XVI Conferenza SIU | Full Papers Atelier 2 | by Planum n.27 vol.2/2013

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Atelier

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Riduci/Riusa/Ricicla. Nuovi paradigmi del progetto urbanistico? Coordinatore Massimo Angrilli con Chiara Rizzi Discussant Mosè Ricci


Introduzione La proposta dell’Atelier è sorta dalla necessità di discutere, in seno alla comunità scientifica degli urbanisti, intorno alla seguente domanda: i principi del riduci/riusa/ricicla, adottati nelle politiche ecologiche che interessano soprattutto il ciclo dei rifiuti, possono contagiare positivamente l’urbanistica? L’obiettivo era quello di verificare se la migrazione di concetti potesse rivelare opportunità per un rinnovamento consapevole delle pratiche del progetto urbanistico. Le complessità di un sistema articolato di manufatti architettonici e infrastrutturali, per non parlare poi di quelle di un territorio, sono infatti tali da rendere molto difficili eventuali operazioni di trasferimento, senza gli opportuni adattamenti, di metodologie e prassi maturate altrove. Obiettivo della discussione è stato pertanto quello di verificare e comprendere la fertilità e insieme i rischi di una tale operazione di indagine. La prima impressione sul quadro generale è che oggi le riflessioni appaiono episodiche e talvolta legate a precedenti programmi di ricerca, fatti evolvere per effetto dell’onda d’urto di temi che si stanno affermando per le vie brevi della comunicazione interna al mondo dell’architettura. Ciononostante l’indubbia fertilità della regola delle 3R sembra stia positivamente influenzando la cultura dell’architettura, inserendosi coerentemente nell’alveo di un serio ripensamento sui modelli di sviluppo urbanistico che fino ad oggi si sono concentrati su concetti come espansione, consumo, abbandono. L’ampio spettro di argomenti indagati nel corso delle due giornate può essere, non senza difficoltà ed a costo di un certo grado di semplificazione, sintetizzato in alcune famiglie di tematiche. Una prima tematica concerne la dismissione ed il riciclo degli spazi del lavoro, riferiti prevalentemente alla produzione industriale e poi anche al terziario. I paper discussi si sono soffermati sulla constatazione del processo in corso, che vede sempre di più la formazione di un paesaggio della dismissione fatto di capannoni in disuso, risultato della crisi economica ed effetto di un processo di trasformazione dei sistemi produttivi. Un secondo tema si è riferito alla dismissione e riciclo delle infrastrutture, materiali urbani difficili da trattare, la cui dimensione e statuto giuridico spesso condizionano fortemente il processo di riciclo. Nuovi scenari della dismissione emersi nel corso dell’atelier sono anche quelli che coinvolgono i luoghi della cultura, in particolare i teatri, e quelli che coinvolgono gli spazi periurbani. In questi ultimi casi l’agricoltura urbana, portatrice di messaggi eticamente e socialmente positivi, è la pratica più spesso auspicata per il riciclo. La discussione ha poi toccato il tema dello scarto, con riferimento in particolare agli scarti delle economie in declino, quali quella rurale, ed agli scarti di processi di sovra sfruttamento delle risorse, come nel caso delle attività estrattive e, con caratteri naturalmente molto diversi, dei centri commerciali dismessi. Infine si segnalano le variegate ipotesi di riuso/ riciclo degli spazi aperti, che hanno portato all’attenzione dell’Atelier i temi della densità, dei vuoti urbani, del verde, del consumo di suolo, guardati da nuovi punti di vista.

Emerge dalle discussioni dell’Atelier un quadro molto composito ed eterogeneo, con proposte che restituiscono posizioni distanti e che confermano l’attuale difficoltà a traslare approcci provenienti da altri ambiti disciplinari al mondo del progetto urbanistico. Sembra manifestarsi inoltre con evidenza l’inadeguatezza degli strumenti concettuali ed operativi oggi a nostra disposizione, concepiti in un’altra stagione dello sviluppo, segnata dagli imperativi dell’espansione e del consumo. Non si tratta quindi di usare diversamente gli strumenti dell’urbanistica elaborati in precedenti stagioni, si tratta piuttosto di concepire nuovi strumenti che abbiano sullo sfondo nuovi paradigmi di progetto. Massimo Angrilli


Riduci/Riusa/Ricicla. Nuovi paradigmi del progetto urbanistico? Coordinatore Massimo Angrilli con Chiara Rizzi Discussant Mosè Ricci

02 Annie Attademo Riciclare i margini della città contemporanea Il caso studio di Hackney Wick e Fish Islands Alessandra Badami Le 3 R nel progetto urbanistico Metamorfosi del patrimonio culturale Maurizio Biolcati Rinaldi, Giulia Banzato Competitività di materiali “green” e tecnologia da fonti rinnovabili nella riqualificazione energetica di edifici scolastici Greta Brugnoli Urban Areas Recovery Daniela Caporale Un progetto con tre R da Piranesi al padiglione Tedesco alla 13° Biennale di Venezia Chiara Cavalieri Disegni di Riciclo Ludovico Centis Lo standard come costume. L’esperienza dei NIL nel PGT di Milano Francesca Cognetti Giardini-orti condivisi a Milano. Pratiche e politiche per una diversa crescita Fabio Converti Conoscere e patrimonializzare il territorio con le risorse nascoste: il caso della Provincia di Caserta Emilia Corradi, Aldo Casciana Il curioso caso della Costa Teatina De Marinis Esercizi di densità nei piani di Oriol Bohigas. Le densità come strumento di riqualificazione delle periferie residenziali Milena De Matteis, Sebastiano Roveroni Riuso e riciclo dei materiali urbani in declino. Opportunità instabili e strategiche di rigenerazione urbana e coesione sociale in tempi di crisi

Sara Favargiotti Airport Afterlife. La seconda vita degli aeroporti Maddalena Ferretti, Sarah Hartmann, Ines Lüder ‘Food and the City’ recycling wastelands in Hannover The continental area as a new urban hotspot Giulia Fini Shoot higher in time of crisis: le risposte della Municipalità di Amsterdam alla crisi economica in ambiente urbano. Strategie di azione e interventi per le aree terziare sottoutilizzate come spazio di sperimentazione del progetto urbanistico Alessandro Franceschini La Valle dei Laghi del Trentino: nuovi ipotesi per uno sviluppo ‘lento’ Roberto Gerundo, Isidoro Fasolino, Maria Veronica Izzo Riciclare contenitori e ridefinire contenuti in aree produttive dell’abbandono Irene Guida La linea e il circolo: Taranto, Baltimore Arturo Lanzani, Chiara Merlini, Federico Zanfi Irriciclabile. Fenomenologia dello spazio abbandonato e prospettive per il progetto urbanistico oltre il paradigma del riuso Massimo Lanzi Indifferenza e consapevolezza. Territori del consumo e tattiche di riciclo Sabrina Leone Riduci/Riusa/Ricicla Strategie di trasformazione qualitativa tra circolarità delle scale di progetto, radicamento culturale e rifondazione dell’approccio alla disciplina Barbara Lino Riciclare periferie Michele Manigrasso Riciclare il patrimonio. Nuovi obiettivi ambientali nel riuso di dispositivi urbani e aree dismesse

Barbara Del Brocco Densificazione-strategie per il rinnovo urbano

Nicola Martinelli, Federica Greco, Francesco Marocco Riduzione/Riuso/Riciclo nei paesaggi estrattivi pugliesi: un’opportunità di progetto

Chiara Farinea Variazioni di inerzia

Cristiana Mattioli L’incerto destino delle aree produttive nella città diffusa tra pratiche di riuso e convivenza con il declino


Giulia Melis, Marcella Poncini Gestione circolare dell’uso del suolo: una risposta al consumo di territorio

Cesarina Siddi 3R e aree verdi in adozione. Potenzialità nella pianificazione urbanistica comunale

Giulia Menzietti Produzioni e dismissioni nell’epoca della crisi

Jeannette Sordi New urban ecologies: recycling the city, planning landscape infrastructures

Mariavaleria Mininni, Cristina Dicillo, Rosanna Rizzi Residui e riusi di materiali agrourbani a Matera Dunia Mittner Il riuso di parti di città in Svezia. Un esempio possibile per la Cina? Gianluigi Mondaini, Claudio Tombolini ‘Microcittà’ e densificazione: strategie urbane per un nuovo disegno dello spazio pubblico Teresa Pagnelli, Luigi Guastamacchia, Mariavaleria Mininni Il riciclo del paesaggio estrattivo. Un’opportunità di sviluppo? Fabrizio Paone La città come implicito, e le difficili misure dell’economia Paola Pellegrini Ridefinizione del concetto di fabbisogno e strategia di area vasta. Premesse per il riuso del territorio collinare friulano Bianca Petrella, Claudia de Biase Quartieri sostenibili: il passato e il possibile futuro Giamila Quattrone, Soumyen Bandyopadhyay Changing communities and discarded landscapes. Strategies and methods toward new life cycles for Omani traditional oasis environments Daniele Ronsivalle Re-landscape: la rigenerazione dei paesaggi di margine Veronica Salomone Strategie di sopravvivenza: riciclare e abitare nella città dei Morti, Il Cairo Vincenza Santangelo Svuotamenti. Teatri dismessi in Italia Angela Sarcinelli, Eugenio Michelino R.R.R. Procida da Reinventare Giulia Setti Oltre la dismissione: pratiche di riciclo di architetture e tessuti industriali

Claudia Tombini Tre R in una P Maria Vitiello I “vuoti” urbani: da zone grigie a luoghi d’incontro. Quando i retrofit è reintegrazione del valore sociale. L’esperienza romana Luca Vandini Small scale intervention. Il ruolo della piccola scala nella rigenerazione urbana


Riciclare i margini della città contemporanea, Il caso studio di Hackney Wick e Fish Islands

Riciclare i margini della città contemporanea Il caso studio di Hackney Wick e Fish Islands Riciclare i margini della città contemporanea. Il caso studio di Hackney Wick e Fish Islands Annie Attademo Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’ Dipartimento di Progettazione Urbana ed Urbanistica Email: annieattademo@yahoo.it

Abstract Il paper, a partire dal tema dei rischi di una crescita illimitata delle città, ha l’obiettivo di evidenziare le opportunità offerte dai margini della città contemporanea, spazi liminali ed in-between che bisogna reinterpretare in maniera flessibile nella rigenerazione della città in declino. Un esempio interessante è fornito dalle aree incluse nella ‘fringe area’ dell'Olympic Park, margine della città consolidata per il quale sono stati previsti programmi di rigenerazione urbana che percorrono differenti scale di progettazione. Queste pratiche mostrano un’occasione colta a partire da un'interpretazione creativa di un contesto post-industriale, costruendo su una modalità di sviluppo alternativa che mette a sistema da un lato la risonanza fornita dalla catalizzazione di risorse, attenzione e competenze, associata all'evento olimpico e dall'altra l'esistente rete di attori e creatività urbane, in un processo combinatorio di dati immanenti ed effimeri, in grado di apprendere dal territorio e dalle sue forze sociali ed economiche e di attrarre nuova vitalità. Parole chiave Margine, riciclo, multiscalare.

Crescita urbana liminale Le città contemporanee crescono spazialmente e temporalmente, ogni giorno in competizione le une con le altre per il superamento dei propri limiti spaziali e concettuali. Neil Smith sottolinea l’esistenza di «a shift from an urban scale defined according to the conditions of social reproduction to one in which the investment of productive capital holds definitive precedence […] We are also seeing a broad redefinition of the urban scale» (Smith, 2002: 423-430). La scala metropolitana domina anche quella regionale: nel mondo globale, i limiti si dissolvono. Durante l’ultima parte del XX secolo, nuove tecniche ed organizzazione dei sistemi di produzione, insieme con cambiamenti dei comportamenti individuali e collettivi, hanno contribuito al crescere di fenomeni di urban sprawl e di tensione verso forme di vita suburbana. In questo senso, le aree di margine divengono una parte importante per il funzionamento della città: non vi sono, come nell'Ottocento, solo le attività espulse dal centro cittadino, ma anche le aree residenziali manifestano ora incompatibilità con lo svilupparsi nei centri cittadini di attività terziarie diurne e di estese night life per l’intrattenimento delle classi dirigenti1. Inoltre, sin dagli anni Sessanta, nei margini delle grandi città, col procedere della post-industrializzazione e la perdita di significati ed usi dei vecchi insediamenti industriali, è emerso il volto sospeso e in attesa degli spazi in disuso, drosscapes della città contemporanea. La città un tempo in espansione, inizia a contrarsi su stessa (Oswalt, 2006) e sui suoi stessi limiti, disvelandone il significato: i limiti muovono dall’essere concepiti come linee di separazione tra la città e l’extra urbano, a divenire spazi in between, sospesi tra condizioni divergenti: «the in-between landscapes of the horizontal city are liminal because they remain at the margins […] awaiting a societal desire to inscribe them with value and status» (Berger, 2006: p. 29). La liminalità è un concetto psicologico dell’antropologo Victor Turner (Turner, 1982) e si riferisce ad uno stato mentale dei partecipanti ad un rito di passaggio. La dimensione liminale delle città è un frammento della sua trasformazione durante il quale gli spazi sono sospesi. Gli spazi liminali sono come soglie: non sono più parte del centro città, ma non confluiscono ancora nell’extra-urbano. Sono spazi di transizione tra l’interno e l’esterno della città

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Cfr. Tallon A. (2010), Urban regeneration in the UK, Routledge, London, pp. 222-249.

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contemporanea. «Liminality depicts a ‘no man’s-land’ open to everyone experience yet not easily understood without a guide» (Zukin, 1991: p. 269) Questi spazi di transizione, in attesa di un rinnovamento concettuale prima che fisico, sono per loro natura aperti a sperimentazioni di pratiche. I margini sono luoghi dove regole e norme sono instabili: dimenticati dalla città, e dalla sua amministrazione oltre che dalle politiche urbane; abbandonati a forme di sviluppo semi-autonomo; indipendenti dal processo di vita e crescita della città contemporanea, veloce e competitivo, i margini crescono lentamente e quasi auto-sufficientemente, quasi auto-governandosi. I silenzi delle autorità, la mancanza di pianificazione e politiche urbane, trasformano questi residui della city of production in paesaggi della lentezza (Lancerini, 2005), territori caratterizzati dal passaggio tra una dimensione post-produttiva quasi naturalistica ad un'urbanizzazione che non comporta processi violenti di metamorfosi interna

L'occasione nel limite Lo shrinkage coincide, quindi, con un disvelamento profondo, un processo variegato di lettura degli spazi inbetween, contesi tra la città e ciò che è altro da essa; spazi di transizione che evolvono rapidamente in spazi di opportunità, aperti ad un ampio processo di rigenerazione, tra temi sociali, economici ed ambientali. Queste aree di soglia costituiscono oggi il punto di partenza per il ripensamento della città contemporanea, in un’ottica adattiva e contestuale, di riciclo dei grandi insediamenti postindustriali. L'orizzonte dei brownfield sites è ricco, infatti, di influenze storiche e ambientali e trasformare i siti dismessi è un'opportunità multi-scalare. Queste aree forniscono una risorsa per sovvertire un ciclo di declino, agendo come serbatoio di capacità e innovazione per rilanciare reti sensibili di trasformazione, attraverso la riconversione dell’esistente (Evans, Shaw, 2004). La rigenerazione dei margini può, quindi, partire da processi innovativi e spontanei. In particolare, luoghi meno glamour rispetto alle aree del centro, si aprono all’immigrazione di gruppi misti, più disposti ad iniziare nuovi usi dei bordi della città contemporanea (Bianchini, Bloomfield, 2004). Dall’altra, le comunità insediate sviluppano un senso profondo di appartenenza, connesso con una sorta di orgoglio e un’aspirazione per la rivendicazione sociale (Jacobs, 1961): richiedono di preservare i loro figli, le loro case, il loro territorio dallo scomparire tra i territori senza volto. Di conseguenza, valorizzano gli usi e i valori locali, per preservare se stessi. A questi processi sociali, può accompagnarsi un processo di cultura e creatività locale. Gruppi di artisti e di creativi si fanno spazio in luoghi aperti a tutti (Cameron, Coaffee, 2005), senza regole, dove i legami usali tra le cose sono come sospesi: gli affitti sono bassi; c’è abbondanza di spazi vuoti, a distanze contenute; i residui dell’era industriale sono di per sé fonte di ispirazione estetica; ci sono infine solitudine e isolamento fertili per costruire un ambiente creativo. Questa capacità di ri-uso dei materiali della città industriale è un’evoluzione dell’attivismo artistico degli Anni '60-'70, studiate da David Ley (Ley, 1996) in connessione con primitive forme di dislocazione (gentrification) dei valori esistenti e delle popolazioni insediate, sostituiti da una middle-class attratta dalla trasformazione di quartieri economicamente svantaggiati in ambienti creativi (culture-led re generation2). Queste micro-pratiche di rigenerazione, come sovvertimento dello shrinkage dei territori, aprono la strada ad una rilettura del concetto di crescita e sviluppo di queste aree, più vicini al riciclo dell'esistente che alla sua sostituzione. Ma, come per i quartieri di Ley, anche la trasformazione dei margini in luoghi creativi porta grandi cambiamenti economici e sociali, conducendo ad un'assimilazione che coincide quasi con un assorbimento delle aree liminali nella città che avanza. Come si vedrà nel caso studio presentato, questo processo produce nuovi bordi in-between, nuovi spazi di transizione tra città consolidate ed estensione verso territori sempre più esterni. Il rischio di ripetizione infinita di un paradigma di città in espansione, che continuamente fagocita se stessa e le sue aree in declino, è particolarmente forte all'interno del mondo contemporaneo di crisi finanziaria, cambiamento climatico e crollo dei vecchi sistemi capitalistici. Per queste ragioni il perdurare di modelli di espansione indefinita è irresponsabile, oltre che insostenibile. L'occasione delle aree di margine è ripartire dalle potenzialità di riciclo creativo della lezione dello spontaneismo artistico, per pervenire ad un controllo più attento delle prospettive di rigenerazione attraverso un modello di gestione multi-scalare della trasformazione.

Un riciclo multiscalare Un interessante esempio di riciclo del margine è oggi fornito dalle aree orientali di Londra, che hanno visto sin dal XIX sec. la concentrazione del porto e delle industrie della capitale. Questa concentrazione è dovuta a molti fattori: la prossimità all’estuario del Tamigi, l’abbondanza di territori pianeggianti, una complessa idrografia, etc. Le frontiere orientali divengono la working machine dell’intera città: il pattern industriale si è espanso comprimendo gli spazi vuoti del bordo orientale, con una cesura enfatizzata da un duro fascio di infrastrutture stradali e ferroviarie. Questo trend ha condotto alla localizzazione di tutte le attività escluse dal sofisticato centro cittadino, condizionando così per decadi la popolazione residente, costituita peraltro da una consistente porzione 2

Cfr. Evans G., Shaw P. (2004), The contribution of culture to regeneration in the UK, A review of evidence, Report per il DCMS, Department for Culture Media and Sport, Londra, per la distinzione e definizione di culture-led regeneration, culture and regeneration, cultural regeneration.

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di immigrati africani ed asiatici, provocando esclusione sociale e un gap economico rispetto agli elevati standard delle parti più interne della città. Questo fenomeno si è accresciuto in tempi recenti con la chiusura di molte fabbriche, la ri-localizzazione del porto e la conseguente perdita di occupazione e del valore dei suoli: come nel resto d’Europa, la città ha iniziato a contrarsi sui suoi stessi limiti, svelando così territori residuali, profondamente connotati da pratiche non ufficiali, in attesa di una trasformazione, aperti a molteplici opportunità. Queste terre svuotate hanno costituito come un monito per la capitale britannica: un'espansione incontrollata e una crescita esponenziale unite a politiche urbane settoriali di natura secolare hanno plasmato questi spazi liminali, fino a provocare un insanabile declino fisico e sociale, connesso al rischio di consumare la città stessa all’inverosimile. In particolare, a partire dagli anni '80 alcune aree dei London Boroughs di Hackney e Tower Hamlets, distretti al margine della capitale3, si sono trasformate attraverso il ri-uso creativo di edifici e spazi pubblici da parte di artisti, attirati dall’ampia disponibilità di ex-fabbriche. A seguito di questa rivitalizzazione queste aree sono divenute cultural quarters4, appetibili anche per fasce sociali più ricche e, col crescere dei valori immobiliari, alcuni artisti si sono spostati verso aree più marginali all'interno degli stessi Boroughs, finendo infine, in questa perenne ricerca di spazi di opportunità, col localizzarsi ai margini del sito designato per la realizzazione del Parco Olimpico per le Olimpiadi di agosto 2012, disvelando così sempre nuovi limiti orientali.

Figura 1: East London e il Parco Olimpico nella Greater London. Elaborazione personale.

L’intera strategia di rigenerazione sociale e fisica connessa alle Olimpiadi, ha ruotato intorno al riciclo di queste aree di margine5. In effetti, negli ultimi 10 anni nella capitale britannica è nato un peculiare interesse intorno alla possibilità di adattare una crescita della città all’interno dei limiti esistenti6. Nel 2001 l'amministrazione della città–regione londinese ha costituito un'Unità di pianificazione apposita, Architecture and Urbanism Unit, che, ha lavorato con autorità pubbliche (i London Boroughs, la London Development Agency, Transport for London), investitori privati e singoli proprietari. L’attenzione venne puntata sin da subito su East London, per il suo potenziale caratteristico di assorbimento di una significativa quantità di crescita su suolo già parzialmente edificato, oltre che per la sua esigenza di rigenerazione ambientale e sociale. Questo approccio ha condotto all'elaborazione di due progetti di rigenerazione estensiva: la Lower Lea Valley Opportunity Area (2007), un corridoio nord-sud individuato all'interno del London Plan, nel quale sono inseriti il Parco Olimpico e le sue aree di margine; il London Thames Gateway Project (2004), che attraversa da ovest ad est il Parco Olimpico, ricollegandosi con l'estuario del Tamigi. Quest'ultimo programma, in particolare, coincide con una regione di sviluppo e rigenerazione, individuata per dare risposta alla domanda di nuova crescita, 3

L'area amministrativa della Greater London comprende 32 London Boroughs: 13 fanno parte della Inner London e 20 della Outer London. Questi distretti sono al limite tra le due porzioni, tra città interna e città esterna. 4 Cfr. sul tema dei cultural quarters: Mommaas H. (2004), ‘Cultural Clusters and the Post-industrial City, Towards the Remapping of Urban Cultural Policy’, in Urban Studies, vol. 41, n. 3, pp. 507–532; Montgomery J. (2003), ‘Cultural Quarters as Mechanisms for Urban Regeneration, Part 1: Conceptualising Cultural Quarters’, in Planning Practice and Research, vol. 18, n. 4, pp. 293–306. 5 Cfr. A London Olympic, Bid For 2012 (2002-03), Terzo Report, House of Commons, Culture, Media and Sport Committee. 6 Dopo decadi di declino, infatti, la popolazione ha ricominciato a crescere dai primi anni '90. Si prevede entro il 2026 un milione in più di persone all'interno della capitale, con una crescita del 13% dell'attuale popolazione. Fonte: Design For London (2010), Three Projects, London Development agency Publications. Annie Attademo

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riqualificando allo stesso tempo le aree orientali dismesse, costituendo un importante precedente di politiche di riciclo. Ha inoltre avuto la lungimiranza di presentare East London e l'estuario come un intero, preservandone così il significato e rafforzandone il valore, anche agli occhi dei promotori della Bid7 per London 2012. L’evento olimpico ha agito come un detonatore per la rigenerazione, con lo slogan ‘a catalyst for regeneration’8. Nei documenti ufficiali9 le aree al margine del Parco Olimpico sono state perimetrate e definite con il termine di fringe area. Questi margini come frontiere della città consolidata, più spazi che barriere (Zanini, 2000), hanno consentito: di de-limitare un’area specifica per l’azione di rigenerazione urbana; di promuovere una rigenerazione fisica, economica e sociale di area vasta; di collegare tra loro livelli di pianificazione territoriale e attuativa, in una continuità multi-scalare, sintetizzata infine attraverso la proposizione di un masterplan sintetico per il Parco Olimpico e la sua fringe area, sia per la fase dell’evento che per la gestione post-evento10.

Figura 2: Progetti nella fringe area del Parco Olimpico. Fonte: Olympic Legacy Development Corporation (2012), Stitching the Fringe - Working around the London Olympics.

Di conseguenza, parallelamente al concorrere all'aggiudicazione dell'evento e sul sostegno fornito dalla programmazione regionale a lungo termine, l'amministrazione cittadina (attraverso la London Development Agency e col supporto tecnico del sottogruppo Design For London) ha avviato una serie di progetti pilota, di concerto con le amministrazioni locali (gli Olympics Boroughs11), i vari stakeholders e i soggetti attuatori. Entro il 2025 è stata prevista la realizzazione di residenze (nuovi quartieri dopo la riconversione delle aree del Parco 7

Cfr. A London Olympic, Bid For 2012 (2002-03), Terzo Report, House of Commons, Culture, Media and Sport Committee. Olympic Delivery Authority (2008), Investing in the future. 9 Cfr. Design For London (2010), Three Projects, London Development agency Publications e Host Boroughs Strategic Regeneration Framework (2009), Barking and Dagenham, Greenwich, Hackney, Newham, Tower Hamlets e Waltham Forest Boroughs. 10 Cfr. Olympic Park Masterplan, Olympic Park Legacy Masterplan, in Olympic Legacy Development Corporation (2012), Stitching the Fringe, Working around the London Olympics. 11 Barking and Dagenham, Greenwich, Hackney, Newham, Tower Hamlets e Waltham Forest. 8

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Olimpico12), riqualificazione degli spazi pubblici e delle infrastrutture esistenti, ma soprattutto la ricerca di soluzioni adattive rispetto al contesto dello straordinario patrimonio post-industriale di queste aree. Ad esempio, nel quartiere di Hackney Wick e Fish Island, vivificato dal su ricordato trasferimento degli artisti dislocati da altre aree, sono stati curati con l'aiuto dell'amministrazione pubblica molti progetti di interpretazione creativa di un contesto dinamico non solo per la recente presenza di artisti, ma anche per una radicata comunità locale che promuove attraverso associazioni13 azioni14concrete per migliorare la vita quotidiana del quartiere. Il primo di questi progetti ha riguardato una fabbrica abbandonata, strategicamente contrapposta al nuovo Parco Olimpico, trasformata in un Creative Hub, utilizzato come spazio espositivo. In collaborazione tra competenze del settore pubblico, stakeholders locali e investitori, è stato inoltre elaborato un programma di opere di public realm15. Un gruppo di residenti guidato da esperti architetti (Muf architecture/art) ha avuto l’incarico di sviluppare un lavoro di mappatura delle attività artistiche, artigianali e delle imprese presenti nell’area16 e di portare avanti la realizzazione di progetti, tra cui: le street interrupted, in cui una strada esistente e sottoutilizzata viene chiusa e trasformata in uno spazio pubblico attrezzato; gli event spaces, per aiutare attraverso strutture di supporto di base la realizzazione di micro-attività della vivace comunità; green infrastructure, per ripiantumare e sistemare gli spazi incolti lungo l’autostrada A12; ways within(in), per migliorare le strade di collegamento col nuovo parco e con il distretto di Tower Hamlets; Olympic edge, per continuare a coltivare percorsi e spazi di sosta lungo il canale, anche dopo la costruzione delle strutture olimpiche.

Figura 3: Creative Hub, Hackney Wick, 2012. Foto dell’autore. 12

Cfr. Olympic Park Legacy Corporation, Queen Elizabeth Olympic Park, Investment Brochure, 2012, per la previsione di 11.000 nuove residenze, comprensive della riconversione delle strutture del Villaggio degli Atleti e di nuovo housing, unite ad attrezzature per il tempo libero, lo sport e la vita quotidiana. 13 Particolarmente importanti le attività della LeaBank Square Association, che da anni coltiva un percorso lungo il fiume con l’aiuto della comunità locale, e dell’Hackney Wick Curiosity Shop, archivio flessibile e itinerante della storia del quartiere e del fiume, che cerca di rivendicare il diritto all’uso degli spazi pubblici da parte della popolazione con appassionate attività che vanno dal guerrilla gardening al seed bombings alla proiezione di documentari, a cui tutti, residenti e non, possono prendere parte. 14 In particolare, ogni anno due festival animano gli spazi aperti del quartiere ed evidenziano i punti di unione delle due facce della comunità, di quella artistica e di quella tradizionale. Il più antico fra i due è l’Hackney Wick Festival, nato all’interno della comunità su iniziativa di SPACE Studios con l’Hackney Wick Community Association ed altre associazioni locali, che celebra il senso di attaccamento e di orgoglio cittadino. Ogni settembre, per qualche giorno, volontari scelti fra i residenti, organizzano una serie di iniziative che coinvolgono persone di tutte le età e il loro uso degli spazi pubblici, specialmente dei percorsi pedonali e delle aree verdi, poiché si cerca di rafforzare nella comunità residente la conoscenza delle potenzialità del loro quartiere, nel momento di grande cambiamento che coincide con le trasformazioni dovute alle Olimpiadi. L’altro festival cittadino, quello degli artisti, ha, invece, il nome di WickED Festival e ha, fra le altre cose, il merito di stendere un ulteriore ponte tra la comunità di artisti e i residenti, poiché durante di esso gli artisti aprono i loro studi, mostrando quello che accade entro le mura di mattoni rossi, coinvolgendo residenti e ragazzi delle scuole dell’area per istallazioni all’aria aperta, realizzazioni di filmati, opere provvisorie, etc. 15 Cfr. Design for London (2010), Hackney Wick & Fish Island Design Guidance, Part 1 e Part 2. 16 Cfr. Design for London (2009), Made in Hackney Wick & Fish Island e Design for London (2009), Creative industries mapping. Il censimento ha rivelato che, al momento, su una popolazione di circa 1600 persone (Cfr. Census 2001, disponibile su www.statistics.gov.uk.), vi sono 610 studi di artisti (Fonte dati: Muf architecture/art llp (2009), Creative Potential: Hackney Wick and Fish Island, su www.designforlondon.gov.uk.). Annie Attademo

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Conclusioni Queste pratiche di progettazione hanno dimostrato un’occasione colta a partire da un'interpretazione creativa del contesto di queste aree di margine della città post-industriale, costruendo su una modalità di sviluppo alternativa che mette a sistema da un lato la risonanza fornita dalla catalizzazione di risorse, attenzione e competenze, associata all'evento olimpico e dall'altra l'esistente rete di attori e creatività urbane in un processo combinatorio di dati immanenti ed effimeri, in grado di apprendere dal territorio e dalle sue forze sociali ed economiche e di attrarre nuova vitalità. Ma non sono soltanto le pratiche di uso ad essere coinvolte; sono gli spazi stessi, le aree verdi, gli orti urbani, le piazze e i percorsi pedonali, messi in luce da anni di pratiche di community event e public art, ad essere interpretati come alternativa al declino della città industriale in dismissione. Lavorare su questo bordo, quest’area di confine, ha significato lavorare nella sfasatura esistente tra l’elemento temporaneo e quello radicato, imparando dagli usi collettivi del fiume Lea, dalle attività sportive nei parchi, e far confluire nell'attività di pianificazione tutte queste potenzialità dell'area. E in un'ottica di superamento della mono-settorialità, in tutte queste operazioni è stata garantita grande continuità multi-scalare, attraverso strumenti di pianificazione di livello regionale e locale, riverberati all'interno delle singole azioni di progetto urbano e rafforzati attraverso la lente d'ingrandimento e d'accelerazione connessa al grande evento. Il riciclo degli spazi dismessi della città industriale, attraverso il potenziamento delle reti di opportunità esistenti in un'ottica integrata e transcalare, consente di rispondere all'ansia ed alla ricerca di soluzioni per il declino della città contemporanea. In particolare, è negli spazi soglia tra città consolidata e frange di transizione con l'esterno, che si gioca un'importante partita di ecologia urbana. È in queste fasce, infatti, che oggi è possibile adottare comportamenti nuovi, sia per rispondere ad una richiesta di sovvertimento del declino, sia sfruttandone la natura stessa di territori transeunti, dove le trasformazioni sono frutto di processi non ancora pienamente codificati. Qui il paradigma delle 3R della waste hierarchy, con una forte spinta verso i sistemi di riciclo urbano e di ripensamento della cultura urbana e degli stili di vita contemporanei, è particolarmente adatto per avviare una riconsiderazione delle nostre città. Basandosi, quindi, su un'interpretazione non neutrale dei margini, è possibile pervenire alla costruzione di quadri di senso integrati e multiscalari, capaci di collegare strategicamente tra loro gli interventi, senza dimenticare l'importanza del livello di attuazione dei progetti. In questo senso, imparando anche dalle esperienze di attivismo spontaneo nei territori, pionieri di una rigenerazione che da culturale diviene concreta, ambientale e sociale, così come dall'esempio di programmazioni di area vasta in grado di conservare viva l'attenzione sulla scala del particolare (come per l'esempio del Thames Gateway Project), è possibile pervenire alla costruzione di un kit di strumenti nuovi per il professionista e l'esperto, vicino ad un'ottica di minimizzazione del set analitico e di massimizzazione dei dispositivi rigenerativi operativi; come per l'esempio dell'Olympic Fringe Program, dove le frange di transizione invece che essere assorbite indiscriminatamente dalla consumption city, sono intelaiate entro una cornice di investimento e masterplan estensivi, che non tralascia le opportunità fornite dai valori storico-culturali dei luoghi e l'interesse e l'entusiasmo scaturito dall'organizzazione dei Giochi Olimpici 2012. All'interno, quindi, di una cornice territoriale che garantisce la capacità del sistema di rispondere ad un imperativo di rilettura della crescita della città contemporanea e del ruolo delle sue aree di margine, una serie di spunti progettuali ha trovato specificazione, anche attraverso gesti semplici che richiedono poca energia dall'intero sistema, poiché si basano sul riuso creativo dell'esistente. Il riciclo del margine, diviene riferimento per la pianificazione ed allo stesso tempo parte del progetto reale, strumento di intervento che, a partire da una visione condivisa della trasformazione in aree chiave per il cambiamento, organizza il piano di lavoro per un'effettiva ed immediata implementazione dell'esistente.

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Annie Attademo

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Le 3 R nel progetto urbanistico. Metamorfosi del patrimonio culturale

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Le 3 R nel progetto urbanistico Metamorfosi del patrimonio culturale Alessandra Badami Università di Palermo DARCH – Dipartimento di Architettura Email: alessandra.badami@unipa.it

Abstract Il contributo presenta il cambiamento degli orientamenti del governo francese in funzione della verifica della sostenibilità nelle scelte di sviluppo, nel risparmio dell’uso delle risorse, nel privilegiare l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili ed ecosostenibili. La consapevolezza del peso a scala mondiale dei parametri in gioco ha imposto una profonda revisione degli assunti di base del paradigma urbanistico in chiave di sostenibilità e di riduzione, producendo approcci, strumenti e metodologie di nuova generazione. Nell’arco del primo decennio del XXI secolo importanti interventi legislativi hanno affrontato le questioni energetiche e ambientali, come anche le problematiche sociali, della partecipazione attiva e democratica ai processi di decisione e della qualità degli insediamenti urbani. Parole chiave Rinnovamento urbano, sviluppo sostenibile, patrimonio culturale.

Strumenti urbanistici di nuova generazione e rigenerazione del patrimonio storico, edilizio e culturale In Francia la legge sulla Solidarité et renouvellement urbains (2000) ha revisionato il sistema di gestione del territorio per garantire la verifica della sostenibilità dello sviluppo, per promuovere il rinnovamento urbano in opposizione alla crescita quantitativa e per rafforzare la partecipazione democratica ai processi di pianificazione, attuazione e gestione. Prima ancora dell’acuirsi delle problematiche economiche della crisi del 2008, sono stati riformulati nuovi obiettivi per uno sviluppo qualitativo e ‘riduttivo’, ovvero: il perseguimento della diversità delle funzioni urbane e la mixité sociale; la lotta contro lo sprawl e il consumo di suolo; il rispetto dell’ambiente e delle risorse naturali; il controllo e la gestione della mobilità; la gestione dei rifiuti; la salvaguardia della qualità dell’aria, dell’acqua e degli ecosistemi. La legge è intervenuta anche con modifiche dirette al Codice dell’urbanistica introducendo tre strumenti di nuova generazione: lo Schéma de Cohérence Territorial (SCoT), il Projet d’aménagement et de développement durable (PADD), il Plan Local d’Urbanisme (PLU) (Badami, 2012). Altre rilevanti tappe hanno ridisegnano la trasversalità del tema della sostenibilità rispetto ai diversi settori di sviluppo: nel 2009 la Loi Grenelle sull’ambiente ha fissato i grandi orientamenti della politica del governo francese in materia di ecologia e di sviluppo sostenibile; tra gli esiti più rilevanti è la trasformazione di tredici agglomerazioni urbane in EcoCités, denominate “grands projets d’innovation architecturale, sociale et énergétique”. Nel 2010 la Loi Grenelle II ha declinato in azioni sul territorio gli impegni di rispetto dell’ambiente assunti dalla legge precedente. I suoi 248 articoli sono raggruppati attorno a sei aspetti prevalenti (edilizia/urbanistica; trasporti; energia; biodiversità; rischi/salute/rifiuti; governance) attraverso i quali è ribadita la priorità del rispetto dei principi di sostenibilità dell’ambiente: i dispositivi di riduzione dell’inquinamento e di utilizzo di energie a maggiore efficienza e da fonti rinnovabili dovranno essere privilegiati rispetto a qualsiasi altro imperativo.

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Dispositivi per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale La tutela dei monumenti, integrata con i relativi contesti urbani o paesaggistici, si è necessariamente intrecciata con gli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale, entrambi partecipi del percorso di costruzione dello Stato in un processo di reciproca legittimazione. In Francia la normativa di tutela per il patrimonio culturale ha cominciato inizialmente ad attribuire agli elementi di interesse storico o artistico dei vincoli relativi alla loro conservazione sotto forma di servitù pubbliche, accertate attraverso gli strumenti della classificazione e dell’iscrizione al titolo di monumenti storici. Contestualmente alla progressiva evoluzione del concetto di patrimonio, la normativa ha esteso la tutela dell’oggetto per ricomprenderne il contesto, dapprima attraverso la salvaguardia degli abords, successivamente con il ricorso ai secteurs sauvegardés, definendone il regime attraverso strumenti di pianificazione con valore sovraordinato rispetto alla pianificazione urbanistica (Catoni, 2007). Con il progressivo trasferimento delle competenze dello Stato agli Enti locali, sono stati messi a punto dispositivi alternativi più duttili, in una visione democratica e partecipativa, quali le Zones de protection du patrimoine architectural et urbain (ZPPAU), successivamente divenute Zone de Protection du Patrimoine Architectural, Urbain et Paysager (ZPPAUP), trasformate dalla Loi Grenelle II nelle Aires de mise en valeur de l’architecture et du patrimoine (AMVAP); tali strumenti interagiscono con la pianificazione ordinaria identificando servitù d’utilità pubblica da annettere al Plan local d’urbanisme (Ministère de la Culture et de la Communication, 2012). Analogamente, gli strumenti di pianificazione si sono diversificati e arricchiti per rispondere alle peculiari esigenze di salvaguardia del patrimonio culturale e per la sua integrazione nel processo di definizione del progetto urbano; sono presenti specifici riferimenti al patrimonio nello SCoT, nel PADD, nel PLU, nelle CC (Carte communale), nell’OPAH (Opération Programmée d’Amélioration de l’Habitat1), nelle ZAC (Zones d’Aménagement Concerté2), e infine anche nel regolamento per il rilascio del permis de construire. I soggetti attori della salvaguardia e della valorizzazione si sono andati articolando, a partire dagli anni ’70, con la decentralizzazione delle competenze, inizialmente detenute in via esclusiva dallo Stato, confrontandosi con le esperienze locali che hanno permesso di considerare il patrimonio sia come una risorsa territoriale, sia come riferimento identitario di mobilitazione civile.

La Loi Grenelle II e la sostenibilità ambientale. Le Aires de mise en valeur de l’architecture et du patrimoine (AMVAP) L’articolo 28 della Loi Grenelle II ha sostituito le ZPPAUP con le Aires de mise en valeur de l’architecture et du patrimoine (AMVAP o AVAP); le attuali ZPPAUP dovranno essere trasformate in AMVAP entro il 2015 o decadranno. La riforma è stata ispirata dalla volontà di estendere il campo operativo dello strumento di tutela alle questioni ambientali e urbanistiche, conferendo alle autorità locali un margine di autonomia più ampio. Come per le ZPPAUP, la legge Grenelle II definisce le AMVAP come aree gravate da servitù pubbliche, annesse al PLU, aventi come finalità la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio architettonico e degli spazi pubblici. Tali aree possono essere create per iniziativa di uno o più Comuni o enti pubblici cooperanti al livello intercomunale (Établissements publics de coopération intercomunale, EPCI), competenti in materia di pianificazione urbanistica comunale, su uno o più territori che presentano un interesse culturale dal punto di vista architettonico, urbanistico, paesaggistico, storico o archeologico. La finalità generale per cui sono state istituite le AMVAP in sostituzione delle ZPPAUP è la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale in una prospettiva di sviluppo sostenibile; con questo strumento sono 1

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Le OPAH, Opérations Programmées d'amélioration de l'Habitat, istituite nel 1977, sono uno strumento di intervento pubblico per quei territori che presentano problematiche relative alle abitazioni private. In funzione dei problemi specifici e delle tipologie urbane o rurali degli insediamenti, le OPAH sono articolate in diverse categorie: edilizia insalubre, problemi di salute pubblica, risparmio energetico nelle case, zone rurali in decadimento, condomini in difficoltà. Le ZAC, Zones d’aménagement concerté (articolo L. 311-1 del Codice dell’urbanistica), sono zone all’interno delle quali una collettività o un’istituzione pubblica decida di intervenire per eseguire o far eseguire lavori di trasformazione e infrastrutturazione delle aree, comprese quelle che la comunità o l’istituzione ha acquistato o acquisterà, al fine di rivenderle o concederle in licenza ad operatori pubblici o privati per la sua successiva utilizzazione a fini residenziali, commerciali, industriali, o per la realizzazione di servizi di interesse collettivo, sia pubblici che privati. Il perimetro e il programma della zona vengono approvati dal consiglio comunale, o dall’organo di governo dell’ente pubblico di cooperazione intercomunale, e dal Prefetto. La concertazione, che è alla base delle ZAC, ne fa uno strumento di partecipazione della popolazione ai processi decisionali e ai gruppi di lavoro dei comitati consultivi di quartiere, rafforzando il legame tra abitanti e quartiere, contribuendo ad accrescere il consenso sulle scelte di pianificazione, incrementando la partecipazione di privati ai processi di rinnovamento urbano e aumentando l’integrazione e la mixité funzionale all’interno della città. Le ZAC sono state istituite dalla Loi d’orientation foncière nel 1967 come alternativa alle ZUP (Zones à urbaniser en priorité); la Loi SRU ha incorporato all’interno del PLU le ZAC.

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state confermate le finalità generali della tutela, ma associate per la prima volta ad aspetti attinenti alla sostenibilità ambientale e alle problematiche energetiche, ricondotte esplicitamente sotto la responsabilità delle autorità locali. Al già collaudato binomio salvaguardia/valorizzazione, l’associazione con la dimensione della sostenibilità ambientale richiede, unitamente alle misure di tutela, provvedimenti inerenti l’utilizzo di materiali ecocompatibili, il controllo del consumo energetico, il miglioramento del rendimento energetico degli edifici (sia nuovi che antichi), il ricorso ai dispositivi per la produzione di energia rinnovabile e per il recupero energetico. La normativa sottolinea come le aree protette, di iniziativa del medesimo ente territoriale responsabile per gli indirizzi di pianificazione, debbano essere sentite come patrimonio appartenente alle comunità locali e che il processo che ne guida la gestione (sotto forma di tutela, salvaguardia, valorizzazione, promozione e ricerca della sostenibilità ambientale) non possa non scaturire dallo stesso ente che progetta l’assetto futuro del territorio3 (Bouchardeau, 1993). Le AMVAP costituiscono un dispositivo in mano alle amministrazioni locali che permette loro di far compiere al patrimonio culturale quella necessaria ‘metamorfosi’ da una statica salvaguardia a materiale pregiato per un nuovo progetto urbano impostato sulla sostenibilità (Badami, 2012). Rispetto alle ZPPAUP, viene rimarcata maggiormente la necessità di non limitare il campo soltanto alla conservazione dell’esistente: le AMVAP devono prendere in considerazione anche il patrimonio del futuro. L’obiettivo è quello di valorizzare i beni culturali in maniera attiva, contribuendo alla realizzazione di ambienti di qualità: l’articolo L 642-2 del Codice del patrimonio precisa, a tal riguardo, che i regolamenti inerenti le AMVAP si riferiscono tanto alla conservazione e valorizzazione del patrimonio costruito e degli ambienti naturali, quanto alla qualità architettonica delle nuove costruzioni o degli interventi di trasformazione sulle costruzioni esistenti (Lebreton, 2011). Anche se non espressamente richiamato nella loro dicitura, le AMVAP ricomprendono accanto alla tutela del patrimonio storico (architetture, complessi urbani, spazi pubblici) anche la salvaguardia ambientale (ambienti di valore storico, paesaggistico e ambientale). Le problematiche connesse alla preservazione degli ambienti biologici non è direttamente associata alle AMVAP; la qualità architettonica, culturale e paesaggistica di un territorio concorre comunque al mantenimento degli habitat e della biodiversità, pertanto le AMVAP fanno esplicito riferimento alle disposizioni relative alla Trame Verte et Bleu4 definite all’interno dello Schéma régional de cohérence écologique. La creazione di una AMVAP, a seguito della decisione presa da parte di una collettività locale, prevede la conduzione di uno studio diagnostico sul patrimonio architettonico, culturale e ambientale; dalle analisi derivano l’individuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile e i criteri e le disposizioni per perseguirli. Per incoraggiare le autorità locali ad attivarsi sia sul piano della salvaguardia, della riqualificazione e della valorizzazione del patrimonio culturale, sia sul piano del miglioramento delle performance energetiche e della produzione di energia pulita, la legge richiede la produzione di una valutazione non solo ‘architettonica’ e ‘patrimoniale’, ma anche ‘ambientale’ (L. 642-1 par. 2 Codice del patrimonio) (Planchet, 2011). La proposta progettuale deve necessariamente tenere conto anche degli indirizzi di sviluppo previsti dal PADD della pianificazione urbanistica locale (PLU). Il PADD, introdotto nella strumentazione urbanistica dalla legge SRU del 2000 come documento di indirizzo politico espresso dalle collettività locali in materia di sviluppo economico, sociale, ambientale e urbanistico, orienta le scelte operative del PLU nel rispetto dello sviluppo sostenibile. Anche se il dossier per la creazione di una AMVAP presenta la stessa forma di quello delle ZPPAUP – ossia un rapporto di presentazione, un regolamento e un documento grafico –, il processo di elaborazione risulta profondamente modificato: in primo luogo, la procedura prevede il raccordo con gli strumenti di pianificazione dello sviluppo sostenibile, ecocompatibile e urbanistico (PADD, SCoT, PLU); in secondo luogo amplia le fasi concertative e di partecipazione della popolazione e potenzia le autonomie dei poteri locali trasferendo gran parte delle competenze delle amministrazioni comunali (Guineberteau, 2011).

Buone pratiche di tutela e sviluppo, conservazione e sostenibilità. Marsiglia Buone pratiche dimostrano come riusare e riciclare in nuove modalità fruitive i beni culturali per attivare una virtuosa cooperazione tra tutela e sviluppo, tra conservazione e sostenibilità ecologica.

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Nel caso in cui il progetto per l’AMVAP dovesse risultare in contrasto con lo strumento urbanistico, deve essere avviata una procedura di ‘inchiesta pubblica’ per armonizzare i due strumenti. La Trame Verte et Bleu è una strategia operativa introdotta in Francia per la tutela della biodiversità nel quadro delle misure nazionali in materia di ecologia, sviluppo e pianificazione sostenibile (L. 2009-967 Grenelle, L. 2010-788 Grenelle II).
Obiettivo principale è la difesa e il potenziamento della rete ecologica principale, formando e tutelando le “infrastrutture ambientali” fondate sulle aree protette, gli ecosistemi naturali e semi-naturali esistenti, le reti lacuali e fluviali e le zone umide.

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Le 3 R nel progetto urbanistico. Metamorfosi del patrimonio culturale

Il caso di Marsiglia presenta l’interazione tra strumenti di pianificazione e programmi di rigenerazione urbana che, agendo a più livelli, hanno avviato una profonda metamorfosi della città, i cui esiti, anche se rimangono ancora da verificare sotto il profilo socio-economico, hanno sensibilmente migliorato la qualità dell’ambiente urbano. In particolare, per quanto riguarda l’area compresa tra il centro storico e il nuovo porto, interagiscono: - quattro ZPPAUP (che dovranno essere trasformate in AMVAP entro il 2015) che coprono con continuità una estesa superficie di centro storico; le zone individuano le peculiarità dei diversi tessuti della città più antica e specifici regolamenti stabiliscono misure adeguate alla salvaguardia dell’esprit des lieux, consentendo contemporaneamente la realizzazione di interventi migliorativi, di adeguamento tecnologico e per il risparmio energetico (Figura 1); - il progetto Euroméditerranée (avviato dal 1995 per iniziativa congiunta dello Stato francese, del Comune di Marsiglia, della Communauté Urbaine Marseille Provence Métropôle, della Regione Provence‐Alpes‐Côte d’Azur e dal Conseil Général des Bouches‐du‐Rhône, e con il supporto di fondi UE) che coinvolge 480 ha di suolo urbano in una delle più estese operazioni di rinnovamento urbano e di sviluppo economico promosse in Europa (Figura 2); - come EcoCité ai sensi della Loi Grenelle (Vergnet‐Covo, 2007), la città sta adottando misure per il risparmio energetico, il contenimento dell’uso delle risorse, il ricorso ad energie rinnovabili, il potenziamento dei trasporti pubblici ecosostenibili, la realizzazione di architetture ad energia positiva (tutte le nuove realizzazioni architettoniche sperimentano dispositivi di riduzione del consumo termico, produzione di energia pulita, riconversione energetica, contenimento di emissioni di CO2; vedi, ad es., l’edificio che ospiterà il FRAC nel quartiere de la Joliette – Figura 3); - l’elezione a Capitale Europea della Cultura per il 2013 ha, infine, attivato nella città altri processi di riconversione, riqualificazione e specializzazione culturale complementari alle azioni di riconversione ecosostenibile.

Figura 1. Le 4 ZPPAUP di Marsiglia: “Panier”, “Belsunce”, “Chapitre Noailles Canebière Opéra Thiers”, “République-Joliette”.

La ZPPAUP del Panier, 17 ha, è stata istituita per salvaguardare il quartiere più antico di Marsiglia; comprende le due grandi centralità urbane della Vieille Charité e dell’Hotel-Dieu, tra i maggiori monumenti storici caratteristici del patrimonio marsigliese. La ZPPAUP di Belsunce, 45 ha, comprende tutto il quartiere medievale orientale, con tracce barocche corrispondenti all'estensione della città nel 1660, contenuto all’interno delle nuove mura della città. Il regolamento prevede la tutela e la valorizzazione del tessuto antico, il ripristino delle parti degradate, il miglioramento della ‘lettura’ degli spazi urbani con attraversamenti pedonali, alberature, la regolamentazione delle vetrine dei locali commerciali, delle insegne e degli inserti pubblicitari. La ZPPAUP “Chapitre Noailles Canebière Opéra Thiers”, 55 ha, è adiacente alle due zone protette del quartiere Bensunce e della Rue de la République e tutela il tessuto del centro storico risalente al XVIII e XIX secolo. La ZPPAUP “République-Joliette”, 28 ha, si attesta lungo la Rue de la République, sventramento haussmaniano del 1860 sotto il rilievo del Panier, aperta per collegare il Vieux-Port con il nuovo porto de la Joliette, e comprende una parte dell’area portuale con gli edifici dei Docks de la Joliette. La maggior parte degli edifici della Rue de la République, edilizia sociale originariamente di proprietà della SIM (Société Immobilière Marseillaise) e già negli anni ’70 in stato di degrado, sono stati oggetto di un primo progetto di ristrutturazione previsto dall’OPAH République; successivamente, l’asse stradale è stato inserito all’interno del progetto Euroméditerranée che ha avviato un processo di recupero coordinato degli edifici haussmaniani attraversi la stipula di convezioni specifiche tra i differenti partner dell’operazione (collettività locali, Stato, proprietari, società immobiliari, imprenditori, banche) (Figure 4-6). Il processo ha incontrato più volte ostacoli e conosciuto momenti di interruzione, dovuti principalmente alla crisi economica (fallimento di banche coinvolte nei finanziamenti) e alle frequenti derive speculative delle società Alessandra Badami

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immobiliari. Per far ripartire l’operazione di rinnovamento urbano è intervenuto lo Stato che, attraverso il progetto Euroméditerranée e le collettività locali, ha investito somme considerevoli per la realizzazione di servizi pubblici per valorizzare il quartiere, tra cui una nuova linea di tram, parcheggi sotterranei (700 posti auto), un bacino sotterraneo di ritenzione delle acque, la riprogettazione della strada e degli spazi pubblici, un nuovo arredo urbano, la concessione ai privati di contributi per il rifacimento delle facciate. Ancora lo Stato deve farsi carico di gestire la locazione degli immobili restaurati dalle società immobiliari, per evitare la capitalizzazione dei benefici prodotti dagli investimenti statali a scapito dei locatari.

Figura 2. Etablissement Public Euroméditerranée, Projet Euroméditerranée, Plan Guide, Projets et réalisations Marseille, 2012. Alessandra Badami

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Figura 3. FRAC - Fonds Régional d’Art Contemporain, progetto Kengo Kuma et Associates. Foto del cantiere: messa in opera di rivestimenti e pannelli coibenti.

Figure 4. 5. 6. Marsiglia. Rue de la République. Edifici haussmaniani prima, durante e dopo il recupero.

Adiacente al lato sud della ZPPAUP, la ZAC de la Bourse ha restituito alla città la possibilità di leggere le pagine più antiche della storia della città e di fruire dei reperti archeologici delle fondazioni del porto greco di Massalìa; le operazioni di scavo per la realizzazione del parcheggio sotterraneo e degli edifici previsti dalla ZAC, portando alla luce i reperti delle prime fondazioni della città, si sono trasformate in scavi archeologici e hanno convinto dell’opportunità di modificare il progetto originario per consentire la conservazione e la fruizione in situ dei reperti nel Jardin des Vestiges, e di realizzare all’interno del centro commerciale previsto dal progetto il Musée d’Histoire de Marseille (Figura 7), offrendo l’opportunità a più di 7 milioni di utenti che ogni anno frequentano il centro commerciale di accedere ai servizi culturali del Museo (il Museo, come polo delle Alessandra Badami

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infrastrutture culturali di Marsiglia Capitale europea della Cultura, è stato ampliato e di ristrutturato). Lungo il fronte a mare della ZPPAUP la presenza degli edifici dei Docks, realizzati nel 1858, è stata occasione di un’altra operazione di recupero, riqualificazione e riattivazione di una parte urbana che aveva esaurito il suo ciclo vitale di area portuale (Figura 8); con l’operazione Les Docks Marseille, di cui è prevista la conclusione nel 2013, il patrimonio edilizio del Quai d’Arenc – vissuto come un ‘monumento’ dai Marsigliesi – torna a svolgere un nuovo ruolo all’interno della città ospitando spazi multifunzionali dedicati alla cultura, al loisir, all’after work, al commercio di prossimità, etc. Parola chiave delle metamorfosi marsigliesi è la sostenibilità ecologica, perseguita attraverso il risparmio energetico, il ricorso ad energie alternative, le architetture ad energia positiva, l’eco-compatibilità dei materiali, il potenziamento e la riconversione del trasporto pubblico ad energia pulita, etc. Rimane tuttavia da verificare la sostenibilità economica del processo di rinnovamento, tuttora in corso, che sta richiedendo un ingente flusso di investimenti che la crisi in atto ha già più volte interrotto. E rimane tutta da verificare la sostenibilità sociale, ossia verificare quali saranno i reali beneficiari tra residenti o nuovi residenti (trasferimento di classi sociali), cittadini o società immobiliari, commercio locale o brand internazionali.

Figura 7. Il Musée d’Histoire de Marseille, all’interno del centro commerciale Centre Bourse.

Figura 8. Marsiglia. Recupero dei Docks de la Joliette.

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Competitività di materiali “green” e tecnologie da fonti rinnovabili nella riqualificazione energetica di edifici scolastici.

Competitività di materiali “green” e tecnologie da fonti rinnovabili nella riqualificazione energetica di edifici scolastici Maurizio Biolcati Rinaldi Università degli Studi di Ferrara Dipartimento di Ingegneria Email: bcm@unife.it Giulia Banzato Università degli Studi di Ferrara Dipartimento di Ingegneria Email: ing.giulia.banzato@gmail.com

Abstract I cambiamenti climatici in atto nel nostro pianeta richiedono un nuovo sistema di governance interdisciplinare e multilivello, ancorato alle strategie complessive delle politiche di sviluppo territoriale, in grado di promuovere progetti e interventi nei settori della green economy ed in settori di attività connessi con il riequilibrio ambientale e con la messa in sicurezza del territorio. Il Protocollo Kyoto promuove investimenti pubblici e privati, a livello nazionale e regionale, per l’efficienza energetica nel settore edilizio e in quello industriale, per l’incentivazione dei processi di produzione o valorizzazione di prodotti, processi produttivi od organizzativi o servizi che, rispetto alle alternative disponibili, comportino una riduzione dell'inquinamento, dell'uso delle risorse nell'arco dell'intero ciclo di vita tramite l’impiego di materiali compatibili e di fonti rinnovabili, nonché l’applicazione del principio delle 4R e delle 3E, da sempre associate all’ecologia, implementandole al complesso mondo dell’edilizia. Parole chiave Riqualificazione edilizia, Efficienza energetica, Rapporto costi-benefici.

1 | Introduzione - Dal “Protocollo di Kyoto” al “Fondo Kyoto” Il protocollo di Kyoto è un trattato internazionale che riguarda il riscaldamento globale sottoscritto l’11 dicembre 1997 da più di 160 paesi. Al fine di farlo entrare in vigore il trattato doveva essere ratificato da almeno 55 stati i quali producessero almeno il 55%. Con tale trattato fu previsto l’obbligo da parte dei paesi industrializzati di ridurre le emissioni in misura >5% rispetto alle emissioni del 1990 di biossido di carbonio e gas serra nell’arco di tempo 2008-2012. Il protocollo prevedeva che gli Stati Membri ricorressero a meccanismi di ‘sviluppo pulito’ con l’obiettivo di ridurre le emissioni massimizzando i risultati a parità di investimento prevedendo la riduzione da parte dei paesi industrializzati del 5% delle proprie emissioni di CO2. Fin dall’inizio fu chiara la necessità di fornire meccanismi tramite i quali tale protocollo potesse essere implementato, e furono, pertanto, scelte tre principali metodologie: • Clean Development Mechanism:al fine di valorizzare un tipo di sviluppo pulito che consenta ai paesi in via di sviluppo di essere coadiuvati nella loro crescita da paesi industrializzati tramite la produzione per questi ultimi di crediti di emissione; • Emission Trading: ovvero uno scambio di crediti di emissione tra un paese che consegua una diminuzione delle emissioni di gas serra maggiore rispetto al proprio obiettivo al fine di poterli cedere ad un altro paese che non sia stato in grado di rispettare la propria riduzione;

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• Joint Implementation: al fine di permettere ad un paese in via di sviluppo di essere aiutato nella realizzazione di progetti volti a ridurre le emissioni di gas serra da parte di un altro paese, utilizzando poi congiuntamente a quest’ultimo i crediti derivanti dal progetto. Fondamentalmente tali meccanismi si basano principalmente sull’identificazione, per ciascun processo e prodotto, del ‘costo energetico’, al fine poi di utilizzare tali informazioni come strumenti atti a definire scelte economiche e legislative, premiando le attività che riescono ad assicurare gli stessi servizi a parità di utilità, con minori consumi energetici. In secondo luogo si procede facendo leva su processi, progetti, prodotti e conoscenze, al fine di ottenere gli stessi servizi con minori consumi di energia e minori alterazioni climatiche. Ultimo ma non meno importante è l’aspetto che riguarda la transizione dall'uso di fonti d’energia e merci, ricavate da fonti non rinnovabili quali carbone, petrolio e gas naturale, verso fonti energetiche e prodotti di tipo rinnovabile. Partendo da tali presupposti fu istituito in Italia, grazie alla legge finanziaria 2007 (n. 296/2006), il ‘Fondo Kyoto’ con l’intento di finanziare le misure finalizzate all'attuazione del Protocollo di Kyoto tramite interventi legati all’utilizzo delle fonti di energia rinnovabili, all’efficientamento energetico degli edifici, nonché alla ricerca e alla gestione forestale. Il fondo è rotativo e viene erogato tramite cicli di programmazione all’interno dei quali i soggetti interessati possono presentare domanda di ammissione al prestito agevolato per gli interventi che intende effettuare e agevola diverse tipologie di interventi e le risorse disponibili per la concessione di finanziamenti agevolati sono determinate su base nazionale o su base regionale.

2 | Le regole delle 4R e delle 3E - Dall’ecologia al mondo dell’edilizia Il ‘Fondo Kyoto’, grazie ai principi che lo governano atti al recupero e alla valorizzazione di edifici già esistenti, nonché all’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili, offre lo spunto per una riflessione sul tipo di progettazione da perseguire e sottolinea l’importanza del recupero del patrimonio edilizio esistente. Proprio grazie a questo tipo di fondi si riescono a concretizzare alcuni semplici principi applicati da sempre all’ecologia implementandoli al mondo dell’edilizia e dell’urbanistica cercando di incentivare e innescare meccanismi virtuosi sia nei confronti dei privati che delle Pubbliche Amministrazioni. In ecologia la ‘Regola delle 4 R’ si basa principalmente sulla strategia che fu introdotta dal Decreto Ronchi per la gestione dei rifiuti, ovvero la Riduzione, il Riutilizzo, il Riciclo ed il Recupero del rifiuto stesso. Il passo dall’ecologia alle scelte in materia di urbanistica ed in edilizia è immediato. Il primo passo riguarda il minor consumo di suolo all’origine: la ‘Riduzione’ alla fonte è la scelta primaria nella gestione delle risorse usando una quantità minore di territorio, visto come ‘materia prima’ e, come tale, non infinito; il minor uso di territorio, quindi,comporta scelte sicuramente molto diverse da quelle fatte in passato che prevedevano una cementificazione selvaggia ed immotivata. Il territorio o l’edificio, dopo una attenta analisi, possono essere semplicemente ‘Riutilizzati’ senza subire alcuna trasformazione, ed anzi, la riutilizzazione di uno stesso fabbricato significa accrescerne il valor proprio ed evitare di produrne un altro che assolva alla stessa funzione. Un edificio che non serve più al suo scopo originario può essere ‘Riciclato’ cambiandone la destinazione per rivalorizzarne l’utilità pubblica. A questo scopo è comunque indispensabile attuare fin da principio uno studio di fattibilità dell’opera da cui si vuole partire, al fine di poter lavorare senza che si renda necessario effettuare un elevato numero di lavorazioni, con conseguente utilizzo di risorse economiche che potrebbero essere impiegate altrimenti. Nell’ultimo caso, ovvero quello del ‘Recupero’, si procede tramite una ristrutturazione mirata, principalmente destinata all’accrescimento delle caratteristiche tecniche, funzionali e di efficientamento energetico dell’edificio in oggetto al fine di poter diminuire il fabbisogno energetico dello stesso con un conseguente riscontro economico positivo nel tempo. Una volta decise le strategie lo step successivo deve essere il risvolto economico che tale scelta può avere ed anche per tale risposta si può ricorrere all’ecologia, o ancor meglio ad un aspetto ben noto nel campo del sistema di gestione dei rifiuti la “regola delle 3E” ovvero Efficienza, Efficacia ed Economicità. Questo tipo di progettazione persegue l’obiettivo ‘zero sprechi’, concetto a cui sempre più il tecnico è chiamato a rispondere dal committente, e fa parte del complesso mondo della progettazione integrata. L’’Efficienza’ deve essere intesa prevalentemente come la capacità di raggiungere il massimo risultato, dati i mezzi disponibili, ovvero le risorse disponibili, ma anche come la capacità di perseguire un dato risultato con il minimo delle risorse impiegate. Il rapporto tra le risorse impiegate ed il risultato ottenuto, input/output, fornisce gli indicatori di efficienza che vanno a rappresentare il costo unitario del servizio. L’’Efficacia’ può essere divisa in ‘efficacia gestionale’, definita come la capacità, da parte del privato o della Pubblica Amministrazione, di raggiungere gli obiettivi iniziali, ed ‘efficacia sociale’, definita invece come la capacità dei soggetti di cui sopra, di soddisfare i bisogni della collettività. Tale concetti possono essere Prof. Ing. Maurizio Biolcati Rinaldi – Ing. Giulia Banzato

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ovviamente valutati sia dal punto di vista qualitativo, stimando la capacità di rendere massimo il benessere collettivo che si viene a creare, o quantitativo, andando ad esaminare le esigenze dei cittadini. In tal caso si considera il rapporto tra domande soddisfatte e domande presentate come indicatore qualitativo di efficacia e la soddisfazione dei bisogni della collettività come indicatore quantitativo. Dalla combinazione di ‘Efficienza’ ed ‘Efficacia’ deriva invece l’’Economicità’, la quale risulta essere la capacità di raggiungere gli obiettivi attesi dai cittadini con il minimo dispendio di risorse. Da tale capacità di acquisire al minor costo i fattori produttivi di cui si necessita, una volta definito un target minimo di qualità richiesto all’opera deriva quindi il successo finale dal punto di visto economico dell’opera, quasi a voler rimarcare il concetto del’buon padre di famiglia’.

3 | Il caso di studio - Il plesso scolastico di Jolanda di Savoia (Fe) Il Comune di Jolanda di Savoia ha deciso di promuovere mirate riqualificazioni sul territorio al fine di evitare la nuova cementificazione di aree rurali e agevolare la diffusione dei criteri di sostenibilità fin dalle nuove generazioni iniziando così con il progetto del recupero ed efficientamento del plesso scolastico presente nel paese con l’intento di partecipare all’acquisizione del prestito a tasso agevolato fornito dal ‘Fondo Kyoto’. La Pubblica Amministrazione è proprietaria dell’edificio oggetto di studio quindi, in seguito, si rimanda solamente alle voci che possono risultare di competenza dei soggetti pubblici in quanto alcuni interventi sono accessibili a tutti i soggetti, altri invece solamente ad alcune categorie specifiche. Dopo aver letto con attenzione la Circolare e parlato con il committente si è perciò ritenuto opportuno in fase progettuale vagliare tutte le categorie possibili di intervento. Tabella I: Misura ‘Rinnovabili’del ‘Fondo Kyoto’ studiate al fine di verificarne il vantaggio economico.

1. TIPOLOGIA DI INVESTIMENTO Investimenti per singolo intervento, in impianti di nuova costruzione di piccola taglia per l’utilizzo di singola fonte rinnovabile. 2. INTERVENTI PROPOSTI a) Impianto eolico con potenza nominale installata compresa tra 1 kWp e 200 kWp. b) Impianti termico a biomassa vegetale solida (pellets o cippato) di potenza nominale termica tra 50 kWt e 450 kWt. c) Impianti fotovoltaici integrati o parzialmente integrati negli edifici con una potenza nominale tra 1 e 40 kWp. d) Impianti solari termici con superficie d’apertura fino a 200 m2. Tabella II: Misura ‘Usi finali’del ‘Fondo Kyoto’ studiate al fine di verificarne il vantaggio economico.

1. TIPOLOGIA DI INVESTIMENTO a) Investimenti per singolo intervento, sull’involucro di edifici esistenti, parti di edifici esistenti o unità immobiliari esistenti, riguardanti strutture opache verticali, orizzontali o inclinate, chiusure trasparenti comprensive di infissi e vetri, chiusure apribili e assimilabili quali porte e vetrine anche se non apribili, delimitanti il volume riscaldato verso l’esterno e verso vani non riscaldati. b) Investimenti per singolo intervento per climatizzazione edifici da impianti geotermici a bassa entalpia fino a 1 MWt. 2. INTERVENTI PROPOSTI a) Creazione cappotto esterno atto a ridurre le dispersioni termiche. b) Cambio chiusure trasparenti. c) Impianto geotermico a bassa entalpia. In generale le agevolazioni del Fondo Kyoto sono cumulabili con agevolazioni contributive o finanziarie previste da altre normative comunitarie, nazionali e regionali entro le intensità di aiuto massime consentite dalla vigente normativa dell'Unione europea. Quindi con l’introduzione degli impianti volti alla produzione di energia tramite FER sarà possibile non solo utilizzare energia “pulita” ma anche poter rientrare delle spese che non verranno finanziate. Relativamente agli incentivi già previsti a livello nazionale per lo sviluppo delle fonti rinnovabili e l’efficientamento energetico, le agevolazioni del Fondo Kyoto sono cumulabili con tutti gli incentivi applicabili alle diverse misure connessi con la produzione e l’immissione in rete di energia (Conto energia, scambio sul posto, ritiro dedicato). Sono, inoltre, cumulabili con le detrazioni al 55% e con i Titoli di Efficienza Energetica. Il fondo è inoltre cumulabile con tutti gli incentivi alle rinnovabili in corso di definizione dal MISE in base al decreto “rinnovabili” dello scorso marzo 2011. Prof. Ing. Maurizio Biolcati Rinaldi – Ing. Giulia Banzato

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La Regione Emilia-Romagna ha scelto di gestire autonomamente le misure a ripartizione regionale indicando ERVET – Emilia Romagna Valorizzazione Economica Territorio S.p.A. quale ente gestore regionale. Per le misure a ripartizione regionale Cassa Depositi e Prestiti SpA (CDP) agisce quale mandatario del Ministero dell’Ambiente come ente gestore del fondo. I finanziamenti agevolati che verranno erogati avranno forma di prestiti di scopo, di durata non inferiore a tre anni e non superiore a sei, a rate semestrali, con applicazione del tasso fisso dello 0,50 per cento annuo, così come determinato dal Ministro dell'Economia e delle Finanze. E’ possibile richiedere l’erogazione di una anticipo del finanziamento agevolato, fino ad un massimo del 25% del suo importo, che verrà disposta entro 15 giorni lavorativi dal perfezionamento del contratto di finanziamento. Per il restante 75%, l’erogazione è disposta per stati di avanzamento, sottoscritti dal direttore dei lavori o figura analoga, ciascuno di importo non inferiore al 25% del finanziamento stesso, fatta salva l'erogazione a saldo. La quota del costo totale dell’intervento che può essere coperta dal finanziamento agevolato per quanto riguarda i soggetti pubblici è pari al 90%. Il finanziamento agevolato coprirà le seguenti tipologie di costi: • progettazione di sistema, compresa l'eventuale realizzazione di diagnosi energetica e studi di fattibilità strettamente necessari per la progettazione degli interventi. Tali costi sono riconosciuti nella misura massima dell'8% del totale generale dei costi ammissibili; • costi delle apparecchiature, comprensivi delle forniture di materiali e dei componenti strettamente necessari alla realizzazione dell'intervento; • costi delle infrastrutture, comprese le opere edili strettamente necessarie alla realizzazione dell'impianto, i costi di allacciamento alla rete. Nel caso della ‘Misura usi finali’, sono compresi i costi strettamente necessari al montaggio e assemblaggio delle tecnologie installabili; costi di installazione, compresi avviamento e collaudo.

Figura 1. Plesso scolastico. Analisi dispersioni termiche nel plesso scolastico pre-intervento. Tabella III: ‘Valori limite’ della trasmittanza termica utile U delle strutture componenti l’involucro edilizio espressa in W/m2K.

Zona climatica A B C D E F

Strutture opache verticali 0,54 0,41 0,34 0,29 0,27 0,26

Strutture opache orizzontali o inclinate Coperture Pavimenti 0,32 0,60 0,32 0,46 0,32 0,40 0,26 0,34 0,24 0,30 0,23 0,28

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Chiusure apribili e assimilabili 3,7 2,4 2,1 2,0 1,8 1,6 4


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Figura 2. Plesso scolastico. Analisi dispersioni termiche nel plesso scolastico pre-intervento.

Sono in ogni caso esclusi i costi di esercizio, come ad esempio i costi per il personale, per i combustibili e per la manutenzione ordinaria. In seguito alla valutazione economica delle varie classi di intervento si è, quindi, deciso di provvedere per quanto riguarda il ‘Fondo Kyoto’, alla realizzazione di un cappotto esterno alla struttura, al rifacimento della pavimentazione del piano terra con inserimento di un massetto coibentato, al cambio degli infissi nonché al rifacimento del tetto con sostituzione dello stesso mediante l’installazione di pannelli fotovoltaici integrati.

Figura 3. Plesso scolastico. Render edificio pre-intervento.

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Figura 4. Plesso scolastico. Render edificio post-intervento.

Nella valutazione delle scelte progettuali da effettuare si è ritenuto opportuno confrontare una tipologia di materiali più ‘tradizionali’ con una di materiali più ecosostenibili al fine di valutare l’effettivo costo della sostenibilità. Durante tale fase si è, inoltre, fatto riferimento alla suddivisione del ciclo di vita dei materiali scelti in cinque fasi quali l’approvvigionamento delle materie prime, il processo di produzione del materiale stesso, la messa in opera, la fase di esercizio e la dismissione, senza poi dimenticare gli imballaggi e i rifiuti da cantiere. Tali complessità vanno analizzate e sviscerate al fine di ridurre il più possibile gli impatti sull’ambiente, eliminandoli se possibile tramite scelte alternative e minimizzandoli quando ciò non sia possibile. Il costo dell’energia elettrica che si è potuto verificare direttamente attraverso le bollette ammonta a circa 8.000 €/anno, quindi con l’entrata in funzione dell’impianto fotovoltaico si andrebbero non solo a risparmiare 8.000 €/anno bensì se ne guadagnerebbero 4.454 € /anno. Il costo del gas metano ammonta invece ogni anno a ben 40.000 €/anno. Oltre a studiare quanto sopra citato si è provveduto a proporre una seconda soluzione al Comune di Jolanda di Savoia al fine non solo di diminuire le dispersioni termiche bensì anche di avere un tangibile riscontro economico. A tal fine si propone di installare dei frangisole di tipo fotovoltaico che vista la superficie e l’inclinazione fornirebbero ulteriori 9.75 Kw .

Figura 5. Plesso scolastico. Installazione frangisole fotovoltaico e pannelli fotovoltaici sul tetto.

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In tal caso il conto economico non subisce variazioni sensibili e si potrebbe quindi prevedere l’installazione di una pompa di calore che sostituisca la caldaia. Tale pompa dovrebbe approssimativamente consumare 30 Kw facendo sì che i 40.000 € all’anno diventassero così una mancata spesa; con i KW rimanenti si potrebbe sicuramente diminuire l’importo della bolletta di circa i due terzi arrivando a spendere all’incirca 2.500 euro annui per l’approvvigionamento di energia elettrica. In tal caso varierebbe il piano d’ammortamento dell’impianto e anche la resa economica dello stesso. Da tali calcoli risulterebbe che il comune avrebbe annualmente una mancata spesa di 45.500 € che in 20 anni, senza tener conto dell’aumento del costo delle forniture di energia elettrica e gas, ammonterebbero a 910.000 euro risparmiati. Il fabbisogno del plesso scolastico vista l’applicazione del cappotto e di altre tecnologie atte a ridurre le dispersioni termiche si è ridotto della metà quindi con buona approssimazione i costi potrebbero essere comunque più contenuti, potrebbe non essere necessaria l’attuale potenza stimata per la pompa e quindi l’edificio grazie all’impianto potrebbe autosostenersi.

Figura 6. Plesso scolastico. Prestazioni energetiche globali e parziali dell’edificio.

I calcoli sono stati effettuati basandosi sul prezziario regionale e su preventivi richiesti alle ditte della zona senza tenere in considerazione gli oneri dovuti alla gestione della sicurezza. Si conviene pertanto che nell’eventualità di scegliere la soluzione ecocompatibile l’investimento potrebbe risultare ovviamente meno conveniente della soluzione tradizionale, se lo si considera dal solo punto di vista economico, e vantaggioso se si tiene in considerazione la ricaduta ambientale che tale progetto ricopre nel suo complesso. In un momento in cui i tecnici non sono chiamati soltanto ad avere delle ‘conoscenze’ e quindi a ‘sapere’, ma anche a dimostrare le proprie ‘competenze’ tramite il loro ‘saper fare’, tale progetto vuole essere una proposta, un atteggiamento che possa fornire non una risposta finale, bensì la scelta di un percorso da intraprendere per perseguire la sostenibilità.

Bibliografia Maurizio Biolcati Rinaldi, Franco Sandrolini, Elisa Franzoni (2002), “Proposte per una metodologia di valutazione dell’ecosostenibilità di materiali e componenti edilizi in sede progettuale”, in INARCOS, n. 634. Maurizio Biolcati Rinaldi (2003), “Criteri di valutazione di caratteristiche ecosostenibiltà delle membrature verticali per l’edilizia residenziale”, in Atti del Convegno internazionale: “Involucri quali messaggi di architettura”, Napoli, 10-12 ottobre 2003. Maurizio Biolcati Rinaldi (2005), “Qualità progettuale dell’ambiente costruito e criteri di intervento sostenibile”, in: Alberti Francesco, “Processi di riqualificazione urbana – Metodologie innovative per il recupero dei tessuti urbani esistenti”, Alinea. Maurizio Biolcati Rinaldi, Franco Sandolini, Stefania Pennini (2007), “Qualità e sostenibilità in edilizia: la qualità nel processo di progettazione eco-sostenibile”, in Atti del IV Congresso “Bioedilizia Italia – Congresso Nazionale sull’Edilizia Sostenibile”, Torino 6-7 giugno 2007. Mauro Spagnolo (2007), Efficienza energetica nella progettazione: energie rinnovabili, bioclimatica, nuove tecnologie, normativa, DEI. Maurizio Biolcati Rinaldi (2008), “Valutazione delle prestazioni energetiche degli edifici esistenti in relazione alla tipologia edilizia”, in Atti del Convegno “Diagnosi e riqualificazione energetica del patrimonio edilizio esistente”, Castello Estense, Ferrara, 20 giugno 2008. Prof. Ing. Maurizio Biolcati Rinaldi – Ing. Giulia Banzato

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Monica Lavagna - presentazione di Andrea Campioli (2008), Life cycle assessment in edilizia: progettare e costruire in una prospettiva di sostenibilita ambientale, Hoepli. Paolo Rava (2008), Tecniche costruttive per l'efficienza energetica e la sostenibilità, Maggioli. Alessandro Fassi e Laura Maina - prefazione di Federico M. Butera (2008). L'isolamento ecoefficiente : guida all'uso dei materiali naturali, Edizioni Ambiente. Marco Casini (2009), Costruire l'ambiente: gli strumenti e i metodi della progettazione ambientale, Edizioni Ambiente. Paola Boarin - prefazione di Pietromaria Davoli (2010), Edilizia scolastica: riqualificazione energetica e ambientale. Metodologie operative, requisiti, strategie ed esempi per gli interventi sul patrimonio esistente, Edicom.

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Urban Areas Recovery

Urban Areas Recovery Greta Brugnoli IUAV Istituto Universitario Architettura Venezia Dipartimento Cultura del Progetto Email: gretabru@hotmail.it

Abstract Lo studio approfondito di sei progetti di valorizzazione di aree dismesse ferroviarie italiane ha permesso di mettere a punto una prima ipotesi di modello di valutazione del valore prodotto dai progetti. L’analisi permette di misurare la capacità dei differenti progetti di mantenere nel tempo il valore iniziale prodotto del progetto. Per ottenere questo risultato i progetti vengono valutati secondo due aspetti. La capacità di mettere a sistema le utilità di diversi interlocutori che giocano un ruolo importante nella definizione del progetto come la comunità urbana, la collettività di quartiere, gli investitori privati e i proprietari delle aree. Inoltre il metodo di valutazione misura la capacità di esportare il valore all’esterno dell’area, con la capacità di migliorare il contesto esistente e così riuscire a dare una risposta duratura nel tempo al degrado urbano circostante. Da questa impostazione nasce l’importanza della progettazione del bordo dell’area di valorizzazione e di tutta la fascia al suo esterno, che diventa parte integrante delvalore economico del progetto. Parole chiave Ferrovia, valore, dismesse.

L' evoluzione della città industriale dal XIX e XX secolo fino ad oggi ha comportato la cessazione di attività industriali in ampie aree semicentrali dell' area urbana. Oltre alla dismissione di ampie aree industriali contestualmente anche quelle ferroviarie, altrettanto ampie, sono state liberate da attività di servizio, mantenendo solo piccole e medie aree delle stazioni a servizio del trasporto passeggeri. In questi anni su molte di queste aree sono stati sviluppati progetti di valorizzazione immobiliare, proposti dai privati e approvati dalle Amministrazioni Locali che, cavalcando la bolla immobiliare, hanno cercato di trarre il maggior profitto finanziario dagli interventi. Per le aree ferroviarie dismesse a questo aspetto si è aggiunta la ritrovata centralità del trasporto pubblico su ferro di cui i grandi volumi di passeggeri costituivano ulteriore valore economico e commerciale. La lettura delle attività presenti da una varietà che è differente ed inferiore rispetto a quella delle proposte immobiliari che si sono limitate al direzionale, al commerciale e al residenziale. La bolla speculativa ha contribuito ad accentrare su alcuni segmenti immobiliari (quelli finanziariamente più remunerativi) la propria attività senza considerare nella loro interezza le richiesta di una società complessa. La stessa società che esprime bisogni e deficit in ambiti diversi rispetto a quelli verso cui si è orientata l’attività immobiliare del recente passato. Questo ha comportato disequilibri che hanno generato espulsione di attività artigianali e produttive da aree vaste delle città, sovraffollamento nell’offerta direzionale nel centro e di quella residenziale e commerciale nelle periferie. La crisi economica ha solo evidenziato, ma certamente non generato questo stato di cose. Alle sperequazioni tra offerta e lettura delle attività e del territorio si affianca quella determinata dalla lettura sociale della collettività. Le differenziazioni tra le persone che popolano le nostre città stanno ampliandosi progressivamente, e con esse si ampliano le differenti aspettative di vita, i desideri, le scelte di collocazione nel mondo del lavoro. Una città solo terziaria limita le possibilità di lavoro e di sviluppo di una parte della popolazione: molte persone fatalmente verranno spinte ai margini sociali e geografici della città, godendola e contribuendone in maniera non significativa. Le scelte urbanistiche che nascono dalla lettura delle esigenze della collettività e del territorio propongono una varietà e diversificazione delle destinazioni d’uso che tende a ricreare una città artigiana e produttiva al fianco di quella mercantile e degli affari. Una città che riconosce se stessa nei prodotti caratteristici della propria attività proponendo come deterrente al mercato dei prodotti la riconoscibilità territoriale dei produttori. Greta Brugnoli

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Urban Areas Recovery

Il riuso come parola d’ordine della città sostenibile: del territorio, dei prodotti e delle infrastrutture. Uno sviluppo del territorio e della collettività che attraverso il riuso rafforza e fa evolvere la propria identità senza disperderla nell’omologazione e nell’inseguimento di modelli vincenti. L’evoluzione lenta e coerente che non dimenticando l’identità collettiva si confronta continuamente con le persone, considera il ruolo di ciascuno nella società come un valore da preservare e da coltivare. Una pianificazione urbanistica che considera un disvalore la necessità di spostamenti sistematici e un valore la sola mobilità occasionale: ho tutto ciò che mi serve, posso raggiungere tutto ciò che desidero. Una pianificazione urbanistica che propone spazi e funzioni produttivi in grado di sviluppare un mercato interno di qualità: abituati a vivere il bello o il buono o l’efficace, saremo apprezzati per il nostro stile di vita. Partendo dal presupposto che la città è più che un mero mercato immobiliare, la ricerca si pone l' obiettivo di individuare gli elementi e le variabili che possono caratterizzare l' intervento di valorizzazione di un' area oramai non utilizzata, come contributo allo sviluppo economico della città, al miglioramento della qualità della vita, alla migliore distribuzione delle funzioni sul territorio, in sintesi alla struttura di una città futura che esalti i pregi e corregga i difetti di quella attuale.

Campo entro il quale la tesi trova argomentazioni La metodologia elaborata tradizionalmente in architettura tende a valutare un progetto di riqualificazione evidenziando l' aspetto estetico, storico ed immobiliare. In particolare si assume una consequenzialità tra esistenza di valore immobiliare e vendibilità, come anche tra valorizzazione di un' area e integrazione con la realtà urbana circostante. In passato queste assunzioni hanno funzionato con dinamiche urbane espansive e mercato immobiliare in crescita esponenziale. Oggi non solo non esistono più questi presupposti, ma vi sono profondi cambiamenti nei concetti di mobilità, città compatta e uso del territorio, efficienza energetica e produzione urbana di energia, information technology e smart grid. Partendo da questa considerazione, è stata sviluppata una metodologia di valutazione basata sull' analisi "multicriteria e multiobiettivo", con lo scopo di far emergere per ciascun progetto la sua maggiore o minore propensione a preservare il proprio valore sociale ed economico nel tempo. Tramite l' analisi "multicriteria e multiobiettivo", idonea a nostro avviso a comprendere e governare la complessità del contesto urbano moderno, è stato costruito un modello valutativo che al suo interno prevede l' utilizzo combinato di numerose variabili rappresentative: della situazione del mercato immobiliare urbano e di quello all’intorno dell’area di progetto, delle caratteristiche urbanistiche della città e della distribuzione geografica dei servizi, delle possibili variazioni dell’assetto della mobilità urbana e dell'area intorno del progetto, delle caratteristiche specifiche del business immobiliare previsto nel progetto dai privati. L' approccio scelto, inoltre, ha il pregio di conferire flessibilità al modello elaborato, in quanto al suo interno è possibile pesare diversamente le variabili individuate, consentendo così la sua focalizzazione sugli obiettivi prefissati caso per caso. Questo modello può rappresentare uno strumento per il policy maker interessato con il progetto di valorizzazione a soddisfare interessi diversi, senza perdere di vista le finalità generali dell’intervento in linea con la visione di città futura. Proprio da questa visione il policy maker, infatti, può trarre le opportune considerazioni e valutazioni per l' attribuzione del peso ai singoli obiettivi ed anche alle singole variabili all’interno degli obiettivi stessi. Così il modello può essere utilizzato direttamente dal policy maker, per valutare progetti integrati derivanti da un concorso di idee su di un' area di valorizzazione. In alternativa il modello stesso può essere fornito direttamente ai partecipanti, come strumento di ausilio allo sviluppo di un progetto in linea con le attese della committenza.

Prospettive di lavoro Per testare il modello elaborato, al termine del lavoro si propone un' analisi comparata di alcuni progetti di valorizzazione italiani, avendo scelto quattro differenti punti di vista per la valutazione di un intervento: la collettività urbana (per gli aspetti economici generali), la comunità di quartiere (per l' effetto NIMBY e la sua risoluzione), gli investitori privati e i proprietari di aree (per gli aspetti finanziari), il sistema della mobilità (per la sua rilevanza nella competitività economica di una città). Per ciascun obiettivo (punto di vista) sono state scelte una serie di variabili, individuate in relazione alla loro capacità di mantenere il valore iniziale dell’intervento. Esse sono state scelte anche in relazione alla loro capacità di essere misurate con i dati a disposizione nei progetti di valorizzazione o nei dati disponibili da altra fonte o stimabili all’interno delle attività della ricerca. Per questo alcune variabili interessanti per il contributo che avrebbero potuto dare alla valutazione delle valorizzazioni sono state escluse per l’impossibilità di misurarle o per quella di poter avere informazioni descrittive. Questo soprattutto per quanto riguarda la coerenza con la visione dell’evoluzione della città e con le informazioni disponibili che si possono (oppure no) trovare all’interno dei piani di indirizzo territoriale. Greta Brugnoli

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Urban Areas Recovery

Le variabili elencate di seguito non sono univocamente associate ad un solo gruppo tipologico dei quattro descritti al paragrafo precedente, ma può invece essere associato a più di uno. Il peso che invece viene assegnato alla singola variabile nelle successive analisi multicriteria varia per la stessa variabile a seconda dell’obiettivo dei quattro a cui si riferisce l’analisi stessa. Le variabili sono state utilizzate sia per una valutazione multicriteria che metta in comparazione i singoli progetti di valorizzazione in relazione a ciascuno dei quattro gruppi tipologici del paragrafo precedente e successivamente per una valutazione multi obiettivo complessiva che tenga conto del raggiungimento dei singoli obiettivi. In questa maniera le variabili hanno costituito la base per una classifica dei singoli interventi per obiettivo e per una classifica assoluta che tenga conto delle aspettativi di tutti i soggetti coinvolti nel progetto di valorizzazione. Le variabili vengono riportate insieme all’indicazione degli obiettivi a cui è stata associata, mentre nel paragrafo successivo è riportata per ogni variabile la scheda descrittiva di dettaglio. I singoli obiettivi sono così abbreviati: • • • •

Collettività Urbana Comunità di Quartiere Investitori Privati Mobilità Pubblica

Cu Cq Ip Mp

1. Vendita Immobili 2. Altre valorizzazioni di Prossimità 3. Valore Immobiliare Differenziale 4. Sinergie altre Riqualificazioni 5. Passeggeri TPL nel Progetto 6. Valore Diffuso Prodotto 7. Proprietà e Gestione Servizi 8. Proprietà e Gestione Immobiliare 9. Pubblica Amministrazione Immobiliare 10. Finanziamento Pubblico 11. Aree Pedonali Estensione 12. Diminuzione Traffico Privato 13. Collegamento Polarità Urbane 14. Perimetro Attivo

(Ip) (Cu - Ip) (Cq - Ip) (Cq - Ip - Mp) (Ip - Mp) (Cq - Ip - Mp) (Ip) (Ip) (Cu - Ip) (Cu - Cq) (Cq - Mp) (Cq - Mp) (Cu - Cq - Ip - Mp) (Cu - Cq - Ip - Mp)

Da questo presupposto è stato derivato un modello di analisi specifico dei progetti di investimento, dove le variabili in gioco sono state selezionate e tarate al fine di fornire una valutazione che tenga conto degli obiettivi autonomamente fissati dai quattro stakeholders prima individuati. L' analisi empirica effettuata ci ha permesso di individuare tre idee forti che, a nostro avviso, possono essere generalizzate ed utilizzate come guida per future valutazioni La prima si riferisce alla necessità economica di mantenere nel tempo il valore economico e finanziario dell' investimento. Solo questa caratteristica del progetto permette di poter contare su di una capacità costante dello stesso di espandere nei quartieri intorno all area il proprio valore positivo: disponibilità dei servizi, qualità della mobilità, valore degli immobili esistenti. La seconda, conseguenza della prima, è la relazione importante esistente tra la visione della città futura e il progetto di valorizzazione: senza la prima non si può parlare di progetto "utile". Non esiste in altre parole un buon progetto che non sia in connessione e non sia derivazione della visione strategica di ciascuna città. Questo concetto di "non-autoreferenzialità" dei progetti è stato sintetizzato nel concetto di "bordo permeabile": il valore del progetto si misura sulla sua capacità di relazionarsi con l' esterno. La terza idea forte afferma che un progetto che integri le aspettative dei diversi soggetti interessati è in grado di sviluppare un valore specifico per ciascuno dei quattro stakeholders superiore rispetto a progetti mono obiettivo, riscoprendo una dimensione olistica del progetto città e di conseguenza di quello per l' area dismessa da valorizzare. Per le analisi multi obiettivo è stato utilizzato il modello messo appunto dall’ing. Alessandra Libardo, del Gruppo di Ricerca Trasporti dello IUAV di Venezia e già utilizzato per la valutazione delle alternative di progetto di alcune grandi opere. Nella predisposizione di progetti complessi, come una valorizzazione urbanistica, gli obiettivi in genere sono conflittuali tra loro, quindi risulta impossibile che esista un alternativa in grado di soddisfarli tutti. A differenza della normale utilizzazione di una analisi multicriteria o multi obiettivo dove gli obiettivi vengono individuati dal decisore pubblico unico, in questo caso si è scelto di associare ai macro obiettivi una tipologia di soggetti a cui questi obiettivi fanno principalmente riferimento.

Greta Brugnoli

3


Urban Areas Recovery

A ciascuno di questi soggetti poi sono state associate delle variabili descrittive dei loro interessi specifici. Tali variabili sono state scelte nella prospettiva del mantenimento nel tempo degli effetti economici e tecnici della valorizzazione. I metodi multi criteri normalmente permettono di valutare la miglior soluzione “di compromesso” ovvero identificano il progetto che maggiormente soddisfa gli obiettivi preposti. Gli obiettivi sono espressi tramite criteri misurabili il cui valore, ed in particolare il suo scostamento da un valore di riferimento, indica le performance dell’alternativa rispetto al singolo obiettivo. Nel nostro caso la loro utilizzazione è stata differente. Infatti sono state “misurate”, per aree differenti e progetti differenti, alcune variabili individuate con la finalità di valutare la capacità del progetto di mantenere del tempo la sua qualità iniziale e diffonderla nell’area circostante il progetto. In pratica si sono messi a confronto progetti in realtà differenti per verificare la loro capacità di perseguire un “obiettivo complesso” unico. Pur essendolo normalmente, in questo caso la definizione degli obiettivi è stata una fase ancora più delicata del processo. Infatti contrariamente alla prassi per cui tali obiettivi devono essere definiti in accordo con il futuro gestore, con gli enti locali e con i principali portatori d’interesse, in questo caso si sono volute evidenziare singolarmente queste categorie, sviluppando per ciascuna di esse una singola valutazione multi criteria. Solo successivamente è stata sviluppata una analisi complessiva per tutti gli obiettivi (portatori di interesse) insieme. A tale scopo la presente ricerca ha individuato, sulla base delle esperienze acquisite nel settore immobiliare, dell’analisi dei sei casi di studio prescelti e delle interviste (vedi il capitolo:Il punto di vista degli Stakeholders) presso esperti del settore, i seguenti obiettivi generali: il mantenimento nel tempo del valore economico, finanziario e urbanistico, il trasferimento nelle aree limitrofe del valore, la capacità di influenzare e supportare il processo evolutivo virtuoso della città. Successivamente sono state individuate complessivamente le 14 variabili valutabili e quantificabili riportate in precedenza. Queste sono state alternativamente associate a ciascun gruppo di interesse, per descrivere nella maniera più completa possibile l’utilità del progetto proposto rispetto agli specifici interessi ed agli obiettivi generali individuati dalla ricerca. Per ciascuno dei macro obiettivi, ovvero l’utilità (della collettività urbana, cella comunità di quartiere, degli investitori privati e della mobilità collettiva) sono state selezionate le variabili che descrivono il fenomeno tra le 14 individuate precedentemente. Successivamente, per ciascun macro obiettivo è stato effettuato un confronto uno a uno tra le variabili, in maniera da determinare una classifica delle variabili rispetto alla significatività di ciascuna nei confronti del singolo macro obiettivo. Una volta stilate le quattro classifiche di significatività delle variabili per ciascun macro obiettivo, ad ogni variabile nella singola classifica è stato dato un peso decrescente, partendo dalla più significativa pari a 1, scendendo di variabile e in variabile e sottraendo ad ogni scalino il 5%. Non essendo il numero di variabili significative uguale per ciascun macro obiettivo il valore minimo del peso assegnato alle variabili sarà differente da macro obiettivo a macro obiettivo. Di seguito vengono riportati i pesi delle variabili per singolo macro obiettivo. Per ogni variabile viene dato il valore registrato dai casi di studio minimo e massimo, l’effetto (direttamente o inversamente proporzionale) ed il peso assegnato dopo il confronto uno a uno descritto prima Tabella I: Collettività urbana OBIETTIVI

MASSIMO

EFFETTO

PESI

0,02

0,24

1,00

1,00

Diminuz. Traffico Privato

0,01

0,12

1,00

0,95

Collegam. Polarità Urbane

1,00

6,67

1,00

0,90

3.900,00

7.000,00

1,00

0,85

298,00

5.513,00

1,00

0,80

Sinergie Altre Riqualificaz.

0,11

0,28

1,00

0,75

Perimetro Attivo

0,30

0,70

1,00

0,70

Valore Immob. Differenziale Valore Diffuso Prodotto

Finanziamento Pubblico

0,25

0,82

1,00

0,65

91,00

394,00

-1,00

0,00

Altre Valorizz. di Prossimità

0,05

4,31

1,00

0,00

Passeggeri TPL Progetto

0,13

0,62

1,00

0,00

Proprietà Gestione Servizi

0,14

0,44

1,00

0,00

Proprietà Gestione Immobil.

0,36

0,75

1,00

0,00

Pubblica Ammin. Immobil.

0,04

0,11

-1,00

0,00

Vendibilità Immobili

Greta Brugnoli

MINIMO

Aree Pedonali Estensiione

4


Urban Areas Recovery Tabella II: Comunità di quartiere OBIETTIVI

MINIMO

MASSIMO

EFFETTO

PESI

Collegam. Polarità Urbane

1,00

6,67

1,00

1,00

Altre Valorizz. di Prossimità

0,05

4,31

1,00

0,95

Perimetro Attivo

0,30

0,70

1,00

0,90

Finanziamento Pubblico

0,25

0,82

1,00

0,85

Pubblica Ammin. Immobil. Vendibilità Immobili Valore Immob. Differenziale

0,04

0,11

-1,00

0,80

91,00

394,00

-1,00

0,00

3.900,00

7.000,00

1,00

0,00

0,11

0,28

1,00

0,00

Sinergie Altre Riqualificaz. Passeggeri TPL Progetto

0,13

0,62

1,00

0,00

298,00

5.513,00

1,00

0,00

Proprietà Gestione Servizi

0,14

0,44

1,00

0,00

Proprietà Gestione Immobil.

0,36

0,75

1,00

0,00

Aree Pedonali Estensione

0,02

0,24

1,00

0,00

Diminuzione Traffico Priv.

0,01

0,12

1,00

0,00

Valore Diffuso Prodotto

Tabella III: Investitori privati OBIETTIVI Vendibilità Immobili

MINIMO

MASSIMO

EFFETTO

PESI

91,00

394,00

-1,00

1,00

0,13

0,62

1,00

0,95

Passeggeri TPL Progetto Sinergie Altre Riqualificaz.

0,11

0,28

1,00

0,90

298,00

5.513,00

1,00

0,85

Collegam. Polarità Urbane

1,00

6,67

1,00

0,80

Altre Valorizz. di Prossimità

0,05

4,31

1,00

0,75

Pubblica Ammin. Immobil.

0,04

0,11

-1,00

0,70

Perimetro Attivo

0,30

0,70

1,00

0,65

Valore Diffuso Prodotto

Proprietà Gestione Servizi

0,14

0,44

1,00

0,60

Valore Immob. Differenziale

3.900,00

7.000,00

1,00

0,55

Proprietà Gestione Immobil.

0,36

0,75

1,00

0,00

Finanziamento Pubblico

0,25

0,82

1,00

0,00

Aree Pedonali Estensione

0,02

0,24

1,00

0,00

Diminuzione Traffico Priv.

0,01

0,12

1,00

0,00

Tabella IV: Mobilità Urbana OBIETTIVI

MASSIMO

EFFETTO

PESI

0,02

0,24

1,00

1,00

Diminuzione Traffico Priv.

0,01

0,12

1,00

0,95

Collegam. Polarità Urbane

1,00

6,67

1,00

0,90

Passeggeri TPL Progetto

0,13

0,62

1,00

0,85

Perimetro Attivo

0,30

0,70

1,00

0,80

Sinergie Altre Riqualificaz. Valore Diffuso Prodotto Vendibilità Immobili

Greta Brugnoli

MINIMO

Aree Pedonali Estensione

0,11

0,28

1,00

0,75

298,00

5.513,00

1,00

0,70

91,00

394,00

-1,00

0,00

Altre Valorizz. di Prossimità

0,05

4,31

1,00

0,00

Valore Immob. Differenziale

3.900,00

7.000,00

1,00

0,00

Proprietà Gestione Servizi

0,14

0,44

1,00

0,00

Proprietà Gestione Immobil.

0,36

0,75

1,00

0,00

Pubblica Ammin. Immobil.

0,04

0,11

-1,00

0,00

Finanziamento Pubblico

0,25

0,82

1,00

0,00

5


Urban Areas Recovery

Per quanto riguarda invece i pesi relativi alla multi obiettivo, si è scelto di calcolare l’utilità composta a partire dalle singole utilità inserite nelle quattro multicriteria sviluppate. Nell’elaborazione che viene riportata non è stata data alcun priorità a nessuno dei quattro macro obiettivi. Questa scelta è derivata dal postulato a base di questo lavoro, per cui è solo dalla elaborazione di un progetto condiviso tra i diversi attori che nasce una utilità maggiore per ciascun soggetto. La motivazione a base di questa scelta è contenuta nel successivo capitolo relativo alla contestualizzazione di questo strumento di analisi all’interno dei processi progettuali e di quelli valutativi. In pratica la messa a punto del modello è orientata nell’ottica del perseguimento del “progetto equilibrato” tra i diversi attori. Una pesatura differente e squilibrata a favore di uno, avrebbe comportato un maleficio negli altri tre obiettivi, facendo venire meno il presupposto del mantenimento nel tempo e quello del coordinamento dei diversi obiettivi. Ritenendo questi aspetti fondanti e premianti del buon progetto si è scelto di mantenere una neutralità degli obiettivi rispetto alla valutazione del progetto e al suo orientamento durante l’iter elaborativo, a seconda dell’uso che si può fare dell’algoritmo messo a punto. Tabella V: Pesi variabili multi obiettivo OBIETTIVI

MINIMO

MASSIMO

EFFETTO

PESI

Aree Pedonali Estensione

0,02

0,24

1,00

0,95

Diminuzione Traffico Priv.

0,01

0,12

1,00

0,90

Collegam. Polarità Urbane

1,00

6,67

1,00

0,79

91,00

394,00

-1,00

0,75

Passeggeri TPL Progetto

0,13

0,62

1,00

0,74

Sinergie Altre Riqualificaz.

0,11

0,28

1,00

0,70

Altre Valorizz. di Prossimità

0,05

4,31

1,00

0,69

Valore Diffuso Prodotto

298,00

5.513,00

1,00

0,69

Finanziamento Pubblico

0,25

0,82

1,00

0,69

Pubblica Ammin. Immobil.

0,04

0,11

-1,00

0,68

Perimetro Attivo

0,30

0,70

1,00

0,67

Valore Immob. Differenziale

3.900,00

7.000,00

1,00

0,63

Proprietà Gestione Immobil.

0,36

0,75

1,00

0,53

Proprietà Gestione Servizi

0,14

0,44

1,00

0,45

Vendibilità Immobili

Scopo del progetto era mettere a punto uno strumento che permettesse di valutare comparativamente più progetti proposti per la medesima area da valorizzare. In questo caso il modello è stato calibrato per aree ferroviarie dismesse che comunque mantengono anche la loro funzione nella rete della mobilità urbana. La valutazione proposta è orientata al complesso degli attori, valorizzando gli interessi di ciascuno. L’intuizione della ricerca è quella che in questo modo si orienta la progettazione, comportando un beneficio per tutti gli attori maggiore di quello ottenibile con il soddisfacimento separato delle esigenze dei singoli attori. Questo è permesso dall’introduzione della variabile temporale (mantenimento nel tempo) del valore.

Bibliografia Aa. Vv., (1998). Il recupero di aree industriali dismesse in ambiente urbano, Milano, Franco Angeli Camagni R., (1999), Il finanziamento della città pubblica: la cattura dei plusvalori fondiari e il modello perequativo, Ravenna Maggioli. Camagni R., (2003), Piano strategico, capitale relazionale e community governante, Milano, Franco Angeli. Camagni R., Gibelli M.C., (2006), Posizionamento competitivo e crescita della città pubblica:insegnamenti da Monaco di Baviera, Sviluppo e Organizzazione, 215. Cappelli A., Pozzi C., (2011). Scenari e opzioni per una mobilità sostenibile. Un rapporto per Roma Capitale. Gambino R., (1986), Il riuso delle politiche urbane, Torino, Celid. Gregotti V., (1990), Aree dismesse, un primo bilancio. Casabella, 564. Tosi A., (1988), Il recupero delle aree industriali dismesse in ambiente urbano, Milano, Franco Angeli..

Greta Brugnoli

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Conoscere e Patrimonializzare il Territorio con le Risorse Nascoste: Il Caso della Provincia di Caserta

Un Progetto con tre R da Piranesi al Padiglione Tedesco alla 13° Biennale di Venezia Daniela Caporale MIUR Email: angelicata@libero.it

Abstract Oggi Moderno può essere un frammento del passato. Le tre R si confrontano con i materiali consegnati dalla storia. Riuso è in qualche modo una Super Storia. Gli interventi sul manufatto architettonico da riprendere possono essere considerati come prove d’autore su realtà modificabili e rese sfuggenti dall’attuale degrado o dall’essere funzionalmente arretrate o inservibili. La dialettica sembra essere quella tra una tecnologia che non si può più misurare coi tempi, processo oltretutto inarrestabile e che tende ad invecchiare precocemente ogni manufatto, ed una figura invece da conservare come testimonianza interessante da investire da uno sforzo creativo. Le tre R, in antitesi a processi demolitivi, costringono ad un ripensamento nell’ottica di un sofisticato confronto con l’offerta ambientale. Ciò non significa assolutamente depotenziare l’industria edilizia ma solamente riconvertirla verso il recupero delle numerose zone che necessitano di sostituzione, ristrutturazione, restyling o riorganizzazione all’interno delle enormi aree urbanizzate esistenti: periferie prive di servizi, aree ex industriali abbandonate, cave da rinaturalizzare, centri storici da recuperare, stock edilizio fatiscente, aree produttive e infrastrutture che richiedono minimizzazione di impatto ambientale. Parole chiave Storia Progetto Entropia

1 | Ripartire dall’esistente Il tema del Riuso in campo urbanistico-architettonico rappresenta una presa di coscienza e una presa d’atto dell’enorme patrimonio edilizio presente sul nostro territorio, in termini planetari. Facciamo rientrare in questo patrimonio numerose voci, dalle infrastrutture alle zone ex-industriali, ma anche edifici di un certo rilievo che circostanze di cambi di destinazioni hanno sottratto alle precedenti fortune. Facciamo rientrare soprattutto i centri storici che in molte città italiane hanno rappresentato una presenza in abbandono, eppure sono il patrimonio culturale per eccellenza, quando dal secondo dopoguerra in poi la nuova risposta abitativa ha sostituito definitivamente la residenza storica. Questa presenza esercita una pressione su qualsiasi intervento del nuovo. Questa cubature, siano volumi in via di degrado, siano manufatti obsoleti, siano infrastrutture in disuso, siano soprattutto l’enorme porzione di post-industriale ereditato dal 20° secolo, costituiscono una attualità con cui ogni progetto del nuovo è costretto a confrontarsi. Solo il territorio italiano è già di per se iper-edificato. Le superfici ‘artificiali’ sono circa il 5% dell’intera superfice. Certamente un discorso di tipo economico potrebbe far credere che scelte di riutilizzo siano più convenienti di quelle che invece passano per demolizioni e smaltimento. Oltre al fatto che ‘smaltire’ tali strutture pone altri problemi di ordine ambientale mentre ‘lasciarle’ individua una fase in meno onerosa nell’analisi costi-benefici e soprattutto considera i processi edilizi in una ottica di sostenibilità e di impatto ambientale. Questo atteggiamento realistico, anche se non necessariamente meno costoso, di individuare il lascito come un ‘fatto in sé’ può vedere il Riciclo come possibilità delle frontiere green in ambiti anche assai lontani dell'ecosostenibilità. Insomma una vasta serie di esigenze, risparmio energetico, risparmi nella fornitura di servizi urbanistici e sociali, salvaguardia e tutela del poco spazio inedificato, fanno supporre un atto di arresto dell’attività edilizia perlomeno in parte da dirottare verso esperienze più complesse e articolate. Nell’ottica di interventi che abbiano come punto di partenza la dialettica tra rendimento, funzionalità ed economia si può pensare di intervenire con le seguenti ipotesi di lavoro: recupero Fabio Converti

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Conoscere e Patrimonializzare il Territorio con le Risorse Nascoste: Il Caso della Provincia di Caserta

delle numerose zone che necessitano di sostituzione, ristrutturazione, restyling o riorganizzazione all’interno delle enormi aree urbanizzate esistenti. Ancora, proviamo solo a enumerarne alcune: periferie prive di servizi, aree ex industriali abbandonate, cave da rinaturalizzare, centri storici da recuperare, stock edilizio fatiscente, aree produttive e infrastrutture che richiedono minimizzazione di impatto ambientale, adeguamento generalizzato alle norme di accessibilità allargata, ridisegno e armonizzazione paesaggistica di contesti intrusivi e disturbanti, sostituzione di manufatti incongrui o degradati. Non si può non cominciare per vedere individuarsi questa strategia di Riutilizzo Urbano dall’esperienza della Manhattan’s High Line di New York: 1, 22 km di parco lineare progettata dal Landscape Architecture Studio - James Corner Field Operation. Qui il ‘ridurre’ è doppio: riduzione dei costi di demolizione della ferrovia sopraelevata (azione in un primo momento ventilata) riduzione dell’azione di redesign, anzi solo minimi sforzi green. Il ridisegno infatti coinvolge soprattutto nuovi sistemi idrici, acqua, qualità dell’aria, biodiversità, coinvolti per risignificare un pezzo del trash newyorkese creando un vibrante luogo pubblico. Lo Studio di Corner si approccia all’esistente attraverso operazioni poco costose e poco invasive, di riduzione quindi - Lifescape redesing - in modo da costruire degli ‘Event Space’ dove regnava una condizione di abbandono e degrado. La strategia ‘punta’ sulla natura, tanto da arrivare a teorizzare una AgriArchitecture. Il viadotto lineare accorda esigenze di tempo libero, ‘piacere urbano’ con una contaminazione di materiali naturali, a coltivo ed esperienze costruite preservando la stranezza dell’High Line e utilizzando come opportunità e processo dinamico la situazione esistente e i suoi ‘nodi’. Con un’altra scala si lavora invece per le Shrinking Cities ‘problema’ non solo americano dove se ne contano 59 ma ‘mondiale’ dalla Cina al Brasile al Vietnam. I rimedi sono di ordine finanziario attraverso operazioni di businesses per rivitalizzare i centri in semiabbandono e prevedere attività che richiamino nuova popolazione e visitatori. Quelli di Planning sono interventi di ‘renaturalizzazione’ (Harvard University). Il tema è in questo caso come supportare e ricollocare città che, dopo crisi e perdita demografica, sono oggi grandi paesaggi urbani sovradimensionati e svuotati di funzione e senso. Incrementare la densità diventa una parola d’ordine. L’Arte diventa una nuova possibile chiave di volta per produrre effetti inclusivi (Village of Arts and Humanities nel North Philadelphia).

2 | Storia e progetto Questo recupero di paesaggi di città affonda in esperienze più auliche che hanno però come tema l’attualizzazione dell’antico. Sotto certi aspetti i due processi sono però opposti e poi si vedrà il perché. L’esperienza di Superstudio per il Colosseo Sopraelevato è infatti per certi aspetti divergente dall’idea di rendere monumento o almeno dispositivo di cambiamento, un oggetto in disuso. Se l’Architettura Radicale partiva da temi alti per innestare nuove scalarità , piastre superfici illimitate e monumenti continui... oggi il problema appare inverso. Oggi infatti si tratta di ‘rimpicciolire’ interventi che si impostavano su previsioni Iper. Il rimpicciolire è per certi aspetti quel Ridurre di cui parliamo ed è per certi versi un ridare qualità. Riduzione per elementi qualitativi dunque sia quando si renaturalizzano tecnologie obsolete sia quando si fa brano di ecosistemi su parti intere di organismi urbani. Ancora alla fine degli anni ’70 Eisenman si rivolge alla più unitaria e intoccabile delle città italiane, Venezia, Venezia è un pesce, città organismo e città monumento totale perché dalle sue fibre affiorino le tracce di un palinsesto che ne assicuri una modernità protettiva. Quindi tra Superstudio per il Colosseo e Peter Eisenman per Cannareggio a Venezia c’è una poetica simile che vede nel monumento una rottura con la facile e dequalificabile modernità… questa storia avrebbe la possibilità di accentrare nuove iniziative e di ancorarle nello stesso tempo a scelte critiche. In questi esempi la necessità di adottare misure proporzionate a nuove possibilità offerte dalla tecnologia non voleva rifuggire dal coinvolgimento delle ‘preesistenze ambientali’ cercando di allacciare l’uno all’altro invece di trattare il problema con due criteri separati. Qui la preziosità affiora e viene dal passato mentre oggi siamo noi a dare l’aulico all’intervento sul più banale accumulo di cubatura altrimenti rifiuto. Un altro asse Piranesi-Studio francese Lacaton & Vassal. Piranesi si trova difronte alle Rovine e le mette in prospettiva: sui loro resti edifica grandi strutture settecentesche (il primo secolo della modernità messo difronte all’esigenza di costruire per le masse rese partecipi della Storia i dai principi rivoluzionari). Lacaton&Vassal sono coinvolti invece sulle nuove rovine delle città europee, straordinario patrimonio di costruzioni, una per tutte il Palais de Tokyo costruito nel 1937 per l’Esposizione internazionale di arte e tecnologia di Parigi. E’ proprio il cofondatore ed ex-direttore del Palais de Tokyo, Nicolas Bourriaud ad aver introdotto il termine ‘postproduzione’, termine che dovrebbe indicare una forma di riutilizzo che sotto certi aspetti Produce nuovamente il Prodotto. Post produce e non riproduce. Spinge ancora avanti il produrre. La proposta per quest’edificio, tra l’altro anche riutilizzato come museo nazionale di arte moderna, come Centro nazionale della fotografia e ancora come Palazzo del cinema, fu una ‘postproduzione leggera’ che valorizzava le caratteristiche della ‘fragile conchiglia’ con lo scarno budget messo a disposizione dal ministero della Cultura (2001, inaugurazione della prima fase di 8000 metri quadrati). In sintesi possiamo dire che quest’intervento si pone come una prova d’autore su un oggetto architettonico inteso come realtà modificabile perché reso sfuggente dall’attuale degrado o dall’essere funzionalmente arretrato o inservibile. Non si tratta di un intervento di restauro, e neanche di un adeguamento tecnologico. È proprio la tecnologia ‘il mostro’ che non va più inseguito, da quando si è presa coscienza che la tecnologia non può che sempre Fabio Converti

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invecchiare e sempre più precocemente, mentre la figura, l’altro termine del discorso architettonico, mostra insistentemente la sua tenace attualità. Il silenzio tecnologico imprime a quest’intervento un’aria di post archeologia consegnandolo nudo e perenne ai posteri. Sempre nella prospettiva di grande riciclaggio di utensili dismessi hanno lavorato Frank O. Gehry e Venturi. Alla 13° Biennale di Architettura di Venezia del 2012 il padiglione Tedesco interviene con Reduce Reuse Recycle: forme di riuso del patrimonio architettonico esistente con progetti ad altissimo grado di innovazione ma realizzati a cubatura zero. Si tratterebbe quindi quasi di un paradosso, fare architettura senza costruire nulla o quasi nulla. L’ipotesi o forse la sfida consisterebbe nel resistere alla tentazione di ‘mettere’ nuovi volumi ingombrando spazi altrimenti liberi, e costringersi in una progettazione che tolga, liberando superfici anziché occupandole. Ci stiamo spostando dal costruire al preservare il paesaggio dal costruire stesso, paesaggio visto come «un entre deux fra la sfera dell’individuo e la sfera collettiva» (Settis 2012) e che dunque rappresenta una straordinaria cartina di tornasole, un test per intendere come il cittadino vive se stessoin relazione all’ambiente che lo circonda e alla comunità che vive. Anche se probabilmente questa posizione di privilegio che sta venendo ad assumere il paesaggio a discapito di un’azione di modifica attraverso l’attività edilizia può essere spia di una profonda crisi in atto nella disciplina, proviamo a seguire questa ipotesi di lavoronon lavoro apparentemente molto punitiva rispetto all’‘agire’. Molti padiglioni nazionali presenti alla XIII Biennale di Architettura hanno proposto strategie che sembrano in larga parte contraddire la professione stessa dell’architetto, suggerendo forme di riuso e riqualificazione di luoghi e manufatti già esistenti. Ne viene fuori una disciplina diversa che non è da confondersi con il restauro con cambi di destinazioni d’uso, ma di una vera e propria riconcettualizzazione delle opere attivata con piccoli interventi puntuali e a basso contenuto tecnologico. Anche in questo caso dunque le tre R, in antitesi a processi demolitivi, costringono a un ripensamento nell’ottica di un sofisticato confronto con l’offerta ambientale. Riducendo l’ambiente alle sue masse e alle sue volumetrie si possono sondare campi di intervento che ‘germoglino’ dal passato visualizzandone profili intriganti, striandone la zavorra, rendendo le preesistenze un piano di ardite sperimentazioni. Gli edifici prospettati dal Padiglione Tedesco, immobili degli anni ’50 e ’70 in Germania, sono offerti come immagini congelate e simultanee da far rinvenire con una promenade di emergenza con l’acqua alta. L’architetto, come in una cover, realizza il dettaglio di un brano già scritto, e scritto da altri. Arroccato nel dettaglio l’architetto enfatizza o finge di tralasciare questo inserto a cui però spetta sicuramente il discorso sulle cose attuali e che conserva come un segreto ingranaggio, come un prezioso ritrovamento, tecniche e materiali altri, di oggi. Questa presenza post-produce l’ edificio su cui si opera... lo spinge oltre il suo punto di arresto... lo mette in condizione di riesserci. Economico? Non per forza, solo per la selezione degli edifici a cui si può dare questa nuova occasione sono messe in campo moltissime energie di analisi e comparazione. Solo per individuare come vada localizzato un intervento sotto ogni aspetto qualitativo sottopone la casistica a più di una verifica. Gli Statunitensi vanno ancora oltre rappresentando progetti spontanei, realizzati spesso senza autorizzazione e senza l’apporto di figure professionali, che sono stati realizzati come azioni di design per il bene collettivo. Si va dall’installazione di distributori di proiettili per fionde fatti di terra e semi per contaminare naturalmente terreni abbandonati, alla trasformazione di cabine telefoniche in mini librerie pubbliche, passando attraverso aiuole portatili, drive-in temporanei allestiti su edifici abbandonati e giardini pensili da affittare sul tetto del proprio condominio.

3 | Il parco come contenitore di cambiamento, il giardino come micropaesaggio Sempre in Europa si è fatto coincidere il programma di un Nuovo Parco con un Progetto di Risanamento di zone degradate con l’Olympic Park Sustainable di Londra. Il Parco Olimpico di Londra utilizza infatti il poderoso investimento per risignificare una zona di margine e costringere le azioni finanziarie a riconfigurare, contemporaneamente a un evento eccezionale, i caratteri di una nuova accessibilità ad una zona periferica. Infatti la localizzazione a Stratford ha coinvolto la rigenerazione di un centinaio di ettari di suoli industriali. Finalità trasversali all’effettiva realizzazione delle strutture Olimpiche risultavano essere queste: «cambiamento climatico, rifiuti, biodiversità, salute e inclusione sociale» (Bourriand 2002). Greenway e corsi d’acqua generano spazi pubblici di connessione con i quartieri circostanti, Hackney Wick, Fish Island, Bromley-by-Bow, Leyton e Stratford applicando in modo estensivo i principi della progettazione sostenibile. I cinque temi prioritari sono intesi come politiche d’area. Ma il super pensiero è quello che con il Master Plan viene anche concepito un futuro per il Parco oltre gli scopi attuali, attraverso una società, l’Olimpic Park Legacy Company (OPLC) che si occuperà dell’area per i 25-30 anni successivi. C’è un incontro quindi tra territorio e comunità che ne beneficia, nel tempo, cercando di perpetuare un’idea di bene comune che dovrebbe fare da supporto e creare continuità oltre che attivare diritti-doveri di protezione e di difesa. Tutta un’altra scala è quella utilizzata, nel campo delle trasformazioni verdi, dall’atelier balto. Questi jardiniste, artisti giardinieri, posseggono le tecniche plasticopittiriche , ma anche quelle dell’orticultura e del giardinaggio. Rivelatisi al pubblico col Jardin Sauvage (2002) hanno operato su una striscia di terrain vague impraticabile, un budello dimenticato, lungo e stretto, schiacciato tra quattro muri d’altezza variabile fra i venti e i quaranta metri, mai raggiunto da raggio di sole e solcato dalle subdole correnti attivate dalle griglie di aereazione dell’edificio. Centocinquanta diverse specie di Fabio Converti

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rose, ortensie, rampicanti, alberi del paradiso, erbacee perenni, ricoprono il parterre, «il sistema di irrigazione è sospeso a sei metri da terra per una nebulizzazione effetto pioggia» (atelier le balto 2008).

4 | Reuse Restore Renew - Atelier Museu Julio Pomar, Alvaro Siza, Lisbona, Portogallo - Thalia Theatre, Goncalo Byrne, Arquitectos LDA, Lisbona, Portogallo - École De Musique, Maurice Durufle e OPUS 5, Louviers, Francia - Casa A2, VPS Architetti, Trequanda (Si), Italia - Bernardas Convent, Eduardo Souto de Moura, Tavira, Portogallo - Hertziana Biblioteca, Navarro Baldweg Associati, Roma, Italia - Gelato Museum Carpigiani, Metek architecture, Anzola dell’Emilia (Bo), Italia - Grindbakken, Rotor, Gent, Belgio

Bibliografia Monografie Settis S. (2012 ), Contro il degrado civile. Paesaggio e democrazia, La scuola di Pitagora Editrice, Napoli. Atelier le balto (2008), Archipel. L’arte di fare giardini, Bollati Boringhieri, Torino. Bourriand N. (2002), Postproduction: Culture as screenplay, Lukas & Sternberg, New York. Sito web The High Line http://www.nyc-architecture.com /CHE/CHE029-TheHighLine.htm on New York Architecture Images

Fabio Converti

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Disegni di Riciclo

Disegni di Riciclo Chiara Cavalieri Università IUAV di Venezia Dipartimento: Culture del Progetto Email: chiaracavalieri.cc@gmail.com

Abstract Disegnare un territorio è un processo critico che orienta lo sguardo verso alcune direzioni predeterminate. La sfida che la città pone oggi a caratteri capitali è quella di riconoscere nuove regole, ri-usando, riciclando, riducendo o ri-distribuendo il materiale esistente. Per riuscire a decifrare questa nuova grammatica, è necessaria una lettura del territorio, ovvero un disegno, una mappa, che sveli le potenzialità intrinseche dei luoghi. È evidente che a territori differenti corrispondono serie di mappe differenti che mettono -caso per casoin evidenza geografie di accumulo, di crisi, di spreco e, infine, di riuso. Geografie caratterizzate anzitutto da una concentrazione di energia grigia, imprigionata nei caratteri immanenti della città e manifesta a densità differenti. In quest’ottica, la concentrazione di lavoro, di risorse ed energia, racchiusa nei singoli materiali urbani definisce una sorta di genealogia del ciclo e del riciclo. Parole chiave mappa, riciclo, suolo

Ciò che c’è Parlare di riciclo significa porre l’accento sull’esistente in almeno due direzioni. In primo luogo, la crisi energetica ci obbliga a leggere il territorio come un immenso deposito di energia. La lenta costruzione della città non è che –in questa ottica– il deposito dell’energia utilizzata per costruirne le sue parti, l’ energia grigia – embodied energy– definita come quella quantità necessaria a produrre, trasportare e smaltire un manufatto1 (fig.1). Inoltre la crisi economica e molti aspetti ad essa associati, hanno prodotto il paradosso che gran parte di quel patrimonio edilizio nel quale ci apprestiamo a porre l’attenzione sia di fatto in disuso, ora perché abbandonato, ora perché mai utilizzato, ora perché non finito. Parlando di patrimonio edilizio non mi riferisco soltanto al singolo manufatto, ma anche e soprattutto a tessuti urbani, infrastrutture, e sinergie territoriali obsolete che mostrano evidenti necessità di essere ripensate. In Italia parlare di riciclo significa osservare ancora una volta il deposito edilizio che tra gli anni ’60 e ’70 ha cambiato il volto del territorio nazionale; significa rinunciare al nuovo e mettere a punto nuovi strumenti che permettano una riflessione urbana e territoriale, e con essa un progetto, che parta dall’esistente e dalla sua modificazione. Significa, in altre parole, sforzarsi di riconoscere dei cicli di vita (Viganò, 2012: 17-18), siano essi produttivi, ambientali, edilizi, economici o sociali, che, giunti a punto di non ritorno, richiedono uno sforzo descrittivo che fuoriesce dalle tradizionali analisi del ‘ciò che c’è’. Uno sforzo che deve restituire un’immagine del passato in qualche misura inedita e che permetta di esplorare nuove categorie per costruire una diversa rappresentazione del territorio. L’ipotesi di partenza su cu si basa questo testo è che una ricerca sul riciclo possa e debba fondarsi a partire dal ridisegno del territorio, mettendo in evidenza geografie di accumulo, di crisi, di spreco, e dunque di potenziale riciclo.

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Cfr. Wikipedia, «embodied energy is the sum of all the energy required to produce any goods or services, considered as if that energy was incorporated or 'embodied' in the product itself»

Chiara Cavalieri

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Disegni di Riciclo

Figura 1. Veneto Centrale, Embodied Energy, A differenti categorie di uso del suolo sono associati differenti valori di energia grigia. (a sfumatura più scura corrisponde un deposito maggiore). Fonte: Lorenzo Fabian in Fabian, Giannotti, Viganò (2012):18.

Geografie possibili È evidente che la categoria di riciclo può contenere al suo interno molte sfumature di significato e allo stesso tempo molte classi di oggetti 'da riciclare'. Classi e sfumature di materiali e dispositivi costituiscono più che altro gli appunti per un programma di ricerca più ampio, che però prende le mosse a partire da alcune riflessioni preliminari. Quando si pensa al riciclo in ambito urbano-territoriale la prima immagine che viene in mente è il drosscape (Berger, 2006), ovvero le grandi aree produttive dismesse, l’archeologia industriale. È questo uno degli elementi macroscopici del riciclo, la sua sfumatura più grossolana. Ai brownfields corrispondono, a scala più microscopica, i singoli manufatti abbandonati, visivamente degradati, indipendentemente dal valore storicoartistico ma piuttosto con un’attenzione particolare posta nel potenziale energetico che rappresentano (fig.1). Proseguendo secondo questo ragionamento, e osservando lo stato di conservazione dei manufatti, una seconda geografia può essere costituita dalla grande famiglia del non-finito, tipicamente italiana e visibile soltanto attraverso un rilievo sul campo2. Si fa riferimento sia a cantieri mai portati a conclusione sia al fenomeno dell’abusivismo in attesa di condono, elementi che oggi costituiscono una caratteristica tanto diffusa nel paesaggio italiano da non poter essere trascurati. Diminuendo la sfumatura ci si allontana via via dai temi più tradizionali per avvicinarsi invece a fenomeni più recenti, e più caratteristici dell’ultimo decennio. Il terzo gruppo è infatti costituito dall’immenso patrimonio immobiliare non utilizzato ma pronto all’uso –o al riuso–, quindi in affitto o in vendita; geografia, questa, rintracciabile attraverso ricerche combinate sul campo e l’esplorazione dei molti portali internet che sistematizzano questo tipo di informazioni. Manufatti di dimensioni 2

cfr. il rilievo per il Piano di Prato (93-96) di Bernardo Secchi e Paola Viganò. Lo stesso rilievo è stato usato per molti Piani successivi degli stessi progettisti e di recente ripreso in occasione della preparazione di un workshop internazionale “Recycling City 2. Energy, recycling and the diffuse city” , a cura di C. Cavalieri, L. Fabian e P. Viganò (responsabile scientifico), i cui materiali sono in corso di pubblicazione.

Chiara Cavalieri

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ed soglie storiche differenti –dal capannone all’autorimessa, dal dopoguerra ai primi anni duemila– sono di fatto inutilizzati perché l’offerta eccede sempre più la domanda. Questo tipo di disuso è ancora in qualche misura riconducibile e riconoscibile allo sguardo, seppur a scala microscopica. La quarta famiglia esplora invece un disuso meno visibile, che investe porzioni di manufatti, un sottoutilizzo. Si tratta dei molti casi di spazi ormai inadeguati alle funzioni per cui erano stati pensati, in cui parti di essi vengono abbandonati. Si tratta ad esempio delle villette isolate con giardino, tanto tipiche della città diffusa quanto appartenenti a un preciso paradigma sociale, ormai superato –la famiglia patriarcale– e ormai abitate da coppie di anziani3. Si tratta ad esempio di capannoni che hanno diminuito l’attività produttiva, e di manufatti di varia natura sovradimensionati o da ridimensionare. Un ultimo sguardo, infine, deve essere rivolto a materiali urbani che, pur continuando a svolgere la propria funzione, risultano inadeguati –ad esempio, dal punto di vista del consumo energetico– rispetto alle nuove condizioni economiche e ambientali con cui l’ambiente urbano si trova a dialogare4. Questo primo e provvisorio tentativo di classificazione si sovrappone a una trama di oggetti molto diversificata, la cui complessità costruisce caso per caso, ‘cicli’ differenti (Braungart, McDonough, 2009). Gli oggetti del riciclo del territorio possono essere divisi in tre differenti classi, che descrivono tre materiali urbani distinti ma complementari, e che dialogano tra loro a scale differenti. La prima classe è la più intuitiva e costituisce quella presa a titolo d’esempio per la descrizione delle sfumature del riciclo: si tratta dei manufatti, intesi quali il patrimonio dell’abitare e del produrre, edifici militari e del turismo per lo più abbandonati a se stessi. Manufatti che però necessitano di elementi che li mettano in relazione e che ne costituiscano il supporto. La seconda classe infatti è costituita dalle reti, dalle infrastrutture, materiali e immateriali, visibili e invisibili, che disegnano il territorio e incidono pesantemente nel bilancio di energia grigia. Per infrastrutture si intendono le infrastrutture stradali, i tracciati ferroviari dimessi, dei quali sono nel territorio veneto sono presenti centinaia di chilometri5, aeroporti e aviosuperfici, porti dismessi, reti idriche e di scolo inadeguate o mai utilizzate (Ferlenga, 2012: 25-27). A queste due geografie fondamentali del disegno del territorio è necessario affiancare un ulteriore elemento, il suolo. Suolo in quanto possibilità di relazioni e interazioni, suolo inquinato e quindi da bonificare, suolo inteso come spazio fondamentale del progetto di città e di territorio (Secchi, 1996).

Disegni di suolo Come visto, le geografie che ho cercato di abbozzare sono molte, e ognuna di esse conduce ad un disegno, ad una mappa, che, una volta ricostruita, mette in evidenza alcune potenzialità latenti capovolgendo il paradigma di osservazione e passando dunque da ‘disuso’ a ‘riuso’. A partire da queste considerazioni, la geografia che viene esplorata di seguito, è una geografia idraulica, nella quel l’elemento obsoleto è la stessa macchina idraulica che ne garantisce l’esistenza. Facendo riferimento alle categorie definite in precedenza, si tratta di un’esplorazione in cui l’oggetto del riciclo è l’infrastruttura della bonifica che richiama a una geografia che può essere definita di sottoutilizzo. Una geografia che ricalca e insegue le tracce di quelle trasformazioni responsabili dello stato di emergenza cui oggi è esposto un territorio –bonificato a più riprese – e nel quale le conseguenze dei cambiamenti climatici minacciano emergenze irreversibili. Il territorio preso in considerazione è costituito da un transetto –rappresentato entro una cornice di 30x30 km– posto immediatamente a nord della laguna di Venezia e compreso tra i fiumi Sile e Piave in cui l’infrastruttura idrica, la rete di bonifica, emerge dal disegno come l’evidente responsabile dell’assetto dei suoli, delle infrastrutture e dei tessuti dell’edificato. Questi luoghi, infatti, in età romana erano radicalmente differenti da oggi; erano costituiti da isole, lagune, selve e piccoli nuclei urbani che si affacciavano sull’acqua, connessi al mare tramite una fitta rete di navigazione interna. Con il tempo, le lagune litorali subiscono un lento ma progressivo interramento a causa delle acque torbide del Piave, il cui corso originale attraversava il transetto a valle di San Donà di Piave e sfociava a Jesolo, non senza sbocchi secondari nella laguna di Venezia (Consorzi di Bonifica Riuniti del Basso Piave et al., 1956). Per evitare la stessa sorte anche alla laguna di Venezia, il governo della Serenissima, a partire dal XVI secolo, mette in opera una serie di misure che portano progressivamente alla 3

queste riflessioni sono state svolte –attraverso ricerche sul campo e interviste– dagli studenti del Master Internazionale Emu (European Master in Urbanism) Carlos Salinas, Perrine Frick, Jesus Garate nel corso del Fall Semester 2012-2013 presso l’Università IUAV di Venezia. 4 Bernardo Secchi ha in più occasioni messo a fuoco i punti fondamentali della “nuova questione urbana”. In particolare, a Zurigo presso la scuola di architettura ETH, il giorno 9.11.2009 sottolinea che l’emergere esponenziale, nel corso degli ultimi decenni, della questione ambientale, e del suo potenziale di rischi, coincide, insieme all’emergere di altre dinamiche, con la nascita di una nuova questione urbana. Questione, quest’ultima, in cui, ambiente, mobilità e disuguaglianze sociali rappresentano le sfaccettature di una società in cui il crescere dell’individualismo, della consapevolezza della scarsità delle risorse e la fiducia nel progresso tecnologico stanno costruendo immagini, politiche e progetti contrastanti se non addirittura in conflitto tra di loro. 5 Uno tra i cataloghi più completi della rete delle ferrovie dismesse in Italia e del loro riuso, formale o informale, è il sito www.ferrovieabbandonate.it. Il sito è basato sulla partecipazione degli utenti, e quindi compilato ed ampliato dai singoli allo scopo di costruire in maniera sempre più dettagliata una mappa nazionale delle ferrovie dismesse. Chiara Cavalieri

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completa estromissione dei corsi di Piave e Sile dal bacino lagunare veneziano. Gli stessi confini del transetto sono dunque frutto dell’opera dell’uomo. La stessa orditura interna, d’altra parte, è una grandiosa operazione di suolo messa in atto in maniera sistematica agli inizi del XX secolo. A inizio secolo, infatti, a parte le poche superfici bonificate da iniziative private (fig.2), i territori emersi erano idraulicamente tutti a scolo naturale, organizzati sin dagli inizi del XIX secolo, in due consorzi di scolo. Altimetricamente la zona si presentava degradante verso la costa con una dorsale mediana più alta, che dà motivo alla divisione idraulica dei due bacini. Con questo sistema i terreni alti e cioè contigui a quei corsi d’acqua che intersecavano senza argini le antiche lagune, potevano ritenersi esenti - salvo casi eccezionali- da fenomeni di inondazione. I terreni bassi invece fruivano dello scolo intermittente offerto dal gioco di marea ed erano sfruttati a prato, a pascolo, a risaia. I terreni paludosi, infine, costituivano i bacini di laminazione delle acque superiori nei periodi di alta marea, in modo da garantire la coltivazione continuativa delle terre alte.

Figura 2. Assetto dei suoli agli inizi del XX secolo. Mappa elaborata dall’autore. Fonte dei dati: Regione Veneto, Sit, Fassetta L. (1956), Vicende idrauliche del territorio fra il 1400 e il 1900, in Consorzi di Bonifica Riuniti del Basso Piave et al. (1956): tavola 1.

I piccoli appezzamenti a scolo meccanico erano casi rari che, solitamente, iniziavano dalle zone marginali, le meno depresse, per poi spingersi verso i territori paludosi compatibilmente ai mezzi idrovori di cui si disponeva. L’efficienza di queste iniziative private era ben discutibile. Anche per questo alla fine del secolo, si fa strada l’idea della bonifica integrale6 e, con essa, anche il consenso generale verso questa soluzione. Questa infatti, rimedia a tutte le imperfezioni, assorbe tutti i lodevoli tentativi e garantisce quella sicurezza idraulica che, singolarmente, nessuno avrebbe mai potuto realizzare (Bevilacqua, Rossi-Doria,1984: 57-59).

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il concetto di bonifica integrale è introdotto dalla legge italiana nel 1912. Con il termine integrale si intende l’obbligo, dopo l’esecuzione dell’opera idraulica di continuare fino al termine di quella agraria. Tutto il ventennio fascista opererà secondo questo principio.

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Riciclo idraulico La bonifica meccanica si basa su un principio molto semplice: togliere l’acqua da terreni sommersi, arginarli, costruire una rete di scolo che convogli le acque in un unico canale scolmatore, il più basso, dal quale un mezzo idrovoro pompa l’acqua dal basso verso le acque dei corsi principali –in questo caso Sile e Piave– poste a una quota superiore. Le idrovore, una volta completato il prosciugamento iniziale, vengono attivate quando il livello dell’acqua sale sopra il livello di guardia. Questo accade per ragioni diverse: in caso di precipitazioni; per raccogliere le acque di irrigazione ivi immesse attraverso condotti di adduzione; per le acque di infiltrazione; infine per pompare le acque –seppur in piccole quantità– immesse nella rete di scolo per garantire le condizioni igienico sanitarie dei canali e non generare ristagno. Il territorio è così organizzato in bacini di scolo, – regimentati dal funzionamento di un’idrovora– e in sottobacini, a loro volta arginati e dotati di una rete irrigua e una di scolo, regolati da dispositivi –briglie, chiuse, botti, chiaviche– che invitano o impediscono il passaggio dell’acqua da un sottobacino all’altro. Questa breve descrizione del processo di trasformazione e di funzionamento del territorio preso in esame, è accompagnata da due disegni dei suoli. Il primo (fig.3), che testimonia il funzionamento della rete, tracciando la minuta orditura del canali di scolo e di irrigazione, segnalando le idrovore, garanti dell’equilibrio anche se ormai obsolete perché macchine energivore7, e infine le arginature, elemento costante di questo paesaggio. Un secondo disegno (fig.4) accompagna questa macchina territoriale dall’equilibrio precario: una carta della microtopografia che, segnando punto per punto il rilievo del suolo, rivela le antiche depressioni, la traccia delle diversioni dei corsi d’acqua, e alcune regole insediative altrimenti non riconoscibili.

Figura 3. Transetto Sile-Piave: Sistema delle bonifiche. Mappa elaborata dall’autore. Fonte dei dati: Regione Veneto, Sit, Carta Tecnica Regionale, Consorzio di Bonifica Veneto Orientale. 7

Una direttiva Europea del 2009 fornisce le linee guida per la progettazione eco-sostenibile dei prodotti connessi all’energia, il cui Regolamento, di recente formulazione, impone specificatamente un miglioramento dell’efficienza degli impianti idrovori dal 20 al 30%. Le misure minime dovevano essere attuate entro 1 Gennaio 2013, per completarne poi il miglioramento entro il 2015.

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Si rende evidente l’emergere di una geografia di barriere, di un grande progetto di suolo, che è divenuto matrice e occasione di infrastruttura e di relazioni. Infrastruttura che diviene uno dei caratteri costitutivi del territorio e spunto per una nuova riflessione. L’argine è un elemento a partire dal quale prendono forma i tracciati stradali, la morfologia del costruito, l’elettrificazione e gli invasi dell’acquedotto. Crocevia di reti, materiali e immateriali, la barriera costituisce l’elemento per provare a immaginare degli scenari attraverso il tempo, nel quale un nuovo ciclo di modifica del suolo potrebbe porsi come chiave del riciclo di un sistema che mostra sempre più i suoi limiti. A partire da una descrizione minuta del territorio, è possibile dunque costruirne una nuova immagine, in cui il paesaggio della bonifica, offre nuovi spunti per un progetto che si fonda sulle sue stesse regole costitutive.

Figura 4. Transetto Sile-Piave: Microtopografia. Mappa elaborata dall’autore. Fonte dei dati: Regione Veneto, Sit, Carta Tecnica Regionale, IPCC.

Cicli di mappe Anche il territorio della bonifica dunque, massima espressione del potere incontrastato dell’uomo nei confronti del sistema naturale, del paradigma di resistenza (Klein et al., 2011; Mc Neill, 2010), giunto alla fine di un ciclo offre, se osservato nelle sue caratteristiche più minute, aperture per immaginarne uno nuovo. Un ciclo che fa fronte alle emergenze ambientali, ai problemi idraulici di cui ne è allo stesso tempo causa e conseguenza, e di cui implicitamente suggerisce le regole. Un ciclo che potrebbe costruirsi a partire dall’elemento costitutivo, la barriera –e con essa il bacino– che potrebbe divenire nel contempo nuova unità minima di progetto, e struttura territoriale a partire dalla quale immaginare la crescita della città secondo filamenti lineari oggi abbozzati ma strutturalmente definiti. Un ciclo immaginato a partire da un disegno (fig.5), da un’operazione descrittiva che allo stesso tempo contiene la dimensione progettuale di ogni esercizio descrittivo critico (Munarin, 1997: 41). Se, infatti, ogni

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rappresentazione è un progetto implicito, a ogni geografia di riciclo corrispondono regole e linee guida per ripensare l’esistente a partire dalle sue stesse specificità.

Figura 5. Transetto Sile-Piave: Mappa delle barriere. Mappa elaborata dall’autore. Fonte dei dati: Regione Veneto, Sit, Carta Tecnica Regionale, Consorzio di Bonifica Veneto Orientale.

Bibliografia Berger A. (2006), Drosscape: Wasting Land in Urban America , Princeston Architectural Press, New York Bevilacqua P., Rossi-Doria M. (a cura di,1984), Le bonifiche in Italia dal ‘700 a oggi, Laterza, Roma Braungart M., McDonough W. (2009), Cradle to Cradle. Remaking the way we make things, Vintage, London Bianchettin Del Grano M. (2012), “Soft Urban: Changing Seattlements and Renovation Processes” in Fabian L., Giannotti E., Viganò P. (a cura di, 2013), Recycling City. Lifecycles, Embodied Energy, Inclusion, Giavedoni Editore, Pordenone, pp. 72-79 Cavalieri C. (2012), Infrastrutture Controcorrente in Albrecht A., Biraghi M., Ferlenga A. (a cura di, 2012), Architettura del Mondo, Catalogo triennale, Editrice, Compositori, Bologna, pp. 318-320 Cavalieri C. (2012), Acqua e Asfalto. Scenari per l'area metropolitana Veneta, in Assouline M., Di Domenico A., Casarotto L., Cavalieri C., Radomirovic A., Formazione alla ricerca nell’ambito della Scuola dottorale dell’Università Iuav di Venezia, IUAV, Venezia: pp. 125-167 Cederna A. (1975), La distruzione della natura in Italia, Einaudi, Torino Consorzi di Bonifica Riuniti del Basso Piave, Unione Nazionale Bonifiche, Ist. Fed. delle Casse di Risparmio delle Venezie (1956), Le prime bonifiche consorziali del Basso Piave. Consorzio Ongaro Superiore e Consorzio Cavazuccherina, Officine Grafiche Ferrari, Venezia Ferlenga A. (2012), Nervature di luoghi di cambiamento, in Albrecht A., Biraghi M., Ferlenga A. (a cura di), Architettura del Mondo, Catalogo triennale, Editrice, Compositori, Bologna, pp. 18-47 Klein R. J., Nicholls R. J., Thomalla F. (2003), “Resilience to natural hazards: how useful is this concept?”, in Enviromental Hazards n. 5, pp. 35-45 McNeill J. R. (2002), Qualcosa di nuovo sotto il sole. Storia dell’ambiente nel XX secolo, Einaudi, Torino Chiara Cavalieri

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Munarin S. (1997), “La descrizione nei testi: una ricerca sull'atlante”, in Giornale del Dottorato in Pianificazione Territoriale n. 7, pp. 40-42 Secchi B. (1986), “Progetto di suolo”, in Casabella n. 520, pp. 19-23 Secchi, B., Viganò P. (1996), Laboratorio Prato PRG, Alinea, Firenze Viganò P. (2012), “Elements for a Theory of the City as a Renewable Resource” in Fabian L., Giannotti E., Viganò P. (a cura di, 2013), Recycling City. Lifecycles, Embodied Energy, Inclusion, Giavedoni Editore, Pordenone, pp. 12-23

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Lo standard come costume. L’esperienza dei NIL nel PGT di Milano

Lo standard come costume. L'esperienza dei NIL nel PGT di Milano Ludovico Centis Università IUAV di Venezia Dipartimento di Culture del progetto Email: ludovico.centis@gmail.com

Abstract Gli standard urbanistici in vigore rispondono ad un'idea di modernità sfasata rispetto a quella contemporanea. Essi sono il risultato e la conseguenza di secolari battaglie per la salubrità delle abitazioni e dignità degli inquilini. Se si può dire che questi obiettivi siano stati in larga misura raggiunti, sono ora nuove le sfide che la città pone: rigenerazione e riuso, non più espansione e costruzione; inclusione e accessibilità, non più mera soddisfazione dei fabbisogni primari dell'individuo. Gli standard urbanistici dovrebbero essere rivisti guardando più al concetto di costume che a quello di prescrizione. Un'innovativa revisione degli standard dovrà guardare con attenzione alla dimensione del welfare, andando oltre la semplice imposizione del rispetto di coefficienti e pagamento di oneri, rendendo la loro applicazione un naturale riflesso di un sapere stratificato, di rinnovate abitudini sociali, di una condivisa quotidianità. Alcune esperienze recenti ed ancora in corso, come l'istituzione dei NIL (Nuclei di identità locale) nel PGT di Milano, hanno preso le mosse da riflessioni in questa direzione. Parole chiave Standard, Pianificazione, Milano.

Prologo: Piano e società «Write it in neon: Non-Plan is good for you.» (Banham, R., 1969: 443). Nel marzo del 1969 Reyner Banham, Paul Barker, Peter Hall e Cedric Price pubblicano un provocatorio manifesto nella rivista britannica New Society, dal titolo Non-Plan: An Experiment in Freedom. Il loro è un attacco frontale alla pianificazione: non tanto quella negativa – quella che ad esempio impedisce di costruire in un'area dall'alto valore paesaggistico– , di cui riconoscono la necessità in una serie limitata di casi, quanto di quella positiva, di carattere direzionale. Ipotizzano così di eliminare del tutto il ricorso alla pianificazione urbana, fatte salve poche e semplici regole. Consci della difficoltà di adottare subito un simile approccio in una metropoli complessa come Londra, propongono di applicare il Non-Plan in tre aree studio sparse sul territorio rurale e costiero inglese. Le esperienze accumulate in questi luoghi sarebbero state un utile banco di prova per testare ed affinare il Non-Plan, e poi potenzialmente estenderlo a tutta la nazione.

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Lo standard come costume. L’esperienza dei NIL nel PGT di Milano

Figura 1. Alcuni diagrammi della proposta di Non-Plan di Cedric Price per l'area di Southampton (Price C., 2003: 38).

Per quanto questa proposta possa apparire oggi naive e legata al clima culturale della fine degli anni '60, è indubbio che abbia centrato uno dei temi-chiave del secolo scorso, ovvero il rapporto tra Piano e società, e abbia apertamente messo in dubbio che la pianificazione sia la soluzione a tutto. Questo episodio, particolarmente interessante vista la caratura dei quattro studiosi e architetti che l'hanno formulato, è solamente uno dei molti che si inseriscono all'interno di una rilevante tradizione teorica e progettuale del Novecento, fortemente critica verso la pianificazione e il controllo esteso dello Stato sui molteplici aspetti della vita dei cittadini1.

Lo standard come costume In Norma e azione, von Wright introduce la contrapposizione tra descrittivo e prescrittivo, per distinguere una norma da cio che norma non è (von Wright, G.H., 1989: 38). Secondo il filosofo finlandese, le leggi naturali sono vere o false, descrittive e non prescrittive, e quindi non sono norme. Le leggi dello Stato, al contrario, vogliono regolare la condotta umana, i rapporti tra i cittadini, e perciò sono prescrittive. Lo scopo di queste leggi è di influenzare –e se necessario correggere– il comportamento. Esse sono positive o negative, a seconda che richiedano un atto o un'astensione. Von Wright individua nella compatibilità tra norme il nucleo del problema filosofico che le riguarda, e sottolinea come norme prescrittive che prefigurino stati di cose incompatibili fra loro possano essere contemporaneamente in vigore. Questo è un problema centrale anche in ambito urbanistico, dove spesso una sovrapposizione di competenze da parte dei vari organi dello Stato, e delle leggi e direttive da questi emanate, genera notevoli complicazioni ed impedimenti2. All'interno del corpus legislativo urbanistico, gli standard occupano una posizione di rilievo: essi sono norme, frutto di un preciso modello di razionalità, sono intimamente legati alle diverse culture, non rispondono ad immutabili leggi naturali. In quanto norme, non possiedono un valore assoluto di verità, ed assumono necessariamente significati parziali: tipo, regolamento, modello, campione. Essi sono declinati in regole, prescrizioni, direttive; rimandano a principi morali, regole ideali e costumi. Sono proprio questi ultimi, i costumi, che rappresentano un interessante riferimento nell'ottica di una revisione degli aspetti rigidamente prescrittivi degli standard urbanistici. I costumi non sono imposti ai cittadini da un'autorità, rappresentano una forma anonima ed implicita di prescrizione. Essi non sono né stabiliti rigidamente né promulgati, sono aperti a modifiche e contaminazioni nel tempo, si diffondono secondo un processo orizzontale di imitazione, esercitando una sorta di persuasione normativa sugli individui, influenzandone la condotta. Le azioni ripetute nel tempo tacitamente, più che il linguaggio, ne definiscono le qualità: «Un gruppo di norme che sotto certi aspetti assomigliano alle prescrizioni e sotto altri alle regole sono i costumi. I costumi possono considerarsi una specie di abitudini. Una abitudine è principalmente una regolarità nel comportamento di un individuo, una disposizione o una tendenza a fare cose simili in occasioni simili o in circostanze ricorrenti. Le abitudini sono acquisite e non innate. I costumi possono essere visti come abitudini sociali. Essi sono modelli di comportamento per i membri della comunità, acquisiti 1 2

Si pensi ad esempio alla Scuola austriaca e alla rilevanza delle teorie da questa espressa in ambito politico ed economico. La frettolosa riforma del Titolo V della Costituzione italiana, entrata in vigore nel 2001, e le conseguenze che essa ha portato, ne sono un esempio lampante.

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dalla comunità nel corso della propria storia ed imposti ai suoi membri piuttosto che acquisiti da ognuno di essi individualmente» (von Wright, G.H., 1989: 44-45). Un punto di particolare rilievo sta proprio nella malleabilità –o comunque dimensione evolutiva– dei costumi, e nella relativa difficoltà di perimetrare, di nominare e localizzare quella che è la comunità, o meglio, la giusta dimensione di una comunità, nella quale questi costumi si possano riconoscere o a cui possano essere associati.

Gli standard urbanistici in Italia Gli standard urbanistici, così come quelli edilizi, hanno giocato e giocano tuttora un ruolo rilevante nelle dinamiche urbane nel panorama italiano. Diventa quindi evidente come una sensibile e mirata revisione degli standard può orientare la rigenerazione delle nostre città, disincentivando comportamenti e pratiche ormai dannosi per la collettività ed aprendo la strada alla riduzione del consumo di suolo e al riuso e riciclo del patrimonio edilizio. Come è stato suggerito nel capitolo precedente, è proprio a partire dalle diverse sfumature e declinazioni del concetto di standard, ampliando il campo verso altre discipline, che è possibile aprire nuovi scenari di indagine e ricerca. Guardando al panorama italiano del secondo dopoguerra, si può constatare come forme flessibili e diversificate di applicazione della norma, come quelle sperimentate in occasione del piano INA Casa dal 1949 al 19633, abbiano via via lasciato il posto ad un approccio sempre più rigido e riduzionista, fino alla stesura del DM 1444/68. La tesi che si vuole qui sostenere è che gli standard urbanistici –ed in particolare la loro applicazione– dovrebbero essere rivisti guardando più al concetto di costume che a quello di prescrizione. Essi dovrebbero andare oltre la semplice imposizione del rispetto di coefficienti e pagamento di oneri, ed essere percepiti come naturale riflesso di rinnovate abitudini sociali, di un sapere stratificato, di una condivisa quotidianità. Lo stesso linguaggio normativo potrebbe affiancare nuovamente l'immediatezza ed apertura del disegno e del progetto alla rigidità ed alle certezze espresse implicitamente nei numeri. L'obiettivo ambizioso è quello di passare da una visione della domanda sociale di servizi e dotazioni territoriali come standard, come dato prefissato e omogeneo su tutto il territorio nazionale, ad una visione della domanda sociale come costrutto, definita dinamicamente in chiave locale. Per quanto rigidi e in qualche modo ottusi, indubbiamente gli standard urbanistici attuali, fondati su valori numerici, offrono un orizzonte consolidato di riferimento sia alle amministrazioni che ai privati, siano essi semplici cittadini o imprenditori del settore immobiliare. In un'ottica di rimodulazione dell'applicazione degli standard, di costruzione contemporanea del senso delle dotazioni locali, si pongono alcune questioni di rilievo: qual'è la scala territoriale di riferimento più adatta? Qual'è la comunità a cui ci si riferisce? Come valutarne i bisogni e farne emergere saperi e conoscenza impliciti? Alcuni studiosi sono fortemente scettici rispetto alla possibilità della pianificazione urbanistica di rispondere efficacemente a queste domande e bisogni, e propongono di ridurre con decisione l'orizzonte spaziale e temporale entro cui la pianificazione possa operare4. Il gruppo di lavoro che ha redatto il recente Piano di Governo del Territorio (PGT) di Milano ha tentato invece di operare alcune novità che andassero nella direzione della rimodulazione delle modalità di applicazione degli standard urbanistici, e la costituzione dei NIL (Nuclei di Identità Locale) è uno degli strumenti più interessanti in questa direzione.

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Gabellini P., 2001: 99-112. Stefano Moroni, prendendo le mosse in particolare dalle critiche di von Hayek verso qualsiasi forma di pianificazione, elenca una serie di critiche interne –l'indisponibilità delle informazioni rilevanti e l'irragiungibilità di uno stato finale comprensivo– ed esterne –la riduzione delle libertà individuali e la caduta dell'efficienza catallattica– alla pianificazione di sistema (Moroni S., 2007: 35-64).

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Figura 2. Diagramma di individuazione degli 88 NIL (Nuclei di Identità Locale) della città di Milano.

I Nuclei di Identità Locale La prima versione5 del nuovo PGT di Milano era di impronta chiaramente liberista. Certo, non conteneva proposte provocatorie come il Non-Plan, né prefigurava scenari radicali come quelli descritti da Moroni ne La città del liberalismo attivo. Rimane il fatto che alcune sue caratteristiche, come l'ampio uso previsto della perequazione, non hanno mancato di sollevare polemiche fra gli specialisti, anche nei confronti della versione 'stemperata' del PGT adottata nel maggio 20126. Suddiviso il territorio, secondo le direttive della legge 12/2005 della Regione Lombardia, in ambiti di trasformazione –governati dal Documento di Piano– e città consolidata – governata dal Piano delle Regole– il nuovo PGT mirava in modo deciso a ridurre la quantità di regole e aumentare il peso del progetto. Al fine di bilanciare l'impianto fortemente sperequato della città, dovuto anche al suo sviluppo spiccatamente radiocentrico, il PGT proponeva due strategie: la realizzazione alla scala metropolitana di una grande rete di spazi pubblici, un sistema continuo di parchi, infrastrutture e servizi, denominati epicentri, e una migliore distribuzione dei servizi, prefigurando un sistema reticolare di spazi pubblici di carattere isotropo. Una città a due velocità, quella 'veloce' degli epicentri e quella 'lenta' dei quartieri. Nello specifico, rispetto a quest'ultima dimensione, all'interno del Piano dei Servizi era stato proposto un nuovo strumento, la creazione dei NIL, nell'ottica di monitorare e soddisfare dinamicamente i servizi e le dotazioni 5

Il nuovo PGT di Milano è stato adottato inizialmente il 13/14 luglio 2010 ed approvato il 4 febbraio 2011, durante il mandato di Letizia Moratti. In seguito all'elezione a sindaco di Giuliano Pisapia, esso è stato revocato in data 21 novembre 2011 con l'intento di valutare le numerose osservazioni e pareri ricevuti, e svolgere un lavoro di adeguamento del piano e della sua gestione. Il PGT oggi in vigore è stato approvato il 22 maggio 2012. 6 Si vedano ad esempio gli articoli pubblicati in merito, tra gli altri, da Roberto Camagni, professore di Economia Urbana al Politecnico di Milano, Giorgio Goggi, ex assessore ai trasporti e docente del dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano, e Alberto Roccella, professore di diritto urbanistico dell'università di Milano. Ludovico Centis

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territoriali a standard.

Figura 3. Schema comparativo della divisione amministrativa del Comune di Milano in rapporto ai Comuni limitrofi.

I NIL, contrariamente alle preesistenti 180 aree funzionali basate su criteri statistici, erano intesi come strumenti di verifica dell'efficacia della pianificazione urbanistica a livello locale. Un aspetto rilevante era l'intenzione, poi non mantenuta per motivi burocratici, di non disegnarne i confini nettamente, individuando a partire dalle centralità dello spazio pubblico aree che potevano sconfinare, modificarsi e sovrapporsi. La dimensione stessa di queste aree mirava a ridurre e invertire il fenomeno di riduzione numerica e ampliamento di superficie delle zone di decentramento in atto dagli anni Novanta, che ha portato alla divisione della città in nove zone, definendo invece un arcipelago di 88 quartieri paragonabili per dimensioni e caratteristiche a quelle dei Comuni al di fuori di Milano. La progettazione alla scala locale del PGT di Milano si pone obiettivi molteplici, dalla riqualificazione dei caratteri storici dei quartieri della città alla definizione di nuove e innovative qualità spaziali. Al fine di nominare e localizzare le centralità locali è stata compiuta una ricerca sul sistema di spazi pubblici e collettivi, guardando con attenzione particolare all'individuazione dei luoghi urbani ad alta frequentazione pedonale e concentrazione commerciale di negozi al dettaglio, e all'analisi morfologica dei sotto-sistemi urbani che si rapportano al sistema radiocentrico7. La progettazione locale, intesa come un elemento di novità rispetto alla semplice manutenzione ordinaria o alla discesa di scala del progetto territoriale alla dimensione del quartiere, guarda in particolare alla messa a sistema degli spazi aperti, integrata ad un lavoro di programmazione e promozione dei servizi e ad una mappatura delle trasformazioni urbane già programmate o in progetto8.

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Russi N., 2009: 133-146. La progettazione locale dei NIL fa riferimento ad un decalogo: 1. I quartieri della città sono i luoghi del vivere quotidiano. 2. Il progetto prevede che ogni quartiere sviluppi una sua identità contemporanea. 3. Il progetto prevede che ogni quartiere possieda un centro o un sistema di centralità connesse tra loro. 4. Il progetto prevede che ogni quartiere possieda un parco alla scala locale o un sistema di giardini connessi tra loro. 5. Il progetto prevede che ogni quartiere possieda una connessione diretta con il sistema di trasporto pubblico urbano ad alta capacità. Una o più fermate all'interno del suo perimetro o un sistema protetto ad alta velocità per raggiungere quella più vicina. 6. Il progetto prevede che ogni quartiere sia direttamente a contatto con un sistema ambientale o collegato ad esso con un sistema di corridoi verdi. 7. Il progetto prevede che in ogni quartiere si favorisca il più possibile una mixitè sociale. 8. Il progetto prevede che in ogni quartiere si favorisca il più possibile una mixitè funzionale. 9. Il progetto prevede che in ogni quartiere si favoriscano il più possibile le connessioni pedonali tra centralità, il trasporto pubblico e i servizi locali. 10. Il progetto prevede che ogni quartiere sia suddiviso tra il traffico di attraversamento e il traffico locale. In proposito, si veda Russi N., 2009: 133-146.

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Un primo bilancio Anche se il PGT nella sua versione definitiva è stato approvato solo di recente, è già possibile tracciare un primo bilancio rispetto al ruolo dei NIL nelle dinamiche di trasformazione della città9. Le principali problematiche possono essere raggruppate in termini lessicali e metodologici. In una prima fase di sviluppo del Piano ci si riferiva a delle centralità locali, individuando a partire da queste quartieri dai confini volutamente mobili. In seguito si è passati dalla definizione di quartiere –esplicita e comprensibile a tutti i cittadini– a quella indubbiamente più complessa e vaga di nuclei di identità locale. A questo si è sommata la contraddizione tra le necessarie certezze della burocrazia –e quindi la definizione di limiti certi anche per i NIL– e la programmatica apertura dello strumento di progettazione alla scala locale. Il risultato è una scarsa –se non nulla– conoscenza dei cittadini dell'esistenza dei NIL, e quindi la relativa impossibilità per gli abitanti di Milano di contribuire alla costruzione ed aggiornamento dei contenuti di questo strumento. Solo attraverso canali informali si sta molto lentamente affermando questa lettura della città, non al livello dell'amministrazione o del singolo cittadino, ma ad un livello intermedio di associazioni, distretti, eventi temporanei. Proprio la mancanza di costruzione ed aggiornamento dei contenuti va poi ad influire in modo rilevante sul funzionamento stesso di questo 'programma'. L'istituzione dei NIL è volta a integrare uno strumento parascientifico di mappatura delle aree locali con il carattere e la declinazione a scala metropolitana del Piano dei Servizi. Un aspetto fondamentale di questo strumento dovrebbe essere la sua dinamicità, la sua capacità di fornire informazioni aggiornate all'amministrazione rispetto all'esistenza e alla richiesta di servizi nelle diverse aree della città. La forza dei NIL dovrebbe risiedere nella possibilità di segnalare in tempo quasi reale i luoghi della città in cui localizzare le dotazioni territoriali o le associazioni ed enti, pubblici o privati, a cui destinare risorse per i servizi ai cittadini. Non solo, si dovrebbero così porre anche le condizioni per l'istituzione di nuove forme di sussidiarietà orizzontale, come quelle delle comunità contrattuali10. Idealmente i benefici degli standard –siano essi soddisfatti tramite la realizzazione di opere o la loro monetizzazione– dovrebbero ricadere nello stesso quartiere in cui le realizzazioni che li hanno generati insistono. E dovrebbe essere proprio l'esistenza dei NIL, ed il loro corretto funzionamento, ad indicare dove, come e quando distribuire le risorse nello specifico quartiere. Ad oggi sono stati identificati indicatori e criteri, ma i NIL rimangono uno strumento statico, e non dinamico come necessario. Dall'altro lato, lo strumento della progettazione locale ha contribuito durante la stesura del PGT a correggere 'in corsa' alcuni squilibri delle ipotesi progettuali a scala più ampia, con ricadute positive rispetto alla progettazione e fruibilità del verde urbano, alla localizzazione delle nuove infrastrutture di trasporto collettivo, alla promozione e sviluppo dell'eterogeneità delle funzioni. Avendo come obiettivo una maggiore distribuzione sia qualitativa che quantitativa dei servizi, l'osservazione della città esistente e di progetto attraverso la 'lente' dei NIL ha messo in luce alcuni paradossi, dovuti ad un'applicazione rigida –e conseguentemente deleteria per la qualità urbana– degli standard urbanistici.

Bibliografia Banham R., (1969), “Spontaneity and Space”, in New Society, no. 338, pg. 443, rist. in J.Hughes, S.Sadler (a cura di), Non-Plan. Essays on Freedom, Participation and Change in Modern Architecture and Urbanism, Architectural Press, Oxford 2000, pp.20-21. Banham R., Barker P., Hall P., Price C.,(1969), “Non-Plan: An Experiment in Freedom”, in New Society, no. 338, pp. 435-441, rist. in J.Hughes, S.Sadler (a cura di), Non-Plan. Essays on Freedom, Participation and Change in Modern Architecture and Urbanism, Architectural Press, Oxford 2000, pp.13-19. Brunetta G., Moroni S. (a cura di, 2011), La città intraprendente. Comunità contrattuali e sussidiarietà orizzontale, Carocci, Roma. Gabellini P. (2001), I manuali: una strategia normativa, in Di Biagi P. (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l'Italia degli anni cinquanta, Donzelli editore, Roma, pp. 99 – 112. Moroni S. (2007), La città del liberalismo attivo. Diritto, piano, mercato, Città Studi Edizioni, Novara. Price C. (2003), The square book, Wiley Academy, Chichester. von Wright G.H. (1989), Norma e azione: un'analisi logica, Il mulino, Bologna. Russi N. (2009), Progettazione alla scala locale. I Nuclei di identità locale nel Pgt di Milano, in Pomilio F. (a cura di), Welfare e Territorio. Esplorare il legame tra politiche dei servizi e dimensione urbana, Alinea Editrice, Firenze.

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Questo considerazioni sono frutto in particolare dell'esperienza personale di chi scrive nell'ambito dell'Associazione Culturale NIL28, e di un colloquio con l'architetto Nicola Russi, responsabile della strategia di progetto a scala locale del PGT. 10 Per un approfondimento rispetto alle comunità contrattuali, si veda Brunetta G., Moroni S., 2011. Ludovico Centis

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Sitografia Materiali del PGT di Milano, disponibili su Comune di Milano, Come fare per, La pianificazione Urbanistica http://www.comune.milano.it/portale/wps/portal/CDM?WCM_GLOBAL_CONTEXT=/wps/wcm/connect/conte ntlibrary/Ho%20bisogno%20di/Ho%20bisogno%20di/PGT_2012&categId=com.ibm.workplace.wcm.api.WC M_Category/IT_TAX_Bisogni_37/f789020044a9ba01b691bfa6efd47d08/PUBLISHED&categ=IT_TAX_Bis ogni_37&type=content Critiche al PGT di Milano, disponibili su Il Sole 24 Ore, Edilizia e Territorio, CittĂ http://www.ediliziaeterritorio.ilsole24ore.com/art/citta/2012-08-29/milano-ingestibile-iniqua-perequazione215344.php?uuid=AbzivZVG Dati del settore statistica del Comune di Milano, disponibili su Comune di Milano, Come fare per, Dati Statistici http://www.comune.milano.it/portale/wps/portal/CDM?WCM_GLOBAL_CONTEXT=%2FContentLibrary%2F ho+bisogno+di%2Fho+bisogno+di%2FPopolazione_Popolazione+residente&categ=IT_CAT_Bisogni_18&cat egId=com.ibm.workplace.wcm.api.WCM_Category/IT_CAT_Bisogni_18/01c41d80446e018eb95fbbd36d110 d8a/PUBLISHED Legge regionale 12/2005 della Regione Lombardia http://www.territorio.regione.lombardia.it/cs/Satellite?c=Redazionale_P&childpagename=DG_Territorio%2FDe tail&cid=1213282412816&packedargs=NoSlotForSitePlan%3Dtrue%26menu-torender%3D1213277382683&pagename=DG_TERRWrapper Sito dell'associazione NIL 28 http://distrettocreativonil28.tumblr.com/

Ringraziamenti L'autore ringrazia Ezio Micelli e Nicola Russi per i preziosi consigli e le informazioni date durante la stesura del testo.

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Giardini-orti condivisi a Milano. Pratiche e politiche per una diversa crescita

Giardini-orti condivisi a Milano. Pratiche e politiche per una diversa crescita Francesca Cognetti Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Email: francesca.cognetti@polimi.it

Abstract Dell’ampio campo relativo alla relazione tra ambiti urbani e rurali, quello dei giardini-orti condivisi è una particolare declinazione degli orti urbani che ci permette di porre l’attenzione su fenomeni urbani che hanno visto nella città di Milano una recente diffusione: orti di quartiere legati ad associazioni di promozione sociale, orti didattici coltivati nelle scuole, giardini terapeutici, piccoli orti per l’auto-produzione in spazi sociali, ma anche aree orticole integrate in numerosi parchi urbani e da ultimo il sostegno istituzionale del “Regolamento per l’affidamento di giardini condivisi”, promosso dal Comune di Milano. In molti casi, si tratta di esperienze che mettono in relazione, secondo proporzioni variabili, la pratica della coltivazione con la costruzione di percorsi di vita in comune, esprimendo una domanda di verde urbano che non sia solo da guardare e utilizzare, ma anche da trasformare attivamente e collettivamente. Il taglio interpretativo del paper non contrappone queste esperienze alle politiche pubbliche e alla pianificazione ordinaria, ma al contrario le pone come un elemento di ripensamento e potenziale innovazione. Parole chiave Giardini condivisi, coomunity garden, agricoltura urbana, Milano

1 | Esperimenti sociali di agricoltura urbana Per quanto l’agricoltura urbana non si possa ritenere una questione legata esclusivamente allo sviluppo urbano più recente, stiamo assistendo nell’ultimo periodo a una rinnovata attenzione verso il tema, legata sia al moltiplicarsi di ricerche in vari ambiti disciplinari, sia al nascere e consolidarsi di molte esperienze promosse sul campo da politiche pubbliche e attori sociali. Dell’ampio campo relativo alla relazione tra ambiti urbani e rurali abbiamo messo a fuoco quello dei giardini-orti condivisi come un fenomeno interessante da osservare, in particolare come declinazione degli orti urbani1. Questa scelta ci ha permesso di porre l’attenzione su fenomeni urbani recenti di una certa diffusione e rilevanza. Dal punto di vista teorico in molti campi, anche in Italia, si è rinnovata l’attenzione verso queste pratiche, con accenti diversi: le discipline del paesaggio e dell’arte pubblica sottolineano questa come un’opportunità per una riflessione sulle forme del contemporaneo con un accento sugli spazi verdi e gli spazi collettivi (Zanfi 2008; AA.VV. 2012); gli approcci sociologici e di politiche enfatizzano la dimensione sociale del fenomeno relativa a nuove forme organizzative, a una rinnovata idea di spazio pubblico e di riqualificazione urbana (Ingersoll e al. 2007; AA.VV. 2011; Bergamaschi, 1

L’occasione per svolgere questi approfondimenti è rappresentata dalla ricerca PRIN 2008 “Il progetto di territorio: metodi, tecniche, esperienze”, coordinato per l’unità di Milano dai professori A. Balducci e G. Ferraresi. Hanno collaborato alla ricerca Serena Conti, con la quale ho avuto modo di condividere molti dei contenuti dell’articolo, anche grazie ad altri scritti comuni, Valeria Fedeli e Daniele.Lamanna.

Francesca Cognetti

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Giardini-orti condivisi a Milano. Pratiche e politiche per una diversa crescita

2012) la letteratura legata ai movimenti a all’autorganizzazione si soffermano su carica utopica e caratteri di resistenza (Bussolati 2012). Se pur con storie e dinamiche molto diverse, iniziative simili sono diffuse in molti paesi: i community gardens di stampo anglosassone sono il modello a cui si ispirano buona parte delle esperienze europee (McDonbald 2009; Harris 2010); in Francia la recente organizzazione dei jardins partagés recupera e aggiorna la tradizione dei jardins ouvriers (Uttaro 2009); in Argentina e negli Stati Uniti, dopo l’apice della crisi del 2001, la coltivazione urbana è sfruttata come strategia integrata di crescita sociale ed economica (Calori 2009; Cognetti e Cottino 2009; Coppola 2012). A Milano, accanto a poche esperienze consolidate, negli ultimi anni si sono moltiplicati i progetti dedicati a questa forma di agricoltura urbana, in linea con altre esperienze in Italia2: orti di quartiere legati ad associazioni di promozione sociale, orti didattici coltivati nelle scuole, giardini terapeutici, aiuole e spazi abbandonati, piccoli orti per l’auto-produzione in spazi sociali, ma anche aree orticole integrate in numerosi parchi urbani e da ultimo il sostegno istituzionale del “Regolamento per l’affidamento di giardini condivisi”, promosso dal Comune di Milano nel maggio 20123. Possiamo affermare, come nota introduttiva sul fenomeno, che i giardini condivisi milanesi si distinguono dai consolidati orti urbani per una serie di caratteristiche specifiche. La prima è relativa al loro carattere “comunitario”: in molti casi, infatti, non si tratta di orti in senso proprio, ma di esperienze che mettono in relazione, secondo proporzioni variabili, la pratica della coltivazione con i temi della appropriazione e della costruzione di percorsi di vita in comune. Si tratta di luoghi che sembrano essere “nuovi germogli di vita in comune, in cui è possibile coltivare il piacere per la convivialità e lo scambio” (Uttaro 2012). Il livello di condivisione e di scambio è spesso legato anche alla condivisione dei saperi relativi alla coltivazione, non solo in forma diretta, ma anche attraverso l’utilizzo di social network. La seconda riguarda il tipo di domanda che pongono in termini di spazio pubblico e di verde urbano, esprimendo una necessità relativa alla possibilità che le aree verdi della città non siano solo da guardare e utilizzare, ma anche da trasformare attivamente e collettivamente. Questi terreni diventano lo scenario di pratiche di appropriazione, che si configurano come “micro-processi locali” che fanno emergere nuove forme di urbanità a partire dal coinvolgimento diretto e dalla possibilità di configurare cosi nuovi spazi pratici e politici. In questo senso è da sottolineare l’utilizzo di materiali di riciclo e di recupero, sia a fine decorativi che funzionali. Questa caratteristica è imputabile non solo alla “povertà di risorse economiche”, ma soprattutto alla “sottesa critica di una società altamente energivora e orientata al consumo” (Bergamaschi 2012). La terza rimanda alla loro consistenza in termini di spazio e di posizione: l’immagine che emerge dalla composizione di questi episodi restituisce una ‘mappa di vuoti’, collocati in forme variabili sia ai bordi che al centro della città, con una geografia puntiforme e variabile. L’origine di questi vuoti è molteplice (agricola, industriale, urbana, di risulta) e rimanda all’esistenza di un “terzo paesaggio rifugio della diversità” (Clement 2005), uno spazio indeciso, difficile da identificare e nominare. Al contrario di quello che avviene per molte delle pratiche che sfruttano gli interstizi urbani, in genere interessate a quei luoghi nascosti proprio per mantenere la propria invisibilità, la coltivazione di aree dismesse e/o marginali gioca sul ribaltamento di questa condizione: da terreno escluso dai principali processi di costruzione e trasformazione della città a luoghi-manifesto (Cognetti e Conti 2012). La quarta rimanda a un tema di politiche e alla possibilità che, attraverso queste esperienze, si veicolino forme di trattamento di problemi urbani. Sono questi casi che potrebbero essere assunti come “indicatori del cambiamento sociale in corso” (Cottino, 2003). Essi sono infatti, oltre che trasformazioni fisiche puntuali, processi a cui sembra associato un qualche potenziale di innovazione ed efficacia nel trattamento dei problemi pubblici. In questo senso, non solo incidono sulla geografia dei luoghi e delle relazioni, ma anche sulla dimensione delle politiche, costituendosi come “politiche pubbliche di fatto” (Balducci 2004) o “politiche pubbliche dal basso” (Paba 2010). Grazie al riuso e alla restituzione alla città di spazi dimenticati, o mediante la messa in atto di piccoli episodi di dissenso urbano, o ancora attraverso la messa a punto di progetti di cura e di apprendimento, queste iniziative aprono spazi di partecipazione politica che, al contempo, lasciano intravedere forme di trattamento –spesso temporaneodello spazio ed esperimenti di politiche.

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Il blog Ortodiffuso <http://ortodiffuso.noblogs.org> (ultima visita: febbraio 2013), dedicato alla promozione e alla messa in rete delle esperienze di coltivazione urbana, ha attivato un progetto di mappatura interattiva delle aree coltivate nelle città di Roma e Milano riportando circo 50 esperienze. Con delibera N.1143 del 28-05-2012 L’Assessorato al Decentramento e l’Assessorato al Demanio del Comune di Milano hanno avviato un progetto sperimentale per l’affidamento diretto ad associazioni locali di giardini condivisi utilizzati per il giardinaggio collettivo, ornamentale o orticolo, con particolare attenzione all’aspetto ecologico.

Francesca Cognetti

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Giardini-orti condivisi a Milano. Pratiche e politiche per una diversa crescita

2 | Riconoscere le differenze. Una tassonomia Nel tentativo di sistematizzare un fenomeno in realtà piuttosto opaco, perché variabile e frammentato, abbiamo provato ad identificare alcune famiglie che mettano in luce le relazioni tra spazi e pratiche, a partire dall’esercizio di stili di vita che in vario modo potremmo definire in comune. La costruzione di una tassonomia intende costruire una visione d’insieme che fornisca un possibile scenario, con l’imprecisione di contenuto tipica di questo tipo di rappresentazione, ma anche con il potere evocativo che le è proprio4. Una prima categoria, fa riferimento alla dimensione di vita di piccole comunità urbane. ‘L’orto del mio quartiere’, sulla scorta dei community gardens anglosassoni, può essere considerato un modello piuttosto consolidato: alla base di questo tipo di iniziative si trova l’idea di una sinergia di effetti di rigenerazione dello spazio urbano e di potenziamento del senso di appartenenza e di responsabilità. Facendo leva sull’accessibilità connaturata a questo tipo di attività e sulla dimensione della prossimità, i giardini e gli orti di comunità assumono esplicitamente la coltivazione come strumento di aggregazione e integrazione sociale in ambiti territoriali circoscritti. In questo gruppo rientrano gli esperimenti in cui orticoltura e giardinaggio sono dichiaratamente finalizzati al recupero di aree in disuso, di spazi simbolici e di riconoscimento, o a una riqualificazione locale ad ampio spettro. Il riuso degli spazi è un carattere che le coltivazioni di quartiere hanno in comune con le esperienze che incontriamo alla voce de ‘L’orto sul retro’, in cui includiamo i progetti in qualche modo vicini alle note pratiche di guerrilla gardening. La definizione guerrilla gardening, consolidatasi a partire da alcune esperienze statunitensi degli anni Settanta, indica iniziative di dissenso che usano il verde come fatto rivendicativo e dimostrativo (Pasquali 2008). In Italia questa pratica si diffonde solo in anni recenti maturando caratteri specifici. A differenza di quanto avviene in altri paesi, dove assume le forme di un vero e proprio movimento antagonista, a Milano il movimento è costellato di episodi più disordinati, che non si preoccupano di mescolarsi con esperienze dal carattere meno dissenziente. Attraverso queste azioni la cura dei frammenti trascurati della città diviene il manifesto politico di una possibile via per la trasformazione di quegli stessi spazi e di altri di natura affine. Non a caso il terreno privilegiato degli attacchi verdi sono le frange dello spazio urbano. Nella categoria de ‘L’orto per altro’ comprendiamo i progetti in cui il lavoro della terra è soprattutto l’occasione per il perseguimento di obiettivi di altra natura. Le prerogative di accessibilità e semplicità operativa dell’agricoltura urbana fanno dei progetti di coltivazione dei potenziali dispositivi di attivazione di percorsi diversi rispetto alla semplice attività di coltura. Si tratta di un carattere che aiuta a sfruttare esplicitamente l’efficacia del dispositivo-orto, privilegiando la dimensione strumentale implicita in questo tipo di attività. In questo raggruppamento si incontrano le iniziative che assumono intenzionalmente il coltivare come mezzo terapeutico o formativo, come i progetti dedicati al coinvolgimento e all’integrazione di persone provenienti da situazioni di disagio e di esclusione. È in questa categoria che si muovono anche esperienze più ‘istituzionali’, in cui la concretezza dell’orto e dei suoi prodotti è funzionale ad altri obiettivi di apprendimento (Zavalloni 2010).

3 | L’orto del mio quartiere. Quale comunità e quale quartiere Questa tassonomia rimanda alla possibilità di articolare un fenomeno, quello dei giardini condivisi, che spesso ci appare univoco e omogeneo. Nel riconoscimento di differenze e somiglianze tra i casi osservati, vorrei ora ritornare alla prima famiglia tra quelle individuate, che abbiamo chiamato “L’orto del mio quartiere”. Un ampio gruppo di nuove esperienze a Milano, infatti, può essere fatto risalire a queste radici comuni, in cui il riferimento a un ambito locale -il quartiere- e al senso di appartenenza a una “micro-comunità” sono gli elementi su come possiamo avanzare una riflessione. Le esperienze sono molte e a livelli diversi di maturazione: l’”orto comunitario” del parco Trotter in via Padova; il giardino recuperato dalla associazione Piano Terra; l’orto-giardino “Papaveri Rossi”; gli orti comunitari della Cascina Cuccagna; l’associazione di quartiere Ortinconca; i “Giardini in transito” di via Montello; l’associazione Isola Pepe Verde impegnata per il recupero di uno spazio residuale nel quartiere Isola; l’orto Giambellgarden al Giambellino presso la “casa di quartiere”; gli orti di Cascina Albana alla Bovisa; il progetto “Coltivando”, orto di quartiere interno al campus universitario del Politecnico; il giardino “Passparvert” all’interno del progetto Coltivazioni sociali a Dergano; il “Giardino dei saperi” un orto giardino multiculturale all’interno di un intervento di housing sociale temporaneo a Cinisello Balsamo. Queste esperienze nascono, in diverso modo, in ambiti locali e quartieri che potremmo dire avere una loro identità. Contesti quali ad esempio quello di Isola, Giambellino, via Padova, Canonica-Sarpi, Bovisa, Dergano, rimandano a 4

Questa tassonomia è stata messa a punto grazie a un ampio confronto con Serena Conti. Per un approfondimento dei casi legati a ciascuna famiglia si rimanda quindi ai testi: Cognetti F., Conti S. (2012); Cognetti F., Conti S. (2013).

Francesca Cognetti

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realtà sociali e territoriali in trasformazioni, molto differenti e variegate, ma con una loro riconoscibilità. Ai significati cui allude la parola quartiere e alla loro critica è riservata un’ampia letteratura. Dove il senso comune identifica istintivamente con questa espressione una coincidenza tra delimitazioni spaziali e pratiche d’uso, la critica sottolinea proprio la precarietà di questa definizione e i rischi connessi al dare per scontata l’univocità di un’entità piuttosto vaga. A ben vedere l’omogeneità a cui fa riferimento il senso comune non è un dato, ma un’attribuzione di senso che riguarda la relazione tra spazi e usi definita dalle diverse traiettorie di vita delle persone che vi partecipano, e dunque potenzialmente variabile in misura pari al numero delle singole esperienze. Al di là delle delimitazioni amministrative, persone diverse, che pur si intendono rispetto alla definizione generica di uno specifico luogo, difficilmente sarebbero in grado di tracciarne dei confini univoci e condivisi. Eppure, tra le singole traiettorie vi sono delle evidenti sovrapposizioni, tant’è che le differenze tra un’idea di quartiere e l’altra spesso sono poco più che sfumature, che non impediscono di individuare un oggetto comune. In questa familiarità delle visioni individuali entrano in gioco fattori come l’accessibilità, la frequenza, la sovrapposizione storica di significati personali o tramandati, il semplice fatto che – se pur in forme diverse per ciascuno e per ciascuna fase della vita – spesso si ha a che fare ripetutamente con gli stessi materiali urbani. Sono queste qualità che restituiscono un senso più immediato e una soddisfazione più palese all’occuparsi del proprio spazio di vita quotidiano, circoscrivendolo attorno alle proprie abitudini principali. I giardini e gli orti urbani pensati come luoghi di riappropriazione di spazi e relazioni sono certamente un dispositivo efficace, ma per dar ragione all’aspetto comunitario a cui alludono non possono trascurare il loro carattere parziale: non si tratta di un servizio da mettere a disposizione, ma di una forma di presa di posizione dei loro attivisti, una rappresentazione di un proprio punto di vista da confrontare con altri per la costruzione di un progetto comune di adozione di territorio. In questo modo l’orto pubblico urbano, così come lo intendono i suoi promotori, rappresenta uno strumento per il radicamento locale per una specifica comunità raccolta attorno ai soggetti che è in grado di attivare.

4 | Oggetti verdi, attività pratica e processi incrementali Queste sono esperienze che nascono grazie all’attivazione sociale di gruppi formali e informali che in diverso modo si fanno carico della promozione, ideazione e manutenzione di uno spazio aperto. Della tradizione degli orti urbani milanesi mantengono quindi la dimensione dell’informalità, enfatizzando però il carattere collettivo dell’esperienza: raramente troviamo appezzamenti ortivi singoli, al contrario, la stessa mancanza di suddivisioni e recinzioni interne è un elemento, concreto e simbolico, per sottolineare il carattere comune dello spazio e la possibilità che più persone possano farsi carico della sua cura. Per riprendere in forma sintetica alcuni dei caratteri comuni dei giardini comunitari mi servirò di quattro parole chiave: dispositivo relazionale; orientamento all’azione; oggetto verde; processi di istituzionalizzazione. La coltivazione come dispositivo relazionale Un’ ulteriore conferma di questo carattere, è legata all’impressione - nata dalle interviste e dall’osservazione direttache quasi mai la produzione sia realmente al centro delle preoccupazioni dei protagonisti, sebbene alcuni dei casi esplorati motivino le proprie attività facendo riferimento alla necessità di trovare nuovi modelli produttivi e di consumo. Più spesso, i progetti per gli orti condivisi prestano attenzione alla costruzione del luogo in sé (in cui l’enfasi parrebbe posta più sull’idea di giardino e di spazio comune piuttosto che sugli aspetti di produzione dell’orto), o a dimensioni apparentemente secondarie rispetto all’attività di coltivazione, quali ad esempio la costruzione di relazioni, il disagio sociale, l’educazione e la didattica, il dissenso. Questo orientamento sembra anche legato alle popolazioni che si fanno promotrici principali di questi progetti: una classe media urbana alla ricerca di tracce di legami sociali e territoriali come elemento di maggiore qualità della vita in città; abitanti senza particolari problemi di natura economica che interpretano i giardini condivisi come nuovo luogo del fare politica, della cura dello spazio pubblico, della generazione di beni comuni. L’orientamento alla azione La coltivazione della terra e i suoi risultati tangibili, acquistano cosi l’importanza di un primo traguardo, divengono un manifesto concreto di azioni intraprese (e non di intenzioni). All’interno di queste esperienze si sviluppa una capacità significativa, spesso anche in assenza di risorse economiche, di orientare il processo per ottenere una trasformazione. L’atteggiamento dei promotori è infatti molto “orientato all’azione” (Cellamare 2011): l’avvio delle esperienze (quelle di più lungo periodo sono nate nei primi anni del 2000) è legato a “piccole cose”, a esperimenti di bricolage Francesca Cognetti

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(Weick 1997), al riuso e al riciclo di materiali., spesso in assenza di uno scenario futuro di lungo termine. Ciò che sembrerebbe rilevante non è tanto la tenuta e la durata nel tempo (anche se su questo aspetto la giovane età dei progetti non ci aiuta a fare una valutazione), ma la possibilità di vedere le ricadute dirette e pratiche delle proprie attività, in termini di trasformazione fisica, aumento di qualità urbana, miglioramento della coesione tra le persone, senso di appropriazione. La centralità di una attività pratica è legata alla “capacità di collaborare rendendo più agevole il portare a compimento le cose sopperendo ad eventuali carenze individuali” (Sennet 2012). La terra è bassa. Giardino condiviso come oggetto verde Benché in condizioni di incertezza, la disponibilità di un prodotto finito e visibile, la presenza di un “oggetto verde” segno tangibile e fruibile- e l’avvio di una trasformazione che è anche territoriale (per quanto di dimensioni molto ridotte), sono il cardine che alimenta e tiene assieme i contenuti di queste sperimentazioni. La concretezza dell’oggetto restituisce il senso di appagamento tipico di un’attività artigianale (Sennet 2008) e la stessa attività agricola riserva i suoi aspetti inattesi: “il metter mano, ma anche assaporare, mangiare, nutrirsi, faticare, sporcarsi, implica un’apertura alla contaminazione tra sfere diverse del sensibile; […] può essere un ‘rimedio’ un medicamento terapeutico interessante dal quale non si può escludere l’insorgere di qualcosa di cui non si possono prevedere fino in fondo le conseguenze” (Nicolin 2012). Quanto e come istituzionalizzare? Una delle questioni che rimane sullo sfondo dell’esperienza milanese è relativa alla presenza delle istituzioni: quella che emerge è una geografia articolata di progetti “dal basso” che pongono diversi spunti e interrogativi riguardo al tema più ampio del governo del fenomeno e degli strumenti che una politica più organica potrebbe mettere in campo. Sembra prematura in questa direzione una valutazione degli esiti del regolamento comunale sui giardini condivisi, anche se appare interessante il percorso avviato dal Comune di Milano per l’adozione di strumenti che facilitino consolidamento e proliferazione di queste attività, intendendole come importante patrimonio comune e come attivatori di nuova urbanità.

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Francesca Cognetti

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Conoscere e Patrimonializzare il Territorio con le Risorse Nascoste: Il Caso della Provincia di Caserta

Conoscere e patrimonializzare il territorio con le risorse nascoste: il caso della provincia di Caserta Fabio Converti Dipartimento di Architettura e Disegno Industriale “Luigi Vanvitelli” Email: fabio.converti@unina2.it

Abstract Con le crescenti evoluzioni demografiche e le conseguenti domande di infrastrutture, servizi e attrezzature per i centri abitativi, è divenuta necessaria una strategia globale di riutilizzo degli edifici rappresentativi o industriali dismessi, basata su un’analisi attenta dei processi modificativi dell’ambiente antropizzato. Esclusivamente attraverso un corposo scenario di idee innovative e l’uso delle nuove tecnologie per la conoscenza specifica del patrimonio naturale e costruito, possono emergere strategie di “riappropriazione” del territorio, mediante protocolli operativi per convertire il patrimonio in architetture sostenibili, che saranno in grado di avviare tramite un processo dinamico di progettazione del ciclo di vita degli edifici, e con un riuso degli stessi, un revival dei siti abbandonati. Parole chiave città, conoscenza, risorse

Campo di ricerca In molte città di tutto il mondo, interi quartieri in disuso vengono trasformati per usi diversi e nuovi status sociali, dove l’aspetto della sostenibilità ambientale acquista una maggiore centralità. Attraverso una strategia di re-use, gli edifici tornano in vita, vecchie fabbriche, edifici abbandonati, che sono stati lasciati decadere poco a poco, come segni un po’ ingombranti di un passato ormai lontano, che hanno oggi forse una seconda possibilità per rinascere a nuova vita. Molteplici sono gli utilizzi che si possono affidare a queste “rinate architetture”, attivazione di distretti creativi, servizi al quartiere, sviluppo di comunità, centri sportivi, funzioni commerciali, imprese sociali, produzioni artistiche e culturali, eventi, esposizioni, intrattenimento e temporary space. Il dialogo tra i diversi attori di questo processo, architetti, ingegneri, amministrazioni locali, possono conferire nuove possibilità, recuperando il patrimonio urbano e trasformandolo in abitazioni per il social housing, gallerie d’arte, hub culturali o parchi urbani.

Approcci ambientalisti Gli approcci normativi, nati nella periferia mondiale con la verifica storica della crescita delle diseguaglianze prodotte dalla dipendenza e del relativo impoverimento indotto da modelli di crescita esogeni e omologanti, contengono temi assolutamente rilevanti con i principi del pensiero ecologista che si è radicato nella crisi degli stessi modelli nei paesi del centro. Questa convergenza modifica sostanzialmente lo scenario culturale che ha visto per lungo tempo divise le categorie interpretative del terzo mondo prendendo sempre più la centralità della contraddizione nord sud, città campagna, rispetto alle spiegazioni degli addetti ai lavori che assegnano centralità al conflitto nella metropoli. Il concetto di confine entra in scena nella metropoli negli anni '70. Il carattere finito delle risorse fisiche, la crisi fiscale dello stato, i limiti sociali alla crescita, i deficit di legittimazione e il peggioramento della qualità ambientale dovuto all'ammontare delle variabili esternalizzate ed espulse dai calcoli simultanei costi/benefici Fabio Converti

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della crescita, tendono a mettere in crisi l'idea di sviluppo anche nei paesi del centro, e a estendere la cultura ecologista. L'assonanza fra gli approcci normativi ed ecologisti si rileva per molte componenti fondamentale per offrire sufficiente generalità al nostro concetto di produzione di territorio. In tale situazione si dovrebbe avere un approccio integrato all’analisi dei motori dei percorsi di sviluppo, che dovrebbero non solo considerare la loro sostenibilità economica e ambientale, ma riconoscere i tratti identitari caratterizzanti la cultura materiale, l’organizzazione sociale e relazionale della comunità, che in parte permangono o si trasformano nel tempo, in particolare nei processi di urbanizzazione. Con il progressivo aumento della capacità di controllo tecnico dei contesti naturali, con il crescente fabbisogno di prodotti e il conseguente sfruttamento intensivo delle risorse naturali, le città e gli aggregati urbani hanno rapidamente mutato il loro impianto; il territorio circostante è diventato il luogo indistinto dell’espansione unidirezionale, perdendo il suo carattere specifico, autonomo. Le matrici ambientali hanno mutato progressivamente la loro funzione originaria, sono diventate spesso irriconoscibili. Studi specifici devono indirizzarsi verso il riconoscimento delle componenti culturali identitarie, la ricerca storica finalizzata alla ricostruzione e alla conoscenza dei collegamenti tra queste e le trasformazioni subite dall’ambiente naturale, sono azioni necessarie a produrre una memoria critica, condivisa quale componente del patrimonio complessivo con il quale una comunità locale può attivamente partecipare, senza chiusure difensive di tipo localistico, xenofobo o integralista, ai processi di globalizzazione, rafforzando gli elementi di coesione sociale e di sostenibilità del proprio specifico modello di sviluppo. Conoscenza, informazione, partecipazione documentata e consapevole da parte dei cittadini sono anche per questo, pre-condizioni, per sostenere l’efficacia e il successo dei percorsi di Agenda Locale 21. Quindi lo sviluppo proposto dall'ecologismo mette in chiaro l'importanza dei elementi qualitativi, ciclici e formali, l'individuazione dei confini, lo sviluppo come ristrutturazione delle connessioni e capacità di autoriflessione e come mantenimento delle specificità e delle complessità locali. La peculiarità attribuita nell'approccio ecologista all'analisi del rapporto fra insediamento umano ed ecosistemi, stabilisce regole plurali di adeguamento e interazione reciproca aderenti e rispettose delle particolarità locali, rafforzando le specificità del territorio. Nell’idea ambientalista imprevedibilità e singolarità sono pensieri relativi ad una rappresentazione dinamica degli equilibri naturali che supera la visione di dominio della natura ma anche quella di sottomissione, verso un rapporto interpretativo/concettuale con l'ambiente, costruito su forme di autolimitazione cosciente. Adoperarsi per l'armonia con la natura entrare in relazione con l'ambiente creando flussi artificiali di informazione che non dividano e non sostituiscano quelli naturali ma che vi si integrino estendendoli e imitandoli, porta ad evidenziare l’esigenza di ridurre la super-produzione di soluzioni, di una crescita diventata ormai fine a se stessa. Scaturisce in questa circostanza l'esigenza di definire principi di appropriatezza dell'insediamento e stabilire limiti e confini all'uso quantitativo e qualitativo delle risorse. I confini etici posti all'azione umana dalle interdipendenze con gli ecosistemi portano alla programmazione del concetto di bio-regione: un territorio a cui corrisponde una consapevolezza, un luogo ma anche le idee sul come viverci. D'altra parte la, riflessione sugli ecosistemi artificiali come la città, al di la della correttezza dell'uso del termine, indicano un'attenzione' a forme di produzione dei territorio volte a 'superare' le contraddizioni implicite nella forma metro poli che altrove, descrivono «una struttura urbana interamente generata dalle leggi della crescita economica; a carattere fortemente dissipativo ed entropico, senza confini né limiti alla crescita; squilibrante e fortemente gerarchizzante; omologante il territorio che occupa, eco-catastrofica, priva di qualità estetica, riduttiva nei modelli dell'abitare contemporaneo. Questa interpretazione ,eco-sistemica configura, attraverso un'analisi della città e del territorio in cicli, uno schema generativo del progetto dell’insediamento che ne definisce dimensione e forma facendo interagire le qualità ambientali con le caratteristiche dell’ambiente antropico. Gli, approcci ambientalisti ed ecologisti; similmente agli approcci normativi, si fondano sul paradigma territorialista, opponendo requisiti che a partire dalla valorizzazione del territorio, pongono, le basi di modelli insediativi fondati appunto sulla interazione, sinergica fra ambiente fisico e antropico. Nel momento in cui si analizzano le caratteristiche peculiari di un'area urbana, rilevando gli elementi che ne identificano la singolarità, quelli che più di altri detengono la forza semantica dei segni che attribuiscono specificità ad un luogo, si raccolgono, in maniera consequenziale, le indicazioni di cui si deve tener conto nella definizione delle strategie atte a fermare e potenzialmente ad invertire i processi di degrado architettonico, urbano e paesaggistico. Per realizzare questi obiettivi, è necessario, quindi, indagare, ancor prima di agire, sulle caratteristiche peculiari di una o più architetture, di uno o più luoghi, di uno o più contesti ambientali e paesaggistici. Qualunque proiezione su quello che può diventare il futuro assetto di un luogo, infatti, deve porre le proprie radici in una attenta conoscenza di ciò che esso è nel momento attuale. In tale impegno conoscitivo di un luogo, non si può sottovalutare la presenza di diverse componenti storico/temporali che sono diventate tasselli di un unico mosaico, la cui armonia in alcuni casi si fonda sulla Fabio Converti

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compresenza di ogni elemento linguistico che la storia ha accumulato, e la cui forza espressiva e qualitativa può anche includere segni architettonici contemporanei che, relazionandosi o confutando la tradizione formale più consolidata, non neghino la giusta componete innovativa che ogni azione di progetto deve idealmente contenere.

Forme di urbanizzazione incontrollata L’urbanizzazione incontrollata lungo le aree costiere è una problematica che si ripercuote anche sulle aree limitrofe di pregio, dove, al contrario, lo sviluppo edilizio se pianificato può divenire un valido supporto per aiutare le regioni costiere a superare il declino economico. Uno dei rischi geofisici che minacciano maggiormente il territorio di Terra di Lavoro, sito nella porzione nordoccidentale della Campania, è anche l'erosione e la distruzione dei litorali, con gravi danni non solo in termini di perdita di capitale naturale, ma anche di manufatti e altre opere umane. A livello locale, infatti, ampi tratti di costa sono sempre più soggetti a trasformazioni irreversibili dovute, da un lato, a cause naturali, ma, soprattutto, all'azione dell'uomo che accelera questi fenomeni, con gravi danni all'ambiente, in generale e al paesaggio costiero. Questo rischio è da ricondurre, in parte, al modo in cui è avvenuta, nel corso dei decenni, l’“urbanizzazione della costa”, in seguito alle opere di bonifica delle aree costiere avviate a partire dagli anni 50’. Difatti, “in un ambiente igienicamente risanato e socialmente progredito era inevitabile anche lo spostamento della popolazione dalle zone interne verso il mare”. Il paesaggio costiero ha subito profonde trasformazioni, dalle cosiddette gemmazioni costiere, alla viabilità, fino alla messa a coltura di terreni un tempo malsani. La possibilità di una crescita economica legata all’attività balneare ha ulteriormente aumentato gli interventi antropici sulle aree costiere, tanto che, negli ultimi anni, il richiamo turistico e la prospettiva di uno sviluppo a breve termine ha indotto gli amministratori locali dei comuni costieri ad aumentare il numero degli stabilimenti balneari, i permessi a costruire per la realizzazione di alberghi, residence e villaggi turistici a ridosso della costa. In realtà questo fenomeno ha radici più lontane, risale alla fine degli anni sessanta, quando si è cominciato a guardare al turismo balneare come ad una possibile via di sviluppo economico. Infatti, “originatosi per iniziativa di singoli imprenditori, allorché il turismo cominciò ad essere considerato come un bene rifugio per quei risparmiatori intenzionati a realizzare case per villeggiatura o strutture ricettive localizzate soprattutto lungo le coste; sostenuto dai pubblici poteri nell’intento di assorbire nell’edilizia le forze espulse dall’agricoltura, il turismo dilagante si diresse allo sfruttamento delle risorse ambientali, soprattutto costiere, che vennero ben presto rovinate per l’eccessiva e disordinata urbanizzazione. In assenza di piani regolatori e di una seria azione di controllo, sorsero ben presto case private, residence, strutture alberghiere ed extra alberghiere, porti, approdi turistici e si diede l’avvio ad un devastante abusivismo edilizio che portò alla cementificazione di lunghi tratti costieri e al conseguente abbandono di un notevole patrimonio storico, edilizio, culturale costituito dai piccoli centri agricoli situati all’interno. Il fenomeno ha riguardato in particolar modo alcuni centri costieri dove l’espansione urbana ha determinato un continuum edificato nell’immediato entroterra, snaturando il paesaggio e privandolo di alcune sue peculiarità. In alcune aree costiere, invece, situate prevalentemente sul versante Casertano, il tessuto urbano appare più discontinuo, legato essenzialmente a una residenzialità stagionale, pertanto l’impatto negativo sull’ambiente costiero è dovuto all’eccessivo carico antropico che si verifica durante i mesi estivi. Il litorale Domizio è costituito dall’alternanza di tratti di pineta, di costa con spiagge, caratterizzati da elevata diversità morfologica, ambientale e paesaggistica.

Proposte di ricerca Dal punto di vista strettamente metodologico la produzione di rappresentazioni capaci di restituire e connotare la complessità del luogo deve farsi carico di operazioni di scomposizione dell’unicum territoriale in una serie di elementi che definiscano il quadro dei rapporti generativi sedimentati nello spazio fisico e rendano evidenti i segni della composizione materiale ed architettonica4 del paesaggio. La sintesi di questa gamma di relazioni e riferimenti è efficacemente espressa dall’idea di milieu come insieme di fattori ambientali, storici, sociali ed economici che una data società utilizza attraverso una fitta rete di legami non sempre manifesti. I problemi più significativi che il territorio provinciale, nella sua immagine attuale e nelle sue linee di tendenza, presenta possono ricondursi all'intreccio tra "problemi tradizionali" conseguenti ai primi due cicli espansivi degli insediamenti (consumo di risorse ambientali, compromissione del patrimonio architettonico rurale, dualismi tra città turistica e città dei cittadini) ereditati dal passato e ancora irrisolti. Ed ancora "problemi nuovi" legati al ciclo più recente orientato allo sviluppo delle funzioni terziarie dall'indotto turistico con effetti/problema sul territorio di avvio di un modello insediativo reticolare di carattere sovra-comunale dall'identità incerta. Fabio Converti

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Peraltro, le dinamiche di trasformazione territoriale alla base del nuovo ciclo sono positive e segnalano una spinta in atto alla modernizzazione ed allo sviluppo ulteriore del sistema di attività e funzioni provinciali che va sostenuta. Tale inadeguatezza di risposte, sono legate ad una visione troppo locale, condizionate dall'offerta di obsoleti strumenti di pianificazione, di iniziativa emergenziale, legati al mercato fondiario e privi di una strategia di lunga durata. Per il futuro del patrimonio edilizio, anche sulla base delle indicazioni raccolte da amministratori e operatori sociali della provincia di Caserta nella formazione di un piano strategico, dovrebbero riguardare due linee principali. La prima è legata al recupero del patrimonio architettonico costituito da nuclei sparsi, e la seconda linea il potenziamento della rete dei servizi per l’utenza stanziale e stagionale. Inoltre andando in direzione di casi di successo,diversi sono gli esempi a cui possiamo far riferimento, sia a livello nazionale che internazionale. Ciò ci fa capire come mediante un approccio strategico e condiviso per uno sviluppo sostenibile delle aree urbane degradate, i siti possono essere riutilizzati e riconvertiti diventando “oggetti” della smart city. Rispetto ad impostazioni anche recenti orientate a perseguire la competitività sul mercato globale attraverso una forte specializzazione delle attività principali, una delle possibili strategie, dovrebbe proporre una prospettiva di sviluppo della provincia come "distretto turistico integrato", dove le attività prevalenti si specializzano e diventano competitive, in quanto trova sostegno, su di una base diversificata di attività locali (industria, artigianato, commercio e logistica, agro-alimentare, ecc.) e su di un insieme di risorse ambientali e umane (cultura dell'ospitalità, imprenditorialità diffusa) presenti in forma integrata nella Terra di Lavoro. Sviluppando queste aree obiettivo, si potrebbe promuovere un'estesa azione di riordino strutturale e qualificazione del territorio provinciale, finalizzata alla nuova domanda socio-culturale e di sviluppo diversificato e competitivo, fornendo sistemi di decisioni di base e modelli organizzativi d'orientamento a lungo termine, da precisare e sviluppare progressivamente attraverso strategie ed azioni riferite ai temi/problema più determinanti per la provincia di Caserta.

Risultati attesi Le discipline della rappresentazione possono svolgere, anche in questo caso, una funzione analitica fondamentale aiutando a chiarire i rapporti strutturali e formali fra gli elementi di questo amalgama la cui “misura” più efficace sembra motivare, al di là di un approccio metrico-quantitativo, una serie di descrizioni qualitative che possono riformulare ed aggiornare l’immagine e l’evoluzione di questo territorio. «Il concetto di co-evoluzione fra ambiente insediativo e ambiente naturale richiede lo studio dinamico dei processi di trasformazione dell’ambiente naturale come continua formazione nel tempo di neo-ecosistemi conseguenti all’azione antropica: il territorio, in quanto ambiente fisico, è altro dalla natura originaria, ma risponde comunque, anche se a diversi gradi di artificializzazione e di evoluzione verso nuovi climax ,alle leggi di riproduzione dei sistemi viventi e degli ecosistemi. » Quindi le proposte per il recupero delle risorse nascoste del territorio della provincia di Caserta potrebbero riguardare: • La trama dei luoghi ambientali e storici • Gli interposti spazi agricoli di tutela e riserva produttiva e paesistica • L’articolazione e caratterizzazione dei sistemi insediativi intercomunali • Un potenziamento della rete infrastrutturale Bisogna pensare che un edificio abbia “un’impronta” più estesa del suo sedime, un’impronta che lo collega ad altri luoghi, al terreno circostante.

Bibliografia Baricchi, W. e Cervi, G. Guida al recupero del patrimonio edilizio, storico. Architetture tradizionali in area appenninica e canossiana, Provincia di Reggio Emilia 2004; Baumann, Z. Modernità liquida, Laterza, Bari 2000; Istituto Alcide Cervi - Atti del convegno “Consumo del territorio e degrado del paesaggio” Gattatico RE, 14 Novembre 2009; Norberg-Schulz, C. Genius Loci. Paesaggio Ambiente Architettura, Electa 2007; Salè, S. Architettura Design e Natura. Progettare la sostenibilità, Edizioni Nuove IniziaCtive, Milano 1996; Tassinari, P. L’edilizia rurale nella sua evoluzione storica fra libertà e necessità - atti del convegno “Volontà, libertà e necessità nella creazione del mosaico paesistico culturale”, Cividale del Friuli 25-26 ottobre 2007; Zerbi M. C., Il paesaggio rurale: un approccio patrimoniale, Giappichelli, Torino 2007. Fabio Converti

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Il curioso caso della Costa Teatina

Il curioso caso della Costa Teatina Emilia Corradi Università degli Studi “G. D’Annunzio”_Chieti Dipartimento d Architettura _Pescara Email: corradie@tiscali.it Aldo Casciana Università degli Studi “G. D’Annunzio”_Chieti Dipartimento d Architettura _Pescara Email: aldocasciana@yahoo.it

Abstract Nei processi di dismissione infrastrutturale si generano materiali del territorio e del paesaggio che spesso si presentano come scarti. Questi mal si congegnano con un modello di sviluppo sostenibile rimanendo sempre come spazi residuali con destinazioni vaghe e disponibili a trasformazioni incontrollate e incontrollabili. Nella vocazione di questi spazi raramente si riesce a generare un processo di riuso tale da coinvolgere sia i manufatti infrastrutturali che il territorio che li circonda. Anzi spesso lo scollamento tra le parti è utilizzato per operazioni speculative mascherate da riqualificazione o rilancio di economie danneggiate dalla dismissione. Ciò è ancor più evidente in territori di particolare pregio paesaggistico e ambientale, oggetto da tempo di aspirazioni di trasformazioni qualitative o con vocazione di tutela privilegiata come quella dei parchi. L’obiettivo è dimostrare come un processo di riduzione/riuso/riciclo di manufatti infrastrutturali può (poteva) essere occasione di costruzione di un modello esemplare di trasformazione e gestione del territorio attraverso un esemplare progetto di territorio, articolato e sostanziato nel connubio tra piano e progetto, spettatori non di una semplice forma di auto adattamento, ma attori consapevoli della trasformazione territoriale. Parole chiave Paesaggio, Infrastrutture, Modello

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Il curioso caso della Costa Teatina

Premessa Nei processi di dismissione infrastrutturale si generano materiali del territorio e del paesaggio che spesso si presentano come scarti. Questi mal si congegnano con un modello di sviluppo sostenibile rimanendo sempre come spazi residuali con destinazioni vaghe e disponibili a trasformazioni incontrollate e incontrollabili. Nella vocazione di questi spazi raramente si riesce a generare un processo di riuso tale da coinvolgere sia i manufatti infrastrutturali che il territorio che li circonda. Anzi spesso lo scollamento tra le parti è utilizzato per operazioni speculative mascherate da riqualificazione o rilancio di economie danneggiate dalla dismissione. Ciò è ancor più evidente in territori di particolare pregio paesaggistico e ambientale, oggetto da tempo di aspirazioni di trasformazioni qualitative o con vocazione di tutela privilegiata come quella dei parchi. Una questione appare nodale: come un paesaggio può essere riciclato o cosa del paesaggio può essere riciclato? E il concetto di riciclo può essere adattato ad un paesaggio o essere declinato in quello di “rigenerazione”? Quali sono i materiali teorici e tecnici di un processo così complesso? Per riciclaggio in genere si intende un corpo di strategie atte a recuperare rifiuti piuttosto che smaltirli. A monte di ciò si ritiene debba esserci un processo di selezione, e di responsabilità sulla differenziazione dei manufatti (materiali). Smaltire un paesaggio e i suoi manufatti appare un processo critico di catalogazione accurata, ma anche di conoscenza degli elementi che lo compongono, in cui una parte importante è rivestita anche dallo studio dei processi che lo ha generato insieme ai suoi componenti. Questo processo aiuterebbe a prevenire lo spreco di materiali reimpiegabili in un nuovo “progresso” reinserendoli in un circuito sociale, ambientale, economico ed estetico ricco di opportunità. Ma questo ragionamento può essere applicato ai manufatti infrastrutturali dismessi, in via di dismissione o sottoutilizzati? Dovremmo dividere il ragionamento in due parti: il primo riguarda i manufatti che li costituiscono, il secondo il territorio che hanno generato. In ognuna delle parti i materiali teorici raccontano scale e questioni complementari tra loro. Nel caso del territorio della Costa Teatina la complementarietà dei materiali teorici spesso costituisce condizione necessaria per costruire un ragionamento sulla condizione di riciclabilità di un paesaggio e sulle modalità con cui il progetto e il piano possono inquadrare le questioni.

Infrastruttura a perdere Il territorio della Costa Teatina assume la sua configurazione insediativa attuale a partire dalla realizzazione della ferrovia Adriatica (1863) determinando un processo insediativo legato prima alle stazioni ferroviarie e poi negli anni 60/70 del ‘900 a vari insediamenti industriali artigianali che trovano nel sistema a pettine vallivo abruzzese una condizione idonea di espansione. A sua volta la morfologia della Costa, caratterizzata da un tratto di circa 70 km di alternanza tra falesie e spiagge basse, assume la connotazione fisica di una fascia lunga e stretta ricca di micropaesaggi autonomi per struttura identitaria. Da suo canto l’elemento infrastrutturale ferroviario diviene sistema di aggregazione di questi dando forma ad un luogo unitario che di fatto identifica un territorio come un codice genetico. Per loro natura, gli elementi infrastrutturali sono generalmente poco riconducibili alle categorie del riciclo, sia per consistenza fisica, per forma e per funzione. L’uso prevalente di materiali di costruzione, la condizione d’uso che fa di loro elementi altamente inquinati, e lo spazio monofunzionale e monoforma che li caratterizza inducono a pensare che il processo di separazione e di rigenerazione sia operazione impensabile. D’altro canto un infrastruttura dismessa è sempre più occasione di rigenerazione di un territorio, a partire proprio dalle sue componenti. Ma in questo caso si aggiunge una variabile molto interessante per la natura e costituzione fisica di un parco: la presenza di un tracciato ferroviario nazionale, quale la ferrovia Adriatica, che proprio in questo intervallo di territorio a partire dagli anni ’80 subisce un arretramento a causa dei fenomeni di erosione della costa sempre più aggressivi che mettevano frequentemente in pericolo il piano dei binari in più tratti.

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Figura 1. La stazione di San Vito Chietino (foto di Roberto Di Monte)

Questo evento ha consentito di liberare un tratto molto pregevole della costa dal vincolo molto rigido che un manufatto ferroviario introduce nella gestione del territorio paesaggio Una occasione che nel caso della ferrovia Adriatica volge a definire configurazioni e aspettative di trasformazione valutate fin dal 2004 dalla Regione Abruzzo con lo “studio per un Modello di Sviluppo della Costa Teatina” commissionato alla Facoltà di Architettura di Pescara1. Lo studio oltre a costruire un quadro scientifico molto esaustivo degli elementi costitutivi di quella porzione di territorio, indagava tratto per tratto le potenzialità di rigenerazione e di recupero congruente alla destinazione di Parco, nell’ottica di avviare un processo catalizzatore di nuove trasformazioni del territorio attento ad una sostenibilità del processo di trasformazione sostenibile sia in chiave paesaggistico/ambientale che economico insediativa. Lo studio indicava un modello sostenibile di recupero del tracciato dismesso della ferrovia, con una schedatura che affrontava e risolveva dando delle indicazioni metodologiche sui i numerosi punti di possibile recupero e rigenerazione urbana con particolare attenzione all’ampliamento della sezione trasversale di progetto. Particolare attenzione veniva data alle tecniche progettuali e di ricontestualizzazione dei vari manufatti, in relazione alla morfologia e alla scala specifica. Nel frattempo la percezione sociale del Parco della Costa teatina ha avuto fasi fortemente conflittuali, trascurando i manufatti dismessi del tracciato ferroviario, delegando a poche e provvisorie, quanto parziali opere di messa in sicurezza di un patrimonio architettonico, come le stazioni dismesse o le gallerie che potevano generare occasione di riqualificazione ambientale, territoriale offrendosi come volano di piccole economie di scala adatte ad una filiera di turismo ecologico sempre più diffuso. Questo tipo di esperienza ha condotto ad una serie di riflessioni sulla necessaria multidisciplinarietà indispensabile per poter rendere efficace e percorribile un processo di riciclo e rigenerazioni di paesaggi infrastrutturali. Riflessione quanto mai necessaria ed urgente visto il feroce piano di dismissione di tratte ferroviarie attuato da RFI, che colpiscono soprattutto tratti interni che attraversano territori paesaggisticamente importanti e pregevoli. Tale politica di fatto sta generando quantità importanti di relitti infrastrutturali il cui destino appare incerto come quello dei paesaggi attraversati. Gestione è uno degli imperativi con cui il processo di rigenerazione dovrà tener conto. È sottinteso che non si tratta di un processo economico ma culturale, sociale e ambientale con cui il progetto deve confrontarsi. Molte le figure istituzionale come enti amministrativi e di ricerca che dovranno essere coinvolti, in considerazione che sia i materiali teorici che fisici del riciclo/rigenerazione possono essere risorsa e non problema in cui l’obiettivo del recupero differenziato come strumento di governo del territorio, delle sue risorse ambientali, progettuali, economiche e sociali vale anche per le infrastrutture. Sperimentazione. Attualmente si è avviato un processo di sperimentazione sul riciclo dei materiali edili, che in esperienze europee ha già delineato un processo virtuoso da percorrere. Nel caso degli elementi infrastrutturali si 1

“Ricerca sul Modello di sviluppo della Costa Teatina in attuazione dell’Obiettivo del Q.R.R. e del P.R.P.” per conto della Regione Abruzzo- settore Urbanistica e Beni Ambientali. Fasi ricerca: A, B, C Gruppo di Lavoro Regione Abruzzo Arch. Antonio Perrotti (Coordinatore), Arch. Antonio Sorgi Gruppo Di Ricerca Dau (Fasi A, B, C) Prof. Giangiacomo d’Ardia (Coordinamento Generale), Prof. Carmen Andriani (Responsabile Progetto), Prof. Roberto Mascarucci, Prof. Filippo Raimondo, Prof. Maria Angelini, Arch. Susanna Ferrini, Arch. Federico Bilò, Arch. Emilia Corradi, Gruppo di Ricerca Dau (Fase D) Prof. Arch. G. d’Ardia (Coord. Generale), Prof. Arch. Carmen Andriani (Resp. Progetto), Arch. Emilia Corradi

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dovrebbe dar vita ad una codificazione che introduca come altro aspetto della sperimentazione quello della progettazione, che” dovrebbe entrare nel dettaglio”, valutando materiali e trattamenti per trasformarli in pratica industriale ordinaria.

Figura 2. La stazione di San Vito Chietino, sullo sfondo i Trabocchi (foto di Roberto Di Monte)

Altra questione è quella del programma sia funzionale che territoriale introdotto da un tema così importante e così complesso. Spesso la soluzione più praticata è quella di trasformare questi manufatti in piste ciclabili, totalmente sconnesse dal contesto o da un programma più ampio che coinvolge, ripensandolo, il territorio attraversato. Ma forse uno sforzo più intenso aiuterebbe a introdurre criteri di innovazione nel processo di rigenerazione proprio partendo da programmi sperimentali d’uso, come quello di piccole strutture di trasporto collettivo ad che magari aiuterebbero in un rilancio economico e sociale l’intera costa. L’esperienza della Costa Teatina, è una strada irta di buone intenzioni e cattivi esempi, ma è anche un modello che se ben pensato può condurre ad una sperimentazione importate ed esemplare e dimostrare come un processo di riduzione/riuso/riciclo di manufatti infrastrutturali può ancora essere occasione di costruzione di un modello esemplare di trasformazione e gestione del territorio attraverso un progetto di territorio, articolato e sostanziato nel connubio tra piano e progetto, spettatori non di una semplice forma di auto adattamento, ma attori consapevoli della trasformazione territoriale.

Il racconto inverso Il lieto fine di questa storia racconta di un territorio caratterizzato dalle grandi qualità ambientali e paesaggistiche, in stato di degrado ormai da anni, anche a causa della dismissione della linea ferroviaria adriatica, che lentamente riesce a tornare “giovane” grazie ad un processo di rigenerazione territoriale. Il curioso caso della Costa Teatina appare quindi il paradigma di molti territori degradati che, interessati per anni dalla dibattiti e contrapposizioni di visioni e modelli di sviluppo alternativi, si auto-regola secondo forme di funzionamento non convenzionali. Una prima questione da affrontare riguarda proprio il rapporto tra il territorio costiero e la dismissione della linea ferroviaria adriatica, che correndo parallelamente alla statale adriatica ha condizionato sia il sistema insediativo che il rapporto tra terra e mare. Le diversità dei contesti attraversati dal fascio infrastrutturale “ristretto”, ove urbanizzati ove rurali, e la conseguente dismissione hanno cambiato il senso di alcuni contesti ed usi. Per alcuni versi alcuni equilibri, se pur precari, hanno retto finché la ferrovia è stata in uso. Ci si riferisce in particolare alle opere di difesa dalla erosione della costa che hanno avuto una certa manutenzione costante legate all’uso principale, sostegno al passaggio dei treni, che però contestualmente hanno contribuito i moltissimi casi, nel territorio di Ortona principalmente, al mantenimento di alcuni tratti di costa. Successivamente l’abbandono dell’uso consolidato della linea ferroviaria ha di fatto modificato il ruolo e la conformazione fisica della seconda infrastruttura stradale, sia dal punto di vista degli usi, che del rapporto con le aree ed insediamenti limitrofi. Questi processi di dismissione paesaggistica locale (descritti di seguito nel testo) e dei loro materiali hanno cominciato a verificarsi nei primi anni di costruzione della nuova linea ferroviaria e continuano ancora oggi a diverse velocità. Il cambiamento dei rapporti tra terra e mare, e tra sedime ferroviario e paesaggio che sarebbe scaturito dallo spostamento interno della ferroviaria è stato il paradiso perduto della costa teatina. La dismissione pianificata, attesa, realizzata ed ormai ricordata della linea del ferro ha, per molti anni, lasciato invariati i rapporti dei centri urbanizzati particolarmente, con le aree costiere. La questione principale è che, se pur in assenza di progetto

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territoriale condiviso, nei contesti comunali locali nessuno ha avuto la lungimiranza di guidare questo processo ormai in atto verso forme non solo di rigenerazione, ma di sostentamento sostenibile, anche finanziario. Sia dal punto di vista urbanistico che da quello progettuale sarebbe stato opportuno, almeno nei contesti urbanizzati, poter prevedere nuovi usi e funzioni pubbliche in concomitanza tra la ex ferrovia ed i nodi urbani. Il cambiamento di destinazione d’uso è invece avvenuto con processi più o meno spontanei invece che sostanziare varianti agli strumenti di governo urbanistico locale. La questione è centrale per diverse ragioni. Il futuro delle aree ferroviarie dismesse, sedime ed annessi, sembra essere scritto da anni, ma la sua realizzazione sembra essere sempre più lontana. La previsione della realizzazione della Via Verde, secondo il progetto della provincia, assegna a queste aree un uso turistico sostenibile, che rischia di essere però vano. Da un lato il miraggio dei fondi FAS, attraverso cui acquisire le aree in questione2, dall’altro la mancata espressione di volontà politiche locali. Una questione parallela ma non secondaria che complica la governance del contesto è quella che riguarda la perimetrazione del parco della costa. Dalla emanazione della Legge3 del 2001 non si è ancora trovato un accordo sul modello di parco, e di perimetrazione, per cui si assiste alla contrapposizione delle amministrazioni locali, che hanno il compito di perimetrale le aree comunali da assoggettare a parco nazionale. In questa contrapposizione politica riemerge il progetto della via verde poiché le amministrazione contrarie alla formazione del parco nazionale, che pur è sancito per legge e quindi prima o pi in qualche forma si farà, sostengono che il territorio è già interessato da numerosi vincoli ed avrebbe come guida della trasformazione futura il volano della rigenerazione territoriale affidato al progetto della via verde. Le tesi qui sostenute affermano la centralità del ruolo del parco nazionale non solo come strumento di controllo delle trasformazioni bensì come soggetto principe di un modello di sviluppo sostenibile di un contesto territoriale che naturalmente è votato al turismo. È bene però sottolineare alcuni aspetti della questione. Con il Parco Nazionale o con il progetto della Via Verde, pur ricordando che uno non esclude l’altra e viceversa, tutti gli attori della trasformazione si dichiarano animati dal “sentimento nuevo” della sostenibilità ambientale, per lo più alcune delle amministrazioni locali4 dichiaratamente contrarie al parco, le cui progettualità, che perderebbero il loro campo di esistenza in presenza dei un parco effettivamente istituito, non sono evidentemente espressione di un modello di sviluppo antico e non consono al contesto del basso adriatico, ma che soprattutto non fruttano l’occasione del riuso della linea ferroviaria. Quello che manca ed è mancato finora è la espressione manifesta di un modello di sviluppo turisticosostenibile che potesse fondarsi anche sul riuso della linea ferroviaria adriatica dismessa. Di questo scenario territoriale si è si è occupato in particolare il Progetto Speciale Territoriale della Fascia Costiera5 della Provincia di Chieti, il cui Documento Programmatico definisce in testa gli obiettivi strategici tesi: “al coordinamento delle azioni da intraprendere per concretizzare una nuova forma di turismo di qualità a partire dalla realizzazione del progetto prioritario della “via verde” (percorso ciclopedonale attrezzato da realizzare sul sedime dell’ex tracciato ferroviario nel tratto compreso tra Ortona e Vasto-San Salvo) e dalla promozione delle alternative forme edilizie, ricettive e residenziali, rispettose del contesto paesaggistico in cui s’inseriscono, e soprattutto non aggressive nei confronti del suolo che viene consumato”. Su questo tema appare utile ricordare alcune questioni, in particolare le dinamiche legate alla realizzazione del progetto della via verde, espressamente alle questioni di fattibilità tecnico finanziarie, ed al carattere di “indirizzo” del documento provinciale, hanno contribuito da un lato all’invecchiamento del contesto costiero; il sedime e le opere d’arte sono in stato di abbandono e sono sottoposte a continue pressioni sia fisiche che di nuovi usi, spesso non coerenti con il progetto di rigenerazione.

L’acquisizione del sedime ferroviario è un elemento che ha caratterizzato al lungo la discussione politico amministrativa di questi anni e cha ha visto diverse fasi, da una prima ipotesi di acquisto della aree secondo il valore agricolo delle stesse, sino all’ultima ipotesi della possibilità, manifestata dalla Provincia di Chieti, della possibilità di esproprio della aree attraverso un piano particellare da poco approvato che ridurrebbe il costo totale dell’operazione a due milioni di euro. 3 Il Parco della Costa Teatina è stato istituito con l’articolo 8, comma 3, della Legge n. 93/2001. 4 Emblematico è il caso del Comune di S. Vito Chietino, dichiaratamente contrario alla formazione del Parco della Costa e che di contro sta cercando di portare avanti due imponenti progetti di trasformazione territoriale; un Resort Turistico attraverso una imponente variante urbanistica che trasformerebbe un‘area di 14ha da terreno agricolo a destinazione ricettiva ed il progetto di un porto turistico da 300 posti barca attraverso una mega struttura sovradimensionata rispetto alle necessità che configura una seconda cattedrale nel deserto rispetto al contesto costiero. 5 artt. 44-46 del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale 2

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Figura 3. Un tratto del sedime ferroviario dismesso, sullo sfondo i Trabocchi (foto di Roberto Di Monte)

C’è però un'altra questione di fondo che va rimarcata, anche se poco piacevole. In questi ultimi anni la costa teatina è stata un contesto molto studiato ed approfondito nell’ottica della possibile rigenerazione territoriale che potesse essere innescato dal riuso in chiave turistica della linea ferroviaria dismessa. Parallelamente, e come si ricordava non in contrapposizione, la prospettiva della istituzione del parco ha contribuito alla formazione ed alla sedimentazione del sentimento ambientale che contribuisce ad un operare cosciente e sostenibile nel territorio. In questa contrapposizione non duale di prospettiva sostenibile allora “il curioso caso della Costa Teatina” sta nel fatto che non solo le condizioni legislative e politiche non hanno di fatto scaturire “ad oggi” quei processi di riuso se pur di alcune parti o di alcuni elementi e materiali sensibili del paesaggio costiero, anche di quello urbanizzato. La sensazione di vuoto provocata da alcuni di questi contesti non deriva solamente dal carattere di assenza fisica di nuovi materiali o di nuovi usi che almeno parzialmente sostituissero l’uso antico; la sensazione di vuoto sembra spesso scaturire da un’assenza, o capacità potrebbe sostenere qualcuno, di visione di futuro che, va detto con estrema chiarezza, non può al livello locale fondarsi, nel migliore dei casi, in un approfondimento formale e di scala di previsioni se pur rispettabili di rigenerazione territoriale. Si pensi che questa condizione di assenza sembra acuirsi in questi mesi a causa della paventata realizzazione degli famigerati impianti petroliferi a poche miglia dalla costa (Ombrina Mare) che, se mai realizzati, costituirebbero la fine di ogni velleità turistica della costa, secondariamente al rischio ed alle ricadute ambientali sulla salute pubblica. Ma la nuova condizione della disponibilità fisica delle aree della ex ferrovia, se pur vincolate alla realizzazione di una pista ciclabile sull’ex sedime, non è stata finora in nessun caso, che possa essere conosciuto, occasione per il ripensamento si un sistema di spazi ed attrezzature pubbliche per i contesti urbani e per il territorio e che sia divenuta occasione per il ripensamento in particolare dei rapporti di relazione, non solo fisica, con i territori interni, aspetto colpevolmente manchevole nel dibattito attuale. Il racconto inverso, teso al ringiovanimento del paesaggio teatino sembra interrompersi cristallizzando situazioni che in questa fase storica, caratterizzate sial dalla imponente crisi economica che dalla apparente inadeguatezza del contesto politico nazionale, sembra lontano dal poter ripartire speditamente verso un’infanzia territoriale.

Bibliografia AAVV. (2007), Les temps des infrastructures, Editions L'Harmattan, Parigi Felice C. (2009), Le trappole dell’identità. L’Abruzzo, le catastrofi, l’Italia di oggi, Donzelli Editore, Roma. Onofri S. A. (2002), L’Abruzzo Costiero, Rocco Carabba Editore, Lanciano. Prelorenzo C. (2000), Infrastructures, villes et territoire, Editions L'Harmattan, Parigi Staffa R. A. G. (1997), Le magnifiche sorti, Baldini&Castoldi, Milano. Zunica M. (1987), Lo spazio costiero italiano, dinamiche fisiche umane, Valerio Levi ed., Pero (Mi)

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Esercizi di densità nei piani di Oriol Bohigas. La densità come strumento di riqualificazione delle periferie residenziali

Esercizi di densità nei piani di Oriol Bohigas. La densità come strumento di riqualificazione delle periferie residenziali Cecilia De Marinis

1 | Rigenerazione urbana e sostenibilità La rigenerazione urbana, oggi tema di grande rilevanza, si propone come strategia per uno sviluppo sostenibile delle città. Il termine rigenerazione urbana, accostato e parzialmente sostituito ai più consolidati termini di riqualificazione, ristrutturazione, recupero, ha a che fare con qualcosa di “organico”, incarnando il carattere mutevole e imprevedibile delle dinamiche di trasformazione della città contemporanea. Le città sono tra i principali elementi di distruzione dell’ecosistema. Un primo passo verso la limitazione del danno provocato consiste nel superamento del modello di città a metabolismo lineare, che consuma energia e produce enorme quantità di rifiuti, a favore di un modello di città a “metabolismo circolare” (Rogers; Gumuchdjian, 1997), che riduce il consumo di risorse e incrementa il riciclo, riducendo la produzione di rifiuti, in un sistema circolare di uso e riuso. Obiettivo della rigenerazione urbana è quindi la costruzione di un ambiente edificato sostenibile, con una concezione della sostenibilità intesa come benessere, sicurezza e cura dell’ambiente. Alla ricerca di quella qualità urbana carente o mancante in molte aree della città, in un confronto costante tra le potenzialità dell’esistente e le mutate esigenze dell’utenza.

2 | Il valore del costruire sul costruito Questa ricerca parte dall’assunto che oggi sia necessario rigenerare piuttosto che costruire ex-novo, al fine di evitare un ulteriore consumo di suolo, limitando il fenomeno dello sprawl urbano e riducendo il consumo di risorse. La città compatta si propone come il miglior modello per ridurre i consumi. Diventa necessario puntare sulla densità, su tessuti urbani compatti in contrapposizione alla crescita urbana incontrollata. Si definisce così il nuovo paradigma del costruire sul costruito. Nella situazione attuale la scelta a favore della rigenerazione contro il modello del continuo sostituzione è un imperativo etico e questa scelta etica nel suo manifestarsi si trasforma in una scelta estetica, che può essere definita “estetica della durata” ( Magnago Lampugnani, 1999). Il processo di rigenerazione ha in sé anche un valore aggiunto, il valore della continuità temporale. La radicale rottura compiuta attraverso le operazioni di demolizione e ricostruzione viene sostituita da una continuità nello sviluppo urbano: il rinnovo, attraverso il meccanismo del costruire la città strato dopo strato, permette uno sviluppo urbano graduale e continuo, come il processo di sedimentazione di un fiume. (Van Schagen Architekten et al., 2009). La storica del luogo è un valore, le tracce del passato si trovano nel terreno, negli edifici, nel verde, nelle visuali, ma anche nello spazio, negli ostacoli, nei confini, nei collegamenti, nelle intenzioni, nei successi e negli insuccessi. E’ necessario comprendere e utilizzare le opportunità offerte dagli edifici esistenti, cercando di risvegliarne le potenzialità piuttosto che distruggerle. Il rinnovo del patrimonio esistente si pone oggi come un’esigenza di sostenibilità, sociale, economica e ambientale, che diviene anche occasione. Il patrimonio esistente oltre che problema da risolvere, dimostra infatti di essere anche una grande risorsa.

3 | Le periferie residenziali come risorsa Nell’ambito della riqualificazione urbana meritano particolare attenzione i quartieri periferici, luoghi oggi marginali a causa dei pessimi collegamenti, indifferenziati, monofunzionali e privi dei più elementari servizi, Cecilia De Marinis

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quindi gravitanti attorno ai sovraccaricati centri urbani. Inoltre questo patrimonio abitativo si dimostra incapace di rispondere alle mutate esigenze abitative e inadeguati per quanto riguarda le caratteristiche morfo-tipologiche ed energetiche. Questi quartieri costituiscono al contempo una risorsa consistente dal punto di vista dimensionale ed interessante per le potenzialità di trasformazione. La periferia viene definita spesso per negazione: come il luogo dell'assenza o come il luogo della perdita (Di Biagi, 2006). Nella periferia mancano qualità, significato, identità e si perdono l’organizzazione dello spazio, la coerenza, la forma, i limiti. Il termine periferia deriva dal greco "perí" ("intorno”) e "pherein" ("portare") e indica uno spazio racchiuso, indica le aree di una città al di fuori del centro storico, in una visione antitetica tra centro e periferia. Oggi è più che mai evidente il superamento della dicotomia geografica centro-periferia. Ci si imbatte di frequente in aree periferiche che si collocano all’interno dello sviluppo urbano. La definizione di queste aree non è più in funzione di una collocazione geografica ma in funzione delle caratteristiche; si può parlare di una nuova condizione periferica (Caudo, 2009) trasversale che comprende spazio, società e cultura. Oggi uno dei caratteri principale di identificazione delle aree periferiche è la provvisorietà (Cerasoli, 2008) e non finitezza, soprattutto nella definizione dell’uso dello spazio aperto e delle attrezzature collettive. Spesso queste aree sono incompiute rispetto ai progetti originari, sono assenti i servizi che erano stati previsti o manca il disegno dello spazio pubblico. Sono proprio queste caratteristiche di provvisorietà e non finitezza a rivelare le potenzialità di trasformazione delle aree periferiche, esse sono infatti capaci di rigenerarsi e divenire risorsa attiva. Il carattere di provvisorietà è accompagnato da una serie di altri aspetti problematici che definiscono le aree periferiche. L’edilizia esistente è sempre più mancante e difettosa, non soddisfa le mutate e mutevoli esigenze degli utenti e non rispetta i requisiti minimi di efficienza energetica. Gli edifici costruiti prima degli anni ’70 non prevedevano nessun accorgimento ai fini del risparmio energetico e necessitano oggi di una forte azione al riguardo. E’ inoltre in atto una crescente diversificazione della domanda abitativa: aumento del numero di famiglie, contrazione progressiva del nucleo familiare, invecchiamento della popolazione, crescente presenza di famiglia straniere, giovani che vivono in famiglia; ciò rende necessario agire sull’offerta indifferenziata di alloggi dei complessi residenziali esistenti.

Figura 1. Esempi di aree periferiche in cui la rigenerazione è stata attuata o è in corso. 1) Park Hill, Sheffield. 2) Bijlmermeer, Amsterdam. 3) San Cristobal de los Angeles, Madrid.

Altri aspetti problematici delle periferie sono la dimensione e la proporzione. Le dimensioni sono spesso troppo ampie, le distanze troppo grandi, gli spazi aperti vuoti ed enormi. La grande dimensione scoraggia la sosta e le attività nello spazio urbano. Ciò comporta una percezione di totale mancanza di riconoscibilità e identificazione ed un pressoché totale disuso di quegli spazi che dovrebbero contenere il fulcro della vita urbana di questi

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Esercizi di densità nei piani di Oriol Bohigas. La densità come strumento di riqualificazione delle periferie residenziali

quartieri, a discapito di una quasi totale assenza di quelle relazioni interpersonali che potrebbero e dovrebbero avvenire in quegli spazi aperti (Gehl, 1987). Inoltre la pianificazione del dopoguerra ha modificato il modo di vivere tra gli edifici. La vita urbana è stata portata al di fuori dei complessi abitativi, dichiarando una forzata dipendenza di questi complessi dai centri urbani più vicini. Ciò ha scoraggiato la circolazione pedonale in queste aree a favore della circolazione automobilistica. Le caratteristiche negative sopra citate rappresentano al contempo notevoli possibilità di trasformazione. Un esempio sono i grandi spazi aperti che ad oggi sono tra i più grandi spazi verdi e aperti che si insinuano nelle aree urbane e sono elemento utile su ci intervenire. Gli interventi di riqualificazione negli insediamenti residenziali periferici sono un elemento fondamentale per restituire una qualità urbana e quindi una qualità della vita ad ampie aree urbane degradate.

4 | La questione della densità La densità può essere il principale strumento utile di controllo e azione negli interventi di riqualificazione delle periferie residenziali. Essa, come variabile urbana, è un parametro quantitativo che ha implicazioni nella qualità dell’architettura e della vita di chi la abita. In questa ricerca il concetto di densità si estende alla triplice accezione di densità di costruito, densità di incontro e densità d’usi. La prima interpretazione, come densità di costruito, legge la densità dal punto di vista numerico quantitativo. La densità è quindi un rapporto numerico, uno strumento di analisi, interpretazione, progettazione e controllo dello sviluppo urbano. In questo approccio analitico la densità è vista come il “rapporto tra consistenza architettonica e superficie antropizzata” (Reale, 2011)ed ha un grande valore di misura e controllo dello spazio urbano infatti “studiare la densità urbana significa tornare a misurare lo spazio” (Reale, 2011). Esistono differenti tipi di misurazione della densità dal punto di vista urbanistico: attraverso il rapporto alloggi/ettaro; attraverso il rapporto abitanti/ettaro; attraverso il rapporto superficie/ettaro. L’ultimo tipo di misurazione, denominata F.A.R. (Floor Area Ratio) permette di ottenere un valore equivalente al rapporto tra tutta la superficie calpestabile e la superficie insediabile o insediata. Questo tipo di misura non dà connotazioni dal punto di vista funzionale ma dà informazioni dal punto di vista della consistenza volumetrica. E’ utile a rappresentare la relazione tra la densità e la forma del costruito ed è legato quindi agli aspetti morfologici e volumetrici del sistema urbano piuttosto che ai dati demografici della popolazione. Differenti valori di densità definiscono spazi di qualità differente. La densità quantitativa può essere un elemento di lettura della qualità urbana, ma non è sufficiente per raccontare i caratteri dell’ambiente urbano. In questa ricerca si vuole porre l’accento sulla densità intesa in termini qualitativi, cioè intesa come intensità urbana. L’idea è che si possa andare oltre la misura quantitativa della densità di un ambiente urbano e che si possa e debba misurarne anche la qualità, in funzione di quei caratteri dell’ambiente costruito che influenzano le relazioni tra le persone rendendole possibili, impedendole o facilitandole (Gehl, 1987). Il grado, la misura e il carattere delle attività all’aperto vengono influenzati dalla progettazione fisica degli spazi: “tramite le decisioni progettuali è possibile influenzare il campionario delle attività, determinare migliori o peggiori condizioni per le azioni all’aperto e creare città animate, oppure senza vita” (Gehl, 1987). In quest’ottica è possibile parlare di densità di incontro. Nella nostra cultura la prossimità è un valore ed un elemento necessario alla definizione della città, così come lo sono l’interazione personale casuale e i rapporti di vicinato. La densità di incontro, quindi la frequenza, il carattere e la controllabilità degli incontri casuali definiscono la qualità della vita urbana, in contrasto con la consueta solitudine e dispersione della periferia: “La densità di incontro è il substrato della socialità e la base materiale della democrazia” (Sorkin, 2003). Un luogo nel quale si possa vivere bene è rappresentato anche da un altro tipo di densità: la densità di usi. La qualità della densità urbana è legata anche alla quantità di funzioni presenti quindi alla diversità, altro elemento necessario per favorire la molteplicità dell’esperienza quotidiana infatti “Le città sono riserve pubbliche per la produzione di esperienze private” (Sorkin, 2003). Quindi operare sulla densità urbana negli interventi di trasformazione della città “non è semplicemente densificare o riempire (infill) ma stabilire nuovi rapporti, costruire relazioni di prossimità” (Caudo, 2011).

5 | Leggere la densità. L’esempio di Oriol Bohigas La scelta di studiare i progetti dell’architetto catalano Oriol Bohigas deriva dalla considerazione che il suo operato abbia carattere di interscalarità, elemento interessante per studiare lo strumento della densità alle diverse scale. Oriol Bohigas ha contribuito a trasformare la città di Barcellona tra gli anni ’80 e ’90, partecipando sia Cecilia De Marinis

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come tecnico nell’ufficio urbanistico del Comune, che come progettista. Nella sua figura è possibile riconoscere una visione di carattere pianificatorio, il suo operato si può collocare nel punto di incontro tra piano e progetto. Il tema della densità è fortemente presente nelle riflessioni di Bohigas sulla trasformazione della città, egli ritiene necessario riequilibrare densità e usi nella città. E’ interessante studiare i progetti di Bohigas dal punto di vista della densità a differenti scale: dalla piccola scala, quindi analizzando quei dispositivi architettonici che favoriscono o inibiscono l’incontro e la differenziazione d’uso, alla grande scala, valutando il contesto normativo in cui i progetti si inseriscono. Il piano urbanistico di riferimento è il Plan General Metropolitano de Ordenación Urbana di Barcellona del 1976, nel quale le aree di sviluppo urbano vengono definite proprio in funzione della densità e dell’intensità d’uso.

Figura 2. Alcuni casi studio: 1) Isolato La Maquinista, Barcellona, 1983. 2) Isolato La Salut, Sant Feliu de Llobregat (Bcn), 1973) Isolato residenziale a Mollet (Bcn), 1983.

6 | I dispositivi della densità Per confrontarsi con i criteri e le soluzioni nei progetti di Oriol Bohigas, viene analizzata una selezione di progetti rappresentativi, tramite la chiave di lettura della densità, con focus sui temi residenziali e sulle azioni nella città consolidata. Vengono selezionati casi studio che rispondono alle seguenti caratteristiche: devono essere complessi prevalentemente residenziali, devono essere interventi di edificazione di lotti interi, in modo da comprendere chiaramente le scelte. La ricerca è organizzata secondo un processo conoscitivo empirico. Il metodo di analisi si basa sullo studio approfondito e dettagliato delle caratteristiche fisiche e delle modalità di uso dello spazio dei progetti. Per l’analisi dei casi studio selezionati sono stati definiti degli indicatori di valutazione, con i quali si punta a dare una valutazione il più possibile oggettiva dei complessi edilizi, in relazione alla questione della densità. Obiettivo è ottenere informazioni dettagliate riguardo quei dispositivi progettuali che modificano lo spazio e che determinano o meno la qualità della vita in un ambito urbano. Gli indicatori sono divisi in due tipologie principali: indicatori che descrivono lo spazio fisico e indicatori che descrivono l’interazione tra spazio e utenti. Con il primo tipo si vuole leggere lo spazio costruito in funzione delle sue caratteristiche fisiche, dimensionali, estetiche. Gli indicatori che descrivono lo spazio fisico rispondono a quesiti come: Qual è il rapporto tra spazio pieno e vuoto? Quanto spazio vuoto è percorribile e quanto è privato? C’è una gradualità dei passaggi tra spazio pubblico e privato? Sono presenti variazioni di livello? Qual è il rapporto tra pieno e vuoto sulle pareti verticali? Quanto spazio esterno è destinato a verde? Come è strutturato a livello funzionale il piano terra? Sono presenti servizi oltre alle residenze? C’è una differenziazione di colori? Come si configura la distribuzione e percorsi? Le distanze sono ampie o brevi? I passaggi sono coperti o no? Sono presenti spazi di sosta, per camminare, per sedersi? Che tipi di pavimentazione sono stati utilizzati? La pavimentazione identifica aree differenti nello

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spazio vuoto? Qual è il rapporto tra l’altezza edifici e lo spazio esterno vuoto? Come avviene la connessione tra l’interno del complesso edilizio e l’esterno? I confini dell’edificato sono definiti o fluidi? Gli indicatori che descrivono l’interazione tra spazio e utenti rispondono invece a quesiti come: Nello spazio esterno vengono svolte le attività volontarie oltre alle attività necessarie (Gehl, 1987)? Qual è la frequenza di interazioni tra le persone? Avvengono contatti passivi, cioè non programmati? Qual è la velocità di percorrenza dello spazio esterno? Quali attività vi vengono svolte e per quanto tempo? È percepibile un senso di protezione e sicurezza? Esiste una protezione dai pericoli, dalle intemperie, dal traffico, dal rumore? Il metodo di studio si basa su una analisi percettiva dello spazio. Gli indicatori rappresentano quindi strumenti di analisi che servono a dare oggettività. Il passaggio successivo all’analisi dei casi studio è la comparazione. Dal confronto dei dati ottenuti è possibile dedurre delle caratteristiche invarianti, dispositivi progettuali, che possono determinare la qualità dello spazio tra le case.

7 | Progettare con la densità Queste invarianti possono divenire indicazioni progettuali per la ricostruzione della “città” in quelle periferie urbane che hanno perso o non hanno mai avuto le caratteristiche di qualità proprie della città. La ricerca si prefigge quindi di estrapolare per deduzione strategie progettuali di intervento basate sullo studio della densità in termini quantitativi, cioè indicazioni che possano essere applicabili in modo estensivo. Il risultato è la definizione di un possibile metodo di intervento che può essere una risposta all’esigenza di riqualificazione delle aree periferiche: può fornire informazioni riguardo gli elementi su cui intervenire e le modalità di intervento attraverso l’azione sulla densità, per dare o restituire qualità urbana ad aree urbane degradate. La ricerca sarà quindi in grado di apportare un contributo innovativo alla questione della rigenerazione delle periferie residenziali, attraverso lo strumento della densità urbana, intesa in termini qualitativi, come strumento di rigenerazione. Un possibile sviluppo della ricerca può essere una verifica del metodo prefigurato, attraverso un processo simulato di applicazione delle strategie identificate. La simulazione potrebbe essere attuata per un’area periferica nel contesto romano, con il coinvolgimento delle amministrazioni, degli enti locali e degli abitanti, in modo da verificare la validità dello strumento, inserendolo in un contesto reale.

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Riuso e riciclo dei materiali urbani in declino.

Riuso e riciclo dei materiali urbani in declino. Opportunità instabili e strategiche di rigenerazione urbana e coesione sociale in tempi di crisi Milena De Matteis Università IUAV di Venezia Dipartimento Culture del Progetto Email: milenadm@iuav.it Sebastiano Roveroni Università degli Studi di Trieste Dipartimento di Ingegneria e Architettura Email: mail@sebastianoroveroni.it

Abstract In un periodo storico di riconosciuta crisi dei valori socioculturali, politico-economica ed ambientale ci si confronta, come possibile strumento per la rigenerazione urbana, con la delicata tematica del riuso e riciclo dei pezzi urbani 'scartati', architetture e spazi collettivi che risultano non più funzionali ma con grandi potenzialità di valorizzazione. Sono questi, con un acronimo, i 'Materiali Urbani Decaduti ma Sociabili' (MUDS). A fronte di un ciclo di vita concluso da tempo, di un periodo di abbandono dequalificante e della mancanza di sufficienti risorse economiche per un reinserimento nel metabolismo urbano, alcuni MUDS manifestano una nuova e spontanea forma di 'vitalità', accogliendo istanze sociali diverse, innovative, talvolta marginali ed 'inappropriate'. Istanze che ne definiscono un nuovo 'ciclo di vita', informale, instabile, a bassa definizione ed intensità d’uso, con nuove forme di utilizzo ed economie 'small' o 'low'. Parole chiave Riuso dei 'materiali urbani decaduti', smallness e creatività in reazione alla crisi, nuove istanze sociali e partecipazione.

Premessa Il presente saggio argomenta un progetto di ricerca proposto per il finanziamento Firb 2013, descrivendone il tema d’indagine, nonchè alcuni riferimenti ed esperienze ad esso legate1. Il progetto di ricerca tratta il riuso e riciclo dei pezzi urbani 'scartati', dispositivi, architetture e spazi collettivi che, a causa dei cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni nelle città europee, risultano non più funzionali, ma hanno ancora grandi potenzialità di valorizzazione, se opportunamente ripensati. Sono questi, con un acronimo, i 'Materiali Urbani Decaduti ma Sociabili' (MUDS). Alcuni “MUDS”, a fronte di un ciclo di vita concluso da tempo, di un periodo di abbandono dequalificante e della mancanza di sufficienti risorse economiche per un reinserimento nel metabolismo urbano, manifestano una nuova e 1

La proposta di ricerca si pone in sinergia con altre due ricerche in corso presso lo Iuav di Venezia ed altre sedi: il PRIN 2012 'RE-CYCLE Italy. Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture della città e del paesaggio' (coord. R. Bocchi) e il Firb 2008 'Living Urban Scape' (coord. M. De Matteis), sulla rigenerazione delle periferie residenziali attraverso gli spazi aperti inutilizzati.

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spontanea forma di 'vitalità', accogliendo spesso istanze sociali diverse, innovative, talvolta marginali ed 'inappropriate'. Istanze che ne definiscono un nuovo 'ciclo di vita' già in parte attivo, seppur informale, probabilmente instabile, a bassa definizione ed intensità d’uso.

Cambiamenti di prospettiva in un’epoca di crisi In un periodo storico di riconosciuta crisi dei valori socioculturali, politico-economica, ambientale ed urbana (con temi che spaziano dai cambiamenti climatici, agli strumenti di governo del territorio, alla qualità dello spazio pubblico e del patrimonio costruito), il concetto di sviluppo, seppur “sostenibile”, viene sempre più messo in crisi dal concetto di decrescita, da più parti evocata. La ricerca sulle shrinking cities, ad esempio, dedicata ad uno studio internazionale dei processi di declino ed abbandono della città con il coinvolgimento di oltre 100 artisti, architetti, urbanisti, giornalisti e studiosi, ha consentito alle numerose figure coinvolte di confrontarsi con le tematiche relative ai processi di contrazione urbana. L'obiettivo comune è stato di offrire soluzioni concrete al declino dei grandi centri urbani (europei, russi e americani) che si svuotano di attività e abitanti, attraverso diverse proposte con progetti di autogestione e interventi artistici, progetti architettonici e paesaggistici, indicazioni di nuove regole legislative per la gestione dell’intera città. La decrescita letta in questo senso porta a trasformazioni di carattere fondamentale, cui corrispondono modifiche dei principi, dei modelli di azione e delle pratiche che di conseguenza generano nuove tendenze all’interno della società, mentre si rafforzano nuove idee di forme alternative, creative ed intelligenti di città; in tale direzione vanno ad esempio le famose '8 R' definite da Latouche, rivalutare, ricontestualizzare, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare (Latouche, 2008). La 'sostenibilità', parola così abusata da sembrare di recente quasi un “dogma” privo di un concreto fondamento (individuabile più nel necessario cambiamento dei modelli culturali e comportamentali delle singole persone, che non nella mera applicazione di regole di bioclimatica piuttosto che di risparmio energetico…) da questione ambientale e tecnologica, impone le sue profonde valenze socioculturali, puntando ad un più articolato concetto di 'prosperità' (UN-HABITAT, 2012). Nell’ottica delle città “sostenibili” quindi (Leipzig Charter, 2007), si punta ad un progetto di rinnovo di forme, usi e significati degli spazi pubblici, chiusi ed aperti, come elemento nuovamente fondante la qualità dell’abitare; spazi-luoghi che sappiano favorire le relazioni sociali, nell’ultimo secolo diluite e frammentate, della vita in città - in tutte le sue più recenti forme. Si punta quindi, nelle politiche e nei progetti per città e territori, al riciclaggio dell’intero sistema urbano (Viganò et al., 2012) come evidente alternativa all’ulteriore urbanizzazione.

Materiali Urbani Decaduti ma Sociabili Stiamo quindi vivendo nei nostri territori un periodo di crisi sotto diversi aspetti, che ci impone di immaginare diversamente il futuro delle città, ponendo forse più attenzione ai servizi del welfare ed agli spazi del lavoro (Officina Welfare Space, 2011), del commercio ed ovviamente della residenza (Ciaffi, 2005) profondamente cambiati nelle dinamiche sociali che li sottendono. I MUDS, secondo quest’ottica, possono rappresentare un importante 'pezzo del puzzle' per la rigenerazione urbana in tempi di crisi. Si tratta di aree militari o industriali dismesse, edifici storici inutilizzati, edifici incompleti, divenuti oggi centri socioculturali, artigianali, abitazioni, spazi per nuove forme di lavoro; oppure semplici spazi aperti degradati, di risulta, ex infrastrutture, aree verdi a standard mai utilizzati ed oggi orti urbani, spazi collettivi e di gioco, arte urbana, feste all’aperto. Situazioni 'small' o 'low', dove è possibile riscontrare nuove forme di utilizzo, gestioni ed economie, basate sull’appropriazione e il riuso dello 'scarto', sulla temporaneità, sull’informalità. Fenomeni che possono diventare occasione più strutturata e consapevole – ma pur sempre a basso costo - di rigenerazione urbana (Faraone, 2008). Quali sono i valori, le risorse materiali e immateriali, le potenzialità riscontrabili da preservare, potenziare, riprogettare? Quali trasformazioni possibili, a livello ambientale, urbano-architettonico e socioeconomico? Quale nuovo ruolo urbano, quale ciclo di vita più stabile per questi elementi? Quali azioni strategiche per la rigenerazione? Quali efficaci forme aggregative e gestionali si riscontrano oggi? Quali istanze sociali e cambiamenti culturali si intuiscono da questi fenomeni? Le città ed i cittadini hanno già iniziato a re-agire, fornendoci esempi di esperienze ancora non strutturate in un chiaro quadro di casi confrontabili, good practices ancora in evoluzione, flessibili, e quindi potenzialmente ancora più ricche di suggestioni di quanto oggi appaia, e da cui imparare diverse possibili lezioni, esse stesse da “riciclare” più consapevolmente. Milena De Matteis, Sebastiano Roveroni

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Alcuni esempi di fenomeni che hanno recuperato evidenti MUDS nelle odierne città possono essere, tra gli altri, i Jardin Partagés di Parigi, letteralmente giardini condivisi, recuperati da frammenti di spazi aperti di ritaglio e abbandonati, oggi condivisi dalla collettività che li gestisce, nati come iniziativa spontanea degli abitanti e poi strutturati in una rete municipale (De Matteis 2011). Nel 2001, il Comune di Parigi ha lanciato il programma Charte Main Verte con l’obiettivo di regolare, sostenere e promuovere i giardini comunitari all’interno del territorio parigino. Il modello per questa nuova forma di condivisione dello spazio urbano proviene ovviamente dai community gardens di New York e Montréal (Pasquali, 2008). I Jardins partagés sono quindi costituiti da una rete di piccoli spazi verdi dove i cittadini sono liberi di coltivare vari tipi di vegetazione sperimentando produzioni biologiche e sostenibili, ma sono stati e sono tuttora soprattutto l'occasione di riappropriazione degli spazi della città “sprecati”, proponendo usi e gestioni diverse degli spazi collettivi, ad opera di associazioni di quartiere, preesistenti o create ad hoc. Sorgono su un suolo normalmente pubblico, talvolta sono ospitati in apposite aree degli stessi parchi urbani, per stimolarne la cura da parte dei cittadini ed assumendo il significato di luoghi terzi, spazi intermedi tra la famiglia e il lavoro, aperti a una socialità informale. Oltre a creare una sistema di appezzamenti di terra di varie dimensioni, piccole aree di campagna all'interno della città, diventano uno infatti spazio di generazione e promozione di legami sociali e culturali.

Figura 1. Uno dei Jardin Partages situati al centro di Parigi, dove gli abitanti si incontrano, coltivano, cucinano e mangiano all’aperto.

Un altro esempio particolarmente riuscito di MUDS può essere il caso RUS Lima, basato sulla riconversione di un tracciato ferroviario dismesso in nuovi luoghi di aggregazione e di svago, realizzato dal collettivo Basurama con i cittadini e il supporto della municipalità. Il progetto RUS Lima rientra nel progetto Residuos Urbanos Sólidos, un poliedrico progetto in America Latina di arte pubblica incentrata sul lavoro con gli scarti ed i “rifiuti”, in particolare di natura urbana. Si compone di una serie di progetti condotti in diverse città latino-americane, dal collettivo Basurama con la partecipazione di attori locali. Il progetto a Lima riguarda il recupero del percorso del treno elettrico sopraelevato che attraversa il quartiere di Surquillo, mai terminato e ora abbandonato. Il manufatto consiste in una piattaforma larga nove metri e lunga diversi chilometri, alla quale non si può accedere, rimasta allo stato di grezzo, che nel suo aspetto incompiuto rappresenta un tipo di paesaggio comune in tutta la città, l'attesa di 'continuare a crescere', simbolo di costante progresso. Il progetto-azione è stato realizzato con bassissime risorse e materiali, invitando a partecipare la comunità e vari artisti, proponendo una serie di attrazioni e giochi per attivare lo spazio urbano, trasformando rapidamente l'infrastruttura ferroviaria in un piccolo parco di divertimenti ed “piattaforma di scambio culturale”.

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Figura 2. RUS LIMA, vista del parco lineare sotto l'infrastruttura e vista serale del parco lineare tra i pilastri non finiti.

Infine si può citare un caso italiano, Spazio Grisù a Ferrara, un’ex caserma dei vigili del fuoco oggi adibita a “Factory” della cultura e della creatività. Lo Spazio Grisù nasce dall'Associazione non profit Grisù, fondata da un gruppo di professionisti di diversi settori (economisti, architetti, imprenditori ed esperti di comunicazione) proprio con l'obiettivo di trasformare questa ex caserma in una 'casa per creativi' pensata come un “prototipo”, ossia la prima Factory della cultura dell’Emilia-Romagna: uno spazio che intende contribuire al processo di crescita del territorio attraverso lo sviluppo dell’imprenditoria culturale e creativa. La finalità è di agevolare l’espansione di realtà imprenditoriali avviate da poco ma potenzialmente in forte crescita e, successivamente, avviare start up di imprese creative, dando gli spazi in gratuità. Le potenzialità sono nell'interesse per il binomio cultura/sviluppo affiancato al recupero di spazi dismessi, elemento spesso ricorrente nelle situazioni di recuperi “dal basso” oggi riscontrabili.

Figura 3. Spazio Grisù, vista del cortile interno.

Istanze dal basso per approcci multidisciplinari Lo studio della strategia del riciclaggio ha caratterizzato finora soprattutto ricerche d'arte e di tecnologia, tralasciando se non in alcuni casi specifici gli aspetti del riciclo urbano, in modo particolare per quanto riguarda gli aspetti economici e sociali. Si sente la necessità quindi di una sua sistematizzazione per ridefinire il modo di immaginare e costruire la città, attraverso un’osservazione ampia di buone pratiche valorizzabili che sappiano anche tradursi in legge, in vantaggio economico, ecologico, sociale.

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Una proposta di ricerca di questo tipo, si deve strutturare quindi come interdisciplinare intorno alle discipline urbanistiche e del progetto urbano, ma guardare ben oltre, coinvolgendo differenti profili tra urbanisti, architetti, economisti, pianificatori, geografi, facilitatori, sociologi ed antropologi urbani. Nell’ottica proposta, resta fondamentale la centralità della disciplina urbanistica nel coordinare differenti sguardi, metodi e attività di ricerca, tra cui quelle legate alla partecipazione diretta e alla condivisione di istanze con i diversi attori territoriali, per ottenere risultati nei diversi settori del progetto sostenibile. Lo sviluppo del quadro teorico-operativo di riferimento - attraverso lo studio di casi studio, come quelli citati, significativi in ottica progettuale nonchè socioeconomica-gestionale sui temi di rigenerazione e riciclo urbano, paesaggi dell’abbandono, smallness, appropriazioni e pratiche spontanee, ecc… - diviene solo il punto di partenza nell'osservazione di questi fenomeni, non ancora del tutto definiti e stabili. È essenziale un’esplorazione diretta che consenta di mappare e quantificare il fenomeno al suo stato potenziale, riconoscendo situazioni di MUDS in cui è già insita una forma di fertile progettualità per la trasformazione urbana che possa essere compresa nelle sue motivazioni e dinamiche profonde, e quindi avvalorata attraverso le più opportune ipotesi di progetto fisico e socioeconomico. Allo stesso tempo diviene necessario condurre sperimentazioni di progetti di valorizzazione, 'di acclimatazione', finalizzati ad un più efficace re-inserimento nel circuito di fruizione urbana dei MUDS, secondo nuovi modelli di lettura, ridefinendo nuovi valori, ruoli, significati già in atto o potenziali.

Figura 4. Forte Marghera a Venezia Mestre, piccole attività autogestite da associazioni locali, all’interno di un complesso abbandonato di rara bellezza e valore storico-ambientale, vissuto dai cittadini come luogo di relax e di attività socioculturali.

Ad esempio, un caso ancora evidentemente “irrisolto”, altamente instabile ma potenzialmente molto incisivo per le dinamiche urbane locali, è quello del noto Forte Marghera a Venezia Mestre, inserito all’interno del più grande sistema del campo trincerato degli ex-forti franco-austriaci di zona, di cui alcuni già recuperati. Si tratta di un grande complesso, di recente acquisito dall’amministrazione comunale, oggi in stato di semi-abbandono e di forte degrado degli edifici presenti e di buona parte del sistema ambientale, dove trovano sede e si sviluppano piccole attività socioculturali, artigianali, di ristoro e di volontariato. Un luogo di conflitto tra interessi e poteri, deboli e forti, (pubblici, privati, gruppi immobiliari, cooperative sociali, terzo settore, ecc.), un luogo “ricco” per la cittadinanza, carico di valori simbolici ed utilità concrete e potenziali, in attesa di una trasformazione “definitiva” che sappia valorizzarlo in tutti i suoi aspetti, evitando di lasciarlo cadere negli ovvi interessi speculativi. Il processo di progettazione partecipata “Che forte… decido anch’io” nato negli ultimi anni dall’iniziativa degli stessi cittadini e Milena De Matteis, Sebastiano Roveroni

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Riuso e riciclo dei materiali urbani in declino.

che ha portato a definire delle “linee guida” (Gruppo di lavoro per Forte Marghera Stella d’acqua, 2012) per la rigenerazione del luogo incentrate principalmente su aspetti sociali, culturali, ambientali, è un segnale evidente del cambio di prospettiva e del potenziale valore dei MUDS sopra citato. La necessità di luoghi pubblici con diverse valenze, in cui le singole persone possano sentirsi partecipi e coinvolte, dove strutturare attività che siano lontane da quelle ormai dominanti del modello consumistico, luoghi di un’integrazione sociale che non è omologazione dove accogliere una multiculturalità sempre più diffusa e quotidiana (Cottino, 2003), trova spontaneamente nei MUDS una valvola di sfogo; autogestita, non riconosciuta, ancora inconsapevole e spesso non ben organizzata, ma sulle cui potenzialità vale senz’altro la pena di investire.

Scenari di utilità Che ruolo ed utilità reale possono avere, nella visione di una città futura sostenibile e democratica, i 'MUDS', quegli spazi ed elementi 'scartati', in declino, oggi riutilizzati in forme instabili? Possono diventare nuovi luoghi urbani riconoscibili, accoglienti, condivisi? Esistono forme di economie “small” che possono sostenere una simile ipotesi? A monte delle riflessioni disciplinari è senz’altro necessario apportare valide modifiche alla gestione urbana e ai suoi strumenti, limitare il consumo di suolo, favorire 'l'agire con poco' e g-localmente, riutilizzare il ricco patrimonio costruito esistente ed eliminare evidenti forme di degrado. Proporre quindi nuovi cicli di vita per spazi decaduti cogliendo i cambiamenti 'epocali' nella società del consumo, riconoscendone gli spunti spontanei come degli importanti valori da potenziare e non sopprimere, creando “giochi a somma positiva” sia per i soggetti pubblici che quelli privati dei singoli cittadini. Nell’ottica della pubblica amministrazione, che soffre della continua carenza di risorse, degli alti costi di manutenzione, del proliferare di paesaggi urbani degradati ed insicuri e che deve rispondere alle istanze dei cittadini, ri-ciclare i MUDS e favorire il riciclo/riuso dei materiali urbani esistenti come 'semi di urbanità' (Munarin, 2013) può senz’altro essere una strategia efficace. Questo, valorizzando le nascenti forme economico-culturali, seppur instabili e non riconosciute, cogliendone gli spunti di autorganizzazione anche temporanea, attivando percorsi di progettazione partecipata e risolvendo possibili conflitti sociali (De Matteis, 2012). Dal punto di vista dei cittadini, che vivono la dissoluzione dei legami sociali e una vita non sostenibile, dove la perdita del legame col territorio naturale ed antropizzato rinchiude 'nel privato' e rafforza il modello consumistico, dove la sfiducia nel 'pubblico' è crescente e non si risolvono i conflitti dovuti alla 'diversità' di una società in mutamento, spazi e attività come quelli potenzialmente sviluppati nei MUDS e già riconoscibili in diverse situazioni, sono una possibile alternativa per l’attivo coinvolgimento, la sensibilizzazione e l’identificazione di nuovi luoghi d’aggregazione e comunitari (Sen, 1997). Il lavoro proposto sui MUDS, variamente articolato in un’ipotesi di ricerca triennale multidisciplinare, vuole quindi provare ad approfondire le suddette questioni non solo da un punto di vista teorico-accademico, bensì con indagini e sperimentazioni concrete da diverse posizioni - urbana, sociale, economica ed ambientale - , mirando a cogliere dalle esperienze dirette il senso e le opportunità operative da riproporre in maniera strutturata e secondo diverse utilità. Bibliografia Ciaffi, D. 2005. Neighborourhood housing debate, Milano, Franco Angeli. Cottino, P. 2003. La città imprevista. Il dissenso nell'uso dello spazio urbano, Milano, Eleuthera De Matteis M. (2011). 'Qualità dell’abitare nello spazio collettivo. Rigenerare la periferia attraverso nuove configurazioni, densità, sostenibilità', in PLANUM (ed.) XIV Conferenza SIU. Torino. De Matteis M. (2012). Quartieri sulla strada (della rigenerazione), in Bellomo M. et al. (a cura di), Abitare il nuovo/abitare di nuovo ai tempi della crisi. CLEAN (ed.), Napoli. Faraone, C., Sarti, A. 2008. Intermittent Cities. On Waiting Spaces and How to Inhabit Transforming Cities. Architectural Design, Cities of Dispersal, n° 78, 40–45 German Eu Council Presidency 2007. Leipzig Charter on Sustainable European Cities. Gruppo di lavoro per Forte Marghera Stella d'acqua, (2012). Linee guida partecipate e condivise per il futuro di Forte Marghera, Venezia. Latouche S. (2008). Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino. Munarin S. (2013). 'I quartieri pubblici come 'semi di urbanità'' in DE MATTEIS, M. & MARIN, A. (eds.) Nuove qualità del vivere in periferia. Percorsi di rigenerazione nei quartieri residenziali pubblici. Edicom Edizioni, Gorizia Munarin S. & Roveroni S. (2013). 'San Felice sul Panaro (e gli altri): ripartire dalla doppia crisi' in Giornale IUAV 127 Progetto speciale terremoto, Venezia, pp. 4 – 5. Milena De Matteis, Sebastiano Roveroni

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Officina Welfare Space 2011. Spazi del Welfare - Esperienze Luoghi Pratiche, Macerata, Quodlibet Studio - Città e Paesaggio. Pasquali, M. 2008. I giardini di Manhattan. Storie di guerrilla gardens (Oltre i giardini), Torino, Bollati Bollingheri. Sen, A. K. 1997. La libertà individuale come impegno sociale, Bari, Laterza. Un-Habitat (2012). STATE OF THE WORLD’S CITIES 2012/2013: Prosperity of cities, World Urban Forum Edition. Viganò P. & Fabian L. & Giannotti E. (2012). Recycling City. Lifecycles, Embodied Energy, Inclusion, Giavedoni – IUAV, Pordenone.

Sitografia Sito web del progetto di ricerca shrinking cities http://www.shrinkingcities.com Sito web spazio Grisù http://spaziogrisu.org Sito web del collettivo Basurama http://basurama.org Siti web del gruppo di lavoro per Forte Marghera “Stella d’Acqua” http://www.fortemarghera.it http://fortemarghera.wordpress.com/

Copyright Figura 2 Galleria Picasa Basurama RUS Lima AutoParque de Diversiones https://plus.google.com/photos/117670066423811111491/albums/5434090932208869217?banner=pwa Figura 3 Sito web spazio Grisù http://spaziogrisu.org

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Densificazione -Strategie per il rinnovo urbano

Densificazione - Strategie per il rinnovo urbano Arch. PhD Barbara Del Brocco Università Roma Tre Master Housing – nuovi modi di abitare Email: barbaradelbrocco@gmail.com Tel: 348.2268115

Abstract Se il consumo di suolo in Italia è cresciuto, negli ultimi 5 anni, al ritmo di oltre 8 metri quadrati al secondo, pari al 6,9% del territorio nazionale e ogni 5 mesi viene cementificata una superficie pari a quella del comune di Napoli, occorre mettere in atto strategie che vadano nella direzione opposta. La densificazione si profila essere il nuovo paradigma della trasformazione più attenta al patrimonio costruito e sociale. Intervenendo sulle aree marginali degradate possiamo raggiungere il duplice obiettivo di migliorare le condizioni di inadeguatezza tecnologica e funzionale e proporre operazioni che rendano tali periferie maggiormente compatte e vitali, provando a rispondere alla nuova emergenza casa di alloggi e alla domanda di servizi nei quartieri realizzati con la legge 167 del 1962. Un’attenta indagine sui Piani di Zona a Roma e un successivo concorso di progettazione sono un’esemplificazione di come la densificazione della periferia possa essere la strategia più appropriata al rinnovo urbano e proporsi come nuovo modello di crescita e di sviluppo della città. Parole chiave Densificazione, città pubblica, riqualificazione.

Densificazione vs sprawl Una recente indagine dell’ISPRA stima che il consumo di suolo in Italia è cresciuto, negli ultimi 5 anni, al ritmo di oltre 8 metri quadrati al secondo, pari al 6,9% del territorio nazionale. Un grave segnale di allarme se si considera che ogni 5 mesi viene cementificata una superficie pari a quella del comune di Napoli, mentre in un anno il suolo edificato è pari all'estensione dei comuni di Milano e Firenze. È evidente che il consumo di suolo che ha segnato l’espansione delle grandi città dovrà necessariamente lasciare il passo a un uso più appropriato del territorio che andrà inteso come milieu entro cui reperire risorse relative alla trasformazione. La densificazione si profila essere il nuovo paradigma di una trasformazione più attenta al patrimonio ambientale; intesa come aumento della densità edilizia delle aree urbane, può essere ottenuta riempiendo vuoti di aree marginali residue, o in alternativa mediante operazioni di demolizione e ricostruzione oppure si può indirizzare verso la ristrutturazione urbana attraverso incentivi volumetrici con il doppio obiettivo di non consumare suolo e di migliorare l’offerta di residenze e servizi nella città consolidata. Già negli anni ’90 il movimento americano di pianificazione New Urbanism nato in reazione allo sprawl urbano rifiuta il modello di sviluppo delle città americane basato sull’uso dell’automobile a favore di quartieri compatti con mix funzionali e dove gli spostamenti sono prevalentemente pedonali. Essi propongono alcuni modelli di sviluppo: Sub-urban Retrofit -trasformazione di aree periferiche orientate all'uso dell'automobile in comunità basate sul principio del quartiere tradizionale-, Mall-Retrofit -Ri-urbanizzazione della aree periferiche dei Centri Commerciali-; TOD, transit oriented devolopment, quartieri progettati intorno alla rete del trasporto pubblico ma tutti i modi di trasporto sono integrati nel disegno urbano e anche l’infill urbano. Al punto 4. della Carta del New Urbanism si legge: «I modelli di sviluppo non dovrebbero né intaccare né sradicare i bordi della città metropolitana. Lo sviluppo -Infill development- all'interno di aree urbane esistenti deve preservare le risorse ambientali, l’investimento economico e il tessuto sociale e, allo stesso tempo, recuperare le aree marginali e

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abbandonate. Le regioni metropolitane dovrebbero sviluppare strategie per incoraggiare sia lo sviluppo all’interno di esse sia nuove espansioni periferiche». Sempre alla fine degli anni ’90 Richard Rogers propone per la città di Londra un ambiente urbano compatto, caratterizzato da un’intensa rete di spazi a differente gradazione e intensità, riprendendo alcuni concetti espressi da Jane Jacobs negli anni ’60. Se spostiamo quindi l’attenzione dall’espansione urbana al recupero della città consolidata delle periferie urbane in condizioni di degrado fisico e sociale, ci accorgiamo che intervenendo sull’esistente facilmente possiamo raggiungere il duplice obiettivo di migliorare le condizioni di deficit strutturale -tecnologico ed energetico- e al contempo proporre operazioni che rendano tali periferie maggiormente compatte e vitali.

Città pubblica come laboratorio di sperimentazione Il campo di applicazione è la città costruita attraverso l’entrata in vigore della legge 167 del 1962; lo stock edilizio italiano, e in particolar modo quello dell’edilizia residenziale pubblica realizzata con i PEEP, possiede oggi tutte le condizioni di inadeguatezza tecnologica e funzionale a partire dalle quali avviare un processo di riqualificazione generale ed esteso sul modello europeo. La città pubblica può quindi diventare un interessante campo di sperimentazione spostando l’attenzione dal suo essere elemento problematico a opportunità per la città stessa. Diverse esperienze pratiche condotte nei contesti europei hanno confermato, con il successo ottenuto, l’opportunità e l’efficacia di una riqualificazione coordinata sull’intero organismo architettonico piuttosto che sulle singole parti di esso, coinvolgendo non soltanto le componenti materiali e fisiche ma anche quelle spaziali e funzionali con azioni mirate all’aumento della qualità d’uso dello spazio, dell’identità architettonica dell’edificio, della potenzialità abitativa degli edifici, con evidenti vantaggi economici e sociali e un complessivo riflesso positivo sull’intero comparto urbano. In ambito europeo possiamo citare alcuni esempi interessanti come gli interventi del gruppo olandese Van Schagen con la riqualificazione, tra gli altri, del quartiere Pendrecht a Rotterdam del 2003 (Fig. 1) o anche il lavoro Plus degli architetti francesi Drout, Lacaton&Vassal, concretizzato nell’esemplificazione pratica della riqualificazione del complesso Tour Bois le Prêtre a Parigi del 2011 (Fig. 2).

Figura 1. Rotterdam Pendrecht - Van Schagen (2003). Ante e post operam.

Figura 2. Tour Bois le Prêtre a Parigi - Druot, Lacaton & Vassal (2011) Barbara Del Brocco

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La nuova domanda di abitazioni e la nuova domanda di servizi Attualmente sussiste una domanda insoddisfatta di alloggi, tanto che nelle grandi città italiane si è ricominciato a parlare di emergenza casa, sebbene la questione abitativa più recente risulti essere profondamente diversa da quella che ha caratterizzato gli anni immediatamente successivi al dopoguerra che era riferita a un’effettiva scarsità sul territorio nazionale del bene casa e differisca di molto anche da quella degli anni ’60-’70 in cui la scarsità era concentrata nelle grandi città colpite dall’immigrazione interna. Oggi l’emergenza casa riguarda la limitata offerta di alloggi in affitto e i prezzi elevati, sia nell’affitto che nell’acquisto con una crescita dei valori immobiliari sproporzionata rispetto alla capacità di reddito delle famiglie e l’alta percentuale di famiglie proprietarie generano una forte rigidità del mercato immobiliare che incide negativamente sull’acquisto della prima casa. Gli utenti a cui si fa sempre riferimento continuano a essere la famiglia composta da 4 persone, ma i più recenti dati ISTAT fotografano un paese completamente differente: 36,4% la percentuale di coppie coniugate con figli sul totale delle famiglie; 6,8 milioni le nuove famiglie composte da single, monogenitoriali, conviventi, famiglie ricostituite coniugate; 20% la percentuale della popolazione che vive all’interno delle nuove forme di famiglia; 1,175 milioni le famiglie monogenitori (86% sono donne); 820.000 sono le coppie di fatto e oltre 1 milione le famiglie allargate, coniugate e non, con figli da precedenti matrimoni. Inoltre in relazione alle questioni demografiche, si assiste in Italia e in Europa a un invecchiamento progressivo della popolazione. In particolare una ricerca condotta da CECODHAS Housing Europe con fonti EUROSTAT fornisce un quadro di un’Europa anziana il cui la percentuale delle persone tra i 20 e i 64 anni è pari al 61,3, mentre quella tra i 0 e i 19 anni è del 21,3 e quella dei maggiori di 65 anni del 17.4. Si prevede che nel 2050, grazie al fatto che gli anziani godono di miglior salute, maggiore autonomia e sono più attivi ,il numero di persone over 65 sarà aumentato del 44% e gli over 80 del 180%. Nelle grandi città si assiste ogni anno alla formazione di 46.000 nuovi nuclei familiari a fronte di una produzione di alloggi che non arriva 19.000. Un altro fenomeno demografico che concorre a disegnare un quadro sempre più articolato della domanda di case è l’assidua permanenza dei giovani nelle famiglie di origine. Secondo i più recenti dati ISTAT tra i 20 e 24 anni l’86,4% vive ancora con i genitori, percentuale che tra 25 e 29 anni scende solo al 59,4 e tra 30 e 34 anni al 30,1%. I motivi sono il prolungarsi degli Studi (26,8%), problemi economici/precarietà (46,4%) e la scarsa voglia di rinunciare alle comodità del nido familiare (32,6%). Nelle grandi città è in forte aumento la domanda di housing temporaneo da parte di studenti fuori sede, domanda che viene quasi sempre elusa dalle istituzioni. L’offerta pubblica di alloggi per studenti è estremamente ridotta. Secondo i più recenti dati del ministero per l’Università e la Ricerca scientifica il totale di posti letto disponibili è di 54.209 per l’A.A. 2007-2008, con una richiesta di 637.595 studenti fuori sede. Una richiesta di case temporanee che peraltro proviene anche dal mondo del lavoro e dai city users che esprimono un’esigenza di alloggi per brevi periodi. Lo scenario demografico appare quanto mai complesso e variegato e a questo va ad aggiungersi l’instabilità del mercato del lavoro che ha come conseguenza il precariato e la necessità di spostamenti: l’aumento delle precarietà del lavoro e il forte incremento di forme di lavoro a tempo determinato, in particolare per i giovani, rende meno praticabile il tradizionale acquisto con mutuo garantito dal contratto di lavoro. Si assiste pertanto a una nuova forma di migrazione interna che unita ai flussi migratori extracomunitari configura una domanda crescente di alloggi in locazione. Quindi da una lato una nuova emergenza casa con una domanda molto articolata dall’altro, non meno rilevante, è la domanda di servizi dei quartieri realizzati con la legge 167. Una ricerca effettuata dal CRESME per conto della Camera di Commercio di Roma ha messo in evidenza come sia cambiata la periferia romana, dalla sua costruzione a oggi. In particolare lo studio analizza le caratteristiche della domanda di servizi e di qualità espressa dagli abitanti dei quartieri realizzati con i piani di zona ex 167 allo scopo di individuare nuovi modelli di intervento e di offerta Questi i punti chiave dell’indagine: 1. La periferia romana degli anni ’60- ’80 soffre fin dal principio della mancanza di servizi; in alcuni casi sono stati progettati e mai andati a regime, in altri casi, più recenti, non previsti. Questa è una delle motivazioni per le quali si è dovuto intervenire con piani di riqualificazione di recupero urbano affinché, anche attraverso il contributo dei privati, si colmassero le carenze di servizi nei quartieri realizzati con la legge 167. 2. L’invecchiamento dei manufatti edilizi (più del 57% dei volumi costruiti in 167 ha più di 20 anni e di questi quasi il 10% ha 30 anni e più) e il cambiamento degli abitanti, che hanno una maggiore disponibilità a spendere, costituiscono due fattori che generano domanda: da un lato una domanda di manutenzione, dall’altro una domanda di servizi articolata. Un altro dato interessante emerso dalla ricerca è la disponibilità a spendere per servizi alla persona, ai condomini e al quartiere.

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Caratteristiche dell’ERP- Il piano pilotis una risorsa per la trasformazione All’interno di una condizione di pluralità della periferia è però possibile riconoscere dei caratteri comuni, sia in termini di caratteri morfologici e distributivi sia in termini di degrado o di sottoutilizzo di alcuni spazi. In particolare lo spazio su pilotis, comune a molte delle architetture dei Piani di Zona, presenta le stesse problematiche a Roma, a Milano, a Trieste e a Palermo: in ciascuna di queste città è uno spazio sottoutilizzato o utilizzato in maniera impropria, luogo di degrado e percepito come spazio insicuro (Di Biagi, 2009) Il piano porticato nell’edilizia residenziale pubblica degli anni ’60 trova la sua origine nell’idea lecorbuseriana di città, essa essendo espressione della modernità, non poteva non fare riferimento ai 5 punti dell’architettura di Le Corbusier. Nell’epoca in cui è stato teorizzato, il pilotis doveva dunque servire a sollevare il volume architettonico dal suolo al fine di non interrompere la continuità della ‘naturalità’ del terreno. Un terreno quindi senza soluzioni continuità, un grande parco su cui gli edifici poggiano i loro piedi. A quest’aspirazione ideale non corrisponde la realtà degli spazi porticati poi realizzati. Una ricerca1 che comprendeva tutti i piani di Zona realizzati a Roma ha fatto emergere che per quanto il piano porticato fosse un luogo concepito per la collettività, esso si è trasformato in un ambito negletto, percepito dagli abitanti come insicuro e a tutti gli effetti divenuto un luogo di passaggio in condizioni di degrado permanente. La lettura dell’edilizia residenziale pubblica attraverso le normative tecniche e i regolamenti che ne hanno determinato la genesi formale ha restituito la quantità di spazio porticato; esso ammonta a 222.000 metri quadri. La ricerca ha individuato tale dato desumendolo dalle indicazioni della normativa tecnica della GeSCaL, in cui era indicato che la superficie totale di piani porticati, dei soli Piani di Zona realizzati fino al 1977, doveva essere pari al 25% della superficie coperta -il dato fa riferimento a solo 25 Piani di Zona, si escludono i PdZ realizzati durante il primo PEEP tra il 1977 e il 1980, circa 20 PdZ. Ipotizzando questa superficie disponibile alla trasformazione, essa può rappresentare una risorsa importante per la riqualificazione dei quartieri di edilizia residenziale pubblica e potrebbe essere destinata a servizi o residenze.

Un caso di studio reale Il quartiere Tiburtino III (Fig. 3) localizzato nella periferia est di Roma, dapprima borgata fascista, diventa, agli inizi degli anni ’80, un quartiere di edilizia economica e popolare in applicazione della legge 167 del 1962. Il complesso, realizzato con elementi prefabbricati, si eleva su un piano porticato come impone la normativa tecnica e, come la gran parte dei complessi realizzati con la 167, versa attualmente in condizioni di degrado funzionale e sociale (Fig. 4). Il comparto è stato selezionato quale caso studio in primo luogo allo scopo di verificare se la norma espressa dall’art.28 delle Norme tecniche della GesCaL, riguardo ai vincoli del piano terra fosse stata applicata e in secondo luogo per ipotizzare una densificazione dei piani porticati . Sono state calcolate la superficie coperta degli edifici campione e la superficie libera al piano terra; mettendo a sistema i due dati risulta che la superficie libera su pilotis è il 25% della superficie coperta, di cui utilizzabile il 20%.

Figura 3. Un’immagine del PdZ Tiburtino III- piazza Brahms 1

Assegno di Ricerca 2007-2008 Interventi innovativi di riqualificazione del patrimonio edilizio residenziale; DIPSA Dipartimento di Progettazione e Studio dell’Architettura dell’Università di Roma Tre. (Del Brocco B.,2007).

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Figura 4. Uno degli spazi liberi al piano porticato in evidente condizione di degrado.

Nonostante il Regolamento Edilizio del Comune di Roma non consenta aumenti di cubatura, la Legge Regionale n.21/20092 in applicazione al Piano Casa, in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti o adottati e ai regolamenti edilizi, permette interventi di densificazione; in particolare sono consentiti interventi di ampliamento e di sostituzione edilizia e al fine di incrementare l’offerta di alloggi sociali; a tale scopo possono esser utilizzati anche i piani terra liberi degli edifici di proprietà ATER. Questa inedita opportunità consente di intervenire nella città consolidata e migliorare l’offerta di servizi, spazi e attrezzature per i quartieri di edilizia economica e popolare, da sempre deficitarii in questi aspetti.

Il concorso PASS quale esemplificazione di densificazione L’ATER Roma, valutando positivamente gli esiti della Ricerca, ha voluto bandire nel 2010 un concorso internazionale di progettazione per acquisire proposte e progetti per intervenire con operazioni di infill urbano in un quartiere pubblico; in applicazione del Piano Casa aveva come oggetto la riqualificazione dell’intero quartiere del Tiburtino III a Roma e invitava ad aumentare la dotazione di abitazioni e servizi con interventi di densificazione in copertura, al piano porticato e nelle corti libere. Il concorso internazionale di progettazione ‘PASS – Progetto per abitazioni sociali e sostenibili’ per la riqualificazione degli edifici di edilizia residenziale pubblica compresi nel Piano di Zona n. 15-bis Tiburtino III, lanciato da Ater Roma con la collaborazione scientifica del DIPSA Dipartimento di Progettazione e Studio dell’Architettura dell’Università di Roma Tre, costituisce un’applicazione pratica di densificazione urbana. L’ATER, facendo proprie le indicazioni normative e le ipotesi programmatiche provenienti dall’analisi condotta dall’Università, ha così posto come obiettivo del concorso la trasformazione edilizia e la riqualificazione urbana del quartiere, proponendo la realizzazione di: 120 nuovi alloggi circa, ovvero 40 nuovi alloggi -circa 3000 mqattraverso il recupero dei piani porticati e 80 nuovi alloggi -circa 4200 mq- attraverso il recupero dei locali tecnici in copertura; nuovi servizi di quartiere, per un totale di circa 1200 mq; la riqualificazione degli spazi pubblici. Al fine di una gestione sostenibile del patrimonio immobiliare, nel bando è stato inoltre richiesto di individuare interventi integrati per il miglioramento del comportamento energetico degli edifici esistenti costituiti da circa 450 alloggi. Il concorso è stato vinto dal raggruppamento guidato dall’architetto madrileno Carmen Espegel Alonso dello studio Espegel-Fisac. La proposta scardina il rigido impianto del quartiere attraverso il ridisegno della quota pubblica, raccordando la quota delle corti interne e dello spazio collettivo con la quota d’imposta degli edifici mediante un disegno organico di rampe che declinano in modi diversi la relazione e l’accessibilità tra le parti (Fig. 5). Il progetto prevede che le nuove unità abitative progettate ai piani porticati e sugli attici degli edifici si articolino in tipi distinti. Per la riqualificazione delle facciate esistenti è studiato un sistema modulare prefabbricato composto da una facciata ventilata che si aggancia alla struttura esistente e che, in corrispondenza delle logge e delle finestre, permette di creare ‘lame’ apribili e chiudibili da parte dell’utente, per regolare la quantità di irraggiamento solare, di ventilazione e il livello di visuale esterna.

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Art. 16 Legge regione Lazio 11 agosto 2009, n. 21- MISURE STRAORDINARIE PER IL SETTORE EDILIZIO ED INTERVENTI PER L'EDILIZIA RESIDENZIALE SOCIALE.

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Il risultato del concorso, contrariamente alla prassi ordinaria presso le Amministrazioni banditrici, ha avuto un seguito con l’affidamento al vincitore dell’incarico per la progettazione definitiva che si è concluso a dicembre del 2011. Al momento non si sono fondi regionali che consentano di ultimare il processo con la realizzazione.

Figura 5. Il progetto vincitore del Concorso PASS

Conclusioni Attualmente sia ATER Roma sia il Comune hanno individuato alcun aree all’interno dei Piani di Zona –di prima e seconda generazione – in cui sarebbero possibili interventi di densificazione analoghi a quello proposto dal concorso PASS. Tali studi non sono però accessibili e, a quanto risulta, tutte le operazioni di rinnovo urbano sono pressoché immobilizzate e poiché le vicende politiche incidono in maniera fortemente negativa sulla reale fattibilità di tali operazioni occorrerà attendere la nuova compagine di governo del territorio. Ciò che risulta chiaro dall’esperienza di ricerca universitaria e dall’applicazione pratica di quest’ultima è che l’espansione della città potrebbe mutare la rotta verso il ridisegno della città costruita e con un uso del territorio più attento alle reali esigenze della città. In particolare la periferia può trasformarsi da problema a risorsa se le operazioni di riqualificazione saranno capaci di configurarsi come programmi di rigenerazione urbana. Intervenendo sulle aree marginali degradate possiamo raggiungere l’obiettivo di limitare il consumo di suolo, migliorare le condizioni di inadeguatezza tecnologica e funzionale e proporre operazioni che rendano tali periferie maggiormente compatte e vitali, provando a rispondere alla nuova emergenza casa e alla domanda di servizi. Obiettivi di sostenibilità ambientale sociale ed economica potrebbero essere il prossimo passo per un’operazione analoga al Concorso PASS. Ai progettisti potrebbe essere chiesto uno sforzo ulteriore per immaginare una trasformazione non solo del costruito ma che riesca ad attivare un’architettura a KM 0 coinvolgendo gli abitanti e attivando l’economia locale. Le prospettive di lavoro non riguardano solo i progettisti chiamati a dare una risposta in termini formali a una reale esigenza, ma competono anche le Università che in accordo con le Amministrazioni locali potrebbero promuovere operazioni di rigenerazione urbana a consumo 0.

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Bibliografia AA.VV.(2010), Città pubbliche Linee guida per la riqualificazione urbana, Bruno Mondadori. Milano AeT., CRESME (2003), Abitare la periferia – Edilizia pubblica e trasformazione urbana – la domanda di servizi nelle periferie, Camera di Commercio Industria Artigianato a Agricoltura di Roma, Roma Annese M., Del Brocco B., (a cura di, 2012), Catologo del concorso internazionale di progettazione “PASS Progetto Per Abitazioni Sociali e Sostenibili”; Gangemi Editore, Roma. Annese, M., Del Brocco, B. (2012), “Trasformazione edilizia e riqualificazione urbana. Il concorso PASS per Tiburtino III a Roma”. L’industria delle costruzioni, 423, p.116-121 Del Brocco B., (2007), Interventi innovativi di riqualificazione del patrimonio edilizio residenziale. Il piano pilotis una risorsa per la trasformazione, (dattiloscritto). Di Biagi P., (a cura di, 2009), Città pubbliche: linee guida per la riqualificazione urbana; Bruno Mondadori, Milano.

Sitografia Sito relativo al concorso internazionale di progettazione “PASS – http://www.aterroma.it/concorsopass/concorso/concorso.php

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Variazioni di inerzia

Variazioni di inerzia Chiara Farinea IUAV Phd Urbanism Email: chiara.farinea@ymail.com

Abstract Il riciclo di alcune parti di città introducendo nuove funzioni all’interno del tessuto esistente, spesso in stato di obsolescenza, è una pratica già esplorata attraverso diversi interventi realizzati negli ultimi vent’anni, ma che merita un accurato esame per indagarne a fondo le potenzialità. Genova, ad esempio, è stata soggetta ad un numero elevato di interventi di riuso che, a partire dall’anno 1992, anche grazie all’impulso dato dai finanziamenti dei Grandi Eventi, ha avuto l’ambizione di ridisegnare il suo volto, creare un nuovo immaginario attorno ad essa e dare un nuovo impulso all’economia cittadina. Ne sono un esempio l’introduzione di università e musei all’interno di antichi edifici del centro storico, la sostituzione di funzioni per il tempo libero nell’antico porto commerciale, ma anche il riciclo di edifici industriali dismessi a fini commerciali. Se fino ad ora si è ragionato su tali interventi in termini di successo di una strategia per rivitalizzare l’economia di una città ed arginare il suo spopolamento, il paper mira ad esplorare le caratteristiche intrinseche della struttura spaziale che veicolano il cambiamento. Si può dire che una struttura spaziale possieda una propria inerzia, la quale può essere variata attraverso una serie più o meno complessa di operazioni di modifica, ma che definisce comunque le condizioni di un suo ripopolamento. Ad esempio nel centro storico di Genova la resistenza della struttura fisica all’introduzione di mezzi meccanici quali automobili o ascensori, a causa di strade molto strette e scale dalla forma contorta, determina una struttura sociale ed economica che, anche nel momento in cui varia a seguito di diversi interventi, si rigenera e distribuisce sempre secondo le logiche di un territorio che funziona a partire da un paradigma basato sulla lentezza. Attraverso la descrizione del centro storico genovese, si vuole ragionare attorno al concetto di inerzia ed alla dialettica che una struttura fisica stabilisce con la struttura sociale ed economica che ospita, mettendo in evidenza quali siano i principali fattori che durante i momenti di variazione determinando le caratteristiche del cambiamento. Questa operazione ha l’ambizione di meglio comprendere le potenzialità intrinseche dei territori e di disvelarne i paradigmi di funzionamento per aprire nuove prospettive sul loro utilizzo. Parole chiave inerzia, struttura, variazione

Contesto La fine degli anni Settanta porta con sé due cambiamenti radicali all’interno delle città europee, la dismissione degli impianti industriali e la rapida terziarizzazione dell’economia: comincia in questo momento un ripensamento delle città non più basato sull’espansione, ma sul riuso e la valorizzazione delle sue parti. Buona parte delle città europee di medie e grosse dimensioni, anche grazie all’impulso dato dal finanziamento dei Grandi Eventi, riutilizza e rifunzionalizza alcune sue parti, tra le quali waterfont, centri storici ed aree industriali. Come fa notare Gabrielli, “Non si tratta di una trasformazione che deriva da demolizioni (come avvenne appunto a Parigi dopo il 1850) né di una trasformazione che deriva da grandi inneschi di parti nuove aggiuntive (che è il caso più noto e diffuso) ma di una trasformazione “dal di dentro” il cui obiettivo è di natura qualitativa” (Gabrielli, 2004). Genova, caso studio di questo paper, costituisce un buon esempio per descrivere queste trasformazioni: la città è stata soggetta ad un numero elevato di interventi che a partire dall’anno 1992 ha avuto l’ambizione di ridisegnare Chiara Farinea

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il suo volto, creare un nuovo immaginario attorno ad essa e dare un nuovo impulso all’economia cittadina. Anche grazie ai finanziamenti delle Colombiadi (1992), del G8 (2001) e di Genova Capitale Europea della Cultura (2004) sono stati riutilizzati edifici dismessi per la creazione di musei ed università, sistemati spazi pubblici, create passeggiate lungomare e restaurate le facciate di alcuni importanti edifici storici. La maggior parte degli interventi di riuso si è concentrata sul waterfront, nel centro storico e nelle aree industriali dismesse. Diversi studi sono stati compiuti sul complesso sistema di riqualificazione che ha caratterizzato le città europee negli ultimi vent’anni: autori quali Olmo, Bohigas, Gabrielli, Boeri, Ferlenga, Portas, Galdini e Carta convergono nell’identificare questo insieme di interventi con il termine Rigenerazione Urbana. Gli studi sulla Rigenerazione Urbana, indagano il fenomeno sotto diversi aspetti: dal punto di vista morfologico, la trasformazione avviene per sostituzione puntuale di alcune parti dei tessuti urbani, aspettandosi una ricaduta sulle aree circostanti; per quanti riguarda gli aspetti funzionali viene individuata la crescente importanza dello spazio pubblico; sotto il profilo economico, si basa sulla competitività che si instaura tra le città; dal punto di vista sociale viene individuato l’emergere di fenomeni di gentrification, e dal punto di vista dei drivers si identificano i grandi eventi e i programmi di riqualificazione finanziati dalla CE quali principali motori in grado di innescare il cambiamento. All’interno di queste analisi non è stata individuata però una chiara correlazione tra la struttura spaziale, sociale ed economica che interessano un’area al momento del suo cambiamento. Uno studio che a partire dalle caratteristiche spaziali indaghi la relazione di un territorio con le attività economiche ed i gruppi sociali che su di esso operano può favorire una migliore comprensione dei meccanismi secondo i quali funziona il riuso ed aprire la strada all’impostazione di nuovi interventi che sfruttino le caratteristiche intrinseche di un’area.

Inerzia Possiamo affermare che l’inerzia di una struttura spaziale è quella caratteristica intrinseca che rappresenta l’insieme dei vincoli che la forma di un territorio pone di fronte all’evoluzione della struttura sociale ed economica che su essa insistono. Alcuni territori possono avere dei vincoli molto forti, che consentono variazioni minime, altri territori possono avere vincoli più deboli, che consentono un maggior ricambio nella popolazione e nelle attività economiche. A titolo di esempio, la forma delle strade è un fattore abilitante per l’insediamento di attività commerciali, essendo uno dei principali fattori che regola la capacità di accesso. Supponiamo ora che una struttura fisica stabilisca una dialettica con la struttura sociale ed economica che essa stessa ospita. Il sistema tende spontaneamente a conservarsi nel suo stato corrente, eppure le forze in gioco sono forze instabili. E’ instabile la struttura fisica stessa, è instabile il sistema economico ed è altresì instabile la struttura sociale. Nell’ambito di questo ragionamento, ipotizziamo che sia la struttura fisica, che quella economica, che quella sociale possiedano una propria inerzia. Nel momento in cui una di esse acquista una differente accelerazione, le diverse strutture entrano in conflitto tra loro determinando un cambiamento. In aggiunta, possiamo immaginare che la struttura dotata di maggior forza sia quella che definisce il cambiamento delle altre. Impostando l’analisi a partire dalla struttura spaziale, si può dire che anche quando essa varia in seguito ad una serie più o meno complessa di operazioni di modifica generate da esigenze economiche o sociali, la sua inerzia definisce comunque le condizioni di ripopolamento. Essa infatti, attraverso i vincoli che la struttura fisica impone, determina le possibilità ed i limiti entro i quali si sviluppano le dinamiche sociali ed economiche. L’inerzia di un territorio, dunque, determina e veicola le condizioni del cambiamento. Tuttavia, affinché questo avvenga in maniera repentina, bisogna introdurre al suo interno una massa in grado di far sì che il processo abbia inizio; in tal senso, possiamo stabilire una relazione tra il discorso sull’inerzia a quello sulla resilienza. Infatti, mentre la resilienza descrive la capacità di un territorio di riorganizzarsi a seguito di un evento traumatico, la variazione di inerzia descrive la forma di riorganizzazione del territorio quando l’evento traumatico permane su di esso come condizione definitiva. In concreto, variazioni di inerzia repentine con cambiamenti significativi nella struttura economica e/o sociale di un luogo, si hanno quando una parte della sua massa viene modificata, ad esempio tramite l’introduzione di nuove strutture fisiche o la rifunzionalizzazione di strutture esistenti. In questo caso si viene a generare una tensione tra i nuovi elementi ed il territorio circostante. Per meglio comprendere questo processo si può descrivere il caso studio del Centro Storico di Genova. Quest’ultimo, a partire dalla metà dell’Ottocento, con l’espansione della città al di fuori dei suoi confini, ha subito un continuo processo di abbandono e degrado. Tra gli anni Novanta e gli inizi degli anni Duemila sono stati compiuti diversi interventi di rifunzionalizzazione di alcune sue parti: l’antico porto commerciale è stato convertito in area per il tempo libero, le facoltà di architettura ed economia sono state inserite in edifici in disuso ed un circuito di musei è stato organizzato in antichi palazzi nobiliari e conventi. Questi interventi si inseriscono a tutti gli effetti come “eventi traumatici” nel tessuto esistente, portandolo ad essere attraversato da una massa di gente appartenente a gruppi sociali con alle spalle un background culturale ed Chiara Farinea

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economico differente rispetto alla popolazione insediata. Sarà proprio l’inserimento di questi nuovi gruppi sociali e la relativa tensione creata con quanto esistente il motore alla base della variazione di inerzia dell’intera area. Come detto, il territorio dunque varia in seguito all’introduzione di una massa in grado di scatenare il cambiamento, una sorta di energia introdotta nel sistema, che sta alla base della variazione. A questo punto il sistema reagisce e si riorganizza in base alle proprie proprietà. Approfondiamo ora la relazione tra inerzia e riciclo al fine di poter evidenziare come riciclare possa voler dire riutilizzare alcune proprietà di prodotti che altrimenti verrebbero perdute. Tali proprietà se in un determinato contesto non hanno più alcun valore, attraverso il riciclo assumono un nuovo significato ed un nuovo ruolo. Questo discorso può essere adattato sia all’ambito del riciclo degli oggetti, che a quello del riciclo di aree urbane degradate o abbandonate. Nel caso delle aree urbane è quindi necessario individuare quali siano le proprietà dei territori che possono avere la funzione di cardini al fine di reindirizzare la variazione della struttura sociale ed economica. In questi termini, nel Centro Storico di Genova, a seguito degli interventi di rifunzionalizzazione sopra descritti che hanno portato nuovi gruppi sociali all’interno dell’area, la scarsa accessibilità, che è stata la causa dello spopolamento, è stata riletta quale condizione di quiete che ha favorito l’evoluzione del turismo urbano. Il termine inerzia, cosi come approfondiremo nel seguito, non ha quindi necessariamente una connotazione negativa o costrittiva: essa, infatti, costituisce una proprietà che opportunamente sfruttata può essere alla base di un’opportunità migliorativa di cambiamento.

Grammatica Per lavorare con l’inerzia è fondamentale comprendere quali siano i principali fattori che la influenzano. A tal fine è necessario provare a scomporla in diverse componenti: si può supporre che una parte di essa sia legata ai movimenti che avvengono all’interno della struttura fisica ed alle loro proprietà, una parte sia legata alle qualità della massa costruita ed ai sistemi di aggregazione degli spazi ed infine una parte sia legata all’immagine ed all’immaginario che si costituisce nel sentire comune. Ognuno dei tre filoni di lettura proposti racconta una differente storia su come i vincoli presenti su un territorio ne influenzino l’evoluzione. Solo una lettura sincronica delle tre storie e di come esse si sovrappongano, incrocino ed influenzino fornisce però l’immagine completa delle variazioni che avvengono nel contesto urbano.

Meccanizzazione Per definire le proprietà dell’inerzia legate al movimento si assumono quali categorie fondamentali la velocità di attraversamento ed il comfort di accesso alle diverse componenti del territorio. La combinazione di questi due parametri determina la porosità di un territorio, la fluidità dei movimenti e la capillarità delle connessioni. Fattore fondamentale che regola la velocità di attraversamento ed il comfort di accesso è la possibilità di meccanizzare il movimento: la meccanizzazione determina qualitativamente il movimento definendo i connotati sociali ed economici dell’area. I vincoli legati alla meccanizzazione giocano un ruolo fondamentale nella variazione dell’inerzia del Centro Storico di Genova. Gli spazi aperti sono caratterizzati da vicoli molto stretti, strade dalla forte pendenza e pavimentazioni dalle pietre sconnesse, caratteristiche che li rendono difficilmente praticabili con mezzi meccanici, mentre gli edifici, costruiti rialzandoli ed accorpando le unità in epoche diverse, hanno scale dalla forma contorta, con la conseguente impossibilità di installare ascensori. Di conseguenza l’attraversamento del territorio del centro può avvenire solamente in forma pedonale e l’accesso agli ultimi piani delle abitazioni è estremamente difficoltoso. Ne deriva un territorio caratterizzato da movimenti lenti e talvolta addirittura faticosi. Queste caratteristiche hanno fatto sì che a partire da metà dell’Ottocento, con l’espansione di Genova fuori dalla città antica e la costruzione di quartieri caratterizzati da ampie strade e palazzi dotati di ascensore, il Centro Storico sia stato progressivamente abbandonato, in un primo tempo dai gruppi sociali più benestanti ed in seguito, alla fine della seconda Guerra Mondiale, con la massiccia diffusione dei quartieri popolari, anche dai gruppi meno abbienti. Il Centro Storico veniva considerato come la condizione meno desiderabile, abbandonato ad un destino di obsolescenza, i vuoti lasciati dalla popolazione locale venivano in parte riempiti solamente dall’arrivo di immigrati con scarse possibilità. All’inizio degli anni Novanta, come già detto, vengono introdotti nel tessuto edilizio musei ed università, che cambiano gli equilibri dell’area. E’ a questo punto che i vincoli legati alla meccanizzazione diventano i fattori abilitanti di un nuovo scenario. La forzata lentezza di attraversamento dello spazio pubblico passa ad essere, da condizione di inefficienza, condizione basica per lo sviluppo del turismo urbano. L’assenza di macchine non è più indice di scarsa accessibilità, bensì condizione che determina un panorama visivo e sonoro di quiete che crea le condizioni perché l’area diventi luogo per il tempo libero. Si passa infatti da un’area che offre esclusivamente negozi di prossimità per la popolazione del quartiere ad uno scenario di bar, ristoranti e negozi di abbigliamento e oggettistica che affacciano su piazze circondate da Chiara Farinea

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palazzi storici e strade pedonali tra le quali si muovono genovesi e turisti. Il vincolo legato all’impossibilità di meccanizzare lo spazio pubblico è dunque il fattore che abilita il cambiamento della struttura economica. Questo viene portato fino a conseguenze estreme quando nel 2001 l’unica via carrabile che attraversa il Centro Storico, ossia via San Lorenzo viene chiusa al traffico e resa pedonale, per rafforzare la nuova identità dell’area. Il secondo vincolo legato alla mobilità che definisce i nuovi scenari urbani è l’impossibilità di meccanizzare il movimento all’interno dello spazio privato: non è possibile inserire ascensori all’interno degli edifici. I vani di distribuzione, oltre ad essere caratterizzati da una forma articolata, hanno spesso scale dai gradini stretti ed alti, che rendono l’accesso agli ultimi piani estremamente faticoso. E’ questo uno dei dispositivi di inclusione/esclusione che determina la distribuzione dei nuovi gruppi che si insediano nel Centro Storico. Nonostante i piani alti siano quelli più interessanti, grazie ad una vista più aperta, il criterio economico non sarà la principale discriminante nel determinare l’occupazione degli alloggi. Gli anziani e le famiglie con bambini verranno automaticamente esclusi e chi si distribuirà nei piani alti della città saranno i gruppi di studenti e i giovani professionisti. La resistenza della struttura fisica del Centro Storico alla meccanizzazione definisce dunque una struttura sociale ed economica, che anche nel momento in cui varia a seguito di diversi interventi, si rigenera e distribuisce sempre secondo le logiche di un territorio che funziona a partire da un paradigma basato sulla lentezza.

Sistemizzazione La sistemizzazione descrive l’omogeneità delle caratteristiche delle parti che compongono un’area e la loro capacità di creare sistemi. Le caratteristiche che definiscono gli spazi hanno a che vedere le proprietà dimensionali, ossia la conformazione spaziale dei vani, e con le caratteristiche qualitative, come l’illuminazione, la ventilazione, il microclima. Queste caratteristiche possono essere distribuite in maniera più o meno uniforme determinando l’omogeneità o meno dei sistemi sociali ed economici che si instaurano sul territorio. Le proprietà qualitative sono caratteristiche fondamentali dal punto di vista dell’occupazione sociale: maggiore è il comfort e più desiderabili sono gli spazi. Il dato dimensionale è invece un vincolo fondamentale nella definizione delle attività che occupano una struttura: in locali di piccole dimensioni sono generalmente situate attività di piccoli imprenditori privati, mente attività di grandi compagnie, sia commerciali che produttive, hanno generalmente bisogno di ampi spazi. All’interno di uno stesso territorio le caratteristiche dimensionali e di comfort possono essere distribuite in forma omogenea, disomogenea oppure secondo una sintassi che determina la ripetizione di singoli moduli complessi. Il Centro Storico genovese è caratterizzato da forte disomogeneità e frammentazione degli spazi: l’alta densità degli edifici e la loro forte prossimità fa sì che l’illuminazione sia scarsa nei piani inferiori e migliore in quelli superiori, mentre lo stratificarsi degli edifici in diverse epoche, attraverso nuove costruzioni, innalzamenti ed accorpamenti fa sì che vani dalle caratteristiche dimensionali molto differenti convivano affiancati. Le scarse condizioni igienico sanitarie sono tra i principali motivi alla base dello spopolamento del Centro in seguito alla costruzione di zone “più salubri” al di fuori del suo perimetro e dell’occupazione di quest’area da parte di gruppi di immigrati dalle scarse possibilità. L’introduzione di università e musei, come già accennato, porta nuovi gruppi sociali a percorrere l’area e talvolta a stanziarvisi. In questo caso i vincoli legati alla qualità dell’ambiente interno sono alla base della distribuzione spaziale della nuova geografia sociale: l’area si assesta secondo una stratificazione verticale che porta i gruppi di immigrati a continuare a risiedere nei piani bassi, dalle peggiori caratteristiche di illuminazione ed i gruppi di studenti e giovani professionisti ai piani alti, con una buona illuminazione e terrazze panoramiche sulla città. Nel momento in cui studenti e giovani professionisti diventano una componente strutturale del territorio nascono una serie di nuovi servizi che vanno a modificare la struttura economica dell’area, fino a quel momento caratterizzata esclusivamente da negozi di generi basici per gli abitanti. Nascono infatti bar e locali notturni ed il settore dei servizi per il tempo libero occupa una parte rilevante dello spazio disponibile. Parallelamente però prosegue anche il processo di insediamento di nuovi gruppi etnici: mano a mano che i vecchi gruppi si arricchiscono e si trasferiscono in aree dalle migliori caratteristiche, nuovi gruppi occupano il territorio, portando alla nascita di attività simili a quelle del paese di provenienza: per esempio parrucchieri o sartorie africane. Se da una parte i vincoli del territorio determinano la distribuzione dei gruppi sociali, va rilevato che la frammentazione spaziale corrisponde anche ad una frammentazione sociale: nuove rotte e percorsi tematici si sommano ai precedenti in un processo di accumulo, senza però trovare punti di contatto o di scambio. La struttura fisica dell’Ardesia, uno dei principali materiali costituenti il Centro Storico, sembra descriverne la struttura sociale: una serie di strati impermeabili sono sovrapposti l’uno sull’altro avendo tra loro una semplice relazione di contiguità.

Immagine L’immagine di un’area è legata all’immaginario che attorno a questa si crea. Essa è definita da due componenti: una strutturale, che si origina dalle forme che la compongono ed una relativa allo stato di mantenimento dei materiali che la costituiscono. L’immagine dipende dalle tecnologie a disposizione al momento della costruzione Chiara Farinea

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di una struttura spaziale e dai valori e le ideologie che attraverso di essa si vogliono trasmettere. Una stessa immagine può avere fortune alterne in differenti epoche. L’insieme dei valori che un’immagine trasmette determinano un vincolo che lega la struttura spaziale alla struttura sociale ed economica. A tal proposito, possiamo notare che, in diverse città, ad una stessa immagine corrisponde spesso una occupazione del territorio da parte di gruppi sociali simili. Ad esempio le maglie ottocentesche, riconoscibili attraverso un simile ornamento neoclassico, sono generalmente occupate da professionisti dal reddito medio-alto. C’è da sottolineare che i gruppi sociali che hanno originato un determinato territorio tendono a continuare ad abitarlo: le maglie ottocentesche sono state generate al momento della nascita della borghesia e da essa continuano ad essere occupate, mentre i quartieri popolari creati per le masse operaie sono ancora abitati da gruppi dal basso reddito. Se un fattore identitario lega i gruppi sociali all’ambiente costruito, è interessante a tal proposito ragionare su cosa succeda ai territori al momento della scomparsa delle ideologie o della struttura sociale che ne sono all’origine. L’immagine del Centro Storico genovese, ad esempio, in seguito alla costruzione delle espansioni volute dalla nascente borghesia e dei quartieri popolari, si ritrova svuotata da un contenuto identitario. Essa si lega a chi in qualche modo ha lasciato la propria identità in un altro luogo, ossia gli immigrati. Cessa di essere ripristinata e rimane determinata solo dalle proprie componenti strutturali. Le facciate di una buona parte dei palazzi del Centro Storico erano anticamente affrescate con disegni che riprendevano i tipici ornamenti in stucco dei palazzi nobiliari (colonne, timpani, lesene, etc.). Con il passare del tempo i pigmenti che componevano gli affreschi sono stati lavati dall’azione di vento e piogge, lasciando spazio ad anonime facciate dall’intonaco grezzo a vista. Le componenti strutturali e la presenza di portali in pietra decorata conservano però ancora traccia della loro immagine originaria e costituiscono la base per la costruzione di una nuova identità: con l’arrivo di musei ed università, il Centro Storico passa ad essere da area degradata, terra di nessuno che suscita una sorta di imbarazzo per le condizioni in cui verte, a centro della cultura nella quale la popolazione ritrova le proprie origini. La presenza degli antichi palazzi rafforza il nuovo ruolo dell’area, che si afferma anche attraverso il restauro. L’immagine storica è il dispositivo che abilita la costruzione del nuovo immaginario. La conversione tuttavia riguarda solo alcune parti del Centro e degrado e ricostruzione convivono fianco a fianco. A tal proposito possono venir portati due esempi: via della Maddalena e via Luccoli. Entrambe sono storiche vie del commercio al dettaglio della Genova antica ed entrambe hanno una simile larghezza, simili condizioni di illuminazione dati dallo stesso orientamento e dalla stessa altezza dei palazzi e spazi dalle caratteristiche dimensionali equivalenti all’interno degli edifici. Esse si trovano a poca distanza l’una dall’altra. Se in via della Maddalena le facciate sono segnate dal passare del tempo, in via Luccoli queste sono state ripristinate attraverso interventi di restauro. L’area di via della Maddalena è prevalentemente occupata da gruppi di cittadini stranieri, la maggior parte dei negozi vende prodotti etnici ed è fortemente diffuso il fenomeno della prostituzione. Via Luccoli è invece prevalentemente abitata da giovani professionisti ed i negozi vendono prodotti per un target medio alto. Il vincolo che consente la variazione dei gruppi sociali e delle attività commerciali è in questo caso l’immaginario che attorno all’area si crea. La condizione che determina la variazione dell’inerzia è il ripristino dell’immagine originale, sulla quale viene però compiuta un’opera di risemantizzazione che ne trasla il significato da sede originale della vita sociale ed economica dell’antica repubblica marinara a quinta scenica sulla quale poggia l’identità culturale della città.

Conclusioni Il riciclo di un territorio è fortemente determinato dagli elementi fisici che lo caratterizzano, che costituiscono una sorta di vincolo che da una parte si oppone al cambiamento, dall’altra ne è il fattore abilitante. I vincoli del territorio fanno sì che questo possieda una determinata inerzia, che, se opportunamente sollecitata, può diventare il motore che spinge la variazione delle condizioni socio economiche al suo interno. Sfruttare l’inerzia di un territorio per il suo riciclo vuol dire saper leggere quelle condizioni che possono convertirsi da elementi di degrado ad elementi che favoriscono il cambiamento della struttura sociale ed economica. Questo vuol dire leggere attentamente le strutture spaziali e studiare le implicazioni indotte dalla loro forma, identificando gli elementi da sollecitare in relazione al macrocontesto sociale, economico e culturale nel quale il territorio si colloca. Far questo vuol dire combinare l’introduzione di elementi in grado di indurre il cambiamento ed individuare i vincoli attorno ai quali il territorio può riorganizzare sé stesso.

Chiara Farinea

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Bibliografia Ennio Poleggi e Paolo Cevini (1992), Genova, Laterza, Bari AAVV (2004), + Città, Alinea Editrice, Genova Carlo Alberini (2004), Infrastrutture e trasformazioni urbane a Genova, De Ferrari, Genova Bruno Gabrielli e Roberto Bobbio (1992), La città nel porto, Nuova ERI, Torino Chito Guala (2007), Mega eventi : modelli e storie di rigenerazione urbana, Garocci, Roma Rosanna Galdini (2008), Reinventare la città : strategie di rigenerazione urbana in Italia e in Germania, F. Angeli Editore, Milano Bernardo Secchi, 01-Inertias, disponibile su Planum. The Journal of Urbanism, sezione "Journals and Books" http://www.planum.net/document-1

Chiara Farinea

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Airport Afterlife. La seconda vita degli aeroporti

Airport Afterlife. La seconda vita degli aeroporti1 Sara Favargiotti IUAV Venezia International Doctorate “Villard d’Honnecourt” – 3rd Cycle Email: sarafava@yahoo.it Tel: (+39) 347 1211611

Abstract Greggi di pecore, centinaia di conigli, rifugi per la fauna locale, business parks, metropolitan parks, leisure parks, high-tech networks. Cosa li accomuna con gli aeroporti? Sono questi i frequentatori più assidui di recentissimi aeroporti di nuova costruzione. Sono queste i nuovi modi di vivere e relazionare un aeroporto al suo contesto. In tutto il mondo centinaia sono quegli aeroporti situati all’interno di centri urbani che nei prossimi 10 anni verranno lentamente dismessi e abbandonati. Allo stesso tempo, molti sono gli aeroporti di piccole e medie dimensioni congelati in una fase di pre-declino. Diventa questione urgente ripensare alla loro funzione all’interno dei contesti in cui si trovano, per poter immaginare nuovi futuri possibili. Che cosa significa trasformare le infrastrutture aeroportuali in ri-attivatori urbani? Parole chiave Accessibilità, Aeroporti Regionali, Infrastrutture Riciclate.

Abandoned airport infrastructures: black urban holes There is a widespread situation of underused airport structures that have never managed to reach their potential or have lost their central role. The central issue of my research is to investigate the possibility of recycling existing airport infrastructure, re-using and maximizing their potentialities through development strategies. The primary aspect related to the recycling of airport – especially small airports − is the development of accessibility, allowing theme to become dynamic centers for the surrounding territory. It is evident that accessibility is fundamental and a central resource for territories, helping them to attract and activate (or re-activate) diverse incoming flows, such as tourism and activities related to commerce, culture, education, health, agriculture, high tech innovation and energy. But building new infrastructure, ever more today, in this moment of crisis, does not reveal itself as the most sustainable strategy, considering sustainability as an aim in relation to social and territorial changes2. Therefore, the recycling of obsolete infrastructure, and the re-use in order to optimize their potentialities becomes the most sustainable and desirable solution. To re-think not only the abandoned and unused infrastructure in search of a new identity, but to recycle all those infrastructures those are already active but poorly operating and unproductive. The reconversion of secondary airports projects the territory in the European network of mobility and it offers development potentialities extremely interested. The fundamental issue becomes the land use management: an operative airport at international level attracts other functions and activities not strictly related to air traffic, that could be input for the local economy. Therefore emerges the necessity to understand the nature of these 1

This paper is material of my PhD investigation titled ‘On Hold Airports. The chances of infrastructure recycle’. The research investigates the alternatives to the construction of super-infrastructure with particular attention to airports. It also wants update the investigation on the relation between small and medium airports and the territory in specific areas. 2 Already the European Commission's White Paper (2001) indicates that it is an absolutely necessary strategy to interrupt the connection between increased mobility and economic growth. White Paper: "European transport policy for 2010: time to decide", COM(2001) 370. Reviewed in 2006 by the Council Commission Communication and the European Parliament. Sara Favargiotti

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transformations in order to govern them according to the situations in which they have been developed. So that the presence of a regional airport constitutes a positive energy for territorial development and for the community, and it not causes negative externalities. More attention has to be focused on the structure of the airport complex: in particular, have to be carefully estimated the dynamics of the location of new enterprises, the service facilities, the transport infrastructure, the consequences for the pollution, the occupation of agricultural land, the compromise of areas natural. A sensitive evaluation of the sustainability of those interventions for cities and territories is necessary so that the post-airports do not become only problematic black holes but rather they enhance the potentialities of the airport itself as a catalyst agent, a generator of a new image for itself and for the surrounding territory.

Airport renewal strategies Around the word, exist a lot of examples of Re-cycled airports. This paper presents a selection of case studies that show interesting alternatives for the reuse of abandoned airports. In most cases, after completing airports life cycle as transport infrastructures, these structures remain unused for years. Only after years, local communities or private groups reclaim the airports’ space as urban public space, forcing municipalities and planners to find new uses for the abandoned airports. So that, it starts airports’ second life. Therefore, this paper offers different strategies of recycle existing obsoletes infrastructure as a real alternative for than the construction of new infrastructure. The experimentation of different tactics, that are defined case by case, offers a network of paths in relation with the landscape instead of monodirectional routes that strongly limit how people live in a territory3. 1. Recycled airports: from abandoned airports to new urban development. After their decommission, many former military airports were not re-used and they remain in an abandoned state for years. Due to the growing population and the high demand for new houses, many former airports could be redeveloped as a new part of the city. Starting with the transformation of the air connection infrastructure (runway, technical street) into urban main roads and street, and continue this new urban development with houses, public services, commercial and business areas. This development is extremely well connected to the nearby main cities. The addition of public urban parks will value to the gradual renovation of existing structures and the new urban development area. Stapleton, Denver, Colorado. Stapleton was opened on October 17th, 1929 as Denver Municipal Airport. Its name was changed to Stapleton Airfield after a 1944 expansion. By the 1980s, plans were under way to replace Stapleton with a new airport. Stapleton was plagued by a number of problems concerning inadequate physical and technical structures for flights (runways, little or no room for other airlines), noise and pollution problems. Meanwhile, the new Denver International Airport (DIA) officially opened in north-eastern Denver. The runways at Stapleton were marked with large yellow ‘Xs’, which indicate it was no longer legal or safe for any aircraft to land there. While Denver International was being constructed, planners began to consider how the Stapleton site could be redeveloped. A private group of Denver civic leaders, the Stapleton Development Foundation, convened in 1990. This Foundation produced a master plan for the site in 1995, emphasizing a pedestrian-oriented design rather than the automobile-oriented design found in many other planned developments (Figure 1). Nearly a third of the airport site was slated for redevelopment as public park space. The former airport site (4,700 acres / 19 km2), 10 minutes from downtown Denver, is now being redeveloped by Forest City Enterprises. Construction began in 2001 on single-family houses, row houses and condominiums. The new community is zoned for residential and commercial development, including offices, parks, and a ‘big box’ shopping centre.

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It is possible to get an idea of the importance of the obsolete infrastructures phenomenon by looking the research of Mirko Guaralda on abandoned railways (Guaralda M. (2006), Le infrastrutture viarie dismesse o declassate ed il progetto di paesaggio. Libreria CLUP Soc. Coop., Segrate, Milano). But the topic is also evident in iconic projects of the High Line in New York or the Trentino Museum of History that show how abandoned public infrastructures became extraordinary public spaces for leisure and cultural events (Ciorra P., Marini S. (a cura di, 2011), Recycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, Electa, Milano).

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Figure 1. The runways at Stapleton were transformed into urban main roads of a new community organized in residential, commercial and green areas.

Orange Country Great Park, Irvine, California. The Orange County Great Park is the official name of a plan for the public, non-aviation reuse of the decommissioned Marine Corps Air Station El Toro in Irvine, California. It is located in the geographic center of Orange County, in the Southern and Central California Chaparral and Oak Woodlands, an eco-region largely lost to agricultural and urban expansion. The Master Plan for the Orange County Great Park sets a new standard as a great metropolitan park of the 21st Century. It is an integrated design process. Through an international competition, the Great Park Corporation (a non-profit charged with the design, construction, and maintenance of the park) selected a design team of experts from diverse fields to form the Great Park Design Studio. The project team and associated consultants include architects, landscape architects, engineers, and consultants in a variety of fields, including hydrology, soil science, transportation, environmental design, historic preservation, habitat restoration, energy, and urban forestry. The group continually evaluates strategies and design options from their various perspectives. Public participation has been an integral part of designing the master plan, and in general continues to shape the park's design and program. Dübenholz, Zürich, Switzerland. Dübenholz is a strategy for the transformation of the airport land of the former Dübendorf Military Airport into an infrastructural forest zone for energy production, agricultural cultivation, groundwater filtration, carbon sequestration and as a recreational area. This project was created for the Dübendorf Airport Design Competition in Zürich. This two-stage international design competition explores the urban and regional redevelopment of the former Dübendorf Military Airport located on the periphery of the metropolitan region of Zürich, the birth place of the Swiss Air Force and now the home of the solar impulse. Dübenholz considers the forest as an urban infrastructure (Figure 2).

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Figure 2. Vision of Dübenholz 2060: a valley of energy. After a first stage of reconnection of surface water system and layout of forest management patterns, the landscape infrastructure will become a future zone of research and development related to the urbanism.

Pierre Bélanger with Swiss architects Stephan Hausheer and Hana Disch have received the First Prize Award for the Dübendorf Airport design competition in Zürich. Their proposal was mentioned in the jury's final report as follow: «As a constructed urban ecology, “Dübenholz” (düben: village, holz: forest) is a counterpoint to the discourse on urban planning and a countermeasure to conventions of civil engineering. Dübenholz upsets traditional thinking of the oppositions between city and forest, town and country, farm and industry, pleasure and production. This proposed zone of forestation becomes an urban infrastructure supporting a series of contemporary synergies: a water purification device, a raw material resource, biomass energy supply, air filter, and recreation room. The Dübenholz project reverberates across all the challenges set forth by the competition mandate, significantly shaping the airport landscape for the future and the suburban region of Zürich». 2. Engulfed airports: from underused airports to urban parks. Many problematic airports no longer present themselves in the potential range for urban expansion. These airports, which were once peripheral, have now been engulfed in the urban context, becoming physically central in the city. This simplifies their re-conversation into urban park space. These case studies propose the transformation into public urban parks as the suitable solution for the re-use of abandoned airports. Tempelhofer Park, Berlin, Germany. Tempelhof Airport in Berlin is a palimpsest of the issues and histories that suffuse the public ground of the 21st century city. Berlin Tempelhof Airport, often called the ‘City Airport’, ceased operating in 2008 during the process of establishing Schönefeld as the sole commercial airport in Berlin. During its post-airport usage it hosts numerous fairs and events. It's not often that a European metropolis that is hundreds of years old has the opportunity to create a massive new public park directly in its city center. But that is exactly what the German capital of Berlin intends to do with the former Tempelhof airport. In the nearly two years since the runway went silent and the enormous terminal was shuttered, the stream of proposals for transforming the field into a public Sara Favargiotti

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space have illustrated the riches of this city's creative class. Most of the plans that have made the final round of the competition utilize the existing layout of the airport: one of the pre-conditions for the landscape designers was that they retain the runways and other historical features, including the terminal. Officially re-opened in May 2010 as a city park, today more than 200,000 Berliners have visited the park to enjoy its wide-open spaces for recreation ranging from biking and skating to baseball and kiting (Figure 3).

Figure 3. The airport has evolved from Nazi-landmark, to location of the heroic Berlin airlift in1948, through dereliction and now to a potential leisure landscape for the whole of Berlin.

Downsview Park, Toronto,Canada. Parc Downsview Park Inc. proposed an international design competition for Downsview Park in 1999 to help to realize the first national urban park on the site of the former Canadian Forces Base in Toronto. It was the largest international design competition held in the City of Toronto since the Toronto City Hall Competition in the 1960s. Today Downsview Park is the geographic centre of the Greater Toronto Area. The objective of the design competition was to promote innovative design proposals that would respond to the social and natural histories of the site, while developing its potential as a new landscape – one capable of sustaining new ecologies and an evolving array of public uses and events, including ones of national and international distinction. The design was intended to structure the transformation of the site while remaining open to change and growth over time. In November 1999, five short-listed teams were invited to compete in the second stage of the competition. On May 2000, TREE CITY project proposed by OMA was announced as the winning park design concept for Downsview Park (Figure 4). TREE CITY is a phased plan that gradually changes the appearance of the former Canadian Forces Base Toronto. TREE CITY creates a special personality for itself and the surrounding community, beginning with soil preparation, path-making and planting in the first phase of development. The physical development of the lands changes over time with the growth of old vegetation and with the increase of new plantings over a fifteen-year period. TREE CITY is a self-sustaining park in every sense and its natural network appreciates as the park matures. Future development on the site, as well as gradual renovations of existing structures, add value to the park, while providing income for its continued maintenance.

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Airport Afterlife. La seconda vita degli aeroporti

Figure 4. TREE CITY eventually covers the site with approximately 25% forest, in addition to meadows, playing fields and gardens. One thousand crossing paths for cyclists, joggers, rollerblades and pedestrians complement the park and add to its accessibility.

Vicenza airPARK, Vicenza, Italy. The Vicenza Airport Tommaso Dal Molin was the airport of the city from 1921 until 2008. It was classified as city airport for the short distance with the centre of Vicenza (only 3 km). The track was demolished in 2009. Today, a physical barrier separates 63 hectares of ‘emptiness’ to the new U.S. base. The area of the former Dal Molin airport is a large area currently peripheral according to a mental perception rather than a physical way. Therefore it must be first discovered by its inhabitants and then physically connected to the historic town and the neighbouring municipalities through preferential paths and bicycle tracks. LAND Group team designs a new urban park for the city of Vicenza. The strategic plan proposes a new urban promenade and alternative routes to the consolidated urban routes. Besides its connection to the city centre, the project proposal aims the development of the borders, the relationship with the neighbouring urban centres and the surrounding landscape system. This will provide the enlargement of the park beyond the borders of the former airport, and the transformation of an empty area into an opportunity for the redevelopment of the entire northwest quadrant of Vicenza. According to that, this area of Vicenza should become an authentic ‘workshop on the landscape’ by exporting nature outside and importing culture inside. 3. Postmodern Airports Some of the strategies described above reflect urban policies related to temporal, social and economic contexts of development and population growth. These projects wanted to regenerate parts of the city through urban parks: at that time, these were the most desirable strategies and they realized dreams of time not so faraway. Today, the conditions have changed. It is no longer possible to adopt this policy in all European contexts but it is necessary to follow strategies in line with dynamics more sensitive and sustainable with our contemporary contexts (as in the Dübenholz project). At the same time, the proliferation of low-cost companies started to promote the revitalization of secondary airports from the beginning of the XX century. In this context, the fundamental role of these airports as strategic hubs in the new low-cost strategies and their moderate, but well connected, dimensions make them crucial airport infrastructures on the local and European scale. They made the Sara Favargiotti

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surrounding territory more dynamic and improved local business by combining new economic, cultural and leisure activities with airports functions. Stockholm-Skavsta Airport, Nykรถping, Sweden. An airbase during the Second World War, the airport was used as a military airport until 1980, when it was taken out of service. Today, Stockholm-Skavsta Airport is an international airport near Nykรถping in Sweden, approximately 100 kilometres southwest of Stockholm. Low-cost airlines and cargo operators serve it. There are approximately 40 established companies already with 1,300 people employed on site4. The Skavsta Airport and its Buisness Park represent the potential of the airport as a productive ecosystem in which different industrial activities could take advantage by using the logistic infrastructure of the airport itself. The possibility, therefore, to combine passenger transport with the transport of goods is the central point of this airport. This requires a rigorous evaluation of both the strengths and weaknesses of the industrial production of the surrounding cities that would benefit from better opportunities for innovation in the logistics market. Liege Airport, Wallonie, Belgium. The Liege Airport, connected to the Euro Space Centre, is a center of technology and aerospace innovation. The regional network of the Liege Airport, Charleroi Airport and the Euro Space Centre base in Wallonie, demonstrate: the implementation of activities related to designing prototypes for the aviation industry; they also show the impulse for studying the universe for educational purposes, exploring issues related to space research; and, finally, the development of cultural, social and business tourism in the area of innovative projects, education and entertainment. Hispaniola Airport, Dominican Republic. The Island of Hispaniola is a natural beauty that attracts people from all over the world. In the island there are abundant raw materials to produce biofuels and available work force to grow biomass and process it into fuels. The growth of biomass and the processing of that biomass into the refines fuels produces economic incentives to attract inner cit population back to the rural area with the promise of a higher quality of life for the workers and their families. A network of airports and aviation community managed and supported this policy. The Green Airport (Figure 5) serves as a catalyst to the ongoing development of an energy policy promoting the use of domestically renewable energy sources in the island. It is also adopting sustainable energy systems thereby alleviating pollution.

Figure 5. The Green Hispaniola Airport activities are: flight training; educational and demonstration programs to show the feasibility of new renewable energy technologies; academic courses in conjunction with local and international universities; research certification programs on alternative fuels for both piston and turbine engines; Agricultural Spray Aircraft; ecotourism activities using biofuels powered aircraft; recreational flying; small efficient aircraft powered by renewable fuels used for environmental monitoring and security patrolling. 4

Source: Stockholm-Skavsta Airport web site (www.skavsta.se).

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In the case studies proposed, the airport is considered a place to live before a place to leave: it is as an entertainment centre, taking into consideration the different ‘moments’ that make up a tourists time. The airport is also considered as ‘productive ecosystem’ in which the different industrial activities could take advantage of using the logistic infrastructure of the airport itself. Then, the airport is conceived as a centre of innovation in terms of aerospace technology with the inclusion of the airport structure in the research activities of mayor research institutes in the near. It is also implemented with activities connected to education, instruction and tourism as a centre of innovation and cultural creativity. At last, the airport is working as a key element of a system of renewable energy production, through the agricultural production. These are different scenarios but each of them was developed from the potentialities of the region. Offering renewal efficiency capable to develop and to diversify airports services, the value of the territories grown and the regional development improved, bringing significant effects on local economies. At the same time, a ‘new identity’ is given to the air traffic that it can generate an attraction able to positively influence the economic development of the whole territory. That is also necessary to provide, in a short time, that the construction of this airport was not a strategic failure. A new identity that allows understanding the current transformation of many small and medium airports: conceiving the airport not only as a transport infrastructure but rather as a key element for the territories development.

Bibliografia A.A.V.V. (2008), Piccoli aeroporti. Infrastruttura, città e paesaggio nel territorio italiano, Marsilio. A.A.V.V. (2011), Reinventing A22,ecoboulevard, verso infrastrutture osmotiche, ListLab Barcellona/Trento. Ciorra P., Marini S. (a cura di, 2011), Recycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, Electa, Milano. Ferlenga A., Biraghi M., Benno A., (a cura di, 2012), L’architettura del mondo. Infrastrutture, mobilità nuovi paesaggi, Editrice Compositori, Bologna. Guaralda M. (2006), Le infrastrutture viarie dismesse o declassate ed il progetto di paesaggio, Libreria CLUP Soc. Coop., Segrate, Milano. Muñoz F.(2007), “Geografie low cost. L’Europa dei paesaggi suburbani”, in Agnoletti M., Delpiano A., Guerzoni M. (a cura di), La civiltà dei superluoghi. Notizie dalla metropoli quotidiana, Damiani Editore, Bologna, pp. 160 - 165. Ricci M. (2009), iSpace, Meltemi (collana Babele). Territorial Agenda of the European Union 2020. Towards an Inclusive, Smart and Sustainable Europe of Diverse Regions, agreed at the Informal Ministerial Meeting of Ministers responsible for Spatial Planning and Territorial Development, Gödöllő, Hungary, 19th May 2011. White Paper: "European transport policy for 2010: time to decide", COM(2001) 370. Reviewed in 2006 by the Council Commission Communication and the European Parliament.

Sitografia Official website of the Dübendorf Airport Design Competition in Zürich (Only German). http://www.denkallmend.ch/ Website realized by Pierre Bélanger, Stephan Hausheer and Hana Disch to present the winner project for the Dübendorf Airport design competition in Zürich (German and English). http://www.dübenholz.ch/en/home.html Description and statistical information on the International Stockholm-Skavsta Airport http://www.skavsta.se

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‘Food and the City’. Recycling wastelands in Hanover. The Continental area as a new urban hotspot.

‘Food and the City’ Recycling wastelands in Hanover The Continental area as a new urban hotspot Maddalena Ferretti* Leibniz Universität Hanover Department of Urban Design and Planning, Faculty of Architecture and Landscape Email: ferretti@staedtebau.uni-hannover.de Sarah Hartmann* Leibniz Universität Hanover Department of Urban Design and Planning, Faculty of Architecture and Landscape Email: hartmann@staedtebau.uni-hannover.de Ines Lüder* Leibniz Universität Hanover Department of Urban Design and Planning, Faculty of Architecture and Landscape Email: lueder@staedtebau.uni-hannover.de

Abstract Wastelands represent a relevant land’s capital, available for urban transformations. How could it be possible to make them again attractive and lively? Recycling wastelands with a new ecological approach is the aim of this work. Nevertheless, even with respect to this general goal, there can be different strategies and solutions. A possible one is to focus on sustainable housing and social participation, by proposing a flexible and progressive development. Temporary uses become then a significant approach to be considered. Particularly, focusing on the food topic may provide an effective and productive way to respond to this challenging task. To increase the regional food production has become indeed an essential topic in urban design’s discussions dealing with the goals of sustainability and energy saving. Inner city areas tend to be some relevant degrees warmer, which makes them attractive cultivation areas. The Continental area in Hanover is the specific case study with which this paper aims to provide an overview of the current scientific discussion about urban recycling. Keywords Wasteland, recycling, sustainable food promotion.

Concept: recycling wastelands The environmental, economic and social crisis and the aspects of weakness related to the transformation of urban contexts still largely dependent on the metropolitan development model have recently highlighted a new demand for quality that call for new paradigms and solutions (Ricci, 2012:7-17). The territory is an essential resource for our planet. Further land consumption is not sustainable anymore, especially considering that the recent European urban development has been put in act to the progressive detriment of the countryside and that the continuous spread of cities is not supported anymore by a real housing demand. According to the objectives of Horizon 2020 and Europe 2020 a new urgency is now arising: the need of recycling instead of building new. To recycle means to give a new life and a new use to an existing object/material. This concept can be also transferred to urban contexts and especially to those neglected areas resulting from the city’s deindustrialization process. These voids can be recycled through the implementation of sustainable urban policies. Particularly in the highly densified European fabric, wastelands can represent an Maddalena Ferretti, Sarah Hartmann, Ines Lüder

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important capital available for the urban ecological transformation. Moreover the residual open spaces constitute a core value for the contemporary city1. Their character of emptiness is to be preserved for a double reason: on one hand for keeping possible development areas, on the other for ensuring the permeability and porosity of the urban fabric, which is a relevant aspect for ecological purposes. The idea of recycling by preserving the open space is confirmed not only by the scientific debate, but also in recent projects and researches all around the world. ‘SpontaneousInterventions: Design Actions for the Common Good’, held in the USA pavilion at the last Biennale in Venice, exhibited a series of «interventions initiated by architects, designers, planners, artists, and everyday citizens…From parklets to community farms, guerrilla bike lanes to urban repair squads, outdoor living rooms to pop-up markets, sharing networks, and temporary architecture», many of these projects propose an ecological approach to preserve the urban open space. Moreover this exhibition captured «one of the most compelling contemporary urban trends» by highlighting «viable citizen-led alternatives to traditional top-down urban revitalization tactics» (‘SpontaneousInterventions: Design Actions for the Common Good’). The case of Detroit is also emblematic in this sense. This American post-industrial city from the end of the XXth century until now knew a progressive abandonment of the city center. The free spaces thus available have been recycled over the years mainly for leisure, artistic or social activities (particularly significant was the transformation into new urban farming plots). This process happened without a comprehensive master plan but only through the private initiative. Citizens’ participation has become indeed recently one of the most important trends in urban planning (Ricci, 2011: 64-77; Waldheim, Reed, Allen, 2012: 34-38). Furthermore these examples show the need of flexible projects over time. The focus has moved on processes more than on fix and determined master plans. A process, instead of a project, is able to change direction and readdress itself according to new needs (Corner, 2006). Beside this, a comprehensive strategy is needed to recycle wastelands. One of the possible, to reach the goal of sustainability in these urban regeneration interventions, is to focus on the food issue. «To increase the regional food production has become indeed an essential topic in urban design’s discussions dealing with the goals of sustainability and energy saving» (‘Agropolis München’). It is commonly known that intensive agriculture has produced strong environmental impacts on territory, not only considering soil consumption, but also the goods’ transportation. Beside this, the widespread demand for healthy food as part of a healthy lifestyle is growing. According to these factors the role of agriculture and food supply has to be reevaluated within the future city development. This has to do not only with economic and social aspects, but of course with the urban structure and its spatial organization. When we think about the food chain, we mainly think about production, distribution and consumption and they affect territory, land, infrastructures, services, urban spaces etc.. Inner city areas tend to be some relevant degrees warmer − this could make them attractive cultivation areas, which would in turn alleviate and balance the inner city climate or they can be recycled for regional food distribution, consumption and promotion.

Image 1. The Continental AG in Hanover. Photo Landraum.

A design studio focused on the transformation of a former industrial area in Hanover (Image 1) provided the opportunity to verify − with different projects and different tactics − the general strategy of ‘Food and the City’. * Maddalena Ferretti is the author of ‘Concept: Recycling wastelands’; Sarah Hartmann is the author of ‘Vision: Food and the City’; Ines Lüder is the author of ‘Context: the Continental area as a new urban hotspot’. 1 If we look at the built space, cities all have a similar shape, but the open space is what characterize each one them. It is not something new, as it is evident looking at the Map of Rome, drawn in 1748 by Giambattista Nolli. As Rem Koolhaas states, «the Generic City is held together .. by the residual» (Koolhaas, 1994: 1253), the residual is the contemporary city’s connective tissue, holding together objects otherwise unrelated on a plane with no meaning. Maddalena Ferretti, Sarah Hartmann, Ines Lüder

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There can exist other possible recycling strategies, as well as many other contexts where to experiment the feasibility and the repeatability of this urban operation. The design studio represents indeed the starting point of a broader research to be applied to the whole Hanover’s urban context. Its goal is to address − with the same methodology (considering the project as a process) and with the same strategy (establishing a new relationship between food and the city) − a future vision for Hanover’s development. The city would then become an experimental pole of a new ecological and sustainable approach for the future urban transformations. The main idea of the Continental project, detailed in the next paragraphs, is to transform this area in a new urban hotspot for Hanover by using the local and regional food promotion as the main topic of the recycling strategy.

Context: The Continental area as a new urban hotspot Slowness When taking a closer look on Hanover, one has to be aware that it´s central position in Northern Germany, the good infrastructural connection to the Ruhr area and to metropolitan cities as Hamburg and Berlin have been basis for the settlement of industry and commerce. Quite a few businesses are located in inner-city areas, with obvious challenges. The Continental AG, a rubber factory, occupied an area of 23 hectares, 4 km linear distance to the main station. Since the relocation of the factory in late 90ies, it has become a wasteland. Demolition of constructions and soil rehabilitation started in 2008 and are almost completed. A planning process is ongoing since late 90ies, in 2003 there was an urban design competition and a zoning plan is discussed right now. However, a wasteland since 14 years and even in the actual zoning plan it is stated: «It has to be anticipated, that the entire development of the whole planning area will take plenty of years» (Bebauungsplan Nr. 1535, 2012: 2). An important influencing factor for the development of the area is the little pressure of the housing market in Hanover. Depending on the previsions, the population will be rising or decreasing a little in the next 20 years (LSKN, 2011: 83; Schlömer, 2013: 3; Growing and shrinking cities). The completion of buildings for housing is quite low since 2008, compared to the years before (LSKN, Tabelle P8100001). The challenges are evident, but approaches to deal with it are not in sight. A Hanover building company actually came up with a new master plan. As an alternative to «lifeless and efficient building areas» they propose an urban quarter with a «center» and with «character» (Gartenheim eG). The following request to set out the proceeding, to check alternatives and eventually adjust the zoning plan to enable «a creative, modern and contemporary urban development» (Antrag Nr. 2867/2012) was rejected in the commissions. 23 hectares centrally located underused land and a master plan that will take many years to be realized – how does this affect a city? The social and economic developments and changes in the recent years had and continue to have a very strong impact on the development of cities. By demographic change and shrinking financial capacity in times of crisis, urbanism and urban planning must always face the current challenges and respond to change. In this sense, especially the requirements for open spaces have changed. How do we deal with vacancy considering the increasing population decline? What happens to the derelict, urban post-industrial, -infrastructural and -military areas? Preconditions, requirements and planning strategies have changed during the last 14 years and will change further. The present status is indefensible. As we have stated earlier, we propose a process for the development of the area – which then becomes growth, incorporating flexibility, adaptability and resilience. Considering the present situation, there must be the possibility for later generations to decide themselves, how to use such a high quality inner-city area. This would be a sustainable strategy. Temporary uses – and urban farming or gardening is one aspect – can help to bridge long planning periods and should be part of the development process. Give space to the ideas of city inhabitants and neighbors. This bottom-up approach might seem new and uncontrollable for the owner, but it can be very valuable on a microscale for the city/quarter development. The usage by civil society can foster the public spirit, influences the identity of a place and can give impulses for a process of negotiation about what the city means and how it should look like. And by this, slow planning processes bear the chance for the creation of something unforeseeable. Free urban areas become living spaces, identity can grow.

Place The derelict Continental area has a very special location – it lies almost like a half-island in the city. Bordered on two sides by water canals, one connecting an inner city harbor to the Mittelland Canal, the northwestern tip becomes a meeting point for swimmers and sun bathers during the summer. On the opposite banks public green spaces are located, also housing blocks, allotment gardens and watersport facilities. Towards the east the old core of the former village Limmer is located. In the south a bigger street borders the area. The bordering part of Maddalena Ferretti, Sarah Hartmann, Ines Lüder

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Limmer in southeast direction has been erected in the 19th century and is characterized by 2-4 story block building structure. The city quarter of Limmer is a redevelopment area since 2002: it lacks an identity-giving center and sufficient amenities for retail and services. Having in mind the wonderful location as well as the insufficient status of Limmer, one can imagine a lively piece of city, an urban hotspot, which combines qualities of housing, working, leisure and services/infrastructure, which addresses more inhabitants than only the ones living closest and which integrates goals, dreams and interests of actors, citizens, experts and neighbors. How does our society, or better the society of Hanover, want to develop such a place? What kind of life is imaginable? Who lives here, who stays and acts here? How and where is discussed and who decides? What are the values that count? What influence can politics have on exploitation interests of private investors? Are there models from which Hanover can learn? We believe that an initial project can work as accelerator for the transformation of the area.

Single family homes? In 2001 Hanover developed the single-family-home-program, to prevent the movement of inhabitants, especially the 30-49 years old, out of the city to the region. In the latest text of the program it is – at least with one sentence – stated that: «the analysis of existing potentials has revealed that with multi-story building equivalent qualities to the ones of single family houses can be reached. » (Informationsdrucksache Nr. 1706/2007: 9). The Continental area is one site for building up the homes that the program calls for and thus the winning design of the competition pictured an accumulation of row- and double-houses. At least, in the past 10 years the concept has been adjusted in that way, that the zoning plan considers next to single family homes also common housing projects for all age groups and the integration of commerce. (Bebauungsplan Nr. 1535, 2012: 3) We believe this is not enough. Building single family homes in the city cannot be the main and the proper strategy to make Hanover a livable and attractive city. We believe in a city as social living space, which demands participation. The possibilities of participation and appropriation can indeed raise attractiveness. And also spatial qualities, relating to local conditions, can enable good social contacts and identity. It is not necessarily the dwelling that is looked for, but the quarter. To transform the Continental area in an attractive quarter and magnet for urban life, we introduce the strategy of urban agriculture.

Image 2. ‘Stadtbaustein’, students: N. Linke, J. Just, A. Nickl, M. Meissner, C. Steinwedel, 3rd semester Urban design studio Städtebau II, 2012/13, with the Chair for Regional Building and Urban Planning, Leibniz Universität Hanover.

Vision: Food and the City Flexibility in space and time The role of agriculture and food supply has to be reevaluated in the development of the Region of Hanover. The current urban development concept of Hanover, as shown in the previous paragraph, is not able to respond flexible to any changes that might occur, nor is it a proposal for a sustainable way of land use. Maddalena Ferretti, Sarah Hartmann, Ines Lüder

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Although Lower Saxony and the Region of Hanover play a major role in the food production all over Germany, this mainly intensive production is destined to exportation. Our society is able to import and buy food from all over the world, but we need to go back to more sustainable ways of life. Not only regarding social and economic topics but also regarding food related issues, like food production, -distribution and -consumption. The food production in the Region of Hanover forms the background of our Project ‘Food and the City’ at the Continental area. Our aim is to rethink this master plan, against the background of urban agriculture. «Urban agriculture is not any longer only a phenomenon of the city border» (‘Agropolis München’). It has rather become a medium of education, promoting social participation, creating identification and shaping public and private space. Through numerous examples, we see, that in this context projects often occur, which «take advantage of the available space in a new and often simple and cost-effective manner and use» (Stierand, 2012: 25). Inner city areas, like the Continental area, could become attractive cultivation hotspots that offer new potentials regarding social and economical issues as well as forming new open spaces, creating identity and spatial qualities in the city. Urban agriculture generates, as radically different use and development strategy, a new, alternative perception of urban space. In times of change and economic uncertainty even our evaluation criteria have changed. Regionalism has become a trademark –‘nature in the city’ is a common feature for quality. ‘Food self-supply’ and therefore (at least a feeling of) independence from the conventional food industry, «promises security to global changes». The «search for sustainable lifestyles and how spaces are shaped by simple, direct experienceable principles» (‘Agropolis München’) are suddenly important and socially relevant issues again. The aim is to develop a strategy for the alternative occupation and appropriation of the area, to introduce new functional aspects and to position this site as attractor for the whole city of Hanover, to assign a higher value to it. The fixed master plan is replaced by a flexible pattern of development stripes, which can be applied step by step to the whole site (Image 3). This patchwork represents a framework. Each stripe has different possibilities to be expanded. The utilization of stripes has to follow defined rules, in order to guarantee a sustainable and high quality occupation of the territory. This pattern is able to function as a pure landscape park, just as agricultural patches, as well as an area filled up with housing structure. An achieved case would be, to take advantage of the development pattern in a mixed use way and to switch and shift the filling of the stripes over time. This system of ‘pieces leading into a whole’ lets the freedom to react to upcoming transformations and needs, from a probably completely different society in 30 years in a reflective way. It allows a slower capitalistic development of the area, in order to permit an alternative occupation of the space, by urban subcultures or temporary uses. This ‘side effects’ can be elementary to establish the identity of the new spot, to form a character, to implement new uses and functions and to make this site thus an attractive part of the city.

Image 3. ‘Green city wire’, students: Grudzinski B., Manga R., 5th semester Urban design studio ‘Food and the City’, 2012/13, with the Chair for Regional Building and Urban Planning, Leibniz Universität Hanover.

Furthermore unexploited potentials of the area and possible alternative ways are asked to identify, in order to set up a new urban hotspot in the existing urban system, always considering the regional food supply as strategy. The relationship between regional produced food and its perception and potentials in the City of Hanover has to be developed, still. How can this relationship between space and food look like, and how can it be achieved? The proposed strategy should attain a higher relevance to be readapted to other derelict sites in Hanover. One of these unexploited potentials is the city’s water system waiting to be reinvented. It makes up 22 ha of the inner city surface – almost as big as the Continental area itself (23ha) – and runs through the middle of the city. Maddalena Ferretti, Sarah Hartmann, Ines Lüder

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Introducing new water streets and their co-infrastructures, like docking stations or swimming markets, is a strategy to foster the local food supply and strengthen the relationship between the city and its water (Image 4). This potential, although it is highly present at the site, until now, is completely underused. Leisure activities along the rivers, as well as public or touristic transport on the water, are conceivable. In addition food concerning infrastructures like farmers markets, a new market hall, self picking areas and high quality food treatment are implemented, to root the importance and quality of local food in the city. The abandoned site becomes a new urban hotspot where food consumption, promotion of regional food and fostering new types of productions are integrated.

Image 4. ‘Based on water’. The new potential for Limmer, students: Will R., Schander V., Goetz J., 5th semester Urban design studio ‘Food and the City’, 2012/13, with the Chair for Regional Building and Urban Planning, Leibniz Universität Hanover.

The development of this area has far reaching consequences for the whole city, as it is close to the city center and has a range of essential potentials. It is an opportunity to rethink the future development of the city, which is at the moment still based on economical growth, and ignores social and economical changes, such as the increasing importance of regional production. The project ‘Food and the City’ represents a laboratory of visions. All elaborated visions are showing in their entirety an alternative approach to tackle with the development strategy of this urban site. The project aims to position the relevant topic of urban agriculture within the city - as donor for identity and image carrier, and most of all – as alternative future development process.

Bibliography Corner J. (2006), “Terra Fluxus”, in Waldheim C. (ed.), The landscape urbanism reader, Princeton Architectural Press, New York, pp. 21-33. Landesbetrieb für Statistik und Kommunikationstechnologie Niedersachsen - LSKN (2011), Die Ergebnisse der regionalen Bevölkerungsvorausberechnung für Niedersachsen bis zum 01.01.2031, LSKN Schriftenvertrieb, Hanover. Ricci M. (2011), “New Paradigms: Reduce Reuse Recycle the City (and the landscape)”, in Ciorra P., Marini S. (eds.), RE-CYCLE: Strategies for Architecture, City, and Planet, Electa, Milano, pp. 64-77. Ricci M. (ed., 2012), “New paradigms”, in Ricci M. (ed.), New Paradigms, List, Barcelona, pp. 7-17. Schlömer C. (2013), Regional Planning Forecast 2030, Federal Institute for Research on Building, Urban Affairs and Spatial Development (BBSR), Bonn. Stierand P. (2012), “Stadtentwicklung mit dem Gartenspaten”, in Creative Commons PDF, http://speiseraeume.de/downloads/SPR-Stadternaehrungsplanung-Stierand.pdf Waldheim C., Reed C., Allen J. (2012), “Absolute Detroit”, in Ricci M. (ed.), New paradigms, List, Barcelona, pp. 34-38. Wolfrum S., Nerdinger W., Schaubeck S. (eds., 2008), Multiple Cities. Urban Concepts 1998-2008, Jovis, Berlin.

Website References ‘Agropolis München’. Introductive text for the competition entry ‘Agropolis München’, presented at the ‘Open scale’ competition, Munich, 2009 http://www.agropolis-muenchen.de/index_en.html Antrag Nr. 2867/2012: Änderungsantrag der CDU-Fraktion zur Drucks. Nr. 1964/2012 N1 Session Management of the regional capital city Hanover, e-government, Amendment of zoning plan https://e-government.hannover-stadt.de/lhhsimwebre.nsf/Ratsinfo?OpenPage&https://e-government.hannoverstadt.de/lhhsimwebre.nsf/DS/2867-2012 Bebauungsplan Nr. 1535 - Wasserstadt Limmer: Anlage 1 zur Drucksache Nr. 1964 / 2012 N1 E1 Session Management of the regional capital city Hanover, e-government, Zoning plan Maddalena Ferretti, Sarah Hartmann, Ines Lüder

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‘Food and the City’. Recycling wastelands in Hanover. The Continental area as a new urban hotspot.

https://e-government.hannover-stadt.de/lhhsimwebre.nsf/Ratsinfo?OpenPage&https://e-government.hannoverstadt.de/lhhsimwebre.nsf/DS/1964-2012N1E1 Gartenheim eG, Housing corporation, Project Wasserburg http://www.gartenheim.de/projekte/wasserburg.html Growing and shrinking cities and municipalities: space monitoring by Federal Institute for Research on Building, Urban Affairs and Spatial Development, Technical contribution 2012 http://www.bbsr.bund.de/nn_1051832/BBSR/DE/Raumbeobachtung/AktuelleErgebnisse/Stadtentwicklung/Gem einden/gemeinden__node.html?__nnn=true Informationsdrucksache Nr. 1706/2007 Einfamilienhaus-Programm der Landeshauptstadt Hannover 2007-2011 Session Management of the regional capital city Hanover, e-government, Single-family-home-program https://e-government.hannover-stadt.de/lhhsimwebre.nsf/Ratsinfo?OpenPage&https://e-government.hannoverstadt.de/lhhsimwebre.nsf/DS/1706-2007 Landesbetrieb für Statistik und Kommunikationstechnologie Niedersachsen (LSKN): State service for statistics and communication technologies, Settlements’ development in Lower Saxony, Tabelle P8100001 http://www.lskn.niedersachsen.de/portal/live.php?navigation_id=25642&article_id=103365&_psmand=40#dow nload ‘SpontaneousInterventions: Design Actions for the Common Good’, Press release for the exhibition held at the United States Pavilion at the 13th International Architecture Exhibition ‘La Biennale di Venezia’ http://www.spontaneousinterventions.org/wp-content/uploads/2012/08/US-Pavilion_general_english.pdf

Maddalena Ferretti, Sarah Hartmann, Ines Lüder

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La Valle dei Laghi nel Trentino: nuove ipotesi per uno sviluppo «lento»

La Valle dei Laghi nel Trentino: nuove ipotesi per uno sviluppo «lento» Alessandro Franceschini Università degli Studi di Trento Dipartimento di ingegneria civile, ambientale e meccanica Email: a.franceschini@unitn.it

Abstract La neonata Comunità della Valle dei Laghi, istituita a seguito di una riforma che ha ridisegnato l’architettura istituzionale del Trentino, sta vivendo un momento urbanisticamente importante, legato alla redazione del Piano territoriale della Comunità. Questo strumento urbanistico è caratterizzato da una vocazione programmaticostrategica che mira a razionalizzare i servizi e gli interventi a scala sovracomunale. L’elaborazione del piano contempla, a norma di legge, i lavori di un Tavolo di consultazione e di confronto che è invitato a proporre e a discutere delle istanze progettuali di sviluppo economico, culturale e sociale da introdurre dentro la pianificazione. Nel caso in oggetto, le richieste provenienti da questo collettivo s’inseriscono perfettamente dentro le più recenti sensibilità della disciplina, trasformando il territorio della Valle dei Laghi in un interessante laboratorio dove il «riusa», il «ricicla» e il «riduci» non sono solo degli slogan per addetti ai lavori, ma istanze provenienti dagli osservatori privilegiati che, pur non trovandosi in una situazione di degrado (né territoriale, né sociale), provano ad immaginare un futuro per il proprio territorio più moderno e sostenibile. Parole chiave Comunità, riutilizzo, green economy

Il Trentino ed il governo del territorio a scala di Comunità In Trentino, nel 2006, è stato oggetto di una importante Riforma che ha ridisegnato l’architettura istituzionale della provincia, introducendo un nuovo livello di governo del territorio, collocato tra i comuni e la provincia e denominato livello di «Comunità» (L.P. nr. 3 del 16 giugno 2006). A partire dal 2010 le Comunità di valle (come sono entrate nel gergo comune) sono state formalmente istituite, arrivando all’elezione di un’Assemblea, una Giunta e un Presidente. La riforma ha suddiviso il Trentino in sedici territori all’interno dei quali sono state costituite quindici Comunità (Figura 1). Si tratta, in particolare: Comunità territoriale della Val di Fiemme, Comunità di Primiero, Comunità Valsugana e Tesino, Comunità Alta Valsugana e Bersntol, Comunità della Valle di Cembra, Comunità della Val di Non, Comunità della Valle di Sole, Comunità delle Giudicarie, Comunità Alto Garda e Ledro, Comunità della Vallagarina, Comun General de Fascia, Magnifica Comunità degli Altopiani Cimbri, Comunità RotalianaKönisberg, Comunità della Paganella, Comunità della Valle dei Laghi. In uno dei territori, denominato “Val d’Adige”, coincidente sostanzialmente con il Comune di Trento, non è stata costituito l’ente Comunità, ma ai comuni in esso ricompresi (Trento, Cimone, Aldeno e Garniga) sono tate comunque trasferite funzioni amministrative, che sono svolte in modo associato con modalità che tali comuni definiscono tra loro tramite convenzione. Tra le prerogative di queste Comunità, la più importante è quella legata alla pianificazione territoriale. Con l’istituzione di questo livello amministrativo la Provincia autonoma di Trento, infatti, da delegato ai territori e alle comunità locali la responsabilità del governo del territorio, che deve essere attuata attraverso la redazione di un apposito strumento urbanistico, il Piano territoriale della Comunità, collocato tra i Piani regolatori generali e il Piano urbanistico provinciale. Si tratta di un piano di area vasta, dalle caratteristiche prettamente programmatico-strategiche, che ha l’obiettivo di individuare e di soddisfare i bisogni di servizi, di infrastrutture e articolazione delle esigenze produttive ed abitative a livello sovracomunale. Alessandro Franceschini

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L’obiettivo di questo nuovo livello è quello di razionalizzare gli interventi ed i servizi sovracomunali e si inserisce in una tradizione amministrativa già presente nella storia del territorio. Già il primo Piano urbanistico provinciale, firmato nel 1967 da Giuseppe Samonà (Provincia autonoma di Trento, 1968), prevedeva una suddivisione del territorio in «Comprensori» che ricalcava, almeno in parte, un’organizzazione austroungarica del Trentino che contemplava un organismo di gestione sovracomunale chiamato «Bezirk» (Andreatta, 1975). L’obiettivo di questo livello amministrativo, rinnovato con costanza nel corso della lunga storia del Trentino, è quello di dare forza alla grande fragilità causata dalla suddivisione in piccoli territori comunali (in provincia di Trento i comuni sono attualmente 217). La riforma istituzionale ha suddiviso il territorio provinciale è stato suddiviso in sedici Comunità che sostituiscono, per l’appunto, i comprensori, svolgendo le attività che per alcuni decenni erano state esercitate da tali enti, oltre a molte altre che sono state trasferite progressivamente dalla Provincia e – in modo volontario – dai comuni. Le comunità, infatti, sono costituite obbligatoriamente dai comuni appartenenti a un determinato territorio.

Figura 1. Le sedici Comunità del Trentino

Come si è detto, la legge prevede che le Comunità abbiano la competenza su funzioni molto rilevanti per la popolazione e per lo sviluppo dei rispettivi territori. Si tratta di poteri amministrativi già esercitati dai Comprensori in “delega” e riguardano le materia di attività socio-assistenziali, edilizia abitativa e diritto allo studio, oltre alle competenze in materia urbanistica. La novità di questo istituto riguarda, in particolare, le competenze sono trasferite in modo pieno, non solo a titolo di delega. Quindi, mentre il Comprensorio storicamente era un “braccio operativo” della Provincia, con limitato potere decisionale e compiti prettamente operativi, vincolato a direttive molto puntuali e stabilite in via generale per tutti i territori, la Comunità diviene titolare di funzioni proprie e può adottare le politiche più rispondenti alle esigenze e alle caratteristiche del proprio territorio, approvando propri piani in settori cruciali per la vita dei cittadini (Piano sociale, Piano territoriale di Comunità…). Per quanto riguarda più specificatamente le questioni urbanistiche, una delle deleghe più significative previste dalla Riforma, occorre segnalare che le Comunità devono farsi promotrici di un apposito strumento di governo del territorio e che ha il nome di Piano territoriale della Comunità. Si tratta di un piano dalla forte valenza strategica (Zanon e Franceschini, 2011) che, se da una parte rinuncia volutamente alla gestione dell’uso dei suoli – competenza che rimane in capo ai comuni e ai piani regolatori comunali –, dall’altra si pone l’obiettivo di Alessandro Franceschini

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preordinare e di gerarchizzare le strategie che interessano naturalmente i territori a livello sovracomunale, come la mobilità, i servizi socioassistenziali, l’edilizia pubblica, gli impianti sportivi, le aree industriali ed artigianali. Il paesaggio – inteso come esito di un processo ma anche come obiettivo di un progetto – è uno degli elementi cardine sul quale la norma prevede debba essere impostata la pianificazione di comunità. Non a caso la legge urbanistica prevede che le Comunità, in sede di elaborazione di piano, mettano a punto due particolari carte di lettura del territorio: la carta del paesaggio e la carte dello statuto dei luoghi. Si tratta di due letture destinate a far emergere i caratteri fondanti di un territorio omogeneo e che dovranno fornire indicazioni imprescindibili per l’articolazione delle successive scelte progettuali. Un altro aspetto importante, sul quale la legge insiste molto, è il livello di partecipazione che deve esser sotteso al processo di piano. Il protagonismo delle comunità locali, infatti, è inteso come un elemento fondamentale per la costruzione e per il buon esito del percorso di pianificazione. Proprio per favorire la partecipazione il Documento Preliminare al Piano territoriale della Comunità prevede appositi tavoli di confronto ai quali partecipano amministratori e stakeholder della società locale. E proprio sull’esperienza di uno di questi tavoli di consultazione s’inseriscono le riflessioni contenute in questo scritto.

La Comunità della Valle dei Laghi ed il percorso del Piano Territoriale di Comunità Il territorio della Comunità della Valle dei Laghi si articola nel sistema vallivo composito che si apre, a levante, lungo il Torrente Vela, tra il massiccio del Monte Bondone e la dorsale Paganella-Gazza. Si tratta di uno stretto collegamento tra la Valle dell’Adige e il Bacino del Sarca, caratterizzato dalla presenza di notevoli formazioni geologiche e da una unitarietà paesaggistica (Spagnolo, 2012). La morfologia del territorio della Valle dei Laghi si contraddistingue per dossi montonati, pendenza media elevata, e contropendenze tipiche di una valle ad esarazione glaciale. La Comunità può essere suddivisa in tre aree prevalenti: la Valle dei Laghi propriamente detta, la Valle di Cavedine (un sistema vallivo in direzione nord-sud di connessione con quello principale) e la zona corrispondente alla Frazione di Sarche, caratterizzata da un notevole alluvionamento dovuto agli apporti solidi del torrente Sarca.

Figura 2. L’urbanizzazione della Valle dei Laghi. Da sinistra: 1985, 1950 e 2010.

L’attuale conformazione del territorio presenta una serie di laghi (dalla cui presenza trae origine il nome della valle) di origine diversa: di esarazione valliva (originati cioè dall’azione erosiva degli antichi ghiacciai: Lamar e di Terlago); di sbarramento (Toblino, Santa Massenza e Cavedine) e di origine intermorenica (Lagolo). Inoltre va segnalato che l’idrografia e l’ecologia dei laghi maggiori, compresi nel bacino del Sarca, sono state notevolmente modificate da interventi a scopo idroelettrico conclusi intorno alla metà del Novecento. L’urbanizzazione del territorio della Comunità della Valle dei Laghi (Figura 2) è caratterizzata dalla presenza di elementi ambientali di particolare importanza per la comprensione della successione spaziale degli insediamenti: in particolare l’esistenza degli specchi e dei corsi d’acqua (i laghi e i torrenti), la rete infrastrutturale di collegamento tra la Valle dell’Adige e l’Alto Garda trentino e l’articolazione della morfologia circostante. Questi aspetti del territorio sono andati a condizionarne in maniera determinante l’urbanizzazione. Oggi la Valle dei Laghi si presenta come un insieme di insediamenti fortemente sviluppati, che hanno giovato della loro collocazione tra due punti di forte attrazione viabilistica: il capoluogo Trento e il sistema Riva del Garda-Arco. L’urbanizzazione degli ultimi trent’anni, se da un parte ha messo in crisi il modello insediativo tradizionale, Alessandro Franceschini

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dall’altra ha avviato la costrizione di una nuova identità e di un nuovo paesaggio. L’economia dell’area, per inciso, è retta principalmente dal sistema produttivo-artigianale ed agricolo, mentre è poco sviluppato il sistema dei servizi e del turismo. La Valle dei Laghi – il cui ruolo è stato, per l’appunto, quello di “cerniera” tra il capoluogo, Trento, ed il polo ricettivo costituito dal sistema Arco-Riva del Garda – è caratterizzata da una recente consapevolezza identitaria, articolata soprattutto in un’offerta residenziale di buona qualità e con prezzi più convenienti. Tuttavia l’area è sempre stata considerata un’appendice – ora della Valle dell’Adige, ora del bacino del Sarca – sviluppando una scarsa autonomia identitaria. Basti pensare, in questo senso, che nella suddivisione territoriale del Trentino introdotta dal Piano urbanistico provinciale del 1967, la Valle dei Laghi era compresa dentro il territorio del Comprensorio della Valle dell’Adige, dominato dalla soverchia presenza della città capoluogo. La redazione del Piano territoriale della Comunità può essere l’occasione per valutare la costruzione di una coscienza identitaria collettiva, mettendo in evidenza i caratteri di originalità di questo territorio e i temi progettuali che possono emergere nella costruzione di scenari di sviluppo e di crescita economica e sociale.

Il Tavolo di confronto e consultazione La disciplina, in tempi recenti, si sta interrogando con rigore su quelle che possono essere le modalità per coniugare l’attenzione al consumo del suolo e le necessarie volontà di sviluppo economico, intese come condizione necessaria per l’uscita dalla stato di crisi in cui versa il nostro Paese. Le parole d’ordine legate alla regola delle 3R (Riduci, Riusa, Ricicla), vengono spesso immaginate (e applicate) a contesti urbani o metropolitani, solitamente impiegate nella risoluzione di vere e proprie emergenze ambientali e socioeconomiche. Tuttavia si tratta di un processo virtuoso che può e deve essere applicato anche in contesti territoriali a più ampia scala e in situazioni non necessariamente legate all’urgenza. Il caso della Valle dei Laghi si presta ad essere una sorta di laboratorio: una Comunità dotata di una forte matrice paesaggistica e culturale (basti pensare al Lago di Toblino, una delle icone paesaggistiche più importanti delle Alpi dolomitiche) ripensa il proprio futuro sulla base di dogmi sostenibili, non per risolvere delle emergenze, ma per costruire, collegialmente, scenari di sviluppo plausibili e moderni.

Figura 3. Una seduta del Tavolo di confronto e consultazione e, a sinistra, l’esito di uno dei brainstorming.

Durante le sedute del Tavolo1 (Figura 3) – un collettivo formato da amministratori (sindaci), tecnici e osservatori privilegiati della comunità locale – sono stati affrontati alcuni temi che dovranno, in un secondo tempo, sostanziare il Piano territoriale della Comunità. Per quanto riguarda il tema del riconoscimento identitario, ad esempio, la posizione dei componenti del Tavolo è sembrata orientata ad una chiara attenzione alla salvaguardia del territorio, con l’auspicio «che non si costruisca più»2. L’immagine odierna della Valle dei Laghi sembra essere, in particolare, caratterizzata dalla presenza di «periferie ridenti e centri storici abbandonati», all’interno dei quali «ci sono degli edifici il cui restauro abbisogna di risorse». Occorre, proprio per questo, «urbanizzare nuovamente i centri storici», anche se è importante essere coscienti che si tratta di «centri storici “poveri”, non confrontabili con quelli delle città». Nel resto del territorio «si è costruito male, con indici edificatori troppo alti», secondo un’urbanizzazione «disorganizzata, irregolare suddivisa in tante strutture scarsamente utilizzate», 1

Chi scrive ha avuto l’occasione di seguire i lavori del Tavolo di confronto e consultazione della Valle dei Laghi, ancora in corso di svolgimento al momento della consegna di questo scritto, nelle vesti di facilitatore. 2 Fra le virgolette frasi “intercettate” dal ricercatore durante il brainstorming del Tavolo. Alessandro Franceschini

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con «tipologie edilizie avulse dalla tradizione» che hanno «dissipato il territorio agricolo» a causa anche di «concessioni edilizie agricole incontrollate». Nondimeno c’è la consapevolezza di «essere ancora in tempo per rallentare la corsa» ed il territorio della Valle dei Laghi rimane comunque «il meno urbanizzato del vecchio Comprensorio C5» grazie soprattutto al «limite e al valore dell’orografia naturale». Per il futuro sembra necessario «incentivare veramente il riutilizzo dei centri storici», prestando anche «attenzione ad un patrimonio edilizio degli anni Sessanta, obsoleto ma difficile da sostituire», attuando anche nuovi strumenti urbanistici, «preferendo i piani attuativi rispetto ai Prg». Su tema dell’autosufficienza della Comunità, rispetto ai territori circostanti (ed in particolare gli “attrattori” storici di Trento e di Arco-Riva del Garda) emerge il bisogno di «partire dalla dotazione di servizi e dal forte volontariato, vera risorsa, scarsamente riconosciuta, della Comunità» e su questi è bene trovare un equilibrio «aumentando un po’ l’indipendenza della valle ma anche la connessione con i territori circostanti», perché «è difficile, oggigiorno, immaginare un sistema chiuso». In questo senso occorre «incentivare l’impresa artigiana, agricola e turistica», «aumentando il numero ed il ruolo dei centri di eccellenza». È quindi auspicabile la «creazione di un’identità diversa»: l’invecchiamento della popolazione obbligherà anche ad un «aumento dell’autonomia dei territori» e proprio per questo sarà «necessario creare servizi efficienti». La Comunità di valle, in questa visione «può essere un’occasione per individuare le priorità degli interventi». Altro tema importante emerso nelle discussioni è quello relativo all’uso del suolo agricolo. Su questo aspetto i componenti del Tavolo hanno parlato di un settore caratterizzato «un tempo da un’economia di sussistenza ed orientata ai bisogni della famiglia del contadino, mentre oggi è più specializzata ed orientata ad offrire un prodotto per il mercato». Si tratta di «un’agricoltura che comunque “regge” anche in tempi di crisi» per la quale occorre «stare attenti a non mitizzare una certa idea – passata e non più riproponibile – di agricoltura». Oggi, quest’ultima, «si va a configurare come un’attività capitalistica» dalla caratteristiche quasi «industriali» dove «è diminuito l’uso di antiparassitari ed è aumentata la professionalità del settore» Per evitare il «rischio di una progressiva monocultura» va, invece, promosso il «valore della biodiversità come una ricchezza imprescindibile del territorio» perché «la sostenibilità ambientale è un valore che va visto nel complesso di tutto il territorio». Occorrono quindi «scelte coraggiose», senza dimenticare che «nell’agricoltura la prima sostenibilità è quella economica», partendo dal concetto che «l’agricoltura cresce quando cresce anche il turismo» e che «portare gente nelle Valle dei Laghi non può che portare vantaggi anche all’agricoltura». In questa prospettiva, per rendere adatto il paesaggio al turismo, «non va ignorato il problema di alcuni campi invasi dai rifiuti» che devono essere necessariamente liberati. Per quanto riguarda le progettualità che confluiranno nel piano, l’opinione del Tavolo, è orientata verso l’idea che «la qualità della Valle dei Laghi debba emergere anche dai prodotti delle aziende che in essa operano», «facendo rete tra le impresa», «ascoltando le tradizioni locali», «ampliando il dialogo» e «puntando su prodotti di nicchia, non solo alimentari». In pratica va considerato che «il marketing territoriale non riguarda solo l’agricoltura o il turismo, ma tutti i segmenti dell’economia» ed in questa visione occorre «rafforzare l’identità unitaria del territorio con prodotti diversificati» perché «gli obiettivi d’impresa possono essere diversi, ma devono essere tuttavia coordinati in un unico marchio», possibilmente puntando su «una produzione “bio” che riesca a stare sul mercato» nazionale ed internazionale. La Valle dei Laghi sembra essere un territorio «caratterizzato da un’alta frammentarietà e, per questa ragione, è necessario dare alle immagini della valle un carattere di unitarietà» perché «l’identità territoriale è anzitutto visiva». Questo può essere fatto «coinvolgendo tutto il tessuto dell’imprenditoria» ed anche «utilizzando l’architettura per promuovere l’identità, anche moderna, del territorio». Per «trovare l’eccellenza della Valle dei Laghi» può essere anche utile sfruttare l’immagine della morfologia della valle, facendo «un lavoro di promozione delle bellissime pareti rocciose», “vendendo” così le emozioni legate agli sport estremi e «valorizzando le tante manifestazioni che già sono presenti in valle» oppure «promuovendo la lavorazione del legno locale». Dal punto di vista economico, infine, il Tavolo ravvisa le necessità di «favorire la cooperazione» che deve essere considerata «una risorsa da sviluppare, ma attraverso la realizzazione in un marchio specifico», «coinvolgendo le imprese locali in un progetto di larghe vedute» promosso «dalla politica che deve “credere” nell’unione delle forze».

Conclusioni: La Valle dei Laghi: da «corridoio» a «comunità» L’occasione di poter osservare da vicino il processo di pianificazione in atto, ed in particolare dei Tavoli di confronto e consultazione istituiti per legge, è stata un’opportunità per sistematizzare le modalità con cui le istanze di sviluppo maturate all’interno di una comunità possano trovare espressione e concretezza progettuale nelle scelte e nelle previsioni di piano. L’immagine che emerge dai confronti degli osservatori privilegiati che partecipano al Tavolo è quella di un contesto territoriale che non si accontenta di una – pur dichiarata – qualità della vita ma cerca dei nuovi scenari di sviluppo e di crescita. I filoni entro i quali questa consapevolezza intende esprimersi sono solo apparentemente legati ad immagini di sviluppo economico alla moda e prevalentemente orientate alla green economy. Le istanza progettuali della Valle dei Laghi sembrano emergere da un diffuso Alessandro Franceschini

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affetto nei confronti del territorio e da una capacità di intravvedere filoni di crescita dentro i temi dell’attenzione del territorio in chiave urbanistica e paesaggistica. La necessità di recuperare architettonicamente i centri storici oramai abbandonati (ricicla), di rivedere le forme degli edifici produttivi esteticamente non all’altezza del paesaggio circostante (riusa), di limitare fortemente l’uso del suolo a fini residenziali diffusi (riduci), di rilanciare l’agricoltura presente nell’area, puntando in particolare sulle nicchie di alta qualità (rilancia), rappresentano una sfida limpida all’interno dell’immaginario di sviluppo degli stakeholder. Una sfida che vale trasformare una valle-corridoio in una comunità unita e consapevole di sé stessa. Una sfida che ora la disciplina e l’apparato politico debbono saper cogliere e portare a compimento.

Bibliografia Andreatta G. (1975), Bezirk e comprensorio nel Trentino: storia e prospettive di un’idea, Saturnia, Trento Provincia autonoma di Trento (1968), Piano urbanistico provinciale, Marsilio, Padova Spagnolo G. (2012), Documento preliminare al Piano Territoriale della Comunità della Valle dei Laghi, Vezzano (Trento) Zanon B., Franceschini A., (a cura di) (2011), Il piano territoriale della comunità. Numero monografico di Sentieri Urbani nr. 5.

Alessandro Franceschini

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Riciclare contenitori e ridefinire contenuti in aree produttive dell’abbandono Roberto Gerundo Università di Salerno Dipartimento di Ingegneria civile Email: r.gerundo@unisa.it Tel: 089 964123 Isidoro Fasolino Università di Salerno Dipartimento di Ingegneria civile Email: i.fasolino@unisa.it Tel: 089 964124 Maria Veronica Izzo Università di Salerno Dipartimento di Ingegneria civile Email: mizzo@unisa.it Tel: 089 964169

Abstract La crescita e lo sviluppo della città è ormai giunta ad un punto di stallo. L’epoca dello sviluppo industriale e delle grandi espansioni urbane non sono più prospettive credibili e l’adeguamento della città esistente è tema ormai, da tempo, radicato nella disciplina urbanistica contemporanea. In un quadro di austerità e scarsità di risorse, i governi locali devono saper affrontare, in modo innovativo e sostenibile, i temi della corretta organizzazione del territorio e la natura strategica e dimensionalmente rilevante delle aree produttive esistenti, esito di parziali attuazioni, dismissioni e consistente sottoutilizzazione, suggerisce un loro trattamento organico e flessibile, tendenzialmente orientato a consentire una acquisizione di territorio urbano da destinare ad attrezzature e servizi necessari a una città di elevata qualità urbana. Rappresenta l’occasione per una sperimentazione in tale senso la redazione di un piano urbanistico comunale e il relativo percorso partecipativo. Si propone un modello di intervento ipotizzato per il Comune di Castel San Giorgio. Parole chiave produttivo dismesso, risparmio suolo, riconversione urbanistica

Il contenimento del consumo di suolo nel rinnovato riequilibrio territoriale La domanda di manutenzione e funzionamento della città, auspicando una riduzione di sprechi ed una maggior efficienza nell’uso di risorse (economiche, ambientali, urbanistiche, energetiche), in un’epoca in cui lo sviluppo industriale e le grandi espansioni urbane non sono più prospettive credibili, induce a rivedere consolidate categorie di pensiero e di azione e ad avviare una politica strutturalmente incardinata nella pianificazione urbanistica, capace di produrre città nel lungo periodo. In un quadro di austerità e scarsità di risorse, i governi locali devono saper affrontare, in modo innovativo e sostenibile, i temi della corretta organizzazione del territorio, mediante: riduzione di sprechi ed efficienza nell’uso di risorse (economiche, ambientali, urbanistiche, energetiche); maggiore sobrietà ed efficacia nei progetti urbani e infrastrutturali; coinvolgimento del più ampio numero di attori; piena applicazione della sussidiarietà verticale (pubblico-pubblico) e sperimentazione di quella orizzontale (privato-pubblico); Gerundo Roberto, Fasolino Isidoro, Izzo Maria Veronica

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comportamenti degli amministratori improntati ad un uso più consapevole e responsabile dei beni collettivi e privati disponibili. L’attenzione al consumo di suolo è ormai consolidata, obiettivo prioritario da condividere a tutti i livelli di programmazione e di pianificazione urbanistica e territoriale, nel quadro di politiche di sussidiarietà e cooperazione interistituzionale; la ricerca di idonee modalità per la sua misurazione si rafforza sempre più, mirando ad un buon livello di sostenibilità per poter procedere al riequilibrio territoriale resosi necessario a seguito dei forti fenomeni di urbanizzazione diffusa verificatisi negli ultimi decenni, in modo più o meno analogo, su tutto il territorio nazionale. Le aree dismesse, le aree inedificate intercluse, i residui di piano e le frange urbane assumono notevole rilievo in merito alla questione del consumo di suolo. Alla luce di tali temi, è possibile ipotizzare forme di ricentramento e di ri-dimensionamento della città. Effettuare trasformazioni urbanistiche in aree industriali dismesse, luoghi che spesso si presentano come ambienti profondamente desolanti e insicuri, significa effettuare un consumo di suolo efficiente, accrescendo la densità urbana e i vantaggi per l’immediato intorno. Si tratta generalmente di estese superfici a destinazione funzionale produttiva, caratterizzati dalla presenza di grandi involucri edilizi non più in esercizio, divenuti il simbolo della dismissione e dell’abbandono. Gli interventi di recupero di questi suoli in stato di degrado rappresentano il potenziale motore della riqualificazione urbana della città. La natura strategica e dimensionalmente rilevante delle aree produttive esistenti, esito di parziali attuazioni, dismissioni e consistente sottoutilizzazione, suggerisce un loro trattamento organico e flessibile, tendenzialmente orientato a consentire, nelle aree da trasformare mediante rifunzionalizzazione e riqualificazione, una acquisizione di territorio urbano da destinare ad attrezzature e servizi, verde, spazi pubblici e infrastrutture necessarie a una città moderna e di elevata qualità urbana. In tali aree deve essere prevista una collocazione mista ed equilibrata di destinazioni d'uso produttive (industriali, artigianali, media e grande distribuzione di vendita), terziario-direzionali e residenziali, anche di edilizia sociale, idonea a definire, in modo articolabile nel tempo e variabile per ciascun comparto, carichi entro limiti che garantiscano l'equilibrio tra le funzioni, sia all'interno dell’intera area che tra i comparti. Tali potenzialità possono essere esaltate dalla presenza di nodi delle reti infrastrutturali o dalla previsione di infrastrutture strategiche capaci di determinare effetti di catalizzazione in territori di area vasta intermedia, considerando l’effetto volano che tali fattori possono determinare nei confronti degli investimenti privati. I singoli comuni dovranno sempre più per il futuro preventivamente verificare la possibilità di non consumo di ulteriore suolo, ovvero di necessario ricorso al consumo di nuovo suolo, evitandone in ogni caso lo spreco e privilegiando il dismesso , l’inedificato, i residui di piano e le frange urbane da densificare e riqualificare, prevedendo modalità di misurazione e di controllo affinché, all’interno dei piani, siano adottate forme insediative dense e compatte.

La sostenibilità sociale nella riconversione degli insediamenti produttivi dismessi Da un punto di vista urbanistico, la pianificazione di nuovi insediamenti industriali è un argomento sempre molto delicato e controverso, poiché, se da un lato garantisce il necessario sviluppo economico, così da apparire inevitabile, dall’altro la collettività ne teme le possibili conseguenze in termini di impatti ambientali o di rischi per la salute o ne percepisce semplicemente le limitazioni in termini paesaggistici. In linea con il rafforzarsi di nuove esigenze di riequilibrio territoriale, oggi più che mai diventa tema delicato anche quello del ri-uso di intere parti di territorio, aree dismesse e/o sottoutilizzate; la redazione di un piano urbanistico comunale, con il relativo percorso partecipativo, rappresenta l’occasione per una sperimentazione di un nuovo approccio ai temi connessi alla rivitalizzazione di tali insediamenti. Appare sempre più rilevante il grado di accettazione ricevuto dal contesto sociale in cui si va ad operare e a programmare scelte future di assetto del territorio: non è più sufficiente, per acquisire consenso nella comunità locale, creare occupazione e mitigare gli impatti ambientali; diventa strategico anche riuscire a spendere la propria immagine sul fronte sociale, con ricadute locali (a servizio degli stakeholders del proprio territorio) o internazionali (progetti di solidarietà verso zone svantaggiate del mondo), con un approccio di compensazione degli impatti generati. E’ rappresentativo, in questo senso, l’output del processo partecipativo relativo al Comune di Castel San Giorgio1 che ha avviato la redazione del Piano urbanistico comunale (Puc)2.

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Il comune di Castel San Giorgio si colloca nella media valle del Sarno, in posizione intermedia tra la pianura dell'Agro nocerino-sarnese ad ovest e dell'alta Valle dell'Irno ad est. Si estende su una superficie di 13 kmq e conta circa 13.411 abitanti (Istat 2011), per una densità di 1.056 abitanti/kmq ed è caratterizzato da una struttura insediativa policentrica articolata in 11 centri, oltre il capoluogo. L’Amministrazione comunale ha affidato la redazione del nuovo strumento urbanistico al proprio Ufficio Tecnico con il supporto scientifico del Gruppo di Tecnica e Pianificazione Urbanistica dell’Università di Salerno.

Gerundo Roberto, Fasolino Isidoro, Izzo Maria Veronica

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La vivace e propositiva partecipazione della comunità locale e di tutti gli attori che gravitano sul territorio comunale ha dimostrato la notevole utilità di un ampio coinvolgimento di tutte le parti nella costruzione di scenari futuri di progetto e la necessità della costruzione del consenso per qualsiasi attività di programmazione, confermando l’attuale attenzione al contenimento del consumo di suolo e la necessità, nella fase di austerità e l’attuale complessiva scarsità di risorse pubbliche, di un nuovo approccio, più sobrio, ai temi dell'organizzazione della città e del territorio, soprattutto partendo dal recupero e riciclo dell’esistente e dell’intero patrimonio dismesso e/o sottoutilizzato presente in ambito comunale. Nel corso ei numerosi incontri propedeutici all’elaborazione del Preliminare di Piano, così come previsto dalla normativa regionale vigente sul governo del territorio; hanno partecipato diversi soggetti politici, culturali, sociali, della scuola, tecnici ed economici, portatori di interessi generali e diffusi sull’intero territorio comunale. E a conferma di quanto fin qui premesso, è emersa, sin dall’inizio, la necessità di una pianificazione non calibrata su nuove espansioni, piuttosto rivolta ai servizi per una maggiore vivibilità, con l’obiettivo di rilanciare il territorio comunale in una dimensione di area vasta, implementando e promuovendo qualità ed eccellenze, sia storico-archeologiche e paesaggistiche, sia le manifatture tipiche e tradizionali (pasta, ricami, legno, ecc…). Si è auspicato un recupero dell’esistente, promuovendo nuove forme di fiscalità urbana, quale leva per il recupero del patrimonio edilizio sottoutilizzato e si è più volte fatto riferimento all’opportunità di uno scenario futuro che contempli l’implementazione dei contenuti, costruendo sul costruito, avendo come fine ultimo il contenimento del consumo di suolo, nell’ottica della tutela e valorizzazione delle zone agricole, nonché della storica vocazione agricolo-manifatturiera del comune; tutto al fine di migliorare la qualità della vita e posizionare Castel San Giorgio in un ambito territorialmente più vasto, implementandone la competitività. In questi termini, è stato evidente l’irrimediabilità di una valorizzazione della posizione geografica del Comune, che, con al suo interno lo svincolo autostradale A30, si pone come cerniera strategica tra Agro Nocerino-sarnese e Valle dell’Irno, e dell’utilità di integrare in chiave logistica e produttiva proprio quella porzione di territorio, per rilanciare l’intero comune in una dimensione di area vasta che lo possa porre in rete con le realtà limitrofe, costruendo un insieme di soluzioni capaci di attrarre funzioni e attività. Quest’area a ridosso dello svincolo autostradale A30 in località Trivio/Codola3 si presenta particolarmente fertile per un approccio di ri-uso dell’esistente, perché presenta al suo interno una quota parte di aree dismesse e/o sottoutilizzate; è una parte di territorio in cui si accumula quasi l’intero patrimonio produttivo comunale, un’area riconosciuta all’unisono anche dalla comunità locale proprio nel corso del processo di partecipazione iniziale quale grossa potenzialità per implementare lo sviluppo della realtà sangiorgese. (Figura 1) E’ la parte di territorio che più di tutte esplicita la tradizionale vocazione manifatturiera del comune: ricami, pasta, legno, calzature, tutte qualità ed eccellenze che hanno caratterizzato l’intera produzione, soprattutto degli anni precedenti, di Castel San Giorgio, ma al contempo, per la presenza di grandi industrie e infrastrutture. Assecondando quanto emerso dal processo partecipativo, cercando ossia di perseguire l’obiettivo generale di valorizzazione e rilancio dell’identità locale e della competitività territoriale (risorse umane, luoghi, storia, culture, attività produttive) attraverso il rilancio dell’economia locale, il perseguimento dell’integrazione territoriale, il miglioramento dell’accessibilità territoriale e del sistema viario urbano e la valorizzazione delle risorse ambientali e culturali, per quell’area si è ipotizzato un unico grande polo di riconversione a sostegno della crescita socio-economica del comune, nel tentativo anche di rivitalizzare il protagonismo imprenditoriale locale. In sintesi, si è riconosciuta l’opportunità di mettere in campo un progetto di sviluppo capace di porre rimedio all’attuale condizione sottoutilizzata, disarmonica e frammentata dell’area al fine di restituirla al tessuto insediativo e produttivo locale. Un unico polo caratterizzato dalla concentrazione di microattività, non solo produttive, ma prevedendo una mixitè funzionale (residenziale, artigianale, logistico, direzionale, commerciale) dalla gestione unitaria ed integrata di infrastrutture e servizi centralizzati idonei a garantire gli obiettivi di sostenibilità insediativa.

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Il comune di Castel San Giorgio è caratterizzato da una diffusa frammentazione insediativa articolata in 11 frazioni: Torello, Aiello, Campomanfoli, Santa Maria a Favore, Cortedomini, Santa Croce, Lanzara, Casalnuovo-Taverna, Fimiani, Castelluccio, Trivio-Codola

Gerundo Roberto, Fasolino Isidoro, Izzo Maria Veronica

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Riciclare contenitori e ridefinire contenuti in aree produttive dell’abbandono

Figura 1. Comune di Castel San Giorgio: polo di riconversione ai margini occidentali e aree produttive diffuse sul territorio comunale.

Nuove azioni per nuovi contenuti Programmare quale progetto di sviluppo per un territorio di medie dimensioni, come quello di Castel San Giorgio, un unico grande polo di riconversione, nell’ottica di un sempre più attento contenimento del consumo di suolo, assecondando anche la fortunata natura strategica della sua posizione geografica per la presenza dello svincolo autostradale, equivale a trasformare la visione attuale delle aree industriali in luoghi di elevata qualità architettonica ed eco-compatibilità. Non più aree marginali e slegate dal contesto urbano, ma vere e proprie risorse, partecipi dei flussi che coinvolgono le città, e al contempo generatrici di investimenti ed occupazione; tentativo di suggerire approcci diversi e innovativi alla pianificazione del territorio e alla gestione imprenditoriale. Primo step nel perseguimento di tale obiettivo è senz’altro un’attenta analisi dell’esistente: indagini dirette ed indirette per indagare sia la domanda qualitativa e quantitativa in termini di logistica, funzioni da insediare e gestione di rifiuti e di energia, sia l’offerta in termini di residui di piano e aree dismesse e/o sottoutilizzate. Nel caso specifico, si è proceduto con un’approfondita ricognizione e specifica valutazione dello stato di attuazione del piano vigente; sono state elaborate delle schede di indagine che potessero poi sostanziarsi in una vera e propria anagrafe del dismesso e dell’inattuato, così da quantificare e qualificare le aree effettivamente disponibili alla riconversione. Al contempo, si è analizzato per il territorio in esame il trend evolutivo riferito all’ultimo decennio della domanda di insediamento di funzioni industriali, commerciali e artigianali; tale verifica ha suggerito le nuove funzioni da insediare e, risultando un importante decremento delle categorie industriali e commerciali, si è ipotizzato un mix funzionale che integrasse residenze (con una quota parte di social housing), direzionale e logistica. Tutto ciò nell’ottica della necessaria integrazione sia tra le funzioni esistenti e da insediare, sia tra l’intero insediamento rivitalizzato e il resto del territorio comunale. Data infatti la contiguità tra il polo di riconversione e il tessuto residenziale del centro urbano, nonché la stretta integrazione relazionale tra i due insediamenti, le aree di progressivo insediamento del polo hanno richiesto una progettazione di dettaglio al fine di perseguire una qualità edilizia ed urbanistica adeguata all’obiettivo di costruire un vero e proprio pezzo di città. La sperimentazione per il polo Trivio-Codola nel Comune di Castel San Giorgio è stata l’occasione per tentare di tracciare delle linee guida per una metodologia per interventi in aree produttive dismesse e/o sottoutilizzate in ambiti comunali e sovracomunali. Uno dei principali obiettivi è produrre un effetto città, in grado di mitigare l’impatto ambientale, generalmente degradante, di un agglomerato a destinazione produttiva di notevoli dimensioni; ciò deve perseguirsi anche tramite dotazioni impiantistiche, tecnologiche ma anche organizzative e gestionali, ai fini dell’efficienza insediativa nel suo insieme. Ai fini progettuali, sono stati metodologicamente individuati tre sistemi di riferimento: Gerundo Roberto, Fasolino Isidoro, Izzo Maria Veronica

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Riciclare contenitori e ridefinire contenuti in aree produttive dell’abbandono

• sistema insediativo; • sistema infrastrutturale; • sistema ambientale; per ciascun sistema, sono tracciate le azioni per il perseguimento di uno specifico obiettivo riconosciuto. Tabella I: Obiettivi e azioni per il sistema insediativo

Sistema insediativo Obiettivo Azioni

Riordino e riqualificazione insediativa morfologica e funzionale a) Razionalizzazione e diradamento mediante ristrutturazioni urbanistiche o edilizie, sostituzioni edilizie, demolizioni; b) Flessibilizzazione per consentire interventi di frazionamento o accorpamento di lotti o edifici; c) Riconversione dell’esistente in una ampia gamma di destinazioni urbanistiche , promuovendo la mixitè funzionale (artigianale, commerciale, direzionale, servizi alle imprese, edilizia residenziale sociale); d) Realizzazione di impianti per la produzione di energie alternative; e) Cessione di suoli per la realizzazione di attrezzature pubbliche o di uso pubblico, e di superfici per il miglioramento della mobilità

Tabella II: Obiettivi e azioni per il sistema infrastrutturale

Sistema infrastrutturale Obiettivo Azioni

Sviluppo della logistica a) Qualificazione e implementazione infrastrutturale per incrementare l’appetibilità strategica dell’area; b) Sviluppo di una rete stradale di distribuzione autonoma collegata efficientemente alla viabilità extraurbana; c) Monitoraggio dello stato di attuazione delle previsioni urbanistiche produttive

Specificando il livello di dettaglio normativo, sono stati individuati criteri progettuali per il perseguimento della qualità insediativa; a titolo esemplificativo: 1. la piattaforma stradale dovrà prevedere sezioni tipo comprendenti: corsie ciclabili, marciapiedi, aree di sosta, filari alberati con continuità lungo il tracciato della rete viaria; 2. tutti gli snodi della viabilità interna all’agglomerato e di raccordo con la rete stradale esterna dovranno essere progettate come rotatorie, al fine di ottenere più elevati livello di efficienza del sistema della mobilità complessiva dell’area; 3. ciascun lotto, oltre a prevedere l’arretramento della recinzione da destinare, piuttosto che a golfo di manovra degli automezzi, ad aree di spazi a verde e parcheggi, dovrà prevedere una latistante pista di accesso e sosta per i veicoli da trasporto (mezzi meccanici, autotreni, tir, autoarticolati, ecc.) tale da consentire l’immediato sgombro della sede stradale. 4. i fronti strada dei lotti devono essere alberati mediante doppio filare (salvo quanto già previsto dalle norme in corrispondenza delle intersezioni); 5. le recinzioni dovranno rispondere a elementi-tipo, anche con riferimento alla parte a luce, fissando il disegno dell’inferriata che sormonta il muretto di base; 6. ciascun lotto dovrà prevedere/contenere una adeguata dotazione di verde e parcheggi, assicurando un idoneo rapporto di permeabilità.

Gerundo Roberto, Fasolino Isidoro, Izzo Maria Veronica

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Riciclare contenitori e ridefinire contenuti in aree produttive dell’abbandono Tabella III: Obiettivi e azioni per il sistema ambientale

Sistema ambientale Obiettivo Azioni

Sostenibilità energetica e ambientale a) Ottimizzazione energetica degli insediamenti mediante: - produzione energie rinnovabili - efficienza energetica degli edifici - permeabilità dei suoli - recupero del patrimonio edilizio esistenti mediante interventi volti alla riconversione - orientamento degli edifici b) Impiego di materiali - utili alla riduzione dell’isola di calore - adeguati a contesti urbani (arredi, illuminazione, recinzioni, finiture, ecc.) (costruzione di parti di città) c) Organizzazione del verde: - di compensazione ambientale - di mitigazione ambientale in continuità con aree verdi esistenti e piantumate con essenze arboree autoctone (micro-rete ecologica)

Il progetto di riconversione prevedere incentivi all’intervento mediante la previsione di premialità edilizie, anche per favorire la delocalizzazione delle attività artigianali e terziarie dal centro urbano verso la nuova area rivitalizzata, con riconversione dei volumi di provenienza in attività residenziali e commerciali.

Prime conclusioni Ridefinire contenuti riciclando contenitori in aree produttive dismesse e/o sottoutilizzate nell’attuale panorama contemporaneo comporta il perseguimento di elevati standard di qualità rispondenti a criteri di sviluppo sostenibile, richiamando precise performances ambientali d’eccellenza, in grado di garantire non solo la tutela dell’ambiente quanto soprattutto l’eco-efficienza dell’intero intervento. Da un punto di vista urbanistico, ri-usare parti di territorio contribuisce inevitabilmente a contenere il consumo di suolo, con particolare riguardo alla salvaguardia del territorio agricolo, e concorre a ridurre la dispersione insediativa. Con riferimento al concetto di governance, tale approccio è assolutamente occasione di sperimentazione di forme innovative di sussidarietà orizzontale (pubblico-privato), nell’individuazione di strategie comportamentali che rendono più rapida ed efficace la programmazione, realizzazione e gestione di interventi di riqualificazione funzionale di tali aree, la cui sostenibilità si valuterà necessariamente in termini complessivi, includendo non solo gli aspetti ambientali, ma anche, inevitabilmente, quelli sociali ed economici.

Gerundo Roberto, Fasolino Isidoro, Izzo Maria Veronica

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Riciclare i margini della città contemporanea, Il caso studio di Hackney Wick e Fish Islands

Riciclare i margini della città contemporanea Il caso studio di Hackney Wick e Fish Islands La linea e il circolo: Taranto, Baltimore Irene Guida IUAV Università di Venezia Dipartimento di culture del progetto Email: ireneguida@iuav.it

Abstract La modernità ha costruito narrazioni demiurgiche delle azioni sul territorio che si basano sull’idea di progresso, la cui figura di riferimento è una linea, la cui modalità è il conflitto. Esistono però narrazioni che non descrivono conflitti ma generazioni successive e cicliche, la cui figura di riferimento è il cerchio. Attraverso la descrizione di due territori e di due città, Taranto e Baltimora, questo testo si propone di osservare un mutamento di paradigma nella descrizione del territorio, delle sue risorse, e in definitiva del concetto di natura e artificio. Parole chiave Cicli di vita, Taranto, Baltimora.

Introduzione Un viaggio in autobus in una estate calda di agosto, nel pieno di una crisi economica lunga e non congiunturale, con gli operai pendolari che stanno per iniziare il turno pomeridiano di lavoro in una grande fabbrica del Sud Italia nel vivo dello scandalo di un dilemma inedito: scegliere tra il diritto al lavoro e quello alla tutela della salute (Guida 2013). Una città sulla costa atlantica degli Stati Uniti, a pochi chilometri di distanza dalla più importante capitale del mondo, dove la speculazione edilizia vanta una tradizione secolare, e dove le ricerche degli ecologi mettono in guardia dal nascere di una nuova forma di segregazione, quella della qualità ambientale (McGrath 2008). La grande fabbrica è l'Ilva di Taranto, la città statunitense è Baltimora. Due racconti paralleli e molto distanti per scala, storia e tradizione, che però hanno alcuni tratti in comune e qualche lezione da cui potere imparare una riconfigurazione anche delle pratiche e del sapere degli urbanisti, perché se è vero che riciclo e riuso sono una forma di riduzione dell'entropia, è anche vero che senza una nuova forma e una riconfigurazione dei nostri saperi sarà difficile immaginare un futuro diverso perché non saremo in grado di cogliere le potenzialità proprie dei territori. La lezione che la vicenda dell'Ilva propone è quella di un paradigma di sviluppo che contrappone spazio banale e spazio reale, a scapito del secondo, producendo conflitti. La lezione di Baltimora è che non basta per la rigenerazione urbana pensare solo in termini di efficienza allocativa di risorse economiche e finanziarie, ma occorre mettere in campo dei saperi diversi, che vanno dalla biologia, alla botanica, dall'antropologia, all'ecologia, allo studiare un territorio in tempi lunghi. La conseguenza è che il concetto di natura così come ci è familiare e noto non esiste più, così come non è più possibile distinguere cicli puramente naturali da cicli tecnologici, perché le due categorie sono troppo ibride e le protesi tecnologiche ci precedono(Baudrillard 1994, cap. Maleficient Ecology: 78-88). Da cui l’aporia di testi à la Cradle to Cradle (McDonough and Braungart 2008), che propongono la scissione di cicli naturali e artificiali per ottenere una trasformazione energetica ottimale.

Arch. Annie Attademo, PhD in Urbanistica e Pianificazione Territoriale

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Ritratti

Figura 1. Queste foto sono state scattate lungo il viaggio di andata in autobus con gli operai che attraversano l'altopiano delle Murge e arrivano all'ILVA, sulla costa ionica, nell'agosto del 2012. Tutti, compresi gli autisti degli autobus, avevano il terrore della chiusura della fabbrica, nessuno di loro si poneva il problema del disastro ambientale, perché vivevano lontani, tantomeno temevano per la propria salute. Mentre avevano ben presente il rischio di perdere il posto di lavoro. I più anziani avevano un turno ridotto e lavoravano i campi, i piccoli appezzamenti che si tramandano nelle famiglie e che sono il risultato delle riforme agrarie. Alcuni dicono male applicate, ma applicate quanto basta a integrare orari ridotti di lavoro con un'attività che consente di ottenere un margine di guadagno tale da continuare il lavoro nei campi.

Corpi

Figura 2. Il turno cambia. Ce n'è uno dalle otto del mattino fino alle tre del pomeriggio, un altro dalle tre del pomeriggio alle dieci di sera, un terzo fino alle cinque del mattino, poi c'è la manuntenzione ordinaria degli impianti. Si riprende il giorno successivo. Questo è il cambio di turno pomeridiano.

Arch. Annie Attademo, PhD in Urbanistica e Pianificazione Territoriale

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Acciaio tra gli ulivi

Figura 3. Disegni di Flavio Costantini, in “Acciaio tra gli ulivi”, Italsider 1961. In questo libretto l’Italsider raccontava il paesaggio e le facce della grande trasformazione industriale portata dalla fabbrica di acciaio.

ILVA, Taranto 1961 – 2012 Italsider: Acciaio tra gli Ulivi (Italsider, 1961) è un testo pubblicato dall'Italsider nel 1961 in cui parole e immagini si alternano nel raccontare gli inizi dello "sviluppo" del territorio indotto dalla costruzione del polo industriale (Guida 2007). Tre anni dopo lo stabilimento inizierà la produzione. Il libretto contiene delle serigrafie e due saggi brevi ed è un auto-rappresentazione. Gli autori, che sono “la voce” dell'industria, dicono molto del contesto e delle aspirazioni di allora e delle ambiguità non ancora risolte, forse ne svelano molti lati in ombra. Le serigrafie sono di Flavio Costantini, grafico e pittore romano autodidatta che, dopo essere stato capitano della Marina Militare, era diventato famoso per avere raccontato con le sue immagini senza prospettiva, come icone bizantine, le figure più importanti del pensiero anarchico. In questo libretto le sue immagini illustrano uno scritto fra l'antropologico e il sociale di Mario Pomilio, uno scrittore napoletano presentato nell'introduzione come: «meridionale di Napoli, con interessi che di solito si attribuiscono agli scrittori del Nord, quelli che vivono in mezzo alle macchine. Ha scritto un romanzo, "Il Nuovo Corso", in cui si agitano i problemi dell'industria automatizzata e dei suoi rapporti con l'individuo e la collettività». Un secondo testo è a cura di un esperto di origini tarantine, Giuseppe di Nardi (Spinazzola, TA 1911 – Roma, 1992). Di Nardi è un economista, esperto di politica monetaria, di mercato del lavoro, di controllo sociale del mercato e pianificazione regionale, allievo di Giovanni De Maria. Giuseppe di Nardi fu consulente di molti enti pubblici, e una delle voci fra le più influenti a sostegno del Polo Industriale a Taranto. Fra le moltissime cariche istituzionali che ha ricoperto nella sua vita, c'è quella di direttore della società pubblica dei cantieri navali militari di Taranto, quella di consulente della Banca Commerciale Italiana, nonché la presidenza dell'associazione dei commercianti di olio di oliva. Questa auto–rappresentazione non ci presenta una fabbrica, ma quali cose la fabbrica cambierà, e come lo farà. Il caso di Taranto, così come presentato nelle pagine di questo libro, è il caso di una modernità anomala, perché avviene tardi, rispetto alle ambizioni di competizione con il resto dell'occidente industrializzato. In questa autorappresentazione, la modernità arriverà grazie all'unico episodio di capitalismo mai avvenuto nel contesto pre– moderno della Penisola Salentina: la costruzione della nuova acciaieria e del cementificio che ne utilizza le scorie (loppe d'altoforno) per produrre cemento Portland ad alta resistenza. Quando nel 1965 Giuseppe Saragat visita Taranto e l'Italsider, esiste la CECA, Comunità economica del carbone e dell'acciaio, l'Unione Europea è ancora un'utopia lontana e la generazione Erasmus non è ancora nata. A Taranto c'è un porto militare che non ha più commesse militari, ideale per trasformarsi in un hub logistico che importi carbone per alimentare una centrale elettrica, produrre acciaio e utilizzare le scorie per il cemento. Ci sono anche molte cave di calcare e magnesio, molta manodopera a basso costo, il sito è perfetto. Unico neo, la localizzazione. L'industria dell'acciao in Italia ha le sue sedi storiche a Piombino, in Toscana, a Bagnoli e a Arch. Annie Attademo, PhD in Urbanistica e Pianificazione Territoriale

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Cornigliano, in Liguria. Ilva è infatti il nome latino dell'isola d'Elba, dove si estraeva il carbone per le fabbriche di Piombino. L'acciaio di stato è sul Tirreno. La localizzazione a Taranto non fu facile da ottenere, e sarebbe stata impossibile senza la retorica dello sviluppo. Per questo era necessaria la descrizione di Taranto come città senza infrastruttura, isolata e bisognosa di un intervento poderoso. D'ora in poi questa sarà la strategia principale utilizzata per concentrare interventi, ordinari e straordinari, per concentrare infrastrutture e investimenti intorno a un'unica industria, quella dell'acciaio. Anche i documenti di Piano, spesso non attuati fino in fondo, come il Piano Tekne (AA. VV. 1962), testimoniano questa scelta di concentrare il futuro della città su un unico, grande monopolio industriale. Questo che segue è il racconto breve della nascita di un polo territoriale produttivo fra i più grandi d'Europa (Negri Zamagni, Sanfilippo 1988).

Figure lineari, figure circolari Se pensiamo adesso alle razionalizzazioni territoriali dovute al tipo di energia utilizzata, ci rendiamo conto che il modello è stato quello della distribuzione di energia in un motore a vapore. E la figura del corridoio, comune sia alla distribuzione di energia, che alla effettiva figura assunta dalle infrastrutture territoriali, acquista un significato tutt'altro che banale. Il passaggio dell'alimentazione del motore dal carbone al petrolio non ha fatto altro che intensificare sia il consumo di energia, che l'intensità del suo sfruttamento. Le reti globali hanno assunto e rimpiazzato in grande dimensione le stesse figure distributive delle istituzioni totali. A questo paradigma si sta sostituendo un altro, basato sulla circolarità degli effetti di reazione e azione dinamica fra le componenti differenti di ecosistemi. Da un lato questo impone di ripensare i livelli di lettura del territorio in termini sistemici (McHarg 1995), dall'altro questo implica pensare in termini di regolazioni dinamiche di flussi di materia in cui il limite fra naturale e artificiale diviene molto difficile da segnare e tutto assume la forma dello scarto, del dross (Berger 2007). Parlare di cicli di vita significa questo, leggere il territorio come ecosistema, pensarlo come una forma dinamica (Pickett, White 1984). La vicenda di Baltimora e la comunità di studiosi che gravita intorno al Baltimore Ecosystem Study racconta come si stia sviluppando questo nuovo paradigma.

Due, soli

Figura 4. In basso, l’area del porto, Downtown Baltimore. Una domenica pomeriggio di luglio, un uomo bianco in piedi davanti al monumento per le vittime di Auschwitz. In alto, i dintorni di Druid Park, nel tessuto consolidato di Baltimore. Campo e contro campo intorno a un uomo da solo, senza denti, che fuma una sigaretta.

Baltimore Baltimora è una città portuale sulla costa orientale degli Stati Uniti che deve il suo sviluppo precoce rispetto alle altre città rivali grazie alla presenza dei cantieri navali che producevano navi commerciali note per la loro velocità (Gottmann 1964). Con lo sviluppo della rete ferroviaria nel primo quarto dell'ottocento e poi della rete stradale dai primi del novecento, che hanno permesso a una serie di villaggi costieri e di stazioni di posta di diventare città polari Arch. Annie Attademo, PhD in Urbanistica e Pianificazione Territoriale

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allineate lungo corridoi di trasporto, l'importanza di Baltimora e la sua capacità competitiva sono diminuite, fino al crack definitivo del grande incendio del 1904, che è un caso eclatante di noir urbano (Petersen 2004). In una tranquilla domenica di febbraio, alle undici del mattino un passante nota del fumo al quarto piano di un edificio in mattoni rossi vicino al porto. Una serie sucessiva di esplosioni espande l'incendio a tutta l'area del porto, a mezzanotte i corpi dei pompieri di Washington non riescono ad avvitare le proprie pompe ai bocchettoni municipali di Baltimora, per questo si decide di usare la dinamite per fermare l'incendio. In tre giorni tutta l'area del porto è un cumulo di macerie. L'unica testimonianza che rimane di questa città sono le carte dettagliate delle compagnie di assicurazione. Simbolicamente, questo è l'inizio di Megalopoli, del corridoio urbano continuo che corre da Boston a Washington. Da questo momento in poi, la città portuale, che vive sostenuta dal vapore e dalle navi, diventa un luogo di pura speculazione economica. Fino alla condizione paradossale in cui si trova oggi, densamente spopolata per grandi tratti, attraversata da grandi autostrade, abitata da neri poverissimi, set apprezzato di serie poliziesche molto note (Olson 1980). Gli ecologi del Baltimore Long Term Ecosystem Study (“Baltimore Ecosystem Study” 2012) lavorano oggi su una definizione dinamica del territorio, dove le macchie ecologiche non sono definite una volta e per sempre dal tipo di specie colonizzatrice o dal tipo di insediamento abitativo (Steward T. A. Pickett and White 1985). Hanno piuttosto cercato di sviluppare sistemi anche di rappresentazione che mostrino la dinamica delle interazioni fra le diverse tessere del mosaico territoriale (Marshall and McGrath 2007), includendo nelle macchie in modo indifferente l'habitat umano e quello vegetale, per esempio. Questo vuole dire togliere la differenza fra naturale e artificiale, e pensare in termini di azioni e reazioni mutue. In qualche modo lo spazio diventa così un soggetto, rappresentabile in forma di matrice con azioni e retro–azioni circolari. In definitiva si tratta di pensare a scambi di flussi energetici, sotto diverse forme, non in senso letterale, non sono transazioni misurabili in termini di KWH, per intendersi. Sono flussi di acqua, di nutrienti, di materie organiche e inorganiche, che per essere analizzati richiedono una serie di dati e una elaborazione geografica e matematica continua, con una messa a punto di esperimenti ogni volta pensati per rilevare un flusso differente. In questo le interazioni umane (S.T.A. Pickett et al. 2008) non sono troppo diverse da quelle di insetti. In definitiva si sta affermando un nuovo paradigma. Baudrillard direbbe che in questo paradigma il vivente è un residuo, così come le immagini che ne ri-produciamo (“Jean Baudrillard – Biography”). La natura stessa, così come era stata pensata nel paradigma dello sviluppo, è un residuo, e gli esseri umani e le loro relazioni, anche. Si impone dunque una forma diversa di politica, di immaginazione analisi e soluzione di nuovi conflitti, generati da questo paradigma circolare e trasparente. Per dirla con Paola Viganò, si tratta di pensare in termini di razionalità ecologica (Viganò, 2013).

Bibliografia Baudrillard, J. (1994). L’illusion De La Fin, Stanford University Press. Berger, A. (2007). Drosscape: Wasting Land Urban America, Princeton Architectural Press. Gottmann, J. (1964). Megalopolis: The Urbanized Northeastern Seaboard of the United States.Parigi Guida, I. (2013). L’acciaio Tra Gli Ulivi; Il Caso Ilva Di Taranto Dalle Origini a Oggi. Linkiesta 2013. Marshall, V. and McGrath B. (2007). “Operationalising Patch Dynamics.” Architectural Design 77 (2) (March 1): 52–59. McGrath, B. (ed. 2008), Designing Patch Dynamics. Columbia University, Graduate School of Architecture. McHarg, Ian L. (1995). Design With Nature. San Val, Incorporated. McDonough, W. and Braungart, M. (2008).Cradle to Cradle. Vintage. Olson, S.H. (1980). Baltimore: The Building of an American City. Johns Hopkins University Press Baltimore. Petersen, Peter B. (2004). The Great Baltimore Fire. Maryland Historical Society. Pickett, Steward T. A., and Peter S. White. (1985.) The Ecology of Natural Disturbance and Patch Dynamics. Academic Press. Pickett, S.T.A., M.L. Cadenasso, J.M. Grove, P.M. Groffman, L.E. Band, C.G. Boone, W.R. Burch Jr, et al. (2008). “Beyond Urban Legends: An Emerging Framework of Urban Ecology, as Illustrated by the Baltimore Ecosystem Study.” BioScience 58 (2): 139–150. Viganò, P. (2011). I territori dell’urbanistica, Giavedoni. Viganò, P. et al. (eds.2013), Recycling City, Giavedoni. Viganò, P. (2013)"Ecological Rationality" in Resilience in Ecology and Urban Design - Linking Theory and Practice for Sustainable Cities. Springler.

Sitografia “Baltimore Ecosystem Study.” http://www.beslter.org/. “Jean Baudrillard – Biography.” http://www.egs.edu/faculty/jean-baudrillard/biography/. Arch. Annie Attademo, PhD in Urbanistica e Pianificazione Territoriale

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Irriciclabile. Fenomenologia dello spazio abbandonato e prospettive per il progetto urbanistico oltre il paradigma del riuso

Irriciclabile. Fenomenologia dello spazio abbandonato e prospettive per il progetto urbanistico oltre il paradigma del riuso Arturo Lanzani Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Email: arturo.lanzani@polimi.it Chiara Merlini Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Email: chiara.merlini@polimi.it; Federico Zanfi Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Email: federico.zanfi@polimi.it

Premessa Le note seguenti restituiscono i primi appunti di una riflessione che gli autori hanno iniziato a formulare nell’occasione offerta dall’atelier Riduci/riusa/ricicla. Nuovi paradigmi del progetto urbanistico? organizzato durante la Conferenza Siu 2013 a Napoli. Non vanno pertanto intese come la presentazione esaustiva di un lavoro di ricerca, ma piuttosto come una prima sistemazione di questioni aperte e interrogativi al fine di stimolare una riflessione collettiva attorno alla praticabilità di un programma di riuso edilizio diffuso nel nostro paese; discussione che è alla base del progetto Prin Recycle Italy e che proprio in occasione dell’atelier napoletano ha visto un primo momento di confronto.

Introduzione Con l’inizio del nuovo secolo l’esperienza di una crescita continua e inarrestabile dello spazio urbanizzato in forme prima concentrate, e poi diffuse e disperse nel territorio (Secchi 2005) non è più scontata nei paesi a sviluppo più maturo, e in particolare in Europa e negli Stati Uniti. Il ciclo di continua distruzione/ricostruzione del capitale fisso urbano che caratterizza la città moderna (e da Harvey magistralmente studiato in riferimento alla Parigi di Haussman di metà Ottocento e alla New York di Moses degli anni Cinquanta) con assai più frequenza che nel passato lascia ampi scarti nelle città, in alcuni estesi settori delle grandi metropoli, e soprattutto nei territori urbanizzati di più recente formazione. Il fenomeno è noto nelle città dell’Europa orientale, specialmente tedesche, e nelle città di industrializzazione fordista nella rustbelt negli Stati Uniti (Oswalt 2005; Coppola 2012). Tuttavia, in forme differenti, esso inizia a manifestarsi anche in altri contesti, secondo geografie e dinamiche di Arturo Lanzani, Chiara Merlini, Federico Zanfi

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volta in volta diverse. Talvolta in modo più pulviscolare e di non facile lettura, talora rivolto ai territori della stessa urbanizzazione diffusa, e non solo a città o parti di città tradizionali. Di fronte a queste dinamiche di abbandono e sottoutilizzo la prospettiva – in fondo ancora moderna – del riuso e della rifunzionalizzazione attraverso progetti urbani e nel quadro di una generalizzata renovatio urbis (Gregotti 1999; Secchi 2000) appare sempre meno praticabile. D’altra parte gli spazi abbandonati fanno ora più problema che in passato, un passato che pure ha visto spesso convivere la città con le rovine, in cui il nuovo è emerso entro condizioni spaziali imperfette (Olmo 1990). Questo, per almeno due ragioni. In primo luogo perché essi riguardano sempre più spesso materiali di una storia recente, a cui non riusciamo ad assegnare un valore memoriale o documentale, re-immettendoli secondo la prospettiva di Morris come un antico mobilio nel nostro vivere quotidiano (Choay 1995) o cogliendone l’enorme potenziale di senso (nella prospettiva di Simmel, o in quella così diversa di Benjamin). Ci è più facile assimilarli a scarti, rifiuti, macerie (Lynch 1992; Augé 2004). Non si tratta di una questione legata a una mancanza di distacco storico, o ad un sentimento di pietas che non ci ha ancora raggiunto ma che ci arriverà in futuro. Questa nostra diversa sensazione è inevitabile di fronte ad uno spazio urbanizzato nato in altri modi, come accatastamento di una molteplicità di oggetti-beni di consumo, con deboli legami con il suolo su cui sono “caduti” e con scarse o nulle relazioni reciproche. È una sensazione inevitabile di fronte a edifici che assomigliano più a un insieme di automobili abbandonate (e che però non possono radunarsi in prossimità di un impianto), che a un villaggio o a un acquedotto abbandonato espressione di una civiltà scomparsa. In secondo luogo perché la quantità di questi scarti entro un territorio che ha raggiunto livelli di urbanizzazione elevatissimi ci pone inevitabilmente una questione di sostenibilità ecologica: una questione che – qualunque sia il senso da assegnare a tali scarti – non si è posta per le porzioni di urbanizzazione che in passato sono state abbandonate. Conversione, rottamazione, riciclo sono termini che, affiancandosi e non sostituendosi a quelli di restauro o riuso, ci parlano di un tema che emerge non solo e non tanto per una nostra più elevata sensibilità ecologica, ma per un’effettiva nuova condizione di criticità ambientale su cui l’urbanizzazione mal fatta e gli scarti dell’urbanizzazione hanno un notevole peso (Grüntuch e Almut 2006; Petzet e Florian Heilmeyer 2012; Ciorra e Marini 2012). L’urbanistica nel suo fare ordinario, nei suoi strumenti progettuali e regolativi non è particolarmente attrezzata per affrontare questa nuova realtà. In particolare, se la prospettiva del riciclo, pure nelle relative ambiguità del temine, ha al suo attivo qualche riflessione nel panorama degli studi urbani e dell’architettura, la fase attuale chiede di mettere in agenda anche una indagine su quegli spazi che sembrano trovarsi oggi oltre la soglia di una loro possibile reimmissione in un ciclo di vita, o che perlomeno ritematizzano il loro ruolo potenziale come tasselli di una nuova condizione urbana e territoriale. Porre l’attenzione su ciò che, per varie ragioni, sembra “irriciclabile”, richiede allora di misurarsi, molto concretamente, con regole, vincoli, opportunità operative, condizioni di fattibilità del fare urbanistica, interrogandosi su come quest’ultima debba, per poter trattare questo inedito patrimonio di edifici, infrastrutture, suoli abbandonati, ridefinire i propri strumenti e trovare forse nuove relazioni con altre politiche e altri ambiti del sapere. Nelle note che seguono cominceremo a segnalare quattro possibili direzioni di lavoro, ponendoci qualche domanda su come questi diversi destini possono essere governati, o solo gestiti, dalla pratica urbanistica e/o dall’azione pubblica.

1 | Innescare riusi temporanei 1.1 Una prima famiglia di spazi “irriciclabili” comprende edifici e suoli sottoutilizzati o non più in uso, ove i manufatti e le opere di urbanizzazione s’incontrano ancora in un buono stato di conservazione, i cui soggetti proprietari non sono però più in grado di sostenerne sotto l’aspetto economico una adeguata manutenzione. Ritroviamo in questa famiglia una grande varietà di spazi: dal terreno agricolo marginale che non è più coltivato, al capannone abbandonato ormai non solo dalle attività produttive ma anche da quelle di magazzino, alla palazzina residenziale non più abitata in un contesto urbano non pregiato, all’edificio terziario non più utilizzato dalle aziende o addirittura mai occupato. Arturo Lanzani, Chiara Merlini, Federico Zanfi

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Se entro un certo periodo tali spazi non riescono a essere adattati dai proprietari in modo da rendere possibile qualche forma di valorizzazione o di nuovo utilizzo – ad esempio attraverso le classi di intervento più comunemente previste dai piani urbanistici, quali demolizione e ricostruzione, manutenzione straordinaria, ecc. – il loro prolungato stato di abbandono può generare situazioni di degrado e incidere negativamente sulla percezione di sicurezza e sui valori immobiliari dell’intorno urbano. 1.2 In casi come questi, poiché gli spazi in questione incorporano ancora un qualche valore pur non riuscendo a rientrare spontaneamente in un adeguato segmento di mercato dell’affitto o della vendita, possono essere praticate soluzioni di riuso temporaneo nell’attesa che il mercato immobiliare, e più in generale le condizioni urbane di contesto, consentano di immaginare operazioni di trasformazione più strutturali e a lungo termine. Una politica pubblica che si proponesse di fornire un sostegno deciso a tali forme di riuso dovrebbe prima di tutto supportare i proprietari intenzionati a concedere il proprio immobile secondo forme di comodato temporaneo e gratuito a soggetti terzi, favorendo l’incontro con intermediari che possano gestire l’organizzazione del processo di riuso. Qualora i proprietari però si dimostrassero non più in grado di intervenire sul proprio bene attraverso opportune opere di manutenzione, e là dove questo possa comportare conseguenze sul contesto particolarmente negative (per esempio relativamente ai temi della sicurezza), la comunità potrebbe forse svolgere anche un ruolo più attivo, intervenendo sul diritto d’uso di quel determinato bene e imponendone l’affido a soggetti altri, in grado di occuparlo temporaneamente e di garantirne al contempo la manutenzione. Una tale prospettiva si rivelerebbe in primo luogo vantaggiosa per il soggetto pubblico, ad esempio un Comune, che attraverso esperienze di riuso temporaneo potrebbe riuscire a ridurre e limitare le situazioni di sottoutilizzo, abbandono e insicurezza urbana entro il proprio territorio, oltre che organizzare – seppur temporaneamente – l’incontro tra l’offerta costituita da uno stock edilizio al momento inutilizzato e un segmento di domanda debole o “anomala” che non riesce con le proprie risorse ad accedere a spazi di cui sente necessità attraverso il mercato libero dell’affitto. Ma una tale prospettiva potrebbe rivelarsi conveniente anche per i proprietari, che durante il periodo della cessione in comodato d’uso gratuito avrebbero come contropartita la garanzia di manutenzione del loro bene da parte dei soggetti assegnatari (una manutenzione che in questi casi non sono in grado di svolgere), e eventualmente la possibilità di rientrare, sulla base di accordi sottoscritti tra i due soggetti, dei costi della tassazione sui propri immobili. In tale quadro, almeno tre sembrano le principali filiere lungo le quali è possibile prevedere forme di riuso temporaneo, e che potrebbero essere oggetto di specifiche politiche. In primo luogo un riuso di tipo residenziale, teso a fare incontrare gli alloggi oggi non occupati – singoli appartamenti quanto intere palazzine – da un lato con la domanda abitativa cui tradizionalmente si è tentato di rispondere con la produzione di edilizia residenziale sociale, da un altro lato con la domande abitativa più ‘intermittente’ e cangiante espressa da categorie quali studenti, immigrati o lavoratori temporanei (Lanzani 2007). In secondo luogo un riuso indirizzato prevalentemente verso edifici terziari o produttivi, e legato alla domanda di spazi flessibili espressa dalle nuove tipologie di piccola impresa o di professionisti e dal loro organizzarsi nelle forme dell’incubatore o del co-working (Overmeyer 2007). In terzo e ultimo luogo un riuso indirizzato ancora verso spazi produttivi, magazzini, o edifici di servizio dalle tipologie più particolari, e indirizzato prevalentemente a rispondere alla domanda di spazi culturali, ricreativi e aggregativi espressa dal mondo dalle associazioni (Haydn and Temel 2006; Inti e Inguaggiato 2011). In quest’ultimo caso, in presenza di oggetti complessi, il riuso potrebbe riguardare anche solo alcune parti del manufatto, consentendo alla proprietà di essere proporzionalmente esonerata dalla tassazione municipale sugli immobili. La durata nel tempo di questi contratti di comodato d’uso gratuito in cambio della manutenzione e della cura nei confronti dell’immobile occupato potrebbe attestarsi sulla durata standard del contratto di affitto stabilita per legge in relazione a ciascuna classe di immobili. 1.3 In questo quadro, il ruolo dell’urbanistica e del soggetto pubblico consisterebbe principalmente nell’accompagnare l’incontro tra due soggetti, nell’indirizzare le forme del riuso temporaneo entro uno Arturo Lanzani, Chiara Merlini, Federico Zanfi

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spettro di usi possibili e auspicabili, e allo stesso tempo nello svolgere ruolo di garanzia nei confronti del proprietario qualora il soggetto assegnatario dell’edificio non eseguisse la manutenzione del bene. Un ruolo che assomiglia a quello già svolto da soggetti quali “agenzia casa” – di natura pubblica o di “privato sociale” – in diverse città italiane, che svolgono un ruolo di intermediazione tra domanda e offerta di abitazioni e uffici, garantendo reddito e buon uso degli immobili ai proprietari e contemporaneamente canoni calmierati agli assegnatari degli spazi. Questi ultimi, nell’eseguire la manutenzione e gli interventi di adeguamento sugli spazi occupati – non soltanto sugli edifici in senso stretto, ma anche sui suoli e sugli spazi urbanizzati a essi pertinenti – produrrebbero indirettamente un beneficio a costo zero per la comunità – un ambiente urbano più curato e un implicito controllo sociale diffuso sul territorio – anche nelle condizioni di riusi minimali, comunque preferibili all’abbandono di suoli ed edifici. Il paesaggio che si otterrebbe, infine, attraverso l’ipotetica diffusione delle esperienze di riuso temporaneo estesa alla moltitudine degli spazi abbandonati e sottoutilizzati oggi presenti nelle le città italiane non sarebbe un paesaggio di eclatanti trasformazioni. Si tratterebbe piuttosto di una serie di trasformazioni soft, prevalentemente interne e legate alle pratiche d’uso, caratterizzate al più da minimi adeguamenti sulla struttura degli edifici: famiglie che riabitano alloggi sfitti, un consorzio di giovani imprese che popola nuovamente una torre di uffici non occupata, un consorzio di associazioni culturali che riutilizza un vecchio cinema in disuso.

2. Trasferire diritti volumetrici 2.1 Vi sono poi situazioni ove gli spazi “irriciclabili” sono edifici sottoutilizzati o abbandonati che ricadono entro quelle porzioni di urbanizzazione diffusa rimaste ai margini delle principali direttrici infrastrutturali e di sviluppo, che oggi non sono più in grado di offrire significativi aspetti di qualità dell’abitare appetibili per le famiglie, e tanto meno risultano competitive per l’insediamento di attività economiche in ragione della loro accessibilità non ottimale. Diversi osservatori hanno segnalato che è in tali ambiti che tendono oggi a concentrarsi i processi di sottoutilizzo e abbandono (Pasqualetto 2009; Di Vico 2010; Zanfi 2011): sono numerosi gli edifici – edifici residenziali, ma in modo particolare edifici produttivi – che in ragione delle condizioni d’isolamento, della scarsità di servizi disponibili e della bassa qualità dei manufatti stessi si ritrovano a essere sempre meno in grado di incontrare una domanda all’altezza delle aspettative dei proprietari (nonché, in molti casi, all’altezza degli investimenti da essi compiuti su quei beni nei decenni passati). 2.2 Per molti di questi spazi, anche se non eccessivamente degradati, è difficile immaginare una qualche forma di riutilizzo proprio in ragione di un posizionamento territoriale che non pare più compatibile con alcuna forma di investimento su quei beni: il valore che ancora risiede in quegli oggetti è allora unicamente legato alla loro massa edificata, al diritto edificatorio che questa incorpora. Un’ipotesi ultima di valorizzazione per questi fabbricati potrebbe allora risiedere nello smaterializzare i volumi dal luogo in cui si trovano e nel trasferirli altrove – laddove c’è domanda, ci sono condizioni infrastrutturali favorevoli, capitali attivabili entro un mercato immobiliare più dinamico, condizioni che possono essere ritrovate anche entro gli stessi ambiti territoriali ad urbanizzazione diffusa – generando in questo trasferimento un plusvalore tale da rendere possibili trasformazioni sul sito di partenza. È in primo luogo necessario domandarsi in che modo devono essere riconosciute e delimitate le aree da cui questi volumi possono essere prelevati, e quelle in cui gli stessi volumi possono essere ricostruiti. Le prime – aree dove cancellare i fabbricati e rarefare l’edificato – dovrebbero innanzitutto concentrarsi sul pulviscolo edificato residenziale e produttivo che punteggia alcune zone agricole oggi di difficile sostenibilità economica e attrattività tanto per le famiglie quanto per le imprese. Ma dovrebbero altresì concentrarsi sull’edificato presente lungo alcune fasce di esondazione fluviale, o ambiti di rischio idro-geologico, o sulle fasce costiere irrigidite nelle dinamiche ecologiche da una crosta edificata lesiva di potenziali turistici futuri, o su oggetti più puntuali e incongrui che confliggono con progetti di riqualificazione paesistica. In questi ambiti dovrebbero essere precisate alcune modalità-tipo di trattamento per i siti da cui i volumi vengono prelevati, dal ripristino di un suolo fertile coltivabile e ri-forestabile laddove questo è ancora possibile, a processi di ecogenesi Arturo Lanzani, Chiara Merlini, Federico Zanfi

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attraverso la demolizione e l’asportazione parziale dei materiali edilizi e la rinaturalizzazione attraverso il corso della vegetazione spontanea (si veda il par. 3). Le seconde – aree di ricostruzione dei volumi spostati e di consolidamento dell’urbanizzazione esistente – potrebbero avere una duplice natura. Da un lato potrebbero essere aree estese, caratterizzate da specifici tessuti edilizi e paesaggi dell’abitare, che richiedono (e che sarebbero in grado di sopportare sotto il profilo infrastrutturale e dello spazio pubblico) moderate operazioni di densificazione. In queste situazioni l’accento va posto sulla regolamentazione edilizia e urbanistica – quali regole e quali parametri per la densificazione – ammettendo che si tratterà di un processo incrementale distribuito in un tempo lungo, generando una lenta metamorfosi. Da un altro lato potrebbero essere zone più limitate ove operare con la forma del progetto urbano integrato. Situazioni caratterizzate da particolari condizioni di accessibilità collettiva, laddove i diritti edificatori necessari all’operazione immobiliare potrebbero arrivare in parte da edifici esistenti e riallocati, e in cui però – ancor più radicalmente che nel tradizionale progetto urbano – il disegno del suolo andrebbe inteso come disegno di “supporto” e semi-autonomo rispetto alla definizione del costruito, aprendo dunque a un processo edilizio realizzabile da più soggetti e in tempi differenti (più nella prospettiva proposta da B. Secchi nelle sue riflessioni sul “progetto di suolo” e ancor più chiaramente esposta da M. Desvigne e P. Latz nei loro ultimi progetti e scritti, che non secondo quella originaria del progetto urbano di L. Quaroni, M. De Sola Morales e V. Gregotti). 2.3 In questa prospettiva, sono diverse le questioni legate agli strumenti urbanistici che potrebbero essere messi in campo. In primo luogo, se assumiamo che questo meccanismo di trasferimento volumetrico possa svolgere una funzione di pubblica utilità – in particolar modo quando preleva volumi da situazioni insediative critiche – potrebbe essere stabilita una quota minima obbligatoria (il 50%?) relativa ai volumi delle nuove costruzioni da reperirsi attraverso il trasferimento di volumi già esistenti. Questo elemento – accanto alla cessione di aree a standard (eventualmente ridimensionate rispetto alla normativa attuale) e aree di compensazione ambientale (non ancora introdotte a livello normativo) – contribuirebbe a generare una necessaria “domanda” di volumi, da reperirsi nei comparti indicati dai Piani. In relazione a questo punto, va segnalato come sia comunque indispensabile limitare la produzione di nuovi diritti edificatori attraverso un utilizzo “sconfinato” della perequazione (Camagni 2012) o dalle previsioni perduranti di ampie aree di espansione su aree agricole. Un secondo aspetto, poi, riguarda l’intensificazione del valore del volume trasferito. Non soltanto è opportuno che i comparti definiscano le aree di prelievo e di atterraggio considerando il valore posizionale dei rispettivi suoli in modo da rendere economicamente sostenibile il trasferimento, ma può essere opportuno introdurre un delta aggiuntivo rispetto alla volumetria di partenza per rendere possibile una metamorfosi del suolo liberato dall’edificio originario coerente con gli indirizzi urbanistici su quell’area (ad esempio un uso pubblico dello spazio abbandonato, un adeguato processo di demolizione e ripristino paesaggistico, una onerosa bonifica). Un terzo rilevante aspetto riguarda infine l’ambito amministrativo di tali aree, che qui solo accenniamo: operare a livello comunale non è infatti sempre possibile e spesso è necessario e opportuno operare a scala vasta (ad esempio a livello provinciale o di consorzio di Comuni, come nel caso di un ipotetico trasferimento di volumi produttivi nell’ambito bergamasco, dalla Val Seriana agli assi della Pedemontana o della BreBeMi), con le difficoltà regolative poste dal trasferimento di volumi tra diversi Comuni e la necessità di individuare correttivi tesi a limitare squilibri e rendite di posizione tra proprietari di terreni appartenenti a Comuni diversi. All’interno di tale quadro, lo scenario che si delinea è quello di una incrementale ricomposizione urbanistica entro aree di diradamento e aree di consolidamento. Questo processo da un lato fa leva sulle marcate differenze che il mercato immobiliare fa emergere oggi all’interno dei contesi a urbanizzazione diffusa, consentendo di tutelare e talvolta di valorizzare il patrimonio immobiliare di un ceto medio altrimenti destinati all’abbandono. Da un altro lato ragiona su alcune urgenze ambientali e di finanza locale che interessano oggi gli stessi territori, consentendo un più efficiente utilizzo di adeguati tratti di capitale fisso esistente, e operazioni mirate di riqualificazione paesaggistica.

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3. Governare l’ecogenesi 3.1 Una terza famiglia di spazi “irriciclabili” include le condizioni segnate da un processo di deperimento irreversibile, legato al definitivo ritrarsi della presenza umana. All’origine del loro abbandono vi sono naturalmente ragioni molteplici e disomogenee: l’utilizzo non è più possibile, neppure nelle forme provvisorie e temporanee sopra richiamate, perché le strutture sono diventate inadatte o fatiscenti, o perché sono ormai inefficienti e costose e non incontrano più alcuna domanda; i capitali e le risorse indispensabili a garantire almeno la manutenzione di manufatti spesso mal costruiti e soggetti a un invecchiamento precoce vengono meno; il meccanismo del trasferimento di volume non risulta vantaggioso e non riesce ad attivarsi; ecc. Si tratta di un insieme di spazi molto variegato: i tasselli più invecchiati della città diffusa (la casa su lotto con giardino che talvolta nel passaggio generazionale smette di essere una risorsa fondamentale nell’economia familiare per diventare un peso difficile da gestire); il villaggio turistico di cui rimane il solo scheletro vuoto perché consumato o rimasto incompiuto; le porzioni di periferia urbana più povera in cui non si riesce a innescare alcun processo di riqualificazione; le case abusive non finite e degradate che non incrociano più alcuna domanda abitativa; le strutture commerciali invecchiate perché sostituite da nuovi formati; i tanti manufatti legati al ritrarsi dell’agricoltura o del lavoro; ecc. 3.2 Nonostante la loro varietà, molti di questi spazi che rimangono oggi come residui inutilizzabili riverberandosi criticamente su contesti più ampi, hanno forse alcune caratteristiche peculiari, che non appartengono a precedenti stagioni della dismissione e dell’abbandono (Boeri e Secchi 1990). Anzitutto testimoniano di una storia recente e di un paesaggio ordinario, fatto di edifici anonimi e spesso di poco valore, in cui il degrado ci appare particolarmente ambiguo e spiazzante, privo di qualsiasi suggestione – più di quanto ad esempio non avvenga per lo spazio della fabbrica moderna che ci siamo ormai abituati a pensare entro un ciclo che può compiersi e associando dismissione ed eccezionalità (Broggini 2009). In secondo luogo va considerata la loro ubicazione spesso marginale: l’abbandono riguarda spesso piccoli tasselli dei territori di frangia o diffusi, edifici isolati nei fondovalle, lungo le coste, in aree in cui l’agricoltura è ancora presente, nelle montagne che vedono un declino del turismo, ecc. Questi due caratteri – la loro “normalità” e la loro localizzazione pulviscolare – suggeriscono forse, data l’impossibilità di attivare altre direzioni di trasformazione, la possibilità che s’inneschi un processo di riappropriazione virtuosa da parte della natura. 3.3 In questo quadro, quali possono essere gli orientamenti per un intervento che sappia trattare la loro presenza problematica avendo a cura il bene pubblico? Si profila qui un’azione a bassissima intensità di capitale finalizzata a sostenere e indirizzare questi processi di transizione verso una nuova natura. Tre sono gli aspetti più rilevanti. Anzitutto una prospettiva di questo tipo richiede un ripensamento dei temi della bonifica e della demolizione (e quindi una revisione dell’attuale quadro normativo). L’ordinarietà dei manufatti interessati potrebbe consentire di attivare bonifiche parziali, che si limitino alla rimozione degli elementi più problematici sotto il profilo ecologico e ambientale (l’asportazione dell’amianto, del serbatoio di gasolio, ecc.). Eliminati questi elementi di rischio, la demolizione potrebbe cambiare in parte la sua natura. Non più un’azione, spesso onerosa e riservata a eventi eccezionali, di totale cancellazione di ciò che esiste, in cui si riporta il suolo a una condizione antecedente l’utilizzo a fronte della produzione di scarti e rifiuti da smaltire, all’oggi ancora difficilmente riciclabili nelle loro componenti (Viale 2000). Piuttosto la demolizione potrebbe diventare una pratica relativamente più “ordinaria” e coerente con l’attivarsi di una rinaturalizzazione (Terranova 1997; Criconia 1998; Merlini 2008). Per fare questo sarebbero naturalmente necessarie nuove forme di regolazione. La produzione di macerie, svincolata dall’attuale obbligo di rimozione e accompagnata alla semplice immissione di nuova terra di coltura e alla semina, potrebbe ad esempio non essere più un rifiuto, per inserirsi in un nuovo ciclo in cui erbacce spontanee e arbusti possono contribuire a dar forma a nuovi paesaggi (Clément 2006; Lynch 1992). In secondo luogo occorre chiedersi se e come questa rinaturalizzazione possa essere orientata e quale ruolo può giocare il soggetto pubblico. Arturo Lanzani, Chiara Merlini, Federico Zanfi

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Dal punto di vista urbanistico, la questione diventa individuare quei punti in cui una trasformazione di questo tipo può rendersi possibile o auspicabile, e definirne le condizioni: in quali contesti la restituzione a uno stato di natura può assumere aspetti virtuosi? Quali tipi di spazio ne possano essere interessati? Entro quali dimensioni temporali si può attivare questo ciclo di abbandono-demolizionenuova natura? Quali set di regole e quali strumenti possono essere messi in campo per incentivare i processi? Quale patto si ridefinisce tra i vari attori? (in tal senso ad esempio occorrerebbe definire le reciproche convenienze: dall’obbligo di demolizione da parte dei proprietari di immobili fatiscenti che ricadono entro alcune situazioni, alla relativa defiscalizzazione, alla eventuale modifica dei parametri urbanistici). Parallelamente, sta il contributo delle scienze ambientali nell’indicare i modi con cui i residui lasciati dall’abbandono possono diventare elementi di un terzo paesaggio, in cui vegetazione spontanea e piante infestanti, con la loro rapida e tenace proliferazione, diventano protagoniste di questo lavorio della natura. Le tecniche di bonifica biologica dei suoli, basate sulla capacità di alcune piante di estrarre o contenere agenti contaminanti presenti nel suolo e nelle acque (metalli, pesticidi, solventi, idrocarburi) possono ad esempio assumere un ruolo importante nel creare nuove condizioni per l’insediamento della vegetazione (Geroldi 2010). Tutto ciò entro un’attenta valutazione che consideri da un lato i vantaggi legati a costi relativamente ridotti e alla semplicità delle operazioni e dall’altro, i limiti dovuti ai tempi lunghi spesso necessari all’attivarsi di questi processi. 3.4 Infine, occorre chiedersi quale scenario avremmo qualora si attivassero diffusamente simili processi di ecogenesi. I processi di riappropriazione, proprio per la natura discontinua dei luoghi dell’abbandono e per le ragioni differenziate che sono alla loro base (Olmo 1990), potrebbero configurare un paesaggio fatto di elementi di naturalità “selvaggia”, o comunque non “addomesticata” per certi versi inedito, e tale da riconfigurare in parte tipi di relazione ed esperienze possibili. Ciò ha risvolti differenti. In alcune condizioni potrebbe emergere un paesaggio con una significativa valenza ecologica (i lotti rinaturalizzati come stepping stones alternativi ai corridoi ecologici); per contro, in altri contesti, il processo potrebbe attivarsi dando luogo ad un ambiente con valori modesti sul piano della salubrità e della sicurezza, in ragione ad esempio della mancata rimozione delle macerie, che non consentirebbe un recupero significativo di permeabilità dei suoli (Pileri e Granata 2012). Infine questo “lasciar fare” alla natura comporta necessariamente una ridefinizione del rapporto con i luoghi, delle assegnazioni di senso come della loro praticabilità. Il piccolo lotto rinaturalizzato, ad esempio, può essere parte di più ampi sistemi dello spazio aperto ma, mantenendo una relativa “pericolosità”, potrebbe per un certo tempo essere escluso dalla rete della frequentazione (Clément 2006; Aa.Vv. 2010).

4. Mettere in sicurezza 4.1 Il campionario degli spazi abbandonati con cui ci dovremo sempre più misurare è estremamente variegato non solo perché vi appartengono materiali differenti. Essi sono molto diversificati anche in ragione del senso o del significato simbolico che possono avere o eventualmente acquisire. Il rapido consumo di alcuni spazi e manufatti del territorio contemporaneo, ad esempio, non è interessato dalla condivisione di significato che rintracciamo in parte nella stagione della dismissione industriale degli scorsi decenni (Boeri e Secchi 1990). La fabbrica abbandonata (la grande industria storica ma anche quelle presenze industriali che hanno segnato l’identità locale in molti piccoli e medi centri), può assumere un valore di testimonianza che è probabilmente negato al degrado e all’abbandono della piccola palazzina o della villetta nel diffuso, o allo scheletro vuoto di un capannone prefabbricato che magari non è mai stato utilizzato. Una difficoltà ad assegnare un senso a quel poco che rimane quando l’abbandono prevale che, tra altri aspetti, contribuisce a delineare un quadro di condizioni nuovo, in cui saremo costretti a convivere, nella quotidianità, con le macerie oltre che con le rovine (Augé 2004). 4.2 Nei casi in cui la scarsità di risorse non consenta neppure di demolire e bonificare, come trattare allora quest’ultima famiglia di resti “irriciclabili” che non appartengono né a una condizione di Arturo Lanzani, Chiara Merlini, Federico Zanfi

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eccezionalità, né al fisiologico succedersi di crescita e rimozione che si rintraccia nella storia lunga della città europea? (Choay 1998). La via che ci sembra più praticabile è quella che circoscrive l’intervento, limitandolo a una semplice azione di messa in sicurezza. Con due possibili flessioni. In un primo caso, lo spazio abbandonato può essere considerato una “rovina” contemporanea. Si tratta di quegli edifici ormai in stato di avanzato degrado ma che hanno un valore come memoria, perché conservano una porzione del loro significato o perché ne possono, eventualmente, assumere di nuovi (la cascina, la struttura industriale, la vecchia scuola, ecc.). In una nuova accezione della conservazione che sappia interpretare anche questo tipo di “patrimonio”, queste strutture non più riutilizzabili potrebbero essere “congelate” nel loro stato rendendole sicure, o accompagnate in un lento declino senza rischi (controllando la tenuta delle strutture, eventualmente rimuovendo materiali inquinanti, segnalando opportunamente il loro stato, ecc.). Ciò naturalmente potrebbe essere maggiormente praticabile là dove la loro sopravvivenza come rovina può essere inserita entro un più ampio contesto dotato di senso (una struttura industriale che diventa uno dei materiali di un parco, per esempio) e dove il ruolo del soggetto pubblico può essere più attivo. In altri casi gli spazi sono più simili a “macerie”. Il trattamento sopra richiamato qui non è possibile, vuoi perché l’irrilevanza del luogo non giustifica l’esposizione della rovina, vuoi perché le ragioni della sicurezza chiedono interventi differenti. In questi casi lo spazio abbandonato potrebbe semplicemente essere recintato; la sua presenza si renderebbe parte del paesaggio attraverso il semplice isolamento della sua condizione di degrado, accettando di nascondere ciò che potrebbe non essere altro che un cumulo di macerie. Reso innocuo tutto ciò che sta dentro il recinto (ad esempio con la rimozione solo dei materiali più inquinanti), il tema diventa essenzialmente l’architettura di questo recinto e il suo contributo alla definizione del paesaggio. Il recinto dovrà allora essere pensato in riferimento ai contesti, riservando cura sia alla sua configurazione materiale (forma, altezze, materiali, ecc.) sia alla questione della durata. Se, ad esempio, il manufatto in abbandono si trova in una situazione in cui potrebbe attivarsi una riappropriazione da parte della natura, la stessa recinzione dovrà essere un elemento deperibile e privo di residui (una rete non plastificata, ad esempio, dura circa trenta anni); se viceversa si dovrà recintare un sito contaminato, o che difficilmente potrà essere oggetto di un processo di virtuosa ecogenesi, allora anche il recinto sarà durevole e segnerà con la sua forma un confine netto e invalicabile. 4.3 Nei due casi, evidentemente, lo scenario cambia; nel primo caso l’edificio abbandonato, anche solo attraverso la semplice messa in sicurezza, conserva o amplifica il suo significato e si rende disponibile a differenti esperienze; nel secondo caso il recinto isola delle situazioni con cui potrebbero darsi relazioni differenti, eventualmente limitate alla sola percezione. Tutto ciò ha ripercussioni su piani diversi. Da un lato si ridefiniscono alcuni compiti per l’urbanista, a scale diverse: una voce che, tra altre, contribuisce all’assegnazione di giudizi ai luoghi, ma anche che fissa regole sulla buona costruzione di alcuni manufatti elementari. Dall’altro si devono forse ridefinire le relazioni tra i soggetti interessati entro quadri legislativi che siano adeguati alle nuove condizioni (dalle ordinanze di messa in sicurezza, all’esproprio, a eventuali altri provvedimenti finalizzati a garantire l’intervento da parte dei privati). Riferimenti bibliografici Aa. Vv. (2010), “Above ruins”, Lotus, n.144 Augé, M. (2004), Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino Boeri, S., Secchi, B. (1990), (a cura di), “I territori abbandonati”, Rassegna, n.42 Broggini, O. (2009), Le rovine del Novecento. Rifiuti, rottami, ruderi e altre eredità, Diabasis, Reggio Emilia Camagni, R. (2012) “Verso una perequazione ‘sconfinata’: contraddizioni, inefficacia e iniquità”, in Arcipelagomilano (online). [accessibile in www.arcipelagomilano.org/archives] Choay, F. (1995), L’allegoria del patrimonio, Officina, Roma Choay, F. (1988), “Sulla demolizione/conservazione”, in: Criconia, A., (a cura di), Figure della demolizione. Il carattere instabile della città contemporanea, Costa & Nolan, Genova Milano Arturo Lanzani, Chiara Merlini, Federico Zanfi

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Irriciclabile. Fenomenologia dello spazio abbandonato e prospettive per il progetto urbanistico oltre il paradigma del riuso

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Arturo Lanzani, Chiara Merlini, Federico Zanfi

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Indifferenza e consapevolezza. Territori del consumo e tattiche di riciclo

Indifferenza e consapevolezza. Territori del consumo e tattiche di riciclo Massimo Lanzi Università degli Studi di Napoli “FedericoII” Facoltà di Architettura Email: massimo.lanzi@gmail.com

Abstract Di fronte all’insufficienza dei tradizionali strumenti urbanistici normodipendenti e della costruzione di repertori meramente descrittivi, il paper intende proporre l’individuazione di alcune categorie interpretative (temi dello sguardo) in grado di restituire un doppio livello di contenuti parametrici e di indirizzo e di interpretare la complessità dei territori del consumo. Attraverso tali categorie saranno avanzati specifici quesiti al progetto di riciclo e di riuso di questi territori nei termini di un’inversione del rapporto tra pieni e vuoti -a causa della povertà e della serialità dei materiali con cui sono stati costruiti questi territori ma soprattutto della scarsa qualità degli spazi verdi e grigi che li connotano- e di una riflessione sulla costruzione di una misura urbana che non appartiene ad uno scenario di crescita e di espansione ma alla reinvenzione del presente. Parole chiave Dismissione commerciale, demalling, sostenibilità

Consumosfera e territori del consumo Il consumo è, tra le attività umane, quella con la quale ci confrontiamo quotidianamente e che, sin dalla sua comparsa, si è imposta come il continuum semantico all’interno del quale si è costruita l’esperienza urbana come la conosciamo oggi. L’agire consumistico, nel suo intreccio di seduzione e di identità sociale, è divenuto il principio organizzatore delle relazioni tra individui, merci e pratiche: uno stato di necessità che ha disegnato i modi di fruire il territorio. Le azioni dei consumatori non sono più entità a sé stanti, ma si configurano come eventi significativi, con una tale forza pervasiva da invadere e assoggettare tutti gli spazi con cui vengono a contatto: l’economia, la politica, i mass-media, la scuola, la famiglia devono oggi, tutti, relazionarsi con il potere del consumo. Imponendosi come unico tramite di connessione con il reale, lo spazio del consumo si è identificato e confuso con lo spazio della vita urbana sino a definire un’esperienza totale, ricca, discontinua e indefinitamente transitoria, all’interno della quale si consumano spazio fisico, merci, relazioni personali ed emozioni. Questa 'consumosfera', che stravolge i tradizionali rapporti pubblico-privato ed esterno-interno, non appartiene a nessun territorio, ma si fa carico di descriverne la qualità e la riconoscibilità estendendo la sua logica di messa in scena spettacolare all’intera città, trasformandola in una gigantesca 'supermerce'. Spazio di superfici e non di profondità, la consumosfera utilizza vetrine e schermi, insegne e manifesti e tutti i dispositivi visuali del nostro tempo per dare luogo ad un progetto esperenziale all’interno del quale la cultura del consumo genera immagini e identità per una forma della città del tutto nuova. Un 'territorio del consumo' fluido e incantato, fatto di luoghi reali e luoghi virtuali, di corpi e di immagini, di ordine e di eccesso, attraversato dalle reti infrastrutturali e da quelle immateriali della comunicazione. Qualunque tentativo di restituire una cartografia della consumosfera dovrà quindi soffermarsi, non tanto sulla sua dimensione reale e sensibile, quanto su quella simbolica e rappresentabile che la avvolge e ne costituisce lo spazio di confronto. Questa interpretazione della consumosfera come un luogo semiotico aperto e vitale, in gradi creare logiche e pratiche spaziali e di assumere significati, se da un lato afferma e rende comune un’interpretazione esperenziale della città dall’altro espone drammaticamente al rischio del suo opposto: uno scenario diverso da quello della Massimo Lanzi

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crescita incondizionata che ci farebbe ereditare un territorio martoriato e costellato di cadaveri edilizi isolati in un mare d’asfalto. Il fenomeno dei greyfields statunitensi ha già dimostrato, sul finire degli anni Novanta del XX secolo, come l’introduzione di nuovi format commerciali e il venir meno di diffuse condizioni di profittabilità economica abbiano determinato il declino delle due icone pop della cultura del consumo, lo shopping mall e la strip. Ma è con la congiuntura depressiva determinata dalle crisi economico-finanziarie del 2008-2011 che si impongono radicali cambiamenti nelle priorità e nelle pratiche d’uso del territorio, in particolare per quanto riguarda le tendenze riguardanti la mobilità privata e gli stili di consumo. Si pone, in termini ancora più drammatici che in passato -con esiti che, per la prima volta, possiamo riconoscere anche nel nostro paese- la questione del declino e del necessario ripensamento del modello di sviluppo dei territori del consumo, dando voce e forza ai temi della sostenibilità dei modelli di sviluppo territoriale, della riduzione del consumo di suolo, del riuso e del riciclo urbano. Emerge, quindi, la necessità di interrogarsi sul ruolo che tali contesti hanno assunto, e possono assumere in futuro, nel definire pratiche d’uso del territorio, sul rapporto tra consumo e spazio pubblico ed elaborare un contributo alla lettura di questi territori nel rapporto tra consumo e materiali urbani e territoriali. In questo senso, il presente contributo intende concentrarsi nell’individuazione di categorie interpretative utili a descrive le trasformazioni che hanno investito i territori del consumo e a definire indirizzi operativi con specifico riferimento all’ambito, poco indagato e spesso frainteso, dei centri commerciali integrati. Questa scelta, che risponde ad una evidente necessità di sintesi nell’eterogeneità e nella complessità dei contesti della consumosfera, da un lato si giustifica perché riconosce a queste macchine territoriali, per la ricchezza di funzioni che accolgono al loro interno e per il loro livello di organizzazione spaziale, un ruolo fondamentale nella costruzione dell’esperienza del territorio metropolitano. Dall’altro perché, per propria natura, esse definiscono un ampio repertorio di soluzioni spaziali di recinti e di oggetti contenuti al loro interno; e proprio la capacità di questi oggetti di relazionarsi con lo spazio interno al proprio recinto e con lo spazio esterno diventa fondamentale, non solo in un’ipotesi di riuso e di definizione di un nuovo ruolo territoriale, ma soprattutto per immaginare nuove prospettive progettuali. Ovviamente le categorie individuate, così come gli indirizzi operativi, non hanno alcuna volontà o pretesa di esaurire la complessità della scena metropolitana o di definire una teoria o un modello. Piuttosto intendono suggerire uno sguardo nuovo grazie al quale sia possibile superare una lettura per oggetti isolati e autonomi, indifferenti a regole più generali di funzionamento, e riconoscere, invece, elementi che prendono forma dall’interpretazione della specificità dei contesti insediativi e alla cui strutturazione, fisica, formale e funzionale, concorrono. Parti attive di un disegno di scala più vasta che superata un’idea di organizzazione territoriale per recinti, più o meno, monofunzionali diano il via ad una revisione dei modi di costruzione del processo conoscitivo e progettuale definendo nuovi valori attraverso i quali restituire visibilità complessità e consapevolezza al territorio urbanizzato e alle sue forme d’uso.

Categorie dello sguardo La crisi che stiamo attraversando ha messo in discussione il consumo e la mobilità privata come elementi di ordinamento territoriale, facendo emergere rielaborazioni delle pratiche e suggestioni che, sebbene occasionali e riferite a situazioni contingenti, intendono favorire una nuova idea di città. Le due categorie interpretative che vengono proposte, per quanto eterogenee, intendono confrontarsi con un presente ancora impreparato a progettualità inattese e cogliere, anche se in maniera parziale, tendenze di trasformazione dalle quali imparare l’attitudine alla adattattività e alla flessibilità e direzioni progettuali da intercettare. La prima categoria è quella del demalling, inteso non solo come approccio operativo per il recupero dei contenitori commerciali ma come vero e proprio concept da applicare a monte della progettazione e del disegno del territorio. La seconda è quella della 'sostenibilità', intesa non solo nei termini ambientali ma in quelli sociali della somministrazione di servizi e spazi di uso pubblico e del ribaltamento dell’introversione dei recinti. Si tratta di categorie flessibili che, delimitando un tema più che una forma spaziale, ci permettono di superare i pregiudizi della riflessione disciplinare nei confronti dei grandi contenitori commerciali e, allo stesso tempo, consentono di fornire una dimensione descrittiva ed una progettuale, indirizzando la costruzione di un approccio legato all’accettazione della complessità e della dinamicità del territorio e che vede nell’urbanistica una scienza leggera.

Demalling Demalling e greyfield sono termini che ricorrono ormai frequentemente, non solo nella letteratura scientifica, ma anche nella pubblicistica politica e di marketing. Massimo Lanzi

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Letteralmente, il termine demalling identifica il processo di dismissione e riuso degli shopping mall che si è avuto negli Stati Uniti a partire dagli anni Novanta del Novecento come conseguenza di un diffuso processo di abbandono immobiliare. Tale processo, in parte giustificato da un mercato pressoché saturo e caratterizzato da un rapidissima obsolescenza, è stato accentuato dalla grave recessione economica dei primi anni Duemila e ha trasformato numerose aree commerciali in zone abbandonate e presidiate da grigi scatoloni fatiscenti: i greyfields. I mall abbandonati, sono diventati, in breve tempo il simbolo del declino della formula tradizionale del centro commerciale e hanno generato un intenso dibattito disciplinare sul ripensamento della città diffusa e sulla necessità di confrontarsi con la crisi. All’interno di questo dibattito, che si confronta con la rinnovata disponibilità di risorse territoriali e con la necessità di trovare per esse nuovi usi e nuove modalità di lettura, il demalling diventa lo strumento per affrontare la dismissione come una significativa opportunità per ridisegnare il territorio urbano, ipotizzando indirizzi strategici e progettuali per la riqualificazione degli edifici e delle aree in cui ricadono. Infatti, se molti operatori si sono limitati a intervenire con tecniche di rigenerazione (refurbishment) della vitalità economica dei loro immobili (maggiore caratterizzazione architettonica e riorganizzazione del mix e dell’offerta commerciale al fine di attirare nuovi acquirenti) le dismissioni sono diventate anche l’occasione la realizzazione di insediamenti mixed-use, incentrati su centri commerciali open-air o per interventi infill development di riuso del suolo per fini non immobiliari ( serbatoi di naturalità, aree agricole, arede verdi suburbane…). In questo modo si riponde al bisogno di un modello di città alternativo allo scatolone extraurbano diffondendo quartieri urbani e aree attrezzate fra sobborghi sparpagliati e città sdentate.

Sostenibilità I centri commerciali sono nati e cresciuti alimentandosi dello sviluppo incessante della mobilità privata e contribuendo in maniera rilevante ad un uso dissipativo delle risorse naturali con ricadute molteplici dirette e indirette: dall'impermeabilizzazione dei suoli ai costi energetici di gestione e di climatizzazione (un centro commerciale consuma un quarto del suo budget per l’illuminazione, mentre gran parte del restante budget viene speso per la climatizzazione degli ambienti e per la refrigerazione e la conservazione degli alimenti), dalla congestione veicolare alla produzione di rifiuti e al loro smaltimento, passando per il consumo delle risorse idriche. Negli ultimi anni, a seguito della sempre maggiore sensibilità dei consumatori rispetto ai temi dell’ecologia e del consumo sostenibile, e di una maggiore propensione al risparmio per effetto della crisi, i temi della consapevolezza ambientale e del costo aggiuntivo indotto dai modelli di consumo sono diventati temi centrali nella definizione dell’attrattività di un centro commerciale e della sua redditività. Ne è scaturita una nebulosa di azioni progettuali verdi, spesso promozionali e non sistematiche, che prendendo atto della necessità di superare il modello della scatola chiusa ad alto spreco energetico si sono indirizzate verso la strategia dell’eco-planning: contenimento del consumo di suolo, massimizzazione delle superfici permeabili, contenimento dei consumi energetici e promozione dell’utilizzo di fonti energetiche alternative/rinnovabili. Strategie che provano a coniugare l’efficienza energetica del centro commerciale con la qualità ambientale delle aree entro cui ricade. La ricerca (che ha punti di contatto con gli interventi infill development accennati in precedenza) non si riduce alla sola componente impiantistico-tecnologica, ma si allarga alla definizione di forme di organizzazione spaziale più calibrate che superano la tradizionale dicotomia esterno-interno e caratterizzano il centro commerciale come luogo rappresentativo di una cultura della sostenibilità creatrice di senso e di spazio.

Categorie di intervento In uno scenario di ripensamento dei territori del consumo la presenza di alcuni addensamenti funzionali, in alternanza a significative dismissioni/rarefazioni, potrebbe essere la chiave per il superamento del nesso dismissione/riuso e l’inizio di una interpretazione originale dei territori del consumo. Quelli che oggi sono contenitori indifferenziati, con scarse relazioni con il contesto, possono diventare elementi di ordinamento territoriale delle opportunità, dei cambiamenti e delle tendenze in atto innescate dalla crisi: punti di riferimento, luoghi di espressione alta che costruiscono la propria identità con l’inserimento di nuove funzioni e nuovi paesaggi in continuità con quelli che appartengono alla città esistente e alle permanenze del territorio agricolo. Le chiavi di lettura del demalling e della sostenibilità se da in lato individuano le azioni possibili per il recupero dei centri commerciali in declino, dall’altro arricchiscono il dibattito sulla promozione e realizzazione di nuovi luoghi della città contemporanea integrandolo con una nuova consapevolezza maturata sulla valutazione degli esiti di progetti precedenti e sulle possibilità di intervento. E’ così possibile sperimentare progetti, strategie e azioni che vadano oltre l’intervento circoscritto al contenitore commerciale e siano orientate verso temi innovativi e questioni emergenti incentrati sul contesto e sulla costruzione del paesaggio, sulla processualità e sul ciclo di vita, sulla sostenibilità economica e ambientale. Massimo Lanzi

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Da queste sperimentazioni è possibile partire per rintracciare, attraverso l’indagine di studi e progetti nazionali e internazionali, categorie di intervento in grado di definire 'annodamenti territoriali' capaci di restituire una città futura flessibile e disponibile ad adattarsi alle trasformazioni e alle domande delle società contemporanee. • Dimensionamento. La sfida futura per pianificatori e amministratori locali sarà quella di costruire un confronto paritario con gli investitori, guardando agli effetti lungo periodo, contrattando con gli investitori il livello di urbanità del loro progetti e le convenienze a beneficio della città. Questo non vuol dire assecondare nuove colonizzazioni, ma, piuttosto, sottrarsi ad un ambito specialistico monotematico e costruire una complessità multidisciplinare in grado di gestire la condensazione locale di attività del consumo e la sua trasformabilità multifunzionale nel tempo. La valenza urbana/territoriale di questi nuovi luoghi del consumo, infatti, richiede nuove categorie nella pratica della pianificazione che superino la monodimensionalità dell’attuale parametro della superficie di vendita e si indirizzino verso un parametro più duttile di capacità territoriale (non necessariamente espresso in metri quadri) che possa riunire e confrontare più input (di superficie, di quantità di merce, di impatto ambientale, di modalità di offerta,…) e più funzioni (non solo commerciali, ma anche culturali e di servizio). • Accessibilità. Al fine di contenere il consumo e l’impermeabilizzazione di suolo occorre ripensare l’accessibilità dei centri commerciali, rafforzando il ruolo del trasporto pubblico urbano (adattato all’esigenza del trasporto delle merci) e ripensando le modalità dell’accesso automobilistico. I punti di arrivo carrabili possono essere concentrati in parcheggi multipiano -eventualmente con strutture a silos che svolgano anche il ruolo di elementi totemici nel paesaggio- superando la logica separatista della buffer zone d’asfalto e liberando suolo che potrà essere convertito in micro-unità di paesaggio (urbano, di vendita, di aggregazione, di rinaturalizzazione…) collegate tra loro e alle varie strutture di vendita con percorsi pedonali. La pedonalità sarà il nuovo parametro su cui costruire il dimensionamento del centro commerciale, assecondando al tendenza al frazionamento delle strutture e ad impianti di grana più fine, gestiti come centri commerciali ma organizzate come main street, dove edifici di dimensione contenuta si alternano a spazi aperti al pubblico. • Mixitè. La maggiore complessità funzionale dei nuovi centri commerciali dovrà riguardare sia l’integrazione di funzioni non commerciali all’interno del centro, sull’esempio di numerose esperienze internazionali, sia la combinazione di attrattori commerciali con strutture pubbliche e/o direzionali. Il superamento della specializzazione concentrata in favore di una più ampia gamma di offerte appare, infatti, la migliore strategia possibile per vitalizzare i centri e fornire strumenti per la loro trasformazione ed evoluzione come l’ alternanza proprietaria e gestionale e la partnership pubblico-privato. La strategia è quella di riorganizzare gli scopi intrecciando il commercio con le nuove esigenze delle comunità e delle amministrazioni, capovolgendo quello che è accaduto nell’industria culturale dove i bookshop e i ristoranti dei grandi teatri e musei sono spesso più vissuti e frequentati delle gallerie medesime. • Energia. La contrapposizione economia/ecologia è ormai un relitto del passato, le questioni ambientali sono ormai anche questioni economiche e l’efficienza energetica costituisce un elemento fondamentale ingrediente per la ridefinizione dei centri commerciali. Il centro stesso dovrà essere interpretato come una centrale che, oltre a ridurre i costi energetici (attraverso la massimizzazione delle superfici permeabili e la densificazione delle parti edificate, il progetto di involucri edilizi intelligenti e l’utilizzo di strategie energetiche passive e di tecnologie leggere) promuove l’utilizzo di fonti energetiche alternative/rinnovabili per sopperire ai fabbisogni quotidiani ed inserisce in rete la produzione in eccesso costituendo la premessa per un principio di 'perequazione energetica'.

Prospettive Le categorie interpretative richiamate al paragrafo precedente hanno reso evidente come i territori del consumo pongano nuovi e specifici quesiti al progetto, costituendo l’occasione per nuove immagini in grado non solo di proporre nuove soluzioni spaziali, ma di chiarire i modi e le pratiche d’uso del territorio e sostenere il ruolo dei diversi attori. Confermiamo quindi l’assunto che i territori del consumo sono una parte importante della scena urbana contemporanea degna di una specifica attenzione disciplinare che non sembra, peraltro, aver sollecitato l’attenzione della ricerca per quanto non manchino espliciti richiami ad una messa in discussione del paradigma della crescita e al rilancio di una nuova questione urbana a fronte degli effetti depressivi della crisi. E’ tuttavia evidente che l’individuazione di nuove categorie ha un’utilità difficilmente praticabile o prevedibile nel breve periodo, se non attraverso interventi correttivi sull’esistente, ma si tratta pur sempre di un primo tentativo di riassumere idee e tendenze che si stanno avvertendo nel campo della pianificazione e del progetto delle grandi strutture commerciali. La prospettiva che si apre è quella di un progressivo arricchimento, in termini di contenuto e di complessità, degli attuali strumenti di governo del territorio. Essi dovrebbero funzionare come una matrice all’interno della quale le diverse tendenze e sfumature dei territori del consumo interagiscono e vanno a sistema, portando ad una

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riflessione sul proporzionamento del territorio urbano, in termini di vuoti e di pieni, che non appartiene più ad uno scenario di crescita e di espansione in un futuro incerto ma a quello della reinvenzione del presente. Non è possibile, infatti, risolvere il problema esclusivamente in chiave urbanistica o architettonica, ma è necessario operare con nuovi strumenti di consapevolezza per aiutare i soggetti decisori a costruire una visione condivisa e per identificare e selezionare obiettivi strategici che consentono di tornare a riflettere su questioni di scala globale, di capacità di futuro e di sostenibilità urbana nel medio e nel lungo periodo.

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Riduci/Riusa/Ricicla. Strategie di trasformazione qualitativa tra circolarità delle scale di progetto, radicamento culturale e rifondazione dell’approccio alla disciplina

Riduci/Riusa/Ricicla Strategie di trasformazione qualitativa tra circolarità delle scale di progetto, radicamento culturale e rifondazione dell’approccio alla disciplina Sabrina Leone ‘Sapienza’ Università di Roma DiAP - Dipartimento di Architettura e Progetto Email: sabrina.leone@uniroma1.it

Abstract Riduci/Riusa/Ricicla può considerarsi una linea di orientamento progettuale tesa alla trasformazione qualitativa del paesaggio naturale-artificiale. La circolarità nelle scale di progetto che questo approccio fa emergere è anche una circolarità che mette insieme campi disciplinari differenti che operano con finalità identiche. Riduci/Riusa/Ricicla trova radicamento nel passato, nella storia della disciplina architettonica, nelle stessa stratificazione intesa quale carattere di modificazione e preservazione di vitalità dei tessuti urbani europei. Riduci/Riusa/Ricicla suggerisce di dare continuità a quanto la storia ci ha trasmesso per immaginare qualitativamente il nostro intorno rispondendo in modo efficace, creativo, nuovo alla complessità delle problematiche urbane del contemporaneo, ci suggerisce di considerare il mero aggiornamento di pratiche consolidate di progetto come il punto di partenza verso nuove prospettive per il progetto stesso, ci suggerisce infine di immaginare tutto questo come una sfida e un’occasione straordinaria di revisione della disciplina. Parole chiave trasformazione architettonico-urbana, progetto a-scalare, approccio multi-disciplinare.

La pratica Riduci/Riusa/Ricicla allude ad una strategia di progetto a-scalare, e multi-diciplinare, che combina e attraversa gli ambiti progettuali più tradizionalmente intesi come: progetto urbanistico, architettonico, di design. Riduci (il consumo di: suolo, materiali, energie, ecc., ma anche riduci l’inquinamento e lo spreco), Riusa (usa nuovamente/ancora: suolo, strutture, materiali, ecc.), Ricicla (rimetti in nuovo ciclo: suolo/aree, strutture/edifici, materiali, ecc.) trovano radicamento nella trasformazione del patrimonio architettonico/urbano esistente, che da sempre ha caratterizzato le città europee, costituendo il fondamento di una pratica più specificatamente intesa oggi come ecologia urbana, o meglio ancora intesa come ecological design;1 essa muove dalla modalità della stratificazione che interessa città, aggregati urbani, edifici o parti di essi fino al restayling degli edifici stessi (realizzato anche con materiali di riciclo). Va chiarito che per restayling degli edifici si intende quell’operazione di modificazione meno invasiva, e più circoscritta, compiuta attraverso anche il mero lavoro di trasformazione/sostituzione (anche solo parziale) dell’involucro, lavoro che potrà essere realizzato sia attraverso l’utilizzo di materiali di riciclo, sia attraverso il mettere in forma veri e propri involucri come mezzi di captazione e/o produzione ad esempio di/da energia solare. Una terza opzione è quella delle pareti vegetali e il loro contributo in termini di progetto sostenibile (limitazione di scambio termico, miglioramento della qualità dell’aria, ecc…). Facendo un passo indietro. La storia della stratificazione delle città europee, appena richiamata, non tralascia di insegnare il reimpiego di materiali o componenti, a volte anche acritico, che ad esempio caratterizza quell’architettura splendida realizzata con materiali di spoglio.2 Voler proseguire concettualmente questo

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Riduci/Riusa/Ricicla. Strategie di trasformazione qualitativa tra circolarità delle scale di progetto, radicamento culturale e rifondazione dell’approccio alla disciplina

approccio può voler dire anche orientarsi verso un ‘riuso’ edilizio (un ‘riciclo’ di strutture esistenti) inteso nelle sue molte sfumature, ovvero come: trasformazione, rigenerazione, riuso, riabilitazione, ecc… Richiamiamo alcuni esempi anche molto differenti di questa pratica ‘molteplice’: il progetto di Bernard Tschumi Le Fresnoy Art Center, Tourcoing (1991), il Lingotto di Torino e gli interventi di Renzo Piano (1992-2002), i Gasometri di Vienna (1998) con i progetti di Jean Nouvel (gasometro A), Coop Himmelb(l)au (gasometro B), Manfred Wehdorn (gasometro C) e Wilhelm Holzbauer (gasometro D), il Reichstag di Foster&Partners a Berlino (1999), la Caixa Forum a Madrid di Herzog & de Meuron (2001), Tea House on Bunker di Ben van Berkel e Caroline Bos/UNstudio(2006), ecc… Questi sono solo alcuni dei moltissimi esempi che si potrebbero addurre. Dall’analisi di tali interventi è possibile definire con precisione una serie di modalità tecniche di progetto che, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, sono diventate sempre più complesse e sofisticate. Queste sinteticamente comprendono: la sostituzione totale o parziale dell’involucro, la sostituzione totale o parziale della struttura portante, la sovrapposizione e/o innesto di aggiunte volumetriche (strutture ‘parassite’ di differenti dimensione), l’ampliamento ‘disinibito’ di consistenti dimensioni, ecc..3 fino alla sostituzione completa del manufatto di partenza. Stratificare le città vuol dire trasformarle, preservarne la vitalità, vuol dire quindi: sostituire criticamente volumetrie e architetture che non mostrano elementi di interesse circa il loro mantenimento e trasformazione; mantenerne criticamente volumetrie e architetture conservandole tout court; vuol anche dire mantenere e trasformare criticamente quelle volumetrie e architetture che, pur non essendo di pregio, se modificate opportunamente possono garantire di fornire prestazioni paragonabili a quelle di nuovi interventi edilizi; infine vuol dire inserire nuove cubature negli spazi disponibili, in quelli liberati e/o in aggiunta a quelli esistenti (densificare). Oggi questa pratica, che ha radici lontane, si carica di un’ulteriore valenza sviluppando una parte precisa del suo potenziale; essa è soprattutto un’operazione volta alla sostenibilità e orientata in generale al miglioramento della qualità della vita, una questione irrimandabile nel nostro contemporaneo. Ciò vuol dire che, mentre ci si occupa di demolire solo il necessario e smaltire correttamente ciò che invece va inevitabilmente smantellato, parallelamente si procede ad inventare e/o provare a inventariare - come si fece per la trasformazione/riuso/ecc… e le molte sfumature che questo processo implica, già sinteticamente richiamate – modalità di riuso nell’architettura di ‘materiali’ dismessi (sia per trasformare anche parzialmente l’esistente, sia per produrre nuove strutture) e nuove strategie progettuali che oggi fanno riferimento ad esempio anche all’ecological design. Facendo una piccola digressione circa il riuso. Riuso allude certamente al ‘recupero’ di quanto esiste per nuovi usi secondo le modalità sopra richiamate, ma implica anche considerare i materiali (materiali di scarto qualsiasi essi siano) come nuove ‘materie prime’; in tal senso si va dal riuso dei container, ai contenitori in PET, al poliestere espanso, ai profili metallici dismessi e i ‘tamburi’ di legno utilizzati per avvolgere cavi/tubazioni o al riuso di parti di pale di una centrale eolica in disuso, volendone citarne solo alcuni. In sintesi il riuso allude ai materiali con le provenienze più disparate. I materiali elencati rispettivamente richiamano alcune significative esperienze progettuali: le operazioni di Trinity Buoy Wharf, la Container City di Nicholas Lacey&Partners (Londra 2002); il sistema costruttivo delle pareti POLLI-Brick di Miniwiz, scelto come involucro per il Far Eastern Group Fashion Pavilion in Taipei per l'Expo 2010; il concept abitativo di ‘casa galleggiante verde’ dello Studio Noach, Kohler Prize e Anne Holtrop (2008), realizzato in RexWall; la Villa Welpeloo a Enschede (Paesi Bassi 2009) e Mikado, il playground della Fondazione ‘Kinderparadijs Meidoorn’ a Rotterdam (2007) entrambi di 2012Architecten. E molti altri esempi si potrebbero addurre. Ma il ragionamento può anche essere fatto in senso inverso, se si immagina il reimpiego di materiali che dall’architettura possono trovare nuova vita in oggetti di design di uso quotidiano. Il riferimento allude come esemplificazione all’esperienza del Pink Project del gruppo Graft, ovvero la ‘tendopoli temporanea evento’ per uno dei quartieri di New Orleans, dopo la devastazione dell'uragano Katrina del 2005; il materiale dei teloni rosa immaginati per la stessa tendopoli è pensato, da subito, anche per essere riciclato. Da esso infatti si sarebbero potute produrre ad esempio delle shopper, o anche delle piccole poltrone, i proventi della cui vendita sarebbero stati impiegati nella ricostruzione. Ma questa filosofia venne estesa anche agli elementi metallici pensati anch’essi per essere riciclati, come pure i sistemi di captazione solare immaginati per essere reimpiegati nelle nuove residenze, realizzate in un momento successivo nella medesima area. Questo approccio esemplare parte dal presupposto di poter operare un riciclo, anche dall’architettura verso l’oggetto di design, e suggerisce di poterlo operare già nel momento in cui si risponde all’emergenza - e non solo attraverso un evento iniziale - raccogliendo attenzione e fondi, ovvero dal Pink Project definito dai Graft ‘virtual city of Hope’, fino a alla ricostruzione reale. Infatti, a questa prima realizzazione temporanea (che apre l’iniziativa Make it Right) segue nel tempo - superata la fase di emergenza - quella della costruzione di nuove unità abitative, la fase che vede realizzarsi a pieno l’iniziativa Make it Right (MIR); un processo pensato per la messa a punto di una serie di nuove proposte di piccole residenze ad opera di differenti studi di progettazione (fra i quali anche MVRD e Shigeru Ban Architects come gli stessi Graft). MIR è dunque un operazione 3

Leone, S., (2004), Ri-costruzioni, Ri-significazioni, Gangemi Editori, Roma.

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Riduci/Riusa/Ricicla. Strategie di trasformazione qualitativa tra circolarità delle scale di progetto, radicamento culturale e rifondazione dell’approccio alla disciplina

complessa, che nasce come iniziativa benefica, volta ad offrire residenze di qualità a lungo termine, ovvero residenze con i più alti standard di sostenibilità che possono comporre quartieri completandosi con nuovi spazi verdi; i progetti di abitazioni disegnati per questo fine mostrano come costruire nuovi insediamenti, o quartieri residenziali, che abbiano grande qualità estetica, che rispondano agli obiettivi della sostenibilità, che siano realizzabili in tempi circoscritti e con costi circoscritti. MIR è un iniziativa esemplare che suggerisce come dell’emergenza, dalla fase di risposta immediata e temporanea, a quella di realizzazione di nuovi insediamenti permanenti si possa costruire l’occasione per un progetto di qualità ogni volta attento all’aspetto ecologico4 a partire anch’essa, in fondo, dall’idea del Riduci/Riusa/Ricicla. Quindi il campo entro il quale la tesi torva applicazione lo stesso approccio Riduci/Riusa/Ricicla, che è stato molto sinteticamente richiamato nelle sue molte sfumature, oscilla proprio dal progetto del nuovo alla modificazione dell’esistente fino al restayling degli edifici e agli interventi temporanei o per le ‘emergenze’ fino al design. La pratica Riduci/Riusa/Ricicla va intesa oggi principalmente come l’espressione di una sensibilità, di un rispetto, di nuovo rapporto ‘armonico’ di interazione con l’intorno urbano/naturale - o di una nuova consapevolezza - che si aggiunge e dà continuità, rivisitandola, ad una prassi già consolidata: la stratificazione. La trasformazione in generale – e/o il conseguente riuso/riciclo/rigenerazione/restayling/ecc.. - è quindi operazione di ecologia, motore di trasformazione su più livelli come ad esempio sociale, territoriale, urbano, architettonico e di design, ma anche una nuova opportunità creativa. Questo non va sottovalutato. Pensare di modificare qualitativamente l’intorno, ovvero modificare qualitativamente il paesaggio naturale/artificiale, costituisce poi già immaginare il progetto superando le limitazioni delle scale di intervento progettuale stesso e dei noti dualismi dell’architettura (dentro/fuori, figura/fondo, naturale/artificiale, ecc…). Nuovi approcci al progetto iniziano così ad essere letti con maggiore chiarezza. Volendo fare un esempio concreto si pensi all’intervento ambizioso (per strategia e dimensione) immaginato per il concorso del Corridoio Graz-Maribor (Austria 1999) proposto da Actar Arquitectura, esso contiene tutti gli elementi che si ritrovano in occasioni progettuali anche molto più circoscritte proposte dagli stessi autori, proposte che più facilmente sono riusciti recentemente a realizzare. Si tratta in generale di un’attenzione nuova all’etica del progetto, cui fa seguito una nuova estetica che trae direttamente spunto dalla natura e dai suoi meccanismi per immaginare - e mettere in forma - l’architettura. Altri esempi si potrebbero addurre, esempi che vanno dai ‘nuovi suoli’ agli involucri verdi, e che rimandano direttamente all’ecological design. Si pensi ad esempio ai progetti più sperimentali e futuribili come quelli di Vincent Callebaut, The Perfume Jungle (Hong Kong, Cina 2007) o quello di Mass Studies, Seul Commune 2026 (Corea del Sud 2005) o di MVRDV, Gwanggyo Power Center (Corea del Sud 2008); oppure alle proposte come quella di Triptyque, presentata alla XI Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia (2008) come nuovo prototipo di casa, Harmonia 57 – realizzata poi a San Paolo (Brasile 2007-’08) – o al progetto I'm lost in Paris di R&Sie(n) Architecture a Parigi (2008). Spesso sono solo anche nuove superfici disponibili, che restituiscono spazi di relazione ma che possono essere superfici di captazione solare o dove praticare la raccolta di acqua piovana, che limitano lo scambio termico e migliorano la qualità dell’aria, che rendono energeticamente autonome le strutture e che mettono in campo, in modo differente, le varie strategie della sostenibilità. Le prime esperienze positive in questo campo praticate in Europa - vedi ad esempio il BedZED (Regno Unito 2002), il quartiere Bo01 nato per l’Esposizione di Malmö (Svezia 2000), il Greenwich Millenium Village (Regno Unito 2002), il Vauban a Friburgo (Germania 1993-’06), la Solar city a Linz (Austria 1992-‘05), l’Eco-Vikki a Helsinki (Svezia 1999-‘04), il progetto di MVRD per Montecorvo Eco City (Spagna 2008), il masterplan in tre fasi di Middlehaven (Middlesbrough, Regno Unito 2007-’12) di William Alsop, ecc.. - si immagina possano lasciare oggi il posto a progetti ancora più ambiziosi, ovvero che mettano insieme le questioni per generare un rinnovato approccio che, attraversando di fatto le scale di intervento, le competenze e gli ambiti di applicazione dia una risposta più adeguata e di qualità, anche formale, all’esigenza ambientale e sociale. Oggi infatti siamo in un contesto dove è vero che l’attenzione alla sostenibilità e all’ecologia non è più rimandabile, ma le possibilità offerte da nuovi materiali e tecnologie consentono larghe libertà di intervento - ed espressive - e la pratica Riduci/Riusa/Ricicla (quasi lo slogan che riassume quanto detto) è una linea di orientamento progettuale resa possibile - proprio da questo nuovo contesto culturale e tecnologico - che muove dal tema della trasformazione stratificazione/urbana e può trovare applicazione nelle più recenti trasformazioni del nostro intorno. Dunque le prospettive di lavoro che la pratica Riduci/Riusa/Ricicla rispondo alla sfida di trasformare positivamente/qualitativamente il territorio attraverso continue ricombinazioni, migrazioni, ricollocazioni alle varie scale, dove le ‘materie prime’ sono intese non solo nel senso comune del termine, dove le strategia mettono

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Leone, S., ‘L’abitare contemporaneo e la sostenibilità. Verso un nuovo progetto dell’abitare e un rinnovato repertorio di forme./Contemporary housing and sustainability/Towards a new housing project and a renewed repertory of patterns’ in Alps n.2, autunno/inverno 2010/2011.

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Riduci/Riusa/Ricicla. Strategie di trasformazione qualitativa tra circolarità delle scale di progetto, radicamento culturale e rifondazione dell’approccio alla disciplina

insieme le questioni non facendone sintesi o praticando riduzionismi si sorta, ma sfruttando positivamente la complessità e compresenza di aspettative/esigenze. La prospettiva generale è quella di ripensare (e ambiziosamente in un certo qual modo rifondare) il progetto che muove a partire da dalle questioni messe in campo. Ciò consentirebbe di superare l’impasse del progetto contemporaneo sensibile alle problematiche ambientali, ma troppo spesso contratto su vecchie modalità di intervento che vengono solo opportunamente riaggiornate. Mi spiego. Piuttosto che mettere insieme le questioni e/o esigenze, i processi e/o meccanismi di funzionamento, le tecnologie e/o modalità costruttive inerenti le strategie della sostenibilità e più in generale la sensibilità ecologica e ambientale – processo che avviene molto spesso secondo ‘sovrapposizioni posticce’ e seguendo semplicemente i corretti processi o pratiche, vedi lo stesso caso dei progetti europei di quartieri sostenibili sopra richiamati – si vuol ambire a rifondare la disciplina; rifondazione intesa nel senso di iniziare a concepirla non solo considerando il consueto approccio sostenibile, ma pensare ad esso come una componente del progetto che partecipa da subito, sempre, alla progettazione, qualsiasi progettazione. Una componente potenzialmente capace di rivederlo nella sua interezza. Questo fatto, che può sembrare banale, assieme ad altre caratteristiche che mirano a conferire qualità architettonico-urbana-ambientale (vedi ad esempio l’aspetto della relazionalità intesa anche nell’accezione che qui ci interessa proprio come rapporto fra uomo, uso/interazione, opera e ambiente/intorno) tendono a ridurre la distanza fra le scale di progetto, tendono a dare una chiave di lettura e di azione sempre valida a prescindere dal campo di azione. Si osservi come in questi casi il prefisso ri (ripensare/rifondare proprio come riusare/riciclare/ridurre) allude implicitamente – facendolo anche linguisticamente - ad una pratica immaginata oltre il campo circoscritto di un’azione disciplinare.

Bibliografia Van der Ryn S., Cowan S., (1996). Ecological Design, Island Press. Leone S., (2004), Ri-costruzioni, Ri-significazioni, Gangemi Editori, Roma. Terranova A., Leone S., Spirito G., Spita L., (2009), Eco Strutture. Forme di un'architettura sostenibile, Edizioni White Star, Vercelli. Leone S. (2010), "L’abitare contemporaneo e la sostenibilità. Verso un nuovo progetto dell’abitare e un rinnovato repertorio di forme / Contemporary housing and sustainability. Towards a new housing project and a renewed repertory of patterns", in Alps n.2, pp. 16 - 22.

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Riciclare periferie

Riciclare Periferie Barbara Lino Università degli Studi di Palermo Email: barbara.lino@unipa.it

Abstract Il contributo analizza i potenziali trasformativi che possono concorrere alla definizione di un nuovo paradigma di sviluppo ispirato alle tre R, Riduci/Riusa/Ricicla, analizzando in che modo le periferie, in quanto paesaggi liminali, in transizione, carichi di ambiguità e problematicità ma allo stesso tempo di condizioni di possibilità e latenza, possono offrirsi come prezioso laboratorio di sperimentazione. A partire dalla valutazione dell’insostenibilità delle dinamiche che li hanno generati i paesaggi periferici sono considerati i luoghi in cui oggi si giocano le fondamentali sfide del controllo del consumo del suolo, del contenimento della pressione sulle aree agricole, dei consumi energetici determinati dai modelli insediativi e dai sistemi della mobilità, le sfide di nuovi modelli insediativi e di nuove forme dell’abitare sociale. Il contributo definisce, infine, alcune possibili tattiche di adattamento volte ad agire sui sistemi relazionali dei territori periferici in termini di riassetto policentrico e di “densificazione” di usi e di senso dello spazio pubblico. Parole chiave Periferie, liminalità, resilienza, riciclo

Paesaggi di “scarto” o città ordinaria? Paesaggi liminali carichi di ambiguità e problematicità e allo stesso tempo di condizioni di possibilità e latenza, oggi le periferie urbane sono la città ordinaria che per gran parte è a sua volta periferia. Sono il prodotto, e al tempo stesso lo “scarto”, di un “modello” di crescita e trasformazione che non è più sostenibile e che consuma suolo in modo irrazionale costruendo uno sbiadito e generico paesaggio dell’ordinario. L’identità liminale (Turner, 1969) della periferia si colloca da un lato ad un livello legato al senso di indeterminatezza e al tempo stesso di potenzialità e di sospensione tra passato e futuro di uno spazio del confine tra ciò che esiste, è esistito o potrebbe esistere: uno spazio di destabilizzazione e trasformazione. Dall’altro, si colloca ad un livello connesso alla sua condizione di spazio del conflitto rispetto al sistema del potere, del mercato e dei soggetti formali e informali che vi esercitano le spinte di trasformazione: nelle periferie si scontrano spinte di ordine e disordine, spinte formali di trasformazione esito dei processi di pianificazione e spinte informali esito del mercato e delle pratiche comuni. Negli anni la rendita e la crescita dei valori immobiliari hanno trasformato le aree periferiche a costi ampiamente competitivi rispetto a quelli delle aree del centro, insieme alla mancanza di efficacia degli strumenti urbanistici di regolazione delle trasformazioni e del consumo del suolo e insieme alle “geografie dei desideri” dell’abitare che, in una molecolarizzazione individualistica di paesaggio, hanno generato una sommatoria incontrollata di villette unifamiliari e un’espansione della città indefinita e priva di qualità. Oggi la crisi planetaria plasma il territorio in maniera differente, mettendo la disciplina di fronte alla necessità di modificare gli strumenti a sua disposizione per intervenire invece sempre più spesso nelle aree di abbandono effetto del decentramento o dello stop delle attività di produzione, del crollo del mercato immobiliare, o delle nuove demografie interne alle città in cui i “nuovi poveri” aumentano e vengono spinti verso le aree più marginali alla ricerca del soddisfacimento del bene primario della casa. La transizione dalla produzione industriale fordista ad una società governata dalle industrie globalizzate dei servizi e la crisi economica delle potenze occidentali sta determinando un fenomeno di contrazione di quartieri, città e d’intere regioni a causa dello svuotamento di popolazione, funzioni e attività, esito di un dilagante processo di declino. Recentemente, il fenomeno di contrazione urbana è stato ampiamente riconosciuto come Barbara Lino

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fenomeno globale che richiede la mutazione di paradigma dalle teorie tradizionali del cambiamento e della crescita urbana (Oswalt, 2006): il fenomeno della la shrinking city dilaga in tutta Europa e caratterizza alcuni sistemi urbani che attraversano una fase di crisi strutturale prodotta da un meccanismo a catena di livello planetario in base al quale la contrazione di certi luoghi alimenta la crescita di altri. Attraverso un processo multidimensionale, che comprende città, parti di città, o intere aree metropolitane che sperimentano un drammatico declino delle loro basi economiche e sociali e l’effetto combinato dei processi di deindustrializzazione e di suburbanizzazione, del post socialismo e delle dinamiche demografiche (Oswalt, 2006), in una sorta di processo di periferizzazione ad ampio raggio, il degrado urbano e la perdita di opportunità di lavoro si legano in una spirale verso il basso. Nei paesaggi ordinari della periferia, la contrazione della città e la crisi del mercato immobiliare si fanno evidenti nell’invenduto, nel fallimento dei progetti dei grandi quartieri direzionali o degli spazi per il tempo libero del consumo di massa, di outlet, fabbriche, stazioni di servizio e parchi gioco che occupano le periferie delle città intervallati da spazi di mezzo come slarghi, parcheggi, aree di risulta a margine di infrastrutture, viadotti e svincoli. Anche le enclaves iperspecializzate del consumo e del tempo libero che orientano nello spazio come “campanili” delle periferie contemporanee, si piegano alla crisi e in quello che Peter Rowe ha definito come il “paesaggio di mezzo” (Rowe, 1991) si assiste ad uno svuotamento e impoverimento di senso che, in una sorta di urbanistica della cancellazione, genera un ancor più tetro paesaggio del quotidiano. Tuttavia proprio nell’intersezione tra ordinario e frammenti di identità, tra architetture ibride e vuoti possiamo riconoscere nelle periferie opportunità e conflitti che le pongono in uno stato di limbo e di sospensione, in attesa di una sperimentazione progettuale che le collochi entro una nuova mappa urbana di senso collettivo. A fronte di nuovi paradigmi che orientano la disciplina, si impone un’urbanistica low cost non più dopata da fondi pubblici (Carta, 2012) e che piuttosto che rottamare l’esistente per sostituirlo, sia in grado di immetterlo nuovamente nel ciclo di vita urbano attraverso un programma virtuoso e parsimonioso di riciclo dell’esistente e alimentata dall’immagine di una città “adattiva” e resiliente capace di utilizzare i materiali esistenti nella necessità di perseguire obiettivi differenti dettati dal mutamento dei quadri cognitivi e concettuali di fondo, riconducendo ogni scelta ai temi dell’ecologia, della sostenibilità e della sensibilità al paesaggio (Ricci, 2012).

Prove di resilienza Molte città hanno capito che per “risollevarsi” dalla crisi è necessario ripensare il ruolo delle proprie aree periferiche investendo nel riassetto dei sistemi della mobilità, nella ridistribuzione dei centri in forme reticolari e nel riuso di spazi ormai privati del loro ruolo originario per densificare lo spazio urbano in termini di nuovo “senso” e nuove funzioni tanto alla microscala che alla scala del complessivo funzionamento della città: sono prove di resilienza, tattiche incrementali di adattamento, pratiche di “resistenza all’estinzione” che si ispirano a paradigmi concettuali emergenti. Detroit apre la strada alla ricerca di una via alternativa nella città post-fordista. Dopo il Detroit Vacant Plan del 1990 e la presa d’atto di un ciclo che si era concluso con la crisi della produzione automobilistica e il dimezzamento della popolazione rispetto al 1950, la città avvia un lento processo di riconversione attraverso il recupero degli stock residenziali abbandonati e degli spazi incolti alla periferia della città. La progressiva consapevolezza maturata culmina nel 2010 nel piano strategico elaborato dal sindaco Dave Bing con la consulenza del professore di urbanistica alla Graduate School of Design of Harvard Toni Griffin e di altri esperti: il Detroit Strategic Framework Plan propone una vision sull’identità della città nei prossimi venti anni lavorando sulla riconversione e il riuso di edifici periferici non utilizzabili e la densificazione funzionale attraverso il progetto di paesaggio alla microscala inteso come “catalizzatore urbano”, l’investimento su orti e agricoltura urbana oltre che sul ripopolamento e il richiamo di nuove categorie di residenti quali giovani, studenti e artisti attraverso agevolazioni fiscali e l’investimento su funzioni ad alta specializzazione quali università e centri di ricerca. Sono diverse le esperienze di retrofitting descritte nei contesti periferici nord americani dove stock residenziali in crisi, malls e aree del commercio abbandonate vengono restituiti alle comunità locali per accogliere servizi e diventare “third places”, luoghi di incontro e socializzazione alternativi alla dualistica oscillazione tra casa e lavoro tipica delle aree periferiche monofunzionali (Dunham J., Williamson E. and J., 2011). Molte altre città mettono in campo operazioni di densificazione attraverso il recupero di aree dismesse, di vuoti urbani, di infrastrutture abbandonate che lasciano il posto ad aree verdi lineari (l’esempio della High-line di New York è sicuramente quello più paradigmatico), pratiche di uso più o meno temporaneo di aree non utilizzate restituite alla fruizione collettiva in una specie di “urbanistica di seconda mano”. Si arricchisce il panorama delle esperienze attraverso le varie iniziative progettuali che si raccolgono attorno al concetto di greeninfrastructure in base al quale il recupero e la conversione di un’infrastruttura che ha perso il proprio ruolo originario diventa l’occasione per ricucire spazi urbani attraverso il progetto di aree verdi che fungono da dispositivi di riconnessione trasversale tra i tessuti: lo ha fatto Boston con il Big Dig e la Rose Kennedy Greenway, o Saint Denis con il Boulevards Wilson eliminando il tracciato autostradale o, ancora, Barcellona con il progetto Sant Barbara Lino

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Andreu-Sagrera e la riconversione dello scalo ferroviario in una ibridazione tra infrastruttura, progetto di paesaggio e progetto urbano che favorisce la riconnessione di aree urbane periferiche con il centro della città. A Parigi, come a New York, nei quartieri periferici sorgono giardini condivisi, orti collettivi, creati e gestiti da associazioni di quartiere in piccoli appezzamenti di terreno. Nel 2001, il Comune di Parigi ha lanciato il programma Charte Main Verte, un progetto che rientrava in un programma più vasto di “végétalisation de la ville” e che ha l’obiettivo di regolare, sostenere e promuovere i giardini comunitari all’interno del territorio parigino. La Carta Main Verte rappresenta il tentativo di dare una cornice istituzionale al fenomeno della creazione spontanea di orti su terreni pubblici occupati dagli abitanti per coltivare nei cosiddetti Jardins Partagés che si innestano nella tradizione francese dei jardins familiaux, ma la cui ispirazione proviene dai community gardens di New York e Montréal. Il sostegno delle istituzioni alla creazione dei giardini si concretizza con la firma di una convenzione che ha una durata variabile da uno a cinque anni, “Convenzione d’occupazione e di utilizzo per la gestione di un giardino collettivo di quartiere” che, stipulata tra il Comune e l’associazione che riceve il terreno in gestione, pone per i cittadini il rispetto di alcuni obblighi quali l’apertura settimanale, la realizzazione di eventi pubblici, l’elaborazione e la comunicazione di un piano di gestione e l’adozione di tecniche di coltivazione biologica. Il Comune con la sigla della convenzione si impegna alla recinzione dell’area, alla fornitura di terriccio e dell’approvvigionamento idrico. Ma oltre ai progetti appoggiati dalle istituzioni, si diffondono operazioni di micro-trasformazione promosse dal basso con l’idea di portare giardini e spazi a gestione condivisa all’interno della città, tra i palazzi, nei quartieri della periferia, luoghi terzi, spazi intermedi tra la famiglia e il lavoro, aperti ad una socialità informale. Dal fenomeno dei guerrilla gardening a quello degli orti urbani o dei tetti dei palazzi delle grandi città trasformati in orti o arene estive, ai play ground ricavati con operazioni a bassissimo costo da associazioni di quartiere che si riappropriano di spazi in disuso per farne luoghi di comunità, al recupero di fabbriche dismesse trasformate in luoghi dell’arte, trasformazioni più o meno spontanee di riappropriazione stanno facendo strada ad una nuova cultura del progetto urbano inteso come pratica relazionale e dello spazio pubblico quale coagulatore di senso, spazio infra, occasione di densificazione e archetipo culturale rimesso al centro dei ragionamenti sulle periferie e i quartieri. È come se la domanda di una città futura più vivibile sia di gran lungo in anticipo sull’offerta. L’immagine di una città futura più accogliente ed equa sta dilagando pare proprio a partire dal basso, dalla gente che sta cambiando mettendo in campo nuove aspirazioni e desideri. Associazioni internazionali, studi di architettura e designer, ma soprattutto guerriglieri urbani sono promotori di trasformazioni alla piccola scala, in molti casi anticonvenzionali e provocatorie: piste ciclabili pirata, spazi multifunzionali improvvisati nei vuoti urbani, arredatori urbani temporanei. A New Orleans i designer G.K. Darby, Rob Walker e la fotografa Ellen Susan con il loro Hypothetical Development progettano nuove configurazioni per spazi abbandonati e marginali (Fig. 1). A Dallas il Better Block Project organizza squadre di arredatori urbani temporanei che trasformano spazi disagiati irrompendo nei luoghi e riempendoli di servizi, caffetterie e vegetazione.

Figura 1. Mobile Cornucopia, Fonte: Hypotheticaldevelopment.com. Barbara Lino

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In questo modo luoghi prima abbandonati si trasformano in “agenti del cambiamento” e attraverso forme di pianificazione informale generano spazi urbani flessibili, in alcuni casi in origine temporanei e low cost. A New York, Prospect Farm è una comunità di Brooklyn che sta lavorando ad una esperienza di orti urbani organici in alcuni spazi in disuso del quartiere, a Boston, l’Egleston Community Orchard (Fig. 2) è un orto urbano sperimentale concepito secondo i principi della permacultura localizzato in una zona povera e problematica localizzata tra i distretti di Jamaica Plain e Roxbury nella zona sud della città, mentre il Rutland/Washington Community Garden nel quartiere di South End, è stato donato dalla città alla comunità nel 1991 e nel 2011, il Massachusetts Horticultural Society lo ha eletto come il miglior Community Garden dello Stato del Massachusetts.

Figura 2. Boston, Egleston Community Orchard.

Sono solo alcune delle molte pratiche micro-spaziali di cura di spazi interstiziali comuni che introducono nuove temporalità e dinamiche promosse da soggetti che non sono i soliti attori del processo di pianificazione e che provano ad assumere il controllo degli spazi dei quartieri in cui vivono prendendosene cura e promuovendo processi collettivi di ri-assemblaggio attraverso la ri-appropriazione e la re-invenzione di significati d’uso di città e periferie.

Tattiche di adattamento

Riduci-Riusa-Ricicla non sono concetti da giustapporre in parallelo, ma da osservare in chiave evolutiva e incrementale. Se il concetto di “riduzione” rimanda nell’ottica della auspicata decrescita felice (Latouche, 2008) alla necessità della riduzione dei consumi e degli scarti ad essi conseguenti, di una autolimitazione alla crescita, il concetto di “riuso” è un imperativo a lavorare sull’esistente anziché sulla produzione ex novo e sulla conseguente degenerazione di materie prime “vergini”, utilizzando piuttosto risorse che si rinnovano e rigenerano in modo continuo senza un dissipativo apporto esterno. Il “riciclo”, invece, propone un terzo stadio evolutivo concettuale: nel ri-ciclo la generazione di un nuovo ciclo di vita impone un’azione sull’oggetto della trasformazione che si fondi su precise logiche d’intervento (Ciorra e Marini, 2011), mirate ad innescare un nuovo ciclo appunto, piuttosto che un generico riuso. Impone di riflettere su come generare (attraverso quali limiti e confini) una trasformazione che sia in grado di produrre un modello di funzionamento metabolico il più circolare possibile, che azzeri gli scarti e il consumo di risorse non rinnovabili. In tale mutato quadro dei riferimenti concettuali, le periferie sono candidate a svolgere un ruolo cruciale nel riconvertire l’attuale modello di sviluppo verso la sostenibilità e, immaginando delle “tattiche” di adattamento (Ippolito, 2012) e nuovi cicli possibili, le esperienze richiamate ne suggeriscono una dimensione transcalare almeno duplice: 1. Macro-Tattica di ampia scala: ridurre consumo di suolo, del trasporto e dell’uso del mezzo privato. Una visione d’insieme che si pone come necessario indirizzo in grado di dare forza alle risposte occasionali e contingenti: lo scoraggiamento di nuovi insediamenti in aree non urbanizzate e la densificazione attraverso il Barbara Lino

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riuso e l’utilizzazione del dismesso, la ristrutturazione o demolizione del dismesso residenziale, la restituzione a verde o a colture dei dismessi agricoli e il decentramento di funzioni ed attività in stretta relazione a politiche per il trasporto. Alla scala metropolitana e urbana, il policentrismo può offrirsi quale categoria di progetto capace di orientare i processi di dispersione/densificazione e ridurre il fenomeno dello sprawl e il consumo di suolo. Attorno ai principali nodi del trasporto pubblico si sviluppano servizi, opportunità occupazionali, spazi pubblici, parcheggi e residenze ad alta densità. Ma la ridistribuzione dei centri non può prescindere dal ridisegno del sistema della mobilità e della mappa degli usi urbani rispetto al pendolarismo e ai flussi casa-lavoro: la casa e il luogo di lavoro sono le unità spaziali elementari e fondamentali di organizzazione e riproduzione della vita sociale, il pendolarismo sostanzia gran parte dei fenomeni urbani e le scelte residenziali sono un compromesso tra costo dell’abitare e costo dei movimenti casa-lavoro, lì dove il trasporto è uno dei settori a maggiore emissione. Micro- Densificazione di “senso” e slow urbanism: riuso dello spazio infra attraverso trasformazioni piccole e lente. Ad uno sguardo più ravvicinato oltre alle tattiche di greening e di incremento della densificazione di usi e funzioni assistiamo alla crescita di una forma di “resilienza locale” che introduce modalità alternative di modificazione degli spazi orientate a nuovi stili di vita e di uso delle risorse comuni nel tentativo di resistere in maniera flessibile alla riduzione drastica del welfare pubblico nelle città e nelle periferie. In una era di azzeramento del budget pubblico la disciplina si trova a considerare la forza e l’opportunità di soluzioni piccole e lente, più facili da mantenere rispetto a quelle grosse e veloci. A partire dal riconoscimento della carica che tali pratiche esprimono è importante ricollocarne il senso in chiave disciplinare, sia come spunto in base al quale orientare le direzioni del progetto, sia come occasione per generare un contesto di innovazione dei processi decisionali, lavorando sulle modalità in cui gli strumenti di pianificazione possano metterne a valore la carica di trasformazione, senza imbrigliarla o cristallizzarla ma trasformandola in una componente essenziale di una più olistica visione di progetto.

Bibliografia Carta M. (2012), “Reload: riattivare il capitale territoriale per re-immaginarelo sviluppo”, in Marini S., Bertagna A., Gastaldi F. (a cura di), L’architettura degli spazi del lavoro. Nuovi compiti e nuovi luoghi del progetto, Quodilibet, Macerata, pp. 72-81. Ciorra P., Marini S. (a cura di, 2011), RE-CYCLE. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, Electa, Milano. Dunham J., Williamson E. (2011), Retrofitting Suburbia: Urban Design Solutions for Redesigning Suburbs, New York, John Wiley & Sons. Ippolito F. (2012), Tattiche, il Melangolo, Genova. Latouche S. (2008), Breve trattato sulla decrescita serena, Torino, Bollati Boringhieri. Oswalt P. (2006), “Shrinking cities”, in International research, no. 1, p. 735. Ricci M. (2012), “Nuovi paradigmi”, in Ricci M. (a cura di), New paradigms, List, Barcelona, pp. 717. Rowe P. (1991), Making a Middle Landscape, MIT Press, Cambridge. Turner V. (1969), The Ritual Process. Aldine, Chicago. Sitografia Sito ufficiale del Detroit Strategic Framework Plan http://detroitworksproject.com/for-detroit-to-work-we-need-action-today/ Sito del gruppo di designer e artisti di Hypotetical Development, attivo a New Orleans http://hypotheticaldevelopment.com./ Sito del gruppo di attivisti Better Block http://betterblock.org Sito del gruppo Prospect Farm a New York http://prospectfarm.org/ Sito dell’Egleston Community Orchard di Boston http://puebloboston.org/eglestoncommunityorchard.html

Barbara Lino

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Riciclare il patrimonio. Nuovi obiettivi ambientatali nel riuso di dispositivi urbani e aree dismesse

Riciclare il patrimonio. Nuovi obiettivi ambientali nel riuso di dispositivi urbani e aree dismesse Michele Manigrasso Università G. d'Annunzio, Chieti - Pescara Dipartimento di Architettura Email: michelemanigrasso@gmail.com

Abstract Le strategie del “Riciclo” e del “Riuso” di oggetti, aree o porzioni di città, permettono di declinare il significato del “Ridurre” in maniera plurima e differente. Da un lato, facilitano la riduzione dei consumi, di scarti e rifiuti; dall'altro, “sovrascrivendo” la città esistente e dotandola di aree e “dispositivi rigenerativi”, si riduce il consumo di suolo, incidendo sulla qualità della stessa struttura urbana. Questo contributo pone l'accento sulla necessità di intervenire in città, ripartendo dal suo patrimonio sedimentato e muto, riconoscendo valore a 'relitti' obsoleti e ormai decontestualizzati rispetto all'evoluzione della città, coinvolgendo aree in attesa d'intervento e 'vuoti a rendere', funzionali alla realizzazione di una nuova 'intelligenza ecologica' della città contemporanea. La questione, fortemente transcalare, sicuramente offrirà in futuro tante occasioni di riflessione sulla possibilità - necessità di 'riciclare' e 'riusare' parti di città per fini ambientali e sociali, 'riducendo' il peso dell'occupazione di nuovi suoli sul bilancio ambientale e offrendo migliori condizioni di comfort in città. Parole chiave patrimonio, adattamento, micro-clima

Alla luce delle mutazioni climatiche in corso e delle proiezioni di crescita della popolazione mondiale, le modalità di occupazione di suolo e le 'forme geografiche' della città contemporanea spingono a ragionare sul significato dei termini Riduci/Riusa/Ricicla, da applicare, inevitabilmente, alle scale dell'urbanistica, e da attuare attraverso strategie di progettazione urbana e architettonica. I temi del riuso e del riciclo acquistano valore a scala territoriale ed urbana anche perché le forme del nuovo continuano a sedimentare gli effetti di cattive pratiche progettuali. Questo contributo vuole ragionare sulla possibilità di 'ripartire dal patrimonio esistente', riconoscendo ad esso un significato allargato, che interessi 'relitti urbani' e aree dismesse, luoghi d'attesa da risignificare in 'nuove forme di riattivazione sostenibile' perché al momento, anche se muti, pesano sul bilancio energetico e ambientale delle città. Aree residenziali, industriali e grossi dispositivi, spesso definiti con l'accezione di 'eco-mostri', passivi rispetto al contesto perché abbandonati e sotto utilizzati, negativamente attivi rispetto al bilancio energetico ed ecologico: volumetrie, densità, occupazione di suolo, spesso manufatti realizzati con tecnologie e materiali inerti con bassi valori di albedo e alto livello di impermeabilizzazione. Questo approccio riconosce prioritaria importanza al sistema degli spazi aperti, rimasti liberi in città, ancora non aggrediti dal cemento, ma non solo. A ciò si aggiungono le aree urbane vuote, dismesse, a rischio occupazione. Da questa angolazione, appare insensato il modello contemporaneo di occupazione e consumo di suolo: conviene ragionare sul potenziale di queste aree dismesse, strategiche ai fini dell'adattamento all'evoluzione delle condizioni ambientali, rispetto alle quali le città dovranno sviluppare nuove forme di intelligenza che rinnovino il concetto di 'ecologia urbana'. Per fare ciò, è auspicabile la 'riattivazione del paesaggio urbano', coinvolgendo il suolo, il sistema degli spazi aperti e del costruito, inglobando in una strategia urbana di rete sostenibile il 'terzo paesaggio', perché attivo rispetto ai temi ecologici e, in particolar modo, micro-climatici. E' questione transcalare, da affrontare su intere aree residenziali o industriali, sui tracciati e sui singoli manufatti; un processo di rigenerazione dello scambio tra elementi artificiali e fattori ambientali e climatici, ottimizzando l'uso delle risorse, riciclando e riducendo il carico ambientale delle attività antropiche sugli ecosistemi. Ed è anche il concetto di Riduzione, che spinge a focalizzare il tema in questa direzione. La sovrascrittura del patrimonio

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esistente, condurrebbe ad una riduzione del consumo di suolo, contenendo la forma della città e, al tempo stesso, contribuendo all'attivazione dei processi ecologici dell'ecosistema urbano. Per questo si è scelto di presentare brevemente alcune esperienze, diverse tra loro, soprattutto per scala d'intervento, per comprendere come il tema possa e debba essere affrontato in maniera transcalare, urbanisticamente e progettualmente. Più in generale, quello che si vuole comunicare è una presa di coscienza del significato dei termini Riduci/Riusa/Ricicla come nuovi paradigmi delle discipline dell'Urbanistica e dell'Architettura, capaci di dare nuovo senso ad un patrimonio esistente ma tutto da svelare.

L'insegnamento di Stoccarda: pianificare con il clima preservando aree strategiche In termini di pianificazione ci sono molte città nel mondo che si stanno dotando di 'piani clima' all'interno dei quali riconoscono molta importanza alle aree vuote dismesse, come il piano1 di New York, piano della sostenibilità che colloca in maniera centrale e trasversale il tema della mitigazione delle emissioni climalteranti e dell'adattamento ai cambiamenti climatici. Un'esperienza che invece si ritiene interessante esplicitare è la politica urbana che ha caratterizzato lo sviluppo della città di Stoccarda. Stoccarda ha fissato l’obiettivo di integrare nella pianificazione il fattore clima soprattutto a causa di una serie di problemi che scaturiscono dalla sua posizione geografica e dalla morfologia del territorio su cui insiste. Capitale del Baden-Wurttemberg, Stoccarda è una città di 600.000 abitanti situata in una valle e circondata da alture, il che impedisce un’agevole e intensa ventilazione. Per questo, la città rischia un forte inquinamento atmosferico e ondate di calore nel periodo estivo (e si tenga conto che le temperature sono destinate a salire nei prossimi 60 anni): per far fronte a tali problemi Stoccarda è stata pianificata cercando di sfruttare il più possibile la ventilazione naturale e le capacità dei sistemi vegetali di contrastare tali fenomeni. Nel 1987, la Sezione di Climatologia Urbana è stata incaricata di una rielaborazione tecnica delle analisi climatiche con lo scopo di mettere a disposizione materiali di base per una giusta considerazione di tutte le questioni climatiche nei processi di pianificazione della città e dei comuni limitrofi. Nel 1992 fu realizzato il primo 'Atlante del Clima' illustrando come la morfologia del territorio e il costruito fossero capaci di influenzare i flussi d’aria in città, individuando i pendii circostanti, le foreste e le zone agricole come le fonti principali di aria fresca per la città di Stoccarda. Si è inoltre constatato che sul problema dell’inquinamento ha inciso in maniera importante la crescita urbana sui pendii che ha sostituito aree agricole e naturali, bloccando il passaggio dei flussi di aria fresca nel tessuto urbano. Nel 2008 è stato pubblicato il 'Climate Atlas 2008', nuovo atlante del clima che copre tutta l’area della regione (3.654 km²) e fornisce valutazioni climatiche per tutti i 179 comuni e i 2,67 milioni di abitanti. In particolare, sono state realizzate poi mappe di simulazione rispetto alle proiezioni climatiche al 2071-2100: ricostruendo i modelli dei venti, i flussi di aria fredda, le concentrazioni di inquinamento atmosferico e diversi altri scenari come supporto ai pianificatori, per l’ottimizzazione climatica urbana nei processi di sviluppo e di trasformazione. L’atlante fornisce un supporto tecnico per il processo decisionale in materia di pianificazione dell’uso del suolo: un elemento chiave dell’atlante è la classificazione delle aree in base al ruolo che svolgono sul ricambio d’aria; questo è definito rispetto alla topografia, alla densità di sviluppo e alle sue caratteristiche, e alla presenza di spazi verdi. L’atlante quindi distingue otto categorie di aree e per ciascuna di esse sono fornite diverse misure di pianificazione e raccomandazioni. In particolare, l'aspetto che più interessa in questa sede è che determinate aree della città, vuote sono destinate a rimanere tali. Anche se le prescrizioni dei piani precedenti indicavano su queste aree la possibilità di edificare nuove volumetrie, l'atlante 'congela' queste aree per il loro contributo in termini di ventilazione in città. Il risultato di quest’approccio è quantificabile: oggi, oltre il 39% della superficie di Stoccarda è soggetta alla normativa di protezione delle aree; le aree verdi coprono oltre il 60% della città, nella quale sono presenti 5.000 ettari di foreste ad aree umide, 65.000 alberi nei parchi e 35.000 lungo le strade; oltre 300.000 metri quadrati di tetti verdi; oltre 32 chilometri di linee tranviarie sono state inverdite; oltre 60 ettari di aree verdi che erano state precedentemente pianificate come da urbanizzare, nel piano territoriale del 2010 sono state convertite in aree da proteggere.

Le Parc de la Cour du Maroc. Da area industriale a parco urbano Tutto è patrimonio. Questo concetto è basilare per comprendere il progetto del paesaggista Michel Corajoud a Parigi, 'Le Parc de la Cour du Maroc' (2006) conosciuto come Jardins d’Eole. Il parco occupa un spazio di 42.000 mq lasciato libero dallo smantellamento di una vecchia area ferroviaria a ridosso della rue du Maroc nel densamente abitato quartiere di Montmartre 18° arrondisment. L’obiettivo era di trasformare un antico luogo di lavoro in uno spazio per il tempo libero che ricordasse le tracce dei vecchi terreni ferroviari occupati da 1

Il “PLANYC” di New York, un piano della sostenibilità con al centro le strategie atte a contrastare il climate change

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magazzini e binari provenienti dalla Gare de l’Est. Tutta l'area era impregnata della presenza di questa ferrovia, che ha creato un luogo importante: una grande lunghezza a cielo aperto. Nell'impronta della vecchia ferrovia risiede la qualità di tale paesaggio. Qualcosa che Corajoud ha voluto mantenere. In quest'area industriale dismessa si era formata una particolare vegetazione spontanea che non è stata modificata, creando un giardino secco che non ha bisogno d'acqua. Il parco (Figura 3) è articolato in differenti livelli che il progetto interpreta collegandoli con rampe e percorsi diversamente pavimentati per creare spazi differenziati per usi e funzioni. Ma l'aspetto che più interessa in questa sede, è che rimane un grande vuoto ecologicamente utile alla città e funzionalmente un grande successo per il senso di appropriazione degli abitanti.

Figura 1. Viste del parco.

Le parole2 del paesaggista risultano particolarmente significative: « [...] quello che vorrei dire è che per me il patrimonio non include solo le cose materiali, l'architettura, le pietre. Ma è anche la gente, la gente con la sua storia. La Cour du Maroc ha una sua storia particolare perché qui gli abitanti hanno aspettato 15 anni affinché qualcosa si facesse. Quando siamo arrivati con la nostra équipe ci si sono prospettate due possibilità: intervenire e sgombrare ciò che nel frattempo era stato allestito, cambiando completamente la natura del luogo, o capire che dovevamo saper aspettare, ascoltare. Per me il modo di fare paesaggio è analogo a quello con cui ci si immette in una conversazione. Si può intervenire con forza e interrompere chi sta parlando per dire quello che si vuol dire, o si può prendere del tempo per ascoltare ciò che la gente sta dicendo e far scivolare l'idea del progetto sul filo di quella conversazione. Qui è accaduto questo. Abbiamo ascoltato quanto la gente diceva(...). Quello a cui tengo molto è il fatto è che noi siamo intervenuti nella conversazione senza interrompere il discorso, ma mettendoci in sintonia. Questo ha permesso alla gente di appropriarsi del luogo, degli oggetti trovati lì. Orientando il proprio fare. Ad esempio in rapporto alla luce, al sole. Scegliendo il sud per i giochi dei bambini che prima giocavano con montagne di terra accumulate sul terreno e ora con la ghiaia che spargono e gettano nel canale d'acqua che abbiamo realizzato. Per fare il nostro giardino ci siamo serviti del loro modo di vivere il posto. E' il patrimonio dei viventi che mi interessa. E la gente e il modo in cui adotta il progetto [...]». In questo caso il riuso di un'area specifica, ha valore urbano molto forte, nonostante il progetto sia dolce e abbia prediletto leggerezza ed effimeratezza. E non è solo un grande vuoto: è uno spazio riciclato e riusato, uno spazio di qualità ambientale e di condivisione sociale.

Risignificare contesti difficili. Riciclare l'area industriale di Pescara Un'esercitazione accademica molto interessante, in cui lo stesso autore ha avuto parte attiva come tutor, è quella del Corso Integrato di Laboratorio 4, dei proff. Carmen Andriani e Massimo Angrilli, nel corso di laurea in Architettura, presso il Dipartimento di Pescara, a.a. 2009-2010. Il tema è stato la riqualificazione il riuso dell'area industriale di Pescara, quasi completamente dismessa, con particolare attenzione posta al cementificio, una interessante macchina industriale, 'landmark' per chi arriva in città attraverso l'asse attrezzato, dunque porta per la città, meritevole di attenzione in uno scenario di rigenerazione ampia. Il contesto di progetto è periferico e degradato, localizzato a sud-ovest del centro di Pescara, lungo le golene fluviali, nella circoscrizione N.3, delimitata dal fiume Pescara a nord, dalla viabilità statale della via tiburtina ad est, dal futuro 'Asse pendolo' e dalla circonvallazione urbana. Oltre alla grande macchina del cementificio sono presenti nell'area impianti industriali, in parte dismessi, edilizia privata e grandi complessi di edilizia popolare degli anni '70, abitati da nuclei familiari appartenenti a categorie sociali svantaggiate, nonchè da comunità rom, scarsamente integrate con il resto degli abitanti. Come ha scritto Massimo Angrilli3, « [...] il cementificio pone in modo particolare il difficile tema della presenza nel perimetro urbano di un impianto alimentato attraverso la combustione di rifiuti solidi. L'annuncio da parte della società che ha rilevato la proprietà, dall'intenzione di delocalizzare l'impianto, ha quindi sollevato molto l'interesse da parte dei cittadini, ed apre nuovi e interessanti scenari per la città, legati all'opportunità di ripensare più complessivamente l'area, attraverso la localizzazione di funzioni strategiche per 2 3

Il breve testo è tratto da: Andriani C. (a cura di), Il patrimonio e l’abitare, Donzelli Editore, Roma, 2010. Estratto dell'intervento del prof. M. Angrilli in: Clementi A. (a cura di), EcoGeoTown, LISt Lab, Trento, 2010.

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tutta la città, che fanno principalmente perno sulla collocazione dell'area nei pressi delle principali porte urbane e metropolitane, come l'aeroporto e l'autostrada, quest'ultima rapidamente raggiungibile attraverso l'asse attrezzato. L'area liberata dalla presenza ingombrante del cementificio, può infatti rivestire, se opportunamente trasformata, il ruolo di nuova centralità per l'area pescarese, contribuendo alla riqualificazione della sua immagine e stimolando, al contempo, l'insediamento di altre funzioni del terziario specializzato [...]» (M. Angrilli, 2009).

Figura 2. Laboratorio Integrato 4, proff. Carmen Andriani, Massimo Angrilli, a.a 2009-2010. Vista tridimensionale del progetto degli studenti Davide Gerbasi, Saimir Hoxa, Paolo Sabatini.

I risultati del laboratorio sono stati molto soddisfacenti. Reinterpretando in differenti maniere l'area e il programma funzionale proposto come traccia progettuale, i lavori degli studenti hanno dimostrato la reale potenzialità dell'area di diventare vetrina non solo per la città, ma di un territorio vasto, condensando in essa le funzioni strettamente legate all'abitare, unitamente ad eccellenze terziarie innovative. Attraverso un'attenzione particolare posta al tema delle reti della sostenibilità, il 'quartiere industriale' con il cementificio di testata, viene irrorato di nuova qualità ambientale, realizzando un nuovo rapporto con l'asta fluviale del Pescara e con i quartieri limitrofi degradati, anch'essi investiti da una serie di azioni di riqualificazione secondo i principi della sostenibilità; dunque lavorando sui temi del verde come materiale di progetto per migliorare la struttura del telaio degli spazi aperti della città e per la regolazione del microclima, il riciclo delle acque di pioggia per i servizi e l'irrigazione del verde, il tema dell'energia da fonti rinnovabili. I progetti hanno consegnato un alto valore dell'atto della 'riscrittura', come mossa consapevole e doverosa lì dove il relitto, seppur affascinante come oggetto di paesaggio attraversato, grava sulle condizioni ambientali della città, custodendo la possibilità latente di innescare una serie di processi che investano di valore un contesto difficile più ampio.

CaixaForum a Siviglia. Spazi storici da recuperare e nuovo micro-clima in città Un progetto architettonico con valenza urbana molto interessante, è quello proposto dall'architetto Guillermo Vazquez Consuegra e che riguarda il recupero di uno spazio storico come nuova ombra e dispositivo pubblico 'rigenerante' dal punto di vista microclimatico. Dopo la Cattedrale, a Siviglia c'è un altro interno molto solenne cioè gli spazi del vecchio cantiere navale, costruito nel XIII secolo e situato nel centro storico della città. 7.200 metri quadrati di superficie per un centro culturale e sociale che la banca Caixa prevede di aprire nel 2015. Consuegra ha vinto il concorso a procedura ristretta bandito nel 2009, sovrapponendosi al livello zero mantenuto intatto per creare un grande spazio pubblico aperto alla città a quota 0. Oggi la città di Siviglia sta perdendo gran parte dei suoi spazi pubblici, a causa della privatizzazione, la commercializzazione e l'uso improprio della stessa, dunque, il CaixaForum potrebbe rappresentare una grande opportunità per fornire alla città il più interessante e identitario spazio pubblico coperto: la nuova piazza pubblica dei vecchi cantieri navali nella hall principale, oltre a recuperare uno degli episodi più importanti del patrimonio architettonico urbano, potrebbe offrire al territorio vasto un interessante luogo di incontro, per l'esposizione dell'arte e della cultura. La proposta risolve la maggior parte del programma al piano superiore del palazzo, al fine di mantenere intatta la superficie esistente e, dall'altro, riconsegnare lo spazio storico alla città come incubatore sociale e grande ombra. Non è certo questa la sede per illustrare dettagliatamente un progetto molto complesso, che ha anche obiettivi altri rispetto a quelli di questo contributo. Quello che però interessa segnalare è che, per contrastare il problema del surriscaldamento delle città attraverso strategie di adattamento4, non è detto che ci si debba affidare a sistemi 4

L'autore, dottore di ricerca in Architettura e Urbanistica, ha realizzato una tesi riguardante 'Le strategie di Adattamento ai cambimaneti climatici in ambito urbano'.

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verdi, parchi, boschi e giardini, più genericamente al verde. Il recupero e riutilizzo di dispositivi come questo, è la dimostrazione che le risposte a problemi nuovi, possono essere offerte dal patrimonio esistente sedimentato e di grande qualità, anche appartenente ad un passato lontano. Basta riconoscerne e svelarne il valore, rileggerne il ruolo anche rispetto al contesto ambientale e climatico.

Figura 3. Sezione e vista degli interni.

Questa serie di progetti sono solo alcuni degli esempi utili rispetto al tema trattato. Più in generale, questo contributo ha voluto porre l'accento sulla necessità di intervenire in città, ripartendo dal suo patrimonio, riconoscendo valore a 'relitti' obsoleti e ormai decontestualizzati rispetto all'evoluzione della città, ad aree in attesa d'intervento e a quelle utili come 'vuoti a rendere', funzionali agli aspetti microclimatici nei tessuti consolidati. La questione più che mai aperta, anche perché fortemente transcalare, sicuramente offrirà tante occasioni di riflessione sulla possibilità - necessità di 'riciclare' e 'riusare' parti di città per fini ambientali e sociali, 'riducendo' il peso dell'occupazione di nuovi suoli sul bilancio ambientale e offrendo migliori condizioni di comfort in città.

Bibliografia Andriani C. (a cura di), Il patrimonio e l’abitare, Donzelli Editore, Roma, 2010. Angrilli M., Reti verdi urbane, ed. Fratelli Palombi, Roma, 2002. Bergson H., Durata e simultaneità, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003 Bossi P. et al. (a cura di), La città e il tempo: interpretazione e azione, Maggioli Editore, Milano, 2010. Clementi A. (a cura di), EcoGeoTown, LISt Lab, Trento, 2010. Clément G., Manifesto del Terzo paesaggio, a cura di De Pieri F., Quodlibet, Macerata, 2005 Desvigne M., Gilles A. Tiberghien, Nature Intermédiaires. Les paysage de Michel Desvigne, ed. Springer, Birkhaüser, 2009. Mostafavi M., Ecological Urbanism, Lars Muller Publishers, Harvard, 2010.

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Riduzione/Riuso/Riciclaggio nei paesaggi estrattivi pugliesi: un’opportunità di progetto

Riduzione/Riuso/Riciclo nei paesaggi estrattivi pugliesi: un’opportunità di progetto1 Nicola Martinelli* Politecnico di Bari Dicar - Dipartimento di Scienze dell’ingegneria Civile e dell’Architettura Email: n.martinelli@poliba.it Federica Greco* Regione Puglia Ufficio Strumentazione Urbanistica Email: federicagreco@libero.it Francesco Marocco* Università degli Studi della Basilicata Email: kekkomarollo@gmail.com

Abstract Tra i paesaggi dello scarto - i drosscapes, nell’accezione di Alan Berger - quelli estrattivi si pongono tra i luoghi più fertili per attuare nuove modalità di intervento, nelle quali poter declinare al meglio la regola delle 3R (Riduci/Riusa/Ricicla), come nuovi paradigmi del progetto urbanistico orientato alla riqualificazione ecologica. I paesaggi delle cave sono tra i drosscapes pugliesi di maggior valore identitario ed economico, soprattutto nei tre grandi bacini di Apricena, Trani e Cursi-Melpignano: per tale motivo il territorio di Apricena è stato scelto dagli scriventi come caso studio dell’Unità di Ricerca del Politecnico di Bari associata a quella di Napoli Federico II per la ricerca PRIN Re-cycle “Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture della città e del paesaggio” 2012-2014. Il campo di lavoro è quello degli spazi di rifiuto e di marginalizzazione nelle pratiche di produzione del paesaggio che costituiscono una potenzialità trasformativa dei processi produttivi e di nuovi cicli ecologici. In questa fase storica, infatti, in Puglia, i luoghi dell’estrazione vivono una nuova condizione dovuta a maggiori “attenzioni” da parte delle politiche di assetto del territorio e alla crisi dei vecchi processi estrattivi e produttivi della pietra da costruzione. Tale condizione di “Riduzione” porta gli operatori a rivolgersi al Riciclo di materiali un tempo considerati di scarto, quale precondizione per il Riuso dei grandi spazi delle cave dismesse. Parole chiave drosscapes, paesaggio estrattivo, riciclo.

1 | I Paesaggi dell’estrazione come Drosscapes Guardare ai Paesaggi dell’estrazione lapidea, i Paesaggi di Pietra, come Drosscapes nella formulazione che Alan Berger (2006) fa di questo tipo di paesaggi: questa la tesi sostenuta dal presente contributo. In una fase di riflessione disciplinare, quale quella contemporanea, nella quale si torna a guardare a nuovi Paradigmi Disciplinari (Ricci, 2012) da più parti ci si pone l’obiettivo di ricercare forme di sperimentazione per strategie di progetto per la città e il territorio contemporanei, di fronte alla grave crisi economica e finanziaria internazionale. In tale nuovo e variegato panorama si pongono appunto le “Strategies for Designing with Drosscapes” di Berger: negli ultimi decenni questo tipo di territori di scarto e di risulta si è strutturato e addensato nella città e nel paesaggio contemporanei a seguito dei simultanei processi di deindustrializzazione *

Nonostante il paper sia frutto di riflessioni comuni, sono da attribuirsi a N. Martinelli i paragrafi 1 e 4, a F. Greco il paragrafo 2, a F. Marocco e F. Greco il n. 3.

Nicola Martinelli, Federica Greco, Francesco Marocco

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Riduzione/Riuso/Riciclaggio nei paesaggi estrattivi pugliesi: un’opportunità di progetto

post-fordista e di incessante innovazione tecnologica. Proprio il dinamismo di queste trasformazioni territoriali produce in modo incessante spazi interstiziali, rifiutati, frammentati: luoghi nei quali progettare oggi vuol dire attivare sinergie economiche, sociali, tecnologiche, ecologiche che pongano il “riciclo” del paesaggio al centro delle proprie riflessioni (Ciorra, Marini 2011). In una dimensione olistica e allo stesso tempo integrata il tema era già trattato nel profetico testo Wasting Away2 di Lynch del 1990, mentre la trasformazione produttiva post-fordista già negli anni Novanta si era manifestata con i processi di dismissione del patrimonio edilizio urbano, ponendo alla città l’istanza di recuperare e rifunzionalizzare grandi spazi dell’industria e di infrastrutture di servizio3. Ma i processi di deindustrializzazione e obsolescenza, come ci raccontano i casi di Detroit (Waldheim, Reed, Allen, 2012) in USA o dell’Ilva di Taranto4, pur nella diversità dei loro contesti, pongono vere e proprie vertenze nazionali5. Questa sfida della contemporaneità, già definita una sorta di “sindrome di Pompei” (Ricci, 2011), per le “Modern Ruins” (Schulz-Dornburg 2013) ci arriva da territori in condizione di marginalità, di degrado e di sotto-utilizzo che devono trasformarsi in nuove risorse territoriali; si tratta di processi trasformativi che mostrano l’inadeguatezza degli strumenti urbanistici, quanto meno nella loro tradizionale natura regolativa, perché incapaci di formulare strategie di recupero e riciclo per l’implementazione di progetti e programmi orientati alla costruzione di nuovi significati e nuove economie. Alla luce di tali premesse teoriche anche il tema della riqualificazione dei paesaggi dell’estrazione registra negli ultimi anni un aumento d’interesse all’interno di un nuovo e condiviso sistema di valori che estende progressivamente il concetto di “sostenibilità ambientale” dal recupero delle cave dismesse alla ricerca di criteri di sostenibilità che interessino l’intero processo gestionale dell’attività estrattiva. Inoltre, una volta esaurito il ciclo di estrazione, le cave degradano in luoghi-rifiuto, paesaggi dell’abbandono, drosscapes, entrando nell’arcipelago di brownfields e waste areas, spazi degradati dagli scarti del metabolismo urbano e industriale. Ma i bacini estrattivi del materiale lapideo prima ancora che essere letti come “ferite” del territorio, rappresentano infrastrutture produttive, dotate di un proprio ciclo di vita, la cui fase di dismissione deve salire all’attenzione delle istituzioni6. Tra i paesaggi dello scarto, quelli estrattivi si pongono tra i luoghi più fertili per attuare nuove modalità di intervento, nelle quali poter declinare al meglio il paradigma delle 3R (Riduci/Riusa/Ricicla) per un nuovo progetto urbanistico orientato alla riqualificazione ecologica (Petzet, Heilmeyer, 2012 e Ricci, 2011 e 2012). Ridurre le attività di estrazione lapidea si deve e si può; in molti casi questo accade sotto il duplice effetto della crisi finanziaria globale che ridisegna incessantemente i mercati, e dei maggiori controlli dell’attività estrattiva che limita progressivamente in molte regioni italiane: superfici, produzioni, quantità, dimensioni dei bacini e delle cave. La parola d’ordine dei Distretti produttivi del settore della pietra da costruzione è passare “dalla quantità alla qualità” dei processi produttivi. Riusare si traduce in un orientamento innovativo che guarda al un nuovo uso del rifiuto: oggi nel nostro paese si scarta e si spreca troppo materiale lapideo, ma numerosi sono gli indizi di processi di riciclo del materiale di scarto per nuove produzioni (marmettole, fanghi7, pietrischi e sabbie), per le tecniche di «ritombamento»

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Libro postumo di Lynch (1918-1984) la cui edizione del 1990 è curata dal suo ex allievo Michael Southworth e nel 1992 dal compianto Vincenzo Andriello che nella quarta di copertina esalta la singolarità e importanza di questo testo profetico “C’è qualcosa in comune tra i rifiuti e la morte, gli escrementi e le scorie nucleari, i ruderi e le aree urbane in abbandono o il triste destino di un illustre professore che soffre di incontinenza, la crisi di intere regioni e la perdita di cose o di affetti, le migrazioni, gli incendi, il vandalismo e la raccolta dell’immondizia, gli scavi archeologici e lo scasso delle auto oppure il vicolo dietro casa, pieno di cartacce, ma tanto affascinante per i bambini. Lynch ci spiega che sono tutte forme della “faccia oscura del cambiamento”…” 3 Esperienza che dette vita ad un ventennio di sperimentazioni poi consolidatesi nei paesi più industrializzati all’interno di grandi e piccoli programmi di rigenerazione urbana. 4 Non è facile riportare la sterminata documentazione degli scritti sul caso Ilva di Taranto apparsi sui media a stampa, in rete e in documenti ufficiali delle istituzioni (Magistratura, Governo, Regione, Comune, Sindacati…), che si sono occupati – con scarsi esiti - di questa drammatica vertenza italiana. Altrettanto complesso, ma forse importante da compiere un giorno, è la ricostruzione della stimolante produzione di immagini e narrazioni di questa lunga vicenda che ci vengono restituite dalla letteratura e dal cinema contemporanei. 5 Ancora una volta il problema si presenta tanto come una necessaria riconversione industriale che dia risposte immediate al drammatico problema dei posti di lavoro quanto come un immane compito, tecnologico ed economico, di avviare processi di disinquinamento delle aree abbandonate e dei materiali di scarto in esse presenti, per affrontare forme emergenziali di salvaguardia della salute pubblica. 6 Il problema di rilevanza “pubblica” per i paesaggi delle cave consiste tanto nel cercare modalità di “risarcimento”della ferita inferta al territorio (attraverso bonifiche, recupero ambientale, ecc.) quanto nel rimettere in vita la vocazione produttiva di questi paesaggi in forme sostenibili. 7 Si fa qui riferimento all’importante programma Progetto LIFE + RECYSLURRY - Valorizzazione, riciclo e riutilizzo dei fanghi prodotti nella lavorazione della pietra Nicola Martinelli, Federica Greco, Francesco Marocco

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Riduzione/Riuso/Riciclaggio nei paesaggi estrattivi pugliesi: un’opportunità di progetto

parziale o totale delle cave8. Ma il nuovo uso è anche quello di questi Drosscapes visti come paesaggi dell’innovazione9. La terza R, Riciclare, va intesa come trasformazione del materiale lapideo in un nuovo prodotto, innovando in termini di processo e di prodotto per dar vita a nuovi materiali: i ricomposti, i film sottili, tagli e segature al laser, l’utilizzo di macchine a controllo numerico che strutturano una nuova liaison tra design e lavorazione lapidea. Attivando nuove capacità di “durata” del ciclo economico e materiale dell’ambiente costruito, il paesaggio riqualificato diventa valore aggiunto del materiale estratto. In ultima analisi la nuova dimensione distrettuale dei bacini estrattivi italiani può reinventare attività dell’indotto produttivo locale trasformandosi nella nuova dimensione dei cluster tecnologici e produttivi (ricerca applicata, brevetti, start up aziendali…) (Martinelli, 2012). Nei paragrafi che seguono si mostra quanto le istituzioni preposte al governo dei bacini estrattivi denotino un “dualismo” di approcci, posti tra gli estremi delle esigenza di tutela paesistica e ambientale dei contesti territoriali interessati al ciclo delle attività estrattive e il sostegno e la valorizzazione delle attività economica e produttiva legate all’attività estrattiva10. Il contributo, attraverso l’osservazione di un contesto locale “in trasformazione” – quello pugliese –, consente di individuare le possibili strategie territoriali per accettare la sfida del paradigma delle 3R di fronte ai paesaggi estrattivi visti come Drosscapes.

2 | L’innovazione normativa in materia di attività estrattiva in Puglia La Regione Puglia è particolarmente interessata dall’attività estrattiva poichè le cave autorizzate pugliesi rappresentano alla fine del 2010 il 7,5% di quelle nazionali, la Puglia rappresenta nel 2010 la 5a Regione in Italia e la 1a del Sud-Italia per numero di cave autorizzate. Le cave attive, cioè quelle che nel 2010 oltre ad essere autorizzate hanno effettuato scavi, si sono ridotte in termini percentuali al 54,7% contro il 63,0% del 200911, il volume di materiale estratto è pari a 14.362.109 m3 nel 2009. La legislazione nazionale di riferimento, tuttora rappresentata dal R.D. 29/7/1927, n. 1443, ignora il problema del recupero, caratterizzata dall’assoluta e assorbente prevalenza dell’interesse pubblico relativo allo sfruttamento delle risorse del sottosuolo. Nell’ambito delle attività estrattive la Regione Puglia, le cui competenze riguardano in particolare la “programmazione e studio finalizzate soprattutto al recupero delle cave esaurite, dimesse o abbandonate, anche attraverso la redazione di piani finanziabili con risorse nazionali o comunitarie”12 negli ultimi anni ha prestato particolare attenzione alla necessità di bilanciare l’esigenza economico-produttiva rappresentata dall’estrazione dei materiali da costruzione e le tematiche ambientali. Primo passo evidente in questa direzione è l’approvazione del PRAE (Piano Regionale Attività Estrattive), dopo quasi venti anni di attesa, previsto dalla Lr 37/1985. La legge citata disciplina le attività estrattive con “l’obiettivo di limitare gli effetti diretti e indiretti provocati dall’uomo sull’ambiente”. L’importanza dell’avvenuta approvazione del P.R.A.E. consiste nella raggiunta consapevolezza che risulta più “sostenibile” pensare al recupero del territorio prima che cominci la sua alterazione. Il P.R.A.E., a causa delle difficoltà riscontate nella sua applicazione, è stato rivisto dall’amministrazione regionale (Nuovo P.R.A.E. – approvato con D.G.R. n. 445 del 23/02/2010), in particolare nella parte relativa alla autorizzazione alla coltivazione, ammessa ora “in aree meno sensibili del territorio e quindi non gravate da vincoli di tutela paesaggistica, naturalistica, storico-testimoniale e/o idrogeologica”. Il P.R.A.E. obbliga gli operatori del settore estrattivo a presentare, per l’apertura di una nuova cava, la “relazione di progetto di recupero ambientale”. Riferimento esplicito alle cave dismesse (art. 13 delle N.T.A.) si ha a proposito della domanda di riattivazione di cave, che viene equiparata alla domanda di ampliamento di attività esistente al fine di “pervenire al recupero ambientale”13. 8

Tra le tecniche di Riuso c’è quella di riscavare tra i cumuli che si stratificavano sui bordi dei bacini estrattivi, talvolta detti “ravaneti”, per trarne nuovo materiale. 9 Luoghi per le pratiche di agricoltura d’eccellenza (colture protette e biologico); Infrastrutture per servizi alla produzione (vendita, esposizione, marketing, operazioni di branding); aree per insediare dispositivi per la produzione di energie alternative (campi fotovoltaici, campi eolici, solare termodinamico); spazi pubblici (parchi, loisir, spettacolo); ricettività legata alla commercializzazione (l’ospitalità dei buyers) 10 Tale dualismo porta a visioni settorializzate del paesaggio estrattivo tra competenze dei servizi geominerari e competenze dell’assetto del territorio e della tutela paesaggistica; tale settorializzazione di fatto non consente ancora una concreta possibilità di percorrere la strada suggerita dal paradigma Reduce, Reuse e Recycle. 11 Prima della Puglia, vi sono Lombardia, Piemonte, Sicilia e Veneto. In Italia 5.834 cave (Rapporto sullo Stato delle Attività Estrattive in Puglia 2010-2011) http://www.ecologia.regione.puglia.it 12 http://www.regione.puglia.it/index.php?page=temi&opz=disptemi&te_id=9&at_id=2 13 Nel merito delle “Norme per il recupero delle cave” il PRAE individua delle “tipologie di intervento” quali: Recupero ambientale; Ripristino; Sistemazione ambientale e Riuso13. In riferimento al “Riuso”, l’art. 12 individua tra le destinazioni ammissibili: recupero naturalistico, produttivo, urbanistico e recupero tecnico. I “riusi” dovranno essere compatibili con la strumentazione sovraordinata (P.U.T.T./P e P.A.I.), nonché con le destinazioni degli strumenti urbanistici locali. Nicola Martinelli, Federica Greco, Francesco Marocco

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Il PRAE contiene la Carta Giacimentologica, strumento utile soprattutto agli operatori del settore per capire la collocazione dei giacimenti pugliesi. Il Piano, inoltre, individua otto aree particolarmente compromesse dall’attività estrattiva il cui uso sarà subordinato all’approvazione di Piano Particolareggiato (P.P.). I PP hanno funzione di riordino dell’attività estrattiva finalizzata al recupero del territorio sotto il profilo paesaggistico ed ambientale. Attualmente sono in corso di redazione tre P.P. riguardanti: il giacimento di Pietra Leccese di Cursi-Melpignano (LE)14, il giacimento della calcarenite e argilla di Cutrofiano15 ed il giacimento marmifero di Apricena (FG)16. Altra importante attività svolta dalla Regione è stata il necessario aggiornamento del quadro delle conoscenze e la creazione di un catasto cave, con “l’obiettivo di puntualizzare lo stato dell’arte del settore estrattivo” in Puglia. Queste informazioni sono state inserite nel SIT in continua fase di verifica e aggiornamento. La Giunta Regionale della Puglia, con delibera n. 1792 del 2007, ha affidato all’Autorità di Bacino della Puglia il compito di redigere una nuova Carta Idrogeomorfologica del territorio pugliese quale parte integrante del quadro conoscitivo del nuovo Piano Paesaggistico Territoriale Regionale (PPTR), adeguato al Decreto Legislativo 42/2004. Nell’ambito delle “Forme ed elementi di origine antropica”, le cave sono state differenziate in “classi”, in considerazione dello stato di attività o meno delle stesse17.

Figura 1. Immagine estrapolata a partire dai dati della Carta Idrogeomorfologica della Regione Puglia 14

D.G.R. 122 del 10-02-2009 - Piano Regionale Attività Estrattive. Art. 5 e 27 N.T.A. delega per la redazione del P.P. del bacino estrattivo di Pietra leccese di Cursi-Melpignano al Comune di Cursi. Concessione contributo per la redazione del Piano. 15 D.G.R. n. 822 del 13-05-2009 - Piano Regionale Attività Estrattive. Artt. 5 e 27 N.T.A. delega per la redazione del P.P. del bacino estrattivo di Cutrofiano. Concessione contributo per la redazione del Piano. 16 D.G.R. 1857 del 13-10-2009 - Piano Regionale Attività Estrattive artt. 5 e 27 N.T.A. delega per la redazione del P.P. del bacino estrattivo di Apricena, Poggio Imperiale e Lesina. Concessione contributo per la redazione del Piano. L’Amministrazione di Apricena, comune capofila, ha stipulato una convenzione con il Politecnico di Bari (febbraio 2010), per la collaborazione tecnico scientifica riguardante il P.P.. Al 2012 sono stati stimati, in termini di volumi estratti circa 30 milioni di mc, e in alcune zone si sfiorano i 100m di profondità. Lo scarto prodotto e accumulato attraverso la realizzazione dei ravaneti è pari a circa il 30% del volume estratto con occupazione di suolo vergine pari a circa 1 milione di metri quadri. Il primo passo per la definizione del Piano Particolareggiato è stato l’identificazione del perimetro (Relazione sulla definizione preliminare del perimetro del piano particolareggiato di Apricena, Maggio 2011). 17 In particolare, le "aree di cava attiva" sono state perimetrale comprendendo nelle stesse anche le aree di pertinenza della stessa [..]. Le aree di cava non in esercizio, a loro volta, sono state differenziate in rapporto alla destinazione rilevabile delle stesse, e possono essere: i) "cave abbandonate" (quando non sono attivi i lavori di estrazione, ma lo stato dei luoghi e comparabile con quello di una cava attiva), ii) "cave riqualificate" (quando un'area in passato interessata da attività estrattiva attualmente ha una destinazione differente, ad esempio produttiva o di utilità sociale), iii) "cave rinaturalizzate" (quando nelle aree interessate in passato dalla coltivazione mineraria si è rigenerata una vegetazione spontanea comparabile con quella delle aree limitrofe). Infine sono state individuate, in rapporto all'elemento cave, anche le "discariche di residui di cava", aree di stoccaggio di materiali lapidei di risulta, ove le stesse non sono ricomprese nelle pertinenze delle cave attive, che spesso danno origine a vere e proprie colline artificiali alte anche 60-70 metri sul p.c. e visibili a notevole distanza (Relazione illustrativa Carta Idrogeomorfolocica). In Puglia, 9.005 ettari sono occupati da cave, di cui 4.048 sono cave attive. Le cave censite abbandonate occupano 2.685 ettari del territorio (30%). Le cave “rinaturalizzate” rappresentano il 4% circa (366 ha). Le destinazioni delle ex aree estrattive riguardano l’uso agricolo (1.135 ha), gli usi industriali (156 ha) e per discarica di residui di cava (558 ha). L’uso ricreativo e/o sportivo e l’uso per servizi e/o urbanistico ha interessato meno dell’1% delle cave pugliesi (55 ha di cave riqualificate per terziario) Nicola Martinelli, Federica Greco, Francesco Marocco

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Attualmente è in corso di discussione il disegno di legge n. 15/2009 del 13-05-2009 riguardante la “Nuova disciplina in materia di attività estrattiva”. Il disegno di legge in questione parte dalle difficoltà riscontrate nell’applicazione della legge regionale vigente (lr. 37/85)18. Fa esplicito riferimento all’onerosità dell’autorizzazione ad estrarre, cui vanno aggiunte le sanzioni amministrative per opere difformi da quelle autorizzate o abusive, per pervenire alla “revisione periodica del PRAE, al funzionamento dello sportello unico (SURAE), al recupero di cave dismesse, incentivando i proprietari privati e promovendo piani e progetti, con specifici accordi o convenzioni con l’Università o altri istituti di ricerca”. Il concetto dell’onerosità dell’estrazione ha portato all’introduzione della tariffa sull’attività estrattiva con D.G.R. 18-02-2013, n. 234 “Art. 22 L.R. n. 19/2010 - Determina della tariffa per le attività estrattive, in linea con quanto già deliberato dalla Giunta Regionale con provvedimenti n.2560/2011 e n. 998/2012, in applicazione dell’art. 8 della L.R. n. 37/1985”. In particolare detto articolo, come modificato dall’articolo 22 della l.r. n. 19/2010, stabilisce che il rilascio dell’autorizzazione regionale e l’esercizio dell’attività estrattiva sono a titolo oneroso e demanda alla Giunta regionale la fissazione dei criteri per la determinazione degli oneri finanziari a carico dei titolari dell’autorizzazione, in relazione alla quantità e tipologia dei materiali estratti nell’anno precedente, nonché i criteri per la ripartizione dei relativi proventi tra Regione, Province e Comuni. Nell’ottica relativa al “recupero delle cave dismesse”19 si colloca il bando per la "Selezione di interventi per il recupero ambientale di cave dismesse”, pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione Puglia n. 123 del 22 luglio 2010. La graduatoria definitiva prevede il finanziamento di 11 interventi di “risanamento e riutilizzo ecosostenibile di aree estrattive dismesse” esclusivamente di proprietà pubblica per un importo complessivo di 10 milioni di euro. Appena conclusa la convezione sottoscritta il 15-12-2008 tra Regione Puglia e Arpa Puglia relativa allo “Studio per la realizzazione di piani e linee guida per la gestione dei rifiuti derivanti da attività estrattive” (D.G.R. n. 1919 del 30-09-2008 Studio di Fattibilità n. 7 asse 2 sul tema “Individuazione di modelli di gestione pubblicoprivati per il recupero di paesaggi degradati a causa delle attività estrattive dismesse”) al fine di: 1 - definire criteri di priorità di intervento e modalità di recupero ambientale e paesaggistico; 2 - proporre modelli di gestione pubblico-privato e strumenti normativi applicabili all’attività di recupero delle cave dismesse”20. Sempre in riferimento al recupero delle cave dismesse si colloca la convenzione tra Regione Puglia e Università del Salento per lo “Studio per l’attività di cava”. Sebbene lo scenario normativo pugliese appaia estremamente dinamico, la stagione dei recuperi delle cave in Puglia di fatto si presenta ancora allo stato iniziale: la sfida consiste nel trasformare queste “ferite del territorio”, frutto di pratiche estrattive centrate sino a poco tempo fa solo sulla produzione, in paesaggi delle opportunità.

3 | Drosscapes dell’estrazione: best practice di Recycling and Re(Land)scaping Il lavoro dell’unità del Politecnico di Bari all’interno della ricerca PRIN Re-cycle “Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture della città e del paesaggio” si compone anche di una parte di confronto con esempi di buone pratiche di riciclo e riqualificazione del paesaggio estrattivo in altri contesti europei. Il criterio utilizzato nella selezione dei casi analizzati non riguarda tanto l’esito progettuale del contesto riqualificato, quanto la possibilità di riconoscere con chiarezza negli esempi selezionati la virtuosità dei processi attivati. Si tratta cioè non tanto di guardare al design della soluzione progettuale (di cui riviste e letteratura specializzata offrono un ampio e consolidato ventaglio21) quanto alla qualità dei processi innescati, attraverso la 18

In particolare “per le carenze organizzative dell’ex “ufficio minerario regionale” che per un certo disinteresse a disciplinare e pianificare l’attività estrattiva pugliese”. La legge si prefigge di ottenere i seguenti risultati: a) pianificare e programmare l’attività estrattiva; b) promuovere lo sviluppo sostenibile nell’industria estrattiva; c) programmare e favorire il recupero ambientale e paesaggistico delle aree di escavazione abbandonate o dismesse; d) incentivare la ricerca di nuovi giacimenti in aree non vincolate, e)incentivare il reimpiego, il riutilizzo ed il recupero dei materiali derivanti dall’attività estrattiva. 19 Prima dell’entrata in vigore della Lr 37/85 20 www.mediterre.regione.puglia.it 21 Si fa riferimento per esempio alla pubblicazione: Holden R. (2003), Nueva arquitectura del paisaje, Gustavo Gili, Barcellona, che raccoglie alcuni esempi considerati ormai dei capisaldi di riferimento in merito alla riqualificazione dei paesaggi estrattivi, come l’Anfiteatro di Hedeland a Roskilde, Danimarca, 1997, opera di Erich Juhl; le Cave di Dioniso sul Monte Pentelico, Grecia, 1994-1997, realizzate da Nella Golanda (scultrice paesaggista) e Aspassia Kouzoupi (architetto); Ferropolis del Buro Kiefer, realizzata a Dessau (Sassonia), Germania, 1995 e la riqualificazione delle Miniere di fosfati del Negev, a Zin, Deserto del Negev, Israele, 1990, opera di Shomio Aronson. Si tratta di esempi di interventi alla scala territoriale, mentre una scala decisamente più urbana assumono altri interventi che pure sono ormai degli esempi di riferimento comune sulla conversione delle cave in attrezzature urbane, come i tre progetti barcellonesi: il Fossar de la Pedrera, opera di Beth Galì 1982-1986, il Parco e l’Auditorium del Sot del Migdia, ancora di Beth Gali, 1988-1992, e il Parco de La Creueta del Coll, opera di Oriol Bohigas, 1983. A questi esempi se ne possono aggiungere altri, che gli autori Greco e Marocco hanno raccolto rispettivamente nei propri lavori di Tesi del Master in Architettura del Paesaggio presso la Universitat Politécnica de Catalunya, Barcellona, dal titolo “El paisaje de las canteras: desde heridas del territorio a Nicola Martinelli, Federica Greco, Francesco Marocco

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Riduzione/Riuso/Riciclaggio nei paesaggi estrattivi pugliesi: un’opportunità di progetto

ricostruzione delle strategie, delle azioni, degli attori coinvolti nei casi analizzati, al fine di mutuare e trasferire tali processi nel contesto di studio della ricerca. Gli esempi scelti sono la Cava del Castell di Sagunto, a Valencia, la Cava del Vulcano del Croscat di Olot, a Girona, e la Cava della Vallensana, a Badalona22. Si tratta di tre casi accomunati da precise condizioni di partenza: (i) l’interesse paesaggistico e l’alto valore dell’intorno nel quale i drosscapes estrattivi sono inseriti, (ii) la natura degli enti coinvolti nelle operazioni di Recycling and Re(Land)scaping, che porta a riconoscere un ruolo fondamentale all’azione congiunta di enti pubblici e attori privati e che, spesso, vede il coinvolgimento di veri e propri enti dedicati, (iii) l’obiettivo del recupero, che vede come prioritaria l’azione di riqualificazione ambientale e paesaggista, rispetto alla dotazione di una attrezzatura urbana dedicata allo svago o al tempo libero, (iv) la rapidità di esecuzione e la pertinenza tecnica e tecnologica delle operazioni di riqualificazione. La volontà di concentrarsi sui processi e sugli attori coinvolti rende secondaria anche una diversità morfologica riscontrabile tra gli esempi selezionati (si tratta, nei tre casi, di cave cosiddette di versante) e il tipo di coltivazione della pietra più diffuso nel bacino di Apricena (dove la tipologia di cava prevalente è invece quella del cosiddetto tipo a fossa23). La vicenda della cava di Sagunto risulta interessante, per l’integrazione del sito della cava tra le risorse che, collegate da un anello circolare che si dipana lungo la montagna del Castello, offrono l’occasione per compiere un percorso naturalistico in un sito dagli altissimi valori storici24, monumentali25 e paesaggistici26. La ricostruzione delle fasi di coltivazione e riqualificazione della cava del Castell27, rende bene l’idea dei paesaggi estrattivi come paesaggi in trasformazione, aiuta a riconoscere nei drosscapes l’esito di una evoluzione da uno stato precedente e contribuisce alla riflessione sui diversi cicli di vita e sulle scale temporali attraversate dai paesaggi estrattivi. L’intervento di riqualificazione, realizzato con fondi della Comunità Europea per l’80% e della Generalitat Valenciana per il restante 20%, è di massimo interesse per la novità dell’intervento, realizzato in tempi brevi e con costi relativamente contenuti; per la semplicità tecnica delle opere28, portate a termine senza intoppi secondo il cronoprogramma iniziale; per l’interesse ecologico ed ambientale; infine, per la possibilità che il caso propone di rispondere al problema della dismissione dei paesaggi estrattivi con una soluzione alternativa a quella della riconversione dell’area in attrezzatura urbana. Il progetto di riqualificazione della Cava del Vulcano del Croscat di Olot riveste un’analoga importanza dato il contesto nel quale essa è inserita, il Parco Naturale de la Garrotxa. Si tratta di una cava utilizzata fino all’istituzione del regime di protezione del sito (1982), per l’estrazione di ghiaia vulcanica. In questo caso l’interesse dell’intervento consiste soprattutto nella presa di coscienza di non poter ripristinare un originario stato dei luoghi29. Si sceglie invece di rendere evidente la memoria dell’attività estrattiva attraverso una ricostruzione dei terrazzamenti di coltivazione. In tal modo si ottiene un duplice risultato: da un lato una contrapposizione tra paisajes de la oportunidad” e nella ricerca Tecniche e Metodologie di Riqualificazione dei Paesaggi estrattivi, il Recupero del Paesaggio delle Cave Pugliesi nelle Politiche di Ridisegno degli spazi aperti nella Città Pubblica e la Valorizzazione e Fruizione del Paesaggio Estrattivo come Bene Culturale, svolta con il tutoraggio di Nicola Martinelli. Si tratta, tuttavia, di esempi che, oltre ad essere ormai datati, hanno fondato il proprio senso, nella brillantezza della soluzione progettuale, più che nella qualità dei processi impiegati. Il taglio del presente contributo cerca invece di ribaltare questa posizione, rimontando a un’analisi dei processi, più che a una disamina delle soluzioni. 22 La scelta di tre contesti spagnoli ha a che fare da un lato con la traiettoria di ricerca degli autori Greco e Marocco che hanno svolto gran parte della propria formazione sui temi dell’urbanistica e del paesaggio nelle università e negli studi di architettura del paesaggio di Barcellona e Valencia, dall’altro lato con la centralità dei temi legati all’attività estrattiva all’interno delle politiche di alcune Comunità Autonome spagnole, come ad esempio la Catalogna, che rendono assolutamente pertinente e trasferibile il riferimento alla qualità dei processi. 23 Per una sintetica ed esauriente trattazione dei diversi tipi di coltivazione estrattiva, si rimanda al testo di Giuseppe Gisotti, Le cave – Recupero e pianificazione ambientale, edito da Dario Flaccovio Editore (2008). 24 Sagunto è uno dei principali insediamenti di epoca romana della costa iberica. 25 La cava si trova sulle pendici del recinto del Castello romano, sul fianco opposto al Teatro romano, restaurato da Giorgio Grassi e Manuel Portaceli. 26 La montagna di Sagunto si erge su una vasta pianura di aranceti, matrice identitaria del paesaggio valenciano, da cui si domina l’orizzonte, fino al mare. 27 L’attività estrattiva avanzava e si interrompeva in base alla necessità di reperimento di materiali da costruzione di qualità da impiegare nella realizzazione di importanti opere civili della città di Valencia (come il porto o il rinforzo degli argini del fiume Turia). 28 Le fasi di recupero possono essere in breve così sintetizzate: abbattimento e ripulita dei tronchi di albero e degli arbusti della zona; ritiro dell’intero strato di terra vegetale esistente; riempimento dell’area di coltivazione con materiali inerti selezionati (500.000 tonnellate per 300.000 mc); terrazzamenti disposti ogni 5 metri di altezza e collegati mediante pendii aventi un rapporto verticale/orizzontale di 2/3 (le scarpate sono collegate da berme aventi 5 m di larghezza); disposizione di un sistema di drenaggio nei terrazzi e nelle scarpate per evacuare il flusso dell’acqua lontano dalla zona di intervento; rivegetazione del terreno, con Pinus Halepensis, Quercus ilex subsp. Rontundifolia, Ceratonia siliqua, Olea europaea e un’idrosemina di Agropyron cristatum, Lolium multiflorum, Lolium perenne, Festuca arundinacea, Veza villosa, Medicago sativa, Melilotus officinalis y Brachypodium phoenicoides e di altre specie della macchia mediterranea. 29 Operazione tecnicamente impossibile, trattandosi di fronti di cava dall’altezza di cento metri e inclinati di oltre 75-80°. Nicola Martinelli, Federica Greco, Francesco Marocco

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Riduzione/Riuso/Riciclaggio nei paesaggi estrattivi pugliesi: un’opportunità di progetto

il paesaggio circostante e il fronte di coltivazione, dall’altro lato la possibilità di utilizzare la circolazione legata all’attività estrattiva come un percorso didattico sul parco naturale e sulle stesse fasi di coltivazione e recupero della cava. Anche il terzo progetto quello del recupero della Cava della Vallensana a Badalona propone soluzioni interessanti, alcune di natura progettuale, quali la volontà di mantenere memoria dell’attività estrattiva e di generare un percorso ricco di punti di vista differenti all’interno del drosscape, ed altre che invece si legano al processo di realizzazione, soprattutto grazie al coinvolgimento di un ente di gestione (la Gestora Metropolitana de Runes): un ente pubblico che si occupa di redigere direttamente i piani di recupero e che disciplina le diverse fasi e modalità di riqualificazione del sito, dando sempre maggiore importanza ai criteri di integrazione paesaggistica e riqualificazione ambientale. Si tratta, in definitiva, di esempi che rilanciano alcune questioni fondamentali da tenere presenti nella definizione di una strategia di Recycling per il bacino estrattivo di Apricena, Lesina e Poggio Imperiale, quali: (i) la definizione di una relazione con il contesto paesaggistico di riferimento, (ii) l’inclusione del processo di riqualificazione all’interno dei cicli di vita dell’attività estrattiva, intendendo il momento del recupero non come un’azione da svolgersi a posteriori, ma come un’operazione congenita alla stessa attività di apertura di una cava, (iii) la definizione di tecniche e tecnologie chiaramente applicabili ed economicamente percorribili, (iv) l’identificazione degli attori e delle risorse coinvolte nel processo di riqualificazione, (v) la definizione di enti dedicati che si occupino di definire linee guida e norme di riqualificazione, di fornire supporto alla pianificazione del recupero e di vigilare sull’effettivo rispetto delle norme, (vi) la possibilità di perpetrare il processo di riqualificazione attraverso finalità didattiche da svolgere nello stesso contesto della cava. Includere alcuni di questi processi di qualità nelle attività estrattive di Apricena potrebbe risultare determinante nel riciclare questo esempio di drosscapes.

4 | Conclusioni Alcuni principi per il progetto di riuso/riciclo dei paesaggi estrattivi pugliesi possono essere così articolati: Attraversare le scale: dalla dimensione paesaggistica del fenomeno estrattivo regionale (Gargano-Tavoliere, Trani e Puglia Centrale, Salento), all’unità territoriale del bacino estrattivo a quella puntuale della cava (a fossa, a versante…) alla microscala - quella tecnologica - del materiale lapideo estratto (nelle filiere produttive estrazione-lavorazione-commercializzazione); Attraversare il tempo e i cicli di vita dei bacini estrattivi tenendo in considerazione: (i) i tempi lunghissimi dei processi naturali, degli assetti idrogeologici dei bacini, delle condizioni del soprassuolo e del sottosuolo, delle falde acquifere e delle loro tutele; (ii) i tempi lunghi dei cicli di vita dei giacimenti e delle cave: attivi, in corso di esaurimento, esauriti e dismessi. I tempi lunghi sono anche funzione dei regimi autorizzativi: con autorizzazione, autorizzate in via transitoria, con provvedimento di sospensione. Processi disposti nell’arco dei decenni; (iii) i tempi brevi del materiale estratto, e delle sue filiere produttive (segato, lavorato, commercializzato) che seguendo le fluttuazioni e le trasformazioni del mercato nazionale e internazionale della pietra si trasforma in archi temporali annuali e/o mensili. Da alcuni mesi è questo tipo di sperimentazione che l’Unità di Ricerca del Politecnico di Bari della ricerca PRIN Recycle Italia sta portando avanti.

Bibliografia Battaino C. (2010), Extrascapes. Oltre le cave. Il progetto di ricomposizione del territorio scavato, Edizioni Della Laguna, Trento Figueras Feixas M. (1995), «Restauració volcà Croscat», in ON Diseño, n. 164 Gisotti G. (2008), Le cave – Recupero e pianificazione ambientale, Dario Flaccovio Editore, Palermo Greco F., Marocco F. (2009), Il paesaggio estrattivo, da ferita del territorio a luogo delle opportunità, in AA.VV., Il progetto dell’urbanistica per il paesaggio, XII Conferenza Nazionale Società Italiana degli Urbanisti, Mario Adda Editore, Bari, p.76 Holden R. (2003), Nueva arquitectura del paisaje, Gustavo Gili, Barcellona Lynch K. (1990), Wasting away, traduzione italiana a cura di V.Andriello, (1992), Deperire rifiuti e spreco nella vita di uomini e città, Cuen, Napoli. Manzini E., Velloni C. (1998), Lo sviluppo dei prodotti sostenibili, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna (RN) Pavan V. (2010), Architetture di cava, Motta Architettura, Milano Trasi N. (2001), Paesaggi rifiutati paesaggi riciclati. Prospettive e approcci contemporanei. Le aree estrattive dimesse nel paesaggio: fenomenologia di un problema progettuale, Librerie Dedalo, Roma Viale G. (1999), Governare i rifiuti, Ed. Bollati Boringhieri, Torino Viale G. (2000), Un mondo usa e getta. La civiltà dei rifiuti e i rifiuti della civiltà, Ed. Feltrinelli, Milano Nicola Martinelli, Federica Greco, Francesco Marocco

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Riduzione/Riuso/Riciclaggio nei paesaggi estrattivi pugliesi: un’opportunità di progetto

Sitografia Regione Puglia Sito Istituzionale http://www.regione.puglia.it/ Rapporto sullo Stato delle Attività Estrattive in Puglia 2010-2011, http://www.ecologia.regione.puglia.it P.R.A.E. Regione Puglia http://ecologia.regione.puglia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=950:prae&catid=274:pprof ondimenti-servizio-attivita-estrattive Relazione sulla definizione preliminare del perimetro del piano particolareggiato di Apricena http://host210207static.8794b.business.telecomitalia.it/Comune/Alboonline/FileDownload.aspx?DocumentType =albo&FileName=2011_0685_3.pdf Disegno di legge n. 15/2009 del 13-05-2009 riguardante la “Nuova disciplina in materia di attività estrattiva” http://www.consiglio.puglia.it/applicazioni/cadan/cms_NotiziarioLegislativo/dataview.aspx?id=154393 Relazione illustrativa Carta Idrogeomorfolocica http://www.adb.puglia.it/public/news.php?extend.70 Studio per la realizzazione di piani e linee guida per la gestione dei rifiuti derivanti da attività estrattive http://www.mediterre.regione.puglia.it

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L’incerto destino delle aree produttive nella città diffusa tra pratiche di riuso e convivenza con il declino.

L’incerto destino delle aree produttive nella città diffusa tra pratiche di riuso e convivenza con il declino Cristiana Mattioli Politecnico di Milano DAStU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Dottoranda in Governo e Progettazione del Territorio Email: cristiana.mattioli@mail.polimi.it Tel: 393-1743030

Abstract Il paper presentato, work in progress della ricerca di dottorato, vuole riflettere sulla tematica della trasformazione dei territori produttivi del Nord Italia e sulle possibilità di riuso e rifunzionalizzazione di queste aree. I processi di “metamorfosi” degli spazi del lavoro, analizzati nel distretto ceramico di Sassuolo, riguardano “tattiche di sopravvivenza” avviate da singoli proprietari per contrastare lo svuotamento, come la frammentazione degli spazi e il riuso delle coperture a fini energetici, ma anche processi di sostituzione (oggi forse in crisi?) e interventi di ampliamento e rinnovo architettonico attuati da imprese leader. Sebbene alcune esperienze progettuali aprano scenari innovativi di riuso, riconnettendo le aree produttive al territorio, e introducano nuovi elementi di processualità nella pratica urbanistica, la numerosità delle situazioni di sottoutilizzo e dismissione impone alla disciplina non solo di prestare maggiore attenzione ai paesaggi della produzione, ma anche di interrogandosi sul tema della selezione, della “rovina” e sulla programmazione del declino. Parole chiave svuotamento produttivo; città diffusa; pratiche di riuso.

Introduzione I territori della dispersione nel Nord Italia La recente crisi finanziaria ed economica ha coinvolto le imprese manifatturiere italiane già interessate da importanti processi di ristrutturazione aziendale e riposizionamento competitivo, iniziati 10 anni prima e tesi ad adattare la produzione ad un mutato contesto globalizzato (Corò, 2012). In modo particolare, è nei territori del diffuso che oggi sono in atto importanti modificazioni e adattamenti, che passano anche per la riorganizzazione spaziale dei luoghi del lavoro. A ciò si combina una rinnovata richiesta di intervento pubblico, che le amministrazioni locali faticano a mettere in atto – a causa delle ridotte risorse finanziarie e di una più generale impreparazione ad affrontare la presente situazione di crisi economica, sociale e ambientale. Per questo, appare oggi necessario tornare ad «osservare gli stessi territori, quelle case di famiglia e quei capannoni, per accorgersi che un diverso ciclo ha iniziato a svolgersi accanto al precedente» (Zanfi, 2011: 2). In particolare, il paper si concentra sui territori della dispersione insediativa del Nord Italia, quell’area da sempre ritenuta la più avanzata del Paese e che oggi sembra essere, da un lato, in grave sofferenza; dall’altro, alla ricerca di un nuovo modello di sviluppo sostenibile e compatibile col territorio. Dopo il periodo “spontaneistico” di urbanizzazione della campagna e decentramento produttivo, «fase della diffusione del capannone industriale senza qualità e senza cura per l’ambiente e il paesaggio» (Pavia, 2012: 91), gli spazi produttivi cominciano ad organizzarsi in distretti industriali e a strutturarsi nella forma di placche produttive di maggiori dimensioni (Lanzani, 2012). Con il crollo della grande industria nel Nord-Ovest e la riorganizzazione competitiva delle PMI all’insegna dell’acquisizione e dell’aumento dimensionale, si assiste poi all’emergere delle medie imprese, agganciate al “capitalismo delle reti” (Bonomi, 2007) e tuttavia radicate localmente. La dispersione urbana, che ospita ormai servizi e attività terziarie, diventa città; conurbazioni urbane Cristiana Mattioli

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nascono lungo assi privilegiati, e il Nord viene letto come un “arcipelago” di territori, sistemi produttivi e forme del lavoro che, complessivamente, strutturano una “megalopoli” (Turri, 2000). Quello che si configura è dunque uno spazio economico forte a livello europeo, sostanzialmente omogeneo (Perulli & Pichierri, 2010), in cui reti di città e di impresa danno vita ad una piattaforma produttiva formata da sottosistemi in relazione fra loro e con l’esterno.

Metamorfosi dei luoghi della produzione I paesaggi produttivi della città diffusa fra svuotamento e riqualificazione L’immagine del Nord come spazio geografico, economico e sociale unitario può essere la base dalla quale partire per una lettura dei fenomeni contemporanei di metamorfosi dell’impresa e dei territori della produzione. In particolare, sembra interessante studiare quei territori “periferici” che continuano ad essere raccontati come “altamente produttivi”, dinamici e innovativi. Se è vero che, come sottolineato recentemente da Prodi, l’Italia può rilanciare lo sviluppo del Paese solo ripartendo dalla manifattura, l’urbanistica deve forse interessarsi nuovamente al paesaggio produttivo che «si è progressivamente costruito attraverso la mobilitazione individualistica degli imprenditori, supportata dalle strategie dei governi locali e dei piccoli operatori immobiliari, nei confronti delle quali la progettazione non ha saputo articolare un discorso disciplinare compiuto» (Armondi, 2011: 20). Se ad una prima occhiata questi territori appaiono, a ragione, omologati nella pervasività di elementi ripetuti, “grigi”, monofunzionali e indifferenti al contesto (Merlini, 2009), l’osservazione più ravvicinata rivela, invece, una molteplicità ed eterogeneità di situazioni, esito di processi ormai consolidati e fenomeni nuovi, che si affiancano. Da un lato, quelli di riconcentrazione nelle aree industriali, promossi da imprenditori che hanno cominciato, fra gli anni ’90 e 2000, ad investire nel rinnovo immobiliare, superando l’essenzialità del capannone e organizzando lo spazio produttivo e direzionale in strutture più complesse, attente alla qualità architettonica, al rapporto col paesaggio e all’immagine aziendale (Pavia, 2012) 1. Dall’altro lato, aumentano le situazioni di “svuotamento”, fenomeni plurali, non più legati solo alla deindustrializzazione fordista nella città compatta, ma a processi di selezione che riguardano anche i territori della dispersione insediativa (Zanfi, 2011).

Il distretto ceramico di Sassuolo – esperienza di lettura dei territori produttivi Le differenti condizioni localizzative, unite alle specificità dei singoli settori industriali e della combinazione fra industria e territorio, fanno sì che i fenomeni spaziali in atto nei luoghi del lavoro siano plurali e, in un certo senso, anche contraddittori. Il contributo prova qui a “mettere in campo” categorie e fenomeni spaziali, individuati nella letteratura, al fine di verificarne la pertinenza e consistenza su un particolare territorio: quello del distretto ceramico di Sassuolo. Il comprensorio ceramico detto di Sassuolo-Scandiano si estende su un territorio che interessa 8 comuni nelle province di Reggio Emilia e Modena. E’ un distretto integrato che comprende sia stabilimenti ceramici che industrie complementari – meccanica, colorifici, servizi alle imprese, ecc. – e che si relaziona fortemente con la logistica. La produzione prevalente riguarda la piastrella ceramica e, seppur il settore si sia ridimensionato fortemente, ogni anno si realizzano 400 milioni di mq di prodotto (contro una produzione di 600 milioni di mq raggiunta nel 2001). Delle 163 aziende ceramiche italiane attive, 82 sono localizzate nel distretto. Ciò significa che l’81% della produzione italiana si registra nelle province di Reggio Emilia e Modena. La maggior parte di essa è destinata all’esportazione, soprattutto in Europa (Germania e Francia sono i mercati più attivi) e in Russia2. Dal punto di vista produttivo, a partire dagli anni ’80 – periodo di crisi e selezione –, si è assistito a due processi di espansione/riorganizzazione aziendale: l’acquisizione e l’internazionalizzazione produttiva (Bursi, 2008). Nel primo caso, importanti industrie ceramiche hanno, nel tempo, assorbito stabilimenti di minor dimensione formando gruppi ceramici, leader nel settore a livello internazionale, che contano oggi anche 1.000 addetti sul territorio. L’acquisizione risponde principalmente a esigenze di ampliamento dell’offerta (assorbimento di

1 Nel corso dell’ultima Biennale di Architettura di Venezia, il Padiglione Italiano ha raccolto alcuni degli esempi migliori di architetture del “Made in Italy”, enfatizzando il rinnovato ruolo economico, sociale ed etico dell’impresa. Il variegato ed eterogeneo panorama delle architetture degli spazi del lavoro è segnalato dalla scelta di dividere il repertorio in 5 sezioni: Architetture della Fabbrica, Direzionale diffuso, Architetture nel paesaggio agricolo, Recupero e riconversione produttiva, Densificazioni. 2 Tutti i dati quantitativi sono riferiti all’anno 2011 e sono stati rilevati da Confindustria Ceramica. Per il 2012 non sono previste importanti modificazioni.

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prodotti e marchi) e del mercato (rete commerciale). Dal punto di vista spaziale, i grandi gruppi sono, quindi, aziende multiplant, proprietarie di diversi stabilimenti all’interno – e in alcuni casi all’esterno – del distretto. Ciò che appare interessante è l’assenza di un modello spaziale valido a priori. Ogni ceramica ha adottato, negli anni, processi di espansione della produzione di diverso tipo, adattandosi alle fluttuazioni del mercato e approfittando di “opportunità” offerte dal territorio. Ricorrente è, infatti, il processo di sostituzione produttiva che ha permesso ad aziende solide di comprare stabilimenti entrati in crisi, ex-ceramiche facilmente adattabili e ammodernabili. E’ il caso di Casalgrande Padana, nata sul finire degli anni ’50 da un consorzio di ex contadini locali, che ha ampliato la superficie produttiva in modo incrementale, assecondando l’aumento della produzione. Partendo da due stabilimenti adiacenti, l’azienda ha rilevato prima una, poi due ex-ceramiche, localizzate lungo la stessa strada, a poche centinaia di metri di distanza. La logica perseguita è stata dunque quella della crescita interna, per prossimità. Solo negli ultimi anni (2009) si è deciso di acquisire due stabilimenti di un’altra azienda locale, uno situato in territorio collinare e l’altro a Maranello3. Anche un’altra ceramica localizzata nello stesso comune ha deciso di aumentare la propria capacità produttiva acquisendo altri stabilimenti, ancora attivi o dismessi. In questo caso, però, si è deciso di uscire dal distretto4, assorbendo un’azienda sarda, specializzata nella produzione di un prodotto di nicchia, e uno stabilimento nel Ravennate. Inoltre, è stata rilevata un’ex ceramica a pochi chilometri dalla sede centrale, distanza che non comporta aumenti nel costo di trasporto. L’internazionalizzazione produttiva, invece, è perseguita dalle aziende che vogliono ampliare il proprio mercato in Paesi con una forte domanda interna, evitando gli alti costi di trasporto. Il primo esempio risale agli anni ’80, quando la ceramica Marazzi decise di potenziare il mercato statunitense aprendo uno stabilimento in Texas. Oggi 10 fra i maggiori gruppi aziendali hanno divisioni estere, con 33 stabilimenti produttivi, oltre a presenze commerciali e logistiche. I paesi che ospitano ceramiche italiane sono: Stati Uniti, Portogallo, Spagna, Francia, Germania, Finlandia, Polonia, Ucraina e Russia. A breve a questi si aggiungerà il Marocco, primo esempio in continente africano. Importante segnalare che anche all’estero l’industria delle piastrelle tende ad organizzarsi seguendo la logica del distretto, integrandosi, cioè, con attività di servizio e concentrando la localizzazione delle ceramiche. A differenza della delocalizzazione – che altrove ha lasciato una pesante eredità di stabilimenti dismessi da aziende che si sono trasferite nell’est Europa (Pertoldi, 2010) –, questo processo non risponde alla necessità di produrre in Paesi dove la manodopera, l’energia e la tassazione sono inferiori; le merci prodotte all’estero, infatti, non tornano in Italia. Nonostante questo, gli arrivi di prodotti finiti nel distretto sono alti. Questo perché il distretto rappresenta un hub internazionale, una piattaforma di transito anche per prodotti spagnoli o cinesi. Ciò è segnalato dal fatto che oggi molti capannoni sono colpiti da fenomeni di downgrading funzionale; la produzione ha, infatti, lasciato spazio a magazzini e depositi di piastrelle, gestiti da imprese commerciali. Sostanzialmente, quindi, i due processi brevemente delineati, proseguiti fino agli anni più recenti, non hanno comportato lo svuotamento dei fabbricati produttivi delle aziende ceramiche. Le uniche esperienze di abbandono si riferiscono ad immobili della prima industrializzazione, grandi complessi dismessi già negli anni ’90, localizzati prevalentemente sui confini comunali. Invece, la selezione competitiva e l’internalizzazione di fasi della lavorazione, conseguenti all’attuale crisi, hanno comportato la cessazione di attività complementari, aziende specializzate nel taglio, nella decorazione (detto “terzo fuoco”), contoterzisti, ecc. Nelle aree artigianali, oggi soggette a fenomeni di dismissione molecolare, è facile incontrare spazi sfitti e situazioni di invenduto, soprattutto nei territori che hanno conosciuto periodi di forte edificazione produttiva - promossa da leggi come la “Tremonti bis”5 -, dove l’offerta di spazi è superiore alla domanda. Anche negli ex stabilimenti ceramici, già sottoposti a processi di riuso e di frazionamento, è difficile non contare spazi che restano vuoti per periodi molto lunghi o accolgono usi “intermittenti”. Nonostante la buona accessibilità e visibilità delle aree, gli operatori denunciano un’elevata difficoltà di posizionamento sul mercato di questi spazi di taglia media. Situazione che obbliga i proprietari a rinegoziare i contratti con i locatari, abbassando gli affitti, o a prevedere “canoni scaglionati” per agevolare l’avvio dell’impresa. Un fenomeno emergente è anche il riutilizzo dei capannoni per la produzione di energia elettrica, attraverso pannelli fotovoltaici posti sulle coperture, recuperate grazie agli incentivi di eliminazione dell’eternit. Queste situazioni denunciano l’attuale condizione di “rallentamento” degli interventi di riqualificazione e sostituzione, ormai consolidati presso le amministrazioni locali. Infatti, a partire dagli anni ’90, i Comuni hanno 3

Le informazioni sono state raccolte durante un’intervista ad un responsabile dell’azienda (2 aprile 2013). Quest’esperienza consente una riflessione sul distretto e sui suoi confini. Benché oggi il distretto emiliano rimanga, infatti, l’area di riferimento dell’industria ceramica e di riconoscibilità per il prodotto italiano, l’allargamento della rete produttiva su altri territori, anche molto lontani, è un fenomeno ricorrente. 5 Legge 383/2001 che regola la detassazione del reddito reinvestito per l’acquisto di materiali strumentali e che si applica al 50% degli investimenti in eccedenza rispetto alla media degli investimenti dei 5 anni precedenti. Riguarda l’acquisto di beni strumentali nuovi, la realizzazione di nuovi impianti, il completamento di opere sospese, l’ampliamento, l’ammodernamento e l’acquisto di terreni destinati all’edificazione. 4

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predisposto, in accordo con gli imprenditori, operazioni di razionalizzazione delle aree produttive che prevedevano il trasferimento di quelle troppo prossime ai centri urbani, ormai incompatibili con la residenza, e l’ampliamento degli stabilimenti localizzati in aree marginali. Le aree liberate e bonificate venivano quindi trasformate in quartieri residenziali6. Oggi, la stagnazione del mercato immobiliare e la diminuzione della domanda residenziale hanno bloccato queste iniziative, facendone ricadere i costi sulle cooperative edilizie. Solo la media distribuzione sembra in grado di valorizzare le aree ex-industriali, dando vita anche a vere e proprie strip commerciali. Un recente intervento di delocalizzazione interna ha coinvolto la ceramica Valsecchia, che ha dismesso la propria sede di Castellarano – in via di demolizione (Figura 1) – per spostarsi in un’ex ceramica, a valle, chiusa a causa della recente crisi. Sarà interessante documentare gli esiti di questo trasferimento che potrebbe, come in altri casi, lasciare un’area vuota, ingombra di macerie e materiali scartati, drosscape della precedente produzione (Berger, 2006).

Figura 1. La demolizione della ceramica Valsecchia a Castellarano (RE). Foto scattata nel mese di marzo 2013.

Alle situazioni di svuotamento molecolare e alle cessazioni aziendali si affiancano poi interventi di ampliamento, ristrutturazione e qualificazione – tecnologica e di immagine – delle medie imprese leader, per le quali la qualità ambientale diventa uno degli asset strategici sul quale impostare la propria competitività e reputazione. Nel diffuso si assiste quindi a processi di densificazione e rinnovo architettonico: le imprese innovatrici, che si terziarizzano, realizzano headquarters, dotati in alcuni casi di servizi aperti anche alla città (es. asili, mense, ecc.), landmark che danno visibilità all’azienda e valorizzano, al tempo stesso, il territorio – anche attraverso il coinvolgimento di architetti di fama internazionale. Da questo punto di vista, due sono i casi di maggiore interesse nel distretto ceramico. La ceramica Florim ha deciso di concentrare la propria produzione chiudendo alcuni stabilimenti periferici. Al contempo, la sede centrale è stata oggetto di importanti interventi volti a migliorarne il funzionamento: un moderno magazzino verticale è in corso di realizzazione in un’area di nuova urbanizzazione; le aree più obsolete sono state demolite per far spazio ad uno show room-spazio eventi, di alta qualità architettonica e dotato di impianto fotovoltaico7. La qualificazione architettonica è una strategia da sempre perseguita anche dalla ditta System, produttrice di macchine ed impianti per la ceramica, che ha deciso di diversificare la propria attività brevettando la produzione di piastrelle sottili. Lo stabilimento di Laminam, reparto ceramico, è un elegante box rivestito con il materiale ceramico prodotto dall’azienda stessa, che diventa un elemento di comunicazione della sua innovatività tecnologica8. Diverso, invece, l’approccio della già citata Casalgrande Padana. Con la realizzazione della Pedemontana, adiacente allo stabilimento, si è deciso di riorganizzare il magazzino scaricando il traffico pesante sulla nuova arteria. Il nuovo ingresso è stato, quindi, qualificato con la realizzazione di un monumento 6 Il PRG del Comune di Casalgrande, adottato sul finire degli anni ’90, prevedeva la delocalizzazione delle ceramiche ubicate lungo la statale, fra il centro urbano centrale e il borgo collinare (Casalgrande Alto). Per queste Zone di Trasformazione, il Piano aveva previsto la sostituzione residenziale, con un aumento della popolazione locale di qualche migliaia di abitanti. Oggi, in fase di redazione di PSC, il Comune ha deciso di limitare questi interventi, sostituendoli con operazioni commerciali o confermando lo stato di fatto (aree artigianali) (Intervista al Sindaco di Casalgrande, 5 aprile 2013). 7 Le informazioni sono state raccolte durante un’intervista ad un responsabile della ceramica Florim (22 aprile 2013). 8 Le informazioni sono state raccolte durante un’intervista ad un responsabile del gruppo System (20 maggio 2013).

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commissionato all’architetto giapponese Kengo Kuma, in concomitanza con il 50° anniversario della ceramica. La “nuvola”, una struttura leggera realizzata con lastre di ceramica bianca autopulente (prodotto dell’azienda), rappresenta la “porta” ad ovest dell’intero distretto e rende riconoscibile il territorio, attraverso un segno forte e di alto valore culturale (Figura 2).

Figura 2. La “Casalgrande Ceramic Cloud” di Kengo Kuma: porta del distretto ceramico.

Aperture progettuali e limiti (congiunturali?) Il paper, che sintetizza parte dell’analisi bibliografica e le prime operazioni sul campo della ricerca di Dottorato, ha voluto riflettere sulle trasformazioni avviate negli ultimi decenni nei territori della produzione del Nord Italia, distinguendo le situazioni di ristrutturazione e qualificazione da quelle di sottoutilizzo e dismissione. Soprattutto, confrontandosi con la presente situazione di crisi, si sono enfatizzate le dimensioni del riuso e del riciclo (sostituzione), «uniche strategie sostenibili di intervento in grado di generare innovazione, consenso e produrre bellezza» (Ricci, 2011: 70) attraverso la possibile rottamazione del patrimonio produttivo dismesso e il più generale ripensamento dello sviluppo del territorio. Oggi alcune esperienze progettuali evidenziano come «il capannone [sia] il punto di inizio, in particolare, di un’ormai necessaria “manipolazione simbolica” del modello diffuso e punto di inizio dell’elaborazione di un paesaggio diverso da quello rurale» (Viganò, 2011: 117). Utilizzando lo spazio produttivo come “occasione” per ridefinire “pezzi di città” e di territorio, questi interventi cercano spesso un legame fra industria e paesaggio agrario. Un esempio è il progetto “Videoplastic 2.0” di Ubistudio e DIAP-Politecnico di Milano, premiato al concorso “Riusi Industriali 2012” di Confindustria Bergamo. In rispetto alle richieste del bando, il progetto mantiene la destinazione produttiva del sito, combinandola alla dotazione di servizi e integrando l’edificio col paesaggio circostante. Soprattutto, di grande interesse è il processo proposto che, in una condizione di incertezza, delinea 4 “storie del futuro”, racconti della possibile evoluzione del luogo: l’uso temporaneo, la centrale elettrica, il condominio produttivo e l’apertura alla città. Sono scenari incontrati nel corso del paper, che possono anche combinarsi, e che reinterpretano fenomeni già in atto sul territorio, confrontandosi con la diminuzione della leva immobiliare e la riduzione di risorse. Infatti, l’esplorazione iniziale del caso studio ha permesso di evidenziare le difficoltà che si incontrano oggi nell’approcciarsi al tema del riuso e della sostituzione di aree produttive. La pubblica amministrazione non ha oggi le risorse per intervenire direttamente, magari attraverso interventi di bonifica e rinaturalizzazione dei siti; d’altra parte il mercato immobiliare stagnante non consente più la loro riconversione residenziale. Resta la grande e media distribuzione ma è plausibile immaginare, alla luce di alcuni episodi di demalling e di ridimensionamento degli spazi, che anche questa leva presto si esaurirà per saturazione di mercato. Infine, per quanto riguarda i processi di ristrutturazione e qualificazione aziendale rintracciati sul territorio, per i quali andrebbero implementati gli effetti sul contesto, iniziano ad emergere casi di difficile riconversione conseguenti proprio alla natura “su misura” dei luoghi di lavoro (Zanfi, 2013). E se anche le aziende leader entrano in crisi e chiudono, se gli edifici di maggiore qualità architettonica diventano “relitti” vuoti, come si può pensare di intervenire sull’enorme distesa di capannoni sottoutilizzati inseriti nelle aree industriali della città diffusa? La disciplina urbanistica, e l’architettura, devono oggi, seppur in ritardo, riflettere sul declino di materiali urbani ed interi territori, anticipandolo e pianificandolo; soprattutto, devono saper selezionare ciò che può essere riutilizzato e recuperato (definendo criteri e immaginando nuovi usi) e ciò che, semplicemente, può essere messo in sicurezza e mantenuto come “rovina del contemporaneo”, almeno temporaneamente. Se, come Lynch, riteniamo che «le strutture che guardano al futuro possiedano caratteri particolari: una scala modesta, bassa densità ed altezza, abbondante spazio aperto interno ed esterno, parti separabili, costruzione Cristiana Mattioli

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L’incerto destino delle aree produttive nella città diffusa tra pratiche di riuso e convivenza con il declino.

“rappezzabile” ed estesi e connessi reticoli» (Lynch, 1992: 241), allora forse resta qualche speranza per gli spazi “senza qualità” della produzione diffusa, o almeno per alcuni di loro.

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Sitografia Sul sito del concorso “Riusi Industriali 2012”, alla pagina “progetti premiati”, è possibile scaricare due tavole di progetto del gruppo Ubistudio – DIAP, Politecnico di Milano per l’area Videoplastic. E’ inoltre possibile visionare il bando e le numerose proposte di riuso di tre stabilimenti industriali situati nella provincia di Bergamo. www.riusindustriali2012.com

Cristiana Mattioli

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Gestione circolare dell’uso del suolo: una risposta al consumo di territorio

Gestione circolare dell’uso del suolo: una risposta al consumo di territorio Giulia Melis Politecnico di Torino SiTI - Istituto Superiore sui Sistemi Territoriali per l’Innovazione Email: giulia.melis@siti.polito.it Tel: 011-1975.1563 Marcella Poncini Comune di Asti Settore gestione del territorio e risorse umane Email: circuse@comune.asti.it Tel: 0141-399.238

Abstract In molte città e regioni europee l’espansione urbana, nonché gli effetti negativi del cambiamento demografico e la trasformazione strutturale dell’economia, hanno causato nuovi problemi, primo tra tutti l’adozione di modelli non sostenibili di uso del suolo, con effetti negativi anche sui cambiamenti climatici. Per gestire questi problemi è stato avviato nel 2010 il progetto CircUse, che mira a promuovere la diffusione e l’applicazione del concetto di gestione circolare dell’uso del suolo, e a dimostrare come l’utilizzo del territorio potrebbe essere ottimizzato e il consumo di suolo ridotto grazie ad una pianificazione attenta al riuso anche temporaneo delle aree dismesse. I progetti pilota stanno affrontando soprattutto problematiche di carattere ambientale: è questo infatti il grande problema che emerge dal confronto tra le varie esperienze, tutte accomunate da problemi di inquinamento del suolo per la cui bonifica sono necessari ingenti investimenti di denaro. In tempi di crisi e di sensibile scarsità di risorse economiche, i progetti di riuso delle aree rischiano quindi di subire una battuta d’arresto e richiedono un ripensamento sulle modalità di azione. Parole chiave Sviluppo sostenibile, recupero, aree abbandonate.

L’uso del suolo nel contesto italiano ed europeo Il consumo di suolo dovuto alla costruzione di nuovi edifici, principalmente ad uso residenziale, è la maggiore causa dell’incremento della superficie impermeabilizzata nel territorio europeo. Il consumo di suolo infatti risulta essere un grosso problema ancora sottovalutato. La cementificazione impoverisce il territorio e il terreno tendendo contemporaneamente a modificare anche gli stili di vita di ciascuno di noi. Una delle principali emergenze ambientali attualmente è il consumo di suolo agricolo causato dalla cementificazione del territorio. Per salvaguardare e proteggere l’ambiente servono dati certi, scientifici, rilevabili e verificabili. Con il documento “Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo” la Commissione Europea ha di recente posto l’attenzione all’eccessivo consumo di suolo, ponendo le basi per un percorso che ha come obiettivo un incremento dell’occupazione di terreno pari a zero da raggiungere entro il 2050, con un obiettivo intermedio al 2020. Sulla base dei dati forniti dall’Agenzia europea dell’ambiente nel contesto della carta sull’uso del suolo Corine Land Cover (CLC) per gli anni 1990, 2000 e 2006, Prokop et al. (2011) stimano che la quota rilevata d’incremento di terreno occupato nell’UE fra il 1990 e il 2000 fosse circa 1 000 km² l’anno, ovvero 275 ettari al giorno, con un aumento delle aree di insediamento pari a quasi il 6%. Dal 2000 al 2006 (Figura 1), l’incremento della quota di terreno occupato è scesa a 920 km² l’anno (252 ettari al giorno), mentre l’area di insediamento totale è aumentata ancora del 3%. Ciò corrisponde a un aumento di quasi il 9% tra il 1990 e il 2006 (da 176.200 km² a 191.200 km²). Giulia Melis, Marcella Poncini

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Gestione circolare dell’uso del suolo: una risposta al consumo di territorio

Figura 1. Terreno occupato per unità amministrativa nel periodo 2000-2006 (Fonte: Prokop et al., 2011).

Le relazioni tra occupazione di terreno e incremento demografico sono eterogenee all’interno del continente europeo, in generale tuttavia i tassi di occupazione di terreno sono superiori all’aumento della popolazione (“occupazione di terreno disaccoppiata”). Dalla metà degli anni ’50 la superficie totale delle aree urbane nell’UE è aumentato del 78% mentre la crescita demografica è stata di appena il 33%. Questo significa che in tutta Europa la tendenza a “prevedere” piani di espansione urbanistica senza un’equilibrata correlazione con le effettive esigenze demografiche è prassi comune. Attualmente, le zone periurbane presentano la stessa estensione di superficie edificata delle aree urbane, tuttavia solo la metà di esse registrano la stessa densità di popolazione. Lo sprawl è un fenomeno pericoloso: la diffusione di nuclei caratterizzati da bassa densità demografica costituiscono una grande minaccia per uno sviluppo urbano sostenibile. Inoltre l’espansione della città eleva i prezzi dei suoli liberi entro i confini urbani incoraggiando così il consumo verso l’esterno, consumo che a sua volta genera nuove domande di infrastrutture di trasporto e pendolari che si spostano per raggiungere il proprio posto di lavoro. Per quanto riguarda l’Italia, negli ultimi anni si sono persi decine di migliaia di ettari di suolo con ritmi che in Lombardia ed Emilia Romagna, tra le poche Regioni per cui esistono dati certi con cui poter avere una sequenza storica, raggiungono i 10 ettari al giorno, circa quindici campi da calcio quotidianamente occupati da infrastrutture ed insediamenti. In Italia infatti il consumo di suolo è cresciuto, negli ultimi cinque anni, al ritmo di oltre 8 metri quadrati al secondo, pari al 6,9% della superficie del territorio nel 2010. Questo significa che per ogni italiano sono andati persi più di 340 mq all’anno. Questi sono i risultati che emergono da uno studio dell’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale (Ispra) sull’andamento del consumo di suolo dal 1956 al 2010. Sempre l’Ispra, sostiene che ogni 5 mesi, viene cementificata una superficie pari a quella del comune di Napoli, mentre il suolo che si perde irrimediabilmente ogni anno è pari all'estensione dei comuni di Milano e Firenze messi insieme. Negli Anni ‘90 l’incremento ha sfiorato i 10 mq al secondo: in Italia il consumo di suolo per oltre 50 anni afferma l’Ispra, è sempre stato al di sopra della media europea (2,3%). Nel 1956 veniva “inghiottito” il 2,8%, per 8.000 kmq (170 mq per abitante); nel 2010 si è arrivati a oltre 20.500 kmq. La classifica delle regioni nel 2010 vede in testa la Lombardia che supera la soglia del 10%, con quattordici regioni oltre il 5%. La perdita di superficie agricola – e la conseguente riduzione della produzione – impedisce al Paese di soddisfare completamente il fabbisogno alimentare nazionale e aumenta la dipendenza dall’estero.

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Gestione circolare dell’uso del suolo: una risposta al consumo di territorio

Gli effetti del consumo di suolo Il consumo di suolo è in gran parte determinato dai trend e dalle dinamiche di sviluppo, che sono strettamente correlati all’andamento dell’economia, al cambiamento demografico e ai flussi migratori. Il suolo è un ecosistema complesso che costituisce l’habitat di una grandissima varietà di specie animali e vegetali e garantisce le funzioni vitali degli esseri viventi. Il suolo è altresì una componente irrinunciabile del paesaggio e del patrimonio culturale: come tale appaga bisogni e necessità materiali e immateriali dell’uomo. La pressione antropica, associata a fattori naturali, può modificare significativamente le proprietà e le capacità vitali del suolo, fino ad alterarne totalmente la composizione originaria, con rilevanti ripercussioni negative sulla vita umana. Gli effetti che si potrebbero verificare sono i seguenti (Preuss, Ferber, 2008):  Perdita di biodiversità e impoverimento del paesaggio  Perdita e degrado dei suoli e le capacità funzionali di base  Impatto sul clima nelle aree urbane (isole di calore)  Sviluppo urbano problematico (città diffusa)  Coesistenza di aree in espansione e in contrazione  Aumento dei costi per le infrastrutture (ai vari livelli di quartiere urbano e regionale)  Minore qualità di vita. Gli obiettivi generali per riuscire a invertire la tendenza attuale possono così sinteticamente riassumersi:  Minimizzare il consumo di suolo  Densificare in modo compatibile la struttura delle città  Recuperare e riqualificare gli edifici esistenti e non utilizzati  Bonificare le aree inquinate per poter proporre un nuovo utilizzo delle stesse. In Italia non esiste una legislazione specifica sul tema del consumo di suolo, nonostante la situazione lo richiederebbe. Associazioni e movimenti nazionali si sono invece organizzati per proporre disegni di legge e censimenti scientifici per poter conoscere e controllare la situazione. Attualmente l’attenzione si sta spostando su come recuperare ampie aree ormai abbandonate e su cui le attività prima attive ora non risultano più operative. L’Italia possiede un vasto “patrimonio” di edifici abbandonati e sottoutilizzati (pensiamo alle fabbriche ormai dismesse, siti di trasformazione, porti abbandonati) che potrebbero essere riconvertiti limitando così l’utilizzo di risorsa suolo nuova e vergine. Il problema in questo senso è rappresentato dai costi di bonifica e dalla mancanza di una legge specificamente riferita al riguardo. Il testo unico ambientale definisce il riutilizzo di siti dismessi in base ai risultati delle caratterizzazioni ambientali e alle concentrazioni di inquinanti presenti nel suolo.

La situazione in Piemonte Nel marzo 2012 è stato pubblicato dalla Regione Piemonte il report “Monitoraggio del consumo di suolo nella Regione Piemonte”, illustrando lo stato storico delle province piemontesi e dei singoli comuni. Il lavoro mostra risultati abbastanza scoraggianti, ma il tentativo è senza dubbio lodevole: infatti le Amministrazioni hanno riscontrato la necessità di conoscere l’effettivo consumo della risorsa suolo sul proprio territorio, in modo da gestire il trend futuro, proponendo modifiche alle leggi esistenti, e poter mettere in atto un migliore governo del territorio. Il tema del recupero delle aree ed edifici abbandonati è anche dettato dall’attuale situazione economica. Lo stallo del mercato edilizio, la carenza di liquidità e una domanda di abitazioni che diventa un bisogno sociale fa riflettere sui modelli finora utilizzati: lo sviluppo edilizio sovradimensionato di tipo residenziale. La crisi del modello di rendita immobiliare di vecchio tipo impone una riflessione sul cambiamento di destinazione d’uso prevalentemente richiesta ed applicata. Quindi l’obiettivo è di generare utili sotto il profilo sociale e eco-compatibile.

Il progetto CircUse Il progetto “CircUse” vede la partecipazione di diversi paesi partner europei (dodici in totale), facenti parte dell’area dell’Europa Centrale (Polonia, Repubblica Ceca e Slovacca, Austria, Germania orientale e Italia settentrionale), che si trovano ad affrontare problemi simili come la forte dispersione insediativa (urban sprawl), l’attuale crisi economica, gli effetti dei cambiamenti demografici. Questi fattori provocano la nascita di schemi insediativi che non favoriscono la competitività e lo sviluppo sostenibile territoriale. La dispersione insediativa infatti, con la sua alta domanda di consumo di suolo, risorse ed energie, può accelerare il processo e le conseguenze del cambiamento climatico (Commissione Europea, 2006). L’obiettivo di CircUse è quello di perseguire la realizzazione di progetti che siano presi a modello come best practice, replicabili, per la sostenibilità nella gestione, pianificazione e amministrazione del territorio. Giulia Melis, Marcella Poncini

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Gestione circolare dell’uso del suolo: una risposta al consumo di territorio

La città è intesa, nell’approccio di CircUse, come un sistema soggetto a varie fasi di utilizzo. I cicli di vita dei materiali costituiscono un modello per la gestione del flusso circolare del territorio. In alcuni casi, interi quartieri e aree industriali vengono smantellati e resi idonei ad un utilizzo successivo, per cui la superficie totale di suolo utilizzato rimane invariata. La strategia di gestione circolare del territorio è volta a riutilizzare i terreni abbandonati. In termini pratici, questa strategia implica: riciclo dei siti abbandonati; elevata densità nei tessuti di espansione; operazioni di completamento e ricucitura del tessuto urbano; uso diversificato degli spazi (mix funzionale). L’approccio gestionale prevede che venga accettato l’uso di nuove aree libere da urbanizzare, ma solo a condizioni specifiche e ove non sia possibile fare altrimenti, mentre favorisce il riutilizzo di aree grazie all’attivazione di tutte le potenzialità di vuoti urbani e aree dismesse. L'intero ciclo di vita, dalla progettazione all’utilizzo, al disuso, all'abbandono, fino al recupero degli edifici e del territorio, rappresenta il nucleo della strategia CircUse, e viene illustrato in Figura 3.

Figura 2. Diagramma della strategia “CircUse”.

L’obiettivo finale è la conservazione dinamica dei siti, ovvero prevederne usi diversi, anche solo temporanei, al fine di evitare l’abbandono definitivo ed il conseguente degrado delle aree: la gestione circolare del territorio, dunque, minimizza la nuova urbanizzazione di terreni ancora vergini, ovvero porzioni di territorio che attualmente costituisco un tassello della "cintura verde" e delle aree agricole intorno alle città, e mette a disposizione, come scelte preferenziali per lo sviluppo urbano, terreni edificabili già esistenti, compresi i terreni abbandonati, spazi vuoti tra gli edifici e altri spazi di risulta. La gestione circolare del territorio non può essere guidata dalle azioni di un singolo stakeholder, per quanto il suo ruolo possa essere predominante. Il risultato può essere raggiunto attraverso gli sforzi coordinati e la collaborazione attiva e costruttiva dei vari stakeholder pubblici e privati che, a diverso titolo, influenzano l’uso del suolo. Questo è di particolare importanza per il riutilizzo di terreni abbandonati, che spesso è visto come compito unicamente dell’amministrazione comunale e raramente come un'impresa che deve essere risolta attraverso uno sforzo di cooperazione complementare tra pubblico e privato.

L’esperienza del Comune di Asti Il Comune di Asti deve affrontare la gestione di molte aree dismesse, con posizioni e caratteristiche molto differenti. L'obiettivo è l'integrazione di azioni complesse per il recupero di aree dismesse all'interno della città, cercando anche la partecipazione di vari soggetti. Inoltre, il riutilizzo di un sito dismesso (terreno o edificio) è un'opportunità per ri-disegnare un luogo: potrebbe essere una nuova opportunità per migliorare il territorio di Asti. In questa circostanza, il progetto CircUse è una sfida fondamentale verso un nuovo processo di pianificazione, orientando in tal modo, la pianificazione urbana. La rigenerazione, ora, è la filosofia di azioni politiche e amministrative sul territorio. Come sappiamo, le sfide di ogni città sono molteplici: le comunità sono in rapida crescita, le economie locali si stanno modificando in base alla contrazione economica, le risorse energetiche sono sempre più preziose e i terreni liberi sono in diminuzione. Per affrontare la situazione, è necessario utilizzare il processo di pianificazione per condividere le priorità, gli obiettivi e ottimizzare le risorse.

Giulia Melis, Marcella Poncini

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Gestione circolare dell’uso del suolo: una risposta al consumo di territorio

L'ex Way-Assauto è un caso pilota interessante: negli anni passati, il sito è stato oggetto di un incidente che ha provocato lo spargimento di sostanze chimiche come cromo e solventi, che hanno raggiunto la falda acquifera. Il sito occupa una superficie totale di 90.000 mq, di cui circa 80.000 sono interessati da attività produttive. La barriera idraulica esistente è stato impiantata dopo l'incidente nel reparto cromatura: si compone di otto pozzi e raccoglie l'acqua che passa nella falda acquifera al di sotto dell’impianto industriale, trattandola sia per il cromo sia per i solventi. Il monitoraggio semestrale (da parte di ARPA Piemonte) indica che il funzionamento della barriera idraulica è efficiente. Il monitoraggio è effettuato su 11 pozzi all'interno dello stabilimento, 22 esterni e 3 pozzi privati, in una zona residenziale vicino alla fabbrica (san Fedele). La bonifica di un sito brownfield (abbandonato e inquinato) comporta la riduzione di tutti i contaminanti noti a livelli considerati sicuri per la salute umana. La riqualificazione può avvenire solo dopo che tutti i rischi per la salute umana e l’ambiente siano stati valutati e rimossi. La bonifica può risultare costosa e complessa: questo aspetto deve essere preso in considerazione prima di operare su terreni abbandonati. Non tutti i siti sono ritenuti idonei alla bonifica, in particolare se i costi di bonifica superano il valore del terreno. Negli ultimi anni numerose nuove tecnologie di bonifica sono state sperimentate, dimostrandosi di essere relativamente a basso costo rispetto ai processi tradizionali, con il vantaggio di proteggere e preservare l'ambiente. L’area offre quindi alla città di Asti l’occasione di una sfida complessa: quando un progetto di riqualificazione di siti industriali in abbandono giunge a buon fine, la rivitalizzazione di un’area genera un notevole beneficio per le comunità locali. Con la formazione di partnership tra vari attori, massimizzando la disponibilità di finanziamenti e implementando i principi di crescita intelligenti, Asti potrebbe dimostrare un approccio avanzato e integrato per gestire i progetti di riqualificazione delle aree dismesse. La competitività delle città non dipende solo dalle infrastrutture materiali, ma anche dalla disponibilità e dalla qualità delle infrastrutture dedicate alla comunicazione (ICT) ed all’accessibilità in senso lato. Il concetto di “smart city” individua l’insieme organico dei fattori di sviluppo di una città, superando il concetto di “città intelligente” intesa come “città digitale fisica”. La città intelligente si accompagna al tema della sostenibilità. La componente intelligente, intesa come innovazione di strumenti e di stili di vita, come rinnovo di paradigmi con cui i servizi sono erogati, può essere la via per la sostenibilità. In questo senso non bastano delle soluzioni puntuali iper-tecnologiche quando la struttura amministrativa che regge una città è obsoleta e non garantisce sostenibilità in nessuna azione. Il progetto di recupero dell’area della ex Way Assauto, di cui si sta sondando la fattibilità materiale, è orientato a proporre una soluzione di polo tecnologico. L’opportunità che si creerebbe è decisiva per le sorti della struttura economica e sociale del territorio. Il progetto CircUse rappresenta per il comune di Asti un’opportunità di riflessione sul tema dell’uso e consumo del suolo, nonché di riutilizzo di contenitori edilizi vuoti o sotto-utilizzati. Unitamente a CircUse, la città di Asti è stata coinvolta nel progetto Smart Cities, del programma SET plan, che ha l’ambizione di raggiungere importanti obiettivi dal punto di vista della qualità della vita, dell’uso dell’energia e delle risorse ambientali con obiettivi di breve (2020) e di lungo termine (2050). Il Ministero della Istruzione, Università e Ricerca ha pubblicato un bando per la selezione e sostegno alla realizzazione di progetti e impianti con elevate caratteristiche di innovazione. La città di Asti presenta numerose caratteristiche che la rendono adatta a candidarsi a partecipare alla competizione internazionale sulle città intelligenti, seguendo l’esempio di numerose città (prevalentemente localizzate nel nord Europa) che sono diventate punti di riferimento in questo scenario. Tra queste le più evidenti sono:  Dimensione media (70.000 abitanti): la realizzazione di progetti di innovazione che abbiano un impatto sul territorio richiede un'area di sperimentazione non eccessivamente ampia, sia per contenere gli investimenti necessari, sia per poter raggiungere rapidamente l’intera popolazione  Presenza sul territorio di impianti, strutture e organizzazioni in grado di supportare i progetti in modo incrementale  Presenza di aree che necessitano di essere riqualificate, sulle quali il governo locale ha già in preparazione piani di evoluzione  Presenza di servizi di informazione e telecomunicazione avanzati, che oggi non coprono l’intero territorio ma che possono essere facilmente estesi all’intera area di interesse

Il progetto di riutilizzo: approccio integrato tra due progetti europei Il progetto che la città di Asti sta portando avanti sull’area Way Assauto, denominato SIREC (Sistema Integrato Rifiuti-Energia-Comunicazioni), presenta caratteristiche di innovazione tali da renderlo candidabile per partecipare alla competizione per la selezione dei migliori progetti del settore Smart City. L’obiettivo ambizioso del progetto è trasformare il territorio astigiano in un polo di riferimento per le città intelligenti, mediante l’adozione di soluzioni tecnologiche innovative finalizzate alla sostenibilità ambientale e alla definizione di servizi avanzati al cittadino.

Giulia Melis, Marcella Poncini

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Il percorso che si propone di avviare tiene in considerazione tutti gli asset che la città ha creato e fatto crescere nel tempo sia dal punto di vista della cultura e delle competenze, sia da quello delle istituzioni e organizzazioni presenti sul territorio, venendo incontro allo stesso tempo ai progetti e iniziative che la città ha già pianificato per i prossimi anni. L’evoluzione di una città verso una configurazione smart costituisce anche una importante opportunità dal punto di vista dell’occupazione: l’avvio di progetti innovativi infatti prevede anche un percorso di formazione per le aziende del territorio, che partecipando alla loro realizzazione in un contesto a loro familiare e relativamente protetto avranno la possibilità di creare nuove competenze e riqualificare quelle esistenti, divenendo rapidamente competitive sul mercato globale. L’introduzione di tecnologie e soluzioni innovative fornisce al territorio anche l’opportunità per la creazione di nuova imprenditoria soprattutto da parte dei giovani, la categoria sociale certamente più adatta alla progettazione e alla gestione dei servizi delle città del futuro. Grande attenzione sarà dedicata, lungo tutto il percorso proposto, al coinvolgimento delle comunità interessate (prima tra tutte quella rappresentata dai cittadini): la creazione di consenso e la trasparenza delle operazioni, oltre ad essere caratteristiche di grande valore sociale e morale, sono fortemente promosse dalla nuova visione europea delle città intelligenti.

Conclusioni Una considerazione riguarda le modalità di recupero delle aree da rigenerare: infatti, mentre in passato era possibile ipotizzare grandi operazioni di trasformazione sulle aree abbandonate, in un periodo in cui le risorse risultano sempre più ridotte, si dovranno riconsiderare tali modalità di intervento in favore di trasformazioni meno onerose ma ugualmente efficaci. Partendo da una visione complessiva, la rigenerazione può essere perseguita attraverso interventi di dimensioni limitate che abbiano una funzione di innesco (“agopuntura urbana”) e che, attraverso processi di trasformazione incrementali, possano contribuire alla graduale rigenerazione di intere porzioni di città. Oggi, infatti, il tema della rigenerazione riguarda la città nel suo insieme ed è necessario prefigurare modelli di sviluppo fino ad ora sostanzialmente inesplorati, ma di cui possono intravvedersi i contorni. Contorni che ci dicono come il termine valorizzazione non abbia più a che fare con il suo connotato economico, ma prevalentemente con i suoi connotati sociali; come il termine sostenibilità vada prevalentemente declinato alla francese, come durabilità; che il termine qualità urbana non rimandi solo a valori estetici, ma anche e soprattutto a valori etici; che il termine sviluppo non sia più sinonimo di entropia, che in ultima istanza sottrae beni, come fa lo sviluppo urbano legato al consumo del suolo, ma di rigenerazione e di crescita. L’esperienza transnazionale sottolinea come tra i vari paesi europei non ci sia una omogeneità per la gestione di un argomento comune: l’uso e il consumo del suolo. Perfino lo Schema di Sviluppo dello Spazio Urbano del lontano 1999, non riuscì a influenzare in maniera così forte i vari governi locali in modo da suggerire la predisposizione di leggi di salvaguardia ad hoc. Manca quindi sinergia: in questa maniera l’efficienza e l’efficacia del prodotto e dell’azione sono molto limitate. Inoltre in Italia esiste anche un ostacolo al tentativo di creare un impianto omogeneo: la mancanza di interrelazione tra i vari piani legislativi e le materie afferenti. L’estrema settorialità delle materie genera difficoltà di dialogo tra i vari livelli preposti al governo del territorio. La spina dorsale di tale processo è la politica integrata di pianificazione, informazione, organizzazione e cooperazione, finanziamento, budgeting e marketing, attraverso le diverse scale dal locale fino a quello europeo e con diverse parti interessate (privati e imprenditori, iniziative pubbliche e istituzioni accademiche). Un ruolo importante gioca la consapevolezza pubblica, la responsabilità e la capacità di utilizzare gli strumenti disponibili in modo creativo ed efficiente che rifletta la specificità del rispettivo ambiente sociale. È necessario motivare i governi nazionali, regionali e locali per fare più sistema e interconnettere gli strumenti per un uso del territorio sostenibile, garantendo una limitazione al consumo di suolo. Questo sistema deve essere creato come gioco bilanciato tra legislazione, pianificazione, strumenti istituzionali e finanziari.

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Giulia Melis, Marcella Poncini

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Produzioni e dismissioni nell’epoca della crisi

Produzioni e dismissioni nell’epoca della crisi Giulia Menzietti Università degli studi di Camerino SAD, Scuola di Architettura e Design di Ascoli Piceno giulia.menzietti@gmail.com

Abstract Nello scenario urbano italiano emergono in maniera sempre più evidente i paesaggi dell’abbandono. Questo contributo si sofferma in particolare sulla presenza dei contenitori nati come spazi per il lavoro e oggi vuoti e abbandonati. Questo tipo di patrimonio rappresenta il risultato della crisi economica e allo stesso tempo costituisce il sintomo di una crisi in atto e di un processo di trasformazione dei sistemi produttivi. Tali aspetti spingono a riflettere su due questioni fondamentali per il progetto contemporaneo: _l’esigenza di “interagire” con questi contenitori dismessi e di elaborare possibili strategie d’intervento capaci di rianimare e riattivare realtà depresse e in disuso; _la necessità di ripensare gli spazi del lavoro alla luce delle nuove esigenze e delle nuove modalità di produzione. I temi del lavoro e della produzione rappresentano delle questioni cruciali nell’ambito del disegno dello spazio e nell’analisi delle trasformazioni urbane. Il contributo avvia un’indagine sui possibili scenari dei luoghi della produttività in Italia. Vengono delineati i caratteri dei nuovi spazi del lavoro alla luce dei futuri modelli di impresa e di produzione e delle trasformazioni del mercato, e viene approfondita la questione della dismissione e delle possibilità di riuso e riciclo di capannoni e strutture produttive dismesse. Parole chiave Dismissione, riuso, produzione

Scenari La crisi finanziaria che sta coinvolgendo buona parte dell’Europa apre diverse riflessioni sulla questione delle attività produttive. L’assenza di lavoro fa emergere in negativo l’importanza e la centralità che la stessa ricopre, tanto nelle singole storie quotidiane, quanto nei processi di crescita e trasformazione di interi paesi. Per le discipline che si occupano della progettazione dello spazio, questo tema diventa un nodo cruciale per interpretare il momento contemporaneo e per riflettere sugli attuali mutamenti degli spazi della città. La progressiva dismissione di un elevato numero di aziende e imprese spinge inoltre a ragionare sul cambio di scenario dei modelli produttivi, e sulla prefigurazione di nuove strategie su cui investire e dei relativi luoghi per il lavoro. Due aspetti fondamentali descrivono lo scenario contemporaneo dal punto di vista delle trasformazioni del lavoro e degli spazi pensati per le attività produttive: _la presenza di un vero e proprio patrimonio di capannoni in disuso, di fabbriche e uffici oggi abbandonati e dismessi; _una progressiva smaterializzazione degli spazi per le attività lavorative, che non hanno più bisogno di collocarsi in strutture esclusivamente pensate per la produzione, ma che sempre più spesso si adattano a contesti meno specifici. La possibilità di riciclare questo patrimonio di capannoni dismessi e lo sviluppo del sistema di lavoro del coworking diventano le questioni su cui il progetto contemporaneo è tenuto a misurarsi: «l'attuale crisi non solo mette in luce un rivolgimento generale del sistema lavoro ma chiede una progettualità totale: non servono solo e semplicemente progetti architettonici ma idee che sappiano coniugare nuove immagini, nuovi prodotti, nuovi processi, nuovi luoghi, il tutto sulla base di un'economia debole e ancora diffusa» (Marini, 2012: 13). Giulia Menzietti

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Episodi di qualità e ‘capannoni senza padroni’1 Nella XIII edizione della Biennale di architettura di Venezia, all’interno del Padiglione Italiano, viene allestita Le quattro stagioni2, un’esposizione curata da Bruno Zevi dedicata agli spazi del lavoro in Italia. A partire da alcuni picchi allarmanti registrati dalla crisi economica e sociale del nostro paese e di parte dell’Europa, la ricerca apre una riflessione su quelli che sono gli strumenti della produzione e sui rapporti tra questi dispositivi e il disegno del territorio. Il common ground tra le ragioni dell’architettura e quelle dello sviluppo economico, tra la progettazione dello spazio e l’imprenditoria viene raccontato attraverso quattro stagioni, in un percorso che prende le mosse dalle esperienze di Adriano Olivetti, negli anni Cinquanta, fino ad arrivare a dei sistemi di Green Economy che verranno avviati con le sperimentazioni dell’Expo 2015. Tra questi quattro momenti emerge come terza fase la stagione del Made in Italy, che registra un rapporto di rinnovata sinergia tra industria e progettazione dello spazio. Nella mostra si fa riferimento a quei progetti realizzati negli ultimi quindici anni in cui una committenza sensibile alla qualità degli ambienti ha trasformato i propri stabilimenti in vere e proprie architetture d’autore: le opere di Lissoni per gli stabilimenti della ditta Glas Italia (2005-2010 Macherio) e per la Boffi (2007, Lentate sul Seveso), il centro ricerca e sviluppo B&B Italia di Antonio Citterio e Patricia Viel and Partners a Novedrate (CO) del 2002, gli uffici direzionali della Piaggio di Michele De Lucchi a Pontedera. Queste opere costituiscono delle eccellenze, degli sporadici episodi di architettura di qualità inseriti in un sistema raramente progettato, che spesso trova le proprie ragioni esclusivamente nelle esigenze della produzione e del mercato. Ad eccezione delle architetture sopra citate, il paesaggio degli spazi per il lavoro in Italia è costituito sostanzialmente da una trama pulviscolare di singole unità produttive, generate da un pensiero imprenditoriale e da un sistema economico oggi profondamente mutati. Molte di queste strutture produttive della piccola e media impresa si trovano oggi in condizioni di disuso e abbandono, e rappresentano il lascito di un sistema di produzione che ha subito, tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, un radicale processo di trasformazione. In quegli anni le fabbriche avviano una ristrutturazione del sistema industriale e danno inizio ad una fase di esternalizzazione della strategia produttiva. Da un’unica grande industria si passa ad una serie di piccole e medie imprese, che vanno a spargersi nelle zone periferiche, in quelle aree che i piani regolatori avevano destinato ad attività produttive. «Il decentramento produttivo, l’affermarsi in molte regioni del paese dei distretti industriali, il recupero economico delle città intermedie e minori, insieme ad un sostenuto decentramento residenziale hanno prodotto l’immagine di un territorio che si riorganizza per sistemi urbani diffusi e filiere produttive e decisionali orizzontali. Alla diffusione urbana corrisponde un’organizzazione orizzontale dell’impresa e della società. Il processo produttivo si decentra, si mette in rete, allo stesso modo si espande e assume autorevolezza il sistema delle autonomie locali e il protagonismo dei sindaci» (Pavia, 2012:91). Questo processo si riflette nel territorio con la costruzione intensiva di un numero sovradimensionato di capannoni e piccole fabbriche, soprattutto nell’area del Nord-est dell’Italia, nelle zone del Veneto e del Friuli. In seguito alla segmentazione del processo produttivo, i piccoli imprenditori si specializzano su singoli settori e avviano la propria attività all’interno di strutture costruite accanto alla propria abitazione, spesso collocate lungo gli assi stradali a scorrimento veloce, ai margini della città. Cresce il numero dei capannoni, o casannoni (Bertorello, 2009) nella maggior parte dei casi realizzati in cemento armato, a campata unica e volta a botte, in un’ossessiva ripetizione del modello della shoe box. Queste strutture sono state attive fino a meno di dieci anni fa, quando la chiusura di diverse imprese ha determinato la cessazione delle attività e lo smantellamento e l’abbandono dei relativi contenitori. Oggi buona parte di queste strutture si trova in condizioni di disuso e degrado. La recente crisi del manifatturiero ha fatto emergere la consistenza di questo patrimonio di capannoni abbandonati, spesso dismessi immediatamente dopo la loro realizzazione. Dal 1970 al 2007 la superficie costruita di Trevignano passa da 124,65 ettari a 591,27 ettari. Un’indagine avviata a partire dal 2004 di Unindustria Treviso (Montagnin, 2012) rileva che almeno il 30% di questo patrimonio è oggi costituito da edifici industriali non funzionanti. Il risultato è la presenza di contenitori vuoti, che si stanno ormai trasformando in elementi specifici del paesaggio di alcune aree del nord est. Lungo la Valsugana, la Pontebbana e la strada del Santo campeggiano le scritte “vendesi” e “affittasi”, risultati di un’ipertrofia produttiva e costruttiva avviata a partire dagli anni Settanta e che ha visto in poco tempo esaurire le proprie risorse e gli obiettivi imprenditoriali che l’avevano generata.

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Workshop di progettazione Capannone senza padrone, promosso da Fondazione Francesco Fabbri, Festival città dell’impresa, Centro studi USINE, Solighetto di Pieve di Soligo (TV), Aprile 2011. 2 Zevi, L. (a cura di 2012), Le quattro stagioni. Architetture del Made in Italy, Padiglione Italia, in Chipperfield, D. (a cura di 2012) XIII Biennale di Architettura di Venezia Common ground, 29 Agosto-25 Novembre 2012. Giulia Menzietti

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Dismissioni e riciclaggi dei luoghi del lavoro Questo tipo di patrimonio, dismesso e in abbandono, costituisce l’oggetto, la materia con cui il progetto d’architettura e il disegno dello spazio urbano sono tenuti oggi a confrontarsi. Gli strumenti e le pratiche di trasformazione urbana si trovano a dover gestire interi brani di città ormai privi del senso, dello scopo per cui erano stati pensati, compromessi da un avanzato stadio di degrado e dunque inadatti a reagire alle mutate esigenze del presente. La legge regionale del Veneto (n. 11 art. 36 del 2004) sul credito edilizio incentiva i proprietari dei capannoni a demolire le strutture a proprie spese, offrendo in cambio la possibilità di edificare gratuitamente la stessa volumetria in un'altra zona. Alla possibilità di demolire e ricostruire si aggiungono le strategie di riuso e riciclo del patrimonio esistente in abbandono che, a fronte della mancanza di suoli disponibili e da un’eccessiva cementificazione del territorio, costituiscono una risorsa e un’opportunità per la crescita e la trasformazione delle città. A partire dal 2007 uno dei capannoni dismessi della zona di Castelfranco Veneto (TV) è stato trasformato in uno spazio per eventi. Una scritta stampata sulla parete rinomina il capannone in Spazio antiruggine (fig. 1), un laboratorio per creativi che si colloca nelle pareti abbandonate dentro le quali un tempo si lavorava il ferro. Gli interventi compiuti sulla struttura sono minimi, quasi inesistenti. Lo spazio del capannone è per tipologia indifferente all’uso che se ne fa: un telaio in cemento armato e dei sistemi di rivestimento aprono lo spazio a diverse declinazioni funzionali. Il corpo, la struttura dell’edificio rimane sostanzialmente immutata, quello che trasforma il capannone in spazio per l’arte è la trasformazione del senso, del ruolo che la cultura contemporanea attribuisce al contenitore in disuso. Nel 2008, sempre in Veneto, un ex capannone-showroom di abbigliamento risalente agli anni Sessanta, con annessa abitazione, diventa sede del centro culturale Spazio Monotono. Collocato al centro di una corte condominiale nel “quartiere dei ferrovieri” di Vicenza e nato come luogo per la produzione, lo spazio si trasforma in dispositivo per l’interazione di diverse discipline come l’arte, l’architettura e il design. All’interno di questa piattaforma si sviluppa una serie di progetti specifici ed autonomi, che si insediano negli spazi dell’ex capannone “rianimando” la struttura in disuso e trasformandola in un nuovo dispositivo di sviluppo, generatore di una produzione intellettuale, immateriale e senza opera. Questi processi di trasformazione degli spazi della produzione in laboratori per creativi coinvolgono anche altre realtà e strutture destinate al lavoro. Ai capannoni e alle fabbriche dismesse si aggiungono gli uffici e i centri direzionali in abbandono, elementi di un paesaggio composto dai resti e dai frammenti di un pensiero economico ormai in fase di declino. Nati per soddisfare delle esigenze produttive oggi superate e obsolete, queste strutture soffrono del cambio di scenario avvenuto nel contesto economico. Edifici monofunzionali, pensati esclusivamente per ospitare i presidi amministrativi e uffici direzionali delle grandi aziende si svuotano definitivamente e si dimostrano spesso incapaci di reagire all’attuale scenario della crisi del lavoro. In questo contesto risulta significativa la vicenda della Torre Galfa (fig. 2), un palazzo di 31 piani realizzato nel 1956 su progetto di Melchiorre Bega e abbandonato dalla metà degli anni Novanta. L’edificio, annoverato tra i beni culturali della Lombardia, è stato acquistato e usato per 30 anni come sede dalla Banca Popolare di Milano, per poi essere abbandonato nel 1995. Comprato nel 2006 dalla Fonsai di Ligresti, oggi l’edificio è ancora in attesa di una ristrutturazione, e appare oggi come una rovina contemporanea. A rianimare gli uffici e le sale riunioni abbandonate è intervenuto un gruppo di lavoratori dell’arte che per una settimana, nel Maggio del 2012, ha occupato gli spazi della Torre trasformando l’edificio per uffici in MACAO, un nuovo centro per le arti contemporanee. Un’occupazione pacifica e una serie di eventi hanno sbloccato la situazione d’impasse che coinvolgeva l’ex torre per uffici; l’operazione ha contribuito ad accendere i riflettori su quelli che sono oggi gli scheletri abbandonati di certi spazi per la produzione, che diventano occasioni di trasformazione per la città contemporanea e che spingono a riflettere sui modelli produttivi in via di sviluppo3.

Condividere gli spazi della città La crisi attuale fa da sfondo ad un processo di trasformazione del sistema lavorativo. Capannoni e strutture per uffici dismessi testimoniano dell’incapacità dei relativi modelli produttivi di adattarsi alle esigenze del momento attuale. Le grandi aziende, i gruppi di piccoli e medi imprenditori lasciano progressivamente la scena a un sistema puntiforme, gestito da unità individuali e indipendenti. Gli attori della produzione, soprattutto nel campo della ricerca e della creatività, sono soggetti singoli, free lance che affidano alla propria capacità personale la possibilità di inserirsi sul mercato. La rete di contatti, l’interrelazione di conoscenze, la trama degli incontri diventano fondamentali nell’attività di questi soggetti, che trovano nella città i servizi e le garanzie per questo tipo di relazioni. Il ritorno nei centri si lega anche alla mancata esigenza di costruire sedi ampie e rappresentative. Da qui la possibilità di usare spazi ridotti, spesso inseriti in strutture già esistenti e con

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destinazioni d’uso altre, e l’opportunità di condividere gli stessi con soggetti che hanno identiche esigenze lavorative. Queste coordinate definiscono il sistema del coworking, un modello produttivo che in questo momento sta prendendo sempre più piede. Gli spazi della città tornano a riaccendersi attraverso un sistema di unità che, come parassiti, si collocano in situazioni già presenti nel tessuto urbano, usando le realtà trovate come ambienti di lavoro. Diversi soggetti con professionalità differenti condividono uno spazio la cui proprietà appartiene a terzi. Il coworking diventa l’ambiente fisico e interattivo di un gruppo d’individui accumunati da due aspetti fondamentali: la difficoltà economica nel dover comprare o costruire una sede lavorativa, l’esigenza di fare rete e stabilire contatti e collaborazioni. Questo sistema non necessita di luoghi appositamente pensati e non disegna tipologie specifiche destinate alla produzione. Alla specializzazione delle competenze e all’esigenza di tradurre nello spazio l’immagine della ditta si sostituisce la ricerca di ambienti indifferenti, contenitori vuoti dotati di un’efficiente infrastruttura tecnologica e collocati nelle città, all’interno di circuiti di produzione e comunicazione.

Ripensare gli spazi per il lavoro Questo processo di trasformazione del lavoro costringe architetti e urbanisti a spostare il punto di vista e a ripensare gli strumenti e le pratiche della disciplina. La crisi odierna mette in evidenza i processi di dismissione di diverse strutture produttive. I capannoni e le fabbriche vuote costituiscono oggi un vero e proprio paesaggio dell’abbandono che solleva diverse questioni sulle possibilità di riuso e utilizzo di questi contenitori. Le iniziative promosse da gruppi di ricerca come Temporiuso3 e (Im)possibile living4 testimoniano dell’attenzione crescente mostrata verso questo tipo di realtà, e mettono in pratica l’impiego di strategie capaci di rianimare spazi in disuso con interventi minimi, mirati sostanzialmente a mettere in sicurezza le strutture e a dotarle dei servizi necessari. La trasformazione riguarda il senso, il ruolo attribuito allo spazio rianimato, che viene letto con nuove coordinate interpretative e, nel contesto degli spazi lavorativi, viene declinato secondo le esigenze dei nuovi modelli produttivi. Il progetto per un’architettura specifica degli spazi del lavoro sembra smaterializzarsi in un abaco di possibilità illimitate che accolgono in sé la possibilità di aprirsi a declinazioni differenti. Scompare la committenza e la domanda di ambienti specializzati per attività produttive. Muta il ruolo dell’architetto, a cui si richiede di «codificare una tipologia di approccio piuttosto che una tipologia di spazio» (Ragonese, 2012:47). Il compito del progettista «non si limita più soltanto alla definizione dell’oggetto architettonico, ma diventa strategico nella localizzazione delle aree (o degli edifici) su cui intervenire e nella costruzione di scenari capaci di suggerire al committente sviluppi inaspettati»(Ragonese, 2012:47). Il nuovo sistema lavoro non ha bisogno del disegno architettonico quanto piuttosto dei tracciati, reali o virtuali, dei flussi e dei nodi che possono garantire economie produttive. Il ritorno nelle città restituisce una dimensione articolata e complessa dei luoghi del lavoro: gli uffici, gli headquarters e gli stabilimenti, sedi rappresentative del marchio delle aziende, si smaterializzano in una rete sotterranea di spazi, in cui un tavolo, un computer e tutte le dotazioni tecnologiche necessarie garantiscono la possibilità di inserirsi nelle reti lavorative. La condivisione degli spazi annulla la specificità della domanda, e la possibilità di trovare servizi e stabilire contatti rianima i centri cittadini, accelerando il processo di abbandono delle isole produttive collocate ai margini delle città. Il progetto delle trame capaci di accendere gli spazi sottoutilizzati trasformandoli in nuovi luoghi per il lavoro si sostituisce all’esigenza di costruire architetture o fabbricati destinati alla produzione. La trasformazione di questo sistema muta le pratiche, le comunità e gli ambienti deputati al lavoro. La città torna ad essere la scena delle nuove tendenze produttive, e in questo senso riconfigurare lo spazio del lavoro significa ripensare un’idea di città.

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Temporiuso è un progetto di ricerca che indaga le forme di utilizzo e di appropriazione spontanea di spazi dismessi e in disuso. Nel 2008 i gruppi Cantieri Isola, Precare.it, e alcuni ricercatori del laboratorio multiplicity.lab del DIAP del Politecnico di Milano, si riuniscono nella partnership Temporiuso.net. Obiettivo dall’associazione è riattivare il patrimonio esistente di spazi in abbandono o sottoutilizzati attraverso progetti o occupazioni temporanee. 4 Nel 2011 viene ideata da Andrea Sesta e Daniela Galvani (Im)possibile living. Rethink the abandoned world, una piattaforma online che raccoglie segnalazioni e brevi descrizioni di edifici dismessi e abbandonati nel territorio nazionale e internazionale. Giulia Menzietti

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Produzioni e dismissioni nell’epoca della crisi

Figura 1. Spazio Antiruggine, in http://www.antiruggine.eu

Figura 2. Torre Galfa

Riferimenti bibliografici Bertorello, C. (2009), “Il casannone non è un intruso”, in ! – The Innov(e)tion Valley Magazine n. 2. Marini, S., Committenza totale, in Marini, S., Bertagna, A., Gastaldi, F., L’architettura degli spazi del lavoro. Nuovi compiti e nuovi luoghi del progetto, Quodlibet, Macerata 2012, p. 13. Montagnin, M. (2012), “Veneto, cemento city”, in La vita del popolo di Treviso, disponibile su: http://www.lavitadelpopolo.it. Pavia, R., Territori ed architetture del Made in Italy, in Marini, S., Bertagna, A., Gastaldi, F. (op. cit.), p. 91. Ragonese, M., Spazi condivisi, luoghi ritrovati, in Marini, S., Bertagna, A., Gastaldi, F., (op. cit.), pp. 47, 48.

Bibliografia Qualizza G. (2010), Transparent factory. Quando gli spazi del lavoro fanno comunicazione, Franco Angeli, Milano. Coccia L., D'Annuntiis M. (a cura di, 2008), Paesaggi postindustriali, Quodlibet, Macerata. Ciorra P., Marini S. (a cura di, 2011), Re-cycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, Electa, Milano. Chipperfield D. (a cura di, 2012), La Biennale di Venezia. XVIII Mostra internazionale di Architettura. Common Ground. Catalogo della mostra, Marsilio, Venezia. Marini S., Bertagna A., Gastaldi F. (a cura di, 2012), L’architettura degli spazi del lavoro. Nuovi compiti e nuovi luoghi del progetto, Quodlibet, Macerata.

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Residui e riusi di materiali agrourbani a Matera

Residui e riusi di materiali agrourbani a Matera Mariavaleria Mininni* Università degli Studi della Basilicata DiCEM - Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo Email: mariavaleria.mininni@unibas.it Cristina Dicillo* Università degli Studi della Basilicata DiCEM - Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo Email: cris.dicillo@gmail.com Rosanna Rizzi* Università degli Studi della Basilicata DiCEM - Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo Email: rosanna.rizzi@gmail.com

Abstract Il lavoro che si presenta intende riflettere criticamente intorno al tema del riciclo e del riuso di materiali urbani degradati, nella particolare declinazione di sottoprodotti e relitti del sistema produttivo che reclamano oggi una risignificazione. La ricostruzione lucana delle vicende di questi presidi degradati o dismessi, memoria di una città fabbrica che oggi lascia il posto a nuove vocazioni, consente da un lato di rileggere i processi storici di metamorfosi e interazione tra urbanità e paesaggio agrario italiano, dall’altro diventa opportunità per comprendere le prospettive di un nuovo modello agrourbano dentro cui assume senso un progetto di riattivazione di questi manufatti conservando, aggiornandole, le funzioni originarie. La rilettura del sistema complesso di produzione e residenza costituito da fabbriche, Mulini, borghi e quartieri della Ricostruzione,offre alla riflessione materiali di un passato agrourbano da ricollocare nella storia contemporanea di una missione urbana per Matera. Parole chiave riuso, agrotown, aree interne.

1 | Il riciclo come infrastruttura e dispositivo per il progetto della periurbanità: Agrourbanità a Matera Il riciclo in questa ricerca è inteso come una possibilità per lavorare sul cambiamento di paradigmi culturali in grado di rilanciare idee e di rafforzare la cultura della società civile mobilitandola soprattutto a partire da un contesto meridionale, dove si vogliono sondare le nostre proposte, convinti dell’idea che si può crescere risparmiando. Il riciclo si oppone all’idea di rapina delle risorse, per diventare prerogativa strategica per il rilancio del Sud. Riciclo come orientamento politico che limita l’opportunismo e riduce il particolarismo dell’uso dei patrimoni ambientali e culturali locali, non meno che delle reti sociali, per un uso individuale o per la loro distruzione. Il riciclo in particolare viene qui inteso come proposta di una nuova infrastruttura agrourbana a partire da un lascito del moderno, ovvero dai residui (materiali, processi, ma anche speranze disattese) di un progetto di modernizzazione delle città e delle campagne delle terre meridionali, che potrebbe essere ripreso per rielaborarlo dentro una proposta innovativa di residenza e lavoro, una filiera agroalimentare attenta ai luoghi, a sostegno *

Sebbene il lavoro presentato sia frutto di una riflessione collettiva e condivisa, sono da attribuirsi a Mariavaleria Mininni i § 1, 2, 6, a Rosanna Rizzi il § 3 ed infine a Cristina Dicillo i § 4, 5.

Mariavaleria Mininni, Cristina Dicillo, Rosanna Rizzi

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delle politiche di investimento delle prossime programmazioni dei fondi strutturali (Barca, 2012) capaci di valorizzare le tante progettualità ancora vive nei patrimoni materiali e immateriali del Sud. Il riciclo come dispositivo per il progetto di territori post moderno come quello della periurbanità: visto dentro una risignificazione paesaggista (progettuale, simbolica, ecologica) che rielabora le categorie del land cover (materiali della superficie del suolo) e del land use (uso che del suolo ne fa la popolazione) per il progetto della città contemporanea. Il riciclo, dunque, come un sapere contestuale che è questione di mentalità, che tenta di rispondere criticamente e operativamente al fallimento della Riforma Agraria, come spostamento e dispersione forzata della popolazione in campagna, cercando di incontrare un nuovo besoin de campagne a partire dalla postruralità e dalla posturbanità, soprattutto cercando di andare incontro a quello che la gente sa già fare, per consuetudine o per condanna. Il contesto materano che vogliamo proporre è per questo motivo esemplare e ad alto valore simbolico. Le provenienze delle nostre riflessioni fanno riferimento a due precedenti importanti. La prima, disciplinare, si ispira al libro postumo Wasting away di Kevin Lynch (Lynch K.,1990), e la seconda, ineludibile, attinge a piene mani ai fondamenti dell’ecologia. Il riuso richiama una meditazione sullo scarto: la perdita di utilità può arrivare sotto forma di obsolescenza, un cambiamento non materiale ma cognitivo, prodotto da slittamenti concettuali, tecnologici, o dei gusti come problema di distinzione e più semplicemente di stili e desideri della gente. Gli aspetti del problema del “gestire in modo umano la conversione dello scarto” collegandolo a un importante “compito intellettuale: costruirsi una teoria del disfarsi dell’ambiente” costituiscono, secondo il nostro punto di vista, una posizione culturale importante sul concetto di riciclo, a partire dalla quale Kevin Lynch definendo il waste indaga sul ruolo utile della decadenza e dello scartare bene e sulle motivazioni etiche per reinserire oggetti, processi e mentalità dentro un nuovo processo di sviluppo. All’immagine del cambiamento che ha accompagnato la modernità e al concetto dell’esubero che ne è seguito, la contemporaneità non può non fare i conti con il deperimento, la perdita, per cambiare prima di tutto la testa delle persone e sperare che le cose funzionino meglio. Dissipazione umana dei luoghi è potente quanto il declino delle città, dei suoi luoghi come anche delle idee che su di essa si sono accumulate sostituendo nuove culture e immaginari (Ibid.). L’ecologia, dalla quale sono mutuati i concetti che sono a sfondo delle nuove teorie urbane del riciclo, spiega il flusso di rendimento dell’ecosistema a partire dalla circolazione di energia e di materiali che nei processi di assimilazione o di produzione alimenta le catene alimentari e i cicli dei materiali del detrito (catabolismo) (Ricklefts R., 2001). Il concetto dello scarto e del riuso sono strutturali ai processi ossido-riduttivi poiché i flussi di energia negli ecosistemi corrispondono alle vie percorse dagli elementi secondo strategie intelligenti di ottimizzazione tra tempi e luoghi dello stoccaggio e rilascio e che noi percepiamo fenomenologicamente come nuvole e pioggia (ciclo dell’acqua), lettiere sotto le foreste veri e propri serbatoi di carbonio, putrefazione o depurazione (ciclo dell’azoto). Lo spreco e lo scarto sono inconcepibili perché rappresentano energie latenti, momenti differiti di un sistema che accumula e rimette in circolo al momento più opportuno. La dimensione ecologica è il principio etico e da cui apprendere, learning ecology come il modo di cambiare se stessi, modificare coscientemente le mentalità e solo così riuscire a cambiare le regole del gioco, evitando il rischio dell’inazione o della passività consolatoria che potrebbe conseguire.

2 | La riforma agraria come una risorsa rinnovabile ma anche riciclabile. Nella storia del Mediterraneo, dice Braudel, si sono continuamente costruite, demolite e ricostruite fortificazioni. Le mura urbiche, uno sforzo enorme di edificazione per i cittadini, diventavano inutili come muri ma ancora utilizzabili, dopo averle abbattute, come cave di materiale, imprimendo nuove forme e nuovi spessori alle pietre. Dopo di che gli spazi preziosi lasciati dal loro riuso e quindi dalla loro rimozione, mettevano a disposizione nuovi spazi ancora da usare e occupare. Le macerie mai sgombrate nel secondo conflitto mondiale a Berlino, i muri in rovina e le sedi dei binari di tronchi abbandonati sono diventati habitat rupestri e prati di specie esotiche della flora mediterranea grazie all’abbandono e alle elevate temperature dovute all’isola di calore urbana. Una storia naturale che parte da una dissipazione umana. La storia della città di Matera può essere letta come la ricerca continua di un processo di contaminazione nel corso del tempo tra riusi, ricicli e ridimensionamenti di processi e materiali tra natura, campagna e urbanità. La trasformazione dei versanti di un solco carsico “gravina” in un habitat rupestre, grotte carsiche diventate casestalle per uomini e animali, mostrano una strategia del riuso che perdura anche quando la città adatta i conventi di ordini monastici per le nuove funzioni urbane di capoluogo di provincia alle quali doveva dare forma. E oggi trasforma le case grotta in cartoline turistiche di un sottosviluppo diventato folkloristico oppure avvia un’innovativa iniziativa di ricettività e imprenditorialità rielaborando i luoghi e aggiornando gli immaginari.

Mariavaleria Mininni, Cristina Dicillo, Rosanna Rizzi

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Residui e riusi di materiali agrourbani a Matera

Il grande dilemma sul trasferimento dei cittadini-contadini dai Sassi in case che garantissero una dignità abitativa, 15.000 abitanti dei Sassi al 1951 su una popolazione totale di 30.000 abitanti (Restucci A., 1991), introduceva nella seconda metà del secolo scorso Matera nel vivo delle posizioni più avanzate del dibattito internazionale sulle modalità di accrescimento della città, (i) per continuità alla città storica, (ii) attraverso un principio di crescita interrotta o del trabatenprinzip, anche ispirandosi alla poetica verde del terzo magnete e del garden city moviment di howardiana memoria, (iii) oppure per polarità decentrate ad alta specializzazione urbana secondo dislocazioni in forte relazioni con il paesaggio, secondo i principi che si sperimentavano nei paesi scandinavi del design with circumstance (Gravagnolo B., 2001). A questa varietà di soluzioni urbane tenute insieme dal piano di Piccinato (1953-56) che sperimentava le potenzialità di controllo dello spazio attraverso griglie e norme introdotte della legge urbanistica all’epoca appena varata, si affianca una sperimentazione di materiali urbani selezionati in funzione della ricerca di una giusta distanza spaziale, tra città e campagna, e concettuale, tra quartiere e villaggio. Politiche sociali dell’abitare e riforma agraria saranno a Matera un teatro di confronto che punta palesemente, almeno culturalmente, sulla riorganizzazione combinata di residenza e lavoro perseguendo l’obiettivo di una «completa opera di urbanizzazione della campagna» costruita contrastando la ruvidezza urbana dei Sassi e l’eccessiva rarefazione della campagna, applicando un principio comune a entrambe dell’unità di vicinato mutuata dalla venatura comunitaria olivettiana e da quella del neighborhood units del garden cities moviment. La mancanza di una governance in chiave agrourbana e del fallimento della speranza della capacità irenica di un neoilluminismo pianificatore, ma soprattutto la totale impermeabilità dei frames cognitivi rispetto alla trasformazione del progetto iniziale a forte contenuto sperimentale in una forzata imposizione di un modello di azione abitativa decentrata (Giura Longo R., 1978), lì dove storicamente l’erogazione del lavoro avveniva dislocata rispetto all’abitare per un forte radicamento urbano della popolazione contadina, potrebbero essere per noi invece il punto di partenza di una nuova storia alla luce di nuove condizioni che possono offrirsi all’abitare decentrato.

3 | Il Quadro normativo: attuali strumenti di regolamentazione e incentivo allo sviluppo rurale in Basilicata La presente riflessione si colloca in coerenza con gli obiettivi strategici della prossima programmazione 20142021dell’UE. Nello specifico La L.R. 8 agosto 2012 N. 16 - ART. 32 - Dotazione del Fondo di Coesione Interna - Disciplina di applicazione ex art. 22 L.R. n.10/2002 prevede la costituzione di un ‘Fondo di Coesione Interna per il sostegno dei Comuni più svantaggiati delle aree interne della Regione, la promozione e l’incentivazione delle gestioni associate di funzioni e servizi all’interno della Comunità Locale, e il supporto all’elevazione delle capacità amministrative e progettuali’. Analoghi sono gli indirizzi contenuti all’interno del Programma Operativo FESR Basilicata 2007-2013, i cui 8 ambiti strategici di azione (detti anche assi prioritari) sono finalizzati a intervenire sull’accessibilità territoriale, sulla ricerca e sviluppo della società della conoscenza, sulla competitività del sistema produttivo, sulla valorizzazione dei beni culturali e naturali, sul miglioramento dei sistemi urbani di Potenza e Matera, sull’inclusione delle persone in situazione di svantaggio sociale e sul miglioramento dei servizi collettivi, sull’energia e lo sviluppo sostenibile. In questo contesto di nuova pianificazione di sviluppo e incentivazione si colloca il progetto «Capacity Lab», laboratorio che intende attivare un percorso bottom up di capacity building che veda nella Basilicata un dispositivo territoriale di rafforzamento della capacità istituzionale ed amministrativa nell’ambito delle politiche di sviluppo e coesione. Ciò non soltanto in riferimento agli strumenti e gli elementi di attuazione della programmazione 2007/2013, ma anche in virtù degli scenari programmatici PO Fesr 2014 – 2020.

4 | Matera città-fabbrica e Matera agrotown: mulini, quartieri e borghi come elementi di un sistema integrato di residenza e produzione da ripensare Sede, nel II Dopoguerra, di un inedito episodio di urbanizzazione sperimentale delle campagne portato avanti attingendo alle tendenze regionaliste basate sul decentramento e reinterpretando il paradigma olivettiano, la città di Matera ha dunque saputo elaborare un progetto di agrourbanità a partire dalla contingenza dell’emergenza Sassi e dal portato politico della Riforma Agraria. Le condizioni di una «popolazione tutta accentrata in “città” e pure tutta gravante per le risorse di vita sull’agro circostante» (Mininni M., Dicillo C., 2012) hanno costruito tra il nucleo urbano e la campagna deserta un paradossale vincolo d’interdipendenza che si è tradotto, storicamente, in una sostanziale integrità spaziale dell’intorno periurbano oggi in attesa di una nuova progettualità. In un territorio, come quello lucano, caratterizzato in prevalenza da insediamenti isolati a bassa densità e collocati sui crinali collinari (Pontrandolfi A., 2003), l’estensione del territorio agricolo è stata storicamente Mariavaleria Mininni, Cristina Dicillo, Rosanna Rizzi

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Residui e riusi di materiali agrourbani a Matera

dominata da pratiche latifondiste e dalla contraddizione di una monocoltura estensiva del grano in una collocazione geograficamente e climaticamente non ideale. L’espansione cerealicola non ha in effetti giustificato investimenti stabili né favorito la costruzione di presidi sul territorio (Rossi Doria M., 1989), in misura addirittura inferiore rispetto alla stessa pastorizia e al pascolo, da parte di quei contadini residenti nei Sassi che, coltivando unicamente grano, non avevano modo di stabilirsi sulla terra, generando fenomeni di pendolarismo e arretratezza. All’autonomia spaziale di una campagna storicizzata dalla Riforma, attraverso interventi di irreggimentazione dell’assetto fondiario e ristrutturazione territoriale, e preservata fino ad oggi nella sua integrità spaziale dai piani, corrisponde un’intensa relazione urbanità-ruralità che ha permeato la vita della città e dei suoi abitanti. E’ possibile oggi rileggere gli interventi che, attraverso il ‘pretesto’ del risanamento Sassi, hanno materialmente infranto la dicotomica contrapposizione tra la consistenza finita e concentrata del nucleo urbano e l’estensione quasi indifferenziata della campagna circostante, attivando un dispositivo integrato di produzione e residenza che ha saputo ricollocare i materiali della tradizione contadina meridionale in un sistema agrourbano concepito nella modernità: la costruzione di quartieri alle propaggini della città consolidata e dei nuovi borghi, come contenitori sussidiari della realtà rurale portata dagli abitanti dei Sassi, era funzione di un moto della “città che finalmente intende muovere incontro alla campagna, per sanare una frattura secolare” (Musatti R., 1956) declinando i suoi materiali secondo un gradiente di prossimità. Questo laboratorio urbano sorto nella «zona intermedia delle argille, del grano e della fatica contadina» (Rossi Doria M., 1989) si raccorda con la presenza dei mulini per la macinazione del grano Cappelli, nell’ambito di una più ampia filiera produttiva agro-alimentare che immetteva sul mercato prodotti di alta qualità (pane e pasta) e i cui principali vettori erano gli stessi contadini residenti nei Sassi prima, e nella campagna dei Borghi poi. Vere e proprie banche del grano in cui si procedeva alla lavorazione delle materie prime, ma anche alla compravendita e alla distribuzione dei prodotti finiti, i mulini nella periferia cittadina rispondevano da un lato all’esigenza dei contadini di potersi muovere agevolmente tra campagna e città, dall’altro favorivano la vendita ai fornitori dei paesi limitrofi. Il successo del commercio del grano duro ha consentito negli anni di incrementare la lavorazione procedendo alla costruzione di strutture più grandi e specializzate. Al Mulino Alvino, il primo in assoluto costruito nel 188485 su progetto di L. Ridola, si aggiunsero negli anni ‘40 e ‘50 il mulini Padula, Andrisani e Gagliardi. Le congiunture che hanno innescato la crisi del mercato agroalimentare dei prodotti della lavorazione cerealicola, a partire dagli anni ‘70 con la disposizione statale del blocco del prezzo del grano e con il successivo terremoto del 1980 e l’ingerenza delle grandi multinazionali, si intrecciano con un sostanziale insuccesso del progetto sperimentale di urbanizzazione delle campagne e degli interventi tesi al riordinamento della proprietà fondiaria: il conflitto tra le due modalità interpretative portate avanti rispettivamente dal gruppo olivettiano e dall’Ente Riforma nella grande ricostruzione ha penalizzato il successo della Matera agrotown, penalizzata dal vizio organico di un’economia fatta, ancora oggi, di frammentazione e dispersione (Ibid.). Allo stato attuale, fatta eccezione per i quartieri della ricostruzione, vere e proprie isole di qualità (Giura Longo T., 2003) articolate secondo il disegno del Piano e ancora oggi riconoscibili come esiti di una sperimentazione d’autore incredibilmente innovativa, mulini e borghi della riforma si presentano come manufatti da rileggere e ricollocare all’interno di un nuovo progetto che metta in campo le più avanzate issues della green economy: una strategia agrourbana da riprendere e riportare nella contemporaneità, attraverso il riciclo e la riattivazione di materiali della periurbanità che oggi si presentano come sottoprodotti del moderno.

5 | Matera sito Unesco e candidata Capitale della Cultura 2019: esistono ancora prospettive per una nuova Riforma attraverso strategie food and landscape oriented? La rilettura della morfogenesi di questo spazio periurbano configuratosi nella città moderna come incubatore di forme sperimentali dell’abitare e allo stesso tempo scenario di pratiche consolidate proprie della ruralità meridionale, ci consente di recuperare una lezione scarsamente approfondita per meglio orientare il presente. Contestualmente il riconoscimento, nella tradizione lucana e nella storia dei suoi luoghi, di prassi di rielaborazione di manufatti e pratiche, consente di comprendere quali sono, se esistono, le prospettive per un rilancio dell'agricoltura in chiave post rurale che possa oggi rendere competitiva Matera e scongiurare il pericolo di una sterile identificazione con la sola “città dei Sassi”. Una società paesaggista capace di reinterpretare le best practices del passato riportandole nel presente attraverso operazioni di riuso e riciclo è chiamata ad individuare nuove forme di agricoltura e produzione periurbana che possano assumere, oggi, un ruolo efficace nella riqualificazione delle periferie e nella riattivazione di sistemi economici a base locale: a partire dalla tradizione di recyting che ha fatto della vergogna nazionale un patrimonio dell’umanità, la sfida è innescare nuovi cicli di vita per un paesaggio periurbano da recuperare sulla trama dell’insuccesso di un progetto territoriale i cui esiti si configurano come sottoprodotti della modernità.

Mariavaleria Mininni, Cristina Dicillo, Rosanna Rizzi

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Il trend positivo di crescita registrato nelle aree extraurbane e nei borghi Venusio e La Martella, diversamente dal decremento che interessa oggi i quartieri di edilizia sociale, è sintomo di un nuovo interesse per forme dell’abitare più vicine alla natura, più accessibili e “più umane”: queste aree potrebbero dunque trovare nuova vocazione catalizzando le commesse di residenza che rielaborano la marginalizzazione in una condizione autentica dell’abitare decentrati, e sviluppando contestualmente nuovi modelli di agricoltura urbana ad alta innovazione ed efficienza, capaci di recuperare quei progetti di marchio locale che si rivelano vincenti in tutta Europa, ma che oggi a Matera sembrano vicini ad esaurirsi. E’ infatti evidente, a valle della chiusura dell’ultimo presidio locale per la produzione di pasta e della presentazione del nuovo progetto di riconversione del Mulino Alvino, la città oggi fatica ad intrattenere relazioni città-campagna con il suo intorno e, alla luce della sproporzione tra densità abitativa e superficie disponibile che pone un problema in termini di users ed attori di questo nuovo progetto riformista, è impegnata in un processo di terziarizzazione e valorizzazione della propria vocazione turistica e culturale. La condizione aperta di questi luoghi in attesa di un progetto che li ricollochi a pieno titolo nel processo di costruzione della città contemporanea, se da un lato intercetta, a Matera, il tema della valorizzazione del patrimonio identitario (città dei Sassi e sito Unesco) e della missione culturale e turistica (Matera capitale della Cultura 2019), dall’altro evidenzia la necessità di un progetto condiviso da Amministrazione Comunale, Enti e privati. Una prospettiva che coinvolge in primis l’istituzione universitaria, in quanto incubatrice di strategie di riuso e sub-cycling ed eventuale fruitrice degli immobili da riciclare. Un ripensamento dell’esistente che diviene opportunità per recuperare i materiali urbani avviando contestualmente quegli interventi di infrastrutturazione culturale e sociale capaci di ricadute rilevanti in termini di incremento demografico, promozione turistica, ripristino di filiere produttive place-based, così come prescritto dal documento sulle Aree Interne redatto nell’ambito della programmazione dei Fondi comunitari 2014-20.

6 | Conclusioni La città europea ha da sempre praticato strategie del riciclo, di restauro, di conservazione, di recupero, molto articolate sviluppando una teoria importante della storia urbana ancorata alla cultura del proprio tempo senza dover necessariamente costruire nuove case o occupare altro suolo. Tali riflessioni hanno riguardato soprattutto i modi di intendere le trasformazioni della città storica nei suoi rapporti con la città moderna (Viganò P.,2011). Oggi la città postmoderna ci presenta territori prodotti dalla frammentarietà, dalla crescita discontinua e dalla episodicità propria del collage urbano modernista, includendo materiali diversi molti dei quali, prima esterni alla citta, si sono aggiunti e storicizzati diventando nuovi centri storici, memorie di una storia seppure non remota. I borghi della riforma, le trame delle quotizzazioni, insieme ai mulini urbani, possono entrare a far parte di una storia agrourbana di Matera che, osservati attraverso il dispositivo del riciclo e del recupero possono ricollocarsi in una chiave coerente alle condizioni attuali di crisi economica, sociale, ecologica e simbolica che si sta vivendo. Risorse riciclabili ma soprattutto rinnovabili che potrebbero aiutare a scrivere la storia della periurbanità potrebbero aiutare a scrivere le nuove classi di periurban land use sperimentando un nuovo concetto di bonifica del XXI secolo: (i) bonifica spaziale per riscrivere la storia della città di Matera spostando la ribalta dai Sassi al territorio periurbano dove nuovi centri storici e nuovi modelli post-rurali di residenza e lavoro si potrebbero rielaborare; (ii) bonifica ecologica dove la ricerca di sostenibilità urbana e recupero di una natura in città (parco naturale delle chiese rupestri) può costruirsi in chiave di paesaggio (preverdissement) per una fruizione contestuale tra storia e natura, tra città e territorio; (iii) bonifica economico-sociale, dove far operare politiche abitative ma anche produttive agro urbane in una periurbanità da riciclare come progetto politico, opportunità occupazionali offerte dalla green economy.

Mariavaleria Mininni, Cristina Dicillo, Rosanna Rizzi

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Residui e riusi di materiali agrourbani a Matera

Bibliografia Viganò P. (2011), “Riciclare città” in Ciorra P. Marini S. (a cura di) Rycicling. Strategie per l’architettura, la città, il pianeta, Electa, Verona; Mininni M., (a cura di) (2005), “Dossier: dallo spazio agricolo alla campagna urbana” in Urbanistica, n. 128; Giura Longo T. (2003), “Matera: i Borghi e i Quartieri degli anni ‘50” in Siti n.02, Matera; Pontrandolfi A., (2003), “Città e campagna” in Siti n.02, Matera; Gravagnolo B. (2001), La progettazione in Europa. 1780-1960, Laterza Bari; Ricklefts R., (2001), Economia della natura, Zanichelli, Bologna; Pontrandolfi A. (1999), Storia della bonifica metapontina, Altrimedia - Matera; Restucci A. (1991), Matera. I Sassi, Torino, Einaudi Editore; Lynch K..(1990), Wasting away, Catherine, Davide, laura and Peter Lynch eds, Sierra Clubs Book - Tr. It. Southwortha M. e Andriello V. (a cura di), Deperire. Rifiuti e spreco nella vita di città e uomini. CUEN, Napoli; Rossi Doria M. (1989), Cinquant’anni di Bonifica, Laterza - Bari; Graziani A. (1979), L’economia italiana dal 1945 ad oggi, Il Mulino - Bologna; Giura Longo R. (1978), “Sviluppo urbano e lotte popolari”, in Storia della città n 6; Musatti R. (1956), “Saggi introduttivi. Motivi e vicende dello studio” in Commissione per lo studio della città e dell’agro di Matera, UNRRA Casas, Roma; Piccinato L. (1955), “Matera: i Sassi, i nuovi borghi e il piano regolatore” in Urbanistica n.15-16. Legge Regionale 8 agosto 2012 N. 16 - ART. 32 - Dotazione del Fondo di Coesione Interna - Disciplina di applicazione ex art. 22 Legge Regionale n.10/2002 Programma Operativo FESR Basilicata 2007-2013

Mariavaleria Mininni, Cristina Dicillo, Rosanna Rizzi

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Il riuso di parti di città in Svezia. Un esempio possibile per la Cina?

Il riuso di parti di città in Svezia. Un esempio possibile per la Cina? Dunia Mittner Università di Padova ICEA - Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile, Ambientale Email: dunia.mittner@unipd.it

Abstract La tradizione urbanistica svedese, per l’approccio disciplinare e la rilevanza dei temi trattati, costituisce in particolare dal dopoguerra in avanti un riferimento importante per l’urbanistica europea ed occidentale. Negli ultimi decenni l’attenzione si è rivolta ai valori ambientali, alla salvaguardia dello spazio aperto e del territorio non urbanizzato, tramite l’adozione di politiche di riuso e riconversione di parti di città. In Cina la maggior parte dei progetti recenti di città nuove rimanda a retoriche di matrice ecologico-ambientalista, in cui la messa a punto di prototipi per nuovi ambienti urbani attenti alla sostenibilità assume un ruolo di primo piano. La tesi che il paper intende sostenere è che l’urbanistica svedese possa ancora oggi costituire un riferimento importante dal punto di vista delle politiche e delle pratiche volte alla riduzione degli sprechi e al riuso di parti di città e un modello da esportare in contesti lontani. Parole chiave riuso terreni urbanizzati, urbanistica svedese, città cinese.

La tradizione urbanistica svedese Il Generalplan för Stockholm di Sven Markelius del 1952 propone un’idea di espansione della città per parti definite, disposte a corona all’esterno della città consolidata e tra loro separate tramite ampie porzioni di verde, che influenza fortemente la struttura della città fino alla fine degli anni Ottanta. Quasi quarant’anni più tardi, l’Översiktsplan 1999 si propone all’opposto di riconfigurare la città estesa tramite operazioni direttamente collegate alla città centrale, localizzate esclusivamente su suoli urbanizzati, abbandonati o sottoutilizzati o compromessi dal punto di vista ambientale (brown-fields). I principali progetti che connotano la storia urbanistica svedese degli ultimi settanta anni si collocano all’interno delle politiche di piano alla scala della regione metropolitana. Le direttive principali di attenzione alle aree centrali da un lato, e alle espansioni periferiche e suburbane dall’altro, che connotano i decenni tra gli anni cinquanta e settanta sono istituite dal documento più noto della storia urbanistica della capitale, il Generalplan för Stockholm (Piano Generale per Stoccolma) di Sven Markelius del 1952. Esso definisce la struttura odierna della città attraverso la costruzione di una rete di città satelliti disposte intorno alla città “madre” e alla configurazione al suo interno di una ‘city’ come ‘cuore pulsante’ dell’intero organismo, con funzioni terziarie e commerciali. L’obiettivo principale, ora raggiunto, consiste nella graduale sostituzione del sistema monocentrico della città capitale con un sistema policentrico, tramite una politica di decentramento delle attività lavorative e residenziali a livello regionale. Uno degli elementi fondamentali del piano è costituito dalla rete metropolitana, che costituisce l’infrastruttura primaria della regione: le città satelliti sono localizzate lungo di essa secondo una regola che stabilisce in quarantacinque minuti il tempo massimo di percorrenza tra ‘satelliti’ e ‘polo’. Le direttive improntate dal piano di Sven Markelius indirizzano la crescita della capitale attraverso la costruzione di tre generazioni di città-satelliti (che corrispondono agli anni cinquanta, sessanta, settanta), tra loro differenti nei principi compositivi. Un primo carattere che connota i quartieri degli anni cinquanta (Vällingby, Farsta) é costituito dalla disposizione della residenza finalizzata ad organizzare lo spazio urbano attraverso unità riconoscibili (in quanto delimitate o fisicamente separate dal resto della città) e di dimensioni contenute. Gli insediamenti sono costituiti da aree di sviluppo, composte da nuclei, principali e secondari, composti a loro volta da unità di vicinato di circa 3.000 Dunia Miittner

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abitanti. La Vällingby Development Area é composta dai cinque distretti di Blackberg, Råksta, Vällingby, Hässelby Gård e Hässelby Strand. La gerarchia utilizzata per le unità minime viene applicata anche alle centralità e ai servizi, organizzati in primari, secondari e terziari. Nel suo assetto d’assieme, lo spazio costruito delle città della prima generazione si connota quasi come un ‘prontuario tipologico’ volto a privilegiare la varietà dei tipi edilizi e dei volumi, successivamente collocati in relazione alla topografia. Il disegno dei tracciati presenta andamenti prevalentemente curvilinei, in continuità con la tradizione della città giardino. Per quanto riguarda la mobilità, viene attribuita maggiore importanza al trasporto pubblico rispetto a quello privato, e il traffico veicolare viene separato rispetto a quello pedonale. Un’attenzione particolare viene posta al contatto tra urbanizzazione ed elementi naturali, al disegno del verde e alle attrezzature per il gioco dei bambini, che presentano una grande varietà di soluzioni. Le espansioni suburbane realizzate negli anni sessanta (Södra Järvafältet Development Area) organizzano i distretti (Tensta e Rinkeby) abbandonando il ricorso alle unità di vicinato che connota il piano del 1952 e le città della prima generazione, a favore di un disegno dei tracciati a maglie regolari, disposte con una certa indifferenza rispetto al sito. Per quanto riguarda gli insediamenti realizzati durante gli anni settanta (Norra Järvafältet Development Area, organizzata attraverso i tre distretti di Kista, Husby, Akalla), anche se non risulta semplice riconoscere dei principi comuni, essi sembrano privilegiare l’uso di densità elevate, soprattutto a Husby e Akalla, e la ricerca di ruoli nuovi per le addizioni urbane, come nel caso di Kista, concepita con la funzione di polo regionale per i servizi specializzato nel settore elettronico. In quest’ultimo esempio appare riconoscibile il tentativo di recuperare alcuni dei principi che connotavano le città satelliti della prima generazione, quali la varietà dei tipi edilizi e il rapporto con l’orografia.

Il riuso nella politiche svedesi più recenti Il primo documento esteso all’intera municipalità redatto dopo il piano Markelius del 1952, é costituito dall’Översiktsplan 1990 (ÖP 1990), il primo comprehensive plan della storia della capitale, in accordo con le direttive del Building and Planning Act nazionale del 1988, che impone a tutte le municipalità di dotarsi di un piano da aggiornare periodicamente. Si tratta di un documento di carattere programmatico, volto in particolare a regolamentare il sistema delle acque e l’uso del suolo attraverso direttive differenziate per le aree centrali e i distretti periferici. È necessario attendere il successivo documento, l’Översiktsplan 1999 (ÖP 99, Figura 1, 2), perché venga messa a punto una nuova visione di città. Esso colloca i principali interventi di ridisegno urbano a ridosso di dodici grandi aree disposte a corona intorno al centro o in sua prossimità: Husarviken, Värtan-Frihamnen, Västra CityBarnhusviken, Gullmarsplan-Globen-Slakthusområdet, Centrala Älvsjö, Lövholmen-Liljeholmen-Årstadal, Nordvästra Kungsholmen, Alvik, Mariehäll-Brommafältet-Ulvsunda, Bromsten-Spånga-Lunda, Norra Station e Hammarby Sjöstadt. L’idea é di realizzare nuove parti di città dotate di complessità interna e caratterizzate dalla presenza di funzioni miste, residenziali, terziarie e legate al tempo libero, che possano usufruire degli investimenti infrastrutturali già compiuti e portare a ulteriore rendimento il capitale fisso sociale così costituito. Il distretto Hammarby Sjöstadt (‘la città intorno al lago Hammarby’, Figura 3,4) costituisce uno dei casi più significativi e si configura come un’applicazione esemplare delle idee dell’ÖP 1999, volte a riconfigurare la città estesa con operazioni direttamente collegate alla città centrale, localizzate esclusivamente su suoli urbanizzati, abbandonati o sottoutilizzati, i cosiddetti brown-fields. Esso ha inizio nel 1990 in seguito alla candidatura di Stoccolma per i Giochi olimpici del 2004 e sarà ultimato nel 2012.

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Figura 1. Stoccolma, Piano Strutturale 1999. L’area diviene disponibile per nuovi usi in seguito alla dismissione delle attività industriali, rendendo possibile un’operazione di natura residenziale a ridosso del centro della città, con la presenza di uffici, commercio e servizi, per un totale di circa 30.000 residenti e impiegati. Il progetto vuole costituire una nuova parte di città in cui il rapporto con gli elementi naturali e l’attenzione ai comportamenti ambientali costituiscono i temi principali proposti all’attenzione degli abitanti e dei visitatori. Il rispetto per l’ambiente trova riscontro nel disegno degli edifici, nella scelta dei materiali da costruzione e nella ricerca di soluzioni tecnologicamente avanzate, pur all’interno di un modello urbano che proviene dalla tradizione. Anche lo strumento urbanistico più recente della capitale, adottato nel febbraio 2010 e costituito dall’Översiktsplan 2010 (ÖP 2010, Piano Struttura 2010) conferma strategie urbanistiche volte al riuso dei suoli già urbanizzati, proponendo quattro strategie di trasformazione urbana. Il processo che porta alla stesura del piano ha inizio tra il 2006 e il 2007 con la condivisione di una ‘vision’, inizialmente denominata Vision Stockholm 20301, redatta con l’obiettivo di delineare uno scenario generale per una crescita sostenibile della città, cui seguono tra il 2008 e il 2009 seminari, dibattiti e incontri tra politici, esperti e cittadini. La prima strategia si esplicita attraverso l’espansione della città consolidata oltre i suoi confini storici, nel tentativo di creare una continuità con la prima corona esterna, e interessa circa dieci aree di vaste dimensioni, per

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Stockholms Stad- City of Stockholm Executive Office, Vision 2030. A Guide to the Future, 2007.

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Figura 2. Piano strutturale di Stoccolma 1999, localizzazione dei principali interventi di riuso e planimetria.

lo più sottoutilizzate o dismesse da funzioni industriali, portuali e ferroviarie, da riscattare attraverso usi misti, residenziali, terziari e attività per il tempo libero. La seconda strategia prevista dal piano del 2010 é costituita dallo sviluppo di alcuni nodi esterni alla città consolidata; cinque di essi, Skärholmen, Fruängen, Älvsjo, Högdalen e Farsta sono situati a Sud e Kista, Spånga, Vällingby, Brommaplan a Nord. Essa rivolge un’attenzione specifica alla densificazione dei poli urbani esterni per raggiungere uno sviluppo equilibrato di tutta la regione metropolitana, con l’obiettivo di incrementare l’offerta di servizi, cultura e impiego e di espandere ulteriormente e aggiornare il trasporto pubblico. Il miglioramento delle infrastrutture, dei trasporti ciclabili e pedonali, la costruzione di nuove aree adiacenti a parchi e spazi pubblici, anche per favorire la connessione tra le diverse parti della città, costituiscono la terza strategia avanzata dal piano del 2010. Il quadro degli interventi principali é completato dai progetti che lavorano intorno al tema della formazione di spazi pubblici di alta qualità e di spazi adeguati per le funzioni tecniche (in particolare i sottoservizi) volti alla realizzazione di un ambiente urbano vivo e intenso.

Figura 3. Hammarby Sjöstadt, Sikla Udde.

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Il riuso di parti di città in Svezia. Un esempio possibile per la Cina?

Retoriche ecologico-ambientaliste nei progetti urbani in Cina In Cina la maggior parte dei progetti recenti di città nuove rimanda a retoriche di matrice ecologico-ambientalista, in cui la messa a punto di prototipi per nuovi ambienti urbani attenti alla sostenibilità assume un ruolo di primo piano. Secondo un report del 2009 della Banca Mondiale, esse sono più di 100, localizzate nelle regioni con il livello di inquinamento ambientale più elevato. L’obiettivo è di segnalare un’inversione di tendenza relativamente alle politiche ambientali passate e costituire modelli per gli sviluppi futuri. Tra i progetti più noti in costruzione nel paese, si possono citare Dongtan eco city (Shanghai), Tangye new town (Licheng district) e Tianjin eco city (Tianjin-Binhai). Dongtan eco-city si propone come città ecologica per 500.000 abitanti, al centro di una delle aree del mondo in più rapida crescita. L’obiettivo dichiarato é di diventare la prima città-territorio autosostenibile al mondo dal punto di vista ambientale, ma anche sociale ed economico. Il piano si compone infatti di un sistema di villaggi di dimensioni contenute immersi all’interno di parchi e spazi aperti naturali, ciascuno riferito ad un aspetto diverso della cultura dell’isola. Al fine di garantire un numero sufficiente di abitazioni a basso costo, le unità utilizzate durante il cantiere vengono trasformate in abitazioni permanenti. Per quanto riguarda la sostenibilità economica, vengono studiate nuove tecnologie per città a basso consumo di carbone, da applicare alle eco-città della Cina. L’obiettivo é di creare un polo di ricerca internazionale, teso a coniugare nuove tecnologie, compagnie start-up e specializzate nella ricerca. Dal punto di vista ambientale, l’accento viene posto sulla produzione di energie rinnovabili, in particolare eolica e solare. Grande attenzione viene posta alla conservazione degli ecosistemi e della biodiversità presenti nell’isola, tramite la creazione di una zona cuscinetto posta tra la città nuova e gli ecosistemi naturali, atta anche a proteggere la città dalle inondazioni. Dal punto di vista dei sistemi di trasporto, oltre una rete per gli spostamenti ‘veloci’ (taxi d’acqua, bus e metropolitana), viene previsto un supporto dedicato ai pedoni e alle biciclette. La seconda eco-city progettata da Arup in Cina, Tangye new town (Licheng district, O. Arup, 200.000 ab., Figura 5), si propone di trasformare i propri rifiuti in carburante, recuperare l’energia dal sole e restituire l’acqua al suolo attraverso sistemi naturali di drenaggio e irrigazione, accanto alla formazione di una rete di corridoi verdi di collegamento tra i principali edifici pubblici, per incentivare la biodiversità e gli spostamenti ciclo-pedonali. Tianjin eco city (Tianjin-Binhai, progetto di cooperazione strategica tra Cina e Singapore, 350.000 ab.) costituisce il caso più significativo in relazione all’adozione di vere e proprie politiche di riuso. Il sito viene appositamente scelto in una località ben connessa dal punto di vista dei trasporti, ma caratterizzata dalla scarsità delle risorse naturali, e da un sistema ecologico fragile, gravemente compromesso dal punto di vista ambientale. L’obiettivo principale consiste nel formulare un modello in grado di dare una risposta al problema dell’inurbamento anche in situazioni in apparenza sfavorevoli.

Le politiche svedesi: un modello possibile? L’attenzione rivolta allo spazio aperto, ai temi dell’ambiente e dell’ecologia, della riduzione degli sprechi e del riuso di parti di città costituiscono una costante di lungo periodo della tradizione urbanistica scandinava e svedese. Il piano di Markelius disegna la rete metropolitana e i distretti periferici a partire dalla salvaguardia delle aree boschive (la foresta di Grimsta intorno alla quale si disegna il ‘gancio’ finale della linea per Hässelby Strand e lungo il quale si colloca il Vällingby district) e delle riserve naturali esistenti; il rapporto tra edificato ed orografia é molto forte e un’attenzione particolare viene posta alla distribuzione spaziale delle attrezzature ricreative. Nota comune ai piani urbanistici che si sono succeduti é la concezione unitaria del verde, pensato in termini di sistema costituito dai parchi urbani, dalle aree verdi minori interne della città consolidata, dalle presenze naturali che separano le parti della città arcipelago, e dai serbatoi di naturalità esterni. Il sistema del verde di Stoccolma é inoltre considerato parte integrante della struttura della regione e le aree verdi presenti nelle municipalità vicine sono considerate come collaboranti ad un medesimo disegno generale, cui concorre anche il sistema delle acque del lago Mälaren e la parte interna dell’arcipelago del mar Baltico. I piani del 1999 e del 2010, facendo della sostenibilità terreno di concreta sperimentazione, aumentano ulteriormente l’attenzione alla conservazione degli spazi aperti, prevedendo che gli interventi di nuova edificazione insistano esclusivamente su terreni già urbanizzati senza mai intaccare suoli non edificati in precedenza. Nonostante in Cina le eco-cities costituiscano un fenomeno relativamente recente, esse sembrano attingere ai primi tentativi di quella che potremmo definire eco-urbanistica collocati intorno alla metà del secolo scorso, quali le prime comunità hippie in Europa e negli Stati Uniti, seguite nei decenni successivi dalla costruzione di diversi villaggi. Se si osservano in maniera comparativa le eco-cities, si possono riconoscere alcuni elementi ricorrenti che rimandano in primis alla tradizione urbanistica svedese e scandinava. Tra i principali vi sono la presenza dello Dunia Miittner

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spazio aperto naturale, cui viene affidato un ruolo pubblico, l’insistenza in terreni precedentemente urbanizzati, la presenza di edifici ad energia zero e di sistemi di drenaggio urbani sostenibili, l’utilizzo di fonti di energia rinnovabili e tecniche di ventilazione naturale, di sistemi ecologici di smaltimento dei rifiuti e di sistemi di trasporto a bassa emissione.

Figura 4. Hammarby SjĂśstadt, Sikla Kanal.

Figura 5. Tangye new town.

Dunia Miittner

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Riciclare i margini della città contemporanea, Il caso studio di Hackney Wick e Fish Islands

Riciclare i margini della città contemporanea Il caso studio di Hackney Wick e Fish Islands ‘Microcittà’ e densificazione: strategie urbane per un nuovo disegno dello spazio pubblico Gianluigi Mondaini Università Politecnica delle Marche DICEA Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Architettura Email: g.mondaini@univpm.it Tel: 335.7019760 Claudio Tombolini Università Politecnica delle Marche DICEA Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Architettura Email: c.tombolini@univpm.it Tel: 333.7844169

Abstract La città contemporanea deve rivedere le sue spazialità attraverso operazioni la cui filosofia è ineludibilmente connessa alla ri-composizione delle trame urbane attraverso strategie di rigenerazione urbana. Il lavoro che qui si presenta si occupa del caso di studio della città di Fabriano (AN); lo strumento di lavoro e di interazione con l'esistente,è rappresentato dall’invenzione delle 'microcittà', innesti strategici nei luoghi cruciali nella realtà consolidata, architetture capaci, attraverso la strategia della mixitè estetica, spaziale e funzionale, di riprodurre 'la città nella città'. Sistemi articolati che esaltino il carattere plurale e policentrico della città recente, stimolando progetti di recupero capaci di individuare e proporre diverse modalità di uso dello spazio collettivo. Un palinsesto di interventi, in grado di generare un'azione progettuale specifica e contestuale, capace di adattarsi al quadro esigenziale che la situazione particolare di volta in volta propone. Un nuovo e dinamico disegno dello spazio aperto, all’interno delle maglie e degli elementi costitutivi della più fluida città recente. Parole chiave Rigenerare, Densificare, Microcittà

1 | Le premesse e le condizioni al contorno La tesi presentata prende spunto da un documento redatto dal gruppo di ricerca dell'Università Politecnica delle Marche a beneficio della città di Fabriano: il DOST (Documento Strutturale) si è reso necessario per coordinare una serie di interventi all’interno di una strategia ad ampia scala avente l'obiettivo di attivare nuove relazioni di qualità, sia rispetto all’obiettivo policentrismo che caratterizza l’odierna Fabriano sia circa la necessità di divenire polo di riferimento per l’intera parte di territorio marchigiano attestato sulla dorsale occidentale (sinclinorio). La città oggetto di studio, sta vivendo una sua fase specifica di grande fibrillazione, che fa riferimento allo scenario di crisi economica e sociale nazionale. In questo senso si rendono necessarie strategie di sviluppo e ripresa che promuovano l'adozione di politiche che sappiano coniugare concretamente il disegno di una nuova forma urbana con le principali articolazioni del benessere: il benessere economico, il benessere sociale, il benessere ambientale. L'approccio deve essere, ovviamente, unitario: territorio, ambiente, paesaggio, qualità urbana, fattori che richiedono un'integrazione dei contenuti della pianificazione con un ulteriore elemento di innovazione disciplinare che assegni alla pianificazione urbana effettiva forza ed efficacia nella ricomposizione degli interessi pubblici e privati. Gli strumenti di lavoro devono essere agili e stimolanti, pensati con lo scopo di attrarre investimenti privati e di perseguire il bene pubblico, assegnando a ciascuno alla sfera pubblica e quella Arch. Annie Attademo, PhD in Urbanistica e Pianificazione Territoriale

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privata il peso specifico necessario. La situazione attuale ispira una profonda riflessione, specialmente sotto il profilo urbanistico: occorre revisionare in profondità gli atteggiamenti dei decenni scorsi, esplorando percorsi che siano in grado di attribuire alla città la capacità di adeguarsi alla nuova economia, la possibilità di restituire valore allo spazio pubblico, l'opportunità di rifondare i valori della comunità.

1.1 | Il sistema delle microcittà Lo strumento attraverso il quale si è cercato di perseguire gli obiettivi appena descritti è quello della 'microcittà'. Le microcittà intendono esaltare il carattere ormai senza dubbio plurale e policentrico della città recente, stimolando progetti di recupero capaci di individuare e proporre diverse modalità di uso della città. E’ importante che tali ipotesi contemplino: velocità di relazione, attraverso le nuove e necessarie connessioni infrastrutturali e, al tempo stesso, lentezza e prossimità, attraverso le ipotizzate centralità locali. Particolare attenzione deve essere posto su questo ultimo sottosistema connettivo che permette di sviluppare l’idea delle centralità locali, costruite a partire da una volontà di densificazione degli spazi irrisolti e degradati e di relazionarli con i più prossimi sistemi ambientali ed ecologici. La densificazione e la rigenerazione degli spazi e delle volumetrie esistenti si fonda sulla necessità di introdurre all’interno degli obiettivi e delle azioni strategiche di pre-visione della città, un’impostazione complementare, di dialogo-integrazione, tra la programmazione-progettualità urbanistica ed i temi della sostenibilità energetica attraverso l’individuazione delle relative azioni tecnico-architettoniche al fine di recuperare il patrimonio edilizio esistente (dal punto di vista del controllo energetico e dei relativi interventi a carattere bioclimatico). Le microcittà, messe in relazione tra loro attraverso il più ampio sistema dei corridoi di valorizzazione infrastrutturale paesaggistico, trovano il loro più adeguato compimento nella ricostruzione della relazione identitaria con il proprio territorio (Figura 1). Tutte le risorse culturali, dal sistema dei borghi frazionali, al sistema dei castelli e delle abbazie, fino ai magnifici monumenti urbani unitamente ad alcune strutture industriali di pregio, possono costituire una rete di luoghi significativi e significanti, capaci di molteplici 'articolazioni di senso', da quello identitario storico-territoriale a quello capace di creatività ed innovazione artistico-culturale, fino all’individuazione di nuove potenzialità di attrattività economica.

Figura 1. Nella fase pianificazione sono state individuate una serie di aree strategiche, successivamente legate e messe a sistema tramite una serie di relazioni funzionali ed infrastrutturali; l'immagine illustra il network di microcittà che ne scaturisce.

2 | Rigenerazione urbana Arch. Annie Attademo, PhD in Urbanistica e Pianificazione Territoriale

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La priorità è quella di riposizionare al centro dei ragionamenti la necessità del progetto di architettura e in particolare esaltare la sua possibilità come mezzo per migliorare la qualità della vita. Assistiamo ad un’epoca, specie in Italia, di totale assenza della cultura del progetto in tutti i settori e a tutti i livelli, che testimonia una condizione di dissoluzione di quel rapporto, sempre esistito in altri momenti della nostra storia, tra architettura, territorio e società. Esiste la necessità della ricostruzione di una filiera produttiva del progetto di architettura, attraverso progetti attentamente calati nella realtà, nel corpo vivo della città, laddove siano necessarie (credibili e sostenibili) operazioni di trasformazione. L’ambito di intervento, unica possibilità del resto sostenibile per la città odierna (sostenibile ambientalmente e finanziariamente) è da orientare verso la sua 'massa esistente', la sua parte consolidata. La necessità, ineludibile, è quella di lavorare sulla città in essere, 'ri-comporre' le trame urbane dall’interno. La città non può più permettersi di consumare suolo per progressiva espansione, ma deve rivedere le sue spazialità attraverso operazioni la cui filosofia dovrà essere quella della manutenzione (urbana) straordinaria, o dell’architettura parassita che costruisce sul già costruito. Come già accennato, il termine che si sta facendo largo per meglio esprimere questa nuova tensione verso la città densa è 'rigenerazione'. Un concetto che va sostituendo gli ormai abusati termini di riqualificazione, ristrutturazione, recupero; la rigenerazione rinvia esplicitamente ad un termine organico, riferito in qualche modo ad un processo naturale, contrapposto ai processi governati dalla rigidità di Piani e Programmi (anche complessi, speciali, straordinari) che hanno dominato negli ultimi decenni il governo del territorio, rimanendo spesso impaludati nei loro stessi meccanismi di attuazione. Esempi positivi di tale pratica, capaci di combinare densificazione a nuovo disegno dello spazio aperto, vero e proprio attore della città contemporanea, stanno nascendo un po’ ovunque in Europa. Un esempio positivo di questa idea di rigenerazione nella nostra pigra realtà italiana, è la recente operazione M9 – A New Museum for a new city – a Mestre. E’ proprio la volontà di rigenerazione di aree compromesse che porta all’adozione di una strategia di ripensamento dello spazio urbano, attraverso l’innesto di 'microcittà' nello spessore più complesso della città: architetture capaci, attraverso la strategia della mixitè estetica, spaziale e funzionale, di riprodurre 'la città nella città', invertendo l’idea della città articolata per funzioni, separata per usi. La volontà è di disperdere un nuovo disegno dello spazio pubblico, le cui qualità in passato erano maggiormente destinate alle aree centrali, all’interno delle maglie e degli elementi costitutivi della città recente. Le microcittà ipotizzate per Fabriano organizzano spazi e volumi come strumenti per un antidoto alle contraddizioni del nostro sistema urbano attuale, riproponendo al di là dei linguaggi scelti, quella tensione etica dell’architettura, che pareva obsoleta in una società oramai orientata verso la riduzione di ogni disciplina ad una estetizzazione della propria produzione, nell’ottica della rapida immissione nel circuito delle merci. Si afferma quindi la volontà / speranza progettuale che l’architettura riesca ancora nel compito di ri-costruzione di luoghi urbani o di rigenerazione di aree compromesse disperse nella città diffusa, ovvero di spazi dove la bellezza e la funzionalità possano stimolare e rappresentare la tensione verso una vita di qualità.

2.1 | La città densa e la sostenibilità In termini di sostenibilità ambientale elogiare la densità urbana non deve stupire: già uno studio dell'Agenzia Ambientale Europea del 2006 poneva in evidenza la relazione inversamente proporzionale tra la densità insediativa ed i consumi energetici. Per gestire una forma urbana soddisfacente in termini di sostenibilità, ferme restando le problematiche e le esigenze legate alla mobilità delle merci e delle persone, è sicuramente preferibile quella delle città dense. Quindi si tratta di investire in discontinuità con il passato, proponendo soluzioni capaci di garantire alla città densa comunque un'elevata accessibilità ed un'elevata attrazione: una città compatta può migliorare la qualità di vita dei suoi abitanti con un più efficace investimento negli spazi pubblici e sui servizi, attraverso la “rottamazione” delle parti di città giunte alla fine del loro ciclo di vita. Perché ciò avvenga è necessario individuare strumenti urbanistici, in parte consolidati ed in parte ancora soprattutto da sperimentare, i quali, attraverso principi perequativi, attraverso gli accordi con i privati, favorisca meccanismi capaci di incontrare e far interagire l'interesse pubblico, senza mortificare e smorzare l'interesse privato, la cui attivazione appare oggi essenziale ed ineludibile. Insomma il tessuto urbano densificato può rappresentare l'opzione davvero capace di rigenerare la città, attraverso l’impiego di strumenti ancora da perfezionare, ma che comunque dovranno essere in grado di attivare la leva della sinergia ed il giusto equilibrio tra interessi pubblici e privati, non più contrapposti.

2.2 | Un decalogo per perseguire la qualità Le ipotesi di innesto di microcittà vanno ad interessare luoghi cruciali della città consolidata: luoghi che hanno perso la propria identità o per i quali occorre identificarne una, in questa fase di transizione. Un primo decalogo sul perseguimento della qualità per le microcittà può delinearsi anche, e non solo, attraverso: Arch. Annie Attademo, PhD in Urbanistica e Pianificazione Territoriale

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1. un mantenimento sostanziale dell'impronta della città esistente laddove la città è stata costruita secondo disegno esplicito ed ancora riconoscibile; 2. un rinnovamento urbano dove tale disegno non è più riconoscibile attraverso un nuovo impianto che potrà individuare anche nuove regole di insediamento, un nuovo principio ordinatore; 3. la possibilità di demolizione e ricostruzione di quasi tutti gli edifici implicati nell'azione progettuale, salvaguardando ovviamente quelli vincolati a quelli che hanno particolare caratteristiche; ciò nell'ottica che la città non è un museo ma un organismo vivente che contribuisce al benessere della comunità; 4. una flessibilità nell'attribuzione della destinazione d'uso degli edifici; 5. un riequilibrio di funzioni tra centro e le aree immediatamente circostanti la città consolidata; 6. un rilancio della città pubblica, dei suoi luoghi e delle sue dinamiche; 7. una valorizzazione delle identità dei singoli quartieri; 8. un incremento di soluzioni abitative a prezzi accessibili, senza perdere la qualità; 9. un incentivo alla presenza dei lavoratori, anche dei lavoratori creativi e del terziario propulsivo; 10. una tutela degli ambiti monumentali e paesaggistici.

3 | Idee progettuali per l'applicazione del modello della microcittà Tornando al nostro caso di studio, in base alle analisi e valutazioni effettuate, sono state individuate e configurate 10 sfide per la rigenerazione urbana (Figura 2).

Figura 2. Le 10 microcittà, individuate nella ortofotocarta del comune di Fabriano.

Le configurazioni ‘metaprogettuali’ sono progettazioni di fattibilità degli ambiti ritenuti maggiormente strategici per le esigenze individuate (ambiti di rigenerazione urbana). Gli ambiti interessati investono, in termini quantitativi, circa il 35% della popolazione residente nel Comune. Le proposte metaprogettuali sono ipotesi che tendono a dare risposte concrete al diffuso e generalizzato fenomeno che dal punto di vista teorico si può definire anticittà, esprimendo così un’incongruenza rispetto alle modalità prototipiche con cui si è sviluppato e conosciuto nel tempo il fenomeno città. Si è assistito, in ragione di un incremento di attenzione e appiattimento verso un fare privato piuttosto che al più costoso e faticoso intervento pubblico, da un lato ad uno sviluppo di estese urbanizzazioni a densità grottesche con conseguenti problematiche per i costi, il reperimento dei servizi necessari e la sicurezza, dall’altro uno sviluppo caotico di oggetti plurifunzionali senza qualità, blocchi commerciali, industriali e finanche residenziali spesso senza servizi in grado di coagulare tipi edilizi tanto diversificati. E’ all’interno di questo quadro che l’azione metaprogettuale Arch. Annie Attademo, PhD in Urbanistica e Pianificazione Territoriale

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riporta la pianificazione sui binari dei desiderata dell’amministrazione pubblica, ponendo alla base delle future considerazioni relative a ciascun ambito di studio quattro invarianti di progetto, elementi di riferimento per le proposte dei privati che verranno sempre contenute e valutate in una fase concorrenziale-concorsuale. Tali invarianti di progetto costituiscono gli aspetti ineludibili, e pertanto non negoziabili, negli accordi pubblicoprivato: esse dovranno necessariamente far parte delle azioni progettuali da proporre. Diverse sono le modalità possibili che vanno dall’intervento di rigenerazione interno alla città consolidata ad operazioni di retrocessione per rinaturalizzazione o meglio per recupero di territorio a destinazione agricola; operazioni sempre ispirate dal principio di densificazione urbana, con obiettivi di rigenerazione attenta e chirurgica laddove la città esistente permette operazioni di sostituzione edilizia di edifici obsoleti e laddove i servizi siano già in qualche modo presenti ed efficienti. Il caos edilizio della città consolidata recente, cresciuta in passato troppo in fretta, senza pianificazione del suo sviluppo, sostanzialmente al servizio dell’impellenza e della contingenza, già definita dal Quaroni Paese dei barocchi, impone un’azione strategica. In questo contensto si propone una sorta di opposizione alla genericità o meglio di innesto nello spessore della città, attraverso l’introduzione di ‘microcittà’ come piccole e nuove centralità a sostegno dell’architettura e del disegno denso della città, stimolo e baluardo alla pratica edilizia corrente il cui mercato viaggia su logiche, spesso esclusivamente economico-finanziarie, che poco hanno a che fare con le reali necessità del bene pubblico e della società in continua evoluzione.

3.1 | Un esempio applicativo: L’ambito “Vecchio Campo Sportivo”

Figura 3. L'Ambito Vecchio Campo Sportivo: gli ambiti funzionali di intervento

L’area è compresa tra l’arteria di ingresso a Fabriano di via Dante, l’asse di viale Stelluti che porta all’ospedale e alla stazione ferroviaria, il fiume Giano e le sue aree verdi ed, infine, ad est adiacente il parco urbano del quartiere della Sacra Famiglia. La parte di città è caratterizzata oltre che dall’importante infrastruttura del vecchio campo sportivo, anche da una notevole quantità di edifici nati per rispondere ad una forte necessità abitativa pubblica contingente e che come tale nella loro identità e ripetizione contraddistingue fortemente l’ambiente urbano. La presenza del campo ormai sostituito dalle nuove strutture sportive e perimetrato dalle residenze, impedisce un disegno della rete viaria con condizioni spaziali pubbliche poco fluide e perlopiù ostruite e per questo particolarmente degradate. Tali spazialità sono compromesse anche dalla presenza di edifici industriali e artigianali, in parte ormai obsoleti e inutilizzati che, oltre a bloccare alcune vie di accesso, occludono percorrenze, spazialità e visuali con le loro pesanti perimetrazioni invalicabili. L’area presenta caratteri di vicinanza al centro antico della città e alle sue più vitali strutture funzionali che ne fanno una delle aree più sensibili del sistema urbano e che le permettono oggi nuove e possibili qualità urbane con relative potenzialità simboliche ed economiche. Molti sono gli interventi possibili al fine della riqualificazione complessiva realizzabili per singole unità funzionali misurate, sul regime di proprietà, sulle invarianti individuate dal metaprogetto o su parti di esse. Gli elementi significativi della riqualificazione sono la densificazione edilizia e la riconnessione del tessuto viario, interrotto in più punti dalla presenza del campo da gioco o dai perimetri industriali. Si prevedono i seguenti interventi: introduzione di nuovi edifici multifunzionali all’interno delle aree del campo sportivo; un nuovo disegno urbano in grado di assicurare fluidità alla viabilità; spazialità pubbliche aperte, destinate all’incontro, allo svago, al verde e ai parcheggi; apertura di un asse urbano che dal centro Arch. Annie Attademo, PhD in Urbanistica e Pianificazione Territoriale

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dell’area si connetta con il consorzio agrario, anch’esso oggetto di possibile intervento; sostituzione edilizia sulle aree attualmente occupate da destinazioni industriali o artigianali per cui si prevede chiusura o spostamento; infine possibile spostamento e ricostruzione in altro e più adeguato sito sempre all’interno del quartiere, dell’asilo nido attuale (Figura 4).

Figura 4. Ricuciture, connessioni, addizioni. Il metaprogetto.

4 | Rigenerazione urbana: interesse pubblico e partecipazione privata Le sfide di Fabriano e più in generale delle città italiane: la controffensiva urbana al declino economico, al decadimento sociale al degrado ambientale come può essere declinata? Può la controffensiva urbana sostenere la città in questa sua fase di transizione? I temi della controffensiva-rigenerazione urbana sono certamente nobili: questioni di equità, di efficienza, di prestazioni urbane, di sostenibilità ambientale. Su tutte la dominante è a carattere sociale, con una necessità rilevante di risorse pubbliche inevitabilmente da supportare con investimenti privati. Come già scritto, occorre trovare il giusto equilibrio, all’interno di scelte governate, di questi due fattori. Negli ultimi anni. per gli investimenti sulle città, nella quasi assenza di fatto di Stato e Regioni, i singoli interventi nei Comuni sono stati scelti o concordati con i privati interessati e gestiti dalla parte pubblica in termini amministrativi piuttosto che strategici e dunque senza veri e propri obiettivi generali; la maggior attrattiva dei programmi complessi, 'speciali', è sembrato quella di poter derogare dalle paludose prassi amministrative (che non si è riusciti mai a semplificare davvero) ed ancora sfuggire ai bloccati Piani Regolatori Generali (che però, per vari motivi, non si è mai riusciti a riformare, almeno nel quadro normativo marchigiano). C'è ancora chi pensa che il fallimento dell'urbanistica si debba al fatto che essa muove inevitabilmente interessi economici e quindi in qualche modo vi siano dietro esclusivamente profitti e speculazioni; occorre però sottolineare con forza che sono, tuttavia, esattamente questi stessi interessi economici che nel resto d'Europa, in qualche modo ben governati e adeguatamente indirizzati, hanno prodotto la rinascita urbana, la rigenerazione di pezzi di città, ed oggi questi stessi strumenti sono in evoluzione verso obbiettivi socialmente più equilibrati e ambientalmente più sostenibili. Anche in Italia, anche nelle Marche e nella nostra realtà locale è possibile, anzi risulta doveroso, sperimentare prassi, trasparenti ed efficaci, che siano in grado di avviare processi organici di rigenerazione urbana, in modo da ottenere ciò che con successo è stato realizzato nel resto d'Europa. Bibliografia Boeri S. (2011), L’anticittà, Laterza, Roma-Bari AA.VV. (2011), Dense><rarefied, The plan urban development n.47, Centauro Edizioni Scientifiche, Bologna. AA.VV. (2011), Ecocities, L’industria delle costruzioni n.419, Edilstampa edizioni, Roma Ilardi M. (2007), Il tramonto dei non luoghi, Meltemi, Roma Arch. Annie Attademo, PhD in Urbanistica e Pianificazione Territoriale

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Il riciclo del paesaggio estrattivo. Un’opportunità di sviluppo?

Il riciclo del paesaggio estrattivo. Un’opportunità di sviluppo? Teresa Pagnelli1 Politecnico di Bari Master META – Master in energia, territorio ed ambiente Email: tittypagnelli@libero.it Luigi Guastamacchia Politecnico di Bari DICAR – Dipartimento di Scienze dell'Ingegneria Civile e dell'Architettura Email: lugu@tiscali.it Mariavaleria Mininni Università degli Studi della Basilicata DiCEM – Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo Email: mv.mininni@poliba.it

Abstract Crescendo la consapevolezza dell’incompatibilità tra un uso indiscriminato di materia ed energia e una corretta gestione del patrimonio ambientale, strategia comune e soluzione ecologicamente corretta sembra essere quella del riciclo, riuso e recupero. Il presente contributo, facendo particolare riferimento al bacino estrattivo della provincia BAT, a nord di Bari, auspica che l’approccio metodologico messo in campo dalla 'regola delle 3R' possa essere in grado di proporre nuovi scenari connessi a politiche e a pratiche di riuso e riciclo di parti di città o di territorio, ove per riciclo si intenda creazione di nuovo valore e nuovo significato. Partendo dall’atto di avvio del PTCP che propone di incentivare il recupero di cave esaurite ed abbandonate si cercherà di capire quali possano essere i punti di forza su cui far leva perché questa sia l’occasione per attuare intelligenti strategie di azione che riqualifichino e diano nuovo valore ai siti estrattivi ormai dismessi, ma anche avviare, massimizzando il recupero e riutilizzo degli scarti, l’innovazione di un comparto estrattivo, oggi in crisi, ma da sempre traino per l’economia locale. Parole chiave paesaggi di cava, riciclaggio, nuovo valore.

1 | Introduzione I termini riciclo, riuso, recupero, riduzione fanno ormai parte a pieno titolo del lessico comune; in ogni campo ed in ogni disciplina, dall’ecologia all’economia, dall’urbanistica all’architettura e all’estetica si parla di «recycle». Sulla scia del protocollo europeo '20-20-20' e delle direttive europee che impongono una riduzione dei consumi ed un uso più razionale delle risorse, crescendo la consapevolezza dell’incompatibilità tra un uso indiscriminato di materia ed energia, proprio delle società industrializzate, e la corretta gestione del patrimonio ambientale; in tutti i campi strategia comune e soluzione ecologicamente corretta sembra essere quella del riciclo e del contenimento dei consumi energetici. In linea con le politiche ecologiche è l’approccio metodologico messo in campo dalla 'regola delle 3R':Reduce, Reuse, Recycle. 1

Sebbene il lavoro sia frutto di una riflessione collettiva, sono da attribuirsi a Teresa Pagnelli la redazione dei paragrafi § 1, 3, a Luigi Guastamacchia la redazione del paragrafo § 2, a Mariavaleria Mininni del paragrafo § 3, mentre di tutti gli autori è il paragrafo § 4.

Teresa Pagnelli, Luigi Guastamacchia, Mariavaleria Mininni

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Il riciclo del paesaggio estrattivo. Un’opportunità di sviluppo?

Questi tre concetti costituiscono la cosiddetta 'gerarchia dei rifiuti', una filosofia secondo la quale massima priorità è la riduzione della produzione di rifiuti inutilizzati, seguita dal riutilizzo dello scarto fino alla terza rappresentata dalla trasformazione materiale dei rifiuti attraverso operazioni di riciclo. Filosofia questa mutuata nella maggior parte delle discipline tra cui l’urbanistica che, mettendo in campo il valore e le indiscutibili potenzialità del sistema urbano e ambientale, anche nei casi di abbandono e non utilizzo dei luoghi, si propone di indagare e prospettare quali possano essere i nuovi scenari connessi alle politiche e alla pratiche di riuso e riciclo di parti di città o di territorio. Con riferimento al caso studio del bacino estrattivo della nuova provincia pugliese Barletta – Andria – Trani (BAT) è necessario osservare come l’attività estrattiva sia stata per la regione, un importante traino per l’economia locale. Analizzandone dunque le valenze ed al contempo nodi problematici, numerose cave inattive si offrono infatti come siti privilegiati per accogliere discariche abusive, similmente i depositi di scarti e i residui dell’attività cavatoria e della lavorazione della pietra pongono questioni di emergenza ambientale legati tanto alla collocazione (spesso vicine ai centri abitati o ai territori costieri o anche in area di pregio ambientale e naturalistico2) quanto all’incapacità di immetterli nei processi produttivi. Si potrebbe quindi pensare di innescare ed incentivare percorsi progettuali, capaci di dare nuovo slancio al territorio attraverso azioni di paesaggio, e processi di sviluppo sostenibile del territorio che trasformino gli scarti e i residui finali delle catene produttive in componenti di base di nuovi processi produttivi3. Ci si chiede dunque quale possa essere il punto d’incontro tra il processo di pianificazione e quello produttivo, settori che sembrano non colloquiare affatto, perché dal loro confronto nascano processi virtuosi capaci di innescare da un lato una migliore gestione del patrimonio paesaggistico e dall’altro la necessaria innovazione nel sistema di gestione del comparto estrattivo, risorsa controversa per il territorio.

2 | Il caso studio 2.1 | Il bacino estrattivo della nuova provincia pugliese BAT Il caso studio ha come base l’analisi di una complessa realtà territoriale, quale quella della policentrica provincia Barletta – Andria – Trani (BAT), istituita con la Legge 148/2004 dell'11 giugno 2004. La provincia BAT sesta della Puglia e primo caso in Italia di provincia a tre teste, pur risultando destinata alla soppressione4, prosegue il suo iter per la dotazione di un importante strumento di panificazione a scala intermedia quale il PTCP (Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale)5. L’atto di avvio del PTCP della Provincia BAT6 costituisce il primo documento propositivo dell’amministrazione provinciale in materia di pianificazione territoriale alla scala di area vasta. Il piano, ha tra i suoi obiettivi strategici quello di promuovere l’efficienza ed il risparmio energetico ed incentivare la produzione, l’utilizzo e la ricerca in materia di fonti rinnovabili imprescindibilmente legati alla capacità endogena territoriale. Il bacino estrattivo7 della provincia BAT, a nord di Bari, è da sempre stato per la regione di importanza strategica per l’economia locale, lasciando però in secondo piano i conseguenti problemi legati alla modificazione ed alterazione del paesaggio, al consumo di territorio e quelli dovuti ad un corretto smaltimento degli scarti8 e fanghi di cava.

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Il territorio della provincia BAT ricade in parte nel Parco Nazionale dell’Alta Murgia ed è spesso interessato da fenomeni di abusivismo di attività estrattiva, che riguardano sia lo spietramento e lo sbancamento delle pietre calcaree che caratterizzano il paesaggio dalla Pseudosteppa mediterranea della Murgia, sia il riversamento dei materiali di scarto delle attività estrattive limitrofe. 3 In particolare per le cave inattive o in fase di esaurimento, i processi produttivi devono considerare i materiali di scarto per dar vita ai cosiddetti ricomposti a base lapidea. 4 Con decisione approvata dal Consiglio dei Ministri il 31 ottobre 2012, nell'ambito del riordino degli enti locali e dell'istituzione delle Città metropolitane. 5 Il programma operativo dell’Ufficio di Piano per l’elaborazione del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale della BAT è guidato dall’attività di coordinamento scientifico del Dipartimento DICAR con il prof. Nicola Martinelli. 6 Con Disposizione Presidenziale n. 19/DP del 5 luglio 2012 è stato approvato l’ATTO di AVVIO del Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Barletta Andria Trani in conformità agli “Indirizzi, criteri e orientamenti per la formazione, il dimensionamento e il contenuto dei Piani Territoriali di Coordinamento Provinciale (PTCP)”, approvati con DGR n. 1759 del 29 settembre 2009. 7 Oltre al Bacino estrattivo della Pietra di Trani, in Puglia sono rilevanti i comprensori estrattivi del Bacino della Pietra di Apricena, del Bacino, del Bacino della Pietra Leccese, del Bacino della Pietra di Fasano e del Bacino di Ginosa. 8 In particolare nei tratti costieri dei comuni di Bisceglie, Trani e Barletta, vi è la presenza di numerose segherie per la lavorazione della pietra estratta, ormai inattive che pongono questione di naturale ambientale in seguito agli scarti e agli apporti illegali dei resti della lavorazione della pietra riversati nel recente passato in mare dalle stesse segherie. Teresa Pagnelli, Luigi Guastamacchia, Mariavaleria Mininni

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Il riciclo del paesaggio estrattivo. Un’opportunità di sviluppo?

Si assiste oggi ad una sempre più frequente dismissione ed abbandono dei luoghi di produzione e di lavorazione per problemi dovuti sia alla crisi del settore estrattivo ed alla mancata innovazione tecnologica delle tecniche produttive, sia ad una scorretta gestione del processo di coltivazione che dovrebbe preoccuparsi di prevedere e pianificare il riuso e recupero dei luoghi e dei materiali di scarto prima ancora di programmarne l’attività estrattiva.

2.2 | Evoluzione del quadro normativo di riferimento in Puglia La vetusta normativa nazionale è ferma al Regio Decreto 1443 del 1923, dagli anni ‘70 però la competenza è passata alle regioni; in particolare la Regione Puglia si è dotata del Piano Regionale Attività Estrattive (PRAE)9 strumento che individua le zone favorevoli per le attività estrattive e dispone norme per l’apertura di nuove cave salvaguardando i valori paesistici ed ambientali del territorio e imponendo un progetto di riqualificazione e ripristino post-dismissione. Il Regolamento, che costituisce parte integrante delle Norme Tecniche di Attuazione del PRAE10, al titolo dedicato al recupero delle cave, indica i contenuti del piano di coltivazione che deve prevedere la destinazione finale dei luoghi a coltivazione cessata. Tra le tipologie di recupero consentite si individuano: recupero ambientale; ripristino; sistemazione ambientale; riuso (recupero naturalistico, recupero produttivo, recupero urbanistico, recupero tecnico funzionale). I recuperi devono ovviamente essere compatibili con quanto previsto dalla pianificazione sovraordinata e dagli strumenti di pianificazione locale. Ancora un passo avanti è stato compiuto con il passaggio dalla carta geologica all’adozione della carta giacimentologica, pubblicata nel web-gis del Sistema Informativo Territoriale Puglia (SIT), con l’eliminazione dei Piani di Bacino, pur restando la priorità della redazione di Piani Particolareggiati a cura di Comuni particolarmente toccati da attività estrattive. Tab.I : Cave autorizzate in Puglia al 31/12/2010. Fonte dati statistici: portale Ambiente – Regione Puglia.

Provincia

Attiva

Non attiva

Tot. autorizzate

%cave pugliesi

BA

46

40

86

19.7%

% attive quelle autorizzate 53.5%

BAT

22

54

76

17.4%

28.9%

BR

24

13

37

8.5%

64.9%

FG

46

34

80

18.3%

57.5%

LE

64

33

97

22.2%

66.0%

TA

37

24

61

14.0%

60.7%

TOTALE

239

198

437

100.0%

54.7%

su

Tab.II: Cave autorizzate per tipologia di materiale estratto. Fonte dati statistici: portale Ambiente – Regione Puglia.

9

Materiale estratto

BA

BAT

BR

FG

LE

TA

TOT.

Calcare per inerti

50

14

26

19

44

29

182

Calcare da taglio

26

54

5

32

6

3

126

Calcarenite da taglio

8

5

3

1

29

14

60

Calcarenite per inerti

5

1

12

1

21

8

48

Inerti alluvionali

0

0

0

21

0

6

27

Argilla

0

3

3

6

3

3

18

Conglomerati

2

0

0

3

0

0

5

Gesso

0

0

0

1

0

0

1

Altro

1

0

0

1

1

3

6

TOTALE

92

77

49

85

104

66

473

Approvato con delibera della Giunta Regionale n.580 del 15 maggio 2007. Il Piano Regionale delle Attività Estrattive è approvato con DGR n. 824/2006 e successivamente modificato con DGR 2112/2009.

10

Teresa Pagnelli, Luigi Guastamacchia, Mariavaleria Mininni

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Il riciclo del paesaggio estrattivo. Un’opportunità di sviluppo?

Altro utile strumento, introdotto dalla Regione, che consente di avere un rapporto sullo stato delle attività estrattive è il catasto cave, attraverso il quale è possibile accedere ad una sorta di censimento delle aree di cava, con l’obiettivo di puntualizzare lo stato dell’arte del settore estrattivo nella Regione Puglia. Alcune di queste informazioni sono state inserite nel SIT, del catasto cave, in continua fase di verifica e aggiornamento, dove è possibile verificare oltre alle indicazioni relative alla località, comune, provincia, estensione, lo stato della cava (attiva/non attiva), lo stato autorizzativo ed il materiale estratto. Strumento questo utile ed efficace per una più precisa conoscenza dei siti e dello stato dei luoghi. Ancora un ulteriore strumento a supporto di una pianificazione sostenibile delle politiche estrattive, messo in campo dalla Regione, è 'l’Osservatorio della domanda' il cui principale obiettivo è quello di pianificare il volume dei materiali da estrarre nel territorio nell’arco di un biennio.11 Strumento questo utile anche alle singole imprese per definire in modo più consapevole le proprie strategie e politiche produttive. Tuttavia nessun piano o strumento però è previsto per il recupero delle aree di cava ormai dismesse da tempo, continuando a permettere che queste diventino discariche abusive a cielo aperto di rifiuti speciali anche pericolosi e non occasioni di intelligenti strategie di riqualificazione e valorizzazione territoriale. Dai dati estratti dal portale Ambientale della Regione Puglia è emblematico evidenziare come le cave dismesse siano più della metà di quelle ancora attive ed è allora in questa direzione che bisogna muoversi per attivare quei dispositivi normativi e progettuali che delineino le future trasformazioni del territorio individuando le aree d’intervento strategiche e le politiche intelligenti più appropriate.

2.3 | Politiche di recupero e riuso per il bacino estrattivo della BAT L’atto di avvio del PTCP, Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, della provincia BAT, incentiva il recupero di cave esaurite ed abbandonate ricercando «azioni innovative sull’uso dei materiali, sulle tecniche di coltivazione e sistemazione» delle cave, in linea peraltro con le direttive europee (21/2006 e 98/2008) volte a spingere il settore verso l’innovazione ed il recupero del materiale di cava per un sempre più forte utilizzo di materiale riciclato. Ed è in questa direzione che si muovono le politiche attivabili dal PTCP in riferimento alla Pianificazione di Settore prevedono in particolare: (i) la promozione dei Piani Particolareggiati nei principali Bacini Estrattivi12 del territorio provinciale come previsti dal PRAE, finalizzati al miglioramento della coltivazione della cave, all’incentivazione, al riuso e alla migliore infrastrutturazione degli stessi Bacini; (ii) il potenziamento del controllo territoriale provinciale dell’attività estrattiva finalizzato all’apertura controllata delle cave e all’incentivazione del recupero/riconversione13. Nel contempo il PTCP oltre al recupero delle cave pone obiettivi anche per il recupero degli scarti connessi all’attività cavatoria pensando al riposizionamento e riuso delle polveri di scarto prodotte dalle operazioni di segatura dei blocchi per la produzione di nuovi materiali (ad es. polveri di marmo per la produzione di pietre ornamentali, ecc). Oltre al PTCP anche il Piano Energetico Provinciale (PEP)14, pone delle questioni in merito al riuso delle cave dismesse sia di proprietà privata (industrie minerarie) che pubblica pensando di installarvi gli impianti fotovoltaici, con l’obiettivo di recuperare le aree abbandonate e sfruttare la loro posizione ottimale, lontana dai centri abitati, e con una esposizione solare particolarmente favorevole. Con il progetto regionale ‘Il mondo che vorrei’, che ha destinato 10.000.000 € per interventi di risanamento e riutilizzo ecosostenibile di cave dismesse di esclusiva proprietà pubblica, il territorio provinciale della BAT è stato coinvolto con il progetto di recupero della “Cava di Montelisciacoli” nel comune di Minervino Murge15. Il Parco Nazionale dell’Alta Murgia, nel territorio della provincia BAT, ha attivato il recupero e la valorizzazione di alcune cave dismesse come quelle di bauxite in località Murgetta Rossa, nel Comune di Spinazzola, che sono inserite nei circuiti escursionistici proposti dallo stesso Parco, oppure per altre ha previsto progetti di fruizione legati alla gestione attraverso servizi annessi, come un auditorium e un centri didattici ecc. Questi gli strumenti e le forze in campo a disposizione del PTCP, tuttavia l’assenza di una cultura progettuale di paesaggio che possa muoversi trasversalmente tra dispositivi normativi e spaziali, pone evidenti criticità

11

Le Linee Guida per lo sviluppo dell’Osservatorio della domanda sono state definite dal Dipartimento di Ingegneria dell’Ambiente del Politecnico di Bari nell’ambito della convenzione stipulata con la Regione Puglia. 12 Nel dettaglio i bacini estrattivi sono Trani– Canosa-Minervino-Spinazzola 13 Anche mediante la gestione di un fondo finanziario basato sui ricavi dei volumi estratti (orientati alle attività formative, al miglioramento delle infrastrutture a servizio dei bacini). 14 Il Piano Energetico Provinciale, elaborato nel 2012 da Ecosfera fornisce all'Amministrazione della Provincia di BarlettaAdria-Trani uno strumento di programmazione e pianificazione energetica che indica precise azioni d'intervento per incrementare l'efficienza energetica e potenziale la produzione di energia da fonti rinnovabili nel territorio. 15 I progetti selezionati ed ammessi al finanziamento (fondi FESR Puglia 2007-2013 linea d’intervento 3.2, azione 2.3.4 l’Azione 2.3.4 “Risanamento e riutilizzo ecosostenibile delle aree estrattive”) con determina del Servizio Risorse Naturali n.32/2011, sono in totale 11 ed interessano oltre a Minervino Murge anche i Comuni di San Marco in Lamis, San Ferdinando di Puglia, Grottaglie, Cassano delle Murge, Ugento, Scorrano, Vieste, Ginosa, Monte Sant'Angelo e Sanarica.

Teresa Pagnelli, Luigi Guastamacchia, Mariavaleria Mininni

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Il riciclo del paesaggio estrattivo. Un’opportunità di sviluppo?

nelle azioni pro attive con cui poter delineare gli scenari e le prospettive future dello sviluppo sostenibile del territorio provinciale.

Figura 1. Il bacino estrattivo della provincia BAT (foto aeree Lorenzo Scaraggi)

3 | Processi virtuosi Definiti i dispositivi normativi e procedurali che coinvolgono il bacino estrattivo della provincia BAT, l’obiettivo di considerare un quadro completo sia metodologico che progettuale, seppur nella consapevolezza di non poter stabilire una strategia comune indifferente dai luoghi e dai contesti, pone l’esigenza di guardare a quei progetti, nazionali ed internazionali che sono riusciti ad attivare ed innescare processi virtuosi per la valorizzazione del territorio. Si è allora osservato attivamente e pro positivamente lo stato dell’arte, ma anche i processi decisionali, gli approcci progettuali e gli atteggiamenti dei diversi soggetti coinvolti in esperienze già concluse. Operare dentro un atteggiamento paesaggista che produce azioni di paesaggio nel senso che lo ripropone dove c’era oppure lo inventa dove non c’è mai stato o si è perso. Generalmente i progetti che intervengono sui paesaggi estrattivi si muovono secondo tre direzioni, che potrebbero essere ripensate come “le 3R” per i progetti di cava: rinaturalizzare, reinventare, riparare.

3.1 | Rinaturalizzare - Azione paesaggista: nuove idee di natura Progetti che consentono una rinaturalizzazione spontanea dei luoghi, un ritorno ad uno stato naturale, dove è la natura stessa che si riappropria della cava in una sorta di interpretazione “pittoresca” dei luoghi, intesa come un intreccio tra artificio e natura determinata dal trionfo del tempo sull’attività dell’uomo. Un esempio è la riqualificazione delle cave di Crazannes Saintes - Rochefort in Francia di Bernard Lassus. Le antiche cave estrattive furono scoperte, durante i lavori per la costruzione dell’autostrada A837. Il progetto di Teresa Pagnelli, Luigi Guastamacchia, Mariavaleria Mininni

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Il riciclo del paesaggio estrattivo. Un’opportunità di sviluppo?

Lassus punta alla salvaguardia del delicato ecosistema che si è nel tempo insediato, accentua e non mitiga il contrasto tra il paesaggio romantico di rovine e di vegetazione spontanea costituito dalle cave e il nastro dell’autostrada, prevedendo intenzionalmente che il nastro della autostrada passi in mezzo alle cave e non accanto ad esse. Altro esempio molto interessante pur trattandosi di discarica e non di cava è la rinaturalizzazione di Vall de’n Joan ad opera dell’architetto Battle I Roig e della paesaggista Teresa Galì (fig.2). Si tratta di un intervento paesaggistico che ha interessato tutta la vallata, la rimodellazione del paesaggio è stata progettata con un sistema di terrazze coltivate o alberate utili per superare i dislivelli, la valle si presenta come una serie di terrazze agricole, in cui la presenza antropica è testimoniata dai muretti a secco, impiegate per regolare il flussi delle acque irrigue e meteoriche.

Figura 2. Vall de’n Joan - arch. Battle I Roig paesaggista T. Gali - Barcellona. (fonte: http://www.architetturaecosostenibile.it, http://www.landezine.com/)

3.2 | Reinventare i luoghi - Azione paesaggista: risignificazioni (nuovi significati in luoghi consumati) Progetti che trasformano il sito estrattivo, reinterpretandolo e dando funzioni diverse. Del paesaggio di cava vengono colte potenzialità simboliche e si sfrutta la nuova configurazione del territorio per adattarlo ad usi diversi, teatro, spazi espositivi o semplicemente museo di se stesso e della tecnica estrattiva svolta. Un esempio è costituito dal recupero delle cave di arenaria dismesse di Su Cuccuru Mannu nella provincia di Oristano su progetto dell’arch. Alberto Loche come parco dei suoni. Il tema principale è quello sonoro-musicale Teresa Pagnelli, Luigi Guastamacchia, Mariavaleria Mininni

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Il riciclo del paesaggio estrattivo. Un’opportunità di sviluppo?

attorno a cui si articola la sistemazione generale e un sistema di percorsi sonorizzati che attraversano gli spazi delle cave. O anche le cave di Fantiano (fig.3), a tre chilometri da Grottaglie vicino Taranto, su progetto di Donati-D’Elia associati, esempio di riqualificazione del territorio che dopo essere stato per anni discarica abusiva è stata trasformata in cavea per teatro all’aperto16. Il progetto è riuscito a valorizzare le pareti a strapiombo esistenti, riutilizzare i gradoni esistenti dalla attività estrattiva, ha poi aggiunto ulteriori gradinate in tufo. Il materiale usato è stato recuperato prevalentemente da quello di scarto presente sul sito: le sedute del pubblico sono “blocchi squadrati di pietra calcarea del tipo locale”.17

Figura 3. Cave di Fatiano - Donati-D’Elia associati – Grottaglie (TA) (fonte: http://europaconcorsi.com/projects/85775)

3.3 | Riparare - Azione paesaggista: Ripristino Progetti che una volta terminate le operazioni di cava, ripristinano le condizioni paesaggistiche originarie, così come il luogo si trovava prima dell’inizio dell’attività estrattiva. Lo scavo viene ricoperto e ripristinata l’attività produttiva primaria. In Puglia e in Salento (fig.4) dove vi sono molte cave a fossa questa pratica è stata molto adottata.

16

In Puglia alcune cave attive tra cui quelle di Apricena e Cavallino vengono utilizzate come suggestive sale di concerti a cielo aperto tra le pareti di fronti cava. 17 Altri esempi sono la cava di Arcari a Vicenza utilizzata per spettacoli e concerti o lo splendido teatro per musica Dahalla a Rattvik in Svezia che corrisponde perfettamente all’obiettivo di creare un luogo eccezionale capace di coniugare territorio e architettura, o ancora tra i più celebri il Cimitero di Stoccolma progettato dagli architetti Erik Gunnar Asplund e Sigurd Lewerentz, che seppero integrare il paesaggio naturale di ben 108 ettari di foresta con quello artificiale e alterato di tre cave di ghiaia dismesse. Teresa Pagnelli, Luigi Guastamacchia, Mariavaleria Mininni

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Il riciclo del paesaggio estrattivo. Un’opportunità di sviluppo?

È il caso della zona collinare intorno a Verona, dove non è più possibile identificare le antiche cave romane da dove provenivano i materiali da costruzione dei monumenti dell’epoca, dell’Arena, del teatro, delle strade romane. Oggi al loro posto sorgono i vigneti ed il paesaggio ha assunto un nuovo equilibrio.

Figura 4. Cave riqualificate con l’agricoltura nel territorio salentino (fonte: Carta Idrogeomorfologica della Puglia)

4 | Prospettive di lavoro Sugli atti del convegno 'Nuove ecologie' tenutosi a Modena nel 2008 si legge: «I posti dove si scava vivono tre vite, prima dello scavo, durante lo scavo e dopo lo scavo. Queste tre vite devono essere considerate da chi gestisce il territorio come tre fasi di un’unica modificazione da governare in modo unitario. In altre parole, si tratta di porre preliminarmente la necessità di un progetto concreto, chiaro e dettagliato di che cosa il luogo potrà essere durante lo scavo e dopo. Questa unità di attenzioni verso un luogo, in considerazione delle tre vite (e delle tre forme) che vi si possono immaginare, presuppone anche il superamento di concezioni vincolistiche, in favore di un’idea di programma, di agenda degli atti concreti che si possono o non si possono fare. Un’agenda della cava, in sostanza». In quest’ottica appare chiaro che non può esistere un modo univoco e corretto di intervento, una cava non è soltanto un elemento fisico, geologico, tecnico, ma anche un oggetto antropologico e culturale. Il modo di percepire il segno che la cava lascia sul territorio, diventa decisivo per il modo di agire su di essa. Sarebbe allora giusto pensare che attraverso il PTCP, le buone pratiche proposte e le azioni paesaggiste (nuove idee di natura, nuovi significati in luoghi consumati, ripristino) ad esse connesse siano peculiari in ogni ambito di intervento perché ogni volta siano occasione di valorizzazione del territorio. In un territorio come la Puglia e nel caso specifico in quello provinciale della BAT, in cui l’attività estrattiva è supporto per l’economia locale, occorre cercare un compromesso che da un lato valorizzi le bellezze

Teresa Pagnelli, Luigi Guastamacchia, Mariavaleria Mininni

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Il riciclo del paesaggio estrattivo. Un’opportunità di sviluppo?

paesaggistiche e dall’altro continui a tener in piedi un settore produttivo importante per la Regione che mostra segni di crisi18 e che necessita di fattori di rilancio e di modernizzazione. Una delle strategia attivabili con il PTCP, in sinergia con le politiche regionali, potrebbe essere quella di creare un mercato di sottoprodotti derivanti dal riciclo e la progettazione di materiali innovativi che riutilizzino gli scarti di lavorazione della pietra rispondendo al contempo a requisiti prestazionali richiesti dalle caratteristiche proprie dei materiali da costruzione lapidei, naturali o artificiali esistenti19. In questo modo si potrebbe garantire la massimizzazione del recupero e riutilizzo degli scarti e la minimizzazione del conferimento a discarica, ovvero la trasformazione dei rifiuti da elemento di costo a risorsa economica, da sottoprodotti inutilizzabili di lavorazione a materia prime per prodotti edilizi ecocompatibili in un processo ciclico di rigenerazione ambientale ed economica. Occorrerà in conclusione nell’ambito della pianificazione delle attività estrattive nella provincia BAT un attento e preciso censimento che permetta di individuare e gestire le aree da riservare al prelievo mirato di materiale, le aree da tutelare e valorizzare con interventi di recupero ambientale o da destinare a servizi per il territorio o ancora i siti estrattivi da mantenere ancora in esercizio.

Bibliografia AA.VV. (2008), Atti del convegno, Nuove ecologie, Modena. Del Gaudio A., Vallario A. (2007), Attività estrattive: cave, recupero, pianificazione, Liguori ed., Napoli.. Lynch K. (1994), Deperire rifiuti e spreco, Cuen ecologia, Napoli. Zazzero E. (2010), Progettare green cities, List, Trento.

Sitografia http://ecologia.regione.puglia.it/ http://www.provincia.barletta-andria-trani.it/ http://www.architetturadipietra.it http://www.sit.puglia.it/portal/sit_cittadino/Dati+Tematici/Carta+Giacimentologica http://93.63.84.69/ae/frameview.phtml?winsize=large&language=en&config=

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La Regione Puglia al fine di sostenere la competitività del settore estrattivo e sostenere la produzione ha promosso il marchio “Pietre di Puglia”; marchio di proprietà della regione, ma concesso in uso a chi aderisce al sistema di qualità, ha il compito di promozione e valorizzazione della pietra pugliese e designa prodotti ottenuti con tecniche di produzione coerenti con la tutela del territorio e dell’ambiente. 19 L’ estrazione e lavorazione del materiale lapideo produce infatti una gran quantità di rifiuti da smaltire. La lavorazione comporta la produzione di sfridi che, pur qualitativamente identici sotto l’aspetto chimico, si differenziano per quello fisico, a causa delle diverse dimensioni. Le operazioni di taglio e rifilatura della pietra inoltre portano alla produzione di residui in varie dimensioni: il cocciame o rottame. Le operazioni di taglio e rifilatura assieme a quelle di lucidatura e levigatura invece, producono polveri che si miscelano all’acqua utilizzata per la lubrificazione ed il raffreddamento degli utensili diamantati e per l’abbattimento delle polveri stesse ed i reflui che ne derivano presentano un consistenza fangosa. Teresa Pagnelli, Luigi Guastamacchia, Mariavaleria Mininni

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La città come implicito, e le difficili misure dell’economia

La città come implicito, e le difficili misure dell’economia Fabrizio Paone Università IUAV di Venezia Email: paone@iuav.it

Abstract La tesi sostenuta riguarda l’opportunità di promuovere pratiche edili di costruzione e trasformazione della città, in cui l’impiego di materiali e componenti riciclabili e riusabili abbia un rilievo quantitativo, e l’utilità di intraprendere una osservazione sistematica degli spazi del deposito e del lavoro. L’orizzonte di azione viene collocato entro un quadro teorico che consente di distinguere campi di competenza dell’azione urbanistica rispetto ad altri circuiti socio-professionali: cultura delle imprese di costruzione e di manutenzione, politiche di incentivazione economica e fiscale, waste management. Viene sondata la capacità e la difficoltà di dialogo tra le scienze sociali e le scienze chimiche, biologiche e fisiche,attraverso l’attenzione alle tecniche e ai risultati che vengono conseguiti in altre realtà nazionali e internazionali. Si apre uno spazio per guardare ai manufatti e ai dispositivi che consentono il riuso, il deposito, la selezione delle materie, sottraendoli al loro ruolo urbano di necessità ancillare, e ripensandoli nei termini di architetture visibili e civiche. Parole chiave storia della città, urbanistica, economia. La tesi principale sostenuta da questo scritto riguarda l’opportunità di promuovere ordinarie pratiche di costruzione e trasformazione della città, in cui l’impiego di materiali e componenti riciclabili e riusabili abbia rilievo maggiore dell’attuale, alimentando tale obiettivo attraverso un’osservazione sistematica degli spazi del deposito e del lavoro. Il tema del riuso e del riciclo riguarda evidentemente più sfere di competenze e ha più livelli di ricaduta., tra cui in primis la cultura delle imprese di costruzione, le politiche di incentivazione economica e fiscale delle operazioni “virtuose”, il waste management, il benessere ambientale. Ciò coinvolge la capacità di dialogo tra le scienze sociali, le discipline artistiche e le scienze chimiche, biologiche e fisiche, attraverso l’attenzione alle tecniche e ai risultati che, con ritmo di innovazione molto serrato, vengono conseguiti nei contesti nazionali e internazionali. In questo ingresso al tema si incontra un primo carattere peculiare: la perdurante interrogazione autoriflessiva del campo di studi urbanistici, alla ricerca di un’organizzazione discorsiva che renda comprensibile l’urbanizzazione contemporanea, che collettivamente ci sembra fenomeno ineluttabile più che deliberato prodotto della civilizzazione. Si vorrebbe comprensibile la direzione evolutiva della città, in cui collaborano elaborazioni e pratiche esito della specializzazione e della divisione del lavoro intellettuale e professionale. Ciò pone in evidenza alcune questioni, non nuove ma tendenzialmente irrisolte, in particolare il rapporto tra l’urbanistica e il proprio oggetto, l’urbanizzazione e l’introduzione di un suo miglioramento, rispetto al quale, se è possibile esprimere generalizzazioni radicali, le comunità professionali, accademiche ed intellettuali hanno spesso immaginato un’istanza di competenza primaria, se non esclusiva. L’osservazione storica dell’evoluzione di un qualunque contesto territoriale negli ultimi cinquanta o dieci anni evidenzia come l’azione disciplinare si ponga all’interno di complessi diagrammi dei poteri e delle competenze, tra loro interagenti e instauratori di reciproche modificazioni, e non attesta alcuna delega di competenze esclusive all’urbanistica, pur con significative differenze negli ordinamenti legislativi nazionali e nelle prassi ordinarie. Tale tendenza è più manifesta nei contesti attenti alle politiche di liberalizzazione, ma può essere detta comune a scala globale, e getta una luce sulla natura della programmazione, della pianificazione, e della progettazione urbana. Esse mostrano la città come fenomeno che si produce autonomamente, per sommatoria ed interferenza d’effetti e di razionalità, in cui viene idealmente e non deduttivamente collocato il progetto, nel segno della discontinuità logica dell’immaginazione creativa. All’interno dell’area disciplinare della Fabrizio Paone

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La città come implicito, e le difficili misure dell’economia

pianificazione e dell’urbanistica, ampia e lacunosa al proprio interno, il campo di del progetto urbanistico si pone al di fuori del linguaggio formale delle tecno-scienze, e delle aritmetiche economiche e finanziarie, cui collettivamente viene riconosciuto nella contemporaneità il ruolo conoscitivo primario e oggettivante. Le implicazioni dei temi e dei problemi che il progetto architettonico e urbano può sollevare sono rilevanti, e possono sembrare paradossali per un campo politico, nazionale e internazionale che avverte sempre più la propria debolezza nei confronti dei grandi attori economici e finanziari. I caratteri economici relativi all’accesso alle risorse e alla distribuzione delle ricchezze a scala mondiale mostrano un’importanza immediata per il consenso e le politiche degli stati nazionali, e per le strategie dei global players che animano il mercato. Tutto questo ha rilevanza per i modi in cui l’urbanizzazione contemporanea “funziona”, in cui viene misurata la sua efficienza, le cui conseguenze ricadono all’interno dei temi dell’efficienza energetica, dei cambiamenti climatici, dei legami tra valori della civilizzazione e modelli di sviluppo. La prima operazione di ricerca che pare opportuno intraprendere, o puntualizzare, ha carattere storiografico e tende a sottolineare la differenza tra il termine “logica dello sviluppo urbano”, osservata con ottiche disciplinari che costruiscono in modo diverso e spesso reciprocamente incommensurabile gli oggetti “città” e “urbanizzazione”, e il termine “urbanistica” (pianificazione, spatial planning, etc.), che vira l’interpretazione di sintesi dei fenomeni urbani in immagini del futuro, scenari, piani, progetti, dispositivi di progettazione o modificazione a molti livelli degli insediamenti. Lo slittamento semantico tra il primo termine e il secondo fa sì che l’osservazione empirica dei contesti territoriali, localmente differenziati all’interno di dinamiche generali, si mostri come mossa non eludibile, e proceda a partire dalla constatazione della globalizzazione come un fatto reale, già intervenuto nei fatti, e noto ad un grande numero di cittadini. Il processo di urbanizzazione pone in evidenza porzioni particolari di città che chiamiamo «storiche», perlopiù in riferimento a un periodo della civilizzazione che ne ha conformato l’identità essenziale in modo sufficientemente stabile (città medievale, barocca, ottocentesca, moderna,…), oppure riferite a compendiarie forma di civilizzazione linguistiche e nazionali (città cinese, sudamericana, americana, greca, romana, araba, coloniale,…). Spesso sono proprio queste porzioni di città e di paesaggi, in vitale evoluzione oppure apparentemente congelate dalle istanze della conservazione, a mostrare duraturi insegnamenti di riuso e di parsimonia agli architetti e agli urbanisti. Si tratta, in modo tangibile, degli esiti di pratiche tradizionali la cui origine sfuma nel tempo, come il riuso dei mattoni e degli elementi lapidei, la macinazione degli elementi laterizi e cementizi recuperati, l’uso di tutte le porzioni dei tronchi d’albero per ricavare componenti lignei, l’elevato impiego di energia umana e artigianale, la minimizzazione dei percorsi di acquisizione dei materiali e dei componenti e di smaltimento dei residui. Essi, derivati da necessità economiche stringenti, assumono oggi un carattere simbolico. La passata virtù del riuso e del riciclo proveniva da una ineludibile condizione di difficoltà di reperimento di risorse e di minor potenza trasformativa delle tecniche (naturalmente la scarsità delle materie e la tenuità trasformativa appaiono tali per confronto alla situazione odierna generata della tecno-scienza). Oggi è impossibile nella precedente condizione reinserirsi in modo regressivo (utopie del ritorno alla terra, neocomunitarismi, nazionalismi, …), e subire un limite contestuale è un atto diverso rispetto ad assumere un limite volontario. In passato la popolazione era assai minore, limitato e fisso lo scenario abituale dell’esistenza individuale, dati che rendevano naturale leggere le conseguenze dei comportamenti di uso, riproduzione o dissipazione delle risorse alla scala della città, o dell’equilibrio tra città e territorio agricolo periurbano. Inoltre le teoria della società elaborate dalle élites religiose, statali e intellettuali, e il diritto consuetudinario, ordinavano l’accesso all’edificazione, alla rappresentazione di sé, al piacevole e al superfluo, specchiando l’ordine metafisico del mondo in strutture gerarchiche dei poteri. Ciò relegava allo stesso tempo una parte consistente della pur “piccola” popolazione delle città e del mondo a un’esistenza fatta di poche cose, destinate a non lasciare traccia di sé evidente o duratura, nel bene e nel male. Tale squilibrio, forte e latente, si manifesta storicamente in Europa a più riprese e in più modi, ad esempio nel Settecento attraverso la polemica sul lusso e il dibattito sulla fisiocrazia, forti accuse dei modi in cui una frazione minoritaria della popolazione, l’aristocrazia, si impossessa del surplus di valore generato dal lavoro della moltitudine degli uomini, e di come la città, parossistica concentrazione di attività di relazione e di prossimità, depaupera la campagna e la vita agricola, e sfrutta l’unica fonte della generazione della ricchezza, la terra. Oggi, viene da dire, tutto è cambiato. Il passato sembra contenere un’alta lezione, morale ed edile, estetica e civile, e contemporaneamente è troppo piccolo per contenere il tempo presente, le sue modalità di produzione energetica, i modi di trasporto di persone, cose, informazioni, i tipi di volumi e di superfici che compongono le compagini urbane. Ciò che ci condanna sembra essere ciò cui collettivamente non sapremmo rinunciare. Tanto più coltiviamo in noi la filologia dello studio delle città, tanto più ciò che faticosamente apprendiamo attraverso i percorsi delle prove e degli errori pare inutilizzabile in modo diretto. Neppure la teoria della società sembra fornire rassicurazioni: se la fiducia nella democrazia e nell’esistenza di un manipolo di diritti insopprimibili per ogni essere umano, incluse le generazioni a venire, si costituiscono come Fabrizio Paone

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principi universalistici ereditati dal Novecento, tale elementare ordinamento è lontano dalla realtà empirica, e anzi se fosse perseguito acuirebbe ulteriormente la crisi ambientale, fino a livelli insostenibili. L’impostazione del discorso del riuso e del riciclo (forse forma particolare del primo) porta all’attenzione temi che il relativismo e il realismo produttivo delle società ad alta divisione del lavoro, sia intellettuale che professionale, non possono non ritenere di difficile e sfuggente trattazione, o inutili. I molti inizi di incombenti crisi ambientali, la ritrazione economica italiana, europea e nordamericana a partire dal 2008, riportano comunque sull’agenda le istanze del cambiamento. La ritrazione economica e occupazionale rende più difficile per alcune nazioni, di cui gli Stati Uniti della prima presidenza Obama sono l’esempio, intraprendere politiche ambientali coraggiose e strutturali, che muterebbero il quadro immediato delle convenienze economiche e dei consensi elettorali. Ciò evidenzia come non sia pensabile una via esclusivamente tecnocratica alla rigenerazione ambientale, spesso ambiguamente sottesa nelle tesi della “sostenibilità”, tantomeno possiamo affidarci alle sole indicazioni delle tecnologie di applicazione urbana (famiglia invero assai vasta). La attuale percezione della “crisi” coinvolge gli stati europei e nordamericani e agisce in modo ambivalente, ribadendo la necessità di un nuovo progetto collettivo che non sia solo di riduzioni del superfluo e delle dissipazioni, ma anche di un diverso e migliore sviluppo, citando per incoraggiamento le analoghe fasi del Novecento, in primis il new deal roosveltiano e il secondo dopoguerra, che hanno agito nella direzione di una rifondazione. Emerge il tema della misura, al di fuori di ogni moralismo, degli oggetti del riuso, e delle risorse utilizzate, riproducibili e non riproducibili. Ciò porta di fronte all’esplicitazione di una sorta di neo-umanesimo: nuove pratiche virtuose potranno diffondersi in seguito al convincimento che il benessere e la prosperità delle società umane potrà essere perseguito solo insieme a una nuova consapevolezza della interdipendenza tra fattori umani e fenomeni biologici. Ciò costituisce un passo epocale, evidentemente non facile da compiere, dovendo subentrare a una storia ininterrotta di opposizione tra l’uomo e ciò che veniva colto, simboleggiato e sintetizzato come «natura». I dubbi, e le questioni troppo grandi, non impediscono di poter parlare di alcuni elementi che hanno fortemente caratterizzato negli ultimi dieci anni l’affermazione dei temi del riuso, del riciclo e della riduzione dei consumi all’interno del progetto urbanistico. Essi potrebbero essere sviluppati in modo sistematico nel futuro prossimo, e vorrei tentare un elenco, che certamente non può essere completo, né veramente soddisfacente: 1. utilità di sviluppare il nostro lavoro in casi specifici e occasioni concrete seguendo un duplice ordine discorsivo, che separi una visione di scenario a più ampio respiro temporale e trasformativo (10/20/50 anni), dall’azione realisticamente possibile nell’immediato, che viene avvertita come negativamente condizionata dai condizionamenti operati dall’esistente (non solo dai depositi materiali delle strutture urbane, ma anche dalle scelte energetiche e dalle dinamiche economiche e sociali). Per puntare a tale ambizioso obiettivo è necessario avanzare in modo esplicito e argomentato valutazioni sulle variabili indipendenti del sistema territoriale e sulle sue evoluzioni, depositando su uno sfondo di senso nel tempo medio e lungo l’influenza delle scelte, spesso condizionate da un piccolo o nullo margine di rielaborazione rispetto alle domande della committenza, pubblica e privata, e dalla esiguità e aleatorietà delle risorse attivabili; 2. il potenziamento dell’impiego di componenti edilizi e urbani riciclabili, tanto riferiti ai componenti edili quanto impiantistici, e infrastrutturali in genere. L’accento si sposta in questo caso dalla riproducibilità delle materie alla proiezione nel tempo della vita dei componenti (i mattoni, le pietre, le gomme, ricollocate, ridefinite, rimacinate per formare nuovi pavimenti, intonaci, …); 3. importanza di impiegare materiali e mezzi a “chilometro zero”, o che comunque si pongano l’obiettivo di minimizzare i percorsi del trasporto, ivi compresi i movimenti di terra. Ciò costruisce un orizzonte di senso in parte differente rispetto agli scivolosi temi dell’identità locale del contestualismo, essendo le risorse locali solo in parte riportabili alle immagini della tradizione, mentre per la parte maggiore impongono un’analisi e una descrizione dello stato di fatto priva di pregiudizi, inclusi gli ingombranti lasciti delle fallite ipotesi di modernizzazione e i molti impianti, infrastrutture e brani di città che presentano un comportamento dissipativo dal punto di vista energetico, non corretto dal punto di vista ambientale, e un basso apprezzamento da parte del mercato immobiliare; 4. la predisposizione di adeguati superfici, volumi e impianti destinati al deposito, alla selezione, al trattamento e al reimpiego dei materiali e dei componenti recuperabili. Essi potrebbero e dovrebbero costituirsi come luoghi della nuova cittadinanza, passibile di mostrarsi e rappresentarsi attraverso un nuovo decoro civico, piuttosto che come impianti specializzati, da realizzarsi al di fuori della pubblica vista, delle aree centrali e di pregio (logica che ha portato nel secondo dopoguerra a diffuse illegalità). Giocando con le parole, si potrebbe dire da Nimby (Not in my Backyard) a Nimgy (Not in my Background). Ciò porterebbe a superare uno dei portati meno visibili e più duraturi dell’urbanistica moderna, ovvero lo stralcio sostanziale da ciò che ricade sotto la potestà degli architetti e degli urbanisti, degli impianti e delle zone produttive, del trattamento dei rifiuti e della produzione e distribuzione di energia; 5. la prevalenza dello sviluppo delle nuove iniziative di edificazione di parti di città disegnate unitariamente su terreni già urbanizzati o inquinati, nella maggior parte i celebri brownfields che la mondializzazione della produzione ha liberato con effetto a scacchiera; Fabrizio Paone

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6. la proiezione di programmi educativi che costituiscano il nuovo senso civico delle generazioni che si affacceranno alla vita lavorativa e urbana, da condursi non solo in ambito scolastico ma anche civico; 7. i molti fallimenti e le inadeguatezze che hanno accompagnato in passato le iniziative di partecipazione e di condivisione dei progetti urbanistici, o le frustrazioni per le riduzioni degli esiti della pianificazione strategica in pratiche affabulatorie, prive di potere decisionale, lungi dal ribadire una illusoria autonomia tecnocratica o normativa del progetto urbanistico, rilanciano in alto (anche questa è evidentemente un’ipotesi) la diffusione della conoscenza come patrimonio primario e imprescindibile per il benessere delle generazioni future, contro ogni forma di occultamento di gestione delle informazioni, dei poteri e delle decisioni. In questo la sperimentazione delle tecniche rese possibili dal web è ancora da esplorare in ambito urbanistico, e appartiene al presente. Certamente tutto questo si presta a molte considerazioni e a molti obiezioni. Il riuso, il riciclo e la riduzione dei consumi sono stati praticati già in passato, e con esiti eccellenti, all’interno di altre concettualizzazioni e di altre parole d’ordine, prime tra tutto legate al recupero delle ragioni dell’esistente, della storia, nell’attenzione al territorio come palinsesto, superando le anacronistiche concezioni dello sviluppo illimitato. Altre volte sono state perseguiti risultati di riuso notevolissimi in modo intrinseco alla deontologia professionale e alla realizzazioni di buoni progetti, senza richiamarsi in modo consapevole o esplicito ai temi del riuso. L’incrementalità delle forme di conoscenza che si rendono disponibili con atteggiamenti progettuali attenti alle risorse contenute in ciò di cui disponiamo prefigura anche un auspicabile ritorno dell’architetto e dell’urbanista in cantiere, in razionalità e ordini scoperti negli oggetti banali o considerati scarti, le cui ragioni con difficoltà riescono a essere riportate dall’empiria e dall’atteggiamento dilettantesco del bricoleur, a un assetto sistematico, o ancor più a un paradigma inteso nel senso della riflessione epistemologica. A questo riguardo la rilevanza delle pratiche “virtuose” all’interno della produzione complessiva riporta in primo piano il tema della misurazione delle strutture e dei comportamenti, della messa a punto di indicatori affidabili e condivisi, reintroducendo il confronto con la formalizzazione definita dalle tecno-scienze.

Fabrizio Paone

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Ridefinizione del concetto di fabbisogno e strategia di area vasta. Premesse per il riuso del territorio collinare friulano

Ridefinizione del concetto di fabbisogno e strategia di area vasta. Premesse per il riuso del territorio collinare friulano Paola Pellegrini Iuav di Venezia, Politecnico di Milano, Università degli studi di Udine Email: paola.pellegrini@gmail.com Tel: 0432.174.0345

Abstract Il territorio della Comunità Collinare del Friuli, 15 comuni a nord-ovest della città di Udine, a seguito della ricostruzione post-terremoto è diventato un ibrido urbano-rurale a bassa densità. Il progetto INTERREG Susplan, ‘Pianificazione sostenibile in aree montane’, ha promosso un processo di pianificazione per esplorare le possibilità e i contenuti di uno sviluppo sostenibile per questo specifico contesto. Il saggio illustra i risultati di due momenti di questo processo, la Carta del fabbisogno e il Piano Strategico. Il primo ha indagato la dimensione della crescita nel contesto locale partendo dal sovradimensionamento dei PRGC e proposto l’opportunità di una nuova interpretazione del concetto generale. Il secondo ha declinato la manutenzione del territorio quale possibile strategia di intervento per il futuro sviluppo territoriale nella dispersione insediativa e proposto alcune linee guida. Parole chiave fabbisogno, strategia, dispersione. L’elaborazione di strategie per lo sviluppo territoriale sostenibile è l’obiettivo del processo di pianificazione condotto dalla Comunità Collinare del Friuli (CCF)1 nel 2011 – ‘12 in qualità di Partner del progetto SUSplan (PLANning for SUStainability) ‘Pianificazione sostenibile in aree montane’, INTERREG IV A Austria-Italia 2007 – 20132. La CCF non è territorio montano e non vive le stesse dinamiche territoriali della montagna friulana, ma l’ente ha partecipato al progetto per contribuire a confrontare realtà diverse e esplorare modi di definizione di strategie per lo sviluppo sostenibile. Il processo di pianificazione è stato articolato dall’ufficio responsabile – il Servizio Cartografia della CCF – in quattro fasi3 secondo l’approccio territorialista allo sviluppo locale: Carta dei Valori, Carta del fabbisogno, Statuto dei luoghi, Piano Strategico. Due momenti di questo processo di pianificazione4 – elaborati nel 2012 – hanno affrontato lo sviluppo territoriale sostenibile riflettendo su due temi:

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La CCF è un consorzio volontario di 15 comuni disposti fra le Prealpi e la pianura, fondato nel 1967 per promuovere la cooperazione ed il coordinamento fra i comuni ed offrire servizi pubblici a scala sovra-comunale, con circa 51.700 abitanti nel 2010 e circa 35.000 ettari di superficie localizzati a nord-ovest della città d Udine. http://www.friulicollinare.it/ Il comune più famoso in CCF è San Daniele. 2 http://www.susplan.info/ Lead Partner Land Carinzia, Abteilung 20 Landesplanung. Altri Partner oltre alla CCF: Comunità Montana della Carnia; Direzione urbanistica della Regione Veneto. Partner associati: Comunità Montana del Torre, Natisone, Collio; Comunità Montana del gemonese; Canal del ferro e Valcanale; Comunità Montana del Friuli occidentale; Servizio pianificazione territoriale della Regione Friuli Venezia Giulia. 3 Di concerto con la Comunità Montana della Carnia; si veda Pellegrini P. (2012), “La Carta dei valori, metodo e possibilità. Il caso Carnia”, in “L’urbanistica che cambia. Rischi e valori”, Atti della XV Conferenza nazionale della Società Italiana Urbanisti, Pescara, 10-11 maggio 2012, Planum. The Journal of Urbanism, n.25, vol.2/2012. 4 I due distinti incarichi sono esito di due bandi a partecipazione libera; gli incarichi sono stati diretti da Paola Pellegrini, responsabile scientifico, Emilio Savonitto, capogruppo; al primo incarico hanno partecipato Franco Boniotto, Silvia dalla Costa, Emanuele Tomic; al secondo incarico hanno partecipato Emanuele Tomic, Isabella Moreale. La Carta è stata elaborata dal dicembre 2011 al giugno 2012, il Piano è stato elaborato dal giugno all’ottobre 2012. Paola Pellegrini

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• la ‘Carta del fabbisogno residenziale, industriale e commerciale dell’area della Comunità Collinare del Friuli necessaria per la definizione di strategie mirate alla riduzione del consumo di territorio e all’ottenimento di un equilibrato sviluppo degli insediamenti’ ha indagato il significato e la possibile dimensione della crescita oggi nel contesto locale e come concetto generale; • il ‘Piano Strategico di area vasta della Comunità Collinare’ ha esplorato le possibilità di declinazione di strategie di intervento in un contesto territoriale caratterizzato da dispersione insediativa a bassa densità e estensivo uso agricolo.

1 | Il significato e la possibile dimensione della crescita oggi Il dimensionamento dei piani regolatori comunali della CCF La prima operazione della Carta del fabbisogno è stata l’analisi quantitativa e qualitativa delle previsioni insediative dei PRG vigenti dei 15 comuni della CCF, che sono stati assemblati, cioè: • quanto e dove le zone di espansione fossero state collocate, sia nel recente passato che nelle prescrizioni attuali, • le possibilità di densificazione dell’insediamento esistente5. I risultati per la destinazione d’uso residenziale sono stati confrontati con i risultati ottenuti dall’analisi dell’andamento della popolazione; i risultati per la destinazione d’uso produttiva sono stati confrontati con l’analisi della struttura produttiva e commerciale della CCF alla prova della crisi economica6. L’insediabilità residenziale teorica massima calcolata dai PRGC (CIRTM)7, cioè quanti abitanti potrebbero insediarsi nel territorio, aumenta in media del 23% la popolazione già insediata, cioè 11.601 nuovi abitanti8. La crescita demografica totale dal 2001 al 2011, per contro, è del 3,3%, con un minimo di -3,4% e un massimo di 9,4%9. Le aree a destinazione d’uso residenziale attualmente non edificate nelle zone B di completamento (figura 1) e C di espansione consentono un’insediabilità compresa fra 3300 e 10.000 nuovi abitanti, cioè il fabbisogno di almeno 15 anni potrebbe essere soddisfatto qualora il trend demografico si mantenesse costante (fino al fabbisogno di 50 anni). A questa potenzialità si possono aggiungere gli abitanti insediabili per la densificazione del tessuto esistente, soprattutto delle zone B, il 27% delle quali ha un rapporto di copertura inferiore al 15%. Nonostante la ricchezza

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È stata operata l’analisi delle zone B, C, D, DH, H attraverso shape files forniti dalla CCF e la lettura delle norme tecniche di attuazione. È stato calcolato il rapporto di copertura fra superficie coperta e superficie di tutte le aree; il rapporto di copertura (Q) è stato considerato – fra quelli possibili da calcolare con operazioni di sintesi – il parametro quantitativo che meglio esprime l’utilizzo della possibilità ad edificare. In questa operazione sono state considerate singole aree quelle disegnate dai PRGC, cioè non è stato scorporato il giardino delle case o le pertinenze delle fabbriche se questo non è stato fatto dai PRGC. Per quanto riguarda le aree di espansione, per non sovrastimare il dato o considerare elementi ininfluenti, sono state tenute in considerazione solo le aree risultate effettivamente senza edifici; sono state individuate le aree vuote, cioè quelle con un indice di copertura inferiore (Q) a 2%, quindi non solo le aree con Q uguale a zero; si è stimato, infatti, che fino a questa soglia gli edifici esistenti sono trascurabili. A ciascuna area definita vuota come alle aree non sature è stato attribuito l’indice di edificabilità definito dalle norme tecniche di attuazione del PRGC ed è stato calcolato quanto sia consentito edificare e a quanti nuovi abitanti questo possa corrispondere sulla base di una formulazione di una ipotesi di insediabilità. Non è stata elaborata analisi per le zone A, in quanto molto diversamente trattate dai piani regolatori e molto diverse fra di loro. Il dato di potenzialità insediativa che è stato ottenuto potrebbe essere aumentato dall’ulteriore insediabilità possibile nelle zone A. 6 Bisogna sottolineare che le condizioni socio-economiche e geografiche dei comuni che compongono la CCF non sono omogenee e pertanto il ragionamento basato sui valori medi opera alcune generalizzazioni; lo studio ha potuto analizzare in dettaglio i fenomeni evolutivi dei diversi comuni. 7 Per questo calcolo in Regione Friuli Venezia Giulia si fa riferimento al DPGR 0126/Pres del 1995 e all’allegato 1 al regolamento di attuazione della parte I – Urbanistica D.P.Reg. 86/08 della LR 5/07. 8 La frequente sovra-stima dell’aumento demografico e conseguentemente della quantità di aree di espansione dei piani comunali è comprensibile alla luce della volontà da un lato di fornire prospettive al settore delle costruzioni (riferito all’esistenza di imprese edili prevalentemente piccole) e dall'altro di incontrare l'aspettativa diffusa di "poter costruire sul proprio terreno" corrispondente alla diffusa e parcellizzata proprietà fondiaria. Questo atteggiamento ha delle immediate conseguenze sulla previsione di aree a standard ai sensi del D.M. 1444 del 1968, però nei comuni del FVG generalmente la dotazione di aree a standard è sovrabbondante e consente di prevedere un notevole incremento della insediabilità senza dover prevedere vincoli espropriativi per nuove aree a standard. 9 In comuni di piccole dimensioni, come sono generalmente quelli del Friuli, un numero molto piccolo di nuovi insediati, nel caso citato 200 nuovi abitanti in 10 anni, riesce a modificare significativamente il totale della popolazione. Paola Pellegrini

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di volumetrie e spazi sottoutilizzati, la densificazione non è generalmente considerata nel calcolo del CIRTM, per ragioni legate all'inerzia del mercato immobiliare e alle condizioni storico-culturali10.

Figura 2. Le zone B di completamento previste dai PRGC della Comunità Collinare. Rapporto di copertura

In considerazione della crisi economica mondiale in corso e dei dati raccolti a livello locale11, l’ampliamento delle aree a destinazione d’uso produttiva attualmente previsto dagli strumenti urbanistici della CCF – 154 ha sono le aree vuote – sembra ben sufficiente a soddisfare in termini quantitativi le esigenze dei prossimi anni. In termini qualitativi, invece, in futuro potrebbe diventare necessario pensare a zone industriali con migliore

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Lo stesso ragionamento è applicabile ai numerosi edifici rurali delle zone agricole, spesso suggestive; potrebbero essere riqualificate in residenza, ma bisognerebbe valutare quanto questa prospettiva possa essere auspicabile o, al contrario, disincentivata dai PRGC. 11 Sono state condotte numerose interviste a stakeholders locali (questionari) in merito allo sviluppo produttivo del territorio. La grande maggioranza degli imprenditori intervistati ha dichiarato un atteggiamento prudente verso il futuro e ha affermato di non volersi ampliare. Paola Pellegrini

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dotazione infrastrutturale, configurazione e localizzazione. In CCF esistono prevalentemente iniziative imprenditoriali piccole, nate e cresciute a poco a poco senza specifiche esigenze infrastrutturali per iniziative legate a singole persone piuttosto che a piani finanziari o disponibilità di capitali, collocate in modo sparso in funzione delle proprietà delle aree e indirizzate successivamente dai Piani regolatori – con alterni successi – verso zone artigianali/industriali/commerciali più o meno strutturate o ben localizzate. Per le aree a destinazione d’uso commerciale i PRGC non prevedono aumenti consistenti (solo 7 ha sono vuoti) perchè non individuano in questi insediamenti un bisogno da soddisfare. L'offerta dei grandi centri commerciali del territorio circostante – Udine, la strada Pontebbana, Spilimbergo, Codroipo –, infatti, soddisfa pienamente le esigenze. Il calcolo del fabbisogno, insieme con i parametri che il piano definisce, consente di quantificare il consumo di suolo. Come giudicare questa riserva di aree edificabili e quindi di consumo di suolo? Le aree vuote che possono essere edificate – dove l’edificato esistente ha un rapporto di copertura inferiore a 2% – sommano a 263 ha, lo 0,763% dell’estensione della Comunità Collinare. Questa percentuale è modesta, però risulta maggiore della trasformazione del territorio avvenuta dagli anni ’80 al 2000, che ha avuto la grande spinta propulsiva della ricostruzione post-terremoto ed ha cambiato morfologia e dimensione degli insediamenti12 (ricavata dai dati disponibili da Moland13): 0,763% contro 0,498%, cioè i PRGC vigenti consentono che la tendenza all’edificazione degli ultimi decenni continui e aumenti. Tabella I: La trasformazione dell’uso del suolo tra 1980 e 2000 nella Comunità Collinare (dati Moland) suolo urbanizzato (Ha) +174

sup. tot.

suolo urbanizzato ‘80-‘00 sul totale (%)

suolo agricolo perso (Ha)

suolo agricolo perso ‘80-‘00 sul totale (%)

suolo urbanizzato ogni giorno (m2)

34.896

0,498

-256

0,735

240

L’idea di dimensionamento. Nuova interpretazione di fabbisogno La riflessione generale sul concetto di dimensionamento è stata la seconda operazione della Carta. L’idea, nata per affrontare i problemi dell’espansione delle città industriali, si basava sulla possibilità di riconoscere e dare una dimensione ai fondamentali e naturali bisogni dell’uomo, ritenuti costanti a prescindere dalla contingenza storica. Per il dimensionamento sono fondamentali alcuni elementi: • previsione dell’andamento demografico (quante persone alloggiare), • definizione di un orizzonte temporale (per quanto tempo provvedere), • indice del rapporto fra abitanti e grandezze trattabili dal piano (suolo, volume edificato), • la definizione di dotazione ‘normale’ e di situazione abitativa soddisfacente (standard abitativi e minimi per attrezzature pubbliche). Questi elementi sono da molti anni sottoposti a critica poiché non si tratta più di espandere l’insediamento, di rispondere ad esigenze e bisogni con categorie universali a fronte della diversificazione delle istanze dei gruppi sociali14, di prevedere il futuro nel mondo attuale incerto (nell’evoluzione futura) e complesso (per la molteplicità degli attori che sono riconosciuti). Infatti: • le dinamiche di crescita demografica sono rallentate e nel mondo occidentale si è assistito a processi di suburbanizzazione, • l’immigrazione è difficile da prevedere anche in considerazione della diminuita attrattività dell’Italia, • l’arco temporale di riferimento dei piani urbanistici si è molto accorciato e la domanda effettiva può essere determinata con ragionevole plausibilità solo nel breve periodo, • nuovi parametri insediativi servono per limitare il consumo di suolo, ma è difficile dire quale sia la dotazione ‘normale’ del bene casa15, cioè quale possa essere lo standard con il quale pianificare.

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Il fenomeno che maggiormente si evidenzia nella Comunità Collinare del Friuli è l’estendersi delle aree urbanizzate (zone artificiali nel MOLAND: edificato, aree pavimentate) dal 1950 al 1980, fenomeno proprio a tutto il Friuli e che deve essere messo in relazione anche con la ricostruzione post-terremoto. La diffusione degli abitati e l’aumento del suolo artificiale riguarda tutti territori comunali della CCF, ma ha dimensione più vaste e forme riconoscibili soprattutto in alcuni specifici contesti: la superficie artificiale raddoppia nei comuni di Majano, Osoppo (praticamente distrutti dal sisma), Buja, Coseano, San Daniele. 13 MOLAND (acronimo inglese dell’espressione MOnitoring LANd use/cover Dynamics) è un progetto europeo avviato nel 1998 dal Centro Comune di Ricerca (CCR) della Commissione Europea con lo scopo di definire una metodologia avanzata per il monitoraggio del territorio regionale. 14 Si veda Secchi B. (1989), “Dimensionamento”, in Secchi B., Un progetto per l’urbanistica, Einaudi, Torino, pp. 70-74 e Pellegrini P. (2012), “Micro intervista a Bernardo Secchi”, in Pellegrini P., Prossimità, declinazioni di una questione urbana, Mimesis, Milano, pp. 27-32. 15 Si veda Gabellini P. (2001), “Dimensionamento”, in Gabellini P., Tecniche urbanistiche, Carocci, Roma, pp. 45-58. Paola Pellegrini

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Il dimensionamento del PRGC deve basarsi per legge su «accertati e verificati fabbisogni locali e su fabbisogni indotti da programmati interventi pubblici o privati»16, ma tali giudizi sono controversi, specifici per ciascun contesto locale, difficilmente stimabili nei loro effetti quantitativi. Ad esempio, nella ‘stima della domanda’ la legge chiede di prendere in considerazione la «quantità di fabbisogno aggiuntivo creata da perdite di abitazioni o stanze previste a causa di obsolescenza edilizia». A fronte del patrimonio generalmente ben conservato e di buon livello in CCF, poiché in gran parte costruito o ristrutturato nel post-terremoto, si deve decidere quali siano i motivi di obsolescenza: elevato consumo energetico? scarsa funzionalità rispetto alle mutate condizioni di vita? necessità di onerose operazioni di manutenzione ordinaria oggi non più affrontabili? Ad esempio, nell’‘analisi della offerta’ la legge chiede di considerare nel fabbisogno soddisfatto le quantità che «superino il livello di sfitto o di invenduto ritenuto fisiologico nella realtà locale». Attualmente la media degli alloggi vuoti sul totale in CCF è del 15%: in un territorio di emigrati, dove molti si sono costruiti la casa al paese d’origine, ma non ci vivono, quale livello deve essere ritenuto fisiologico? E quale sarà fra 10 o 30 anni, quando queste case verranno ereditate? Le categorie del CIRTM, inoltre, non sono esaustive né sufficienti, da un lato perché non descrivono cosa si voglia del territorio, dall’altro lato perchè nella stima del fabbisogno è necessario passare dal soddisfacimento del bisogno alla risposta al desiderio in merito al bene casa, che in Friuli ha sempre avuto un grande significato identitario e culturale (gli alloggi di proprietà sono quasi il 90%). Nella nuova interpretazione del fabbisogno necessaria per dimensionare correttamente i piani nella realtà locale, altri fenomeni alimentano una domanda diversa rispetto all'attuale offerta di mercato: ridotte prospettive di progressione nei livelli di reddito, possibilità di pendolarismo e mobilità, efficienza delle reti telematiche, evoluzione della composizione delle famiglie: in un contesto demografico dove i figli unici sono almeno il 25% del totale fra 30 anni molti saranno proprietari di più di un alloggio. Spesso questi fenomeni sono in contraddizione fra loro nelle istanze che promuovono per il territorio. Il fabbisogno non può essere definito da un esercizio di previsione, non è un dato scientifico desumibile in modo incontrovertibile dai dati dell’analisi, ma è funzionale ad un progetto di sviluppo, è l’interpretazione di desideri dei diversi soggetti e degli operatori. Il problema del progettista è definire quale sia effettivamente l’interesse generale sul quale dimensionare il Piano urbanistico ed il modello di sviluppo: fare in modo che il numero degli abitanti possa crescere? conservare la destinazione d’uso agricola del suolo?17

2 | Strategie per la sostenibilità in un territorio ibrido urbano - rurale Il secondo studio e momento conclusivo del processo di pianificazione Susplan, il Piano Strategico di area vasta della Comunità Collinare, ha cercato di applicare una nuova interpretazione di fabbisogno e interpretare il concetto di pianificazione territoriale sostenibile in funzione del contesto collinare, adattando l’indirizzo ‘riduci/riusa/ricicla’ in modi condivisibili dalla comunità locale. Il territorio collinare del Friuli, dove fenomeni di dispersione insediativa sono evidenti18, è oggi un habitat ibrido: non più rurale, avendo l’agricoltura un ruolo contenuto nell’economia locale, anche se la gestione agricola del territorio resta comunque l'elemento determinante del paesaggio19, frequentemente gestita con forme di part-time, utilizzazione di operatori terzisti, fonte di reddito integrativo20. Ma neppure sub-urbano: la città di Udine non è più il punto di riferimento unico per i servizi di livello superiore (grande distribuzione, sanità, trasporto, cultura ed attività ricreative). Anche se l’ondata di espansione post-terremoto oggi appare nei fatti rallentata, il tema attuale è discutere se l’espansione dell’edificato nella CCF con le sue caratteristiche di bassa densità – 1,5 ab/ha, 426 mq di aree a destinazione d’uso residenziale pro capite (figura 2), 240 mq urbanizzati al giorno – sia stata e sia lo scostamento da un modello storico ed idealtipico di insediamento, di relazione tra popolazione e proprietà del suolo, comunque congruente con un orizzonte di sostenibilità, o invece un negativo processo di degrado.

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Punto 2.1 dell’allegato al DPGR 0126/Pres del 1995. In questo senso se il progettista del PRGC deve rispondere alle aspirazioni degli abitanti e fare in modo che il settore delle costruzioni continui a lavorare, come di solito auspicato dai responsabili dei governi locali, definirà un fabbisogno molto alto; se il progettista, al contrario, ritiene di dover limitare il consumo di suolo promuovendo le ristrutturazioni dell’esistente, definirà un fabbisogno modesto. 18 Evidenti, ma modesti se paragonati alla città diffusa veneta. Fenomeno molto evidente fra Majano e San Daniele o a Buja: centri abitati molto frastagliati ed allungati lungo le strade di collegamento fra una frazione e l’altra, con radici nei tracciati viari storici della viabilità legata alla storia agricola del territorio. 19 Zone classificate agricole in CCF: 62,46% del territorio; sono agricole-paesaggistiche: 27% del territorio; totale delle zone di valore ambientale: 39%. 20 La produzione agricola è professionale e intensiva nei territori pianeggianti e infrastrutturati dai riordini fondiari. 17

Paola Pellegrini

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Ridefinizione del concetto di fabbisogno e strategia di area vasta. Premesse per il riuso del territorio collinare friulano

In CCF è ancora forte l'inerzia – più culturale che economica – a considerare il territorio periurbano quale supporto suscettibile comunque di essere costruito21. I temi della sostenibilità, infatti, non sono consolidati a livello di programmazione territoriale e politica e se da un lato la realizzazione di apparati produttivi e infrastrutturali è considerata la questione più importante, dall’altro non è tanto il consumo di suolo che preoccupa quale fattore di deterioramento ambientale, quanto la conservazione dell’equilibrio del territorio, inteso come lo stato attuale del territorio, cioè la situazione goduta nel presente. Il Piano ha operato pertanto cercando di persuadere della possibilità di una prosperità senza crescita e calibrando il grado di innovazione introdotta, cioè la proposta di riformulazione delle dinamiche insediative attraverso delle linee guida in modo che questa possa essere accettata dalle amministrazioni. Con questo fine l’idea riduci/riusa/ricicla è stata presentata quale uso prudente delle risorse, quale strategia della manutenzione.

Figura 2. Consumo di suolo a destinazione d’uso residenziale nei comuni della Comunità Collinare

Urbanistica dopo la crescita: la manutenzione del territorio Il piano strategico propone di valorizzare e ottimizzare le risorse disponibili, cioè la manutenzione del territorio (inteso sia come supporto geografico – edifici e infrastrutture – sia come deposito di patrimonio culturale e identitario). Tutte le ipotesi di rinnovo urbano, fino ad un recente passato, erano inserite in una prospettiva di crescita, che oggi forse sta evaporando. Le dinamiche socio-economiche attuali, che vengono lette come momento congiunturale (la crisi contemporanea mondiale), potrebbero essere una discontinuità più forte con il passato22 e forse si deve parlare di urbanistica dopo la crescita23. In questa fase di crisi si intravede la concreta opportunità per rallentare i ritmi del consumo di suolo.

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La prassi delle varianti puntuali ai piani regolatori per la costruzione di piccoli edifici, piccole lottizzazioni, la convinzione che l'attività edificatoria debba continuare a essere il motore dell'economia e dello sviluppo, l'esperienza che la costruzione ex novo sia più facile, economica e remunerativa del recupero e della manutenzione/riuso dell'esistente. 22 Potrebbe essere una discontinuità epocale. Non ci sono ancora letture quantitative su questo fenomeno e sulle strategie di investimento e i comportamenti intergenerazionali. 23 Si veda l’intervento di Arturo Lanzani al convegno “Urbanistica dopo la crescita”, Politecnico di Milano, 14 giugno 2012. Paola Pellegrini

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Promuovendo la manutenzione il piano intende introdurre un nuovo24 punto di vista: il piano oggi non porta sviluppo socio-economico soltanto attraverso nuove concessioni edilizie, ma soprattutto valorizzando quello che esiste, costruendo la città sulla città. La valorizzazione è proposta attraverso due gruppi di azioni per il futuro sviluppo: • migliorare la qualità degli ambiti residenziali, affidare un nuovo ruolo all’agricoltura nella qualificazione del territorio e nella protezione dei sistemi residenziali, valorizzare il paesaggio e le aree naturali creando le connessioni fra le aree naturali, quelle agricole, quelle insediate; • gestire attraverso interventi puntuali il sistema produttivo e quello infrastrutturale, che hanno generalmente un assetto sufficientemente diversificato e diffuso. Il piano integra un approccio quantitativo al consumo di suolo - circoscrivere le aree di espansione e definire limiti minimi di densità… – con un approccio qualitativo – addensamento edilizio, attenzione alla morfologia delle aree di frangia, composizione ecologica, definizione delle centralità e localizzazione strategica delle funzioni pregiate25.

Visione e radicalità Il piano strategico deve avere una dimensione visionaria, cioè le linee guida del piano devono essere condivise (facendo riferimento in questo al visioning process di matrice anglosassone, dove lo sviluppo indicato è il futuro preferito dalla comunità) e indicare la possibilità di cambiamento radicale nella costruzione del territorio, radicale non in senso assoluto, ma in senso relativo al contesto e al modus operandi che è stato prevalente nel passato. Operare con una strategia della manutenzione del territorio in CCF significa, infatti, un cambiamento radicale perché limita l’utilizzazione delle proprietà, perchè il territorio è spesso merce di scambio ai fini politici e perchè i Comuni sono indotti a edificare il territorio per gli oneri di fabbricazione. Ma il piano strategico non indica di non costruire in senso assoluto, ma di costruire seguendo alcune indicazioni espresse nelle linee guida e illustrate nelle linee guida figurate e negli scenari di sviluppo (ad esempio evitando di costruire ville-villini isolati nella campagna e edifici produttivi fuori dalle zone industriali, densificando le zone B con un rapporto di copertura inferiore al 15%, favorendo la riqualificazione urbana dove sono già presenti le urbanizzazioni primarie e secondarie).

Linee guida Il piano strategico non è un piano conformativo dei diritti edificatori26, ma aggiunge agli obiettivi generali e alle macro-azioni definite dallo Statuto del territorio una immagine di trasformazione complessiva e di lungo periodo (una visione strategica) con valenza comunicativa27 e le priorità negli indirizzi di trasformazione e sviluppo del territorio. Il piano strategico indica, lavorando a più scale, come dovrebbe/potrebbe essere il territorio in futuro (più o meno distante) se alcune regole-approcci fossero adottate nei piani regolatori (adattate); a questo fine le linee guida sono state rappresentate (linee guida figurate) e alcuni scenari sono stati disegnati. Si può dire che il piano strategico ha voluto promuovere un’operazione culturale. Il piano non ha rappresentazione cartografica, perchè non deve localizzare specifici interventi nei singoli territori comunali, ma azioni comuni e comportamenti omogenei che i piani regolatori possono assumere tutti assieme o quantomeno in forma coordinata. Le linee guida28 per la manutenzione del territorio sono state definite per 8 macro-temi, cercando di indicare alle amministrazioni comunali esclusivamente obiettivi almeno in parte già noti e riconosciuti collettivamente, che potessero essere condivisi e perseguibili in funzione delle condizioni locali socio-economiche; per questo le discussioni con ciascuno dei sindaci sono state molto rilevanti. In questo senso le linee guida sono volutamente semplici e conosciute; i primi 3 punti sono quelli più esigenti, in sintesi: 1. La cintura verde: una nuova infrastruttura per ridefinire la relazione dell’edificato con lo spazio esterno – il piano propone una fascia di profondità variabile (da 100 a 400 m) continua di protezione e di qualificazione intorno ad ogni borgo, o frazione o piccolo insediamento consolidato con l’obiettivo di decelerare l’agricoltura a protezione della qualità della residenza, discutere il limite l’espansione (figura 3), costruire un sistema di

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Le linee di ricerca urbanistica italiana già dagli anni ’80 sottolineano questi aspetti, però oggi bisogna reagire ad una condizione globale diversa. 25 Arcidiacono A., Oliva F., Pareglio S. (2010), Rapporto 2010, Centro di ricerca sui consumi di suolo, INU edizioni, p. 7. 26 La Comunità Collinare non ha il compito di pianificare l’area vasta, ma potrebbe averlo in futuro: la nuova legge urbanistica regionale, che dovrebbe essere approvata, prevede la necessità di operare all’interno di sistemi territoriali (aggregazione fra comuni) per la pianificazione di area vasta. 27 Si veda Magnaghi A. (2010), Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino, p. 165. 28 Il piano strategico è composto da: strategia complessiva, linee guida, linee guida figurate, scenari, buone pratiche. Paola Pellegrini

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Ridefinizione del concetto di fabbisogno e strategia di area vasta. Premesse per il riuso del territorio collinare friulano

corridoi ecologici sul sistema idrografico (figura 4). 2. Rinnovare e densificare il patrimonio edilizio per contenere e ridurre il consumo di suolo – riduzione delle aree di espansione e recupero del patrimonio immobiliare e delle aree residue, diversificazione dei tipi edilizi. 3. Promuovere l’agricoltura sostenibile e multifunzionale – ripristino degli elementi caratteristici (siepi, filari, fasce alberate, boschetti interpoderali) (figura 5), diversificazione colturale, servizi ambientali per la collettività, fruizione ricreativa e didattica, allevamenti a pascolo, promozione del consumo a km zero…

Figura 3. Limiti dell’insediamento per la discussione: diverse definizioni esito di diverse razionalità

Figura 4. Sistema idrografico e boschetti interpoderali esistenti. Possibili relazioni

Paola Pellegrini

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Ridefinizione del concetto di fabbisogno e strategia di area vasta. Premesse per il riuso del territorio collinare friulano

4. Promuovere la produzione di energia da fonti rinnovabili e il risparmio energetico 5. Migliorare puntualmente le infrastrutture stradali 6. Consolidare e gestire le aree industriali-artigianali e commerciali 7. Sviluppare i servizi telematici 8. Potenziare la ricettività turistica La promozione della cultura del riduci/riusa/ricicla declinata nelle linee guida, condivisa dall’ufficio promotore del processo di pianificazione, proposta alla pratica della pianificazione locale si è scontrata con la difficoltà di indirizzare i programmi politici di gestione del territorio; il governo della CCF, cioè, non ha diffuso i risultati dell’indagine sul fabbisogno e non ha promosso presso i 15 Comuni del consorzio l’adozione delle linee guida del Piano strategico; i risultati degli studi, infatti, potevano essere poco graditi dagli amministratori. Anche per questo il processo ha potuto evidenziare come il lavoro debba continuare studiando le possibilità di • diffondere modelli alternativi di abitabilità rispetto a quelli prevalenti ambìti delle famiglie (la casa isolata su lotto, costruita ed novo e connessa al territorio agricolo continua ad essere l’aspirazione prevalente); • migliorare il rapporto fra aree residenziali e aree agricole produttive, ri-definendo le relazioni nell’ibrido urbano-rurale che è ricco di pratiche contraddittorie; • rendere conveniente la multifunzionalità in agricoltura in un territorio di micro-poderi a conduzione familiare, che almeno in parte nei prossimi anni verranno dismessi.

Figura 5. Scenario per il territorio agricolo. Relazione con lo spazio edificato

Paola Pellegrini

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Quartieri sostenibili: il passato e il possibile futuro

Quartieri sostenibili: il passato e il possibile futuro Bianca Petrella* Seconda Università degli studi di Napoli Dipartimento di Ingegneria Civile, Design, Edilizia e Ambiente Email: bianca.petrella@unina2.it Claudia de Biase** Seconda Università degli studi di Napoli Dipartimento di Architettura e Disegno Industriale Luigi Vanvitelli Email: claudia.debiase@unina2.it

Abstract Situato in una scala intermedia fra la città ed [il singolo] edificio, il quartiere offre potenzialità operative interessanti, perché si presta alla sperimentazione di interventi mirati alla sostenibilità dell’insediamento urbano. La dimensione quartiere, infatti,consente di andare oltre il singolo elemento ‘sostenibile’ e, allo stesso tempo, evita di affrontare, in prima istanza, la complessità della totalità di un sistema urbano. Questo studio, partendo dalla messa a punto di un metodo di analisi comparata, applicata ad alcuni casi studio internazionali, intende definire una proposta di protocollo di regole urbanistiche finalizzate a garantire l’effettiva sostenibilità nei piani attuativi di intervento. Parole chiave Sostenibilità, quartiere, prestazioni

1 | I quartieri sostenibili: una metodologia di analisi comparata Sulla base dell’evoluzione del concetto di sostenibilità, a partire dal rapporto Bruntdland, in questo studio si esaminano, confrontandole, le più recenti realizzazioni di quartieri residenziali dichiarati sostenibili. La valutazione comparata, ex post, dei casi studio, è stata principalmente orientata a elaborare un protocollo di riferimento per l’estensione di norme urbanistiche finalizzate all’attuazione di piani esecutivi “sostenibili”. Per procedere alla comparazione delle undici best practices è stata strutturata una tabella di 13 voci principali, tutte tra loro interrelate e lette in relazione al perseguimento della sostenibilità, ognuna delle quali articolata in specifiche sub-voci.1 E’ superfluo evidenziare che in ognuna delle macro categorie compaiono elementi presenti anche in una o più delle altre, i quali, ogni volta, vengono esaminati in relazione ai caratteri delle specifiche incidenze2. La dimensione della superficie investita dall’intervento ha consentito di osservare se e come la diversa ampiezza dell’area influenzi, o meno, l’impostazione generale della struttura progettuale e dei singoli elementi che la compongono. Allo stesso tempo, la dimensione, connessa ad una specifica struttura morfologica, può incidere sulle potenzialità del rapporto tra costruito e aree scoperte, sul consumo di suolo, sulla qualità della mobilità, sul sistema del verde e degli spazi comuni, sul sistema di relazioni della comunità urbana. (Mariano,2011). Per tipologia di intervento si è inteso distinguere tra realizzazioni ex novo e intervento sull’esistente e distinguere anche tra gli attori dell’iniziativa (pubblica, privata, partecipata). La prima osservazione, in tal senso, è che la riqualificazione della preesistenza è ancora un esercizio scarsamente 1

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I risultati qui rappresentati sono stati elaborati all’interno di due tesi di laurea svolte (studenti Saverio Diana e Dario Della Gatta) presso la Facoltà di Architettura della SUN, corso di laurea in Architettura UE, con relatore Prof. Bianca Petrella e correlatore Dott. Claudia de Biase, nell’a.a. 2011-2012. Il paragrafo 1 è da attribuire a Bianca Petrella, mentre i paragrafi 2 e 3 sono stati redatti da Claudia de Biase.

Incidenze quantitative e qualitative in relazione a: riduzione dei diversi inquinamenti, vitalità, percezione dell’ambiente costruito, accessibilità, ecc.

Bianca Petrella, Claudia de Biase

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Quartieri sostenibili: il passato e il possibile futuro

praticato, anche se un siffatto intervento contiene, di per sé, già alcuni principi cardine della sostenibilità (Bidou, 2011). Soggetti promotori e/o attuatori e intensità e modalità dei processi partecipativi attivati sono anch’essi da considerare conditio sine qua non della sostenibilità; sia perché le istituzioni sono, per definizione, portatrici degli interessi della collettività, sia perché quella sociale è una delle dimensioni della sostenibilità. Pertanto, la partecipazione al processo di scelta e decisione diventa elemento sostanziale di abbattimento del potenziale conflitto e, allo stesso tempo, garantisce la percezione del bene e implementa le necessarie forme di democrazia e di trasparenza. «La partecipazione che si esprime in molteplici forme, più o meno regolamentate e con una grande varietà di soggettività è quindi elemento che integra e interagisce dialetticamente con il potere democratico esercitato dalle istituzioni, non può costituire una sua alternativa» (Bulgarelli, Ghinoi, Mazzeri, Bernabela Pelli, 2007: 10). Appare evidente il ruolo che la differente dimensione può esercitare nella scelta del processo partecipativo da implementare e nell’efficacia dello stesso. «… i confini – limitati- … facilitano a tutti la percezione del bene comune in gioco, costituito dalla conservazione dell’equilibrio dell’ecosistema locale» (Unione Europea, Ministero del lavoro e della Previdenza sociale, 2007: 23). Un modello partecipativo adeguato alla specifica realtà, quando ben gestito, è in grado di attivare, sin dall’inizio, le auspicate condizioni di socialità che dovranno essere, continuamente, alimentate nella quotidianità del quartiere. A tal fine, è necessario la corretta predisposizione della quantità di servizi presenti e della giustapposizione (Rigotti, 1952:255) delle diverse destinazioni d’uso. Il proporzionamento della mixité funzionale svolge un ruolo significativo in relazione a molti degli elementi della sostenibilità urbana, a qualunque scala la si voglia considerare. Infatti, oltre al ruolo diretto nell’attivare le relazioni e gli scambi tra i membri della comunità – e quindi a garantire la vitalità- la mixité funzionale contribuisce anche alla sicurezza dell’ambiente urbano, potendosi strutturare spazi adeguati all’autocontrollo spontaneo (Jeffery, 1971). Inoltre, una appropriata distribuzione delle attività, siano esse private o collettive, favorisce la mobilità pedonale e ciclabile, consente una più efficace gestione del servizio di trasporto collettivo e, attraverso la riduzione del trasporto veicolare, partecipa alla riduzione delle varie forme di inquinamento ambientale, da quello acustico a quello dell’aria. Le voci successive della tabella comparativa hanno proprio riguardato la gestione delle risorse che maggiormente incidono sulla qualità ambientale. Sono, pertanto, stati valutati la gestione dell’energia, dell’acqua, dei rifiuti solidi urbani e, in generale, della qualità dell’aria. Per questi elementi è stato considerato se e quali forme di energia alternative e non rinnovabili siano stato utilizzate e la percentuale di autosufficienza che esse garantiscono. Per la gestione dell’acqua si è, invece, esaminato l’accumulo e il riutilizzo delle acque piovane, delle acque grigie e della quantità e qualità delle superfici permeabili. Le soluzioni, ad esempio, suggerite dalla Sustainable Sanitation e dalla Sustainable Water Management, ‘consistono nel pensare e nell’agire a monte, con un approccio diffuso sul territorio, spendendo energia per tenere i diversi flussi quanto più possibile separati, per poi poterne ottimizzare l’uso ed il riuso’ (Comune di Firenze, IRIDRA, 2004). È evidente che tutto ciò confluisce nella qualità dell’aria se, come è vero, la sostenibilità ambientale deve interessare l’intero ecosistema di una determinata area, ovvero biotipo e biocenosi. A tal fine sono stati considerati l’assenza/presenza delle principali attività che emettono inquinanti (legate alla produzioni di beni e alla mobilità) e, viceversa, la presenza/assenza/distribuzione delle aree a verde, nel ruolo che esercitano per «la filtrazione e la purificazione dell’aria dalle polveri e dagli inquinanti, l’attenuazione dei rumori e delle vibrazioni e la protezione del suolo» (Lena, Pirollo, 2010: 124). È tautologico affermare che in un insediamento sostenibile, la scelta dei materiali sia il presupposto fondamentale su cui poggiano tutte le altre azioni. Se il chilometro zero vale per i prodotti alimentari, esso, con le necessarie differenze, vale anche per l’acquisizione delle materie prime della costruzione. L’approccio bioclimatico riguarda la componente edilizia, ma anche quella degli spazi aperti e delle infrastrutture in senso lato. Basti solo pensare alla riduzione di Co2 incorporato nei materiali e quella emessa durante le fasi di costruzione dei vari componenti e del loro assemblaggio (Miseri, 2010:8), della possibilità di riciclarli e/o smaltirli. Dal tipo di materiale e dal relativo assemblaggio deriva anche la possibilità e l’efficienza della manutenzione; «… sostenibilità e manutenzione, in senso terotecnologico (ossia intesa come scienza della conservazione), tendono a coincidere, in quando posseggono una medesima dimensione ideologica ed etica nei confronti dell’oggetto e non solo dell’oggetto antropizzato, ma anche ad esempio dell’ambiente naturale» (Ferracuti, 1990: 51). La qualità degli spazi pubblici e privati e, quindi, la forma urbana, partecipa anch’essa al raggiungimento di un buon livello di sostenibilità; la componente estetica, quella percettibile, garantisce la riconoscibilità dello spazio in cui si vive e innesca processi di identificazione e di appartenenza. La componente estetica, coniugata con quella funzionale, concorre a garantire le condizioni di sicurezza urbana. La struttura dell’impianto deve permettere l’allontanamento veloce in caso di necessità, garantire la sorveglianza spontanea, eliminare i luoghi bui, deve, cioè, rispettare i principi dell’ENI 14383:2003 ‘Prevention of crime. Urban planning and building design’. L’accessibilità a spazi e funzioni è sia virtuale che effettiva e, quindi, l’organizzazione del sistema della mobilità deve essere valutata in tal senso e nel contributo complessivo alla sostenibilità. Va evidenziato, tuttavia, che la comparazione dei casi studio non ha considerato le relazioni che ogni quartiere ha con il sistema urbano di cui esso è parte; è evidente, infatti, che per valutare appieno il grado di sostenibilità, il quartiere non può essere considerato alla stregua di un ‘sistema isolato’. Tuttavia, le caratteristiche intrinseche, qui prese in considerazione, hanno comunque consentito una prima comparazione e valutazione che costituirà la base per un prossimo studio teso a comprendere le interrelazioni che si determinano tra un ‘quartiere sostenibile’ e il sistema urbano di cui entra a far parte. Bianca Petrella, Claudia de Biase

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Quartieri sostenibili: il passato e il possibile futuro

2 | Casi di studio Chiariti i criteri di lettura dei casi, si può passare alla loro descrizione. Si tratta di 11 casi di studio, 10 europei e uno nel nord America, che fanno parte di città con dimensioni diverse e che, nonostante nascano tutti come quartieri sostenibili, hanno caratteristiche abbastanza differenti, leggibili in diversi aspetti. Innanzitutto, la maggior parte dei quartieri sostenibili, coincide con aree di nuove edificazioni, mentre solo pochi casi affrontano la riqualificazione dell’esistente. Di questi solamente uno -Vauban di Friburgo- riutilizza le volumetrie edilizie già esistenti, le converte ad altro uso e le recupera nell’ottica della sostenibilità, integrandole con la nuova edilizia, anch’essa ovviamente di tipo ecologico. Nel BedZED a Sutton, invece, c’è la riconversione dell’area che, mediante la bonifica, viene utilizzata per scopo residenziale. Il Vauban è una ex caserma francese di 38 ettari, che ora ospita 5.000 abitanti in 2.000 appartamenti, mentre il BedZED, costruito sul sito di un ex impianto per il trattamento delle acque reflue, è composto da 82 alloggi a terrazza a cui sono associati ambienti di lavoro per 200 persone. La riqualificazione di Vauban comincia dal recupero di dieci dei vecchi edifici militari, ceduti dal Comune all’Organizzazione degli Studenti e all’iniziativa alternativa residenziale S.U.S.I., che li hanno ristrutturati ecologicamente e trasformati in alloggi per 600 studenti. La rimanente area è stata suddivisa in piccoli lotti, poi venduti dal Comune principalmente a privati e a gruppi locali, per i quali è auspicato il loro insediamento in prossimità del centro città (Fulvi, 2008). Nel BedZED, il progetto prende l’avvio proprio dalla decisione dell’Amministrazione locale di bonificare il brownfield a Sutton e di realizzare su di esso un’area residenziale dotata di esercizi commerciali. Secondo aspetto considerato è quello relativo alla partecipazione (sostenibilità sociale) Nei casi analizzati, le scelte fondate su processi partecipativi sono abbastanza diverse: Forum Vauban, il modello di panificazione didattica a Am Schlieberg (Friburgo) (Dish, 2006:50-55; Dish, 2006:156-160),3 la progettazione partecipata di Kronsberg ad Hannover (Antonimi, 2011)4. Anche nel quartiere Egebjerggård a Copenaghen, la problematica della sostenibilità sociale è uno degli obbiettivi primari da conseguire, in particolare si è cercato di creare una aggregazione di funzioni che consentissero una partecipazione attiva della popolazione alla vita sociale (Ippolito, 1998:34-43; Rossano, 2004: 40-45). L’ultimo caso in cui la partecipazione diventa centrale è quello di Viikki a Helsinki, esempio di quartiere sostenibile soprattutto dal punto di vista sociale (Mazzeri, 2011: 257). Unica eccezione è Santa Giulia a Milano, in cui non è stato previsto alcun coinvolgimento dei soggetti potenzialmente interessati. Strettamente legata alla sostenibilità sociale, come anticipato, è il tema della mixité sociale a cui tutti i quartieri sono ispirati. In ciascuno è possibile vedere commistione di spazi e funzioni che facilitano e garantiscono scambi sociali; in tutti i quartieri, inoltre, è prevista la commistione delle funzioni abitative e lavorative e/o commerciali, elemento che riduce gli spostamenti e che, quindi, migliora la qualità della vita. In merito all’uso di fonti di energia rinnovabili, tutti prevedono la riduzione dell’inquinamento (CO2, acque sporche, rifiuti di cantiere, rifiuti domestici) e l’utilizzo delle risorse naturali e rinnovabili, di volta in volta differenti. Le uniche eccezioni sono il quartiere Seaside in Florida, il più pubblicizzato esempio di new urbanism (Sandercock, 1999: 316) e il quartiere Poundbury a Dorchester, anch’esso tipico esempio della stessa corrente culturale (Castellani, 2010: 455), in cui non sono chiarite le fonti di energia utilizzate, anche se, nel caso di Seaside, si produce in loco acqua calda ed energia elettrica. In merito alla gestione dell’acqua, la gran parte prevede il riutilizzo delle acque piovane, grigie e grande quantità di superfici permeabili. Vi sono, però, alcune eccezioni: Nancystrasse a Karlsruhe, in cui si prevedono ‘esclusivamente’ «servizi igienici sottovuoto per risparmiare acqua, nelle abitazioni e un impianto di fitodepurazione per le poche acque reflue»5 e il quartiere Egebjerggard, in cui è previsto solo il recupero e il riutilizzo delle acque meteoriche. Anche in questo caso, nei due quartieri esempi di new urbanism non è chiarito se e come avvenga il recupero delle acque. In riferimento al problema della gestione dei rifiuti, in quasi tutti i quartieri sono allocate stazioni di raccolta differenziata e, in qualche caso, è previsto anche il riciclaggio in situ dei rifiuti organici. Unica eccezione è il quartiere di Seaside, nel quale è privilegiata la sostenibilità sociale interna, come spesso accade nel new urbanism, mentre non è ben esplicitato il problema ambientale e, quindi, anche quello del riciclo dei rifiuti (sebbene si tratti di un problema da tempo affrontato in tutti gli USA). La migliore qualità dell’aria è un obiettivo a cui tendono tutti i quartieri: in nessuno di essi è infatti possibile trovare attività inquinanti. Nella maggior parte di questi quartieri, inoltre, è prevista un limitato uso di automobili private e si cerca di incentivare l’uso delle biciclette, sono previsti percorsi pedonali o sistemi di bike e car sharing e, in gran parte di essi, il verde permea l’intero tessuto del quartiere. La sostenibilità di gran parte di questi quartieri, però, si gioca sui materiali: tutti prevedono l’uso di materiali sostenibili. Materiali naturali ad Am Schlierberg, edifici passivi con l’uso di legno, gasbeton e terra cruda a Nancystrasse, materiali sostenibili (non meglio chiariti ma valutati attraverso i criteri di durabilità, flessibilità, riciclo e riuso, quantità di energia utilizzata nella

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La “pianificazione didattica” indica un processo flessibile che reagisce a nuove esigenze emergenti e nuove proposte da parte della cittadinanza. 4 Vale la pena sottolineare che, in questo caso molti sono stati i soggetti coinvolti: le istituzioni cittadine e statali, l’Agenda 21 Locale, un team di una trentina di progettisti, diversi costruttori edili, la popolazione dei quartieri limitrofi e parte di quella da insediare, destinatari del nuovo progetto. 5 http://www.francescofulvi.it/DOCUMENTI/UTILITA'/Quartieri%20Sostenibili.pdf Bianca Petrella, Claudia de Biase

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Quartieri sostenibili: il passato e il possibile futuro Vauban

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Am Nancystrasse Bo01 Kronsberg Egebjerggard Viikki Santa BedZED Seaside Pound bury Schlierberg Giulia

produzione, nel trasporto e nella messa in opera) e riciclo dei materiali a Bo01, materiali naturali ed ecocompatibili, composti in larga misura da elementi riciclati e tecniche tradizionali a Kronsberg; la sperimentazione di nuovi materiali nel quartiere Egebjerggard; materiali naturali (principalmente legno) in Viikki e materiali non trattati e in parte riciclati nel BedZED. Unica eccezione è Santa Giulia, in cui non è esplicitato il tipo di materiale utilizzato. Strettamente connesso all’uso dei materiali è anche il problema della manutenzione: sono pochi, in realtà, i quartieri che lo affrontano. Nei quartieri di Am Schlieberg ed Egebjerggard già nella fase di progettazione sono stati fissati anche i costi di manutenzione ordinaria e straordinaria, mentre nel quartiere di Bed ZEd è previsto l’uso di materiali ecologici per la manutenzione del quartiere. Tutti i quartieri, senza alcuna eccezione, inoltre, puntano a rendere di alta qualità gli spazi pubblici. Spazi verdi attrezzati, giardini, parchi e arredo urbano, installazioni di artisti, scelta dei materiali per questi spazi, illuminazione pubblica sostenibile ecc., fanno sì che si concretizzi il binomio qualità sociale e qualità ambientale. Lo stesso vale anche per la qualità degli spazi privati, spesso architetture all’avanguardia. Come si è anticipato, molti dei quartieri puntano a raggiungere una mobilità sostenibile, che è uno degli elementi che connotano la qualità ecologica di un quartiere residenziale. In tutti è data priorità al trasporto pubblico, oltre al fatto che è previsto un servizio bike e car-sharing e, spesso, per scoraggiare l’uso privato dell’auto, sono previsti incentivi economici per coloro che non utilizzano il parcheggio.7 In conclusione, la sostenibilità è un obiettivo che non può essere raggiunto solo con l’uso di nuove tecnologie e/o di energie alternative e fonti rinnovabili, ma può raggiungersi solo attraverso la previsione di un sistema complesso di interventi che racchiuda in sé tutte le caratteristiche utili per raggiungere il benessere della collettività 1) Dimensione Area 2) Tipologia di Intervento

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2.B Riqualificazione

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2.C Iniziativa Pubblica

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1.A 1 < area < 50 Ha 1.B area > 50 Ha

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2.D Iniziativa Privata

2.E Iniziativa Partecipata

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Terziarie

fonti rinnovabili

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5) Gestione Acqua

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5.A Accumulo e riutilizzo acque piovane

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Vauban 1) Dimensione Area 2) Tipologia di Intervento

1.A 1 < area < 50 Ha

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3.D Attività Ricreative

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3.E Servizi pubblici e culturali

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4) Gestione

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8.A Costruzione edifici con materiali sostenibili

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8.C Uso di prodotti sostenibili nella costruzione degli spazi pubblici 8.D Uso di materiali derivanti dalle vicinanze

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9.D Presenza area di sosta veicoli

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9.E Presenza piste ciclo-­‐

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10.C Presenza area di sosta veicoli

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11.A Facile accessibilità

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Passivi per l’edilizia 4.G Uso di Energia da fonti non rinnovabili

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5.A Accumulo e riutilizzo acque piovane

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5.C Maggiori superfici permeabili

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10) 10.A Edifici di buona Qualità spazi fattura architettonica privati 10.B Abitazioni con alloggi di diversa pezzatura

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X 11) Mobilità

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veicolare pubblica 11.B Facile accessibilità veicolare privata

6.A Raccolta differenziata per edifici privati

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6.B Raccolta differenziata per spazi pubblici

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11.D Circolazione mezzi pubblici all’interno del quartiere

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12) 12.A Utilizzo di prodotti Manutenzio sostenibili per la ne manutenzione degli edifici privati

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12.B Utilizzo di prodotti sostenibili per la manutenzione degli spazi pubblici

7) 7.A Assenza attività Qualità Aria inquinanti 7.B Limitata viabilità 8.A Costruzione edifici con materiali sostenibili

11.C Facile accessibilità

8.B Uso di prodotti

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sostenibili nella costruzione degli edifici privati 8.C Uso di prodotti sostenibili nella costruzione degli spazi pubblici

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8.D Uso di materiali derivanti dalle vicinanze 9) 9.A Edifici di buona Qualità spazi fattura architettonica pubblici 9.B Presenza arredo

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ciclo-­‐pedonale

delle automobili private 8) Materiali

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privati

solare Termico

6) Gestione Rifiuti

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costruzione degli edifici

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9) 9.A Edifici di buona Qualità spazi fattura architettonica pubblici 9.B Presenza arredo

fonti rinnovabili

4.F Uso di Sistemi

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sostenibili nella

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8.B Uso di prodotti

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3) 3.A Residenziale Destinazion 3.B Commerciale e 3.C Uffici ed Attività

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7.B Limitata viabilità

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6.A Raccolta differenziata per edifici privati

7) 7.A Assenza attività Qualità Aria inquinanti

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2.D Iniziativa Privata 2.E Iniziativa Partecipata

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5.C Maggiori superfici permeabili

6) Gestione Rifiuti

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13.D Possibilità di allontanamento

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Figura 1 La tabella riassume l’analisi comparata effettuata sulle undici best practices

9.C Presenza aree verdi

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9.D Presenza area di sosta veicoli

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9.E Presenza piste ciclo-­‐

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3 | Protocollo di regole pedonali

10) 10.A Edifici di buona Qualità spazi fattura architettonica privati 10.B Abitazioni con

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Partendo dalla lettura comparata dei diversi casi studiati, si propone un protocollo di regole urbanistiche che, dal singolo edificio alla trasformazione di parti di città, riesca a garantire la sostenibilità degli interventi in un alloggi di diversa pezzatura

11) Mobilità

10.C Presenza area di sosta veicoli

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11.A Facile accessibilità

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veicolare pubblica 11.B Facile accessibilità

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11.C Facile accessibilità http://www.francescofulvi.it/DOCUMENTI/UTILITA'/Quartieri%20Sostenibili.pdf ciclo-­‐pedonale 11.D Circolazione mezzi X X X X X X X X http://www.architetturaecosostenibile.it/architettura/in-europa/vauban-quartiere-friburgo-sostenibilita-verde-013.html pubblici all’interno del quartiere

12) 12.A Utilizzo di prodotti Manutenzio sostenibili per la ne manutenzione degli edifici privati

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13.A Accessibilità ciclo-­‐

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contesto urbano; sia esso un intervento di riqualificazione, sia esso un intervento ex novo. In questa sede si propone che nelle NTA di un piano esecutivo, a seconda dei singoli elementi o tipologia di intervento, siano redatte e allegate le necessarie schede tecniche in cui siano fissati i parametri da rispettare e i requisiti qualitativi da garantire. I criteri prestazionali ed esigenziali, che prescrivono le caratteristiche finalizzate alle diverse qualità da conseguire, devono, in particolare, produrre abachi di riferimento, il più possibile esaustivi e con esemplificazioni alternative e devono anche elencare gli indicatori da utilizzare ex post per il controllo del risultato, con l’indicazione di procedure e verifiche da effettuare nelle varie fasi del progetto di intervento. Dato che la qualità urbana dipende da un insieme complesso, strutturato dalla qualità dei singoli elementi e dalla qualità delle relazioni che li collegano, la scheda normativa è organizzata in base alle tre macro dimensioni della sostenibilità: economica, sociale e ambientale, ciascuna articolata in una adeguata serie di sub voci. Per dimensione economica sostenibile si deve intendere la capacità di produrre ricchezza diffusa con meccanismi democratici, ovvero senza ricorrere allo sfruttamento e alla sopraffazione degli individui e utilizzando e valorizzando le suscettività dei singoli territori, sia dal punto di vista sociale che ambientale, in quanto l’economia esiste nella società ed entrambe agiscono nell’ambiente: il capitale artificiale non deve ‘crescere’ depauperando il capitale naturale e il capitale sociale (Molesti Romano, 2006: 229). Elemento centrale nella progettazione degli interventi è dimostrarne ex ante la reale fattibilità; la sostenibilità economica è, quindi, legata alla tipologia di fondi da usare (pubblici/privati), con la specificazione dei tempi previsti per la realizzazione di ciascun intervento. A questa voce è collegato, sicuramente, il meccanismo di programmazione usato, che chiarisce il rapporto e il ruolo (compiti) del soggetto pubblico e del soggetto privato. È evidente che nelle norme per la sostenibilità economica deve esserci l’analisi dei costi, dei ricavi e dei benefici che il progetto comporta. Inoltre, un apposito articolato deve preventivare, dal punto di vista economico, il processo di manutenzione che va computato fino al momento della dismissione (di edifici e singoli elementi), indicando anche il costo del riciclo/riutilizzo o dello smaltimento dei materiali. Per sostenibilità sociale si deve intendere la capacità di operare le scelte nella massima condivisione, riducendo le azioni potenzialmente generatrici di conflitto, garantendo il benessere di tutti gli individui (salute, sicurezza, istruzione, trasporto) indipendentemente da sesso, età, reddito ecc. Pertanto, è evidente che, per la sua stessa natura, la sostenibilità si coniuga con la sicurezza e con la partecipazione della comunità alle scelte che si assumono. È chiaro, quindi, che, innanzitutto, il progetto dovrà allegare la scheda del modello partecipativo utilizzato (analizzato nei punti di forza e di debolezza) e dei soggetti che parteciperanno- attribuendo a ciascuno uno specifico ruolo (che dovrà essere chiarito e normato). In merito alla sicurezza, è palese che i suoi diversi aspetti richiedono politiche di intervento differenti e differenti soggetti deputati ad esercitarle. L’urbanistica può svolgere un ruolo di supporto alla sicurezza a diverse intensità di intervento, in quanto le regole dei piani urbanistici, oltre a determinare condizioni di sicurezza oggettiva, possono contribuire anche alla ‘percezione di sicurezza’, ovvero a prestabilire luoghi immediatamente comprensibili da coloro che li frequentano. La norma deve indicare gli elementi del progetto che riescono a mitigare il rischio antropico e il pericolo; deve descrivere e regolare il tipo, la quantità e la distribuzione degli elementi di arredo urbano (percezione della sicurezza) (Park, Burgess, McKenzie, 1979), deve garantire la mixité funzionale e regolarla attraverso, ad esempio, l’obbligo di lasciare i piani terra degli edifici attività pubbliche, prevedere alloggi di diverse tipologie e pezzature, garantire l’accessibilità visiva e fisica agli spazi comuni, ecc. (Newman, 1972). Per sostenibilità ambientale si deve intendere la capacità di preservare l’attitudine dell’ambiente a produrre risorse, smaltire i rifiuti, garantire la sopravvivenza delle specie animali, vegetali e minerali e, quindi, dell’intero ecosistema, riducendo al minimo l’impronta ecologica. Pertanto, la norma deve indicare l’obbligo di usare materiali ecocompatibili e di prevedere tecnologie che garantiscano il risparmio energetico, il recupero dei materiali e il loro riciclo. Allo stesso tempo, le schede per la sostenibilità devono prescrivere sistemi che favoriscano l’autosufficienza energetica. A questi elementi deve essere associata anche la mobilità che, come è già stato chiarito, pervade tutte e tre le dimensioni della sostenibilità: gli elementi urbani progettuali devono prevedere la presenza di traffico pedonale e ciclistico, elemento che garantisce sicurezza urbana, ma anche una migliore qualità dell’aria e della vita di relazione. Pertanto, nelle norme, dovrà essere chiarito se e dove sono localizzati posizionamenti di bike sharing o car sharing, utili per la riduzione delle emissioni e per garantire vivibilità nel quartiere. Un quartiere sostenibile, in sintesi, è un quartiere in cui coesistono corretta densità di popolazione, integrazione sociale e culturale, uso delle nuove tecnologie pulite in settori quali i trasporti e l’edilizia, un corretto ed efficiente piano di manutenzione.

Bianca Petrella, Claudia de Biase

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Quartieri sostenibili: il passato e il possibile futuro

Bibliografia Antonimi E. (2001), ‘Straordinario dentro’, in Costruire, n. 213, febbraio 2001. Bidou D. (2011), ‘Strategie perla sostenibilità delle costruzioni in Francia’, in EWT/ Eco Web Town n. 3, Magazine of Sustainable Design Edizione SCUT, Università Chieti-Pescara. Bulgarelli V., Ghinoi A., Mazzeri C., Bernabela Pelli M. (2007), ‘ Partecipazione per ‘fare città’ ‘ in Atti del Convegno Nazionale Informazione e partecipazione nella trasformazione sostenibile della città, Modena. Castellani S. (a cura di, 2010), Déjavueb. Di nostalgie, vintage e retòmanie in rete, Guaraldi, Rimini. Comune di Firenze, IRIDRA (2004), Migliori pratiche per la gestione sostenibile delle acque in aree urbane, disponibile su http://www.contrattidifiume.it/1634,News.html Corradi V., Tacchi E.M. (2009), Per uno sviluppo locale sostenibile. Ambiente, territorio e società bresciana, Franco Angeli, Milano. Disch R. (2006), ‘Il complesso Am Schlierberg a Friburgo’, in L’Architettura Naturale, n. 31 Disch R. (2006), ‘Barca Solare / Solar Ship – 2003 architect Rolf Disch’, in Ottagono, n.196. Ferracuti G. (1990), ‘Per una definizione della manutenzione ambientale’, in Dioguardi G. (a cura di), La Manutenzione Urbana, ed. Il Sole 24 Ore Libri, Milano. Fulvi F. (2008), ‘La sostenibilità come fattore di ripresa economica. Panoramica sui quartieri sostenibili in Europa’ in Gazzetta degli edili, n. 4, novembre. Ippolito L. (1998), ‘Caratteri innovativi dell’edilizia residenziale. Il quartiere di Egebjerggard a Ballerup’, in Edilizia Popolare, n. 260, nov-dic. Jeffery C.R. (1971), Crime prevention through rnvironmental design, Beverly Hills, CA. Lena C., Pirollo L. (2010), Qualità dell’aria e politiche ambientali nella provincia di Frosinone. Strategie e metodi di intervento. Franco Angeli, Milano. Mariano C. (2011), ‘Progetti urbani sostenibili: le green cities europee’ in Hortus n. 41, rivista on line del Dipartimento Architettura e Progetto, Sapienza. Mazzeri L. (2011), Design per l’energia. Strumenti e linguaggi per una produzione diffusa, Alinea, Firenze. Miseri F. (2010), Spunti di riflessione sulla sostenibilità del ciclo di vita delle infrastrutture in calcestruzzo, Federbetono, Publicemento, Roma. Molesti R. (2006), I fondamenti della bioeconomia. La nuova economia ecologica, Franco Angeli, Milano. Monti C.(2000), Costruire sostenibile, Alinea, Firenze. Newman O. (1972), Defensible Space: - Crime Prevention through Urban Design, New York, Macmillan. Park R.E., Burgess E.W., McKenzie R.D. (1979), La città, Einaudi. Rigotti G. (1952), Urbanistica. Composizione, Unione tipografica, Torino. Rossaro M. (2004), ‘Quartiere di Egebjerggard a Ballerup Copenaghen. Integrazione del ciclo di vita del progetto con il ciclo di vita delle famiglie’, in Parametro, n. 250, mar-apr. Sala M. (2009), 100… tesi sostenibili, Alinea, Firenze. Sandercok L. (1998), Verso Cosmopolis. Città multiculturali e pianificazione urbana, trad. di Valeria Monno, Dedalo, Bari. Secchi S., Nannipieri E. (2010), ‘La classificazione acustica degli edifici’ disponibile in Costruire in Laterizio, n. 137, sett-ott 2010, disponibile su http://costruire.laterizio.it/costruire/_pdf/n137/137_58_64.pdf Unione Europea, Ministero del lavoro e della Previdenza sociale (2007), ‘Sviluppo sostenibile e processi di partecipazione. Figure professionali per la gestione dei conflitti socio-ambientali’, in Temi e strumenti. Studi e ricerche, n. 35.

Sitografia Sito del Forum attivato per il quartiere Vauban www.forum-vauban.de/index-en.shtml Sito dedicato a diversi aspetti dell’architettura sostenibile http://www.architetturaecosostenibile.it/architettura/in-europa/vauban-quartiere-friburgo-sostenibilita-verde013.html Sito dell’Università degli Studi di Bologna, Facoltà di Ingegneria, Corso di Laurea in Ingeneria Edile/Architettura. Dipartimento di Architettura e Pianificazione Territoriale. Seminario dell’Ing. Francesco Fulvi all’inetrno del Corso di Architettura e Composizione Architettonica III (Prof. Ing. Giorgio Praderio) e del Laboratorio progettuale di Architettura e Composizione Architettonica III (Prof. ing. Stefano Dosi - Prof. ing.Andrea Luccaroni) Anno accademico 2007-2008 http://www.francescofulvi.it/DOCUMENTI/UTILITA'/Quartieri%20Sostenibili.pdf

Bianca Petrella, Claudia de Biase

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Changing communities and discarded landscapes. Strategies and methods towards new life cycles for Omani traditional oasis environments

Changing communities and discarded landscapes. Strategies and methods towards new life cycles for Omani traditional oasis environments Giamila Quattrone* Nottingham Trent University School of Architecture, Design and the Built Environment Email: giamila.quattrone@ntu.ac.uk Tel: +44 (0)115 848 6121 Soumyen Bandyopadhyay* Nottingham Trent University School of Architecture, Design and the Built Environment Email: soumyenb@ntu.ac.uk Tel: +44 (0)115 848 2776

Abstract Following Oman’s post-1970 rapid modernization and the flourishing of better rewarding jobs and life opportunities, local communities have been lured away from living within oasis traditional environments. The dilapidation of historic built fabric and the neglect of agricultural land have brought about a constellation of discarded landscapes. Building on research and fieldwork conducted towards the delivery of Heritage Management and Development Master Plans for the traditional mud brick settlements of Saybanī and Yemen, in the oasis towns of Barkat al-Mawz and Izkī, the paper proposes strategies and methods to introduce new life cycles. In an attempt to address the imperative of ensuring growth without consuming the planet’s finite resources, including land, heritage management provides an opportunity to rethink current development logics by proposing a culturally and environmentally informed approach based on reformulation of functions, resignification of identities, reactivation of territories through social inclusion and functional diversity. Keywords Discarded oasis landscapes, continuity and change in traditional environments, recycling strategies and methods.

1 | Omani discarded landscapes, between permanence and change The centralized government structure established in Oman after Sultan Qaboos bin Sa’id’s accession to power, has pursued, over the last 40 years, the implementation of major development programs. The birth of modern Oman has generated far-reaching change, producing a constellation of <<wastelands (…) where discarded ways of life survive, and where new things begin>> (Lynch, 1990: 113). In order to understand the rationale behind the abandonment of traditional oasis settlements an analysis of change and its effects on society and the built environment is here provided (Figure 1)1. Political change has manifested itself as power centralization through transfer of government institutions to Muscat and implementation of development projects, with resulting loss of prominence of local jurisdictional units and political control by the tribes. Economic development has been boosted through the provision of modern transport infrastructures and, as a result, economic sectors previously non-existent, such as tourism, have rapidly flourished. The traditional subsistence economy based on fishing, pearl trading and farming has been * Paragraphs § 1, 2 are by Giamila Quattrone, paragraphs 2.1, 2.2, 3 are by Soumyen Bandyopadhyay. The analysis draws on accounts of the effects of modernization in various Arab and Gulf countries (see bibliography for references).

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Giamila Quattrone, Soumyen Bandyopadhyay

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Changing communities and discarded landscapes. Strategies and methods towards new life cycles for Omani traditional oasis environments

superseded by the oil-based economy and fast-growing service sector. Traditional crafts and other trade and employment opportunities have diversified and people have migrated to major urban centres in search for jobs in the new sectors, thus generating previously unknown commuting patterns. At the same time, masses of foreign workers have been 'imported' to cope with the boom of the oil industry and the construction sector. Sociocultural transformations have modified people’s place in society. Sedentary people, who once relied on the tribes, have turned into state-dependent subjects, whereas Bedouin have shifted from endogenous systems to highly exogenous ones.

Figure 1. Change in contemporary Oman, between modernization pressures and persistence of traditional customs.

The transition from traditional to modern living has occurred as a compromise between perpetuating traditional values and keeping abreast with the times. It has manifested itself as consumerism, individualism and media diffusion, producing change in knowledge transfer, attitudes and aspirations and diminishing appreciation of traditional practices. Modernization has induced people to abandon the oasis settlements which have inexorably decayed. When inhabitants have stayed, physical alteration of urban structures, buildings, open spaces and agricultural land has occurred. Passages have been opened in city walls, roads widened and clusters of traditional structures torn down to make room for cars. Change in planning has entailed the ouster of residents from decision-making processes and neglect of the cultural, social and religious norms that used to drive the Giamila Quattrone, Soumyen Bandyopadhyay

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Changing communities and discarded landscapes. Strategies and methods towards new life cycles for Omani traditional oasis environments

construction of the vernacular environment. New building development logics, based on land parcelling and led by locational priorities, have emerged. The detached house has asserted itself with spatial and volumetric configurations that scar the historic townscape. Villa developments, scattered across flatlands close to traffic arteries, hamper female socialization within the community. Nuclearized households need new spatial layouts, external view, electricity, running water, sanitation, air conditioning, private gardens, as well as detachment from neighbouring properties for privacy. Social interaction is limited, social ties are broken. Urban sprawl has been favoured by changes in land division patterns, no longer based on ownership, and by the abandonment of farms due to decreased profitability of agriculture. Encroaching on arable land modern building development has caused the loss of century-old synergistic relationships between hārahs (residential quarter) and oases, their spatial connectedness and the social cohesiveness resulting from visiting routines and coffee sessions2, intricate kinship, neighbourly and patron-client relationships, the sharing of a common lifestyle and tribal identity and the dependence on the aflāj (s. falaj, irrigation channels) for livelihood. Besides, the traditional bond between residents and land has been broken by the practice of land tenancy. Changes in building have been triggered off by availability of modern materials and simultaneous loss of traditional building skills. The maintenance of traditional houses has become so expensive that home owners find it more profitable to rent them to sub-continental expatriates, who hardly develop any place attachment and have an inclination to alter the structures jeopardising their integrity.

2 | Re-cycling the traditional built fabric: theoretical issues and operational methodologies Documentation and analysis carried out for the traditional oasis settlements of Ḥārat as-Saybanī (Barkat alMawz) and Ḥārat al-Yemen (Izkī), in central Oman, towards the production of Heritage Management and Development Master Plans have provided an opportunity to formulate a research-informed approach to heritage management in environments which risk disappearing. By addressing the government’s request for management models, methods and guidelines and the local communities’ demand for modern facilities, an alternative to local urban development has been put forward which, instead of occupying virgin land, operates on abandoned oasis settlements making them drivers and actors of transformation. From a theoretical viewpoint our approach suggests the possibility to replace the romanticized notion of restoring the image of a glorious, mythic past for purely visual enjoyment with that of site as never given, but understood incrementally through the consideration of wider spatio-temporal sites and contexts (Bandyopadhyay, 2007)3. We also incorporate the theoretical construct of the oasis landscape as 'territorial palimpsest', <<a transfigured landscape, capable of giving new meaning to the remains of the past (…) of speaking a new language as well as of interpreting changing and liquid movements and flows of life (…) a project of hypertextual narration (…) a work of continuous re-writing while maintaining an 'overall' personality>> (Bocchi, 2011: 54-61). The master plans elaborated challenge the government’s practice of focusing on faithful restoration and rebuilding of edifices and settlements for purposes of touristic appreciation and national pride building. An economically prohibitive approach preoccupied with showcasing their supposed original appearance, which does not acknowledge the traditional built fabric’s potential to take on new life cycles by adaptively accommodating modern uses. Simultaneously building development eats up barren land, seals it off with consequent reduction of permeable surfaces and increase in water runoff, increases water extraction4 and sewage system provision with resulting lowering of water table, consumes power despite the local abundance of solar energy. We have moved away from a merely conservative approach to ruins that, paraphrasing Augé (2004), once restored would become simulacra of realities that are very distant from us in time. We have adopted an approach to 're-cycling' (the hyphenation emphasizes the idea of new cycles) that <<allows to hold together memory and radical innovation

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A detailed anthropological investigation of how the availability of new employment opportunities has impacted on women’s visiting networks can be found in Eickelman C. (1984), Women and community in Oman, New York University Press, New York. The author describes the phenomenon as it was manifesting itself during the late 1970s in al-Hamrā, an oasis town in the ad-Dākhiliyah region of central Oman. It is reasonable to assume that similar changes were simultaneously happening in other traditional settlements in the area, as proven by fieldwork subsequently carried out by anthropologist Mandana Limbert in Bahlā (Limbert M. (2010), In the time of oil: piety, memory and social life in an Omani town, Stanford University Press, Stanford). 3 The author calls upon a multidisciplinary approach to the reading and interpretation of Omani sites and topographies, which draws on the architectural and cultural history, social anthropology and archaeology of their regions and creates microcosmic interpretations which evoke meaningful relationships between the past and the present. 4 According to an analysis conducted by Booz & Company, Oman’s water consumption is above the global average despite its desert climate. Because the population of the Gulf Cooperation Council countries is increasing more than 2% a year due to their rapid economic growth, the current rate of water consumption will soon become unsustainable. Giamila Quattrone, Soumyen Bandyopadhyay

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(…) able to absorb past, context, pre-existing identities without imitating them and being overwhelmed by them (…) building above below around inside on top of, with waste materials>> (Ciorra, 2012: 25-27, our translation). The expectation for Omani abandoned settlements is their reoccupation and reintegration into an economy built on tourism, energy production, agriculture and creative industries, which will ensure their sustained growth. By applying the 'respect diversity' concept articulated by McDonough and Braungart (2002) we have aimed at diversification of functions in order to enrich life and free the oases from dependence on major centres for essential services. Their morphological, locational and size dissimilarity demands individualised revitalisation measures that must derive from an understanding of their past and future potential usage. Underlying the master plans are, therefore, the following general strategies: • integrating heritage preservation with local sustainable development through programmes that boost social life, bridge generation gaps and reinforce the sense of community belonging; • addressing the settlements not in isolation but within their oasis context; • establishing priority action areas and structures depending on their state of preservation and ownership; • reinstating the interplay between monumental buildings, diffuse residential fabric and agricultural land; • minimizing functional segregation through sensitive insertion of mixed use; • relying on public/private partnership.

2.1 | Case I: Ḥārat as-Saybanī, Barkat al-Mawz Possibly inhabited in ancient times, as evidenced by the stone structures and the fossil deposits behind the round tower on the hilltop, Hārat as-Saybanī developed during the 17th and 18th centuries as a settlement distinctive in its engagement with topography. It has expanded along the steep rocky incline fanning out and down from the summit, giving special configuration to streets, passages and open spaces. The settlement integrates two channels of Falaj al-Khatmeen and associated points of water access and use. Dwellings are complex and often overlapping, with entrances in some cases placed at the upper floor level, a typical configuration of 'hill-type' settlements which also indicates the close tribal and familial relationship. The key idea of the master plan is to think about programmatic input from an integrated economic, social and cultural perspective that is of relevance to all stakeholders concerned. Research and skills training in heritage and traditional crafts are at the core of the new programme, dovetailed with touristic and commercial activities. The goal is to generate economic activity and social capital by involving the erstwhile inhabitants, new stakeholders and the local community, while ensuring sensitive interpretation of the past through multidisciplinary study of the historical, archaeological, anthropological, architectural and technological features of the settlement. The Heritage Management and Development Master Plan (Figure 2) focuses on the substantially extant built fabric along the two falaj channels, concentrating here the visitor-related facilities for easy access. The dwellings close to the entrance square are to be restored and partly rebuilt to provide an understanding of the complex settlement and dwelling organization. The pink zone is proposed for redevelopment into education, training and tourism related facilities, by retaining the existing walls and fragments of structures, in order to reinstate the original density of the fabric. Within the green zone the aim is to encourage inhabitants to employ their dwellings to economic and related activities. The ruins in the grey zone are to be consolidated and reached through prescribed routes for tourists to enjoy the panoramic view of the oasis from the apex of the hill. Focusing on the various areas of the settlement the Master Plan (Figure 3) addresses the following issues: FORTIFICATIONS 1. Restoration, consolidation and/or rebuilding of walls, tower, gateways, passages and staircases; 2. retention of agricultural, irrigational, urban and townscape features associated with the fortifications; 3. highlighting of fortification features through appropriate presentation. STREETS, LANES AND COMMUNAL SPACES 1. Retention of haptic and townscape qualities of communal passages and spaces; 2. introduction of appropriate lighting system along the streets. ACCESS AND CAR PARKING 1. Pedestrian access only within the settlement; 2. provision, wherever possible, of disabled and universal access;

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Figure 2. Ḥārat as-Saybanī, Heritage Management and Development Master Plan

3. location of small parking areas along the main vehicular access road to Barkat al-Mawz; 4. creation of small disabled and emergency parking areas in clearings within the date palm gardens. ELECTRICITY AND WATER 1. Burying of new and existing infrastructural elements underground or within walls; 2. appropriate location of solar panels to supply part of the electricity demand; 3. optimization of access to the falaj to reduce piped water supply; 4. provision of water storage facilities. WASTE WATER, SEWAGE AND WASTE DISPOSAL 1. Installation of composting toilets in private and public properties; 2. creation of drainage channels which pour storm water into the gardens to be used for irrigation; 3. removal of debris and waste and creation of waste disposal points in communal areas. AGRICULTURE AND IRRIGATION 1. Conservation and revitalization of surrounding agricultural land and land devoted to animal husbandry; 2. sympathetic development within agricultural land only as exception; 3. revitalisation of agriculture through improved irrigation infrastructure and regular maintenance of falaj; Giamila Quattrone, Soumyen Bandyopadhyay

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4. demolition and rebuilding in mud brick of washing cubicles for use by residents and visitors. BUFFER ZONE 1. Creation of 100 m deep buffer zone to retain the traditional context and reduce pressure on the settlement; 2. retention, revival and, if necessary, creation of visual corridors to enhance the experience of the settlement and its immediate context; 3. extension of conservation measures to important structures within the buffer zone.

2.2 | Case II: Ḥārat al-Yemen, Izkī Situated in the Izkī oasis, reputedly the oldest settlement in Oman, Ḥārat al-Yemen is a heavily fortified urban unit guarded by three towers. It has an unusual orthogonal arrangement in quarters, which hints at various cyclical phases of destruction, reconstruction and expansion. Most dwellings are single storied and often with open courtyards, except for the Daramikah quarter which exhibits higher status structures due to the political and economic rise that this tribe knew during the 19th century. Among the most prominent buildings are two mosques, private sablahs (male meeting halls) and communal sablahs placed upon the city wall or attached to it. The Heritage Management and Development Master Plan (Figure 4) proposes to holistically address conservation issues and sustainable economic and social development, envisaging Ḥārat al-Yemen as becoming home to research, training and outreach centres dedicated to heritage tourism, agriculture, energy and alternative technology. A cultural experience zone, short-stay accommodation, catering and commercial outlets, on-site traditional crafts production as well as guided experiential tours would bring a seasonal influx of capital. Greater reliance on local produce through the exploration of alternative methods of food production, small-scale and low-tech cropping would ensure Oman’s food self-sufficiency and the continuation of ancient traditions through modern techniques. Harnessing of solar energy and improving the indoor thermal comfort and associated research and technological development would reduce reliance on fossil fuel. A parallel focus on education and training in the three key sectors is to be established, possibly in conjunction with the local Nizwa University and other governmental and non-governmental bodies. The Master Plan (Figure 5) addresses the following issues: IZKĪ OASIS DEVELOPMENT 1. Preservation of the palm groves and associated agricultural land and infrastructure; 2. ban on construction within a set perimeter containing agricultural land; 3. provision of developed land for housing outside the agricultural perimeter; 4. restoration of the Falaj al-Malki to re-irrigate previously abandoned areas; 5. introduction of electronic water management technologies to reduce water loss and labour; 6. introduction of advanced soil-preparation techniques to improve water retention and plant growth; 7. provision of market access for local produce; 8. creation of an advanced agriculture information centre for experiences exchange and training. URBAN DESIGN AND DEVELOPMENT 1. Preservation of key urban components, such as the mosques, madrasah (Koranic school) and sablahs, water wells, rahas (grindstones), communal bathing areas and latrines; 2. consolidation and restoration of towers, walls and gates; 3. protection of archaeological areas; 4. provision of public spaces for events for the local community, such as weddings and other festivities. WATER AND ELECTRICITY 1. Provision of mains water source; 2. integration of photovoltaic panels and solar water heaters into architectural designs to complement mains power, with possibility of feeding excess electricity back into the grid.

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Figure 3. Ḥārat as-Saybanī, proposal for western (a) and central (b) part of upper channel, and for entrance square (c).

GREY WATER AND STORM WATER 1. Collection of grey water in treatment basins outside of the settlement to be reused for irrigation or domestic purposes; 2. collection of storm water in tanks located beyond the road on the eastern side of the settlement. SANITATION 1. Installation of composting toilets, aerator taps and low-flow showers. GARBAGE DISPOSAL 1. Waste recycling and collection of organic waste for energy production and/or fertilizer production. ACCESS 1. Pedestrian access only within the settlement, with designated paths and routes for visitors; 2. unblocking of west gate to allow for a one-way system for transport vehicles; 3. creation of parking areas outside the north and west gate; 4. creation of a pedestrian entry route from the east gate and exit route via the west gate.

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PUBLIC SPACES 1. Location of information centre at the square inside the north gate, to host tourism related activities and performances, but also traditional festivities; 2. reuse of the tannur (underground oven) next to the north-east tower during receptions held in the square; 3. redevelopment of the Daramikah quarter at the north-west end as the core of the cultural experience; 4. rebuilding of house N1 as the administrative centre for managing heritage activities within the harah; 5. redevelopment of courtyard-focused houses as workshops for tourists to watch craft production, and of street facing houses as shops to sell the goods produced; 6. development of a communal event area to cater for local civic and religious celebrations.

3 | Conclusions A key theoretical concern in these projects has been the need to look at alternative definitions and models of development. Questioning the close nexus between development and economic growth – and the enlightenment ideal of progress itself – has remained at the heart of the proposals. Through the diverse suggestions of making heritage meaningful to future generations – ranging from alternative methods of evaluating heritage resources to alternative methods of energy production – the proposals urge the Omani authorities to acknowledge and build on the essentially intertwined nature of development and heritage, unleashing the development opportunities of heritage to the fullest. Local stakeholder autonomy is strongly advocated, yet the continued – and possibly increasing – influence of globalizing forces is never ignored. This is recognised, for example, through the increasing mobility of communities away from the locale and yet their desire to return to their localities via the use of 'second' or 'holiday' homes. Apparently incongruent programmes and spatial/formal devices are employed to act as catalysts, which through their questioning opposition makes the heritage more manifest. They hold up a mirror, much like the unavoidable – even desirable – presence of the foreigner within a society, allowing heritage development to operate within a critical contextual – yet global – framework.

Giamila Quattrone, Soumyen Bandyopadhyay

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Figure 4. á¸¤Ä rat al-Yemen, Heritage Management and Development Master Plan

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Figure 5. Ḥārat al-Yemen proposal for north-western (a), north-eastern (b) and south-eastern sector (c).

Bibliography Al-Naim M., Mahmud S. (2007), “Transformation of traditional dwellings and income generation by lowincome expatriates: the case of Hofuf, Saudi Arabia”, in Cities, no. 6, vol. 24, pp. 422 - 433. Augé M. (2004), Rovine e macerie, Bollati Boringhieri, Torino. Bocchi R. (2011), “The waste land-scape. Fragments of thought for a hypothesis of landscape as palimpsest”, in Bertagna A., Marini S., The Landscape of Waste, Skira, Milano, pp. 50 - 63. Cantacuzino S. (ed., 1985), Continuity and change: architecture and development in the Islamic world, Aperture, New York. Cetin M. (2010), “Transformation and perception of urban form in Arab city”, in International Journal of Civil and Environmental Engineering, no. 4, vol. 10, pp. 30 - 34. Ciorra P., Marini S. (2012), Re-cycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, Electa, Milano. Hamouche M. B. (2004), “The changing morphology of the gulf cities in the age of globalisation: the case of Bahrain”, in Habitat International, no. 28, pp. 521 - 540. Lynch K. (1990). Wasting Away (with contributions by Michael Southworth, editor), Sierra Club Books, San Francisco. Giamila Quattrone, Soumyen Bandyopadhyay

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McDonough W., Braungart M. (2002). From cradle to cradle. Remaking the way we make things, North Point Press, New York. Temple N., Bandyopadhyay S. (eds., 2007), Thinking practice: Reflections on architectural research and building work, Black Dog Publishing, London.

Webgraphy Viewpoint High water consumption rates in the Sultanate by Haider bin Abdul Redha al Lawati, available at Oman Daily Observer, section “Main Pages” http://main.omanobserver.om/node/82184/

Acknowledgments: The authors would like to thank the other members of the Centre for the Study of Architecture and Cultural Heritage of India, Arabia and the Maghreb (ArCHIAM), Dr Martin S. Goffriller and Dr Md Habib Reza, who have contributed to the Heritage Management and Development Master Plans.

Copyright: Photos and drawings in figures 1, 2, 3 ©ArCHIAM Centre for the Study of Architecture and Cultural Heritage of India, Arabia and the Maghreb. Photos and drawings in figures 4, 5 ©Ministry of Heritage and Culture Sultanate of Oman.

Giamila Quattrone, Soumyen Bandyopadhyay

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Re-landscape: la rigenerazione dei paesaggi di margine

Re-landscape: la rigenerazione dei paesaggi di margine Daniele Ronsivalle Università di Palermo DARCH - Dipartimento di Architettura Email: daniele.ronsivalle@unipa.it

Abstract Città in riduzione e ispessimento dei margini della non-città e della non-campagna producono ad oggi luoghi che le comunità non sanno usare perché hanno perso la conoscenza delle regole per l’uso corretto dei luoghi con conseguenze negative sui processi economici e sull’accelerazione dei processi entropici. Individuare nuove modalità di azione sui confini tra città e campagna è oggi un argomento di grande rilievo nella disciplina e per il quale introdurre visioni sistemiche in cui sviluppo dell’identità identità, cicli economici economia e cicli ecologici devono interagire per produrre un processo di ri-generazione dei paesaggi. Questi processi ri-generativi non possono essere più solo regolativi e basati sul coordinamento delle azioni di piano, ma entrano vigorosamente nella progettazione degli spazi e nei processi di riduzione, riuso e riciclo delle risorse in tempo di crisi. Parole chiave Paesaggio, limiti, rigenerazione.

Città in riduzione e ispessimento dei tessuti di margine In una fase critica del sistema globale in cui si assiste ad una accelerazione di sviluppo senza crescita, vi è la necessità di ripensare il modo in cui i sistemi urbani e territoriali possono ridurre i processi di spreco di risorse materiali e immateriali e, pertanto, ripensare i processi e gli effetti di un nuovo modello di sviluppo, per la produzione di una svolta verso uno "sviluppo senza spreco" (in termini di consumo di risorse). Le dinamiche della globalizzazione e, in particolare, l'economia globale producono effetti sull’organizzazione spaziale dei sistemi urbani e territoriali, generando sempre più spesso condizioni di riduzione degli spazi urbani, mettendo in evidenza la necessità di ripensare lo spazio urbano in relazione con il paesaggio (Ciorra e Marini, 2011) e definendo una nuova condizione di margine. La questione della “città in riduzione” (cfr Oswalt P., Rieniets T., 2006) è il punto di riferimento chiave da cui la proposta di ricerca prende spunto. I territori che rimangono privi della loro caratterizzazione di aree urbane (perché espulsi dal sistema funzionale urbano) non riescono ad assumere nuove forme di ruralità in quanto il tempo e le trasformazioni hanno assottigliato il palinsesto paesaggistico precedente all’urbanizzazione e hanno lasciato questi territori privi di identità, definibili in sintesi come “paesaggi di confine” (Border Landscapes). Lo stesso fenomeno è leggibile, all’inverso, quando i territori agricoli diventano luoghi della non città, luoghi che per ragioni economiche – in tempi di crisi – non vengono urbanizzati, non vengono coltivati, non vengono trasformati in aree industriali/commerciali, ma sempre più spesso diventano il luogo privilegiato della localizzazione, ad esempio, di micro-impianti per la produzione di energie rinnovabili o per la realizzazione di “isole ecologiche”.

Lo spessore del bordo Questi territori si trovano su un bordo territoriale che negli ultimi decenni si è ispessito e che è diventato sempre più significativo dal punto di vista dell’attenzione della disciplina (cfr. Mininni, 2012a) tuttavia la definizione del “che cosa sono” lascia in questa fase spazio alla definizione del “che cosa non sono”. Daniele Ronsivalle

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Re-landscape: la rigenerazione dei paesaggi di margine

La questione vasta dell’abbandono della città e del conseguente aumento di aree disponibili al margine dei sistemi urbani consolidati, in molti contesti scarsamente industrializzati o in cui l’industrializzazione ha attecchito attraverso processi di intromissione nei tessuti urbano/rurali, assume una condizione triplice in cui si possono riscontrare le seguenti fattispecie:  un approssimarsi del sistema urbano consolidato, ancorché in riduzione;  una riduzione della funzionalità dei sistemi agricoli, paragonabile ad una condizione di atrofizzazione e di sfrangiamento delle trame paesaggistiche, funzionali, energetiche e d’uso dell’agricoltura;  un’intromissione di funzioni, spesso non pianificate, che contribuiscono a falsare il rapporto tra città e campagna. Segno inequivocabile della compresenza esplosiva di queste tre condizioni sta nell’utilizzo di un ex uso civico in un piccolo comune siciliano per localizzare la piattaforma ecologica. Un’area il cui toponimo rivela la presenza di “Trefontane” ha perduto nel tempo la presenza delle fonti eponime e si è trasformato in un luogo in cui un piccolo insediamento industriale/artigianale ha prodotto vuoti contenitori di attività a bassa intensità di fatturato. La “rivoluzione” e “controrivoluzione” siciliana nella gestione dei rifiuti ha, da ultimo, provocato la localizzazione dell’isola ecologica proprio nell’area occupata dalle fontane. Si tratta quindi di una condizione periurbana disagiata (cfr. Ricci, 2011) in cui si ritrova la condizione di abbandono del nuovo e del recente e che è sintomo di una condizione sociale in cui i luoghi hanno perso il loro uso perché si sono interrotti alcuni legami eco-logici ed eco-nomici.

Rallentare l’entropia con l’identità culturale dei paesaggi Dalla Carta di Aalborg (ICLEI, 1994) economie, società, uso del territorio si interconnettono in tutti i documenti e i manifesti relativi alla necessità di rallentare il processo inesorabile dell’entropia fissato dalla seconda legge della Termodinamica (cfr. Meadows at al., 2004), tuttavia i processi di re-immissione in circolo dell’energia e le tecnologie ad essi connesse, anche nell’ambito della pianificazione territoriale, rischiano di naufragare contro l’impossibilità di essere sostenibili determinata dalla crisi. Una “sostenibilità sostenibile” delle trasformazioni (cfr. Sacco, 2011) passa attraverso la capacità neg-entropica della cultura e dell’identità (cfr. Rizzo, 1992) che consente di negare l’uguaglianza “omogeneità = diffusione = disordine = degradazione”. La città, quindi, diventa un luogo in cui il processo entropico può essere interrotto attraverso nuove modalità di ripristino dei processi catalitici che possono essere innescati nel luogo che non è più città ma che non è ancora campagna: una sinapsi slegata dall’uso di droghe dello sviluppo eterodiretto che è necessario riconnettere.

Figura 1. L'isola ecologica in costruzione sull’ex uso civico delle Trefontane (Scatto di Google streetview, 2009)

Un profilo di ricerca nell’ambito del ri-ciclo di città e paesaggi Ripensare le premesse di ordine generale sulle questioni dell’identità, dell’energia e dell’economia dei luoghi impone una revisione e un aggiornamento dell’ottica proposta nella strutturazione dei processi ri-generativi (cfr. Ronsivalle, 2007), sicché la visione della “ri-generazione del paesaggio” non può essere più solo legata a processi regolativi e di controllo o legata al coordinamento delle azioni di piano, ma entra vigorosamente nel disegno del suolo indirizzato da processi di riduzione, riuso e riciclo delle risorse territoriali. Daniele Ronsivalle

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La ricerca che si sta avviando, quindi, lavora ad un passaggio di scala, ad una visione ravvicinata dei luoghi da ri-generare sul bordo tra città e campagna, tra uso e non uso per definire regole, ma anche forme dell’uso La ricerca che si sta avviando, quindi, propone un lavoro di riconoscimento delle aree che non sono più città, ma che non rientrano nemmeno nella dizione di aree dismesse (che sarebbe già una caratterizzazione delle aree in questione) e propone di:  riconoscere le casistiche e le caratteristiche dei border landscapes;  tracciare un atlante dei modi in cui i border landscapes si sono generati, nelle forme e nei contenuti del lessico;  definire strumenti utili alla valutazione della qualità attuale e futura di questi luoghi;  tracciare linee di intervento necessarie alla risoluzione della condizione di confine.

Figura 2. Tra città e campagna - paesaggi di margine delle prime pendici sul versante meridionale dell'Etna: espansioni incontrollate.

La sperimentazione sui borderlandscapes assume come punti di riferimento disciplinari e operativi le seguenti esperienze teoriche, metodologiche e operative:  la necessità di stipulare nuovi patti di relazione costruttiva ed ecologicamente sostenibile tra città e campagne. Nella storia del mondo urbano, dall’eneolitico in poi, la campagna produce le risorse di base cui la città attribuisce valore aggiunto e, quindi, energia per lo sviluppo urbano e metaboliti da riusare nel contesto extraurbano. Ad oggi questi legami funzionali di simbiosi e commensalità sono venuti meno sicché le aree non più usate dalla città - esse stesse ridotte a metaboliti dei processi di urbanizzazione/disurbanizzazione sono luoghi a cui è necessario che si restituisca qualità ambientale e paesaggistica ricostruendo il percorso “da culla a culla”. Questo processo comporta che si restituisca qualità ad entrambi i territori: a quello urbano, definendone con chiarezza i margini, le funzioni e gli spazi pubblici che caratterizzano storicamente la città, elevandone la qualità edilizia e urbanistica; a quello rurale restituendogli specificità e proprietà di funzioni; superando un processo degenerativo che ha visto nell’urbanizzazione della campagna, la crescita del degrado di entrambi gli ambienti di vita, quello urbano e quello rurale (cfr. Patto città-campagna del PPTR della Regione Puglia, in Mininni, 2011);  l’opportunità di cogliere sguardi disciplinari extraeuropei che, privi della scarna monoliticità della definizione della Convenzione Europea del Paesaggio, dimostrino in che modo si costruisce nuovo paesaggio operando nelle forme di una nuova visione ecologica delle trasformazioni dei territori non urbani (cfr. Benedict M.A, McMahon E.T., 2006);  l’impegno di introdurre una nuova visione ecologica degli insediamenti, riconducibile alla visione dell’Ecological Urbanism (Mostafavi and Doherty, 2010) in cui la ricerca di nuova identità dei luoghi disurbanizzati si traduce in una attenzione integrata alle questioni del paesaggio di margine, frutto della localizzazione di impianti e sistemi di produzione, stoccaggio e distribuzione dell’energia che amplificano lo stato di non essere di questi luoghi;  la valutazione, quindi, degli impatti di un sistema nuovo di produzione di energia che pur largamente pervasivo non trova ancora la propria ragion d’essere nella forma urbana o in quella del paesaggio;  l’obbligo di una risoluzione dei paesaggi frammentati, inquinati, abbandonati per i quali urge un processo di rigenerazione dall’interno (cfr. il processo di recliming proposto da Berger A., 2008 e 2006). Daniele Ronsivalle

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Re-landscape: la rigenerazione dei paesaggi di margine

Figura 3. Tra città e campagna – paesaggi di bordo delle prime pendici sul versante meridionale dell'Etna: aree agricole e aree artigianali in abbandono.

Obiettivi e risultati che il progetto si propone di raggiungere La presente proposta orienta i propri obiettivi agli obiettivi di sviluppo di Horizon 2020, in particolare per quel che riguarda le azioni per: 1. realizzare la transizione verso un sistema energetico affidabile, sostenibile e competitivo, di fronte alla crescente scarsità delle risorse, all'aumento delle esigenze energetiche e ai cambiamenti climatici: a. il progetto di ricerca indaga i territori di margine urbano in cui il ciclo dell’energia città/campagna si è interrotto e, quindi, indaga i luoghi e le occasioni in cui il sistema energetico/ambientale potrà essere riconnesso; 2. conseguire un'economia efficiente sotto il profilo delle risorse e resistente ai cambiamenti climatici e un approvvigionamento sostenibile di materie prime che risponda alle esigenze della crescita demografica mondiale entro i limiti sostenibili delle risorse naturali del pianeta: a. il recupero delle aree non più urbane, la valorizzazione delle identità che arretrano e la riconnessione degli spazi urbani e rurali saranno finalizzati alla gestione sostenibile delle risorse naturali e degli ecosistemi.

Figura 4. Tra passato irrisolto e futuro incerto – paesaggi della valle del Belice.

Daniele Ronsivalle

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Gli obiettivi del progetto, quindi, sono:  declinare nuove sfide per risolvere la separazione fisica, funzionale, culturale, identitaria tra città e compagna che determina la perdita di paesaggio attraverso un processo zero-waste in cui si tende a prevenire la produzione di aree abbandonate, drosslandscapes (cfr. Berger A., 2006), aree dismesse e situazioni di abbandono periurbane;  costruire un nuovo modello di sviluppo per gli spazi urbani “rifiutati” dalla città e quindi la generazione di nuovi paesaggi, attraverso il recupero identitario;  definire strumenti sostenibili per la trasformazione delle aree non rurali in cui l’edificazione non è ancora in atto e in cui possono essere inseriti usi agricoli, parchi energetici o altri usi compatibili.

Figura 5. Tra terra e mare – lavorazioni di materiali lapidei sul mare a nord di Trapani.

Figura 6. Tra terra e mare – residenze stagionali sul mare ad ovest di Palermo.

Risultati attesi 1. Quadri conoscitivi Costruzione di un quadro conoscitivo critico dello stato attuale dei paesaggi di confine di alcune città medie e piccole della Sicilia in cui la percezione dei processi di urbanizzazione e dis-urbanizzazione sono ancora evidenti nei brani residui del sistema città-campagna. 2. Regole Daniele Ronsivalle

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Re-landscape: la rigenerazione dei paesaggi di margine

Produzione di un set di regole da applicare al livello dei quadri di tutela, dei piani regolativi e operativi sui processi di urbanizzazione, ruralizzazione, riduzione dei processi di riduzione entropica dell’energia ambientale e della risorsa suolo capaci di evitare il sorgere di “rifiuti” urbani in processi di tipo “zero waste”. 3. Simulazioni Applicazione della strumentazione individuata a due casi di studio:  i luoghi particolarmente carichi di significati simbolici della valle del Belice in cui gli insediamenti post sisma e i centri abbandonati che sono immersi nel paesaggio del vigneto delle colline del trapanese aggredito dalle nuove centrali di produzione di energia rinnovabile;  i luoghi costieri della Sicilia nord-occidentale lontani dai grandi sistemi portuali i cui paesaggi sono spesso metaboliti di errati modi di abitare e di usare la risorsa suolo. Altre simulazioni potranno essere individuate su occasioni specifiche di lavoro.

Riferimenti bibliografici Benedict M.A, McMahon E.T. (2006), Green Infrastructure. Linking Landscapes and Communities, Island Press, Washington. Berger A. (2006), Drosscape, Princeton Architetural Press, New York. Berger A. (2008), Designing the Reclimed Landscape, Taylor & Francis, New York. Ciorra P., Marini S., (a cura di, 2011), Re-cycle. Strategie per la casa, la città e il pianeta, Electa, Milano. ICLEI (1994), Carta delle città europee per un modello urbano sostenibile, Aalborg Meadows D., Meadows D., Randers J., (2004, trad.it. 2006), I nuovi limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano Mininni M. (2011), “Patto città campagna per una politica agro-urbana e ambientale”, in Urbanistica n. 147, pp. 42-50. Mininni M. (2012a), Approssimazioni alla città, Donzelli editore, Roma. Mininni M. (2012b), “Paesaggio, territorio, sviluppo. Il caso della Puglia”, in Clementi A. (a cura di) , Paesaggi interrotti. Territorio e pianificazione nel Mezzogiorno, Donzelli editore, Roma. Mostafavi M., Doherty G. (2010), Ecological Urbanism, Lars Müller Publishers, Zurich. Oswalt P., Rieniets T. (2006), Atlas of Shrinking cities, Hatje Cantz Verlag, Ostfildern. Ricci M. (2011), “Nuovi paradigmi: ridurre riusare riciclare la città”, in Ciorra P., Marini S., (a cura di), Recycle. Strategie per la casa, la città e il pianeta, Electa, Milano. Rizzo F. (1992), Economia del patrimonio architettonico-ambientale, Franco Angeli, Milano Ronsivalle D. (2007), Ri-generare il paesaggio, Franco Angeli, Milano. Sacco P.L. (2011), “Verso una sostenibilità sostenibile?”, in ECO-LOGICS. Progetto ed Ecologia, n. 25-26, pp. 80-87

Daniele Ronsivalle

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Strategie di sopravvivenza: riciclare e abitare nella città mediterranea contemporanea

Strategie di sopravvivenza: riciclare e abitare nella città dei Morti, Il Cairo Veronica Salomone Università degli Studi “G.D’Annunzio” Chieti-Pescara D’Arch - Dipartimento di Architettura Email: licursi.salomone@gmail.com Tel.: 3490970061

Abstract Le trasformazioni che investono la città mediterranea contemporanea rendono l’abitare sempre più complesso e contaminato. La precarietà è una condizione ricorrente che genera paesaggi imprevedibili e incostanti. Nasce l’esigenza di rileggere la città attraverso le sue stratificazioni non più solo materiali: si abita riciclando spazi, stravolgendo relazioni, utilizzando strategie di mercato inusuali. La città perde la sua organicità apparente ma, trasformandosi, mantiene i suoi elementi fondanti, sopravvivendo nelle forme di autocostruzione e appropriazione, nelle relazioni sociali e negli assetti economici. La condizione di sopravvivenza si fa strategia e nuova frontiera dell’abitare. Il paper descrive il caso limite de La Città dei Morti (Il Cairo), unico cimitero abitato al mondo, che fa del riciclo una strategia di sopravvivenza. Il testo si inserisce nella ricerca di dottorato che porto avanti da un anno dal titolo “Paesaggi della Sopravvivenza. Il nuovo modello urbano mediterraneo. Crisi o risorsa?”. Parole chiave sopravvivenza, spessore, occupazione

Resistenza archeologica | Riscrittura dello spessore – stratificazioni - pensiero verticale ricerca del tempo rifiutato Il ‘sistema mediterraneo’ è fatto di equilibri ed è per questo molto fragile. La sua forza è nella riscrittura del suo spessore, fatto di stratificazioni storiche, sociali e materiali, variato e variabile, uno spessore verticale. Come nel Vertical Thinking1 di William Kentridge che invita ad avere un pensiero verticale, proteso verso uno sguardo alternativo, il ‘sistema mediterraneo’ deve essere ripensato nel suo essere processo, nel suo determinare il progetto attraverso nuove interpretazioni e strutture concettuali. Sempre Kentridge ne Il rifiuto del tempo affronta la tematica dell’uniformità del tempo come apparenza, che non è sempre misurabile e soprattutto non ha mai una direzione esclusivamente vettoriale, ovvero verso il futuro. Il tempo del ‘sistema mediterraneo’ è un ‘tempo rifiutato’, dove la continuità non è necessariamente consequenziale ma, al contrario, è coesistenza tra passato e presente, e tra questo e il futuro. È una condizione di resistenza di parti di città o di elementi frammentari, che si sovrappongono dando vita a quelle che potremmo chiamare ‘resistenze archeologiche’. (Figura 1) Attraverso le sue ‘resistenze’ il ‘sistema mediterraneo’ sopravvive. Si parla di ‘resistenze’ e non di permanenze per sottolineare la funzione attiva, del brano di città o dell’oggetto, nei confronti del progetto. Ma le ‘resistenze’ da sole non sono sufficienti per riscrivere lo spessore nel ‘sistema mediterraneo’. Il riciclo, come processo, ci permette di rileggerle come parte di questo sistema. Esso assimila le dinamiche del tempo

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Vertical Thinking, progetto del KENTRIDGE a Roma a cura di Giulia Ferracci, è stato realizzato dal MAXXI, dalla Fondazione Romaeuropa e dal Teatro di Roma per omaggiare William Kentridge. La mostra è incentrata sull’installazione the Refusal of Time, prodotta in occasione di Documenta 13 di Kassel. Per maggiori info: www.romaeuropa.net; www.teatrodiroma.net

Veronica Salomone

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Strategie di sopravvivenza: riciclare e abitare nella città mediterranea contemporanea

rendendo la strategia flessibile, adatta al progetto. Fa economia dello spazio e delimita dunque la misura dell’abitare: lo spazio residuo circostante diventa la dimensione massima, il corpo quella minima.

Figura 1. ‘Resistenze’ e ‘Resistenze archeologiche’, Iran, 2011, Veronica Salomone.

Riciclare come strategia di sopravvivenza dell’abitare | Misura dell’abitare - Risignificazione -Visualizzazione della quotidianità «Ma l’ambiente come ‘intorno’ è una interazione tra due presenze, quella dell’abitante e quella del luogo. Le presenze sono affini perché il corpo, il nostro corpo, non è nello spazio, ma abita lo spazio, è fatto della sua stessa sostanza, ne è parte integrante.» (La Cecla, 2000) Parla di città ‘disincantata’ Franco La Cecla in Perdersi. L’uomo senza ambiente. La modernità ha impoverito il concetto della fisicità del corpo come prima architettura urbana, modificando l’uso dello spazio della città mediterranea. Oggi sono gli immigrati, gli emarginati a ‘ri-significare’ questi spazi, riciclandoli per una nuova ecologia dell’abitare. Nella Città dei Morti il margine, il confine, assume un’accezione ancora più forte. Il tessuto urbano si è modificato nel tempo in seguito a numerosi interventi di sottrazione e addizione, il più delle volte ‘informale’. Ogni parte del cimitero ha funzioni ed usi diversi a seconda delle interferenze, delle trasformazioni e delle caratteristiche strutturali di ogni quartiere. Ma quello che colpisce maggiormente è la presenza costante del limite invisibile, della soglia, della introversione del sistema, pur non avendo confini fisici delimitati. « […] linee di confine inafferrabili ne attraversano il paesaggio, delineano gli abitatori del giorno da quelli della notte, i pellegrini dai residenti, la leadership informale da quella istituzionale, i poveri dai ricchi. L’intero cimitero rappresenta una immensa soglia dalle sfaccettature plurime, materiali e metaforiche; un luogo di transito tra l’aldiquà e l’aldilà, l’urbe e la sua periferia, le classi benestanti e quelle popolari, la cultura ufficiale da quella tradizionale. » (Di Marco, 2010)

Figura 2. Materiali e usi nella Città dei Morti, Cairo, 2012, Veronica Salomone.

È sulla misura del limite che insiste l’abitare. Abitare «significa usare lo spazio come risorsa […] fare di un posto il proprio luogo […] il luogo di arrivo della propria emigrazione.» (La Cecla, 2000) Ci si ‘ri-ambienta’ per ottenere la misura minima, data dal corpo, alimentando un’intelligenza pratica legata al ‘saper fare per poter sopravvivere’. Abitare in questi contesti fa si che si è costantemente in presenza di ‘interni urbani’: l’interno diventa esterno e viceversa. La vita si riversa nelle strade, le attività commerciali e turistiche occupano gli spazi di attraversamento, trasformando le stanze in magazzini, il tutto in modo arbitrario e informale. (Figura 2) Nella Città dei Morti non esiste pianificazione ma solo ‘ri-significazione’. Lo spazio sepolcrale viene abitato da immigrati e poveri chiamati dagli stessi egiziani awalad al balad, in accordo con i guardiani, i turabeen, veri e propri agenti immobiliari abusivi. Le stanze vengono occupate da più famiglie, imparentate tra loro, assumendo Veronica Salomone

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una configurazione probabilmente ereditata dai villaggi rurali, limitando l’uso del territorio al solo spazio utile, necessario. Si riutilizzano tombe per abitare, ma anche ruderi, recinzioni, cortili, strade. Il frammento è l’elemento generatore di progetto. L’abbandono non dà adito al degrado ma solo ad un nuovo uso, compreso quello che riconsegna il manufatto alla natura. La ‘ri-significazione’ avviene dunque per mappe psicogeografiche2 che assimilano le ‘resistenze archeologiche’ come spazio dell’abitare dando luogo a scenari sempre diversi. ‘Ri-significare’ per abitare è un’operazione che non ammette ‘dimenticanze’. Non si abbandona, se non per un periodo molto breve, perché il processo di riciclo è sempre in atto. Lo spazio viene caricato di nuovi significati e non dimenticato. La rovina, di cui parla Augé, perde la sua concezione romantica perché considerata elemento trasformatore/riparatore dell’intero sistema. Dalla città all’oggetto, ‘ri-significare’ è un esercizio quotidiano al Cairo: ci sono interi quartieri in cui vengono riparate cose come a Bulaq dove, lungo la strada, gli spazi di risulta sono occupati da rivenditori di pezzi di ricambio per auto. O come ad Ataba, dove ad essere riparati sono gli elettrodomestici e i telefonini mobili. Ce lo racconta Marco Navarra in Repairingcities in cui parla del Cairo come di una città in ‘attesa’, un non-finito in cui «Le superfici dei tetti compongono così un nuovo suolo urbano su cui si depositano e si conservano i materiali pronti per continuare a costruire.» (Navarra, 2008) (Figura 3) Una città che attende di essere re-interpretata attraverso una ‘visione del quotidiano’ che tiene conto delle specificità di ogni frammento, di ogni quartiere, ma che non perde di vista la condizione geografica in cui ogni parte è coinvolta.

Figura 3. Le superfici dei tetti come nuovo strato urbano, Città dei Morti, Cairo, 2012, Veronica Salomone.

Nel suo testo, L’invenzione del quotidiano, De Certeau parla della capacità creativa delle pratiche comuni. La forte relazione con il proprio territorio genera progetti in continua evoluzione in cui «le strategie puntano sulla resistenza che l’instaurazione di un luogo contrappone all’usura del tempo» e le tattiche puntano sull’«utilizzazione di quest’ultimo, sulle occasioni che esso presenta e anche sui margini di gioco che introduce nelle fondamenta di un potere.» (De Certeau, 2001) De Certeau sostiene che chi abita i luoghi ne ha una conoscenza diversa e dunque una «visualizzazione della quotidianità» (Di Marco, 2010) che non appartiene allo straniero. Non si può dunque pensare ad una concezione funzionale-tradizionale del rapporto spazio-tempo perché l’imprevisto e l’eccezione, propri dell’autocostruzione, mettono in crisi l’intero sistema. «Il rapporto con il territorio si fa così occasionale ma al tempo stesso creativo; De Certeau avvalora la possibilità che chi è in campo, chi abita i luoghi, ne sviluppi una diversa conoscenza e

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«La tecnica dell'esplorazione psicogeografica è la Deriva, un passaggio improvviso attraverso ambienti diversi: per fare una deriva, andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che SAPETE, ma in base a ciò che VEDETE intorno. Dovete essere STRANIATI e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta. Un modo per agevolarlo è camminare con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l'alto, in modo da portare al centro del campo visivo l'ARCHITETTURA e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista. Dovete percepire lo spazio come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari. Portate con voi una mappa e nei momenti di sosta tracciatevi il percorso compiuto per studiarlo successivamente o descriverlo ad altri. Se vi sono passanti, IMPORTUNATELI, chiedendo ad esempio DOVE CREDONO CHE DOBBIATE ANDARE» tratto dal volantino di Radio Blissett / Radio Città Futura 97.7, Roma.

Veronica Salomone

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che di conseguenza, esulando anche il potere vigente, sia in grado di cogliervi e di leggervi ciò che sguardi lontani, per problemi di prospettiva, non possono vedere.» (Marini, 2010) Ma lo spazio dell’abitare è fatto anche da ‘interferenze’, da ‘invasioni’, viene occupato da immigrati e turisti, nuovi nomadi, che producono ‘nuove mappe’, nuovi usi, nuove relazioni. Ed è qui che il progetto del riciclo si fa processo di identificazione. Ma quali sono le forme di questo processo? Quali ‘regole’ del progetto sono in grado di controllarlo?

Autocostruzione e progetto | Formazione – Sviluppo La Città dei Morti nasce nel 642 ai piedi del Moqattam dopo che Amr ibn al As, comandante arabo, fondò al Fustat, prima capitale araba. Il primo fenomeno di inurbamento si ha già nel IX secolo con la dinastia Abbaside quando, ad abitare il cimitero, furono i guardiani delle tombe. Con i Fatimidi iniziarono numerosi pellegrinaggi e opere di restauro di diverse strutture per ospitare e mantenere i sacerdoti in visita, mentre, con i Sunniti, vennero edificati diversi khanqah, convitti, e molte madrase. Si è dunque in presenza di una convivenza tra spazio sacro e spazio dell’abitare in cui le tombe convivono con strutture di accoglienza e di studio delle sacre scritture. Con l’ultima urbanizzazione, i Mamelucchi iniziarono a costruire residenze e palazzi nobiliari sulle strade principali, rendendo la Città dei Morti una fra le mete più ambite dai viaggiatori. Il processo di modernizzazione proclamato dai francesi portò alla demolizione di importanti parti di tessuto. Nell’800 i quartieri funerari maggiori occupavano ¼ della città del Cairo.

Figura 3. Immagini della Città dei Morti, Bab Al-Nasr Cementary. Prima immagine del 1800 ca. (da Description de l'Ègypte); seconda immagine degli anni ’70.

Figura 4. Henri Bèchard, Tombs of the Coliphs, Cairo, 1880s, fotoincisione; Barry Iverson, Barquq Panorama, City of Dead, Cairo, 1986. Stampa alla gelatina d’argento.

Ma nonostante il processo di degrado continuava a devastare le aree compromesse, l’urbanizzazione continuò inesorabile, sotto altre forme, agli inizi del XX secolo (Figurav4-5): un’occupazione abusiva di poveri e immigrati che ripropose l’abitare rurale attraverso forme di allevamento e coltivazione tra tombe e tetti di case. Le abitazioni/capanne in mattoni crudi contrastavano con i nuovi edifici direzionali del centro del Cairo ma la forte crescita demografica spinse molti egiziani a trasferirsi nei cimiteri contribuendo ad una congestione senza freni che occupò spazi sepolcrali spesso in situazioni di igiene precaria. L’autocostruzione prese piede ed è tutt’ora difficile definire le caratteristiche architettoniche di ciascun quartiere. Ma attraverso la rilettura di frammenti e ‘resistenze’ è possibile rintracciare una serie di ‘regole’ per il progetto. Veronica Salomone

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Molte sono le ong e gli studi di progettazione che operano attraverso queste ‘regole’ riciclando spazi e materiali. Liveinslums da anni si occupa del progetto di cooperazione allo sviluppo Urban Planning inside City of Deads insieme alla Facoltà di Agraria dell'Università degli Studi di Milano e al Master Paesaggi Straordinari del Politecnico di Milano. Il progetto coinvolge tutti i soggetti locali, dai cittadini alle autorità quali il Ministero delle Politiche Abitative e il GOPP, responsabile della Cairo Vision 2050 (Piano Strategico per il Cairo). Attraverso workshop, mostre fotografiche e tavoli di quartiere si cerca di ricostruire relazioni per tutelare e valorizzare il patrimonio storico-architettonico e lo spazio socio-territoriale. Nel 2011 l’associazione sperimenta il progetto Microjardin della Città dei Morti, veri e propri orti mobili. «All' interno degli hosh (prevalentemente tipologie di case a patio), gli spazi per gli orti sono stati organizzati nei cortili funebri o patii esterni. Un team di architetti e designer guida le famiglie beneficiarie nell'individuazione del luogo più consono per posizionare i microjardin, a seconda delle disponibilità spaziali di ognuno, delle abitudini familiari, e dell'orientamento del sole. Dopo una prima fase di conoscenza reciproca, i formatori costruiscono insieme alle famiglie i contenitori, insegnandogli la tecnica, ed allestendo lo spazio adibito al microjardin in ogni hosh. La formazione relativa alla tecnica di coltivazione viene distribuita su 10 giornate, ogni giorno viene fatta una verifica sul campo di ciò che è stato compreso dalle famiglie.» (http://www.liveinslums.org/) Il progetto è conseguenza di un processo di riciclo che vede lo spazio dell’abitare come principale protagonista. Del riciclo si occupano anche gli Arcò, un gruppo di giovani architetti ed ingegneri italiani che, operando in territori di emergenza, sostengono lo sviluppo attraverso la formazione al progetto, seguendo ogni fase, dal disegno alla costruzione del manufatto. La condizione di sopravvivenza porta all’uso di materiali di scarto quali, ad esempio, ruote di gomma, come nella scuola Al Khan Al Ahmar, e alla necessità di dover tramandare una cultura del ‘saper fare progetto’ alle comunità locali. L’aspetto della formazione, promosso da entrambe le ong, è molto importante in una società come quella che abita il cimitero, in quanto cerca di porre una regola alla costruzione caotica e incontrollata attraverso la ripetitività di sistemi costruttivi in grado di limitarne forme e dimensioni. Il ruolo del progettista è solo di supporto: gli attori principali diventano i cittadini stessi che, attraverso ‘il saper abitare’ prima e il ‘saper fare’ poi interagiscono con il progetto e si fanno strumento di esso.

Tendenze e prospettive | Cairo 2050 – Visions – Turismo sostenibile partecipativo Il GOPP (General Organization for Physical Planning) nel 2008 ha presentato 260 slide dal titolo Cairo 2050. David Sims sostiene che Cairo 2050 è più una vision che un piano vero e proprio. «The main critique is the huge amount of displacement involved, but also a complete unconcern for the majority of poor existing and future inhabitants. […]There is mention of 2.5 million houses needed as part of the plan, but it is not clear if this includes resettlement housing or is just for new housing for the growing population.» (Sims, 2010) Il progetto di riqualificazione per la Città dei Morti sponsorizza un’immagine del Cairo verde e sostenibile attraverso l’ideazione di un grande parco urbano, come già avvenuto per il parco di Al-Azhar. Tuttavia, sono molti i lati oscuri e le contraddizioni del progetto: nel cimitero la maggior parte della popolazione ha un reddito basso per cui difficilmente riuscirà a vivere nelle nuove strutture dove il piano prevede il loro trasferimento. Motivo per cui, secondo molti critici, Cairo 2050 sembra nascondere una truffa immobiliare sotto l’immagine di innovazione e sviluppo. Il piano divide studiosi e cittadini: da un lato si pone un interesse particolare per i residenti che dovranno essere dislocati, dall’altro ci sono le grandi aziende che spingono affinché il piano venga attuato. Un’ operazione che rischia di peggiorare le condizioni della classe egiziana più povera e che non dà certezze sulla positività dei risultati attesi. «Pensare invece ad un programma alternativo che risani il degrado in confronto all’ipotesi radicale di demolizione e allontanamento dei residenti, potrebbe tutelare la sopravvivenza del tessuto sepolcrale ed abitativo. Poiché le strutture fisiche riflettono condizioni peculiari della vita sociale e del contesto geografico, l’antropizzazione rispecchia una costruzione mentale che si realizza attraverso le pratiche del corpo, dando forma a questa spazialità. In tal modo lo spazio si fa luogo» come suggerisce l’antropologa Anna Tozzi Di Marco nel suo libro Egitto Inedito. Taccuini di viaggio nella necropoli musulmana del Cairo. (Di Marco, 2010) Questo approccio è stato utilizzato per il progetto Incremental Housing Strategy dello studio Prasanna Desai Architects per lo Yerawada slum a Pune, in India, 2008-2011. La strategia prevedeva la ristrutturazione dall’interno attraverso interventi puntuali, in cui le case vengono demolite singolarmente per poi essere ricostruite una per volta. Questo metodo aiuta a preservare il tessuto sociale rendendo l’operazione meno invasiva e aumenta le possibilità di riuscita del progetto. Cairo 2050 si ispira chiaramente alle visions che negli ultimi anni hanno ridisegnato città di tutto il mondo come Sydney 2030, Parigi 2020, Londra 2020, Singapore 2050, Abu Dhabi 2030, e Tokyo 2050. Diversi sono gli studi che si sono occupati, in questi anni, di questa tendenza. Nel 2007, durante il Modulo International Design a Dubai, è stato presentato Al Manakh, volume che documenta l’evoluzione del paesaggio urbano del Golfo. Casi studio, interviste, saggi fotografici e testi su Abu Dhabi, Doha, Dubai e Kuwait City, la pubblicazione racconta lo stato attuale di città emergenti sottolineandone la velocità con la quale queste sono Veronica Salomone

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diventate modello per tutto il mondo arabo. Ma già nel 2009-2010 gli ideatori del volume (Moutamarat, AMO, Archis) pubblicano un secondo libro, Al Manakh Cont’d: la crisi frena la crescita e si rende necessario un punto di vista differente. «We had spoken with Rem Koolhaas and the rest of the team about doing a second Al Manakh, and the theme we had originally in mind was what is now the last chapter in the book: Export Gulf, and in July of 2008, that made sense. The objective was to look at how the Gulf is exporting some of its models to other parts of the world,» dice Khoubrou in un’intervista. «Then September 2008 happened, and we decided to use the crisis as the main theme of the book instead.» (http://www.canvasguide.net/en/articles/al-manakh-gulfcontinued.html) Il Cairo non è immune al ‘modello Dubai’ ma l’economia egiziana e molto diversa e, soprattutto, instabile. Ma la tendenza alla ‘riqualificazione’ attraverso grandi interventi spesso scaturisce dalla necessità di soddisfare una domanda di turismo sempre più esigente. Si cerca nel viaggio l’immagine di una modernità famigliare e la diversità viene spettacolarizzata e ridotta ad un evento d’ intrattenimento che aumenta la distanza tra il turista e il residente. «Il turismo non avrebbe nulla di scandaloso, se tutti avessero la possibilità di essere turisti.» (Augé, 2007) Diventa dunque fondamentale introdurre un’idea di turismo ‘sostenibile’ partecipativo, in cui ad essere coinvolti non sono solo i residenti, ma anche gli stessi visitatori che, attraverso le loro azioni divengono i veri protagonisti del ‘viaggio’. «Il “viaggiatore dell’imprevisto” così interagisce con il contesto “altro” non solo con il suo sguardo, anche attraverso il suo corpo e tutti i sensi, adottando una dimensione di ospitalità interiore come etica di vita.» (Di Marco, 2010)

Bibliografia Abu-Lughod (1971), Cairo 1001 Years of the City Victorious, Princeton University Press, Princeton. Archis, AMO, C-Lab, Mountamarat (2007), Volume 12-Al Manakh, Stichting Archis, Amsterdam. Augé M. (2004), Rovine e macerie, Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino. Augé M. (2007), Tra i confini. Città, luoghi, integrazioni, Bruno Mondadori, Milano. Boundaries International Architectural Magazine, The other city, April – June 2012-4. De Certeau M. (2001), L’invenzione del quotidiano, Lavoro, Roma. Di Marco A. T. (2008), Il giardino di Allah. Storia di una necropoli musulmana del Cairo, Ananke s.c., Torino. Di Marco A. T. (2010), Egitto Inedito. Taccuini di viaggio nella necropoli musulmana del Cairo, Ananke s.c., Torino. Golia M. (2004), Cairo City of Sand, Reaktions Books Ltd, Londra. Golia M. (2010), Photography and Egypt, Reaktions Books Ltd, Londra. La Cecla F. (2000), Perdersi. L’uomo senza ambiente, La Terza Editori, Bari. Marini S. (2010), Nuove terre. Architetture e paesaggi dello scarto, Quodlibet Studio, Macerata. Navarra M. (2008), Repairing cities. La riparazione come strategia di sopravvivenza, LetteraVentidue Edizioni S.r.l, Siracusa.

Sitografia Sito ufficiale dell’Associazione Arcò http://www.ar-co.org/ Sito ufficiale dell’Associazione Liveinslums http://www.liveinslums.org/ Articolo su Egypt Independent di Christopher Reeve, What ever happened to Cairo 2050?, 01/08/2011 http://www.egyptindependent.com/news/what-ever-happened-cairo-2050 Articolo di Anna Wallace-Thompson sul Volume 12-Al Manakh http://www.canvasguide.net/en/articles/al-manakh-gulf-continued.html

Copyright: Crediti fotografici: Figura 1,2,3. Foto di Veronica Salomone Figura 4. Dal testo di Abu-Lughod (1971), Cairo 1001 Years of the City Victorious, Princeton University Press, Princeton. Figura 5. Dal testo di Golia M. (2010), Photography and Egypt, Reaktions Books Ltd, Londra.

Veronica Salomone

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Svuotamenti. Teatri dismessi in Italia

Svuotamenti. Teatri dismessi in Italia Vincenza Santangelo Università IUAV di Venezia Assegnista di Ricerca Dipartimento di Culture del Progetto Email: vsantangelo@iuav.it Tel.: 041 25711354

Abstract L’occupazione del Teatro Valle a Roma e di molti altri teatri chiusi o abbandonati da Nord a Sud dell’Italia, con il dibattito dei beni comuni sullo sfondo, manifestano l’esistenza di un patrimonio architettonico dismesso e svuotato di senso, che nell’insieme individua un vero e proprio fenomeno del paesaggio italiano contemporaneo, che è sempre più difficile eludere o liquidare con una generica riprovazione, mentre potrebbe diventare occasione per costruire una ricerca con l’obiettivo di confrontarsi con il patrimonio di teatri abbandonati, ipotizzando indirizzi strategici e progettuali per l’intervento di riuso del teatro e del paesaggio in cui ricade. Parole chiave Teatro, dismissione, riappropriazione.

Teatro Valle Il Decreto Legge n. 78 del 31 maggio 2010 recante “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica” ha soppresso l’Ente Teatrale Italiano a cui era affidata, tra le altre cose, la gestione del Teatro Valle a Roma. Il Valle è fra i teatri più antichi di Roma. A pochi passi da Piazza Navona, è stato inaugurato nel 1727 e ristrutturato da Giuseppe Valadier nel 1821 giungendo all’attuale configurazione, ossia un classico teatro all'italiana, provvisto di quattro ordini di palchi ed un loggione, senza però un foyer effettivo. Ha ospitato sul suo palcoscenico quasi tre secoli di rappresentazioni, spesso fra le più prestigiose in Italia: attori come Tommaso Salvini e Sara Bernhard ne fanno il loro punto d’approdo romano; Ermete Novelli nei primi del ‘900 vi tenta uno dei primi esperimenti di Teatro Stabile; nel 1921 va in scena la prima rappresentazione dei Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello; nel 1954 debutta la Compagnia dei Giovani, con con Romolo Valli, Giorgio de Lullo, Rossella Falk, Anna Maria Guarnieri; negli anni ’50 e ’60 sul palco si susseguono Vittorio Gassman, Evi Maltagliati, Tino Buazzelli, Maria Marchi, Nino Manfredi1. La temporanea sospensione delle attività teatrali e la proposta di affidamento a un soggetto privato della gestione del Teatro Valle, attraverso un bando di gara europeo, ne ha determinato il 14 giugno 2011 l’occupazione per protesta da parte di un gruppo di lavoratori dello spettacolo, affinché lo stesso potesse essere mantenuto pubblico attraverso una partecipazione popolare e una gestione con criteri di trasparenza2.

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A. D'Amico, M. Verdone, A. Zanella, Il Teatro Valle, Palombi Editori, Roma 1997 Teatro Valle Occupato dai Lavoratori. “Come l'acqua, l'aria, ora la cultura” in La Repubblica, 14 giugno 2011. 1

Vincenza Santangelo


Svuotamenti. Teatri dismessi in Italia

Figura 1. Occupazione del Teatro Valle, aprile 2012.

L’occupazione del Teatro Valle dura ormai da due anni. Da un lato ci sono: 285 serate, 105.000 spettatori, 1.780 artisti diversi, 1.040 ore di formazione, 25.000 firme a sostegno, 41.000 contatti su Facebook, 11.000 follower su Twitter, 3.800 soci fondatori, 850 volontari, 50 visite guidate, 1.500 visitatori3. Dall’altro lato le spese di gestione e manutenzione pari a 2.000.000 di euro sostenute dal Comune di Roma, l’assenza di contratti e contributi per chi va in scena, il rischio che dietro l’idea di bene comune svanisca il bene pubblico.

Ricognizione La vicenda del Teatro Valle è lo specchio della condizione diffusa e latente in Italia di dismissione dei teatri, riconducibile alla crisi, ai tagli dei finanziamenti, ad alcune scelte politiche, alla programmazione obsoleta, ad un quadro normativo desueto, alla proliferazione dei cinema multisala negli ultimi decenni. Nonostante la continua richiesta di spazi e finanziamenti per la cultura, da Nord a Sud non c’è città che non abbia il suo teatro chiuso da anni, abbandonato, spesso trasformato in deposito. Nonostante la rilevanza del fenomeno di teatri dismessi, manca una documentazione ufficiale completa in cui rintracciare dati e ricercare meccanismi di svuotamento. Questa carenza di un inquadramento generale e di fonti ufficiali da cui attingere, suggerisce una prima ricognizione del fenomeno attraverso la costruzione di una documentazione che attinga a tutte le fonti a disposizione, sperimentando nuove procedure di indagine e incrociando le informazioni. Una documentazione eclettica, una collezione di informazioni, una raccolta di situazioni che si traducono nella costruzione di atlante italiano di teatri dismessi4, che prova a documentare questo fenomeno pervasivo, senza avere la pretesa di dati assoluti e definitivi, cercando di cogliere e restituire l’esistenza e la rilevanza di questo svuotamento fisico e culturale nel paesaggio italiano.

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Per un approfondimenti in tempo reale delle attività svolte all’interno del Teatro Valle Occupato è possibile consultare il sito internet creato ad hoc dagli occupanti: www.teatrovalleoccupato.it/ Questa primissima ricognizione, con relativa mappa, è il risultato del lavoro “Reintepret-azioni. Dismissioni come potenzialità” coordinato da Vincenza Santangelo con gli studenti Marta Chiogna, Elena Maranghi, Yasmin Sarah Menouer, Antonio Maria Privitera all’interno del workshop “Teatri Abitanti. Architetture per i beni comuni” a cura di Marco Navarra, 24-30 aprile 2012, Teatro Valle Occupato, Roma. 2

Vincenza Santangelo


Svuotamenti. Teatri dismessi in Italia

Figura 2. Mappa ricognitiva della dismissione dei teatri in Italia. Foto di Sergio Bonuomo

Emergono addensamenti nelle grandi città, in particolare nel centro-nord Italia, dove sono per la maggior parte dei teatri ottocenteschi le cui spese di manutenzione e adattamento alle nuove normative sono spesso di gran lunga superiori agli introiti, e quindi la chiusura e l’abbandono risultano essere la soluzione economicamente meno disastrosa e più facilmente attuabile da parte del soggetto pubblico. Parallelamente emerge anche un’incisiva diffusione sporadica, soprattutto nel Sud Italia, specchio degli investimenti a pioggia degli anni ’80 per edifici culturali, spesso carenti di reali programmi di gestione e programmazione, ma anche dell’insensata moltiplicazione di piccoli teatri parrocchiali, che hanno perso di interesse e senso nel giro di pochissimi anni dalla loro realizzazione. Tutti questi teatri nell’insieme costruiscono un patrimonio architettonico svuotato di senso e rispecchiano un generale disinvestimento nella cultura, diventando cartina al tornasole per indagare temi e questioni intrecciate con questo fenomeno.

Resistenze propositive In questo quadro di progressiva dismissione emerge anche una prima forma di attivazione puntuale di questo patrimonio attraverso diverse modalità di occupazione, riappropriazione e restituzione alla collettività di alcuni teatri. Un processo innescato dall'esperienza del Teatro Valle e che in breve ha percorso l’Italia da Nord a Sud, intessendo una fittissima rete di relazioni e collaborazioni. Nell’aprile 2011 viene occupato il Cinema Palazzo nel quartiere San Lorenzo a Roma come risposta agli ormai avviati lavori di ristrutturazione che lo avrebbero trasformato in un casinò, ma anche all’incalzante processo di degrado sociale e culturale del quartiere. Un’occupazione quindi “di quartiere”, che ha coinvolto non solo l’edificio dell’ex cinema Palazzo, ma anche lo spazio antistante che da parcheggio selvaggio si sta lentamente trasformando in una piazza che ospita svariate attività di quartiere. Nel settembre 2011 viene occupato il Teatro Marinoni al Lido di Venezia, proprio durante la Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, dagli attivisti di S.a.l.e. Docks in collaborazione con gli occupanti del Teatro Valle. Il piccolo teatro liberty è localizzato nella vasta area dismessa dell’ex Ospedale al Mare, su cui già marciavano i processi di vendita a dei soggetti privati dell’Est, che avrebbero avviato un massiccio processo speculativo che prevedeva l’abbattimento del teatro. L’occupazione non solo diventa il veicolo per preservare il teatro dall’abbattimento, ma anche per chiedere spazi culturali e aggregativi per un quartiere di fatti estromesso dalle principali strategie di governo del territorio. 3 Vincenza Santangelo


Svuotamenti. Teatri dismessi in Italia

Nel dicembre 2011 è il turno del Teatro Coppola a Catania. Primo teatro comunale della città, versa da anni in uno stato di stand-by a causa dei lavori di ristrutturazione iniziati e mai completati. Viene occupato, attrezzato e riaperto agli artisti e ai cittadini, con una programmazione tanto densa quanto priva della benché minima forma di finanziamento da parte del soggetto pubblico. Nell’aprile 2011, sempre in Sicilia, viene occupato il Teatro Garibaldi a Palermo. A pochi passi dalla Basilica La Mangione nel quartiere Kalsa, il teatro è rimasto chiuso per 5 anni per poter effettuare degli interventi di restauro degli interni, che si sono conclusi nel 2010, senza tuttavia procedere con una riapertura effettiva. Il movimento palermitano ha occupato e riaperto il teatro, non solo per poterlo riattivare e restituire ai cittadini, ma anche come segno di protesta contro l’assenza di un regolamento comunale che disciplini l’assegnazione degli spazi culturali, al fine di evitarne le diffuse condizioni di abbandono di spazi pubblici. Nel settembre 2012 ad essere occupato è il Teatro Rossi a Pisa. La struttura settecentesca nel cuore della città, in diretto contatto con l’Università di Pisa, da 35 anni versava in uno stato di abbandono a causa della mancanza di fondi necessari per la riapertura. Un articolato gruppo di studenti, artisti e cittadini hanno promosso a partire dalla fine del 2011 una serie di incontri e assemblee, che hanno portato all’occupazione e alla riapertura di questo spazio dismesso ad una città che chiedeva luoghi per la produzione culturale accessibili a tutti. Questi teatri nell’insieme disegnano un network italiano di “resistenze propositive”, dove rintracciare non solo inedite e alternative modalità di gestione e programmazione, ma anche creative reinvenzioni degli spazi codificati di un teatro, da cui provare a prendere le mosse per individuare nuove strategie di riattivazione e per ripensare le strategie complessive di progetto degli edifici culturali. Queste azioni simultanee di riappropriazione di alcuni spazi teatrali in Italia, come rivendicazione di spazi pubblici e diritti negati, si intrecciano con quella che Franco Cassano definisce la «ragionevole follia dei beni comuni»5, da cui l’Italia è rimasta per molti anni immune, nonostante nel 2009 il premio Nobel per l’economia fosse stato assegnato a Elinor Ostrom proprio per i suoi studi su questo tema6. A partire dal referendum del 2011 sull’acqua come “bene comune”, si è innescato un succedersi di iniziative concrete e riflessioni teoriche, estendendo il concetto alle situazioni più varie e ibridandolo con dibattiti afferenti a molteplici discipline7. L’attenzione si sposta dal proprietario alla funzione che un bene deve svolgere nella società, e quindi i beni comuni sono quelli funzionali all’esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future8. Il dibattito sui beni comuni, al di là delle riflessioni teoriche e risonanza mediatica, ha cominciato a produrre dei e veri propri effetti istituzionali: l’istituzione dell’Assessorato ai Beni Comuni nel comune di Napoli; l’approvazione di una legge sull’acqua pubblica della Regione Puglia; l’approvazione della legge sugli open data (ossia accesso alle informazioni) della Regione Piemonte; la presentazione al Senato di due disegni di leggi sui beni comuni che si sommano ad alcune proposte regionali, come quella siciliana; la costruzione di un network di comuni per il bene comune; la creazione di un’ampia coalizione sociale che lavora ad una Carta Europea dei beni comuni. Una pluralità di iniziative che disegnano una nuova geografia che parte dalla mobilitazione collettiva di privati cittadini, approdando a nuovi orizzonti normativi con inedite ricadute sui territori.

Oltre la riappropriazione In un momento di incessante dismissione fisica e culturale9, di pressante richiesta di cambiamento delle regole del gioco, di ibridazione delle azioni pubbliche con quelle private, può essere utile spostare l’attenzione su nuove dinamiche associative e gestionali che, pur partendo dall’appropriazione spesso illegale di spazi pubblici, mettono in gioco inedite sinergie fra le istituzioni e i privati cittadini. Una prima collezione di esperienze in questa direzione, oltre i confini nazionali, consente di rintracciare strategie, azioni e strumenti tali da delineare delle possibili e perseguibili linee di intervento per la specifica condizione italiana. Il Centro per la Decontaminazione Culturale10 a Belgrado è nato dall’occupazione nel 1993 da parte di un gruppo di giovani dell’ex padiglione Veljkovic, primo Museo d’Arte privato dei Balcani costruito negli anni ’30, utilizzato come magazzino durante la Seconda Guerra Mondiale e dismesso alla fine degli anni ’40. Il Centro è imperniato su un’idea culturale orientata a promuovere tolleranza e rispetto delle diversità, in un territorio che ancora paga le conseguenze di una fredda guerra fratricida, offrendo la possibilità ad artisti ed operatori culturali di portare avanti le loro idee e di lavorare con colleghi stranieri o provenienti da altri paesi dell’ex Yugoslavia. Fino ad oggi sono stati organizzati 2000 eventi: spettacoli, mostre, proteste, pubblici dibattiti, conferenze e varie 5

F. Cassano, Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni, Dedalo, Bari 2004 E. Ostrom, Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, New York 1990. 7 G. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma 2011 8 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma 2012 9 S. Marini, Nuove Terre. Architetture e paesaggio dello scarto, Quodlibet Studio, Macerata 2011 10 http://www.czkd.org/index.php?&lang=en 6

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serie di vaccinazioni, che hanno portato in breve al sostegno di enti nazionali e internazionali, oltre che del Comune di Belgrado che ha autorizzato e supportato i lavori di restauro della struttura, che ora comprende il padiglione espositivo, un centro congressi, uno studio di danza, un cortile all’aperto, spazi per workshop ed eventi. Lo Chapitô11 di Lisbona è un ex riformatorio risalente all’800 di proprietà del Ministero della Giustizia, recuperato nei primi anni del ‘900 per ospitare il carcere minorile di Lisbona. Nel 1987 viene ceduto in comodato d’uso gratuito dal Ministero stesso per l’attività che Teresa Ricou porta avanti dalla fine degli anni ’70: un progetto di formazione circense e teatro di strada per giovani disagiati. Nel corso del tempo lo Chapitò si è trasformato da associazione culturale senza fini di lucro a organizzazione non governativa, dove in sinergia con la Pubblica Amministrazione e con enti privati, sia a livello nazionale che internazionale, usa l’arte circense come veicolo per attrarre i giovani disagiati e orientarli all’interno di percorsi di inserimento sociale e professionale. Il Kulturzentrum12 è un ex mattatoio di proprietà del Comune dismesso nel 1977, nel cuore di Brema, e occupato nel 1978 da un gruppo di giovani che, con lo scopo di fondare un centro culturale per la città, costituendo nel 1979 la Schlachthof Cultural Society. L’associazione, grazie alle sue attività, è riuscita a preservare una parte dei vecchi edifici, ad aggiungere nuovi elementi architettonici e a trasformare il sito in un incubatore per la cultura, per la musica, per il teatro e per la danza, che si muova al di fuori dei canali istituzionali. Dopo quindici anni di contrattazione, la Schlachthof Cultural Society ha ottenuto l’affitto gratuito dello spazio da parte del Comune e ha fondato un’associazione no-profit che ancora oggi gestisce gli spazi. La struttura è stata recuperata dagli occupanti stessi, in seguito sia i progetti di adeguamento dei servizi sanitari sia l’inserimento di attrezzature ad hoc sono stati sponsorizzati dalla pubblica amministrazione. L’UfaFabrik13 nasce all’interno dell’UFA-Film Copy Center, uno spazio per la registrazione di pellicole cinematografiche di proprietà del Comune di Berlino. Dismesso nel 1979, gli studi dell’UFA-Film furono occupati da un gruppo di giovani attivisti insieme ad un gruppo di abitanti della zona, stabilendosi negli edifici e mettendo in piedi un progetto di recupero degli spazi e di cooperazione con le attività presenti nel quartiere. Attraverso un lavoro intenso di dialogo con la Pubblica Amministrazione hanno ottenuto il permesso del Senato di Berlino di restare negli spazi dell’UFA-Film a costi di affitto contenuti, in cambio di un’offerta continua di attività rivolte al quartiere. Cosi nei primi anni ’80 venne fondata l’UfaFabrik come luogo per l’educazione, la ricerca ambientale, la promozione culturale e la solidarietà sociale. Dal 2000 le attività si sono moltiplicate e consolidate fino a far diventare il Centro un vero e proprio luogo per consulenze specifiche in ambito tecnologico, per l’educazione alimentare e per l’educazione ecologica. Il Faro de Oriente14 era originariamente una struttura costruita nei primi anni ’90 destinata ad ospitare alcuni uffici governativi, ma rimasta incompiuta e subito trasformata in discarica. Localizzata in una della zone più povere e conflittuali di Città del Messico, grazie all’iniziativa di un gruppo di intellettuali e l’azione congiunta con il Dipartimento della Cultura del Governo della Città del Messico, la struttura è stata recuperata e l’intera area bonificata, diventando oggi una scuola di arte e mestieri, uno spazio culturale e artistico, dove alimentare la creatività e le iniziative degli abitanti. Essendo ormai diventato un modello di riferimento dal punto di vista organizzativo, processuale, un progetto senza precedenti, la Segreteria del Dipartimento della Cultura del Governo, che inizialmente aveva avuto un ruolo di promozione e finanziamento del progetto, ha avviato un vero e proprio processo di importazione di questo modello in altre parti della città, attivando una rete di Faros. Il Parco Culturale Ex-Cárcel15 si trova nel pieno centro della città di Valparaíso in Cile. Il carcere è stato attivo fino al 1994, quando il Servizio Carcerario è stato dismesso e gli abitanti del quartiere hanno chiesto che venisse aperto come spazio per la collettività. Dal momento che il governo non rispondeva alle richieste, un gruppo di persone ha occupato gli spazi del carcere e ha fondato un’associazione, Corporación de Amigos de la Ex-Cárcel, con l’obiettivo di condurre attività per il quartiere e per la città. Nel 2001 venne approvato un nuovo Piano Urbanistico che prevedeva la demolizione della struttura e la realizzazione di 2 ettari di residenze. Da quel momento la Corporaciòn si è mobilitata per la difesa e la conservazione del più antico edificio della città, coinvolgendo un gran numero di artisti, associazioni culturali e organizzazioni sociali a partecipare attivamente ad un processo di occupazione, di restauro e di animazione della struttura. Grazie alle attività degli abitanti, la Segreteria ha attuato un programma di recupero e oggi l’ex carcere è un Parco Culturale Patrimonio dell’Unesco. Sicuramente ognuna di queste esperienze è strettamente connessa alla specificità e alla complessità delle singole realtà in cui ricadono e che le hanno generate. Ma la genesi conflittuale comune, la modalità di procedere per tattiche16 di appropriazione, la volontà di restituire ai cittadini uno spazio pubblico a cui hanno diritto, l'intreccio del governo dall'alto con le pratiche dal basso, diventano i comuni denominatori che offrono la possibilità di 11 12 13 14 15 16

http://www.chapito.org/ http://www.schlachthof-bremen.de/ http://www.ufafabrik.de/intro.php http://farodeoriente.org http://pcdv.cl/parque/la-corporacion/ F. Ippolito, Tattiche, Il Nuovo Melangolo, Genova 2012. 5

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ragionare, ed eventualmente mettere in atto, diversi processi di restituzione, creative modalità di gestione e inediti meccanismi di finanziamento per ridare senso agli spazi e alla cultura che da essi dovrebbe nascere.

Bibliografia AA.VV. (2001), Lotus n. 107, L’urbanistica dell’indeterminatezza. AA.VV. (2001), Lotus n. 108, Urbanistica situazionista. Augè M. (2004), Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino. Bianchetti C. (2003), Abitare la città contemporanea, Skira, Milano. Cassano F. (2204), Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni, Dedalo, Bari. D’Amico A., VerdoneM., Zanella A. (2007). Il Teatro Valle, Palombi Editori, Roma. De Certeau M. (2001), L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma. Friedman Y. (2003), Utopie realizzabili, Quodlibet, Macerata. Ippolito F. (2012), Tattiche, Il Nuovo Melangolo, Genova. Koolhaas R. (2006). Junkspace, Quodlibet, Macerata. Jodice F. (2004), What We Want. Il paesaggio come proiezioni dei desideri della gente, Skira, Milano. Lynch K. (1992), Deperire. Rifiuti e spreco nella vita di uomini e città, Edizioni Cuen, Napoli. Marini S. (2011), Nuove Terre. Architetture e paesaggio dello scarto, Quodlibet Studio, Macerata. Mattei G. (2011), Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma. Ostrom E. (1990), Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, New York. Rodotà S. (2012), Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma. Scardi G. (a cura di) (2006), Less. Strategie alternative dell’abitare, 5 Continents Editions, Milano.

Sitografia www.teatrovalleoccupato.it http://www.czkd.org/index.php?&lang=en http://www.chapito.org/ http://www.schlachthof-bremen.de/ http://www.ufafabrik.de/intro.php http://farodeoriente.org http://pcdv.cl/parque/la-corporacion/

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R.R.R.Procida da Reinventare

R.R.R. Procida da Reinventare Angela Sarcinelli Email: arch.sarcinelli@gmail.com Tel.: 328.3659294 / 0823.351341 Eugenio Michelino ASSO.N.A.T. Email: eugenio.michelino@gmail.com Tel.: 338.8470579

Abstract Procida è un’isola con grandi potenzialità turistiche per la posizione strategica rispetto alle tratte del turismo nautico e per il suo straordinario patrimonio naturalistico e culturale. È apparso naturale quindi, alla luce delle condizioni economiche e sociali mondiali, presentare un progetto di riqualificazione urbana tramite il riutilizzo di strutture esistenti sia legate al diporto che non. Il processo di ristrutturazione del sistema produttivo, la crisi della cantieristica, la perdita di funzioni tipiche e storiche di alcune aree, verificatesi nell’arco della storia, oggi ha reso disponibili interi settori urbani la cui riconversione consentirebbe all’Isola di dotarsi delle strutture idonee e necessarie per conseguire nuovi livelli di qualità urbana, economica, sociale e culturale. E’ fondamentale quindi, il riutilizzo delle aree portuali e delle architetture che conservano il fascino del passato ma non più la loro funzionalità, cominciando a programmare l'urbanistica, rifunzionalizzando e restaurando l’esistente piuttosto che costruire ex-novo. Parole chiave Riuso, restauro, rinnovamento.

Premessa Lo studio affronta teoricamente il tema della rigenerazione urbana, ripercorrendo le vicende storiche che hanno caratterizzato e condizionato la vita degli isolani e di conseguenza l’urbanistica dell’Isola ed analizza nuove possibilità per la pianificazione al fine di superare conflitti e criticità che sussistono con il contesto, e con l'obiettivo di dimostrare che un porto può essere un polo di riqualificazione urbana, sociale ed economica mentre il Palazzo d’Avalos e l’ex Penitanziario possono divenire luogo della memoria per tutelare la storia, la cultura e le tradizioni dell’Isola. La nostra prima finalità è quella di reintegrare la storia, le tradizioni, l’esperienza e i saperi locali e territoriali nel processo di valorizzazione delle aree interessate e sensibilizzare in tale direzione gli interventi di oggi e di domani. In secondo luogo, si vuole fornire un itinerario consapevole delle possibilità di “reinvenzione” di spazi alterati, aree sfruttate, ambiti impoveriti attraverso progetti multidisciplinari che abbiano la capacità di ripensare una nuova, contemporanea idea di paesaggio culturale e che possano essere riconosciuti come spazi potenziali per una nuova ricchezza sociale, economica, ambientale, e culturale.

L’identità dei luoghi tra conservazione e turismo Teatro della storia Micenea, Greca, Romana, e delle incursioni barbariche e piratesche, la storia urbana di Procida è stata condizionata dalle vicende storiche che si sono susseguite nei secoli e che hanno influenzato, oltre la vita dei Procidani, anche l’architettura e l’economia del luogo che, per esigenze difensive, mutò da Angela Sarcinelli, Eugenio Michelino

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marittima, in rurale, a commerciale, seguendo uno sviluppo anche in relazione alle richieste della Chiesa e delle dinastie che si sono succedute1, rispondendo a nuovi bisogni imprevisti e di cambiamento in un continuo processo evolutivo. Nel caso delle tre Marine, i borghi si sono definiti e sono mutati nel tempo: alla soluzione originaria, che prevedeva l’utilizzo dei piani terra come deposito barche e attrezzi dei pescatori, si sono sostituite nuove funzioni, a seconda del luogo nel quale insistono le diverse realtà marinare. Nella cortina della Marina di Sancio Cattolico è subentrata l’attività commerciale, congeniale con la presenza dello scalo marittimo; la cortina della Marina di Corricella si è popolata di ristoranti per la bellezza e la tranquillità dei luoghi, mentre la cortina di Ma rina di Chiaiolella ha risposto all’esigenza di nuovi vani abitativi. Nel caso del Palazzo d’Avalos e dell’ex Penitenziario, uomini illustri per rispondere alle proprie esigenze, hanno adattato lo spazio di cui disponevano, alle loro necessità, in un percorso di scelte causate da politiche, usi e costumi diversi2. Per sostenere le nuove sfide, in un clima competitivo che ha origine nella crescente globalizzazione dei mercati, dei sistemi produttivi e della società, occorre non solo dotarsi di alcuni elementi infrastrutturali imprescindibili per questa terra, i porti, ma soprattutto di una mentalità e di uno stile decisionale nuovo, per il Palazzo d’Avalos e l’ex Penitenziario, senza dimenticare che ognuno di questi luoghi ha una sua identità, più o meno forte ma carica di storia, di tradizioni e di significati. Tali siti rappresentano luoghi decisivi per il futuro dell’Isola, e pertanto è apparso naturale rivolgersi ad un progetto di metamorfosi urbana tramite il riutilizzo di aree ed edifici esistenti, legate al diporto e non che, avendo esaurito la funzione per la quale erano sorti meritano, per la loro posizione territoriale e per il rapporto con gli abitanti, di essere riqualificati e reinseriti nel contesto urbano, in virtù della consapevolezza della rilevanza acquisita negli ultimi anni dal segmento culturale nel mercato turistico. Lo sviluppo turistico che hanno conosciuto le altre isole del Golfo, non ha mai sfiorato la piccola Procida, che aveva nel settore marittimo la sua principale risorsa economica3. La risorsa “mare” ha rappresentato la fonte di benessere che non rendeva necessaria la ricerca di altre iniziative che prevedessero la valorizzazione del territorio. Altri fattori che non hanno consentito di offrire un “prodotto Procida” proponibile a livello turistico, sono stati la presenza del carcere borbonico prima e l'insediamento del penitenziario poi. Solo con la crisi del settore marittimo e la chiusura del Bagno Penale, si è cominciato a guardare al turismo come prospettiva occupazionale e di sviluppo economico. Considerando la crescita della domanda di turismo nautico nel Mediterraneo e che Procida è un’isola posta in un golfo di incomparabile bellezza, appare chiaro che in un’epoca di crisi come quella che stiamo vivendo, l’economia locale si sia dedicata naturalmente allo sviluppo del turismo nautico. Il territorio procidano, con le sue particolarità, ci spinge a ricercare la convergenza di saperi diversi per creare ipotesi di sviluppo e riqualificazione delle aree portuali e dell’area occupata dal Palazzo d’Avalos e dall’ex Penitenziario. Essendo la pianificazione urbanistica conclusa, si deve affrontare la fase della riconversione, attraverso processi di trasformazione mediante l'attivazione di nuove procedure urbanistiche ed economiche per salvaguardare, valorizzare e promuovere il territorio nell’ottica di uno sviluppo sostenibile dell’intera Isola: perché essa possa offrire di più a chi ci vive e riscoprire il turismo non di massa ma di qualità. 1

I micenei dal III sec. a.C. al IV sec. d.C – i barbari e i duchi imperiali dal V sec. al VII sec. – i saraceni nel IX sec. – i da Procida dal XI sec. al XIV sec. – gli angioini dal XIV sec. al XVI sec. – i d’Avalos dal XVI sec. al XVIII sec. – i moti e le stragi del 1799, il Regno d’Unità d’Italia. 2 Sorto nel 1563 per volere del cardinale Innico d'Avalos d'Aragona, come elaborazione di una strategia difensiva e, al tempo stesso, per avere una propria dimora, fu trasformato per Carlo III, in Palazzo Reale nel 1744, per rispondere alle esigenze della corte Borbonica. Dopo la restaurazione borbonica del 1815, Francesco I vi istituì una scuola militare divenendo prima Collegio Militare (1818) e poi Ferdinando II lo trasformò in carcere (1830). In questo modo il complesso carcerario fu ampliato mutando notevolmente e furono realizzate anche nuove strutture, volte ad attenuare le condizioni di degrado in cui versavano i detenuti. Tale intervento, vede la trasformazione dell’impianto cinquecentesco con la realizzazione dei seguenti corpi di fabbrica: la Direzione del Carcere e l’Opificio; i Laboratori dell’Opificio; la Cordonata Opificio; il Padiglione, l’abitazione delle Guardie ed i fabbricati rurali del tenimento agricolo. Dopo il secondo conflitto mondiale, furono apportate ulteriori modifiche per rispondere meglio ai canoni di carcere di massima sicurezza. La cittadella carceraria venne dismessa negli anni ‘70 per la parte afferente il Palazzo d’Avalos e, nel 1988, venne definitivamente chiusa. 3 I due terzi della popolazione attiva, lavoravano sul mare e per il mare, considerando oltre ai marinai e ai pescatori, anche gli addetti ai numerosi mestieri che ruotavano intorno all’attività marinara: calafati e carpentieri, mastri d’ascia e mastri ferrai dentro e fuori dei cantieri navali, fabbricanti di vele, di funi, di filati per le reti e di ogni tipo di bottame utilizzato nell’esportazione di vini, agrumi e pesce salato o lavorato. Attualmente, quote marginali della popolazione si dedicano alla pesca commerciale, con una discreta flotta peschereccia, mentre quote ancora inferiori sono dedite alla cantieristica o all'agricoltura. La marineria, sebbene in forte calo, rimane uno dei maggiori settori di occupazione: armatori, pescatori, comandanti e direttori di macchine, nostromi e marinai sono stati per generazioni le figure professionali più numerose nell'isola, ed ancora oggi l’Istituto Nautico, Francesco Caracciolo, continua a formare le più valide figure professionali nel settore. Angela Sarcinelli, Eugenio Michelino

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La stessa normativa italiana, passando da un atteggiamento strettamente vincolistico ad uno che contempla anche la valorizzazione e la fruibilità, sembra far intendere che non è più sufficiente conservare: la salvaguardia di un luogo o di un edificio in modo statico, con vincoli sia pure rigorosi, non basta ad assicurarne una duratura vitalità, occorrerà far si che le qualità paesistiche ed architettoniche possano tradursi in una inesauribile risorsa. Il riuso di edifici storici è una tipologia d’intervento che può certamente risultare vantaggiosa da un punto di vista economico: costituisce una promettente strategia di conservazione dal degrado e dall’abbandono e può produrre indubbi benefici nell’ambito urbano, ma è anche una procedura che può presentare notevoli rischi per la tutela del patrimonio storico architettonico, se non viene realizzata nel pieno rispetto dell’autenticità e della identità, delle caratteristiche storiche ed artistiche, nonché culturali, conservate o rintracciabili, al fine di garantire la fruizione e la conoscenza del bene. In questa sede ci preme richiamare come il ruolo del Comune può essere determinante nel promuovere una strategia di valorizzazione e gestione dei beni, in quanto possiede quegli elementi di conoscenza, valutazione e scelta politica che dovranno indirizzare qualunque percorso progettuale affinché la realizzazione del progetto di recupero sia frutto della partecipazione e della collaborazione non solo di esperti del settore, ma anche del coinvolgimento della popolazione, degli operatori turistici locali e degli imprenditori.

Il turismo oggi: ripartire dalla portualità Navigando intorno all’Isola si possono individuare quattro realtà portuali, la cui distinzione tipologica è alquanto articolata e fa riferimento sia all’esclusività o meno della struttura per il diporto nautico, sia alla dotazione di servizi: a nord la Marina di Sancio Cattolico lungo la quale trovano posto sia il Porto Commerciale e Peschereccio (foto 1), che il porto turistico Marina di Procida (foto 2); a sud-est la Marina di Corricella (foto 3), con il porticciolo peschereccio; a sud-ovest con la Marina di Chiaiolella (foto 4), prettamente porto turistico. La loro presenza sul territorio, è garanzia dell’accessibilità dal mare anche se la ricettività portuale presenta delle difficoltà: l’Isola si trova nella necessità di dover completare ed adeguare le infrastrutture presenti, non solo per soddisfare le richieste di mercato ma anche per riqualificare il rapporto tra i porti e il territorio creando un contatto immediato tra il turista ed il luogo, che coinvolge non solo la comunità portuale, ma anche la comunità che ci vive. Le strutture portuali sono da considerarsi il fulcro dell’offerta per il diporto nautico, l’elemento che costituisce l’interfaccia mare-terra, ossia il punto di collegamento tra la navigazione ed il territorio. Pertanto, il Porto non deve essere considerato una realtà a se stante, assimilabile ad un parcheggio di barche, ma va considerato come porta d’ingresso e quindi parte di un sistema più ampio nel quale si intrecciano innumerevoli fattori, primo fra tutti il rapporto che si crea non solo con l’ambiente, inteso come natura da salvaguardare, ma anche come luogo, nell’accezione più ampia di realtà locale in cui va ad insediarsi, ricco di suggestione e di fascino, luogo di passaggio e di incontro di uomini con saperi diversi, capaci di innescare nuovi modelli di relazione con il territorio. Il progetto propone una rivisitazione delle aree portuali secondo un concept innovativo ma fortemente integrato nella realtà territoriale, non isolando i porti ma ricontestualizzandoli ricucendoli con il tessuto urbano storico alle loro spalle, mediante una messa a sistema di tutti i porti, in modo tale che persone e merci possano muoversi in un percorso fluido, e la valorizzazione estetica sotto il profilo sia funzionale che formale, derivante dal rapporto tra le sue specificità ed il disegno del territorio. L’incentivazione all’adeguamento di porti all’interno di bacini già esistenti, è una scelta che presenta rilevanti vantaggi sia di carattere economico, sia di carattere paesaggistico-ambientale. Inoltre la riqualificazione, la riorganizzazione ed il riuso delle aree portuali, hanno l’obiettivo di far scattare una collaborazione tra competenze portuali e competenze urbane nell’ottica di un miglioramento reciproco per il raggiungimento di una qualità urbana sostenibile e duratura. La crescita del turismo nautico, potrebbe creare un processo di reazione a catena, favorendo l’occupazione, l’espansione di attività economiche e commerciali legate al mondo del turismo nautico che coinvolgerebbe l’intero indotto del territorio che vive alle sue spalle, creando nuove centralità urbane e territoriali, quali piazze pubbliche, percorsi belvedere e waterfront attrezzati legati alle attività turistico-culturali e al tempo libero4. E’ evidente quindi, che non è sufficiente la quantità dei posti barca a qualificare una struttura ed il territorio in cui essa è inserita, ma la qualità dei servizi offerti. Far approdare il turista in una struttura sicura e che soddisfi le sue esigenze e necessità, è sicuramente un obiettivo al quale tendere e può essere la carta vincente per rapire il turista, farlo immergere nella realtà del luogo e far si che egli scelga di approdare in questi porti anziché in altri. 4

Chi utilizza unità da diporto per attività di turismo e ricreative, incide su due aspetti in particolar modo: l’uso dell’imbarcazione e l’impatto sul territorio, generando un indotto fortemente legato ai costi di ormeggio e manutenzione delle unità da diporto e alla capacità di spesa dei diportisti sul territorio: trasporto (parcheggio, taxi, trasporto pubblico); alloggio (alberghi, bed & breakfast, camere); ristorazione (generi alimentari, bar, ristoranti); shopping (articoli nautici, giornali, abbigliamento, elettronica); intrattenimento e cultura (musei, spettacoli, sport, visite guidate).

Angela Sarcinelli, Eugenio Michelino

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R.R.R.Procida da Reinventare

Figura 1. Marina di Sancio Cattolico: lo sviluppo storico-urbano

Figura 2. Marina di Sancio Cattolico: lo sviluppo storico-urbano

Figura 3. Marina di Corricella: lo sviluppo storico-urbano

Figura 4. Marina di Chiaiolella: lo sviluppo storico-urbano

Angela Sarcinelli, Eugenio Michelino

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R.R.R.Procida da Reinventare

Tra storia e prospettive: il Palazzo d’Avalos e l’ex Penitenziario Intorno al Palazzo d’Avalos e all’ex Penitenziario (foto 5), ha ruotato per secoli la storia e il destino di Procida e dei suoi abitanti: dai tempi dei Borboni e fino alla Repubblica, Procida è sempre stata nota «per un’unica, vera presenza incombente: il carcere, non certo il mare»5. Nel 1988, il Ministero di Grazia e Giustizia, decise di chiudere l’intero Complesso e per lungo tempo si è sognato sulle possibilità del suo recupero. Infatti, tale struttura rientra nei beni demaniali dello Stato6 e il 13.02.2013, per effetto del federalismo demaniale, il sindaco di Procida ha firmato, con il Ministero dei Beni Culturali e l’Agenzia del Demanio, un accordo di programma con Piano di valorizzazione, di concerto con gli altri Enti7, grazie al quale si concluderà l’iter del trasferimento, a titolo non oneroso, del bene al Comune, affinché possano essere perseguiti gli obiettivi di tutela, di valorizzazione e di gestione finalizzati alla crescita sociale, culturale ed economica dell’isola volta allo sviluppo di un turismo culturale e sostenibile. Nonostante l’intero complesso sia sottoposto a vincolo di tutela «per l’alta valenza storico artistica degli immobili che lo compongono»8, è stato abbandonato a se stesso se non per interventi di restauro urgenti ad opera della Soprintendenza, ed oggi è possibile ammirare solo le mura dall'esterno. Nell’ambito dell’attuale crisi economica, la possibilità di donargli una terza vita, gioca un ruolo importante non solo perché rompe i recinti che lo rendono separato dall’Isola, ma può rappresentare un’opportunità di grande interesse sul piano della competitività e del posizionamento di Procida sul mercato delle destinazioni turistiche. Il proposito di conciliare il vincolo storico con un riuso culturalmente ed economicamente sostenibile, non è facile da mettere in atto dovendo integrare il rispetto della memoria dell’Isola, la necessità di tutelare le qualità architettoniche dell’edificio e la capacità di attrarre investimenti privati9 idonei ad un recupero volto ad assicurare il restauro conservativo, il consolidamento e l’adeguamento impiantistico. Bisogna “reinventare” luoghi e destinazioni, trasformando l’intero Complesso in un “distretto culturale” progettato per diventare non semplice luogo di passaggio, ma di conoscenza e strumento di perpetuazione delle tradizioni. Tra le alternative pensate e proposte, troviamo un ricco ventaglio di idee, più e meno condivisibili, alcune scontate, altre assurde10. L’ipotesi di destinarlo di nuovo a carcere sembra impossibile, sia per le strutture inadeguate ed obsolete per le nuove regole carcerarie, ma soprattutto nel rispetto di una comunità che vive numerosi disagi e cerca di reinventarsi per non morire. L’ipotesi di restauro e riuso presentato nel Piano, individua, come destinazioni compatibili con la tutela del bene11, funzioni legate da un lato alla cultura, all’alta formazione e alla creatività: visita museale, scuola e spazi per master, laboratori, vigna e orto; dall’altro all’accoglienza di un turismo di qualità (culturale e naturalistico) e destagionalizzato (albergo, sale congressi, ristorazione, intrattenimento, benessere); nonché un percorso pubblicamente fruibile in parte museale, in parte storico-paesaggistico. Procida ha tanto da raccontare e l’edificio che meglio si presta a raccogliere le memorie dell’Isola è sicuramente il Palazzo, in cui alcuni ambienti saranno destinati alla visita museale che narrerà non solo le vicende storiche dell’Isola ed il suo legame vitale con la marineria, ma anche le memorie del carcere. Non bisogna dimenticare infatti che il carcere, oltre ad influire profondamente sulla vita dei procidani12, ha una storia in sé da raccontare, in quanto testimone della riforma carceraria Borbonica13.

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Tratto da Elsa Morante, L’isola di Arturo. In seguito alla legge 42 del 2009 “Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione”, il Consiglio dei Ministri del 20.05.2010 ha approvato il D. Lgs. n. 85 sul federalismo demaniale, pubblicato sulla G.U. n.134 dell’11.06.2010, nel quale, tra gli immobili da trasferire agli Enti locali, venne inserito l’ex Carcere di Procida, con l’annessa area giardino in località Spianata. 7 La Direzione Regionale della Campania per i Beni Architettonici ed il Paesaggio del Ministero dei Beni Culturali e della Soprintendenza per i Beni Architettonici Paesaggistici Storici Artistici ed Etnoantropologici per Napoli e Provincia. 8 Tratto dalla relazione di vincolo imposto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali con Declaratoria del 23.01.1999. 9 Il costo complessivo dell’opera è stato stimato in 70 milioni di euro. Occorrono quindi ingenti investimenti che il solo bilancio dell’Ente locale non è in grado di assicurare, risultando necessario il coinvolgimento di capitali privati e l’accesso, in parte, a fonti di finanziamento pubbliche, nell’ordine del 20%. 10 In un primo momento fu messo in vendita dallo stesso Ministero per 27.000.000 €, poi ci furono i tentativi falliti di gestione in un mix di pubblico e privato, prima della Fiat Engineering (1989) poi della Fondazione Idis-Città della Scienza (1997). Qualche anno più tardi (2000), ad opera del Comune e della Soprintendenza, si pensò di trasformare la parte ottocentesca in un grande albergo di lusso con annessi centri benessere e sportivi e la parte cinquecentesca in una cittadella dell’arte, collegando attraverso gli antichi cunicoli il sito alla Marina di Corricella, un investimento di circa 50.000.000 di €. Addirittura qualcuno sussurrò l’ipotesi di trasformarlo in casinò. 11 Delibera di Giunta Comunale n.191/2010. 12 Per anni hanno adattato anche la propria economia a quella realtà. Infatti, nel 1988, la decisione del Ministero di Grazia e 6

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Inoltre Procida, essendo stata eletta a luogo preferito per la caccia dai Borboni, è caratterizzata dalla presenza di altri siti borbonici che potrebbero essere messi in rete in un percorso storico-architettonico dedicato. Il complesso ospiterà anche funzioni legate alle arti e ai mestieri della tradizione, preservando e tutelando la conoscenza dei Misteri, dei ricami e degli abiti14, per non disperdere il loro valore identitario. L'isola ha anche attratto in ogni tempo civiltà diverse ispirando poeti, scrittori, musicisti e uomini di ogni campo artistico nonché registi famosi15, a testimonianza che quest’Isola è stata e potrà essere luogo di ricerca ed ispirazione riservando spazi come “residenza ed atelier degli artisti”. Il Palazzo ospiterà anche una Scuola di alta formazione con due indirizzi, uno dedicato alla cucina mediterranea e l’altro alla tutela dell’ambiente ed allo sviluppo dell’ecoturismo16 nonché servizi funzionali alle attività ricettive del sistema alberghiero, quali un Polo congressuale, sale per l’intrattenimento e per la ristorazione.

Foto 5. Planimetria e fotografia dall’alto del Complesso

Realizzare un polo alberghiero tradizionale, significherebbe contraddire la vocazione dell’albergo diffuso, pertanto l’intervento potrebbe rientrare nel progetto «Gli alberghi della cultura»17: le diverse tipologie di Giustizia di chiudere il carcere, concluse un vicenda che durava da dieci anni e che vedeva in campo due fazioni, un pro e l'altra contro il carcere: i procidani si rivolsero alle autorità chiedendo di non perdere il lavoro legato alla presenza del carcere. 13 Tale riforma, tenne conto dell’umanità del condannato, trasformando e migliorando le condizioni di vita dei carcerati, donandogli dignità nonostante la loro condizione di reclusi e considerando che i luoghi di detenzione dovevano essere anche luoghi di redenzione al fine di permettere loro di iniziare una nuova vita, una volta espiata la pena (vedi nota n. 2). Nel penitenziario sono stati reclusi criminali comuni, martiri dei Borboni, uomini politici, grandi patrioti come Luigi Settembrini e Cesare Rosaroll, gerarchi fascisti quali Rodolfo Graziani, Julio Valerio Borghese e Giacomo Acerbo, esponenti dei Nap e delle Brigate Rosse e superboss della camorra come Cutolo e Giuliano. 14 La processione del Venerdi Santo rappresenta la forte identità religiosa ed etnografica dell’isola. Nata come corteo penitenziale è oggi costituita dai “misteri“, che seguono “la tromba ed il tamburo” e precedono le statue a soggetto religioso fisso e infine il Cristo Morto, e rappresentando le scene del Vecchio Testamento e del Vangelo percorrono, sorrette a braccio, il centro storico dell’isola, da Terra Murata a Marina Grande. I ricami in oro degli abiti di Graziella, corredi di lino che, fino al 1980, era filato dai carcerati. L’abito tradizionale delle donne procidane racconta il sostrato storico dell’isola evidenziandone i profondi legami con le diverse culture del bacino mediterraneo. Esso è indossato da Graziella la protagonista dello scritto di Alphonse de Lamartine, contaminato dalla moda delle corti europee e storicamente rappresentato dai vedutisti ottocenteschi. 15 Procida è stata culla e luogo amato da artisti, uomini e donne, di cultura del passato e del presente come Virgilio, Stazio ed Ovidio, Giovenale e Boccaccio, da Alphonse de Lamartine, Vittorio Sciajola, Elsa Morante, Cesare Brandi, Juliette Bertrand, Vera Vergani, Concetta Barra, Burri come Josif Brodskij, Peppe Barra, Maria Dragoni, Maria Gloria Bicocchi, Daniel Buren, Suad Amiry, Almamegretta. Il grande musicista Gioacchino Rossini ha dedicato una composizione musicale a Procida. Il borgo dei pescatori della Marina Corricella è stato scenografia di film quali “Il postino” (1994), “Il talento di Mr. Ripley” (1999), remake di “Plein soleil” (1962) girato sempre sull’isola e del più recente “La kryptonite nella borsa” (2011). 16 Coinvolgendo l’Istituto Universitario dell’Orientale, la Stazione zoologica delle biodiversità marine Anton Dornh, la Riserva marina del Regno di Nettuno e la Riserva nazionale di Vivara. 17 L'albergo diffuso è una proposta concepita per offrire agli ospiti l’esperienza di vita in un centro storico potendo contare su tutti i servizi alberghieri, cioè su accoglienza, assistenza, ristorazione, spazi e servizi comuni per gli ospiti, alloggiando in case e camere che distano non oltre 200 metri dal “cuore” dell’albergo nel quale sono situati la reception, gli ambienti comuni, l’area ristoro. Il Progetto Hotel della Cultura (HdC) è stato promosso da ANCE e da Civita con il sostegno di Arcus e la collaborazione di Unicredit e Federalberghi, nell’obiettivo di fornire un contributo ai processi di valorizzazione territoriale che fanno leva sul vasto patrimonio storico-culturale nazionale. L’obiettivo è dare vita ad un nuovo sistema di ricettività alberghiera che si proponga come nodo di accoglienza dei flussi di domanda più sensibili alla fruizione dei beni culturali. Riqualificando edifici storici non utilizzati, HDC è concepito per promuovere l’integrazione tra offerta turistica e offerta culturale del Angela Sarcinelli, Eugenio Michelino

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accoglienza, dalle camere meditative a quelle storico-paesaggistiche, verranno collocate nei corpi di fabbrica borbonici, con l’inserimento di attività commerciali, artigianali, terziario avanzato, integrabili con la stessa destinazione alberghiera, mentre la centralità delle funzioni e dei servizi comuni, resterà nel Palazzo. In questo modo, il turismo universitario e congressuale possono favorire la destagionalizzazione delle permanenze sull’Isola, insieme a scambi culturali, crescita sociale ed intellettuale per la popolazione locale. Per la Spianata o Vigna, si prefigura una valorizzazione rurale in grado di riportare il tenimento agricolo alle tradizionali produzioni agricole (vino, carciofi, limoni e ortaggi) che grazie ai prodotti a km 0 di terra, con quelli a miglio 0 di mare, offrono un soggiorno all’insegna del turismo enogastronomico seguendo la logica dell’agriturismo per un turismo esperienziale di carattere agricolo ed artigianale attraverso l’organizzazione di corsi tesi a mostrare le tecniche di produzione e le tradizioni isolane. Una sezione del tenimento agricolo sarà sistemata ed adibita a parco artistico sia per lo svolgimento delle tradizionali manifestazioni18, sia per consentire la sua libera fruizione durante tutto l’anno ai procidani. Proprio nella Spianata si concluderà il percorso storico-paesaggistico e liberamente fruibile, sulla cinta muraria della cittadella fortificata, che consentirà una visione dall’alto della struttura, stabilendo un legame con il Palazzo e di tutto il Complesso con il mare, prevedendo anche la riqualificazione dei tracciai che lo collegavano alle Marine di Sancio Cattolico e di Corricella. A prescindere dall’ipotesi della risalita meccanizzata, che dal porto di Marina Grande conduca a Terra Murata, bisognerebbe risolvere il problema del traffico creando dei collegamenti tra i porti ed il Complesso, trasmettendo un immagine del territorio più organizzata. Il carcere così resta il cuore dell’isola, non solo perché ne ha segnato la storia, ma perché ne segnerà sicuramente l’avvenire.

Conclusioni Se l’obiettivo è quello di sviluppare un “turismo sano” per il turista ma che porti benessere anche al territorio, bisogna offrire servizi adeguati, ampliare e qualificare l’offerta turistica, rivalorizzare i vecchi eventi, crearne dei nuovi, puntando sulle peculiarità ed eccellenze che il territorio è in grado di esprimere: ciò di cui ha bisogno l’Isola è uno sprone al miglioramento sia dal punto di vista socio-culturale, sia dal punto di vista dell'accoglienza, nonché economico, perché il turista contemporaneo non è alla ricerca di luoghi da visitare ma di emozioni da vivere. Pertanto la risposta potrebbe trovarsi nella riconversione dell’economia marinara, verso un turismo nautico attrezzato collegato alle tradizioni culturali e alle bellezze paesaggistiche ed architettoniche dell’isola, cogliendo le opportunità occupazionali e progettandone la rifunzionalizzazione nel rispetto dei luoghi, soprattutto in questo territorio dove qualsiasi altro insediamento produttivo risulterebbe problematico. L’iniziativa si colloca, dunque, all’interno degli obiettivi di innovazione, di innalzamento qualitativo, di rafforzamento della competitività del sistema turistico locale, nella consapevolezza che l’offerta culturale rappresenta la massima espressione dell’identità e dell’immagine dell’Isola, cui deve conseguire anche un’adeguata specializzazione del comparto ricettivo, da mare e da terra. L’avvenire dell’isola dipende dalla direzione che saprà prendere la cultura del progetto affinché vengano salvaguardati i tanti valori storici, urbanistici e paesaggistici: il tema del recupero, concepito senza stravolgere ne utilizzare nuove risorse, ne via mare ne via terra, va affrontato a diverse scale, non solo a quella più propriamente edilizia ma anche a quella storica ed urbana, nonché guardare alle tradizioni dell’Isola, calando il progetto in una dimensione multidisciplinare, trasmettendo così un’immagine ed un’organizzazione del territorio più attraente per i visitatori e che possa far parlare dell’Isola anche al fuori di essa in modo tale da esportare la cultura locale e far circolare un turismo che vada al di là del turismo balneare. Bisogna sottolineare però il dilemma su modalità e qualità dell'azione progettuale, sulle contraddizioni istituzionali degli strumenti urbanistici, sulla difficoltà di cooperazione tra amministrazioni e cittadini, affinché l’isola non muoia e che non diventi una società senza memoria, ma che continui a produrre ricchezza recuperando gli spazi dai processi produttivi tradizionali nell’ottica di uno sviluppo sostenibile inteso come sviluppo sociale, economico, ambientale e culturale, auspicando scenari futuri nei quali il concetto di turismo coinciderà sempre più con quello di cultura ed ambiente.

territorio. In questo senso, il turista sceglie l'albergo, non solo per il sistema di accoglienza che è in grado di offrire, ma anche e soprattutto per la sua capacità di proporre i costumi e lo stile di vita delle tante culture locali di cui è ricca l’Italia. 18 Tra gli eventi esistenti di maggiore rilievo culturale vi è il premio letterario “l’Isola di Arturo”, mentre di carattere più popolare e con un coinvolgimento diretto della cittadinanza si citano "La Sagra del Mare" (con l’elezione della "Graziella"), "La Sagra del Limone", la "Sagra del vino" e "Portoni Aperti". Angela Sarcinelli, Eugenio Michelino

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Bibliografia

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Ed. Flaccovio, 2010

Articoli su “Il Mattino”, quotidiano di Napoli, vari “Il Golfo”, quotidiano di Ischia e Procida, vari “Procida Oggi”, quotidiano di Procida, vari

Angela Sarcinelli, Eugenio Michelino

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Oltre la dismissione: pratiche di riciclo di architetture e tessuti industriali

Oltre la dismissione: pratiche di riciclo di architetture e tessuti industriali Giulia Setti Politecnico di Milano DAStU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani) Email: giulia.setti@hotmail.it Tel: +39 333 5741694

Abstract Il testo affronta il tema della dismissione industriale, con particolare riferimento alla possibilità di riciclare/recuperare manufatti e tessuti dismessi. Inizialmente,viene costruito un confronto critico tra le posizioni teoriche sul tema della dismissione e del riuso di strutture industriali, arrivando a delineare tre casi studio paradigmatici che mostrano quali strategie possano essere utilizzate nei processi di recupero. Il testo propone una rilettura degli studi sul fenomeno delle shrinking cities condotto sui territori dismessi del contesto americano, oltre che due sperimentazioni progettuali realizzate su di un’industria dismessa a Bergamo e sul territorio produttivo di Aubervilliers, Parigi. Entrambi i casi illustrano operazioni sui manufatti (innesti, stratificazioni) in grado di permettere l’insediamento di nuove attività produttive. Il contesto francese, invece, mostra come la compresenza di tempi diversi della dismissione porti a costruire scenari di densificazione/rarefazione del tessuto produttivo, immaginando di anticipare diversi usi e sviluppi di tali ambiti. Parole chiave Densificazione/rarefazione, tempi della riconversione, infrastrutturazione

La dismissione: costruzione di uno sfondo critico «(…) l’idea di descrivere proprio queste dispersioni; di cercare se, tra quegli elementi che, con certezza, non si organizzano come un edificio progressivamente deduttivo né come uno smisurato libro che si venga scrivendo poco a poco nel tempo, (…) non si possa individuare una regolarità: un ordine nella loro successiva comparsa» (Foucault, 2011: 52) Parlare di dismissione nella città contemporanea significa introdurre una problematica attuale e stringente per il futuro prossimo dei territori urbanizzati. Ciò che è dismesso viene abbandonato, perde la sua funzione e i suoi caratteri peculiari; la dismissione, dunque, interessa ciò che è caduto in disuso, che, per diverse cause ha perso la sua condizione originaria. Il processo di abbandono innesca fenomeni che interessano, non soltanto il manufatto, ma l’intero contesto urbano limitrofo. Nel panorama contemporaneo, la dismissione ha assunto caratteri molto diversi, se fino all’inizio degli anni Novanta, il concetto di dismissione interessava ampie aree industriali o produttive abbandonate e soggette a progetti di rideterminazione della forma urbana, oggi i fenomeni di dismissione producono paesaggi di rovine e scarti, i ‘drosscapes’1 descritti da Alan Berger, ampie forme di degrado verso le quali il progetto di architettura deve interrogarsi. Inoltre, la dismissione riguarda sempre più diverse tipologie urbane e architettoniche, l’interesse della ricerca presentata è legato ai caratteri del fenomeno della dismissione delle strutture industriali.

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Con riferimento al testo di Alan Berger, Drosscape. Wasting Land in Urban America, che descrive efficacemente le conseguenze della dismissione nei contesti urbani e produttivi dei territori americani.

Giulia Setti

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Oltre la dismissione: pratiche di riciclo di architetture e tessuti industriali

Abbandoni, scarti e frammenti La questione dell’abbandono degli spazi produttivi apre ad una serie di riflessioni sul recupero (o riciclo) delle strutture architettoniche interessate da tale fenomeno. Ciò che viene dismesso è un materiale estremamente diverso da ciò che ci si immagina, non si dismettono solamente le vecchie strutture industriali o i luoghi produttivi ai margini del tessuto urbano, al contrario, si sta assistendo alla crescita di una forma di «abbandono del nuovo» (Ricci, 2011: 65) che interessa gli edifici recenti delle città contemporanee. Si tratta di una forma di abbandono che esprime una condizione di disagio nuova, davanti alla quale l’urbanistica e l’architettura non possiedono gli strumenti di intervento e di conoscenza necessari. Una serie di studi su tali fenomeni sono stati condotti a partire dagli inizi degli anni Duemila, in particolare da Philip Oswalt che ha portato sul dibattito pubblico il tema della contrazione dei tessuti urbani, aprendo la strada a forme di recupero dell’esistente abbandonato e in stato di rovina. Il fenomeno delle cosiddette «shrinking cities» (Oswalt, 2006a, 2006b) descrive queste nuove forme di abbandono: strade, mercati, industrie, abitazioni e parchi nulla viene risparmiato dal declino degli insediamenti e delle forme produttive che costruiscono le città. La crisi economica, che ha toccato il territorio europeo e americano, ha portato alla progressiva riduzione delle attività produttive e, conseguentemente, ad una contrazione del tessuto urbano. I temi dello scarto, della rovina e del frammento definiscono una nuova condizione con la quale le città devono confrontarsi. Tra le teorie sviluppatesi in merito ai fenomeni di dismissione contemporanei diviene interessante porre a confronto due modi diversi di intendere l’abbandono, da un lato la «decrescita serena» (Latouche, 2008), dall’altro il concetto di recupero/riciclo così come viene descritto da Paola Viganò e Kevin Lynch. La teoria di Latouche liquida semplicisticamente il problema della dismissione e della contrazione delle città, sostenendo la rinuncia alla crescita dei tessuti urbani e professando un ritorno ad un ritmo lento di vita e di consumo dei suoli. Una pratica di difficile attuazione se si pensa allo sfruttamento praticato sui suoli per la produzione industriale e alle condizioni di degrado e inquinamento che queste rovine contemporanee producono. Dunque, serve andare oltre le rivendicazioni ideologiche per affrontare ciò che rappresenta «una forma inedita di dismissione (…)». Si tratta di «dinamiche di svuotamento e sottoutilizzo che investono anche gli spazi della produzione» (Bianchetti, 2011: 46), si percepisce l’abbandono progressivo degli spazi edificati e questo porta a mettere in campo nuovi strumenti, nuove pratiche di recupero dell’esistente. L’abbandono diventa una fase nella vita del manufatto, non la fine, ma un nuovo inizio. Paola Viganò sostiene che: «Riciclare, dunque, non è semplicemente riusare, ma seguendo l’analogia con il mondo organico, proporre un nuovo ciclo di vita» (Viganò, 2011: 103). Un manufatto dismesso, così come una porzione di tessuto urbano, non è un’entità fissa, ma «ha la capacità di rigenerarsi al suo interno, di superare un ciclo di vita e di declino reinterpretando se stessa» (Viganò, 2011: 102). Si possono ripensare, dunque, i termini della dismissione, considerando il declino come un momento, una fase nell’esistenza di un manufatto e considerando la possibilità di aprire la strada al riuso di tali oggetti. E’ possibile “programmare il declino” (Lynch, 1992: 233) degli edifici? Immaginare e pianificare le fasi di abbandono per studiare la durata dei manufatti, per comprendere i gradi di permanenza e di variabilità che questi producono. Emergono, dunque, una serie di riflessioni intorno alle pratiche di riciclo, necessarie a impedire la costruzione di nuovi edifici, in un momento di saturazione del suolo urbano, serve ri-costruire un discorso progettuale fondato sull’esistente. Il testo e la ricerca in corso introducono la riflessione sul riuso dei materiali industriali dismessi, aprendo sia il campo agli studi teorici legati a tale questione, sia proponendo una sperimentazione progettuale che indichi alcune strategie di recupero possibili per i luoghi dell’abbandono. Il lavoro racconta di un percorso che attraversa le diverse scale del progetto di architettura, la scala architettonica e quella urbana, fino ad arrivare al più vasto sistema territoriale. La ricerca non dà risposte assolute, ma propone strategie; si interroga, attraverso il progetto, davanti ad un fenomeno decisivo per la struttura urbana dei territori industrializzati e urbanizzati.

Decostruire per ricostruire: il contesto americano Il testo propone lo studio di tre casi paradigmatici, ma estremamente diversi tra loro, in grado di declinare la questione della dismissione industriale a scale diverse e secondo orientamenti progettuali nuovi. Il primo episodio riguarda i processi di decostruzione in corso in alcune città americane ed europee; il contesto americano, in particolare, rappresenta lo scenario principe di questo fenomeno che ha visto, dapprima accrescere il proprio benessere grazie all’avvento dell’industrializzazione, sostenuta dall’entusiasmo del capitalismo americano, in seguito, l’abbandono delle strutture produttive ha prodotto una vasta estensione di scarti e macerie. Si tratta di suoli dove il vuoto diventa lo spazio urbano predominante; dove «alla densità si è sostituta la rarefazione: un’elegante rarefazione» (Coppola, 2012: 4). L’abbandono produce distruzione: gli scarti, le macerie, i resti vengono demoliti sistematicamente con una velocità a tratti impressionante2. 2

Si parla di distruzioni che vanno dalle due alle sette case al giorno nella sola Flint. Fonte: Janz Wes, Deconstructing Flint, Geneese Institute, giugno 2007.

Giulia Setti

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Oltre la dismissione: pratiche di riciclo di architetture e tessuti industriali

Il caso di Buffalo mostra come la demolizione abbia assunto vaste proporzioni, arrivando ad auspicare la possibilità di pianificare una serie di demolizioni annuali; qui, dunque, la demolizione diviene una risposta, distruttiva, al problema della dismissione. La bellezza delle architettura industriali, seppur in fase di rovina, ha portato a promuovere un progetto chiamato ‘Buffalo Reuse’3, che sta cercando di affrontare il tema della dismissione e degli scarti, da questa prodotti, come un’opportunità di crescita per la città, di riflessione sulle sue memorie. Ciò che il progetto propone è di prefigurare una «via più sostenibile alla distruzione» (Coppola, 2011: 76); pur riconoscendo la necessità della demolizione, la sperimentazione in corso decostruisce per ricostruire, ricicla, cioè, parti ottenute dallo smontaggio di edifici in rovina per nuovi usi. Questo processo ha consentito di ‘salvare’ molto materiale, ancora in buono stato, dalla discarica; il progetto teorizza la possibilità di arrivare ad una decostruzione totale, con un tasso di riciclabilità molto elevato, che possa permettere di evitare la demolizione dei manufatti dismessi. La pratica di decostruzione consente non solo di recuperare i materiali, ma anche di poterli nuovamente impiegare in costruzioni ex-novo, dunque, il declino e la rovina divengono un episodio all’interno del ciclo di vita dei materiali, non ne rappresentano la fine, bensì un nuovo inizio. La sfida è pensare ad una città dove i tessuti e i manufatti possano essere modificati, per far fronte a nuove esigenze produttive o abitative, lavorando sugli spazi residuali, sui vuoti interstiziali, sulle stratificazioni progressive di segni e memorie, senza cancellare l’esistente. Il dibattito contemporaneo ha portato a far emergere come il tema, oggi più attuale legato alle trasformazioni dei tessuti urbani, sia quello del riciclo; dunque il ‘costruito’ è un patrimonio da conservare e da modificare. Il concetto di ‘modificazione’ evoca la riflessione di Vittorio Gregotti: «(…) la nozione di appartenenza articola l’interesse per la storia della disciplina nella sua continuità, l’idea di luogo, di materiale come fondamento del progetto, di relazioni esistenti per le quali il processo di progettazione è in primo piano, processo di modificazione» (Gregotti, 1984). Riusare, recuperare, modificare sono azioni progettuali che descrivono il rifiuto della tabula rasa, della cancellazione delle tracce e dei segni dei luoghi per favorire l’integrazione tra nuovo ed esistente. Affrontare il tema del riciclo dei tessuti industriali presuppone considerare non soltanto la componente architettonica, ma aprire la riflessione intorno al riciclo delle acque e degli impianti energetici necessari per ri-consolidare i suoli sconvolti della post-dismissione.

Riconvertire architetture industriali: il caso dell’industria OTE I successivi due casi studio, dunque, affrontano la prospettiva del riuso o riciclo con uno sguardo ampio, trasversale ai temi del recupero, sia di energia che di risorse idriche: si tratta di contesti sconvolti dalla dismissione, in cui manca anche l’infrastrutturazione di base necessaria a consentire una ripresa delle attività produttive ed economiche. Riusare o recuperare un suolo significa ricostruire una rete di servizi necessari, si tratta di re-infrastrutturare un luogo, si può dire che «intendiamo per infrastruttura tutto ciò che consente (…) a una società e a un’economia di funzionare, crescere, mutare nel tempo» (Secchi, 2012: 475) Il primo caso riguarda una sperimentazione progettuale condotta sull’industria OTE (Officine Trasformatori Elettrici) a Bergamo, che si pone l’obiettivo di costruire una serie di buone pratiche per la risignificazione di contesti industriali dismessi. L’industria OTE si colloca sul versante orientale della città ed è interessata dalla presenza della rete ferroviaria che la collega con il più ampio sistema industriale della Valle Seriana. La struttura industriale, oggi dismessa, è interessata da ampie forme di degrado sia dei suoi spazi interni che del suo immediato intorno. Le strategie proposte per la riconversione del manufatto tengono in considerazione sia la qualità dello spazio architettonico esistente, sia l’identità produttiva del contesto in cui la OTE è inserita. La riconversione prevede una trasformazione morfo-tipologica che consenta di re-inserire funzioni produttive, orientate allo sviluppo di attività scientifiche e di ricerca, nonché di start-up e incubatori di impresa. (Fig. 1-2)

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Buffalo Reuse viene fondato nel 2006 da Michael Gainer e sviluppa la filosofia del recupero attraverso una demolizione selettiva dei materiali in rovina.

Giulia Setti

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Oltre la dismissione: pratiche di riciclo di architetture e tessuti industriali

Figura 1. Industria OTE, strategie di intervento sul manufatto: innesti, stratificazioni, sovrascritture.

Figura 2. Industria OTE, struttura architettonica del manufatto, vista dell’esterno e degli interni.

Il manufatto viene conservato e si lavora attraverso operazioni puntuali, con demolizioni selettive di alcune superfetazioni che consentono di leggere la stratigrafia dei segni impressi sull’oggetto architettonico. Si tratta di intervenire con innesti di nuovi volumi, stratificazioni tra il costruito e le addizioni successive, svuotamenti e demolizioni parziali o estensioni di parti; operazioni non soltanto spaziali ma legate alla necessità di costruire uno spazio flessibile, capace di accogliere spazi produttivi, commerciali e residenziali. Un abaco di possibili soluzioni progettuali utili per il riuso di strutture produttive, segnate dall’abbandono, ma capaci di ricostituirsi quali dispositivi urbani necessari alla città.

Riconvertire tessuti industriali: il caso di Aubervilliers e Saint Denis Il terzo caso presenta, invece, la questione della dismissione industriale a scala territoriale, interessa infatti il contesto urbano di Aubervilliers e Saint Denis, a nord di Parigi oltre la cintura urbana del boulevard Périphérique. La declinazione del tessuto industriale di Saint Denis va oltre il concetto classico di dismissione, qui il tessuto ha subito un intenso processo di degrado che ne ha compromesso non solo le strutture architettoniche, ma anche il sistema di reti di infrastrutture e servizi necessari per un riciclo completo dei suoli. La componente temporale diventa elemento di indagine decisivo per comprendere il carattere di questi luoghi e quali possibili scenari di riconversione siano ipotizzabili. Come il tempo agisce sui tessuti dismessi, modificandoli secondo differenti gradi di consolidamento, lasciando spesso luoghi in attesa di trasformazione? Per ciascun tempo della dismissione viene proposta una strategia di intervento, una possibilità di recupero. Un primo tempo individuabile è il tempo dell’abbandono: edifici che cadono in progressiva rovina, fatiscenti, davanti ai quali la demolizione diviene pratica necessaria per il recupero dei suoli attraverso nuovi insediamenti, dunque uno scenario di rarefazione e parziale cancellazione di alcune tracce. (Fig. 3) Un secondo tempo può essere definito tempo dell’attesa, riguarda i manufatti dismessi che mostrano la possibilità di recupero e di rigenerazione di parti, per i quali è possibile immaginare uno scenario di riconversione parziale, fatto di interventi puntuali: innesti sul costruito, stratificazioni e demolizioni parziali. Si Giulia Setti

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Oltre la dismissione: pratiche di riciclo di architetture e tessuti industriali

tratta di manufatti la cui struttura architettonica è di qualità e che sono stati recentemente interessati da forme di dismissione: è uno scenario di densificazione parziale. Il tessuto di Aubervilliers mostra, inoltre, la presenza di altre tre condizioni: un tempo di riconversione/riciclo, un tempo della rigenerazione e un’ultima fase che descrive un tempo altro, posto oltre la dismissione attuale, che, dunque, vuole prefigurare strategie future di sviluppo e implementazione dei contesti industriali.

Figura 3. Aubervilliers, dismissione industriale: tempo dell’abbandono.

Figura 4. Aubervilliers, dismissione industriale: tempo della riconversione. Strategie e scenari di densificazione.

Il tempo della riconversione interessa una serie di strutture industriali soggette ad un recupero integrale sia dell’impianto architettonico che delle funzioni produttive; si tratta di interventi puntuali che prefigurano uno scenario di riconversione ampio, di densificazione, che va ad interessare anche l’immediato contesto in grado di beneficiare delle strategie di riciclo in atto. E’ un processo di sperimentazione che rifiuta la demolizione, preservando il valore semantico del contesto. (Fig. 4) In ultima istanza, si prefigura un quarto tempo, detto tempo della rigenerazione che si compie attraverso la costruzione di nuovi insediamenti, sia di carattere residenziale che spazi urbani pubblici; prevede uno scenario che favorisca il rapporto tra il contesto dismesso, le aree vuote sensibili al mutamento e la costruzione del nuovo. E’ uno scenario ibrido, di consolidamento e densificazione, che tende a favorire l’integrazione tra il nuovo e le forme di riconversione già in atto, dove i linguaggi compositivi orienteranno le scelte successive riferite a questi luoghi. Giulia Setti

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Oltre la dismissione: pratiche di riciclo di architetture e tessuti industriali

La progressiva accelerazione temporale mette in evidenza la transitorietà del progetto di architettura se declinato in contesto deboli, privi di una struttura urbana consolidata; è in questi ambiti che il progetto di architettura deve fornire strategie che siano in grado di consolidare i tessuti esistenti. Se Aubervilliers è un tessuto di frammenti, uno spazio interrotto, il progetto di architettura deve ricostruire un’infrastruttura di base capace di ridare un’identità propria a tali contesti. Tempi della dismissione e scenari di recupero mostrano quali gradi di consolidamento e rarefazione un tessuto in dismissione può presentare, indicano quali scenari e strategie di recupero è possibile costruire, aprono alla riflessione su di un tempo prossimo, oltre la dismissione, nel quale poter immaginare un riciclo totale di tessuti e manufatti, in un lavoro critico di integrazione tra strategie di recupero, strutturazione energetica dei suoli e linguaggi architettonici.

Riciclare, riusare: pratiche per il futuro dei suoli dismessi. Conclusioni aperte Il testo pone la questione del riciclo di tessuti e manufatti industriali aprendo ad campo di applicazione teoricoprogettuale, in cui il lavoro di ricerca sui casi presentati si affianca, e trova risposte progettuali, al quadro scientifico in cui si colloca il problema della dismissione. Si propone una riflessione intorno alla costruzione semantica del concetto di abbandono, scarto e residuo, per arrivare a considerare questi materiali come materiali riciclabili. Il campo di intervento è orientato ad affrontare sperimentalmente il problema del recupero di luoghi abbandonati prefigurando una possibile via per il recupero di questi contesti. Proprio per la vastità di luoghi oggi interessati da questo fenomeno, la ricerca apre la possibilità di costruire una geografia della dismissione, ampliando il confronto anche altri contesti europei, si pensi a Lipsia, ma anche a vaste regioni del territorio italiano interessate da tali problematiche. La ricerca apre, inoltre, un possibile dialogo con le imprese, sia per cercare di comprendere come si possa conservare l’identità produttiva dei suoli industriali, sia per dare risposte concrete al problema incombente della dismissione. Le strategie proposte, infatti, mettono in luce la possibilità di riconvertire i luoghi dell’abbandono attraverso l’inserimento di nuovi spazi produttivi, che declinino le esigenze industriali contemporanee e che favoriscano l’integrazione tra produzione industriale, ricerca e strutture abitative, rifiutando la netta separazione funzionale che ha caratterizzato gran parte dell’espansione industriale nei secoli precedenti. Proprio per la complessità del tema e le sue difficili declinazioni, la questione della dismissione industriale apre al confronto tra sapere diversi: la ricerca guarda, da un lato, alle prospettive di sviluppo in campo architettonico, legate al lavoro sui manufatti e sui tessuti dismessi, dall’altro guarda ai temi energetici che non possono essere sottovalutati quando si parla di riconversione. Dare un nuovo ciclo di vita ad un luogo e recuperare manufatti sono azioni che presuppongono valutazioni sull’impatto ambientale che viene prodotto, significa costruire infrastrutture di servizi necessarie per consentire una ri-conversione produttiva di tali ambiti, restituendoli ai tessuti urbani. Il riciclo è una pratica diffusa nelle strategie evolutive delle città, la ricerca si propone di indagare nuove conformazioni spaziali, nuovi modi di abitare lo spazio residuale, lo ‘spazio tra le cose’4, di abitare i vuoti, di recuperare scarti e rovine che, spesso, l’industria lascia dietro di se.

Bibliografia Berger A. (2006), Drosscape. Wasting Land in Urban America, Princeton Architectural Press, New York. Bianchetti C. (2011), Il Novecento è davvero finito. Considerazioni sull’urbanistica, Donzelli Editore, Roma. Coppola A. (2012), Apocalypse Town. Cronache dalla fine della crescita urbana, Laterza Editori, Bari. Foucault M. (2011), L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, Rizzoli, Milano. Gregotti V. (1984), “Architettura come modificazione”, in Casabella, n. 498-499, pp. 2-3. Latouche S. (2008), Breve trattato sulla decrescita serena. Bollati Boringhieri, Torino. Oswalt P. (2006), Atlas of Shrinking Cities, Hatje Cantz Verlag, Ostfildern. Oswalt P. (2006), Shrinking Cities. Vol. 1 e 2, International Research, Hatje Cantz Verlag, Ostfildern. Ricci M. (2011), “Nuovi paradigmi: ridurre riusare riciclare città (e i paesaggi)”, in Ciorra P., Marini S., (a cura di), Re-cycle: strategie per l'architettura, la città e il pianeta, Electa, Milano, pp. 64-77. Secchi B. (2012), “Infrastrutture”, in Biraghi M., Ferlenga A., Architettura del Novecento, Einaudi, Torino. Southworth M., Andriello V. (a cura di, 1992), Kevin Lynch. Deperire: rifiuti e spreco nella vita di uomini e città, Cuen, Napoli. Viganò P. (2011), “Riciclare città”, in Ciorra P., Marini S., (a cura di), Re-cycle: strategie per l'architettura, la città e il pianeta, Electa, Milano, pp. 102-119.

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Vittorio Gregotti parla dello ‘spazio tra le cose’ durante una conferenza tenuta presso il Politecnico di Milano nel 2011, dal titolo “Architettura e postmetropoli”.

Giulia Setti

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3R e aree verdi in adozione. Potenzialità nella pianificazione urbanistica comunale

3R e aree verdi in adozione. Potenzialità nella pianificazione urbanistica comunale Cesarina Siddi Università degli Studi di Cagliari DICAAR - Dipartimento di Ingegneria Civile Ambientale e Architettura Email: csiddi@unica.it Tel: 070 6755359

Abstract Lo spazio pubblico, sistema di luoghi elettivi della vita collettiva, deve diventare elemento chiave per orientare in modo più mirato le diverse dinamiche (economiche e di mercato, socio-culturali,…) verso le concrete esigenze della città. Lo si considera in termini di armatura urbana e paesaggistica, cioè come sistema di strutture attraverso le quali l’insediamento si configura e allo stesso tempo configura il paesaggio. In questo senso gli si riconosce un ruolo prioritario/privilegiato nel perseguire il miglioramento degli standard di sostenibilità. Inoltre, cresce il riconoscimento di valore alle forme di appropriazione spontanea come presa di coscienza creativa e pragmatica da parte della collettività, e soprattutto risorsa fondamentale per definire nuove forme di partenariato nell’attuazione di politiche di sviluppo urbano. Da parte degli Enti locali però il riconoscimento non è ancora supportato da azioni programmatorie capaci di esplicitare questo valore. Tra le iniziative pubbliche, una in particolare potrebbe assumere un ruolo chiave: l’adozione delle aree verdi. Parole chiave verde urbano, partecipazione, temporalità

Spazio pubblico: forma, ruolo, potenzialità Nell’ambito disciplinare del progetto l’attenzione si è spostata negli ultimi anni dagli elementi architettonici al percorso e alle possibili relazioni tra essi: lo spazio da statico si fa dinamico, diventando lo spazio di una narrazione che si dispiega in modo sostanziale sul vuoto e non più esclusivamente sul pieno. Superata la concezione modernista del vuoto d’impostazione positivistica, è recente una rinnovata attenzione sullo spazio aperto come risorsa, spazio di rigenerazione fisica e sociale. È chiaro come esso abbia radicalmente mutato i suoi costrutti estetici, geografici e, soprattutto, semantici. Nella contemporaneità non vale più la corrispondenza interno/spazio privato, esterno/spazio pubblico, le reti infrastrutturali sono diventate elemento rilevante: il progetto deve ricorrere a costruzioni sintattiche articolate nelle quali assume un’importanza strategica la capacità di lavorare con i concetti di dinamismo, di ibridazione e, soprattutto, di interstizio. Quindi frammenti che da nulla diventano risorsa, da resto diventano struttura attraverso l’elaborazione di un’idea chiara e articolata di rete, di connettivo attraverso il quale portare nuova qualità e nuova leggibilità spaziale e di senso all’organismo urbano. Questa rete costituisce l’armatura urbana e paesaggistica, cioè il sistema di strutture attraverso le quali l’insediamento si configura e allo stesso tempo configura il paesaggio. In questo senso, oltre al ruolo prioritario di ‘generatore di civitas’ gli si riconosce quello di luoghi privilegiati in cui e attraverso cui perseguire il miglioramento degli standard di sostenibilità. Questo connettivo è lo spazio pubblico che, in quanto sistema dei luoghi elettivi della vita collettiva dovrebbe costituire il patrimonio prioritario sul quale costruire un equilibrio forte tra dimensione fisica della città (urbs) e la comunità che la vive (civitas), e quindi diventare elemento chiave per la definizione di politiche e azioni capaci di orientare in modo più mirato le diverse dinamiche (economiche, socio-culturali, …) verso le reali esigenze della città. Le forme contemporanee d’identificazione comunitaria hanno subito negli ultimi anni l’intensificarsi di due fenomeni. Il primo è il condizionamento crescente dalle nuove forme di relazione immateriale, lo sviluppo della dimensione virtuale ha modificato in modo sostanziale le esigenze di uscire dal dominio privato. Il secondo è la crescente diffusione e attrattività dei grandi contenitori a prevalente destinazione commerciale, che Cesarina Siddi

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ospitano al loro interno persino le manifestazioni collettive storicamente legate all’espressione di ritualità delle culture locali (ad esempio le sagre…). Lo spazio pubblico è quindi sempre meno spazio aperto: o è virtuale tra le mura domestiche, o è chiuso all’interno asettici contenitori polivalenti totalmente indifferenti al paesaggio cui appartengono. Questa situazione nel contesto nazionale appare come forte contraddizione se pensiamo alla storicamente radicata tradizione mediterranea di vita collettiva all’aperto e, allo stesso tempo, guardiamo alle scelte forti e apparentemente azzardate, fatte da città che mediterranee non sono. Ad esempio Copenaghen, con un carattere del suo centro fortemente people oriented, che iniziò a prendere forma già nel 1962, quando fu attivata la politica di pedonalizzazione di alcune strade e piazze. Da allora gli interventi si sono susseguiti con continuità e, nonostante la mentalità nordica non sia stata storicamente portata all’utilizzo dello spazio pubblico («Siamo Danesi, non Italiani…» e «Utilizzare lo spazio pubblico è contrario alla mentalità nordica», si leggeva nei quotidiani locali a proposito delle perplessità della comunità), le modalità attuative hanno mostrato nel tempo ottimi risultati, portando la comunità contemporanea a viverlo intensamente. E poi Berlino, che propone un’esperienza significativa per il riconoscimento istituzionale attribuito al valore del ‘temporaneo’ e all’appropriazione spontanea degli spazi urbani in attesa di significato. Berlino dopo la caduta del muro è diventata una delle città europee più ricche di vuoti e ha prodotto grandi progetti interrotti, situazione che ha stimolato l’attivazione di nuove dinamiche di appropriazione degli spazi anche in assenza di pianificazione. Quest’urgenza collettiva di riconquista degli spazi urbani ha rinnovato l’attenzione sull’importanza delle pratiche d’uso spontaneo nella costruzione dello spazio pubblico: le nuove politiche per lo sviluppo urbano riconoscono a Berlino il ruolo di laboratorio dell’uso temporaneo per opera degli Urban Pioneers. L’uso temporaneo è diventato un termine magico: per i creativi che, in un mondo regolato dalla legge del massimo profitto, cercano di creare spazi che riflettano invece una loro visione del futuro meno arida e culturalmente ricca. Per gli urbanisti che faticano ancora a trattare questioni sul ‘temporaneo’, ma per i quali rappresenta una chance per lo sviluppo della città. Per gli abitanti, per i quali il quartiere sconosciuto, il luogo oscuro nella percezione collettiva, attraverso l’uso (temporaneo) può stimolare nuove forme di riconoscimento e nuovi sentimenti di attaccamento. In Italia le politiche sullo spazio pubblico faticano a prendere corpo, peraltro non assistite dall’accidentato iter della Riforma Urbanistica Nazionale che − nonostante i diversi progetti di legge di cui il Parlamento ha avviato l’esame negli ultimi anni − non arriva a degna conclusione. Su iniziativa dell’INU, attraverso l’attivazione della Biennale dello Spazio Pubblico nel 2011, è stata promossa la redazione della Carta dello Spazio Pubblico, il cui testo è stato sviluppato in modo ampiamente partecipato attraverso diverse iniziative di accompagnamento all’organizzazione della seconda Biennale. L’intenzione è di far sì che il documento adottato all’evento conclusivo della Biennale 2013 possa costituire l’avvio di un processo approfondito e allargato che, seguendo varie tappe (Stoccolma 2013 e 2014, World Urban Forum 2014, Biennale Spazio Pubblico 2015), possa condurre all’inserimento dello spazio pubblico nel Piano d’Azione affidato alla terza Conferenza ONU sull’Habitat (Istanbul 2016).

Verde urbano come risorsa dello spazio pubblico Il verde urbano costituisce senza dubbio una risorsa prioritaria dello spazio pubblico e il canale attraverso il quale da tempo, pur al di fuori del quadro legislativo, sono state attuate azioni di regolamentazione e messa a sistema a livello comunale. I Piani del Verde, strumenti formalmente riconosciuti in ambito europeo, in Italia sono esperienze di tipo volontaristico, non rarissime ma raramente arrivate a un vero livello attuativo, che molto spesso lasciano spazio a semplici Regolamenti del Verde. Il potenziale valore nelle politiche d’uso e gestione delle risorse, nell’ottimizzazione dei valori di sostenibilità, nonché nella costruzione di una struttura fisica di spazio pubblico capace di dare ordine e leggibilità alla forma urbana è chiaro e testimoniato da esempi paradigmatici. Uno per tutti il sistema parigino ottocentesco: il lavoro coordinato da J. C. A. Alphand (raccolto e doviziosamente descritto ne Les Promenades de Paris), con un approfondito disegno delle diverse tipologie (viali, squares, parchi) e degli arredi, ha dato compimento alle trasformazioni haussmanniane e regalato alla città un sistema di spazio pubblico attrattivo e capace di incorporare gli aggiornamenti e le trasformazioni successive senza compromissione della leggibilità della sua struttura. Il valore del verde urbano ha comunque ricevuto una rinnovata attenzione normativa attraverso la legge del 14 gennaio 2013, n. 10 - Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani. La legge indica diverse modalità di implementazione del verde, ma ancora non affronta in modo decisivo la questione della sistematizzazione attraverso uno strumento declinato in modo da controllare organicamente tutti gli aspetti fondamentali: requisiti spaziali in relazione alla struttura insediativa, ai suoi valori formali, culturali e alle aspettative d’uso (valori sociali); requisiti in termini di potenzialità ecologiche, correttezza naturalistica (criteri di selezione dei materiali vegetali rispetto ai caratteri climatici e localizzativi) e storico-culturale; requisiti in termini di gestione… In rapporto ai primi si gioca l’obiettivo di utilizzare proficuamente il connettivo verde per attribuire nuovo ordine Cesarina Siddi

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all’organismo urbano, mettendo a sistema anche le trasformazioni formalmente più autoreferenziate. I secondi sono, in effetti, quelli ai quali già cercano di dare risposta i Regolamenti del verde. I terzi iniziano a essere affrontati, ma non in modo strutturale. Da un lato pare ancora poco chiaro il ruolo prioritario che la qualità della progettazione riveste all’interno del tema ‘gestione’. Dall’altro si sviluppa nelle Amministrazioni Comunali la coscienza dell’importanza dell’attivazione di sinergie pubblico/privato al fine di ridurre gli oneri legati alla manutenzione (ma anche alla realizzazione), e la risposta sempre più diffusa è attualmente l’adozione delle aree verdi. La formula prevede comunemente la manutenzione e solo in alcuni casi anche la ‘sistemazione’. Questa seconda opzione è chiaramente quella dalla quale in prospettiva possono attendersi ottimi risultati. Dal punto di vista temporale le adozioni sono generalmente previste per periodi compresi tra uno e cinque anni, con possibilità di rinnovo. Finora la declinazione più interessante interpreta l’adozione come occasione per promuovere la creazione di orti urbani e periurbani (ad esempio Comune di Ferrara) o le aree gioco (ad esempio Comune di Milano), ma nella generalità dei casi la sistemazione è presentata semplicemente attraverso la richiesta di un progetto che dovrà essere valutato dagli uffici competenti o essere coerente con il Piano del Verde se esistente, senza che nei Regolamenti associati al bando figuri un quadro strategico che affronti in modo organico e articolato il tema delle diverse vocazioni delle aree disponibili. Queste sono semplicemente mappate e perimetrate e sono dati di solito solo i requisiti dimensionali, o al massimo l’elenco delle specie vegetali presenti. I Regolamenti forniscono istruzioni sulle manutenzioni possibili, l’elenco delle specie vegetali utilizzabili e, talvolta, alcune informazioni sugli arredi. In rari casi si supera il livello dell’accenno al tema della sostenibilità, solitamente ridotta all’invito alla programmazione razionale dell’irrigazione e al riciclo dei rifiuti derivanti dalle operazioni di manutenzione. Il citato caso del Comune di Ferrara può includersi tra le eccezioni perché ‘l’adozione aree verdi’ è inquadrata nell’ambito di un progetto di più ampio respiro, La città degli orti, finanziato dal bando Regione Emilia Romagna INFEA CEA 2008 e volto a promuovere l’orto come elemento identitario della cultura produttiva locale. Come già dichiarato, l’iniziativa è in continua diffusione, supportata anche dalla consistenza del patrimonio di verde urbano disponibile, che in tutto il contesto nazionale supera gli standard minimi previsti per legge. Dal rapporto ISTAT 2011 risulta che ogni abitante dispone in media di 30,3 mq di verde urbano. Le disponibilità più contenute si rilevano al Centro (23 mq per abitante) e al Nord-ovest (24,3 mq). Nelle città del Nord-est il valore medio è quasi doppio rispetto a quelle del Centro e del Nord-ovest (45,4 mq per abitante) e anche nel Mezzogiorno è comparativamente elevato (37,1 mq tra le città del Sud e 26,7 mq nelle Isole).

Partecipazione: potenzialità e valori di pratiche non convenzionali Le lacune d’impostazione organica dell’adozione e le acclarate difficoltà dei Comuni nell’attuare interventi sullo spazio pubblico, lasciano posto alle azioni spontanee che, sulla stessa lunghezza d’onda dell’esperienza berlinese, anche in Italia sono in fase d’intensificazione: il fenomeno è sempre meno considerato come manifestazione di azioni illegali, e sempre più come presa di coscienza creativa e pragmatica da parte della collettività. Le associazioni e i collettivi promotori mostrano consapevolezza sulle potenzialità insite nelle loro forme d’azione, se queste fossero inquadrate in forme di partenariato con gli Enti Locali atte a ottimizzare le politiche di sviluppo urbano in termini di capacità di interpretare in modo più efficace tutto il quadro di vocazioni e aspettative e di facilitare le fasi attuative. La risposta dagli Enti è però ancora marginale e non si evince un fattivo dialogo tra i diversi settori competenti (ad esempio Cultura e Urbanistica). Un lavoro molto strutturato è quello proposto dall’associazione temporiuso.net che nel 2008 ha avviato il progetto di ricerca-azione ‘temporiuso’ che ha attivato progetti di riutilizzo temporaneo di edifici e vuoti in abbandono e intende promuovere una politica pubblica del riuso temporaneo che oltre alla riqualificazione fisica metta in gioco nuove opportunità per lo start-up micro imprenditoriale. L’impostazione è partecipativa e accompagnata da un lavoro di mappatura nel quale tutta la comunità è coinvolta. Ultima iniziativa è la pubblicazione (aprile 2013) di ‘RE-BEL ITALY. Manifesto per il riuso di spazi abbandonati e sottoutilizzati’. Il manifesto ribadisce l’intenzione di promuovere una politica pubblica e sostiene la necessità di una riforma urbanistica e normativa che snellisca l’accesso agli spazi abbandonati o sottoutilizzati, che offra strumenti finalizzati al risparmio delle risorse territoriali, energetiche, naturali ed economiche. Ancora a Milano il Public Design Festival, promosso dall’impresa culturale ‘esterni’ e giunto nel 2013 alla quinta edizione. La manifestazione ricerca, cataloga e sviluppa idee e progetti che trasformano il modo di vivere gli spazi pubblici e di pensare le città. È una piattaforma permanente − punto d’incontro per professionisti, istituzioni e cittadini − che considera gli spazi pubblici i luoghi da cui partire per progettare le città del futuro, dove gli abitanti delle città si riconoscono come comunità, luogo di crescita democratica, culturale e civile. In Italia queste esperienze non sono le uniche ma certamente tra quelle che con più chiarezza e incisività offrono spunti per perseguire la costruzione di politiche, strumenti e metodologie operative sullo spazio pubblico. All’estero il ruolo dei collettivi e di queste pratiche e azioni partecipative e, in diversa misura, temporanee trova già riconoscimenti maggiori. Un esempio significativo è quello francese. Due collettivi il cui lavoro può considerarsi un valido riferimento sono BazarUrbain (Grenoble) e Collectif Etc (Strasburgo), entrambi impegnati su fronti multipli Cesarina Siddi

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(ricerca, insegnamento e pratica professionale) e vincitori del Palmarès des jeunes urbanistes rispettivamente nel 2007 e nel 2012. Entrambi sperimentano sullo spazio pubblico con approccio multidisciplinare e l’integrazione della comunità nel processo creativo. L’intento è di rompere la logica verticale e gerarchica d’intervento (programmatorio e attuativo) sulla città, di lavorare su diverse temporalità e di costruire una rete flessibile di interazione tra tutti i soggetti coinvolti nei processi trasformativi urbani. Oltre ai risultati materiali, molta attenzione è posta sui processi e sui nuovi comportamenti che si generano.

Sperimentazione Questo quadro teorico e di esperienze mira a chiarire con facilità il tentativo di sperimentazione che si sta sviluppando all’interno di esperienze di adeguamento di Piani Urbanistici Comunali al Piano Paesaggistico Regionale. Uno di questi Comuni, Quartu Sant’Elena (CA), ha promosso fin dal 2008 l’adozione di aree verdi, ma si tratta di una formulazione molto debole che, infatti, finora non ha riscosso un grande successo. Metodologicamente la proposta parte dal riconoscimento dell’armatura paesaggistica comunale. Gli elementi strutturali delle morfologie paesaggistiche alle diverse scale, descritti compiutamente in termini di potenzialità e processi di crisi, possono diventare i dispositivi sui quali costruire i temi portanti del Piano, cioè le strutture sulle quali dare forma e leggibilità alla strategia che lo caratterizzerà. Operativamente questa impostazione si sintetizza in tre punti chiave: 1. Scale interpretative > corretto riconoscimento di fenomeni e processi; 2. Scale operative > individuazione dei temi sui quali costruire la disciplina normativa; 3. Le norme non più legate a una logica di zonizzazione tout court, ma ai temi che derivano dai processi caratterizzanti, approccio trasversale che permette di sperimentare un’applicazione operativa della definizione di paesaggio condivisa attraverso la Convenzione Europea. Lo spazio pubblico è quindi riconosciuto nella sua globalità e multi-scalarità e rappresentato come rete potenziale. Tutti gli elementi sono descritti in termini di caratteri, valori e criticità, priorità d’intervento rispetto alla situazione ‘puntuale’ cui appartengono. A questo si aggiunge il riconoscimento delle ‘aree adottabili’ con la descrizione delle potenzialità e, anche in questo caso, dell’urgenza d’intervento. L’elaborato fondamentale diventa quindi un masterplan meta-progettuale che dia forma e sostanza al sistema di spazio pubblico comunale attraverso una dettagliata rappresentazione spazio-temporale. L’introduzione della ‘temporalità’ in termini articolati e come concetto chiave, consente di ragionare organicamente su diverse opzioni attuative. Elemento fondamentale è la costruzione di ‘piante temporali’ d’intervento sullo spazio pubblico: l’aggettivo temporale è riferito sia alle urgenze d’intervento, sia al grado di temporaneità/permanenza dell’intervento atteso. Per ogni area il masterplan definirà gli elementi attraverso i quali garantire l’appartenenza al sistema (alla rete) e l’interpretazione delle vocazioni dominanti e i requisiti dei materiali costruttivi (nel senso ampio del termine, quindi certamente vegetali ma non solo…). In questo modo l’Amministrazione avrà in dotazione dei documenti agili e chiari sui quali impostare e avviare le diverse attuazioni (a proprio carico, attraverso la formula del concorso o dell’adozione). La formula dell'adozione non deve de-responsabilizzare l'Amministrazione Pubblica, che è chiamata a coordinamento attento, ma deve rafforzare le forme di dialogo e di sinergia con la comunità tutta (cittadini e operatori economici). Molte aspettative si ripongono quindi sulle aree adottabili, per le quali si cerca di proporre un ‘regolamento’ che preveda sia ‘l'adozione individuale’, sia una formula legata all'attivazione di un ‘evento urbano periodico’ per il quale si sta sviluppando un ‘format’ che possa: 1. Rendere più agile il coinvolgimento del privato (come cittadinanza attiva da tutti i punti di vista) 2. Favorire l’attivazione di risorse economiche. 3. Verificare le vocazioni riconosciute alle aree rispetto alle aspettative d'uso. Nella definizione delle ‘convenzioni di adozione’ sarà anche prevista una temporalità articolata in funzione dei caratteri riconosciuti alle diverse aree. Questo garantirà una ‘flessibilità’ intesa come ‘potenzialità’ ad accogliere e interpretare meglio le diverse attese. Una temporaneità più elevata servirà a: • Chiarire meglio alcune vocazioni • Aiutare la cittadinanza a esprimere condivisione o diverse aspettative, che potranno essere messe in gioco nei programmi di accompagnamento al successivo bando di adozione. In sintesi: RIDUCI: gli oneri pubblici per la realizzazione e manutenzione, i tempi delle procedure attuative tradizionali. RIUSA: le aree in attesa e quelle ‘inefficienti’ sono restituite alla collettività, che ha un ruolo attivo nella loro ridefinizione. RICICLA: la temporalità ha un ruolo chiave, con un meccanismo di rotazione atto a garantire un più ampio coinvolgimento collettivo e l’adattamento dello spazio pubblico alle mutevoli esigenze prodotte dalla ‘liquidità’ del vivere contemporaneo. Cesarina Siddi

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New urban ecologies: recycling the city, planning landscape infrastructures

New urban ecologies: recycling the city, planning landscape infrastructures Jeannette Sordi Università degli Studi di Genova DSA – Dipartimento di Scienze per l’Architettura Email: jeannette.sordi@gmail.com

Abstract In the last decade the the globalization of economic flows, the expansion of urbanization and the related environmental risks, have shifted paradigms in urban design and planning. Landscape and ecology have emerged as mediums for urbanization, capable of recycling the built environment giving new meaning and performances to existing settlements. These approaches have posed the environmental question as the most important paradigm for the spatial disciplines, challenging the widespread shrinking of public resources. This is particularly evident when these conditions are extreme, as was the case for the serious environmental risk deriving from the pollution of Lake Ontario (Toronto) or the social problems caused my Detroit’s economic collapse. Detroit and Toronto, presented here as case studies, have recently invested in landscape and ecological infrastructure as mediums for urban regeneration - mediums capable of imagining new economies and social relations while increasing urban quality and its environmental performance. Parole chiave landscape urbanism, landscape infrastructure, ecology. The urban is a process of creating, restructuring and destroying the built environment, a continual reorganization of sociospatial infrastructures for production, social reproduction, transportation, communication, exchange, labor flows and energy circulation at diverse sites, places, territories and scales across the world. Under conditions of conjunctive or systemic crisis, such sociospatial configurations are creatively destroyed, often through strategies of dispossession, devalorisation and institutional violence, in pursuit of new spaces for subsequent rounds of capital accumulation and uneven geographical development. This was theorized in the 1980s by some radical geographers (Harvey, 1982, 1989; Smith, 1991) and has gained a renovated interest now that the impact of urbanization has reached the planetary scale (Brenner, Schmidt, 2012) and that the economic and ecological crisis have undermined traditional urban disciplines, based on paradigms of growth and expansion. Only in the European Union, in the last ten years, 4.3% of the European Union’s territory has been affected by urban development, a very shocking amount if we consider that only 13.4% of the total surface is actually urbanized. Such numbers double and triple when considering Italy, Germany or the Netherlands.1 This is particularly evident now that the financial crisis is making even what is new appear obsolete: in Spain alone 1.5 million new buildings are empty, in Italy 1.2 million.2 In this sense, the process of abandoning obsolete lands and recycling them, giving them new functions and performances, is nothing new. What changes are the objectives and challenges determined by the contemporary condition: firstly the urgency of the environmental question, secondly the widespread shrinking of public

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Source: ISTAT, 2001-2011. In the Netherlands soil consumption was 13.2 % of its surface, 9.8% in Belgium, 7.3% in Italy, 6.8% in Germany, 5.2% in France, 3.6% in Spain. 2 The financial crisis made visible the consequences of overproduction in the European construction industry: in Spain alone, over 1.5 million new residential buildings – completed after 2007 - have remained unsold (source: l’Internazionale, dec, 6, 2012). In Italy the number of unsold new apartments is 1.2 million (source: fiaip, federazione italiana degli agenti immobiliari professionali). Jeannette Sordi

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resources. Both of these imply rethinking the paradigms and tools of the urban disciplines, and redefining their perspectives and objectives. Charles Waldheim (2006) notably underlined how landscape has emerged as a medium for urbanization. In other words, considering the urban as a complex and dynamic process goes far beyond objects and land use classifications, he argued that landscape has replaced architecture as the basic building block of urbanization. In the last years, the economic and environmental crisis has sparked a renovated interest in landscape urbanism and its premises. Indeed, landscape urbanism approaches derive from contexts of dispersed urbanization and complex natural environments, where traditional urban design disciplines were demonstrated to be inappropriate (Waldheim, 2006). Many projects of landscape urbanism addressed sites that where abandoned or misused, such as brownfields and infrastructure, and gave them new meanings and values, using ecology as a tool and an objective. James Corner, in many articles on landscape urbanism, referred to David Harvey claiming that both modernist formal determinism and new urbanism failed “because of their presumption that spatial order can somehow control history and process” (Corner, 2003; Harvey, 2001). According to Harvey, he quoted, «designers should lie with ‘the advancement of a more socially just, politically emancipating and ecologically sane mix of spatiotemporal production processes,’ challenging the general acquiescence to the forces of ‘uncontrolled capital accumulation, backed by class-privilege and gross inequalities of political-economic power’» (ibid). Harvey’s point, Corner remarked, was that the projection of new possibilities for future urbanism «must derive less from an understanding of form and more from an understanding of process - how things work in space and time» (Corner, 2006). This implies two aspects that also characterized the work of James Corner and many other projects of landscape urbanism. Firstly, considering landscape urbanism in space and time implies a broader analysis of the processes that determine particular site conditions (and not on a formal analysis of recurrent typologies, buildings, and so on). The second aspect is that, beyond designers and urbanists’ political alignment, working on the North American metropolis - and generally in any place where capitalism is the prevailing system – involves dealing with capital flows, distribution and crisis. Crises are indeed part of the system and, the process necessary to overcome them, always involve a transformation of spatial occupation and organization (Soja, 2000). The North American metropolises represented these conditions particularly well, especially the dramatic rise of suburbanism as a distinctive way of life for a significant portion of the metropolitan population. Cities like Los Angeles, Atlanta, Houston, and especially Detroit, became the evidence of this recession of architecture as the element capable of organizing the contemporary city, and the emergence of landscape as such.3 Landscape urbanism was born in these metropolises; starting from their evidence and challenges to develop new instruments and frameworks that recycled the built environment starting from its open spaces and dismissed infrastructures. Landscape was defined as an infrastructure itself. But this is not only a North American issue. The need to reduce ecologic hazards given by the impact of natural disasters on our cities, the increase of pollution and soil consumption, the urgency of solving infrastructural problems such as the treatment of waste and wastewater, also make these interdisciplinary approaches very appropriate for the Italian, and overall European, context. These practices are of particular interest when coming to address the urban and regional scale, involving policies and visions that suggest a more sustainable urban landscape. Landscape urbanism has mainly produced parks, although very innovative for their premises and performances. This paper will present two case studies where landscape projects, developed in the interstitial and abandoned open spaces of the city, become ecological infrastructures. Detroit and Toronto, in recent years, have invested in landscape and ecological infrastructure as mediums for urban regeneration - mediums capable of increasing the urban quality and its environmental performances but also of imagining new possible economies and social relations.

DetroitWorks_ landscape as urbanism Detroit was the most representative city of modernist planning and capitalist social and economic system. But it also became the most representative example of its failure, or of its late development. At the beginning of the XXI century Detroit stood devastated; overburdened by the infrastructural, architectural and human sediment of its fordist past. Central parts of Detroit were empty; large buildings had been abandoned, as well as offices, schools, train stations and vast urban territories. The demolition of whole urban blocks, the spontaneous return of nature and the separation of entire “communities” suggested the ultimate destiny of Detroit: to become the suburb of its own suburbs (Schumacher, Rogner, 2001). These extended suburbs in fact were still alive and well,

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Charles Waldheim, lecture, Harvard Graduate School of Design, Cambridge, September 14, 2011.

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forming a polycentric conurbation where typically post-fordist service industries settled at a safe distance – at least eight miles - from inner city wastelands and regulations. 4 During the first half of the twentieth century, Detroit served as a visible model of fordist industrial development. Understood as a socio-economic category, rather than a merely technological paradigm, Fordism presupposed the systematic integration of the reproduction of labor into a new and totalizing capitalist cycle. The system could reproduce its own market in a self-fulfilling prophecy of economic expansion. The material basis of modern mass society and the "American dream" was established (Schumacher, Rogner, 2001). Detroit - the Capital - to use Dan Hoffman words, must continue to expand since growth is now in the interest of all of its citizens (Hoffman, 2001). In the late sixties the Fordist system of universal mass production was challenged by the postwar boom recession, the political struggles in 1968 as well as by the oil crisis in 1973 and the breakdown of the international exchange-rate system. The automobile industry was in free-fall and Detroit followed it. Most of the population living in the city moved to the suburbs, where better living conditions and lower taxation were available. By the nineties, the vacant lots resulting from the collapse of the industrial city defined the urban form more than the built environment did. Nature was taking back what had been abandoned, remaining the only thing actually growing there. Nevertheless, as Charles Waldheim claimed, the fact that American cities began to dissolve as a result of the pressures of mature Fordist decentralization surprised only those disciplines still believing in a nineteenth-century model of urbanism based on increasing density (Waldheim, 2004). Detroit in fact, was nothing more than the most recent idea of production as manifesto in spatial terms. It is working on Detroit that Charles Waldheim realized the potentiality of conceiving landscape as a model for the contemporary city, hence developing the concept of landscape Urbanism.5 Landscape urbanism thus emerged as a critique of traditional urban planning and design disciplines, incapable of dealing with the condition of dispersion and lack of growth. Waldheim highlighted the leftover void spaces of the city as potential commons, and defined landscape urbanism, like landscape architecture, as an interstitial design discipline, operating between open spaces, infrastructural systems, and natural ecologies (Waldheim, 2006). He claimed, ironically, that the ongoing process of green-field development at the perimeter of Detroit's metropolitan region was bringing up similar questions posed by the incursion of opportunistic natural environmental systems in areas of post-urban abandonment (image 1).

Image 1. Detroit Vacant lot (picture: Jeannette Sordi, 2011). 4

The 8 miles road (from the center) signs the northern limit of the municipality of Detroit. 8 Mile Road has in the past been a major cultural significance regionally; it was physically and mentally a dividing line between the wealthier, predominantly white northern suburbs of Detroit and the poorer predominantly black city. 5 Charles Waldheim, interview with the author, Harvard GSD, September, 2011. On landscape urbanism genealogy see also Waldheim, 2002. Jeannette Sordi

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Detroit was indeed abandoning itself. In 1990 Detroit’s City Planning Commission authored a document that proposed the decommissioning and abandonment of the most vacant areas. The evocatively called Detroit Vacant Land Survey documented a process of depopulation and disinvestment that had been underway since the 1950s.6 A process that is still in progress; last year the number of vacant parcels reached 150,000 thousands, with a total area estimated to be the size of Paris, if assembled into one large plot.7 The new urban plan of Detroit, adopted in September 2012 and emblematically named detroitworks, promises to solve employment problems starting from the city’s main resource: land. The long term plan - advised by Chris Reed-Stoss Landscape Urbansim - is thus based on the consideration of landscape as a medium for urbanization and ecological infrastructure, aiming to recover Detroit’s empty fields, as well as its economic future and social life.8 It is conceived so as to imagine new scenarios, starting from landscape and ecology. Interestingly, the parameters on which the plan is based are not the canonical ones of density, functions or land use, but rather the non-density, dis-function and potential use, explicitly classified into low, moderate and high vacancy. Contexts that recall what was anticipated by Rem Koolhaas in “Whatever happened to urbanism?”: “If there is to be a “new urbanism” […]it will no longer be concerned with the arrangement of more or less permanent objects but with the irrigation of territories with potential; it will no longer aim for stable configurations but for the creation of enabling fields that accommodate processes that refuse to be crystallized into definitive form” (Koolhaas, 1995).

Image 2. Detroit long-term planning: vacant lot potential and intervention strategies (source: www.detroitworksproject.com)

In the moment in which the city fails, landscape emerges as its infrastructure. Indeed, traditional infrastructure is implemented and maintained only when needed. Otherwise, forests, urban farming, superficial lakes and water depuration plants will replace the obsolete activities. These landscape ecological systems, to be realized in public private partnership, offer the possibility of reducing maintenance costs, creating new forms of employment, increasing the quality of poor neighborhoods, soil cleansing and water reuse and depuration, with remarkable effects on environmental and social quality (fig. 2). As Chris Reed put it, “Implementing integrated blue and green infrastructure systems using available vacant land provide tremendous environmental, fiscal and social benefits. It’s a unique way to beautify Detroit while providing support for existing storm and wastewater, energy,

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Detroit Vacant Land Survev, 1990, 3-5; quoted in Charles Waldheim, 2004. In September 2012. See John Gallagher, “Vacant Land Auction in Detroit called a Mistake,” in http://detroitworksproject.com/2012/09/17/vacant-land-auction-in-detroit-called-a-mistake/ 8 www.detroitworksproject.com. 7

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roads and transportation, and waste infrastructure systems. These types of landscape can definitively improve a community’s quality of life.” The project of landscape and infrastructure – of water, waste, agriculture and mobility – are integrated and conceived so as to reinvent the urban space. Ecology becomes an economic opportunity as well as a social mediator. Once again Detroit tries to make a plan coinciding with an emerging lifestyle, a model to be imitated.

WaterToronto _ Landscape as Infrastructure The city of Toronto (Ontario, Canada) is on the north-west coast of Lake Ontario, the most east and lowest in altitude of the Great Lakes. Toronto, as Chicago, Detroit, Cleveland and Hamilton, to quote the most famous, was one of the most important nodes of the so called “Manufacturing Belt”. The industrial region developed during the XIX century on the coasts of the Great Lakes and played a fundamental role in promoting the expansion of the western US. After a century of world wide exportation and economic and demographic expansion, the industrial production was moved to east Asian cities. The former manufacturing region lost most of its production and soon became a “Rust Belt”, term coined in the 1980’s to describe the region’s rapid decline. The consequences of decades of intensive industrial production were largely invisible until a quarter-century after the Manufacturing Belt passed its peak. Although deindustrialization and decentralization are dominant motifs of the Rust Belt, what is often marginalized is the long-term effect of industrial operations. The depletion of cheap resources, the depopulation of factory towns, the decrease in tax revenues and the failure of urban infrastructure epitomize that legacy. Most notorious were the environmental after-effects across the region including oil fires on urban rivers in Cleveland, Toronto, and Chicago, over-fertilization from farm effluent and sewer overflow of Lake Ontario and Lake Michigan, algal blooms from eutrophication in Lake Erie and Lake Ontario and mercury contamination from industrial discharge that closed fisheries on Lake Superior, Lake Michigan and Lake Huron in the 1980s (Belanger, 2010a). By the 1980s it became clear that the processes that led the region to decline - mainly the transnational trading policies that opened international borders southward and westward where labor and raw materials were cheaper and environmental laws less stringent (Belanger, 2010a) - were irreversible. It was time for both the region and cities to face the environmental and social consequences of massive industrialization. Addressing the divide between economy and ecology, a massive remediation program in the Great Lakes Region was spearheaded by the International Joint Commission in 1987, addressing the impacts of discharges and diversions, floods and droughts and contamination and cleaning (Belanger, 2010a). Toronto’s only fresh water source is Lake Ontario. The cleaning of the water has therefore become a must for the city, also becoming an occasion to rethink public space, increase the quality of living and design its postindustrial development. In this sense Toronto represents a very significant case study in which, quoting Pierre Belanger (2010b), ecology becomes economy, and infrastructure is intended as landscape. The contemporary landscape projects on Toronto’s waterfront - done by Field Operations, West 8, and Michael Van Valkenburg Associates - are the visible result of an overlay of water infrastructure, landscape remediation and regional and municipal policies.9 The most famous example of Toronto’s urban development policies is certainly the Downsview Park Competition, in 1999. The brief was drafted by Detlef Martins and the final entries - most notably the projects of OMA and Bruce Mau (winner), Bernard Tschumi and Field Operations - redefined the relationship between landscape urbanism and ecology. Using a design competition for Downsview Park followed in the footsteps of the City of Toronto’s successful track record in sponsoring competitions for the design of public space (Mertins, 2001). Commencing with Trinity Square (1983) the city used professional juried architectural design competitions to plan the new urban spaces, with competitors’ teams required to include architects, landscape architects and artists. When negotiating larger-scale development projects, the city sought financing and land for the creation or improvement of open spaces and parks through density bonus of development. In this way, rather than being the result of a single master plan, the open spaces were generally the incremental realization of a more flexible strategy based on urban principles, potential opportunities, and development interests (Glover, 2001). The development of Toronto’s Waterfront began in 1980s with the intent of reclaiming the harbor’s polluted sites and recalibrating the water infrastructure to clean and preserve its only fresh water resource: Lake Ontario. Central Waterfront, Lower Don Lands and Lake Ontario Park are the most notable recent developments (image 3).

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On the Toronto’s waterfront transformations see http://www.waterfrontoronto.ca; http://www.toronto.ca/.

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Image 3. Drawing reassembling the water flows in and under the city of Toronto (Jeannette Sordi, 2012)

The area for Central Waterfront is that of the former Harbor, where a new pipeline has recently been built to collect sewage and storm water and bring them to the Waste Water Treatment Plants also located in the waterfront area. The competition brief asks both to create a new identity for the city and to increase this sustainable infrastructure. The winner project of West 8 (image 4, 2006-2011) proposes a promenade that integrates public space and transport system with a water filtration gallery connected to a sanitary interceptor tunnel. Floating pontoons in front of the promenade host a number of public activities on their top deck while supporting the growth of trees, shrubs and wetland communities with the root mass extending below water level. The pontoons are designed to enhance the fish habitat and improve water quality through pollutant uptake and filtration. The finalist proposal for the development of the Lower Don River Lands developed by Chris Reed-Stoss Landscape Urbanism with others, even begins with water. The project allows the river the space it needs to function hydrologically and ecologically (image 5, 2007), studying fish species enhancement and reproduction. The River, in turn, shapes the metropolis, giving rise to unique, dynamic, engaging, world-class neighborhoods and open spaces.10 The winning project, developed by MVVA, adopts a more urban-building development approach but also gives primary importance to water management. In the West Don Lands, 50 percent of storm water will be recycled for irrigation, and 100 percent of rainwater will be captured in Don River Park and Sherbourne Common (image 4, 2009-2011) for irrigation and other non-potable uses.

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see Chris Reed – Stoss Landscape Urbanism website: http://www.stoss.net/lowerdon.html

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Image 4. Left: Central Waterfront, West 8, 2006-2011. Plan and section representing the stormwater Cleaning System (Source: picture, West 8; diagram, Jeannette Sordi, 2012). Right: East Bayfront, Sherbourne Common, Phillips Farevaag Smallenberg, 2009-2011; stormwater cleaning system (Source: picture, www.waterfrontoronto.ca, diagram: Jeannette Sordi, 2012).

Similar to Fresh Kills, James Corner’s project for Lake Ontario Park (image 5, 2007-2012) is a combination of wetlands and uplands on an environmentally degraded site. The new recreational activities and ecological areas will be adjacent to the central island water filtration and treatment plant. The urban landscape projects of Field Operations, West 8 and MVVA are the result of a systemic regional reclamation project. At this scale, remediation costs can be offset by overall returns from productive land redevelopment across multiple sites. For the first time in the history of the Great Lakes, the collective objective of an economy based on clean fresh water has become a public regional imperative (Belanger, 2010b).

Image 5. Left. Stoss Landscape Urbanism, Lower Don River, 2007, diagram of fish species reproduction (Source: Chris Reed – Stoss Landscape Urbanism). Right. James Corner Field Operations, Lake Ontario Park, 2007-2012 (Source: Field Operations).

The city has regenerated itself through a recalibration of its water infrastructure. In this sense - quoting Stan Allen (1999) - infrastructures can be intended as artificial ecologies that manage the flows of energy and resources on a site. They create the conditions necessary to respond to incremental adjustments in resource availability, and modify the status of inhabitation in response to changing environmental conditions. The need of reclaiming polluted land and contaminated water, has given to the city of Toronto the opportunity of rethinking its public space and global image through ecological and sustainable transformations. As Pierre Belanger proposes (2009),11 decline seems to have become the progenitor of ecological regeneration. As a catalytic infrastructure, landscape is rendered visible at the precise moment at which the city fails.

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Belanger, Pierre, “Landscape as Infrastructure” in Landscape Journal Vol. 28 Issue 1 (Spring/Summer 2009): 79-95.

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Afterwords In the United States designers and planners usually have two distinct roles. While urban design is the process of shaping cities, towns or neighborhoods, urban planning is mainly a technical and political process regarding the control and organization of land use. Eventually, Chris Reed argued, “landscape urbanism – as a set of ideas and frameworks – lays new grounds for design and urbanistic practices: performance-based, research-orientated, logistics-focused, networked. Here the design practitioner is re-cast as urbanistic system builders, whose interests now encompass the research, framing, design and implementation of expansive new public works and civic infrastructures” (Reed, 2006). Thus, in order to be effective, the project of landscape urbanism has to reach the governmental management and act on the rules and regulations, change the paradigms of spatial design and planning in terms of environmental performances and ecological objectives. This is particularly true when the models of growth that have always driven planning and developers become obsolete, as was the case for the recent plan of Detroit,12 or when serious environmental problems have to be solved, as was the case in Toronto and Lake Ontario. Landscape and ecology, for their qualitative outcome and scientific foundations, may help in defining and evaluating new parameters for urban transformations, also taking into account the widespread shrinking of public resources. The risk of landscape urbanism may be that of degenerating in formal and stylistic models, as ecological approaches may rely too much on measurable performances and repeatable models. Nevertheless, it is exactly in this relationship between quality and quantity, design and planning, that the greatest potential for the development of the spatial disciplines can be generated. This is a question that found its highest moment in the Italian debate on the progetto urbano since the 1960s, and it is probably in this tradition, and in the current Italian context, that new opportunities arise.

Bibliography Allen S. (1999), Points + Lines: Diagrams and Projects for the City, Princeton Architectural Press, New York. Bélanger P. (2009), “Landscape as Infrastructure,” in Landscape Journal, Vol. 28 Issue 1, pp. 79-95. Bélanger P. (2010a), “Regionalization: Probing the Urban Future of the Great Lakes Region,” in JOLA Journal of Landscape Architecture, Fall 2010, pp. 37-48. Bélanger P. (2010b), “Redefining Infrastructure,” in Mostafavi M., Doherty G. (editors), Ecological Urbanism, Lars Müller Publishers, Baden. Corner J. (2003), “Landscape Urbanism,” in Mostafavi M., Najle C. (editoris), Landscape Urbanism: a Manual for the Machinic Landscape, Architectural Association, London. Corner J, (2006), “Terra Fluxus,” in Waldheim C. (editor), The Landscape Urbanism Reader, Princeton Architectural Press, New York. Daskalakis G., Waldheim C., Young C. (editors, 2001), Stalking Detroit, Actar Editorial, Barcelona. Glover R. (2001), “City Making and the Making of Downsview Park,” in Czerniak J. (editor), Case: Downsview Park Toronto, Prestel Verlag, Munich, London, New York, 34-39. Harvey D. (1982), The Limits to Capital, University of Chicago Press, Chicago. Harvey D. (1989), The Urban Experience, Johns Hopkins University Press, Baltimore. Harvey D. (2001), Spaces of Capital: Towards a Critical Geography, Edinburgh University Press, Edinburgh. Hoffman D. (2001), “The best the world has to offer,” in Daskalakis G., Waldheim C., Young C. (editors), Stalking Detroit, Actar Editorial, Barcelona, pp. 42-47 Mertins D. (2001), “Downsview Park International Design Competition,” in Czerniak J. (editor), Case: Downsview Park Toronto, Prestel Verlag, Munich, London, New York, pp. 24-31. Mostafavi M., Doherty G. (editors, 2010), Ecological Urbanism, Lars Muller, Baden, Switzerland. Smith N. (1991), Uneven Development, Blackwell, Cambridge, Mass. Chris Reed, “Public works practice,” in The Landscape Urbanism Reader. Ricci M. (2011), «Reduce, Reuse, Recycle», in P. Ciorra, S. Marini (editors), Re-cycle, Electa, Milano. Schumacher P., Rogner C. (2001), “After Ford,” in Daskalakis G., Waldheim C., Young C. (editors), Stalking Detroit, Actar Editorial, Barcelona. Soja E. (2000), Postmetropolis: Critical Studies of Cities and Regions. Blackwell Publishers, Oxford - Malden, MA. Waldheim C. (2002), “Landscape Urbanism: a Genealogy,” in Praxis Journal, 4, pp. 4-17. Waldheim C. (2004), “Detroit: Motor City,” in El-Khoury R., Robbins E. (editors), Shaping the City: Studies in History, Theory, and Urban Design, Routledge, New York- London, pp. 77-97. Waldheim C. (editor, 2006), The Landscape Urbanism Reader, Princeton Architectural Press, New York.

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See the website of the new urban Plan of Detroit, www.detroitworksproject.com.

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New urban ecologies: recycling the city, planning landscape infrastructures

Websites Official website of the new urban Plan of Detroit www.detroitworksproject.com. Official website of the transformations occurring on Toronto’s waterfront. http://www.waterfrontoronto.ca Official website of the city of Toronto http://www.toronto.ca/ James Corner – Field Operations website http://www.fieldoperations.net/ Michael Van Valkenburg office website http://www.mvvainc.com/ Chris Reed – Stoss Landscape Urbanism office website http://www.stoss.net/ West 8 office website http://www.west8.nl/

Riconoscimenti: Chris Reed, Pierre Belanger, Alan Berger, as well as Laurent Corroyer… Questa è una parte facoltativa del documento. Riconoscimenti o ringraziamenti per persone per l’aiuto prestato nella redazione del documento dovrebbero essere riportati alla fine del paper, dopo la bibliografia.

Copyright: Le informazioni riguardo eventuali copyright dovranno essere incluse alla fine del documento dopo i ringraziamenti e la bibliografia.

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Tre R in una P

Tre R in una P Claudia Tombini Università di Roma La Sapienza DiAP – Dipartimento di Architettura e Progetto Email: tombini@a4impresacreativa.com Tel: 329.8276181

Abstract La crisi finanziaria di oggi ci indica un mercato immobiliare ormai completamente scollegato alle reali esigenze residenziali di Roma. L’area urbana, moltiplicatasi a dismisura negli ultimi anni, è rimasta in realtà in gran parte inutilizzata e vuota. Il consumo del suolo ha così finito di compromettere il modo in cui viviamo la nostra città: monofunzionalità di interi quartieri, percorsi quotidiani troppo lunghi e spesso senza valida alternativa, congestione stradale, esigono nell’insieme un radicale cambio di rotta. Solo con un’espansione tutta interna e una riconversione degli spazi urbani esistenti e inutilizzati si può garantire la policentricità necessaria ad uno standard minimo di vita sociale e di percorrenza breve rispettosa anche del nostro habitat. Il livello di insostenibilità ambientale, economica e sociale dell’attuale sistema di mobilità urbana, ancora incentrato sull’automobile, impone inoltre di rivedere il nostro modo di pianificare la cità; la sostenibilità deve poi tornare ad essere lo sviluppo che risponde ai bisogni delle generazioni attuali senza pregiudicare il soddisfacimento di quelle future: le tre R, Riduci, Riusa e Ricicla, non possono più intendersi solo come recupero di elementi già compromessi, ma devono diventare esse stesse elemento interno del processo progettuale. Le tre R devono rientrare nella P di Progetto, indipendentemente che esso riguardi un recupero o un nuovo intervento. Ci chiediamo allora: - può un progetto urbano, a sviluppo durevole, prevedere a monte un eventuale proprio disuso? - Si può progettare la città con, e per, i mezzi che abbiamo oggi pensando che a breve non saranno più gli stessi? Credo di sì: l’architettura ha mostrato nel tempo di essere la più precaria di tutte le arti proprio grazie al suo continuo adattarsi alle nostre esigenze e ai nostri progetti. Le tre R, che oggi noi promuoviamo a più voci nascono, in realtà con la città e fanno da sempre parte di essa. La tesi trova allora le proprie argomentazioni a partire dalla storia, sia dell’architettura che dell’urbanistica, l’una inscindibile dall’altra. Nell’individuare un settore urbano di Roma il lavoro si propone di sondare al suo interno la possibilità di una progettazione a lungo termine, capace di prevedere, e perché no promuovere, fasi e tempi anche in contrasto tra loro. Un progetto P già capace di includere le sue tre R. Parole chiave Progetto Potenzialmente Provvisorio.

Tre R in una P Il 10 dicembre 2010, per la prima volta a Roma, una grande manifestazione studentesca sceglie la periferia della città per esprimere il proprio dissenso al governo e alle sue politiche sull’istruzione. “Voi soli nella zona rossa, noi liberi per la città”, recita lo striscione di testa della manifestazione che, partita dalla Città Universitaria, percorre le strade del settore est della città (Fig.1). Settore, questo, fortemente identificato dalla presenza del tratto urbano dell’autostrada A24 che si spinge fino a raggiungere il Cimitero del Verano per connettersi alla tangenziale est. È così che l’autostrada, improvvisamente e per un giorno, perde il proprio carattere di strada per la circolazione di traffico esclusivamente veicolare e “veloce”, che poi nel suo tratto urbano come si può immaginare molto veloce non è, e scopre un possibile proprio uso a partire dal tempo in corso.

Claudia Tombini

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Tre R in una P

Figura 1. Autostrada A24, nel suo tratto urbano di ingresso a Roma,in un fotomontaggio che racconta due momenti diversi. Il confronto tra l’A24 percorsa da questa folla di gente e la via dei Fori Imperiali durante le diverse manifestazioni celebrative e non, come ad esempio la ormai famosa anche a livello internazionale Maratona di Roma, sorge allora spontaneo e spinge a chiederci se sia possibile un diverso uso, a partire da una sua attuale flessibilità, di questo tratto urbano di strada veloce. Inoltre diverse ricerche giornalistiche e non, prima in campo internazionale ma poi anche a livello nazionale, ci mostrano negli ultimi anni un calo delle patenti corrispondente ad un disinteresse sempre maggiore dei giovani nei confronti delle quattro ruote, al quale bisogna aggiungere la necessità di rivedere la mobilità urbana per questioni di inquinamento a tassi altissimi. Alla ricerca di un’ipotetica flessibilità bisogna allora aggiungere l’interrogativo sul futuro di questo tratto di strada, una volta finita l’era dell’automobile, o quanto meno cessato, volenti o nolenti, l’uso privato delle quattro ruote in città: l’A24 (Fig.2) sarà la nuova High Line di Roma? Oppure: cosa ne sarà del suo intero settore oggi così fortemente condizionato dalla sua presenza? Diventerà l’ennesimo spazio urbano da poter riempire o mostrerà delle potenzialità di cui oggi non ci accorgiamo?

Figura 2. Autostrada A24 e suo settore urbano, tratto dal Grande Raccordo Anulare alla Tangenziale Est . Massimo Cacciari, in Nomadi in pensione (Pensare la città infinita, a cura di Aldo Abbruzzese, 2004) dice che il tempo della metropoli contrasta drammaticamente con la sua organizzazione spaziale, con la pesantezza dei suoi edifici e con la massa dei suoi contenitori. A differenza della città, in cui i tempi della trasformazione corrispondevano a nuove forme organizzative della stessa, la metropoli si mostra oggi incapace di costruire luoghi e spazi adeguati alle necessità del proprio tempo. E anche se Roma non è propriamente definibile metropoli, così come non lo sono le altre città italiane, dal nostro canto possiamo rilevare che il modello di crescita seguito negli ultimi vent’anni ne evidenzia sicuramente l’incapacità di inventare i luoghi di cui il nostro tempo necessità. Le nostre città nel loro crescere, o meglio espandersi, anche senza un limite se non quello economico, e nell’incapacità totale di colmare i propri vuoti fisici, non rispondono neanche più alla richiesta, invece sempre più frequente, di spazio pubblico. E senza quest’ultimo non resta che da chiedersi se di città si può allora più parlare. Per quanto il progetto urbano non sia solo un processo tecnico ma anche sociale, culturale e politico, per il quale le forze in campo sono molteplici, non si può certo deresponsabilizzare il progettista, urbanista o architetto che sia, negandogli un proprio peso nel rapporto esistente tra pratiche urbane e abitare, tra divenire urbano e progetto sociale, tra spazio del vivere e architettura. La città oggi, nel suo rientrare a pieno tra gli obiettivi sui beni comuni dei movimenti dal basso, esprime infatti il conflitto esistente tra il lessico dei Claudia Tombini

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professionisti, tecnici e studiosi del fenomeno urbano e quello di chi la città la abita semplicemente in quanto cittadino. Diverse infatti sono le mappature autoprodotte dalla cittadinanza negli ultimi anni e basta fare un giro nel web per collezionare una serie non breve di links sull’argomento: ‘spazi indecisi’ (Fig.3) in bassa Romagna, ‘the urban observatory’ a Milano, ‘planimetrie culturali’ a Bologna, ‘esibisco’ in Toscana, ‘Rigenerazione’ a Ferrara, ‘Roma abbandonata’ nella capitale; tutte volte a diffondere ma anche a raccogliere informazioni sugli spazi in disuso del nostro territorio.

Figura 3. Spazi Indecisi, home del sito web. E se un tempo l’attenzione di questi movimenti si concentrava solo sugli spazi ‘vuoti’ interni al tessuto delle nostre città, oggi si guarda all’architettura, allo spazio costruito non più da demolire ma da ripensare. I tempi della città seppure sfuggiti ai pianificatori e paesaggisti non sembrano affatto essere sfuggiti a suoi abitanti. È allora nel confine intercorrente tra territorio dell’architetto e territorio del cittadino che dobbiamo cercare il giusto significato di territorio in quanto luogo. Franco La Cecla, architetto ma anche antropologo, ci insegna infatti che non si abitano i luoghi ma le relazioni (Mente Locale, 2008), e se questo è vero per l’architettura lo è senz’altro anche per la città che muove i propri primi passi dalla necessità di relazione di chi sceglie di abitarla. Inoltre, nella prospettiva a rapido consumo che ci vede sempre più come spettatori e non più come operatori, sappiamo non essere più sufficiente ridefinire gli oggetti quanto invece ridefinire il rapporto che con essi abbiamo. Questo ci porta inevitabilmente a riflettere sull’esistenza o meno di un divario tra la questione architettonica e la questione urbana. Se la città è incapace a rispondere alle esigenze dei suoi abitanti, l’architettura, nel suo non impedire la decomposizione del tessuto urbano, volgendosi esclusivamente entro se stessa, senza alcun dubbio finisce a fallire nel fare città. Pur sapendo che la crisi di questa, così come l’emergenza ecologica, non sempre corrisponde ad una mancanza degli architetti o degli urbanisti quanto piuttosto anche ad una crisi culturale e politica di civiltà, non possiamo passare oltre senza chiederci se sia in realtà più utile l’intervento diretto sul contenitore (la città) o quello sul suo contenuto (la sua architettura). Consapevoli dell’inadeguatezza della prassi oggi utilizzata nel rispondere ai bisogni che la città pone a se stessa, è probabilmente impossibile definire nuovi approcci e nuove metodologie di intervento intervenendo esclusivamente sull’architettura . Anche perché se così fosse non sarebbe la città ad essere in crisi ma lo sarebbe solo l’architettura, la quale invece, chiamata in causa dalla e per la città, pur essendo condizione necessaria ad un progetto di trasformazione di quest’ultima non può essere anche di per sé condizione sufficiente. Tanto che quelle che definiamo ora nuove pratiche di trasformazione urbana, e che sembrano muovere i propri primi passi dalle esperienze ecologiche ed ecologiste di riciclo all’interno del sistema produttivo, in realtà, per la nostra disciplina, nuove non lo sono affatto. A partire dalla rielaborazione continua delle nostre opere, la città nella propria stratificazione temporale, ha difatti da sempre mostrato la capacità dell’architettura di superare il proprio livello d’uso al fine anche di tradurre la propria bellezza in termini sociali. Maurizio Ferraris, in un excursus che parte dal Colosseo per arrivare ai Bunker della II guerra mondiale, definisce infatti monumenti anche quelle che chiama ‘sopravvivenze casuali’: cose pensate per durare poco e che invece durano tanto (Lasciar tracce: documentalità e architettura, 2012). Da sempre la città mantiene e trasforma, riusa e ricicla per così dire in termini attuali, le proprie architetture. A partire dal Pantheon per finire alle recenti trasformazioni delle architetture industriali, delle antiche stazioni ferroviarie o delle ex centrali elettriche dismesse, e si potrebbe fare un elenco lunghissimo, la città in genere, e Roma nello specifico di questo intervento, ha da sempre reinventato i propri spazi architettonici. In alcuni casi, soprattutto in quelli più recenti, si è tesi alla musealizzazione di questi interventi, singoli elementi che hanno trovato una propria specificità espositiva che li ha resi pezzi unici. In altri, e mi vengono in mente ora le ex-gil, come ad esempio quella di Minnucci a viale Adriatico a Roma, che rende questo punto uno dei fulcri sociali e urbani del proprio quartiere, l’intervento si è rivelato più virtuoso nel suo moltiplicare le funzioni, e nel produrre una certa flessibilità, al proprio interno. Negli ultimi anni si è inoltre Claudia Tombini

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visto, a partire appunto dall’intervento di New York della High Line, che queste operazioni possono riguardare non più un semplice elemento architettonico ma anche un sistema infrastrutturale intervenendo direttamente a scala urbana. L’esempio iniziale risulta allora ancor più chiaro: non si tratta di riusare il singolo oggetto ma il sistema di oggetti, riciclare appunto ‘parte’ della città. Ma i tempi di un ‘sistema’ non sono più assimilabili ai tempi del singolo ‘elemento’ e non sempre si può trovare la corrispondenza temporale desiderata, cercata oppure voluta; inoltre l’attuale consumo che operiamo oggi su spazio e tempo, come abbiamo precedentemente detto, vive di ritmo proprio molto più rapido di quello del nostro progetto. In quest’ottica allora si muove il nostro interrogativo di partenza sull’area che accoglie l’A24 nel settore urbano est di Roma: oggi fortemente vincolata ad essa, cosa sarà una volta che l’autostrada avrà cessato di essere? Con il ritardo cronico con cui l’Italia arriva alla meta sarà sufficiente intervenire ‘dopo’ o sarebbe il caso di ‘pensarci per tempo’? La sfida oggi, per le azioni di recupero, è senz’altro questa: trovare una metodologia di intervento capace di prevedere il disuso già da una sua prima fase progettuale; non potendo contrastare il ritmo del tempo il progetto dovrebbe riappropriarsi della sua maggiore forza insita nel concetto stesso di progetto. Più che lasciare vuote le frange che abbracciano l’A24, in attesa che qualcosa cambi e che si possano riempire indistintamente, occorrerebbe allora iniziare a chiedersi come attivarle già da ora in previsione di quel che inevitabilmente sarà. Data l’ampiezza del settore che, solo in lunghezza supera i 7 km, si potrebbero senz’altro immaginare diverse funzioni che, nello sfruttare la forma dell’area di intervento, sarebbero capaci di fare ‘rete’ per servire l’intero settore urbano (Fig.4). Elementi capaci ora di vivere a contatto con la forte presenza autostradale ma subendone ovviamente un certo condizionamento ma consci in futuro di poter diventare loro elemento condizionante e promotore di un nuovo rapporto con la loro spina centrale.

Figura 4. Area24, primo studio di Claudia Tombini e Daniela De Filippis sull’area dell’autostrada A24 presentato in occasione i Urban Transcripts 2011.

Progettare ora l’intera area vorrebbe inoltre promuovere un diverso uso dell’A24 a partire da ora, una flessibilità propria dei centri urbani che conoscono oggi, proprio grazie alla promozione di una loro molteplicità d’uso, nuova vita. Tratti interi, già da oggi facilmente distinguibili grazie alla presenza delle diverse entrate e uscite, potrebbero essere funzionali a diverse attività e occasioni. Da qui si potrebbe allora partire per svolgere un’importante attività di ricerca con il duplice obiettivo di verificare una possibilità progettuale (studiando il possibile intervento) e contemporaneamente analizzare l’esistenza o meno di casi simili (studio di altri progetti in itinere). Visto che l’architettura, come abbiamo precedentemente detto, ha da sempre mostrato la capacità di superare il proprio livello d’uso, oggi tocca senz’altro alla città farlo: le tre R, Riduci, Riusa e Ricicla, saranno allora già incluse nella P di progetto.

Bibliografia Bonomi A, Abbruzzese A (a cura di, 2004), La città infinita, Bruno Mondadori, Milano. Cancellieri A., Scandurra G. (2012), Tracce urbane. Alla ricerca della citt, Franco Angeli, Milano. Ferraris M. (2012), Lasciar Tracce: documentalità e architettura, Mimesis, Milano. La Cecla F. (2008), Mente Locale. Per un’antropologia dell’abitare, Elèuthera, Milano. Lynch K. (2001), L’immagine della città, Marsilio, Venezia.

Claudia Tombini

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I “vuoti” urbani: da zone grigie a luoghi d’incontro. Quando il retrofit è reintegrazione del valore sociale

I “vuoti” urbani: da zone grigie a luoghi d’incontro. Quando il retrofit è reintegrazione del valore sociale. L’esperienza romana Maria Vitiello maria.vitiello@uniroma1.it

Abstract L’identificazione del sistema di valori del costruito e l’assunzione del patrimonio edilizio come risorsa da riutilizzare per soddisfare nuovi bisogni costituiscono le premesse per la ricerca di un equilibrio tra conservazione e trasformazione, nella definizione delle scelte che nel tempo si è chiamati ad operare. In tale ambito il principio della tutela dell’identità del sistema edilizio esistente propone un’attività finalizzata al riconoscimento dei vincoli atti a garantire il patrimonio genetico della struttura oggetto di possibili interventi, intendendo per vincolo non solo il sistema di regole che si oppongono alla trasformazione, ma anche le potenzialità di sviluppo che l’intervento di recupero lascia disvelare. Parole chiave Lacune urbane, non-luoghi, restauro, valore sociale.

Una breve premessa «Una delle caratteristiche più importanti di un ambiente cittadino vitale, [sostiene Lewis Mumford] è quella raramente realizzata nelle civiltà passate: la capacità di rinnovamento. Contro l'involucro rigido e il monumento statico la nuova architettura ripone la sua fede nelle forze dell'adattamento e del rinnovamento sociali. Il simbolo del più antico ordine architettonico, in quasi tutte le culture, era la casa dei morti; nella cultura moderna è la casa d'abitazione, cioè la casa dei vivi, che si può rinnovare di generazione in generazione» (Mumford, 1953: 436). L'interpretazione della città che qui è suggerita rimanda a un'immagine 'organica' della realtà urbana, che non si esaurisce nella visione naturalistica dell'agglomerato come essere vivente che cresce, si espande e si aggiorna; ma implica un'osservazione in senso evolutivo della consistenza del mondo reale. L'azione di rinnovamento richiamata nel testo, infatti, non è da intendersi esclusivamente quale mera sostituzione di una cosa vecchia con una nuova. Piuttosto, è da decodificare nel doppio valore del ripetere e fare di nuovo. Queste due azioni concettualmente lontane e sostanzialmente opposte: l'una di reiterazione, l'altra di cambiamento, contengono un moto interno di produzione e di dissipazione che coinvolge la comunità umana e si manifesta attraverso i suoi artefatti. Nelle città, coagulo di intenzioni collettive e «gigantesche officine di forme» (Jünger, 1932: 77), non si realizza solo un gorgo d’appropriazione di suolo, ma anche rilascio di terra. Infatti, se nei luoghi di margine il terreno viene frantumato in piccoli campi: vari, disordinati, regolati dalla 'non regola', apparentemente persuasi dall'inquietudine della destrutturazione della trama agricola del paesaggio periurbano. Contestualmente il metabolismo urbano, nel suo osmotico respiro, consegna lotti e ampie porzioni di edifici sia in ambiti interni al reticolo della città consolidata, sia nei suoi confini. Sono mancanze che allentano la trama del tessuto edilizio rendendolo permeabile, flessibile, spugnoso. Si tratta spesso di aree dismesse, di 'zone grigie', di edifici o ambiti che un poco per volta hanno disperso il significato della loro presenza nella compagine sociale, ma che non sono ancora rifiuti.

Maria Vitiello

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I “vuoti” urbani: da zone grigie a luoghi d’incontro. Quando il retrofit è reintegrazione del valore sociale

Vuoti Una superficie, una costruzione priva di uso e abbandonata, di fatto, costituisce un vuoto nello zoning funzionale della mappa urbana, sia che esso risulti posto al centro della città compatta, sia che si collochi alla sua periferia. Questi spazi se svuotati dei loro contenuti e lasciati al nulla, rischiano di divenire dei 'non-luoghi' (Augè, 1992). Si è presa a prestito la fortunata definizione antropologica coniata da Marc Augè per la distinzione degli spazi della circolazione dei beni e della mobilità continua, caratterizzati dal flusso ininterrotto di presenze, per richiamare il senso di straniamento che viene alle cose qualora private dell'appartenenza, del radicamento, dell'identità. In un momento in cui si corre verso un unico 'mondo urbano' e l'indifferenza al luogo assurge a valore costituente le nuove edificazioni e la 'città generica'1 si offre ad una società generica, ad uomini generici che vivono vite generiche, l'identità è percepita come forza alternativa, di radicamento e difesa della tradizione. Questa è data dall'insieme di spazi, riti, liturgie, valori retorici che s'incontrano innescando il processo di identificazione della collettività con il luogo, che diventa una confluenza di segni e simboli capace di evocare significati attuali e remoti. Questi spazi vuoti di funzione, ma non privi di senso, che concretizzano e rendono visibile il continuo farsi e disfarsi della città contemporanea, rischiano quotidianamente di essere lasciati ad uno svuotamento totale di valore, ad una perdita della memoria storica che consente di far risalire il flusso del tempo, ma se correttamente interpretati costituiscono il segno della capacità della società urbana di trovare variazioni formali in grado di plasmare relazioni e improntare di cultura i prodotti materiali che gli uomini realizzano.

Waste 'Waste' è l'espressione usata da Geddes per indicare lo spreco (Geddes, 1915: 1). Questo è un termine che può avere molte declinazioni. Si può intendere come la condanna della società moderna, come frutto dell'irrazionale organizzazione dei processi economici, come l'uso iniquo delle risorse non rinnovabili o come la casualità del disordine. Waste è anche l'annullamento dei luoghi, la perdita dell'identità, della relazione che l'uomo instaura con le cose giorno dopo giorno vivendo la sua vita nella città e incontrandosi al suo interno come comunità, nel quotidiano scambio tra istituzioni, amministrazione e società. All'interno dell'ampia categoria dello spreco si può far ricomprendere anche l'assuefazione, l'incuria, l'ignoranza, l'indifferenza verso cose superficialmente inutili, semplicemente invecchiate o apparentemente insolite: cose, in altri termini, che hanno perso il loro valore d'uso, luoghi che hanno consumato il loro valore di spazio, edifici che hanno smesso il loro valore di novità. Eppure, se correttamente interrogate, queste cose diverse riescono a rievocare ricordi. I muri parlano attraverso le tracce che vi sono impresse dai processi naturali e sociali che li hanno prodotti, vivificati e trasformati. «Nelle cose [afferma Bodei] si depositano idee, affetti, simboli di cui spesso non comprendiamo più il senso. Più siamo in grado di recuperarlo e di integrarlo nel nostro orizzonte mentale ed emotivo, più il mondo si allarga e acquista profondità» (Bodei, 2009: 1). È una lotta contro l'ovvietà quella che deve essere attuata perché gli scarti del metabolismo urbano non si trasformino in 'non-luoghi'. È una riscoperta della storia di cui sono portatori ma anche un ricaricarle di senso, di nuovi usi in cui la dimensione collettiva si ritrova. (fig. 1)

Figura 1. Waste. Roma l’area intorno al gazometro e spazi a margine del mattatoio di testaccio. Ambiti urbani interni alla città eppure luogo dell’abbandono.

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«La città generica è la città liberata dalla schiavitù del centro, dalla camicia di forza dell'identità» (Koolhaas, 2001: 31)

Maria Vitiello

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Non è, dunque, un mero stratagemma quello di legare la 'città di pietra' con la 'città degli uomini', ma costituisce la lente che si rivolge e unisce il passato con il presente, abbracciando nel tempo scenari reali e possibili con la conservazione dei medesimi, senza indulgere in sprechi, ma inquadrando le strategie urbane, e con esse gli spazi, i pieni e i vuoti, gli usi che di questi si fanno e le persone che ne inventano le modalità, in un sistema ampio e naturalmente produttivo di forme. In questa continua generazione di varianti formali, tuttavia, è doveroso leggere non un semplice segno del progresso urbano, ma del suo sviluppo. La variazione, cioè, si deve intendere come mutazione, ovvero come l'evoluzione che cambia conservando in sé la sostanza genetica della cellula iniziale. Questa è la chiave di lettura che consente di rendere compatibile la stabilità di un luogo con la dinamica della modificazione, che è capace di rimettere in circolazione il cumulo delle culture che ogni epoca depone nelle seguenti Non case, palazzi, monumenti, città, visuali, panorami, giardini, ma patrimonio in senso ampio, cioè l'insieme dei beni che consente l'affermazione di una coscienza collettiva, elemento che contribuisce a creare o a rafforzare i valori identitari di un popolo. Il cultural heritage rappresenta la rivendicazione di una discendenza. È l'insieme dei beni che una generazione tramanda alla successiva, quindi il risultato di una scelta, di una sorta di contratto tra una collettività e un determinato insieme di cose, materiali o immateriali, alle quali viene riconosciuta una memoria sociale. Tuttavia, la trasmissione dell'heritage non avviene mai per vie automatiche, è necessario prendersi cura delle cose senza limitarsi ad osservarle con gli occhi del corpo, ma con gli occhi della mente si deve considerare la loro ’utilizzabilità’, il loro essere strumenti in relazione ad uno scopo che non si accontenta della semplice presenza. Sono i principi fondamentali della Carta Europea stilata ad Amsterdam nel 1975, ribaditi nel 1985 a Granada nel postulato della cosiddetta ’conservazione integrata’ e oggi recepiti anche dalla legislazione italiana.

Tutela e nuovi usi La tutela del patrimonio culturale nella struttura del nuovo Codice, infatti, è definita come «… l'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un'adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione»2. In altri termini, è data non solo in quanto elementare strumento volto al raggiungimento di finalità generali, ma è precisata dal legislatore e «[…] comprende la disciplina e l'esercizio di attività […] e di funzioni […] a tali fini dirette» (Sciullo, 2004). L'individuazione, la conservazione e la protezione, dunque, sono lo scopo ultimo della tutela la quale non si esaurisce in esse, ma trova piena legittimità nella funzione mediante la quale è possibile organizzare una serie di attività che specificano i mezzi della conservazione. Lo stretto legame tra il monumento e la sua utilizzazione, è garanzia per la preservzione del patrimonio e condizione intrinseca dell’architettura, per la quale non possono valere esclusivamente istanze di 'pura contemplazione' (Bellini, 1998: 3). La tutela ha il compito di trasmettere i frutti dell'operatività umana al futuro, generando azioni che non sono estranee alla storia, alla materialità del prodotto, al suo contesto, ma pone nelle sue peculiarità i principi per la conservazione. La storia non può essere presentata come uno strumento di ‘imbalsamazione’, non può costituire una strategia per bloccare all’oggi lo stato degli oggetti, ma deve consentire al manufatto del passato di parlare con l’uomo dell’attualità. In tal modo, il valore di un manufatto s’individua nel suo essere documento di storia, per la sua iconicità estetica, per la capacità empatica di emozionare attraverso le suggestioni che le tracce del tempo suscitano nell'osservatore e per il suo essere in continuità con il processo storico. Carattere, quest’ultimo, che non deve essere interpretato come’valenza d'uso’, ma come funzione sociale che si esplica nella fruizione di una eredità. L’uso, dunque, è accumulazione di storie che rinnovano quotidianamente l'identità del rapporto oggetto-soggetto e attraverso il ri-uso si esplica un accrescimento di tipo etico, sociale e politico della conservazione come dato esperienziale. La conoscenza, la lettura delle modificazioni depositate dal tempo e dagli uomini costituisce l'attività principale del restauro, quindi anche del retrofit urbano, inteso come prefigurazione in termini evolutivi del patrimonio culturale di cui siamo depositari. Alla scala urbana, allo stesso modo che per quella architettonica, l'inserzione del nuovo nell'antico non può essere respinta dietro lo scudo della tutela del tessuto consolidato, come violazione o devastazione. Anche se con ciò non si vuole lasciare spazio indistinto «agli esercizi di stile della nuova architettura» (Losavio, 2006: 36). Roma in questo è un esempio eccellente. Al contrario di quanto si possa sostenere, infatti, è una città fortemente trasformata negli ultimi anni. Si è ingigantita e il suo centro si è modificato, conservando però forte la sua carica identitaria: non ha ceduto al miraggio dell'architettura effimera, né ha considerato un ’peso’ i valori storici. Si è dotata, invece, di nuove strutture che raccontano di un processo di riconversione urbana e architettonica di spazi 2

Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, parte I, disposizioni generali, art.3 comma1, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, conv. con modif. in legge 26 febbraio 2007, n. 17

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dismessi, quelle 'zone grigie' prodotte dal metabolismo urbano e ricondotte nella funzione sociale della città prima ancora di diventare dei non-luoghi. Il MAXXI e il MACRO, nelle sue diverse sedi, sono esempi interessanti poiché vanno oltre la logica della demolizione-ricostruzione e rispondono all'esigenza di re-immettere nell'universo delle 'cose' un patrimonio edilizio in disuso ricaricandole di un senso che è morale, estetico ma soprattutto sociale.

Il MAXXI Le complesse strutture che compongono la "Caserma Montello" di Via Guido Reni, oggetto dell'intervento di Zaha Hadid, costituiscono il prodotto di una riconversione di edifici esistenti, quelli dello stabilimento Società Automobili "Roma". Si tratta di uffici, alloggi, officine e magazzini edificati nel 1905 tra via Flaminia e l’attuale Via Guido Reni 3. Nel 1916 vi è la prima conversione d’uso e il costruito muta in caserma a servizio della Reale Fabbrica di Armi4. Modificazioni all’area vengono disciplinate dal piano del 1931 anche se, sostanzialmente, fino al 1998 restano immutati nella loro incompiutezza i volumi, le forme e i tracciati viari che qualificano quest'area come una slabbratura del tessuto urbano; incoerente nel suo essere all'interno di una maglia rigidamente ortogonale e all'esterno delimitata da un confine con scarti che esaltano le contraddizioni formali di un impianto rimasto incompiuto.

Figura 2. MAXXI. Dialoghi con la preesistenza.

Il progetto Hadid secondo le direttive del bando, conserva l'edificio principale su via Guido Reni e il grande corpo a questo perpendicolare. Si tratta delle parti architettonicamente più rilevanti della struttura esistente oltre che degli edifici riconosciuti come margini ed elementi regolatori dell'impianto generale del sito. Il disegno della nuova struttura si snoda fluidamente nello spazio liberato dagli stabilimenti della caserma, appropriandosi delle preesistenze e cogliendone il senso. L'architetto legge e reinterpreta l'esistente frammentando gli elementi che lo definiscono, reinserendoli nel circuito del nuovo uno ad uno5. Il volume decomposto non segna un controcanto rispetto a ciò che si conserva delle antiche caserme, ma, con la sua forma sconnessa e impossibile da racchiudere in un elemento solido d’inviluppo, instaura un dialogo fecondo. (Fig. 2) 3

Agli originari stabilimenti della Società Automobili 'Roma', nel tempo si erano aggiunte: le officine del Gas della Società Angloromana, gli impianti delle Fonderie Fumaroli, quelli della Società Romana Tramway e Omnibus e la Fabbrica del ghiaccio Peroni. Queste sono le prime realizzazioni condotte nell'aera flaminia dopo il 1870, quando la città doveva essere dotata di impianti e infrastrutture necessarie ad assolvere appieno il suo nuovo ruolo. 4 Il progetto di conversione e ampliamento è di Andrea Santini. Il grande presidio militare è visibile nelle foto Nistri del 1919 e da allora rimane pressoché immutato fino ai nostri giorni. 5 Il prospetto è involucro, superficie muraria che vive simultaneamente la dimensione intima degli interni e l'allestimento urbano delle strade. I pilastri di ghisa alti e snelli hanno la forza delle linee, punti in cui si accentra la potenza dinamica dei carichi. Gli archi lasciano percepire nella nuova spazialità un sistema costruttivo icona della staticità. Maria Vitiello

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La decodificazione dell'antico, dunque, non parte dalla scala architettonica ma si propone come atto interpretativo del sistema urbano. Il legame con il contesto è da ricercare nella connessione tra l'edificio e la struttura urbana esistente, in cui il nuovo tende a ricucire il tessuto lottizzativo esaltandone i caratteri originari. I corpi architettonici come i fili di un rinaccio si ripetono e si intrecciano ripercorrendo la forma dell'isolato.

Figura 3. Maxxi. Roma. Il cantiere, i fili strutturali e le riconnessioni urbane.

Poi il vuoto creato dal distacco tra il nuovo edificio e il corpo che segna il confine dell'area militare dismessa. Si tratta di un vuoto che è pausa, ma anche passaggio, collegamento tra due assi viari. Infondo è un riammagliamento della storia urbana del Flaminio, un richiamo alla previsione del Piano del 1931 che voleva proprio in quel preciso ambito, un taglio nel tessuto edilizio per sottolineare la nuova direzionalità segnata dal ponte Duca d'Aosta. In quel vuoto si condensa tutta la valenza urbana del progetto poiché è lo spazio dell'incontro, ma anche quello del transito. In esso è racchiusa l'essenza del valore sociale del prodotto architettonico, sia esso nuova edificazione o intervento di restauro. Si tratta della capacità del posto di promuovere lo stare insieme, del ritrovarsi come collettività; che è il primo passo del processo di appropriazione che passa anche attraverso la mutazione e il suo uso, anche il più disparato, conduce a riconoscersi in esso, proiettandovi nuove aspirazioni, ritrovandovi nuove identità. La pausa, tra il nuovo e l'esistente conservato, è usata quotidianamente dagli anziani del quartiere che godono della frescura degli alberi, da famiglie di turisti che si appoggiano alle panche per consumare un pasto frugale, da attempati signori intenti a leggere giornali, da ragazzi che si ritrovano alla caffetteria per trascorrere insieme qualche ora del pomeriggio, ai cultori di arte che visitano le collezioni ed esplorano il contesto urbano; un flusso di vita che la nuova opera riesce a promuovere al suo interno.

Figura 4. MAXXI. Roma. L’appropriazione quotidiana dei 'vuoti', riplasmati dal nuovo e restituiti al quartiere. Maria Vitiello

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Il MACRO Fino al 1971 gli stabilimenti della Società Birra Peroni hanno ospitato la piena attività produttiva dell'industria. L'opificio, composto da una serie di padiglioni, magazzini di stoccaggio, autorimesse, uffici e servizi, è ubicato in un'area posta a ridosso delle Mura Aureliane, tra la via Salaria e via Nomentana, in un quartiere che ha origine con la "febbre edilizia" che investe Roma nel suo divenire capitale del regno Sabaudo6. Nel 1983 il blocco del birrificio diviene proprietà del comune di Roma e tra il 1995 e il 1999 hanno inizio i lavori di riconversione dell'area a Galleria Comunale d'Arte Moderna e Contemporanea7. Nell'architettura progettata da Odil Decq e Benoît Cornette a completamento del museo la continuità dello spazio fisico tra l'esistente e il nuovo è strettissima. Il nuovo si insinua in ogni angolo dell'esistente, sembra volerne saturare ogni vuoto, contaminare ogni elemento. Gli elementi strutturali dell'edificio novecentesco non sono esclusi allo sguardo. I pilastri cerchiati sono colorati di tinte diverse in funzione dei diversi usi delle sale nelle quali sono inseriti e instaurano un dialogo stretto con le passerelle metalliche che definiscono i nuovi percorsi. L’architettura contemporanea si svolge all'interno del cortile e dal sistema urbano non si possiede che una minima percezione dello spazio rinnovato se non dall'angolo tra via Nizza e via Cagliari, dove l'edificio esistente è stato artificiosamente tagliato e la costruzione, di fatto, è stata dotata di una lacuna. Una lacuna viene subito ricomposta da un volume diafano, che si estende sulle coperture a conformare il tetto-terrazzo consentendo al contesto urbano di divenire parte attiva della nuova architettura, anche se il dialogo tra nuovo ed esistente non avviene secondo regole convenzionali. La reciprocità, infatti, non si scioglie alla scala urbana e nemmeno a quella dei volumi architettonici, ma avviene dall'interno. Dalla grande vetrata sovrastante l'ingresso, dalle sale espositive in cui le opere esposte interagiscono con la città in una narrazione strettissima, dalla terrazza, punto aggregativo di grande suggestione che consente di percepire il reticolo urbano da una prospettiva diversa: dall'alto, ma non attraverso l'affaccio e al visitatore è richiesto uno sforzo per la ricomposizione mentale di ciò che è solo parzialmente visibile sia del nucleo della nuova architettura, sia dell'antica struttura urbana.

Figura 2. MaCRo. Roma. Dialoghi con le preesistenze urbane.

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La storia dello stabilimento è complessa poiché articolata in una serie di progettazioni e ampliamenti che portano alla graduale espansione della struttura e all'avvicendarsi di architetti che affrontano con diverso interesse e consapevolezza la realizzazione delle opere. Le parti relative alla progettazione di Gustavo Giovannoni mostrano, infatti, un gusto per il dettaglio che manca nell'ampliamento diretto da Alfredo Palopoli, che si occupa del birrificio negli anni tra il 1920 e il 1922, quando vengono costruiti gli edifici su via Cagliari e quello all'angolo con via Nizza (Racheli, 1993). Per la progettazione giovannoniana (Centofanti, Cifani, Bufalo, 1985) Questi riguardano il fronte principale dello stabilimento su Via Reggio Emilia e due corpi di fabbrica retrostanti. Le opere sono si consolidamento, la ridefinizione delle aperture sui fronti interni e il rifacimento delle coperture con la completa ridefinizione dell'apparato distributivo, consentendo l'apertura al pubblico di una parte della struttura. Sulla restante parte del lotto, quella sulla quale insistono gli edifici di minor pregio il cui stato di conservazione è quello tipico dell'abbandono di un'area defunzionalizzata (quello, cioè, di estremo degrado), invece, è stata aperta la procedura di concorso di progettazione del 2000 vinta da Odil Decq e Benoît Cornette.

Maria Vitiello

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I “vuoti” urbani: da zone grigie a luoghi d’incontro. Quando il retrofit è reintegrazione del valore sociale

Restauro urbano o riciclo di luoghi? La storia è piena di esempi illustri di edifici riciclati: templi, palazzi, persino i mausolei sono stati riutilizzati nel tempo per farne nuove architetture. Il legame che viene stretto dalle nuove forme qui raccontate con le preesistenze sembra assumere, però, una rilevanza particolare, che è data dalla scala urbana e dalla dimensione sociale del progetto. Possono apparire come una banale azione di riciclo, perché i pilastri, i muri, il contesto urbano provenienti da ciò che era entrano a far parte della nuova opera con funzioni più o meno analoghe alle precedenti, ma la cui accezione è diversa. Questi elementi che appaiono totalmente plasmati dall’opera contemporanea e ridotti a puro decorativismo, assumono, invece, nel nuovo realizzato il ruolo di reliquia. L’esistente, in altri termini, è interpretato e attraverso una fitta rete di prelievi, che assumono il valore pregnante di una citazione, diviene capaci di rimandare all’immagine architettonica o urbana disgregata, con una tensione che rievoca il "principio di emanazione" proprio del pensiero cristiano. Ed è in ciò la differenza. Ed è in questo atto che risiede il valore etico e sociale dell’azione di restauro urbano. Un valore che, però, ancora non siamo capaci di misurare per darne contezza.

Bibliografia Augè M. (1992), Non Lieux, trad. it. Nonluoghi, Elèutera 1993, Milano. Bellini A. (1998), "La pura contemplazione non appartiene all’architettura", in TeMa, n. 1, p.3. Bodei R. (2009), La vita delle cose, Laterza, Bari. Campos Venuti G. (2011), Un bolognese con accento trasteverino. Autobiografia di un urbanista, Pendragon, Bologna. Centofanti M., Cifani G., del Bufalo A. (1985), Catalogo dei disegni di Gustavo Giovannoni, conservati nell'Archivio del Centro Studi di Storia dell'Architettura, Centro di Studi per la Storia dell'Architettura, Roma. Jünger E. W. (1932), Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt, trad. it. L'Operaio. Dominio e forma, Longanesi 1984, Milano. Geddes P. (1915), Cities in Evolution, trad. it. Città in Evoluzione, Il Saggaitore,1970, Milano. Koolhaas R. (2001), Junkspace, trad. it. Junkspace, Quodlibet 2006, Macerata. Losavio G., (2006), "Sfida della qualità? No grazie", in Italia Nostra, n. 416, p. 36. Mumford L. (1938), The culture of Cities, trad. it. La cultura delle città, Einaudi 2007, Torino. Racheli A.M. (1993), Recupero edilizio e archeologia industriale. La fabbrica della Birra Peroni a Roma (19011992), Marsilio, Venezia. Sciullo G. (2004), "La tutela del patrimonio culturale (art. 3)", in Aedon. Rivista di arti e diritto on line, n. 1

Sitografia La rivista Aedon. Rivista di arti e diritto on line è disponibile su http://www.aedon.mulino.it/archivio/2004/1/art3.htm

Copyright: Le illustrazioni sono fotografie dell’autore ad esclusione dell’immagine aerea in Figura 3 presa da: http://www.archweb.it/dwg/arch_arredi_famosi/zaha_hadid/MAXXI/maxxi_lav_

Maria Vitiello

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Small scale intervention. Il ruolo della piccola scala nella rigenerazione urbana.

Small scale intervention. Il ruolo della piccola scala nella rigenerazione urbana Luca Vandini Politecnico di Milano DAStU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Email: luca.vandini@mail.polimi.it

Abstract Tra i molti approcci alla rigenerazione urbana che stanno dimostrando oggi una maggiore efficacia, è possibile distinguere una categoria d'interventi accomunati dalla predilezioni per la 'piccola scala', quella dell’edificio, del piccolo spazio urbano o del lotto inutilizzato. Sono interventi dotati certamente di una forte eterogeneità e dotati di una spontanea vocazione all'ibridazione reciproca, si annoverano infatti l’orto e il giardino comunitario, l’intervento di 'guerrilla gardening', l’occupazione temporanea di spazi pubblici per eventi, la riqualificazione di spazi abbandonati allestiti per attività collettive. Questo approccio al riuso della città riesce efficacemente a coniugare esigenze della contemporaneità come: temporaneità e processualità dell’azione trasformativa, partecipazione sociale, e attenzione ecologica, divenendo a dispetto della sua dimensione uno strumento di rivitalizzazione diffusa, e se integrato all’interno di strategie pubbliche può risultare uno strumento efficace per l’intervento nella città costruita, soprattutto nella città “durante e dopo la crisi”. Parole chiave Small scale, rigenerazione, riuso

La rigenerazione urbana. Problemi di scala. La rigenerazione e la riqualificazione urbana, intese come fenomeni integrati d'interventi architettonicourbanistici e di rivitalizzazione economica, culturale e sociale, sono tra gli obiettivi primari ed imprescindibili dell’intervento odierno nella città (Ave, 2004). Soprattutto in quei contesti, Europa e nord America, che hanno ampiamente sperimentato tutte le incongruenze e le incoerenze dello sviluppo economico-urbanistico industriale e post-industriale, e in cui la dimensione urbana appare ormai consolidata e molto spesso anche in contrazione. Questi inoltre sono proprio quegli ambiti che oggi risentono maggiormente della perdurante crisi economica mondiale, in virtù del fatto che proprio il modello di crescita urbana adottato nei decenni è tra le cause stesse della crisi. La riqualificazione urbana non è certamente un tema nuovo e negli ultimi due decenni è stato particolarmente frequentato sia progettualmente sia analiticamente (Galdini, 2008). L’attenzione in queste ricerche è stata prevalentemente riposta, per ragioni di consistenza e opportunità, verso i grandi comparti da riqualificare, come ad esempio quelli delle ex aree produttive e degli ex scali ferroviari. Aree di collocazione urbana e periurbana, di formato medio-grande (dalla decine alle centinaia di ettari) che a causa della generale trasformazione da un’economia secondaria ad una terziaria rendevano inutilizzato e liberavano sempre più spazio all’interno della città dell’occidente mondiale. Dopo più di due decenni d'intensa applicazione a questi temi è possibile riscontrare molti insuccessi. In ambito Italiano uno dei più rilevanti è sicuramente quello delle ex Officine Falck a Sesto San Giovanni comune della cintura nord Milanese, che da grande opportunità di rilancio per l’economia del territorio si è rivelato essere molto più un mero affare di speculazione finanziaria (Mappelli & Santucci, 2012) e salvo l’intervento in alcune aree di ridotte dimensione rimane ancora oggi un programma incompiuto. Esistono, a mio parere, alcune difficoltà intrinseche a questo tipo di programmi, legate proprio alla dimensione di queste aree che essendo potenzialmente grandi vettori d'interessi e affari, finiscono per essere assorbiti esclusivamente dalla dimensione finanziaria e speculativa e subiscono inoltre mortalmente il peso degli obblighi dei risanamenti ambientali. Parallelamente al dispiegarsi delle difficoltà e, in molti casi, al fallimento per questi estesi programmi di riqualificazione si è sviluppata una sensibilità per la rigenerazione di spazi urbani di Luca Vandini

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dimensione molto più ridotte, spazi in qualche modo dimenticati e non economicamente attraenti, che complice la recente crisi globale hanno assunto progressivamente maggiore consistenza e diffusione. A fianco quindi delle ormai note iniziative di riqualificazione a 'grande' scala si sta dispiegando un amplissimo ventaglio di nuovi approcci alla rigenerazione urbana che possono essere considerati il contrappunto – anche solo in termini dimensionali – degli interventi su grandi aree, ovvero gli interventi a 'piccola scala'. Per nuovi approcci mi riferisco alle azioni di guerrilla gardening tese alla riappropriazione verde di spazi non utilizzati, agli interventi di realizzazione di nuovi arredi urbani o di giardini e orti condivisi in aree in disuso o su tetti di capannoni non più in produzione, all’occupazione e allestimento temporaneo di spazi residuali per manifestazioni pubbliche, alle iniziative di conversione di spazi vacanti in produzioni agricole urbane. Sono interventi questi molto difficili da classificare e da proporre in una casistica esaustiva anche a causa della forte ibridazione reciproca che li contraddistingue e che li rende capaci di non subire negativamente gli effetti della crisi, ma anzi di essere da quest’ultima stimolati e potenziati (Lang Ho, 2012). Gli interventi small scale hanno oggi acquisito una consistente diffusione ed efficacia nella risposta ad alcune esigenze contemporanee per cui credo importante e necessario affrontarne gli aspetti peculiari e le potenzialità.

Small scale La forte eterogeneità e la ricchezza di esempi nelle iniziative che si muovono verso un nuovo modo di affrontare la rigenerazione urbana lasciano il dato dimensionale, la 'piccola' scala, come unico parametro identificativo capace di racchiuderli all’interno di una categoria analitica. Per piccola scala intendiamo la dimensione del ridotto spazio urbano, del lotto residuale abbandonato, dell’edificio in disuso, sino alla dimensione minima del lotto carrabile, il parcheggio. Nonostante possa apparire come una categorizzazione obbligata, credo che il parametro del 'piccolo' racchiuda in sé gli aspetti di forza e il potenziale che questo tipo di iniziative offre alla città, al modo di pensarla e di modificarla. L’importanza di questi nuovi approcci credo debba essere valutata nel contributo che apportano sia alla riflessione teorica che alla pratica, intesa come processi e azioni e nell'efficacia in cui promuovono una riqualificazione diffusa, a dispetto delle loro dimensione. Sono tre gli aspetti più caratterizzanti e significativi direttamente legati alla “piccola” scala: riduzione delle risorse, processualità/temporalità, ecologia estesa.

Figura 1. Collectif ETC, Bons plans pour le Refuge ?, Marsiglia, 2012. Creative Commons License, www.collectifetc.com

Luca Vandini

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Small scale intervention. Il ruolo della piccola scala nella rigenerazione urbana.

Risorse: ridurre e riutilizzare Sicuramente uno degli aspetti più distintivi e allo stesso tempo più determinanti nella costruzione dell’efficacia di questo modo di intervenire è la riduzione delle necessità di risorse materiali, una riduzione che non è solo contingenza nelle ristrette possibilità economiche odierne, ma è piuttosto un’impostazione metodologica. Agire con poco, spesso riutilizzando quello che c’è, che si trova nel luogo stesso o nelle vicinanze, per massimizzare il risultato in termini di partecipazione, costruzione comune e creatività. Uno degli ostacoli – che come detto in precedenza – le riqualificazione dei grandi comparti spesso incontrano è quello di trovare una adeguata disponibilità finanziaria iniziale e gestionale, che invece in questo tipo di interventi si riduce notevolmente consentendo un margine di efficacia notevolmente maggiore (in termini di effettiva realizzazione e di riduzione dei tempi nella modifica). Inoltre questa riduzione consente possibilità di riqualificazione anche per quelle condizioni che appaiono fuori dalle logiche d'investimento privato. Il contenimento nell’uso delle risorse materiali, non credo che sia corretto parlare solo in termini finanziari, infatti non è una semplice riduzione della richiesta di sostegno monetario, ma propone un cambiamento nella logica progettuale. Il risultato potenziale è direttamente connesso alle risorse disponibili in una dimensione locale, e non più alle possibilità di mercato o di finanziamenti esterni. Inoltre la riduzione delle risorse materiali richiama in proporzioni inverse un maggiore coinvolgimento della cittadinanza, si direbbe ‘attiva’ – anzi partecip-attiva – che diviene ideatrice, costruttrice, gestrice e ovviamente anche utilizzatrice degli spazi rigenerati, spezzando così le tradizionali logiche verticali della maggior parte degli interventi nella città. Attraverso queste nuove strategie d'intervento l’utente da destinatario e semplice utilizzatore diviene, usando un termine oggi tipico del contesto energetico, prosumer, ovvero promotore, produttore e utilizzatore allo stesso tempo. Il francese 'Collectif ETC', formatosi a Strasburgo nel 2009 da ex studenti del locale 'Istituto nazionale di Scienze Applicate', ha fatto di quest'approccio al riuso/riciclo dei materiali e degli spazi urbani unito al coinvolgimento della cittadinanza l’obiettivo dei propri interventi. Hanno iniziato la loro attività nella città da cui provengono per poi riscontrare un crescente successo in tutta la nazione tanto da lanciarsi in un'iniziativa chiamata 'Detours de France'. Un giro della nazione in bicicletta, per diffondere il loro approccio alla riqualificazione urbana, a richiesta delle amministrazioni e dei residenti. Nell'intervento di recupero del 'jardin de ta soeur', un giardino sorto nel 2004 su un lotto vacante nel cuore del quartiere 'les Chartrons' di Bordeaux l’obiettivo era quello di creare degli arredi e delle strutture che consentissero un uso dello spazio verde per attività di incontro e condivisione tra i locali abitanti. I materiali utilizzati nella produzione degli arredi sono stati in parte offerti dalla cittadinanza e in parte recuperati in un vicino parco in cui era cresciuto nel tempo una fitta foresta di bambù. Le uniche risorse finanziarie sono state impiegate per alcuni materiali da costruzione e per alloggiare i membri del collettivo per la durata dell’intervento. L’azione di riqualificazione si è svolta in una settimana ed ha coinvolto i cittadini dall’ideazione sino alla costruzione, lasciando uno spazio riqualificato e soprattutto un modello di approccio al recupero degli spazi abbandonati replicabile e reiterabile.

Figura 2. Collectif ETC, Le jardin de ta Soeur Bordeaux, 2012. Creative commons license, www.collectifetc.com

Luca Vandini

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Small scale intervention. Il ruolo della piccola scala nella rigenerazione urbana.

Processualità/temporaneità: ovvero quando il tempo conta più dello spazio Se la dimensione spaziale è sicuramente quella più efficace a descrivere questi interventi è anche vero che è l’approccio temporale a essere maggiormente innovativo e distintivo. Tutto trae origine dall’abbandonare un atteggiamento finalizzato esclusivamente al risultato, per rivalutare invece come decisivo il processo che ha portato al risultato, o meglio che consente di ottenere risultati multipli. L’unicità e la rigida definizione del risultato viene mutata criticamente a partire da due fronti: da un lato si cerca di sviluppare le potenzialità di tutte quelle operazioni che portano al risultato, non relegandole a mere tappe strumentali, e dall’altro non si cerca il prodotto finale come soluzione unica, ma come un momento di un processo continuo, senza fine. Processualità e temporaneità dell’intervento diventano quindi i parametri fondamentali di sviluppo della riqualificazione 'small scale'. Processualità nella rigenerazione urbana significa innanzitutto valorizzare le azioni prima dei prodotti. Tappe da sempre considerate esclusivamente nell’orizzonte del risultato finale diventano esse stesse un obiettivo primario, la ricognizione dell’esistente, la progettazione e la costruzione sono momenti in cui si consolida quello che il Collectif ETC chiama 'fabrique citoyenne de la ville' ovvero il tessuto attivo della cittadinanza, pronta a impegnarsi nella riqualificazione della città. A volte inoltre non sono necessari interventi concreti per riqualificare uno spazio, ma basta aprirlo, renderlo di nuovo conoscibile o proporre utilizzi attraverso escursioni progettuali affinché s'inneschino dei processi informali e spontanei di riuso e si riattivino i luoghi. Temporaneità significa invece cercare di sfruttare, piuttosto che contrastare, la forte dinamicità della contemporaneità, significa spostare e duplicare anche semanticamente l’obiettivo del proprio intervento. L’obiettivo di un intervento temporaneo, infatti, non è quello di produrre un’azione definitiva ma una sempre limitata nel tempo, e per questo con una fine, ma allo stesso tempo questa azione è inserita in un processo continuo e quindi senza fine. Il giardinaggio di guerriglia – guerrilla gardening – è un movimento spontaneo nato negli anni ’70 nelle metropoli americane, (New York e San Francisco sono stati sicuramente gli scenari più attivi) come movimento di critica e di attivismo contro la cementificazione dei suoli che la crescita urbana stava spingendo a ritmi già allora giudicati insostenibili (Pasquali, 2008). Lo scopo delle azioni di guerrilla gardening era ed è ancora tutt’oggi quello di contrastare la crescita del costruito ai danni delle aree verdi, e si propone in estrema sintesi in azioni di rinverdimento o di valorizzazione di aree abbandonate o residuali utilizzando soli materiali naturali, semi e piante. Il movimento nel corso dei decenni ha avuto uno sviluppo mondiale e oggi anche in Italia si possono contare numerosi gruppi attivi nelle principali città (Milano, Bologna, Genova). Al di là del rinverdimento e del recupero promosso, il movimento dei guerrilla gardener è importante perché raccoglie, proprio nell’essere un movimento, tutte le potenzialità dell’agire nella città e nel proporre una trasformazione rigenerativa che è innanzitutto un complesso di azioni, un processo dunque. Non solo, ma l’utilizzo prevalente di materiale naturale rende necessaria una gestione costante e una reiterazione delle azioni di giardinaggio rendendo così la temporaneità non solo un’esigenza ma un obiettivo.

Figura 3. Guerrilla gardening , http://guerrillagardening.wordpress.com/

Luca Vandini

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Small scale intervention. Il ruolo della piccola scala nella rigenerazione urbana.

Ecologia estesa: piccoli ecosistemi per grandi città Molti degli interventi di riqualificazione 'small scale' sono caratterizzati, come nel caso del guerrilla gardening, dall’utilizzo di materiali naturali, quello che in ambito anglosassone viene chiamato il soft landscape. Questo è dovuto al fatto che la maggior parte degli interventi è finalizzata proprio alla creazione e rigenerazione di spazi verdi. Se ci si limitasse a rilevare solo questo aspetto si rischierebbe però di considerare queste iniziative alla stregua di meri interventi ambientalistici. Si tratta quindi di considerare il termine ecologia, in una prospettiva più ampia e come suggerito da Felix Guattari (Guattari, 1989), non considerare solo il rapporto con l’ambiente (eco-, dal greco oikos, casa, ambiente) inteso come naturale, ma anche con l’ambiente sociale ed economico. Anche perché spesso i due ambienti sono difficilmente distinguibili. Come visto nei casi finora presentati la riqualificazione a carattere ambientale e le nuove pratiche sociali collaborative sono elementi imprescindibili e direttamente connessi l’uno all’altro. Rigenerare la città a partire dai lotti abbandonati, dagli spazi residuali, dagli edifici in disuso e dai piccoli spazi vacanti persegue un approccio alla città che ricerca fortemente anche il valore educativo ed economico, anche se non in senso tradizionale. Negli Stati Uniti, in alcune aree del paese come ad esempio nelle città della rust belt (il vecchio cuore acciaifero americano affacciato ai grandi laghi del nord est), la crisi urbana è sicuramente più evidente, ed è iniziata ormai da molti decenni. Città come Cleveland o Detroit, a causa delle migrazioni e della crisi dell’industria siderurgica, hanno visto negli ultimi decenni diminuire drasticamente la loro popolazione e i lotti urbani, quelli della città, la cosiddetta inner city progressivamente essere abbandonati e ritornare alla natura. Il letterale svuotamento dei lotti urbani, dopo essere stata un’esigenza di sicurezza e di efficienza amministrativa (mantenere un certo livello di sicurezza e di forniture in edifici abbandonati costava molto di più all’amministrazione locale che demolire le strutture stesse) è oggi divenuto un'opportunità di riconversione urbana. In questi lotti vacanti stanno nascendo nuovi di rigenerare la città basati sul riutilizzo produttivo, non più in termini industriali o commerciali, ma con prospettive alimentari. Dapprima sorti come risposte a immediate necessità di sopravvivenza – in un contesto in cui il più vicino supermercato poteva distare molte miglia – oggi, queste urban farm – fattorie urbane – sono delle vere e proprie attività economiche (capaci nella maggior parte dei casi di autosostenersi con le vendite), che però coniugano insieme anche un alto valore educativo (non solo di natura ambientale ma anche alimentare, in un paese in cui le statistiche della cattiva nutrizione sono ancora in ascesa) e un valore sociale. Queste iniziative hanno, infatti, una forte risonanza e contribuiscono in maniera decisiva alla riabilitazione dal degrado urbano delle aree in cui sorgono, attraverso la creazione di posti di lavoro, attraverso la disponibilità di cibo salutare e attraverso la disponibilità di spazi di socialità (Coppola, 2012). L’efficacia di queste iniziative è testimoniata dal documento 'Re-imagining Cleveland' prodotto dalla Kent State University di Cleveland, che con intenzioni manualistiche propone casistiche e soluzioni di trasformazioni di lotti abbandonati da trasformare in giardini eduli e fattorie urbane.

Figura 4. Buckey Urban Farm, Cleveland, USA, http://gitracks.wordpress.com/

Luca Vandini

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Cogliere le possibilità Credo sia facile cadere nell’errore di considerare gli approcci appena presentati come se fossero figli solo dell'attuale contesto di crisi e quindi incapaci di fornire una metodologia e degli strumenti validi in altri ambiti, sia geografici che socio-economici. Reputo invece sia possibile sostenere come l'approccio alla riqualificazione 'small scale' apra verso nuovi orizzonti interpretativi e progettuali e che oggi inevitabilmente si scontrano con le vigenti impostazioni di regolamenti e soprattutto con le diffuse consuetudini. Promuovere una riqualificazione della città attraverso interventi a 'piccola' scala significa sostenere la ricostruzione collettiva della città dopo anni in cui lo spazio pubblico e i luoghi urbani sono stati pensati e costruiti dall'appaltatore solo in conformità a indici numerici e prospettiva del risultato quantitativo. Significa inoltre avanzare verso una costruzione e gestione della città in un'ottica di ampia sostenibilità: ambientale, sociale ed economica. L'ostacolo più alto da superare sarà sicuramente quello di inserire queste pratiche all'interno di politiche e piani pubblici a causa delle rigide e chiuse normative, che oggi si dimostrano particolarmente impermeabili a trasformazioni temporanee, a interventi di costruzione collettiva e al riuso/riciclo di spazi e materiali urbani. L'asticella dell'ostacolo è inoltre spostata ancor più in alto dal fatto che molte di queste pratiche nascono e vogliono rimanere occasioni di protesta, senza cercare una qualsiasi forma di mediazione. Uno stimolo a percorrere la strada delle riqualificazioni 'small scale' può essere trovato ricordando le parole di Oswald Mathias Ungers che accompagnavano la proposta di riqualificazione post bellica per la città di Berlino «Oggi noi soffriamo di un senso di rispetto universale per il gigantismo forse perché pensiamo che ciò che è grande deve anche essere migliore. La realtà ci mostra invece che la riduzione e il rimpicciolimento significano anche un miglioramento della qualità, non ultimo della qualità della vita.» (Ungers, Koolhaas, Reimann, Ovaska, 1978).

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Sitografia

Collectif ETC, sito illustrativo dei loro lavori http://www.collectifetc.com Manuale di progettazione dei lotti abbandonati nella città di Cleveland, disponibile su reimaginingcleveland.org, risorse, Reimagining Cleveland Ideas to Action Resource Book http://reimaginingcleveland.org Manuale per la formulazione di un business plan legato alle attività di urban farming, disponibile sul sito dell'Agenzia per la Protezione Ambientale degli USA, Brownfields, Urban Agriculture &improving local, US EPA – Urban Farm Business Plan Handbook http://www.epa.gov/

Luca Vandini

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by Planum. The Journal of Urbanism ISSN 1723 - 0993 | no. 27, vol. II [2013] www.planum.net Proceedings published in October 2013


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