BERLINALE.67 roberto figazzolo
BER
per
RLINALE .67 BERLINALE .67
di roberto figazzolo
progetto grafico e impaginazione Paolo Aberico _ planoÂŽ design
roberto.figazzolo@miapavia.it
photoSHOWallŽ plano design è sponsor tecnico della presente pubblicazione
pareti fotografiche modulari ph. credits roberto figazzolo
roberto figazzolo
BERLINALE .67
5
INDICE Best Places Ever. Best Photo(s) Ever
7
Orten der Berlinale: photo diary 1
29
Facce (e notti) da Berlinale: photo diary 2
37
L’insoddisfazione esperta: photo diary 3
53
Sick and tired: photo diary 4
69
BER
RLINALE .67 7
Best Places Ever. Best Photo(s) Ever
Best Places Ever. Best Photo(s) Ever
8
9
Quest’anno nessuna tempesta di neve, niente gelo polare sulle Alpi Sveve, niente brividi all’ennesimo sorpasso di un TIR quando ti rendi conto di viaggiare su due inquietanti ed ininterrotte strisce di ghiaccio. Quest’anno un cielo quasi uniformemente grigio mi accompagna nei 1200 km tra l’Italia e Berlino, trascorrendo dagli angusti, claustrofobici paesaggi montani della Via Mala in Svizzera alle valli sempre più larghe, distese, accoglienti, della Baviera, della Turingia, del SachsenAnhalt e fino al Brandeburgo intorno alla capitale, dove foreste senza fine di abeti si alternano a vere e proprie pareti di giovani betulle.
Best Places Ever. Best Photo(s) Ever
10
11
Viaggiando solo, alla guida, per tante ore (la mia invidiabile media è stata di ben 62 chilometri all’ora su tutto il percorso) hai tempo per pensare, per concentrarti, per prenderti una salutare pausa di riflessione che spezzi quel ritmo convulso lezioni/ presentazioni/progetti di cui sei prigioniero nella vita di tutti i giorni. Chiuso nella tua cellula in moto, in tutti i posti e in nessuno alla stesso tempo, in questa specie di astronave low-fi, i confini mutano di continuo. Ti preservano dalla noia proiettandoti in un perenne divenire. Panta rei. Tutto scorre come, si sostiene, sostenesse Eraclito, un messaggio di fatto mai scritto esplicitamente nella sua opera, ma dai posteri cosÏ efficacemente sintetizzato. E come non esserne convinti quando si è totalmente immersi dentro questo stesso flusso?
Best Places Ever. Best Photo(s) Ever
12
13
Ecco perché la sera stessa del mio arrivo l’inaugurazione all’Akademie der Kunste della mostra The Stars Down To Earth, di Forum Expanded, un’ulteriore sezione di questo monster-festival, mi pare il modo più consono di suggellare questa fine, o meglio questa pausa nel trascorrere precedente.
Best Places Ever. Best Photo(s) Ever
14
Per qualche giorno IO mi fermerò e saranno LE IMMAGINI a sommergermi, come ben sostiene, il fotografo, scultore e land-artista Robert Irving Smithson: “Going to the cinema results in an immobilization of the body. Not much gets in the way of one’s perception. All one can do is look and listen. One forgets where one is sitting. The luminous screen spreads a murky light throughout the darkness. Making a film is one thing, viewing a film another. Impassive, mute, still the viewer sits. The outside world fades as the eyes probe the screen. Does it matter what film one is watching? Perhaps. One thing all films have in common is the power to take perception elsewhere” “Andare al cinema è ridurre all’immobilità il corpo. Non molto ostacola la percezione. Tutto ciò che si può fare è guardare e ascoltare. Ci si dimentica dove si è seduti. Lo schermo luminoso diffonde un torbido chiarore attraverso l’oscurità. Fare un film è una cosa, guardarlo un’altra. Impassibile, muto, fermo siede lo spettatore. Il mondo esterno svanisce quando lo sguardo sonda lo schermo. Importa che film si sta guardando? Forse. Una cosa che tutti i film hanno in comune è il potere di portare la percezione da un’altra parte”.
15
Best Places Ever. Best Photo(s) Ever
16
17
L’akademie è un edificio già di per sé molto interessante. Immaginate un parallelepipedo immerso in un prato, con un semplice lastricato che lo collega alla strada, molto più largo che alto e con un frontespizio bianco e lineare su cui spicca una scritta modesta e dai caratteri retro illuminati. Sotto, solo vetro. Compartito in finestre, vetrine e porte d’ingresso. Un misto tra realismo socialista e funzionalismo da Bauhaus insomma. Fuori frotte di ragazzi e ragazze perpetuano il rito dell’aperitivo, tutti con almeno un bicchiere di vino (rigorosamente non ammessa la birra) in mano. Si sale al primo piano, mentre intorno la festa continua, e si entra senza problemi di accredito, l’accesso è libero e per tutti, nella parte più esplicitamente espositiva.
Best Places Ever. Best Photo(s) Ever
18
19
Il panorama è straniante. Fuori la calca esaltata dall’alcol parla a volume sempre piÚ alto, dentro, in una stanza 10 metri per dieci alta almeno 4 metri e tutta foderata di moquette nera uno schermo grande quanto il muro campeggia isolato. Pochi, non piÚ di 10 o 15 spettatori, prendono posto soprattutto in piedi lungo le pareti o seduti/sdraiati per terra.
Best Places Ever. Best Photo(s) Ever
20
Il film che si intitola Wutharr, Saltwater Dreams e dura 29 minuti è un’opera di cinema partecipato del Karrabing Film Collective, un’organizzazione nata nel 2008 per contrastare l’assalto dello Stato australiano contro l’organizzazione sociale e le stesse terre degli aborigeni. Il cinema qui è inteso come pratica estetica finalizzata all’autorganizzazione e all’analisi sociale. Poco contano allora salti di campo e dissolvenze incrociate che ricordano i peggiori film dei matrimoni nostrani. Ciò che vale sono i volti di questi attori presi dalla strada, le loro espressioni, il loro modo di muoversi, di camminare, di parlare una lingua che ricorda molto da vicino un canto sciamanico. Perché gli antenati hanno deciso di punire questa famiglia smettendo di far funzionare il motore del loro fuoribordo e abbandonandoli da soli nel bush? Surreale, intenso, ibridato dalle regole dei missionari come dalle leggi dei conquistatori inglesi il mondo di questi indigeni bascula pericolosamente sul confine della non esistenza. Con buona pace della gran parte del pubblico che, dopo poche immagini, lascia la sala per dedicarsi ad altre visioni.
21
Best Places Ever. Best Photo(s) Ever
22
L’altro progetto che mi ha colpito profondamente tra i ben 13 presentati, alligna più probabilmente nell’ambito dell’arte concettuale piuttosto che in quello più banalmente cinematografico. È un’opera di 75’ si intitola Untitled Fragments e l’ha composta James Benning, un settantacinquenne filmmaker e artista americano nato a Milwaukee, ma residente in Val Verde (come noto in realtà un paese fittizio molto usato come location a Hollywood per evitare controversie legali possibili nell’utilizzo di un toponimo davvero esistente, e anche questo è significativo considerando la sua opera). Normalmente non amo raccontare i film ma in questo caso come capirete è basilare. In una stanza molto più grande di quella precedente sono presenti tre schermi colpiti da tre proiettori ancorati al soffitto. Da notare la struttura estremamente aerea degli schermi, poco più che semplici teli montati su leggere strutture tubolari in alluminio (sono gli artisti stessi ad organizzare sala e proiezioni). Gli schermi sono così leggeri che nonostante la loro superficie, almeno una ventina di metri quadri, soltanto una piccola staffa, una sola contro le 4 che ti immagineresti, basta a sorreggerli unendoli alla parete.
23
Best Places Ever. Best Photo(s) Ever
24
L’istallazione inizia senza titoli o altro exabrupto con la proiezione di una scena ripresa in un bosco sullo schermo di sinistra. Tutto il pubblico in sala si volta improvvisamente sulla sinistra attendendosi l’azione. La delusione è cocente quando ci si accorge che soltanto un’alba illumina molto lentamente il tratto di bosco ripreso in camera fissa per circa 25 minuti. Non c’è colonna sonora ma soltanto il rumore del bosco, soprattutto canti di uccelli. Quando hai perso ogni speranza che accada qualcosa si illumina anche lo schermo di destra. Il pubblico, in gran parte diverso da quello precedente, si volta all’improvviso verso destra. Qui la ripresa sempre in camera fissa è in interni e riprende uno schizzo a quanto pare opera del colonnello Kit Carson e che ebbe una funzione nello scalzare gli indiani Navajos dalla loro terra d’origine dall’Arizona a Bosque Redondo. La storia di un tradimento di fatto reso possibile o aiutato da un’immagine. Anche qui la scena, che coincide con un’unica inquadratura, segue per una mezz’ora circa (in contemporanea con l’altra immagine) l’affermarsi di un’alba. La luce arriva ad essere così forte sul quadro che l’immagine ne viene quasi completamente bruciata. A metà circa del film (o dovremmo più precisamente chiamarla esperienza?) sul terzo schermo, quello centrale, senza l’accendersi di alcuna immagine, parte la trasmissione di una conversazione radio che registra i dialoghi tra piloti di una squadriglia di ben 116 aerei caccia bombardieri B-52 Stratofortress che in soli 15 minuti scaricarono il 26 dicembre 1972 contemporaneamente su Hanoi tutte le loro
bombe. Questa conversazione ricca di simboli, e di strane pressoché incomprensibili sigle, colpisce per la freddezza e al tempo stesso la concitazione che la contraddistingue. Più che una neolingua alla Orwell o alla Burgess è una non-lingua o meglio un linguaggio impossibile che sarebbe piaciuto al neuroscienziato Andrea Moro. (v. Impossible Languages, MIT Press, 2016). Le connessioni naturalmente possono essere molteplici, ma qui ci accontenteremo di sottolinearne almeno una. Mentre la natura del primo schermo al di là della falsa pista: “...sono al cinema quindi accadrà qualcosa” finisce per rilassare lo spettatore più sensibile e attrezzato, il quadro colpito dalla luce fa riflettere sulla natura ibrida, e perfino potenzialmente malvagia dell’immagine artificiale (disegno di un volto versus un bosco naturale, quello della Sierras in California). Termina la disamina una nota sul dialogo radio, tra l’altro declassificato solo l’anno scorso e quindi che può solo essere stato solo recentemente ascoltato dall’autore. Le voci degli uomini, i piloti degli aerei e i loro collaboratori, sono estremamente calme e rilassate. Parlano di target e di seconde esplosioni, quando cioè una bomba colpisce materiale a sua volta esplosivo, con la naturalezza che li contraddistinguerebbe durante un barbecue in famiglia. Persino i SAM, micidiali missili terra-aria che potrebbero colpirli facendoli precipitare sono descritti quasi con humor. Viene in mente la lezione della Arendt sulla banalità del male. L’uomo ha un’insopprimibile desiderio di autodistruzione. E l’immagine ha probabilmente in questo desiderio un ruolo ancora tutto da investigare.
25
Best Places Ever. Best Photo(s) Ever
26
27
PS Nel PS devo però proprio giustificare il titolo di questo pezzo: “The best photo ever...”: che è infatti il commento che il “simpatico” ragazzotto all’ufficio accrediti ha masticato tra i denti mentre mi consegnava l’agognato tesserino, vergognandosi subito dopo all’occhiataccia del superiore alle sue spalle. Per smorzare la situazione mi sono messo a ridere facendogli i complimenti per la sua essenzialità ed il suo rigore estetico nel giudicare il mio ritratto sul pass, che consegnavano alla storia il suo epigramma, degno di un Marco Valerio Marziale. A questo punto però il suo sguardo si è fatto ancora più interrogativo...
BER
RLINALE .67 29
Orten der Berlinale: photo diary 1
Orten der Berlinale: photo diary 1
30
Il giorno dell’apertura i riflettori si accendono. Ma non sono quelli tradizionali e cinematografici: quelli che rimangono nel profilmico. Qui i riflettori si vedono. E sono puntati verso il pubblico. Che sia una strategia per metterlo al centro del Festival?
31
Il vaso di Pandora può aprirsi da un momento all’altro. E magari, come accade nella hall dell’Hyatt, diffondere ovunque questa specie di trifidi, provenienti dal romanzo di John Wyndham. Me li immagino così, in biancoenero. Come in un SF degli inizi degli anni ‘60.
Orten der Berlinale: photo diary 1
32
L’orso comincia a farsi le unghie, anche se gli esordi non fanno gridare al miracolo. Dopo il deludente Django, film d’apertura di mercoledì, freddo e mal tirato compitino senz’anima, fa un’impressione migliore On Body and Soul di Ildiko Enyedi, primo film in concorso. E primo anche a parlare di animali in questa mostra che sembra indicare nel ritorno alla natura ferina l’unica soluzione per il genere umano.
33
Le sale però si riempiono. Sia quelle del Forum che quelle del Wettbeverb, il Concorso. Arriva anche il primo film africano, Felicitè di Alain Gomis, dal Congo. Uno sguardo intenso da banlieu diseredate, povertà infinite e volontà di riscatto attraverso l’amore, comunque possibile. E arriva Alberto Giacometti “ritratto” in Final Portrait di Stanley Tucci. Uno pseudo biopic forse raffinato, senz’altro non utilissimo, che ritrae il grandissimo scultore come un banale maniaco-depressivo, piuttosto che per quel genio nevrotico che fu.
Orten der Berlinale: photo diary 1
34
L’anima di Giacometti, del vero Giacometti, era nera. Nera come le sue fusioni, che tra l’altro non si vedono mai nel film. Nera come la sua disperazione, non il piagnucolare più comico che si vede nel film (“Oh... fuck”, ogni volta che posa il pennello). Nera come la gente in silhouette in questo corridoio, proprio di fronte alla zona in cui si ritira il materiale stampa.
35
E nera proprio come la bella faccia di uno degli interpreti di Felicitè che si intravede dietro la facciata del Berlinale Palast. Il pubblico all’uscita del film è già sceso dal quinto piano. Mi colpisce lo scorcio. Sono alle spalle della scritta principale della sede più importante del Festival. Forse è proprio nei dettagli, dietro la parte più rumorosa e stordente, che si nasconde ancora un briciolo di valenza estetica in questo mondo. Forse.
BER
RLINALE .67 37
Facce (e notti) da Berlinale: photo diary 2
Facce (e notti) da Berlinale: photo diary 2
38
È domenica 12 febbraio. Il primo film che vediamo - noi giornalisti e la giuria del Concorso, qui sopra immortalata nei ritratti esposti al primo piano del Palast - è Spoor, che significa “impronte animali”. Quali saranno le impronte che lasciamo noi mentre ci allontaniamo dalla sala dopo la proiezione? Il corridoio che percorriamo è rosso/passione e contornato da fiori bellissimi. Purtroppo non si può dire lo stesso del film. Passione poca. Fiori nessuno.
39
Ma che strano vedere sul mega schermo di fianco al casinò il volto della regista del film Agnieska Holland e della sua protagonista, Agnieszka Mandat-Grabka e subito dopo vedere lo stesso volto, dal vivo, durante la conferenza stampa.
Facce (e notti) da Berlinale: photo diary 2
40
L’esercito dei fotografi e dei paparazzi è incombente. Ma basta l’inquadratura giusta per metterlo fuori gioco.
41
Il sistema Festival, anche quando è così ben organizzato (forse ancora di più) è complesso, contraddittorio, e genera ambiguità. Un po’ come in quest’ultima foto: l’immagine di un’immagine.
Quella di critici che “tra-scorrono” davanti a vetrine speculari, appena usciti dall’ennesima metaforica caverna platonica.
Facce (e notti) da Berlinale: photo diary 2
42
LunedĂŹ 13 febbraio inizia una nuova settimana, e per Helle Naechte (Notti chiare in italiano) sono pochi quelli che raggiungono il Palast per tempo.
43
Facce (e notti) da Berlinale: photo diary 2
44
I tedeschi sono strani. L’altro giorno per Wilde Maus, un film austriaco di Josef Haeder, tutte le sale erano esaurite. Oggi, per questo film che parte proprio da Berlino e ci porta in Norvegia, seguendo il difficile rapporto tra un padre e un figlio (adolescente) che non si conoscono quasi per niente, l’entusiasmo è molto minore. Eppure i tratti positivi ci sarebbero anche: una storia che si prende il suo tempo, due protagonisti credibili e dall’interpretazione molto misurata, una bella coerenza tra i caratteri messi in scena e il paesaggio che li accoglie. Al centro, la costante difficoltà di un rapporto. L’impossibilità di comunicare. A Michael era capitato di entusiasmarsi per il lavoro del proprio padre, scegliendo poi di stare in quello stesso campo. Ma per Luis, suo figlio, i due mondi sono troppo distanti. Totalmente incompatibili. E neppure un forte bisogno d’affetto, di un contatto, di un abbraccio, potranno far breccia in un muro alzato per così tanti anni.
45
Facce (e notti) da Berlinale: photo diary 2
46
Servirebbe un passaggio, un corridoio, magari anche della paura, che ci traghettasse verso l’altro. Dall’altra parte.
47
Oltre alle code che convincono i fan a sedersi, quando è ancora buio, davanti al box office, in attesa che apra per assicurarsi un prezioso biglietto.
Facce (e notti) da Berlinale: photo diary 2
48
Oltre alla mia immagine, che mi spia dal finestrino di fronte della S-Bahn, quando raggiungo Potsdamer Platz per le prime proiezioni del mattino.
49
Oltre ai manifesti dentro all’Hyatt, che ti spingono a ripensarci, anche se con ironia. A rivedere tutto. Ma non eravamo proprio qui per quello?
Facce (e notti) da Berlinale: photo diary 2
50
Oltre ai rami di pino, che si agitano sulla mia testa di notte, scossi da un vento leggero che fa scendere ancora di piÚ il termometro dai -8 dell’altro pomeriggio.
51
Oltre allo scorrere, senza soluzione di continuità, da un posto all’altro, da una sala all’altra, da una proiezione all’altra. Flusso che ti fa sentire bene in certi momenti, meno in altri, quando, dall’alto, stenti a vedere la differenza tra te e il criceto della vetrina dei pets dietro l’angolo.
BER
RLINALE .67 53
L’insoddisfazione esperta: photo diary 3
L’insoddisfazione esperta: photo diary 3
54
Martedì 14 febbraio. Diffidare dalle persone che dicono: “Questa è la verità”. Per fortuna Aki Kaurismaeki non è uno di loro. In Toivon Tuolla Puonnen (titolo internazionale The Other Side Of The Hope) ci costringe a pensare a Il principio speranza di Ernst Bloch, un libro scritto nel ’38, pubblicato nel ’59, ma che fa i conti, oggi, con la contraddizione che ancora stiamo vivendo: lo iato tra la fede nelle possibilità senza limiti della Storia e il disincanto inevitabile per l’imprevedibilità di quanto ci attende, il nostro futuro anche immediato. La “Fine della Storia” insomma. L’essere è potente solo se aperto al cambiamento. Se supera il nichilismo e affronta il “principio di realtà”. Se parte (attenzione parte soltanto) dall’ontologia del “non ancora”, per guidarci verso l’azione, non soltanto possibile ma necessaria. Il superamento dell’angoscia che ti schiaccia, il rifiuto della passiva accettazione dello status quo.
55
L’insoddisfazione esperta: photo diary 3
56
(E infatti tutti nel suo film fanno qualcosa. Che sia partire, che sia aprire un ristorante, che sia aiutare semplicemente il prossimo. Perché è giusto così. Perché siamo esseri umani. Persone. E non è nemmeno il caso di ribadire quanto sia più importante una persona di una cosa, no?). E, attenzione, pare ammonirci il regista, questo vale per tutti. Per chi, in Siria, lascia le ceneri della propria casa e della propria famiglia sotto le rovine di una guerra, come per chi cerca di cavarsela, nonostante una crisi, esistenziale ed economica, nel moderno, sicuro, “pacificato” occidente.
57
Certo non tutti hanno davvero “visto” il film (come in quest’immagine di un’immagine di un’immagine!) come la giornalista che pone a Kaurismaki la domanda sull’islamizzazione dell’occidente. Domanda che lo fa ridere, e gli fa chiedere a quella stessa giornalista: ”Are you shure that islamization, like you say, isn’t the name of an old football club of the eighties?”
L’insoddisfazione esperta: photo diary 3
58
Ed è commovente alla conferenza stampa anche il contributo del giovane bravissimo interprete del film, Sherwan Haji, attore oltre che regista e scrittore, che viene davvero da Damasco, dove ha vissuto e studiato e, parlando del suo rapporto con il regista, dice: “In Finlandia ho trovato un amico. Non credo che conti il tuo passato per decidere se sei oppure no un bravo attore. Quello che conta è saper recitare”. Gli fa da contrappunto Kaurismaki: “You know... the camera can be a friend or an enemy. A friend if you can act, an enemy if you can’t. I only ask to my actors not to be like windmills when they act in my films”.
59
Beuys di Andres Vejel, l’altro film in concorso di oggi, un documentario appassionato sul notissimo artista e co-fondatore del movimento dei Gruenen qui in Germania, con il suo bel biancoenero, mi costringe a notare ancora meglio la bellezza della struttura, nel mondo che mi circonda.
L’insoddisfazione esperta: photo diary 3
60
61
Come tralasciare il gioco delle luci che ti rapisce tutte le volte che entri al Cinemaxx e rivolgi lo sguardo verso l’alto?
L’insoddisfazione esperta: photo diary 3
62
63
In fondo non è che un altro dei “momenti” di questo Festival: un Berlinale Moment.
L’insoddisfazione esperta: photo diary 3
64
Come quando poco fa, al Grand Hyatt Hotel, mi passa vicino proprio Aki Kaurismaki. L’attimo è da cogliere. E poco importa la luce, l’inquadratura, il punto di vista. Il mosso controllato (?!) rende bene l’autenticità dell’istante.
65
L’insoddisfazione esperta: photo diary 3
66
Un istante unico. Che ci scuote dal nostro torpore, costringendoci infine ad alzare la testa.
67
BER
RLINALE .67 69
Sick and tired: photo diary 4
Giovedì 16 febbraio il primo film in concorso Bamui Haebyun-Heoseo Honja (On the beach at night alone) di Hong Sangsoo ci introduce in un periodo del festival moralmente impegnativo.
Sick and tired: photo diary 4
70
Che si tratti di attrici coreane, giovani e belle, in crisi per essersi innamorate del proprio registamentore e perciò in fuga da loro stesse nel posto più differente, che riescono a immaginare (guarda caso proprio Berlino), che siano luogotenenti della corona portoghese alla ricerca di giacimenti auriferi nel Brasile del diciottesimo secolo e si trovino quasi per caso a capeggiare una rivolta, o ancora, che si dannino l’anima (e il corpo) per il denaro, frutto di traffici illeciti, contenuto in una borsa (vero MacGuffin alla Hitchcock, sempre presente, mai davvero spiegato) come nel scintillante Have a nice day di Liu Jian, animazione cinese, ciò che ne sortisce è sempre un’irrimediabile e comune sconfitta. Tutti, ma proprio tutti, perdono.
Abbiamo muri troppo alti intorno. Pareti di vetro che non potremo mai scalare Siamo loser. Abbiamo perso ancora prima di cominciare la lotta. Siamo degli sconfitti ontologici insomma. E naturalmente lo spazio intorno a noi non può che ribadire questa débâcle chiudendosi sulle nostre vite come saracinesca impietosa.
71
Sick and tired: photo diary 4
72
Anche se forse un passaggio c’è. Al di là dello schermo, un ponte resiste. Quel che conta è saper leggere i segni, come ideogrammi o graffiti, riflessi in una vetrina o in silhouette davanti al Berlinale Palast.
73
Quel che conta è continuare a sorridere come il regista Alex de la Iglesia qui per il suo film El Bar, horror atipico, ma molto up-to-date con tanto di modella, bella ma sfortunata, e hipster, barbuto ma sensibile, nella galleria dei “sacrificabiliâ€?.
Sick and tired: photo diary 4
74
L’essere umano è sempre impotente, debole, confuso. Ma soprattutto è solo. Solo nel film kirghiso Centaur di Aktan Arym Kubat, fiaba su di un ladro di cavalli che li ruba per liberarli, ma fuor di metafora su di un paese, il suo, che, da repubblica ex-sovietica, cerca disperatamente di tornare ad un’età dell’oro, che forse non c’è mai stata. Sola come la starletta che esce dallo studio televisivo e il cui sguardo ci precipita in un mare di domande.
75
Solo come il giovane critico alla prima proiezione del mattino,
Sick and tired: photo diary 4
76
77
79
o la maschera, fuori dal Palazzo, che pare miracolosamente essere scampata all’ultima zampata. Solo come il critico che cerca disperatamente in quest’edizione della Berlinale la merce piÚ preziosa per il suo PC, una presa elettrica disponibile.
Solo come lo sguardo concentrato nella camera del tecnico fotografico che ci salva la vita, protetto dal suo stand brandizzato dentro l’Hyatt.
Sick and tired: photo diary 4
80
Chi ci salverà allora se non il pattern? Quello schema ricorrente che ci fa tremare davanti ad un’infilata di quadrati, dall’ultimo piano dello schermo piÚ prestigioso,
81
O sbirciando da una finestra sul retro, dove, nella morbida luce della sera, arte contemporanea ed architettura di ricerca si incontrano, dandosi la mano.
Sick and tired: photo diary 4
82
Solo persino come Wolverine, della mecca del grande cinema di consumo, qui in anteprima mondiale con Logan di James Mangold. Ormai quasi anziano, non più così immortale, non più
così invincibile, abbandonato, uno dopo l’altro, da tutti i suoi amici, ma soprattutto senza più quella voglia di vivere, di lottare, di vincere... quella rabbia insomma che lo contraddistingueva.
Ma proprio per questo più umano, più vero, sensibile e forte dentro. In grado persino, non me ne vergogno, di farci piangere calde lacrime nell’epilogo.
E infatti è emozionato il giornalista che gli pone la domanda in conferenza stampa: “Che cosa la spinge, Mr. Mangold, a girare film come questo, che non sono solo di genere ma lo trascendono?” “Proprio la voglia di risvegliare il mio pubblico. Al di là degli studi per compiacerlo. Seguire l’esempio di Billy Wilder, di Stanley Kubrick, che non si sono fermati ad un genere, ma, nella voglia di raccontare una storia, li hanno superati d’istinto”.
Pieno di steccati, reti, cancelli, costellato di strutture industriali in disuso di fughe in avanti, di vittime innocenti e scene da post attentato terroristico, Logan non sarà forse un film per bambini, ma si rivela un potente ritratto degli USA di domani, e più probabilmente anche di oggi.
83
Sick and tired: photo diary 4
84
“Riflettere sui meccanismi di potere, sul gioco che le multinazionali fanno sulla nostra pelle non è, non sarà mai negativo, neppure in un block buster movie” rincara la dose un bravissimo Sir Patrick Steward, assolutamente a suo agio dai palcoscenici shakespeariani alle platee di X-Men. Arrivando commosso a chiedere scusa per la recente Brexit che ha coinvolto il suo paese: “...sapete c’è un sacco di gente là, almeno la metà degli inglesi ,che pensa che sia una tragedia”. E i fotografi ghiotti lo divorano coi flash.
85
®
LAMOSTRA photoSHOWall plano design photosh per roberto
PARETI FOTOGRAFICHE MODULARI
ALLESTIMENTO PER ROBERTO FIGAZZOLO berlinale.67 per Cineforum
86
pareti fotografiche modulari
ph. credits roberto figazzolo
87
®
photoSHOWall plano design PARETI FOTOGRAFICHE MODULARI
ALLESTIMENTO PER ROBERTO FIGAZZOLO Comune di Pavia _ Assessorato alla Cultura
88
MOSTRA
Nominare il Mondo Senza tetto né legge a Pavia Susanna Zatti Bruno Cerutti Roberto Figazzolo
pareti fotografiche modulari
ph. credits roberto figazzolo
89
®
photoSHOWall plano design PARETI FOTOGRAFICHE MODULARI
ALLESTIMENTO PER ROBERTO FIGAZZOLO Comune di Pavia _ Assessorato alla Cultura
90
Nominare il Mondo. Senza tetto né legge a Pavia ph. credits roberto figazzolo
91
®
photoSHOWall plano design PARETI FOTOGRAFICHE MODULARI
ALLESTIMENTO PER ROBERTO FIGAZZOLO Comune di Pavia _ Assessorato alla Cultura
92
FOTOGRAFIE ALLESTIMENTO MTE
93
FOTOGRAFIE ALLESTIMENTO MTE
®
photoSHOWall plano design PARETI FOTOGRAFICHE MODULARI
ALLESTIMENTO PER ROBERTO FIGAZZOLO berlinale.67 per Cineforum
pareti fotografiche modulari ph. credits roberto figazzolo
design
storie design story
content design
Smart Hitech OpenWall
mtp-arredamenti.it | plano-design.com | plano-storie.com | showall.it info@mtp-arredamenti.it | viale Brambilla 40 | 27100 Pavia | 0382 527969