediata da notare: ancora una volta, si vuol rimandare a quanto affermato nelle battute finali del capitolo quarto in merito all’utilizzo della piattaforma Instagram esercitato da alcuni dei maker presi in esame. 2. LA NECESSITÀ DEL METAPROGETTO E DI UN APPROCCIO TRANSMEDIALE Si ritiene che tutto quanto è stato affermato nel punto uno debba essere portato avanti all’interno di un approccio metaprogettuale. Quella del metaprogetto è una disciplina che proviene originariamente dal mondo del progetto d’architettura e che vede Alessandro Mendini come un personaggio che traspose tale pratica (o ‘modo di pensare’ di tipo sistemico) nel mondo del design grazie a quanto da lui fatto assieme al brand Alessi. Di ciò parla anche Paolo Ciuccarelli nel suo articolo dal titolo La marca come sistema complesso pubblicato in Sistema Design Italia nel 2007 (si veda la nota numero due delle presenti conclusioni): «Sul terreno del design è Mendini a dare una dimensione di concretezza al metaprogetto, proprio attraverso la definizione di un “programma di riproducibilità” e di “regole di germinazione” applicate principalmente nei suoi rapporti con Alessi». Cosa si intende con ‘regole di germinazione’? Afferma Mendini in un suo articolo3 pubblicato su Casabella nel 1969: «Disporre di un metaprogetto significa strutturare norme capaci di germinare, in linea indiretta, infinite soluzioni morfologiche diverse ma omogenee». Ciò di cui parla qui Mendini risulta visibile in certi casi di esperienze grassroots presentati lungo il percorso: a chi scrive è servito poco tempo per comprendere come il termine ‘magazine’ fosse riduttivo in quanto tali realtà sono – spesso – qualcosa di più complesso dell’oggetto magazine: piuttosto, quest’ultimo fa parte di una serie di output che, affiancati tra essi e guardati ‘insieme’, formano un discorso coerente. In continuità con quanto affermato al punto primo di queste conclusioni, si sottolinea che con ‘output’ si intende anche ciò che è comunicazione, e non solo i prodotti propriamente detti. Tale tipo di approccio metaprogettuale, che non dà origine a linee prescrittive (come, ad esempio, un brand manual con le sue regole d’uso del marchio da applicare rigidamente) ma che apre a infinite possibilità «diverse ma omogenee»

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CONCLUSIONI

4 Cain Sian (2017) https://www. theguardian.com/ books/2017/mar/14/ ebook-sales-continue-tofall-nielsen-survey-ukbook-sales

si ritiene qualcosa che è oggi più che mai necessario per via dello sfumarsi dei confini delle singole piattaforme (si veda quanto detto sulla convergenza culturale nel secondo punto del capitolo quarto) e per via della conseguente ‘diffondibilità’ per la quale i contenuti devono essere progettati, in un approccio transmediale (ovvero che ‘discrimina’ su cosa e come proporre i contenuti a seconda delle diverse piattaforme su cui si è presenti, non limitandosi quindi a una ‘traslazione’ delle cose lasciate identiche da una piattaforma a un’altra). 3. DA BENE DI CONSUMO A OGGETTO CULTURALE GRAZIE ALLA BASSA FREQUENZA D'USCITA Pur restando la necessità di un’ottica transmediale di diffusione dei contenuti (si vedano le ultime righe del precedente punto) occorre però notare un fatto o, meglio, una tendenza. Viene qui in aiuto un articolo4 pubblicato in data 16 marzo 2017 su The Guardian a cura di Sian Cain. Quanto scritto in tale articolo riguarda il Regno Unito, ma malgrado ciò si ritiene che quanto in esso esposto sia (almeno in parte) dovuto alla convergenza culturale di cui parla Henry Jenkins, e di cui si è discusso nel corso del capitolo quarto e, quindi, si debba considerare come qualcosa dal respiro più ampio poiché può riguardare la situazione attuale anche aldilà dei confini di un singolo paese. Sian Cain riporta e scrive a proposito di alcuni dati della divisione britannica di Nielsen i quali dicono che i ricavi provenienti dagli ebook sono in calo mentre, dall’altra parte, sono in aumento quelli provenienti dalla vendita di libri cartacei. Secondo alcuni attori citati nel testo, il recupero delle vendite dei libri ‘tradizionali’ è da attribuire ai cosiddetti ‘colouring books’ per adulti, acquistati per donare qualche momento di relax e spensieratezza nel mezzo della società sempre più interconnessa e permeata dalla nowness del digitale in cui si vive. Dall’altra parte, però, viene riportato che secondo un survey di Nielsen datato 2016 l’aumento nelle vendite dei prodotti cartacei si deve al fatto che le giovani generazioni preferiscono i libri stampati a quelli elettronici. Viene menzionato anche un survey del 2013 realizzato dall’istituto Voxburner il quale si occupa di studiare i consumi mediali dei giovani di età compresa tra i sedici e i ventiquattro anni. Da tale ricerca risultava che, in tale fascia d’età, il 62% degli intervistati dichiarava di preferire i libri stampati agli ebook. Affianco del quesito riguardante il ‘duello’ tra libro a stampa e libro elettronico, veniva anche chiesto cosa si preferisse tra magazine cartaceo e magazine in formato digitale: il 47% degli intervistati dichiarava di preferire la versione ‘tradizionale’. Dunque, dai risultati dello studio di Voxburner, la carta stampata sembra venir preferita più spesso quando si tratta di libri che di periodici. Stando a tali risultati, vien quindi da ritenere che non sia un ‘problema’ il fatto che i piccoli editori oggetto di questa tesi non abbiano le risorse (economiche e, spesso, di tempo) per ‘stare dietro’ alla frequenza più ‘incalzante’ con cui vengono pubblicati i magazine di stampo mainstream e commerciale: difatti, come esposto dal sottoscritto lungo questo percorso, i cosiddetti maker realizzano prodotti che, nella maggior parte dei casi, escono due volte all’anno (o, per le realtà più ridotte e a tiratura più bassa, càpita anche che la frequenza sia irregolare o comunque definita in modo non preciso). Il fatto di produrre meno uscite e che queste ultime vengano pubblicate a distanza di diversi mesi l’una dall’altra può aiutare tali prodotti a ‘traslarsi’ (nella percezione che di essi hanno le persone) più verso l’oggetto libro che l’oggetto magazine. Si ritiene che tale ‘traslazione’ (dettata, appunto, da 202


CONCLUSIONI

un abbassamento della frequenza di uscita) sia in accordo con quanto sostenuto da Henry Jenkins quando dice che, nel momento in cui media ‘vecchi’ e media ‘nuovi’ vengono in contatto, i ‘vecchi’ non scompaiono bensì hanno la possibilità di ricollocarsi reinterpretando la propria funzione (e i propri pubblici) nonché l’opportunità di interagire in nuove modalità con gli attori ‘nuovi’. Questo shift si ritiene che consista nel far percepire queste esperienze grassroots come produttrici di oggetti culturali, altra cosa rispetto ai beni di consumo concepiti dall’industria dell’editoria periodica mainstream. Per un più approfondito sguardo su quale sia la differenza tra beni di consumo e oggetti culturali si rimanda all’ultimo punto del capitolo terzo e all’ultimo punto del capitolo quarto. 4. "GRAPHIC DESIGN IS CONTENT" SE È AL SERVIZIO DELL'IDEOLOGIA DI MARCA Si vuole ora nuovamente tornare sulla enunciazione “Graphic design is content” o – come afferma Megan Le Masurier citata nell’ultimo paragrafo del capitolo terzo: «Graphic design in indie magazines is content». Come si è visto nel corso della trattazione, ciò è dovuto a diverse cause: anzitutto quella delle ridotte dimensioni delle redazioni di queste esperienze. Oltre a ciò, è chiaramente necessario che all’interno di questi piccoli (se non personali) team vi sia un designer (o qualcuno che diventi tale). Infatti, come afferma ancora la Le Masurier in Independent magazines and the rejuvenation of print: «While few indie maker have prior professional experience as editors, publishers or journalists, because of the importance of high-quality design, there is usually a trained designer on the team». La presenza di «a trained designer» è resa particolarmente importante da quanto detto da Richard Lanham, citato nel corso del capitolo terzo: «Desktop publishing has made typographical layout and font selection matters of everyday expressive concern. We no longer take them as givens; we can make the choices ourselves, and thus we become ever more conscious that they are choices and that other choices might be made». Unito a ciò, va considerato il bisogno di un progetto di design della comunicazione che renda l’aspetto visivo (anche se, come è intuibile nel punto primo di queste conclusioni e in accordo con De Martini, tale disciplina non può limitarsi a ciò) in grado di ‘spiccare’ nel mezzo dello stream che la rete è e di cui ha parlato, fra gli altri, John Bortwick nel 2009 il quale è stato menzionato all’inizio del capitolo primo. Come afferma ancora una volta Lanham nella sua già menzionata opera The economics of attention, ci si trova oggi in un’epoca in cui il desktop publishing (e quindi la possibilità sempre più ‘democratizzata’ di ragionare attorno all’apprezzamento o meno di un tale carattere tipografico o una tal scelta grafica) rende sempre più capaci le persone di «Look at the surface as much as through it». Pertanto, in merito invece all’oggetto cartaceo in sé (una volta detto quanto si riteneva di dover dire in merito a ciò che sta nel mondo digitale, poche righe sopra) si ritiene che esso debba cercare di divenire sempre più un ‘pezzo’ di contenuto grafico (assieme, ovviamente, al contenuto ‘letterario’), di graphic content perché ciò rende ancora più chiaro che, acquistando tale oggetto, si ottiene qualcosa che il digitale non può dare (ma che può, al limite, promuovere grazie ad una narrazione transmediale). Ciò può essere spiegato con un parallelismo sempre interno al mondo del design: sarebbe come se una persona, invaghitasi di un tal prodotto d’arredo come una lampada o una sedia, si limitasse a guardarne immagini (statiche o in movimento) sul web anziché acquistare quel tale prodotto.

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CONCLUSIONI

Detto ciò occorre però segnalare che, come si comprende da tante parole dei maker presi in esame in questa ricerca (a tal proposito si consiglia di consultare il già citato volume Independence – 12 interviews with magazine maker di Jeremy Leslie) vi è il rischio, poi, di un ‘appiattimento’ su ‘stili’ sempre uguali, sempre molto simili tra loro dei vari prodotti editoriali. A tal proposito, si pensi ad esempio alla ‘estetica del bianco’ di cui si è parlato lungo l’ultimo punto del terzo capitolo. Ciò che quindi preme qui affermare è che non può trattarsi di una ricerca estetica fine a se stessa: anche il linguaggio visivo dev’essere qualcosa che scaturisce dalla ‘ideologia di marca’ e che vada a creare una sinergia con quest’ultima. A tal proposito, si vuole terminare queste conclusioni con una provocazione, lanciata dal graphic designer Steven Gregor sulla cover della dodicesima uscita cartacea dell’ormai defunto Gym Class. Nella pagina seguente viene proposta la cover in questione.

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CONCLUSIONI

5. PUNTO-CAPPELLO: POSSIBILITÀ D'USO DEL MAGAZINE BRAND NELLA COSTRUZIONE DI UNA MARCA I primi quattro punti delle presenti conclusioni riguardano l’oggetto magazine brand (o media brand). In questo quinto punto ‘cappello’ si vuole, invece, andare oltre esso per sfociare nel discorso sulla marca, già accennato al primo punto: in esso si affermava che il sottoscritto ritenesse opportuno considerare come delle marche i magazine brand grassroots analizzati per questa tesi di laurea: ‘marche’ nel senso che De Martini, precedentemente citato, dà di tale termine. La marca come anima, dove per anima si intende quel che è significato di tutte le azioni svolte sotto un tale nome, considerando tutto come comunicazione: non solo quel che si ‘comunica’ in senso proprio, ma ogni cosa che sta sotto il nome della marca: la sede, lo stile di vita del presidente, le relazioni con i fornitori e via di questo passo. In forza di quanto si è visto lungo il presente studio circa la potenzialità di questi prodotti mediali nel veicolare con forza una ‘ideologia di marca’ (che – come già detto in precedenza – in molti dei casi analizzati si identifica con l’ideologia personale del fondatore stesso) si vuole ora dare un suggerimento, un’ipotesi. Svariati casi tra quelli presi in esame lungo la presente trattazione si distinguono per la loro grande capacità di parlare ad un pubblico ristretto e fortemente interessato: come si è visto nel corso del primo punto del capitolo quarto, questi attori mediali si distinguono fortemente da prodotti di carattere prettamente commerciale per il loro trattare argomenti usuali utilizzando tagli inusuali o, in altri casi, di parlare di argomenti del tutto inusuali. Da qui deriva l’uso del termine ‘nicchie’. In accordo con il paradigma della cultura convergente (secondo cui, tra l’altro, i media ‘vecchi’ si ricollocano cambiando il proprio status e i propri pubblici quando entrano in contatto con i media ‘nuovi’) proposto da Jenkins si ritiene che questi prodotti mediali potrebbero essere realizzati e utilizzati come ‘strumento per il posizionamento’ di un brand nascente. Si tratterebbe, in questo caso, di una operazione diversa rispetto alla creazione di un house organ, di un brand magazine: questi ultimi (si veda, a tale proposito, il secondo punto del capitolo terzo) nascono a ideologia di marca e lancio dei prodotti già avviati, vengono concepiti – ancora – in un’ottica funzionale. Quel che si suggerisce, invece, è di non concepire più quello editoriale come uno tra i diversi prodotti che servono a ‘tener viva’ l’ideologia di marca: questo può venir ricollocato, anche in senso temporale, e divenire uno strumento per far sì che una marca nascente arrivi in modo più celere e più mirato al proprio target, a chi desidera avere come interlocutore. Lungo l’ultimo punto del capitolo quarto si era proposto uno schema contenuto in La comunicazione people-oriented – Edizione aggiornata con il “punto d’illuminazione”: viene, nella pagina accanto, proposta una reinterpretazione dello stesso, in accordo con quanto detto circa il possibile ruolo che al magazine brand potrebbe essere conferito nel posizionare la marca (cioè la sua ideologia e il suo insieme di valori) in rapporto con le persone a cui si intende rivolgersi. Non più, dunque, l’house organ come uno tra i diversi prodotti della marca bensì i diversi prodotti che diventano essi ‘organs’ dell’ideologia di marca contenuta e narrata primariamente da prodotti mediali, la cui funzione è quella di essere ‘dimora primaria’ di significati e quindi permettere alla marca di realizzare il proprio collocamento (in fase sì di nascita di quest’ultima, ma anche successivamente)

206


CONCLUSIONI

DA

A

MARCA (ideologia)

MARCA (ideologia)

magazine brand/media brand

prod.1

prod.2

prod.n

house organ

prod.1

prod.2

prod.3

prod.n

REALTÀ MODIFICATA

REALTÀ MODIFICATA

Rielaborazione del grafo contenuto in De Martini (2008) Si veda la bibliografia. p.47.

5 Carmi Elio, Wegher Elena Israela (2011) Si veda la bibliografia. 6 ibidem 7 Semprini Andrea (2006) Si veda la bibliografia. 8 Greimas Algirdas (1970) Si veda la bibliografia.

attraverso quello che potrebbe essere definito con un neologismo come ‘longform brand storytelling’. Quello che si propone di considerare è, dunque, una ‘traslazione’ del cosiddetto ‘magazine design’ (definito come «Progettazione di periodici e di allegati continuativi. È parte dell’editorial design» da Elio Carmi e Elena Israela Wegher in una loro pubblicazione5 del 2011) e più in generale dell’editorial design verso l’area strategica di formazione della brand image (guardando al lato di ciò che avviene nella mente di quelli cui la marca si rivolge) e della brand positioning (guardando al ‘posto’ che la marca «assume nel suo contesto competitivo per assicurarsi che gli individui nel mercato di riferimento la percepiscano come differente e distintiva rispetto ai concorrenti, sia in termini di percepito di codici sia di percepito valoriale»6). Andrea Semprini, nella sua pubblicazione7 dal titolo La marca postmoderna – potere e fragilità della marca nelle società contemporanee, parla di qualcosa che è fortemente in analogia con quanto si sta qui sostenendo. L’autore descrive come – secondo lui – una marca dovrebbe ‘venir generata’ nell’epoca postmoderna (che si è cercato di delineare lungo il quarto capitolo della presente trattazione). Semprini segnala l’importanza della distinzione tra ‘semiotica’ e ‘comunicazione’. Egli afferma, rifacendosi al pensiero di Greimas contenuto in Du sens:8 «Il contenuto della semiotica non è la comunicazione, ma il significato, il senso. Per “natura semiotica della marca” si intende la capacità della marca di costruire e veicolare significati». E poco più avanti: «Le società postmoderne attribuiscono uno spazio sempre più importante alla ricerca di senso, alla costruzione di progetti di vita che aiutino a orientare e 207


CONCLUSIONI

dare un senso all’esperienza quotidiana, in un contesto sociale sempre più complesso e frammentato. La natura semiotica della marca deve essere considerata su tale sfondo». In queste parole di Semprini viene esplicitato il pensiero di chi scrive e che sta venendo qui presentato: l’attore mediale che passa dal piano ‘comunicazione’ al piano ‘semiotica’. Se è vero che, come sostiene l’autore, «Le società postmoderne attribuiscono uno spazio sempre più importante alla ricerca di senso» si vede allora, nella realizzazione di questi prodotti, uno strumento potenzialmente efficace per fare ciò elevandoli a ‘dimore primarie’ (come si diceva poco prima) dell’ideologia di marca proprio per via della loro grande potenzialità nel veicolare significati. Si ritiene, inoltre, che tali attori mediali dovrebbero anche ‘venir prima’ dei prodotti anche in senso temporale, così come si vede che si verifica in tante delle realtà grassroots osservate in questa tesi le quali adottano questa ‘successione temporale’ nella maggior parte dei casi per ragioni economiche e di limitatezza di risorse. C’è poi da dire che la progettazione di un attore mediale è certamente utile anche per lavorare su un campo ad esso più (già usualmente) vicino, ovvero quello della brand identity intesa come «design grafico della brand, progetto vero e proprio di graphic design» che è qualcosa di diverso dalla «identità profonda della marca, generata dalla sistematizzazione dei valori fondamentali che la costituiscono». (Le ultime due menzioni tra virgolette caporali provengono anch’esse dal glossario posto in fondo alla poco prima citata pubblicazione di Carmi e Wegher). Perché ciò accada, si ritiene poi utile anche quanto esposto nei punti due, tre e quattro delle presenti conclusioni. Il dotarsi di un metaprogetto (punto secondo) è ritenuto utile perché il magazine brand sposi il paradigma della convergenza culturale e il conseguente ‘sfaldarsi’ dei confini specifici delle singole piattaforme adottando, tra l’altro, un approccio transmediale; quello di una bassa frequenza di pubblicazione (punto terzo) è ritenuto utile, come detto, per far sì che il prodotto mediale possa esser meglio percepito come oggetto culturale anziché come bene di consumo e, infine, la necessità di un progetto grafico e visivo avente origine dall’ideologia di marca e in grado di ‘spiccare’ nello stream senza inizio né fine che la rete sempre più è.

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PERIODICI

A Head Full Of Snakes

numero 1, 2011

A magazine curated by

numeri 9 e 14, 2009-2015

Acid

numero 2, 2014

Adbusters

numero 15, 2014

Anorak

diversi numeri, 2006-2015

Boat

numero 8, 2014

Cat People

numero 1, 2013

Cereal

numeri 4 e 11, 2013-2016

Cherry Bombe

numero 3, 2014

CondĂŠ Nast Traveller

uscita di gennaio 2015

Dada

numero 1, 1917

Delayed Gratification

numero 14, 2014

Der Sturm

numero 1, 1910

Disegno

numero 10, 2016

Fukt

numeri 11 e 14, 2012-2015

Guts

numeri 3 e 4, 2015

Gym Class

numeri 12 e 15, 2015-2016

IL

uscita di aprile 2014

Locus

uscita di maggio 2015

Makeshift

numero 9, 2014

MC1R

numero 2, 2015

mono.kultur

numero 32, 2012

Monocle

numeri 92 e 98, 2016

Offscreen

diversi numeri, 2012-2017

Olivia

numero 1, 2007

Perdiz

numero 6, 2016

Pineapple

numero 1, 2014

Port

numero 16, 2015

Print isnt'dead

numeri 3 e 4, 2015-2016

Printed Pages

diversi numeri, 2015-2017

Put A Egg On It

numero 5, 2012

Riposte

numero 1, 2013

Rivista Letteraria

numero 1, 2013

Rivista Undici

numeri 7 e 11, 2015-2016

Sidetracked

numero 1, 2014

Sistema Design Italia

uscita di maggio 2007

212


PERIODICI

Sniffin' Glue

uscite di settembre e novembre 1976

Technology Review

uscita di giugno 2001

Teller

numero 2, 2011

The Gentlewoman

diversi numeri, 2012-2017

The Gourmand

numeri 5, 6 e 7. 2015-2017

The Lucky Peach

diversi numeri, 2011-2016

The Mask

numeri 1 e 2, 1908

The Red Bulletin

uscita di ottobre 2013

The Ride Journal

numero 5, 2016

The Shelf Journal

numero 2, 2013

Weird Tales

uscita del maggio 1934

Works That Work

numeri 1, 2 e 3, 2013-2014

Wrap

numero 6, 2012

213


REPORTS

EUROPEAN PRESS COUNCIL (2015) Global Newspapers / Magazines trends http://epceurope.eu/wp-content/uploads/2015/10/Magazines_ newspaper-EPC-chapter-5.pdf WORLD ASSOCIATION OF NEWSPAPERS AND NEWS PUBLISHERS (2014) World Press Trends Gentile concessione di Gabriele Gehring, information scientist del suddetto istituto. WORLD ASSOCIATION OF NEWSPAPERS AND NEWS PUBLISHERS (2015) World Press Trends Gentile concessione di Gabriele Gehring, information scientist del suddetto istituto. WORLD ASSOCIATION OF NEWSPAPERS AND NEWS PUBLISHERS (2016) World Press Trends Gentile concessione di Gabriele Gehring, information scientist del suddetto istituto. PRICE WATERHOUSE COOPERS (2016) Entertainment and media outlook in Italy 2016-2020 (Executive summary) http://www.pwc.com/it/it/publications/assets/docs/emoi-es-ita.pdf ZENITH OPTIMEDIA (2016) Media consumption forecast http://communicateonline.me/wp-content/uploads/2016/06/MediaConsumption-Forecasts-2016.pdf AUTORITÁ PER LE GARANZIE NELLE COMUNICAZIONI (2015) Relazione annuale https://www.agcom.it/documents/10179/2294678/ RELAZIONE+ANNUALE+2015_testo+completo/16c30a17-12c4-4637b79a-37d1d985945c AUTORITÁ PER LE GARANZIE NELLE COMUNICAZIONI (2016) Relazione annuale https://www.agcom.it/documents/10179/5103421/ RELAZIONE+ANNUALE+2016_integrale_new/b5b5c03b-d858-4ee5bc48-0eccc1ad33a6 SHARETHROUGH (2017) A NEUROSCIENCE PERSPECTIVE – Assessing Visual Focus, Message Processing & The Ability To Strengthen Associations Through Mobile Native Advertising https://sharethrough.com/downloads/Sharethrough_Neuroscience_ Report.pdf

214


SITOGRAFIA

CHE-FARE

www.che-fare.com

CONTENTLY

www.contently.com

COVER JUNKIE

www.coverjunkie.com

DIGIDAY

www.digiday.com

ENCICLOPEDIA TRECCANI

www.treccani.it

ENCYCLOPEDIA BRITANNICA

www.britannica.com

EUROPEAN PRESS COUNCIL

www.epc.com

FANZINE ITALIA

www.fanzineitalia.it

FIPP

www.fipp.com

FLIPPING PAGES

www.flippingpages.com

FRANCESCO FRANCHI

www.francescofranchi.com

GRAFIK

www.grafik.net

HARVARD BUSINESS REVIEW

www.hbr.org

IL FOGLIO

www.ilfoglio.it

INC

www.inc.com

IT'S NICE THAT

www.itsnicethat.com

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www.magculture.com

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MGZN – RIVISTE, IN BREVE

www.mgzn.co

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www.monoskop.org

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www.outbrain.com

RESEARCH GATE

www.researchgate.net

RIVISTA STUDIO

www.rivistastudio.com

SHARE THROUGH

www.sharethrough.com

SLOW COMMUNICATION

www.slowcommunication.it

STACK MAGAZINES

www.stackmagazines.com

TECHNOLOGY REVIEW

www.techonologyreview.com

THE ATLANTIC

www.theatlantic.com

THE BLUE MOUNTAIN PROJECT

https://goo.gl/6HoQvQ

THE GUARDIAN

www.theguardian.com

THE NEW YORK TIMES

www.nytimes.com

THE WALLSTREET JOURNAL

www.wsj.com

VIMEO

www.vimeo.com

WIRED ITALIA

www.wired.it

YOUTUBE

www.youtube.com

215


INDICE DEI NOMI PRINCIPALI

Agerman-Ross, Johanna

Gilder, George

Alferj, Pasquale

Green, Joshua

Asher, Marty

Gregor, Steven

Baillet, Adrien

Greimas, Algirdas

Baker, Dillon

Grusin, Richard

Balland, Ludovic

Hawkes, Harry

Bauman, Zygmunt

Hegardt, Bjรถrn

Bennet, James

Hwang, Mark

Bil'ak, Peter

Iabichino, Paolo

Blair, Ann

Jamieson, Ruth

Bolter, Jay David

Jenkins, Henry

Bortwick, John

Krefman, Adam

Brach, Kai

Kuntz, David

Bradshaw, Paul

Lane, David

Caderec, Colin

Lanham, Richard

Cardani, Angelo Marcello

Le Masurier, Megan

Carmi, Elio

Leslie, Jeremy

Carr, David

Lewis, Angharad

Chang, David

Losowsky, Andrew

Ciuccarelli, Paolo

Madrigal, Alexis

Cohen, Daniel

Mahler, Johnatan

Crowe, Dan

Maillard, Chris

Davies, Pete

Malka, Ariel

De Beauvius, Vincent

Mangini, Daniela

De Martini, Alberto

Maoloni, Piergiorgio

Doctorow, Cory Efram

Mazzone, Giacomo

Duenes, Steve

Meehan, Peter

Egol, Matt

Mendini, Alessandro

Fenez, Marcel

Miller, Danny

Ferrazzi, Andrea

Morrish, John

Finzi, Enrico

Motta, Alessandro

Ford, Sam

Negroponte, Nicholas

Franchi, Francesco

Olmedillas, Cathy

Freeman, John

Park, Rosalia

216


INDICE DEI NOMI PRINCIPALI

Penny, Martin Phin, Cristopher RĂŠbulard, Morgane Rhoades, Shirrel Richtel, Matt Ruff, John Sarica, Federico Sbarbati, Simone Semprini, Andrea Shirky, Clay Siri, Giovanni Skulte, Ilva Smith, Marcroy Somerton, John Springs, Greg Stapleton, Richard Sullivan, Margaret Sumner, David Toiminen, Marjaana Umiliacchi, Gianluca Vietti, Pietro Warde, Beatrice Watson, Steve Wegher, Elena Israela

217


N

on credo che sarà facile, alla fine di questo percorso iniziato nell’ottobre del 2011, essere troppo sintetico coi “grazie” da dire. Voglio iniziare ringraziando chi ha più da vicino seguito la ‘genesi’ della mia tesi fin dal suo principio e che con le sue competenze mi ha aiutato: anzitutto la professoressa Paleari per aver compreso il potenziale che poteva esser presente nella mia idea di tesi. La ringrazio anche perché sempre, nel momento in cui serviva, sapeva darmi un aiuto decisivo per uscire dal ‘pantano’. Le dico grazie anche per quella revisione all’Ikea di Carugate in mezzo a una festa di compleanno di umani di età compresa tra i sei e gli otto anni… è stato molto simpatico. Subito dopo di lei, ringrazio il professor Ciastellardi per essersi ‘imbarcato’ con entusiasmo e prontezza in questa piccola avventura a lavori già ben avviati. Gli dico grazie per il suo approccio estremamente semplice, chiaro e pragmatico, per i suoi suggerimenti bibliografici particolarmente mirati e per la sua simpatia umana. Voglio ringraziare Giovanna Sala e Gianluca Pianigiani di MGZN per quella lunga intervista-chiacchierata di circa tre ore: mi è stata davvero utile (giuro che gli riporterò il loro numero di Monocle). Vorrei ringraziare anche chi, tra i maker osservati in questa tesi, mi ha voluto dare una mano fornendomi materiale e rispondendo alle mie mail / messaggi su ogni social e piattaforma possibili e immaginabili: Kai Brach di Offscreen, Cathy Olmedillas di Anorak, Roisin Agnew di Guts, Björn Hegardt di Fukt e Steve Daniels di Makeshift. Anche se non ci ho avuto a che fare direttamente, vorrei dire grazie anche a Jeremy Leslie, Angharad Lewis e Megan Le Masurier per l’aiuto che mi hanno dato (fondamentale) con ciò che hanno scritto. Direi che, in qualche modo anch’esso legato alla tesi, è d’obbligo un ringraziamento allo stampatore e amico Claudio ‘Clod’ Signorelli, sempre col sorriso e pronto ad aiutare (anche Gerri va ringraziato… altrimenti chi la fa lavorare la Indigo?). Voglio chiudere questa prima parte di ringraziamenti con un grazie a quelli che ritengo essere i migliori docenti avuti in questi cinque anni: il professor Piazza, la professoressa Bernstein, il professor Panzeri e la professoressa Bordin. Chiuso il capitolo ‘università e stampa’ voglio dir grazie alla mia famiglia: grazie a mia mamma (anche per la ‘caccia ai refusi’ dell’ultimo momento) e a mio papà che, pur nelle loro difficoltà (non che io non abbia le mie, sia chiaro) mi vogliono un bene dell’altro mondo (e si vede, anche se non sempre faccio credere di notarlo) e per me farebbero di tutto. Accanto a loro, ringrazio Berni e Caterina (sperando che, tra qualche anno, anche lei si ritroverà a dover scrivere i ringraziamenti di una tesi di laurea della stessa facoltà che ho frequentato io). ‘Allargando’ un po’ il cerchio famigliare dico grazie alla mia nonna Alfonsina e allo zio Carluccio. Oltre a una storia di docenti, di stampatori e di famiglia, la storia di questi anni di università è però stata anche la storia di una grande amicizia con tanti e tanti volti incontrati. Anzitutto ringrazio Pape e Pello facendolo nel medesimo modo in cui li ringraziai alla fine della mia tesi triennale: per essere stati i primi a coinvolgermi nella vita di Design, a darmi suggerimenti, a fornirmi materiali eccetera. In università ho anche incontrato Giobba, che considero il mio amico più caro. Il ringraziamento è dunque autoesplicativo (grazie anche per avermi presentato una certa Francesca durante la Macerata Loreto 2K15 edition). Ringrazio le persone che, come Giobba, ho conosciuto in università e che ora vedo sporadicamente (perché l’università l’hanno finita da un po’): anzitutto Mandile, poi la Susi, Gino, Lollo Galbiati, la Piastra,


Brus, Michi Paindelli e anche qualche altro che ora sto certamente scordando. Ho da dire grazie anche ad amici che ho incontrato in università e che ora sono io a salutare, perché il loro percorso al Poli ancora non è ancora finito: Monde (in un certo senso), Lollo, la Gaia, Lögia, Dem, la Giulia, Mike (che sarebbe Picco), la Megghi e Tino, Compa, Peppe, la Mane, la Ilu, Silvietta (grazie anche per la ‘nduja) e tanti altri che di sicuro, ancora, mi sto dimenticando. Un ringraziamento particolare vorrei poi farlo per le stupende matricole di quest’anno: la Cate (mia sorella), Anto (grazie in particolare per quando giochiamo a pallone in pausa pranzo), Fede Pozzi, la Ele Iannella e altri ancora. Ringrazio poi Squer e la Cosma, che tendo a vedere come un’unica entità (con loro grande gioia, suppongo). Ringrazio Colombo, soprattutto per avermi chiesto una mano nel settembre del 2014 e per l’invito che mi ha fatto a partecipare alla Diaconia Uno: quello è stato proprio un bel regalo. Un grazie anche al buon Sebastián, a Løsa e a Gio. Un grandissimo, enorme ringraziamento voglio farlo a chi mi ha coinvolto nell’esperienza di Poliedro e in quella di Lista Aperta (in particolare la Giudi e Monta, che tra l’altro il 27 maggio si sposano). Sono state due tra le esperienze più belle e significative in assoluto che io abbia fatto in questi anni e ringrazio chi con me le ha vissute: Sapo, Lollo, Gino, Poma eccetera per Poliedro e Semino, Albi Merlo, Cinghio eccetera per Lista Aperta. Voglio dire un grande grazie anche agli amici di ingegneria Doc e Beppe (che tra l’altro il 22 aprile si sposa con la Puffa e colgo l’occasione per ringraziare anche lei perché mi stavo dimenticando). Voglio ringraziare – anche se non fanno il Poli – gli amici Sam e Pina. Grazie a Teo Riva per la stima e la simpatia che ha avuto per me durante i mesi di tirocinio a Vita. Colgo l’occasione per ringraziarne tutta la redazione. Sono un po’ cresciuti, ma li considero anche loro due grandi amici incontrati in università: grazie ad Anas (il mio ‘prete di fiducia’, che ringrazio in particolare per la chiacchierata fatta la sera del 30 agosto 2015) e a Dima. Accanto a loro, anche se con Milano non c’entra, voglio dire grazie anche a don Pino De Bernardis. A partire da don Pino De Bernardis, ci spostiamo verso la Liguria: anche qui ho incontrato tante persone che mi hanno voluto bene da subito. Grazie a Pippo, alla Lavi e Mocce, alla Ila, alla Monni e Simo (che tra l’altro si sposano il 3 giugno – giuro che a breve faccio anche la grafica delle bomboniere e dei libretti della Messa), a Gabri (e in bocca al lupo per la campagna!), a Samu Bossi e anche ad altri che sto certamente dimenticando. Ringrazio la famiglia Bave: Giorgio (anche per come cucina: sublime veramente), Floriana, Megghi (insieme a Fede) e Dedde per come mi hanno accolto fin da subito e per come continuano a farlo. Ah, stavo per dimenticarmi di un componente della famiglia Bave… grazie alla Titta (si chiama Francesca ma esser chiamata col suo nome di battesimo la disagia) che ho lasciato per ultima perché suonasse un po’ come la prima. Ringrazio semplicemente perché c’è e per il cammino che ci sta venendo dato di fare insieme: è un cammino a tratti faticoso (come ogni cammino vero, direi) e mi sembra che diventi sempre più bello, pian pianino. Finendo, dico semplicemente che – al momento – non so ancora bene dove andrò e cosa farò dopo il 27 aprile: dopo qualche giorno di pausa inizierò a muovermi su tale fronte. Però, ovunque andrò e qualunque cosa farò vedo che non sono da solo, come tutti questi “grazie" (nella loro semplicità) testimoniano: non potrebbe esserci conforto migliore di questo. Cheers.


Stampato nell'aprile del 2017 presso Tipografia Litografia A. Scotti Srl in Colnago (MB) con macchina da stampa digitale HP Indigo.

Testi composti in Swift – Gerard Unger, 1989 e Druk (Wide) – Berton Hasebe, 2014.

Rilegato presso Arte Libro Snc di Uccellatori e Raveane in Brugherio (MB).


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