Atelier
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Le sfide e le nuove forme dell’urbano: praticare la dimensione della post�metropoli Coordinatore Gabriele Pasqui Discussant Federico Oliva
Introduzione Tematiche emergenti L’argomento metropolitano è immediatamente collegato ad un livello di pianificazione e ciò comporta una selezione delle stesse tematiche da trattare in modo che siano adeguate ad esso. In altri termini, la scala vasta risulta un fattore essenziale della concettualizzazione di metropoli e condiziona ogni pensiero che siamo in grado di sviluppare. Altrettanto evidente è che il meccanismo di selezione avviene in maniera automatica se non inconscia [infatti non lo trovo mai esplicitamente trattato – singolare, infatti è questa assenza di un discorso sui livelli di pianificazione e sulla ripartizione, tra di essi delle competenze: al contrario si coglie la preferenza per la multiscalarità o interscalarità], generando il sospetto che l’automatismo comporti pregiudizi o perlomeno la reiterazione di convinzioni non sufficientemente ponderate. Queste osservazioni non vanno colte come nel senso della negazione della pertinenza dei livelli e della necessaria articolazione che essi comportano per un’ordinata organizzazione del sistema di pianificazione. Si limitano solamente ad invocare una riflessione di merito in un momento in cui non abbiamo ancora una istituzionalizzazione del governo metropolitano, ma ci accingiamo, si spera, a fondarlo. Perciò, questo sarebbe il momento più adatto al dispiegamento di un contributo scientifico su un argomento che, anche se quasi clandestinamente, è entrato nell’agenda politica. Senza alcuna pretesa di essere esaustivo, di seguito estraggo dalla sessione tre gruppi di tematiche significative. Tematiche relazionali Tra le tematiche che in maniera più incontestabile rientrano, a pieno titolo, nel livello metropolitano sono quelle di carattere relazionale. La ragione è tanto ovvia quanto solida. Metropoli è sistema complesso di relazioni. L’altra faccia è che, a differenza della città, difficilmente le riconosciamo unità. Alla radice di questa difficoltà, forse tra tanti altri fattori [in ogni caso a me più chiaro] è l’identificazione della comunità con il comune e con la piccola dimensione. Ne deriva una metropoli priva d’identità se non si voglia ricorrere al meticciato, alla complessità ed alle veloci dinamiche di interazione contemporanee materiali e immateriali. Anche se la sfida della comunità metropolitana è stata lanciata, non si trovano molti che raccolgono questo guanto. Il terreno più propizio sarebbe quello delle metropoli sviluppate secondo una dinamica demografica sorgente dall’interno e proiettata sull’hinterland [crescita naturale]; oppure le concentrazione all’interno di culture molto chiuse all’immigrazione straniera; così singolari da essere sopraffatti dal pervasivo processo di globalizzazione e dalla sua accelerazione della mobilità. In termini spaziali questa molteplicità si traduce in unità spaziali a cui è necessario attribuire una certa compiutezza e identificazione [senza preoccuparsi delle interne articolazioni] e concentrarsi sui rapporti tra di loro. Ad una tale tematizzazione sfugge tutto il territorio tipico della dispersione tanto difficile da definire quanto da perimetrare così come altrettanto codificabile risulta quel tipo di mobilità che attraversa i luoghi talvolta perfino con migrazioni temporali di cui i flash mob sono gli esempi estremi quando connotano luoghi e manufatti di centralità temporanea. Maggiore validità assume quando si propone come modello normativo
specialmente legato alle problematiche del trasporto pubblico di massa. Infatti, bisogna accettare la strategia concettualizzante e conoscitiva fortemente orientata da una scelta di valore come sistema di indagine efficace a selezionare fattori congruenti con il risultato auspicato come desiderabile e perciò in grado di favorirlo. Il ricorso alla rete si colloca proprio in questa posizione di passaggio e riscatta l’interpretazione dalla retorica agnostica del ricercatore neutralmente disincantato, in grado di cogliere una realtà esterna nella sua pienezza di significati ed implicazioni. Per questa via, la tematizzazione si arricchisce di discorsi le cui traiettorie sfuggono ad un ambito analitico sebbene mi appaiano del tutto pertinenti, in special modo, per affollare una teoria [direi meglio un dibattito teorico] sulla metropoli. Probabilmente questa interpretazione non risulterà accettabile agli autori che ricorrono alla “rete” perché si affezionano alla sua flessibilità sia in estensione che in gerarchia. Si parla di rete a geometria variabile, di reti gerarchiche come di reti equipollenti. Il tutto all’ombra [o con l’incubo] di una dilagante globalizzazione dalle veloci dinamiche sempre più adattabile, perfino smaterializzabile [rappresentando flussi, relazioni, impulsi elettromagnetici, viaggi di informazioni] rispetto alla limitatezza delle descrizioni areali tanto ancorate alla zonizzazione. Fuori resta tutto ciò che non è dinamico, sistemico, relazionato. Tematiche ambientali Partirei dall’affermazione che le tematiche ambientali si inquadrano in una agenda politica condivisa per sostenerla anche di fronte alle innumerevoli obiezioni che si possono appellare agli innumerevoli conflitti suscitati intorno a quell’argomento. Nessuno dovrebbe meravigliarsi del fermento di una pubblica arena dove è necessario prendere decisioni che riguardano materie la cui conoscenza continua a presentare capacità di previsione ad elevata incertezza e su cui agiscono soggetti con interessi divergenti rispetto alle medesime scelte i cui costi e benefici si distribuiscono in maniera ineguale. La pianificazione s’innesta su questo medesimo terreno intermedio tra conoscenza [scienza] ed azione assorbendo al suo interno tanto le incertezze delle previsioni quanto i conflitti delle decisioni. Ciò non toglie che ci troviamo in un campo ben definito, quantunque magmatico. Il modo di concettualizzare queste problematiche lo leggerei come strategie di uscita dalla suddetta problematicità. Dall’esame dei paper presentati ho individuato tre di esse che, molto probabilmente non sono esaustive, ma sono certamente significative ed interessanti. La prima strategia si affida alle metodologie valutative. Il motivo per cui vi ricorre è che presuppone una realtà sempre mutevole e differente per cui non sono esportabili buone pratiche, l’impatto dei modelli con le realtà specifiche si prevede sempre povero di risultati, gli stessi obiettivi possono variare rispetto al medesimo scopo in funzione della situazione concreta e dove può portare il suo mutamento. Forse ho accentuato questo relativismo localistico, ma mi serve per stagliarne la sagoma e caratterizzarlo rispetto agli altri approcci. In aggiunta, al complesso delle dichiarate diffidenze di carattere conoscitivo, va ripresa, anche se non altrettanto esplicitamente espressa,
la preferenza per la libertà dell’attore e del progettista che si aggiunge a tutte queste negazioni sostantive e normative, che mi viene da pensare, appaiono come vincoli al libero dispiegamento delle azioni, allo stesso sviluppo della creatività nel concepirle. Infatti, la valutazione è spostata di fatto a valle, sugli effetti [infatti quanto è affidabile una valutazione ex ante, e perfino una in itinere, in un contesto segnato da tanta incertezza?]. Il fuoco di questa tematizzazione ruota intorno agli indicatori la cui solidità deriva dall’istituzionalizzazione, anche se la sperimentazione in questo campo non sarebbe priva di interesse ampliandolo o confutando alcuni degli indicatori assunti nelle misurazioni ufficiali ma anche questa direttrice ci conduce in territori estranei alla pianificazione. Così come altrettanto disagio è comprensibile nel pianificatore quando vede dissolvere, sotto le precedenti critiche, gli attrezzi del suo mestiere nonostante abbia fatto ogni sforzo per assumere la valutazione come verifica nel corso di tutto il processo di piano. La seconda strategia assume connotazioni ideologiche e perciò si addentra nel terreno della cultura e dei comportamenti, seguendo una motivazione che fa dipendere il cambiamento dal modo d’agire consapevole di ogni persona. Sullo sfondo troviamo la critica al consumismo, al sistema economico dominate, alla globalizzazione; proposte come la decrescita, la transizione ad un nuovo ordine; le esperienze di comunità di pratiche virtuose [allargandosi un poco rispetto alla lettera dei saggi presentati]. Queste connotazioni non vanno affatto escluse dal campo della pianificazione perché ad esso va ascritto [forse molti non sono d’accordo] l’elaborazione razionale dei valori, né i comportamenti sono ininfluenti rispetto al cambiamento, come si è dimostrato con apposite ricerche. Il problema sta tutto qui: la discussione sui valori è tutto inscritto nella retorica o necessita di una verifica empirica? C’è da aspettarsi risposte opposte [per es. da idealisti e pragmatici] e perciò uno sviluppo su binari paralleli piuttosto che un incontro [onestamente, quest’ultimo desiderato solamente dai pragmatici]. La terza strategia ricorre all’innovazione tecnologica. Consolidata nella letteratura come wet theory è risultata già molto fertile per la ricerca degli altri paesi, molto meno nel nostro. Qui, infatti, manchiamo dello sviluppo di quei principi in messa a punto di infrastrutture urbane sostenibili alternative a quelle esistenti e alla verifica delle loro performance, sebbene già disponiamo di un ampio catalogo estero di cui va verificata l’efficacia nelle nostre condizioni climatiche. Né ci nascondiamo come la ricerca in questo campo sia incoraggiata dai governi e finisca per premiare settori esterni alla pianificazione. Lo sviluppo dell’innovazione tecnologica in termini settoriali non è funzionale al rinnovo delle città come sistemi o complessi integrati, un piano in cui il contributo dell’urbanistica sarebbe molto utile, ma tuttora poco riconosciuto. Allo stesso tempo non bisogna nascondersi i limiti del nostro settore nelle relazioni con il mondo delle scienze naturali e dell’ingegneria, della difficoltà di fare sintesi tra visioni e metodo tanto diversi specialmente da pare di chi sfugge dal consolidamento disciplinare e metodologico in casa propria. Si tratta di nodi significativi la cui soluzione in un verso o nell’altro non mancheranno
di avere effetti sul futuro della nostra ricerca. I temi della governance Raggruppo per esigenze di sintesi forse anche cose diverse, dove la componente politica assume un ruolo rilevante, in due aree distinte: la città metropolitana e la produzione e gestione degli spazi pubblici. In special modo per il secondo debbo giustificare la rilevanza politica, poiché lo spazio pubblico è concettualizzato come tema sociale. In realtà credo che in questo modo venga relegato ad una condizione residuale ed adattativa [come attrezzarlo, renderlo fruibile ed accogliete], invece che elevato a struttura portante della città e della metropoli [il luogo della vita civile e del governo – provando a coniugarlo con la governance]. La mossa decisiva per realizzare questo scopo è l’affermazione della sua centralità nella pianificazione, sia nel disegno delle espansioni urbani che nella ristrutturazione delle zone edificate. Che su entrambi i temi ci possa essere tanto un approccio processuale che uno sostantivo non c’è problema: non riuscirei a scegliere il migliore e ciascuno lascerebbe qualche insoddisfazione. Né mi sentirei di avanzare queste richieste di completezza al ricercatore forzandone la natura e le inclinazioni. Diversa rivendicazione farei alla comunità scientifica le cui dotazioni dovrebbero essere stimolate da maggiori ambizioni di corrispondere ad aspettative della crescente rilevanza del tema metropolitano in tutta questa molteplicità di aspetti. Ad essa mi sento di chiedere una riflessione su quanto in questa rassegna rapidissima manca o è sottaciuto come tema metropolitano: tra essi i più gravi problemi sociali [social housing, segregazione, ritardo di sviluppo]? Francesco Domenico Moccia Il testo di Francesco Domenico Moccia introduce entrambi gli Atelier 7a e Atelier 7b
Le sfide e le nuove forme dell’urbano: praticare la dimensione della post‐metropoli Coordinatore Gabriele Pasqui Discussant Federico Oliva
7b La prospettiva della sostenibilità Luca Congelo, Silvia Macchi, Liana Ricci, Giuseppe Faldi Urban sprawl e adattamento al cambiamento climatico: il caso di Dar es Salaam Romano Fistola, Rosa Anna La Rocca Evoluzione vs crescita urbana: la “wet theory” Mario Francini, Annunziata Palermo Verso nuove (ri)configurazioni territoriali Giuseppe Mazzeo Città “fossile” vs città “rinnovabile”: applicabilità dei modelli ecologici ai sistemi urbani Mariavaleria Mininni Periurbanità. Per una politica di sviluppo rivolta ai luoghi Nicolò Privileggio Forme della densificazione: un progetto per il territorio europeo Jason Rebillot Planning for an Urbanism of Reduction Cultura locale e globalizzazione Marianna Calia Rappresentazione e rigenerazione per la qualità urbana in Cina: il caso di Guangzhou Tullia Lombardo Faraway, so close. Nuove geografie in Malesia: il caso di Cyberjaya Mathilde Marengo Mediterranean Futures
Urban Sprawl e Adattamento al Cambiamento Climatico: il caso di Dar es Salaam
Urban sprawl e adattamento al cambiamento climatico: il caso di Dar es Salaam Luca Congedo* Sapienza Università di Roma Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale Email: luca.congedo@uniroma1.it Silvia Macchi* Sapienza Università di Roma Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale Email: silvia.macchi@uniroma1.it Liana Ricci* Sapienza Università di Roma Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale Email: liana.ricci@uniroma1.it Giuseppe Faldi* Sapienza Università di Roma Dipartimento di Ingegneria Astronautica, Elettrica ed Energetica Email: giuseppe.faldi@yahoo.com
Abstract La ricerca assume che per definire modelli di pianificazione e gestione dei territori metropolitani capaci di contribuire all’adattamento al cambiamento climatico (CC) sia necessaria una analisi contestualizzata della relazione tra dinamiche insediative ed effetti attesi del CC. Nello specifico di Dar es Salaam (Tanzania), tale relazione prende la forma “CC – mutamenti ambientali – adattamento per migrazione – sprawl urbano”, mentre lo sprawl urbano è riconosciuto come fattore non climatico destinato ad amplificare gli effetti del CC. Si riconosce quindi un circolo vizioso tra mutamenti ambientali e (mal)adattamento per migrazione, la cui conoscenza approfondita consente da un lato di orientare gli interventi anti-sprawl delle istituzioni (ad es. verso la proposta di forme di adattamento alternative e/o diverse forme di gestione ambientale) e dall’altro di riclassificare tali interventi tra le possibili forme di adattamento istituzionale proattivo al CC. Parole chiave Urban Sprawl, Cambiamento Climatico, Adattamento
1 | Adattamento al Cambiamento Climatico nelle metropoli Sub-Sahariane L’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC, 2001: 21) definisce il cambiamento climatico (CC) come qualsiasi alterazione del clima nel tempo, sia essa dovuta a variabilità naturale o ad attività antropica, volendo quindi considerare anche quei complessi fenomeni climatici in atto le cui cause sono di difficile determinazione. Per contrastare tale fenomeno, la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UN, 1992) individua due strategie: la mitigazione delle sue cause antropiche e l’adattamento a suoi effetti ambientali. Sebbene l’adattamento sia emerso come ugualmente rilevante e strettamente connesso alla mitigazione a partire *
La redazione del paper è di Luca Congedo con la supervisione di Silvia Macchi. I contenuti esposti sono frutto del lavoro congiunto dei quattro autori.
Luca Congedo, Silvia Macchi, Liana Ricci, Giuseppe Faldi
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dalla Conference of Parties di Bali (2007), in pratica è rimasto in secondo piano rispetto alla mitigazione. La maggior parte degli studi e delle politiche ambientali si è concentrata sull’obiettivo di stabilizzare/ridurre le concentrazioni di gas climalteranti nell’atmosfera (Klein, Schipper, Dessai, 2005) e solo nell’ultimo decennio anche per la pressione dei paesi meno sviluppati che subiscono gli effetti del CC senza esserne responsabili - è cresciuto l’impegno per migliorare la capacità di risposta locale agli effetti del CC nell’intento di ridurne gli impatti negativi e coglierne le opportunità positive. Tale impegno si è tradotto in ambito scientifico in una progressiva complessificazione degli schemi di riferimento per l’analisi della vulnerabilità al CC - intesa come il livello di suscettibilità al CC di un sistema (IPCC, 2001: 21) – fino a includere anche la capacità adattiva, che rappresenta l’abilità di un sistema di adattarsi al CC, inclusi gli eventi estremi e la variabilità climatica (IPCC, 2001: 21). In questo studio faremo riferimento allo schema proposto da Füssel e Klein (2006) e ripreso dal gruppo di ricerca del progetto ESPON Climate (2011a). Il concetto di capacità adattiva è al centro del progetto “Adapting to Climate Change in Coastal Dar es Salaam” (ACC Dar)1 di cui qui si presentano alcuni risultati, in quanto si assume che di fronte all’incertezza delle previsioni relative agli effetti specifici che il CC può determinare in un dato territorio (Macchi, 2012a) e alla insostenibilità finanziaria degli sforzi necessari per incidere sulle altre due componenti della vulnerabilità, ovvero l’esposizione e la sensibilità, l’unica strada effettivamente praticabile sia quella di rafforzare le capacità adattive locali2. In particolare si distinguerà la capacità adattiva autonoma, cioè le strategie adattive messe in atto spontaneamente dalle persone per far fronte ai cambiamenti ambientali (Nelson, Adger, Brown, 2007; Hallegatte, 2009; Engle, 2011), da quella istituzionale, cioè le politiche definite ai vari livelli amministrativi per affrontare il futuro CC (IPCC, 2001; Adger, Vincent, 2005). Ancora, tra le forme di adattamento autonomo, si distinguerà tra adattamento e mal-adattamento, cioè quelle iniziative di risposta agli effetti del CC che hanno conseguenze negative in quanto incrementano la vulnerabilità ambientale e sociale (Barnett, O’Neill, 2010). Lo studio qui presentato nasce dal riconoscimento di una relazione stretta tra dinamiche insediative ed effetti attesi del CC, tale da rendere la pianificazione territoriale uno strumento essenziale delle politiche di adattamento al CC. In particolare, si concentra sui fenomeni di sprawl urbano che caratterizzano le metropoli del Sud del mondo cercando di definire quale ruolo svolgano all’interno dei processi di vulnerabilizzazione delle popolazioni insediate, partendo dalla coscienza che in tali contesti lo sprawl rappresenta il principale fattore non-climatico destinato ad ampliare gli effetti del CC (IPPC, 2012). Il fenomeno dello sprawl urbano è definito variamente a seconda della prospettiva di analisi (Bhatta, Saraswati, Bandyopadhyay, 2010). Nel nostro caso assumeremo due definizioni che si completano l’un l’altra in relazione ai nostri fini. La prima si concentra sulla relazione tra popolazione e consumo di suolo: lo sprawl urbano si verifica quando la crescita demografica e l’espansione fisica della città hanno trend non allineati (UNHABITAT, 2010). La seconda invece assume come discriminanti localizzazione, densità e usi del suolo, oltre che l’assenza di pianificazione che nel contesto studiato equivale all’assenza quasi totale di opere di urbanizzazione primaria: lo sprawl urbano è lo sviluppo non pianificato delle aree peri-urbane, caratterizzato da bassa densità e dalla presenza contemporanea di molteplici usi del suolo (La Greca, Rosa, Martinico, Privitera, 2011). Nei paesi del Sud del mondo, sono proprio le caratteristiche urbano-rurali di queste aree che garantiscono il sostentamento della popolazione, perché consentono la diversificazione delle attività produttrici di reddito (dall’agricoltura alle attività più propriamente urbane); in tal modo, però, si generano spesso impatti avversi sull’ambiente (in particolare nel sistema suolo-acqua) e la salute della popolazione (Simon, 2008). Lo studio propone una ricostruzione concettuale della relazione tra sprawl urbano e vulnerabilità al CC, scaturita da una serie di indagini condotte nella città di Dar es Salaam (Figura 1), e i risultati di una esplorazione della relazione che esiste tra dinamiche demografiche ed espansione delle aree peri-urbane (un esempio in Figura 2) condotta con gli strumenti specifici della Land Cover Analysis. Da tali analisi trae gli elementi per formulare una serie di indicazioni destinate ad orientare il contributo della pianificazione territoriale in materia di adattamento al CC.
2 | Relazione tra vulnerabilità al cambiamento climatico e sprawl urbano a Dar es Salaam Lo schema in Figura 3 illustra le relazioni tra sprawl urbano e vulnerabilità al CC, individuate dal progetto ACC Dar. La terminologia usata (esposizione, sensibilità e capacità adattiva) fa riferimento allo schema di analisi della vulnerabilità al CC proposto da Füssel e Klein (2006). 1
Per una esposizione sintetica del progetto vedi Macchi, 2012b. Materiali specifici sono disponibili a http://www.planning4adaptation.eu/ 2 Secondo l’IUCN «While exposure and sensitivity determine the potential impact of a climate-induced change, adaptive capacity can be a major influence on what impact actually eventuates. Adaptive capacity is also the component of vulnerability most amenable to influence for social systems, and therefore is an obvious focus for adaptation planning.» (Marshall, Marshall, Tamelander, Obur, Malleret-King and Cinner, 2010, p.10). Luca Congedo, Silvia Macchi, Liana Ricci, Giuseppe Faldi
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Lo schema sintetizza una serie di considerazioni sviluppate a partire dall’analisi delle strategie adattive della popolazione insediata nella piana costiera, condotta nel 2011 attraverso la somministrazione di questionari ad un campione di famiglie (circa 6000) (Ricci, Demurtas, Macchi, Cerbara, 2012). Dall’indagine emerge che la popolazione reagisce ai mutamenti nelle condizioni di accesso alle risorse naturali, dovute all’intreccio tra degrado ambientale e regimi di gestione di tali risorse, adottando delle strategie adattive che combinano variamente due modelli prototipali. Le famiglie che praticano l’agricoltura come attività principale tendono a trovare delle soluzioni per poter continuare la loro attività in loco anziché spostarsi in un’altra area, e nel loro
Figura 1. Immagine satellitare della regione di Dar es Salaam (mosaico di immagini Landsat acquisite nel 2011, fornite da USGS)
Figura 2. Area peri-urbana di Makongo, Dar es Salaam
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caso il carattere non continuo dell’urbanizzazione rappresenta una condizione essenziale per il loro adattamento. Diversa è la strategia delle famiglie il cui sostentamento è garantito da attività di tipo urbano; per il loro adattamento sembra essenziale il carattere informale dello sprawl, in quanto esso facilita la loro tendenza a migrare in aree di frangia di nuovo insediamento (Ricci et al., 2012). E’ importante notare che la seconda strategia, su cui si focalizza lo schema concettuale proposto qui, combina gli effetti dei mutamenti ambientali con quelli generati dal cambiamento del regime dei suoli in atto in Tanzania. La recente politica di formalizzazione del possesso dei suoli, tutti comunque di proprietà pubblica, sembra infatti incoraggiare l’investimento nel peri-urbano. La formalizzazione del possesso di un lotto di terra determina un aumento di valore immobiliare che spinge le famiglie a vendere per occupare nuovi lotti nelle aree non ancora interessate dal processo di formalizzazione (Briggs, 2011). Di seguito si descrivono i passaggi salienti della relazione in esame. Il ragionamento è stato sviluppato con riferimento ad un mutamento ambientale specifico, l’intrusione marina nella falda superficiale, su cui il progetto ACC Dar si focalizza in particolare. Lo sprawl urbano modifica la copertura del suolo, e quindi altera il bilancio radiativo, influendo sul clima urbano sia in termini di intensità/frequenza delle precipitazioni, sia in termini di temperatura, favorendo il fenomeno dell’isola di calore (Fall, Niyogi, Gluhovsky, Pielke, Kalnay, Rochon, 2010). Tali alterazioni del clima locale sono destinate a combinarsi con quelle indotte dal CC nel determinare i livelli complessivi di esposizione del territorio. Le persone che si insediano informalmente nelle aree peri-urbane perforano dei pozzi per procurarsi l’acqua per uso domestico e agricolo, producendo un continuo aumento dei tassi di estrazione di acqua sotterranea. Nella piana costiera, questo si traduce in una maggiore sensibilità dell’acquifero a fenomeni di intrusione marina che sono destinati ad accelerarsi con il CC per effetto combinato dei minori tassi di ricarica e del mutato regime marino. Al tempo stesso, l’espansione dell’abitato peri-urbano moltiplica il numero di famiglie dipendenti dalla falda per l’accesso all’acqua e quindi genera anche un aumento della sensibilità umana agli effetti attesi del CC 3 . Il suolo è una risorsa limitata e non rinnovabile che svolge funzioni essenziali per l’ecosistema e per l’uomo, tra cui la produzione di cibo e materiali rinnovabili (Lal, 2005). Quindi, il cambiamento della copertura del suolo a seguito dello sprawl riduce le risorse naturali disponibili, e le famiglie hanno meno alternative per il loro sostentamento. Questo influisce negativamente sulla capacità adattiva autonoma delle persone, con il rischio di aumentarne la vulnerabilità ai mutamenti ambientali indotti dal CC.
Figura 3. Schema delle relazioni tra vulnerabilità al cambiamento climatico e sprawl urbano
Le strategie adattive di tipo migratorio dirette verso il peri-urbano possono essere classificate come forme di mal-adattamento in quanto, pur offrendo nell’immediato una soluzione ai problemi di accesso a risorse naturali 3
L’analisi della vulnerabilità delle famiglie per l’accesso all’acqua indotta dall’intrusione salina nella falda superficiale è stata oggetto della tesi di laurea di G. Faldi (2010), il quale oggi è impegnato nello sviluppo di scenari di vulnerabilità in condizioni di cambiamento climatico nell’ambito della sua ricerca di dottorato.
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quali suolo e acqua, innescano un circolo vizioso destinato a riprodurre gli stessi problemi su più ampia scala nel medio e lungo termine. Questa forma di adattamento autonomo alimenta infatti lo sprawl urbano, e i conseguenti effetti sul sistema ambientale e sulle persone descritti precedentemente.
3 | Analisi del Land Cover in relazione alle dinamiche demografiche Il q uadro co ncettuale su e sposto ci ha por tato a concentrare l’attenzione sulla relazione tra dinamiche demografiche e crescita d el consumo d i s uolo n ella r egione di Dar es Salaa m, nel tentativo d i d efinire in c he misura l’abnorme sviluppo del peri-urbano in a tto s ia da ricollegarsi a fenomeni di tipo m igratorio. I n altr i termini ci si è chiesti quanto nel caso di Dar es Salaam, come in altre città simili, la dinamica migratoria fosse da considerarsi ancora la causa principale dello sprawl urbano e che tipo di tendenza caratterizzasse tale relazione A tale fine si è proceduto a: stimare l’evoluzione del costruito a Dar es Salaam, al fine di comprendere le dimensioni e la rapidità dello sviluppo urbano su scala regionale; comparare i l trend d i espansione f isica di Dar es Salaam con l’evoluzione demografica, per analizzare la relazione tra i due fenomeni. Tale lavoro si p oggia s ulla metodologia p er il monitoraggio d ella copertura del s uolo tr amite teler ilevamento sviluppata dal Progetto ACC Dar per fornire alla amministrazione locale uno strumento economico e semplice per la valutazione speditiva dei cambiamenti in atto (Congedo, Munafò, 2012a). Per questo motivo lo studio è svolto alla scala regionale/municipale e rappresenta una prima esplorazione tesa a valutare la fattibilità di questo tipo d i an alisi. Di s eguito s ono presentati i risultati conseguiti in sieme ad una d escrizione s intetica dei metodi utilizzati.
3.1 | Metodologia di Monitoraggio della Copertura del Suolo Dar es Salaam occupa una superficie di circa 1.690 km2, e quindi il telerilevamento è stato ritenuto lo strumento più idoneo per il monitoraggio della copertura del suolo. La metodologia u tilizzata p er m onitorare la co pertura del suolo p revede la class ificazione semi-automatica d i immagini satellitari Landsat, f ornite g ratuitamente d allo Un ited States Geo logical Survey ( USGS). T ali immagini sono multispettrali ed hanno una risoluzione del pixel – l’elemento base dell’immagine telerilevata – di 30 metri. Il metodo d i classificazione s emi-automatica s i fonda sulla suddivisione d ei pixel in b ase alle proprietà radiometriche dei materiali presenti al suolo (Richards, Jia, 2006). Il vantaggio di questo metodo consiste nella rapidità di esecuzione, e i dettagli della metodologia sono descritti in Congedo & Munafò (2012a). La metodologia permette di identificare le seguenti classi di copertura del suolo: 'Urbanizzato Continuo', una classe di edificato molto denso; 'Urbanizzato Discontinuo', una classe di urbanizzato a bassa densità di edificato, i cui pixel sono caratterizzati dalla compresenza di vari materiali come urbanizzato, vegetazione o suolo nudo; 'Vegetazione Fitta', cioè vegetazione molto verde e rigogliosa come alberi e foreste; 'Vegetazione Rada', cioè vegetazione costituita prevalentemente da erba o arbusti; 'Suolo', cioè suolo nudo, privo di vegetazione; 'Acqua', cioè acque superficiali. La cl assificazione della copertura del suolo u tilizzando i mmagini r iferite a v ari an ni consente di analizzare l’evoluzione nel tempo delle classi. È necessario evidenziare che la classe di 'Urbanizzato Discontinuo' non rappresenta solamente aree di sprawl, ma anche aree pianificate a bassa densità insediativa. Tali aree pianificate sono però più stabili nel tempo e occupano una superficie minore rispetto alle aree di sprawl, per cui è possibile ragionevolmente riconoscere un aumento della classe di 'Urbanizzato Discontinuo' come espansione dello sprawl urbano.
3.2 | Analisi del Cambiamento di Copertura del Suolo di Dar es Salaam Le classificazioni prodotte hanno individuato la copertura del suolo per vari anni dal 2002 al 2011. L’accuratezza delle classificazioni è s tata ca lcolata secondo la metodologia d escritta in Congedo & M unafò (2012b); per il 2011 la classe 'Urbanizzato Continuo' è stata riconosciuta molto accuratamente (accuratezza del produttore 93,1%, accuratezza dell’utilizzatore 98,0%), e la classe 'Urbanizzato Continuo' è stata classificata con accuratezza medio-alta (accuratezza del produttore 71,9%, accuratezza dell’utilizzatore 96,7%). I risultati delle classificazioni in ter mini di superfici sono riportati nel grafico di Figura 4. La Tabella I mostra l’evoluzione delle superfici dell’urbanizzato. Dal 2002 al 2011, si può notare l’aumento della classe 'Urbanizzato Luca Congedo, Silvia Macchi, Liana Ricci, Giuseppe Faldi
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Continuo' – circa 6.000 ettari – e della classe 'Urbanizzato Discontinuo'– circa 16.000 ettari – in particolare dal 2007. È stato quindi possibile calcolare l’incremento delle classi di urbanizzato, rispetto al 2002, da cui emerge che la classe 'Urbanizzato Discontinuo' è quasi triplicata in dieci anni. Tabella I: Evoluzione delle classi di urbanizzato in ettari ed incremento percentuale rispetto al 2002
Classe Urbanizzato Continuo Urbanizzato Discontinuo
2002 8.415 8.098
2004 10.025 (+19%) 9.134 (+13%)
2007 10.447 (+24%) 12.509 (+54%)
2009 12.370 (+47%) 17.318 (+114%)
2011 14.808 (+76%) 23.678 (+192%)
Figura 4. Evoluzione della copertura del suolo di Dar es Salaam, in ettari
La Figura 5 mostra l’evoluzione spaziale delle classi di urbanizzato, dal 2002 al 2011. Si può notare l’espansione delle aree di 'Urbanizzato Continuo' nel centro della città, dovuta soprattutto al processo di graduale
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densificazione delle ar ee contigue al centro u rbano. L a class e di 'Urbanizzato Dis continuo' s i è espansa notevolmente lungo i principali assi viari che collegano le aree periferiche al centro.
Figura 5. Evoluzione della copertura del suolo in Dar es Salaam dal 2002 (sinistra) al 2011 (destra)
3.3 | Indice di Sprawl Urbano A partire d alle informazioni s ulle superfici urbanizzate, si è quindi proceduto a misurare la rilevanza d el fenomeno di sprawl n ella d inamica dello sviluppo u rbano attraverso l’uso di un indicatore selezionato dalla letteratura.. Uno s tudio E SPON (2011b) ha fornito u na definizione relativamente semplice per misurare lo s prawl u rbano, tramite il rapporto percentuale tra la aree di sprawl ed il totale delle superfici urbanizzate. Tale indicatore è stato adattato all’uso delle classificazioni della copertura del suolo prodotte in questo studio, tramite la seguente formula: Indicatore di Sprawl Urbano = [(Superficie Urbanizzato Discontinuo)/(Totale Superfici Urbane)]*100 L’indicatore è stato calcolato per tutte le classificazioni realizzate, come riportato in Tabella II, da cui si evince che dal 2007 le ar ee d i urbanizzato d iscontinuo sono d ivenute p reponderanti rispetto alle aree d i urbanizzato continuo e tale tendenza si è progressivamente accentuata negli anni successivi. Tabella II: Indicatore di Sprawl Urbano
Indicatore di Sprawl Urbano [%]
2002 49,0
2004 47,7
2007 54,5
2009 58,3
2011 61,5
Tale indicatore di sprawl urbano, nella sua semplicità, può essere un utile strumento per monitorare e confrontare nel tempo le modalità insediative della città.
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Urban Sprawl e Adattamento al Cambiamento Climatico: il caso di Dar es Salaam
3.4 | Comparazione tra Crescita Urbana e Demografica Al f ine d i comprendere se l’espansione dell’urbanizzato e la crescita d emografica di Dar es Salaa m siano correlate, è utile confrontare le analisi della copertura del suolo con i dati censuari disponibili al 2002 e 2012, secondo i quali la popolazione è passata da circa 2,5 milioni a circa 4,4 milioni di abitanti (United Republic of Tanzania, 2013). Di seguito è r iportato il confronto tra la crescita percentuale d elle class i di urbanizzato e d ella p opolazione al 2011/2012 assumendo il 2002 come anno di riferimento: 'Urbanizzato Continuo': 76%; 'Urbanizzato Discontinuo': 192%; Popolazione: 75 %. Si può notare che la crescita demografica, seppur considerevole, sia stata inferiore alla crescita dell’urbanizzato nel periodo di riferimento. Inoltre, è lampante la differenza tra la crescita della classe 'Urbanizzato Discontinuo' e la crescita demografica, i l ch e riconduce il ragionamento alla definizione di sprawl f ornita d a UN-HABITAT (2010).
4 | Conclusioni Le relazioni che intercorrono tra vulnerabilità al CC e sprawl urbano sono complesse, e questo studio ha cercato di schematizzarle, focalizzandosi sul caso di Dar es Salaam. In particolare si è cercato di evidenziare un circolo vizioso ch e s’instaura tra fenomeni migratori d iretti v erso il peri-urbano – come f orma d i mal-adattamento ai cambiamenti a mbientali – e il c onseguente s prawl, che provoca u n d epauperamento d elle risorse naturali e quindi induce nuovamente le persone a spostarsi verso aree più esterne. Il co nfronto tra espansione urbana e crescita demografica h a mostrato c he l’aumento di popolazione non è sufficiente a spiegare l’aumento dello sprawl in Dar es Salaam. E videntemente s ussistono altre cause s ocioeconomiche (tra cui la speculazione immobiliare) o r iconducibili a forme di ad attamento autonomo ai cambiamenti ambientali, quale appunto è la migrazione intraregionale. In questo contesto, gli interventi delle istituzioni locali volti a ridurre la necessità di migrare delle persone e/o contenere il consumo d i suolo co nnesso al loro r einsediamento, p ossono e ssere considerati co me opzioni di adattamento p roattivo in q uanto ag iscono sui d river no n-climatici dello sprawl u rbano. I n tal modo s i 'spezzerebbe' q uella sorta di circolo v izioso av viato d a forme di mal-adattamento au tonomo, e si ridurrebbe quindi la vulnerabilità al CC. I nfine, d al progetto ACC Dar e merge che regime dei suoli e gestione id rica rappresentano le chiavi di volta di una tale strategia adattiva.
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Luca Congedo, Silvia Macchi, Liana Ricci, Giuseppe Faldi
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Urban Sprawl e Adattamento al Cambiamento Climatico: il caso di Dar es Salaam
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Luca Congedo, Silvia Macchi, Liana Ricci, Giuseppe Faldi
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Evoluzione vs crescita urbana: la “wet theory”
Evoluzione vs crescita urbana: la “wet theory” Romano Fistola* Univeristà degli Studi del Sannio DING - Dipartimento di Ingegneria Email: rfistola@unisannio.it Rosa Anna La Rocca* Università degli Studi di Napoli “Federico II” DICEA - Dipartimento di Ingegneria Edile Civile e Ambientale Email: larocca@unina.it
Abstract Ripensare metodi e modelli per interpretare la città e definire nuovi processi di governo delle trasformazioni territoriali appare fondamentale in considerazione delle attuali condizioni socioeconomiche ed ambientali globali. Tale riflessione va in particolare formulata per i processi di sviluppo della città che hanno condotto verso anomalie entropiche che appaiono di difficile inversione. Al termine “crescita”, che sottointende processi di incremento sostanzialmente fisico, va opposto il termine “evoluzione” che ha in se il concetto di progresso utilizzando riflessioni che considerino la tecnologia come un fattore di mitigazione della discrasia entropica che attualmente determina il diffuso stato di crisi strutturale dei sistemi urbani. In questo percorso, che considera la sostenibilità alla base di ogni processo evolutivo, possono essere identificati alcuni fattori strategici riconducibili alla “wet theory”. Parole chiave approccio sistemico, entropia urbana, wet theory
1 | Approccio sistemico e interpretazione urbana È da qualche tempo che nel campo delle scienze urbane pare diffondersi la pratica di derivare le metodiche e le procedure per governare le trasformazioni della città direttamente dalle pratiche di implementazioni di politiche o azioni su diversi insediamenti umani. In questa sede si tenterà di produrre una riflessione, benché limitata ed assolutamente “iniziale”, che recupera una processualità speculativa a partire dalla definizione di un modello per l’approccio e l’interpretazione dei fenomeni urbani. In particolare ci si riferisce all’approccio sistemico che si riconduce alle definizioni teoriche che von Bertanlaffy elaborò nella Teoria Generale dei Sistemi e che altri studiosi ripresero adattandole ai diversi campi disciplinari. L’applicazione di tale teoria allo studio dei fenomeni urbani ha prodotto la nascita del paradigma probabilmente più utile ed efficace per descrivere ed interpretare la condizione urbana e l’attuale stato del sistema città. L’approccio sistemico, anche inteso come quadro di riferimento concettuale (Palermo, 1992), appare ancora oggi fra i paradigmi per l’interpretazione della complessità urbana (con diverse accezioni, adattamenti ed evoluzioni) in grado di consentire efficaci analisi studi e proposizioni di procedure di governo della trasformazione urbana e territoriale (Pulselli & Tiezzi, 2008). È quindi possibile affermare che la città può essere interpretata come un sistema dinamicamente complesso che evolve nello spazio e nel tempo secondo traiettorie di difficile previsione; la complessità risulta essere il fattore strategico che assicura l’evoluzione dei sistemi (Fistola, 2012). Il sistema muta e si sviluppa nello spazio e nel tempo cioè si muove diacronicamente ed evolve “in se”. In altri termini il sistema urbano si modifica, istante per istante, a causa del modificarsi delle sue parti e delle relazioni che le *
Sebbene frutto di uno studio congiunto, Romano Fistola ha scritto i paragrafi 2 e 3, Rosa Anna La Rocca ha scritto il paragrafo 1.
Romano Fistola, Rosa Anna La Rocca
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Evoluzione vs crescita urbana: la “wet theory”
legano. La caratteristica di complessità e di evoluzione hanno rappresentato i principali fattori di crisi per l’attività di pianificazione urbanistica tradizionalmente caratterizzata dalla messa a punto di previsioni temporalmente definite e statiche del futuro assetto urbano. È quindi necessario elaborare nuove teorie per la pianificazione del territorio che considerino l’evoluzione sistemica (Fistola, 2001). Inoltre, sempre rifacendosi alla teoria sistemica, è possibile affermare che la città è in grado di attivare processi di autoregolazione, teorizzati come “la capacità di adattamento”, ciò significa che le componenti (parti e relazioni) si organizzano e si modificano, rispondendo anche a sollecitazioni esterne, secondo processi endogeni. Utilizzando tale approccio, sviluppato negli studi dei primi anni ottanta, è possibile pensare la città come un sistema composto da parti fra le quali sussiste una struttura di interazioni o come un insieme di nodi e di legami fra questi (Regulsky, 1983). Una delle proprietà dei sistemi è quella che consente di pensare ad una suddivisione del sistema urbano in sottosistemi componenti. Fra i sottosistemi è possibile distinguerne alcuni considerabili come generativi (o di riferimento), altri (comunque riconducibili ai primi) che è possibile definire “generati” ed altri ancora che si definiscono “caratterizzanti”, fra questi il sistema psico-percettivo, il sistema economico, il sistema dei trasporti, etc. (Figura 1). In particolare è possibile individuare, fra gli altri, cinque sottosistemi: il sottosistema geomorfologico, di tipo materico, costituito dal substrato territoriale ed ambientale dell’ecosistema e per il quale le parti possono essere identificate in ambiti territoriali comunque definiti (continenti, nazioni, bacini idrografici, macro regioni, territori comunali, etc.) e le relazioni nelle infrastrutture di connessione fisica fra essi (strade, ferrovie, canali, reti energetiche, etc.); Il sottosistema socio-antropico costituito dalla componente biocenotica della città, la collettività che da senso artificio di natura per eccellenza, lo spazio adattato alle necessità ed alle attività umane. Le parti di questo sistema sono rappresentate dalle aggregazioni antropiche che agiscono all’interno dello spazio urbano: gli attori e le relazioni dalle interazioni fra gruppi e/o individui che si attivano per lo svolgimento della vita associata; il sottosistema fisico, di tipo materico costituito dagli spazi e dai canali di interconnessione fra questi; il sottosistema funzionale di tipo immateriale costituito dalle attività che si svolgono puntualmente nello spazio urbano o che scorrono attraverso il territorio; il sottosistema psico-percettivo, di tipo astratto, rappresentato dall’immagine che ciascun cittadino ricostruisce dentro di se dello spazio urbano in cui vive anche in riferimento al proprio patrimonio cognitivo ed emozionale (Lynch, 1992). Quest’ultimo sistema si può considerare “caratterizzante”.
Figura 1. Il sistema urbano ed alcuni dei sottosistemi componenti suddivisi in sistemi generativi, generati e caratterizzanti.
La percezione del sistema urbano avviene grazie alla presenza di una spazialità materica che accoglie le attività antropiche e transazionali della città, anche in riferimento ad eventi ed attività che si svolgono in specifici spazi e che concorrono alla costruzione della “memoria dei luoghi”, componente fondamentale nell’evoluzione del sistema urbano, che è necessario salvaguardare. Il sistema geo-morfologico e quello socio-antropico vanno considerati sottosistemi “generativi” poiché sono alla base della costituzione del sistema urbano. Il sistema fisico ed il sistema funzionale possono essere considerati quali sistemi “generati” che derivano dalla presenza e dall’interazione dei sistemi generativi. In ciascuno dei sistemi indicati vanno ritrovati gli elementi costitutivi dell’architettura sistemica: le parti e le relazioni (l’insieme delle relazioni del sistema è definita “struttura”). Per il sistema fisico, le parti sono gli spazi Romano Fistola, Rosa Anna La Rocca
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Evoluzione vs crescita urbana: la “wet theory”
costruiti della città (edifici, piazze, attrezzature, luoghi urbani, etc.) e le relazioni i canali di comunicazione fra gli spazi che rappresentano le “portanti” dei flussi funzionali (strade, connettivi urbani, canalizzazioni, infrastrutture idrauliche, reti energetiche ed informatiche, ecc.). Il sistema funzionale è composto dalle attività umane (funzioni urbane), allocate negli spazi fisici, e dalle relazioni funzionali rappresentate dai flussi di interconnessione fra le attività che strutturano l’azione di scambio caratterizzante il sistema urbano (Papa, 1992). Esse possono essere pensate come “azioni collettive strutturate e organizzate nello spazio fisico” (l’istruzione, la sanità, la produzione, il culto, etc.) che sono indispensabili alla vita della città e si concentrano in specifici siti del sistema fisico. Le funzioni urbane possono considerarsi come strutture di relazioni fra individui che consentono di definire delle “articolazioni organizzative” della collettività, sono insediate in specifici spazi e contenitori del sistema fisico e rappresentano i motori urbani; il sistema funzionale rappresenta “l’anima della città”, astratto ma indispensabile alla sua sopravvivenza. I problemi nascono allorché uno o più sottosistemi evertono dalle normali traiettorie di evoluzione, anche per effetto di eventi esogeni, e si posizionano in assetti caratterizzati da una consistente produzione di entropia. Come riportato il sistema fisico e quello funzionale sono sistemi derivati dai primi due in quanto prodotti da modificazioni dell’ambiente e delle attività naturali.
2 | Evoluzione e crescita urbana: il concetto di entropia Come già affermato la città può essere interpretata come un sistema dinamico e complesso (o dinamicamente complesso). Considerando le innumerevoli attività presenti in una città, le modificazioni che subiscono continuamente e le relazioni che ne definiscono l’interazione, si riesce a comprendere il livello di difficoltà nella definizione di procedure in grado di governare l’evoluzione sistemica. Per mettere in essere un processo di controllo di tale evoluzione (spontanea) è necessario in primo luogo indagare le parti e la struttura (insieme delle relazioni) del sistema tentando di coglierne le leggi che determinano (o producono) l’evoluzione e lo spostamento (Fig. 2).
Figura 2. Il trend evolutivo del sistema urbano Nello schema concettuale si evidenzia l’andamento di evoluzione spaziotemporale del sistema urbano che deve essere contenuto, mediante il processo di governo delle trasformazioni territoriali, entro il range angolare delle traiettorie attese.
Successivamente vanno individuate le politiche (le strategie) che, fissando una serie di obiettivi perseguibili in specifici segmenti temporali, possono consentire il controllo del sistema ed il suo indirizzo verso stati futuri compresi in un certo range di configurazioni ottimali che vengono identificate come “stato desiderato”. L’implementazione delle strategie per il perseguimento degli obiettivi caratterizza la terza fase del processo. Tuttavia va segnalato che il sistema potrebbe non rimanere all’interno del range evolutivo prefigurato e, anche a causa di un’errata definizione strategica o di un’azione non opportuna nella sua implementazione, evertere spostandosi verso spazi che ne determinano una condizione entropica. L’entropia va considerata come una condizione di negatività diffusa del sistema che tende a sottrarsi all’azione di governo e descrive traiettorie affatto differenti da quelle prefigurate per il suo indirizzo. Tale condizione può produrre effetti negativi e discrasie di varia natura all’interno del sistema urbano comunque riconducibili ad un utilizzo improprio delle risorse disponibili. L’entropia urbana è connessa a numerosi fattori: lo spreco energetico, la sproporzionata produzione di rifiuti, l’incremento delle condizioni di vulnerabilità dei sotto-sistemi, l’elevata conflittualità sociale, etc.. Romano Fistola, Rosa Anna La Rocca
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Evoluzione vs crescita urbana: la “wet theory”
È possibile affermare che una città è tanto più sostenibile quando il sistema fisico e quello funzionale evolvono con una velocità “compatibile”. In altre parole, il sistema urbano ha una dimensione di sostenibilità quando conserva la permanenza delle funzioni negli spazi storici di allocazione. Tanto più le funzioni vengono allontanate dai siti tradizionali di insediamento, che partecipavano in maniera determinante alla percezione ed alla memoria della città, tanto più si diluisce la sostenibilità urbana. Il sistema funzionale rappresenta quindi il sottosistema di maggiore importanza ma tale rilevanza va considerata in riferimento agli altri sottosistemi: quello fisico (spazi e contenitori ove le funzioni si svolgono), quello economico (rappresentato dai processi che sostengono il funzionamento della città) e, di supporto agli altri, quello sociale (composto dagli individui che popolano la città e dalle loro interazioni). È evidente che senza tale sottosistema la città e tutte le sue articolazioni non esisterebbero. È quindi possibile schematizzare l’approccio concettuale di riferimento evidenziando come il sistema urbano possa essere considerato come generato dalla presenza, fra gli altri, del sistema funzionale, fisico ed economico tutti supportati dal sistema sociale.
3 | La wet theory per un nuovo governo delle trasformazioni territoriali Considerando l’approccio appena descritto si evince come sia possibile definire delle politiche di governo delle trasformazioni urbane e territoriali partendo dalla necessità di guidare l’evoluzione del sistema verso stati compatibili e sostenibili. Tuttavia va subito sottolineato che, interpretando la città come un sistema all’interno di metasistemi più grandi (fra i quali quello terrestre) ed essendo il pianeta un sistema chiuso e quindi non in grado di scambiare materia con i suoi metasistemi (eccezion fatta per qualche meteorite che arriva dallo spazio o qualche satellite che inviamo nello spazio), la quantità di entropia inevitabilmente generata dai processi di trasformazione dell’energia (seconda legge della termodinamica) aumenta costantemente. Le città, essendo sistemi energivori (Fistola, 2010) sono i luoghi dove prioritariamente vanno messe in essere politiche di riduzione dell’entropia operando opportune azioni di pianificazione. Approfondendo il discorso è possibile affermare che, in estrema sintesi, le prime azioni per un nuovo governo del territorio sono riducibili alla mitigazione entropica: più si riesce a mantenere bassa l’entropia urbana, che un sistema città necessariamente genera per la sua sopravvivenza, maggiore è la possibilità di contenere lo sviluppo urbano entro il range delle traiettorie attese all’interno del quale si collocano gli stati potenzialmente positivi (sostenibili e compatibili con le risorse a disposizione). Riconsiderando il grafico del trend dell’evoluzione urbana (Fig. 2) è possibile individuare delle zone entropiche rappresentate dalle porzioni di spazio al di fuori del range delle traiettorie attese. Quando il sistema sconfina in tali aree significa che i livelli di entropia urbana sono drasticamente elevati ed è necessario un sovra utilizzo di risorse per ricondurre il sistema all’interno del range. È evidente che le zone entropiche possono essere ulteriormente suddivise considerando l’entropia crescente (Fig. 3). In particolare possono distinguersi delle aree a entropia reversibile, per le quali è possibile recuperare il sistema urbano riconducendolo nel range di sostenibilità (a patto di utilizzare consistenti risorse sociali, ambientali ed economiche), e aree a entropia irreversibile all’interno delle quali il sistema va verso la “morte termica” e la città subisce il collasso strutturale e la disgregazione delle relazioni di interazione fra le parti (Fistola, 2012).
Figura 3. Il grafico del trend di evoluzione del sistema urbano con la suddivisione delle zone di entropia.
Romano Fistola, Rosa Anna La Rocca
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Evoluzione vs crescita urbana: la “wet theory”
Muovendo da tale assunto è possibile affermare che le zone di entropia reversibile caratterizzano i processi di “crescita” urbana mentre il range di sostenibilità contiene i processi di “evoluzione” della città. Come per il concetto di sviluppo sostenibile, per il quale va rilevata l’impossibilità di definire un condizione di sostenibilità perfetta (in quanto qualsiasi processo di sviluppo implica una liberazione entropica), anche all’interno del range di sostenibilità la città produce entropia in quanto utilizza risorse (energetiche) per la sua evoluzione. È in questa condizione che la wet theory può offrire un utile riferimento scientifico per l’intervento di governo delle trasformazioni territoriali. La wet theory riconsidera le risorse essenziali all’evoluzione urbana che, come per i primordiali ambienti umidi (wet) del nostro pianeta, consentono lo sviluppo vitale dei sistemi. Acqua (water) ed energia (Energy) rappresentano le condizioni indispensabili alla sopravvivenza dei sottosistemi socio antropico e funzionale, rispettivamente e, quindi, in grado di assicurare la sussistenza del sistema urbano; la tecnologia (Technology) assicura il progresso e l’avanzamento del sistema rappresentandone il fattore strategico per l’evoluzione. È noto, sia dalla teoria dell’entropia applicata ai sistemi sociali (Rifkin, 1992) sia da altri approfondimenti sugli impatti ambientali prodotti dalla presenza antropica, come la tecnologia agisca da convertitore dell’energia in lavoro e quindi da generatore entropico. In particolare l’equazione “IPAT” (Chertow, 2001) descrive come gli impatti possano essere messi in relazione con fattori quali la popolazione (Population), la ricchezza (Affluence) e la tecnologia (Technology). I=PxAxT Anche da tale equazione è possibile evincere come gli Impatti ambientali, che in questa sede è possibile ritenere espressione dell’entropia sistemica, siano direttamente connessi con lo sviluppo degli elementi del sottosistema urbano (Commoner, 1972). La tecnologia appare, fra i termini dell’equazione, quello sul quale è forse possibile operare un’azione più immediata ed incisiva per ridurre gli impatti (Sachs, 2008). È evidente che come per la wet theory anche per gli altri termini vanno definite politiche di contenimento, mitigazione, controllo, etc., ma la componente tecnologia appare come l’elemento di regolazione sul quale è possibile agire subito. Un esempio immediato può essere fornito dai processi di virtualizzazione funzionale (Fistola & La Rocca, 2001) attivabili attraverso le nuove tecnologie che di fatto riducono l’intensità d’uso delle funzioni urbane ed anche il relativo consumo di suolo. Tale riflessione potrebbe forse condurre a riconsiderare approcci anti-tecnologici nel campo delle scienze urbane che, per lungo tempo, hanno condotto ad un allontanamento dalla possibilità di comprendere ed interpretare i processi di mutamento del sistema città ed alla conseguente impossibilità di definirne innovate politiche di indirizzo. Le città rappresentano i luoghi della sopravvivenza umana, lo spazio per una nuova socialità e le fabbriche della conoscenza, la tecnologia pervade oramai ogni processo relazionale, produttivo e economico. La smart city sembra rappresentare lo scenario urbano più prossimo per il quale è necessario definire metodi, procedure e politiche innovate per il governo dell’evoluzione del sistema urbano (Fistola, 2013). La nuova urbanistica ha il compito di proporre e implementare tali processi considerando nuovi approcci e nuove teorie orientate all’incremento del capitale sociale nelle città ed ispirate alla sostenibilità e compatibilità dell’evoluzione urbana.
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Romano Fistola, Rosa Anna La Rocca
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Verso nuove (ri)configurazioni territoriali
Verso nuove (ri)configurazioni territoriali Mauro Francini* Università della Calabria Dipartimento di Ingegneria Civile Email: francini@unical.it Tel: +39.0984.496766 Annunziata Palermo* Università della Calabria Dipartimento di Ingegneria Civile Email: annunziata.palermo@unical.it Tel: +39.0984.496758
Abstract Considerando la resilienza come la capacità di un ‘ecosistema’ di ripristinare condizioni sostenibili di equilibrio, a seguito di variazioni di contesto determinate da fattori endogeni e/o esogeni, e associando alla definizione di ecosistema quello di città, variamente inteso in termini di dimensioni e funzionalità territoriale, le strategie che caratterizzano il perseguimento della resilienza, anche in termini di definizione di nuove (ri)configurazioni territoriali, nonché di gestione delle stesse, risultano essere innumerevole e necessitano di essere meglio definite al fine di raggiungere condizioni di equilibrio anche dissimili dalle precedenti, se ritenute ormai insostenibili. Tali strategie, partendo dalle analisi dall’esistente, non solo in termini di vocazioni sedimentate, ma anche di evoluzioni ricercate dai territori, interessano aspetti fisici, sociali ed economici. Parole chiave Territorio, Strategie, Sviluppo
1 | La resilienza spaziale a supporto della (ri)configurazione territoriale Parafrasando alcuni studi di letteratura della resilienza spaziale, secondo cui l’analisi della resilienza si riferisce altresì ai modi con cui la variazione di variabili rilevanti influenza e/o è influenzata dalla stessa resilienza del sistema, quest’ultimo analizzato anche su più scale spaziali, mediante l’analisi di elementi interni ed esterni di interesse, ne discendono i seguenti assunti di base (Cumming, 2011). Considerando come elementi interni primari della resilienza spaziale le proprietà spazialmente rilevanti del sistema e la disposizione spaziale di diverse componenti del sistema, nonché la loro interazione, e come elementi esterni primari della resilienza spaziale la dimensione del sistema, la forma, il numero e la natura dei confini del sistema, all’interno di un ambiente spaziale più ampio in termini di scale di analisi, nonché la connettività tra le stesse, il sistema di riferimento generale utile alla definizione di nuove (ri)configurazioni territoriali può essere identificato come un ‘sistema multiscalare’, costituito da sottosistemi geografici a loro volta caratterizzati da livelli intermedi di resilienza differenti1. * La redazione dei paragrafi 1 e 2 è di Annunziata Palermo, mentre la redazione dei paragrafi 2.1 e 3 è da assegnare a Mauro Francini. Nello specifico, la redazione del presente articolo sintetizza alcuni studi di ricerca che Annunziata Palermo sta effettuando, altresì, in collaborazione con il Politecnico di Milano, il Politecnico di Torino e l’Università degli studi della Tuscia. 1 La definizione di territorialità, il cambiamento delle sue forme e dei suoi livelli rappresentano un aspetto importante nelle azioni di pianificazione volte a generare sviluppo locale resiliente; ciò emergeva già dagli studi condotti sugli ambiti di interesse tradizionali, quello biologico e giuridico, da cui si è giunti a determinare svariate definizioni di territorialità. Nello studio della produzione e della relazione tra scale è importante prendere in considerazione la presenza di possibili ‘sistemi
Mauro Francini, Annunziata Palermo
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Verso nuove (ri)configurazioni territoriali Tali livelli intermedi possono essere così sintetizzati: livello intermedio effettivo (presenza di azioni di variazione delle variabili rilevanti in termini programmatici e funzionali, che hanno prodotto riverberazioni resilienti rilevabili e tangibili); livello intermedio in evoluzione (presenza di azioni trasversali di variazione delle variabili rilevanti in termini programmatici e funzionali, che hanno prodotto riverberazioni resilienti rilevabili e tangibili); livello intermedio potenziale (presenza di variabili rilevanti utili ad attivare azioni di (ri)configurazione resiliente, traducibili sia in termini programmatici che funzionali). Al fine di effettuare una preliminare ‘analisi della resilienza’, non solo in grado di trovare diretto riflesso nelle politiche di intervento europee, ma anche rispondenza effettiva nelle richieste che giungono dai territori, seppure con gradi di richiesta differenti e con trasversalità di indagini variegate, occorre definire delle variabili (risorse) rilevanti di influenza, quali ad esempio energia e acqua, che rivestono una importanza centrale per orientare le dinamiche resilienti di sistemi territoriali nei prossimi decenni, anche alla luce dei cambiamenti climatici2. Tali presupposti rappresentano l’elemento di base al fine di favorire la selezione di un modello di sviluppo resiliente in grado di operare, in termini di confronto e di verifica dei risultati perseguibili, su un sistema territoriale variegato sia sotto il profilo delle geografie e delle scale, che di dissimili livelli intermedi di resilienza, favorendo altresì azioni di interoperabilità strategico-programmatica e di integrazione funzionale interna ed esterna. Il modello a cui si fa riferimento, condivisibile in termini generali, anche mediante la prefigurazione di concetti guida (quali ad esempio: multifunzionalità e ridondanza; biodiversità e diversità; connettività e governance; pianificazione adattativa), non vuole essere unidirezionale e unidimensionale, ovvero, seppure nella propensione di una visione generale ‘univoca’, vuole eludere sia la riduzione dell’analisi della variabilità di variabili di indagine trasversali a quelle considerate rilevanti, a tutte le scale geografiche, che la rottura di eventuali percorsi evolutivi in atto. Il riferimento a scale geografiche diverse, in termini di attributi spaziali e di elementi costitutivi gli stessi attributi, risulta dunque fondamentale nell’ottica di favorire un collegamento tra teoria generale della resilienza e obiettivi specifici di gestione, che si traduce in capacità effettiva di un sistema territoriale di modificarsi, mantenendo la propria identità, al fine di raggiungere un equilibrio sostenibile ma dinamico, in grado di rigenerasi e di essere applicato su territori apparentemente dissimili. In sintesi la ricerca in esame prevede la definizione di un approccio integrato al governo delle trasformazioni territoriali in senso resiliente, anche mediante la predisposizione di un inventario di idonei metodi, strumenti e criteri di analisi e intervento che, partendo dalla studi di letteratura, trovino riscontro in termini di affidabilità nelle elaborazioni analitiche e applicative a casi differenti. Dunque, si parte dal territorio, nelle sue differenti declinazioni geografiche e di scale, mediante indagini utili a definire elementi di partenza (generali e specifici) da assorbile e da rigettare, per tornare al territorio, mediante la predisposizione di elaborazioni applicative utili altresì ad individuare eventuali punti di rottura rispetto all’approccio adottato e implementato in termini di preliminari sperimentazioni, in modo da definire gli aspetti da approfondire, modificare o (ri)elaborare.
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multiscalari’ che influenzano il processo di sviluppo, nonché il ruolo dei ‘livelli intermedi’. Tali sistemi, la cui organizzazione interna, articolata in sottosistemi appartenenti a livelli differenti, e la cui portata geografica, o raggio di azione, sono necessariamente multi scalari, possono contribuire a rafforzare o indebolire processi di sviluppo resilienti. Sistemi di questo tipo risultano necessari anche nell’ottica odierna di governance multilivello, rispetto alla quale risultano sempre più importanti i rapporti tra attori posti su differenti livelli, che non sempre vengono mediati da organismi istituzionali. I livelli intermedi, invece, rappresentano un importante presupposto, al fine di operare a livello locale in un’ottica di selezione del modello di sviluppo che non sia unidirezionale e unidimensionale, in quanto ciò comporterebbe una riduzione progressiva della variabilità culturale e della biodiversità a tutte le scale geografiche, indirizzando il percorso evolutivo verso un punto di rottura difficile da ricomporre senza la congrua disposizione di alternative di ripresa. Il perseguimento del livello intermedio è il punto focale della produzione della cosiddetta ‘resilienza’, che non si avvale di strategie di controllo e del sistema normativo ad esse associato, escludendo soggetti e risorse, ma al contrario discende da strategie inclusive e cooperative, ovvero dall’azione collettiva territorializzata e territorializzante. Tale perseguimento spesso si avvale delle ‘risorse immobili’ del ‘capitale territoriale’, in quanto esse stesse rappresentano la stabilità e la riserva utile per poter attivare processi rigenerativi a livelli intermedi di gerarchia, producendo nel contempo, in qualità di ‘integratori flessibili’, ‘patrimonialità’, ovvero accumulo e sedimentazione nel medio-lungo periodo di beni comuni, nonché valore aggiunto in termini di sostenibilità, efficacia e legittimità. Riprendendo Dematteis, Governa (2005), dunque, si può dire che «si ha sviluppo locale quando l’ipermobilità dei fattori e delle risorse che circolano nelle reti globali si combina con la fissità di certe risorse locali. Infatti, il locale come livello di organizzazione autonoma interagisce con il globale nella misura in cui sa attingere valore (in senso generale, non solo economico) da ciò che è proprio del suo territorio». Si rimanda a tal riguardo a Palermo (2011). Energia (la transizione da un modello basato su energie fossili a uno basato su energie rinnovabili costituisce la sfida dei prossimi decenni); Acqua (principale fonte per la vita e per le attività dell’uomo e la cui scarsità o il cui eccesso a livelli catastrofici costituiscono aspetti fondamentali da governare per un evolversi resiliente e sostenibile dei territori).
Mauro Francini, Annunziata Palermo
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Verso nuove (ri)configurazioni territoriali 2 | Il sottosistema rurale di un sistema multiscalare: caratteristiche funzionali e variabili trasversali di analisi La b ase di partenza scientifica d ella r icerca fa r iferimento ad alcuni dei risultati ottenuti all’interno di diverse ricerche teoriche ed e mpiriche, p recedentemente co ndotte, in a mbito n azionale ed i nternazionale, c he hanno permesso di delineare possibili scenari alternativi all’evoluzione ‘spontanea’, ovv ero all’aumento di azioni dissipative connesse al consumo indiscriminato delle risorse di alcuni particolari contesti territoriali. Tali scenari previsionali, sui quali insistere sia in termini di rivisitazione degli assunti di base che di costruzione di r ealtà tan gibili che abbiano p ositive riverberazioni a mbientali e socio-economiche, h anno s empre trovato rispondenza nella necessità di definire forme di sviluppo locale sostenibili e integrate anche a livello ‘globale’, in grado di r ipristinare condizioni di equilibrio mai conseguite o v enute a mancare a s eguito d i variazioni d i contesto determinate da fattori esterni e/o interni. Tale necessità ha trovato maggiore riscontro in territori a bassa pressione antropica e con prevalente vocazione rurale, esterni a città o territori densi con differenti caratterizzazioni funzionali (ad esempio aree metropolitane in evoluzione e aree costiere consolidate e in trasformazione) 3. Proprio i r apporti di ‘prossimità’ costituiscono l’elemento di sfida in termini di analisi e co nseguimento della resilienza in tali contesti, pertanto oltre alle variabili rilevanti, che influiscono il perseguimento di una più ampia ‘resilienza sistemica’, ritenuta in molti contesti la soluzione necessaria a superare sia problemi di ‘isolamento’, materiale ed i mmateriale, che di ‘abuso ecologico’, occorre tenere in co nsiderazioni le variabili trasversali interne ed esterne ch e influenzano la v ocazione prevalente d ei sottosistemi co nsiderati. A tal r iguardo occorre ribadire ch e i territori a vo cazione rurali, esterni a lla ‘città d ensa’, a vranno u na resilienza a mbientale ed ecologica maggiore, m a in m olti casi una r esilienza s ociale ed ec onomica minore, i nfluenzando in maniera differente la resilienza sistemica rispetto a sottosistemi a prevalente vocazione urbana, ad esempio. L’obiettivo, dunque, è quello di definire criteri utili al perseguimento di adeguate alternative (livelli intermedi) resilienti per territori rurali, nell’ottica generale di poter inserire gli stessi, mediante l’assegnazione di adeguati pesi, nella valutazione di co mpatibili azioni di i ntervento volte alla definizione d i effettivi s istemi resilienti multiscalari, ovvero di nuove (ri)configurazioni territoriali integrate. Per perseguire i suddetti o biettivi i territori r urali non p ossono es sere studiati s enza una p reventiva analisi dell’ormai consolidato rapporto che si è venuto a creare, quasi in maniera indifferenziata, tra aree ad elevata e bassa antropizzazione e che in maggior parte hanno ingenerato condizioni di disequilibrio interno ed esterno alle stesse aree rurali. L’analisi di tale rapporto costituisce infatti un elemento di particolare importanza sia in termini di lettura che di comprensione d i alcuni f enomeni ormai d ivenuti prevalenti (dal consumo d i suolo al la complementarietà d i multi-settori). Pertanto t ra le suddette v ariabili, co nsiderate trasversali alle variabili rilevanti (energia ed ac qua), si fa riferimento a q uelle inerenti la ‘accessibilità’ e i ‘servizi’, connesse altresì alle diverse forme d i stanzialità (residenziale, turistica, produttiva, etc.), da analizzare nei seguenti termini: dotazioni infrastrutturali materiali ed immateriali – capacità di erogare fruibilità territoriale interna ed esterna e quindi di generare flussi endogeni ed esogeni sostenibili; diffusione dei servizi – congrua localizzazione degli stessi e connessione effettiva tra ‘prodotto’ e persistenze territoriali identitarie. L’analisi delle suddette variabili tr asversali ha l’obiettivo di definire una classificazione generale dei diversi gradi d i m arginalità (resilienza s paziale) delle ar ee rurali a b assa an tropizzazione r ispetto a q uelle ad elevata antropizzazione, nonché i s uccessivi parametri, s trategici e gestionali, utili al perseguimento d i una congrua resilienza sistemica, che implica altresì l’evoluzione nel tempo dei suddetti gradi di marginalità verso gradi via
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In particolare, preliminari osservazioni di merito caratterizzanti i territori rurali a bassa pressione antropica, nel loro parziale rapporto con la ‘città densa’, evidenziano come gli stessi pur costituendo una componente su perficiale ril evante d el territorio nazionale e non solo, vengono da sempre trattati all’interno degli strumenti di pianificazione in modo indifferenziato. L a (ri) scoperta di tali territori, d unque, oggi rappresenta un passaggio n ecessario n on so lo v erso la salvaguardia di valori ambientali e c ulturali, m a a nche v erso il rip ristino d i valori socio-economici c he r ispondano a esigenze d el tutto rin novate. Ad e sempio, il p rocesso d i diffusione re sidenziale n egli sp azi periurbani, c osì come l’affermarsi del turismo verde, nonché lo stesso spopolamento delle aree più interne, rappresentano alcuni degli elementi da ten ere in c onsiderazione in r iferimento a lla e laborazione di diversi p rogrammi e p iani che a nelano a l perseguimento della resilienza in tali contesti, nonché all’interno di prefigurabili (ri)configurazioni territoriali sistemiche. Gli strumenti a supporto della pianificazione, dunque, non possono più essere ‘regolati’ con i vecchi criteri, come quelli riservati alle zone agricole, in quanto esse, non rispondendo solo ed esclusivamente alle prestazioni agricole tradizionali, necessitano di una gestione congrua di risorse (fisiche ed economiche) al fine di qualificare il ‘mercato tradizionale’, salvaguardando l’ambiente e nello stesso tempo generando so stenibili azioni di o smosi c on i territori esterni a d ifferente vocazione prevalente. Si rimanda a tal riguardo a Francini, Palermo (2009).
Mauro Francini, Annunziata Palermo
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Verso nuove (ri)configurazioni territoriali via minori fino a giungere alla effettiva costituzione di un sottosistema rurale integrato da connettere con il sistema multiscalare di riferimento4.
2.1 | Un livello intermedio potenziale
Considerando il territorio della Valle del Crati e dell’Esaro della provincia di Cosenza, sottosistema subprovinciale a struttura policentrica, che si estende nella parte Centro-Settentrionale della regione Calabria, il livello intermedio di riferimento riscontrabile è potenziale, in quanto si ha la presenza delle variabili (risorse) rilevanti utili ad attivare azioni di (ri)configurazione resiliente, traducibili sia in termini programmatici che funzionali. In particolare, il patrimonio naturale dell’area, che prende il nome dagli omonimi fiume Crati ed Esaro, si presenta sostanzialmente ben conservato (in particolare nel territorio sono presenti numerosi siti e habitat ambientali protetti e di grande valore ecologico) e non si registrano rischi legati a fenomeni di inquinamento del suolo, dell’acqua e dell’atmosfera, nonostante sia comunque necessaria una più consapevole gestione della risorsa acqua e dei rifiuti. Dal punto di vista altimetrico il territorio domina la collina interna che coinvolge 21 comuni ed è attraversato dall’autostrada SA-RC, mentre all’interno le vie di collegamento sono costituite da una rete primaria, formata dai collegamenti tra i centri abitati con l’esterno dell’area (SS 559, SS 279 e SS 19), ed una secondaria, concernente la connessione dei vari comuni dell’area (strade provinciali e comunali). Gli scali ferroviari sono presenti lungo l’asse Sibari-Cosenza che attraversa tutta l’area. Notevole è la dotazione delle risorse culturali dell’area, in quanto sono presenti numerosi siti con reperti archeologici e numerose testimonianze della cultura rurale e produttiva. La quasi totalità dei 21 comuni ha origini antiche e conserva nuclei storici che rappresentano un vero e proprio patrimonio, sia edilizio che storicoartistico, inerente la tradizione culturale che essi evidenziano sia come singoli edifici che come tessuto urbano complessivo. Inoltre, bisogna sottolineare come in molti comuni dell’area sono radicate comunità albanesi che da secoli mantengono intatte le specificità linguistiche e culturali. All’interno di tale sistema sono presenti centri maggiori che hanno mostrato negli anni un tendente ampliamento verso nord, accentuando la morfologia lineare del conurbato Cosenza-Rende, nonché centri minori che caratterizzano diversi livelli di ‘urbanizzazioni di bordo’. L’area in esame, dunque, è prossima al sistema urbano più ‘strutturato’ dell’ambito regionale, la cui marginalità non coincide in toto con quella nella quale la città è tutta centro rispetto ad una unica periferia costituita dall’hinterland agricolo. Nello specifico, in successione ad una preliminare analisi delle variabili trasversali (accessibilità e servizi), a quelle considerate rilevanti, ne discende una prima analisi dei gradi di marginalità. Il primo grado di marginalità che ha caratterizzato e caratterizza l’attuale conurbazione urbana lineare, è quello che coincide in maggior parte con la tradizionale definizione di periferia consolidata, che nello stesso tempo ha permesso ad alcuni ambiti urbani di trasformare il loro grado di marginalità in centralità. L’urbanismo legato a tale fenomeno quindi ha comportato nel contempo la formazione di corone insediative intorno al nucleo urbano preesistente, nonché l’insediamento di nuove funzioni centrali internamente ad esso. Pertanto, le nuove centralità, pur nella loro autonomia di gestione, non sono alternative, ma rappresentano delle addizioni prevalentemente quantitative, costituendo un blocco unico con la città capoluogo, che assume il ruolo di centralità preminente. Il secondo grado delle marginalità, il primo effettivo delle sussistenti urbanizzazioni di bordo, definite come centrali, in quanto più prossime alla loro possibile riclassificazione, non solo per la prossimità fisica al conurbato urbano, ma soprattutto per la caratterizzazione funzionale delle stesse, è rappresentato dalle prime addizioni distaccate. Il terzo e il quarto grado delle marginalità, definite intermedie e periferiche, al variare della localizzazione fisica e della dimensione abitativa e funzionale, rappresentano un insieme di piccoli centri storicamente definiti che si aprono al territorio, sfiorandosi e intersecandosi, con parziali rapporti intercomunali, comunque lontani dalla definizione di un effettivo sistema locale integrato. Tali forme di marginalità rappresentano, in maggior parte, forme di policentrismo di piccoli centri urbani, in cui si è assistito alla proliferazione delle aree urbanizzate frammiste soprattutto ad aree rurali, le quali, pur permanendo un consistente radicamento alle stesse tradizioni rurali, presentano una preminente azione di spopolamento, prodotto di uno sviluppo urbano disomogeneo e dequalificato, in cui, inoltre, la mobilitazione individualistica di mercato degli attori economici, coniugata a un iper-localismo degli attori politici, ha prodotto una miscela di cui si misurano oggi i costi sociali, ambientali e territoriali. Ambiti in cui la costituzione di reti (inizialmente locali per poi aprire i confini materiali e immateriali) e/o la definizione di cluster, in cui contemplare le alternative entro una intera mappa di aggregazioni territoriali, potrebbe contribuire alla esplicitazione di un interagente sistema territoriale che favorisca lo sviluppo dell’area, mediante la definizione di un piano di intervento il cui obiettivo principale risieda nella localizzazione delle 4
Si rimanda a tal riguardo a Francini, Palermo (2012).
Mauro Francini, Annunziata Palermo
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Verso nuove (ri)configurazioni territoriali diverse attività, nella valorizzazione delle identità territoriali, nella ridefinizione degli strumenti di intervento e nell’attivazione di adeguate e flessibili azioni di governance5.
3 | Configurazione di parametri strategici e gestionali Partendo da strumenti e modelli precedentemente definiti, fondati su una metodologia flessibile, si vogliono definire parametri strategici e gestionali di intervento, utili a (ri)definire adeguate correlazioni tra indirizzi pianificatori, tutela ambientale, sviluppo economico-produttivo e politiche sociali, non solo in termini di ‘socializzazione dei rischi individuali’ interni ed esterni ai territori rurali a bassa densità, ma anche di rimozione degli ostacoli crescenti allo sviluppo sostenibile e quindi al perseguimento di rinnovate forme di resilienza. I parametri strategici possono essere sintetizzati mediante la costruzione di ‘mappe strategiche’ la cui finalità risiede nella possibilità di definire, in una successione spazio-temporale, anche il contributo dato da diversi soggetti coinvolti nella definizione dell’obiettivo di riferimento e nella realizzazione dello stesso. Le mappe strategiche si fondano su alcuni principi: la strategia bilancia le forze contraddittorie, la strategia è basata su una proposta differenziante del valore, il valore è aggiunto dai processi di business interni ed esterni, la strategia consiste di temi simultanei e complementari, l’allineamento strategico determina il valore delle attività intangibili. Esse, dunque, permettono di descrivere come una strategia può creare valore, collegando gli obiettivi strategici a vicenda in relazioni esplicite di causa ed effetto. I parametri gestionali, invece, fanno riferimento alla configurazione di elementi utili a garantire la realizzazione nel tempo di un determinato obiettivo integrato fra oggetti e soggetti diversi, sia in termini orizzontali che verticali nelle gerarchie settoriali. Tali elementi in linea generale possono essere così sintetizzati: stato di avanzamento effettivo rispetto a quello previsto; i processi interni con cui misurare l’efficienza dei processi operativi; indicatori che testano il livello di soddisfazione utilizzando proxy di priorità (vivibilità, trasporti, servizi, abitazioni, qualità ambientale, etc.)6. Tali parametri devono essere verificati mediante il confronto con le esperienze condotte all’interno di differenti sottosistemi caratterizzanti il sistema multiscalare di riferimento al fine di definire complementari interventi strategici e gestionali intersettoriali comuni, utili a generare uno sviluppo integrato in contesti, fisicamente e socialmente dissimili, ma con la presenza di una costante quale quella della necessità di ripristinare condizioni di equilibrio sostenibile nei territori (resilienza).
Bibliografia
Cumming G.S. (2011), Spatial resilience in social-ecological systems, Springer, London. Dematteis G., Governa F. (a cura di, 2005), Territorialità, Sviluppo locale, sostenibilità: il modello SLoT, Franco Angeli, Milano. Francini M., Palermo A. (2009), “Il paesaggio rurale: dall’evoluzione culturale e normativa ai piani strategici di coordinamento”, in Il progetto dell’urbanistica per il paesaggio, Atti XII Conferenza Nazionale Società Italiana degli Urbanisti, Adda, Bari. Francini M., Palermo A. (2012), “Territorial accessibility of potential integrated systems”. XIX Conferenza Internazionale “Vivere e camminare in città - Culture e tecniche per l’accessibilità”, Brescia 14-15 giugno 2012. Palermo A. (2009), “Tra città e campagna: i diversi gradi della marginalità urbana”, in Francini M. (a cura di), Modelli di sviluppo di aree urbane di piccole dimensioni, Franco Angeli, Milano, pp. 26-28. Palermo A. (2011), Il territorio tra “strutture” e “strategie”. Strutturazioni territoriali e criteri della pianificazione strategica per la definizione di modelli di sviluppo locale per centri di medie e piccole dimensioni, Franco Angeli, Milano.
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Si rimanda a tal riguardo a Palermo (2009) Si rimanda tal riguardo a Palermo (2011).
Mauro Francini, Annunziata Palermo
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Città “fossile” vs città “rinnovabile”: applicabilità dei modelli sostenibili ai sistemi urbani
Città “fossile” vs città “rinnovabile”: applicabilità dei modelli sostenibili ai sistemi urbani Giuseppe Mazzeo DICEA – Università di Napoli Federico II Istituto per gli Studi sulle Società del Mediteraneo, Consiglio Nazionale delle Ricerche Email: gimazzeo@unina.it, mazzeo@issm.cnr.it
Abstract Numerose sono le evidenze sulla insostenibilità dei sistemi urbani e metropolitani, così come numerose sono le ipotesi su come trasformare la città in sistemi sostenibili. Partendo da questa realtà il paper vuole analizzare i fattori che portano a costruire modelli urbani sostenibili individuando nella compattezza, nella de-urbanizzazione, nella autonomia energetica e nella pervasività dei sistemi informativi quattro cardini su cui tali modelli dovranno essere incentrati. Il paper analizza anche gli elementi che rallentano tale diffusione, sottolineando come il peso specifico dei sistemi energetici tradizionali, così come quello dei modelli urbani classici, risultino al momento ancora troppo elevati per poter pensare ad una diffusione rapida di modelli urbani sostenibili. Nonostante ciò non si può non continuare ad approfondire l’argomento, anche perché, per dirla con Oscar Wilde: «A map of the world that not include Utopia is not worth even glancing at». Parole chiave Modelli urbani, Città sostenibile, Energia
Introduzione I sistemi metropolitani sono caratterizzati da forti impatti ambientali e da una sostanziale insostenibilità a medio e lungo termine. Un ampio filone di studi urbani ha iniziato ad occuparsi di modelli urbani più rispondenti ai principi di sostenibilità nell’uso delle risorse energetiche e territoriali, ma l’effettivo successo di tali modelli si scontra con la visione classica della metropoli moderna, figlia dello sviluppo industriale e delle materie prime fossili. Tale visione ha reso possibile la creazione di luoghi organizzati nei quali l’aggregazione di attività e funzioni ha creato una struttura complessa divenuta il motore dello sviluppo economico, culturale e sociale dei sistemi economici capitalistici. A tali qualità si accompagnano molte criticità; da citare, a questo proposito, la connessione tra sviluppo delle attività, espansione fisica incontrollata e dimensione delle risorse consumate, dimensione che costringe estesi territori a “lavorare” per la città. Se si parte dalla constatazione che la città moderna ha una origine “fossile”, perché tale è l’energia che la muove, e si ragiona sulla necessità di arrivare ad una città “rinnovabile” viene spontaneo sostenere che è la stessa filosofia alla base della costruzione della città moderna a dover essere messa in discussione. Non si può pensare ad una città rinnovabile rimanendo aggrappati a modelli comportamentali legati al consumo onnivoro di risorse, né rimanendo ancorati a modelli urbani di tipo espansivo. Nella prospettiva di applicare alla città principi più avanzati è necessario prendere coscienza che vi sono fortissime resistenze da superare. In particolare, l’applicazione estesa di principi di sostenibilità alla realtà urbana avverrà solo nel momento in cui sarà dimostrato che anche applicando tali principi ci può essere sviluppo. Ancora oggi la
Giuseppe Mazzeo
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Città “fossile” vs città “rinnovabile”: applicabilità dei modelli sostenibili ai sistemi urbani
sostenibilità è spesso considerata un fattore frenante dello sviluppo, il che, in un sistema economico legato strettamente ad andamenti crescenti nei bilanci economici, è oggettivamente un handicap. Per questa ragione le ipotesi di sostenibilità applicate a strutture urbane reali sembrano destinate ad essere, ancora per molto, dei modelli isolati e particolari. Ecocity Tianjin, Masdar, Hafen City, ecc. sono i precursori di un cambiamento epocale ma testimoniano di tempi e luoghi “alieni” rispetto alla città reale, esempi che destano interesse per le soluzioni ipotizzate ma anche scetticismo se le stesse sono pensate nella realtà.
Modelli di città “fossile” L’ecologia è la materia che studia le relazioni tra gli organismi e l’ambiente. Le relazioni creano interazioni – con la propria specie, tra specie e con il mondo fisico – che possono essere amichevoli o contrastanti (Malizia, 1997), all’interno di un contesto fisico che è l’ambiente. Un sistema ecologico è in equilibrio quando all’interno di uno spazio tutti gli organismi vivono senza provocare squilibri. Può la città diventare un sistema ecologico in equilibrio? Improbabile alle attuali condizioni. Il modello tipico di crescita urbana è l’espansione radiale che parte dalla sua parte centrale, storica o meno, e si sviluppa secondo una serie di anelli concentrici sempre più esterni, dove vengono poste zone residenziali spesso abitate dai pendolari che si muovono ogni giorno verso la città. Tale modello urbano, proposto da Burgess nel 1925, è stato riproposto da molti altri studiosi in maniera più o meno similare o con forme diverse, ma sempre nell’ipotesi di un processo espansivo senza fine. Estendendosi sempre di più, la crescita ad anelli concentrici si sfrangia e perde compattezza. Si passa allora ad un modello diffusivo chiamato sprawl, modello dominante dello sviluppo urbano del Novecento, prima negli Stati Uniti e poi in tutto il mondo occidentale, caratterizzato da ambiti urbani monofunzionali a bassa densità e da consumi energetici elevatissimi. È un modello auto-centrico, in quanto il movimento avviene in prevalenza per mezzo della rete stradale (Mazzeo, 2009), favorito dalla disponibilità di energia a basso costo che, per lungo tempo, ha reso possibile consumi elevati a costi irrilevanti. Tale modello è stato definito insostenibile in relazione all’evoluzione dei processi di accumulazione economica in atto negli ultimi tempi. “È finita l’era della crescita senza fine, è chiusa la fase in cui la maggioranza vedeva migliorare il proprio tenore di vita, è storia del passato quel sentimento comune che era a portata di mano l’ingresso nella classe media, quella middle class che nei libri, nei film era sinonimo di casa, auto e figli all’università” (Carlucci, 2013). Ma esso è insostenibile anche sulla base di considerazioni relative allo stato delle riserve energetiche fossili (Murray, King, 2012), e sulla base degli impatti negativi che l’uso di tali risorse hanno prodotto sull’ambiente. La città odierna è un sistema che consuma molta energia e che è incapace di produrre l’energia necessaria al suo funzionamento e al suo ciclo produttivo, ma è anche un sistema che produce ricchezza e lavoro (UN Habitat 2012). Per far funzionare questo sistema l’energia deve essere importata da uno spazio esterno a quello urbano, uno spazio di servizio la cui funzione primaria è fornire risorse alla città. Ne discende che i sistemi urbani presentano una “impronta ecologica” molto alta (Wackernagel et al., 1999), ma, grazie alla loro capacità di produrre ricchezza e sviluppo, tale squilibrio viene tacitamente accettato e favorito.
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Città “fossile” vs città “rinnovabile”: applicabilità dei modelli sostenibili ai sistemi urbani
Figura 1. Media delle temperature annuali In Europa, 1850-2010 (www.eea.europa.eu)
Il consumo indiscriminato di materie prime fossili per produrre energia ha avuto conseguenze rilevanti sull’ambiente. Negli ultimi 60 anni la media annuale della temperatura globale è cresciuta a livelli mai raggiunti nei precedenti 100.000 anni (figura 1). I climatologi ritengono che ciò sia dovuto fondamentalmente alle attività umane e che la combustione di materie prime fossili sia la principale fonte della eccessiva produzione di gas effetto serra (GHG). Dato che nel bilancio “accumulazione-dissipazione” l’accumulazione dei GHG avviene ad una velocità maggiore della dissipazione, il continuo accrescimento dello strato di GHG provoca la crescita della temperatura dell’atmosfera terreste. Questo processo, secondo la stragrande maggioranza degli studi, dovrebbe produrre nel prossimo futuro una serie di conseguenze negative. In particolare si ipotizza un progressivo scioglimento dei ghiacciai, con un aumento del livello dei mari, l’allagamento di vaste estensioni di coste (e dei relativi sistemi urbani) e una radicalizzazione dei fenomeni meteorologici globali e locali (inondazioni, siccità, incendi, frane). Questi fenomeni richiederanno strategie aggressive di adattamento o, in alternativa, la necessità di ridurre in modo radicale quella che è ritenuta la loro principale causa, la produzione di GHG. A questo proposito le politiche internazionali si sono poste obiettivi ambiziosi (Commissione Europea, 2010) come, ad esempio, quelli che prevedono la riduzione dei GHG al 2050 ad un livello inferiore dell’80% rispetto ai livelli del 1990 (figura 2).
Figura 2. Previsione dell’andamento delle emissioni di GHG in Europa fino al 2050 (Commissione Europea, 2011)
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Città “fossile” vs città “rinnovabile”: applicabilità dei modelli sostenibili ai sistemi urbani
Modelli di città “rinnovabile” A partire da queste co nsiderazioni g li s tudi u rbani s ono stati i nteressati negli ultimi tempi d a una particolare attenzione al tema della sostenibilità della città. Le affermazioni maggiormente in voga sottolineano la n ecessità che le città d iventino particolarmente atte nte alle condizioni di uso e consumo delle risorse. Tale attenzione si trasforma nella previsione di nuovi modelli urbani più intelligenti, fino ad ip otizzare la p ossibilità che le città funzionino co mpletamente ad en ergia r innovabile ( World Future Council, 2010). Nella costruzione di modelli di città sostenibile è opportuno considerare con attenzione le condizioni di partenza: la quantità d i en ergia necessaria a far f unzionare le città è elev atissima, mentre il grado d i s ostituzione con le energie rinnovabili è ancora molto basso. Quindi le città si muoveranno ancora per molto tempo usando energie fossili; le città o spitano o ltre il 50% d ella popolazione mondiale, co n u na previsione che arriva al 7 5% en tro il 2025 (United Natio ns, 2012). Qu esto s ignifica ch e la richiesta di energia p roveniente d alle città non potrà che continuare a crescere; posto ch e il processo d i urbanizzazione interessa in p ercentuali rilevanti paesi n on occidentali ( figura 3), caratterizzati sia da un andamento economico più dinamico che da forti ritardi nella distribuzione della ricchezza pro-capite, è ipotizzabile u na crescita d ei consumi energetici an che superiore rispetto alla crescita ec onomica media mondiale; la cr escente richiesta di energia ha necessità di essere affrontata nell’immediato e il modo più rapido per far fronte a tale richiesta è utilizzare tecnologie conosciute ed affidabili come quelle che usano materie prime fossili; se s i pensa ch e la realizzazione d i un prototipo d i città sostenibile co me Masdar p revede un costo di cir ca 2 2 miliardi d i d ollari r isulta evidente che è rilevante il tema delle risorse da investire nell’innovazione. Questo problema si aggrava in paesi con elevate concentrazioni di popolazione e con scarse risorse economiche. Da ciò deriva il rischio che l’accesso alle nuove tecnologie energetiche diventi un nuovo fattore di disuguaglianza tra Paesi e all’interno di essi.
Figura 3. Andamento della popolazione nelle prime trenta agglomerazioni mondiali e distribuzione per paese (http://esa.un.org/unup)
Ciò non significa che non sia necessario approfondire l’applicabilità di nuovi modelli urbani basati sulla sostenibilità nel senso p iù a mpio d el termine, o ssia caratterizzati non s olo p er i livelli ridotti di consumo d elle risorse non rinnovabili ma anche per una nuova qualità dei rapporti sociali che si instaurano al loro interno. A questo scopo è da ricordare che ogni città è diversa dalle altre. Ne deriva che ogni città e ogni comunità ha bisogno di definire un suo modello di sostenibilità sulla base di una serie di fattori, quali: le condizioni locali del clima; il sistema locale delle risorse; le caratteristiche dello sviluppo e le modalità con cui esso è avvenuto; il livello di interrelazione e di dipendenza nel sistema economico globale; le relazioni con le regioni circostanti e l’influenza su di esse; la forma amministrativa locale e la capacità istituzionale; Giuseppe Mazzeo
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Città “fossile” vs città “rinnovabile”: applicabilità dei modelli sostenibili ai sistemi urbani
la struttura e il livello di coinvolgimento della società civile; il grado di controllo sulla produzione di energia e sulle attività di distribuzione. Da questi fattori discendono alcuni caratteri che la città “rinnovabile” dovrebbe far propri (figura 4).
Figura 4. La forma urbana e gli elementi di sostenibilità ad essa riconducibili
Un primo carattere è la “compattezza”, che si b asa su un co ntrollo molto r estrittivo del co nsumo d i suolo e che determina una struttura urbana in cui le diverse funzioni sono prossime tra di loro, raggiungibili con una efficiente rete di trasporto pubblico, se non a piedi o in bicicletta. Non sono molti gli studi che approfondiscono l’apporto della forma urbana sul risparmio energetico. Secondo alcuni studi americani il cambiamento nel modo di usare il territorio potrebbe contribuire fino a valori prossimi al 10% al risparmio di energia (Ewing et al., 2008) ed ulteriori riduzioni possono prevedersi con azioni parallele sui trasporti, sul costo dei carburanti e sulla gestione della sosta. Altre analisi riportano u n co nsumo d i energia e una produzione di GHG d a 2 a 2 ,5 v olte p iù b asse negli insediamenti ad alta densità rispetto a quelli a bassa densità (Norman et al., 2006). Un secondo carattere è quello della “de-urbanizzazione”, ossia la necessità che la città tenda a ridurre la propria dimensione e a r estituire s pazi ad attività agricole e n aturali. La de-urbanizzazione va, q uindi, oltre il riuso d egli spazi già urbanizzati, pervenendo ad u na complessiva r icostruzione d egli s tock naturali preesistenti alla fase di urbanizzazione (Mazzeo, 2012). Un terzo carattere da prendere in considerazione è quello dei sistemi energetici necessari a far funzionare la città. Per raggiungere l’obiettivo della sostenibilità dei sistemi urbani le strategie possibili ricadono generalmente in due categorie: riduzione della domanda di energia attraverso l’incremento di efficienza nel suo uso; cambiamento delle fonti, o ssia u tilizzo di fonti rinnovabili per la p roduzione d i aliquote s empre maggiori di energia, fino al raggiungimento della completa autonomia. Le strategie d i riduzione d ella domanda possono e ssere rapidamente realizzate i n q uanto, allo s tato att uale, s ono tecnicamente fattibili e permettono di raggiungere risultati di grande interesse sia nella riduzione netta dei consumi che nella sostituzione di elementi energivori; basti pensare al continuo incremento di efficienza dei veicoli a motore o degli involucri edilizi. Il ca mbiamento di f onte energetica – da q uella b asata s u fonti fossili ad altre r innovabili – ha necessità di te mpi molto più lunghi (decenni, anche sotto scenari aggressivi di tassazione) e rappresenta una scommessa di portata ben maggiore, anche in relazione al volume di investimenti necessario a renderlo possibile. Da un punto di vista urbanistico la questione fondamentale connessa all’applicazione di nuovi modelli ecologici è relativa alla p ossibilità d i indirizzare le tr aiettorie d i sviluppo u rbano v erso o biettivi di r iduzione del co nsumo d i suolo e d i qualità delle attr ezzature p ubbliche. Più in generale è la forma urbana ch e assume u na s ua s pecifica rilevanza. Sia il p rimo che il s econdo obiettivo non sono nuovi per l’urbanistica. Il primo si innesta nel filone della riqualificazione e della rigenerazione urbana, mentre il secondo si innesta nel filone della qualità dei beni pubblici di un ter ritorio. E ntrambi presentano ca ratteri d i continuità e di innovatività. L a p rincipale in novatività co nsiste n el considerare i beni e le attrezzature pubbliche come luoghi di produzione di energia rinnovabile e di informazione al cittadino: poli di una rete pubblica urbana da cui parte (per contagio) la trasformazione della parte non pubblica della città.
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Città “fossile” vs città “rinnovabile”: applicabilità dei modelli sostenibili ai sistemi urbani
Ai caratteri di compattezza, di de-urbanizzazione ed ai fattori energetici è necessario aggiungerne un altro, quello della pervasività dei sistemi informativi. Un carattere fondante dei nuovi modelli di città è riassunto nel termine “smart”, carattere sottolineato con forza dalle grandi imprese dell’elettronica e dell’informatica, il cui obiettivo è lo sviluppo di prodotti e piattaforme dedicate alla gestione dei flussi di informazioni e di dati. Questo sviluppo, però, si riverbera in un sempre più esteso controllo del comportamento dei cittadini. Non diversamente si può definire, infatti, l’impatto massiccio di terminali e sensori (di movimento, fissi, a perdere) che contraddistingue la vita urbana di una grande città e che la contraddistinguerà in maniera sempre più invadente nel prossimo futuro. Ne deriva che un elemento spesso trascurato nelle analisi relative ai nuovi modelli urbani è l’espansione silenziosa di sistemi che incidono profondamente sia sull’uso che si fa della città che sui comportamenti sociali. Le soluzioni tecnologiche necessarie alla raccolta, alla trasmissione e alla gestione delle informazioni possono infatti raggiungere il risultato di un “monitoraggio” continuo e costante della vita degli utenti della città, per cui si può affermare che un sistema urbano più sostenibile è anche più tecnologico ma potrebbe divenire meno attento alle libertà personali. Ciò significa che, a fronte di maggiore sicurezza e maggiore qualità della vita, vi potrebbe essere una possibile riduzione della sfera della privacy dovuta alla presenza di sistemi che rendono possibile un continuo controllo delle azioni di ciascun individuo. L’eccesso di controllo sociale può essere considerato uno svantaggio; se infatti gli obiettivi di sostenibilità della società sono strettamente connessi al comportamento dei singoli, gli stessi comportamenti divengono oggetto di controllo sociale in quanto mezzo pervasivo per ottenere il rispetto delle regole imposte o consigliate.
Conclusioni La totalità delle città si muove e funziona perché brucia combustibili fossili e lo continuerà a fare ancora per molto tempo, anche in presenza di aggressive misure di sostituzione e di diffusione di dispositivi e processi più efficienti. È da sottolineare una contraddizione evidente nel sostegno ai processi produttivi sostenibili. Da un lato vengono favoriti gli investimenti in soluzioni tecnologiche sostenibili in quanto il loro costo eccessivo li porrebbe fuori mercato se non fossero sostenuti soprattutto da sovvenzioni pubbliche consistenti. Dall’altro vi è una economia reale che procede con la produzione di beni e servizi tradizionali, sui quali vengono applicati i normali processi di avanzamento tecnologico, mai abbastanza veloci da essere completamente sostenibili. Governi ed imprese si trovano costrette a spingere contemporaneamente su tutti e due i pedali non potendo oggi scegliere radicalmente l’uno rispetto all’altro. Vi è quindi una economia verde in fase di forte sviluppo, i cui risultati vengono sbandierati come un fiore all’occhiello delle politiche di sostenibilità, anche se essa è sostanzialmente drogata da incentivi e normative di favore. Le considerazioni riportate in precedenza non possono che essere considerate come pungolo per accentuare i processi evolutivi nella direzione di nuovi modelli urbani e per raggiungere quella massa critica che trasformi gli investimenti in sostenibile in investimenti capaci di reggere autonomamente il mercato. Fattore fondamentale di questi nuovi modelli è quello della produzione e del consumo energetico, rispetto ai quali la risposta delle città può essere diversificata e può condurre sia ad una gestione efficiente dei sistemi energetici classici che alla predisposizione di azioni nella direzione di una loro completa sostituzione a favore di sistemi produttivi ad energia rinnovabile. A questo scopo i passi possono essere diversi ed andare dall’aumento dell’efficienza energetica alla riduzione della domanda, dallo sviluppo della produzione locale di energia rinnovabile, alla realizzazione di reti elettriche locali per la distribuzione di energia e calore da fonti rinnovabili, reti inserite in sistemi di livello nazionale ed internazionale. È necessario, a questo scopo, approfondire le implicazioni della forma urbana sulla produzione di GHG, allo scopo di definire – all’interno delle ipotesi di riduzione della produzione di GHG – quale è il suo peso effettivo. A questo scopo è necessario approfondire gli strumenti e i modelli di stima e misura per definire le alternative e gli scenari a livello di quartiere, di città e di sistema metropolitano, anche sulla base degli approcci locali alla mitigazione climatica e alle esperienze in atto. Senza dimenticare il ruolo fondamentale delle strutture amministrative che possano guidare politiche ed investimenti nel settore, in relazione all’ampiezza degli elementi coinvolti e alla necessità di gestire una visione sistemica di larga scala.
Giuseppe Mazzeo
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Città “fossile” vs città “rinnovabile”: applicabilità dei modelli sostenibili ai sistemi urbani
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Periurbanità. Per una politica di sviluppo rivolta ai luoghi
Periurbanità. Per una politica di sviluppo rivolta ai luoghi Mariavaleria Mininni Università degli Studi della Basilicata DiCEM - Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo Email: mariavaleria.mininni@unibas.it
Abstract Da più di vent’anni il progetto della città contemporanea sta mettendo a fuoco uno spazio che si colloca tra la città e ciò che la circonda, guardando in maniera sempre più insistente ciò che ricompone i territori urbani in una più complessa geografia. Materiali diversi che si dispongono contemporaneamente su scale diverse: quella urbana, delle periferie e dei tessuti della dispersione, e quella territoriale profonda dello spazio agricolo. Un territorio inatteso che sollecita una presa di responsabilità da parte dell’urbanistica: (i) perché lo spazio intorno alle città, invaso dalle urbanizzazioni ma costruito ancora dall’agricoltura, è investito da un processo di grande rinnovamento, mentre le categorie dell’urbanità e della ruralità hanno perso il loro potenziale euristico per descriverlo;(ii) perché si ha la sensazione che lì si percepiscono meglio che altrove gli esiti paradossali del moderno, le nuove forme d’individualismo, ma anche l’emergere di economie creative ad alto valore aggiunto, insieme ad atteggiamenti solidali che dichiarano un maggiore bisogno di collaborare e di stare insieme; (iii) perché nel periurbano si può mettere a fuoco il ruolo delle regolamentazioni istituzionali per un riscatto della qualità dell’azione pubblica come guida e come ripresa al sostegno della produttività soprattutto nei contesti meridionali; (iv) perché in questo spazio si intravedono nuove opportunità occupazionali soprattutto per i giovani e le donne del Sud in cui convogliare azioni intelligenti che favoriscano le risorse locali e le persone (Trigiglia,2012). Complesso è per la nostra disciplina mettere a fuoco il periurbano, uno spazio difficile da progettare ma anche solo da perimetrare con gli strumenti di pianificazione a disposizione. Un territorio inatteso che sollecita una presa di responsabilità da parte dell’urbanistica. Il periurbano non ha una natura dicotomica, ma potrebbe aiutare a esporre alcune questioni riguardanti il significato che il progetto sta assumendo in un punto in cui i saperi dell’urbanistica entrano in contatto con la riflessione paesaggistica e l’angolo di rifrazione della realtà che essa propone. Un genere di spazio e di pratiche che coinvolge molteplici punti di vista impegnando sensibilità e culture. Nell’attuale processo di pianificazione comunale, soprattutto quando recepisce una dimensione paesaggistica, riconoscere un valore di tutela e sviluppo del periurbano potrebbe rappresentare il modo in cui la visione strategica della competizione dei territori si misura con la visione strutturale delle lunghe durate per incontrarle entrambe nella pianificazione dello spazio e delle discipline d’uso del suolo alla scala locale in cui essa agisce. Planning last frontier è l’ultimo spazio costruito della città ma anche una sfida per l’urbanistica: (i) perché si misuri con spazialità inedite provenienti da ordini spaziali inediti; (ii) perché costruisca un’ agenda sociale territorializzata dentro un progetto politico complesso dove ritrovare una missione riformista in chiave agrourbana; (iii) perché ritrovi infine l’autorevolezza nei processi decisionali pubblici nel campo delle trasformazioni per una “politica di sviluppo rivolta ai luoghi” anche in vista della prossima programmazione dei fondi comunitari 2014-2020 per un loro uso efficace che aiuti in tempo di crisi ad uscire dalle trappole del sottosviluppo (Barca, 2012). Una visione agrourbana potrebbe mettere insieme le politiche di coesione e le politiche di sviluppo a partire dalla costruzione di nuove opportunità di lavoro, per i giovani soprattutto, visti come moderni operatori del periurbano, interessati a esplorare le mille strade imprenditoriali della green economy concepite all’interno di una strategia fortemente placebased. Un’agenda sociale territorializzata che prova a costruire un progetto politico complesso, mobilitando lavoro per i giovani talenti nei nuovi territori della contemporaneità, dove si può essere connessi con il mondo dalla propria azienda. Mariavaleria Mininni
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Periurbanità. Per una politica di sviluppo rivolta ai luoghi
L’intento del lavoro prova a mettere a fuoco, affidandosi ad alcuni osservatori sensibili, i modi in cui la disciplina può tornare utile per aiutare a utilizzare idee, strumenti e pratiche, per parlare in maniera aperta e rassicurante con la società verificando se le azioni adottate in chiave paesaggista abbiano effettivamente esiti per la qualità della vita delle persone e per lo sviluppo le loro idee. Parole chiave Periurbanità, politiche agro-eco-urbane, rigenerazione periferie.
Uno spazio problematico Lo spazio periurbano è sempre esistito da quando esiste la città. La città ha sempre prodotto uno spazio intorno a sé, dove la comunità urbana si dava regole e giurisdizioni nate proprio dalla contrapposizione e alterità tra la città e la campagna. Lira era il limite di competenza dell’urbs, e delirio significava starne fuori. Come per la parola mediterraneo, il periurbano non è un toponimo ma un’astrazione che definisce un carattere progettuale e relazionale dello spazio. Perché parliamo di periurbanità? Perché crediamo che lo spazio intorno alle città, invaso dalle urbanizzazioni ma costruito ancora dall’agricoltura, sia investito da un processo di grande rinnovamento, mentre le categorie dell’urbanità e della ruralità hanno perso il loro potenziale euristico per descriverlo. Perché una delle principali trasformazioni da prendere in considerazione concerne il rapporto città campagna, presente negli obiettivi dello sviluppo futuro della città europea (Aea-Ccr, 2006), perché è il tema dominante nella prossima programmazione della politica agricola comunitaria 1 e, infine, perché la sicurezza dell’alimentazione, l’agricoltura sostenibile e la bioeconomia sono le priorità negli obiettivi strategici comunitari dell’innovazione e della ricerca nel programma Horizon 2020 2. Ma anche perché vi sono buone ragioni per ritenere che il territorio sia un fattore importante per vedere dove va la società, un dispositivo tecnico che aiuta a capire dove indirizzare le future trasformazioni leggendo fenomeni concreti. Una cospicua parte di umanità abita e lavora nel periurbano, lo attraversa e lo modifica incessantemente. Ma il periurbano rimane ancora uno spazio senza autore. Il periurbano non vuole ripartire dalle visioni pacificanti della campagna urbana, il cui messaggio è stato spesso banalizzato o frainteso, non si interessa solo dello spazio agricolo di prossimità ma vuole prendere in conto la dissoluzione dello spazio rurale e la degradazione delle azioni insediative che hanno prodotto perifericità, provando a ragionare su alcuni temi generali sui quali la città e lo spazio rurale dibattono di fronte al loro declino come ambienti puri. La congettura sul periurbano assegna all’agricoltura e agli agricoltori un ruolo costitutivo. Si affida alla specifica materialità e oggettività dello spazio agricolo perché aiuti le aspirazioni e le evocazioni a precipitare in forme e materiali che si vestono di valori e di significati. Paesaggi periurbani con o senza agricoltura? L’agricoltura protegge o contamina il paesaggio periurbano? L’agricoltura periurbana può essere una strategia per produrre, gestire e proteggere la periurbanità dai pregiudizi degli agricoltori e dai consumi dei cittadini? Il periurbano non è sensibile all’indicatore del consumo di suolo perché non condivide con il termine di consumo le prerogative. Cosa si consuma? Di quale suolo si parla? Non possiamo accettare l’idea che ogni sottrazione è un consumo, ma vogliamo capire meglio quali chances offre il periurbano alla costruzione di un progetto critico sulla contemporaneità. Uno spazio che è diventato ospitale per quello che c’è di più nuovo, preferito dalle attività imprenditoriali a maggior valore creativo, scelto da giovani talenti per avviare nuovi mestieri e professionalità (Viesti G., 2010). Uno spazio che prova a rispondere positivamente al precariato. Uno spazio che sta bene dentro la metafora del riciclo perché qui spazi e materiali «spaesati» si reinventano. In un’economia dematerializzata che ha esaurito i vantaggi competitivi della prossimità alle aree urbane, il periurbano diventa lo spazio di localizzazioni strategiche di funzioni superiori, soprattutto nelle grandi aree metropolitane, che vanno dai grandi centri di servizi avanzati ai poli universitari, che prima erano prerogative delle zone centrali, ma in questo spazio si collocano anche grandi imprese agricole dotate di centri di formazione sull’alimentazione e sull’agricoltura dai modelli altamente innovativi in termini produttivi e gestionali, e che ora si vanno a posizionare prevalentemente in localizzazioni periurbane. Questo periurbano metropolitano è, a sua volta, molto diverso da quello periferico delle piccole trasformazioni della diffusione, con le quali convive, che qui vengono marginalizzate e ridotte a operare negli interstizi di un’agricoltura dalle piccole dimensioni, diversificata, informale e flessibile. Esiste quindi una geografia del periurbano e vi sono tante forme e tanti diversi gradi di periurbanità. La periurbanità non esiste separata dalle città ma è il prodotto della città che si organizza su più vaste scale di 1 2
Commissione europea, The 2nd Scar Foresight Exercise. Synthesis Report. New Challenges for Agricultural Research: Climate Change, Food Security, Rural Development, Agricultural Knowledge Systems, Bruxelles 2008 Il nuovo Programma quadro di ricerca e innovazione, che prenderà il nome di Horizon 2020, partirà il 1° gennaio 2014 e sarà valido per il settennio 2014-20. Horizon 2020 è articolato su tre obiettivi strategici: Excellent Science, Industrial Leadership, Societal Challenges.
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riferimento secondo una logica di policentrismi e reti dove gli spazi residuali diventano preziosi come lo sono i giardini monumentali o i centri storici. Il periurbano aiuta a ricentrare la domanda non su quanto sia diventata vasta ed estesa la città ma su come debba essere (Ibid.). Periurbano, dunque, è una terzietà, non è lo spazio agricolo intercluso tra l’urbanizzato, non sono orti urbani, non è solo la dispersione abitativa, non è città e neppure campagna, ma, riprendendo la tesi mumfordiana, è più città e più campagna, una scommessa della città per il futuro. Il periurbano è anche prodotto dall’urbanistica. Un paesaggio preterintenzionale che aiuta a guardare allo sfondo dentro al quale, più che in altri luoghi, è messo a dura prova il progetto della città moderna che non ha riguardato solo la trasformazione della città e non ha investito solo la società urbana. Prodotto per una gran parte dai piani dell’urbanistica delle precedenti generazioni, e dai sovra-dimensionamenti non corrispondenti a un reale bisogno, il periurbano prende forma, nei tanti lacerti di territori, dai differenti gradi di incompletezza di maglie e comparti, dall’uso agricolo di quello che sarebbe dovuto diventare uno spazio pubblico di una periferia pubblica. Una campagna degradata senza agricoltura perché era stata attribuita alla città. Alimentata dalle numerose varianti e deroghe che hanno inficiato la coerenza spaziale anche di virtuosi town designer che in un passato non troppo lontano avevano saputo disegnare alcuni piani di città, la produzione di periurbanità incombe ancora nei potenziali pregressi di nuove case, altre fabbriche e altre strade, senza nessuna necessità né giustificazione. Il periurbano è, dunque, quello spazi che continua a ipotecare lo spazio, ad assicurarsi un futuro.
Politiche e spazi di approssimazione Il periurbano si realizza dentro una politica paesaggistica agrourbana ma è impresa quanto mai ardua individuare l’azione paesaggista all’interno delle politiche di pianificazione, intendendo con questo termine tutte quelle attività che direttamente o indirettamente producono una mise en paysage, vale a dire quelle azioni capaci di attivare processi spaziali, sociali e simbolici dentro la nozione di paesaggio (Roger A., 1997-2009). Per mettere in evidenza il ragionamento, si può far ricorso alla scala territoriale in cui si svolge meglio l’azione paesaggista adottando determinate categorie e parametri (Labat D., 2011), a maggior ragione se si specifica il senso di prossimità fisica e di prossimità di attori istituzionali che guidano il processo di pianificazione (Pasqui G., 2005). L’interazione tra le scale di definizione delle politiche del paesaggio e il concetto di prossimità rappresentano la dimensione cross scaling all’interno della quale è più facile che si strutturi una dimensione periurbana. Essa parte dalla ricerca di un agire paesaggistico che ha conseguenze nella costruzione dello spazio su cui ha competenza la pianificazione spaziale, intesa come tecnica specifica che opera nel concorso tra griglia e norme, ovvero, tra forme dello spazio e forme di regolamentazione, derivandole da una cultura che è a fondamento della pianificazione e che, a sua volta, è il prodotto dell’esperienza storica e del dialogo sociale (Mazza L., 2011). Per questo intento, utilizzeremo alcuni degli strumenti messi a punto dal piano paesaggistico pugliese esplicitando approcci di teoria che si deducono da un agire riflessivo (Schön D., 1983). L’idea muove dalla teoria della prossimità (Torre A., 2010) e dalla domanda sociale di paesaggio (Luginbühl, 2001). Secondo Torre, la prossimità si articola in due diverse accezioni: 1) la prossimità dell’azione pubblica, vale a dire i modi in cui si mobilitano gli attori per progettare e rendere operativa una politica del paesaggio; 2) la prossimità della scala in cui si muove l’azione, ovvero come una politica del paesaggio in una determinata area può essere condivisa e soddisfare i requisiti di efficacia ed efficienza operando all’interno delle normative esistenti. Non è tanto la scala geografica che determina la capacità operativa delle azioni paesaggiste, soprattutto quando lo spazio, come nel periurbano, non è riconoscibile formalmente e non è istituzionalmente costituto, ma piuttosto la scala attraverso la quale avviene la strutturazione delle relazioni tra gli attori che conferisce loro la legittimità di preoccuparsene. La costruzione di strumenti, procedimenti e spazi dedicati a organizzare la scala delle interazioni tra istituzioni o tra soggetti pubblici e privati può aiutare in gran parte a spiegare come agiscono i problemi alla scala di paesaggio, lì dove sorgono i conflitti più stringenti tra il bene comune e la natura privatistica di molti dei beni che sono risorse del paesaggio. Il governo del territorio non ha limiti determinabili, mentre l’urbanistica come spatial planning si misura maggiormente con il conflitto tra spazio pubblico e spazio privato, sulla distribuzione nello spazio di attività e persone. La pianificazione paesaggistica di uno spazio indefinito come quello periurbano, è difficile da tradurre in azione, poiché opera su orientamenti non univoci e a volte insufficientemente decifrabili ma politicamente condivisibili sulla linea della sua riconoscibilità, perché si tratta di uno spazio portatore di valori quali quello della sostenibilità, dei beni comuni, della qualità, del benessere ecc. Lo strumento di pianificazione alla scala locale, di contro, ha il compito di tradurre in maniera chiara le intenzionalità paesaggistiche che si pongono in questo genere di spazio, le convenienze per loro natura incitative ed evocative, in un quadro di regolamentazioni, né
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troppo dettagliato né troppo esplicito, ma capace allo stesso tempo di orientare le trasformazioni dentro un frame di possibilità, utili e necessarie purché rimangano coerenti sotto il profilo paesaggistico. Un caso emblematico, che aiuta a comprendere com’è possibile montare un’azione paesaggista sul periurbano, può essere rappresentato dalla lettura delle Linee guida per la riqualificazione delle periferie e delle aree agricole periurbane, una sorta di manuale del periurbano che accompagna il Patto città campagna, uno degli scenari strategici del piano paesaggistico territoriale regionale della Puglia. Le Linee svolgono un’azione regolamentatrice sul piano normativo e spaziale poiché educano lo sguardo a riconoscerlo, a trovarne le convenienze per definirlo normativamente alla scala intercomunale (di agglomerazione) e a quella locale. Le Linee guida contengono raccomandazioni sviluppate in modo sistematico per orientare la redazione di strumenti di pianificazione, di programmazione, nonché di interventi in settori che richiedono un quadro di riferimento unitario di indirizzi e criteri metodologici. Il loro recepimento costituisce il parametro in base al quale valutare la coerenza di detti strumenti, per l’individuazione di incentivi, criteri di selezione, misure premiali e soprattutto per valutare nel tempo gli esiti degli interventi. Una sorta di «libro di istruzioni» che accompagnano all’approssimazione sociale, geografica ed economica, raccontate in una sequenza di argomentazioni e di tecniche pertinenti. Come attirare soggetti privati a investire nel periurbano? E le pubbliche amministrazioni che vantaggio avranno a pianificarlo per preservarlo? Attraverso la schematizzazione di sezioni di paesaggio tra la città e la campagna, in cui si rappresentano alcuni modelli idealtipici di periurbanità, le linee guida costruiscono il quadro della governance che il piano paesistico vuole mettere in atto, coordinando le scelte concorrenti di settori e istituzioni a sostegno di un progetto comune, sia che si parli di rigenerazione o riqualificazione urbana, sia che si parli di sostegni all’agricoltura, di contenimento del rischio, di politiche energetiche, di restauro del patrimonio ecc. In altri termini, l’azione paesaggista insorge non attraverso un’attività settoriale specifica che va a sommarsi a quelle in atto, ma dalla messa in coerenza, lavorando sulla multivalenza di quello stesso spazio. Un orto urbano è una forma dell’agricoltura che costruisce un verde per la città ma che appartiene alle politiche sociali. La questione principale sta, dunque, nella generalizzazione e indeterminatezza delle azioni paesaggiste alla scala vasta e dei modi attraverso i quali tali regole possono diventare operative solo alla scala comunale. La trascrizione diretta dei vincoli sul territorio senza alcuna distinzione di scala, modalità con cui ha agito fino ad ora la pianificazione del paesaggio, mostra tutti i limiti di una scarsa capacità in termini di efficacia (qualità del paesaggio vincolato) e di efficienza (rispetto della norma). Con l’evidente risultato che paesaggi molto vincolati, come quelli costieri, per esempio, sono stati troppo edificati. Strumenti come i patti, le carte del paesaggio, le linee guida, gli accordi agroambientali sono strumenti di accompagnamento dei processi di trasformazione che accorciano le distanze tra la norma e la sua applicazione nel controllo dello spazio. Le attività tecniche e procedurali hanno un ruolo rilevante per il governo del paesaggio periurbano perché con il loro portato normativo, regolativo, valutativo, progettuale e gestionale, insieme allo spazio, a volte, inconsapevolmente, partecipano al ridisegno della cittadinanza che vive in formule diverse nel territorio del piano. Territori che insorgono dal basso.
La periurbanità nei procedimenti regolamentativi Se la periurbanità può essere evocata nelle attività strategiche, ricostruita, come si è visto prima, negli strumenti di livello programmatico, la vera sfida è riuscire a incidere sugli ordinamenti dello spazio, facendola entrare negli strumenti alla scala locale. La parte strutturale del piano urbanistico generale, così come emerge nelle diverse legislazioni urbanistiche regionali, compresa quella pugliese (Palermo P. C., in Mininni M. a cura di, 2008), presenta conseguenze paesaggistiche di un certo interesse. La parte strutturale è il luogo dove le conoscenze costruite alla scala regionale, a loro volta mediate dalla visione statale, si approssimano a quelle dettagliate della scala comunale attraverso un procedimento duplice: 1) la messa a contrasto (infittimento della grana di risoluzione del quadro cognitivo per un maggior dettaglio delle conoscenze); 2) l’attribuzione dei valori non solo normativi ma anche rispettosi delle aspettative della comunità locale (peso dei fattori sociali ed emozionali, delle tradizioni sul valore percepito della risorsa paesaggistica). Le invarianti paesistico-ambientali costituiscono l’ossatura del versante strutturale del piano, in quanto precipitato del quadro delle tutele e della pianificazione ambientale delle scale sovraordinate, dettando gli indirizzi e le regole della trasformazione degli usi del suolo. I contesti territoriali, invece, sono parti del territorio comunale individuate rispetto a specifici criteri interpretativi, e sono finalizzati alle future trasformazioni nel rispetto della sostenibilità e dei valori paesaggistici e ambientali. Il confronto tra queste due griglie spaziali produce un impegnativo esercizio normativo in chiave transcalare: le invarianti, intese sia come vincoli sovraordinati di provenienza statale, sia come nuove invarianti prodotte e progettate dal piano sulla base di un’attribuzione di nuovi valori da attribuire, si confrontano con la griglia dei contesti rinvenienti da una logica legata ai processi di trasformazione dello spazio alla scala locale. Mariavaleria Mininni
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Rispetto alla chiave interpretativa che ci siamo dati, è interessante sottolineare come le invarianti (nelle loro differenti provenienze, ambientali, patrimoniali, infrastrutturali), nell’attraversamento dei contesti territoriali, inducano un’azione paesaggista di approssimazione di tipo adattivo. Essa non riguarda solo l’approfondimento di scala (Desvigne M., 2012) del procedimento conoscitivo, che fa emergere nuovi dettagli e maggiore profondità delle conoscenze. Né si limita a una banale verifica di congruenza tra tutela del territorio e suo potenziale trasformativo, ma la elabora progettualmente. L’invariante si deforma e si adatta stemperando la durezza del vincolo (divieto di edificazione nell’alveo di un solco erosivo nell’attraversamento di un centro urbano) aprendosi a nuove opportunità (però si possono realizzare parchi urbani e aree verdi attrezzate con funzione di fasce tampone per la protezione del fiume ma fruibili per la popolazione). L’azione paesaggista, in altri termini, prende le mosse non perché è proposto un parco attrezzato, ma dal modo in cui le regolamentazioni non escludono e neppure inibiscono, bensì si confrontano. Il contesto periurbano è stato individuato come impianto strutturale del nuovo piano delle città di Ruvo e di Apricena, comuni situati rispettivamente al Centro e al Nord del territorio pugliese. Per la città di Ruvo, il contesto periurbano nella proposta di piano aveva il compito di consolidare il modello urbano virtuoso di espansione in modalità accentrata, prevedendo una cintura agricola multifunzionale e di salvaguardia per contenere la proliferazione di frange urbane. La città di Apricena è uno dei centri del Tavoliere di Puglia, il contesto periurbano, costruito per la gran parte sul sedime di un torrente che circonda il settore nord-occidentale della città, oggi in fase di regimentazione, ha lo scopo di salvaguardare la città dal punto di vista idraulico offrendo al contempo un’occasione per riqualificare e riammagliare alla città consolidata una grande area di periferia pubblica, dotandola di un nuovo parco urbano.
Food planning La politica paesistica costituisce l’elemento fondamentale per la riforma della pianificazione strategica comunitaria dello spazio rurale nelle implicazioni con la rigenerazione della città. Ma nelle aree periurbane non dobbiamo dimenticare che prima di essere in città si è soprattutto in campagna: risolti i problemi dell’approvvigionamento alimentare, dunque, l’agricoltura vuole assumere un ruolo strategico mentre provvede alla cura del territorio, vuole rilanciare generi di attività innovative, compatibili con lo spazio agricolo, mentre pratica l’agricoltura. In questo contesto si intravedono molteplici opportunità di valorizzazione e sviluppo di un’agricoltura con produzioni di cibo alternativo come mercato di nicchia, fortemente ispirata dalle condizioni locali in grado di costruire catene valoriali e vantaggi reciproci nelle relazioni con la città e il suo mercato, ispirate e pensate dentro i principi dello sviluppo locale. Da una parte la necessità di soddisfare esigenze provenienti dall’approvvigionamento del mercato urbano (prodotto fresco, diversificazione dei gusti, varietà locali ecc.) e del suo metabolismo (ciclo organico dei rifiuti, siti per conferimento e smaltimento differenziato, riuso acque reflue, energie rinnovabili, biomasse e biocombustibili a scala locale), dall’altra l’offerta di servizi ad alta diversificazione e turismo di cibo (ristorazione con prodotto locale, raccolta diretta «adotta un orto», masserie del XXI secolo per educazione e cultura agricola, infrastrutture, vivaismo e mercato dei fiori recisi). A ciò vanno aggiunti beni comuni e servizi immateriali, come la cura della salute, la lotta all’obesità, l’educazione alimentare e alla natura. Un’agricoltura food oriented che riesce a essere periurban landscape oriented. Un’agricoltura sostenibile perché tenta di affrontare anche in una scala locale, ma con possibilità di riproporle in altri contesti urbani, le risposte a una città stressata e a un paesaggio da proteggere, di trovare risposte pragmatiche ai cambiamenti globali, alla scarsità delle risorse, affrontando la crisi economica con un paniere articolato di offerte occupazionali in cui cittadini-consumatori e agricoltori-produttori possono scambiarsi i ruoli vedendosi entrambi soggetti attivi. Le potenzialità di trasformare l’economia dal prodotto di nicchia al cibo di ogni giorno sono le premesse per una food planning strategy in cui l’approccio agrourbano diventa una chiave cruciale per tenere insieme compiti e competenze diversificate, per vedere come agiscono sullo spazio. Anche la città partecipa al rinnovamento dell’agricoltura periurbana costruendo un ambiente favorevole per consolidare le nicchie, tutelando lo spazio periurbano dall’edificazione e costruendo reti di governance in cui diffondere le iniziative. Il periurban land use potrebbe diventare la nuova frontiera di sperimentazione dello spazio, dove la qualità del progetto urbanistico e delle architetture sia all’altezza del compito di costruire archeologie del futuro, nuove rovine e non solo macerie per il mondo che verrà (Augé M., 2004). Uno spazio che dovrà essere in futuro il più attentamente progettato, per ospitare il meglio della riflessione progettuale sulle nuove consuetudini che ci propone la periurbanità. Alla città e ai poteri decisionali tocca il compito di trovare i luoghi dove integrare decision making del livello locale con l’approccio buttom up, da coordinare successivamente con le politiche multiscalari e multiattoriali che potranno operare nel periurbano. Il cambiamento potrà avvenire soprattutto ad opera dei cittadini perché per troppo tempo hanno ripiegato sul privato, perché l’onda lunga dell’individualismo ha logorato la democrazia e disaffezionato alla politica, perché Mariavaleria Mininni
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è importante tornare a parlare dei problemi e interessarsi a come fare per risolverli. E questo fa tornare alla città come spazio preferenziale dove si fa politica.
Bibliografia
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Forme della densificazione: un progetto per il territorio europeo
Forme della densificazione: un progetto per il territorio europeo Nicolò Privileggio Politecnico di Milano DAStU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Email: n.privileggio@tiscali.it
Abstract Il paper presenta una riflessione a ridosso di alcuni progetti sviluppati dall'autore nel territorio di Friburgo in Svizzera. L'attenzione è rivolta al ruolo delle strategie di densificazione, come parte delle politiche di contenimento del consumo di suolo, nel ridefinire gli strumenti e i caratteri del progetto del territorio europeo. La lettura dei fenomeni di recente trasformazione del territorio urbano svizzero e le analogie che questo presenta con altre situazioni europee, fornisce l'opportunità per ridiscutere la contrapposizione tra ideologie anti-urbane, spesso alla radice dei fenomeni di diffusione, e integrazione metropolitana. La vicenda di pianificazione del territorio friburghese fa emergere come il progetto della densificazione costituisca un'opportunità per ripensare la struttura urbana di sistemi insediativi dispersi ma altamente infrastrutturati e per contrastare la polarizzazione tra grandi nodi metropolitani e periferie estese. Parole chiave densificazione, forma urbis, territorio europee
Introduzione Questo contributo trae spunto da una ricerca progettuale condotta nel contesto del territorio di Friburgo in Svizzera. La ricerca è stata sviluppata attraverso tre diverse occasioni di progetto: un mandato di studio per il Progetto d'Agglomerazione di Friburgo1; la redazione del masterplan di un settore urbano a ridosso del centro della città 2; il progetto di un nuovo quartiere residenziale situato all'interno di un comune dell'agglomerazione friburghese 3. Queste occasioni progettuali rientrano in una più generale strategia di ‘costruzione della città nella città’, portata aventi a differenti livelli amministrativi e scale di intervento, tanto dall'Agglomerazione di Friburgo che dai singoli comuni che ne fanno parte, in un territorio che negli anni recenti è stato contrassegnato dal più alto tasso di crescita demografica della Svizzera. I tre progetti costituiscono nel loro insieme una opportunità di riflessione sul ruolo del progetto di densificazione, come parte delle politiche di contenimento del consumo di suolo, nel ridefinire gli strumenti e i caratteri del progetto del territorio europeo. Il territorio urbano svizzero è qui utilizzato come terreno privilegiato di riflessione poiché in esso molte delle questioni e dei problemi presenti in altre parti del territorio europeo, come la battaglia contro il consumo di suolo, il 1
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‘Projet d'agglomération de 2ème génération’ - Mandat d’étude parallèle, committente: Agglomerazione di Friburgo, 2011. Progetto: N.Privileggio, M.Secchi, con M.Motti, F.Mariani, F.Ponti. Masterplan ‘Secteur Tour Henri-Hopital des Bourgeois’, committenti: Città di Friburgo, Università di Friburgo, 2011-2013 (in corso di svolgimento). Progetto: N.Privileggio, M.Secchi, con L. Santosuosso, M.Motti, F.P onti. ‘Secteur Chandolan-Corberaye-Chassotte’ Mandat d’étude parallèle, committente: Comune di Givisiez (Friburgo) 2012/13. Progetto: N.Privileggio, M.Secchi, M.Motti, con L. Costamagna, A. Sagal.
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conflitto irrisolto tra concentrazione e dispersione, il rapporto tra sistemi di mobilità e struttura urbana, sono presenti in forma più esasperata e radicale, e ci aiutano pertanto a illuminare più in profondità alcune questioni di fondo che riguardano il progetto della densificazione della città europea. La tesi proposta è che le strategie di contenimento del consumo di suolo sviluppate negli anni recenti da diverse città europee di piccole dimensioni costituiscono una opportunità importante per ripensare la struttura spaziale dell'urbanizzazione diffusa. In questi territori, le reti infrastrutturali minori, i sistemi di trasporto pubblico locale e gli elementi del substrato ambientale possono svolgere un ruolo rilevante nell'intercettare e orientare processi di densificazione e trasformazione di scala più ampia, in una condizione complementare e non subalterna rispetto alle grandi città centrali.
Una “politica degli agglomerati” A partire dagli anni '90 inizia a consolidarsi presso i principali organi istituzionali un'interpretazione del territorio urbano svizzero come sistema integrato di ‘città isolate’ e ‘agglomerati’ . A dare questa nuova lettura della geografia urbana svizzera è l'Ufficio federale di statistica - UST (Schuler, 1997) che definisce gli agglomerati come insiemi di comuni composti da una città principale con un ruolo centrale (città nucleo) e una rete di comuni minori per un totale di almeno 20.000 abitanti. Sempre secondo l'UST, l'agglomerato ha una densità di almeno 10 abitanti per ettaro ed è caratterizzato soprattutto dalla continuità fisica e da rapporti di dipendenza funzionale tra i comuni e la città nucleo ‒ relazioni casa /lavoro, casa/tempo libero. In Svizzera, la gran parte del territorio urbanizzato e dei comuni sono attualmente parte di un agglomerato. Le stesse aree metropolitane di Zurigo, Basilea, e Ginevra-Losanna sono descritte come sistemi di agglomerati caratterizzati dalla continuità del territorio urbanizzato e da intensi legami funzionali. Sullo sfondo di questa analisi, la Confederazione ha iniziato a costruire a cavallo degli anni '90 e 2000 una strategia di ordinamento territoriale che vede negli agglomerati i principali attori delle politiche di governo del territorio (ARE, 2001, 2010, 2011). L'obiettivo è quello di promuovere azioni di pianificazione integrata capaci di attivare la collaborazione tra comuni ‒ tradizionalmente carente in Svizzera ‒ e tra comuni e partners privati, attorno a progetti di territorio focalizzati principalmente sul rapporto tra densificazione, qualità degli insediamenti e mobilità. Nel giro di pochi anni quella che era solamente un'entità geografica, l'agglomerato, si sta trasformando in un nuovo soggetto politico e amministrativo che, attraverso un nuovo strumento di pianificazione, il ‘progetto d'agglomerazione’ svolge un ruolo fondamentale nell'orientare le trasformazioni urbane e nel distribuire le risorse del governo centrale soprattutto in materia di infrastrutture e mobilità (ARE, 2003). Con una legge federale del 2008 infatti, il governo centrale subordina l'assegnazione di fondi per tutte le opere infrastrutturali d'agglomerato alla redazione di un progetto d'agglomerazione approvato dalla Confederazione. La politica degli agglomerati si configura essenzialmente come una strategia di densificazione e riequilibrio territoriale, a fronte di alcune questioni aperte: l'espansione incontrollata delle aree edificate e i problemi ad essa associati ‒ consumo di suolo, pressione sul paesaggio, costi sociali in termini di infrastrutture, aumento dei flussi pendolari, aumento del traffico; una tendenza alla polarizzazione tra le aree metropolitane di Zurigo, Basilea e Ginevra-Losanna, con maggiore capacità di attrazione, e il resto del territorio, che tende ad assumere i caratteri di una estesa periferia suburbana, con conseguenti fenomeni di specializzazione funzionale ‒ quartieri residenziali per le classi medio-alte ‒ o segregazione e decrescita nei centri urbani minori, che non riescono a intercettare i flussi di capitali internazionali e di attività terziarie propri delle aree metropolitane, e dove per contro tendono a concentrarsi gli strati di popolazione più disagiati, famiglie povere, immigrati, anziani, disoccupati. Fenomeni che presentano delle analogie con quello che è accaduto in altre città europee e italiane di medie dimensioni, dove il divario crescente tra la popolazione degli utilizzatori e quella dei residenti (Martinotti, 1993) ha spesso determinato il progressivo decadimento fisico e sociale degli spazi urbani e una diminuzione degli introiti fiscali.
Densificare un territorio disperso Densificazione, miglioramento dell'offerta di trasporto pubblico e mobilità dolce, presidio e valorizzazione turistica del territorio rurale, rilancio dei centri minori e delle economie locali, attrazione di nuovi abitanti: questi i temi della nuova agenda politica portata avanti dalle agglomerazioni. A fronte di una questi obiettivi delineati in maniere chiara e convincente, a distanza di dieci anni dal primo documento sulle politiche d'agglomerato, rimangono ancora molti interrogativi sull'efficacia dei progetti d'agglomerazione. Se da un lato essi rappresentano un'occasione utile per ripensare il territorio in modo unitario,
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superando gli specialismi dei progetti settoriali all'interno di una visione d'assieme, dall'altro non è affatto chiaro come il tema della densificazione possa tradursi concretamente nella forma fisica del territorio. Ciò che si verifica infatti è che la domanda di una maggiore densità urbana entra potenzialmente in conflitto con la preferenza accordata al modello culturale della casa monofamiliare con giardino e con l'inerzia dell'ideale antiurbano del villaggio svizzero (Salomon Cavin, 2005). Gli ideali anti-urbani si riflettono anche nel carattere sostanzialmente disperso della città svizzera, che ha le proprie origini proprio nell'economia del villaggio agricolo, ove il comune è sovrano sul proprio territorio. Il territorio svizzero è infatti connotato da una struttura parcellizzata, ove i singoli comuni, indipendentemente dalle loro dimensioni, godono di una grande autonomia decisionale essendo da sempre attori principali, alla pari dello stato ‒ cioè del cantone ‒ in materia di politica urbana. Una struttura di governo fortemente segmentata che, se da una parte ha permesso a molti comuni di contrastare i processi di omologazione e di periferizzazione tipici delle altre aree metropolitane europee, dall'altra costituisce un forte ostacolo a qualsiasi progetto di cooperazione e integrazione tra i diversi comuni. Che cosa significa pertanto attuare una strategia di densificazione in un territorio che per propria natura e tradizione presenta una struttura urbana e amministrativa sostanzialmente dispersa? quali le conseguenze sul piano della struttura morfologica e della qualità dello spazio abitabile? Dove densificare, e in che modo? Quale idea di città e di integrazione urbana può scaturire da queste strategie? Domande che non possono essere eluse perché la qualità spaziale e morfologica, la qualità ambientale e l'efficienza del trasporto pubblico sono le uniche carte che le reti di città di piccole e medie dimensioni possono spendere per competere con le grandi aree metropolitane, per attrarre nuovi abitanti, forza lavoro qualificata, e nuovi investimenti. Viene da chiedersi se non sia forse necessario analizzare il tema della densità con una prospettiva differente, non tanto ancorata ad una contrapposizione tra concentrazione e dispersione, ma più attenta alla concretezza delle pratiche, delle scale di intervento e delle situazioni territoriali. Come André Corboz era solito sostenere, citando Jean Jacques Rousseau, la Svizzera può essere considerata come un unico territorio urbano. Ciò è vero non tanto per l'estensione e la continuità delle aree urbanizzate, ma soprattutto per effetto di un progressivo mutamento dei comportamenti, dettato dalla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e, potremmo aggiungere oggi, dalla diffusione della rete del trasporto pubblico, tali da sviluppare negli abitanti una mentalità cittadina. (Corboz, 1998: 179-180) Un recente studio realizzato dall'ETH di Zurigo (Diener, Herzog, Meili, de Meuron, Schmid, 2006) fornisce una interpretazione del territorio svizzero che sembra andare in questa direzione. Lo studio propone di rileggere il territorio svizzero come un un unico territorio urbano che si organizza in larga misura sul vasto altopiano ‒ Mittelland ‒ posto tra le Alpi e la catena collinare dello Jura, perfettamente integrato nello spazio urbano europeo, connesso alla Pianura Padana, alla valle del Rodano e al sistema urbano lungo il Reno. Esso si specifica essenzialmente attraverso differenti ‘reti di città’, alcune delle quali integrate all'interno di più vaste ‘regioni metropolitane’ ‒ Zurigo, Basilea, Ginevra-Losanna ‒ altre di dimensione più piccola con una maggiore autonomia e in più stretta relazione con le ‘zone quiete’, ampie porzioni di spazio agricolo ‒ fortemente sovvenzionato dallo stato ‒ che di fatto funzionano come grandi parchi ricreativi. Ciò che emerge da questa interpretazione è la complementarietà tra i diversi territori individuati. A partire da una lettura delle trasformazioni in atto si cercava cioè di porre all'attenzione una possibile struttura urbana di area vasta entro la quale ricomprendere i più recenti processi di trasformazione. Una visione interessante proprio perché trascende l'inerzia di alcune mitologie ricorrenti, come l'integrità del paesaggio rurale, la resistenza al cambiamento, il localismo esasperato e, per la prima volta, prova a costruire una immagine morfologica d'insieme del territorio urbano svizzero ‒ del tutto assente nelle politiche urbane della confederazione ‒ in grado organizzarne le differenze e le specificità, partendo da ciò che è mutato negli ultimi decenni. Essa si propone come una possibile immagine di riferimento fortemente ancorata alle pratiche d'uso dello spazio, ma capace anche di orientare le trasformazioni di lungo periodo e di chiarificarne il senso complessivo.
Friburgo, un caso esemplare Il territorio di Friburgo ‒ primo agglomerato a dotarsi di una struttura giuridica nel 1997 ‒ e la sua recente vicenda di pianificazione rivestono un carattere esemplare per diversi motivi. Friburgo è al centro dell'Altipiano svizzero, ben connessa con la vicina Berna e con Losanna, appartiene cioè a quelle reti di città di piccole dimensioni che potenzialmente rappresentano per molti aspetti una valida alternativa rispetto alle grandi aree metropolitane. Nei decenni recenti Friburgo è cresciuta rapidamente, soprattutto grazie agli intensi flussi migratori verificatisi tra gli anni '60 e '80 e oggi l'agglomerato conta circa 80.000 abitanti. E' inoltre città universitaria, meta giornaliera di un elevato numero di studenti pendolari. Essa può essere considerata, come molte città europee della stessa dimensione, una città che sta attraversando un delicato momento di transizione, poiché negli anni a venire rischia di cadere Nicolò Privileggio
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facilmente in una crescente condizione periferica. Uno dei problemi principali è quello di offrire delle alternative valide di lavoro qualificato rispetto a città come Berna e Losanna ‒ che attualmente offrono migliori opportunità di lavoro ‒ e incentivare la localizzazione sul proprio territorio di attività terziarie e produttive ad alto valore aggiunto. Ma questi obiettivi difficilmente potranno essere raggiunti se non viene portata sufficiente attenzione alla qualità dell'ambiente urbano all'interno dell'agglomerato. Il suo primo progetto d'agglomerazione venne respinto dalla confederazione perché non in linea con gli obiettivi di contenimento del consumo di suolo (ARE, 2009). Successivamente, a fronte di una consistente previsione di crescita demografica, l'agglomerazione si è trovata costretta a rivedere completamente la propria politica, ponendo una forte enfasi sul tema della ‘costruzione della città nella città’. E, in questa direzione, da alcuni anni tanto l'agglomerazione che alcuni singoli comuni al proprio interno, tra i quali la città di Friburgo, stanno sviluppando piani e progetti a diverse scale per il proprio territorio. Le esperienze di progettazione condotte in queste occasioni non rappresentano solo un campo di verifica delle contraddizioni e degli interrogativi cui va incontro la politica di densificazione, ma ci consentono anche di fare una valutazione critica di alcuni clichés che si accompagnano al concetto di densificazione urbana. Di fronte all'ipotesi di una crescita demografica rapida e consistente, la città sta proponendo una strategia di contenimento della propria estensione. Questo si era tradotto, nel progetto respinto dalla confederazione, nell'idea di ‘chiudere’ la forma della città, riempendo tutti gli spazi vuoti disponibili. Ma, rispetto alle reali previsioni di crescita, la saturazione di quelle aree sarebbe stata insostenibile, a meno di non utilizzare degli indici di costruzione molto bassi, in palese contraddizione con una strategia di contenimento del consumo di suolo (ARE, 2009). A prevalere, in questo caso, è l'inerzia di un immaginario legato alla forte polarizzazione tra città compatta e paesaggio ‘esterno’. Una polarizzazione che riflette anche un preciso sistema di valori: il paesaggio rurale, luogo mitico per eccellenza nell'immaginario dei cittadini, paesaggio originario che si vorrebbe immutabile, contrapposto alla città, luogo della concentrazione, del mutamento incessante, della modernità. Viceversa, l'elaborazione del secondo piano d'agglomerazione è stata l'occasione per riflettere su di una maggiore articolazione della forma urbana, che tiene conto del ruolo dello spazio aperto all'interno della città (Fig. 1). L'immagine di questo territorio è infatti molto diversa da quella di una città compatta. La permanenza dell'antica struttura dei villaggi e, negli anni recenti, il miglioramento della rete infrastrutturale, hanno generato un sistema diffuso di luoghi centrali e di quartieri residenziali, con una forte commistione tra paesaggio naturale e insediamento, nella quale il sistema orografico, le rete delle acque, le zone boscate e le aree agricole svolgono un ruolo importane nel costruire l'immaginario urbano degli abitanti.
Figura 1. Grandi ʻ stanze verdiʼ tra i tessuti edificati nel cuore dell'agglomerato di Friburgo. A destra, il principio della stanza verde come guida del processo di densificazione, diagramma di progetto.
Ciò che abbiamo appreso nell'elaborare la nostra proposta per il piano d'agglomerazione di Friburgo è che la ricerca di una maggiore densità poteva tradursi in una struttura urbana ‘aperta’, permeabile, che si rapporta alla forma del territorio, che si manifesta a tutte le scale dello spazio abitabile e nella quale grande importanza assume la scala intermedia dello spazio aperto, tra la grande estensione del paesaggio rurale e la scala minuta dei giardini all'interno dei tessuti edificati. Lavorare su di una struttura aperta ha un duplice obiettivo. Contenere il consumo di suolo senza annullare questi spazi di scala intermedia, prati o frammenti di paesaggio agricolo che riemergono tra i tessuti, come delle grandi stanze verdi e che costituiscono la ricchezza dell'ambiente urbano e residenziale. Una riflessione su questi spazi che dia loro un significato entro la struttura della città può servire di base alla costruzione di una nuova dimensione dello spazio collettivo dell'agglomerazione: spazi di mediazione tra la grana fine dei tessuti e grandi sistemi ambientali. Il secondo obiettivo consiste nella possibilità di contrastare, anche alla scala dell'agglomerato, l'instaurarsi di un rapporto centro/periferia; affermare cioè un principio di identità che non sia legato solo ai caratteri simbolici del Nicolò Privileggio
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nucleo centrale di Friburgo. Da questo punto di vista le operazioni di densificazione sono un'occasione per ripensare le relazioni tra le parti di città. Antichi villaggi, nuove centralità, tessuti residenziali, grandi spazi agricoli, sistema fluviale, punti di accesso alle reti di trasporto pubblico: sono luoghi e materiali urbani attraverso i quali è possibile costruire un'identità propria dell'agglomerato che si basa sull'uso allargato del territorio, su di una maggiore mobilità tra i diversi luoghi nell'esercizio delle pratiche legate all'abitare, al lavoro e al tempo libero (Fig. 2).
Figura 2. Proposta per il Piano d'Agglomerazione di Friburgo. A sinistra, il sistema dei ʻ greenʼ e dei ʻ corridoi verdiʼ ; a destra, la densificazione come strumento per rafforzare un sistema diffuso di luoghi centrali.
Il concetto di densificazione rimane tuttavia un concetto ancora vago, qualora non si affronti anche la scala più ravvicinata dello spazio abitabile, quella dei quartieri o delle aree di riqualificazione. Come si costruisce a Friburgo? Se si osservano ad esempio i modelli insediativi utilizzati di recente per le aree di nuova costruzione, essi ripropongono una versione aggiornata del sobborgo residenziale, con case mono - bifamiliari con giardino, case a schiera o case in linea immerse nel verde (Fig. 3). Sono modelli di successo, facilmente vendibili sul mercato poiché fanno leva proprio sulla riconquista di un rapporto con la ‘natura’. Ma l'immagine positiva che essi promettono svanisce di fronte alla necessità di densificare e, al tempo stesso, diminuire l'occupazione del suolo. In altre parole, una politica di densificazione basata unicamente sull'aumento dell'indice di costruzione, senza mettere in discussione alcune forme persistenti dello spazio abitabile, pone una serie di problemi. Nei tessuti residenziali i giardini sono introversi, la loro dimensione è subordinata alle sempre maggiori dotazioni di parcheggio, la strada è l'unico elemento strutturante, ed anche il solo spazio di aggregazione, talvolta attraversato da una linea di trasporto pubblico. Ciò che emerge da questa osservazione ravvicinata è una scarsa articolazione dello spazio pubblico all'interno dei nuovi quartieri, spesso giustificata con la presenza compensatoria del paesaggio agricolo e collinare, a portata di mano non appena si ‘esce’ dalla città.
Figura 3. A sinistra, foto aerea dell'agglomerato di Friburgo. A destra, quartieri di recente costruzione a Friburgo.
Nelle altre due occasioni di progetto che ci hanno visto coinvolti, un nuovo quartiere residenziale in un comune dell'agglomerazione (Figg. 4, 5) e il masterplan per la riqualificazione di un'area centrale di Friburgo, l'esplorazione Nicolò Privileggio
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progettuale sui criteri insediativi ha assunto un ruolo determinante nel dare senso e coerenza alla politica di densificazione portata avanti dai singoli comuni. In particolare, vi sono due aspetti di quelle esperienze sui quali mi sembra interessante costruire una riflessione più generale: in primo luogo, il processo di densificazione come occasione di invenzione tipologica, che porta a studiare criteri insediativi che lavorino sulla maggiore compattezza dei tessuti e sulla forte articolazione degli spazi di prossimità e di transizione tra la dimensione privata e protetta dell'alloggio e la grande scala del paesaggio. Secondo aspetto, la necessità di ripensare la relazione tra modelli infrastrutturali e principio insediativo, ove la proposta di modelli urbani più densi e compatti ripropone il tema del rapporto tra accessibilità carrabile, parcheggi, mobilità dolce, spazi pedonali. In particolare, rispetto alla ricerca sul tema dell'isolato aperto, affermatasi nelle recenti esperienze europee di densificazione (Lucan, 2012), la nostra proposta ha cercato di percorrere un'ipotesi diversa, che svincola il principio insediativo dalla griglia stradale, proponendo un'immagine della densificazione alternativa all'urbanistica dei tracciati.
Figura 4. Proposta per un nuovo quartiere residenziale nel comune di Givisiez (Friburgo)
Qualche ipotesi di lavoro Il caso friburghese con le sue contraddizioni, apre, a mio modo di vedere, alcune ipotesi di lavoro per il territorio della città europea. In primo luogo, le politiche di contenimento del consumo di suolo richiedono una riflessione complessiva sulla struttura morfologica del territorio e sul suo modo di funzionare. Una lettura dei rapporti tra spazio abitabile e forma urbis a diverse scale, rende problematica l'immagine ormai canonica del territorio europeo: una mega-regione policentrica basata su di una rete di connessioni ad alta velocità che si specifica attraverso interventi di “concentrazione decentrata” (European Commission, 1999). Tanto l'Altipiano svizzero che, ad esempio, la Pianura Padana, possono essere riletti come un unico spazio urbano caratterizzato da diversi gradi di densità, all'interno del quale le città di piccola e media dimensione, l'urbanizzazione diffusa e il substrato ambientale possono svolgere un ruolo strutturante e dirimente nell'affrontare la ricerca di una maggiore sostenibilità degli insediamenti. Le strategie di densificazione costituiscono pertanto una opportunità per ripensare la struttura urbana di sistemi insediativi dispersi ma altamente infrastrutturati e per contrastare la polarizzazione tra grandi nodi metropolitani e periferie estese. Una rinnovata riflessione capace di attraversare lo spessore morfologico che sta tra le grandi configurazioni territoriali e la grana fine dello spazio abitabile, legando tra loro scelte tipologiche, modelli infrastrutturali e struttura dello spazio aperto sembra essere indispensabile per uscire dalla logica della semplice saturazione degli spazi urbani disponibili; ma anche per impostare la ricerca di modelli di urbanità alternativi alla semplice opposizione città compatta/città diffusa, riscattando ampie parti del territorio europeo escluse dai grandi network infrastrutturali e dalla concentrazione di flussi e capitali transnazionali.
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Figura 5. Proposta per un nuovo quartiere residenziale nel comune di Givisiez (Friburgo). Attacco al suolo degli edifici e struttura dello spazio pubblico
Bibliografia
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Nicolò Privileggio
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Planning for an Urbanism of Degrowth
Planning for an Urbanism of Reduction Jason Rebillot Harvard University Graduate School of Design Email: rebillot@gsd.harvard.edu
Abstract While the periodic recurrence of crises in the economic, social, and environmental realms should foreground the need for a fundamental rethinking of our urban trajectory, it seems it has not. Within the urban disciplines in particular, we continue to frame our thinking in relation to a persistent ontological framework, built on a blind faith in continued growth and capital accumulation. By contrast, the recent emergence of ‘degrowth’ in economic and political discourse seems to hold great potential for reimagining society, once the distant horizon of growth (and our faith in it) has been jettisoned. This essay seeks to initiate a conversation on the paradigm of degrowth and its implications for the future of urban practice. The essay asserts that an urbanism of degrowth represents a viable, tractable, and meaningful project for those interested in exploring social and ecological health over the trappings- and dangers- of global markets. Keywords: urbanism, ecology, degrowth
Theoretical Overview Initially emerging in French intellectual circles as décroissance, degrowth signifies what economics professor and degrowth advocate Serge Latouche refers to as “a banner that can rally those who have made a radical critique of development, and who want to outline the contours of an alternative project for a post-development politics” (Latouche, 2009, p. 9). Advocating for a voluntary reduction in production and consumption in the name of social and environmental concerns, the discourse on degrowth has been increasing in volume and reach for over ten years; in addition to the French, similar attention is now being actively given to the idea in Italy (decrescita) and Spain (decrecimiento). However, despite the certainty that degrowth would have significant implications for urban practice, little if any scholarship or speculation has yet been generated. Accordingly, this essay seeks to initiate such a discussion. With the entire professional undercarriages of design and planning in question, the concept of downshifting urbanization presents us with a vast unknown. The very idea marks a significant deviation from any historical or disciplinary framework that we currently recognize. But it also goes without saying that an urbanism of degrowth would imply a strategic process with immediate spatial, scalar, and distributional dimensions- without doubt enlisting the urban disciplines to sketch the contours of this new arrangement. To court the discourse on degrowth, this essay will briefly touch on some of the major themes in degrowth thinking, in particular those that seem to have direct relevance for design and planning. At its core, degrowth is an economic theory, rooted in “both culturalist and ecological critiques of economics” (Latouche, 2009, p.13). It presents a direct challenge to capitalism, modernity, globalization, consumerism, and expansionism, and is opposed to all forms of growth- even so-called sustainable development, which is still predicated on assumptions of growth and reliant on technologies of ‘overcoming’ to cover its tracks. The sentiments behind degrowth echo those of other critical theories such as post-development, post-colonialism, and many more, and are largely geared toward a contraction of economies 1. Politically, it draws resonance with both the left and the right in different registers, but it is certainly socially and ecologically acute, and whole-heartedly opposed to global flows of capital and the neoliberal economic paradigm. Ultimately, degrowth might be best understood as a-political in the sense that it locates its allies (and its efforts) squarely in the camps of those who 1
Some have even suggested the deployment of a local, non-convertible currency system (Latouche, 2009).
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distinguish between ecological degradation and economic expansion, regardless of their particular color. Consequently, and as Latouche tells us, although degrowth is a political project above all, it is not best served by electoral politics; rather, he and others suggest it is most effective as a ‘reformist’ cultural revolution.
Intellectual Antecedents Historically, degrowth emerged out of discussions in the field of ecological economics in the early 1970’s, at the outset of the environmental movement. Its core values represented a particular strain of thought on the relationship between political economy, natural ecology, and social welfare- and in particular the detrimental effects that growth-oriented political-economic systems were having on the latter two. Over a period of just more than a year, three key book publications initiated this discourse, each with its own perspective- and each inspiring further lines of inquiry in subsequent years. Of these, Limits to Growth (Meadows, et al, 1972) is certainly the publication with greatest visibility and the longest-lasting effect in thinking on the environment and sustainability. Its singular contribution to the idea of a steady-state, zero-growth, stable society naturally remains a seminal moment in this conversation. Its publication also signaled the emergence of a number of groups of heterogeneous actors, whose concerns united them in the goal of advancing research and policy recommendations on environmental change. In the case of Limits to Growth, a study was commissioned by just such a group: the Club of Rome, who underwrote the book’s extensive (and experimental) research, conducted by a multi-disciplinary team based at the Massachusetts Institute of Technology. In contrast to the largely quantitative inquiry of Limits to Growth, another publication of earlier the same year would arrive at very similar conclusions. However, the lesser-known Blueprint for Survival (Goldsmith, et al, 1972) went one large step further- suggesting a radical program of decentralization and deindustrialization. Furthermore, it advocated for sweeping reforms in society at large, including the adoption of entirely new institutional and governmental structures in order to both initiate this ambitious program and to maintain it. As likely the most significant contribution of the Blueprint, this program of decentralization sought to restructure the urban field into a diffuse model of ecologically-sensitive settlement patterns, consisting of small-scaled, selfsufficient, and self-regulating communities. Both of these publications fostered subsequent dialogue on the topic that would eventually be labeled ‘sustainable urbanism’ or ‘sustainable development’. Although the Blueprint for Survival and its radical, socially-based restructuring program would remain marginal within this discourse, Limits to Growth and its advocacy for rationalist, techno-progressive solutions would go on to underlie the vast majority of the logics of mainstream sustainability (see: green technology). Despite their amicable differences both of these propositions attempted to sketch out the contours of a middle ground between exponential economic growth and its inverse- negative economic growth- and to address environmental degradation through the realization of a stable (balanced) society2. By contrast, in 1971 the noted Romanian economist Nicholas Georgescu-Roegen published The Entropy Law and the Economic Process, effectively laying out the intellectual framework for the degrowth paradigm. His introduction of the concept of thermodynamic entropy to economic models foregrounded the (previously overlooked) temporal aspects of energy systems, and even more so the fundamental, mathematical “impossibility of infinite growth in a finite world” (Latouche, 2009, p. 15). This singular death blow to the idea of a steadystate society has greatly influenced the essential ambitions of degrowth as an alternative bioethical, biopolitical, and bioeconomic paradigm. Interestingly, as Clément Levallois has noted, Georgescu-Roegen was an early member of the Club of Rome, and his eventual departure highlighted differences of opinion between the two positions on growth (equilibrium or entropy) that these camps represented (2010). A central figure in the discourse on degrowth himself, Serge Latouche explains that the term ‘degrowth’ comes from the title of a 1979 collection of Georgescu-Roegen’s essays entitled La Décroissance: Entropie- Écologie- Économie (2009, p. 15). Perhaps unsurprisingly, the academic milieus of France at the time readily absorbed degrowth and propelled it forward. Considering the country’s rich tradition of libertarian thinking, popular resistance, and outright revolution, degrowth in its infancy found a capable and energetic partner in the French intellectual climate of the 1990’s.
Implications for Urban Practice Against this background, the implications that degrowth society would have for urban practice and those who define it are certain to be multitudinous and complex. Despite that, explorations of degrowth remain largely unchartered waters, thus far receiving minimal treatment from within design and planning culture. Through the work of luminaries like Cornelius Castoriadis, Ivan Illich, Serge Latouche, and Ted Trainer, literature on the 2
The authors of the Blueprint for Survival make several references to Limits to Growth, drawing from it extensively for their arguments.
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degrowth paradigm at this point has focused on the political, social, and economic dimensions of the topic; furthermore, most efforts have been spent (rightly so) conceptualizing matters theoretically and ontologically. Far less attention has been devoted to issues of organization and implementation- let alone territorial expression. However, there are some notable exceptions that offer an intriguing glimpse of future research trajectories. From a thematic standpoint, there are perhaps three areas that should be noted: eco-villages, co-housing, and permaculture. All arise in current literature, and all are drawn into the degrowth paradigm by their respective authors. In other words, these strategies and typologies were not conceived of as elements of an urbanism of degrowth, but those writing about them from this perspective draw clear parallels- claiming them by proxy as potential models for defining such a project. Eco-villages are highlighted by a number of intellectuals as a model that expresses a scale, degree of self-sufficiency, and communal commitment that align with the sensibilities of degrowth (Trainer, 2006; Marckmann, et. al., 2012). For his part, Trainer explicitly suggests that existing settlements and communities ought to proceed through a transition to a form resembling an eco-village, rather than proposing the development of entirely new urbanization. As a related concept, then, co-housing is framed in the literature semi-independently or as an actual element within the concept of eco-villages. Marckmann, et. al. (2012) effectively fold eco-villages and co-housing into one conversation, while others isolate the notion of co-housing as an attenuated study (Lietaert, 2010; Cerulli and Field, 2011; Chatterton, 2012; Schneider, 2012); in both cases, the conclusions are nevertheless directly related the degrowth paradigm. In their discussion of what they term ‘rurban’ squatting in the periphery of Barcelona, Claudio Cattaneo and Marc Gavalda` suggest that such urban practices- representing the materialization of “semiautonomous, small scale, collective economic systems” which can be “considered as practical implementations towards degrowth” (2010, 582-583). In what they claim to be a recognized alternative housing strategy in Spain, Cattaneo and Gavalda` portray these territories of rurban squatting as having “rural features within an urban context”, and the communities they support as fluent in “agro-ecological practices” (2010, 583). Other thinking on degrowth has similarly engaged the idea of agroecology as well as intensive, selfsufficient farming, with perhaps the most compelling argument being advanced by Sébastien Boillat, JulienFrançois Gerber, and Fernando R. Funes-Monzote (2012). Their conclusions regarding the political-economic scenario in post-Soviet Cuba offers a convincing portrait of a fertile territory for degrowth experimentation. This discussion of a small-scale, communal society and self-sufficient economic and agricultural practices leads us to a brief mention of autonomy3. As a conceptual matter in the literature, it deserves foregrounding from an urban perspective. The cultivation of a clear autonomy is meant in the sense of a wrestling away from the mechanisms of global capital and the re-establishment of local procedures (‘re-localization’ being another common theme in degrowth theory, see Latouche, 2009, p. 37). Autonomy is meant here in primarily economic terms, but it also suggests- if we are allowed to conflate the term with self-sufficiency for sake of argumentautonomy in energy production, agriculture, and various other sectors which are typically (in a growth society) associated with models of trade based on import/export, and the inequalities and destructive behavior we already know this model fosters. Urbanistically speaking, autonomy in this sense also suggests a scalar reading that- and much of the literature on degrowth thus far supports this- inscribes clear, non-coincident territorial/juridical bounds. Serge Latouche and others have indicated that these units might be best thought of as ‘bioregions’ (2009, p. 44), each with their own attendant administrative structures and procedures of governance. His articulation of a “municipality of municipalities” and a “commune of communes” (in reference to the Italian and French administrative units) resonates with the Blueprint for Survival’s call for a decentralized pattern of smallscaled, self-sufficient, and self-regulating communities (Latouch, 2009, p. 44). The ‘new communes’ movement in Italy, and that of the ‘slow city’ elsewhere also receive mention by Latouche, and they deserve further study as laboratories for an urbanism of degrowth. Clearly, the idea of autonomy is associated with that of decentralization, and a brief survey of the literature on degrowth shows a consistent belief that territorial decisions ought to be made exclusively at the scale of the territory in question; i.e., discussions about infrastructural improvements that only affect one juridical unit should be made solely by members of that jurisdiction. What this ultimately implies is a drastic decentralization, meant spatially and governmentally- a move away from federalist governmental structures to a drastically more lateral arrangement of territory without nested scales of authority. Likewise, the fairly common structure of devolution that federal systems employ would then be dismissed entirely, presumably avoiding the (occasionally) antagonistic relationship between vertical tiers of government that one sees in countries like Germany and the US4. Autonomy in economic terms of course implies a decoupling from the pervasive culture of competitive profiteering on local, regional, and global scales. Turning away from capital accumulation of any kind, an urbanism of degrowth would see the disappearance of things such as the competitive cities/competitive 3
For an excellent account of autonomy and its relation to Italian architectural culture in the 1960’s and 70’s, see Pier Vittorio Aureli’s The Project of Autonomy (MIT Press, 2008); see also a recent issue on the concept of autonomy in the Dutch journal Open (Volume 11, No. 23, 2012). 4 I am referring to the long history of political tensions between the powers of a centralized federal government and the ambiguous level of autonomy given to each state in the US, a condition commonly known as ‘state’s rights’ Jason Rebillot
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regions model of development (entirely a product of capitalist logics), most legibly perhaps at the larger of the two scales. For example, the Rhine-Ruhr region, as a polycentric network, would presumably no longer be in competition with the Randstaad, the Flemish Diamond, or any other economic region in the ‘blue banana’ for jobs creation, corporate attraction, or for new residents. Neither would it then need to necessarily convince the EU to subsidize industrial agriculture or large-scale infrastructural projects, as both would be subsumed under the aegis of degrowth- the former returning to local, intensive, self-sufficient farming practices, and the latter no longer necessary once the local is reinvested with strategic purpose.
Conclusions In summary, a partial list of vectors of inquiry for an urbanism of degrowth include: new models of cooperative, smaller-scaled communal living, local and self-sufficient agricultural practices, decentralized systems for energy and infrastructure, bioregional territorial organization, logistical operations for locally-derived natural resources, and the reinvention of what Serge Latouche calls the “commons”, implying (among other things) new modes of public space (2009, p. 44). The term being used, an ‘urbanism of degrowth’, is meant to suggest that the urban disciplines might take a leading role in defining the spatial, material, and organizational conditions by which such a process would be initiated, and the conditions in which society would subsequently dwell in the longer term. Thus, an urbanism of degrowth is necessarily a speculative, proactive, anticipatory practice. Scholarship thus far has tended to appropriate existing urban models, post-rationalizing their suitability (however convincing) for this new paradigm. The next step, then, ought to be the articulation of new urban models that are specific to the aims and ambitions of degrowth, allowing the idea to mature and develop its own spatial logics. Degrowth will also obviously present a set of spatial patterns that run contrary to many we are currently observing in an era of rapid and widespread urbanization. One way to consider the implications of this is to recognize that the emergence of new urban phenomena following the wave of deregulatory impulses in the 1980’s and the sudden dominance of the market economy left us, analytically speaking, out of our element. Urban practice was ill-equipped to account for the massive territorial transformations suddenly underway, and traditional tools for analyzing and intervening in territory were largely invalidated. But it would also be fair to say that over the subsequent two decades, we have been able to identify, catalog, and evaluate a wide range of these phenomena, and that we can now present a far more comprehensive understanding of the environment we are immersed in. Getting there required the sporadic, experimental development of a new set of conceptual and methodological tools, ranging from empirical research to new theoretical frameworks and epistemological structures.6 In addition, a host of research agendas have emerged that intimately link neo-liberal political-economic processes to particular spatial/material configurations: polycentric urban networks, logistical hubs for distribution, special economic zones, creative districts, periurbanism, tourism and leisure environments, etc. All of these represent specific enablers or byproducts to the vectors of global capital, and all of them are deeply coupled with exponential growth as their underlying logic (read: business model). Thus, an urbanism of degrowth would presumably destabilize the urban disciplines once again, necessitating new conceptual and methodological tools, new modes of spatial analysis, and new frameworks- all of them likely grappling with the emergence of a set of phenomena not seen before; a set that is absolutely counter-intuitive to our way of thinking about urbanism. Although it would be accurate to say that an urbanism of degrowth would find applicability among a host of geographic locations, there seems to be general consensus that the idea might find greatest traction in those locales most negatively affected by the indifference of exponential, capitalist growth. The ‘global South’ receives the most treatment to this end, and it suggests that in particular Africa and Latin America represent venues for future research. Although the dialectic between ‘North’ and ‘South’ seems increasingly unhelpful, even problematic, nevertheless there are undoubtedly a host of regions lumped among the latter that would be well-served by degrowth policies. Interestingly, Gianni Vattimo and Santiago Zabala recently published their compelling Hermeneutic Communism: From Heidegger to Marx, arriving at the same conclusion- that the global ‘South’ ought to receive first attention in any attempt to explore the political paradigm of what Vattimo for years has called “weak thought”- an ontological framework that in many ways echo the social and environmental aspirations of the degrowth discourse. The possibilities that abound in this discursive link beg further investigation. At the risk of stating the obvious, degrowth suggests a number of points of entry for the urban disciplines, and it represents a fertile ground for both scholarly research and speculative, experimental design work. A far less apparent dimension in this conversation, and one that needs attention, is the implications that an urbanism of degrowth will have for the urban disciplines when understood as profit-dependent professional services. The individual responsible for bringing this to resolution would surely win accolades among colleagues. Likewise, since our current institutional and regulatory frameworks are ill-equipped to manage a process of degrowth, we must recalibrate, or even reinvent, their means of operation- a herculean task to be sure, and this brief essay only begins to scratch the surface of these difficulties. Nevertheless, an urbanism of
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degrowth represents a viable, tractable, and meaningful project for those interested in exploring social and ecological health over the trappings- and dangers- of global markets.
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Rappresentazione e rigenerazione per la qualità urbana in Cina: il caso di Guangzhou
Rappresentazione e rigenerazione per la qualità urbana in Cina: il caso di Guangzhou Marianna Calia Università degli Studi della Basilicata DiCEM - Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo. Architettura, Ambiente, Patrimoni Culturali Email: marianna.calia@unibas.it
Abstract Guangzhou (广州 Canton), capoluogo della provincia del Guangdong (广东), è la terza metropoli cinese in ordine d’importanza e per numero di abitanti. Situata sul delta del fiume Perla, è la più grande città costiera del sud della Cina. Negli ultimi anni, la crescita incontrollata ed il diffondersi di economie che puntano all’arricchimento senza scrupoli e promuovono la ‘quantità’ a discapito della ‘qualità’, hanno provocato forti mutamenti strutturali nella città, che sta rischiando di perdere la propria identità sotto cumuli di macerie. È pratica ricorrente nelle metropoli cinesi, distruggere interi pezzi di tessuto storico perché ritenuto ‘vecchio’ e privo di interesse, ma soprattutto poiché si ritiene più conveniente abbattere edifici ed interi isolati, per costruire scintillanti grattacieli, simbolo di crescita e modernità. Per anni, questa pratica del costruire grandi quantità con scarso valore architettonico e di bassissima qualità in termini di materiali e sostenibilità, ha trasformato radicalmente l’aspetto di molte delle città cinesi, tra cui appunto Guangzhou. Parole chiave Conoscenza, identità, rigenerazione urbana
Stato dell’arte e brevi cenni storici Fino ai primi decenni del XX secolo, la città di Canton appariva costellata da canali, utilizzati spesso come principali vie di comunicazione, eleganti architetture in legno e mattoni e percorsi pedonali porticati. Ogni casa aveva la propria piccola imbarcazione ormeggiata nelle vicinanze ma, con lo sviluppo dell’automobile, i canali vengono tramutati in strade asfaltate e l’intero sistema fluviale cittadino risulta completamente snaturato.
Figura 1. Il canale che separa la città di Canton dall’isola di Shameen, visibile sulla destra. 1880-1890. Autore sconosciuto. Da: D.G. Crow, Historic Photographs of Hong Kong, Canton & Macao, pag. 80. Hong Kong 1998. Marianna Calia
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Rappresentazione e rigenerazione per la qualità urbana in Cina: il caso di Guangzhou
A fronte della crescente domanda di residenze, già a partire dal 1920, gli spazi urbani e le sezioni stradali vennero ridotte, con conseguenze negative anche dal punto di vista dei servizi e delle condizioni igienicosanitarie. Lentamente, le antiche mura della città iniziarono a diventare un ostacolo per la moderna espansione economica e urbana e si resero necessarie demolizioni tanto della cinta muraria, quanto delle imponenti porte urbane, che ebbero inizio nel 1912 su ordine del governo militare del Guangdong. Intorno al 1930 le mura vennero abbattute definitivamente per far posto a moderni assi di viabilità, anche sopraelevati e a più livelli così come sono visibili oggi, attribuendo alla città l’aspetto e le dimensioni di una metropoli. La città diventa, dunque, densissima ed inizia la fase di ‘intasamento’ dei vuoti urbani, con la conseguente distruzione dei caratteri architettonici e della morfologia dei luoghi, che negli ultimi anni del ‘900, ha visto la sua massima esplosione e che continua fino ai giorni nostri con una velocità difficilmente controllabile. In epoca recente, a partire dal 2001, sono stati edificati nuovi quartieri completamente ex novo sulle macerie di antichi villaggi, nuove polarità che hanno dissolto l’identità dell’originale centro storico (Liwan District), che ha cessato gradualmente di avere un ruolo centrale nella vita della città, che sposta sempre più la sua attenzione verso i nuovissimi Zhujuang New Town, Tiahe District e Liede Dictrict. Il forte rischio di queste distruzioni e della rapidità delle ricostruzioni, è la perdita di identità e di autenticità dei luoghi e dei paesaggi urbani, che risultano spesso mutevoli, a scapito della qualità urbana. Nei nuovi moderni quartieri, si perde la dimensione umana dello spazio pubblico come luogo di aggregazione e scambio sociale, lasciando il posto a centri direzionali e shopping mall situati in grattacieli privi di identità. Lo skyline della città cambia continuamente e gli abitanti sono spesso disorientati, al punto che il governo è costretto a tappezzare la città di pannelli che pubblicizzano la nuova immagine della città, perché la gente non riconosce più i luoghi dove ha sempre vissuto.
Figura 2. Guangzhou. Cina. Vista dall’alto di un quartiere storico circondato da palazzi speculativi. Maggio 2010 (foto M.C)
Non è un caso che siano stati pubblicati in questi anni veri e propri ‘ricettari dell’architettura’, come la ‘guida illustrata alla progettazione architettonica rapida’ che fa scuola tra ingegneri e architetti cinesi. Questi ultimi sono stati descritti come ‘professionisti da record’, da Nancy Lin in un saggio: «Sono capaci di sfornare i disegni di un grattacielo in una sola settimana e riescono ad essere circa 2500 volte più efficienti dei loro colleghi americani» (Nancy Lin, Architecture in Shenzhen. In: A.A. V.V., Great Leap Forward. Harvard Design School Project on the City, Tashen, 2001. pag. 27). La crescita senza freni della ‘città istantanea’ è anche il suo principale fattore di crisi. Ciò che più ci lascia riflettere su questi accadimenti, è che processi che in passato hanno richiesto secoli per svilupparsi in Europa, in Cina oggi hanno solo pochi decenni. Ci si chiede come mai in Cina sia mancato quel costante processo di accumulazione con cui si sono formate le aree urbane occidentali, un metodo in base al quale ogni nuovo tassello veniva aggiunto, discusso, accettato, rifiutato o modificato dalla collettività, gettando le basi per una crescita lenta e duratura. In molte città cinesi in questi anni si è operato in architettura senza avere coscienza e conoscenza dei concetti europei di identità e contesto. La Cina racconta una storia di urbanizzazione dai contorni indefiniti, di sostituzione indiscriminata dei tessuti storici, di rinnovate e mascherate forme di controllo totalitario. Il più delle volte i nuovi insediamenti urbani sono un mare di uniformi costruzioni, punteggiato qua e là da edifici alieni dalle inverosimili forme e facciate. Ci si trova spesso a camminare in megalopoli ove le linee della metropolitana aumentano a ritmi vertiginosi sacrificando anche le più preziose memorie. Marianna Calia
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Rappresentazione e rigenerazione per la qualità urbana in Cina: il caso di Guangzhou
Ma le questioni più drammatiche ruotano intorno all’incessante sviluppo delle città e al tema della residenza. L’avvento dell’economia di mercato ha sconvolto la società cinese e determinato uno spettacolare cambiamento nel l’architettura delle città. L’incremento della migrazione della popolazione rurale verso le città non ha sosta. Ormai da tredici a quindici milioni di persone si muovono ogni anno verso le grandi città o verso zone che rapidamente diventano metropoli immense. Negli ultimi anni la città di Guangzhou, come Shanghai, Pechino e Shenzhen, ha sperimentato su se stessa la costruzione, la trasformazione, la sostituzione progressiva di parti di città non più corrispondenti alle esigenze sociali che, mutando più o meno repentinamente, cambiano di conseguenza l’immagine complessiva della città, in cui convivono elementi aventi caratteristiche storiche, tipologiche e formali molto differenti. Quello che sta accadendo oggi in molte città della Cina, è un progredire incontrollato delle moderne tecnologie e delle economie senza scrupoli, che portano spesso all’abbattimento di interi ‘pezzi di città storica’ per fare posto a enormi grattacieli privi di identità, volti a rispondere ad esigenze funzionali di crescita della popolazione. Si sono dissolti i confini tra interno ed esterno: forme dai contorni indistinti si compenetrano e si dilatano, trasparenze, riflessi, fragilità hanno preso il posto dell’antica immobile solidità di una civiltà millenaria. Il questo momento storico, a mio avviso, il ruolo degli architetti italiani e dei giovani ricercatori può essere quello di sensibilizzare i tecnici cinesi, mediante attività di scambio e cooperazione, ad una cultura della tutela, del ri-uso, della rigenerazione urbana e della progettazione sostenibile, che la tradizione italiana ha maturato in secoli di esperienza. Il tema del recupero dei centri storici è il nodo del dibattito sull'architettura già da diversi decenni in Italia e in Europa, mentre è apparso solo recentemente nella pianificazione urbana delle grandi aree metropolitane cinesi, dove spesso la ricerca instancabile di abilità tecniche e di soluzioni estreme porta gli architetti a perdere la sensibilità di saper riconoscere e valorizzare l’identità e la memoria delle città su cui intervengono, con progetti che annullano i limiti, i bordi, i confini e i margini tra la città e gli ambienti collettivi e privati. In antitesi a questa metodologia di lavoro, sta assumendo un ruolo sempre più importante il tema della valorizzazione e del rinnovamento dei luoghi in cui si è stratificata la storia di civiltà millenarie. La situazione attuale, potrebbe rigenerarsi in forme qualificate, se solo venisse opportunamente compresa nelle sue modalità di crescita, di aggregazione e di adattamento. In Cina nell’ultimo decennio, per quello che ho potuto personalmente verificare, per far fronte alla crescita rapida ed incontrollata di intere città, sono maturate una nuova sensibilità e una maggiore consapevolezza verso la necessità di salvaguardare, e quindi ancor prima conoscere e documentare, il patrimonio culturale e ambientale. La conservazione di tessuti urbani storici è diventato, dunque, tema centrale nel dibattito tra i tecnici e la gente comune, stanca di veder cancellata sotto cumuli di macerie, secoli di storia e di tradizione. Operare con le architetture del passato, antico o recente, significa innanzitutto lavorare con la tradizione del proprio lavoro, sia come testimonianza, che come vero e proprio materiale. ‘Tradizione’, pertanto, non significa, in modo riduttivo, ripetizione di ciò che è stato, ma significa realtà di ciò che è durevole, di ciò che persiste ad ogni forma di sperimentalismo, è l’esigenza di confermare le proprie radici storiche e culturali. Purtroppo la millenaria continuità culturale cinese si è oggi interrotta con l’affermarsi di idee, materiali e tecniche nuove. ‘Sostituzione’ è oggi sinonimo di ‘distruzione’ di testimonianze storiche e di alterazioni inaccettabili dell’ambiente preesistente. Di questo modo di operare ho avuto modo di verificare personalmente gli esiti distruttivi ottenuti a Pechino, Shanghai, Canton, Xi’an e in altre città meno popolari, ma ugualmente ricche di storia.
Linee guida per la qualità urbana Con il tempo è stata abbandonata in Cina una pratica che faceva dell’artigianato e della mano d’opera specializzata il suo fondamento, per passare ad un’architettura che tenta con ogni mezzo di fare uso dell’industria. Occorre, pertanto, sensibilizzare i cinesi alla pazienza della ricerca progettuale, alla necessaria lentezza dell’apprendimento e dell’osservazione profonda. Occorre comprendere come l’uso dei materiali rifletta le differenze che intercorrono tra gli edifici esistenti e quelli di nuova costruzione e come la convivenza tra i vecchio e il nuovo possa ricordare agli abitanti della città che è sempre possibile guardare al futuro, senza dimenticare ciò che è stato il passato. La tesi sostenuta parte da diverse occasioni ed esperienze di ricerca condotte in Cina, dal 2008 al 2011 1, che mi hanno dato la possibilità di conoscere e comprendere, seppur in parte, i complicati fenomeni di trasformazione che stanno profondamente modificando la storia e l’identità della città cinesi in questi anni.
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Nell’ambito degli accordi internazionali tra il Governo cinese e le Facoltà di Architettura italiane sui temi della Qualità Urbana (Memorandum d’intesa sulla cooperazione nell’ambito dello sviluppo della pianificazione urbana tra la Provincia del Guangdong e l’Italia, tra l’associazione per la Pianificazione Urbana del e Guangdong e la Conferenza Nazionale dei Presidi delle Facoltà italiane di Architettura, firmato a Guangzhou il 10 dicembre 2008), è stato svolto uno stage di ricerca e progetto a Guangzhou presso il GUP&RC ed il GUP&DRI e successivamente è stata vinta una borsa di ricerca bandita dal MIUR (SAF-CHINA), per trascorrere un periodo di ricerca presso la SCUT a Guangzhou.
Marianna Calia
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Rappresentazione e rigenerazione per la qualità urbana in Cina: il caso di Guangzhou
Una delle finalità di questa ricerca è stata quella di trovare risposte adeguate all’esigenza di riqualificazione di alcune aree campione nella città, attraverso progetti pilota, con soluzioni rispettose tanto della tutela quanto del riuso, per rivitalizzarle ma, al contempo, evitarne la musealizzazione. Il progetto di recupero, impostato e proposto durante i periodi di stage a Guangzhou, cerca di operare secondo modelli teorici e progettuali che, pur in condizioni storiche differenti, si pongono in rapporto di continuità con la tradizione. Sono stati messi a punto di criteri operativi che, attraverso idonee metodologie, hanno prodotto modelli e strategie d’intervento in grado di agire sulla realtà urbana, seppur circoscritta a tre casi studio nella città di Guangzhou2. Per condurre una scelta appropriata è stato necessario conoscere i modi e le ragioni che guidarono in simili procedimenti altri architetti di epoche passate, considerando la storia come patrimonio disponibile. L’animo con il quale i nostri interlocutori cinesi si sono disposti a dialogare e collaborare, è sempre stato caratterizzato dal rispetto e dal riconoscimento pieno di una competenza, conoscenza della materia e professionalità, espressioni tutte della cultura italiana del recupero e della valorizzazione per la conservazione delle memorie e delle testimonianze del passato. A Canton, come in quasi tutte le grandi metropoli cinesi, «la quantità è così grande, la sovrapposizione così diffusa, la giustapposizione dei tetti e delle facciate così iterata, e a terra l’accostamento delle epoche è così fragoroso, da far ritenere provvisorie non solo le vecchie case ma, per analogia urbana, anche i nuovi grattacieli. Il risultato è una prepotente immagine di trasformazione e movimento». (Augusto Cagnardi, Ritorni da Shanghai. Cronache di un architetto italiano in Cina, Allemandi, Torino 2008). Vista dal satellite la città di Canton è suddivisa in tratti o parti di città molto compatte, con canali, strade e grossi borghi fitti, simili quasi ai nostri centri storici medievali, ma come assolutamente indipendenti tra loro. Alcuni brani di tessuto storico, lasciano intravedere pezzi di “connettivo”, che rappresenta una porzione di memoria di quei luoghi, fondati come luoghi originali sulla pietra, tra i solchi dei canali, tra i profili e i colori delle case. Le combinazioni tra facciate, tetti, corti, vicinati, vicoli ciechi, case, palazzi, generano la città quasi “spontaneamente”, dimenticando la conoscenza, di tradizione millenaria, delle leggi della proporzione tra le parti. Il fascino dell’intrico di vie e vicoli, invita a percorrere senza meta luoghi così tenacemente complicati ed arcaici, per cercare, ritrovare e conservare, un’identità complicata da riconoscere, ma che, anche dopo secoli di silenzio, può emergere ed essere valorizzata. A Canton, il passaggio da corte o da casa unifamiliare a plurifamiliare, la densificazione del costruito o la sostituzione integrale di pezzi di città storica, hanno portato alla formazione di un “micro tessuto”, sovrapposto a quello preesistente, composto da nuove piccole vie pedonali, con funzione distributiva, interne agli antichi complessi. Una conseguenza diretta della densificazione-evoluzione è anche la formazione di spazi di aggregazione pubblica, come micro-piazze e giardini, non propri della tradizionale forma urbana di Guangzhou, che oggi vanno a sostituire lo spazio di relazione delle vecchie corti private e dei vicoli aggregativi. Uno dei quartieri oggetto di studio, quello di ChangHuaYuan Community, è caratterizzato da una presenza diffusa di edifici tradizionali e complessi omogenei, con un tessuto storico consolidato nel tempo e ancora chiaramente riconoscibile. Sono state individuate delle zone particolarmente incoerenti con il tessuto storico, per tipologie, materiali e/o altezze; in tali zone, attraverso la sostituzione dell’esistente con tipologie che rispettino maggiormente i caratteri tradizionali locali o mediante la manutenzione o con sostituzione ed integrazione di alcune parti, si opererebbe una “ricucitura” del tessuto, garantendo la continuità della morfologia dell’abitato. Si tratta di un metodo che integra concettualmente le tecniche di recupero e di restauro conservativo e quelle di rigenerazione urbana, con un approccio al tema del riuso integrato con il progetto urbano. Il presupposto è quello di salvaguardare il tessuto edilizio complessivo più che il singolo edificio. Quello che si vuole conservare e rivitalizzare è il valore storico della città nel suo insieme. Costruire al centro degli edifici storici nell’area più antica e rinomata della città (Xiguan Disctrict) ci fa confrontare con un tema quasi inesplorato a Canton: l’architettura nuova tra gli edifici da conservare, e si ha la sensazione di essere protagonisti di un dibattito già vissuto molti anni fa in Europa. La proposta non vuole essere un progetto esecutivo, ma piuttosto la dimostrazione dei principi secondo noi adatti per trasformare l’area, ma utili anche per riqualificazioni più generali nel contesto urbano di Canton. In un tessuto urbano ereditato dal passato, ci sono elementi permanenti da preservare e rigenerare, ed elementi soggetti ad evolversi nel tempo, in un processo di adeguamento continuo. Uno degli intenti del mio lavoro di ricerca presso il GUP&RC di Guangzhou, è stato l’identificazione e la classificazione degli edifici secondo il valore architettonico, l’importanza storica, il ruolo urbano, lo stato di degrado, al fine di definire il loro potenziale valore come testimonianza storica, culturale ed identitaria, e determinare la più appropriata metodologia di intervento: dal restauro conservativo alla sostituzione passando attraverso i differenti livelli intermedi, conservazione, riuso, recupero, ristrutturazione. In particolare, l’investigazione si è concentrata sulle regole di formazione, maturazione e trasformazione del tessuto residenziale urbano, per individuarne le leggi storiche di crescita e gli elementi identitari permanenti 2
I tre quartieri individuati dalla Municipalità di Canton per sperimentare progetti pilota di rigenerazione per la qualità urbana sono: ChangHuaYuan Community, GuangFu South Road e HuangPu Village, tutti situati nella parte storica della città, il così detto Liwan District.
Marianna Calia
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fondamentali in esso presenti. Una delle difficoltà riscontrate, è scaturita dalla necessità di trovare un corretto equilibrio tra conservazione e trasformazione. I quartieri oggetto di studio, riconosciuti portatori di testimonianze storiche devono essere conservati ma, in quanto vitale parte della città moderna, devono nel contempo continuare a vivere come insediamenti residenziali, in grado di rispondere efficacemente alle necessità insediative della vita contemporanea.
Figura 3. Tavola di sintesi che mostra le principali linee guida per il progetto di rigenerazione urbana del quartiere di ChangHuaYuan Community a Guangzhou.
Risultati attesi La presente ricerca ha tra gli obiettivi quello di avviare processi di scambio progettuale ed accademico con le Università ed i Centri di Ricerca e Progetto cinesi, nell’ottica di una collaborazione proficua che possa mettere insieme la sensibilità e l’attenzione al patrimonio, tipiche italiane con la rapidità e volontà di innovarsi, tipiche cinesi, per produrre progetti pilota e codici di pratica per la rigenerazione urbana. La ricerca si propone di portare all’attenzione degli studiosi cinesi il contributo di idee e riflessioni che la tradizione architettonica e la sensibilità italiana possono fornire, per il recupero e la conservazione del patrimonio culturale cinese, antico o recente, impostando le basi per fornire un quadro completo della consistenza materica e dello stato di conservazione dei manufatti, nell’ottica della rigenerazione di parti di città aventi caratteri comuni di identità e memoria, per innescare un processo di recupero rispettoso delle tipologie e dei materiali originali della tradizione architettonica cinese. La volontà è di avviare una possibile strategia di riqualificazione che possa attuarsi nel rispetto della preesistenza, con la possibilità di stabilire una continuità tra i materiali con cui si lavora e gli elementi architettonici con cui si compone l’architettura, una sorta di ‘codice di comportamento e di pratica’, senza negare le caratteristiche e senza produrre distruzioni del patrimonio storico. Questo manuale potrebbe rappresentare un ‘ordinamento’ dei materiali architettonici, di situazioni spaziali, di morfologie e tipologie di occupazione del suolo. Uno degli obiettivi della collaborazione con i partner cinesi è l’attivazione di un campo di monitoraggio in continuo rinnovamento, dove le verifiche possono attuarsi con la massima rapidità e dove può attivarsi un laboratorio progettuale di sperimentazione, col fine di elaborare un programma di recupero che integri conservazione, valorizzazione, e riqualificazione architettonica attraverso una rigenerazione dell’area. Questi obiettivi si ottengono attraverso strategie generali di progetto che, a livello urbano e architettonico, comportano il mantenimento del micro tessuto urbano, della vegetazione e della proporzione tra l’altezza degli edifici e l’ampiezza delle strade, delle tradizionali tipologie abitative, della qualità dello spazio di interazione tra pubblico e privato e la valorizzazione del patrimonio storico. Occorre rendere sostenibile il progetto trasformativo, evidenziando e prefigurando la fattibilità dell’intervento con grande attenzione anche agli aspetti formali, percettivi e di immagine, che determinano effettive ricadute in termini di qualità urbana. Occorre precisare, pertanto, gli aspetti da ritenersi caratterizzanti per definire l’immagine urbana, che per certi versi è dinamica e in continua trasformazione, e per altri trova una sua stabilità nell’identità storica che è l’esperienza del passato. Marianna Calia
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Rappresentazione e rigenerazione per la qualitĂ urbana in Cina: il caso di Guangzhou
Bibliografia
Cagnardi A. (2008), Ritorni da Shanghai. Cronache di un architetto italiano in Cina, Allemandi, Torino. Crow D.G. (1998), Historic Photographs of Hong Kong, Canton & Macao, Hong Kong. Lin N. (2001), Architecture in Shenzhen. In: A.A. V.V., Great Leap Forward. Harvard Design School Project on the City, Tashen.
Marianna Calia
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Faraway, so close. Nuove geografie in Malesia: il caso di Cyberjaya
Faraway, so close. Nuove geografie in Malesia: il caso di Cyberjaya Tullia Lombardo Università di Ingegneria di Padova ICEA - Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile, Ambientale Email: tullia.lombardo@unipd.it
Abstract L’intensità dello sviluppo urbano che oggi interessa il continente asiatico rende difficile comprendere dal punto di vista teorico le sue reali tendenze: ci troviamo di fronte a forme insediative ancora da catalogare e nominare o possiamo, invece, riconoscere modelli già noti alla riflessione urbanistica per quanto modificati? Il caso di Cyberjaya, new intelligent-garden city in Malesia, sembra paradigmatico di un orientamento della pianificazione asiatica che al tempo stesso ricerca spazi urbani iper-infrastrutturati e a misura d’uomo e attinge ampiamente da teorie e pratiche urbanistiche tradizionali. La ripresa non è mimetica: i modelli vengono combinati e ibridati per essere piegati a nuove politiche territoriali. Parole chiave politiche territoriali, modelli urbani, tecnologia multimediale Nel 1991, il Primo Ministro malese Mahathir Mohamad lancia la Vision (Wawasan) 2020 per promuovere lo sviluppo economico nazionale e rendere la Malesia del 2020 un Paese completamente industrializzato con standards di vita paragonabili a quelli europei o nord americani (Doolittle, 2007). Il principale motore del nuovo progresso è costituito dalla creazione di un sistema di corridoi infrastrutturali high-tech, battezzato Multimedia Super Corridor (MSC), cui verranno collegate nuove intelligent-garden cities, cioè città-giardino iper tecnologiche. La Vision dunque immagina di arrivare a un nuovo ordine economico e sociale attraverso un programma di fondazione che sembra ripetere i principi formulati da Howard alla fine dell’Ottocento, sebbene declinati in chiave tecnologica. Ma come si realizza il paesaggio immaginato? La tesi qui sostenuta è che, ben più della teoria della città-giardino, due principali fattori influenzano l’idea della Vision e i progetti in corso di realizzazione: 1. il retaggio delle precedenti politiche di fondazione malesi; 2. l’assorbimento acritico di modelli nord americani. Il primo fattore determina i meccanismi di esecuzione delle città nuove e condiziona le loro relazioni con il resto del territorio; il secondo, invece, suggerisce lo stile di vita che si considera auspicabile e influisce sul disegno del futuro spazio urbano. Il risultato è una versione distorta del modello della città-giardino che, anziché portare a un piano vantaggioso per l’intera nazione, sembra produrre nuovi processi di marginalizzazione.
L’utopia tecnologica della Vision 2020 Il programma della Vision 2020 prevede uno sviluppo in 3 fasi successive. La prima, già ultimata, ha portato alla realizzazione di un primo corridoio (MSC Malaysia) che collega la capitale Kuala Lumpur al suo aeroporto internazionale. La seconda, che, contrariamente alle aspettative iniziali, non solo non è conclusa, ma ancora non è stata inaugurata, prevede di replicare il primo corridoio in una rete che si sviluppa a partire dalla capitale fino a raggiungere altre zone nevralgiche dello stato. La terza punta all’estensione dei benefici derivati dall’infrastrutturazione tecnologica all’intera nazione. (fig. 1) Tullia Lombardo
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La Vision cavalca l’onda del progresso generato dai nuovi mezzi di comunicazione digitale e re-immagina la Malesia, già sviluppatasi intensamente dopo l’indipendenza post-coloniale, come un futuro hub telematico internazionale, snodo importante nel mercato globale (Bunnell, 2004; Mee, 2002).
Figura 1. Le fasi di sviluppo e gli obiettivi del Multimedia Super Corridor. (Fonte: Brooker, 2008)
La Vision si propone non solo di favorire la crescita economica malese alla macroscala, ma anche di correggere alcuni squilibri interni: intende, infatti, convertire il modello attuale in cui le principali attività industriali, terziarie e commerciali sono concentrate quasi esclusivamente nelle grandi regioni metropolitane, prima fra tutte quella di Kuala Lumpur, in un sistema capace di inglobare parti di territorio sempre più ampie e di estendere progressivamente lo sviluppo all’intero suolo nazionale. Grazie ai nuovi mezzi virtuali di telecomunicazione, alcune regioni oggi periferiche, o addirittura sottosviluppate, dovrebbero diventare competitive prima su scala nazionale e poi anche a livello mondiale. Tanto è vero che la rete di corridoi multimediali viene propagandata non solo come “il regalo della Malesia al mondo”, ma anche come un “bene pubblico comune” (Mee, 2002). Per innescare il processo di ridistribuzione delle risorse economiche, la realizzazione di corridoi multimediali verrà accompagnata dalla costruzione di nuovi centri strategici, delle cyber-cities. Queste saranno connesse a una rete internazionale di altre città altamente tecnologizzate. L’obiettivo finale è di arrivare alla fondazione di dodici città. Fino ad ora, a partire dal 1997, è stato in parte realizzato solo il primo prototipo, Cyberjaya, collegata all’unico corridoio ultimato (Mittner, 2012; Keeton, 2010). Cyberjaya è il progetto-bandiera della Vision 2020 e viene promossa come una intelligent-garden city, una “città ideale” in cui uomo, tecnologia e natura siano perfettamente integrati (Bunnell, 2002). La città dispone quindi di un complesso apparato di sistemi digitali: una potente rete di fibre ottiche a banda larga in grado di connettere tutti gli edifici, portali di commercio on-line e di tele-medicina, domotica per abitazioni e scuole. Avveniristico nelle dotazioni tecnologiche, il progetto di Cyberjaya è invece più tradizionale per quel che riguarda la morfologia urbana. Riprende, infatti, i principi elaborati da Howard nel modello della città-giardino e prevede la costruzione di luoghi a bassa densità insediativa immersi nel paesaggio tropicale. Sempre secondo il modello originale della città-giardino, Cyberjaya viene proposta come un’alternativa alle caotiche metropoli esistenti. Pur essendo localizzata nelle vicinanze della periferia della capitale e ad appena una quarantina di chilometri dal suo centro, vuole essere uno spazio “altro” e opposto a Kuala Lumpur: un ambiente ideale in cui gli esseri umani possano vivere e lavorare, lontani dalla congestione e dal traffico e circondati solo da un paesaggio ancora selvaggio. Esiste però una differenza fondamentale con le città-giardino tradizionali che erano autonome ma sempre connesse a una città principale: Cyberjaya, intelligent-garden city, non ha necessità Tullia Lombardo
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di nessuna relazione con le città esistenti. Grazie alla capacità delle nuove tecnologie di colmare grandi distanze, il piano di decentramento della Vision vuole portare a uno sviluppo eco-sostenibile della Malesia evitando completamente la grande dimensione urbana. Cyberjaya promette di essere un luogo-rifugio fisicamente isolato e contemporaneamente connesso al resto del mondo da una rete virtuale ovunque presente. Faraway, so close. Il programma di fondazione della Vision, dunque, sembrerebbe sostenuto dalle più recenti acquisizioni digitali nel combinare i principi compositivi della città-giardino di Howard con un modello territoriale diverso, non più policentrico e gerarchico, ma policentrico e isotropo. Una tale variante è, però, precedente alla strategia della Vision 2020 e affonda le proprie radici nella storia delle politiche territoriali post-coloniali in Malesia.
La via malese alla città-giardino Il ricorso alle teorie della città-giardino non è una novità nella pianificazione malese, anzi costituisce l’elemento di continuità fra politiche territoriali coloniali e post-coloniali. Il fenomeno si spiega in termini storici: fino al 1957 la Malesia era stata per più di due secoli una colonia britannica ed è naturale che l’influenza della potenza dominante non sia rimasta relegata solo alla sfera politica, ma abbia permeato anche la formazione della classe tecnica. I modelli occidentali, per quanto importati, fanno parte del background culturale e lasciano inevitabilmente la loro impronta sulla pianificazione post-coloniale (Mee, 2002). Shah Alam, la prima città-giardino fondata dopo l’indipendenza nella metà degli anni Sessanta, ripete il modello di Petaling Jaya, la prima città-giardino realizzata in Malesia nel 1952 ancora sotto la dominazione britannica. Entrambe, come le new towns inglesi, rappresentano l’espressione di una politica di controllo della crescita metropolitana intrapresa centralmente dal Governo e attuata attraverso la formazione di nuove polarità urbane, indipendenti e complementari ai grandi centri. Ma negli anni Settanta, il modello territoriale della città-giardino subisce una deformazione dovuta al mutato ruolo dell’autorità statale. Lo Stato comincia a costruire città nuove non solo per regolare lo sviluppo urbano, ma anche per industrializzare regioni rurali poco sviluppate. Non disponendo delle risorse necessarie per sostenere autonomamente simili interventi, lo Stato si assume l’onere di realizzare le infrastrutture destinate a collegare le città nuove con i principali centri urbani; affida, invece, a compagnie private lo sviluppo produttivo incentivandolo con particolari agevolazioni. In una svolta neo-liberista le nuove città di frontiera, per quanto progettate sempre secondo i principi compositivi della città-giardino di Howard, sono destinate a diventare nuovi poli industriali in mano a investitori privati. Il piano di sviluppo industriale, però, non ha avuto fortuna. Le facilitazioni statali, infatti, non sono state sufficienti per attrarre nuovi impianti e le città realizzate − Bandar Jengka, Bandar Muadzam Shah, Bandar Tenggara, Bandar Penawar, etc. − hanno mancato il loro originario obiettivo di dare un impiego alla popolazione locale. (Lee, 1987) Un’analoga strategia viene oggi riproposta nella Vision 2020 per quanto con reti multimediali al posto di infrastrutture viarie e con il terziario avanzato al posto dell’industria manifatturiera. Si pensa che il miglioramento della qualità dei collegamenti e del tipo di attività garantirà questa volta un risultato positivo, anche perché le nuove cyber-cities mirano a richiamare investimenti privati internazionali. Sono previsti, infatti, incentivi molto favorevoli e decisamente orientati verso il mercato del capitalismo globale: sgravi fiscali, compressione delle spese di gestione (elettricità, gas, ecc.), disponibilità di terreni a basso costo e assenza di calmieramento nell’assunzione di impiegati stranieri (Bunnell, 2002). La Vision 2020 propaganda come interesse nazionale ciò che in pratica verrà realizzato con ampi margini di libertà da multinazionali straniere che agiscono al di fuori del controllo dello Stato. Come è facile intuire, tuttavia, le agevolazioni accordate alle compagnie straniere che hanno investito nel primo MSC e nella città di Cyberjaya non potrebbero essere estese al resto del Paese senza minare gli interessi più generali del Governo in termini di politica interna e sovranità economica. Lo Stato, per non compromettere la propria stabilità e non abdicare completamente al proprio potere sul suolo nazionale, ha isolato l’area del primo MSC proclamandola un test-bed sperimentale. Il campo di applicazione dei principi neoliberisti è quindi delimitato spazialmente e così riportato a una forma di controllo (Bunnell 2004; Boey, 2002).
L’utopia tradita Le condizioni appena illustrate, sancendo una netta separazione fra la zona MSC e il resto del territorio, compromettono seriamente l’ideale ecumenico di una nazione priva di barriere e differenze vagheggiato dalla Vision 2020. I nuovi spazi, inoltre, non sono destinati alla popolazione locale, ma a una classe imprenditoriale internazionale: un simile scopo influisce sulla loro progettazione. Per definire il nuovo spazio multimediale del MSC e di Cyberjaya, i progettisti sono stati spinti a “lasciare” la Malesia e sono stati proiettati nell’universo di immagini del capitalismo globale. Le forme spaziali prescelte per attrarre i futuri compratori non sono state estrapolate dalla città-giardino, ma da esclusivi sobborghi americani.
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Nelle fasi preliminari della redazione del piano di Cyberjaya, il team di progettisti − di nazionalità malese, ma coadiuvati da consulenti australiani e americani − è stato spedito in un tour organizzato dal Governo per visitare alcuni luoghi considerati esemplari: le destinazioni erano solo negli Stati Uniti. Oltre a San José nella Silicon Valley e Irvine, una città tecnologica di nuova fondazione del 1973, il gruppo si è fermato a Redwood Shores, una nuova città giardino californiana del 1964 situata nell’elitaria San Mateo County, e a Celebration, in Florida (Brooker, 2008, Lepawsky, 2005). Celebration, in particolare, progettata da Robert Stern per la Disney nei primi anni Novanta, è uno degli esperimenti modello del New-Urbanism americano ed è costituita da un insieme di cottages in stile disposti a circondare un grande lago centrale. Celebration rappresenta il suburbio americano perfetto in cui l’ideale del parco tematico rende le eleganti abitazioni private immerse nel verde talmente levigate da sembrare una finzione. Anche il documento ufficiale che riporta le linee guida del MSC, il Physical Design Guidelines for the Multimedia Super Corridor del 2000, è influenzato da un simile repertorio di riferimenti. Il testo e le immagini che lo corredano ruotano attorno a concetti chiave, come «sub-urban» e «middle class urban design», che sono desunti da uno stile di pianificazione nord americano. Lepawsky sostiene che l’obiettivo delle Guidelines, che sono una pubblicazione governativa, è di addomesticare alcune forme spaziali ancora estranee alla cultura malese per renderle modelli universalmente replicabili e addirittura auspicabili per lo sviluppo nazionale. Le immagini, in particolare, hanno lo scopo di rappresentare visivamente il tipo di spazio considerato esemplare e di renderlo, così, familiare al pubblico. (Lepawsky, 2005) Ad esempio, il quartiere residenziale prototipico è composto da una serie di abitazioni individuali separate da recinti e alberi ed è praticamente sprovvisto di luoghi centrali o di spazi pubblici, confinati solo nelle bande verdi che affiancano il viale principale. Non ha l’articolazione urbana complessa per quanto rarefatta nel verde della città-giardino di Howard, ma è un campione di tessuto estrapolato da un esclusivo suburbio americano. Il luogo ideale per vivere è quindi dominato dallo spazio privato e individuale. Il disegno della tipica casa unifamiliare insiste sulla dimensione della privacy. I singoli giardini non saranno confinanti, ma useranno come schermo le abitazioni: la loro intimità verrà quindi protetta dai contatti con i vicini. (fig. 2) Vengono riportate anche alcune scarne indicazioni su quali saranno le forme dello spazio pubblico attraverso immagini che rappresentano esclusivamente percorsi ciclo-pedonali, parchi tematici e shopping mall (fig. 3). Le Guidelines sembrano indicare che non vi sia la necessità di luoghi di aggregazione più complessi: nelle nuove cyber-cities la dimensione urbana è completamente assente e l’abitazione privata diventa un microcosmo autosufficiente. Il suburbio americano è un esempio concreto che, senza tenere conto dei limiti o dei problemi connessi a una simile urbanizzazione − monotonia dell’ambiente costruito, mancanza di luoghi pubblici, consumo di suolo e difficoltà degli spostamenti −, viene estrapolato dal suo contesto e sublimato come modello virtuoso e universale. Una volta compiuto il processo di idealizzazione non viene costruita nessuna organizzazione spaziale più articolata. Il suburbio-campione diventa l’unico elemento che costruisce il nuovo paesaggio. L’opera delle Guidelines giustifica una realtà che paradossalmente assume le caratteristiche di un sistema di gated-communities. Il risultato capovolge le finalità della Vision che resta solo un’utopia tecnologica e non porta a un tessuto connettivo eco-sostenibile. Il mondo virtuale dei flussi, fluido e senza barriere, continuo ed egualitario, non si espande liberamente in tutto il territorio, ma viene compresso in monadi separate e isolate (King, 2008). Il risultato è un paesaggio non unitario e organico, ma frammentario e discontinuo. Ingenuità o intenzione? Forse è possibile leggere le proposte abbozzate nelle Guidelines come una spia di quello che sta accadendo nella pianificazione territoriale non solo in Malesia, ma anche in altri Paesi asiatici come l’Indonesia e la Cina. Nonostante le differenze fra i diversi casi, alcune ricerche stanno mettendo in evidenza la sempre più marcata tendenza dei vari Governi a incentivare la costruzione di enclaves private. Se nei Paesi occidentali la costruzione di simili dispositivi è un processo che è avvenuto, e avviene, senza essere sostenuto apertamente da disposizioni governative, nei Paesi emergenti sembra diventare parte integrante delle politiche nazionali. Una tale strategia, anche se porta all’abdicazione del controllo statale sulla crescita urbana, sembra, in ogni caso, la più idonea a gestire il forte sviluppo. (Hornsby & Mars, 2008; Hogan & Houston, 2002)
Tullia Lombardo
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Figura 2. Il prototipo di spazio urbano e di unità abitativa riportato nelle Physical Design Guidelines for the Multimedia Super Corridor del 2000 . (Fonte: Lepawsky, 2005)
Distanze immaginate e distanze reali In tale quadro asiatico, il caso malese mostra le aporie di una fiducia totale nelle potenzialità delle reti multimediali. Mostra soprattutto le ambiguità inerenti all’importazione di modelli di vario tipo, i cui effetti a lungo termine sul territorio non sono stati calcolati in modo appropriato. La Vision si è fondata sulla convinzione che le nuove tecnologie avessero la capacità di superare le barriere spaziali; infatti, i corridoi multimediali vorrebbero colmare due distanze: quella fra la Malesia e gli altri Paesi, per garantire un mercato globale, e quella interna, fisica ed economica, per assicurare una più equa distribuzione delle risorse fra le aree urbane e quelle rurali.
Tullia Lombardo
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Faraway, so close. Nuove geografie in Malesia: il caso di Cyberjaya
Figura 3. Il modello di spazio pubblico nelle Physical Design Guidelines for the Multimedia Super Corridor del 2000: shopping mall e parchi tematici. (Fonte: Lepawsky, 2005)
Invece, il primo MSC realizzato e Cyberjaya stanno diventando enclavi separate dal resto del territorio e destinate solo a un’internazionale e privilegiata classe di cittadini, mentre il resto del Paese viene sempre più marginalizzato. A rimanere esclusi non sono solamente le regioni rurali periferiche ancora poco sviluppate, ma anche gli attuali centri principali. La prospettiva distorta è ben rappresentata nell’immagine che correda l’articolo uscito sulla rivista finanziaria malese The Star nel luglio del 1997. L’ambiente sovraffollato, malsano e difficilmente pianificabile delle grandi megalopoli esistenti rimane sullo sfondo, ma è sempre presente; mentre la nuova città-giardino dall’aria pulita, i grandi spazi verdi e le case isolate è un sogno destinato solo a un’elite agiata. (fig. 4) Cyberjaya è stata propagandata come l’esperimento di quel luogo ideale in cui in futuro tutta la Malesia potrebbe essere trasformata, invece nella realtà diventa uno spazio privatizzato da cui è esclusa la maggioranza della popolazione.
Tullia Lombardo
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Faraway, so close. Nuove geografie in Malesia: il caso di Cyberjaya
Figura 4. La deformazione dell’utopia urbana nella vignetta di The Star del luglio 1997. Nella didascalia ci si interroga se l’ambiente urbano di qualità verrà privatizzato al miglior offerente e le nuove città utopiche malesi diventeranno il regno solo dei privilegiati (Fonte: Bunnell, 2002)
Bibliografia
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Mediterranean Futures Mathilde Marengo Università degli Studi di Genova Scuola di Dottorato di Architettura e Design Email: mathilde.marengo@yahoo.com Tel. (+39) 3477908791
Abstract The Mediterranean has always been and today continues to be a crucible of social and economical fluxes and exchanges, a field of un-interrupted inter-relations. Ricci (2012) remarks that “cities [in particular Mediterranean cities] tend to lose a precise physical connotation and become, more and more, fields of relations”1. De Carlo(2004) describes the Mediterranean city as a città tortuosa: a meandering thread showing an unexpected face at each turning of a corner. This, I believe, is the perfect setting for the study of the avantgarde city, the city of tomorrow; cities that are evermore inter-twined and inter-related so that change in one has repercussions on a much more global scale. This paper intends to investigate the present and future of the Mediterranean through the study of three research projects that study the particularities of the Mediterranean’s inter-related multi-cities, that is what is to become of these cities, or this city of cities, and what is their potential future? The Mediterranean has always been and today continues to be a crucible of social and economical fluxes and exchanges, a field of un-interrupted inter-relations. Ricci (2012) remarks that “cities [contemporary cities in general, and in particular Mediterranean cities] tend to lose a precise physical connotation and become, more and more, fields of relations”2. Considering a series of Mediterranean urban agglomerates as a single metropolitan area is not a new concept; Braudel describes the Mediterranean as a network of cities hand in hand. A network where cities are linked together in spite of existing contradictions and tensions, as is the case of the Latin Arc, a vast geographical area, which extends along the coastline from Portugal to Italy. It has a population of over 70 million residents, living in a multiform landscape with a number of common cultural, historical, socioeconomic, climatic and environmental factors and values, which produce a specific identity of significant importance in the European context. These points of cohesion are evermore extended, creating a situation where the Mediterranean cities become bonded to one another, a state of unity, with a strong identity. It is an image and a way of life (Mediterranean diet, dressing, posturing) shared both by its inhabitants and by outsiders who identify with their everyday way of life. Matvejevic spurs us to re-consider and re-think the ideas of Braudel (the "Grand Master") in a contemporary key. “These words of Ferdinand Braudel –he writes- are often used as a preamble to erudite debates regarding the Mediterranean Sea. These ideas of the Grand Master demand to be re-thought and actualised.”3 In 1996, in the occasion of an exhibition on the new shapes of the Italian territory, the Itaten research group presented Italia di Notte, a zenithal image of Italy by night. On the basis of this image one can observe a continuous urban milky way pervading the nocturnal landscape. A multitude of lights, which intensify along important communication lines and thin out and disappear only in correspondence with the mountains and the sea. This new geography of the country no longer follows administrative borders, it lacks defined limits. Just 1
“Le città tendono a perdere una precisa connotazione fisica e diventano sempre più campi di relazioni..” (translation mine). Ibidem 3 “Ces mots de Ferdinand Braudel, [...] servent souvent d'exorde aux savantes élucubrations concernant la mer méditerranéenne. Ces idées du grand maitre demandent à être repensées et actualisées.” (translation mine). 2
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like a single city, composed by thousands of smaller ones, which intersect with and superimpose upon one another (Ricci, 2003). This image suggests that, as far as Italy is concerned, its urban coastal fabric may well be considered a single entity, a continuous linear city whose physical boundaries are set by the mountains and the sea. In fact “today urban and metropolitan phenomena in the Mediterranean area and elsewhere, end up altering the nature of all the basic parameters that define the city: density, centrality, dimension, societal behavior, public character…etc”4 (Ciorra, 2012). This particular viewpoint has been investigated through a number of research projects and field applications in a series of diverse Mediterranean contexts. Zardini (2006) affirms that it is necessary to acknowledge “the existence of a much more complex and articulated urban system than the mere sum of the diverse traditional entities” 5. And “in a moment of profound transformation it seems necessary to abandon, even only for a brief exploration, consolidated ideas and models, to think of a “Metropoliriviera”, […] the “No Mare” research project originates from this need" 6. We can thus see that this particular phenomenon of urban cohesion has already been observed in the Adriatic area, and not only by Zardini and his research group. In particular, Ciorra (2012) notes that today “the “coastal system” of the middle Italian Adriatic attracts new and particular interest. […] It has in fact become one of the more typical big scale Italian conurbations (LombardyVeneto; Southern Lazio; Napolitan Area) and therefore an essential “model” to understand the new local, and also global, urban phenomenon. The “Extended City” that connects Southern Romagna, Marche and Abruzzo, […], in fact has the typical characteristics of the sprawling and never ending city of today.” 7 However this phenomenon has not only been observed on the Adriatic coast, but in many areas along the Mediterranean coastline, where the need is felt for new interpretative and avant-garde models to better comprehend current developments of the Mediterranean coastal city, and its future transformations. Ricci (2012) explains that “the general objective of the PICity research project is to build an interpretative model of the city no longer related to the administrative borders of each of its centers, but to a broader conurbation, in which the settlement logics of the never ending city come into conflict with weaker and more unstable realities. […] The new urban settlement conditions and life styles have transformed the sequence of eight municipalities between Savona and Genoa into a cohesive linear city with mainly residential and touristic residential character.” 8 The need therefore arises to find ways of reading the Mediterranean context and envisioning and defining its future in an avant-garde key, anticipating change, placing ourselves ahead of our time and current reality, breaking away from existing constraints and projecting our view towards the future. De Carlo (2004) has described the Mediterranean city as a città tortuosa, that is a meandering thread showing an unexpected face at each turning of a corner. This appears to be the perfect setting for the study of the avant-garde city, the city of tomorrow; tomorrow's Mediterranean cities will be evermore inter-twined and inter-related so that change in one will have repercussions on all others. What is to become of these cities of the Mediterranean, a city of cities? And what is potentially their future?
Avant-garde case studies in the Mediterranean Gausa (2009) points out that “we often find ourselves obliged to explain that the interest in the comprehension of current urban transformation processes – evermore dynamic and irregular – in the territory is not merely dependent on the fascination exercised by the “sprawl”, “chaotic” or simply “casual” city, but rather on a purposeful design: that of formulating new organizational parameters and/or systematic restructuring, which do
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“oggi i fenomeni urbani e metropolitani dell’area mediterranea e non, finiscono per alterare la natura di tutti i parametri basilari della definizione di città: densità, centralità, dimensione, modi della socialità, carattere pubblico eccetera.” (translation mine). “iI riconoscimento dell’esistenza di un sistema urban molto più complesso e articolato della pura sommatoria delle diverse entità urbane tradizionali.”_”in un momento di profonde trasformazioni sembra però necessario abbandonare, anche solo per una breve esplorazione, le idee a i modelli consolidati, per pensare alla “Metropoliriviera”, [...] da questa esigenza nasce la ricerca “No Mare”.” (translation mine). Ibidem “Oggi il “sistema costiero” del medio adriatico italiano assume nuovo e particolare interesse. […] si è infatti trasformato in una delle più tipiche tra le grandi conurbazioni italiane (Lombardo-Veneto; il Lazio meridionale; l’area napoletana) e quindi in un “modello” essenziale per inquadrare i nuovi fenomeni urbani locali e quindi globali. La “grande città” che unisce la Romagna meridionale, le Marche e l’Abruzzo, […], ha infatti le caratteristiche tipiche della città dispersa e interminabile di oggi.” (translation mine). “L’obiettivo generale del lavoro è di costruire un modello interpretativo di città non più riferita solamente ai confini amministrativi dei singoli centri che la descrivono, ma ad una conurbazione più ampia in cui le logiche insediative della città infinita entrano in conflitto con realtà più deboli e instabili. […] Le nuove condizioni insediative e i nuovi stili di vita hanno trasformato la sequenza degli otto Comuni tra Savona e Genova in una città lineare coesa a carattere prevalentemente residenziale e residenziale turistico.” (translation mine).
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away with the traditional “form” of what used to be considered to be a “city” 9. “How can one actively anticipate the ways cities change? How can we place ourselves ahead of our time, and translate this into a vision? Specifically, in the Mediterranean, where it seems that, today all the basic parameters that define the city are altered by its urban and metropolitan phenomena. This paper investigates the present and future of the Mediterranean through the study of three, among the many, research projects which study the particularities of the Mediterranean’s inter-related multi-cities and their potential future, proposing new and avant-garde approaches.
A new perspective: Tattiche10 The Mediterranean city, or meandering city, is for Fabrizia Ippolito a territory of exceptions. It is a setting where tattiche (tactics) come into play. Tactics, are not to be confused with strategies, which unfold towards a predefined goal or aim; they are “random answers to contingent necessities, approaches which, through tradition, habit, imitation, free access to both similar and very diverse models, which happen to be available, undermine from within the built-in order.” (2012b)11 Ippolito uses the problematic concept of tactics, as the tool to read and interpret the context of Naples, highlighting its Mediterranean connotations. This approach changes the way we perceive those spontaneous elements of self-organization and development, including the erection of illegal buidings, no longer regarded as obstacles or problems, but as a fully integrated part of the urban landscape, a starting point and opportunities to be factored in when planning for the city’s future development; hence engaging in a pro-positive attitude rather than trying to “fix” what is “wrong”. Can this view of perceiving tactics and giving them a positive value help bringing forth the real and compelling problems of the Napolitano context? Ippolito describes Naples as a “dense city: of inhabitants, buildings, urban forms, traces from all historical periods, the passing of many different populations, landscapes and archaeological values, cultural heritage, natural and entropic risks, environmental and criminal threats. And it’s a porous city, that builds on itself, that transforms itself through adaptations, stratifications, grafts, substitutions. A precarious city, starting with the presence of the volcano. A city in which nature is an impulse, emergency is an occasion, criminality is a system; whose identity is so emphatic that it risks feeding upon itself, requiring a considerable effort to free itself from the myth of exceptionality.”(2012b) 12 She believes that in a city of this caliber these constantly present tactics allow to metabolize emergencies and normalize the extraordinary. This concept of tactics, the common practices which are constantly changing the reality before our eyes, may be more helpfull than "project strategies and plans which impact heavily on the quality of the city" (2012b)15, towards describing the reality of this territory and to generate new and creative visions for Naples. Through her research, Ippolito proposes many diverse and innovative ways to read and perceive the territory of Naples. One of these is to tell the tale of the city as if it were a game, using this same game as a tool to decode the city’s development. In Casette. Abitare la città dispersa (Little houses. Living in the scattered city) she proposes to consider the urban context as a game board “that is modified over time by many diverse, simultaneously played, individual games consisting of a series of moves that deal with the realization, modification and presentation of a single element, the house”13, intended in this particular sense as the iconic form of a house. Another way is the collection of stories, that tell the tale of uncertainty in a city at the foot of a volcano, the Vesuvian city. “While the policies of risk mitigation study relocation programs, and the evacuation plans set escape strategies, the day to day practice of the inhabitants suggest a certain determination to staying. Day-to9
“Spesso ci siamo visti obbligati a spiegare che l’interesse per la comprensione degli attuali processi di sviluppo della città - sempre più dinamiche e irregolari - all’interno del territorio non è vincolato al mero fascino esercitato dalla città “diffusa”, “caotica” o semplicemente “casuale”, bensì a una volontà attivista: quella di concepire nuovi parametri di organizzazione e/o ristruttutazione organizzati a prescindere dalla “forma” tradizionale di ciò che si riteneva essere la “città”.” (translation mine) 10 Tattiche, Fabrizia Ippolito, il melangolo, Genova, 2012 11 “tattiche […] sono le risposte occasionali ad esigenze contingenti, i modi di fare che attraverso la consuetudine, l'imitazione, il libero ricorso a modelli vicini e lontani per qualche motivo a disposizione sovvertono all'interno di un'ordine costruito.” (translation mine). 12 “Napoli è una città densa: di abitanti, di costruzioni, di forme urbane, di tracce di tutte le epoche, di passaggi di molte popolazioni, di valori paesaggistici e archeologici, di beni culturali, di rischi naturali e antropici, di allarmi ambientali e criminali. Ed e una citta porosa, che si costruisce su se stessa, che si trasforma per adattamenti, per stratificazioni, per innesti, per sostituzioni. Una citta precaria, a partire dalla presenza del vulcano. Una citta in cui la natura e una forza, l’emergenza e un’occasione, la criminalita e un sistema; la cui identita e cosi pregnante da rischiare di autoalimentarsi, da richiedere uno sforzo di liberazione per uscire dal mito dell’eccezionalita.” (translation mine). 13 “il piano di gioco è un luogo, modificato nel tempo da tante partite singole condotte contemporaneamente da diversi giocatori per successione di mosse che riguardono la realizzazione, la modificazione e la declinazione di uno stesso elemento, la casa.” (translation mine). Mathilde Marengo
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day expediencies translate the uncertainty as an architectural theme and a feature of the city; stories of daily coexistence with the volcano illustrate the articulation of this uncertainty.” (2012b)14 The stories together form a map, generating a new geography of the Vesuvian city highlighting the everyday invention, resistance and innovation of the inhabitants and generating new concepts relative to this context and its landscape, its safe keeping and the value of its use. A third way is the collection of waste in the story of Scarti. Abitare la città esclusa (Waste. Living in the discarded city). Waste defines a discarded city, literally. This discarded territory is marginalized, ignored from future vision of the city, despite the fact that what we discard is often suggestive of what we choose to keep. “waste is inevitably complementary to any form of project, what we discard in our urban environment is bound to be revealing of our urban project.” (2012b) 15 From this point of view our waste-scape should lead us to reconsider and review our urban projects and how we go about realizing them. These and many other new ways of reading the urban context, suggested by Fabrizia Ippolito, change the way we perceive this context, and consequently plan and define its future. As Ippolito puts it: “the list could go on. Each of these situations has something to do with emergency – illegal building, eruption, criminality, waste, earthquakes – and with day-to-day living, each of them refers to the exceptionality of Naples and to the common practice of exceptions. From all of these emerges the strength of a multitude of individual actions, containing an unconscious vision of the city.” (2012b)16
From context to vision: PICity17 PICity studies the dynamics and explores the development scenarios and thrusts of a 25 km long coastal system which extends from Arenzano to Vado Ligure. The main objective of this research project is to build an interpretative city model no longer referred to single local contexts, but to a 25 km long linear conurbation. This linear conurbation is part of a more extended and morphologically complex territorial system called the “Arco Latino”, in which the settlement dynamics of the never-ending city (Bonomi, Abruzzese, 2004) come into conflict with weaker and more unstable realities. Giving transparency to current transformation processes and building active participation frameworks jointly with local administrations allow marginal contexts, peripheral realities, urban voids and excluded areas to play a role in optimizing the sustainable development of the territory. Relationships between population, urban fabric and natural landscape, between local economic activities– especially in the nautical sector – and the city, between infrastructure and commuting times, beach accessibility and tourism – both in terms of availability of supply and possible seasonal uses -, and the relation between the coast line and the hinterland are therefore factored-in. The outcome of the first phase of the research project is the description of the system of territorial constraints on which not so much to build a specific and predefined project model, but to formulate strategic visions for possible developments. To ensure a dynamic progress, to this phase of the project is also allocated the task of mapping out arrangements to measure the induced effects and impacts of all main stakeholders: from starters-up to top managers, from private to public stakeholders. The purposeful efforts of generating a vision represent a significant alternative to prevailing practices, which should work in favour of the qualities of the contexts analysed in an inter-scalar way, prefiguring the definition of places based on the interactions between living spaces, life-styles and production methods. These “images” of the future are necessary to focus on strategic questions, to orient settlement choices, and to come clean of traditional planning methods which seldom manage to handle these ongoing mutation processes, while always struggling under their effects. The four visions generated– GREENCITY, METROCITY, BRICKCITY and LEISURECITY – represent ecological quality objectives, where trend is a crucial variable. The four visions are points of no-return for the management of change in urban spaces; they favour the formulation of strategies of development, which can cope with acceleration processes, as they are built on the basis of ongoing territorial change. If the scenarios described mirror the landscapes which succeed one another along the 25km of PICITY, mixing these different narrations 14
“Mentre le politiche di mitigazione del rischio studiano programmi di allontanamento, e I piani per l’evacuazione mettono appunto strategie di fuga, le pratiche dell’abitare esprimono ostinazione a rimanere. Dispositivi quotidiani di progetto interpretano la precarietà come tema delle architetture e come carattere della città; storie di convivenza quotidiana col vulcano presentano le declinazioni di questa precarietà.” (translation mine). 15 “lo scarto è il complemento inevitabile di qualsiasi forma di progetto, gli scarti della nostra condizione urbana rivelano forse qualcosa del nostro progetto di città.” (translation mine). 16 “L’elenco potrebbe continuare. Ognuna di queste situazioni ha a che fare con l’emergenza – abusivismo, eruzione, criminalità, rifiuti, terremoto – e la quotidianità dell’abitare, ognuna rimanda all’eccezionalità di Napoli e alla pratica commune dell’eccezione. Da tutte emerge la forza di una moltitudine di azioni individuali che contiene forse un’inconsapevole visione di città.” (translation mine). 17 (PIC)ITY is a university research project financed by Regione Liguria, the Province of Savona and the eight municipalities of west Liguria involved. The research project is coordinated by Prof. Arch. Franz Prati, Prof. Arch. Mosè Ricci and Arch. Gianluca Peluffo. Mathilde Marengo
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brings to evidence how for some realities the future is already clear, whereas for others this is not so. Working on these sensitive zones, defining their importance and role in a more extended perspective relative to a new reformed landscape, producing bluprints, also on an architectural scale, to remodel and translate the unrealized value of these situations, is the final and conclusive step to this research project. It tries to provide answers to future quality development strategies: its driving thought is that through the re-visualization of existing situations, one can attempt to re-read and re-see what has always been before them with different eyes, generating new solutions to give new meaning to existing realities. According to Marcel Proust “The real voyage of discovery consists not in seeking new landscapes, but in having new eyes”.
Defining visions: ecoLecce18 Ecolecce is a new generation urban planning proposal, inviting us to re-think how we envision and define the future of our Mediterranean cities. It offers an open platform for researching the territory of Lecce and formulating strategies for its future development. The objective of the research project is to set the framework in which to develop the Plan, anchoring the future of the city to landscape and environmental values and performances. The Plan proposes interpretations and actions developed under the form of themes, rather than the sketching of homogeneous zones or development areas (i.e. zoning), as in classical Italian urban plans. These interpretations and actions aim to activate a series of bottom-up processes fitting with strategies and contexts so as to generate an urban renewal based on the quality of landscape and the environment, working in consultation with its inhabitants. To this extent, the strategy of communication with the inhabitants was developed along with the urban plan itself: “it is not only an open platform for the development of territorial strategies, but also the project of their communication. It is a tool generating dialogue between the city and the territory, a tool for continuously advancing new territories, objectives and equilibrium of the project itself. It is a new way of intending participation.”19 As decades of attempts to plan, regulate and control land use in Lecce have generated an excess of built fabric, even in high environmental risk areas, the plan proposes to define contexts that have high potential for future transformation, rather than land uses or functional areas. The Plan identifies the following areas, Lecce’s Walls (Mura di Lecce), the University and the City (Università e Città), Islands for Living (Isole dell’abitare), Rural City (Città Rurale) and Marine Park (Parco delle Marine); it links the shapes and texture of the city to the various lifestyles and landscapes of its users, both permanent and temporary inhabitants, identifying a potential future of livable quality. “Ecology, sustainability and sensitivity to landscape are the paradigms for urban transformations, on which the new planning tool is founded and shared by the five contexts.” 20 The objective of the transformation project, both the Plan itself and its communication strategy, is the tangible quality of the environment and the territory. This is closely connected to the anticipation change, placing ourselves ahead of our time and the current reality, projecting ourselves towards the future forms and relationships, along the lines of sustainability, ecology, and landscape. “For the Municipality of Lecce rules and zoning have allowed a legal exploitation of non-renewable resources and unstoppable illegal constructions. In this sense, more than rules, there is the need for a cultural project, an open research platform that recognizes landscape values and defines environmental performances, founding on these objectives the urban future of the city.” 21 The communication strategy of the project allows to give transparency to this change, verifying and updating it, alongside and above all together with its inhabitants. The Plan’s communication thus becomes a starting point for the generation of new connections with the territory, rather than a mean of publicizing its conclusion. The findings of the three research projects bring comfort to the starting hypothesis, that the Mediterranean and, in particular the Mediterranean coast line provides fertile ground for the testing of avant-garde models of multicity urban development, and the trying of new complex, multi-disciplinary approaches to their conceptualization. In particular the three studies suggest that the complexities of the historical context, the often challenging environmental sustainability, and the rich and conflicting variety of the inhabitants' cultural background in Mediterranean settings, far from laying insurmountable obstacles, contribute challenging but credible scenarios to the drawing of the Mediterranean multi-city of the future.
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The research project preliminary to the new urban plan of Lecce was commissioned by the Municipality of Lecce in 2009 to the University of Genoa and the University of Salento. The research project is edited by Mosè Ricci with Federica Alcozer, Sara Favargiotti, Luca Mazzari, Clarissa Sabeto, Emanuele Sommariva, Jeannette Sordi. 19 Translation from Italian of the published paper: Jeannette Sordi, “Il paesaggio disegna la città futura? Il caso di Ecolocce” in Overview-Paysage Topscape: 9 (mar, 2012) 20 Ibidem. 21 Ibidem. Mathilde Marengo
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Mathilde Marengo
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by Planum. The Journal of Urbanism ISSN 1723 - 0993 | no. 27, vol. II [2013] www.planum.net Proceedings published in October 2013