XVI Conferenza SIU | Full Papers Atelier 9a | by Planum n.27 vol.2/2013

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Atelier

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Spazi pubblici/paesaggi comuni: un progetto per la rigenerazione urbana Coordinatore Michelangelo Russo con Enrico Formato Discussant Maurizio Carta e Paola Viganò


Introduzione Nelle esperienze più avanzate italiane ed europee, la produzione e il disegno dello spazio pubblico, aperto e accessibile, attrattivo e multifunzionale, assume un ruolo centrale e ineludibile per immaginare una nuova qualità dell’abitare nel contemporaneo e per rilanciare l’attrattività delle trasformazioni territoriali. Lo spazio pubblico diviene riferimento stabile nei processi di trasformazione finalizzati alla rigenerazione delle aree abbandonate, degradate e marginali, nella realizzazione delle nuove infrastrutture, nel progetto di housing, nella riqualificazione ambientale e nella valorizzazione paesaggistica. La “rigenerazione del territorio” riguarda un campo di pratiche che sembra mediare tra aspetti socio-economici e “produzione dello spazio”, attraverso una profonda interazione tra la forma delle trasformazioni e la rigenerazione sociale, come condizione per incrementare l’abitabilità del territorio. La rigenerazione riguarda il progresso economico e la qualità della vita; attiene all’incremento dell’occupazione e al miglioramento della mobilità; promuove la mixitè sociale degli abitanti, la produzione di cultura, i valori storici, culturali e ambientali, l’identità territoriale locale nei processi dello sviluppo. Il termine “rigenerazione” indica forme di azione volte ad attivare risorse locali, anche in ambito urbano, attraverso processi che legano inevitabilmente le trasformazioni fisiche con il progresso sociale ed economico del territorio. La rigenerazione è un modello d’intervento sulla città in cui l’integrazione tra gli aspetti sociali, culturali, economici, ambientali, e gli aspetti fisici e quantitativi dello spazio urbano, contribuiscono a definire una vision come idea guida e percorso metodologico per trasformare la città. Il paesaggio è una nozione ormai di moda, usata in contesti culturali diversi, di cui si appropriano diversi approcci al progetto: una nozione ambigua ma ampia, proprio per il suo carattere aperto e comunicativo che interpreta costantemente, nella lunga durata, il legame profondo tra società e territorio. Una nozione estesa a tal punto da non riguardare esclusivamente lo stato di natura, né l’ecologia della biodiversità: il paesaggio, specie nella sua accezione culturalista, diventa un’argomentazione descrittiva che identifica diversi tipi di insediamenti, riguarda il degrado delle periferie come gli scarti dei processi urbani e funzionali della contemporaneità, lega la conformazione spaziale all’immagine territoriale stratificata nella percezione delle comunità. Uno degli aspetti più interessanti di questa immagine territoriale, specie per la potenzialità trasformativa ad esso sottesa, riguarda un tema centrale per la rigenerazione territoriale: attiene ai paesaggi che identificano una valenza collettiva di drosscapes, le aree interstiziali e gli spazi aperti interclusi, le aree agricole urbane e i luoghi dello scarto, i territori incolti, e le parti di waterfront, i brownfields e le aree dismesse. Si tratta di aree, spesso particolarmente malleabili e trasformabili, che mostrano valori paesaggistici spiccati o latenti, che in prospettiva consentono la costruzione di nuovi paesaggi comuni, intesi anche come luoghi della socialità e dell’inclusione, della continuità tra reti e spazi, del riequilibrio tra funzioni e polarità urbane.

In quest’accezione il paesaggio tende ad identificarsi con lo spazio pubblico, come spazio identitario che la tradizione culturale della pianificazione urbana positivista, tipica di una certa modernità, ha espunto dai materiali e dai valori del progetto moderno, e relegato al ruolo di “spazio inverso”, di estensione residuale del disegno della città funzionale, forma inerziale di un progetto del territorio costituzionalmente settoriale, frammentato e discontinuo. Rigenerare città recuperando paesaggi, conferendo loro una rinnovata centralità nel progetto dello spazio pubblico, rappresenta una prospettiva strategica del progetto contemporaneo: l’Atelier 9, con l’intenzione di esplorare questo quadro concettuale, ha raccolto un alto numero di contributi e di proposte di grande interesse per qualità, profondità e problematicità. Michelangelo Russo, Enrico Formato


Spazi pubblici/paesaggi comuni: un progetto per la rigenerazione urbana

Coordinatore Michelangelo Russo con Enrico Formato Discussant Maurizio Carta e Paola Viganò

9a Rigenerazione creativa della città contemporanea: identità, inclusione e costruzione di spazio pubblico Sara Basso Nuovi percorsi di qualità. Ripartire da paesaggi minimi per trasformare gli spazi dell’abitare quotidiano Francesca Borrelli Favela Calling. Il Morro da Providência Antonella Bruzzese Centralità a tempo. Industria creativa, trasformazioni urbane e spazio pubblico a Milano Rodrigo Coelho The public space in the reconstruction of urban peripheries: an example of the Polis program in Portugal Federico D’Ascanio La rigenerazione urbana come modello di sviluppo. Il laboratorio aquilano

Valerio Di Pinto Misurare l’attrattività. L’approccio configurazionale per l’interpretazione del ruolo e del valore degli spazi pubblici Giovanna Fancello L’Approccio alle Capacità e le Politiche di Sviluppo Urbano Rossella Ferorelli, Alessandro Cariello Spazi pubblici in rete: l’accesso come indicatore di rischi e opportunità del geosocial networking per la dimensione urbana Enrica Gialanella Le procedure ad evidenza pubblica come strumento per la rigenerazione urbana Vincenzo Gioffrè, Elisabetta Nucera Il riciclo del paesaggio agrario: un parco multinazionale lungo le terrazze della costa viola La costruzione sociale dello spazio pubblico come paesaggio condiviso

Alessandra Marin, Milena De Matteis Percorsi partecipati di rigenerazione urbana in tempi di crisi

Alberto Bertagna Moti di paesaggio

La linea di costa e le citta d’acqua: il paesaggio come spazio pubblico

Paola Cannavò L’inclusione come pratica di disegno e di produzione dello spazio pubblico?

Giuseppe Abbate Gli spazi pubblici costieri nel progetto di territorio Massimo Clemente, Eleonora Giovene di Girasole, Daniele Demarco Rigenerazione delle città dal mare per una crescita sostenibile Luca Di Figlia Rigenerazione portuale delle città-porto delle isole: la rilevanza dello spazio pubblico Valentina Orioli, Enrico Brighi Spazio pubblico e rigenerazione urbana: la Darsena di Città di Ravenna come caso di studio Forme del pubblico e approcci alla sua conoscenza e trasformazione Sarah Chiodi Spazio pubblico e sicurezza. Le relazioni tra la pianificazione urbanistica e la prevenzione del crimine

Claudia Faraone, Valeria Leoni Nuovi paesaggi e nuove prospettive per i territori abitati in tempo di crisi: la rigenerazione del PEEP “Circus” a Venezia attraverso gli spazi aperti Carmela Mariano Spazi pubblici ‘migranti’. Processi di rivitalizzazione degli spazi pubblici della città contemporanea Laura Mascino Declinare in spazi le idee di welfare: nuovi materiali del progetto urbano, nuovi paesaggi Ecologie e paesaggi ordinari: il progetto dello spazio pubblico come dispositivo di rigenerazione urbana Fulvio Adobati, Vittorio Ferri Svantaggiata e marginale? Più città per la montagna Andrea Cingoli, Michele Manigrasso Flessibilità e comfort nel progetto di riqualificazione dello spazio pubblico. La ‘Terza Natura’ a servizio dell’Adattamento


Daniela Corsini Aree industriali dismesse e opportunità pubbliche

Romeo Farinella, Saveria Olga Murielle Boulanger, Michele Roncoroni Il ‘metro bosco’ per San Pietro in Casale: “un buon posto per vivere”

Anna Moro, Roberto Manuelli, Gianfranco Orsenigo Nuovi spazi di prossimità

Valeria Lingua Rigenerare paesaggi comuni complessi: i waterfront delle isole

Interpretazioni, concetti e strategie per ripensare il progetto urbano

Cristina Mattiucci, Rosa De Marco Le nuove forme del territorio en dèbat. Il paesaggio come strumento analitico e progettuale della post-metropoli

Libera Amenta, Enrico Formato Diffusione, scarti e tracce di felicità nella Piana Campana Alessandro Camiz Lettura e progetto di spazi urbani collettivi: il transetto processuale Mariavaleria Mininni, Francesco Marocco Nuovi strumenti (fenomenologici) per la rigenerazione urbana: l’apporto del racconto e del romanzo nel progetto dello spazio periurbano Marialuce Stanganelli Tempo e costruzione dello spazio pubblico urbano Ester Zazzero L’urbanistica della sostenibilità. Una nuova cultura del Sustainability Sensitive Urban Design per lo spazio pubblico Strumenti, metodi e rappresentazioni di paesaggio: materiali per il progetto Emanuela Abis, Chiara Garau, Stefano Pili Una metodologia per la valorizzazione del paesaggio storico urbano secondo le linee guida UNESCO Raffaella Campanella Dall’architettura della città all’architettura del paesaggio urbano? Una ricerca per una nuova praxis per il progetto dello spazio pubblico Giacomo Chiesa, Luigi La Riccia Dalla rappresentazione alle rappresentazioni di paesaggi e territori Felice De Silva Lo spazio pubblico nei quartieri di ERP della città di Avellino Gioia Di Marzio Ecologie per la Rigenerazione Urbana. Il vento nel progetto di spazio pubblico Bruna Di Palma Lo spazio archeologico come spazio pubblico

Stefano Munarin, Maria Chiara Tosi Gli spazi del welfare come semi di urbanità? Verso nuovi cicli di vita per il territorio veneto?


Nuovi percorsi di qualità. Ripartire da paesaggi minimi per trasformare gli spazi dell’abitare quotidiano

Nuovi percorsi di qualità. Ripartire da paesaggi minimi per trasformare gli spazi dell’abitare quotidiano Sara Basso Units – Università degli Studi di Trieste DIA Dipartimento di Ingegneria e Architettura Email: sara.basso@alice.it; sara.basso@arch.units.it Tel: 328 7222877

Abstract Il paper intende esplorare l’opportunità di riconoscere nel ‘paesaggio minimo’ un concetto operativo utile a guidare l’azione urbana per accrescere la qualità dello spazio abitabile. I paesaggi minimi sono spazi aperti, abitabili, nella prossimità del quotidiano, che si prestano a diventare luogo di condivisione di valori, interessi, esperienze; i paesaggi minimi si propongono cioè come nuovi luoghi comuni nei quali ri-costruire la dimensione pubblica della città. Al tempo stesso, i paesaggi minimi possono essere considerati come dispositivi di riqualificazione dello spazio fisico, nel loro porsi come potenziali incubatori e produttori di risorse ecologiche, sociali ed economiche per la città. Parole chiave paesaggio minimo, spazi comuni, transizioni.

L’ipotesi sottesa da questo contributo è che il senso di urbanità della città possa essere ricostruito anche partire dal progetto di “paesaggi minimi”. Con questa locuzione si allude a spazi abitabili nella prossimità del quotidiano, che si prestano a diventare luogo di condivisione di valori, interessi, esperienze: i paesaggi minimi si propongono cioè come nuovi luoghi comuni nei quali ri-costruire, in modo incrementale, la dimensione pubblica della città. Al tempo stesso, i paesaggi minimi sono ambiti in cui sperimentare percorsi di qualità per l’abitare attraverso una maggiore attenzione per le nuove questioni urbane (Secchi, 2011), da più parti riconosciute come urgenti e improcrastinabili. I paesaggi minimi possono cioè diventare spazi che concorrono alla rigenerazione urbana, tramutandosi in produttori e incubatori di risorse per la città: sociali, economiche ed ecologiche. Tale ipotesi verrà indagata lungo tre differenti linee di ricerca. La prima intesa a esplorare la nozione di paesaggio minimo, di derivazione geografica, e verificare l’utilità che può avere una sua trasposizione in campo urbanistico; la seconda propone una riflessione sul senso e sul valore del paesaggio minimo come potenziale ‘spazio comune’; la terza è orientata a delineare possibili strategie di progetto utili alla costruzione di paesaggi minimi per la città.

Una questione rilevante. L’urbanità delle città L’ipotesi di un ripensamento degli spazi della prossimità come nuovi ‘minimi abitabili’ e come ambiti di una nuova progettualità, trova fondamento in alcuni presupposti disciplinari. Essi richiamano ad una serie di questioni che, dal mio punto di vista, sono strettamente interrelate e riguardano essenzialmente la crisi dello spazio pubblico da un lato, e la ricerca di una nuova abitabilità per la città, dall’altro. Due questioni confluenti nella faticosa ricerca di una nuova urbanità per i territori contemporanei. Il riferimento è, in particolare, al dibattito che ormai da tempo richiama alla crisi della dimensione pubblica della città e al conseguente ridimensionamento dei suoi rapporti con la sfera del privato. Sono ormai numerosi gli studi che dimostrano come siano profondamente cambiati i modi di ‘stare in pubblico’ (Bianchetti, 2008: 75) della società contemporanea, e come questo abbia avuto profonde ripercussioni sulla riscrittura delle geografie Sara Basso

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dell’abitare1. Puntualmente restituite grazie all’osservazione di pratiche, usi, modificazioni dello spazio residenziale e delle sue pertinenze/vicinanze, queste geografie hanno rivelato il progressivo consolidarsi di relazioni – tra abitanti e tra questi e il territorio - espresse non tanto nei grandi e tradizionali spazi di rappresentanza, quanto piuttosto negli spazi della prossimità nel quotidiano. Qui, più che altrove, oggi si offre la possibilità di ricostruire un senso di appartenenza comunitario2. Si tratta di spazi che non hanno né natura, né vocazione univocamente determinate: residui di naturalità, spazi tra le residenze non progettati o mal configurati, zone di margine residenziale, ecc. Sono, in sintesi, ambiti che più di altri manifestano attitudini a farsi ‘luoghi comuni’ (Paba, 1998), e che si offrono (per vicinanza, opportunità, sicurezza, ecc.) a forme di appropriazione, cura, ecc., attraverso le quali viene favorita la ricomposizione, entro dinamiche anche circoscritte di interazione sociale, di sentimenti di appartenenza, identificazione, condivisione. Mentre la ricognizione delle trasformazioni sociali e spaziali nelle nostre città conferma queste tendenze, molte amministrazioni pubbliche hanno continuato a concentrarsi su progetti urbani di grandi dimensioni e a forte rappresentanza, promuovendo azioni rivelatesi, in molti casi, molto costose e non sempre efficaci (Lanzani, Pasqui, 2010). Il concentrarsi sulla spettacolarizzazione dei risultati di grandi opere, e sugli eventi a queste connessi, ha fatto passare in secondo piano l’emergere di nuove domande di qualità da parte degli abitanti. Sempre più insistenti ed esplicite, esse riguardano l’opportunità di avere città più accessibili, più sane, più eque3, imponendo la messa a punto di un approccio urbanistico nuovo, più cauto e maggiormente attento alle dinamiche di interazione tra spazio e società. Di un approccio, cioè, capace di basarsi su un’attenta ricerca di una nuova qualità per l’abitare la città contemporanea, chiarendo il senso e il valore, oggi, di una locuzione densa come ‘qualità dell’abitare’ e restituendone il significato nella dimensione operativa della pratica progettuale. Viene allora spontaneo chiedersi: perché non partire proprio dal ripensamento di spazi (e progetti) più contenuti per provare a ricostruire il senso di urbanità della città e, allo stesso tempo, sperimentare nuovi percorsi di qualità (dell’abitare)? Perché cioè, invertendo l’osservazione, non ripartire proprio dagli spazi tra, spazi limite, o, ancora, spazi di margine, che più di altri hanno la potenzialità di essere oggetto di forme di appropriazione spontanea e positiva?

Paesaggio minimo: una declinazione urbanistica È possibile guardare agli spazi della prossimità nel quotidiano come ambiti di nuove opportunità per gli abitanti e per la città a partire da un loro ripensamento nei termini di ‘paesaggi minimi’. Questa locuzione, già adottata in ambito geografico, si presta con efficacia ad un uso anche in ambito urbanistico. Nella declinazione geografica, i paesaggi minimi denotano ambiti di dimensioni contenute, inseriti in contesti urbani, con caratteri naturalistici di pregio e a cui si riconosce un valore storico-paesistico e identitario (Ferlinghetti, 2009): si tratta dunque di paesaggi culturali, oltre che naturali. La loro sopravvivenza è garantita dall’azione dell’uomo: questo sta a significare che non si ritrovano nella matrice originaria del luogo, ma è la trasformazione antropica che ne definisce la configurazione e la relativa permanenza nel tempo. È dunque nell’interazione uomo-natura l’essenza stessa del ‘paesaggio minimo’ e il nesso del loro relativo riconoscimento. In modo analogo, pensare a paesaggi minimi in urbanistica significa ragionare sull’opportunità di progettare spazi aperti di dimensioni contenute come nuovi ‘minimi abitabili’. Questo a partire da una nuova attenzione per ambiti di prossimità - soglie, ambiti di passaggio, zone limite, spazi ‘tra’ (tra interno esterno, tra pubblico e privato, tra collettivo e semicollettivo) - il cui potenziale possa essere riconosciuto non solo nell’opportunità di riqualificare qualitativamente il loro intorno, ma anche nella capacità di aggregare attorno ad essi attività e forme di condivisione, di varia natura. Il paesaggio minimo si offre cioè come un dispositivo funzionale alla realizzazione di spazi intrinsecamente sostenibili, e allo stesso tempo abitabili, nell’accezione che in tempi recenti abbiamo imparato a dare al termine. Il paesaggio minimo è uno spazio di opportunità. Anche nella declinazione urbanistica, l’attenzione è posta alla dimensione limitata, ‘minima’ dello spazio. Questo, però, non significa rifugiarsi nella dimensione micro, quanto piuttosto ragionare sulla rilevanza che questa dimensione può avere all’intero di un processo di rigenerazione della città.

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A partire dalle ormai note ricerche sull’area milanese condotte negli anni novanta da Stefano Boeri, Arturo Lanzani e Edoardo Marini, ma anche da alcune pubblicazioni che hanno iniziato a registrare la formazione di nuovi spazi pubblici nella città contemporanea, come, ad es., Desideri, Ilardi, 1997. 2 Sono state, in particolare, le numerose indagini sull’abitare e sulle sue molteplici declinazioni a darne adeguato riconoscimento; tra le più recenti e note, ad es.: Bianchetti, 2009; Bianchetti, 2011; Sampieri, 2011 ma anche LaboratorioCittàPubblica, 2009, esito di una ricerca collettiva sulla città pubblica. Qui, il rilievo delle tracce di usi e appropriazioni si è tradotto in strategie per la riqualificazione dei quartieri di edilizia residenziale pubblica. 3 Domande e istanze di qualità che hanno trovato riscontro anche nelle direttive contenute nei programmi europei, attraverso i quali forme di governo del territorio e progetto dello spazio urbano si misurano su obiettivi comuni e sulla costruzione di scenari futuri sostenibili e condivisi (ad es. “Horizon 2020”). Sara Basso

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In primo luogo, perché questi ‘minimi’ possono, per composizione, formare nel loro insieme spazi più articolati, fornendo un supporto adeguato «alla tessitura indeterminata e diffusa delle minute espressioni formali» (De Carlo, 1964: p. 28) legate alle pratiche di uso e fruizione dell’ambiente urbano. I paesaggi minimi si prestano infatti a comporre, a una scala più ampia, figure funzionali al ridisegno di una più complessiva struttura urbana4: un bordo, un frammento, un pattern5, ecc. danno potenzialmente vita, nel loro insieme, a sistemi urbani continui (Bohn, Viljoen, 2010) nei quali possono sussistere relazioni ambientali, ma anche sociali ed economiche. Inoltre, il progressivo emergere di una dimensione ecologica nel fare urbanistica (Mininni, 2002; Mininni, 2010; Mininni 2012; Mostafavi, Doherty, 2010) spinge a rivalutare l’importanza della piccola scala: è dimostrato infatti come questa abbia una valenza ambientale pari alla scala media (riconducibile approssimativamente a quella urbana) e a quella territoriale. ‘Paesaggi minimi’ possono, se adeguatamente trattati, attraverso processi di accumulazione, contaminazione, connessione, supportare la formazione di sistemi ecologici più complessi, utili a ridefinire il bilancio ecologico della città. Come in ambito geografico, così anche in campo urbanistico il paesaggio minimo può contribuire alla «qualificazione polisemica della matrice territoriale» (Ferlinghetti, 2009: p. 284-291), aumentando la sua diversità biologica/ecologica. Il paesaggio minimo è uno spazio abitabile. Il paesaggio minimo si costruisce nell’ordinarietà del quotidiano: anche nella declinazione urbanistica assume rilievo l’interazione con l’uomo, nel suo essere abitante (Tagliagambe, 2008b; Di Biagi, 2013). Diventa rilevante la predisposizione dello spazio ad accogliere pratiche che si ripetono, abitudini; la sua attitudine a farsi scena di «comunità di pratiche» (Lanzani, 2005: p. 29; Tagliagambe 2008a) favorendo il processo di appropriazione e sua trasformazione in ‘luogo’ per l’abitare6. Un processo compiuto attraverso il riconoscimento collettivo e condiviso dei valori e simboli che esso rappresenta o che veicola con il suo uso. Pensare lo spazio dell’abitare per paesaggi minimi offre così anche l’occasione per dare una razionalità progettuale a forme diverse di ‘appropriazione della città’ (Borasi, Zardini, 2008), come pure a possibili azioni di cura (Solarino, 2009), anche e soprattutto nei termini di ‘manutenzione urbana’ (Di Sivio, 2004; Baccarelli, 2012). Il paesaggio minimo è uno spazio di mediazione e prossimità. Nella declinazione urbanistica, infine, il paesaggio minimo rafforza e conferma la sua natura di ‘spazio di transizione’. Esso non è mai isolato, ma si offre tra ambiti a differente natura: tra pubblico e privato, tra collettivo e semicollettivo, tra interno e esterno. In questo riconosciamo il suo potenziale di ‘spazio intermedio’ (Tagliagambe 2008a): ‘zona di contatto’ (Bianchetti, 2010: p. 117), di relazione positiva e costruttiva tra sfere in opposizione. Luogo per dare adeguata risposta alla richiesta di nuove prossimità7 nell’urbano.

Ripensare il comune. Il paesaggio minimo come spazio di pratiche Inteso come spazio abitabile, luogo di condivisione o spazio intermedio, il paesaggio minimo si propone come potenziale spazio comune. Soffermarsi su questa sua connotazione può essere importante per chiarirne il valore nei termini di ‘spazio di pratiche’. ‘Spazio comune’ è una locuzione nei confronti della quale si è di recente manifestato, in ambito urbanistico, un rinnovato interesse (Di Giovanni, 2010): spesso contrapposta o messa in relazione a quella di spazio pubblico, ha rappresentato un modo per affrontare la crisi che ha investito quest’ultimo. Spazi comuni sono diventati luoghi in cui reinventare la città (Brugellis, Pezzulli, 2006); luoghi dove le tracce dello spontaneismo sono state lette come occasioni di riscrittura della dimensione fisica del ‘pubblico’. Tuttavia, a fronte delle numerose indagini compiute sul campo e orientate a riconoscere gli spazi oggetto di condivisione, manca forse ancora una riflessione puntuale che delinei le possibili declinazioni del ‘comune’. Che cosa rende uno spazio ‘comune’? Qual è l’oggetto della condivisione, l’elemento in comune? Comprendere meglio attraverso quali forme il comune si manifesta, o ha la possibilità di manifestarsi, può concorrere a definire con più precisione modalità di trattamento dei paesaggi minimi e loro articolazione in un più ampio progetto di 4

Appare di grande attualità il suggerimento di De Carlo di considerare il progetto della città attraverso il binomio “struttura e forma urbana”. È ben noto come De Carlo sostenesse che la ‘forma’, esito delle interrelazioni tra spazio e società, dovesse essere supportata da una struttura adeguatamente progettata; perché solo a partire dal ripensamento e dal progetto della struttura sarà «di nuovo possibile immaginare di ricondurre a schemi di riferimento razionali le linee più generali del processo di generazione delle forme urbane»: (De Carlo, 1964: p. 28). Sul rapporto tra paesaggio, abitare e struttura anche Tagliagambe 2008b. 5 Sono, questi, alcuni degli elementi chiave indicati dalla landscape ecology come costitutivi del paesaggio. Una riflessione utile per riflettere sul ruolo che possono avere in campo urbanistico si trova in Dramstad, Olson, Forman, 1996; sul significato di struttura in ecologia Fabbri, 2010. 6 Nel senso che ne dà Cacciari, 2009. 7 Mi riferisco al valore della prossimità inteso non solo come vicinanza fisica, ma nell’accezione più ampia che abbiamo imparato a conoscere grazie alle numerose esperienze francesi, dove la prossimità diventa non solo un obiettivo, ma un principio nella costruzione dello spazio urbano. Tra le esperienze più recenti, il piano di Reims 2020, Le choix des proximités, consultabile on-line. Sara Basso

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rigenerazione della città. Può, inoltre, aiutare a meglio definire quale sia il ‘minimo’ in termini progettuali, ovvero quali siano le condizioni necessarie a favorire l’appropriazione e il conseguente riconoscimento dello spazio. Uno spazio in comune può, infatti, implicare gradi e forme differenti di interazione tra le persone, e tra queste e lo stesso spazio. Appare utile riconoscere come i modi attraverso cui queste interazioni si compiono non necessariamente comportino la condivisione fisica del luogo. Comportano però sempre, all’origine, il riconoscimento di un valore culturale, storico o sociale insito in esso, e la condivisione (sia pure implicita) di quel valore con altri soggetti. Implicano cioè l’attivazione di un processo che coinvolge conoscenza (locale), territorio e abitanti, secondo dei principi di accumulazione e sedimentazione nel tempo. È lecito ammettere, quindi, che esistano forme diverse di comune. Si propone una prima distinzione tra comune percepito, condiviso e negoziato: una distinzione utile all’individuazione di parametri e dispositivi funzionali a rendere operativo il concetto di paesaggio minimo (fig. 1). Il comune percepito non implica un’azione di trasformazione da parte degli utenti, ma solo il riconoscimento dei valori insiti in esso e il suo eventuale uso, sia pure limitato. Tale riconoscimento può avvenire in maniera statica, senza un’interazione diretta con lo spazio (es. quando questo viene riconosciuto ‘da fuori’: nel caso sia protetto, non accessibile, ecc.), o dinamica, attraverso il movimento che si esplica con l’uso (ad es. uno spazio reso comune da un’azione ripetuta di attraversamento). Questo tipo di comune induce a confrontarsi con questioni legate alla distanza e alla prossimità: richiama al valore positivo della distanza (Basso, 2010) e al potenziale progettuale della percezione nel costruire paesaggi (cfr. Fabbri, 2010). Il comune condiviso, invece, implica sempre un’azione di uso, che può però essere variabile nel tempo e nello spazio. Richiede di considerare come l’interazione tra quest’ultimo e l’abitante incida sulla sua configurazione: impone mantenere un carattere di vaghezza nella sua definizione, utile ad evitare forzature nell’uso, e una particolare attenzione alla dimensione dell’accessibilità, intesa in senso ampio. Il comune negoziato, infine, comporta forme riconoscibili di appropriazione e individualizzazione (Cesa Bianchi, 2011), legate ad usi spazialmente definiti e soggetti, tendenzialmente, ad una stabilità temporanea. Sono spazi che richiedono una maggiore dotazione, anche in termini di attrezzatura, anche se la cura demanda la loro manutenzione agli utenti. L’utilità nel riconoscere forme diverse di comune risiede nella possibilità di rafforzare la loro natura tramite dispositivi ad hoc: pensare a questi spazi attraverso soglie, limiti, margini permeabili o semipermeabili, può concorrere a dare loro una maggiore visibilità e riconoscibilità.

Figura 1. Parametri e dispositivi per riconoscere e nominare le ‘forme del comune’.

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Lavorare sulle transizioni. Dispositivi di mediazione Guardare allo spazio e a ciò che in esso accade può però non essere sufficiente. È necessario ritornare ad affermare l’importanza di una cultura del progetto, una cultura capace di riconsiderare il valore di azioni minime e di ripensare progettualmente gli spazi di transizione come luoghi strategici: per migliorare la qualità dello spazio costruito e dunque dell’abitare. Ripartire dal progetto significa, in primo luogo, riconoscere ‘tendenze’ nel trattamento della prossimità: degli ‘esterni domestici’, possibili spazi comuni, e delle loro relazioni con il costruito8. Tendenze che rivelano, oggi, una maggiore articolazione nei rapporti tra interno ed esterno domestico, tra privato e pubblico, tra individuale e collettivo, attraverso progetti in cui lo spazio aperto/di prossimità non diventa più qualcosa a cui il costruito si contrappone staticamente, bensì parte integrante e dinamica della composizione, assumendo anche un ruolo rilevante. La lettura di esperienze diverse permette di compiere questo riconoscimento a partire dall’individuazione di ‘mosse progettuali’9: l’obiettivo è quello di distinguere le figure di progetto attraverso cui si traduce lo spazio aperto, potenziale spazio comune, e di lavorare su queste figure, e sulla loro composizione entro una visione più ampia, per riconoscere i campi (Infussi, 2009) all’interno dei quali poter pensare alla costruzione dei paesaggi minimi. Una prima ricognizione ha permesso di distinguere (fig. 2):  azione di supporto: lo spazio aperto si configura come base su cui si appoggiano gli elementi. La figura progettuale a cui si assimila lo spazio aperto (potenziale spazio comune) è quella del ‘vassoio’. In questo caso l’azione di definizione del paesaggio minimo può compiersi sull’interfaccia tra edificato e spazio aperto e lungo i margini di quest’ultimo;  azione di inclusione: lo spazio aperto viene interiorizzato, raccolto all’interno dell’edificio. La figura progettuale attraverso cui si traduce è quella della ‘stanza’; l’azione di progetto per la costruzione di paesaggi minimi può concretarsi lungo il bordo dello spazio costruito;  azione di estensione: lo spazio aperto estende quello costruito ponendosi in sua continuità. La figura progettuale dello spazio aperto è quella della ‘stringa’; l’azione progettuale può focalizzarsi sul limite dello spazio aperto e sull’interfaccia tra questo e l’edificato;  azione di erosione: lo spazio aperto erode lo spazio costruito. La figura dello spazio comune è quella dell’’innesto’; l’azione progettuale può indirizzarsi sulla superficie di contatto tra spazio aperto e edificato e sul bordo dello spazio aperto. Si tratta, ora, di sottoporre a verifica queste indicazioni attraverso delle ‘sperimentazioni di progetto’: solo il contesto potrà dimostrare la validità di un simile approccio, e mettere alla prova l’efficacia del ‘paesaggio minimo’ come concetto operativo.

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Le considerazioni qui riportate fanno riferimento alla possibilità di costruire paesaggi minimi in ambiti residenziali, o comunque in ambiti urbani dove sussista una densità del costruito. Questo non esclude che paesaggi minimi possano definirsi anche in assenza di costruito. Quelle che seguono sono considerazioni che derivano da ricerche concluse e in corso, accumunate dall’interesse per gli spazi della prossimità. A partire dal lavoro sulla città pubblica ‘di confine’ (i cui esiti sono riportati in LaboratorioCittàPubblica, 2009), ho approfondito questi aspetti con la ricerca ‘Per un approccio olistico alla qualità dell’abitare. Il regolamento edilizio come strumento guida e di controllo dei contesti costruiti nel rispetto delle esigenze dell’uomo e dell’ambiente’ (coord. prof.sse Paola Di Biagi e Ilaria Garofolo) sviluppato nel 2011-2012 presso l’Università degli Studi di Trieste. Al programma hanno partecipato, oltre a chi scrive, Federica Rovello e Luca Ugolini.

Sara Basso

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Figura 2. Figure e mosse progettuali per la costruzione di paesaggi minimi.

Bibliografia Bianchetti C. (2008), Urbanistica e sfera pubblica, Donzelli, Roma. Bianchetti C. (a cura di, 2009), Abitare la città contemporanea, in Archivio di Studi urbani e regionali, n. 94, 2009. Borasi G., Zardini M. (a cura di, 2008), Actions: comment s'approprier la ville, Centre Canadien d’Architecture SUN, Amsterdam. Brugellis P., Pezzulli F., (a cura di, 2006), Spazi comuni. Reinventare la città, Bevivino, Milano. Cacciari M. (2009), La città, Pazzini, Rimini. Desideri P., Ilardi M. (a cura di, 1997), Attraversamenti. I nuovi territori dello spazio pubblico, Costa & Nolan, Genova. Di Giovanni A. (2010), Spazi comuni: progetto urbanistico e vita in pubblico nella città contemporanea, Carocci, Roma. Di Sivio M. (2004), Manutenzione urbana. Strategia per la sostenibilità della città, Alinea editrice, Firenze. Dramstad W. E., Olson J. D., Forman R. T.T. (1996), Lanscape ecology principles in landscape architecture and land-use planning, Harvard University, Island Press, Washingtown, DC. Fabbri P. (2010), Paesaggio e reti. Ecologia della funzione e della percezione, Franco Angeli, Milano. LaboratorioCittaPubblica (2009), Città pubbliche. Linee guida per la riqualificazione urbana, Mondadori, Milano. Lanzani A., Pasqui G. (2010), L’Italia al futuro. Città e paesaggi, economie e società, Franco Angeli, Milano. Mininni M. (2012), Approssimazioni alla città, Donzelli, Roma. Mostafavi M., Doherty G. (2010), Ecological urbanism, Lars Müller Publishers, Harvard University Graduate School of design. Paba G. (1998), Luoghi comuni. La città come laboratorio di progetti collettivi, Franco Angeli, Milano. Sara Basso

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Nuovi percorsi di qualità. Ripartire da paesaggi minimi per trasformare gli spazi dell’abitare quotidiano

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Riconoscimenti Il presente lavoro è frutto di riflessioni condivise nell’ambito di un gruppo di lavoro coordinato da Paola Di Biagi e sviluppato attraverso attività diverse di ricerca e didattica presso l’Units, Università degli Studi di Trieste.

Sara Basso

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Favela Calling. Il Morro da Providência

Favela Calling. Il Morro da Providência Francesca Borrelli Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’ Dipartimento di Progettazione Urbana e Urbanistica Email: francescaborrelli@hotmail.it

Abstract Il Morro da Providência è una favela di circa 4.000 abitanti ed è considerata la più antica di Rio de Janeiro. La favela da Providência è una comunità che cresce e si trasforma con i suoi propri meccanismi. Un microgruppo sociale che da vita ad una microurbanistica spaziale. L’oggetto della ricerca è un’analisi dell’insediamento informale e delle sue caratteristiche che si estende alla descrizione del territorio e del contesto urbano. La favela è situata nel cuore dell’area portuale di Rio, attualmente interessata da grandi processi di trasformazione, che prevedono progetti urbani anche nel tessuto informale. È possibile un’integrazione tra la città convenzionale e i quartieri informali? E attraverso quali pratiche progettuali?Si può, con uno sguardo differente, considerare la città informale nella sua complessità morfologica e sociale come generatrice di nuovi valori e di contemporaneità? Parole chiave Favela,Trasformazione,Integrazione.

1.1 | Favela Calling slum, semi-slum, and superslum… to this has come the evolution of cities. Patrik Geddes Nell’epoca contemporanea il mondo ha raggiunto un elevato livello di urbanizzazione. La conseguenza di tale sviluppo è la continua e rapida formazione di megalopoli con più di 10 milioni di abitanti. La velocità dell’incremento demografico ha reso impossibile una crescita controllata di alcune aree metropolitane, crescita a cui le amministrazioni locali non hanno dato un’ adeguata e tempestiva risposta, subendo tale espansione con un atteggiamento passivo. Nel 2030, secondo alcune stime delle Nazioni Unite, la quota degli individui che vivrà nelle città avrà superato il 60% della popolazione mondiale. Dato ancora più rilevante è che la maggiore aliquota di crescita sarà assorbita dalle città dei paesi in via di sviluppo: il mondo sarà popolato da 5 miliardi circa di cittadini, di cui 2 miliardi abiteranno nelle baraccopoli o slums delle grandi città del sud del mondo. E’ evidente che ci troviamo di fronte ad un cambiamento epocale già in atto da tempo, ma aggravato ulteriormente dall’attuale crisi del modello di sviluppo globale, in cui la città, o meglio la megacity, assume e dovrà assumere un ruolo centrale nel soddisfacimento dei bisogni di una fascia sempre più ampia della popolazione mondiale, di cui attualmente il 30% (924 milioni) vive ed abita negli slums. In nessun luogo tale fenomeno è più evidente che nelle conformazioni spaziali delle grandi città dei paesi in via di sviluppo, dove, accanto alla costruzione di architetture sempre più appariscenti e spettacolari, come torri per uffici, centri commerciali, e progetti abitativi di lusso, sono cresciuti in maniera esponenziale gli insediamenti informali. Nei paesi in via di sviluppo la crescita spaziale delle città è caratterizzata in larga parte da migrazioni di popolazioni senza risorse, provenienti da zone rurali, per le quali l’insediamento in città avviene in condizioni di estrema precarietà. La crescita demografica non coincide sempre con un’equivalente urbanizzazione della città, ma determina piuttosto lo sviluppo di forme materiali e architettoniche “fuori legge”. I migranti senza risorse Francesca Borrelli

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Favela Calling. Il Morro da Providência

non hanno altra scelta che l’occupazione di terreni e la costruzione abusiva per risolvere il problema dell’abitazione. Dal punto di vista urbanistico l’espansione informale delle città ha assunto modalità di accrescimento diverse in discontinuità rispetto al preesistente e codificato tessuto cittadino. I dati più attuali, per comprendere la complessità della questione, sono il rapporto The Challenge of Slums pubblicato dal Programma delle Nazioni Unite UN-Habitat e la pubblicazione di Mike Davis, The Planet of Slums. Il termine inglese con il quale si indica l’insediamento informale è slum. Tale realtà urbana, che comprende sia spazi abitativi che spazi dedicati alla produttività (sono presenti circuiti di microeconomia), compone una morfologia spaziale densa ed eterogenea in ambienti precari, pericolosi, imprevedibili e instabili. Gli alloggi di base sono inadeguati, costruiti con materiali poveri o di riuso e in assenza di infrastrutture primarie (rete idrica, fognaria, di illuminazione, ecc…) che non garantisco agli abitanti i livelli minimi di vivibilità. Il sovraffollamento e la mancanza di spazi pubblici e collettivi determina una giustapposizione edilizia, forzando la condivisione degli angusti spazi di circolazione. Questa tipologia urbana, che, come si è detto, non si limita a uno specifico modello di tessuto edilizio distinguibile per geometria o assetto, è però, così come la realtà urbana “codificata”, la manifestazione di specifiche condizioni sociali, politiche, economiche e culturali. Lo studio analitico e approfondito degli insediamenti informali è il presupposto per la formulazione di una nuova teoria di evoluzione delle città contemporanee e il punto di partenza per la progettazione di futuri scenari urbani. Solo superando il pregiudizio, che ha additato queste realtà urbane come una degenerazione delle metropoli, sarà possibile ipotizzare una nuova prospettiva di crescita delle città contemporanee. Un approccio teorico radicale sul futuro delle città globali è quello di Rem Koolhaas. Nei trattati di architettura e urbanistica sulle città dell'est asiatico e su Lagos descrive la possibilità di un urban turn, un cambiamento nella storia urbana che sovverte l'idea della città moderna scardinando le consolidate convinzioni eurocentriche. A seguito di un approfondito esame sulla realtà di Lagos, quello che a prima vista appare come una condizione caotica e disordinata, ritrova in quest'ottica un funzionamento organico e sorprendente, un sistema ingegnoso e non facilmente descrivibile attraverso le analisi tradizionali. Per la molteplicità degli aspetti e delle complessità che caratterizzano la realtà degli slums, qualsiasi tentativo di dare un’unica risposta progettuale risulterebbe fallimentare. Una strada percorribile è quella di analizzare caso per caso, evidenziando le criticità dei singoli contesti urbani e lavorando sugli insediamenti informali per migliorarli. Per le attuali contingenze economiche e sociali risulta di particolare interesse esaminare un caso specifico dell’urbanizzazione della città di Rio de Janeiro. In Brasile il fenomeno dell’inurbamento è molto diffuso e attualmente l’80% circa della popolazione vive in città, dove un esercito di senza tetto affolla le periferie in residenze precarie e di sopravvivenza, provocando uno dei deficit di abitazioni maggiori al mondo. Questa situazione è stata analizzata da M. Davis che, definendo con l’acronimo RSPER (Rio/Sao Paulo estended metropolitan region) una porzione di territorio compresa tra Rio de Janeiro e São Paulo, ha stimato che tale area è popolata da un totale di 37 milioni di abitanti, distinguendosi per essere una delle megalopoli più estese al mondo. Nella città di Rio, su un totale di circa 6 milioni di abitanti, il 20 % della popolazione vive negli slums (favelas). Si contano ad oggi 625 favelas, inclusi 144 grandi complexos di favelas (Figura 1). I dati dell’Istituto di Urbanistica Pereira Passos denunciano che in 20 anni (1990-2010) il numero degli abitanti delle favelas è cresciuto 4 volte più velocemente rispetto al totale dalla popolazione cittadina. Nella città l’espansione degli insediamenti informali non segue un unico schema: le favelas possono situarsi su terreni in pendenza o in piano, avere sviluppi rettilinei o tortuosi, e possono costituire conglomerati complessi. Rispetto ad altre città del Brasile, la struttura urbana di Rio non può essere semplicisticamente divisa in due: la città legale e le favelas, la città dei ricchi e quella dei poveri, l' asfalto e il morro (collina). Infatti, contrariamente a quello che comunemente avviene in altre grandi città, le favelas non sono situate in zone periferiche, bensì nel centro. Quasi ogni quartiere ha nei suoi pressi la ‘propria’ favela, spesso di antica fondazione, dove le costruzioni informali assumono le caratteristiche di insediamenti definitivi. La maggior parte delle persone che risiedono in abitazioni ai margini della legalità non vivono una condizione di effettiva marginalizzazione, ma sono i lavoratori dell’industria, del settore terziario o del settore pubblico. Gli insediamenti informali costituisco una parte essenziale della città e contribuisco a comprendere nella sua interezza l’identità urbana.

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Figura 2. Il Comune di Rio de Janeiro. In rosso sono individuati gli insediamenti informali (favelas) dell’area cittadina. Dati dell’IPP (Istituto Pereira Passos).

1.2 | Il caso specifico: il Morro da Providência Il Morro da Providência è una favela situata nell’area portuale di Rio de Janeiro, nei pressi del luogo dove originariamente, 450 anni fa, si insediarono i primi coloni portoghesi. Edificata alla fine del secolo XIX dagli ex combattenti di ritorno dalla guerra dei Canudos (Bahia 1896-97), la favela è considerata la più antica del Brasile. La favela da Providência è costituita da una comunità di circa 4000 abitanti che cresce e si trasforma con i suoi propri meccanismi, costituendo a tutti gli effetti una società a sé. Una città nella città (Figura 2). Attraverso la sovrapposizione di contingenze storiche e storie individuali la comunità si è sviluppata in un agglomerato denso costituito da edificazioni giustapposte, al di fuori di qualsiasi logica precostituita se non quella della sopravvivenza. Osservandola da lontano, arroccata sulla cima del Morro, la favela appare come un entità autonoma composta da frammenti eterogenei. Tale microurbanistica spaziale è un sistema complesso innervato su angusti percorsi che rappresentano i condotti comuni, i luoghi di transito, di sosta e scambio, ma anche i luoghi della vita comunitaria e delle tensioni sociali. Le abitazioni sono densamente affiancate le une alle altre e hanno l'accesso rivolto direttamente verso gli stretti vicoli. Originariamente sono state costruite con materiali molto poveri provenenti dalla città, resti e scarti diversi (pezzi di legno, lamiera, plastica, pietre) utilizzati per la costruzione. Questi primi rifugi, estremamente precari, sono stati la base di una futura evoluzione ottenuta attraverso un continuo lavorio di miglioramento e ampliamento che non ha seguito una progetto predefinito e per questo risulta in uno stato di continua incompiutezza. Oggi la quasi totalità delle abitazioni è costruita con pilastri di cemento e tompagnature in mattoni, distinguendosi in questo modo come insediamenti permanenti. Gli spazi pubblici, molto carenti, coincidono con quelli destinati alla circolazione o con piccoli slarghi, spazi residuali esistenti intorno alla chiesa di N.S. da Penha e alla Capela do Cruzeiro edificati agli inizi del Novecento.

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Figura 2. Fotogrammetria del Morro da Providência. Confini tracciati a partire dai dati dell’ UPP (Unidade de Policia Pacificadora).

Il Morro da Providência, così come gli altri insediamenti informali cittadini, è una parte costitutiva di Rio de Janeiro. È possibile un’integrazione tra la città convenzionale e i quartieri informali? E attraverso quali pratiche progettuali? I provvedimenti pubblici adottati in passato nella città di Rio per affrontare le problematiche della formazione e crescita delle favelas sono tuttora motivo di un acceso dibattito. Negli anni ’50 e ‘60 del XX secolo, quando la popolazione delle favelas subì un forte incremento, vennero applicate alcune politiche urbane che conseguirono sgomberi forzati e la ricollocazione della popolazione in edifici di edilizia economica e popolare situati nelle aree periferiche a nord e ad est della città, in zone carenti di urbanizzazione primaria, prive di scuole, di strutture commerciali e socio-sanitarie adeguate e mal collegate al centro cittadino. Tali politiche, animate da uno spirito di rinnovamento urbanistico, sono risultate fallimentari. Esse non hanno fatto altro che trasferire gli slums da un luogo all’altro, accrescendone le difficoltà e cancellando identità comunitarie, le cui situazioni avrebbero meritato un graduale miglioramento, invece che la distruzione. Più efficaci si sono dimostrate alcune esperienze recenti che hanno contribuito alla diminuzione delle diseguaglianze sociali e delle segregazioni spaziali mettendo al centro della riflessione l' accettazione dei tessuti informali come parte della morfologia della città. Questa nuova consapevolezza ha aperto la strada ad un nuovo modo di concepire lo sviluppo urbano di Rio. Il programma Favela Bairro, coinvolgendo più di 160 comunità carenti di Rio, è la prima politica pubblica di neighborhood upgrading nelle favelas. Iniziato nel 1997 ha agito sulle favelas di piccola e media dimensione nel rispetto delle caratteristiche simboliche e spaziali dei luoghi. Il programma, mettendo al centro degli interventi lo spazio pubblico, ha come obiettivo fornire quanto manca in termini di strutture urbane. Nel 2005 Favela Bairro è intervenuto nel Morro da Providência con l’intento di trasformare la favela più antica della città in un museo a cielo aperto. La strategia urbana di Lu Petersen, autrice del progetto insieme a Dietmar Starke, parte dalla considerazione che una favela di quasi 110 anni è un luogo fondamentale della storia e della cultura di Rio. Il punto principale del programma è il progetto di un itinerario turistico sulla cima del Morro, realizzato con una nuova pavimentazione di tutti i luoghi di circolazione che convogliano negli spazi pubblici. Nonostante una differente sensibilità dimostrata dall’amministrazione pubblica, il Morro da Providência è oggi un esempio emblematico delle politiche di esproprio ritornate in atto nel processo di sviluppo di Rio de Janeiro, che ha come motore primario delle trasformazioni le due più importanti manifestazioni sportive dei prossimi anni: i Mondiali di Calcio che si svolgeranno nel 2014 e le Olimpiadi nel 2016. Alcuni progetti urbani

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prevedono per la loro realizzazione interventi militari nelle favelas, demolizioni di case ed espulsione di comunità presenti da decenni in zone ora divenute interessanti per investimenti economici pubblici e privati. Un grande progetto di trasformazione urbana interessa la zona portuale, ex area industriale e di traffici commerciali, con cui la favela da Providência ha una relazione diretta sia geografica, sorge nel suo centro, sia sociale in quanto buona parte dei suoi abitanti trova lavoro nel porto. Il Consiglio Comunale della città, con l’appoggio del Governo e del Ministero del Turismo, ha iniziato un ambizioso piano di rimodernamento della zona del porto. Il progetto nominato Porto Maravilha, comprende un'area di circa 5 milioni di metri quadrati (Figura 3). Questa operazione urbana segue l'esempio di altre città globali (Buenos Aires, New York, Barcellona) che hanno ristrutturato le loro aree portuali, in cui maggiormente si concentravano i vuoti urbani e le strutture inutilizzate, destinandole alle attività produttive del turismo e del tempo libero. L’obiettivo è quello di realizzare la ristrutturazione di strade, piazze, aree verdi e illuminazione pubblica oltre che la manutenzione e il restauro conservativo di monumenti e del tessuto storico residenziale. I simboli di tale rigenerazione urbana sono la costruzione del Museu do Amanhã (Museo del futuro), progettato dall’architetto valenziano Santiago Calatrava, e l’apertura della pinacoteca MAR (Museo di Arte di Rio). Inoltre le autorità hanno inserito nell'ambito di Porto Maravilha il progetto del Porto Olimpico, in modo da potenziare la sinergia tra le politiche dei grandi eventi nello sforzo di sviluppare i nuclei metropolitani più critici. Il Porto Olimpico prevede la costruzione di strutture di supporto ai giochi olimpici e di accoglienza dei giornalisti, media e arbitri in più di settemila nuovi alloggi.

Figura 3. Area Portuale di Rio de Janeiro. In bianco sono individuate le zone in cui intervengono le trasformazioni: a destra il progetto Porto Maravilha, a sinistra il progetto Porto Olimpico. In rosso ,al centro, il Morro da Providência.

Nell’insieme queste trasformazioni comporteranno un incremento del valore economico dell’area del porto, inserendola in nuovi mercati con il rischio di possibili circuiti speculativi e dell’allontanamento dei gruppi sociali più deboli, proprio nel momento in cui il territorio potrebbe offrire un miglioramento delle loro condizioni di vita. Tali radicali cambiamenti potrebbero attivare un processo di gentrification modificando completamente la composizione sociale della zona portuale. Il programma Morar Carioca, che dal 2010 interessa la favela da Providência, comprende la costruzione di una teleferica che collega la parte bassa alla Praça Amerigo Brum, la collocazione di una funivia localizzata al lato della scalinata principale di accesso alla favela in continuazione della Ladeira do Barroso, la rimozione di 800 abitazioni per l’apertura di strade e la costruzione di un anfiteatro e della Praça Do Conhecimento. Questi radicali progetti urbani sono stati predisposti in maniera autoritaria e la segnalazione di alcune case con la sigla SHM (Secretaria Municipal de Habitação), che ne annunciava l’abbattimento coatto, ha innescato negli abitanti una protesta contro le demolizioni e di fatto la costruzione della funivia è stata bloccata.

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Se è vero che la favela è un parte della città come altre, bisogna quindi rispettare la sua identità frutto di un’ urbanistica spontanea, costruita giorno dopo giorno dai suoi abitanti. Affinché questi ampi programmi di trasformazione siano condivisi e risultino efficaci, dovrebbero comprendere un’ampia componente di partecipazione sociale e il rispetto del preesistente. In questa direzione una strategia adottata recentemente è l’agopuntura urbana che consiste nella progettazione di micro-interventi. Secondo questa strategia la città è paragonata ad un organismo vivente per cui è possibile individuare delle aree critiche che esigono operazioni di riqualificazione. Tali punti divengono terreno fertile per l'innesto di progetti, il cui scopo, come gli aghi utilizzati in medicina nella pratica dell'agopuntura, è quello di apportare benessere all'intero organismo una volta guarite le parti (Figura 4).

Figura 4. Diagramma rappresentativo di alcuni possibili microinterventi attuabili nelle favelas.

Gli interventi più urgenti riguardano la dotazione di infrastrutture di carattere primario e la progettazione di contenitori spaziali destinati ad uso collettivo, attualmente inesistenti o carenti. Bisogna fornire tutte quelle dotazione che mancano e intorno a cui, in un normale processo di urbanizzazione, si costruisce una città. Contemporaneamente è necessario studiare un nuovo circuito di mobilità che tenga conto della peculiare orografia del luogo: all’interno si rende necessario il miglioramento della permeabilità e l’abbattimento di barriere, dall’esterno si deve garantire l’accessibilità anche dei punti più impervi con la collocazione di scale mobili, funicolari e ascensori. Altro aspetto essenziale e la costruzione di nuovi edifici che sopperisca alla mancanza di scuole, mercati, centri di primo soccorso collocandoli in luoghi strategici e facilmente raggiungibili dalla popolazione locale. Infine la creazione di centri culturali, turistici e aree di sosta panoramiche, fungerebbero da attrattori innescando un processo di integrazione economico e sociale. Un esempio emblematico è il progetto Parque y Centro de la Comunidad de Grotao di San Paolo del gruppo Urban Think Thank di Caracas, composto dagli architetti Alfredo Brillembourg e Hubert Klumpner. Da una riprogettazione dall’esterno dovrebbe seguire di pari passo un processo di autorisanamento (Jacombs, 1961). Il Morro da Providência presenta già alcune caratteristiche di uno slum in corso di autorisanamento in cui la popolazione si identifica in una vita sociale collettiva, attivando circuiti virtuosi e di miglioramento della qualità degli spazi. L’affezione degli abitanti al loro quartiere è dimostrata dal continuo lavorio autonomo di manutenzione e ammodernamento delle loro abitazioni. Inoltre alcune opere artistiche, una tra tutte l’installazione Woman are Heros del fotografo francese JR, ispirata alla forma urbana della favela, hanno attivato nella comunità un sentimento di maggiore appartenenza al luogo e consapevolezza del suo valore storico e culturale (Figura 5). In conclusione si può, con uno sguardo differente, considerare la città informale nella sua complessità morfologica e sociale come generatrice di nuovi valori e di contemporaneità? Non sempre nei provvedimenti si è rispettata l’identità dei luoghi, che pur se generata da una crescita casuale, rappresenta una specificità del tessuto cittadino. Bisogna tener presente che questi insediamenti sono la testimonianza di una parte della popolazione emergente sul territorio e l’affermazione di un’organizzazione sociale e spaziale che si adatta alle circostanze. Esiste e si sta sempre di più consolidando nell'immaginario collettivo l’idea di città costituita anche da quartieri informali. Lo slum è un elemento indispensabile per spiegare il funzionamento della megacittà e come siano possibili forme altre di governabilità attraverso le quali le persone che vi abitano possano conquistare i propri diritti nei confronti della città. La favela deve essere intesa come una

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fonte di nuovi circuiti creativi che, dall’attivazione di piccole azioni progettuali, lascia anche alla spontaneità la trasformazione dello spazio. In ultima analisi quello che dall’esterno potrebbe apparire come il luogo più critico della città contemporanea, può diventare una risorsa per la città stessa e la sua popolazione. E’ proprio in questi luoghi, che attraverso un continuo laboratorio spontaneo, si conserva un’identità culturale locale a fronte di in un sistema globale che tende ad uniformare luoghi, città e individui.

Figura 5. Il Morro da Providência fotografato durante l’installazione Woman are Heros del fotografo francese JR, 2010.

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Centralità a tempo. Industria creativa, trasformazioni urbane e spazio pubblico a Milano

Centralità a tempo. Industria creativa, trasformazioni urbane e spazio pubblico a Milano Antonella Bruzzese Politecnico di Milano DAStU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Email: antonella.bruzzese@polimi.it Tel: 02.2399.5311

Abstract Alcuni quartieri milanesi - Tortona, Ventura, Milano sud-est in particolare- negli ultimi anni, hanno subito processi di rigenerazione urbana legati all’insediamento di produzione creativa - arte, design e moda principalmente. In queste zone il processo è stato di vero e proprio “addensamento” di attività che hanno costituito “nuove centralità” ma “a tempo” poichè le trasformazioni che le hanno generate –d’iniziativa privata, interne ai manufatti trasformati, esito di una sommatoria di interventi al di fuori di una regia o di una visione della città - spesso stentano a produrre effetti permanenti sulla natura e la qualità dello spazio pubblico al di fuori della dimensione stra-ordinaria dell’evento. La relazione tra questo genere di trasformazioni, i loro effetti urbani e “di luogo” e la capacità del pubblico di inserirsi e eventualmente orientare processi per valorizzare i benefici pubblici lasciano intravvedere nel caso milanese delle opportunità non colte. Parole chiave dismissione, produzione creativa, spazio pubblico.

Industria creativa e Milano Nei discorsi comuni, nelle campagne di marketing territoriale, nei titoli pubblicitari, Milano è spesso citata come la “capitale della moda e del design”. Al di là della retorica comunicativa contemporanea, tale denominazione è l’esito di una tradizione culturale, industriale ed economica della città che trova le sue radici nel legame tra talento progettuale e capacità artigianale e produttiva che si è instaurato fin dagli anni cinquanta (Bosoni, 2003; Branzi 2003) 1 e che rende tutt’altro che banale la relazione tra creatività, economia e dimensione urbana che molta recente letteratura ha indagato. Il termine creatività è diventato negli ultimi anni estremamente ambiguo, capace di contenere molteplici significati spesso contraddittori, al pari del termine “città creativa”. Quest’ultimo in particolare è stato declinato in una pluralità di accezioni: da sede di industrie creative, a contesto territoriale in grado di rispondere in maniera creativa a situazioni problematiche, a, ancora, città caratterizzate da forte concentrazione di lavoratori le cui professioni sono, in diversi modi, collegate alla creatività etc. (Florida, 2003; Chatterton, 2000; Landry, 2000). Seguendo, tuttavia, le riflessioni di Scott (2006) intorno alle condizioni per le quali una città possa essere definita creativa, è certamente possibile riconoscerne a Milano almeno tre. La prima riguarda la presenza di una tradizione nel campo della creatività consolidata ed ereditata dal passato che funziona come sostrato sul quale si innestano - in una relazione spesso a catena - processi di attrazione di quella che Florida ha definito “classe creativa” (designer, architetti, pubblicitari, musicisti, artisti e così via). Una seconda riguarda la presenza di enti e istituzioni impegnati nella trasmissione del sapere, capaci di attirare giovani con la prospettiva dell’istruzione 1

«A Milano i servizi in assist al mondo della progettazione sono tra i più evoluti del mondo e garantiscono sul campo l'efficienza tecnica dell'intero distretto: secondo i dati del CNA a Milano e provincia operano modellisti e tornitori del legno, stampisti in plastica, progettisti e produttori di stampi, realizzatori di prototipi in plastica, modellisti, prototipisti, laboratori di tecnologie metalliche. Un elenco analogo potrebbe essere descritto per i servizi alla comunicazione. Questa rete di laboratori costituisce uno degli antefatti storici, insieme a una particolare cultura industriale, al radicamento del design nell'area milanese» (Branzi, 2003)

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Centralità a tempo. Industria creativa, trasformazioni urbane e spazio pubblico a Milano

che al contempo funzionano come soggetti attivi nella realizzazione di eventi, iniziative e progetti 2. La terza condizione individuata da Scott come necessaria concerne, infine, la densità di interazioni che si instaurano entro differenti comunità e la capacità di costruire relazioni di scambio, ad esempio con il mondo della produzione, in grado di alimentarsi a vicenda entro le situazioni di prossimità che specifico contesto territoriale consente. Tutte queste condizioni sono riscontrabili nella storia culturale e produttiva di Milano. In particolare la concentrazione di attività legate all’industria creativa (da gallerie a show rooms, da studi di architettura, design, grafica e editoria a set e spazi di posa)3 in alcuni particolari settori urbani ha alimentato non solo la nomea di città creativa generalmente attribuita alla città, ma ha anche contribuito a caratterizzare fortemente tali ambiti con evidenti effetti urbani che vale la pena osservare4.

Opportunità spaziali e logiche localizzative nella formazione di “addensamenti urbani creativi” Osservare le localizzazioni delle attività legate alla produzione creativa a Milano consente di riconoscere alcuni interessanti addensamenti in particolari aree della città (Bolocan, 2009; Mazzoleni, 2012; Botti, 2012). Accanto ad ambiti di concentrazione storici e centrali dove prevalgono showrooms e attività commerciali (tipicamente la zona di Brera) si trovano settori urbani semiperiferici e dunque relativamente accessibili, caratterizzati in passato dalla presenza diffusa di edifici produttivi di medie dimensioni che da tempo hanno perso la loro funzione originaria - per le modificazioni dei cicli di produzione, per le delocalizzazioni delle attività e il deciso spostamento verso attività terziarie avvenuto a Milano – e rimasti disponibili sul mercato. Si tratta in particolare delle zone Tortona- Savona, prossime a Porta Genova, di zona Ventura- Lambrate, consolidate da qualche anno; e alcune aree emergenti a Milano sud est (intorno a via Tertulliano, via Piranesi o in tempi meno recenti intorno a via Spartaco), a cui tuttavia se ne possono aggiungere altre in cui si intuiscono i segnali e le possibilità di processi analoghi (zona Porta Romana sud). La maggior parte di questi spazi sono stati trasformati dall’imprenditoria privata a partire da alcuni interventi che possono essere considerati dei veri e propri pionieri o apri-pista. I due casi più noti sono la CGE – General Electric che nel 1987 viene trasformata da un gruppo di fotografi e imprenditori (Flavio Lucchini, sua moglie Gisella Borioli e Fabrizio Ferri) nella sede di Superstudio oggi uno delle sedi più attive e riconosciute per esposizioni ed eventi legati al design e non solo; gli edifici dell’industria Faema (Fabbrica Apparecchiature Elettro Meccaniche e affini) in via Ventura che vennero acquistati nel 2000 e ristrutturati da Mariano Pichler e Gianluigi Mutti nel complesso in cui hanno trovato sede diversi loft e spazi di lavoro ed espositivi tra cui la galleria d’arte Massimo de Carlo nel 2003 (Giuliani, 2010). Tali trasformazioni tendevano a soddisfare contemporaneamente esigenze di spazi ampi e flessibili per attività di show room, location di eventi etc dove collocare attività di imprenditori coinvolti nell’intrapresa, e a promuovere operazioni di valorizzazione immobiliare di un patrimonio disponibile sul mercato. Tale disponibilità di immobili dismessi, le loro caratteristiche tipologiche e spaziali in grado di adattarsi facilmente a nuove esigenze, la loro dimensione trattabile (sia ex Faema che Superstudio hanno superfici di circa di 15.000 mq), la possibilità di procedere con procedure urbanistiche relativamente agili senza cambi di destinazioni d’uso hanno reso possibili le trasformazioni che sono divenute inneschi di iniziative analoghe in zone limitrofe delineando ambiti di concentrazione urbana di queste attività, pur con le con differenze in termini di stato di avanzamento del processo. Qui, infatti, il processo è stato di vero e proprio “addensamento” di attività legate all’industria creativa. Le ragioni sono molteplici, tuttavia alcuni caratteri sono ricorrenti. Si tratta in primo luogo, della presenza di opportunità spaziali presenti in certe zone dal passato produttivo (zona Tortona era legata alla ferrovia e a officine meccaniche, le aree di Milano sud est erano la città annonaria, delle arti e dei mestieri etc); e in secondo luogo la presenza di certe élites culturali ed economiche. Queste sono state in grado non solo di avviare 2

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Milano ha una presenza cospicua di scuole, accademie e istituti di formazione, in cui le sole scuole parificate - Brera, Conservatorio e Naba- coinvolgono una popolazione studentesca di circa 5.600 studenti. Per un approfondimento sulle scuole dell’Alta Formazione Artistica e Musicale a Milano, si rimanda a (Bruzzese, 2010) nel volume curato da Balducci, Cognetti e Fedeli, Milano, la città degli studi. Storia, geografia e politiche delle università milanesi. Uno degli elementi principali dell’ambiguità del tema della creatività riguarda la definire chiara di quali siano i soggetti e attori in oggetto. Un interessante tentativo di classificare e mappare la presenza delle attività connesse all’economia della conoscenza (tra le quali compaiono categorie riconducibili alle attività legate all’industria creativa) a Milano è quello usato da Chiara Mazzoleni elaborando dati dal Registro delle Imprese della Camera di Commercio di Milano – industrie operative al 2011 riportati in Dialoghi Internazionali (Mazzoleni, 2012). Le considerazioni proposte nel presente testo nascono dal confronto su questi temi svolto e tuttora in corso con Ilaria Giuliani e Claudia Botti, rispettivamente autrici delle tesi finali del Corso di laurea Specialistica in Pianificazione Urbana e Politiche Territoriali, Scuola di Architettura e Società Politecnico di Milano: “Dismissione industriale e città creativa. Due processi di trasformazione urbana tra riqualificazione fisica e strategie di promozione del territorio: i casi di Zona Tortona e Ventura Lambrate a Milano” a.a. 2010 e “Territori in trasformazione nel segno della nuova economia: “addensamenti urbani creativi” a Milano sud-est” a.a. 2012 delle quali sono stata relatrice.

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trasformazioni immobiliari, ma anche di innescare - per la tipologia e il successo delle nuove attività insediate – una forte attrazione nei confronti di altri operatori che hanno riconosciuto nella prossimità un valore e che in quelle aree semiperiferiche hanno ricercato e trovato opportunità analoghe, alimentando in questo modo la spirale positiva del processo di concentrazione.

A tempo. Il ruolo degli eventi: attivatori e casse di risonanza Nei fatti queste aree negli ultimi venti anni si sono consolidate nella città come nuove centralità non solo per le attività che si sono concentrate ma anche e soprattutto perché capaci di attirare notevoli flussi di persone in particolari momenti dell’anno, dimostrando come la relazione fra trasformazione fisica e evento temporaneo abbia giocato un ruolo sostanziale. La prevalenza di attività legate al design e all’arte, il coinvolgimento di professionisti in grado di fare rete anche dal punto di vista comunicativo, la disponibilità di spazi inusuali hanno rappresentato le condizioni che hanno consentito di promuovere e di ospitare gli eventi e attività temporanee organizzate in particolare nel contesto del Fuori Salone 5, in zone della città che si sono dimostrate tanto più efficaci in termini attrattivi quanto più capaci di costruire massa critica intorno a determinate “zone” della città. Zona Tortona, Zona Ventura, Zona Porta Romana etc. definiscono le geografie, in parte temporanee, che il Fuori Salone ha costruito negli anni e che si sono sovrapposte ad ambiti urbani che in maniera più o meno permanente si stavano trasformando all’insegna della cosiddetta industria creativa. Tutto ciò ha contribuito notevolmente ad alimentare la visibilità di tali aree rispetto a specifiche categorie di persone. Allo stesso tempo ha consentito di amplificare un processo di auto riconoscimento che ha visto gli stessi attori della trasformazione avviare un processo di promozione di veri e propri brand.6 Alla città trasformata nella materialità dei suoi spazi e nelle abitudini dei suoi utenti, dunque, se ne è aggiunta un’altra virtuale e spiccatamente promozionale, che ha progressivamente tentato di far coincidere il lancio di prodotti che avveniva in quei contesti con la promozione stessa di quel contesto, di quella zona, in definitiva considerando quello specifico ambito territoriale il supporto necessario a promuovere attività, stili di vita e prodotti.

Effetti di luogo e qualità dello spazio pubblico: opportunità non (ancora) colte Se, da un lato, l’insediamento di attività creative ha cambiato il tipo di usi e di popolazioni di alcuni manufatti, per la maggior parte produttivi e, dall’altro, la visibilità di eventi che hanno luogo in questi settori della città hanno potuto “accendere” queste zone e attirarvi ulteriori fruitori in determinati periodi dell’anno, vale la pena soffermarsi sulla relazione tra questo genere di fenomeni e i loro effetti urbani e “di luogo”. Perché se è vero che tali addensamenti hanno costituito “nuove centralità”, si tratta comunque di centralità “a tempo” perché le trasformazioni che le hanno generate spesso stentano a produrre effetti permanenti sulla natura e la qualità dello spazio pubblico al di fuori della dimensione dell’evento, scandendo in questo modo una differenza sostanziale tra una città ordinaria e una straordinaria. Le dinamiche in atto in questi quartieri mostrano processi di trasformazione urbana di iniziativa quasi esclusivamente privata che per sommatoria e al di fuori di una visione pianificata stanno mutando l’aspetto di porzioni rilevanti di città, rispetto alle quali l’amministrazione pubblica fatica ad inserirsi non cogliendo l’occasione di orientare processi e valorizzare i benefici pubblici che queste dinamiche possono produrre. I campi entro cui ragionare sul ruolo del pubblico entro queste dinamiche sono diversi, in questa sede mi soffermerò solamente su alcuni punti che riguardano in particolare la natura dello spazio pubblico e più in generale della dimensione pubblica, mettendo in evidenza alcune caratteristiche e alcuni possibilità di azione al fine di promuoverne la qualità.

Spazi: interventi introversi. E la strada? Se l’insediamento di determinate attività ha implicato il riuso di manufatti produttivi e industriali, modificandone l’aspetto pur mantenendone in molti casi la struttura, vale la pena sottolineare che molto spesso si è trattato di interventi tendenzialmente introversi che poco scambiano con lo spazio della strada: la natura stessa dei manufatti industriali che per caratteristiche intrinseche non dovevano essere visibili dalla strada o ad essa affacciata è mantenuta in molti di questi interventi e l’assenza di commercio al piano terra, possibili anche a seguito di trasformazioni di ingente portata, mantengono questo genere di trasformazioni sostanzialmente introverse. Si aprono ad usi pubblici quando gli eventi attirano persone che vivono in maniera episodica lo 5

L’insieme delle attività espositive ed eventi organizzati in città a Milano che accompagnano il Salone del Mobile (che si tiene negli spazi della Fiera) fu istituzionalizzato agli inizi degli anni ’90 con il nome di Fuori Salone, grazie alla rivista Interni che pubblicò una guida allegata al numero di Aprile, intitolata Guida al Fuori Salone. 6 Studio Labo e Marco Torrani sono in particolare i promotori di Breda design district, Zona Tortona e lo studio Organization in Design sta gestendo il marchio Ventura projects Antonella Bruzzese

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spazio della strada, ma che durante i tempi ordinari, attraversando quegli spazi potrebbero anche non accorgersi del cambio di usi che vi è avvenuto. È il caso di molti showroom di Porta Romana quasi invisibili nel corso dell’anno, ma anche di molti contenitori di zona Tortona. In zona Lambrate solo alcune gallerie insediate ai piani terra hanno vetrine ampie lasciano intravvedere negli edifici ristrutturati il cambio sostanziale di attività. È chiaro che questa relazione con la dimensione pubblica non matura solo favorendo la visibilità, tuttavia l’introversione delle attività è indicativa di una fruizione selettiva e che difficilmente è affidata alla casualità dell’incontro che solitamente accade al passante. In questa prospettiva, la relazione tra spazio pubblico – la strada, gli slarghi, i giardini – e le nuove attività è praticamente assente e lo spazio della strada e quanto è prospiciente non sono investiti da nuovi significati.

Popolazioni: alternanza non mix. Spazi a più dimensioni? Questi processi in atto da almeno una decina di anni, che hanno trasformato alcuni quartieri milanesi il cui carattere è amplificato dalla cassa di risonanza degli eventi che trasfigurano l’immagine e anche la qualità di questi luoghi a favore delle attività che vi si svolgono, rendono evidenti almeno due situazioni circa le popolazioni che intercettano. La letteratura ci insegna che i processi di gentrification spingono progressivamente fuori dai quartieri le popolazioni residenti economicamente più fragili a seguito di rigenerazioni urbane e trasformazioni immobiliari che hanno innalzato i prezzi di affitti e/o dei servizi di prossimità. In queste aree tali processi non sono del tutto compiuti, tuttavia se ne intravvedono i segnali in termini di accostamento di attività, di sostituzione negli abitanti delle aree residenziali, di aumento dei prezzi, di ristrutturazioni che stanno prendendo piede anche in ambiti limitrofi.. Le popolazioni residenti spesso non hanno molto a che fare con il circuito del design e degli eventi: le loro traiettorie, i loro tempi e i loro usi, raramente si incrociano con i nuovi arrivati o con gli utenti temporanei, entro uno spazio pubblico che si mantiene a una dimensione. Si osserva allora una sorta di alternanza degli usi e negli usi, che corrisponde peraltro a picchi di affollamento da un lato e a momenti di relativa depressione dall’altro. Lo spazio pubblico in questi termini accoglie tempi, usi e ritmi differenti. Ma non in maniera sapiente, piuttosto rimanendo inerte e incapace di rispondere in maniera appropriata a nessuna delle due situazioni.

Tempi: eventi e tracce effimere. Imparare da? Sebbene le trasformazioni non siano così radicali nel loro impianto, dal momento che volumi e sedimi nella maggior parte dei casi sono mantenuti, è evidente che gli usi e le popolazioni sono profondamente mutate. Nella quotidianità, grazie alla presenza di operatori e lavoratori, prevalentemente atipici, dell’industria creativa; nella straordinarietà degli eventi, per i grandi numeri di visitatori che tuttavia hanno permanenze molto limitate nel tempo. Gli spazi pubblici che insieme a quelli interni deputati accolgono le masse di persone che si muovono per la città durante il Fuori Salone e le sue feste subiscono dilatazioni e contrazioni negli usi che tuttavia non scalfiscono la materialità di questi spazi. Lo spazio pubblico continua a essere spazio di transito e non spazio dove, anche, stare se non temporaneamente. La presenza di una massa critica consistente che suggerisce usi diversi (persone sedute sugli spartitraffico, angoli che diventano luoghi dove mangiare grazie alla presenza di baracchini mobili, giardini condominiali che diventano spazi espositivi e per il relax etc., oppure anche forme di occupazioni più strutturate come quelle promosse da associazioni come Esterni) tuttavia non funziona come innesco di trasformazioni che si mantengono nel tempo, ma solo come traccia di qualcosa che è avvenuto e immediatamente riassorbito.

Trasformazioni private / effetti pubblici Lo spazio della strada e in generale gli spazi pubblici, in questi ambiti urbani, non sono stati investiti in definitiva dagli effetti delle trasformazioni urbane in corso negli edifici che vi si affacciano. Come si diceva sopra si tratta prevalentemente di trasformazioni introverse, interne. D’altro canto neppure vi sono state esplicite richieste in merito. E la qualità dello spazio connettivo tra questi “contenitori” continua ad essere piuttosto scarsa, dimostrando non solo la natura prevalentemente privata degli interventi in corso ma anche una assenza di collaborazione con il pubblico o anche solo da parte di quest’ultimo la capacità di cogliere opportunità in atto e orientarle per ottenere un innalzamento della qualità urbana di natura più generale di quanto non sia già avvenuto. Jan Gehl sostiene in uno dei suoi libri dedicato peraltro alla vita “tra gli edifici” (Gehl, 1987) che “le persone vanno dove le persone stanno”, a segnalare ancora una volta che per realizzare spazi pubblici che funzionano non è sufficiente solo disegnare spazi, ma lavorare perché le persone li frequentino. Questi luoghi nei fatti e nella percezione dei milanesi sono diventati dei recapiti. In queste “zone” le persone, seppure a tempo, certamente vanno. Ma non si fermano e chi vi abita o più in generale la città nella sua dimensione pubblica (non la sua economia, evidentemente) nel tempo lungo rischia di ricevere soprattutto i disagi dell’affollamento temporaneo, Antonella Bruzzese

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gli effetti della gentrification o quelli invisibili delle trasformazioni introverse. Manca un progetto e una visione più generale dello spazio pubblico che in questo caso a differenza di molti altri può contare sulla presenza di utenti e su un immaginario piuttosto consolidato di “centralità”. Incentivare la presenza di attività distribuite nel tempo, capaci di animare luoghi che hanno già dimostrato notevole capacità di attrazione; cogliere la vitalità di usi temporanei e trasformarli in occasioni per promuovere modi diversificati di fruire dello spazio pubblico affinché non sia solo di transito ma luogo della vita in pubblico e non solamente durante particolari momenti dell’anno, rappresentano opportunità che già ci sono e che potrebbero più utilmente essere governate.

Salone del Mobile, Milano, aprile 2013, in alto a sinistra: rivenditori ambulanti in Zona Ventura; in alto a destra: passaggi pedonali a Porta Genova, in basso: via Bergognone, Zona Tortona.

Riferimenti bibliografici

AA.VV. (2010), Le nuove sfide della Milano creativa, Atti del convegno -Palazzo Reale, Milano - 2 Dicembre 2010 Antonella Bruzzese

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The public space in the reconstruction of urban peripheries: an example of the Polis Program in Portugal

The public space in the reconstruction of urban peripheries: an example of the Polis Program in Portugal Rodrigo Coelho Faculdade de Arquitectura da Universidade do Porto CEAU Centro de Estudos de Arquitectura e Urbanismo Email: rodrigo.coelho@arq.up.pt Tel: +351 226 057 100

Abstract The question we want to address in this paper concerns the importance of public space in the (re) construction of the contemporary "shapeless city” sectors (which, in general, we associate to urban peripheries). We will seek demonstrate, from the analysis of a Portuguese case study – The Cacém Central Area requalification, integrated in Polis Program (National Program for Urban Rehabilitation and Environmental Improvement of Cities, released in 1999 by the Portuguese government), the conditions under which the public space project can act, subsequently, in the urban areas of recent formation, where, in many situations, the public space did not have a structuring role in its urbanization, seeing its presence reduced to a residual character. We seek to demonstrate with this example the methodological and urban design aspects that led to the regeneration of a disqualified and degraded urban area, by intervening, consistently and profoundly in public space, framed in a more comprehensive strategy, and attentive to the various scales of urban design. Key words urban design, public space, urban regeneration

1 | Introduction: The need to ‘make center’ as a basis for urban peripheries recomposition With this text we seek, above all, to emphasize, through the analysis of a particular case - the proposed requalification of the Cacém Central Area - on what terms, and under which conditions, the project of public space can be decisive in the (re)construction of the contemporary ‘formless’ or ‘un planned’ city. The enquiry about the factors that may lead to a consistent public space (re)configuration in these areas of the city becomes, in our view, a major issue which architecture and urban design are facing in the context of the present city. Especially because we are dealing with urban sectors with great expression in the context of medium and large European cities, whose recent origin, coinciding with the period that we call the ‘urban formless explosion’ (which begins in the second post-war), poses, in our view, balancing problems to the future development of cities. Given the complexity and difficulty to typify the term ‘urban periphery’, it can be stated that, in the current circumstances of these peripheral urban areas, the absence, or scarcity of central functions, and the lack of morphological and symbolic values (associated in many cases to the lack of a historical memory), are key indicators, or factors, for its recognition 1. Associated with the problem of scarcity of central functions and with the lack of a formal order (usually also shaped on the constructive weakness of buildings) or as part of this problem, we can still detect, in most urban 1

For this reason, in many situations, these parts of the city are more associated with social exclusion (or even delinquency) than to their geometric distance from the city centre which is, as we know, at the origin of the concept of ‘periphery’ - connected to the idea of ‘urbanized crown’ around a pre-existing polarizer core. If it is true that, from this point of view, among the different urban peripheries that we can find in most European cities, those in which this scarcity of core functions become more apparent are precisely those where the residential function is dominant or almost exclusive (therefore in most cases, they denote a pathological condition - especially regarding the social one - for which the city planning and urban design have difficulty in finding answers). Rodrigo Coelho

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peripheries, the poor quality or lack of qualified public spaces and infrastructure, able to establish the (formal and functional) continuities required with other urban sectors which are relatively close (this is the reason why it is in these parts of the city that the ‘crisis of public space’ becomes more acutely noted). Thus, and as several authors have stressed (such as Jordi Borja and Oriol Bohigas), without dispensing a desired (but surely utopian) global and integrated intervention for the recovering of the suburbs, the need to ‘make center’ is not only a indispensable response to address the processes of dissolution of peripheral urbanization (Borja, Muxi, 2003: 57) as it should be assumed, from the point of view of their functional and symbolic meaning, as a key concept to think and intervene on the enlarged city. The notion of re-centralization (which we can see successfully applied in the cases of urban periphery recomposition, such as in Barcelona or Lyon), understood from the redefinition of the mobility(s), from the reinforcement of the core functions, and from the creation or consolidation of urban fabrics, always articulated with policies of rehabilitation and creation of public spaces, seems to become one of the key strategies before the challenge of ‘making city over the peripheral city’.

Figure 1. Cacém Central Area (photography by the author)

2 | ‘Remake a center’: the Polis project for the Cacém Central Area Background and urban context Committed to this principle of ‘making (again) city over the city’2, conferring urban and livability meaning to the ‘city without quality’, some examples could be mentioned in the Portuguese panorama. However, due to its pioneer character, due to the consistency of the methodological options, and to the coherence and formal quality of the intervention (as a whole), we consider particularly important the reference to the example of the requalification of the Cacém Central Area, designed and constructed between 1998 and 2008, under the responsibility of the architect Manuel Salgado. Integrated in the set of the first cities that benefited from the Polis urban Program (National Program for Urban Rehabilitation and Environmental Improvement of Cities, released in 1999 by the Portuguese government), the 2

It should be recalled that we take the Second Post-war as the timeframe from which the principle of ‘making city over the city’ was ‘abandoned’, insofar as even the examples of expansion or creation of city ex-nuovo, corresponding to the years 20 and 30 (as the British satellite towns, the Siedlungen, etc..), were designed in articulation with the existing city (either from a morphological, either from a functional standpoint).

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detailed plan of the Cacém Central Area, has a nature and a specificity that turns it in an exemplary case, particularly within this program. While core of a ’dormitory town’ whose growth has rapidly and violently (and partially deregulated) occurred, especially in the last 40 years, Cacém denoted a clear absence of order and hierarchy in the urban space structuring, in particular regarding the road system – deeply disorganized (which was aggravated by the presence of a relatively rugged topography) and a special lack of equipment and qualified public spaces3. In this sense, we could not recognize, before the intervention, the existence of a readable public space, or even a public space endowed with social significance in Cacém. We could only recognize a set of residual spaces, as a direct consequence of the absence of urban design criteria, where the prevalence of the private interests and the negligence, incapacity or lack of control by the official authorities, negatively determined, and relentlessly, the quality of public open spaces4. However, in the urban and physical panorama prior to the intervention, extremely degraded and conditioned, there are signs of an inevitable and recognized urban vitality, either reflected in the movement generated, both around the most important equipment and services, either on the streets, where the presence of commercial activity is significant. In the late '90s, preliminary studies arise (commissioned by the Municipality of Sintra to architect Manuel Salgado / Risco) seeking to establish principles of action which sought a broader and deeper requalification of the ‘Central Cacém’. In the preliminary study, submitted in April 1999, the main ideas were defined, leading, subsequently, to the Detailed Plan held under the Polis Program5, and which allowed to accelerate and make more consistent, comprehensive and ambitious, the strategy of intervention outlined in previous studies (facilitating also its implementation in a shorter temporal timeline6).

The requalification of public space as a central objective of the Plan: the street as an articulator element and generator of continuity It is not our purpose in this paper to concentrate on aspects of detail, or on a description of the Detailed Plan (PP) developed. We are particularly interested in pointing out how the strategy outlined in this plan is materialized, and depends on a detailed and strategic action on public space. The intention of linking qualifiedly key urban sectors from the public space (by articulating five pre-existing ‘micro-centralities’) is, in fact, the central idea of the Plan; it is this understanding which will enable to define the matrix system of public spaces in the new urban reality of Agualva-Cacém (reinforced by the recovery of Ribeira das Jardas transformed into a linear park that connects the city from north to south, intersecting, at the center of the above mentioned ’micro-centralities’ system, the other vital axis that the proposal recovers – D. Maria II street). This matrix is, in turn, clearly (and consistently) reflected in the hierarchy of the proposed road system recovery (distinguishing main roads, streets and paths binding sites), expressed not only in the cross section of reclassified or created streets, but also in the adoption of different materials and construction solutions, public lighting, etc. Thus, it appears to become evident in the strategy of urban re-composition proposed by the ‘Detailed Plan’ and confirmed by the ‘public space project’, the value assigned to the street as a structuring element and articulator of the whole intervention.

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The city of Agualva-Cacém (located in the middle of this urbanized axis linking Lisbon and Sintra - lying about 10 km from the town of Sintra) arose from a dispersed set of locations. Agualva - a relatively compact agglomerated, was located in the eastern side of the railway - and Cacém – which was located on the west side of the same line, which developed along Highway Lisbon - Sintra (now Elias Garcia Street) that, while crossing with Paço de Arcos Road, then defined the "center" of Agualva-Cacém. Showing in the early decades of the twentieth century (particularly in the decades of 40 and 50) a significant growth (which justified the creation of the Parish of Agualva-Cacém in 1953), the great transformation of Agualva Cacém - leading to its integration in the network of metropolitan centres around Lisbon - takes place in the 60 and 70 (coinciding with the Linha de Sintra railway improvements and with the deviation of the Sintra Road from the Cacém Center, and subsequent construction of the IC 19 - highway) 4 We should mention, as an example, the generic absence of basic infrastructure, and the lack of street lighting, trees, sidewalks, street furniture, etc. The diagnostic report (made by the design team), that accompanies the project of public spaces is indeed indicative of this precarious condition that characterized the pre-intervention public space. 5 The recovery of Ribeira das Jardas to public space, as well as the restructuring of the entire road system and the transformation of downtown Cacém (taking into account its new civic vocation), are already perceived in this Preliminary Study as key actions, that would be later considered and implemented in the intervention of urban requalification of Agualva - Cacém. 6 In the specific case of Cacém, its integration into Polis Program has extended the intervention area, which now covers approximately an area of about 45.5 hectares, centred on the Agualva- Cacém Urban Core, generally delimited on the north by Urban Park, on the east by the railroad, on the south by the IC 19, and on west by the Paço de Arcos road. Rodrigo Coelho

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Figure 2. Cacém Central Public Space Project. Strategy scheme and public spaces before and after the intervention (analysis drawing by the author).

Establishing continuities and solving impasses and disruptions, the street appears as the main element of transformation and ‘ordenation’ of the pre-existing urban fabric, on which rests, in large measure, the role of restoring hierarchy, legibility, meaning and identity to the intervention area. It is based on this methodological procedure that the treatment conferred to the characterizing elements of public space gain relief (from the tree planting, to the (re)definition or reclassification of the proposed streets profile, to the paving) redefining or introducing (together) a new spatial order which is vital in the restructuring of the whole open spaces system defined by the Plan. With this goal it is defined a set of rules - simple constants and clear typological principles - that is embodied in three main categories of streets (pre-defined in the Detailed Plan), and which can be recognized quite clearly, in the dimensioning elements for the traffic channel, on the type of afforestation and on the materials proposed. These guiding principles are understood not only in their functional dimension but, on the contrary, they are used as a means of expressing a formal order, capable of organizing and establishing continuity and visibility, identity and scale to the urban space. The perennial character, and the ‘familiar’ solutions proposed for the design of the ground (such as the choice of flooring materials, differentiated in accordance with criteria of readability intended for public space and for different classes of streets), the correct dimensioning of the different elements (sidewalks, afforestation, roadways, etc.) - giving priority to pedestrians - as well as the ability to adapt to the many specific situations that can be detected, prove to be, in our view, crucial for the (re)conquest of identity, hierarchy and legibility of public space in the Cacém Central Area. Nevertheless it is important to highlight that this ‘conquest of identity’ does not represent the imposition of a formal, sterile or unjustified order. Rather, the intervention in the public space assumes, in some cases, an (almost) anonymous character, conferring the necessary fluidity and articulating ability to the public space system, by tackling numerous situations of discontinuity (or even deadlock) on pedestrian pathways or roads. It is in this context that alternative pedestrian linkages arise (materialized on stairs, ramps, enlargements or squares), ensuring comfort and suitability to the human scale, as well as diversity and ability to articulate to the public space. Some of these adverse situations are, in fact, wisely used in order to allow the crossings of several interior blocks, creating points of concentration of activities (such as terraces) or exceptions (defining stopping spaces), which turn out to be important references in the re-qualified public space system. Beyond the elements (commonly) used in ‘generic’ requalification of public spaces (afforestation, flooring, lighting, etc.), the “vertical surfaces” also constitute, in these situations, an important part of the characterization of public space. By dividing spaces, by guiding paths or by resolving gaps, ‘vertical surfaces’ (materialized in walls of containment or delimitation, ramps, etc.) acquire a particular importance in the characterization of

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public space (similar to the ones assumed by afforestation, floors and lighting), in so far as they organize and confer scale to the public space, providing an essential identity and unity to the project.

Figure 4. Cacém Polis Public Space .D. Maria II Street after the intervention (photography by the author).

The collective equipment and the singular public spaces in the creation of a ’new center’ If, as we stated, it is the systematic intervention on the street that allows a primary structuring and an extensive recovery of the public space in the Cacém Central Area, we should also emphasize its role as a component capable of ensuring the desired "quality connections” between the five ‘micro-centralities’ which the plan seeks to achieve. These attributes are particularly visible in the requalification of the D. Maria II street (project authored by Inês Lobo and John Gomes da Silva). In this case, even though the axis defined by the Plan is not yet consolidated (it depends on the building of a significant stretch of the north front of the street), the public space has acquired remarkable character, through the redefinition of the new street profile, the treatment of floors, the afforestation, but also through the design of the tree grills and the urban furniture (which enabled it to acquire an image next to a rambla). Still in the context of ‘exceptional projects’, we must consider the public space interventions developed in the south and east sector of the re-qualified area. We refer specifically to the Linear Park project (authored by NPK), which allowed the (re)conversion of Ribeira das Jardas in the main public space of Agualva-Cacém (covering the lack of a true central public space, appropriate to the size of this urban agglomeration), affirming itself either as the main collective reference of the (re)created urban structure, either as an ordering void, capable of mediating the multiple tensions that converge in this sector of the city. The proposal contained in the Detailed Plan envisaged the recovery of this residual space in a central urban space. It was not intended to create only a reference spot, a privileged stage for Agualva-Cacém collective life (permeable and accessible from a continuous pedestrian route linking north to south), but it was also proposed to create an articulating space, generator of continuity along and between the two banks of Ribeira das Jardas, enhancing at the same time conditions for the approach and possible articulation between the cores of Agualva and Cacém7. 7

From the point of view of its design, the Linear Park (presenting itself primarily as a continuous green channel), presupposes, on the one hand, the environmental protection of the Ribeira das Jardas banks (giving natural response to hydrological and hydraulic problems) and predicting, on the other, the creation of spaces for pedestrian circulation and stay, in order to allow a collective and informal usage (either for contemplation and ride, either as crossing space, taking advantage of the many pedestrian links that the project provides and concretized).

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At this level it is already recognizable the importance of the ‘intersection point’ between the Linear Park and the D. Maria II street, which extends east across the pedestrian footbridge – in the direction of Agualva - which in the future will connect to the Central Square (yet to be built), becoming this square the major point of articulation between Agualva and Cacém. Deployed at the level of the park, and closing the above mentioned re-qualified axis (of D. Maria II street), the Central Square will be defined at the east side from the Nova Baixa Cacém Building, an extensive linear volume aligned with the rail-way, to which is opposed (perpendicularly) a lower height building, destined for a collective equipment, which will define the north facade of the Square8. With a linear configuration, and developed alongside the west limit of the railroad (in an extension of about 270 meters), the Nova Baixa Cacém Building (not yet constructed) reveals, in turn, a clearly intention to materialize a new urban front to the Cacém side, taking the form of exceptional element, not only from the point of view of the uses it proposes, but especially by the clear intention to mark the urban image of this City9. Together, these equipments (and urban spaces surrounding it) will establish a centre of civic, commercial and recreational activities - constituting a central, dense and complex public place. In particular, the achievement of the Central Square project, will simultaneously organize and assign meaning to the systems of pedestrian footpaths crossing the railroad and to their articulations with other centralities that Plan pursues (especially in north side of the intervention area).

3 | Final remarks The first aspect that we consider important to note concerning the urban requalification of the Cacém Central Area, is related to the importance (and novelty) that the valuation of the ‘city outskirts’ assumes as the subject of a comprehensive and coordinated intervention supported, especially, in the redesign of the public space. With this example we believe it may have become clear the urgency to look at the more peripheral areas of the city (understanding them as key parts of the equilibrium of the metropolitan city), by considering urban renewal programs from an overall, strategic and long-term vision; and taking into account the recovery of public space as a fundamental pillar of these urban programs, in order to allow a re-founding intervention in these urban areas, assigning them an identity and an urban structure previously absent. A comprehensive and intensive intervention on the pre-existing public space (in coordination with the Detailed Plan implemented) allowed, in the Cacém Polis case, the public space to become an ordering system - a generator of ‘urban continuity’ - and converting it into the main matrix of the ‘city building’ and of collective activities that develop there. From this point of view it was also decisive the ‘anchoring’ of the plan either on the collective public facilities, either on the ‘heavier’ mobility infrastructure, either on the green spaces networks, configuring, all together, a consistent spatial urban system able to ‘shape’ the city, making it more readable, more liveable and more functional10. As mobility systems constitute today an important conditioner element in the design of public space, we consider important to point out (regarding the new proposed public space system) the consistency and formal and spatial control in the articulation of the ‘heavier network infrastructure’ with the secondary road system; and in particular with the linear park, thus providing to the infrastructure (together with the green system) a key role in the materialization of a new identity for Cacém, and particularly for its ‘New Urban Core’. From the point of view of the development and implementation of the plan, and execution of works, equally important was the role of public authorities - in this case, the Polis Programme - as promoters and executors of short-term operations - as was the case of the project the public space. On the other hand, it would have been difficult to execute such a project if it was not the same design team responsible for the effective, and coherent articulation between strategic decisions relating to urban design, considered in the scale 1/1000, and its architectural materialisation, developed in the scale 1/1. However, as we can easily deduce, the intention of ‘making city in the suburbs‘, and the purpose to consolidate the most important idea of the plan - ‘to build a Centre’ - is still dependent on the capacity to implement some planned projects, but not yet realized, particularly for the ‘New Urban Core’. This circumstance leads us to

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The construction of this building is of utmost importance, not only for the achievement of the strategy defined by the Detailed Plan (the ‘creation of a new urban Centre’), but also for the increasing of quality of the surrounding public spaces. 9 The first version of the plan envisaged the construction of an office tower with 18 floors (integrated in the New Baixa Cacém Building) conceived unequivocally as urban hito, whose importance and symbolism, would extend beyond its nearby surroundings, becoming a geographical reference that would give visibility to the rise of Agualva-Cacém to a new urban condition. 10 In this context, we must stress the fact that the works of requalification of the public space have provided the accomplishment of important works in terms of infrastructures, allowing to rehabilitate or build from scratch the water, electricity, telecommunications and gas networks. Rodrigo Coelho

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recognize the importance of the factor ‘time’, proving that, in an urban process with these characteristics, it is essential the involvement not only of the public authorities but also of the private actors. Even though these and other circumstances which (always) affect the construction of the city, it is important to note, that the deep requalification operated on the public space, proved to be an important structuring component which has strongly characterized the new urban space, capable of triggering urbanization processes, capable of shaping the city, becoming, therefore, an indispensable starting point for future transformation of Cacém.

Figure 5. Cacém Polis Public Space. Ribeira das Jardas Linear Park after the intervention (photography by the author).

Bibliography

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Rodrigo Coelho

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La rigenerazione urbana come modello di sviluppo. Il laboratorio aquilano.

La rigenerazione urbana come modello di sviluppo. Il laboratorio aquilano. Federico D'Ascanio Università degli Studi di L'Aquila Dipartimenti di Architettura e Urbanistica Email: dascanio.federico@gmail.com Tel: 3481406074

Abstract In un'epoca caratterizzata da continue trasformazioni, conflitti, contraddizioni le città sono costrette a reinventarsi mettendo in campo strategie, politiche e strumenti innovativi, nello sforzo continuo di migliorare tanto la propria capacità competitiva quanto la qualità della vita della popolazione. La miope scelta fino ad ora condotta a L'Aquila di ricostruire i fabbricati senza una minima visione d'insieme e senza pertanto considerare problematiche di tipo urbano e sociale, facendo confluire tutte le risorse economiche disponibili nel solo tema edilizio, testimonia la totale assenza di sensibilità e di "vision" strategica in chi detta le regole della ricostruzione. La riqualificazione degli spazi pubblici, incidendo sulla qualità della vita degli abitanti e sul loro senso di appartenenza ai luoghi può, infatti, costituire un fattore decisivo nella riduzione delle disparità tra quartieri periferici e centrali, contribuendo a promuovere una maggiore coesione sociale. Parole chiave rigenerazione urbana, spazi pubblici, caratteri identitari.

Nuovi contesti urbani In un'epoca caratterizzata da continue trasformazioni, conflitti, contraddizioni le città sono costrette a reinventarsi mettendo in campo strategie, politiche e strumenti innovativi, nello sforzo continuo di migliorare tanto la propria capacità competitiva quanto la qualità della vita della popolazione. Il mutare della città fa emergere l’esigenza da parte delle amministrazioni e di coloro che governano il territorio di dotarsi di nuovi strumenti, diversi da quelli forniti dall'urbanistica tradizionale, più appropriati per rispondere alle esigenze che la città esprime. La natura complessa dei problemi della città contemporanea fa sì che le risposte vengano cercate al di fuori degli strumenti ordinari di pianificazione, tipici di una governance sul modello "top-down" non sempre adatto a dare risposta ad impulsi provenienti dal basso. Ciò che le città chiedono oggi è una maggiore vivibilità, la possibilità di usufruire degli spazi pubblici, la partecipazione degli abitanti dei quartieri nei processi di riqualificazione e più in generale nei processi di trasformazione urbana. Maggiore vivibilità (concetto che include anche la necessità di avere zone urbane, specialmente a destinazione residenziale, che favoriscano la sicurezza), facile accesso agli spazi pubblici, maggiore partecipazione degli abitanti dei quartieri alla riqualificazione degli stessi, riattazione degli spazi interstiziali ad orti urbani...queste alcune delle questioni poste all'attenzione di coloro i quali provano a relazionarsi, come anticipato, con strumenti che superino gli "obsoleti" strumenti urbanistici di riferimento. In questo scenario assume un interesse crescente il dibattito sui temi della rigenerazione urbana, intesa come fenomeno multidimensionale ed integrato, in cui gli elementi di riqualificazione urbanistica ed architettonica si intrecciano strettamente con la cultura, l'economia e l'organizzazione sociale della città. Mentre l’obiettivo dei processi di riqualificazione o di ricostruzione è il cambiamento fisico dei luoghi, le politiche di rigenerazione urbana puntano a realizzare mutamenti anche e soprattutto del contesto sociale ed economico delle città, o viceversa, ad adeguare spazi urbani alle mutevoli condizioni socio-economiche. Nei programmi di Rigenerazione Urbana, infatti, i centri storici non sono più considerati solo un valore storico

Federico D'Ascanio

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La rigenerazione urbana come modello di sviluppo. Il laboratorio aquilano.

monumentale, quanto piuttosto interpretati come parti di territorio da restituire ai processi produttivi e sociali dell’identità delle cittadinanze. L'obiettivo da perseguire, in zone con una forte vocazione identitaria monotematica (commercio, direzionale, residenziale,...), è quello di produrre quella mixité funzionale che rappresenta l'eccellenza dei centri storici. Attraverso tale principio si promuove la volontà di innescare un processo di recupero intervenendo sulla base economica e sul sistema sociale cittadino nel suo complesso, fornendo un complemento alla mera ristrutturazione fisica per la quale gli strumenti tradizionali del progetto edilizio o urbano, appaiono evidentemente ancora insufficienti. In tale ottica, la Rigenerazione si qualifica come un’azione di strategia integrata e intersettoriale promossa da un soggetto pubblico, in collaborazione con soggetti privati, finalizzata al recupero complessivo di un’area urbana in cui occorre ripristinare le componenti fisico-ambientali, economiche e sociali, ovvero quei caratteri identitari su cui, in ultima analisi, si fonda la qualità urbana.

Gli spazi pubblici nella ricostruzione È proprio partendo da simili premesse che la città di L'’Aquila, sconvolta tanto nel tessuto urbano quanto in quello sociale dagli eventi sismici del 6 aprile 2009, potrebbe diventare un laboratorio sperimentale per tali prassi di pianificazione, nel quale provare a immaginare percorsi di recupero che coinvolgano in prima istanza proprio gli abitanti dei centri storici. Le esperienze maturate con i Contratti di Quartiere hanno dimostrato come la partecipazione dei cittadini sia indispensabile per giungere a soluzioni condivise, in grado di individuare, sostenere e sviluppare politiche di sostenibilità in cui trovino equilibrio gli interessi sociali, ambientali ed economici, pubblici e privati. La periferia aquilana era un susseguirsi di quartieri privi di identità già prima dell'evento sismico del 2009, in cui la morfologia li differenziava, in cui gli spazi pubblici erano e sono totalmente assenti a causa della eccessiva densità edilizia che impedisce gli allargamenti delle sedi viarie e la realizzazione di aree verdi o spazi collettivi. Sebbene la drammaticità del caso renda indelicato l'utilizzo di tale termine, l'"opportunità" fornita dalla necessità di demolire e ricostruire intere porzioni di città gravemente danneggiate dal sisma e irrimediabilmente compromesse nei loro tessuti residenziali, con particolare riferimento alla periferia urbana, potrebbe rappresentare una via di uscita per la città in cerca di nuovi stimoli e connessioni sociali. La miope scelta fino ad ora condotta a L'Aquila di ricostruire i fabbricati senza una minima visione d'insieme e senza pertanto considerare problematiche di tipo urbano e sociale, facendo confluire tutte le risorse economiche disponibili nel solo tema edilizio, testimonia la totale assenza di sensibilità e di "vision" strategica in chi detta le regole della ricostruzione. Ancora una volta la "rigenerazione" diviene attribuibile al solo involucro edilizio, consegnandoci un futuro composto da spazi urbani invivibili facenti da contorno ad edifici innovativi e performanti. La riqualificazione degli spazi pubblici, incidendo sulla qualità della vita degli abitanti e sul loro senso di appartenenza ai luoghi può, infatti, costituire un fattore decisivo nella riduzione delle disparità tra quartieri periferici e centrali, contribuendo a promuovere una maggiore coesione sociale. Ripensare le periferie aquilana con dettami che si avvicinino il più possibile alle esigenze di vivibilità, sicurezza, spazi pubblici, dovrebbe in ultima istanza rappresentare una priorità, dal momento che la cantierizzazione del centro storico (trattasi sempre di riqualificazione degli involucri ma questo è l'unico caso in cui è l'unico aspetto da poter contemplare) richiederà tempi lunghi, nonché complesse dinamiche. Non si può lasciare che tanti microinterventi risolvano ognuno il piccolo singolo problema, in attesa che il degrado socio-economico, aggravatosi con la crisi post sisma, trovi ristoro in un futuro sempre più remoto in cui gli spazi aggregativi centrali possono tornare fruibili. Esiste una necessità immediata, legata al transitorio che separa l'intervento nelle periferie da quello nei centri storici, ben più gravoso in termini di denaro e tempi necessari, in cui la cittadinanza rivendica il diritto di poter godere di spazi pubblici nuovi, la cui assenza in passato in quanto è stata sempre supplita da quelli oggi preclusi dei centri storici (con particolare riferimento, ovviamente, a quello del Capoluogo abruzzese), in cui riconoscersi e ritrovare una qualità della vita soddisfacente. I dati attuali parlano, per la città di L'Aquila, di un lento ma progressivo spopolamento demografico, con il travaso verso vicini centri urbani dei residenti alla ricerca di nuove identità urbane. Se dovesse tardare un intervento tale da poter restituire il piacere di vivere la quotidianità urbana, quali quelli che potrebbero fornire nuove polarità satellitari da destinarsi spazi collettivi (escludendo tra questi i numerosi, piccoli centri commerciali che pur rappresentano delle polarità all'Aquila), ma richiedono , la città post sismica, una volta riparata nel tessuto edilizio, potrebbe trovarsi nella paradossale (ma non più inverosimile) condizione di non avere più utenti in grado di poterne apprezzare le nuove tecnologie costruttive. Insieme alla necessità di diverse polarità urbane, il Capoluogo abruzzese subisce la carenza di percorsi, nonché la presenza di assi viari inadeguati a sostenere il mutato assetto della città "territorio", strade che non invogliano certo i pedoni a percorrerle. Federico D'Ascanio

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La rigenerazione urbana come modello di sviluppo. Il laboratorio aquilano.

Ricostruire il futuro post sisma All’Aquila, le tendenze alla diffusione e alla dispersione insediativa erano già tutte presenti prima del terremoto. La gestione del post-terremoto le ha, però, accentuato ancora di più. La realizzazione di edifici abitativi post sisma da parte della Protezione Civile, unitamente con l'Amministrazione Comunale, con la realizzazione di una ventina di nuovi sobborghi dormitorio, privi di ogni servizio e di difficile connessione tra loro ha segnato la punta più alta del degrado territoriale nella conca aquilana. Il tutto interviene in un'area in cui il concetto di "città diffusa" è stato preso alla lettera e già in precedenza la residenzialità aveva prodotto un eccessivo consumo di suolo, salvo poi concentrare le attività di servizio nel centro storico cittadino. Venuto meno quest'ultimo, a causa dei noti danni prodotti dal sisma, la popolazione si è vista privata di ogni riferimento e, senza voler fare cenno degli ingentissimi danni economici subiti dalla concentrazione commerciale che precedentemente caratterizzava i piani terra dell'intero centro storico, alla ricerca di nuove identità urbane. La rigenerazione urbana avrebbe dovuto essere (e magari potrebbe ancora) la risposta a tale necessità, stante l'enorme patrimonio a disposizione della città: da caserme dismesse ad intere aree industriali ormai abbandonate da anni, numerosi sono i contenitori in cerca di una nova destinazione d'uso, magari soddisfacente la rinnovata vocazione del contesto urbano. Ai contenitori disponibili fanno da contraltare gli spazi una volta occupati dalle aree di sedime degli edifici distrutti o crollati, con particolare riferimento a quelli di proprietà pubblica che già hanno trovato nuova collocazione altrove. Le scelte di una Amministrazione in merito al destino di un'area, si sa, posso durare anni, decenni, e ne sono testimonianza gli usi "spontanei" ed impropri che hanno caratterizzato in questi ultimi anni gli ultimi spazi disponibili in città per poter immaginarne un rilancio socio economico (ad esempio via della Croce Rossa).

Figura 1. Sullo sfondo il Tribunale di L'Aquila, esempio di ricostruzione su un modello interpretativo dell'esistente con produzione di effetti "discutibili" delle nuove architetture urbane. In primo piano l'ampio ambito di sedime lasciato libero dalla demolizione dei fabbricati una volta insistenti sull'area e oggi in attesa.

Strumenti urbanistici classici hanno già dimostrato la propria inadeguatezza in tal senso, rendendo di fatto inevitabile il degrado e l'abbandono che caratterizzano le nostre periferie in attesa che qualcuno, prima o poi, si determini sul futuro di tali ambiti. Se tale stato di passività amministrativa un tempo avrebbe potuto persistere indisturbato rimandando sempre a data da destinarsi l'attuazione di programmi troppo spesso solo coincidenti con quelli elettorali, oggi, venuto a mancare il cuore urbano, sociale ed economico della città, il tempo è scaduto. Urge una presa di posizione che traghetti la popolazione verso una ricostruzione capace di restituirgli la città ormai perduta. Queste spinte alla diffusione hanno impresso un nuovo volto alla forma urbana dell’Aquila che ha perso ogni qualità dello spazio, in primo luogo di quello pubblico e collettivo.

Federico D'Ascanio

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La rigenerazione urbana come modello di sviluppo. Il laboratorio aquilano.

Se la burocrazia, causa da ogni parte additata come unica responsabile delle manchevolezze amministrative, impedisce la definitiva nuova attribuzione urbanistica a tali ambiti, ci si chiede se la medesima opportunità di rilocalizzare "temporaneamente" le attività commerciali, offerta a chi aveva perduto la propria sede in seguito al sisma, possa essere offerta a chi ha perduto qualità della vita e spazi pubblici. Ci si chiede, in definitiva, se sia possibile ipotizzare un uso pubblico temporaneo degli spazi oggi disponibili, siano essi contenitori edilizi disponibili, aree di sedime dismesse o aree interstiziali non ancora aggredite dalla voracità edilizia.

Figura 2. Viale della Croce Rossa, arteria nord della città che affianca le mura cittadine. Area destina a verde pubblico attrezzato ma che oggi è divenuta sede di rilocalizzazione temporanea delle più deisparate attività commerciali, con effetti di evidente degrado urbano e sociale.

Reinterpretare l'esistente avendo ben chiara una strategia urbana da porre in essere può fornire una opportunità per colmare il gap che separa la condizione di degrado socio economico attuale dalla conclusione della ricostruzione fisica della città di L'Aquila. Se mentre procede, peraltro molto lentamente, la riparazione materiale dei danni subiti dagli edifici nessuno prova a curare anche le ferite sociali causate dalla perdita di spazi per il tempo libero o semplicemente di luoghi d'incontro mai previsti nelle espansioni periurbane, difficilmente potremo tornare ad avere una città capace di tenere con se i propri cittadini che nel frattempo saranno emigrati alla ricerca di nuove identità urbane.

La rigenerazione nel modello policentrico Contenitori localizzati in ogni direzione lungo le strade, ma senza rapporto con esse se non di tipo funzionale e simbolico; una serie di grandi e piccoli manufatti autoreferenziali che, nell’insieme, denotano spazi socialmente, economicamente e spazialmente ai margini (distributori, ipermercati e outlet, edilizia sociale e lottizzazioni piccolo-borghesi, attrezzature di eccellenza e impianti produttivi). Questa tendenza urbanistica alla dispersione insediativa, comunemente descritta con il termine inglese di sprawl, testimonia la crescita delle città in termini di territorio urbanizzato ma anche la qualità della crescita stessa che avviene proiettando alla rinfusa nuovi contenitori e nuove funzioni urbane nel territorio circostante gli insediamenti con un consumo di suolo assolutamente evitabile se solo programmato. Volendo semplificare con una schematizzazione i modelli insediativi urbani, possiamo individuare due modelli di città contrapposti, quello americano basata su una distesa di villette unifamiliari e i centri commerciali come unici contenitori di socialità preposti all'interazione quotidiana e, viceversa, quello europeo, caratterizzato da nuclei urbani densamente abitati e organizzati attorno a spazi pubblici vitali. Confrontando la città dell'Aquila così come oggi ci si presenta con tali modelli non si può non constatare come il capoluogo abruzzese si stia velocemente americanizzando. Federico D'Ascanio

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È dunque necessario ripartire da un disegno strategico condiviso, legato alle problematiche oggi emergenti fra cui, in un elenco sommario e certamente non esaustivo, possono essere elencate: l’espansione dei nuclei e delle frazioni, prevista dal PRG non si è completata e, in alcune parti di città, non è avvenuta affatto; le previsioni inserite nel PRG del 1974 riguardanti il capoluogo si sono quasi tutte attuate. Sono però presenti notevoli quantità di aree che devono essere ripianificate (aree a vincolo decaduto o grandi contenitori come le caserme); la città si caratterizza per la presenta di una grande quantità di aree a verde che residua in vuoti e interruzioni con evidente necessità di essere riconsiderata (800 ha); il destino delle aree industriali, enormi riserve di spazio in gran parte inutilizzate (750 ha). Dopo ogni terremoto si è partito dal ricostruire gli spazi urbani distrutti, magari migliorandoli dal punto di vista della sicurezza, della qualità architettonica, della corrispondenza ai desideri dei cittadini, ma se non si vuole perdere l’identità della città di L'Aquila, bisogna concentrarsi sul recupero di quello che è andato perduto, magari riprogettandolo, riempendolo di nuovi significati e funzioni, senza però cedere alla tentazione di facili soluzioni espansive che evitino di risolvere le problematiche della città già esistente. L'Aquila infatti si presentava fino al 2009 con una dimensione policentrica squilibrata (16 frazioni – 62 centri abitati) una dimensione lineare (un sistema insediativo lungo la media valle dell’Aterno esteso per 14 km), una dimensione diffusa e porosa (vuoti urbani + aree dismesse + spazi naturali nell’urbano). Il terremoto ha inciso in maniera differenziata su questa struttura, esito di una sedimentazione di diverse fasi di pianificazione e di trasformazioni senza piano, ed ha determinato ulteriori e più pesanti segmentazioni, quali la interdizione per sicurezza dei centri storici. La città si presenta pertanto oggi come un sequenza di parti prive di una Armatura urbana, ma anche di una forma coerente con i luoghi e la loro storia. Un primo elemento di questo processo è la stabilizzazione e la condivisione della Armatura urbana e territoriale della nuova Aquila. Il sistema insediativo, complesso esito dello sviluppo urbano degli ultimi anni caratterizzato dalla mancata attuazione della parte pubblica del PRG del ’75 e dalla “anticipazione” deregolativa del cosiddetto Piano Strutturale del 2004, presentava già prima del terremoto notevoli elementi di criticità relativi a mobilità, accessibilità, permeabilità e soprattutto alle incerte centralità ed alle discontinuità dei tessuti (dismissioni e vuoti urbani) e alle fratture delle reti ecologiche e vegetazionali. La risposta a tali problematiche congenite, aggravatesi come descritto nella fase successiva al sisma del 2009, può venire dalla storia stessa del nucleo aquilano: una struttura policentrica che scelse di concentrarsi per fondare una nuova città e che oggi, al contrario, torna al suo modello originario non esaurendosi all'interno di una spazialità definita dai perimetri urbanizzati, ma che si apre verso il patrimonio paesaggistico. Modelli compatti e policentrici di sviluppo urbano, potranno essere effettivamente ed efficacemente realizzati soltanto attraverso piani elaborati alla scala pertinente (ovviamente sovracomunale) e con indirizzi forti e condivisi da parte dei portatori di interesse. Le nuove centralità, messe a sistema in una vision generale del territorio aquilano, rappresentano una opportunità irrinunciabile che consentirebbe di ridisegnare l'intero territorio comunale oggi in fase di avanzato degrado. Appare pertanto da ricercarsi un sistema di luoghi complessi, non monotematici, il cui impianto sia fondato sul concetto (da tempo perduto nelle periferie urbane) di spazio pubblico, dato da una pluralità di funzioni di alto livello, caratterizzate dalla presenza di attività collettive di natura culturale, ricreativa e sociale.

Bibliografia

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Federico D'Ascanio

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Percorsi partecipati di rigenerazione urbana in tempi di crisi

Percorsi partecipati di rigenerazione urbana in tempi di crisi Alessandra Marin Università degli Studi di Trieste Dipartimento di Ingegneria e Architettura Email: amarin@units.it Milena De Matteis Università IUAV di Venezia Dipartimento Culture del Progetto Email: milenadm@iuav.it Tel: 041.257.1362

Abstract Il paper sviluppa un ragionamento sulla “città pubblica” come risorsa per attivare pratiche progettuali e d’uso capaci di migliorare la qualità urbana, nel quartiere stesso e nel suo intorno più ampio. Ci si concentra sul progetto degli spazi aperti, importanti indicatori di qualità urbana troppo spesso trascurati, e sulla definizione di reali processi attivabili. Questi, in un periodo di crisi economica e culturale, devono considerare l’inclusività come strategia basilare sine qua non della rigenerazione. Nel caso studio della ricerca LUS del quartiere Raibosola a Comacchio, si è lavorato dal duplice punto di vista del progetto e del processo. Sono numerosi i temi riscontrabili a livello di progetto: rigenerazione fisica e socioeconomica; connessione con la città; valorizzazione ambientale; recupero degli ampi spazi inutilizzati; creazione di luoghi aggregativi e nuovi servizi; densificazione residenziale. Essi sono stati affrontati attivando un processo basato su un percorso partecipato creativo e sperimentale. Parole chiave Rigenerazione urbana partecipata, Quartiere pubblico, Spazi aperti.

Un terreno fertile Fin dai suoi primi interventi, l’azione pubblica nel settore dell’edilizia residenziale per gli strati sociali meno abbienti, la “città pubblica” (Di Biagi, 1986), si è rivelata terreno fertile per l’applicazione e la sperimentazione di teorie urbanistiche, idee progettuali, politiche urbane e sociali. Una propensione ad essere ‘terreno di coltura’ dell’innovazione che si è trasmessa anche alla seconda fase del ciclo di vita dei quartieri pubblici, quella che ha visto e vede la necessità di rispondere ad obsolescenza, degrado, disagio e inadeguatezza degli spazi dell’abitare (dentro e fuori casa) delle comunità insediate in queste parti di città, spesso assai diverse oggi da quelle ipotizzate dai progettisti e dagli amministratori che li avevano realizzati. È l’aprirsi della stagione dei programmi complessi a dare particolare rilievo ai quartieri residenziali pubblici come laboratorio per la riqualificazione urbana e l’avvento della progettazione integrata a definire il passaggio dell’interesse dalla qualità spaziale alla qualità dell’abitare in senso lato, investendo di responsabilità nell’esito del processo anche gli abitanti, coinvolti attraverso strumenti quali i Piani di accompagnamento sociale. Con questo passaggio, accompagnato in alcuni casi (soprattutto le esperienze dei programmi Urban e di altri strumenti di riqualificazione agenti a differenti livelli su contesti urbani in declino) da un’attenzione rilevante alla dimensione economica del progetto, si apre la strada allo slittamento dall’idea di riqualificazione a quella di rigenerazione urbana: dove la qualità di queste parti di città viene cercata attraverso un miglioramento della qualità fisica, della tenuta sociale, dei processi economici attivabili e di quelli culturali da implementare, il tutto in un quadro generale di miglioramento della qualità ambientale. Alessandra Marin, Milena De Matteis

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Percorsi partecipati di rigenerazione urbana in tempi di crisi

Il caso studio qui presentato ha origine dal proposito di sperimentare, in un contesto adeguato, un percorso di rigenerazione che sviluppi in modo coerente questi differenti aspetti, promosso da una ricerca universitaria e realizzato con il supporto delle amministrazioni locali, a scala regionale e comunale. Un percorso che si propone di individuare un ruolo attivo per il mondo della ricerca come attore della trasformazione urbana, secondo una modalità che, prendendo spunto da John Forester, si potrebbe definire una «strategia di incoraggiamento all’incontro» (Forester, 1989) e di supporto attivo allo sviluppo di buone pratiche anche in un periodo di rilevante scarsità di risorse, e in ambiti locali marginali e scarsamente attrezzati per (o motivati a) supportare un tale processo. Il testo che segue racconta un’esperienza in itinere, ma che ha già prodotto risultati di notevole rilievo proprio per la capacità del contesto sociale, economico e culturale locale di cogliere l’occasione che un gruppo di ricercatori ha offerto. Un gruppo che coltiva questo impegno nella convinzione che il terreno fertile, se ben lavorato, dà buoni frutti.

L’ipotesi di ricerca “Living Urban Scape” La ricerca di interesse nazionale “Living Urban Scape – Abitare lo Spazio Urbano” (LUS)1 (De Matteis, 2012), indaga alcuni temi della rigenerazione urbana nelle aree residenziali periferiche realizzate in Italia nel secondo dopoguerra per iniziativa pubblica, nel periodo tra gli anni ’60 e gli anni ‘80. In particolare il presente testo sviluppa, a partire dalla descrizione di uno dei casi studio applicativi della ricerca – il quartiere Raibosola a Comacchio – un ragionamento sulla “città pubblica” come risorsa potenziale per attivare pratiche progettuali, processuali e d’uso capaci di migliorare la qualità urbana, nel quartiere stesso e nel suo intorno più ampio. I quartieri pubblici indagati nella ricerca, nati con l’ambizione di essere parti autonome di città, quartierimodello, hanno sviluppato ben presto e per diverse ragioni numerosi problemi di natura fisica e socioeconomica: obsolescenza edilizia, isolamento sociale, abbandono e degrado degli spazi aperti, eccessiva monofunzionalità, depressione socioeconomica e stigmatizzazione negativa, elementi che hanno comportato un notevole abbassamento della qualità della vita. Se il contesto di studio propone queste rilevanti problematicità, la ricerca LUS – adottando quel cambio di prospettiva da più voci sostenuto (LaboratorioCittàPubblica, 2009), che considera proprio le problematiche esistenti come opportunità per una nuova partenza e sperimentazione – si è proposta di individuare strumenti e percorsi per elevare tali contesti da criticità a possibili risorse per la rigenerazione urbana, riconoscendo come carattere comune e positivo la loro residua “trasformabilità”, specie negli spazi aperti, in particolare trattando come “serbatoio” di opportunità le aree a standard inutilizzate (Càceres et al., 2003). L’ipotesi è che, pur in carenza di risorse e con politiche urbane non particolarmente favorevoli, sia possibile avviare processi di trasformazione che definiscano nuovi ruoli e relazioni, valorizzando le risorse già presenti in loco: a livello fisico, dove gli ampi spazi aperti, previsti nel rispetto delle normative, sono oggi spesso divenuti “vuoti urbani” alla scala sociale, dove gli abitanti (sempre più diversificati e con nuove esigenze di vita e qualità) introducono pratiche d’uso spontanee migliorative di tali spazi e sono spesso interessati a essere coinvolti in percorsi partecipati (Aprile, 2010; Zanfi, 2008). La ricerca ha promosso quindi non solo sperimentazioni sul progetto degli spazi aperti, importanti indicatori di qualità urbana troppo spesso trascurati nelle politiche gestionali delle amministrazioni, ma anche sulla definizione di reali processi attivabili ed efficaci. Questi, in un periodo di crisi economica e culturale, devono considerare l’inclusività, la partecipazione e la negoziazione come strategie basilari sine qua non della rigenerazione, dove coesione sociale e attivazione di partnership economiche pubblico-privato sono requisiti essenziali per perseguire la sostenibilità urbana (German EU Council Presidency, 2007).

Il quartiere Raibosola a Comacchio La scelta da parte di LUS del caso studio del quartiere Raibosola a Comacchio (FE), nasce da un’occasione: il Programma di Edilizia Residenziale Sociale 2010 che la Regione Emilia-Romagna emana con l’obiettivo di incrementare l’offerta di alloggi sociali per locazione permanente e a canoni accessibili. L’intervento finanziato dalla Regione a Comacchio rientra nel “PRU Raibosola”, dove all’edificazione di “Social Housing” (Del Brocco, 2012) all’interno di lotti in edificati del periferico quartiere PEEP Raibosola si affiancano interventi di riqualificazione degli spazi pubblici esistenti. Il PRU prevedeva l’ausilio della progettazione 1

Sedi coinvolte: Università IUAV di Venezia, Dipartimento Culture del Progetto, M. De Matteis(coordinatrice); Università degli Studi Roma Tre, Dipartimento di Architettura, M.L. Olivetti; Università degli Studi di Trieste, Dipartimento di Ingegneria e Architettura, A. Marin.

Alessandra Marin, Milena De Matteis

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partecipata per la definizione degli specifici interventi di riqualificazione, ed è qui che si è proposta e sviluppata la sinergia col gruppo di ricerca LUS. Il quartiere Raibosola è particolarmente ricco (di problematiche) sia dal punto di vista fisico che sociale. Si tratta di un’area residenziale risalente agli anni ’80, esito di un progetto di espansione della città verso il mare proposto dal PRG del 1974 attraverso una grande area Peep. Una risposta a un’emergenza abitativa allora pressante, che è stata però realizzata per frammenti e ripetute varianti, da promotori pubblici, in cooperativa e privati. L’area, collocata ai margini orientali del tessuto urbano, in direzione della costa, risulta completamente avulsa dal centro di Comacchio, ed è in parte caratterizzata da forte degrado sociale, edilizio ed urbano. Dal punto di vista del contesto sociale, Raibosola – come buona parte di Comacchio – vive una forte “povertà simbolica”, non riconducibile solamente alla condizione economica degli abitanti, ma trasversale alla percezione del vivere quotidiano secondo diversi elementi. Tra questi l'occupazione, la salute, la casa, il tempo libero, le relazioni sociali, l’ambiente urbano. Le vicende storiche delle valli, continuamente preda di conquistatori, hanno determinato nella popolazione un senso di ostilità e diffidenza nei confronti delle autorità (Cernuschi Salkoff, 1981), carattere ancora presente (visibilmente riconoscibile nell’esperienza condotta) e che sfocia in atteggiamenti negativi degli abitanti: indolenza, apatia, aggressività, individualismo, scarsa propensione all’imprenditorialità, ricorso all’assistenzialismo.

Figura 1. Il quartiere Raibosola in relazione a Comacchio.

Il percorso partecipato Sulla base delle opportunità createsi e di un primo approccio conoscitivo al quartiere, la strategia di lavoro proposta da LUS2 per il caso studio ha ipotizzato la costruzione di un percorso partecipato creativo e sperimentale, aperto agli abitanti di Raibosola e di tutta Comacchio, nonché dei soggetti locali, politici, sociali ed economici. Si è lavorato quindi dal duplice punto di vista del progetto e del processo. Il percorso ideato, e tuttora in corso di realizzazione, è basato su 3 fasi principali: - una fase di ascolto, composta da interviste, organizzazione di eventi come la camminata di quartiere “4 passi insieme” e la redazione di un’analisi SWOT (aprile - giugno 2012); - un workshop progettuale partecipato, che ha coinvolto gli studenti delle università partecipanti a LUS, “Idee per un quartiere che cresce”, finalizzato alla redazione delle linee guida per la riqualificazione degli spazi aperti del quartiere e la sua riconnessione al centro (settembre 2012);

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Gruppo docente interdisciplinare e tutor: Milena De Matteis, Alessandra Marin, Stefano Munarin; Daniele Carfagna, Igor Ciuffarin, Barbara Del Brocco, Claudia Faraone, Valeria Leoni, Marianna Mazzetta, Andrea Sardena, Ianira Vassallo; Sociologhe: Elisa Polo, Miriam Verzola; Fotografo: Andrea Sarti.

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un concorso di idee, “Raibosola contest” per studenti e professionisti, dedicato a dare forma al progetto degli spazi pubblici e alla definizione di idee per l’accompagnamento del cantiere e per il coinvolgimento della popolazione nella gestione degli spazi collettivi (aprile - giugno 2013).

L’ascolto attivo

Tra aprile e giugno 2012 si è svolta una prima fase di indagine e ascolto della popolazione, attraverso, tra l’altro, l’organizzazione della camminata di quartiere “4 passi insieme” (tenutasi l’8 giugno 2012 in occasione della Festa dei Vicini promossa da Comune e Acer Ferrara), in cui sono emersi numerosi temi chiave e desiderata locali. Tra i dati rilevati dalla fase di ascolto si sottolinea: la presenza di “simboli” del degrado e del disinteresse istituzionale (l’edificio Acer detto il “bronx”, fulcro di negatività, problematiche sociali e stigma; l’unico bar presente, sede di attività illecite; lo “scheletro”, gabbia strutturale di un edificio anni ’80 mai terminato, simbolo dell’abbandono); la totale mancanza di servizi essenziali, individuati maggiormente in una farmacia, un asilo, una sala polivalente, un mercato e degli spazi per l’aggregazione sociale; la volontà di valorizzare e completare l’area intorno allo stadio, oggi desertica, con altre attrezzature sportive come una piscina; una viabilità interna poco chiara e un asse stradale centrale pericoloso e non strutturato; la presenza di una vasta area insalubre e pericolosa, un “residuo vallivo” tra il quartiere e il centro città, come elemento emergente da migliorare; presenza di problemi sociali soprattutto nella fascia giovane della popolazione, legati in primis a tossicodipendenza e disoccupazione. Tabella I. Analisi SWOT per il quartiere Raibosola Punti di forza

Punti di debolezza

Fisici Fisici - Area di valore paesaggistico e ambientale - Mancanza di una riconosciuta forma urbana e di un vero - Presenza di aree vuote trasformabili “centro” del quartiere, di luoghi d’aggregazione - Presenza di spazi costruiti inutilizzati e potenzialmente - Incompiutezza del progetto urbano originario recuperabili - Degrado ed incuria diffusa degli spazi aperti, associati ad - Piccolo parco giochi riqualificato atti di vandalismo da parte di alcuni gruppi di giovani - Varietà nel tessuto edilizio - Mancanza totale di servizi pubblici - Asse viario centrale pericoloso e senza marciapiedi Sociali - Mancanza di collegamenti ciclabili sicuri con la città - Presenza di molte famiglie giovani, bambini e ragazzi - Presenza di “simboli” del degrado, problematicità - Disponibilità da parte di alcuni gruppi di abitanti di essere (edificio “Bronx”, scheletro) coinvolti nella cura degli spazi comuni del quartiere Sociali -Varietà nelle componenti sociali del quartiere e delle zone più -Depressione socioeconomica generalizzata vicine -Disoccupazione, radicata cultura dell'assistenzialismo - Centro parrocchiale attivo -Deboli legami sociali, assenza di senso di comunità -Fenomeni di tossicodipendenza - Difficoltà coinvolgimento abitanti, sfiducia nelle istituzioni Opportunità

Minacce

- Interesse trasversale di enti e istituzioni, organizzazioni locali per la riqualificazione (da cui il processo di partecipazione LUS) - Interesse dell'Ente Parco per il residuo vallivo - Prossima realizzazione intervento per Social Housing e riqualificazione spazi pubblici - Prossima definizione di proposte funzionali all’integrazione del quartiere nel nuovo PSC - Leggi e finanziamenti regionali: politiche giovanili, arte urbana - Finanziamenti europei per tutela e valorizzazione dei parchi. - Vicinanza a stadio e localizzazione in sua prossimità di un’area dedicata a varie attrezzature sportive

- Continuo abbandono del quartiere da parte della componente giovanile - Possibile costruzione di una centrale di biogas a poca distanza - Possibile mancata realizzazione e condivisione delle scelte relative agli interventi di riqualificazione annunciati e in itinere - Proposte di pianificazione strutturale che non favoriscano l’integrazione del quartiere

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Figura 2. Problematicità ed elementi positivi del quartiere emersi dalla fase di ascolto

Il Workshop

Un secondo momento intensivo di lavoro, il Workshop di Progettazione Urbanistica Partecipata “Idee per un quartiere che cresce. Un progetto partecipato per Comacchio”, svoltosi a fine settembre 2012, ha visto per un’intera settimana docenti, ricercatori e studenti senior di 4 università italiane (Venezia, Roma Tre, Trieste e Ferrara) confrontarsi in loco con la popolazione locale e gli attori chiave. Le tecniche di partecipazione utilizzate in questa fase sono state due, il Visioning (AMES, 1993), per la creazione di uno scenario positivo sotto la forma di un racconto condiviso dal futuro, ed il Planning for Real (Neighborhood Initiatives Foundation, 1995), dove gli abitanti attraverso un grande plastico dell’area hanno potuto indicare interventi e proposte ritenuti necessari per il quartiere e la città, scegliendo delle “carte opzione” formulate sulla base della precedente consultazione (o creandone ex novo) e posizionandole quindi nel plastico. Il gruppo di partecipanti al workshop ha potuto quindi elaborare i dati emersi dal processo partecipato e individuato le linee guida generali per un nuovo assetto urbano in grado di accogliere e contenere gli orientamenti riscontrati, formalizzato in un masterplan e alcune proposte progettuali per la riqualificazione degli spazi del quartiere, in linea con le idee e i desideri emersi. Le indicazioni recepite e trasformate in prime ipotesi di progetto sono: prestare attenzione al paesaggio urbano e naturale, valorizzando i caratteri specifici che possono attribuire un’identità al quartiere (assecondare la vocazione sportiva dell’area a nord del quartiere; esaltare la vocazione naturalistica per l’area insalubre del residuo vallivo, anche in termini turistici; potenziare il rapporto con il canale sopraelevato a sud, oggi impercettibile; valorizzare le aree interne verdi come giardini pubblici per tutta Comacchio, carente di tali dotazioni); ripensare le connessioni esterne verso Comacchio, in particolare caratterizzando diversamente le due attuali strade di collegamento (via Marina, come strada panoramica a scorrimento medio; l’interna via Ghirardelli, ridimensionata e ripensata come strada residenziale e asse di riferimento per i servizi locali) e realizzandone una nuova al margine nord del quartiere. Riorganizzare le connessioni interne al quartiere, oggi disarticolate, sia carrabili che ciclopedonali; realizzare nuove ed opportune dotazioni funzionali, partendo da due “aree chiave”: la chiesa, attuale centro più dinamico per la vita sociale, e lo “scheletro” attuale simbolo di degrado da trasformare in centralità, per impostare delle dinamiche virtuose di riqualificazione spaziale e sociale. Cogliere l’occasione data dalle imminenti edificazioni del Social Housing e puntare alla riqualificazione delle aree aperte che li connettono;

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sviluppare dinamiche d’uso virtuose, puntando su sviluppo e coesione della comunità locale, a partire dagli spazi pubblici a disposizione e dalle opportunità di creare microeconomie locali condivise, modificando con opportunità di auto-gestione ed auto-produzione gli atteggiamenti sociali di chiusura, valorizzando alcuni fenomeni già presenti (orti urbani, aree barbecue, altari votivi, sport informali…).

Figura 3. La sessione di Planning for Real del 26/09/2012 presso la Loggia del Grano, nel centro storico di Comacchio. La scelta della postazione, piuttosto che il quartiere stesso, sottolineava l’esigenza di connessione Raibosola-Comacchio e come il quartiere sia una potenziale risorsa per l’intera città. Alla sessione, hanno partecipato più di 70 abitanti.

Figura 4. Alcuni esiti meta-progettuali della fase del workshop partecipato, settembre 2012.

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Il concorso di idee

La scelta del concorso di idee come strumento per elaborare concrete proposte di trasformazione di alcuni spazi aperti del quartiere è basata sulla convinzione che l’efficacia del percorso partecipativo non possa essere piena nel momento in cui gli abitanti vengono coinvolti solo nella definizione del quadro dei bisogni e nella costruzione di uno scenario di larga massima. Ma che esista invece la necessità di costruire con i cittadini un quadro di coerenze più ampio, che comprende la possibilità di giudicare e dare ulteriori input anche a ipotesi progettuali, evitando quello scollamento tra fase dell’ascolto e fase decisionale che rende scarsamente efficaci molte esperienze partecipative, anche di recente sviluppate. La formula del concorso a procedura aperta e in forma anonima aumenta inoltre la trasparenza e la possibilità di attrarre soluzioni di progetto che rispondano in modo “inaspettato” (ma forse più efficace) ai quesiti posti dal bando, che dev’essere percontro impostato in modo che i progetti si impegnino concretamente a dare risposta alle esigenze emerse e alle istanze raccolte. Uno strumento, quello del concorso, che si ritiene utile a proseguire l’approccio di “confronto creativo” (Sclavi, Susskind, 2001) prescelto dalla ricerca, poiché in grado di moltiplicare le scelte e favorire nuove possibilità, anziché fossilizzare il confronto tra cittadini e amministrazione su due diverse posizioni, ugualmente “partigiane” e di difficile mediazione, come spesso accade. Il contributo dei ricercatori LUS in questo contesto è innovativo in quanto ha permesso di anteporre le fasi di confronto con i luoghi e i cittadini a quella del bando, bypassando alcune problematiche evidenziate da precedenti esperienze, come quelle emerse nel primo Concorso nazionale di progettazione partecipata e comunicativa INU-WWF (1996-1998) o in alcuni concorsi promossi da varie amministrazioni comunali nel corso dell’ultimo decennio (Casu et al., 2007), come la difficoltà dei progettisti a confrontarsi in tempi ristretti e in forma anonima con gli abitanti. Ma, per la fase ancora in via di realizzazione, l’innovazione consiste anche nella possibilità data agli abitanti, nel corso di due “open days” organizzati in città, di vedere e comprendere, con l’accompagnamento dei ricercatori LUS, le proposte avanzate da tutti i progettisti. Formulando infine, se lo desiderano, un giudizio (basato sulla risposta ad un questionario approntato dai responsabili della ricerca) che sarà tenuto in considerazione dalla giuria tecnica chiamata infine a valutare i lavori. Infine, un ulteriore elemento positivo è dato dalla capacità di produrre proposte di rilievo dimostrata da molte procedure concorsuali nel nostro paese a partire dalla metà degli anni ’90 (Marin, de Eccher, a cura di, 2003), che può consentire a piccole amministrazioni e in presenza di risorse assai scarse (o che dovrebbero essere stornate dalla realizzazione delle opere) una maggiore qualità e varietà delle ipotesi di progetto cui attingere.

In corso d’opera Trarre delle conclusioni in merito a un lavoro di ricerca in corso non sembra appropriato. Ma trattandosi di una sperimentazione sul campo di concetti in parte già focalizzati dalle ricerche svolte negli ultimi anni sulla “città pubblica”, sembra adeguato qui proporre una prima lettura dell’efficacia del dettato di alcuni assunti di ricerca che si sono voluti adottare e proporre alla verifica dell’azione. Il confronto del lavoro svolto, ad esempio, con le Linee guida esito della ricerca PRIN La "città pubblica" come laboratorio di progettualità. La produzione di Linee guida per la riqualificazione sostenibile delle periferie urbane3 (Laboratoriocittàpubblica, 2009) ci permette di confermare la correttezza delle strategie ivi individuate per orientare la progettazione – dalla necessità di puntare sulle centralità dei e nei quartieri, a quella di investire sulla creatività, alla possibilità di investire sui sistemi ambientali e del paesaggio per dare nuova qualità allo spazio di vita – e mette in luce al contempo alcuni aspetti peculiari e originali, ma nel complesso forse generalizzabili ai contesti di città pubblica quanto meno dei piccoli e medi centri urbani: la necessità di attivare percorsi di riconoscimento e appropriazione degli spazi del quartiere anche da parte degli abitanti della città che non vi risiedono; l’importanza della riconnessione a livello urbano e territoriale (non solo Comacchio, ma anche la costa) del sistema infrastrutturale, delle acque e della mobilità dolce, specialmente quando si è alla presenza di conflitti tra “utenti deboli” e “forti” della strada; la necessità che la rigenerazione si concentri non solo sul quartiere pubblico (dal quale difficilmente avrebbe la forza di far “uscire” spontaneamente esiti positivi), ma preveda concomitanti interventi in aree limitrofe e connesse, immaginati come sistema strutturante di una nuova idea di città. L’accento posto infine dalla ricerca LUS sulla partecipazione e il coinvolgimento degli attori locali, nell’ottica dello sviluppo di un effettivo passaggio dalla riqualificazione alla rigenerazione urbana, ci ha consentito di identificare con assoluta rilevanza l’importanza del coinvolgimento degli attori economici locali (come la cooperativa Borgo Punta, soggetto che realizzerà gli interventi di social housing a Raibosola, che ha appoggiato con convinzione il lavoro del gruppo LUS) nei percorsi di rigenerazione. Alle diverse scale, l’esperienza insegna 3

Ricerca (2006-2008) coordinata dall’Università degli Studi di Trieste; altre sedi coinvolte: Politecnico di Milano, Università di Roma “La Sapienza”, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Politecnico di Bari, Università degli Studi di Palermo.

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che abitanti e soggetti imprenditoriali sono disposti a “mettere del proprio” in un percorso ben coordinato, quando i ruoli che si possono ricoprire sono chiari, così come i compiti e le responsabilità di ognuno. Il percorso che resta da fare – minato oggi più da incertezze di tipo politico che da reali difficoltà operative – dovrebbe, nelle intenzioni del gruppo di lavoro, verificare la possibilità di conferire una buona qualità e una rilevante adesione della popolazione agli esiti finali del progetto, iniziando a smantellare la stigma del quartiere da un lato e la scarsa fiducia nella possibilità di cambiamento di alcuni gruppi di residenti dall’altro.

Bibliografia

Ames S. (1993), A guide to community visioning: hands-on-information for local communities, Portland, Oregon vision projects. Aprile M. (2010), Comunità/Quartiere – La trasposizione dell’idea comunitaria nel progetto dell’abitare, Franco Angeli, Milano. Càceres E. et al. (2003), Servizi pubblici e città. Gli standard urbanistici nelle legislazioni regionali e nella pianificaizone locale, Officina Edizioni, Roma. Casu A. et al. (2007), “Dialoghi intorno a Chiesanuova”, in D. Risaliti (a cura di), Pratiche e strategie per la città, Alinea, Firenze, pp. 67 - 85. Cernuschi Salkoff S. (1981), La città senza tempo. Studio socio-antropologico di Comacchio e le sue Valli, Il Mulino, Bologna. De Matteis M. (2012), Quartieri sulla strada (della rigenerazione), in CLEAN (ed.) Abitare il nuovo/abitare di nuovo ai tempi della crisi. Napoli: Bellomo M. et al. Del Brocco B. (2012), Housing sociale: nuove strategie per l’abitare. In: De Matteis, M. Rigenerazione Urbana e Housing Sociale - Un confronto tra Venezia e Seoul in un’esperienza formativa. Università IUAV di Venezia. Di Biagi P. (1986), “La costruzione della città pubblica”, in Urbanistica, n. 85, pp. 8 - 25. Forester J. (1989), “L’urbanistica di fronte al conflitto: strategie di negoziazione e mediazione nella regolazione sull’uso dei suoli”, in De Cugis A. (a cura di), Politica - politiche territoriali, Franco Angeli, Milano, pp. 123 150 German Eu Council Presidency (2007), Leipzig Charter on Sustainable European Cities. Laboratoriocittàpubblica (2009), Città pubbliche: linee guida per la riqualificazione urbana, B. Mondadori, Milano. Marin A., de Eccher A. (a cura di), (2003), “Concorsi e trasformazioni urbane”, in Urbanistica informazioni, n. 192, pp. 35 - 59. Sclavi M., Susskind L.E. (2011), Confronto creativo. Dal diritto di parola al diritto di essere ascoltati, et.al./edizioni, Milano. Zanfi, C. (a cura di) (2008), Green Island - Piazze, isole e verde urbano, Grafiche Damiani, Bologna.

Sitografia

Sito della ricerca Firb “Living Urban Scape”: www.livingurbanscape.org

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Gli spazi pubblici nel progetto di territorio

Gli spazi pubblici costieri nel progetto di territorio Giuseppe Abbate Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Architettura Email: giuseppe.abbate@unipa.it

Abstract Il territorio costiero della Sicilia si presenta come un ambito complesso che richiederebbe una forte capacità di governo unitario dei processi che interessano la fascia costiera. Secondo l’attuale sistema normativo permane invece un problema di sovrapposizione di competenze che risultano frammentate tra diversi livelli di governo e tra autorità di settori diversi. Attraverso l’esplorazione delle trasformazioni che dal secondo dopoguerra hanno interessato il tratto di costa della Sicilia compreso tra la “Scala dei Turchi” e “Punta Bianca”, scelto come caso di studio, ci si sofferma sul ruolo strategico che possono svolgere gli spazi pubblici costieri nella costruzione di un corretto e positivo progetto di territorio in una prospettiva che vede il territorio come bene comune nella sua identità storica, culturale, sociale, ambientale e produttiva. L’identificazione delle permanenze e delle variazioni relative agli spazi pubblici di tale tratto di costa, ha permesso di mettere in luce criticità e conflitti (d’uso, di visione, di accessibilità) nonché valori, potenzialità e opportunità. Parole chiave Spazi pubblici, ambiti costieri, progetto di territorio.

Introduzione L’estesa fascia costiera della Sicilia, circa 1500 chilometri lungo cui si alternano tratti di litorale ancora naturale e altri ormai interessati da livelli differenti di antropizzazione, comprende una quota sicuramente rilevante delle aree pubbliche dell’intera isola. La libera fruizione della costa, in quanto bene pubblico, non è però sempre garantita perché spesso è impedita da barriere sia localizzate che diffuse, costituite principalmente dal susseguirsi di edilizia residenziale a bassa densità, da residences e alberghi, da lidi attrezzati stagionali e da altre svariate forme di privatizzazione degli arenili. Sottraggono interi tratti di costa alla fruizione pubblica anche le grandi aree produttive, di cui poche ancora attive (come i poli petrolchimici di Milazzo, Priolo-Augusta e Gela), molte in via di dismissione o ormai dismesse, che si configurano come luoghi fortemente degradati, spesso in prossimità di aree protette, Sic e Zps1. Una cesura ininterrotta alla continuità paesaggistica e ambientale tra interno e costa è inoltre costituita dall’insieme delle infrastrutture di trasporto lineare (autostrade, strade e ferrovie) i cui tracciati a volte arrivano a lambire la battigia. Alla crescente pressione insediativa e demografica, considerando che nei territori costieri risiede circa 80% della popolazione dell’isola, e tale percentuale sembra destinata ad aumentare, visto l’inesorabile spopolamento delle aree interne, fa da contraltare la straordinaria presenza di risorse naturalistico-ambientali e storico-culturali che rendono la fascia costiera un luogo particolarmente attrattivo per un vasto numero di potenziali fruitori che iniziano a percepire il valore di questo contesto che può soddisfare un sempre crescente desiderio di naturalità a diretto contatto col mare. Il territorio costiero della Sicilia si presenta quindi come un ambito complesso, sul quale solitamente convergono forti interessi privati che tendono a travalicare l’interesse collettivo. A partire dal secondo dopoguerra infatti il modello di utilizzazione della costa è passato da una visione statica, ad una visione dinamica dove il demanio marittimo ha assunto il ruolo di risorsa per lo sviluppo economico del territorio. 1

Cfr. Regione Siciliana (2005), Relazione sullo stato dell’ambiente in Sicilia, Palermo.

Giuseppe Abbate

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Gli spazi pubblici nel progetto di territorio Il quadro normativo di riferimento Diversamente dalle altre regioni italiane, la Regione Siciliana, ai sensi del proprio Statuto, è proprietaria del demanio marittimo e di tutti i beni demaniali in genere “eccetto quelli che interessano la difesa dello Stato o servizi di carattere nazionale”2; in sostanza non c'è separazione tra le funzioni relative alla proprietà, che nelle altre regioni vengono invece svolte dallo Stato 3, e quelle relative alla gestione che, come avviene anche nelle altre regioni, sono affidate agli enti più a diretto contatto con l’amministrazione del territorio e cioè le regioni stesse, i comuni e le autorità portuali4. Tuttavia tali disposizioni sono riuscite solo in parte a evitare sovrapposizioni di competenze tra Stato e Regione. Secondo l’attuale sistema ordinamentale permane un coacervo di competenze giuridico-amministrative distribuite tra diversi livelli di governo e tra autorità di settori diversi, al di fuori di qualsivoglia strumento di coordinamento. Ad introdurre, a livello normativo, i primi procedimenti autorizzativi rispetto ai quali risultano subordinate le trasformazioni della fascia costiera è la legge 1497 del 1939 (oggi abrogata e sostituita dal Codice dei Beni culturali e del paesaggio). Segue il Codice della navigazione del 1942 che, oltre a fare una classificazione dei beni facenti parte del demanio marittimo 5, subordina qualsiasi attività edilizia, entro una zona di trenta metri dal demanio o dal ciglio dei terreni elevati sul mare, al rilascio di una specifica autorizzazione da parte dell’Autorità marittima6. La legge urbanistica n. 1150 del 1942, entrata in vigore lo stesso anno in cui veniva emanato il Codice della navigazione, non chiarisce però se anche i beni demaniali fossero da assoggettare ai poteri pianificatori dei comuni e delle regioni, tant’è vero che una parte della dottrina e della giurisprudenza riteneva che le uniche autorità abilitate a regolamentare gli interventi edilizi sulle aree demaniali fossero soltanto gli enti specificatamente preposti alla loro cura e in effetti l’utilizzazione e l’occupazione delle aree demaniali marittime ancora in quegli anni rivestiva un carattere di eccezionalità che lo Stato demandava al corpo militare delle Capitanerie di porto. Successivamente interverrà la legge n. 765 del 1967, la cosiddetta legge “ponte” che, nel riscrivere l’art. 31 della legge urbanistica fondamentale, chiarirà che la realizzazione di nuove costruzioni da parte dei privati su aree del demanio marittimo è sempre subordinata al rilascio della licenza edilizia da parte del comune, ovvero che, per quanto concerne la pianificazione dell’uso del suolo nelle fasce costiere i poteri sono in primo luogo in mano ai comuni. Tali poteri devono essere esercitati però nel rispetto della pianificazione sovraordinata. Essendo i beni del demanio marittimo parte dei beni paesaggistici vincolati ex lege 7, sono anzitutto assoggettati al Piano Paesaggistico che, oltre a fornire criteri generali di intervento, deve riguardare specificatamente una fascia di 300 metri dalla battigia, oltre che le altre eventuali aree assoggettate o da assoggettare a tutela paesaggistica. In Sicilia l’attività di pianificazione paesaggistica, svolta dalle diverse Soprintendenze ai Beni culturali, trova un quadro di riferimento normativo nelle Linee guida del Piano Territoriale Paesistico Regionale predisposte nel 1999 dall’Assessorato ai Beni culturali. Un altro importante strumento, per le ricadute che esso ha sulla tutela dell’ambiente costiero, è il Piano regionale per l’Assetto Idrogeologico (PAI) redatto a cura dell’Assessorato territorio e ambiente, che costituisce il primo stralcio della pianificazione di bacino8. Il PAI ha valore di Piano Territoriale di Settore ed è lo strumento conoscitivo, normativo e tecnico-operativo mediante il quale sono pianificate e programmate le azioni, gli interventi e le norme d’uso riguardanti la difesa dal rischio idrogeologico del territorio siciliano. Tale strumento, oltre a definire le aree a differente livello di rischio, individua gli interventi volti alla messa in sicurezza dei centri urbani, delle grandi infrastrutture, degli edifici strategici, nonché delle aree di rilevante valore archeologico, storico-artistico e ambientale, tra cui rientrano anche le coste. Nel 2004, venute meno le competenze delle Autorità marittime a fianco della Regione 9, si è avviato un processo volto alla semplificazione procedurale e al riordino normativo per quanto concerne la gestione e utilizzazione 2

Cfr. artt. 32 e 34 dello Statuto speciale della Regione Siciliana, approvato con regio decreto legislativo in data 15 maggio 1946, n. 455, convertito in legge costituzionale il 26 febbraio 1948, n. 2. 3 Tra cui la delimitazione del confine demaniale, la sdemanializzazione, la determinazione e l’introito dei canoni, etc. 4 Secondo il disposto del d.p.r. n. 684 del 1977 che ha realizzato l’effettivo trasferimento del demanio alla Regione. 5 Una prima classificazione nazionale (poiché i vari stati pre-unitari avevano diverse legislazioni in materia) dei beni facenti parte del demanio marittimo si rinveniva già nel Codice della Marina Mercantile del 1865, che all’art. 157 elencava fra i beni del pubblico demanio il lido del mare, i porti, i seni e le spiagge. La principale differenza tra il vecchio e il nuovo Codice della navigazione sta nella scomparsa della categoria dei seni e nell’introduzione di quella delle rade. In particolare, l’art. 28 del Codice della navigazione cita testualmente: “Fanno parte del demanio marittimo: a) il lido, la spiaggia, i porti, le rade; b) le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare, i bacini di acqua salsa o salmastra che almeno una parte dell’anno comunicano col mare; c) i canali utilizzabili ad uso pubblico marittimo”. 6 Si veda l’art. 55 del Codice della Navigazione. 7 Cfr. art. 142 del Codice dei Beni culturali e del paesaggio approvato con D.lg. n. 42 del 2004. 8 Il PAI, è stato redatto ai sensi dell’art. 17, comma 6 ter, della L. n. 183/1989, e specificatamente normato dall’art. 1, comma 1, del D.l. 180/1998, convertito con modificazioni dalla L. n. 267/1998, e dall’art. 1 bis del D.l. 279/2000, convertito con modificazioni dalla L. n. 365/2000. 9 Cfr. art. 6, co. 7, della L. n.172 /2003, norma attuativa dell’art. 4 del D.P.R. n. 684/1977, che ha apportato una radicale modifica sul piano giuridico finalizzata al completo trasferimento alla Regione Sicilia dei poteri di gestione ed utilizzazione dei beni appartenenti al demanio marittimo.

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Gli spazi pubblici nel progetto di territorio delle aree demaniali marittime che ha portato all’emanazione della L r.15/2005. Tale legge, all’art. 4, prevede che le attività di utilizzo del demanio marittimo possono essere esercitate e autorizzate solo in conformità alle previsioni di “Piani di utilizzo delle aree demaniali marittime” (PUDM), approvati dall’Assessorato regionale Territorio e Ambiente su proposta dei comuni costieri. Il PUDM individua le modalità di utilizzo del litorale marino e ne disciplina gli usi sia per finalità pubbliche, sia per l’esercizio di attività rimesse alla libera iniziativa e regolamentate mediante rilascio di concessioni demaniali marittime. Al fine di fornire alle amministrazioni comunali interessate tutte le indicazioni necessarie per la redazione dei piani di utilizzo delle aree demaniali marittime, la Regione Siciliana ha adottato apposite Linee guida per la redazione dei PUDM con D.A. 25 maggio 200610. I PUDM vengono presentati dai comuni al Dipartimento regionale dell’Ambiente, il quale, dopo una preliminare valutazione, individua gli enti da interessare ai fini dell’approvazione ed acquisisce i necessari pareri (Capitaneria di porto territorialmente competente, Soprintendenza ai Beni culturali, Agenzia delle dogane, Genio civile regionale, Dipartimento regionale urbanistica, Dipartimento regionale del turismo, Soprintendenza del mare, nonché eventualmente, Dipartimento dell’ambiente – Servizio 1 V.A.S./V.I.A. e Servizio 3 Difesa del suolo, Enti gestori aree marine protette, Enti parco, Enti gestori riserve naturali, altri enti territorialmente competenti che possano avere a vario titolo competenza nell’espressione di pareri, autorizzazioni, etc.). L’Assessorato regionale Territorio e ambiente, provvede infine con proprio decreto assessoriale all’approvazione del piano, ovvero, alla restituzione al comune, con le relative osservazioni, per la sua rielaborazione11.

Uno sguardo al territorio costiero di Agrigento La storia urbanistica del territorio agrigentino ci ha trasmesso un paesaggio che sicuramente non è più quello lungamente celebrato nel cospicuo corpus di descrizioni letterarie e figurative dei viaggiatori del passato a causa delle trasformazioni che lo hanno interessato a partire dal secondo dopoguerra. Le trasformazioni legate al consumo di suolo agricolo e naturale, nel caso del territorio di Agrigento, possono essere declinate attraverso la lettura di un altro fenomeno con cui in parte coincidono e si intrecciano, quello dell’abusivismo edilizio, le cui pesanti ricadute sulla qualità del paesaggio, sul corretto sviluppo urbanistico, sull’economia e sulla sicurezza del territorio hanno ormai compromesso l’immagine della città di Agrigento e dei centri minori del suo hinterland, della Valle dei Templi e di interi tratti di costa. Da questo punto di vista il territorio di Agrigento costituisce un esempio emblematico che mostra la mancanza di una cultura del suolo come bene comune, del senso di appartenenza ai luoghi e di responsabilità civile, fattori che hanno certamente contribuito a far dilagare il fenomeno dell'abusivismo edilizio, espressione di un malcostume diffuso, rimasto per anni impunito e che ha visto coinvolti politici, amministratori e più in generale un’intera classe dirigente tollerante e compiacente.

Figura 1. La Scala dei Turchi.

Per altri versi il territorio agrigentino rispecchia la grave situazione riscontrabile in un numero sempre maggiore di contesti urbani di ogni latitudine dove la disordinata cementificazione dei suoli e la conseguente dispersione insediativa sta generando un modello di città che non punta sul recupero dell’esistente ma sull’urbanizzazione di nuove aree solitamente a bassa densità, quindi molto poco sostenibile dal punto di vista ambientale ed 10 11

Modificato e integrato dal D.A. 4 luglio 2011. Le citate Linee guida confermano che, ai sensi dell’art. 4 della L.R. 15/2005, nelle more dell’approvazione dei piani di utilizzo, nuove concessioni demaniali marittime potranno essere rilasciate previa sottoscrizione di apposita clausola, con la quale il concessionario si impegni ad adeguare la propria struttura alle previsioni del piano nei modi e nei termini in cui sarà approvato.

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Gli spazi pubblici nel progetto di territorio economico, oltre che per l'elevato e spesso ingiustificato consumo di suolo, anche per i nuovi squilibri che determina come l'aumento del traffico motorizzato individuale e l’assenza di spazi pubblici e di luoghi di aggregazione. Il territorio costiero di riferimento, a parte le porzioni estreme di straordinaria bellezza: Scala dei Turchi (Fig. 1) e Punta Bianca, costituite da due ambiti naturali pressoché incontaminati, ma soggetti a forti rischi e a pressioni insediative, si sviluppa per circa 20 Km, e presenta tre tipologie di ambiti ognuno con propri caratteri morfologici e livelli diversi di urbanizzazione: - gli ambiti ricadenti all’interno delle località denominate Maddalusa, Dune, Cannatello e Zingarello (Figg. 2, 3), in cui sono ancora leggibili le caratteristiche ambientali originali, come tratti del cordone dunale, anche se compromessi da episodi di abusivismo diffuso, perlopiù seconde case, e interessati da fenomeni di erosione delle spiagge; - l’ambito di S. Leone, borgata marinara a vocazione turistico-balneare, soggetta ad una forte stagionalità, interessata negli anni ‘60 e ’70 del secolo scorso da un massiccio e incontrollato sviluppo edilizio, nonché da dissennate opere di sistemazione del suo lungomare; - l’ambito di Porto Empedocle, in cui l’area interessata da impianti produttivi che si è sviluppata intorno al porto, oggi appare semi-abbandonata e profondamente degradata anche per la presenza di infrastrutture viarie invasive e mai ultimate (Fig. 4). Con riferimento alle infrastrutture portuali regionali, Porto Empedocle fa parte di un gruppo di strutture collocate in aree con domanda di trasporto nautico assai più debole di quella di altre aree forti della Sicilia. Nonostante tali limiti il ruolo dell’infrastruttura dovrebbe essere rivisto, anche per quanto riguarda le previsioni regionali. Ciò, in relazione a due precise funzioni di cui esiste una consistente domanda: l’incremento della funzione di approdo per natanti da diporto di media e piccola stazza (mercato nazionale in espansione); l’incremento della funzione di scalo per le navi da crociera (Fig. 5).

Figura 2. Abusivismo edilizio sul sistema delle dune.

Nonostante l’attuale Prg di Agrigento nonché i diversi programmi complessi inaugurati negli ultimi anni siano concordi nel promuovere uno sviluppo del territorio agrigentino basato essenzialmente sulla risorsa del turismo balneare/culturale, ipotizzando per Agrigento l’ambiziosa funzione di porta di ingresso alla regione dal Mediterraneo, di contro a livello di governo locale emerge l’assenza di politiche per la tutela e la valorizzazione degli spazi pubblici del sistema costiero, che di certo aiuterebbero a supportare una domanda turistica di tipo internazionale sempre più esigente, e la necessità di ri-pensare il loro ruolo e la loro gestione secondo un approccio integrato nell’ambito di un più ampio progetto di sviluppo locale.

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Gli spazi pubblici nel progetto di territorio

Figura 3. Abusivismo edilizio a Zingarello.

Figura 4. Porto Empedocle: l’area produttiva in parte dismessa.

Considerazioni conclusive Attraverso l’approfondimento del caso di studio proposto, l’obiettivo che ci si pone è quello di individuare indirizzi innovativi, per costruire un progetto di territorio centrato su una complessiva riconfigurazione e valorizzazione degli spazi aperti lungo la costa di Agrigento a partire da quelli degradati, incolti e abbandonati, da ripensare inseriti in un differente sistema di nuovi spazi aperti, attrattivi e multifunzionali, destinati alla fruizione sociale. Un obiettivo che può raggiungersi però solo attraverso una forte attività di programmazione che garantisca il coordinamento delle iniziative di tutti i soggetti che hanno responsabilità di gestione ai diversi livelli, in cui gioca un ruolo chiave la qualità del capitale culturale e sociale e la capacità delle comunità locali di

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Gli spazi pubblici nel progetto di territorio non perdere di vista le molteplici risorse territoriali, facendo in modo che esse costituiscano un unico sistema fatto di connessioni fisiche, funzionali, culturali e sociali. Nella prospettiva di considerare l’intera porzione di territorio costiero oggetto di indagine come un grande parco pubblico lineare, appaiono come scelte prioritarie: la salvaguardia e la valorizzazione degli ambienti naturali (come gli scenografici contesti di Scala dei Turchi e Punta Bianca, le spiagge strette limitate da scarpate di terrazzi, i tratti residuali del cordone dunale), attraverso una valida politica in grado di contrastare la tendenza all’appropriazione privatistica e alla trasformazione distruttiva delle risorse e di stimolare invece la crescita della coscienza ambientale e consentire allo stesso tempo un miglioramento della qualità della vita; la riqualificazione delle “periferie” balneari di recente edificazione e di scarsa qualità edilizia anche attraverso interventi mirati di demolizione dell’edilizia abusiva e la dotazione di servizi e spazi pubblici, nonché di sistemi depurativi; la riqualificazione del fronte a mare di S. Leone, restituendone l’uso pubblico come bene comune in continuità con gli altri spazi pubblici urbani; la bonifica e/o delocalizzazione dell’area produttiva adiacente al porto di Porto Empedocle nell’ipotesi di consolidare il ruolo turistico del porto come “porta marina” di accesso alla Valle dei Templi e alla città di Agrigento, per navi da crociera. Nell’ottica di bilanciare la forte pressione antropica del territorio costiero di Agrigento, con la tendenza allo spopolamento delle aree interne, si potrebbe infine fare dialogare l’area costiera con i centri di prossimità alla costa e i centri interni, indirizzando verso questi l’ospitalità turistica balneare, promuovendo altresì sinergie di sviluppo in entrambe le direzioni attraverso la costruzione di nuove filiere produttive connesse ad una attività turistica integrata (balneare, culturale, rurale, etc.). Contestualmente si potrebbe procedere con la riqualificazione paesaggistica delle strade di collegamento interno-costa e la salvaguardia attiva dei territori agricoli che queste attraversano (coltivati per lo più a vigneti, a mandorleti o frutteti), alla stregua di quelli che ricadono all’interno del Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi.

Figura 5. Un’immagine di Porto Empedocle dal mare: sulla sinistra la Torre di Carlo V.

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Rigenerazione delle città dal mare per una crescita sostenibile

Rigenerazione delle città dal mare per una crescita sostenibile Massimo Clemente* Consiglio Nazionale delle Ricerche IRAT - Istituto di Ricerche sulle Attività Terziarie Email: m.clemente@irat.cnr.it Tel: 081 2538852 Daniele Demarco * Consiglio Nazionale delle Ricerche IRAT - Istituto di Ricerche sulle Attività Terziarie Email: d.demarco@irat.cnr.it Tel: 081 2538852 Eleonora Giovene di Girasole * Consiglio Nazionale delle Ricerche IRAT - Istituto di Ricerche sulle Attività Terziarie Email: e.giovenedigirasole@irat.cnr.it Tel: 081 2538852

Abstract Lo scenario dell’attuale crisi economica ci pone di fronte all’interrogativo se accettare i limiti costituzionali del nostro sviluppo e assecondare la prospettiva della ‘decrescita’, procedere illimitatamente o individuare nuovi, e più adeguati, orizzonti di sviluppo. Attraverso un percorso d’indagine interdisciplinare, in cui confluiscono contributi urbanistici e filosofici, si vogliono approfondire quali siano stati e quali sono i concreti influssi del mare sulla vita e l’immaginario delle città costiere e analizzare alcune esperienze di trasformazione, in cui gli interventi di rigenerazione e sviluppo per la crescita della città sono stati impostati ripartendo dal mare. L’analisi delle trasformazioni urbane parte dal mare, per riprogettare la città e per tornare a guardare al mare come a un nuovo orizzonte di sviluppo e alle città che su di esso si ergono, come al possibile epicentro di un nuovo moto di rinnovamento. La città di mare – dal mare verso l’interno, passando per la linea di costa – diventa il luogo della sperimentazione di un nuovo modello di sviluppo urbano per una diversa crescita che non sia illimitata né involutiva. Parole chiave Crescita vs decrescita, rigenerazione urbana, città di mare.

1 | Città dal mare: identità e rigenerazione per lo sviluppo locale sostenibile La città è il luogo dove si manifestano tutte le contraddizioni dell’età contemporanea – sovraffollamento e spopolamento, congestione e dismissione, ricchezza e povertà, crisi e sviluppo, crescita e decrescita. In particolare, nelle città di mare, la linea di costa rappresenta una sorta di catalizzatore che rafforza i fenomeni rendendoli più visibili. Le aree urbane costiere sono un osservatorio privilegiato e guardare le città dal mare offre l’opportunità di capire meglio il passato, apre nuove prospettive di conoscenza e può migliorare il futuro delle nostre città.

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Pur essendo un contributo unitario gli autori hanno curato rispettivamente: Massimo Clemente il paragrafo 1, Daniele Demarco il paragrafo 2, Eleonora Giovene di Girasole il paragrafo 3. Le conclusioni sono condivise dagli autori.

Massimo Clemente, Daniele Demarco, Eleonora Giovene di Girasole

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Rigenerazione delle città dal mare per una crescita sostenibile

L’approccio marittimo consente di unire culture diverse e diversi percorsi conoscitivi, in particolare, filosofici e urbanistici. Il mare è un elemento ricorrente nel pensiero filosofico, da Platone ad Aristotele, da Hegel a Schmitt. Il mare è un elemento urbano primario nell’accezione di Aldo Rossi. Il mare è un’idea e un sogno. Il contributo proposto nasce nell’ambito delle attività del gruppo di ricerca urbanistica dell’IRAT CNR sul tema delle città di mare come luoghi storicamente multi-culturali e multi-connessi. Alla base della ricerca vi è l’osservazione della città di mare ‘dal’ mare, ovvero attraverso il filtro della cultura marittima. Il pensiero filosofico ha in vario modo colto il rapporto tra il mare, gli insediamenti urbani e lo sviluppo, dalle speculazioni prudenti di Platone che consigliava di edificare la città lontano dal mare, potenziale fonte di corruzione, fino all’interpretazione della modernità come età oceanica proposta dal filosofo tedesco Carl Schmitt. Nella storia, le rotte marittime hanno collegato le città portuali di tutto il mondo, favorendo il confronto-scontro tra popoli e culture diverse. Ciò ha reso le città di mare il luogo d’incontro di uomini, scenario di storie di vita e di popoli diversi, espresse e trasmesse nella matericità e nella spazialità di architetture e spazi urbani, nella ricchezza della multiculturalità che caratterizza le aree costiere. La città è una successione di eventi nello spazio e nel tempo ma, sul mare, accade qualcosa di straordinario: gli eventi assumono una caratterizzazione molto forte, legata all’identità marittima. Le città di mare hanno una forte identità che deriva dal rapporto storicizzato della comunità urbana con l’elemento acquatico. La memoria collettiva di tutte le città di mare tramanda storie di navi, marinai, navigazioni, attraverso rotte che uniscono porti e traffici marittimi, generando eccezionali contaminazioni culturali (Clemente, 2011). In questa ottica, le architetture e i luoghi urbani delle città costiere appaiono come espressione della memoria collettiva di un’unica grande comunità del mare e, allo stesso tempo, materializzazione delle specifiche identità locali e delle diverse culture urbane. La comune cultura marittima è, infatti, un patrimonio comune: il substrato storico, culturale, economico che unisce le comunità di mare e che si riflette nelle forme e nelle funzioni della città. La cultura marittima è un fattore unificante, nello spazio e nel tempo, delle diverse culture urbane e nelle diverse regioni del mondo che affacciano sul mare. Osservazioni e riflessioni, valide per le città d’acqua del passato, possono assumere una valenza propositiva se trasposte nelle contemporaneità, offrendo il background per realizzare architetture e luoghi urbani di grande qualità, ricercandone i caratteri identitari proprio nel rapporto con il mare. La riqualificazione dei waterfront è stata, nel corso degli ultimi anni, uno dei temi emergenti nelle politiche urbane delle città di mare che affrontano il tema della sua conversione o della riqualificazione riavvicinandosi al mare e alle aree subito retrostanti, che ritornano ad essere parte della città e della sua comunità. In questa congiuntura risultano interessanti gli interventi che non coinvolgono solo la linea di costa ma anche le aree di ‘cerniera’ con il resto della città. Ambiti, spesso barriere, aree dismesse, periferie, ecc. trascurati e che, invece, possono invece un ruolo determinante nelle strategie di riqualificazione sviluppo dell’intera città. Questo approccio trova un’interessante esempio nella città di New York che ha intrapreso un processo di recupero del suo storico rapporto con il mare. L’obiettivo è quello di realizzare, attraverso una attenta pianificazione, la trasformazione della città partendo dalla riqualificazione del waterfront per poi agire sulle aree cerniera. Nel panorama dell’attuale crisi economica, di identità e di valori, osservare nuovamente le città di mare ‘dal’ mare offre una preziosa opportunità: ripartire dalla cultura marittima per individuare nuove strategie per lo sviluppo locale sostenibile della intera città. L’identità urbana è fondamentale, infatti, nella costruzione di strategie che perseguano lo sviluppo sostenibile della città e, nelle città di mare, cultura marittima e cultura urbana si uniscono in una sintesi identitaria. Questa prospettiva, posta alla base della ricerca, costituisce un fertile campo di indagine per riflessioni ed approfondimenti delle città, delle architetture e dei luoghi urbani sul mare, aprendo opportunità di sviluppo sul piano della pianificazione urbanistica e della progettazione architettonica.

2 | Città e mare elementi del pensiero filosofico da Platone a Schmitt In un passo giustamente celebre delle ‘Leggi’, Platone si interroga a proposito di quella che dovrebbe essere l’ideale ubicazione di uno stato nascente. Dovrà esso sorgere «sul mare o all’interno, nel continente»? La città, argomenta il filosofo, sarà di certo una grande potenza navale, dotata di porti «il più possibile belli», ma, affinché non accolga dal mare «una varietà disordinata di costumi cattivi», sarà bene che essa sorga a non meno di ottanta stadi dalla costa (circa quindici chilometri). La prossimità del mare è, infatti, cosa assai «salata e amara», poiché riempie la città «di traffici e di piccoli affari commerciali» favorendo l’ascesa di «uomini non certo onorevoli» il cui costume di «incostanza nelle promesse e di falsità» nuocerebbe alla comunità intera (Leggi: 704-705). Mi è sembrato opportuno trarre spunto da questo passo poiché esso denuncia, a mio avviso, con esemplare chiarezza, un tradizionale sentimento della civiltà europea. Per lunghi secoli, il mare è stato, infatti, considerato limite estremo delle possibilità umane. Un limite a cui guardare con circospezione e diffidenza. Ancora nel XVIII secolo, Kant paragona, ad esempio, l’intelletto a Massimo Clemente, Daniele Demarco, Eleonora Giovene di Girasole

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Rigenerazione delle città dal mare per una crescita sostenibile

un’isola circondata da un vasto oceano tempestoso, impero proprio delle apparenze dove nebbie grosse e ghiacci prossimi a liquefarsi danno ad ogni istante l’illusione di nuove terre. «Prima di affidarci a questo mare per indagarlo in tutta la sua distesa – aggiunge – sarà utile che diamo ancora uno sguardo alla carta della regione, che vogliamo abbandonare, e chiederci anzi tutto se non potessimo in ogni caso star contenti a ciò che essa contiene» (trad. it. 2010: 311). Kant è, però, anche l’ultimo guardiano dei confini della terra, l’ultimo esponente di un atteggiamento tradizionalmente improntato alla prudenza. Dopo di lui, la civiltà europea avrebbe preso a osservare al mare con occhio diverso: più audace, più smaliziato. È in questa nuova fase che si colloca il paragrafo 247 dei ‘Lineamenti della filosofia del diritto’. Qui Hegel pronuncia una frase per noi davvero decisiva: «Come per il principio della vita familiare è condizione la terra, base e terreno stabile, così per l’industria l’elemento naturale che l’anima verso l’esterno è il mare» (trad. it. 2006). Le parole del filosofo tedesco ci suggeriscono una stretta relazione tra l’elemento mare e lo sviluppo delle civiltà. Sarebbe il mare, spiega Hegel, a convogliare le energie degli uomini verso la realizzazione dei desideri. Il mare a stimolarne coraggio, lo spirito d’impresa e d’avventura, la brama di preda e di ricchezza. Il mare a metterli in movimento, a spingerli oltre i limiti imposti dalla natura o dalle convenzioni, a stimolare scambi, commerci, relazioni (trad. it. 2010: 79). In un opera del 1942 intitolata appunto Terra e mare, il giurista tedesco Carl Schmitt, suggerisce di riflettere a fondo sul paragrafo 247 dei ‘Lineamenti della filosofia del diritto’. In quelle righe, scrive, vi sarebbe qualcosa di assai esplicativo sulla natura del nostro tempo. L’età contemporanea, l’età degli epocali mutamenti e dell’inarrestabile progresso sarebbe, infatti, a suo dire, anche un’età oceanica, un’era che ha smesso di rapportarsi al mare con la tipica modestia kantiana per spiegare le vele e prendere temerariamente il largo. In effetti, Schmitt volge l’attenzione alle grandi rivoluzioni della modernità: la rivoluzione copernicana, la rivoluzione tecnico-scientifica, la rivoluzioni politiche dell’89 e del ‘48. Ma dietro ognuno di questi singoli eventi non vede altro che l’epifenomeno di una rivoluzione più radicale, più complessa e più profonda: una ‘Raumrevolution’ (o rivoluzione spaziale). Con questo termine il giurista intende definire quell’epocale salto con cui, tra XV e XVI secolo, le grandi potenze europee avevano preso a proiettarsi attivamente sugli oceani in cerca di ricchezze sino ad allora solo favoleggiate. In conseguenza di quel salto, continua Schmitt, il mare, si sarebbe trasformato da limite che era, nell’immaginario collettivo, in nuova frontiera (trad. it. 2002: 57-59). Ma cosa era successo nel frattempo? Cosa aveva condotto gli Stati europei a trasgredire le antiche e consolidate convenzioni? Probabilmente, e questo dovrebbe essere, per noi, di lezione, una crisi economica, una crisi non dissimile da quella che viviamo noi oggi e guerre, insanabili guerre di religione che molti hanno paragonato all’odierno ‘scontro di civiltà’. Dinanzi a queste drammatiche catastrofi che sembrano preannunciare ai più l’avvento dell’Apocalisse biblica, i popoli europei si sarebbero volti al mare come all’estrema fonte di salvezza. E se la disperazione li aveva imbarcati, il coraggio e la determinazione dei primi esploratori avrebbe fatto il resto, svelando un mondo nuovo e gravido di opportunità. Era stata la Gran Bretagna, scrive il giurista, a trasferire per prima e con maggior determinazione tutti i suoi interessi sul vasto oceano. Da quel momento tutti i parametri e le proporzioni della vita inglese sarebbero diventati incomparabili con quelli di ogni altro Stato continentale. La vivacità dei commerci col nuovo mondo lungo le cosiddette rotte a lunga percorrenza avrebbe moltiplicato le opportunità di scambio. La necessità di guadagnare un surplus agricolo da destinare all’esportazione avrebbe attivato l’entroterra e le campagne. L’intera struttura della proprietà terriera sarebbe stata d’un sol colpo rivoluzionata in funzione dei commerci. Piccole e medie proprietà sarebbero state accorpate in gigantesche tenute all’interno delle quali la produzione era per la prima volta razionalizzata secondo metodi scientifici. I piccoli coltivatori, privati adesso del suolo, avrebbero mosso in esodo verso le città dove la nuova manodopera sarebbe stata, infine, ri-convogliata nell’alveo dell’emergente industria. L’area urbana iniziava, così a dilatarsi. Nuovi e brulicanti quartieri operai sorgevano attorno ai moderni opifici. Le strade si affollavano, la vita si faceva frenetica e inarrestabile. Mutavano i tempi e gli spazi dell’esistenza. Nasceva, insomma, la metropoli moderna. Sarebbe stato, dunque, il mare ad accendere le luci delle nostre città, ad attivare lo sfavillio delle loro aree produttive e dei loro distretti commerciali, a spianare le antiche strade per far largo torrente meccanizzato del traffico? La prospettiva di indagare questo nesso è affascinante. Chi, d’altra parte, potrebbe guardare, oggi, a città come Londra, Tokyo, Shanghai, New York senza provare anche l’intima sensazione che qui, più che mai, ‘tutto scorre’? Persino nel gergo comune, l’elemento ondivago e fluido, sembra aver ormai lasciato un segno ispirando parole chiave come ‘mobilità’, ‘flessibilità’. Accade così che nemmeno i più acerrimi critici del moderno capitalismo possano fare a meno di parafrasare il celebre aforisma di Pascal, un nostalgico del vecchio mondo che già all’alba dell’età moderna aveva a dire: «Voi siete imbarcati» (trad. it. 1980: 233 Brunschvigc). «Noi – scriveva il filosofo francese – voghiamo in un vasto mare sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci si sottrae, scorre via e fugge in un’eterna fuga» (trad. it. 1980: 72 Brunschvigc). «Dove andiamo? – si chiede, invece, oggi, retoricamente, l’economista Serge Latouche – Dritti contro un muro. Siamo a bordo di un bolide senza pilota, senza marcia indietro e senza freni, che sta andando a fracassarsi contro i limiti del pianeta» (Latouche, trad. it. 2012: 11). Il nostro progresso storico nello spazio e nel tempo ha dei termini finiti o può procedere illimitatamente? Su questo Latouche sembra essere categorico. Il mondo, sostiene, è un sistema chiuso. Come potrebbe, dunque, contenere ambizioni infinite senza anche, prima o poi, esplodere? Per questo motivo Massimo Clemente, Daniele Demarco, Eleonora Giovene di Girasole

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l’economista francese avanza la prospettiva della ‘decrescita’ che contempla l’esodo delle aree metropolitane e il riflusso verso le campagne. Ma può essere solo questa l’unica strategia di uscita dalla crisi? Rinunciare, dunque, alla proiezione verso l’esterno? Rifluire verso l’entroterra? Infeudarsi, come all’alba del medioevo, entro gli angusti confini della campagna? Ritornare all’economia di sussistenza? E perché, invece, non ritrovare quell’originario slancio verso il nuovo, verso orizzonti oceanici che tanta linfa hanno donato alla nostra modernità? «Ogni volta che […] nuove terre e nuovi mari fanno il loro ingresso nell’orizzonte della coscienza collettiva – scriveva Carl Schmitt nel 1942 – mutano anche gli spazi dell’esistenza storica. Nascono allora nuovi parametri e nuove dimensioni dell’attività storico politica, nuove scienze, nuovi ordinamenti, una nuova vita di popoli nuovi o rinati. Questo ampliamento può essere talmente profondo e sorprendente da comportare il mutamento non solo delle misure e dei parametri, non solo dell’orizzonte esterno degli uomini, ma anche della struttura e del concetto stesso di spazio» (trad. it. 2002: 59). Forse, sarebbe davvero il caso di affacciarci dai waterfront delle nostre città per osservare il mare con spirito diverso.

3 | Mare e città nel caso studio di New York City L’espansione urbana può diventare un fenomeno che sempre più si rileva insostenibile e il suo impatto in termini ecologici e di concentrazione umana incide enormemente sul bilancio ecologico globale. Il fenomeno si manifesta in forma macroscopica lungo la fascia costiera che, spesso, risulta essere quella maggiormente antropizzata. Se, da un lato, le ipotesi alla base dello sviluppo sostenibile prevedono uno sviluppo finalizzato al raggiungimento di obiettivi di miglioramento ambientale, economico e sociale al fine di «soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere le possibilità per le generazioni future di soddisfare i propri» (Rapporto Brundtland, 1987), dall’altro una delle tematiche emergenti nel dibattito sul tema della città è legata al tema della ‘decrescita’. Ma cosa si intende per decrescita di una città? È veramente augurabile o possibile? Sono veramente tanto distanti i due processi o sono l’espressione di un comune sentire che lancia la sfida per un cambio di rotta secondo istanze socialmente, economicamente ed ambientalmente corrette? Ovvero in un’ottica equa e solidale definire i principi su cui fondare azioni per attuare una trasformazioni delle città, superando le odierne ‘mura’ della crisi sociale, economica ed ambientale? Forse la strada, per non perdersi nei giochi di parole, è quella di uno sviluppo delle città che si basi su una crescita sostenibile recuperando la propria identità e trasformandola in risorsa. Le città devono capire/decidere prima di tutto cosa vogliono diventare, ovvero definire gli scenari a lungo termine e il carattere delle loro trasformazioni, innescando i necessari processi, individuando specifici ambiti urbani, realizzando infrastrutture, costruendo nuovi attrattori fisici e funzionali. Il punto è trovare l’equilibrio tra la necessità di epocali mutamenti nella città e l’esigenza di sostenibilità che proviene dal basso. Nessuna città, infatti, può essere come Zora «obbligata a restare immobile e uguale a se stessa per essere meglio ricordata, Zora languì, si disfece e scomparve. La Terra l’ha dimenticata» (Calvino, 1972: 56). In questo senso le città di mare hanno, storicamente, sempre svolto un ruolo di avanguardia nel progresso delle civiltà, in quanto dal mare e nel mare stesso hanno trovato un innegabile vettore di vitalità e crescita – economica, sociale, culturale – a cui hanno fatto seguito continue trasformazioni fisiche. Numerose sono le città di mare che, nel corso degli ultimi anni, hanno avviato processi di riconversione urbanoportuali e progetti di trasformazione dei waterfront, con il fine di recuperare un rapporto con il mare, attraverso approcci, scelte politiche, progetti, attori e risorse differenti. I risultati più interessanti provengono da quelle città in cui la scelta di cosa diventare ha seguito una logica non additiva o settoriale ma integrata ed in cui, ripartendo dalla propria cultura marittima, si sono operate scelte di trasformazione con ricadute per tutto il territorio. Questo significa operare non esclusivamente lungo la sottile linea di costa, ma individuare idonee strategie integrate per l’assetto delle aree di waterfront, coinvolgendo i territori retrostanti. Le aree tra porto e città rappresentano dei territori di ‘cerniera’, spesso barriere, aree dismesse, periferie, ecc., che possono giocare un ruolo determinante nelle strategie di sviluppo e di riqualificazione dell’intera città. Attraverso il rinnovamento urbano della linea di costa, intesa come bordo lungo cui è possibile l’interazione tra le parti, si possono così realizzare nuovi spazi pubblici che se, da un lato, si configurano come luoghi proiettati verso l’orizzonte e verso porti lontani, dall’altro lato, verso la terra, diventano plateau su cui innestare nuove relazioni e funzioni di connessione con il contesto urbano. Le città possono, quindi, tornare ad affidare al mare la propria identità attraverso il confronto tra cultura urbana e cultura marittima, tra innovazione e tradizione, attraverso una nuova visione di città capace di rimettere in discussione le istanze della decrescita: ovvero il luogo della sperimentazione di un nuovo modello di sviluppo urbano per una diversa crescita che non sia illimitata né involutiva. New York, storica città di mare – quattro dei cinque quartieri di New York sono isole e il quinto è una penisola – da sempre cerniera negli scambi tra l’Oceano e le acque interne, in questi anni ha iniziato un nuovo ragionamento sul suo rapporto con l’acqua attraverso la riqualificazione delle aree portuali, del waterfront e delle Massimo Clemente, Daniele Demarco, Eleonora Giovene di Girasole

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aree retrostanti. L’acqua è stata riconosciuta quale elemento importante e cruciale nel processo di riqualificazione di New York ed è stata proposta come ‘Sixth Borough’ della città. Gli interventi lungo il suo diversificato waterfront vogliono ri-collegare la linea di costa, ri-connettere la città con il mare e divenire occasione di interconnessione con il resto della città (Clemente, Giovene di Girasole, 2012), attraverso un processo in continua evoluzione. Nel 2011 è stato approvato il ‘Waterfront Vision and Enhancement Strategy’ (in continuità con gli interventi previsti nel City Planning del 1992 1 ), ovvero un piano d’azione partecipato per realizzare la riqualificazione sostenibile di 520 miglia del waterfront di New York, nei 5 Boroughs. Il piano è suddiviso in due parti: il ‘New York City Waterfront Comprehensive Plan’ e il ‘New York Agenda Waterfront City Action’. Nel ‘New York City Waterfront Comprehensive Plan’ sono individuati gli obiettivi a lungo termine per il prossimo decennio con una serie di raccomandazioni per ogni tratto di waterfront dei cinque distretti. Gli otto obiettivi principali sono: «Espandere l’accesso pubblico al mare e ai corsi d’acqua di proprietà pubblica e privata per i newyorkesi e i turisti. Promuovere il lungomare attraverso una molteplicità di usi integrati con le comunità prossime. Sostenere le attività di sviluppo economico presenti lungo il waterfront. Migliorare la qualità delle acque attraverso misure che avvantaggino gli habitat naturali, sostengano le aree di ricreazione e valorizzino le comunità che vivono sul lungomare e nelle aree più interne. Ripristinare le aree naturali del waterfront degradate e proteggere le zone umide e gli habitat costieri. Migliorare la fruizione pubblica dei corsi d’acqua che circondano New York, considerato come ‘Blue Network’. Migliorare la regolamentazione, il coordinamento e la supervisione del lungomare e dei corsi d’acqua. Identificare e perseguire strategie per aumentare la resilienza della città al cambiamento climatico e dell’innalzamento del livello del mare» (Vision 2020. New York City Comprehensive Waterfront Plan: 2021). Nella ‘New York Agenda Waterfront City Action’ sono, invece presentati i 130 progetti prioritari da realizzare nei successivi tre anni per concretizzare gli otto obiettivi. Questi sono interventi che prevedono azioni integrate non solo lungo il waterfront ma anche nelle aree subito prossime, ed in cui la riqualificazione e l’incremento dello spazio pubblico diventano spina centrale del processo (Waterfront Action Agend; Waterfront Vision and Enhancement Strategy). Nel primo anno (maggio 2012), la città ha ultimato 34 iniziative e altre 71 erano in corso di completamento (84% del totale progetti). Quattordici iniziative (11%) erano in corso, ma con rallentamenti, mentre cinque progetti (4%) sono stati rimodulati a causa della indisponibilità dei finanziamenti e di modifiche al piano. Per quanto riguarda l’ampliamento della fruizione pubblica del waterfront, la città ha continuato ad migliorare l’accesso degli utenti al lungomare, anche attraverso l’incremento dei parchi pubblici e la realizzazione di maggiori opportunità per praticare sport acquatici e attività ricreative. Per questi interventi di ‘Waterfront Park’ sono stati investiti 360 milioni dollari. Tra quelli realizzati il recupero del Pier 15 (opera di SHoP Architects) e del primo tratto dell’‘East River Waterfront Esplanade’. Quest’ultimo è un intervento che prevede la riqualificazione di una fascia di costa di circa 2 miglia trasformandola in uno spazio pubblico, così da migliorare sia l’accesso al lungomare e la connessione pedonale, sia creare un luogo di svago. Sono stati riqualificati molti spazi pubblici esistenti: è stato riaperto l’‘Empire Fulton Ferry’ (progetto del paesaggista Micheal Van Valkenburgh), parte del Brooklyn Bridge Park, che si trova vicino alla East River e si estende a nord e a sud del ponte di Brooklyn, e, dopo 40 anni, è stato intrapreso il primo ripascimento della ‘Orchard Beach’ nel Bronx, un parco (frequentato in estate da decine di migliaia di utenti) costituito da quasi 2 km di spiaggia, con una passeggiata fiancheggiata da negozi, parchi giochi, aree pic-nic e numerosi campi sportivi. È stato, inoltre, stipulato un importante accordo con le Nazioni Unite, che permetterà di realizzare oltre 13.000 metri quadrati di nuovi spazi pubblici verdi tra la E. 38th e la E. 60th. Per la promozione e la riqualificazione del waterfront sono stati intrapresi investimenti cercando di prevedere usi e funzioni integrate con le esigenze delle comunità prossime. ‘Point Hunter Sud’, sul lungomare di Long Island City, è una delle iniziative di cui è cominciata la costruzione delle opere infrastrutturali della prima fase del progetto, che comprende 900 unità abitative (per famiglie a basso, moderato e medio reddito), cinque ettari di spazi pubblici e 20.000 metri quadrati di aree commerciali. 1

Nel corso degli ultimi 10 anni, sono stati realizzati interventi per migliorare il waterfront e le vie d'acqua, investendo oltre 9 miliardi di dollari per la qualità delle acque del porto di New York . Sul waterfront sono stati realizzati 400 ettari di nuovi parchi e 20 miglia di greenways. Sono stati trasformati più di 700 ettari di terreno sulla linea di costa, in gran parte liberi o sottoutilizzati, per realizzare 16.000 nuove abitazioni e permettere l'accesso pubblico al waterfront. Sono stati, inoltre, attuati interventi per far sviluppare l'industria marittima e, quindi, aumentare i posti di lavoro e far crescere le attività economiche. Sono state potenziate le vie d’acqua per il trasporto pubblico che, attualmente, serve 90.000 persone al giorno (Waterfront Action Agenda. Transforming New York City’s Waterfront. One-Year Progress Report, 2011).

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Rigenerazione delle città dal mare per una crescita sostenibile

A Staten Island è iniziata la trasformazione della ex ‘U.S. Navy Homeport’ nel New Stapleton Waterfront (circa 15 ettari), un nuovo spazio ad uso misto con residenze. Gli spazi pubblici comprenderanno sentieri, prati e aree verdi; inoltre, sarà possibile l’accesso al fiume per le imbarcazioni non a motore e l’attracco per le navi storiche. Il sostegno alle attività legate al waterfront è stato attuato attraverso il completamento degli investimenti nelle nuove infrastrutture marittime e il miglioramento del marketing delle strutture portuali della città. È stata completata la riattivazione del ‘South Brooklyn Marine Terminal’ (per servizi marittimi specializzati nella gestione di automobili e altri cargo roll-on/roll-off), con un investimento di più di 115 milioni dollari il cui fine è il miglioramento dei terminal, l’organizzazione del sito e il dragaggio. Ulteriori 13 milioni dollari sono investiti per la connessione alla rete ferroviaria nazionale. Nel sito è prevista la realizzazione di un nuovo impianto di riciclaggio per la gestione dei rifiuti di New York City. Nell’aprile 2012, il Comune e l’Autorità Portuale hanno avviato la sostituzione dell’‘Anchorage Channel Water Siphon’, con uno più grande posto a maggiore profondità, che garantirà una fornitura di riserva d’acqua per Staten Island e faciliterà l’aumento del traffico navale nel porto di New York e New Jersey. 250 milioni dollari sono stati investiti per permettere il completamento dell’‘Army Corps 50-Foot Harbor Deepening Project’, un intervento di miglioramento della navigabilità dei canali, attraverso un aumento della loro profondità. Un provvedimento fondamentale per permettere il passaggio, nel prossimo futuro, di navi di più grandi dimensioni e l’aumento dei volumi di traffico marittimo. Sono continuati gli interventi al Brooklyn Navy Yard, una società nata come struttura cantieristica che oggi si occupa di svariati settori come l’edilizia, la scenografia teatrale, computer, ecc., inaugurando ‘BLDG 92’, una mostra di 25 milioni dollari con un visitors centre. È stata, inoltre, approvata definitivamente la riqualificazione delle aree ‘Admirals Row’, destinate a centro commerciale e industriale, dove sorgono edifici in stile impero, utilizzate in passato come abitazioni dagli ufficiali di marina nel quartiere di Brooklyn, di cui ne saranno conservati solo alcuni. La città sta facendo progressi anche nel miglioramento della qualità dei corsi d’acqua. Nel marzo del 2012, è stato raggiunto un accordo con il Department of Environmental Conservation (DEC), per investire circa 1,5 miliardi di dollari pubblici, nei successivi 18 anni, per installare tecnologie verdi per la gestione delle acque piovane prima che esse entrino nel sistema fognario cittadino . Gli investimenti della città in termini di qualità dell’acqua, hanno posto le basi anche per il recupero ecologico del waterfront, con il miglioramento del litorale e delle zone umide. Sono stati avanzati, per i tre anni, una serie di progetti, per quasi 48 milioni dollari, che investono 16 siti da recuperare e valorizzare oltre 127 ettari di zone umide e degli habitat adiacenti. L’acqua è stata utilizzata anche come tessuto connettivo tra i quartieri attraverso l’’East River Ferry Service’, che ha registrato nel primo anno 780.000 passeggeri. Per quanto riguarda l’obiettivo di aumentare la resilienza della citta di New York alle tempeste tropicali, piogge torrenziali e mareggiate (sempre più frequenti e gravi), nel febbraio 2012 è stato firmato un accordo con la ‘Federal Emergency Management Agency’ per aggiornare il ‘Flood Insurance Rate Maps’ della città. Le mappe aggiornate permetteranno di analizzare i cambiamenti avvenuti lungo la costa, l’ambiente costruito e del livello del mare, nonché pianificare gli interventi per prevenire i rischi di inondazione e aumento del livello del mare. Per contribuire al raggiungimento di molti degli obiettivi sono state realizzate proposte e modifiche al ‘Waterfront Revitalization Program’, attraverso un processo di revisione pubblica. Il WRP è il ‘Coastal Zone Management Program’ della città, uno strumento attraverso cui analizzare i progetti proposti per la città al fine di garantire che essi soddisfino i numerosi interessi che confluiscono sul lungomare, tra cui la conservazione delle risorse naturali, lo sviluppo economico e la fruizione pubblica (Waterfront Action Agenda. Transforming New York City’s Waterfront. One-Year Progress Report). Attraverso questi interventi New York sta intraprendendo la ridefinizione complessiva della sua struttura urbana ripartendo dal suo storico rapporto con il mare, attraverso una proiezione del mare verso la città. Ovvero interventi, che interessano l’ambiente, l’economia, il lavoro, la casa, ecc., a mare, lungo l’area di margine e nelle aree di cerniera subito prossime attraverso cui realizzare trasformazioni con un influsso determinante sull’equilibrio dell’intera città. Questo esempio mostra come, ancora oggi, le città che si sviluppano lungo la costa, attraverso il recupero del loro rapporto con il mare, possono rappresentare un laboratorio privilegiato per interrogarsi sul destino della metropoli moderna, individuando modelli di sviluppo innovativi riscoprendo il mare come un orizzonte ricco di occasioni ed epicentro di un nuovo moto di rinnovamento.

4 | Conclusioni La questione che si pone in chiusura di quest’intervento è la seguente: se è stato proprio il mare a mettere in moto quest’insieme di processi, può il mare fungere ancora da attrattore di sviluppo per nostre città in crisi? La risposta non è in sé scontata e, a meno di non cadere in facili equivoci, bisognerà, ammettere che il mare ha

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smesso di essere, oggi, l’incognita gravida di promesse che era un tempo. Mappato e scandagliato lungo tutta la sua superficie, esso non sembra riservare più segreti né dunque risorse o opportunità da svelare. Tuttavia, ritornare – quantomeno in chiave metaforica – a riflettere sullo spirito che ha animato i primi grandi navigatori del nostro tempo, potrebbe rivelarsi un esercizio ricco di implicazioni. Liberando la fantasia, magari, nella speranza di individuare altri spazi (magari nei cieli) e altre navi (magari navi stellari) in grado di veicolare le utopie frustrate di una civiltà assopita, ormai, piuttosto stancamente nelle pastoie dell’era post-industriale. La vera sfida, in ogni caso, non appare quella di fermare o rallentare la crescita, quanto di perseguirla in un’ottica sostenibile che sappia coniugare le ragioni dello sviluppo – che sono, in ultima analisi, le stesse della scienza – con il senso dell’ordine, della giustizia e della misura che dovrebbe essere proprio della filosofia. Come in passato, la pianificazione e lo sviluppo della città di mare possono offrire ancora una volta agli amministratori la possibilità di ottenere una legittimazione politica, se si indirizzano in una direzione coerente con i principi della sostenibilità che vada oltre i loro mandati. Ovvero i governi, oramai sempre meno sovrani, dovrebbero ritornare a tenere le redini delle città, limitando la potenza delle grandi forze economiche per distribuire spazi ed economie, che trovino nella cultura marittima la base su cui innestare i necessari processi di trasformazione. Questo può avvenire attraverso una pianificazione condivisa che offra non solo l’opportunità di realizzare grandi opere, ma anche la possibilità di fare impresa, sviluppare nuove economie, ecc. per le nuove generazioni. Dalle scelte di come saranno i nuovi spazi, la distribuzione degli interessi e la definizione delle regole dipenderà un’evoluzione sostenibile o meno della città. Possiamo immaginare un processo di trasformazione che sia caratterizzato da una ‘crescita senza limiti’, intesa come crescita costruttiva in cui le azioni, le trasformazioni ed i benefici abbiano ripercussioni su tutto il territorio e sull’intera cittadinanza. Una crescita equa, non più settoriale, classista o che investe pochi e chiusi territori, ma un processo condiviso e integrato che trova nel mare il suo punto di partenza, e determini una nuova struttura urbana capace di avere un influsso positivo e innovativo sugli equilibri interni della città. Le azioni da attuare devono essere predisposte non solo in vista dei loro obiettivi concreti e immediati, ma bensì aiutare a far crescere la consapevolezza del diritto alla città e della necessità e possibilità di concepire e realizzare la città come un bene comune.

Bibliografia

Calvino I. (1994), Le città invisibili, Arnoldo Mondadori Editore, Milano.Clemente M. (2011), Città dal mare. L’arte di navigare e l’arte di costruire le città, Editoriale Scientifica, Napoli. Clemente M., Giovene di Girasole E. (2012), ‘The ambivalent zone between sea and city – a new approach to collective spaces based on maritime identity of the cities by the sea’, in Morgado S., Santos J. R., Proceedings of Ambivalent Landscapes. Sorting out the present by designing the future, Public Spaces – Urban Cultures Conference, Lisboa. Hegel, G.W.F. (2006), Lineamenti della filosofia del diritto, trad. it. Bompiani, Milano. Hegel G.W.F. (2010), Lezioni sulla filosofia della storia, trad. it. Bompiani, Milano. Kant I. (2010), Critica della ragion pura, trad. it. Adelphi, Milano. Latouche S. (2012), Breve trattato sulla decrescita serena, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino. Pascal B. (1980), Pensieri, trad. it. Mondadori, Milano. Platone (2001), Opere complete, Vol. 7, trad. it. Laterza, Bari. Schmitt C. (2009), Terra e mare, trad. it. Adelphi, Milano.

Sitografia

Vision 2020. New York City Comprehensive Waterfront Plan, disponibile sul sito del Department of City Planning di New York City, Projects & Proposals, Citywide, sezione The NYC Comprehensive Waterfront Plan http://www.nyc.gov/waterfront Waterfront Action Agenda disponibile sul sito del Department of City Planning di New York City, Projects http://www.nycedc.com/project/waterfront-vision-and-enhancement-strategy Waterfront Action Agenda. Transforming New York City’s Waterfront. One-Year Progress Report (2011), disponibile sul sito della New York City Economic Development Corporation http://www.nycedc.com/sites/default/files/filemanager/Projects/WAVES/Waves_2012.pdf

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Rigenerazione portuale delle città-porto delle isole: la rilevanza dello spazio pubblico1

Rigenerazione portuale delle città-porto delle isole: la rilevanza dello spazio pubblico Luca Di Figlia* Università degli Studi di Firenze DiDA-Dipartimento di Architettura Email: lucadifiglia@gmail.com

Abstract La qualità della progettazione urbanistica (Colarossi, 2010) si esprime (e va analizzata) al di là della sua dimensione formale investendo ed includendo le sfaccettate componenti di livello sociale, economico e di benessere collettivo. I processi di rigenerazione urbana che coinvolgono le aree portuali, difatti, possono essere definiti qualificanti solo nella misura in cui influiscono positivamente sulle dinamiche della vita pubblica e sulla interazione degli spazi pubblici. In particolare nei porti delle isole, in cui lo specifico carattere insulare conferisce una propensione complessa agli interventi, il tema dello spazio pubblico ha acquisito un ruolo nodale nel ridisegno del fronte marittimo. Tanto più quando il processo di riqualificazione individua nello spazio pubblico la dimensione fisica più rappresentativa, a cui viene assegnata, spesso, un’attribuzione valoriale in termini sia di fruibilità e di funzionalità degli spazi che di valenza simbolica. Parole chiave Insularità, città-porto, spazio pubblico.

Il processo di riscrittura del fronte portuale Le aree portuali, soprattutto negli ultimi vent'anni, sono state oggetto (e “soggetto”) di un progressivo e risolutivo mutamento; lungo il litorale marittimo sono state intraprese azioni volte al mutamento delle condizioni esistenti mediante la realizzazione di nuove strutture funzionali, che hanno riletto e rimodellato la fruibilità degli spazi pubblici. La varietà e la validità delle trasformazioni urbane condotte in essere in molte città di porto hanno conferito alle aree portuali (ed a quelle ad esse limitrofe) un ruolo privilegiato nel campo della sperimentazione progettuale urbanistica, la cui peculiarità si rileva significativa nell'elevata potenzialità strategica di rinnovamento. Le trasformazioni urbane hanno interessato, nella gran parte dei casi, zone di pertinenza portuale, ma, tramite dinamiche di riverbero transcalare, hanno inciso sull'assetto complessivo di tutta la città. Il porto è andato, così, configurandosi come elemento di 'sineddoche' urbana e di stimolo per lo sviluppo. Nel processo di evoluzione nell'ambito della pianificazione e progettazione portuale, il fattore di maggior incidenza è rappresentato dal cambiamento relazionale intercorso tra le parti in gioco, tra il porto e la città. Secondo quest'ottica di rapporti spaziali e relazionali di natura materiale ed immateriale, è possibile rileggere la recente evoluzione delle aree portuali. In modo sommario ed in estrema sintesi 1, possono essere individuate tre fasi a cui, conseguentemente, possono corrispondere tre categorie relazionali2:

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La sequenza cronologica riportata è da leggersi come una semplificazione schematica. E come tale, per la natura riassuntiva, non ha l'intento di offrire una visione esaustiva e completa dei processi urbani che hanno interessato le città con porto. La complessità che il tema d'indagine comporta è di difficile trattazione per un un testo breve. Con ciò si invita a consultare, per acquisire una conoscenza più approfondita in merito, l'antologia bibliografica che raccoglie informazioni e indicazioni riguardo

Luca Di Figlia

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Epoca industriale/relazione rigida: durante il frenetico sviluppo intercorso nel secolo passato secondo dinamiche legate all’industrializzazione dei processi produttivi e allo zoning, le aree portuale sono state gradualmente modellate alle necessità industriali, logistiche e funzionali legate alla movimentazione delle merci, necessità sempre meno concilianti con una libera fruibilità degli usi di vita urbana. Innalzando barriere di tipo fisico e funzionale, vaste aree adiacenti il lungomare sono state interdette agli abitanti. Il porto ha assunto il ruolo di area infrastrutturale e specializzata slegata dal circostante, una zona di marginalità disgiunta dal sistema urbano in dissonanza col il carattere originario, che gli è proprio, di elemento di connessione (tra terra e mare), di luogo degli scambi (materiali ed immateriali) e di spazio pubblico. Anni’80 'waterfront redevelopment'/relazione porosa: a seguito di un avanzamento tecnologico del trasporto (ferroviario, aereo e marittimo) in alcune delle realtà nord-americane (es. San Francisco, Baltimora, Toronto) e in Europa (es. Docklands di Londra) la separazione tra porto e città è stata in parte scardinata (Pagano, 2010). Questa fase, annoverata con il nome di 'waterfront redevelopment', si è caratterizzata dalla sostituzione di strutture destinate alle attività operative con nuovi edifici per attività urbane. Negli interventi riconducibili al 'waterfront redevepolment', però, non è stata prospettata alcuna ricucitura tra le aree portuali e retrostanti: l’area del fronte d’acqua è stata trattata al pari di una quinta urbana non adducendo la dovuta importanza agli spazi di interfaccia. Le due parti hanno assunto un rapporto di complementarietà fisica, che non ha indotto interazioni relazionali soprattutto in riferimento agli spazi pubblici d’interconnessione. Porto-città/relazione liquida: a partire dagli anni Novanta (da Barcellona e Genova) nelle principali città portuali europee si sono susseguite operazioni di ri-progettazione formale e funzionale delle aree portuali. Sono state realizzate opere di rango elevato: terminal passeggeri, musei, auditori, centri commerciali (etc.). Architetture che, per loro natura, s’impongono nel tessuto urbano come elementi generativi di gerarchie spaziali. L’inserimento di strutture di carattere eccezionale ha, così, portato al mutamento dell’immagine e alla composizione morfologica stessa del porto, non più concepito come un’area di esclusione ma come luogo di centralità inclusiva: «Le trasformazioni avvenute, o in corso di attuazione, nelle città di mare/città portuali hanno dato e stanno dando vita a un inedito tipo di città, la 'città-porto' [...]» (Bruttomesso, 2006: 25). Il porto è stato, così, svelato dal suo status di marginalità -dotato di una specifica autonomia spaziale- ed è stato presentato alla cittadinanza come luogo vitale di una rinnovata fruibilità attraverso la valorizzazione dello spazio pubblico, quale elemento di collante, unione e confluenza sinergica.

Le città-porto insulare L’apertura degli spazi portuali alle dinamiche ad alle funzioni urbane è una prerogativa che restituisce il porto, anche nell’immaginario collettivo, alle condizioni del passato, in cui il fronte marittimo costituiva uno dei principali luoghi di vita aggregativa e commerciale all’interno della città. Tale tendenza è riscontrabile anche nelle città portuali insulari. In queste realtà, però, le componenti riconducibili all'imprescindibile carattere insulare −radicalità; fragilità; dimensione, dipendenza ed isolamento (Staniccia, 2012)− conferiscono una vocazione strategica alle trasformazioni urbane, che ne esplicitano una maggiore e peculiare connotazione transcalare e multisettoriale: «[...] nelle realtà isolane emerge la necessità di trattare il tema della riqualificazione e rigenerazione al di fuori della mera area del porto». (De Luca, Lingua, 2012: 11). Al fine di comprendere al meglio la rilevanza delle politiche urbane perseguite per le città-porto insulari, si prendono in esame alcune realtà europee (Fig.1), in cui sono stati attuati o sono previsti importanti operazioni di trasformazione urbana3: Alghero (Italia), Catania (Italia), Funchal (Portogallo), Heraklion (Grecia), La Valletta (Malta), Las Palmas de Gran Canaria (Spagna), Lefkada (Grecia), Palermo (Italia), Palma de Mallorca (Spagna), Ponta Delgada (Portogallo), Rodi (Grecia)e Santa Cruz de Tenerife (Spagna). La casistica presa in esame presenta una eterogeneità finalizzata a tracciare una panoramica più amplia ed inclusiva possibile. Per rendere chiaro il quadro di riferimento dei casi scelti è, al contempo, opportuno comprendere l'ambito contestuale in cui i porti sono inseriti. La prima distinzione da compiersi è tra città Mediterranee (caratterizzate da

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ad articoli, monografie e siti internet sul tema delle città portuali: Giovinazzi O. (a cura di, 2007). Città portuali e waterfront urbani. Ricerca bibliografica, Edizioni Città d'Acqua, Venezia. Alle tre fasi si fa corrispondere un carattere relazione: rigida, porosa, liquida. I termini aggettivali riprendono in parte la distinzione delle aree portuali del nuovo P.R.P. (Piano Regolatore Portuale) di Palermo: porto rigido, porto permeabile, porto liquido (Carta, 2006). È opportuno precisare che tali casi per esigenze di sintesi saranno trattati a titolo puramente esemplificativo per motivare ed argomentare le riflessioni poste, non approfondendo la specificità dei singoli contesti o progetti.


Rigenerazione portuale delle città-porto delle isole: la rilevanza dello spazio pubblico1

una stratificazione storica di lungo corso) e città Atlantiche (caratterizzate da una storia recente e legata alle rotte marittime del trasporto internazionale). La seconda precisazione, relativa alla grandezza dell'isola in rapporto al livello di importanza della città, presuppone la seguente distinzione: città-porto capoluogo di isole continentali (Palermo, Catania, La Valletta, Heraklion, Rodi); città-porto capoluogo di isole minore(Ponta Delgada, Funchal, Palma de Mallorca, Lefkada, Santa Cruz de Tenerife); città-porto locali di isole continentali (Algheroa)4.(De Luca, Lingua, 2012)

Figura 1. Mappa casi studio.

Appurato l'ambito di contesto dei casi nelle loro divergenze più sostanziali, la verifica ha portato a individuare i principali interventi sia realizzati sia previsti (in progetti o piani), che hanno coinvolto le aree sul fronte a mare, in un arco temporale relativo, principalmente, agli ultimi vent'anni. Il rilevamento ha condotto all'elaborazione di una tabella riassuntiva (Fig.2), in cui gli interventi sono stati definiti per tipologie e localizzazione, sulla base di una tripartizione delle aree d'interesse5. Dalla comparazione e dall'analisi delle realtà insulari esaminate, emergono, in prima istanza, le seguenti considerazioni: Le opere individuate (precedute, spesso, dall'elaborazione di nuovi piani urbanistici) sono state realizzate in una fascia temporale relativamente di breve periodo; la recente proliferazione di interventi realizzati e di proposte progettuali demarca l’attualità e l’importanza del ruolo che la riconversione delle aree portuali ha, oramai, acquisito nell'ambito urbano, economico e sociale delle realtà insulari. Le politiche urbane aspirano, difatti, a riscoprire la propensione multisettoriale e multifunzionale del porto, facendo confluire su di esso iniziative che conferiscono al rinnovamento dell’area portuale una valenza strategica. La rigenerazione urbana del sistema portuale e litorale è letta come stimolo capace di attivare processi virtuosi di sviluppo qualitativo per tutta la città e per tutto il territorio insulare. Ciò, soprattutto, in riferimento alla vocazione turistica di tutte le città esaminate. Le strutture realizzate si presentano come la fase conclusiva di un processo decisionale intrapreso e restituito mediante strumenti urbanistici in un quadro programmatico di livello sovralocale. Nel caso di Funchal, il processo di rigenerazione urbana del porto è stato avviato in seguito al riordino del sistema portuale dell'isola di Madera ed alla costruzione del nuovo porto di Canical, verso cui è stato dirottato tutto il traffico merci. L'ubicazione dei progetti palesa come la maggior parte di essi ricada all’interno del perimetro portuale. L'apertura relazionale tra la città e il porto è, dunque, determinata, anzitutto, non da uno sviluppo complementare delle due parti, bensì dal cambiamento della natura stessa di alcune aree portuali che si 'fanno' città.

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Le categorie riportate e la suddivisione delle città sono riprese dalla tabella tassonomica elaborata da De Luca e Lingua nello studio sulla riqualificazione dei porti insulari: De Luca G, Lingua V. (2012), “Le isole tra competitività globale e strategie di sviluppo locale”, in De Luca G., Lingua V. (a cura di). Arcipelago Mediterraneo, Strategie di riqualificazione e sviluppo nelle città-porto delle isole, Alinea, Firenze. 5 Area portuale': individua la zona di competenza dell’Autorità Portuale, quella propriamente identificabile come porto; 'area urbana fronte porto': individua le aree della città che si affacciano verso il porto e i quartieri ad esso più prossimi; 'Fascia litorale': individua le aree urbanizzate della città che si affacciano verso il mare ad eccezione del porto. Luca Di Figlia

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Il confronto tra i porti insulari europei mostra (sulla base della conformazione spaziale, ambientale e storica) due approcci d’intervento; mentre nelle città Atlantiche la riconversione urbana è intrapresa mediante progetti di azzeramento e ricostruzione, gli interventi nei porti del Mediterraneo sono annoverabili a un modello di tipo addizionale, in cui è imperativo integrare i nuovi innesti con il contesto storico esistente (in questo senso è interessante rilevare le soluzioni architettoniche adottate negli interventi del porto di La Valletta).

Figura 2. Tabella comparativa degli interventi realizzati o previsti individuati nello studio di casi.

Lo spazio pubblico: tra forma e sostanza Nel processo di ricomposizione del fronte marino, quasi a definire una sintassi compositiva specifica, sono state utilizzate in modo ricorrente alcune tipologie d’intervento, tra cui,per la loro attitudine a rinsaldare l'interazione tra porto e città, si segnalano: 'Terminal Passeggeri'. L'infrastruttura dedicata al trasporto passeggeri appartiene al novero degli edifici specifici dell'attività portuale. L'aumento del traffico marittimo (in particolare crocieristico) ha portato alla costruzione di nuove idonee strutture, che, però, non sono concepite in modo monofunzionale (Valletta Waterfront, PuertoCiudad a Santa Cruz, Portas do Mar a Ponta Delgada): agli spazi atti all'accoglienza ed alla logistica sono affiancate attività commerciali, ricettive e culturali rivolte sia ai viaggiatori sia alla cittadinanza. Le architetture, inoltre, sono progettate come snodi di collegamento in continuità con il tessuto urbano limitrofo, dove, spesso, il disegno degli spazi aperti è trattato al pari delle volumetrie piene. Un soluzione apprezzabile risulta il terminal di Ponta Delgada: la struttura, allineata lungo una delle principali direttrici della maglia stradale, funge da crocevia e spazio di sosta dei due percorsi lungomare a livelli sfalsati (uno a livello strada, l'altro a livello mare), il tetto (in parte a gradinate) è utilizzato per ospitare grandi manifestazioni pubbliche. 'Edifici culturali e di svago'. La categoria raggruppa tutte le strutture che, a vario titolo, accolgono, in prevalenza, attività culturali, ricreative e commerciali (museo, teatro, auditorium, negozi, locali notturni, etc.). L'inserimento di nuove tipologie funzionali di rango elevato, in contesti in precedenza scarni di attività sociali, conferisce al porto una vocazione mirata apertura alla vita urbana. 'Percorso lungomare'. Nelle aree portuali, la presenza di attività tra loro conflittuali (operative ed urbane) comporta problematiche di permeabilità ed accessibilità ( specialmente per i fruitori pedonali). In riferimento all'accessibilità, la passeggiata lungomare è un elemento compositivo sempre presente nelle aree portuali riqualificate per garantire una maggiore e più piacevole fruibilità. Soprattutto quanto questa non è ideata come una semplice linea di percorrenza tra luoghi geograficamente distanti, ma come un percorso strutturato corredato


Rigenerazione portuale delle città-porto delle isole: la rilevanza dello spazio pubblico1

da elementi di continuità spaziale (arredo urbano, illuminazione, alberature) e di luoghi di sosta (piazze, belvedere, slarghi). A titolo d'esempio si segnala il recupero del lungomare di Alghero e Palma de Mallorca, in cui la passeggiata a mare si attesta come luogo di coesione e appartenenza identitaria. Il lungomare di Alghero −ideato dal disegno dell'arch. J. Busquet attraverso un'articolata sezione stradale composta da più fasce di percorrenza− durante il periodo estivo diventa luogo di mercati e spettacoli all'aperto, attirando molte persone sia turisti sia abitanti locali. Il paseo marittimo di Palma, rimodellato nel corso dei vari anni, è stato concepito nel 1910 proprio come spazio pubblico generato dalla collettività: il primo tratto di 300 metri è stato realizzato sotto il coordinamento dell'arch. G. Bennazar con il coinvolgimento di una nutrita manovalanza in una sola notte. 'Aree verdi'. Il verde pubblico attrezzato, nel ripensare gli spazi aperti, ha una funzione dichiaratamente aggregativa e di salubrità, che va a scardinare la grigia visione del porto industriale e commerciale. L'elemento del verde pubblico costituisce una componente di connessione e di valorizzazione dell’ambiente; se esteso fino a lambire lo specchio d’acqua, offre un paesaggio di particolare suggestione: uno spazio verde affacciato direttamente sul mare, come dimostra il Foro Italico a Palermo (progettato dall'arch. I. Rota). Le operazioni di riqualificazione del fronte a mare risultano, perciò, episodi di vera e propria ri-urbanizzazione, in cui la configurazione di una nuova immagine è data dalla progettazione di nuovi spazi aperti e di connessione (percorso lungomare e aree verdi) e da architetture e volumetrie che, per importanza e dimensione, si impongo nel contesto urbano cercando un dialogo formale e modellando le aree aperte di prossimità. Inoltre, questi interventi seguono il principio della mixitè funzionale: alle strutture portuali sono affiancate nuove funzioni di rango elevato. La classificazione tipologica definita da Moroni e Chiodelli (2011) riguardo agli spazi urbani ci offre le seguenti tre categorie relative allo spazio pubblico: 'spazio pubblico stricto sensur' (es. spazi connettivi, piazze, strade etc.); 'spazio pubblico specializzato' (scuole, biblioteche, musei, parchi, etc.); 'spazio pubblico a gestione privata' (spiagge, aree per mercati, approdi navali, etc.). In considerazione di tale demarcazione, risulta evidente che le tipologie individuate nell'analisi dei porti insulari sono ascrivibili alla categoria di spazio pubblico, come categoria definibile nella sua accezione plurima e non assoluta. Nell'ambito della progettazione portuale, si conviene, quindi, nel trattare lo spazio pubblico nella sua forma plurale di spazi pubblici, non solo aperti e sfaccettati da una molteplicità d'interazioni d'utilizzo. La pluri-funzionalità, indirizzata alla valorizzazione e alla creazione di spazi pubblici, è il fattore di urbanità che delinea l'avvicinamento auspicato tra il porto e la città. Se, in prima istanza, gli spazi pubblici possono essere definibili nella loro componente spaziale e funzionale, questi si sostanziano mediante il riscontro reale del loro utilizzo ed il conferimento di una attribuzione valoriale diffusa e condivisa. In gran parte degli interventi esaminati è possibile riscontrale questo tipo di consequenzialità tra forma e sostanza (non sempre scontato o prevedibile). Questa nuova progettualità ha conformato il porto come nuovo centro d’attrazione e d’aggregazione sociale in un processo di riappropriazione che ha coinvolto la cittadinanza. «La città pubblica è traslata sulla costa generando una nuova polarità, che a secondo i casi si rapporta in modo complementare o in contrapposizione rispetto al centro storico, luogo da sempre designato a rivestire il ruolo di principale catalizzatore delle attività sociali e della vita pubblica» (Di Figlia, 2012: 65). Le nuove opere, oltre a ciò, sono ideate con una marcata componente simbolica, in cui è veicolato il messaggio di rinnovamento e di riappropriazione del porto aspirando alla creazione di una rinnovata e moderna identità. Ciò emerge, chiaramente, già dal nome assegnato ad alcune opere: il Puerto-Ciudad a Santa Cruz o la Portas do Mar di Ponta Delgada, che si ergono a simbolo emblematico della città e della cittadinanza.

Riflessioni conclusive (spazio pubblico come stella polare) Gli spazi pubblici, nel processo di rigenerazione del porto, si presentano come chiave di volta progettuale atta a creare un interazione tra più livelli di scala, che nei contesti insulare si declina nel concetto di “integrazione”6 transcalare (De Luca, Lingua, 2012). É doveroso precisare che nei casi studio insulari, seppur si rilevano in più esempi delle pratiche urbane apprezzabili, permangono problematiche, tuttora, irrisolte tra cui la tendenza omologante nel concepire le trasformazioni urbane con un disegno architettonico stereotipato; l’importanza (mediatica) conferita alla scala architettonica, che può portare a privilegiare l’aspetto della singola opera rispetto all’insieme complessivo delle operazioni con la perdita di una visione unitaria d'insieme; l'attitudine a soddisfare le 6

Il concetto di “integrazione” tra parti risulta essenziale nella lettura dello sviluppo delle città portuali; difatti, tale concetto struttura il documento finale del Interreg III C “Plan the City with the Port” redatte a cura dell “Association Internationale Villes et Ports”. Il documento presentato a chiusura del progetto nel 2007 indica raccomandazioni e good practices da considerare negli interventi di riqualificazione delle aree portuali distinti in cinque ambiti: integrating the spaces, integrating the urban dimension, integrating functions, integrating the environment e integrating societies.

Luca Di Figlia

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istanze legate al settore turistico; la difficile manutenzione temporale di alcuni interventi; il rischio di cadere nelle sfaccettate «retoriche delle politiche urbane di questi ultimi anni» (Savino, 2010: 11). Criticità, insite nello sviluppo urbano, che possono essere risolte solo attribuendo maggior valore proprio allo spazio pubblico; in quanto: «[...] il protagonista di un progetto urbano è lo spazio pubblico, il luogo dove la realtà collettiva della città si produce» (Bohigas, 2002: 73). In definitiva, nella rigenerazione delle aree portuali, l'apertura del modello città-porto è generata mediante l'innesto di funzioni tipicamente urbane, che si rivelano tra le più qualificanti in misura al valore aggiunto che ne acquisisce lo spazio pubblico nel suo complesso. Perché, è mediante solo lo spazio pubblico (o gli spazi pubblici) che si origina nei confronti di un luogo quel senso di appartenenza generato da pratiche di condivisione ed utilizzo. In quanto l'appartenenza ad un luogo si manifesta come partecipazione attiva da parte di una comunità, che elegge quel luogo sia come spazio prediletto e privilegiato per l'incontro e il confronto sia come simbolo valoriale ed identiario; simbolo che nell'immaginario collettivo, attraverso un processo di sintesi ed astrazione condivisa, viene affermato nella sua unicità e presentato all'esterno. Questo senso di appartenenza per le città insulari, storicamente, si identifica e coincide con il porto.

Bibliografia

Bohigas O. (2002), “Barcelloona: un'esperienza urbanistica. La città Olimpica e il fronte mare”, in Mazzeri C. (a cura di), La città europea del XXI secolo: lezioni di storia urbana , Skira, Milano, pp. 70-95 Bruttomesso R. (2006), “Città-Porto. Percorsi e scenari di una strategia vincente”, in AA.VV., Lcittà-Porto, catalogo della X mostra Internazionale di Architettura di Venezia, Marsilio Editore, Genova, pp. 23-29. Carta M. (2010), “Palermo città liquida: principi e pratiche”, in Savino M. (a cura di), Waterfront d'Italia. Piani Politiche Progetti, FrancoAngeli, Milano, pp. 330-349. Colarossi P. (2010), “Prefazione”, in Selicato F., Rotondo F., Progettazione urbanistica. Teorie e Tecniche, McGrawHill, Milano, pp. XIV-XXII. De Luca G., Lingua L. (a cura di, 2012), Arcipelago Mediterraneo. Strategie di riqualificazione e sviluppo nelle città-porto delle isole, Alinea, Firenze. De Luca G., Lingua L. (2012), “Introduzione”, in De Luca G., Lingua L. (a cura di), Arcipelago Mediterraneo. Strategie di riqualificazione e sviluppo nelle città-porto delle isole, Alinea, Firenze, pp. 9-16. De Luca G., Lingua L. (2012), “Le isole tra competitività globale e strategie di sviluppo locale”, in De Luca G., Lingua L. (a cura di), Arcipelago Mediterraneo. Strategie di riqualificazione e sviluppo nelle città-porto delle isole, Alinea, Firenze, pp. 207-228. Di Figlia L. (2012), “Riqualificare e rigenerare le città-porto insulari”, in De Luca G., Lingua L. (a cura di), Arcipelago Mediterraneo. Strategie di riqualificazione e sviluppo nelle città-porto delle isole, Alinea, Firenze, pp. 59-68. Giovinazzi O. (a cura di, 2007). Città portuali e waterfront urbani. Ricerca bibliografica, Edizioni Città d'Acqua, Venezia. Moroni S., Chiodelli F. (2011), “Dimensione spaziali della convivenza plurale: una ridiscussione critica dell'idea di tolleranza", in CRIOS, n. 1, pp. 55 – 66. Savino M. (2010), “Waterfronte d'Italia. Una premessa”, in Savino M. (a cura di), Waterfront d'Italia. Piani Politiche Progetti, FrancoAngeli, Milano, pp. 9-12. Staniscia S. (2012), “Island-ness”, in De Luca G., Lingua L. (a cura di), Arcipelago Mediterraneo. Strategie di riqualificazione e sviluppo nelle città-porto delle isole, Alinea, Firenze, pp. 19-25.


Spazio pubblico e rigenerazione urbana: la Darsena di Città di Ravenna come caso di studio

Spazio pubblico e rigenerazione urbana: la Darsena di Città di Ravenna come caso di studio Valentina Orioli Università di Bologna Dipartimento di Architettura Email: valentina.orioli@unibo.it Tel: +39 0547 338363 Enrico Brighi Università di Bologna Dipartimento di Architettura Email: enrico.brighi5@unibo.it Tel: +39 0547 338363

Abstract Nel dibattito contemporaneo il tema del riuso e della rigenerazione delle aree oggi escluse dalle pratiche e dalla vita urbana assume un ruolo centrale nella disciplina urbanistica e si presta ad una riflessione aperta e dalle traiettorie molteplici. Il caso della Darsena di Città di Ravenna, contesto in cui è in atto oramai da decenni un processo di dismissione del tessuto produttivo esistente, e sul quale si sono misurati dagli anni novanta vari progetti di riqualificazione urbana, si presenta come ideale terreno di sperimentazione di diverse opzioni di riuso, rigenerazione e nuova organizzazione del sistema degli spazi pubblici. Il paper intende presentare, attraverso alcune esperienze didattiche, una riflessione sulle mutate prospettive entro cui si inscrivono oggi i progetti di recupero urbano - dalla riqualificazione alla rigenerazione sottolineando il ruolo positivo che il progetto dello spazio pubblico, declinato con atteggiamenti e stili differenti, può assumere in questo processo. Parole chiave aree dismesse, spazio pubblico, rigenerazione urbana

Introduzione La Darsena di Città di Ravenna è un comparto esteso per 136 ha attorno al canale Candiano, ad est del centro storico della città, dal quale è separato dalla linea ferroviaria. Questo vasto sito industriale e portuale oggi in buona parte dismesso o sottoutilizzato rappresenta un ideale terreno di sperimentazione di diverse opzioni di riuso e strategie di rigenerazione urbana. Il tema è stato proposto agli studenti del Laboratorio di sintesi finale in Urbanistica attivato alla Facoltà di Architettura dell’Università di Bologna nell’anno accademico 2010/2011. L’esperienza didattica, condotta da chi scrive con il contributo di vari docenti della Facoltà, 1 insieme alle tesi di laurea che ne costituiscono l’esito, è la cornice entro la quale si inscrivono – e dalla quale hanno tratto alimento – le considerazioni esposte in questo paper.

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Coordinato da Valentina Orioli con la collaborazione di Enrico Brighi (Urbanistica), il Laboratorio ha visto la partecipazione dei docenti Piero Secondini (Analisi urbana e territoriale), Roberto Gabrielli (Pianificazione territoriale), Valter Balducci (Composizione architettonica e urbana), Federica Dalmonte (Composizione architettonica e urbana) e il contributo di Giovanni De Marchi, Maurizio Mancini, Giovanna Mattioli, Edoardo Preger, Leonardo Rossi. Lo hanno frequentato gli studenti: Samuele Bendoni, Valentina Bisacchi, Elisa Bottan, Ruben Casadei, Gian Paolo Franceschini, Mirko Marescotti, Francesca Spada, Chiara Squadrani.

Valentina Orioli, Enrico Brighi

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Spazio pubblico e rigenerazione urbana: la Darsena di Città di Ravenna come caso di studio

Ravenna e la darsena: alcuni cenni storici La città di Ravenna ha una storia di profonde trasformazioni, legate alle sensibili modificazioni fisiografiche che ne hanno interessato il sito fino dalla fondazione, in età preromana. 2 Le metamorfosi successive attraverso cui, da «città di acque correnti» situata al centro di una laguna viva, Ravenna si è trasformata nell’attuale «città di terra», testimoniano di una secolare fissità della forma urbana, a fronte di continue mutazioni del quadro ambientale (Giovannini, Ricci, 1985). Alla relativa invarianza della forma urbis, che si manifesta nella sostanziale permanenza del tracciato delle mura dalla dominazione di Teodorico alla seconda metà dell’Ottocento, fa da contrappunto una considerevole quantità di progetti e sperimentazioni sul reticolo idrografico e il complesso sistema idraulico urbano e territoriale, 3 in cui si inserisce anche la costruzione di porto Corsini, intrapresa a partire dal 1735. Il porto, collegato al centro urbano attraverso un ampio canale navigabile, avrebbe dovuto rilanciare Ravenna come scalo principale nello Stato Pontificio, anche se il suo effettivo sviluppo risale al periodo post unitario. Con l’unificazione nazionale e la costruzione della rete ferroviaria, porto Corsini diviene infatti uno dei luoghi strategici per l’economia locale, sia come scalo commerciale che come prima meta del turismo balneare. Il suo riconoscimento come “porto nazionale”, nel 1860, costituisce la premessa alle opere di allargamento del canale della darsena e di sistemazione delle banchine intraprese dal 1870. A partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento si insediano lungo il canale Candiano, nei pressi della stazione ferroviaria dove già si è stabilita la dogana, una serie di opifici e magazzini come la raffineria di zolfo Almagià, uno iutificio, alcuni stabilimenti cerealicoli a vapore, una fonderia, un cantiere navale, ecc. Fra le due guerre mondiali e nei primi decenni del secondo dopoguerra lo sviluppo delle aree attorno alla darsena si fa sempre più intenso, fino a configurare una vasta zona dal carattere industriale e commerciale, con prevalenza delle funzioni industriali e petrolchimiche sulla sponda sinistra e concentrazione delle attività di produzione e stoccaggio legate all’agricoltura sulla sponda destra, dove fissa la propria sede anche la CMC (Cooperativa Muratori e Cementisti). Se già fra il 1936 e il 1951, nonostante la guerra, la città era stata interessata da una rilevante crescita demografica, dal secondo dopoguerra la presenza del porto si conferma fattore trainante della crescita urbana, e come tale diviene uno dei temi centrali della pianificazione urbanistica comunale, che da questo periodo in avanti riflette in modo esemplare stili e temi che attraversano il dibattito nazionale (Gabellini, 1996; Gabellini, 2010). A partire dal PRG 1942, di Domenico Filippone, 4 e fino alla fine degli anni sessanta quando si esaurisce il rapporto fra la municipalità e Ludovico Quaroni, 5 la riflessione su Ravenna e il suo porto si sviluppa nella direzione di un progressivo potenziamento delle funzioni produttive e commerciali, e con un ottimistico sbilanciamento delle previsioni insediative sulla scia della fortuna industriale della città, quasi ad immaginare una “Rotterdam dell’Adriatico”. E’ dalla fine degli anni sessanta, con l’affidamento del ruolo di consulente generale a Marcello Vittorini e l’istituzione dell’Ufficio di Piano presso il Comune, che ha inizio un processo di ridimensionamento, e progressiva precisazione e riduzione delle previsioni di sviluppo, 6 che ha il suo culmine negli anni novanta, quando il crollo del gruppo Ferruzzi segna per l’intera città la definitiva transizione verso una diversa situazione socio-economica. In queste mutate condizioni di contesto la darsena si propone come un terreno di sperimentazione urbanistica cruciale per il futuro, divenendo il comparto per eccellenza, lo spazio nel quale sperimentare ipotesi progettuali di riqualificazione e di trasformazione di un tessuto urbano la cui funzione originaria è ormai profondamente messa in discussione.

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Il sito in cui sorge Ravenna è stato abitato probabilmente fin dal VII sec. a. C., quando le popolazioni dell’entroterra hanno iniziato a spingersi verso la laguna e la costa, per raccogliere sale e avere contatti con altri popoli mediterranei. Nonostante non sia documentato uno “strato” etrusco, il toponimo “Ravenna” è comunque ritenuto di origini etrusche, e il più antico reperto archeologico rinvenuto in città è una statuetta votiva del VI sec. a. C, depositata come offerta da un abitante di Volsinii. 3 La cartografia storica offre una ricca testimonianza circa le trasformazioni del territorio ravennate e del delta padano e i progetti idraulici che lo hanno interessato. Cfr. in proposito i lavori di P. Fabbri. 4 La municipalità di Ravenna aveva affidato la redazione del Piano regolatore generale all’architetto Domenico Filippone nel 1942. A questo PRG è dedicato un articolo in “Urbanistica”, n. 1-2, 1944. Nel 1946, poiché Ravenna era stata inserita nel quarto elenco dei comuni danneggiati dalla guerra e tenuti ad elaborare un Piano di ricostruzione, lo stesso Filippone riceve anche questo incarico. Il Piano di ricostruzione non riguarda direttamente la zona del porto, per la cui ricostruzione viene confermato il progetto del PRG 1942. I documenti dei piani elaborati da D. Filippone sono consultabili nel sito www.rapu.it. 5 Fra il 1956 e il 1966 viene elaborato un nuovo PRG da Ludovico Quaroni con Paola e Claudio Salmoni, Pier Luigi Giordani e Adolfo De Carlo, le cui numerose versioni sono in parte consultabili nel sito www.rapu.it. 6 Tale processo si articola in tre successive varianti generali al PRG, del 1973, 1983 e 1993, nelle quali sono costanti il coinvolgimento dell’Ufficio di Piano e la figura di consulente di Marcello Vittorini (Vittorini M., 2005: 11-58). Valentina Orioli, Enrico Brighi

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Spazio pubblico e rigenerazione urbana: la Darsena di Città di Ravenna come caso di studio

Progetti urbanistici per la Darsena di Città La nuova storia urbanistica della Darsena di Città di Ravenna ha inizio nel 1995, quando viene approvato un Programma di Riqualificazione Urbana il cui progetto generale si deve ancora a Marcello Vittorini. In sintonia con gli orientamenti che privilegiano le qualità del progetto all’astrattezza dei piani tradizionali, questo PRU sperimenta un’idea di recupero che aspira a superare la mancanza di definizione formale propria dell’urbanistica delle zone nella direzione di una precisa attenzione alla morfologia urbana e in particolare alla continuità e all’articolazione del verde e dello spazio pubblico (Comune di Ravenna, 1997). L’area della Darsena di Città è quindi oggetto di un’operazione di ri-disegno urbano, basato su una griglia che deriva dai tracciati già presenti e individua una serie di isolati dalle dimensioni variabili e dalla funzione mista, stabilita secondo tre fasce caratterizzate dal progressivo decrescere della quantità destinata a residenza.7 Questo piano, che prevedeva la realizzazione di circa 330.000 mq di superficie utile complessiva, ha permesso l’attuazione di alcune opere quali il parco di Teodorico, il trasferimento dello scalo merci, l’acquisto e il recupero da parte del Comune dell’ex magazzino Almagià; la delocalizzazione della dogana nella sede attuale, e vari interventi migliorativi nei tessuti residenziali limitrofi all’area. Un aspetto innovativo del PRU consiste nella relazione fra le aree della cosiddetta 'cintura verde', poste attorno all’abitato di Ravenna, e le aree di riqualificazione interne alla Darsena: ai proprietari delle aree verdi di cintura il PRU accorda una capacità edificatoria da trasferire all’interno del comparto della Darsena, la cui attuazione è prevista in buona parte attraverso piani particolareggiati di subcomparto di iniziativa privata. Questo meccanismo, con tutte le connesse difficoltà di natura giuridicoamministrativa, con un assetto proprietario frammentato e un disegno urbano rigido, ha di fatto reso particolarmente difficoltosa l’attuazione del processo di riqualificazione urbana, salvo alcune realizzazioni. L’affidamento a Stefano Boeri di un incarico di consulenza al masterplan da parte della municipalità ha in seguito permesso ulteriori esplorazioni progettuali (2004), che hanno messo in luce le opportunità e il potere strutturante di un approccio che accorda il primato al disegno unitario del verde e dello spazio pubblico, facendo emergere ulteriori temi, come il ricorso ad edifici alti distribuiti lungo il waterfront e la necessità di un sistema di connessione con il centro della città in grado di superare la barriera infrastrutturale costituita dalla ferrovia. 8 In sintonia con i progetti dello studio Boeri, il POC tematico della Darsena (che è tuttora in corso di elaborazione, ma che ci è stato presentato nelle sue linee essenziali nel corso del 2011), riprende alcuni temi, come il trattamento unitario e continuo del verde pubblico lungo la riva destra e la definizione di due waterfront continui e caratterizzati da edifici che si sviluppano in altezza, come landmark per il nuovo distretto urbano. Questa opzione a favore dello sviluppo verticale appare motivata dal sensibile aumento delle quantità edificatorie, 9 che si deve alla necessità di coprire gli elevatissimi costi di bonifica dei siti ex industriali e soprattutto delle acque del canale Candiano.10 Il tema degli oneri derivanti dalla bonifica è in effetti la questione cruciale attorno alla quale si sono arenati tutti i progetti che, dal 1995 in poi, sono stati proposti per la riqualificazione della Darsena di Città manifestando una condivisibile aspirazione all’unitarietà di approccio, in particolare per quanto riguarda la qualificazione dello spazio pubblico urbano.

Questioni aperte L'incompleta riqualificazione del comparto della Darsena ci consegna oggi un ambito assai vasto ed eterogeneo, con proprietà nelle quali sono ancora attive imprese a carattere artigianale e industriale, con edifici residenziali e per servizi nuovi o ristrutturati, ed edifici ex industriali ormai in abbandono, dei quali buona parte della cittadinanza chiede la conservazione ed il recupero.11 Una vasta area che possiede le potenzialità di una 'cerniera' fra la città storica di Ravenna, meta di turismo per i monumenti che sono stati riconosciuti patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, ma anche sede universitaria e di importanti istituzioni culturali, e il litorale, la cui vocazione turistica balneare è stata confermata e potenziata da recenti progetti di sviluppo, come la darsena di Marinara. Da questo punto di vista il recupero della Darsena di Città è certamente il progetto strategico

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Una sintesi dei contenuti del PRU è consultabile in http://www.ladarsenachevorrei.comune.ra.it/Documenti/Gli-strumentiurbanistici/Il-Programma-di-Riqualificazione-Urbana-P.R.U.-Darsena-di-Citta, consultato il 3.4.2013. 8 Si veda http://www.stefanoboeriarchitetti.net/?p=2143&lang=it, consultato il 3.4.2013. 9 Secondo le analisi eseguite con gli studenti del Laboratorio, relative alla versione da noi conosciuta del POC tematico, la superficie utile complessiva sarebbe pari a circa 450.000 mq. 10 Per la bonifica delle acque del Candiano, nelle quali recapitano le reti fognarie cittadine, è prevista la realizzazione di due enormi vasche di tempesta, collocate in destra e in sinistra del canale, con un investimento che alcuni anni fa è stato stimato pari a circa 60 milioni di euro per la sola costruzione delle vasche e bonifica dei fondali. 11 Istanza recepita dal Comune di Ravenna che ha esteso la lista degli edifici da conservare, aggiungendo a quelli notificati dalla Soprintendenza come «archeologia industriale» una serie di edifici definiti di «valore documentario». Valentina Orioli, Enrico Brighi

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attraverso cui può essere possibile reperire spazi e dotazioni necessari ad un futuro sviluppo sempre più orientato a fare di Ravenna una meta internazionale del turismo culturale, balneare e anche rurale e naturalistico. 12 A fronte dell’attuale impossibilità ad attuare un progetto unitario, le questioni sulle quali la Darsena di Città interroga urbanisti e amministratori consistono: nel superamento dell’attuale condizione di marginalità – sia funzionale e fisica che percepita – che dipende dall’abbandono degli edifici, dalla difficile accessibilità dei luoghi urbani, circondati dai recinti e dalle mura che segnano i confini doganali, ma anche dalla presenza di fasci di infrastrutture difficilmente penetrabili come quella ferroviaria; nella messa a punto di un approccio complessivo ai problemi ambientali, quali le bonifiche dell’acqua e del suolo, ma anche la mitigazione degli effetti dei comparti produttivi che si estendono fra la Darsena di Città ed il mare; nella elaborazione di una strategia progettuale capace di adattarsi ai diversi livelli d’uso attuali delle proprietà e alla loro variazione nel corso del tempo; nella formalizzazione partecipata e condivisa di una serie di ipotesi di riuso e/o recupero dei contenitori storici presenti nell’area, che possa costituire il punto di partenza per la costruzione di una rete di luoghi ed edifici pubblici dalla valenza identitaria.

Tre tracce Rispetto a queste tematiche, la cui enunciazione dimostra una comunanza di condizioni rispetto a molti altri contesti, la sperimentazione didattica condotta ha esplorato tre diverse tracce progettuali, esplicitate in altrettante tesi di laurea, tutte accomunate dalla tensione a concretizzare una precisa qualità dello spazio urbano, l’essere 'abitabile'. Il titolo stesso del Laboratorio, La città e le case. L’urbanistica e lo spazio dell’abitare, suggeriva di affrontare il tema specifico della trasformazione della Darsena di Città di Ravenna ponendo particolare attenzione non soltanto alla costruzione del tessuto residenziale, ma anche in senso più ampio alla questione dell’'abitabilità' della città, che «avvicina ai luoghi e alla loro irriducibile dinamica interna (quella che le ragioni funzionali non riescono a spiegare completamente)» (Gabellini, 2010: 22). La prima tesi, Waterfront di città, torna ad esplorare le potenzialità di un approccio 'classico' (e in quanto tale complessivo e sistematico) alla riqualificazione urbana. A partire da un confronto con i piani già elaborati per la darsena, e con le relative quantità, questo lavoro approfondisce in particolare i temi della connessione con l’intorno urbano e il centro, del recupero degli edifici industriali dismessi o in corso di dismissione, della struttura e della qualità degli spazi pubblici e di relazione. In continuità con le considerazioni svolte in Laboratorio, il progetto assume quali punti di partenza la necessità di una radicale revisione del sistema ferroviario ravennate, che permetta lo spostamento del piccolo edificio della stazione in un’area più idonea, la riduzione degli attuali fasci di binari e l’interramento della strada posti fra il centro urbano e la darsena e l’individuazione del tracciato di una linea di trasporto pubblico su ferro fra la stazione e la darsena, e la bonifica del Candiano mediante la tura del canale e la diversione delle fognature. Se la 'partenza' che si ribadisce necessaria è dunque ancora la realizzazione di importanti opere pubbliche, lo sviluppo del progetto è affidato alla dialettica fra il recupero dei più interessanti edifici industriali dismessi, cui viene attribuito il ruolo di contenitori di funzioni pubbliche e commerciali, e la costruzione di un nuovo tessuto che integra e 'riammaglia' le preesistenze permettendo di configurare due waterfront dal diverso carattere (quello lungo la riva sinistra, più 'naturale', e quello di destra, decisamente 'urbano'), in un’ottica di complessiva attenzione ai temi della sostenibilità ambientale e della 'abitabilità' dei luoghi urbani riconfigurati. Il riferimento ideale di questo progetto all’esperienza di Hafencity ad Amburgo chiarisce la logica entro cui le autrici hanno redatto un masterplan unitario, immaginando di costruire un quadro di coerenza nel quale la trasformazione della città potesse avvenire per fasi, in modo progressivo e con diversi apporti progettuali, seppure salvaguardando l’unitarietà del sistema connettivo del verde e degli spazi pubblici.

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Ravenna è candidata a Capitale europea della cultura per il 2019. Questo orizzonte temporale è stato assunto all’interno del Laboratorio quale traguardo rispetto al quale ipotizzare il conseguimento di obiettivi intermedi di recupero e rigenerazione dell’area della Darsena.

Valentina Orioli, Enrico Brighi

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Spazio pubblico e rigenerazione urbana: la Darsena di Città di Ravenna come caso di studio

Figura 1. E. Bottan, F. Spada, Piano di riqualificazione urbana della Darsena di Città a Ravenna: planivolumetrico e schemi dei tracciati generatori e del sistema del verde.

Se la prima traccia progettuale esplorata è dunque ancora un percorso che mette alla prova le possibilità di riqualificare stabilendo il primato dello spazio pubblico, la seconda tesi, Isolati aperti, muovendo da analoghe premesse circa la necessità di trasformare le reti del trasporto pubblico e della viabilità intorno all’area, e di bonificare le acque del Candiano, lavora sull’opportunità di fare della Darsena di Città un comparto dalla precisa vocazione sociale, distribuendo all’interno dell’area una elevata quantità di alloggi di Edilizia Residenziale Pubblica e Sociale. La scelta di concentrare entro il comparto una quantità significativa rispetto alla previsione del Piano Casa del Comune di Ravenna corrisponde ad una possibile strategia di 'attivazione' dell’area, nella quale l’housing sociale si distribuisce in modo omogeneo in tutti i comparti residenziali, in modo da favorire quanto più possibile il mix e una offerta ampia e articolata di alloggi. 13 La tesi approfondisce la realizzazione di un frammento, il comparto di proprietà della CMC, che si sviluppa in senso ortogonale al Candiano, dalla banchina destra fino a via Trieste. Tale comparto è stato individuato come strategico rispetto all’attivazione dell’area perché la sua attuazione permetterebbe di connettere i quartieri PEEP presenti a sud della Darsena con la banchina e con interventi già realizzati, fra cui il grande edificio residenziale progettato da Cino Zucchi, che oggi appare isolato in una zona produttiva ancora parzialmente attiva. Il progetto, che ridisegna un brano di città in forma di open block, propone il riuso dell’edificio di valore testimoniale della CMC come sede di un farmer’s market e di altre attività commerciali, inserendolo in una continuità di verde e spazi pubblici che attraversa tutta l’area.

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Il progetto destina a ERS e ERP il 25% della superficie utile complessiva, prevedendo, in linea con le richieste dell’amministrazione, alloggi per giovani coppie e giovani famiglie e una prevalenza di alloggi in locazione, a breve e lungo termine, rispetto agli alloggi in proprietà.

Valentina Orioli, Enrico Brighi

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Figura 2. S. Bendoni, V. Bisacchi, Piano di riqualificazione urbana della Darsena di Città a Ravenna: planivolumetrico della riva urbana e schemi di distribuzione delle funzioni e degli interventi di social housing.

La terza traccia di lavoro prende le distanze rispetto ai progetti elaborati dall’amministrazione e alle stesse riflessioni condotte collettivamente in Laboratorio. La tesi, La trasformazione dello spazio urbano e delle pratiche di pianificazione, muove dalla considerazione che le dinamiche economiche legate alla riqualificazione dell’area, insieme alla frammentazione dell’assetto fondiario e alla diversità di aspettative che connota le diverse proprietà, sono fattori che oppongono una inerzia insormontabile alla trasformazione. Allo stesso tempo i progetti a carattere 'comprensivo' non considerano come punto di forza la resilienza propria del sistema urbano. Le dimensioni e la complessità del comparto suggeriscono un approccio 'per parti' e 'per fasi' capace di interpretare la pianificazione non come un processo 'chiuso' ma come attività 'aperta' a modificare ed adattare i propri obiettivi e le proprie strategie in un arco temporale esteso. A partire da questo punto di vista, e dalla partecipazione diretta al processo di pianificazione partecipata attivato sulla Darsena di Città nel 2011,14 la tesi sviluppa una strategia di progetto basata su due livelli: una 'maglia rigida', costituita da alcuni interventi considerati imprescindibili (come l’eliminazione della barriera ferroviaria) ed una 'rete flessibile' di interventi adattativi e reversibili che possano contribuire alla riattivazione dell’area funzionando più come banco di prova che come attività progettuali dall’esito certo. Un esempio di questi interventi è la promozione di utilizzazioni temporanee degli edifici di archeologia industriale, con la finalità di incentivare l’appropriazione ed una sempre maggiore conoscenza degli spazi della Darsena da parte della cittadinanza. La promozione di attività flessibili ed eventi spot da organizzare periodicamente nell’area e l’incentivazione di pratiche già presenti in modo informale, come la coltivazione di orti urbani, costruiscono nell’insieme una strategia di appropriazione leggera, che può consolidarsi nel tempo aumentando la capacità attrattiva della Darsena di Città e forse contribuendo ad innescare quei processi economici che oggi bloccano la piena attuazione del progetto.

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Il Comune di Ravenna ha avviato un percorso di pianificazione partecipata sulla Darsena di Città la cui prima fase si è svolta da settembre a dicembre 2011, articolata in focus group, passeggiate di quartiere e workshop tematici.

Valentina Orioli, Enrico Brighi

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Spazio pubblico e rigenerazione urbana: la Darsena di Città di Ravenna come caso di studio

Figura 3. R. Casadei, G. Franceschini, Piano di riqualificazione urbana della Darsena di Città a Ravenna: strategie di progetto.

Conclusioni Pur con i limiti propri delle esperienze didattiche, le tracce progettuali presentate suggeriscono alcune considerazioni che riguardano contenuti e strategie applicabili a progetti complessi qual è quello della Darsena di Città a Ravenna. La prima questione è il focus sullo spazio pubblico, cui tutti i progetti attribuiscono un fondamentale ruolo strutturante: nel primo caso, secondo un’accezione più tradizionale, che fa del disegno unitario e dell’attenzione ai caratteri e alle peculiarità dei diversi luoghi urbani il proprio punto di forza; nelle altre due tracce, secondo un punto di vista che si sposta dai luoghi agli attori/fruitori, siano essi i destinatari del social housing o i cittadini 'animatori' di spazi urbani in attesa di una nuova identità. Mostrando in modo molto chiaro una concezione dello spazio pubblico come ossatura del progetto urbano, questi lavori aprono interrogativi sui caratteri e sullo stesso significato che gli spazi pubblici possono svolgere nella città contemporanea: da luoghi configurati attraverso i materiali e le tecniche del disegno urbano, a spazi abitati in continuità rispetto ad un progetto sociale che immagina nuove abitazioni, a territori di una condivisione informale, dai tratti variabili nello spazio e nel tempo (Bianchetti, 2011). La seconda questione riguarda le possibili strategie di progetto. Ogni lavoro esplora una percorso, cercando coerenza con le proprie premesse. Le tre tracce insieme disegnano una traiettoria che può essere letta a sua volta come embrione di una strategia composita, capace di tenere assieme l’approccio più tradizionale, 'pesante', del progetto urbanistico che impone e disegna alcune invarianti della trasformazione urbana, ed un approccio più 'leggero', flessibile e reversibile, soggetto alla temporalità e capace di reagire 'in corsa' ad eventuali a mutamenti di strategia. La complessità delle condizioni urbane contemporanee sembra invocare questa complementarietà di azioni, che non è affatto scontata, perché non sembra poter prescindere dal ruolo attivo del pubblico, che le attuali condizioni economiche e politiche sembrano pregiudicare, ma anche perché implica un adattamento – di ordine Valentina Orioli, Enrico Brighi

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culturale e tecnico – della strumentazione urbanistica, dalla prospettiva della riqualificazione urbana verso il più ampio e complesso set di politiche e di azioni che oggi comprendiamo con il termine 'rigenerazione'.

Bibliografia

Bendoni S., Bisacchi V. (2011), Isolati aperti. Riqualificazione urbana e housing sociale nella Darsena di Città a Ravenna, Università di Bologna, Facoltà di Architettura “Aldo Rossi”, Tesi di laurea in Urbanistica, relatore V. Orioli, correlatore V. Balducci. Bianchetti C. (2011), Il Novecento è davvero finito. Considerazioni sull'urbanistica, Donzelli, Roma. Bottan E., Spada F. (2011), Waterfront di città. Rigenerazione urbana e progetto degli spazi pubblici nella Darsena di Ravenna, Università di Bologna, Facoltà di Architettura “Aldo Rossi”, Tesi di laurea in Urbanistica, relatore V. Orioli, correlatore E. Brighi. Casadei R., Franceschini G. P. (2011), La trasformazione dello spazio urbano e delle pratiche di pianificazione. La Darsena di Città di Ravenna come caso di studio, Università di Bologna, Facoltà di Architettura “Aldo Rossi”, Tesi di laurea in Urbanistica, relatore V. Orioli, correlatori E. Brighi, S. Proli. Comune di Ravenna (1997), Programma di riqualificazione urbana della Darsena di città, "Urbanistica quaderni", a. III, n. 13. Gabellini P. (1996), Il disegno urbanistico, NIS, Roma. Gabellini P. (2010), Fare urbanistica. Esperienze, comunicazione, memoria, Carocci, Roma. Giovannini C., Ricci G. (1985), Ravenna, Laterza, Roma-Bari. Fabbri P. (1994), Le trasformazioni della costa tra il Po e l'Appennino sulla base della documentazione cartografica d'età moderna, Clueb, Bologna. Vittorini M. (2005), I Piani Regolatori di Ravenna, in Le Carte del Gufo. Ravenna nel Novecento. Urbanistica, economia, società, Longo, Ravenna.

Sitografia

Piano regolatore generale di Ravenna, Domenico Filippone. - 1945, disponibile su RAPu (Rete Archivi Piani Urbanistici), Catalogo, Domenico Filippone, Piano regolatore generale di Ravenna http://www.rapu.it/ricerca/scheda_piano.php?id_piano=214 Piano regolatore generale di Ravenna, Ludovico Quaroni. - 1962, disponibile su RAPu (Rete Archivi Piani Urbanistici), Catalogo, Ludovico Quaroni, Piano regolatore generale di Ravenna http://www.rapu.it/ricerca/scheda_piano.php?id_piano=217 Il Programma di Riqualificazione Urbana (P.R.U.) “Darsena di Città”, disponibile su Comune di Ravenna, La Darsena che vorrei, Documenti, Gli strumenti urbanistici, Il Programma di Riqualificazione Urbana (P.R.U.) “Darsena di Città” http://www.ladarsenachevorrei.comune.ra.it/Documenti/Gli-strumenti-urbanistici/Il-Programma-diRiqualificazione-Urbana-P.R.U.-Darsena-di-Citta Masterplan "Darsena di città", Stefano Boeri. - 2004, disponibile su Stefano Boeri Architetti, Projects, Categories, Masterplan, "Darsena di città" http://www.stefanoboeriarchitetti.net/?p=2143&lang=it

Valentina Orioli, Enrico Brighi

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Spazio pubblico e sicurezza. Le relazioni tra la pianificazione urbanistica e la prevenzione del crimine.

Spazio pubblico e sicurezza. Le relazioni tra la pianificazione urbanistica e la prevenzione del crimine Sarah Chiodi Politecnico di Torino Dist - Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio Email: sarah.chiodi@polito.it

Abstract La progettazione urbanistica non è in grado di intervenire sulle cause endemiche della criminalità, ma può contribuire alla riduzione di alcuni fattori di rischio sociale, condizionando la forma e gli usi dello spazio pubblico secondo il concetto di Crime Prevention Through Environmental Design (CPTED). Facendo cenno ai precursori delle teorie di prevenzione ambientale del crimine attraverso la progettazione, esponiamo una sintesi storica delle teorie più note. Si espone di seguito una breve disamina delle recenti applicazioni di queste teorie in Europa, quale ambito di riferimento principale per l’Italia e le più recenti innovazioni normative. In conclusione, proponiamo una riflessione sulle potenziali implicazioni della sicurezza nel sistema ordinario di pianificazione urbanistica in Italia. Parole chiave sicurezza, progettazione urbanistica, Crime Prevention Through Environmental Design (CPTED)

Introduzione Quali contributi possono offrire le discipline dell’architettura e dell’urbanistica alla sicurezza urbana? Il quadro di riferimento è molto ampio, anche se l’argomento è limitatamente trattato in Italia, dove pochissime realtà universitarie e di ricerca lavorano sul tema della prevenzione ambientale del crimine nell’urbanistica1. Ciò nonostante, la prevenzione del crimine nell’urbanistica è un tema oggi 'normato' a livello europeo e diffuso in molti paesi del mondo. La letteratura ci offre una consolidata suddivisione dei più recenti approcci di prevenzione del crimine in alcune grandi tipologie: la prevenzione sociale, la prevenzione comunitaria e la prevenzione situazionale (Barbagli, Gatti, 2005; Selmini, 2004). La prevenzione sociale e quella comunitaria si focalizzano sui fattori socio-ambientali che sono causa dell’azione criminale. Cause sociali di varia tipologia condizionano il comportamento del soggetto che, comunque in relazione a fattori individuali, sarà più o meno propenso a compiere un’azione criminale. La prevenzione sociale intende agire sui fattori causali legati al disagio sociale, all’occupazione giovanile, all’istruzione ecc. In particolare, la prevenzione comunitaria comprende tutte quelle strategie mirate a sostenere la partecipazione dei cittadini alla prevenzione (Selmini, 2011): dall’animazione territoriale, alla sorveglianza naturale, al sostegno familiare e delle strutture religiose ecc. La prevenzione sociale può anche riguardare il contesto fisico, con interventi rivolti ad un miglioramento complessivo della qualità della vita degli abitanti, come la riqualificazione dell’arredo urbano. (Farruggia, Ricotta, 2008). La prevenzione situazionale, invece, non tiene in conto dei condizionamenti socio-ambientali sul soggetto, ma solo della componente fisico-ambientale, riducendo le potenziali opportunità di compiere crimini e aumentando i 1

Forse, l’unico centro di ricerca che affronta operativamente il tema della sicurezza nell’urbanistica è il Laboratorio Qualità Urbana e Sicurezza del Politecnico di Milano. Un altro importante centro di matrice criminologica e sociologica è Transcrime (Università di Trento), accanto agli studi di carattere sociologico sulla sicurezza svolti dall’Università di Firenze (facoltà di architettura) attorno al prof. G. Amendola. Si ricorda infine l’attività di ricerca e promozione svolta dal Forum Italiano per la Sicurezza Urbana (FISU) attorno al tema della sicurezza urbana.

Sarah Chiodi

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rischi per gli autori. L’azione preventiva situazionale si concentra su misure di sorveglianza meccanica o naturale, sulla configurazione dello spazio fisico, sull’illuminazione, su sistemi di allarme di varia tipologia ecc. La prevenzione del crimine attraverso la pianificazione urbanistica, come qui la intendiamo, si colloca nel mezzo, avvicinandosi alla prevenzione situazionale o a quella sociale, a seconda dell’ambito di intervento. Più opportunamente dovremo parlare di prevenzione ambientale (Acierno, 2003) o di prevenzione 'place based' 2 (Schneider, Kitchen, 2007), comprendendo l’azione preventiva sia sulla componente fisica dell’ambiente, sia attraverso alcune componenti dell’ambiente socio-comunitario.

I precursori delle teorie di prevenzione ambientale del crimine I primi precursori dell’approccio ambientale alla sicurezza sono i ricercatori della Scuola di Chicago, che si sviluppò nei primi decenni del XX secolo. R. Park, E. Burgess, R. McKenzie (1938) espongono una teoria ecologica della criminalità, che si basa sulle relazioni individuate tra criminalità e ambiente in alcuni quartieri di Chicago. L’ambiente (inteso soprattutto come contesto sociale) è riconosciuto il responsabile dei comportamenti devianti e su di esso si ritiene necessario agire per poter prevenire la criminalità locale. Elisabeth Wood non condividendo la visione separatista imposta dalle politiche federali del dopoguerra ai progetti della CHA3, sviluppò un’articolata teoria a sostegno dell’integrazione razziale, mirata a ridurre la criminalità e la povertà urbana nei quartieri di edilizia residenziale pubblica. La sua Social Design Theory (Wood, 1961) si basa sull’idea che un’attenta pianificazione urbanistica possa contribuire alla vivibilità dei quartieri popolari, allo sviluppo delle relazioni sociali e alla prevenzione della criminalità. La progettazione dello spazio pubblico e semi-pubblico intorno alle case è ritenuto essenziale: ad esempio garantendo la presenza di spazi per lo sport, il tempo libero e il gioco, che siano ben visibili dagli edifici circostanti; il semplice disegno delle panchine può favorire la socializzazione e il controllo spontaneo, se ben pensato; le attrezzature devono essere a 'prova di vandalo'.

Figura 1. Un’esemplificazione progettuale di prevenzione ambientale del crimine per gli spazi pubblici (Wood, 1961)

Jane Jacobs, giornalista nota per la sua influenza sugli studi urbani, pubblicò un testo di larga fama sulle grandi città americane (1961), introducendo importanti concetti sociologici. È considerata dalla letteratura l’ispiratrice dell’approccio ambientale alla sicurezza, inteso come pratica preventiva orientata ad intervenire sulla pianificazione urbanistica. Il testo muove un’aspra critica contro gli attuali metodi di pianificazione e di ristrutturazione urbanistica moderna, che hanno portato alla realizzazione di «complessi di case popolari che diventano centri di criminalità, di vandalismo e di disgregazione sociale senza rimedio» (Jacobs, 2000: 3). Contesta i principi della zonizzazione

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Possiamo tradurre il termine di prevenzione 'place based' come prevenzione locale, facendo riferimento alle caratteristiche ambientali (fisiche e comunitarie) del contesto specifico entro in quale si intende agire. La Chicago Housing Authority (CHA), di cui Elisabeth Wood fu il direttore esecutivo, è un’associazione no-profit gestita da commissari nominati dal sindaco, ancora oggi esistente.

Sarah Chiodi

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tanto quanto il modello dell’unità di vicinato, considerandoli motivi della disgregazione del tessuto sociale urbano, cui consegue uno scarso controllo informale sullo spazio pubblico. Il rimedio fondamentale suggerito per la sicurezza è 'la diversità di usi', cui conseguono la vitalità delle città e la sicurezza urbana. La vitalità, infatti, implica una sorveglianza spontanea che garantisce un controllo naturale sulla città, gettando 'gli occhi sulla strada '.

Teorie e pratiche di prevenzione ambientale del crimine Il concetto di prevenzione ambientale del crimine deriva letteralmente dal testo del criminologo americano C.R. Jeffery, Crime Prevention Through Environmental Design (1971), in critica al sistema della giustizia penale coevo, basato sulla punizione anziché sulla prevenzione. Il testo si fonda sulla 'teoria comportamentista' dell’apprendimento operante formulata da Skinner (1938). Secondo lo psicologo americano ogni comportamento prende forma sulla base degli stimoli ambientali e può scaturire un rinforzo o una punizione al compimento di un’azione criminosa. Secondo questa visione si è dedotto che manipolando l’ambiente in modo adeguato sia possibile indurre nel soggetto reazioni specifiche. Jeffery (1990) nei suoi lavori più recenti propone un approccio interdisciplinare all’analisi del comportamento criminale, basato sull’interazione tra il patrimonio genetico, la struttura e le funzioni del cervello e l’apprendimento sociale, e si avvicina ad una concezione della criminologia di tipo 'biologico', sostanzialmente di matrice positivista4. Il concetto di CPTED che oggi è diffuso ignora totalmente le idee di Jefferey (Robinson, 1999); è opportuno, quindi, lasciar decadere il termine CPTED in riferimento al testo originale. Oscar Newman è il primo architetto ad occuparsi di prevenzione ambientale del crimine. La sua teoria di Defendible Space (1972) è il risultato di una ricerca condotta nel 1969 per il NILECJ5, orientata a valutare le relazioni tra ambiente fisico e rischio di vittimizzazione criminale (Wallis, 1980). Dallo studio6 di Newman alcuni caratteri fisici sembrano ripetersi nelle arre più insicure: edifici alti, densamente abitati, senza gerarchie funzionali e senza alcun rapporto con la strada. Grazie all’applicazione dei principi di Defendible Space (realizzazione di strade chiuse, controllo degli accessi, chiara suddivisione degli spazi, limitazione degli attraversamenti ecc.) alcuni quartieri7 mostrarono un complessivo miglioramento delle condizioni di vita8, la riduzione significativa dei tassi di criminalità9 e la riappropriazione e la cura da parte degli abitanti dei propri spazi di vita10. Alice Coleman, geografa inglese, basandosi sul lavoro di Oscar Newman, svolge alcune ricerche11 nella periferia londinese degradata, mirate a dimostrare il rapporto tra design urbanistico e comportamenti devianti. Il suo lavoro, decritto nel libro Utopia on Trial. Vision and Reality in Planned Housing (1985), cerca di verificare con un metodo scientifico le influenze dello spazio fisico sul comportamento umano, prendendo in considerazione le statistiche criminali, numerose interviste agli abitanti e alcuni indicatori fisici associati al degrado (la presenza di rifiuti, di atti vandalici, di escrementi, di graffiti e la concentrazione di giovani). Il testo illustra originalmente un 'processo' all’utopia modernista dell’architettura e dell’urbanistica, che hanno proposto modelli insediativi responsabili del malessere sociale e dell’insicurezza diffuse nelle periferie.

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Jeffery infatti era chiamato da molti un “neo-lombrosiano”, in riferimento alle teorie criminologiche positiviste di Cesare Lombroso (1835-1909). 5 Il National Insitute of Law Enforcement and Criminal Justice, oggi denominato National Institute of Justice (NIJ), è un’agenzia del dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti dedicata all’approfondimento della conoscenza sul crimine e alla promozione della giustizia. Svolge attività di ricerca, sviluppo e valutazione. (www.nij.gov) 6 La ricerca fu realizzata nell’area metropolitana di New York su 169 quartieri di edilizia pubblica residenziale, svolgendo interviste agli abitanti e consultando le banche dati della polizia sui reati. 7 Le teorie di Newman sono applicate con successo in molte città degli Stati Uniti, specie nei quartieri popolari ad alto tasso di criminalità, come riportato dallo stesso Newman nella nuova edizione di Creating Defensible Space, che espone nuovi casi di studio: Five Oaks, a Dayton, Ohio; Clason Point, nel South Bronx, New York; la cittadina di Yonkers a New York. 8 L’Università di Dayton, attraverso una propria indagine, rivelò che il 67% dei residenti dei mini-quartieri di Five Oaks sentiva che la qualità di vita in quell’area era migliorata. 9 I crimini violenti erano scesi del 50% a Five Oaks; furti, rapine e aggressioni scesero del 61,5% a Clacson Point. 10 I cortili inizialmente spogli si rianimavano a Yonkers: si seminava il prato, si piantavano i fiori e si intallavano griglie per il barbecue. 11 La ricerca fa capo al Land Research Unit del King’s College di Londra, unità di cui Alice Coleman era a capo. Sarah Chiodi

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Spazio pubblico e sicurezza. Le relazioni tra la pianificazione urbanistica e la prevenzione del crimine.

Figura 2. Uno schema ideale delle strade di accesso ad un mini-quartiere. (Newman, 1996: 45)

Figura 3. Suburban Utopia Rules, diagramma del concetto di A. Coleman illustrato da Gordon Beckett (apparso nell’articolo di D.Sudjik, sul 'Sunday Times', 5 Maggio, 1985)

Molti criminologi hanno sostenuto che esista un chiaro nesso tra degrado urbano e insicurezza: una delle teorie più note è quella delle Broken Windows di G.L. Kelling e J.Q. Wilson (1982). Sulla base degli esperimenti condotti dal sociologo Philiph Zimbardo nel 1969, la teoria afferma che non sia la classe sociale la causa principale del degrado, ma la presenza di 'vetri rotti' simbolo dell’incuria dei proprietari. Di conseguenza, il disordine si può propagare in un circolo virtuoso: ogni danno alla città trascurato può essere ritenuto segno della disattenzione delle autorità e quindi un invito a perpetrare azioni di vandalismo, dove il degrado e l’abbandono attirano potenziali criminali portando la città al disfacimento. (Carrer, 2003). Per poter prevenire atti criminali è importante aver cura dei propri ambienti di vita, considerandoli la propria casa; perché «untended behavior also leads to the breakdown of community controls» (Kellin, Wilson, 1982: 32). Questa teoria e fu posta alla base di molte politiche anticriminali negli Stati Uniti, compresa la politica della “tolleranza zero” promossa dall’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani. Ma altre politiche, non repressive, seguono questo approccio in Europa, ad esempio le azioni di rigenerazione urbana centrate sulla riqualificazione fisica di aree urbane per migliorarne il livello di sicurezza. (Amapola, 2012). Sarah Chiodi

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Spazio pubblico e sicurezza. Le relazioni tra la pianificazione urbanistica e la prevenzione del crimine.

Saville e Cleveland (1997) individuano una seconda generazione CPTED. Mentre la prima generazione (identificata con la prima formulazione della teoria di Newman – vedi Figura 4) si focalizza sul luogo potenziale del crimine, la seconda si concentra sull’analisi più ampia del contesto ambientale, comprendendo l’ambiente fisico, il contesto socio-culturale e politico e gli aspetti di percezione del crimine. Ad esempio, il principio di sorveglianza è considerato sia come sorveglianza informale 'naturale' (come già la intendeva Jane Jacobs), sia come sorveglianza formale ed organizzata (polizia di quartiere, guardie private) oppure di tipo meccanico (telecamere, sistemi di illuminazione). Gli autori descrivono l’utilità parziale delle singole azioni preventive, che, invece, andrebbero considerate in maniera sinergica (multiple interventions) e rafforzate dalla partecipazione attiva degli abitanti per essere completamente efficaci.

Figura 4. I concetti chiave della I generazione CPTED. (Cozens P.M., Saville G., Hillier D., 2005: 3)

Alcune teorie di prevenzione ambientale del crimine rientrano nell’alveo delle teorie criminologiche razionali sviluppate a partire dagli anni ’80. La Situonational Crime Prevention è una teoria ambientale di prevenzione del crimine ideata dallo psicologocriminologo di origine inglese12 Ronad V. Clarke. Si basa sul presupposto che il comportamento criminale sia condizionato da una serie di opportunità che possono favorire o meno un’azione offensiva. La massima congiunzione delle opportunità si verifica con il triangolo che riunisce nello stesso spazio-tempo un aggressore motivato, un facile bersaglio e l’assenza di guardia. Clarke (1997), sulla base della teoria del Rational Choice Model (Becker, 1968), sostiene che il crimine sia un comportamento intenzionale programmato per soddisfare i bisogni ordinari di chi lo commette, quali il denaro, l’eccitazione, il sesso, il prestigio ecc. Questi bisogni portano a prendere delle decisioni e a fare delle scelte condizionate da circostanze di tempo, di luogo e dalla disponibilità di informazioni. Di conseguenza, intervenendo sul contesto è possibile ridurre la possibilità che certi reati si verifichino. L’Environmental Criminology si basa sulla Crime Pattern Theory (Brantingham, Brantingham, 1993), secondo la quale le persone si muovono secondo quadri (pattern) di routine definiti che si ripetono quotidianamente, definendo il contesto entro il quale il criminale individua le proprie vittime. I quadri sono influenzati anche da fattori micro-ambientali che possono incoraggiare o scoraggiare l’azione dell’aggressore. Agendo sulle caratteristiche del luogo si può prevenire il verificarsi di talune azioni criminose, orientando la progettazione verso soluzioni su misura rispetto a problemi specifici di criminalità, che si focalizzano su nodi, percorsi, confini e altri elementi derivati dagli studi di K. Lynch (1960) e di Chapin (1974).

Le applicazioni più diffuse di prevenzione del crimine attraverso la progettazione architettonica e urbanistica in Europa Lo sviluppo dell’approccio della prevenzione ambientale del crimine nella progettazione architettonica e urbanistica avviene sostanzialmente negli anni ’80, sulla scia delle prime esperienze statunitensi e inglesi. Anche i primi studi urbani che mettono in relazione la sicurezza e la progettazione sono stati sviluppati negli Stati Uniti. Ciò nonostante, attualmente sono diffuse varie applicazioni di questo approccio (generalmente noto come CPTED, nonostante lo scollamento con la teoria originaria di Jeffery) in molti paesi oltre agli Stati Uniti e alla 12

Clarke nasce e studia in Inghilterrra, dove ha lavorato per il governo centrale, ma oggi è professore alla Rutgers University di Newark negli Stati Uniti ed è direttore del Center for Problem-Oriented Policing, che applica politiche di prevenzione comunitaria al crimine.

Sarah Chiodi

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Spazio pubblico e sicurezza. Le relazioni tra la pianificazione urbanistica e la prevenzione del crimine.

Gran Bretagna (ad esempio Olanda, Francia, Germania, ma anche Canada, Australia, Sudafrica ecc.). Alcune applicazioni consistono in misure vincolanti di sicurezza nella progettazione inserite entro un sistema normativo (leggi, regolamenti o prescrizioni di diverso livello – statale, regionale, locale), altre sono linee guida di indirizzo contenute in manuali quali supporto pratico per architetti e urbanisti, ma frequentemente entrambe le tipologie coesistono. Ad esempio in Gran Bretagna è diffuso un sistema di certificazione gestito dalla polizia denominato Secure by Design (SBD), che offre un indubbio vantaggio commerciale sul valore degli immobili e un vantaggio economico nei costi assicurativi degli edifici. Ma accanto a questo sistema prescrittivo (volontario) esistono vari manuali per la pianificazione urbanistica “sicura” pubblicati dal governo centrale e da alcune contee, tra cui Safer Places. The Planning Sistem and Crime Prevention (ODPM, 2004). In Olanda è adottato il Police Label Safe Housing, lanciato dalla polizia e dal Ministero degli Interni. Si tratta di una sorta di certificazione di qualità rilasciata per edifici o interi insediamenti che rispettano alcuni parametri di tipo architettonico-urbanistico fondamentali per la sicurezza. Il Francia il Codice nazionale dell’urbanistica prevede l’obbligo di redazione di uno studio di sicurezza (étude de sûreté et de sécurité publique - E.S.S.P.), per i grandi interventi di trasformazione urbana. In Germania sono diffuse molte tecnologie di protezione degli edifici e di sorveglianza, ma esiste anche un sistema di prevenzione sociale del crimine sostenuto da una lunga tradizione di 'polizia sociale' (Schubert, Spiekermann, Veil, 2007). L’Unione Europea, in particolare, nel 2007 ha adottato la norma13 del Comitato Europeo di Standardizzazione CEN/TR 14383-2, poi recepita in Italia come UNI nel 2010. Si rivolge ai professionisti (architetti, progettisti, ingegneri, ecc.), alle autorità locali, ai residenti e a tutti gli attori coinvolti nelle trasformazioni urbane, offrendo un ausilio pratico per prevenire il crimine. (Colquhoun, 2004). Comprende tre parti, una sulla pianificazione urbanistica, una sugli insediamenti residenziali, l’ultima sugli uffici e i negozi. La parte del lavoro che qui ci interessa è prevalentemente la seconda, di cui l’allegato D è ritenuto lo strumento più utile come supporto pratico per i progettisti: introduce una lista di “principi generali” e una check list di indicazioni pratiche su tre livelli di intervento (la pianificazione, il disegno urbano e la gestione degli spazi). (Cardia Bottigelli, 2011) Le strategie di intervento non sono rigorose indicazioni pratiche ma suggerimenti e punti importanti da tenere in considerazione in vista degli obiettivi indicati, secondo il presupposto che ogni contesto ambientale è differente dall’altro.

Il caso italiano La sicurezza urbana, in Italia, è affrontata dallo Stato e dagli enti locali quasi sempre secondo modalità estranee al sistema di governo del territorio. La sicurezza pubblica è sostanzialmente un affare di Stato, in capo al Ministero degli Interni, alla Prefettura e al Sindaco quale ufficiale del Governo. Ma dagli anni ’90, a partire dalle riforme ispirate al principio di sussidiarietà (dall’elezione diretta dei sindaci al trasferimento delle finzioni amministrative dallo Stato alle regioni e da queste agli enti locali), gli attori locali assumono un protagonismo nuovo nelle politiche di sicurezza (Bortoletti, 2005; Selmini 2004). Il ruolo degli enti locali nell’ambito della sicurezza urbana si esplica in cooperazione con gli organismi di competenza statale a partire dalla stagione dei protocolli d’intesa14 per la realizzazione di “iniziative coordinate per un governo complessivo della sicurezza della città” e in seguito con la nuova stagione dei Patti Locali per la Sicurezza, sottoscritti, come i protocolli, tra enti locali e ministero dell’interno attraverso le prefetture a partire dal 2006 (Allulli, 2010). Molte regioni promulgano leggi per la promozione di politiche integrate di sicurezza (per prima l’Emilia Romagna nel 1999), alcune delle quali congiunte alle leggi in materia di polizia locale. Nelle politiche di sicurezza urbana è sempre presente il riferimento ad interventi sulle caratteristiche fisicospaziali dello spazio pubblico, come una delle tre componenti di prevenzione della sicurezza accanto all’azione sociale e all’azione di controllo e repressione (Karrer, Santangelo, 2012). Ciò nonostante, la disciplina urbanistica italiana non contempla piani, protocolli o altri strumenti di pianificazione territoriale esplicitamente orientati alla sicurezza (come invece accade in altri paesi), a parziale eccezione dei cosiddetti 'programmi complessi' (Programmi di riqualificazione urbana, Contratti di Quartiere ecc.), che tuttavia rappresentano strumenti non ordinari di pianificazione e appartenenti ad una stagione passata.

Conclusioni In linea con la norma CEN/TR 14383-2 possiamo distinguere tre principali livelli di azione afferenti alla disciplina urbanistica (la pianificazione urbana, il disegno urbano e la gestione degli spazi), cui aggiungiamo una quarta linea di azione (la partecipazione), trasversale alle precedenti e fondamentale per un’azione preventiva non limitata alla sfera di intervento sullo spazio fisico, ma sempre legata alla pianificazione territoriale. 13

Non si tratta di una normativa di vincolo ma di un Technical Report, che nella prassi corrisponde a raccomandazioni di buone pratiche. 14 Tra il 1998 e il 2005 vengono sottoscritti 194 protocolli (Amendola 2008) Sarah Chiodi

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Spazio pubblico e sicurezza. Le relazioni tra la pianificazione urbanistica e la prevenzione del crimine.

Per 'pianificazione urbana' intendiamo quell’ambito dell’urbanistica che stabilisce gli usi del suolo (destinazioni d’uso, infrastrutture, servizi ecc.), le densità e tutti quegli elementi che concorrono alla definizione dell’assetto fisico del territorio, senza intervenire alla scala di dettaglio del progetto. In Italia, gli strumenti della pianificazione urbana sono rappresentati sostanzialmente dai Piani regolatori generali15 e agli effetti locali derivati dai piani di scala vasta (provinciale e regionale). Entro questo ambito, in termini di sicurezza, si potrebbe agire attraverso le norme tecniche di attuazione o altre indicazioni per la progettazione urbanistica fornite attraverso allegati di sicurezza16 (similmente a quanto già avviene per gli allegati energetici). Consideriamo il 'disegno urbano' come l’assetto morfologico di una porzione di città alla scala di quartiere/isolato, che dettaglia a livello progettuale la forma dello spazio urbano, con precisa definizione degli spazi pubblici, degli arredi urbani, delle sezioni stradali ecc. Gli strumenti urbanistici di riferimento sono quelli di attuazione del PRG, ovvero gli strumenti urbanistici esecutivi (piani particolareggiati, piani esecutivi convenzionati ecc.)17. A questo livello, l’esempio degli studi si sicurezza pubblica francesi (ESSP) potrebbe costituire una pratica ordinaria di prevenzione della sicurezza urbana da applicarsi nell’ambito dei progetti di trasformazione urbana anche nel nostro paese. La 'gestione degli spazi' comprende le politiche locali di gestione e manutenzione del territorio, i controlli e le azioni di sorveglianza (compresi i sistemi di video sorveglianza), i regolamenti locali, i la diffusione e l’efficienza dei servizi, l’animazione territoriale ecc. Si tratta di numerose attività che possono afferire a settori amministrativi pubblici diversi (ambiente e territorio, polizia locale e sicurezza, arte e cultura, istruzione, servizi sociali ed educativi ecc.) e che possono eventualmente essere esercitate dal terzo settore o dai privati. Si tratta di una vasta serie di azioni necessarie alla gestione dello spazio urbano che non possiamo riferire esclusivamente al settore dell’urbanistica, ma che comunque all’urbanistica competono in relazione al monitoraggio degli interventi attuati e alla manutenzione dello spazio pubblico. La 'partecipazione', in urbanistica, comprende numerosissime sfere applicative, che consideriamo in relazione ai tre ambiti sopra descritti. Un esempio significativo sono le attività di informazione e di consultazione degli abitanti nell’ambito della pianificazione territoriale, durante la definizione dei documenti programmatici di piano o nella predisposizione dei piani strategici (ove previsti); oppure i tavoli di concertazione e le conferenze di pianificazione istituiti tra i diversi attori istituzionali per l’approvazione di un piano, di una variante o per la definizione di una politica urbana. A livello di disegno urbano ne sono esempio le pratiche di progettazione partecipata (laboratori di progettazione di varia tipologia svolti con gli abitanti, focus group con testimoni privilegiati su alcuni temi-chiave di un progetto, questionari e altri indagini conoscitive ecc.) su interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione edilizia, di norma in attuazione di piani o altri strumenti che comportino l’approvazione di progetti di interesse pubblico18. A livello gestionale qualsiasi attività di comunicazione, promozione o consultazione degli abitanti riguardo uno specifico intervento o una politica (ad es. bilanci partecipativi, assemblee cittadine, giuria dei cittadini ecc.) costituisce un potenziale esempio di partecipazione che possiamo comprendere nell’ambito della disciplina urbanistica. È bene tuttavia fare un’ulteriore distinzione tra la partecipazione interistituzionale, tra diversi settori amministrativi o tra gli stakeholder di un progetto di trasformazione territoriale, e la partecipazione degli abitanti. Se la prima è pensata in una logica di integrazione tra settori e interessi prevalenti (ad esempio per l’attuazione di politiche integrate di sicurezza), la seconda mira a promuovere l’identità locale e il senso di appartenenza ai luoghi (in una logica di prevenzione comunitaria del crimine). Entrambe, tuttavia, sono importanti per la buona riuscita di un progetto di trasformazione territoriale in termini di sicurezza (e non solo).

Bibliografia Acierno A. (2003), Dagli spazi della paura all’urbanistica per la sicurezza, Alinea, Firenze. Allulli M. (2010), “Le Politiche Urbane in Italia. Tra adattamento e frammentazione”, paper Cittalia (www.anci.it/Contenuti/Allegati/Politiche%20urbane.pdf). Amendola, G, 2008, Città, criminalità, paure. Sessanta parole chiave per capire e affrontare l'insicurezza urbana, Liguori, Napoli. 15

Facciamo riferimento al PRGC quale strumento prioritario di pianificazione urbanistica a livello locale individuato dalla legge nazionale e dalla maggior parte delle regioni, nonostante in diverse regioni italiane (Lombardia, Emilia Romagna, Toscana ecc.) siano già stati introdotti nuovi strumenti di pianificazione urbanistica. 16 Il nuovo PRG di Roma, ad esempio, allega alla Relazione del Piano adottato Gli standard minimi di sicurezza locale, condivisi (Karrer, Santangelo, 2012) 17 Anche in questo caso, a seconda delle regioni, la nomenclatura degli strumenti attuazione dei piani comunali sarà diversa in relazione alle leggi urbanistiche di ciascuna regione. Qui citiamo gli s.u.e. del Piemonte. 18 La progettazione partecipata in linea teorica può essere applicata anche per interventi di iniziativa privata e di interesse esclusivo (ad esempio alcuni villaggi residenziali tipo “gated communities”), ma non sono diffusi esempi di progettazione partecipata in simili contesti salvo per i progetti di cohousing. Di norma, almeno in Italia, è l’ente pubblico che sostiene le attività di progettazione partecipata o comunque si tratta di interventi di interesse collettivo nonostante il promotore possa essere una fondazione (si pensi ad alcuni interventi di social housing, come il noto Villaggio Barona di Milano, promosso dalla Fondazione Cassoni). Sarah Chiodi

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Spazio pubblico e sicurezza. Le relazioni tra la pianificazione urbanistica e la prevenzione del crimine.

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Riconoscimenti Ringrazio la Fondazione Franco e Maria Teresa Caligara e la Camera di Commercio di Torino per aver il sostegno offerto alla ricerca alla base di questo articolo, che si svolge nell’ambito della Borsa di ricerca biennale transfrontaliera interdisciplinare “Le implicazioni di sicurezza nella progettazione urbanistica” conferitami a partire dal 2012.

Sarah Chiodi

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Misurare l’attrattività. L’approccio configurazionale per l’interpretazione del ruolo e del valore degli spazi pubblici

Misurare l'attrattività. L'approccio configurazionale per l'interpretazione del ruolo e del valore degli spazi pubblici Valerio Di Pinto Università degli studi di Napoli “Federico II” Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile ed Ambientale (DICEA) Email: valerio.dipinto@unina.it Tel: 081 768 2319

Abstract Gli spazi pubblici rappresentano l'essenza degli spazi urbanizzati. La qualità urbana stessa ne è in larga misura dipendente, e ciò ne fa elementi critici nella gestione, nella pianificazione e nella trasformazione della città. Essi determinano l'uso che si fa dei suoli e possono sancirne lo sviluppo o l'abbandono secondo modalità non sempre chiare. L'attrattività gioca in questo meccanismo un ruolo intuitivamente primario, ma che cos'è l'attrattività e come si può misurare? Il contributo mostrerà come può essere data una definizione di attrattività in termini di configurazione dello spazio e come essa possa essere misurata attraverso indici topologici. Si mostrerà come in tal modo gli spazi pubblici possano essere caratterizzati in funzione delle relative potenzialità ad ospitare determinate destinazioni d'uso e come si possano valutare gli effetti dell'introduzione di una loro modificazione. Sarà inoltre mostrato come tale interpretazione dell'attrattività trovi riscontro sul caso di studio della città di Napoli. Parole chiave Analisi configurazionale, Space Syntax, Percezione

Introduzione Il pensiero comune, e una consolidata tradizione modellistica, suggeriscono che l'attrattività degli spazi, segnatamente pubblici, sia esclusivamente dipendente dalla concentrazione di attività, che, nel loro fornire, anche solo potenzialmente, servizi, agiscono da richiamo per diverse forme di utilizzatori. In tal senso, l'attrattività è di fatto declinata come un attributo indipendente dalle qualità fisiche degli spazi/luoghi, che, anzi, non di rado vengono trattati asetticamente nei termini di un costo od un’impedenza. Tale visione, dal punto di vista operativo, riesce ad essere un descrittore, anche localmente efficace, di quanto si verifica in un tempo ed in uno spazio determinati, ma, per contro, non è in grado di cogliere in alcun modo la dinamica che ha portato alla sua statuizione. La concentrazione di attività/funzioni non è una variabile che contribuisce a determinare la distribuzione dell'attrattività spaziale, ma ne è una conseguenza diretta. Del resto, è intuitivo che il rapporto tra le qualità fisiche dello spazio e le funzioni che esso ospita non sia di tipo biunivoco, quanto meno nel breve e medio periodo, in quanto il primo può determinare i secondi, ma non viceversa. Il presente contributo muove nella convinzione che l'elemento primale nella formazione dell'attrattività dello spazio sia identificabile proprio nelle qualità fisiche degli spazi, e che esse possano essere indagate nel quadro della complessità dei tessuti urbani.

Attrattività, spazio e percezione Il rapporto tra le qualità spaziali e l'attrattività ad essi connessa nel quadro urbano si svolge innanzitutto in relazione a come le prime vengono percepite soggettivamente dai cittadini/fruitori. Ciò pone una nuova Valerio Di Pinto

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Misurare l’attrattività. L’approccio configurazionale per l’interpretazione del ruolo e del valore degli spazi pubblici

questione, scivolosa e complessa, che si può ricondurre al rapporto che si instaura tra il modello spaziale della città e l'immagine soggettiva esito della sua interiorizzazione. Su questi temi la letteratura propone svariati approcci descrittivi ed interpretativi, tendenzialmente staccati da una reale operatività e tutti sostanzialmente riconducibili ad un approccio antropo-semiologico1, orientati alla narrazione dell'esperienza e, proprio per questo motivo, dominati da un'eccessiva numerosità delle variabili. Per contro è possibile pensare ad una città definita da due livelli informativi ben distinti. Un primo, di tipo formale, che colleziona i segni materiali nello spazio. Un secondo, di tipo topologico, che si sostanzia del quadro relazionale che gli stessi spazi determinano. Il primo livello è percepibile nell'esperienza soggettiva e forma la conoscenza spaziale di ogni fruitore. Il meccanismo sotteso a questa formazione può essere ricondotto alla definizione di una conoscenza allocentrica di tipo mappale, molto essenziale, basata sull'intuitiva selezione di informazioni nel quadro egocentrico dell'esperienza soggettiva. In questo modo si genera una mappa gerarchizzata e semplificata degli spazi, basata sull'intuizione dell'essenza segnica dello spazio, ovvero della sua geometria. Il ricorso al concetto di intuizione, peraltro, non è inteso a surrogare linguisticamente un meccanismo non chiaro, ma trova giustificazione nell'evidenza che le geometrie urbane tendono alla clusterizzazione (rapporto tra angolo di incidenza tra due strade e loro lunghezze, ad esempio) venendo a generare un sistema di tipo pseudo-markoviano. In questi termini, il concetto di attrattività può essere formulato come l'esito della gerarchizzazione intuitiva dello spazio: gli elementi più attrattivi occupano le posizioni dominanti nel sistema virtuale interiorizzato, ovvero sono maggiormente determinanti nella formazione delle immagini ambientali: il vero generatore di attrattività è lo spazio urbano. Legare direttamente la geometria spaziale alla sua attrattività, pone quest'ultima al centro della dinamica dei fenomeni urbani. Ognuno di essi, infatti, si basa su come la città viene pensata dai suoi fruitori, ovvero da come si interiorizza. Tuttavia non è ancora possibile misurare oggettivamente l'attrattività, in quanto non è possibile, nel quadro dei segni, misurare l'intuitività della geometria delle forme urbane. Per farlo bisogna spostare la propria attenzione sul secondo dei livelli informativi: quello topologico. Per studiare il quadro relazionale della città essa va ricondotta ad una delle sue possibili rappresentazioni: il grafo. Prima di specificare come si può ottenere una delle infinite forme grafiche della città, è bene chiarire come esso è utile allo scopo di misurare l'attrattività dello spazio. Studiare un grafo significa essenzialmente apprezzare la natura, descrivere e misurare la consistenza delle relazioni che intercorrono tra i nodi che lo compongono. E' possibile in tal modo associare ad ogni nodo delle misure di centralità che descrivono la sua connettività nel sistema. Quest’ultima è, di conseguenza, una proprietà non locale del nodo, in quanto descrive una sua caratteristica dipendente dal sistema in cui si trova nella sua interezza. L’insieme delle misure di connettività di tutti i nodi costituisce una misura della configurazione del sistema, sulla cui base lo spazio può essere gerarchizzato, in base al ruolo svolto da ogni elemento nella sintassi del grafo ad esso duale. Si ottiene, in tal maniera, una seconda mappa che sintetizza la gerarchia spaziale urbana, non più partendo, però, dal livello segnico, ma dal suo duale topologico-relazionale. La qualità del legame tra le due mappe è affidato ad un interrogativo profondo: esiste una relazione tra l'intuizione che si fa del quadro formale e la configurazione del quadro topologico-sintattico? Per approcciare il problema ed esaltarne le implicazioni è necessario in primis circoscrivere lo studio al caso particolare di uno spazio semplificato ed iper-geometrizzato, ottenuto attraverso la disposizione di blocchi quadrati in una tassellatura regolare quadrata del piano. Per ogni inserimento di un blocco è possibile misurare come cambia la configurazione del sistema nel grafo ad esso associato, grazie alla variazione della lunghezza dei percorsi minimi tra coppie di linee/nodi. E' possibile, pertanto, notare una stretta dipendenza tra il modo con cui cambia la configurazione del grafo e il modo con cui cambia il quadro segnico delle forme/blocchi. Acquisiscono valore configurazionale, e quindi grafico, concetti come la centralità (geometrica), l'estensione, la contiguità, la frammentazione, ecc. E' possibile, ovvero, misurare numericamente l'influenza nel sistema di strutture formali: il grafo parla della geometria del sistema, che si intuisce soggettivamente e porta all'interiorizzazione dello spazio. Di fatto, è possibile ricostruire, partendo dal grafo, una gerarchia degli spazi rispondente a quella che ogni fruitore costruisce soggettivamente attraverso l'intuizione dei segni nel quadro formale. Nel caso specifico della tasselazione regolare la congruenza tra i due quadri è perfetta, e ciò è dovuto alla iper-geometrizzazione imposta, cui consegue l'uguaglianza tra step topologico e step metrico. Cosa succede nel reale quadro della città? Per rispondere a questo interrogativo bisogna staccarsi da uno scenario meramente concettuale e spingersi nel campo degli approcci operativi. Nello specifico, è di particolare interesse, nel novero degli studi della complessità che si approcciano relazionalmente allo studio della città, la famiglia modellistica Space Syntax. Essa propone, per il caso dello spazio urbano, una specifica tecnica, che si basa su misure di centralità derivate dalla ricerca operativa sulle reti sociali2, e sulla restituzione in forma grafica della città derivata da una sua prima schematizzazione ad una matrice di linee. Quest'ultima si ottiene tracciando algoritmicamente i segmenti contenuti nell'insieme degli spazi urbani accessibili che passano per i vertici dei blocchi costruiti od inaccessibili. Successivamente, il numero di questi segmenti viene sensibilmente ridotto conservando solo quelli che permettono di presidiare la totalità delle regioni convesse in cui è possibile frammentare l'insieme degli spazi pubblici, secondo il criterio del minimo numero e della massima estensione. In definitiva, si ottiene un grafo che ha per nodi i segmenti 1 2

Ci si riferisce, in particolare, all'approccio lynchano. Nello specifico misure basate sulla closeness e sulla betweenness . Per ulteriori informazioni si può far riferimento a (Freeman, 1978)

Valerio Di Pinto

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Misurare l’attrattività. L’approccio configurazionale per l’interpretazione del ruolo e del valore degli spazi pubblici

(ovvero gli spazi) in cui l'unica relazione tenuta in considerazione è l'intersezione (relazione di appartenenza al sistema). Effettuate le misure configurazionali, sulla base delle citate forme di centralità sociale incentrata sul concetto di distanza universale, ovvero di profondità 3 (relazione di struttura), è possibile procedere a ritroso ed associare il valore numerico agli spazi, ottenendo, di fatto, una (cercata) mappa delle gerarchie spaziali. Se si pongono le informazioni ottenute procedendo in tale maniera in un modello di regressione rispetto ai fenomeni urbani, è possibile valutare quanto essa approssimi effettivamente la gerarchia d'intuizione geometrica che sottende al pensiero soggettivo (comune) della città. Nel caso di Space Syntax sono presenti in letteratura numerosi modelli di regressione, in particolare orientati sul caso dei fenomeni di spostamento, specialmente pedonale. Essi mostrano come la correlazione tra la variazione degli indici configurazionali (le misure di centralità prima introdotte) e la consistenza dei flussi registrati sia estremamente consistente ed assuma due diverse forme a seconda che ci si trovi in aree ad uso misto od in aree ad uso monofunzionale residenziale. Tali risultati possono essere estesi anche ad altri fenomeni 4. Sulla base di queste evidenze è possibile formulare una ipotesi suggestiva: lo spazio urbano possiede una geometria sufficiente affinché sussista una corrispondenza tra intuizione geometrica e misure configurazionali. Ciò significa che è possibile ottenere una misura oggettiva della diversificazione dell'attrattività all'interno di un contesto urbano 5: lo spazio si pensa e funziona in maniera congruente. Questa condizione nella realtà delle cose e delle esperienze è fortemente pervasiva. Parte dall'analisi di fenomeni funzionali, com’è, ad esempio, il movimento, si possono ottenere, con inaspettata semplicità, archetipi di natura estetica, quali la maglia ortogonale e la maglia radiale, sia nel caso di una tassellatura regolare, sia nel caso generale della città, dove si crea la quasi-invariante della maglia orto-radiale6. Si aprono in tal maniera una serie di interessanti scenari che permettono di ripensare il rapporto tra spazi urbani, funzioni, uso e distribuzione delle attività. In particolare, da questo punto di vista, è possibile identificare una vera e propria dinamica spaziale, sorprendentemente essenziale, in cui l'attrattività diventa elemento-chiave. Sinteticamente, si può associare allo spazio non funzionalizzato una capacità attrattiva naturale, che tende a richiamare flussi, cui corrisponde una coerente distribuzione delle attività. Successivamente, sono le stesse attività a generare una nuova aliquota di flussi, comportandosi da attrattori. Seguendo questa logica si costruiscono tutti gli scenari urbani. E' per questa ragione che misurare l'attrattività partendo dalla concentrazione di attrattori/attività vale a misurare il risultato del fenomeno e non la sua causa, e non si riesce a descrivere compiutamente come essa vari nelle aree periferiche, dove le attività sono poche, o nelle aree rigidamente pianificate (imposte), dove le attività possono essere distribuite omogeneamente. La correlazione tra indici configurazionali, flussi e presenza di attrattori segue questa logica: dove gli attrattori sono molto concentrati (quelle che tradizionalmente vengono identificate come centralità) la correlazione è di tipo esponenziale, dove invece gli attrattori sono radi (generalmente zone esclusivamente residenziali) la correlazione è tipo lineare. In entrambi i casi con grande robustezza (R2 intorno a 0,9). In definitiva, la formulazione configurazionale del concetto di attrattività appare decisamente solida, nonché foriera di grandi potenzialità, sia rispetto alla valutazione dell'esistente, sia rispetto alla valutazione degli effetti di un intervento di trasformazione. Quest'ultima fattispecie, in particolare, è uno degli aspetti di maggiore interesse, in quanto è possibile stimare la variazione dell'attrattività sulla base del disegno di progetto. E' possibile, inoltre, studiare il ruolo dell'attrattività su diversi livelli: uno globale, basato su misure configurazionali all'intera scala urbana, ed uno locale, incentrato su misure limitate ad intorni topologici o metrici limitati.

Figura 1 – Tassellatura regolare del piano: inserimento dei blocchi e relativo calcolo dell’incremento di lunghezza dei percorsi minimi. Immagine tratta da (Hillier, Space is the machine, 1996)

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Per una definizione di profondità si faccia riferimento a (Hillier & Hanson, The social logic of space, 1984) In particolare la variazione della rendita fondiaria (Di Pinto, 2013), il tasso di criminalità (Hillier & Sahbaz, 2009), la disposizione delle attività urbane (Cutini, 2007). 5 E' possibile, inoltre, normalizzare i valori in modo da renderli indipendenti dal singolo contesto. 6 Per ulteriori informazioni si legga (Hillier, Space is the machine, 1996), con specifico riferimento al modello di partizionamento. 4

Valerio Di Pinto

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Misurare l’attrattività. L’approccio configurazionale per l’interpretazione del ruolo e del valore degli spazi pubblici

Attrattività configurazionale: il caso di Napoli Sulla scorta delle considerazioni formulate, è stata condotta l'analisi configurazionale della città di Napoli. Nello specifico è stato adoperato l'approccio Space Syntax nella declinazione operativa ell'Angular Segment Analysis 7. L'analisi è basata su aerofotogrammetria in scala 1/5000. Nello specifico caso di Napoli, la conduzione dell'analisi ha risentito fortemente delle condizioni morfologiche della città. Vi si è fatto fronte con opportuni accorgimenti implementati attraverso software specifici 8, seguendo approcci e metodi ampiamente condivisi in letteratura.

Figura 2 - Mappa degli spazi pubblici della città di Napoli: ingrandimento. Immagine tratta da (Di Pinto, 2013)

Figura 3 - Matrice di linee (Axial Map) alla base dell'analisi configurazionale della città di Napoli. In rosso sono rappresentate le linee che effettivamente fanno parte del modello; in giallo l'insieme di tutte le linee tracciate algoritmicamente. Immagine tratta da (Di Pinto, 2013).

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Si tratta di una specificazione del modello operativo generale presentato. Per ulteriori informazioni si faccia riferimento a (Turner, 2001). 8 Il principale tra i software adoperati è UCL DepthMap 10. Per informazioni si legga (Turner, 2001). Valerio Di Pinto

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Misurare l’attrattività. L’approccio configurazionale per l’interpretazione del ruolo e del valore degli spazi pubblici

Figura 4 – La maglia orto-radiale della città di Napoli. Si può notare l’agglomerazione centrale dominata da linee corte che tendono a formare una maglia pseudo-ortogonale, da cui s’irradiano le principali arterie urbane. Immagine tratta da (Di Pinto, 2013)

La manipolazione dei dati configurazionali è stata condotta in ambiente GIS, in modo da poter collezionare allo stesso tempo le informazioni sintattiche e quelle territoriali. Si è ottenuto, in tal modo, un sistema informativo favorevolmente intuitivo, su cui è agevole apportare modificazioni nella struttura degli spazi. Il ricorso al GIS, peraltro, permette di servirsi di tutti gli strumenti propri della geostatistica, nonché di potenti routine per l’implementazione di modelli regressivi, anche a più variabili, utili per la correlazione dei risultati dell’analisi sintattica con i fenomeni urbani. I risultati dell’analisi configurazionale di Napoli restituiscono un quadro informativo sorprendentemente realistico ed intuitivo. A livello globale, si evidenzia la presenza di un’unica centralità, attorno a cui si sviluppa l’ossatura dell’intero impianto urbano, che si caratterizza per l’attesa forma orto-radiale. Questa fattispecie si dimostra perfettamente congruente con numerosi altri studi di diversa natura, ed in particolare con quelli trasportistici9, di grande significatività in ragione della loro natura empirica basta su monitoraggi puntuali. Rimanendo nel quadro globale, l’analisi sintattica ci racconta di una città fatta di poche grandi strade di primaria attrattività cui, nella realtà, corrispondono le principali arterie dello shopping: quelle intuitivamente decisamente attese (come Corso Umberto) e quelle meno (come Via Calabritto). A livello locale, viceversa, è evidente la presenza di numerosi picchi nel valore degli indici configurazionali calcolati un intorno metrico limitato (400 m), a testimonianza di una notevolissima frammentazione dei tessuti, cui fa eco quella delle comunità. Ricorrendo ai citati strumenti di geo-statistica (in particolare al Kriging), è stato possibile identificare 47 centroidi, rappresentativi di altrettante aree ad alta indipendenza locale.

Figura 5 – Identificazione delle centralità locali attraverso il kriging. L’area in giallo rappresenta una regione di picco dei valori degli indici configurazionali locali. L’elemento puntuale è il suo centroide. Immagine tratta da (Di Pinto, 2013)

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Si faccia riferimento, in particolare, al Piano Comunale dei Trasporti (Comune di Napoli, 2001)

Valerio Di Pinto

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Misurare l’attrattività. L’approccio configurazionale per l’interpretazione del ruolo e del valore degli spazi pubblici

Discussione dei risultati Il modello sviluppato per la città di Napoli ha evidenziato come l’analisi configurazionale rappresenti un prezioso supporto allo studio dei tessuti urbani, in quanto, partendo dall’attrattività dello spazio, fa emergere l struttura urbana per come essa è percepita, e quindi pensata ed adoperata. La qualità della descrizione e dell’interpretazione di una città complessa com’è quella di Napoli , appare straordinaria in relazione all’esiguità delle informazioni necessarie per la conduzione dell’analisi ed al costo relativamente basso della sua implementazione. Questi risultati confermano da un lato le qualità della famiglia modellistica Space Syntax, mentre dall’altro, ed è un risultato forse ancora più interessante, aggiungono un ulteriore tassello alla validazione dell’idea che l’attrattività degli spazi, declinata come percezione delle caratteristiche fisiche che li contraddistinguono, sia l’affettivo motore della dinamica degli insediamenti. Ci testimoniano, peraltro, che è anche perseguibile il tentativo di restituire un’immagine oggettiva della città per come è percepita dai suoi fruitori, evidenziando che le caratteristiche-chiave di questo meccanismo sono sostanzialmente poche, generali e computazionalmente sostenibili.

Bibliografia

Comune di Napoli. (2001). Piano Comunale dei Trasporti. Napoli, Italia. Cutini, V. (2007). Grilling the Grid: a Non-Ultimate (Nor Objective) Report on the Configurational Approach to Urban Phenomena. In S. Albeverio, D. Andrey, P. Giordano, & A. Vancheri, The Dynamics of Complex Urban Systems (p. 163-183). Heidelberg: Physica-Verlag. Di Pinto, V. (2013). Leggere e Comunicare il Paesaggio. Per un modello interpretativo dello spazio urbano percepito. Napoli: Tesi di dottorato. Freeman, L. (1978). Centrality in Social Networks Conceptual Clarification. Social Networks, 1, 215 - 239. Hillier, B. (1996). Space is the machine. Cambridge: Cambridge University Press. Hillier, B., & Hanson, J. (1984). The social logic of space. Cambridge: Cambridge University Press. Hillier, B., & Sahbaz, O. (2009). An evidence based approach to crime and urban design. Or, can we have vitality, sustainability and security all at once? In R. Cooper, G. Evans, & C. Boyko, Designing Sustainable Cities: Decision-making Tools and Resources for Design. (p. 163 - 186). Hoboken: Wiley Blackwell. Turner, A. (2001). Depthmap. A program to perform visibility graph analysis. Proceedings of the 3rd Space Syntax Symposium, (p. 31.1 - 31.9). Atlanta.

Valerio Di Pinto

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L’Approccio alle Capacità e le Politiche di Sviluppo Urbano

L’approccio alle capacità e le politiche di sviluppo urbano Giovanna Fancello Università degli Studi di Sassari DADU – Dipartimento di Architettura, Design e Urbanistica Email: gfancello@uniss.it

Abstract Migliorare la qualità della vita urbana è un obiettivo comune alle politiche di sviluppo urbano. Tuttavia, non è ancora universalmente riconosciuto dalla comunità scientifica cosa si intenda per qualità della vita. Soprattutto quanto e come l’urbano – con le sue conformazioni, paesaggi, servizi, spazi pubblici, popolazioni, … - influisca nel determinare la qualità della vita individuale, aspetto fondamentale per la scelta e la definizione degli obiettivi di sviluppo urbano. L’approccio alle capacità (Sen A.) definisce una nuova visione della qualità della vita e orienta le politiche pubbliche definendo un quadro normativo preciso e innovativo. A partire dal concetto di qualità della vita urbana (à la Sen) all’interno dell’articolo saranno analizzati alcuni casi studio europei di politiche orientate allo sviluppo urbano. L’analisi sarà rivolta principalmente alla capacità di queste politiche di rispondere (direttamente o indirettamente) alle necessità di sviluppo delle libertà individuali nella città nei contesti caratterizzati da povertà. Parole chiave capability approach, rigenerazione urbana, politiche di sviluppo urbano

Introduzione Le città sono sempre più caratterizzate da diseguaglianze e problemi legati alla continua crescita della popolazione e ai fenomeni di disagio sociale e degrado urbano. Sono queste le preoccupazioni maggiori dei governi che rappresentano l’oggetto delle politiche di sviluppo urbano. Migliorare la qualità della vita urbana (QdV) è uno degli obiettivi dichiarati dalle politiche di sviluppo urbano1. Tuttavia, non è ancora universalmente riconosciuto dalla comunità scientifica cosa si intenda per QdV. Soprattutto quanto e come l’urbano – con le sue conformazioni, paesaggi, servizi, spazi pubblici, popolazioni,… – influisca nel determinare la QdV individuale, aspetto fondamentale per la scelta e la definizione degli obiettivi di sviluppo urbano. Questo comporta che ogni politica interpreti in modo differente la QdV così come il concetto di ‘limite’ allo sviluppo (povertà, degrado, inquinamento, diseguaglianza, …) definendo di volta in volta strumenti di costruzione di politiche pubbliche diversi a seconda del caso. Nonostante questo gli obiettivi generali sono sempre gli stessi: migliorare la QdV oggi e garantire uno sviluppo delle condizioni di benessere delle popolazioni future. Ma cosa significa ‘migliorare la QdV’? Libertà, diritti, utilità, redditi, beni primari, appagamenti di bisogni sono tutti elementi e concetti che ricadono all’interno del concetto di QdV e che ne determinano il significato all’interno delle principali filosofie del benessere. Fra queste A. Sen definisce l’approccio alle capacità (CA) che stravolge il concetto di benessere puramente economico sottolineando l’importanza della libertà individuale di scelta e azione nello spazio. La prima parte dell’articolo è dedicata all’analisi del capability approach (CA) e a come questo possa essere considerato un riferimento teorico per la definizione e la scelta delle politiche pubbliche in ambito urbano. La 1

Numerosi trattati (fra questi il Protocollo di Göteborg (1999) e il Trattato di Lisbona, Gazzetta ufficiale dell’Unione europea C 306, 17.12.2007) e programmi europei (fra i più conosciuti i programmi Urban, Urbact, AUDIT e Jessica for cities) nel corso degli ultimi decenni hanno dato sempre più importanza alla città (la Carta di Lipsia sulle Città Europee Sostenibili (2007); la Dichiarazione di Toledo sulla rigenerazione urbana integrata e il suo potenziale strategico per uno sviluppo urbano più intelligente, sostenibile e inclusivo nelle città europee (2010); l’Agenda territoriale 2020) e al ruolo che l’urbano con le sue configurazioni sociali, ambientali, architettoniche, […] ha nello sviluppo del benessere individuale sostenibile.

Giovanna Fancello

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L’Approccio alle Capacità e le Politiche di Sviluppo Urbano

seconda parte dell’articolo è rivolta all’analisi di alcuni casi studio europei e a come questi siano capaci di migliorare la QdV in termini di ampliamento delle capacità individuali.

L’Approccio alle Capacità, chiave di lettura e riferimento teorico delle politiche di sviluppo La progettazione dell’urbano rappresenta un’opportunità di miglioramento della QdV urbana soprattutto in quei contesti segnati dalla povertà. Fra le politiche che mirano al miglioramento della QdV ne ritroviamo alcune che non riescono a rispondere a pieno agli obiettivi di recupero e rigenerazione inizialmente prefissati. Si tratta di strumenti che mirano al semplice decoro urbano, all’incremento di servizi e infrastrutture, alla costruzione di nuove politiche sociali, … che, nonostante i buoni propositi, non colgono i problemi e le necessità legate allo sviluppo dei contesti problematici. Problemi che segnano la povertà urbana e condizionano l’incremento delle libertà di azione individuali. Il concetto di libertà individuale nello spazio urbano deriva dal CA: approccio elaborato inizialmente dall’economo A. Sen (1980, 1985, 1992, 1997, 2001, 2004, 2005, 2009) e sviluppato in seguito da numerosi ricercatori di diverse discipline scientifiche, in particolare dalla filosofa M. Nussbaum (Nussbaum e Sen, 1993). Il CA sostiene l’importanza della libertà individuale di scegliere la vita che ognuno desidera e di acquisire cose che sono costitutive dello star bene (Sen, 1992). La QdV degli individui è data non dalla presenza di beni e servizi (aspetto puramente economico) bensì dalle possibilità-libertà effettive che questi hanno di scegliere e sviluppare i propri stati (beings and doings) nello spazio. Per fare questo all’interno del CA sono definite nuove dimensioni dell’essere: i funzionamenti – stati o azioni che gli individui raggiungono o fanno – e le capacità – insieme delle combinazioni alternative di funzionamenti –. Il CA è una filosofia che orienta la costruzione di politiche pubbliche definendo un quadro normativo preciso e innovativo (Crocker, Robeyns, 2010)2. Inoltre, spinge a investigare e a portare alla luce la complessa rete di azioni, reazioni e interrelazioni che contribuiscono a determinare il benessere individuale e, in ultima analisi, a stabilire l’efficacia delle politiche stesse rispetto alla promozione della qualità della vita. La costruzione delle politiche pubbliche deve essere orientata allo sviluppo delle libertà di azione individuali nello spazio e non semplicemente all’incremento di risorse e utilità. Infatti, non sempre il possesso di beni e risorse equivale al benessere, così come una loro mancanza non deve essere vista come sinonimo di povertà. Piuttosto «poverty must be seen as deprivation of basic capabilities rather than merely as lowness of incomes» (Sen, 1999: 87). Analizzare la povertà e il benessere individuale significa monitorare uno stato di mancanza di libertà di sviluppo individuale soprattutto per quanto riguarda le capacità fondamentali: «poor is someone who lacks, or is in the inability to achieve, “something” useful for a socially acceptable standard of living» (Kana, Somé, Tsoukiàs, 2011: 7). Ma come il concetto di QdV e di povertà (à la Sen) si declinano in campo urbanistico? Piuttosto che considerare la QdV urbana come la qualità della ‘città’ intesa come criterio spaziale e limite geografico si osserva la città come contesto dinamico e determinante per lo sviluppo di alcune libertà individuali: le capacità urbane (Cecchini, Talu, 2012; Talu, 2012) – determinate dalla relazione dell’individuo con l’insieme di componenti e fenomeni urbani, territoriali e ambientali. La povertà urbana è pertanto una situazione di mancanza, deficit di opportunità urbane e una compresenza di limiti urbani allo sviluppo (Chiappero-Martinetti et al., 2011). I limiti che caratterizzano la povertà urbana si ripercuotono sugli individui come singoli e sulla comunità intera soprattutto quando dipendono dalla sfera ambientale. È ciò che M. Magatti (2007) indica come “dotazione contestuale”, riferendosi all’ambiente urbano come capitale in grado di offrire opportunità o handicap in termini di chiusure e ostacoli ai percorsi e alle strategie dei singoli gruppi. Accanto a questa sfera fra le cause determinanti la povertà vi sono le ‘dotazioni personali’: patrimonio peculiare di ciascun individuo o soggetto collettivo che tocca gli ambiti socio-culturale e relazionale. In questo senso si considera la capability individuale come composta da ability personale (libertà interna di ‘fare’ o ‘essere’ non necessariamente esercitata) e opportunity contestuale (condizioni esterne che rendono possibile l’esercizio delle libertà individuali) (Magni, 2006). In termini di costruzione di politiche pubbliche il policy maker può agire prevalentemente sull’elemento contestuale. Nel caso della pianificazione locale l’urban planner interviene sul contesto urbano orientando il progetto all’aumento dell’opportunity set territoriale a partire dalla lettura delle ‘illibertà’ o ‘handicap’ urbani (mobilità, accesso, gioco, svago, …), ovvero delle libertà ‘mancate’ a causa del rapporto conflittuale dell’individuo con specifiche strutture e fenomeni urbani.

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«The capability approach is not a theory to explain poverty, inequality, or well-being, although it does offer concepts that can be used in such explanations. Instead, it provides concepts and, in its broader forms, normative frameworks within which to conceptualize, measure, and evaluate these phenomena as well as the institutions and policies that affect them» (Crocker, Robeyns, 2010: 61)

Giovanna Fancello

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L’Approccio alle Capacità e le Politiche di Sviluppo Urbano

Le politiche di sviluppo urbano e il Benchmark model Le politiche di sviluppo urbano sono quelle forme di azione e trasformazione urbana che mirano a limitare le illibertà individuali determinate da particolari fenomeni, forme e configurazioni dell’urbano. Strumenti di governo del territorio che mirano ad affrontare gli elementi contestuali caratterizzanti la povertà urbana attraverso il recupero, la riqualificazione e rigenerazione integrata dei contesti segnati da stati di degrado fisico, sociale, culturale o ambientale. Fondamentale per questa ricerca è comprendere quale sia lo stato dell’arte in ambito di politiche di sviluppo urbano in Europa e come e quanto queste siano rivolte a limitare gli effetti di quegli elementi dell’urbano – e loro configurazioni – ‘determinanti’ all’interno del processo di sviluppo delle libertà individuali. Sono analizzate quelle politiche pubbliche che intendono: (1)monitorare lo stato di povertà e la QdV dei contesti in cui vengono attuate; (2)definire progetti di sviluppo integrato del territorio; e (3) costruire un metodo di ridistribuzione di risorse e servizi nel territorio. Quest’ultimo punto mette in luce i criteri di giustizia spaziale che le politiche intendono perseguire. Quale territorio o quale popolazione dovrebbe ricevere i benefici di una nuova politica? Implicitamente o esplicitamente chi si occupa del governo e la gestione del territorio deve rispondere a questa domanda. In questo senso i casi studio selezionati sono analizzati rispetto a (a)come le diverse politiche effettuano i confronti tra i territori e (b)quali sono i criteri di selezione e costruzione dei progetti di sviluppo. Particolare attenzione è data alla ricerca di quegli aspetti delle politiche che più si avvicinano al CA sia in fase di analisi e selezione delle aree, sia di elaborazione ed attuazione del progetto. In questo modo si vuole determinare quanto tali politiche siano orientate ad uno sviluppo delle capacità individuali e a limitare la povertà urbana. Non vi sono metodi consolidati di analisi della QdV urbana3 e di definizione di politiche pubbliche costruiti in ottica di CA, tuttavia, è possibile trovare in esse alcuni elementi che richiamano implicitamente questo approccio e che orientano la costruzione di nuove politiche in ottica di CA. Un modello di costruzione di politiche pubbliche orientato al CA dovrebbe seguire alcuni criteri. A tal proposito è definito un Benchmark Model (Tab. I) per l’orientamento e la valutazione delle politiche pubbliche. Il modello proposto non vuole essere solo uno schema analitico, ma anche un riferimento per la costruzione di nuove politiche per la città. È fondamentale definire modelli, regole e obiettivi che le singole politiche devono perseguire attraverso il progetto dell’urbano. Questo permette di regolare la costruzione del progetto e destinare le risorse a interventi capaci di porre le basi per la costruzione di nuove opportunità di sviluppo individuale. Punti fondamentali del Benchmark Model sono: (a)lista di capacità o limiti urbani, (b)focus nell’individuo, (c)focus nella distribuzione spaziale e nelle diseguaglianze di capacità, (d)valutazione di capacità e non solo funzionamenti. Tabella I: Benchmarck Model

Criteri principali (a)La lista di capacità

(b)Il focus nell’individuo

(c)Il focus nella distribuzione spaziale e nelle diseguaglianze di capacità (d)La misurazione delle capacità e non solo dei funzionamenti

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Confronto tra territori Formulazione esplicita Giustificazione metodologica Avere diversi livelli Inclusione di tutti gli elementi Significativo di opportunità urbane disponibili per i singoli individui Attenzione alle differenze individuali Distribuzione spaziale delle capacità individuali Distribuzione spaziale delle diseguaglianze contestuali Misurazione di capacità e non solo funzionamenti

Confronto tra i progetti Definizione chiara degli obiettivi del progetto wath people value – presenza di processi partecipativi Costruzione di reali opportunità per tutti gli individui Costruzione del progetto attenta alla diversità individuale (bambini, anziani, disabili, …) Attenzione alla distribuzione delle diseguaglianze contestuali Garantire lo sviluppo di capacità non solo il miglioramento di doings and beings (funzionamenti)

Alcuni esempi sono dati dai lavori di Chiappero-Martinetti, Moroni, Nuvolati (2011); Van Ootegem, Spillemaeckers (2010); Van Ootegem, Verhofstadt (2011); Lorgelly, Lorimer, Fenwick, Briggs (2010)

Giovanna Fancello

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L’Approccio alle Capacità e le Politiche di Sviluppo Urbano

(a)Lista di capacità o limiti urbani. Considerando la QdV come determinata dall’insieme di capacità possedute da ogni individuo, l’analisi della QdV urbana deve essere definita a partire da una chiara lista4(Robeyns, 2003) di capacità considerate fondamentali dagli individui di una particolare comunità. Allo stesso modo la costruzione di una politica deve definire quali siano gli elementi chiave che intende migliorare. Questo consente di costruire metodi di valutazione che permettano di ipotizzare quanto un piano o progetto possa influire ampliando le libertà di sviluppo individuale insite nel contesto. (b)Focus nell’individuo. Il CA considera l’individuo come unità fondamentale degli interessi morali nell’analisi della QdV (Alkyre, 2008). Inoltre, dal punto di vista del theoretical individualism (Robeyns, 2008) tiene conto delle relazioni sociali e dei vincoli e opportunità che le strutture sociali hanno sugli individui riconoscendo i fattori contestuali che influenzano la conversione individuale di commodities in funzionamenti e distinguendo i funzionamenti dalle capacità in quanto questi dipendono dal processo di scelta individuale. Il focus nell’individuo è fondamentale anche per determinare le diseguaglianze interne alla società (Stiglitz, Sen and Fitoussi, 2009). Dal punto di vista del metodo considerare l’individuo come unità di analisi significa incidere sia sulla tipologia dei dati5 sia sul metodo di aggregazione di questi per la misurazione della QdV (Alkyre, 2008). Per quanto riguarda la costruzione del progetto il focus nell’individuo si dovrebbe tradurre nell’attenzione progettuale alla diversità insita negli individui nel processo di conversione e di scelta. Scelte e valori – what people value – che devono essere ‘rivelati’ attraverso la predisposizione di processi partecipativi. (c)Focus nella distribuzione spaziale e delle diseguaglianze di capacità. L’analisi e misurazione della QdV urbana dovrebbe rivelare la distribuzione spaziale delle capacità urbane all’interno della città in quanto significativa di particolari limiti e diseguaglianze contestuali che influenzano lo sviluppo individuale. La costruzione di una geografia delle capacità attraverso la mappatura delle capacità individuali può essere un metodo di analisi e aiuto alla decisione appropriato. Le politiche dovrebbero differenziarsi nell’urbano rispetto all’evoluzione della distribuzione spaziale di capacità e diseguaglianze osservando criteri di giustizia spaziale. (d)Valutazione di capacità e non solo funzionamenti. Analizzare la QdV urbana all’interno del CA significa analizzare l’insieme di capacità che gli individui possiedono all’interno del contesto urbano e non i semplici funzionamenti. Sebbene i funzionamenti possano essere considerati una proxy di alcune capacità sviluppate, tuttavia non comprendono l’insieme di capacità non sviluppate. L’analisi dei soli funzionamenti è quindi incompleta. Allo stesso modo le politiche urbane dovranno mirare non solo a migliorare la qualità dei funzionamenti già sviluppati dalla popolazione, bensì ad accrescere l’opportunity set contestuale.

Casi studio In questo paragrafo sono analizzati alcuni casi studio di politiche pubbliche di sviluppo urbano con lo scopo di comprendere quanto siano coerenti con i principi del CA. Si è scelto di esaminare le politiche attuate in Francia6, Regno Unito7, Bruxelles Capitale8 e Catalogna9. L’elenco non è esaustivo ma significativo della struttura delle politiche pubbliche europee rispetto agli obiettivi di sviluppo urbano. Alcuni paesi gestiscono i problemi legati alle aree urbane povere a livello nazionale (Francia, Regno Unito, Portogallo) altri invece – Belgio e Spagna – oltre ad avere una normativa nazionale di riferimento, definiscono programmi regionali specifici e attenti alla diversità locale. La Francia con il Programme National pour la Rénovation Urbain (PNRU) mira a rigenerare i quartieri classificati nelle Zones Urbaines Sensibles (ZUS) o quelli che presentano caratteristiche economiche e sociali analoghe10. Si tratta di quartieri sensibili o ambiti urbani in difficoltà individuati in corrispondenza di particolari situazioni economiche e commerciali e di deficit riferiti a caratteristiche della popolazione 11 che richiamano più 4

La lista deve avere (Robeyns, 2003): (1) una formulazione esplicita: la lista deve essere esplicita, discussa pubblicamente e difesa; (2) una giustificazione metodologica della scelta degli elementi che la compongono rispetto al problema che si intende affrontare; (3) sensitività rispetto al contesto di ricerca ; (4) diversi livelli: una lista ideale e una pragmatica; (5) esaustività e non riduzione di capacità: la lista di capacità deve includere tutti gli elementi necessari, a prescindere dalla disponibilità di dati. 5 I dati dovranno essere rappresentativi della effettiva opportunity o ability individuale. L’utilizzo di dati aggregati o di medie comporta la perdita delle caratteristiche che stanno alla base e influenzano il processo di scelta e conversione individuale di beni (commodities) in capacità. 6 Programme National pour la Rénovation Urbain (PNRU), LOI n° 2003-710 du 1er août 2003 d’orientation et de programmation pour la ville et la rénovation urbaine 7 National Strategy for Neighbourhood Renewal (2001) 8 Region Bruxelles Capitale - Ordonnance du 7 octobre 1993 organique de la revitalisation des quartiers 9 Legge 2/2004 del 4 di giugno sul miglioramento dei quartieri, aree urbane e città che richiedono un’attenzione speciale, Generalitat de Catalunya, http://www10.gencat.cat/ptop/AppJava/es/actuacions/departament/barris/ajutslleidebarris.jsp 10 LOI n°2003-710, cit., art. 6 11 «Les zones de redynamisation urbaine correspondent à celles des zones urbaines sensibles définies au premier alinéa cidessus qui sont confrontées à des difficultés particulières, appréciées en fonction de leur situation dans l'agglomération, de leurs caractéristiques économiques et commerciales et d'un indice synthétique. Celui-ci est établi, dans des conditions Giovanna Fancello

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L’Approccio alle Capacità e le Politiche di Sviluppo Urbano

le ability personali che le opportunity legate al contesto e fondamentali per l’analisi delle capacità. La distribuzione delle diseguaglianze è considerata sia per quanto riguarda la selezione delle aree che per la costruzione dei progetti12. Le aree selezionate sono suddivise in tre categorie rispetto alle esigenze riscontrate in fase di analisi. Questa suddivisione impone la differenziazione dei progetti rispetto al livello di degrado dell’area, ma soprattutto obbliga ad una gestione delle risorse a partire dalle reali necessità di ogni territorio. Il Regno Unito elabora numerose politiche13 di recupero e sviluppo urbano fondate sugli obiettivi elaborati all’interno del’Uk National Strategy for Neighborhood Renewal. La strategia mira a eliminare lo svantaggio degli individui causato dal contesto urbano. Molte di queste politiche selezionano le aree a partire dall’Index of multiple deprivation14 che identifica i quartieri poveri fra il 3% delle peggiori Super Output Areas15. L’indice individua una lista di indicatori di degrado, molti dei quali fanno riferimento ad aspetti che riguardano l’individuo e solo raramente ai disagi dovuti al contesto urbano. Sono analizzati soprattutto aspetti economici e marginalmente elementi significativi dei funzionamenti individuali. Gli indicatori che fanno riferimento alle barriere abitative e ai servizi di quartiere possono essere considerati gli unici rappresentativi di alcune capacità individuali. Il programma della regione Bruxelles-Capitale mira a migliorare la QdV degli abitanti a partire dall’analisi di aspetti quali l’abitazione, lo spazio pubblico, i servizi, l’attività economica e l’ambiente16. I quartieri sono scelti17 all’interno dell’EDRLR18 definito all’interno del Plan Régional du Développement Durable. Si tratta di quartieri interni alla prima corona della città storica di Bruxelles, questo comporta l’esclusione a priori di alcune porzioni di territorio che potrebbero avere maggiori problemi e limiti allo sviluppo. La selezione dei progetti è effettuata in concertazione con la popolazione e gli attori interessati, per questo non è previsto un metodo preciso né un insieme di criteri univoci per la selezione dei progetti da finanziare. La Ley de Barrios catalana identifica un insieme articolato e preciso di caratteristiche delle aree degradate, inoltre, a differenza delle precedenti politiche affianca a questo un’analisi delle potenzialità di sviluppo dell’area fondata sulla valutazione del progetto19. Il metodo di selezione adottato mira ad evidenziare non solo i quartieri degradati bensì i progetti più adatti al miglioramento del degrado urbano. La lista di capacità e i dati utilizzati sono spesso significativi di un disagio individuale dovuto al contesto. Il metodo di selezione definisce criteri che riguardano la capacità del progetto di agire rispetto ai problemi di povertà urbana attraverso interventi integrati di quartiere e riesce – pur parzialmente – ad esaminare alcuni aspetti legati alle capacità urbane sviluppate dai progetti.

Conclusioni All’interno dell’articolo sono state analizzate le politiche di sviluppo urbano a partire dall’approccio alle capacità. L’analisi ha rilevato alcuni punti critici ma anche interessanti aspetti innovativi che occorre cogliere per l’innovazione delle politiche pubbliche. Tutte le politiche fanno esplicitamente o implicitamente riferimento ad una lista di capacità o limiti urbani per la selezione delle aree e la definizione dei progetti. La scelta della ‘lista’ dipende dagli obiettivi strategici e i criteri di giustizia sociale che la politica vuole perseguire. Solitamente le politiche di sviluppo urbano mirano a fixées par décret, en tenant compte du nombre d'habitants du quartier, du taux de chômage, de la proportion de jeunes de moins de vingt-cinq ans, de la proportion des personnes sorties du système scola9ire sans diplôme et du potentiel fiscal des communes intéressées. La liste de ces zones est fixée par décret». Décret n°96-1159 du 26 décembre 1996 définissant l’indice synthétique de sélection des zones de redynamisation urbaine en France métropolitaine; Zone "caractérisées par la présence de grands ensembles ou de quartiers d'habitat dégradé et par un déséquilibre accentué entre l'habitat et l'emploi. Elles comprennent les zones de redynamisation urbaine et les zones franches urbaines" (LOI n°2003-710). 12 Ministre de l’employ, de la cohésion sociale et du logement (2006), Circulaire « Élaboration des contrats urbains de cohésion sociale » 13 Fra questi, il Single Community Programme, il Community Facilitation Programme, il Skills and Knowledge Programme, il Safer and stronger communities fund 14 https://www.gov.uk/government/organisations/department-for-communities-and-local-government/series/english-indicesof-deprivation 15 Base minima statistica che comprende una popolazione di massimo 1200 abitanti. Il quartiere è inteso come il livello critico in cui occorre agire per attuare modifiche e cambiamenti. 16 Sono indicatori di selezione: lo stato di degrado degli edifici e degli spazi pubblici; il tasso di edifici vuoti; il numero di terreni non edificati; aree segnate da forti diseguaglianze sociali (alto tasso di disoccupazione, precarietà, etc) che includono numerose abitazioni con deficit di servizi, troppo piccole o insalubri; il cui ambiente di vita è sgradevole: facciate e interni degradati, edifici abbandonati, mancanza di spazi verdi; dove gli abitanti provano un senso di insicurezza e i legami sociali sono indeboliti 17 La regione di Bruxelles-Capitale stabilisce ogni anno una lista di quattro quartieri che possono accedere al programma e riceve un budget di circa 44 milioni di euro per il recupero dei quartieri in concertazione con i cittadini . 18 Espace de Développement Renforcé du Logement et de la Rénovation area 19 «Un semplice metodo di selezione si baserebbe essenzialmente sui deficit urbanistici e sociali interni ai quartieri, tuttavia, come emerso dall’esperienza internazionale, questo genera effetti controproducenti nel territorio» (Nel•lo, 2009: 19) Giovanna Fancello

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selezionare le aree più degradate nel territorio ma vi sono anche casi (es. Catalogna) in cui si valuta congiuntamente il livello di degrado dell’area e le potenzialità di recupero. Questo è importante perché occorre fare attenzione a non stigmatizzare le popolazioni definendo politiche ad hoc che non sempre placano i problemi e costruiscono una classe sociale stigmatizzata (Fainstain, 2011; Nel•lo, 2009). I metodi di selezione delle aree raramente fanno attenzione alla relazione individuo-contesto. Gran parte dei dati utilizzati per la costruzione dei progetti non è significativa delle effettive opportunità individuali né della loro distribuzione nel territorio. Le politiche nazionali (Francia, Regno Unito,…) tengono conto marginalmente degli aspetti che riguardano l’urbano soffermandosi più sulle abilities personali che sulle opportunities fornite dal contesto. I casi invece della Catalogna e del Belgio, sviluppati a livello regionale, entrano maggiormente in dettaglio esplorando aspetti del degrado legati alla struttura del contesto urbano. Tuttavia, la mancanza di dati ad-hoc spesso limita i risultati delle analisi. Infine, l’analisi e la costruzione dei progetti sono spesso due fasi slegate non coerenti con gli obiettivi strategici della politica. Ad esempio, le azioni sono attuate all’interno di un perimetro prestabilito. Bisognerebbe invece chiedersi: chi è la popolazione beneficiaria di queste politiche? Attuare un processo di conversione e miglioramento architettonico in un quartiere caratterizzato da popolazione povera non è detto che sia un beneficio per quella popolazione. Occorre leggere la società, l’urbano e i suoi problemi con occhi diversi in modo da cogliere i veri problemi che stanno alla base della povertà urbana.

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Giovanna Fancello

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L’Approccio alle Capacità e le Politiche di Sviluppo Urbano

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Giovanna Fancello

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Spazi pubblici in rete: l’accesso come indicatore di rischi e opportunità del geosocial networking per la dimensione urbana

Spazi pubblici in rete: l’accesso come indicatore di rischi e opportunità del geosocial networking per la dimensione urbana Rossella Ferorelli Politecnico di Milano DAStU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Email: rossellaferorelli@gmail.com Tel: + 39 333 4977417 Alessandro Cariello Politecnico di Bari DICAR - Dipartimento di Scienze dell’Ingegneria Civile e dell’Architettura Email: a.cariello@poliba.it Tel: + 39 338 5423793

Abstract L’emergere della centralità delle reti nelle dinamiche urbane ha prodotto una radicale ridiscussione delle nozioni di ‘pubblico’ e ‘privato’. Alla base della valutazione di un grado di publicness dello spazio urbano si rivela centrale il tema dell’accesso, ma la diffusione capillare dei locative media e dei social network basati su meccanismi location-aware sembra costituire, allo stesso tempo, una problematica e una risorsa per l’identità urbana. Ma è il rapporto diretto che l’uso invalso di operazioni come check-in e geofencing intrattengono con la dimensione fisica della città a costituire, oggi, una problematica per l’urbanista, poiché rischiano di generare nuovi recinti virtuali di senso, al puro scopo pubblicitario, la cui aggressività nei confronti del cittadino è inedita. È lecito allora chiedersi se esista un rischio per la tutela dell’identità degli spazi pubblici online all’interno delle dinamiche che portano, attraverso i geosocial media, alla creazione mappe condivise di uso della città e quali siano, perciò, le prospettive culturali e simboliche da difendere e le misure da adottare. Parole chiave Spazio pubblico, location-aware information, accesso

Background: capitalismo cognitivo, publicness e centralità del tema dell’accesso Negli ultimi trent’anni si è assistito a una esponenziale diffusione dell’interesse dimostrato dalla letteratura scientifica in materia di architettura e urbanistica nei confronti dello spazio pubblico. Tuttavia, nonostante la proliferazione saggistica al riguardo sfiori l’ipertrofia, anche questo rinnovato interesse, in decenni di ricerche, ha assunto chiavi differenti ed è in continua evoluzione. In aggiunta, l’emergere della centralità delle reti nelle dinamiche urbane ha prodotto una serie di nuove domande che pongono in radicale ridiscussione le complesse nozioni di ‘pubblico’ e ‘privato’. Si tratta del territorio ancora sdrucciolevole e magmatico relativo alla comparsa di quella nuova identità del capitalismo contemporaneo che si definisce oggi ‘cognitivo’ e si riferisce a un mondo nel quale la valorizzazione della produzione materiale perde la sua posizione di centralità in favore di quella di un lavoro complesso, immateriale, in cui la conoscenza è considerata la forza produttiva principale e al quale non sono più applicabili le unità di misura classiche. In questo tipo di scenario, l’individuo, in quanto produttore di conoscenza – il bene che, appunto, costituisce la principale fonte di scambio sul mercato – si trasforma egli stesso nel capitale necessario alla propria sopravvivenza. Diventato quindi ‘capitale umano’, egli si tramuta in imprenditore di se stesso e la sua vita intellettiva diventa il proprio core business. Ma poiché la vita intellettiva non è compartimentabile, il tempo del lavoro tende a perdere i propri confini e la sua estensione si confonde con quella della vita intera (Gorz, 2003). Rossella Ferorelli, Alessandro Cariello

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Spazi pubblici in rete: l’accesso come indicatore di rischi e opportunità del geosocial networking per la dimensione urbana

Una simile rivoluzione della vita lavorativa si ripercuote notevolmente sulle dinamiche urbane relative alla spazializzazione dei luoghi di lavoro e di svago. Gli spazi pubblici, da sempre territorio dell’incontro e dello scambio laico tra i cittadini, diventano così teatro di nuovi stili di vita che ibridano costantemente tempi, modi e meccanismi della vita privata (quella delle relazioni) e di quella pubblica (quella del lavoro). Naturalmente, la diffusione dei dispositivi portatili – come smartphone, netbook e tablet – dotati di accesso autonomo alla rete e degli hotspot Wi-Fi gratuiti nelle città polarizza poi ulteriormente il fenomeno, permettendo in sostanza un’attività di interazione incessante, in particolare col proprio luogo e i propri contatti di lavoro. È chiaro quindi come questo scenario, fonte floridissima tanto di possibilità quanto di rischi per la qualità dell’esistenza quotidiana, imponga una ulteriore, drastica riconsiderazione del concetto stesso di spazio pubblico e delle simbologie e dei significati ad esso attribuibili. Sono assai utili, a questo proposito, le osservazioni di Ali Madanipour, che tenta una definizione di criteri per la valutazione di un grado di ‘pubblicità’ (publicness) degli spazi urbani contemporanei articolandolo nelle dimensioni di ‘accesso’, ‘interesse’ e ‘attori’, riconoscendole come indispensabili alla lettura del problema. Ma è il tema dell’accesso a risultare particolarmente interessante, sia per la vastità di accezioni che lo stesso autore gli attribuisce, sia per le ulteriori riflessioni che seguiranno, e che costituiscono l’obiettivo centrale di questo lavoro. Tale criterio si può sviluppare in quattro sotto-definizioni: accesso fisico, ovvero accesso materiale all’ambiente; accesso sociale, o accesso simbolico, cioè relativo all’accoglienza riservata ai differenti gruppi che strutturano le comunità urbane; accesso ad attività e discussioni, in particolare riguardo l’uso dello spazio stesso; accesso alle informazioni, in particolare riguardo la programmazione degli sviluppi e dell’uso dello spazio stesso (Madanipour, 2010). In merito all’ultimo punto, si potrebbe obiettare che, così fatta, la definizione di “accesso alle informazioni” risulta incompleta in un’ottica di pianificazione smart, nella quale si persegua un modello urbano votato alla connessione degli spazi pubblici in rete (Pinto, Remesar, Brandão, Nunes da Silva, 2010) tra loro e con il mondo esterno. Si tratta del problema assai vasto che riguarda il rapporto, appunto, tra informazione, reti e spazi pubblici urbani. Per accennare ad alcune delle problematiche che tale complessa questione porta alla luce, ci si può chiedere se il tema dell’accesso come indicatore di publicness dello spazio urbano possa essere considerato anche nella sua accezione inversa, ovvero non quale accesso allo spazio pubblico, ma accesso dallo spazio pubblico (verso la rete). In tal senso, uno spazio urbano si potrebbe dire pubblico anche nella misura in cui fornisca accesso alla rete degli spazi urbani e a quella ‘glocale’ delle informazioni in merito a se stesso (locale) e al web nella sua totalità (globale). Si dovrà in tal caso forse parlare di spazi non solo accessibili bensì anche – facendo ricorso a un neologismo – ‘accessivi’, ovvero portatori di nuove possibilità di accesso.

Geosocial networking e identità dello spazio pubblico Per altro verso, si osserva che la georeferenziazione di dati relativi al territorio e la contemporanea diffusione di massa di dispositivi di localizzazione portatile (i cosiddetti locative media) stanno generando una dinamica di crescente biunivocità tra la messa in rete degli spazi fisici della città e lo sviluppo dei social media. Molti di questi ultimi si stanno infatti da alcuni anni specificamente sviluppando intorno alla possibilità di localizzazione fisica dei contenuti prodotti dagli utenti tramite tecnologia GPS o Wi-Fi, ovvero intorno a quel processo noto come geolocalizzazione dei contenuti tramite attribuzione ad essi di geotag. Questi ultimi sono costituiti da stringhe di dati contenenti le coordinate geografiche che possono essere attribuite come tag (cioè “etichette”) a diversi possibili generi di informazioni condivise. Si parla, in questi casi, di geosocial network, ovvero di social network basati sui luoghi, che condividono cioè la loro base tecnologica col più ampio insieme dei locationbased services, o LBS. Tra i più celebri social network di questo tipo si annoverano, ad esempio, Foursquare, Google Latitude, Scvngr, ma anche Facebook (che di recente ha acquisito Gowalla1) e Twitter in certe loro applicazioni. Nonostante varie differenze che li contraddistinguono, i geosocial network si caratterizzano per il tratto comune di essere applicazioni gratuite, disponibili sia per dispositivi mobili sia per desktop, che permettono a utenti registrati di condividere con i propri contatti la propria posizione in real time. Funzione cardine di tutti questi strumenti è il check-in, ovvero l’operazione di logging presso un luogo reale rappresentato da un segnalino su una mappa della città in cui ci si trova, condivisa con gli utenti che rientrano nella sfera dei propri contatti all’interno del network. In questo modo, tali utenti possono venire reciprocamente a conoscenza delle proprie localizzazioni, naturalmente su base volontaria.

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La notizia è diffusa in rete il 2 dicembre 2011 da CNN Money: http://money.cnn.com/2011/12/02/technology/gowalla_facebook/index.htm [ultimo accesso 4 aprile 2013]

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Molti sono gli effetti che l’uso di queste applicazioni hanno nell’evoluzione della cultura urbana contemporanea. In generale è necessario osservare come l’avvento di Google Maps, Google Earth e Bing abbiano avvicinato alla topografia – se pur chiaramente a un livello amatoriale – un numero straordinariamente elevato di persone. Rispetto anche a solo un decennio fa, la confidenza con lo strumento mappa digitale si è diffusa a una velocità tale che si può dire oggi patrimonio condiviso da una percentuale rilevante degli utenti medi della rete 2. Addirittura, si può parlare, riferendosi al web 2.0, della costruzione di una conoscenza diffusa che trova le sue radici nel giornalismo cartografico, o in generale nell’inclinazione della pratica giornalistica a produrre narrazioni strettamente circostanziate da un punto di vista geografico (Sui, Goodchild, 2011). Ma ciò che più ci interessa in questa sede è rilevare il peso che la suddetta funzione del check-in ricopre nell’ottica di un discorso complesso sull’accesso come cardine centrale di un’etica della publicness urbana, che è il cuore del presente lavoro. Come si diceva, i geosocial network si basano su tale meccanismo di dichiarazione pubblica di accesso necessaria ad utilizzare le funzioni dell’applicazione. L’attrattività del meccanismo viene garantita, oltre che dalla immediata visualizzazione sulle mappe condivise dei dati – sotto forma di segnalini, percorsi, immagini, video, testi, eccetera –, anche da tattiche di gamification (‘ludicizzazione’), ovvero di dinamiche tipiche dei giochi, quali l’ottenimento di bonus e premi o il raggiungimento di status e ruoli ‘privilegiati’ al superamento di determinati ‘livelli’. Tali tattiche sono evidentemente mutuate al mondo del marketing e, d’altra parte, i social network di cui parliamo non sono che servizi forniti da aziende private dichiaratamente a scopo di lucro, tant’è che l’adagio secondo cui «se paghi, sei il cliente; se non paghi, sei la merce» è ormai un luogo comune proprio del settore dei social media3. Nella fattispecie, la moneta con la quale simili servizi vengono ‘pagati’ è chiaramente costituita dai dati personali forniti volontariamente dagli utenti. Per i geosocial in particolare, la merce di scambio sono per l’appunto i dati relativi alla posizione geografica occupata. Per chiarire, si potrà descrivere brevemente il funzionamento di Foursquare, forse il più noto tra i geosocial oggi disponibili su piazza. In esso, la pratica del check-in da parte degli utenti è incentivata dall’ottenimento di punti che permettono di scalare una classifica settimanale divisa per città. Eseguire molti check-in in un luogo consente di acquisire riconoscimenti, il massimo dei quali, ottenibile occupando il primo posto in classifica ininterrottamente per un certo numero di giorni, consiste nel diventare ‘sindaco’ di tale luogo. L’ambizione al conseguimento del ruolo di ‘sindaco’ è generata negli utenti dal fatto che esso permette generalmente di ottenere sconti o promozioni nell’acquisto di prodotti presso il gestore del luogo in questione, nel mondo reale 4. È evidente dunque la natura strettissimamente commerciale che pervade il funzionamento di questo network (ma che, come si è detto, è a grandi linee estensibile alla maggior parte di essi), nel quale l’esistenza stessa dell’entità ‘luogo’ all’interno dell’ambiente che genera la rappresentazione in mappa è direttamente connessa all’interesse economico privato insito nella pubblicizzazione della sua presenza online. Alcuni ambienti digitali fanno anche ricorso al geofencing: si tratta dell’uso di perimetri virtuali, geolocalizzati intorno a luoghi reali, che possono essere rilevati da dispositivi portatili tramite certe applicazioni locationbased. Al momento dell’attraversamento di simili frontiere, il dispositivo portatile si attiva. Nel caso delle dinamiche dei geosocial media, ad esempio, potrebbe accadere che, in vicinanza di un punto di ristoro sponsorizzante, l’applicazione installata su uno smartphone proponga di effettuare l’accesso all’esercizio commerciale in cambio di un buono sconto. Ma è il rapporto diretto che l’uso invalso del check-in e le operazioni di geofencing intrattengono con la dimensione fisica della città a costituire, oggi, una problematica interessante per l’urbanista. Ciò che questo tipo di interazione tra gestori e utenti di LBS sta generando è un fenomeno di aumentazione 5 spaziale il cui effetto rischia di essere quello di generare nuovi recinti virtuali anche laddove la continuità del tessuto urbano non ponga alla penetrazione degli spazi pubblici alcuna barriera fisica o sociale riconoscibile. In altre parole, la necessità di eseguire log allo scopo di raggiungere uno stato socialmente riconosciuto di ‘presenza’ in rete corrisponde in tutto e per tutto all’istituzione dell’obbligo di pagamento di un biglietto di ingresso a un luogo tramite una donazione non monetaria, bensì di informazioni, che costituiscono però un bene dal valore altissimamente monetizzabile per i gestori dei software. E, a maggior ragione, la creazione di geofence originate intorno a checkpoint sponsorizzanti costituisce una nuova forma pubblicitaria la cui aggressività nei confronti del cittadino non è più solo sensoriale (come nel caso delle miriadi di insegne presenti in piazze e strade nelle grandi metropoli, soprattutto in Oriente), ma più sottilmente cognitivo, perché costituito da informazioni non richieste 2

A causa della rilevante difficoltà di reperire online dati numerici ufficiali sull’argomento, ci si riferisce ad alcuni articoli di testate di settore. In quello al link seguente si parla di circa 65.000.000 di utenti di Google Maps su mobile nel solo aprile 2012: http://www.businessinsider.com/apple-maps-effect-on-google-2012-6 [ultimo accesso 5 aprile 2015] 3 Si leggano, a mero titolo di esempio: http://bebranded.wordpress.com/2012/02/21/social-media-if-its-free-youre-theproduct/ oppure http://www.forbes.com/sites/jonathansalembaskin/2013/01/15/facebooks-graph-search-makes-it-officialyou-are-its-product/ [ultimo accesso 5 aprile 2013]. 4 Per le linee guida ufficiali sui ‘luoghi’ di Foursquare si veda: http://support.foursquare.com/categories/20060708-Placesguidelines- [ultimo accesso 5 aprile 2013]. 5 Il termine, che in italiano esiste solo in campo musicologico, si intenda in questo contesto atto a tradurre l’inglese augmentation, in riferimento all’augmented space per la prima volta definito da Lev Manovich (2005). Rossella Ferorelli, Alessandro Cariello

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dall’utente, e che tuttavia lo raggiungono per via spaziale connotandone in senso del tutto privatisticocommerciale la percezione della dimensione fisica e simbolica della città. Ancora, in un’altra ottica che potrebbe definirsi di pura ‘etica della rappresentazione urbana’, è lecito chiedersi se esista un rischio per la tutela dell’identità degli spazi pubblici online all’interno delle dinamiche che portano, attraverso i geosocial media, alla creazione mappe condivise di uso della città. Prendendo ancora in esame una qualsiasi struttura analoga a Foursquare, si può riflettere su come gli spazi pubblici urbani, non essendo – quantomeno in linea generale – una fonte di generazione diretta di reddito sottoposta alle leggi del mercato, non possano trovare adeguata rappresentazione all’interno di questi ambienti geografici virtuali. Infatti, è difficile immaginare per gli spazi pubblici un corrispettivo del ‘gestore’ di un esercizio privato che si occupi della salvaguardia (se non addirittura della valorizzazione) della loro identità in rete. Benché infatti creare nuove entità ‘luogo’ su queste piattaforme sia possibile per qualsiasi utente (quindi anche chi non possegga alcuna attività economica da pubblicizzare), è evidente che l’interesse tanto del creatore nella sua pubblicizzazione quanto dell’utente generico nell’atto del check-in, in assenza di alcun tipo di ritorno economico, sia imparagonabilmente inferiore a quello che si genera nel rapporto economico esercente-cliente6. Peraltro, se anche fosse pensabile l’istituzione di meccanismi compensativi – quali ad esempio la creazione di account gestiti da enti pubblici e volti, appunto, a operazioni di marketing territoriale sugli spazi pubblici per l’utilità collettiva –, fino a che la merce di scambio resterà il check-in presso un luogo7, verrà comunque minato alla base il rispetto del criterio di accessibilità libera e non mediata, che abbiamo in precedenza convenuto di definire garante fondamentale di publicness dello spazio urbano. Per misurare adeguatamente l’impatto culturale dei fenomeni descritti, siffatto scenario va inoltre contestualizzato all’interno del processo di convergenza tra GIS e social media cui si assiste negli ultimi anni (Sui, Goodchild, 2011). Sembra infatti esistere un netto, vicendevole avvicinamento tra rappresentazioni esperte del territorio e mappe user-generated; tuttavia, queste ultime non possono essere considerate immuni da uno sfruttamento economico che ne pregiudica profondamente gli effetti sulla cultura geografica delle comunità che si autorappresentano, e in particolare il valore educativo del processo nei confronti delle nuove generazioni. È allora necessario forse tracciare i fondamenti per una nuova ontologia dello spazio pubblico in rete. Ma quali ne dovrebbero essere i presupposti?

Aperture e prospettive Da quando l’uso di internet è parte fondamentale della vita quotidiana dell’uomo, ciclicamente emergono sentimenti di accerchiamento, di paranoia, legati all’effettiva esplosività delle trasformazioni culturali in atto in materia di privacy. Ancora una volta si tratta del ridisegno dei margini dell’antinomia pubblico/privato, applicata di volta in volta alle libertà personali, al copyright, ai dati sensibili e così via. Naturalmente, l’estremismo di certi atteggiamenti di fiducia e di sospetto dimostra che esiste «qualcosa di peculiare, persino di comico, nel modo in cui il movimento8 sia ‘The Next Big Thing’ per alcuni, e un’apocalisse capitalistica per altri» (Tuters, Varnelis, 2006) e che quindi ci troviamo ancora in un periodo di avanguardia: benché infatti le tecnologie alla base dei LBS siano ormai mature, i modi in cui esse vengono impiegate nei network sociali sono in spasmodica evoluzione e gli effetti che ciò è destinato a generare sullo spazio fisico sono ancora materia di pieno dibattimento. D’altronde, benché, come si è detto, il tema della publicness dello spazio urbano sia costantemente allo studio da anni, nessun problema fondamentalmente politico può mai dirsi risolto completamente, e in particolare questo è vero in periodi di transizione culturale globali com’è quello in cui ci troviamo oggi. Di conseguenza, la percezione paranoica dovuta al ‘controllo’ è essa stessa soggetta a incessanti negoziazioni. Come Deleuze anticipava già nel 1990, oggi i meccanismi di controllo non operano più attraverso restrizioni esplicite, ma sottilmente, attraverso l’orientamento del comportamento verso l’economia del consumo attraverso mots de passe (Deleuze, 1990). I margini del problema del controllo stanno diventando più difficili da rintracciare, ma probabilmente si tratta di un paradosso irrisolvibile. D’altra parte, la produzione culturale e il potere coercitivo sono da sempre legati, e questo è particolarmente vero per quanto riguarda le forme di rappresentazione geografica, essendo queste un ovvio strumento di veicolo politico. Probabilmente il valore civile dell’uso dei locative media non è da valutarsi nonostante la loro complicità coi meccanismi di dominio, ma proprio in base ad essa, nell’accettazione del paradosso e nella valorizzazione dell’ambiguità che questo crea 6

Tuttavia, non esistono dati certi sulle dimensioni degli effettivi ritorni economici del meccanismo o sui volumi di nuovi affari realizzati grazie ad essi: http://www.pcworld.com/article/261171/location_based_social_media_marketing_for_small_businesses.html [ultimo accesso 5 aprile 2013]. 7 Sembra peraltro che, nel particolare caso di Foursquare, gli ultimi mesi abbiano visto un calo drastico nel trend di aumento dei check-in, che sembrano non seguire il trend di crescita del numero di utenti, invece sempre forte: http://techcrunch.com/2013/03/16/foursquare-aims-at-a-moving-target-as-it-tries-to-close-another-round-of-funding/ [ultimo accesso 5 aprile 2013]. 8 Gli autori del testo citato intendono, per la precisione, il movimento artistico legato all’ascesa dei LBS. Rossella Ferorelli, Alessandro Cariello

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Spazi pubblici in rete: l’accesso come indicatore di rischi e opportunità del geosocial networking per la dimensione urbana

sia a livello politico sia propriamente spaziale (Hemment, 2004). Tale ambiguità è infatti il tratto distintivo di questi media e la ricchezza che essi conferiscono allo spazio a cui si applicano è proprio nel carattere di ibridità. Un’immagine geotaggata, ad esempio, non può infatti essere definita né un oggetto puramente fisico né puramente digitale, poiché un geotag non è semplicemente la rappresentazione di un luogo del mondo fisico, ovvero non ne è solamente il segno, il rimando. Spesso avviene, infatti, che luoghi fisici vengano scoperti o esperiti sulla base di metadati digitali. Gli oggetti geotaggati diventano, così, essi stessi oggetti simbolici (de Lange, 2009) sui quali si può agire mediante attribuzioni di significato, come sempre avviene quando un utente è chiamato a interagire con un dispositivo tecnologico il quale, appunto, richiede engagement e si costruisce in itinere, nel momento stesso in cui viene utilizzato: internet funge così da significante sia come medium che come contesto (Diamantaki et al., 2007). Ma questo scarto di significati è forse proprio quello che è chiamato a colmare, biunivocamente, la perdita di contenuti e valori culturali che molta letteratura individua nel passaggio distruttivo delle compagini urbane da sistemi di ‘luoghi’ a insiemi di ‘spazi’, la cui responsabilità è attribuibile ai processi di sviluppo della città negli anni del moderno (Madanipour, 2010). Se è evidente che la realtà aumentata, con la sua ‘sovraimpressione’ virtuale di significati sul mondo reale, è ancora una risposta troppo diretta – e per questo naif – alla questione, e se è chiara l’esposizione di certi valori identitari all’aggressione del mercato, è pur vero, tuttavia, che il successo dei locative media dimostra lo sviluppo di una nuova domanda di luoghi della produzione e della condivisione comunitaria di senso. Nell’idea, quindi, che la direzione da intraprendere non possa che considerare l’intreccio ormai indistricabile tra le realtà del fisico e del digitale, è necessario che le discipline del governo e del design dello spazio si interroghino sulla sempre più evidente necessità che i progetti di rigenerazione che intervengono sullo spazio pubblico mirino a far corrispondere all’uso di location-aware information progetti di quelle che potremmo definire come ‘information-aware location’. In altre parole, è necessario d’ora in avanti parlare di spazi ‘pubblici’ nella misura in cui siano accessibili e accessivi, ma nei quali il controllo relativo allo scambio di informazioni da parte dei cittadini-utenti costruisca uno standard di ‘benessere identitario’ pari almeno a quello che si può costruire in uno spazio domestico, cioè massimamente privato. La formulazione di questo nuovo criterio può essere il primo passo verso un processo consapevole di piena comprensione della città come ambiente ibrido nelle dimensioni online/offline e pubblico/privato.

Bibliografia

de Lange, M. (2009). From always on to always there: Locative media as Playful Technologies. In de Souza e Silva A., Sutko D. M. (a cura di, 2009), Digital cityscapes: merging digital and urban playspaces, Peter Lang, New York, pp. 55-70. Deleuze G. (1990), Post-scriptum sur les sociétés du contrôle, in «L'autre journal», n. 1, maggio 1990. Diamantaki K., Charitos D., Tsianos N., Lekkas Z. (2007). Towards investigating the social dimensions of using locative media within the urban context, atti della 3a IET International Conference on Intelligent Environments, UlmUniversity, Ulm, Germany, 13-15 Settembre 2007. Disponibile online alla pagina http://ieeexplore.ieee.org/stamp/stamp.jsp?tp=&arnumber=4449911&userType=inst [ultimo accesso 23 marzo 2013]. Gorz A. (2003), L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino. Hemment D. (2004). Locative Dystopia 2. Disponibile online all’indirizzo http://eprints.lancs.ac.uk/30831/1/Locative_Dystopia_2.pdf [ultimo accesso 20 marzo 2013]. Madanipour A. (a cura di, 2010), Whose public space?, Routledge, Abington-New York. Sui D., Goodchild M. (2011), The convergence of GIS and social media: challenges for GIScience, in «International Journal of Geographical Information Science», 25:11, pp. 1737-1748. Tuters M., Varnelis K. (2006), Beyond Locative Media. Disponibile online sul sito di uno degli autori come link diretto dalla home page, all’indirizzo http://networkedpublics.org/locative_media/beyond_locative_media [ultimo accesso 20 marzo 2013]. Pinto A. J., Remesar A., Brandão P., Nunes da Silva F., (2010) Planning public spaces networks towards urban cohesion. Atti del congresso ISOCARP ‘Sustainable City / Developing World’, Nairobi, 2010. Disponibile sulla piattaforma ISOCARP (www.isocarp.net) , nella sezione ‘Previous papers’, all’indirizzo http://www.isocarp.net/data/case_studies/1798.pdf [ultimo accesso 28 marzo 2013]. Manovich L. (2005), The Poetics of Augmented Space: Learning from Prada. Disponibile online sulla pagina personale dell’autore nella sezione ‘Articles’, all’indirizzo http://www.manovich.net/DOCS/Augmented_2005.doc [ultimo accesso 20 marzo 2013].

Rossella Ferorelli, Alessandro Cariello

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Le procedure ad evidenza pubblica come strumento per la rigenerazione urbana

Le procedure ad evidenza pubblica come strumento per la rigenerazione urbana Enrica Gialanella Sapienza di Roma Dipartimento DATA (Design Architettura Territorio Ambiente) Email: enrica.gialanella@gmail.com Tel: 3396595889

Abstract Nel quadro di obiettivi sempre più complessi di rigenerazione urbana numerose amministrazioni pubbliche hanno deciso, negli ultimi anni, di ricorrere a procedure ad evidenza pubblica, anche con l’obiettivo di acquisire soluzioni progettuali di maggiore qualità. Entro questa cornice, il paper si propone di offrire un primo inquadramento sullo stato dell’arte, in Italia, relativo al rapporto tra procedure pubbliche e obiettivi di riqualificazione urbana, con particolare riferimento ai seguenti aspetti: i contributi teorici sul ruolo delle amministrazioni e degli strumenti da queste ultime utilizzati alla luce dei principi dell’agire pubblico, sempre più volto al dialogo tra i diversi interessi e all’ apertura a competenze esterne; i primi risultati emersi dall’analisi effettuata su un campione di bandi nella prospettiva di individuare possibili strategie di potenziamento del dispositivo concorsuale ai fini di una maggiore efficacia dei processi pubblici di rigenerazione urbana. Parole chiave domanda pubblica, quadro esigenziale, rigenerazione urbana.

Introduzione In questo periodo di crisi in cui il settore della progettazione e della pianificazione sembra rivolgere ancora più attenzione al patrimonio urbano esistente, alcune amministrazioni pubbliche tentano di mantenere il difficile ruolo di coordinamento e promozione di processi di riqualificazione urbana utilizzando procedure concorsuali. Diffuse, in particolar modo, a partire dagli anni Novanta – in analoghe condizioni di debolezza del settore pubblico, tra scarsità di risorse e aperture ai capitali privati – queste procedure appaiono ancora oggi uno strumento poco studiato ma di particolare interesse. Infatti, soprattutto ai fini del potenziamento della capacità del soggetto pubblico di indirizzare e guidare i processi di riqualificazione urbana, anche laddove sostenuti da partenariati pubblico-privati, i bandi si presentano come un’occasione per perseguire una maggiore corrispondenza alla domanda pubblica. L’evoluzione della normativa comunitaria e nazionale, in merito alle procedure amministrative, denota una progressiva apertura al dialogo e alla partecipazione. Nel settore della pianificazione, tuttavia, in Italia si rimane ancorati a normative specifiche (considerate retrograde rispetto a tali aspetti), e solo in alcune Regioni il legislatore è intervenuto a favore di un più ampio coinvolgimento dei cittadini. Il presente lavoro si propone l’obiettivo di illustrare i primi esiti dello studio avente ad oggetto le possibili formulazioni della domanda pubblica nei processi di riqualificazione urbana. Tale studio è stato condotto mediante l’analisi di un campione di bandi pubblicati negli ultimi dieci anni, nel settore della riqualificazione urbana, prendendo in considerazione il quadro esigenziale esplicitato nelle diverse procedure concorsuali.

Enrica Gialanella

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Le procedure ad evidenza pubblica come strumento per la rigenerazione urbana

Procedure pubbliche e domanda pubblica La domanda pubblica alla base di un intervento di riqualificazione urbana necessita di essere esplorata e esplicitata sia in fase gestazionale che in fase decisionale, ma è alla fase di gestazione del procedimento che bisogna porre determinata attenzione cosi come Lasswell (Lasswell, 1956) suggerisce, poiché essa influenzerà tutto il suo corso successivo. «Lo studioso americano, in particolare, identificava nella raccolta di informazioni e nell’iniziativa le due fasi fondamentali per la messa in moto del decision making politico-amministrativo […] le due fasi preliminari destinate, però, ad influenzare l’intera formazione della decisione e i suoi esiti operativi. […]. Se ne dovrebbe ricavare la buona regola, per l’amministrazione prudente, di strutturare in anticipo tale originaria complessità del processo decisionale: senza tentare artificiose e tardive coazioni o semplificazioni successive, ma attrezzandosi per tenere ben in mano il timone del processo sin dall’inizio»1. E’ interessante osservare come nel tempo l’evoluzione della normativa sia comunitaria che nazionale in materia di procedure amministrative si sia arricchita di elementi innovativi utili a garantire la trasparenza dell’azione e l’apertura al contributo partecipativo da parte dei cittadini, provando ad assicurare, in questo modo, una cura degli interessi reali e dichiarati e rispecchiando l’assunto che l’attività di un’amministrazione pubblica sia la cura degli interessi pubblici (Giannini, 1939). Inoltre, la legge 241 del 1990 (con successive modifiche e integrazioni) nel disciplinare l’esercizio delle attività della pubblica amministrazione sembra aver fatto propria «una diversa concezione dell’interesse pubblico e degli interessi individuali nel loro reciproco atteggiarsi, e con ciò anche un diverso modo di intendere l’amministrazione in se stessa»2. «Le finalità pubbliche costituiscono in questo modo un criterio discretivo o la regola “arbitrale” fra gli interessi privati che spetterà all’amministrazione applicare. L’amministrazione chiamata a disporre l’assetto degli interessi in relazione ai fini pubblici rilevati caso per caso, deve statuire alla luce del fine pubblico l’assetto degli interessi privati»3. Se lo scopo dell’azione pubblica può essere considerato l’interesse della collettività, che per tale ragione assume massima rilevanza, si ritiene che non debbano essere tralasciati neppure i motivi che spingono l’autorità ad agire in un senso piuttosto che un altro, in quanto essi consentono di individuare i criteri seguiti per orientare l’attività amministrativa. Essi appaiono, dunque, indispensabili al fine di qualificarne l’attività stessa (Giannini, 1939). In questo senso, le procedure di evidenza pubblica nella loro struttura possono riassumere i principi della pubblica amministrazione sulla trasparenza delle azioni. È interessante notare, per esempio, come le suddette procedure, quando riguardano progetti di rigenerazione urbana, si presentano utili esempi di attività amministrativa in cui i principi sanciti dalla legge n. 241/90 trovano accoglimento. Nei bandi, infatti, le scelte urbanistiche devono essere chiarite e le motivazioni (stato di fatto) necessitano di essere descritte ed analizzate, al fine di predisporre i concorrenti alla formulazione di giuste ipotesi progettuali. Esse possono, inoltre, divenire il momento in cui il problema urbano si apre a discussioni e ipotesi di trasformazione, in vista anche dell’elezione della migliore offerta in termini di quantità e qualità di spazi pubblici da distribuire alla collettività. Le procedure concorsuali appaiono come strumento preposto alla ricognizione di idee e progettualità esterne, quindi, adeguate a rappresentare proprio la fase iniziale del processo di riqualificazione urbana poiché concorrono a definire il quadro esigenziale (Karrer, 2011), in cui si sviluppa la ricognizione, l’ideazione e l’introduzione alla progettazione delle aree da riqualificare. È in queste procedure, infatti, che un’amministrazione esplicita le finalità e gli obiettivi particolari del prodotto che si intende acquisire. La costruzione del quadro esigenziale è di cruciale importanza per poter poi stabilire tutte le fasi negoziali o di scelta nell’assegnazione della realizzazione delle opere o stabilire l’equilibrio degli interessi in gioco nel caso in cui l’opera richieda la collaborazione tra pubblico e privato. In questo quadro, appare quanto mai utile capire se è possibile perfezionare la forma e le condizioni procedurali in cui si stabiliscono le decisioni concordate tra le parti, per ottimizzare contenuti e obiettivi con specifico riferimento proprio alle procedure concorsuali. Una procedura concorsuale consente di esplicitare il disegno dell’amministrazione per il perseguimento di obiettivi di rigenerazione. In questo senso essa rappresenta, in qualche modo, la domanda pubblica di una data amministrazione su una specifica porzione di territorio, prestandosi, per altro, a riflessioni sul rapporto tra fase preparatoria ed eventuali contrattazioni successive. Rivestono particolare interesse anche i tentativi di formalizzare o istituzionalizzare la procedura concorsuale presenti nella recente normativa regionale relativa alla riqualificazione urbanistica. Alcune Regioni italiane, infatti, presumibilmente recependo pratiche e tendenze in atto, hanno introdotto dei dispositivi per favorire i processi di riqualificazione urbana attraverso la concorsualità. La Regione Emilia-Romagna, nel 2011, ha 1

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Lasswell H. D.(1956), The decision Process; Seven Categories of Functional Analysis, Bureau of Governmental research, College of business and public administration, University of Maryland. in Morisi M., Passigli S., (1994), “Tra occasioni e decisioni. Una ricognizione sul decision making della trasformazione urbana”, in Morisi M., Passigli S. (a cura di), Amministrazione e gruppi di interesse nella trasformazione Urbana, Il Mulino, Bologna. Pastori G. (1994), Interesse pubblico ed interessi privati fra procedimento, accordo e auto amministrazione, in Scritti in onore di Pietro Virga, tomo 2, Giuffrè editore. Sentenza n.453/1990 della Corte Costituzionale.

Enrica Gialanella

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Le procedure ad evidenza pubblica come strumento per la rigenerazione urbana

stabilito una norma (D.G.R. n° 858/2011) che suggerisce di «tradurre in risultati tangibili di qualità ambientale e di coesione sociale, una strategia di interventi complessi […] tramite un percorso strutturato che coinvolga i cittadini attraverso le pratiche della partecipazione e selezioni i progetti mediante lo strumento del concorso di architettura, sui temi della riqualificazione in diverse aree di intervento»4. Nel campo della riqualificazione urbana, quando gli obiettivi da raggiungere sono complessi, spesso si ricorre ai moduli concorsuali per avere un ritorno ‘dichiarato’ in termini di qualità del prodotto finale (progetto). Nelle prassi e nelle retoriche pubbliche, l’indizione di bandi di progettazione viene visto come garanzia di un progetto adeguato e di qualità (soprattutto da parte di professionisti e ordini professionali), come il momento privilegiato per effettuare un’autentica ricognizione delle proposte e idee sulla base delle quali andare, poi, ad intervenire. Sulla qualità della domanda, che è alla base del bando e, quindi, sulla capacità del bando stesso di innescare un cambiamento (scaturito dalla motivazione della scelta procedurale) non ci sono approfondimenti esaustivi, sia in termini sostantivi che formali (Karrer, 2011). Alla luce di quanto sin ora esposto, ciò che qui si vuole dimostrare è che la procedura del concorso può essere utilmente analizzata per capire: quale capacità essa abbia sin qui avuto (e quindi quale possa eventualmente avere in futuro), nel convogliare sinergie utili alla rigenerazione urbana; in che misura essa riesca a porre attenzione alla domanda pubblica-collettiva (Karrer, 2012); quale sia il potenziale grado di coinvolgimento e ascolto delle esigenze reali, dei bisogni sociali, della capacità di trovare interlocutori nuovi e di far nascere nuove progettualità ma nel rispetto dei principi che devono caratterizzare l’agire pubblico.

L’indagine L’indagine sul database di bandi fornito dalle pubblicazioni telematiche, ha consentito di iniziare ad analizzare un campione sufficientemente ampio di bandi promossi negli ultimi 10/12 anni in Italia allo scopo di fotografare una sorta di stato dell’arte sull’uso delle procedure di evidenza pubblica con obiettivi di riqualificazione nel nostro Paese. I materiali sin qui analizzati consentono di rilevare che, al momento, la scelta di bandire un concorso di progettazione rimane un’occasione ancora piuttosto rara, legata a scelte politiche o alla volontà e alla forza interna agli uffici tecnici delle amministrazioni che ne rintracciano il valore e l’opportunità di attivare delle dinamiche di rinnovo e qualità. Alcune volte, l’iniziativa è promossa dalla necessità di apportare delle modifiche migliorative in relazione al cambiamento della vocazione di un’area dismessa o degradata che conduce alla ricerca di idee progettuali attente alla peculiarità dell’area interessata, come l’esempio delle ex caserme di Roma nel Bando “La nuova porta di Roma” organizzato dalla facoltà di Ingegneria della Sapienza e il Rotary Club di Roma nel 2011. Oppure, ancora la possibilità di reinterpretare il significato e il ruolo stesso dell’area nel contesto socio economico come nel caso del concorso per la Rigenerazione delle aree urbane intercluse di Alliste e Felline in provincia di Lecce del 2009. Nel caso del bando “Riusi Industriali 2012” promosso da Confindustria di Bergamo si cercano, attraverso l’esplicitazione degli obiettivi, soluzioni integrate (a livello di masterplan) per aree industriali dismesse da connettere al sistema urbano. Negli esiti, tuttavia, non solo è stato privilegiato un progetto meramente architettonico anziché uno di rilevanza urbana, ma l’ente banditore ha, altresì, dichiarato che gli studi socioeconomici forniti ai concorrenti erano insufficienti per poter elaborare un’ipotesi reale di sviluppo dell’area. Ogni bando sembra essere portatore di obiettivi di rinnovo e cambiamento ben precisi che, in alcuni casi, vengono esplicitati anche in schemi ed elaborati grafici dove si evidenziano le principali direttrici e le visuali da mantenere o le strade e le aree da raccordare, che non pregiudicano la flessibilità e libertà nell’espressione delle idee progettuali. E’ il caso del concorso di progettazione per il Lungomare di Fregene del 2006, dove le aspettative di riqualificazione urbana, oltre a riguardare un’area specifica si rivolgono all’intero contesto urbano per il quale si auspica uno sviluppo allargato, stabilendo un nuovo rapporto con il waterfront e il contesto consolidato. A volte il momento del Bando suscita politiche formative e culturali da parte delle istituzioni chiamate a collaborare attivamente nelle scelte e interessate ad acquisire consenso da parte dei cittadini su cui ricadono le scelte progettuali, come nel caso del processo partecipativo-formativo del Bando “Sbilanciamoci con il verde” organizzato dal Comune di Ladispoli nel 2010. Questo bando ha permesso ai cittadini di partecipare attivamente alle scelte di riorganizzazione di spazi marginali e degradati e a proporsi attivamente nella gestione dei suddetti luoghi, partecipando alla progettazione di un ampia porzione di spazio verde urbano da riqualificare, sul quale

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Delibera della Giunta regionale Emilia Romagna n°. 858/2011

Enrica Gialanella

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Le procedure ad evidenza pubblica come strumento per la rigenerazione urbana

sono ancora attive delle iniziative autogestite, guidate da un’associazione che si occupa di progettazione partecipata e inizialmente aveva proposto il bando. In alcuni casi, il momento preparatorio alla redazione del bando diventa occasione per analizzare quali siano le “reali esigenze dei cittadini” fruitori finali l’opera, attraverso processi partecipativi o di informazione, come nel caso della redazione del recente bando per la riqualificazione di un‘area pubblica nel Comune di San Giovanni in Persiceto (Bologna). Nel caso del Concorso “Parco delle mura 2012” (Piacenza) sono stati assunti come obiettivi del bando quelli formulati nel processo partecipativo per il Piano Strutturale Comunale ma è stato lasciato eccessivo margine di scelta nella definizione dell’area di intervento. L’imprecisa delimitazione spaziale d’intervento ha tolto all’amministrazione pubblica l’occasione di indirizzare il processo di riqualificazione verso aree considerate critiche e degradate, che, laddove fossero state inserite in un perimetro d’azione con priorità definite e reali capacità di cambiamento, sarebbero potute divenire protagoniste di una prospettiva di sviluppo allargata.

Alcune considerazioni Una prima analisi degli aspetti formali è stata utile per osservare, innanzitutto, il quadro dell’evoluzione e maturazione delle procedure concorsuali attraverso lo studio delle parti che le compongono. Si sono presi in esame concorsi di riqualificazione urbana, con oggetto: “progetti preliminari, definitivi o esecutivi”. L’analisi di una prima parte del campione di bandi ha portato alla individuazione di alcuni aspetti, quali: la formulazione del bando di idee e progettazione con ad oggetto la definizione preliminare risulta interessante in quanto, mirando ad acquisire idee di riqualificazione e sviluppo urbana, sintetizza una gamma di problematiche urbanistiche riconducibili alla domanda pubblica di riqualificazione e agli scenari eventualmente proposti; la formulazione del bando, a volte, è una scelta che viene programmata in più fasi anteriori con la messa in moto di procedimenti volti all’approfondimento delle problematiche urbane; gli obiettivi formulati sono a volte mirati a diffondere il beneficio dell’intervento a un contesto più ampio contemplato nell’invito ad allargare e connettere le aree limitrofe con quelle di progetto; le finalità sono spesso viste come una missione di ampio respiro specie in concorsi di idee o dove l’oggetto del bando sia un progetto di definizione di massima o preliminare; il coinvolgimento di professionisti esterni nella redazione denota anche una maggiore esposizione formale a cui si ricollega una vasta gamma di contenuti; si privilegia sempre di più la pubblicazione e la comunicazione via telematica anche per assicurare trasparenza, imparzialità ed immediatezza delle informazioni elargite, anche alla luce dell’orientamento manifestato dalla giurisprudenza, la quale si è espressa a favore di tale modalità di comunicazione; il responsabile del procedimento è personale interno agli uffici tecnici, specializzati nella materia dei lavori pubblici e urbanistica che a volte si avvale del coinvolgimento di incaricati esterni; la commissione giudicatrice (oltre a rispettare la composizione dettata dalle norme) privilegia rappresentanti dell’Ordine e professori universitari nelle materie di architettura ed ingegneria della provincia d’appartenenza; il materiale richiesto per la partecipazione al concorso a titolo gratuito (il rimborso è sempre e solo per i vincitori) è molto consistente e oneroso; il conferimento di incarico non è quasi mai assicurato, a volte solo supposto; sono spesso previste esposizioni finali dei progetti ed eventuali pubblicazioni in riviste di informazione a diffusione locale o momenti di pubblico confronto finale; a volte sono consigliati o resi obbligatori sopralluoghi guidati con il responsabile del procedimento o tecnici incaricati, che oltre a svolgere il ruolo di illustrare l’area sono disponibili per domande estemporanee.

Prospettive di lavoro L’obiettivo del presente lavoro è di dimostrare come, attraverso la ricostruzione critica di un quadro composto da diversi bandi, sia utile soffermarsi sul momento iniziale del procedimento, cosi da approfondire lo studio degli strumenti e le procedure tecniche di supporto alla domanda pubblica, con particolare attenzione alle istanze sociali. Analizzando in modo sempre più dettagliato e sistematico procedure concorsuali si prova a comprendere se queste, opportunamente definite e ristrutturate, possano essere acquisite come strumenti utili per la scelta di più adeguate ipotesi di trasformazione urbana, si prova a capire se sia possibile, da un lato, potenziare il momento analitico-conoscitivo e, dall’altro, allargare le forme di dialogo trasparente e costruttivo all’interno dei processi di riqualificazione urbana. Enrica Gialanella

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Le procedure ad evidenza pubblica come strumento per la rigenerazione urbana

Nello specifico, la prosecuzione del lavoro consentirà di capire se e come le procedure concorsuali: si prestino a sviluppi per poter divenire un più valido strumento nelle mani della PA per la costruzione degli apparati conoscitivi come parte preliminare del processo di riqualificazione; possano divenire strumento di ricognizione di tutti gli apporti collaborativi in termini di progettualità e soggetti; possano essere strumento con cui innovare le forme di dialogo collaborativo e negoziale oggi esposte da più parti a valutazione critica. possano essere momento utile per ottimizzare la scelta tra visioni future di trasformazione e quindi indirizzare la scelta di progettualità effettivamente inerenti al contesto indagato ed alla domanda che esprime. Quindi, in conclusione, si procederà a delineare come possano essere modificate e perfezionate per divenire mezzo efficace ed efficiente per raggiungere lo scopo pubblico rispettando i principi del buon andamento della pubblica amministrazione, diventando strumento di coordinamento e dialogo nelle scelte di realizzazione delle opere pubbliche.

Bibliografia

Giannini M.S. (1939), Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Giuffré Milano Karrer F. (2011), “Qualità/molte qualità”, in Bagnasco C. (a cura di), La città nuova. La qualità urbana tra ideazione e realizzazione, INU, Roma Karrer F. (2012), Il principio di concorrenza anche nella pianificazione urbanistica, disponibile su www.apertacontrada.it Lasswell H. D. (1956), The decision Process; Seven Categories of Functional Analysis, Bureau of Governmental research, College of business and public administration, University of Maryland. Morisi M., Passigli S. (1994), “Tra occasioni e decisioni. Una ricognizione sul decision making della trasformazione urbana”, in Morisi M., Passigli S. (a cura di), Amministrazione e gruppi di interesse nella trasformazione Urbana, Il Mulino, Bologna Pastori G. (1994), “Interesse pubblico ed interessi privati fra procedimento, accordo e auto amministrazione”, in Scritti in onore di Pietro Virga, tomo 2, Giuffrè editore

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Il riciclo del paesaggio agrario: un parco multifunzionale lungo le terrazze della Costa Viola

Il riciclo del paesaggio agrario: un parco multifunzionale lungo le terrazze della costa viola Vincenzo Gioffrè1 Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria dArTe - Dipartimento di Architettura e Territorio Email: enzo.gioffre@unirc.it Elisabetta Nucera* Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria dArTe - Dipartimento di Architettura e Territorio Email: e.nucera@unirc.it

Abstract L’argomento qui esposto è uno dei temi di approfondimento dell’Unità di Ricerca dell’Università Mediterranea nel progetto PRIN 2011 “RE-CYCLE Italy. Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture della città e del paesaggio”. L’ipotesi di lavoro consiste nell’estendere il dispositivo progettuale del riciclo, efficace per la forza evocativa e per il significato metaforico di cui è portatore, dai singoli oggetti alla città e, nello specifico, al paesaggio agrario. “La strategia del riciclo appare allora come un approccio che consente di tenere insieme memoria e innovazione radicale, realismo e tabula (quasi) rasa (…) una specie di forma omeopatica della modernità, capace di assorbire il passato, il contesto, le identità preesistenti senza imitare e senza lasciarsene sopraffare” (Pippo Ciorra 2011). È quindi possibile proporre per le aree urbane di recente formazione progetti di paesaggio che riciclano in chiave contemporanea la permanenza delle tracce dell’agricoltura e si fanno portatori di una dichiarata vocazione ecologica ed un messaggio eticamente e socialmente positivo. Parole Chiave Agricoltura, Riciclo, Paesaggio

Il riciclo del paesaggio agrario La pratica del progetto di paesaggio si è molto evoluta negli ultimi anni ampliando i campi di interesse ben oltre le tradizionali categorie dello spazio pubblico (piazze, giardini, lungomare, viali alberati) per proporre modelli alternativi di sviluppo sostenibile nelle aree periurbane di recente formazione dove si concentrano maggiormente le problematiche globali di carattere sociale e ambientale. In questa nuova ottica il paesaggio agrario sta assumendo un ruolo strategico determinante nei processi di rigenerazione di aree urbanizzate di margine con approcci che coniugano le componenti sociale, ambientale e produttiva. “È innegabile che i paesaggisti, legati per loro stessa cultura alle aree suburbane come terra d’origine della propria professione, sono oggi in grado, come pochi altri, di leggere e rivelare siti e situazioni laddove altri specialisti non vedono che caos” (Sébastien Marot). Il paesaggio è un concetto di diretta derivazione dalle arti figurative, in origine fondato sui principi dell’armonia e dell’equilibrio; oggi, in una interpretazione contemporanea, è categoria ibrida e trasversale, quindi non più solo sinonimo di identità univoca, di immagini iconiche spettacolari, quanto piuttosto sistema di relazione tra elementi naturali e antropici, risorse materiali e immateriali. Un principio efficace per decodificare i territori urbanizzati nei quali viviamo e che si connotano per frammentazione, incertezza, instabilità, discontinuità, alternanza senza regole di costruito e campagna. Paesaggi del degrado, paesaggi del rifiuto, paesaggi dell’abbandono; se in passato paesaggio era sinonimo di bellezza oggi viene più largamente utilizzato in associazione al brutto, allo sporco, a ciò che è reietto da una modernità spesso incompiuta o fallimentare che 1

La redazione del paragrafo ‘Il riciclo del paesaggio agrario’ è di Vincenzo Gioffrè, la redazione del paragrafo ‘Un parco multifunzionale lungo le terrazze della costa viola’ è di Elisabetta Nucera

Vincenzo Gioffrè, Elisabetta Nucera

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Il riciclo del paesaggio agrario: un parco multifunzionale lungo le terrazze della Costa Viola

ci lascia in eredità scarti e relitti di infrastrutture, macerie urbane. Questa interpretazione del concetto di paesaggio determina il superamento di approcci che si fondano esclusivamente sull’esperienza visiva e percettiva in favore della presa in conto di problematiche di carattere ecologico e sociale e trovano nell’agricoltura un tema centrale. L’agricoltura urbana ha storicamente rappresentato un aspetto di qualità e miglioramento delle condizioni di vita cittadina in Europa. Nel Regno Unito all’inizio del XIX secolo gli enti locali assegnavano piccoli orti sociali a famiglie povere per garantire la possibilità di sostentamento; un modello adottato anche in Germania, Olanda, Danimarca, Svezia e nell’Est Europa. A partire dagli anni sessanta del novecento l’esperienza degli orti urbani si è gradualmente svuotata dei significati di emergenza sociale ed è continuata nei paesi nord europei spesso con tratti di grande qualità come i Giardini di Nærum Vænge a Copenhagen disegnati dal grande paesaggista danese Theodor Sørensen. Alla fine degli anni ottanta, con il sopravvento dei movimenti ambientalisti ed ecologisti, il tema dell’agricoltura urbana torna prepotentemente di attualità proponendo nuovi modelli organizzativi, prima con l’esperienze dei “Community Garden” e più di recente dei “Guerrilla Gardening”, azioni di “giardinaggio politico” con piantumazioni abusive in spazi pubblici. Un contributo fondamentale al dibattito contemporaneo sul tema del rapporto città/campagna in Europa è offerto dalle scuole francesi di paesaggio che riconoscono il ruolo socio-politico inedito dell'agricoltura in una collaudata sperimentazione, tra le altre a Bordeaux con gli orti sociali nel quartiere popolare di Aubiers ed il riciclo dell’area ex-merci lungo la riva sinistra della Gironda per la realizzazione del Jardin Botanique la Bastide; “L’abitabilità dei territori periurbani è diventata così un obbiettivo sempre più impellente (…) poiché abitare vuol dire non soltanto trovare una sistemazione adeguata, ma anche vivere continuamente una relazione poetica con il mondo (…) abitare meglio lo spazio agricolo e forestale presuppone un progetto al tempo stesso morale e estetico, che lo trasformi in una campagna urbana (…) abitare meglio significa anche abitare insieme”. (Pierre Donadieu 2006). Lo strumento dell’agricoltura peri-urbana e della sua integrazione in nuove forme di parchi pubblici è quindi particolarmente efficace per riciclare aree depresse dal punto di vista sociale o produttivo e determinare nuove forme economiche attraverso la valorizzazione del patrimonio culturale e naturale e del paesaggio posti sotto la responsabilità delle istituzioni e la gestione delle comunità di abitanti. È il caso ben noto di Detroit, ex capitale dell’industria automobilistica statunitense, per reagire al crescente degrado si è proceduto con la demolizione delle case e fabbriche abbandonate per la realizzazione di fattorie urbane, giardini pensili, boschi. In Spagna il Parco agrario della piana del fiume Baix del Llobregat a sud di Barcellona su una superficie di oltre tremila ettari ha consolidato lo spazio agrario ed evitato l’aggressione urbana. In Italia il Parco Agricolo Milano Sud, con una superficie complessiva di oltre quaranta ettari, ha determinato la tutela ed il recupero ambientale delle fasce di collegamento tra città e campagna ed un complessivo miglioramento dell'equilibrio ecologico dell'area metropolitana. Sempre in Italia il parco di Ciaculli, oltre ottocento ettari in un'area peri-urbana degradata a sud di Palermo, istituito a seguito degli interventi realizzati con un progetto Life che hanno consentito il recupero dei muri a secco, dei percorsi lungo la fascia terrazzata ed il ripristino di agrumeti storici abbandonati. Esperienze che suggeriscono nuovi paradigmi progettuali per un modello di città che si riconosce nel rapporto con gli spazi naturali, nei principi della socialità e della lentezza, una città “debole e diffusa” che ha un riferimento funzionale nei territori rurali: “I modelli di urbanizzazione debole fanno riferimento a un concetto di reversibilità e di attraversabilità tipiche dell’agricoltura, indicano infatti un modo di intendere le strutture come una realtà provvisoria, leggera, elastica, collocate dentro un territorio costruito ma integrato alla produzione agricola” (Andrea Branzi 2006). Facendo riferimento a queste ed altre esperienze nazionali e internazionali sul tema di parchi agrari periurbani, la tesi esposta in questo saggio propone l’attuazione di un simile approccio al caso specifico della costituenda Città Metropolitana di Reggio Calabria dove sono ancora molto numerosi, anche in aree densamente abitate, frammenti pregiati di paesaggio agrario oggi in abbandono o degradati ma con notevoli potenzialità di rigenerazione dei tessuti edilizi circostanti. La strategia consiste nella definizione di un progetto che si struttura per fasi temporali, attraverso interventi diffusi a rete per punti e superfici, che coinvolge gli spazi vuoti con un nuovo piano di attività produttive e di mobilità sostenibile. Azioni che nel loro insieme definiscono un grande parco organizzato che include la città esistente e rende partecipi gli abitanti veri protagonisti dell’intervento nella fase di progettazione, realizzazione e soprattutto gestione e manutenzione. Si tratta di una narrazione per riscrivere un nuovo paesaggio che utilizza un vocabolario di materiali e segni desunti dalla tradizione agricola; nel complesso una serie di azioni misurate, alla portata economica del contesto, che nel loro insieme definisce una infrastrutturazione ecologica del sistema città più generale (fig.1). Di seguito un approfondimento del caso studio della Costa Viola, uno dei paesaggi agrari emblematici in prossimità di Reggio Calabria che può svolgere un ruolo determinante nell’ipotesi di rete di parchi della città metropolitana.

Vincenzo Gioffrè, Elisabetta Nucera

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Il riciclo del paesaggio agrario: un parco multifunzionale lungo le terrazze della Costa Viola

Figura 1. Riciclo dei paesaggi dello scarto. Elisabetta Nucera (2013)

Un parco multifunzionale lungo le terrazze della costa viola La Costa Viola si estende per circa 20 km con altitudine compresa tra 0 e 500 m s.l.m. nell’estremità Sud-Ovest della Calabria negli attuali territori comunali di Villa San Giovanni, Scilla, Bagnara, Seminara, Palmi, che andranno a confluire nella costituenda città Metropolitana di Reggio Calabria. La costa è delimitata dal Mar Tirreno e dall’Aspromonte che a tratti scende a picco sul mare, formando un’alternanza di ripidi pendii, alte scogliere e spiagge in arenile. Presenza costante è lo scenario dello Stretto di Messina, delle Isole Eolie e del litorale calabrese visibile fino a Capo Vaticano (fig.2). Le strutture insediative e le infrastrutture, in un contesto territoriale a tratti drammatico, si sono sviluppate seguendo direttrici quasi obbligate, dovute ai numerosi vincoli esistenti. I centri abitati sono sorti nei tratti più vicini alla costa, e hanno storicamente basato la propria economia sul connubio pesca-agricoltura, quest’ultima praticata sui pochi altopiani collinari e soprattutto in lembi di terra ricavati su pendii scoscesi. Ogni attività dell’uomo si è sviluppata con la consapevolezza di dover dipendere dai luoghi e dover utilizzare bene le risorse disponibili. Le tracce profonde di una lunga presenza umana e di una continua attività agricola sono visibili nel sistema dei terrazzamenti, tratto distintivo della Costa Viola, che fasciano i pendii delle montagne. Si delinea dunque un paesaggio “antropico” dalla forte identità culturale, sintesi delle molteplici interazioni tra i sistemi naturali e le azioni dell’uomo, che col tempo e con fatica, si sono stratificate nell’ambiente e, interpretando morfologia e vocazioni, hanno ridisegnato e trasformato il territorio per adattarlo alle esigenze di sopravvivenza (fig.3). L’attività agricola nella Costa Viola è stata generalmente ordinata a colture arboree quali agrumi, ulivi ed in particolare viti, presenti fin da tempi antichissimi principalmente nelle aree terrazzate in con pendenze anche superiori al 100%. Le complesse opere di sistemazione e lavorazione del terreno e di regimentazione idraulica, che prevedevano un impiego notevole di lavoro manuale, soprattutto per la realizzazione dei muretti di contenimento a secco, sono state rese possibili dalla redditività mantenuta per lungo tempo della viticoltura, e dalla conduzione familiare degli appezzamenti di superficie estremamente ridotta. In genere i terrazzamenti più arditi, dove la coltivazione assumeva caratteristiche quasi “eroiche”, erano proprietà di piccoli coltivatori, che non facevano i conti della convenienza, ed impiegavano il lavoro di tutta la famiglia, pur di avere una fonte di sostentamento (Bova G.,1934). Il sistema terrazzato costituisce nel suo insieme un’imponente opera ingegneristica la cui estensione viene stimata intorno ai 4.000 Km. I muretti a secco, inoltre, svolgono un’insostituibile funzione di tutela idrogeologica, impedendo così che il terreno frani verso i centri abitati posti a valle. Con il progressivo declino della viticoltura nell’area, si è assistito alla scomparsa dell’utilizzazione agricola. I dati riferiti ai comuni di Scilla e Bagnara, che nella Costa Viola intercettano la quasi totalità dei terrazzamenti a vigna, mostrano come dal 1929 al 1982 la superficie investita a vigneto sia passata da 712 ettari a poco più di 259. Negli ultimi anni questa tendenza si è leggermente attenuata, ma resta tutt’ora presente, tanto che oggi si possono contare poco più di 200 ha di terreno terrazzato coltivato ( Di Fazio S., 2009). L’abbandono dei terrazzamenti è dovuto all’insorgere di condizioni nuove e sfavorevoli: il mancato ricambio generazionale, i fenomeni migratori, la polverizzazione fondiaria, la scarsità e il costo della manodopera, la difficoltà di accesso ai vigneti, l’arretratezza tecnologica e la diseconomicità della produzione di vino (A. Nicolosi, D. Cambareri, 2007). La L.R. 34/86 per la “Difesa paesaggistica e ambientale incentivando la coltivazione della vite lungo i comuni della Costa Viola, Vincenzo Gioffrè, Elisabetta Nucera

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Il riciclo del paesaggio agrario: un parco multifunzionale lungo le terrazze della Costa Viola

Scilla, Bagnara e Seminara” prevedeva finanziamenti dell’80% per i terrazzamenti viticoli attivi, e del 100% a fondo perduto per quelli abbandonati, per il reimpianto e la ristrutturazione dei vigneti, il ripristino del sistema di viabilità, e l’introduzione di meccanizzazione agricola e di sistemi di trasporto innovativi, tra cui le monorotaie (sulla scia delle esperienze dei viticoltori delle Cinque Terre liguri). Tale sistema, che sostituisce le antiche teleferiche ed il trasporto a spalla, avrebbe consentito, oltre a un notevole abbattimento dei costi di produzione, anche un utilizzo a fini turistici, ma le potenzialità offerte dal sistema sono state sfruttate solo in minima parte. Il PSR 2000-2006 della Regione Calabria ha inserito, tra le misure agroambientali, interventi di “Recupero del paesaggio rurale della Costa Viola”, mirati alla promozione dell’Agricoltura Biologica e al recupero, conservazione e salvaguardia del paesaggio agrario. Le misure si traducono però in un sostegno economico esiguo (900 €/ha per anno) che, unito alle dimensioni ristrette delle superfici aziendali, non ha stimolato i proprietari ad intervenire. Il degrado e l’abbandono dei terrazzamenti, dovuto al venir meno del presidio ambientale, comporta una trasformazione del territorio, che da agricolo diviene rurale, in quanto le foreste e la macchia mediterranea tendono a riconquistare il suolo abbandonato dall’agricoltura. Il fenomeno sta generando un grave dissesto territoriale, aumentando il rischio idrogeologico e minacciando infrastrutture e nuclei abitati, e soprattutto può causare la scomparsa definitiva di un paesaggio significativo dei terrazzamenti. Oggi si assiste ad una incoraggiante ripresa d’interesse per i paesaggi terrazzati, dovuta non soltanto a motivazioni di carattere economico e ambientale, ma anche alla necessità di “paesaggi di qualità” ai quali si associa la richiesta di “prodotti di qualità”. A partire dagli anni ottanta si registrano nuovi progetti ed iniziative a diverse scale: in Francia, tra gli altri, nel 1982 viene avviato il Programme Terrasses, mentre nel 1988 viene fondata la Societé scientifique internationale pour l'étude de la Pierre Sèche. Nel 1999 è istituito il Parco delle Cinque Terre, primo in Italia orientato alla tutela di sistemi terrazzati, esempio esemplare di cooperativismo agricolo che tramite la promozione e la razionalizzazione dell’attività vinicola, ha creato un imponente indotto turistico, legato alla produzione dei vini D.O.C. “Cinque Terre” e “Sciacchetrà”. Si susseguono numerose iniziative a livello nazionale ed europeo, fino alla prima dichiarazione delle Nazioni Unite a Nairobi nel 2006, che invita tutti i paesi del mondo a proteggere i terrazzamenti come sistema fondamentale per la salvaguardia del paesaggio e la lotta alla desertificazione e al degrado dei suoli. La Costa Viola è stata oggetto dei programmi Leader II e Leader Plus mirati ad avviare iniziative sull’interazione tra agricoltura, turismo rurale, escursionismo, valorizzazione delle produzioni agricole tipiche e dell’identità locale. La Provincia è stata promotrice della proposta di istituzione nell’area di un parco antropico, come parte di una rete provinciale comprendente altri 10 parchi analoghi, secondo tre idee guida: valorizzazione di nuove forme di turismo sostenibile (culturale, religioso, ecoturismo e agriturismo); valorizzazione del patrimonio culturale presente; difesa del suolo. Gli interventi pubblici previsti non hanno avuto però risvolti applicativi, anche se hanno iniziato un’opera di sensibilizzazione per iniziative locali quali, nel 2004, la nascita della cooperativa Enopolis, che associa circa 100 produttori della Costa Viola, distribuiti su 40 ha di terreno terrazzato. Attualmente è in atto il progetto di cooperazione transnazionale LANDsARE (LANDscape ARchitectures in European rural areas), finanziato attraverso la misura 421 dell’Asse IV del PSR 2007-2013, finalizzato alla redazione di linee guida strategiche per lo sviluppo rurale del territorio nel suo complesso e avviare l’istituzione dei Paesaggi Protetti della Costa Viola e della Piana degli Ulivi (L. R. n.10 del 14 luglio 2003). Per dare maggiore incisività alle iniziative fin qui intraprese è necessario puntare sulla componente innovativa di un progetto di paesaggio che, integrando aspetti di carattere economico e sociale, sia in grado di innescare un processo virtuoso di rigenerazione dei paesaggi agrari delle Terrazze della Costa Viola (fig.4). Occorre individuare dei “Criteri d’intervento” sul paesaggio che, a diverse scale e per diversi gradi, forniscano uno strumento di recupero attivo del territorio, da applicare tramite azioni congiunte tra popolazione e istituzioni. Un riferimento operativo efficace è rappresentato dalla Convenzione Europea del Paesaggio, che prevede tre categorie di azioni dinamiche: Salvaguardia, Gestione e Creazione (Priore R., 2006) Nel caso della Costa Viola si può ipotizzare un regime di: “Salvaguardia” per i terrazzamenti ancora perfettamente conservati e coltivati con tecniche tradizionali, che preveda azioni di supporto per gli agricoltori e mantenimento dello stato attuale; Programmi di “Gestione” per quei terrazzamenti in stato di abbandono con azioni a carattere ambientale, per combattere il degrado idrogeologico; economico, con la riattivazione di attività produttive vitivinicole secondo metodologie attuali e attraverso forme di cooperativismo; fruitive, con la collocazione di attività e servizi di supporto al turismo rurale (agriturismo, vendita Km0, escursionismo, orti sociali e terapeutici, campi-lavoro, ecc.); “Creazione” per quei tratti che hanno subito trasformazioni traumatiche (frane, alterazioni con inserimento di muri in calcestruzzo, incendi) per i quali il recupero tradizionale non è più sostenibile e sono necessarie nuove configurazioni spaziali e nuovi usi, attraverso azioni incisive e innovative a carattere multifunzionale (ricostruzione delle terrazze tramite sistemi di ingegneria naturalistica, meccanizzazione dei sistemi di raccolta e di risalita, coltivazione di produzioni sperimentali, promozione di nuovi modi di vita e di nuove forme di turismo rurali).

Vincenzo Gioffrè, Elisabetta Nucera

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Il riciclo del paesaggio agrario: un parco multifunzionale lungo le terrazze della Costa Viola

In questo senso il “riciclo” dei terrazzamenti (fig.5), inteso come dispositivo progettuale finalizzato alla determinazione di nuovi cicli di vita per i territori agrari, è uno strumento indispensabile per definire nuovi scenari in chiave contemporanea, attraverso approcci multifunzionali e sostenibili, che coniughino aspetti produttivi, ambientali e soprattutto sociali, in grado di attivare reti di collaborazione e stimolare il coinvolgimento diretto della comunità per nuove forme di abitabilità, ospitalità, socialità e condivisione della bellezza del Paesaggio.

Figura 2. Terrazzamenti sulla Costa Viola (RC) con vista sullo stretto di Messina. Stefano Mileto (2013)

Figura 3. Paesaggio terrazzato della Costa Viola, Bagnara Calabra (RC). Stefano Mileto (2013)

Vincenzo Gioffrè, Elisabetta Nucera

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Il riciclo del paesaggio agrario: un parco multifunzionale lungo le terrazze della Costa Viola

Figura 4. Scenari multifunzionali per il paesaggio della Costa Viola. Marco Cosenza, Eleonora Rositani (2012)

Figura 5. Agricoltura multifunzionale, Costa Viola. Elisabetta Nucera (2013)

Vincenzo Gioffrè, Elisabetta Nucera

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Il riciclo del paesaggio agrario: un parco multifunzionale lungo le terrazze della Costa Viola

Referenze bibliografiche

Bova G. (1934), Alcune tipiche sistemazioni dei terreni di Calabria, Morello; Brancucci C., Ghersi A., Ruggiero M.E. (2000), Paesaggi liguri a terrazze. Riflessioni per una metodologia di studio, Alinea Editore; Branzi A. (2006), Modernità debole e diffusa. Il mondo del progetto all’inizio del XXI secolo, Skira; Ciorra P. (2011), Per un’architettura non edificante, in Ciorra Pippo e Marini Sara (a cura di), Re-cycle. Strategie per l’architettura, la città, il pianeta, Electa; Di Fazio S. (2009), I terrazzamenti viticoli della Costa Viola, I Georgofili; Di Fazio S., Modica G. (2008), Le pietre sono parole, Iiriti Editore; Donadieu P. (2006), Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città, Donzelli Editore; Nicolosi A., Cambareri D. (2007), Il paesaggio terrazzato della Costa Viola, Atti del XXXVI Incontro di Studio Ce.S.E.T.; Marot S. (1996), Michel Desvigne e Christine Dalnoky, Motta Architettura; Previtera R. (2001), Il paesaggio viticolo terrazzato della Costa Viola, in Albanese G. (ED) Istituzione di Paesaggi protetti nel territorio del Basso Tirrenio reggino, Costa Viola e Piana degli Ulivi, Laruffa Editore; Priore R. (2006), Convenzione Europea del paesaggio. Il testo tradotto e commentato, Centro Stampa d'Ateneo; Scaramellini G. (2008), Paesaggi terrazzati dell'arco alpino – ATLANTE, TecaLibri

Vincenzo Gioffrè, Elisabetta Nucera

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Moti di paesaggio

Moti di paesaggio Alberto Bertagna Università degli Studi di Genova DSA - Dipartimento di Scienze per l’Architettura Email: bertagna@arch.unige.it

Abstract Lo spazio pubblico si riaffaccia oggi come spazio dello stare, per quanto, magari, di uno stare transitorio. È l’occupare a segnare la cifra il tempo e la superficie della contemporaneità che ritorna a chiedere e allo stesso tempo a far vivere lo spazio pubblico. Proprio perché l’occupare, come a New York, riassume due spinte molto attuali – la condivisione fisica di uno stato di incertezza che da singolare si fa plurale, in sintesi – e rilancia nelle proprie forme due termini che sono indispensabili costruttori di spazio pubblico: “paesaggio” e “comune”. La democraticizzazione dello spazio, vettore di suo pieno, libero utilizzo, come eliminazione delle riserve di esclusione, è tutta nel significato di questi due lemmi, “paesaggio” (da costruire e vivere come luogo reale-immaginario di espressione di una collettività) e “comune”, laddove quest’ultima accezione non esprime esclusivamente il valore di proprietà ma anche la tipologia di un bene: l’ordinario, e per questo il fino ad ora dimenticato, trascurato, o magari l’abbandonato; il non considerato, il non ambìto da interessi di parte. Parole chiave uso, comunità, paesaggio

Moti La ridefinizione di senso che ha continuamente coinvolto lo spazio pubblico, la ricerca degli ambiti e dei modi più opportuni per riuscire ad esprimerlo, e finalmente il suo disegno, sono mossi oggi da nuovi impulsi e nutriti di nuovi connotati, sintetizzabili nei due termini paesaggio e comune. Superata la transitoria fase in cui sociologia e antropologia ne registravano, se non la fine, certo un ripiegamento nello stretto di quei box che la critica cristallizzò presto nella definizione di nonluoghi, quasi travolto da una urgenza proveniente dal basso, dettata dalla crisi da un lato delle certezze individuali – che avevano costruito dagli anni Ottanta del secolo scorso l’onda progressiva di un depauperamento delle condizioni di necessità dell’agire relazionale –, e dall’altro dell’entusiastico trasferimento nel virtuale di ogni agire politico (come confronto all’interno di comunità) – che diventò se non esattamente dai Bits di Mitchell certo per tutti gli anni duemila mantra collettivo –, oggi lo spazio pubblico torna a imporsi come questione cardine attorno alla quale ricomporre la città. E si riaffaccia sulla scena non come spazio del movimento e della mobilità, ambito che nelle sue varie declinazioni ha acceso gli ultimi dibattiti, entusiasmato le ultime amministrazioni e coinvolto i pochi fortunati progettisti anche nel primo mondo e che ancora continua a qualificarsi attorno al paradigma dell’inclusione e forse anche come linea di resistenza all’invadenza dell’immaterialità delle reti virtuali. Si riaffaccia oggi, lo spazio pubblico, piuttosto come spazio dello stare, per quanto, magari, di uno stare transitorio. È, senza voler troppo concedersi ad una fenomenologia giornalistica, l’Occupy Movement, più estesamente l’occupare, a segnare la cifra il tempo e la superficie della contemporaneità che ritorna a chiedere e allo stesso tempo a far vivere lo spazio pubblico. Proprio perché l’evento newyorkese riassume le due spinte sopra ricordate – la condivisione fisica di uno stato di incertezza che da singolare si fa plurale, in sintesi – e perché rilancia nei propri slogan e nelle proprie forme i due termini menzionati poco sopra quali nuovi indispensabili – a nostro avviso – costruttori di spazio pubblico: paesaggio e comune. La democraticizzazione dello spazio, vettore di suo pieno, libero utilizzo, come eliminazione delle riserve di esclusione, è tutta nel significato di questi due lemmi, paesaggio (da costruire e vivere come luogo reale-immaginario di espressione di una collettività) e comune, laddove quest’ultima accezione non esprime

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Moti di paesaggio esclusivamente il valore di proprietà ma anche la tipologia di un bene: l’ordinario, e per questo il fino ad ora dimenticato, trascurato, o magari l’abbandonato; il non considerato, il non ambìto da interessi di parte. È possibile allora ripartire da una riflessione che prescinda dalla valutazione di casi o di esempi, che non si faccia fenomenologia, e torni a cercare nelle nuove simbologie, come manifestazioni di ontologie, il significato e il senso dello spazio pubblico, uno dei lemmi necessariamente da trattare nella costruzione di un dizionario che ridefinisca allo stesso tempo in una forma aperta e precisa (dinamica ma sostanziata) le componenti della città, per trovare le dimensioni (prima di tutto concettuali) del suo ridisegno.

Paesaggi «Ogni segno, da solo, sembra morto. Che cosa gli dà vita? – Nell’uso, esso vive. Ha in sé l’alito vitale? – O l’uso è il suo respiro?», diceva Wittgenstein, aggiungendo: «Quando diamo un ordine, può sembrare che la cosa fondamentale che l’ordine richiede debba rimanere inespressa, perché tra l’ordine e la sua esecuzione permane pur sempre un abisso. Desidero, poniamo, che un tale faccia un determinato movimento; per esempio alzi il braccio. Perché ciò sia del tutto chiaro, faccio io prima il movimento. Quest’immagine sembra inequivocabile finché non ci chiediamo: come fa, quel tale, a sapere che deve eseguire quel movimento? – Come fa, in generale, a sapere come deve usare i segni che io gli do, quali che essi siano? – Forse cercherò di completare l’ordine con altri segni, additando prima me e poi lui, facendo gesti di incoraggiamento, ecc. Qui sembra che l’ordine incominci a balbettare. Come se il segno cercasse faticosamente di produrre in noi una comprensione con mezzi malsicuri» (Wittgenstein, 1999). Non è trascurabile la sequenza delle proposizioni 432 e 433 delle Ricerche filosofiche, o almeno non lo è se immaginiamo di farne Riflessioni urbanistiche, a nostro uso, assegnando loro un diverso respiro, per restare all’interno della stessa loro sintassi metonimica. Perché se la prima afferma la necessità dell’uso per la vitalità dello spazio, la seconda destituisce la capacità del solo segno di renderlo vivo. Così, similmente: «Scrivere è sapere che ciò che non è ancora prodotto nella lettera non ha altra dimora, non ci attende come prescrizione in qualche tòpos ourànios o in qualche intelletto divino. Il senso deve attendere di essere detto o scritto per abitare se stesso e diventare quello che è differendo da sé: il senso» (Derrida, 2002). L’accezione e il valore (di uno spazio) devono dunque – da sempre – attendere di prodursi, e il loro prodursi non può che essere un prodursi nell’uso. Ma devono sperare anche in una forza e in una sopravvivenza della propria espressione per affermare e per continuare se stessi – e questo è ciò su cui oggi è dato riflettere. Nella contemporaneità liquida delle penultime o anche ultime letterature, caratterizzata da comunità precarie sempre più segnate dal continuo scarto di sé e delle proprie manifestazioni, il senso risulta invece evanescente più che sopravvivente, difficile da cogliere perché i segni, espressione della sua essenza, per la sua esistenza, sono sempre più deboli e sempre più instabili. Tracce sempre più fragili schizzate sul territorio da un pensiero insicuro di sé. Tracce che significano, più che una sovrabbondanza, l’inesistenza di messaggi da trasmettere: frasi, parole, lettere, in un progressivo riduzionismo relazionale. Caratteri dello stesso alfabeto ma composti casualmente, indecodificabili, con i quali una società individualizzata formata da cittadini globali ma limitati nella propria solitudine non riesce più a comprendersi o forse ha smesso di parlarsi. «Il ricettore non può isolare un significante per rapportarlo univocamente al suo significato denotativo: deve cogliere il denotatum globale. Ogni segno apparendo collegato ad un altro e dagli altri ricevendo la sua fisionomia completa, esso significa in modo vago» (Eco, 2004): ma se ad isolarsi sono sia l’oggetto che il ricevente, quest’ultimo fatica a cogliere il «denotatum globale», dunque il segno «significa in modo vago». Una contemporaneità, forse fino a ieri, dal lessico povero, in cui i vocaboli ricercati stridono più che arricchire, e che poi nel loro moltiplicarsi, spesso nella loro astrusità incompresi, si riassommano nell’uniforme. Informazioni paradossali perché senza contenuto: non più in grado di farsi narrazione prima, nella difformità dei propri idiomi; e storia poi, nella transitorietà della propria sopravvivenza. È su e per questa realtà che abbiamo continuato a disegnare spazi pubblici, inseguendo con improbabili matrici compositive una forza capace di controllarne l’indecifrabile dinamicità. Oggi però sembra essersi prodotto uno scarto. Segni diversi sembrano disporsi contemporaneamente nei territori e nelle città: segni di occupazione temporanea ma costruttori di paesaggio, segni tutt’altro che coesi ma che si compattano in comunanze di senso. Sono segni caratterizzati dalla discontinuità del loro ripetuto interrompersi, del loro restringersi, chiudersi per ridursi, segni piccoli a prescindere anche dalla loro eventuale bigness perché il loro interesse e la loro influenza si concentrano in se stessi; segni concavi perché introspettivi, spicci perché niente affatto interessati ad una relazione con ciò che li circonda, che sempre più è visto come minaccia piuttosto che come tramite che li possa espandere o potenziare, dilatare o intensificare, laconici nella volontà di costituirsi nella negazione dell’altro. La loro è una discontinuità anche in prossimità: sono segni vicini, il loro stacco dopotutto non si avverte, l’intermittenza di un discorso che accende e spegne le sue frasi, che insiste a spezzarsi, diviene nella ignara uniformità della propria cadenza, e nella istintività del proprio messaggio riproposto, una sorta di continuità, in una città che da caotica si fa craotica, costituendosi per crasi dei suoi elementi. Altri segni sono invece convessi, estroversi, sono curiosi e si stirano, si distendono e si estendono, si ex-tendono, si tendono all’infuori, protendono la mano verso l’altro, e si pro-tendono, quasi a favore dell’altro; abbracciano

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Moti di paesaggio più che escludere; a volte attraversano, e conoscono; per nulla diluiti, la loro estensione non è il prodotto di una debolezza ma il segno di una forza. Sono continui ma producono spaziatura. Rendono discontinuo col proprio essere: le pause si avvertono, lasciano dire ad altri, non provocano frattura bensì differenza, e la rendono percepibile. Forse il loro termine talora sfuma, il loro sfumare è un allungarsi, accogliere l’altro, o offrirsi all’altro, o ancora condividere un tratto, che diviene un passaggio. Il segno breve è effimero, la sua presenza è già un’assenza; si smarrisce presto, il suo successore è pronto, o si perde, in quanto tale, in quanto sé, nelle sue modificazioni; ha fretta, il suo ritmo è una fuga, e la fuga è dall’essere, la sua volontà è di sfuggire alla morte, e la sua soluzione è l’apparenza di vita; quasi non si disegna, non si de-signa, ma, in ciò, accorcia, e all’estremo sospende, se lo possiede, il senso. E così lo abbandona, non lo realizza perché non può: il senso è sparito perché non è detto né scritto, forse non è nemmeno voluto. Il segno breve è tale non solo nella sua durabilità – presto sostituito da altri – ma anche nella sua efficacia, nella sua fortuna: altri, dallo stesso destino, nei quali ugualmente il desiderio di apparire si incrocia a quello di sottrarsi, rubano la scena, se non lo spazio. Il successo della rappresentazione non è così duraturo da preservarla: gli stessi attori se ne stancano. I segni brevi vengono assorbiti nella massa che rincorre la conformità o che ricerca la particolarità ma con gli stessi mezzi di altri, troppi altri per raggiungerla; sempre meno a lungo sorprendono, sempre più in fretta trascurati perché altre altrettanto caduche icone allettano. Senza più attenzione in un ritmo che si fa incalzante e convulso, i segni brevi si moltiplicano e si annullano, sostituiti o aggiunti nel dilagare di un collezionismo che ha perso ogni passione ma anche ogni gusto, e che diviene accumulazione senza ricordo. Il segno lungo invece resiste, si vuole ricordare di sé e si annuncia all’altro, si cita e viene citato. La temporalità anche qui si isola in sé e si sgancia dalla dimensione: il segno lungo può essere pure puntiforme, ma ugualmente i suoi confini sono ampi, perché si tendono al passato e al futuro, si smaterializzano perché percorrendolo attraversano il momento, raggiungendo un’età escono dalla fisicità statica per entrare nel tempo. Il segno lungo ha fede in se stesso e si preserva. Si rispetta, e viene rispettato, si guarda e viene guardato, e incuriosisce, e non nel suo solo stato attuale: getta un ponte per rammentare e per immaginare. Non viene sostituito, forse lo si ripara, o lo si aggiorna: ci si avvicina e ci si attacca, se ne cerca l’influenza, o il benefico influsso. Comunque se ne tiene conto, sempre lo si considera, l’indifferenza è un atteggiamento che non suscita, anzi forse lo si imita. Segni brevi e segni lunghi, costruendo lo spazio durante il tempo, differenziano la velocità: la propria, la velocità di chi li attraversa, la velocità di chi li vede, la velocità delle cose viste dal loro interno. La velocità costretta del segno breve, che non ha tempo, perché ha premura o perché nemmeno inizia a essere, non entra nella storia; si precipita, produce un ritmo sincopato, e per questo una tensione continua, un’ansia forse, data dalla necessità del continuo rapido salto, spaziale o temporale, tra l’un segno e l’altro, ché ognuno presto svanisce, e si deve cercare una nuova identità da indossare, un nuovo abito da amare. «Se ci sediamo sulla riva degli istanti per contemplarne il passaggio, finiamo col non distinguervi altro che una successione senza contenuto, tempo che ha perduto la sua sostanza, tempo astratto, varietà del nostro vuoto» (Cioran, 2004). Dentro un segno lungo la velocità può diminuire, la sua unitarietà lascia rilassare e concentrare e riflettere, così capendone il significato; ma si può anche riflettersi in esso, utilizzandolo come ricordo continuamente aggiornabile perché è possibile ritornarvi, e trovare attraverso esso una memoria e una prospettiva. Nel segno lungo si riconosce ciò che si attraversa, del segno lungo si coglie la differenza, nel passaggio da uno all’altro, o in tutti i suoi tratti, o di tutti i suoi momenti. Una diversità segnata dal, e compresa nel, segno lungo, perché copre distanze o riassume tempi, e perché è fruita con ritmo adeguato, animo aperto e rilassato. A farsi segno breve, nel territorio, senso che più non si abita, non si dice e non si scrive, senso che cerca di non esistere, è sempre più il pieno, il pieno dell’edificio, degli edifici che riempiono la città, che dilaga ovunque o si compatta e si rinserra, sempre più uguale, sempre più una sola ripetuta. Ciò che non si relaziona, che si costruisce ignaro o incurante del proprio intorno, sordo impassibile rispetto a ciò che avviene al di fuori, ciò che non si lascia influenzare, che basta a se stesso e che cerca la propria forza in se stesso è il costruito. E forse la sua forza, la positività del costruito, del pieno contemporaneo, è questa, insita nel proprio sapersi sganciare da ogni determinazione altra da se stesso, è iscritta nella propria indipendenza. E nella propria incatalogabilità: il pieno raggiunge nella propria brevità la purezza di una ingiudicabilità, impedisce ogni ordinamento per sé. «Un percetto verrà classificato istantaneamente soltanto se si verificano due condizioni. Il percetto deve definire chiaramente l’oggetto, e deve somigliare sufficientemente all’immagine mnemonica della categoria più opportuna» (Arnheim, 2001). Il pieno costituisce, sia nella propria singolarità, laddove si fa emergenza, che, paradossalmente, anche nella propria ripetitività, laddove si fa tessuto omogeneo, un’immagine irrintracciabile: volendo impedire ogni tassonomia per sé, riesce con le sue sorprendenti apparizioni ad eliminare la propria ordinabilità, minando la propria definibilità. L’architettura ripercorre a ritroso le fasi della scrittura, ritorna al momento prelinguistico, da parola ridiviene immagine, ma immagine né come sigla (astrazione) né come specularità (riproduzione), bensì come pura figuratività senza alcun valore semantico; fenomeno sensibile senza più alcuna categoria o senza alcun archetipo ai quali rimandare, ai quali sorreggersi o ai quali essere costretta. La percezione non riesce, tuttavia, a dare una propria significazione: la disponibilità dell’immagine, la sua sensibilità – disponibilità a ricevere un senso – si sottrae con la velocità del proprio sottrarsi alla contingenza, nella rapidità del proprio uscire dalla datità: il segno breve ruba il tempo ad ogni interpretante, e l’esperienza si spegne con lo spegnersi repentino della visione. La coscienza non arriva ad interpretarne la figura, non arriva alla

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Moti di paesaggio conoscenza oggettiva né soggettiva dell’oggetto, non arriva alla estrazione di concetti. Il pieno muore, ma nemmeno il suo corpo vuoto soddisfa la sua anarchica volontà: si riduce in polvere che nessuna urna è pronta per raccogliere e nominare. La cenere della sua vampata si disperde, e la violenza della vampata suscita stupore ma è soprattutto funzionale alla sua rapida scomparsa: nessuno l’ha davvero conosciuto, nessuno l’ha giudicato, nessuno lo ricorderà. Con la propria istantaneità il pieno riesce, passando attraverso uno stadio intermedio di eternità istantanea, raggiunta nella successione infinita di attimi di presenza talmente brevi da divenire quasi presenza simulata, quasi assenza, a porsi al di là del ciclo del tempo, al di fuori della linearità del tempo storico e dei suoi estremi, oltre la realtà di un inizio e una fine, e dunque riesce a designificare anche la stessa propria morte. L’architettura del segno breve è cioè capace infine di disinteressarsi della stessa eternità che ha sempre trovato come opprimente interlocutrice, con la quale ha spesso cercato di competere, che spesso ha sfidato, provando, nelle proprie espressioni, a conquistare. La centralità dell’immortalità è abbandonata, e lo stesso processo che la dimentica riesce a raggiungerla, a farsi inestinguibile. Di contro, il segno lungo è il vuoto, il vuoto che non nega il tempo né le relazioni ma che vi affonda il proprio essere. Il vuoto degli usi (materiali/immateriali) che legano “strutture assenti” – i pieni – o che connettono i vuoti degli spazi rivolti, come loro, ad un futuro di presenza, presenza come contingenza ma presenza anche come ostensione, presentazione di sé all’Altro; e che si fanno, essi stessi, struttura. Usi continui o sporadici, occupazioni appunto, ma comunque segni lunghi nelle tre dimensioni dello spazio del tempo della velocità, in tutte le loro declinazioni, o in tutte le possibili intersezioni. Ma segno breve è anche il pieno dell’uomo nella propria singolarità, nella propria individualità, la fisicità che non abita se stessa che nella brevità, quasi nell’assenza di scrittura, dunque di esistenza, del proprio essere. Come il segno lungo è invece il ‘vuoto’ della cultura dell’uomo, la sua immaterialità che lo pluralizza, che lo rende sociale; che, come un paesaggio che da spazio diviene uso, lega connette relaziona, realizza trama. Se il pieno è una tastiera, il vuoto è il pensiero che elabora i tasti come scrittura, come linguaggio comune. Il segno lungo è la civiltà dell’uomo che costruisce il senso detto oltre che scritto, è il pensiero che dice e scrive il paesaggio perché legge e ascolta, che fa della città e dello spazio un paesaggio nell’usarlo: nel presentarlo, nel rappresentarlo, o nel vederlo rappresentato, in tutte le possibili forme del racconto. Dunque il segno lungo è in sé di per sé significato e dunque uso, e contrario uso che diviene significato, mentre il segno breve non ha, non è senso, non vuole esserlo. Ma forse la sottrazione di sé che il senso attua nella instabile dimora del segno breve riesce essa stessa a inverarlo, a farlo abitare, con la propria assenza, nei luoghi: il segno breve diventa allora insignificante significato, significato che da insignificante si fa significato, si significa nella propria mancanza di senso, che diviene possibilità. E forse, come parti di un linguaggio, nella città segni brevi e segni lunghi costruiscono insieme una frase che rappresenta un concetto, che contiene e trasmette un messaggio: essi, insieme, costruiscono il paesaggio comune di un rinnovato concetto di spazio pubblico. In questo il semplice progetto di uno spazio differisce dalla costruzione di un paesaggio e ne costituisce parte: uno spazio può essere pro-gettato solo con segni lunghi; un paesaggio è detto o scritto anche con segni brevi. Insieme, segni brevi e segni lunghi dicono, scrivono un senso, un senso che è assenza e presenza di se stesso: uno spazio che diviene pubblico semplicemente nel suo uso, un pubblico che trova uno spazio comune di espressione e di attivazione, quale e come sia.

Bibliografia

Wittgenstein L. (1999), Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino. Derrida J. (2002), La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino. Eco U. (2004), Opera aperta, Bompiani, Milano. Cioran E. M. (2004), La caduta nel tempo, Adelphi, Milano. Arnheim R. (2001), Il pensiero visivo. La percezione visiva come attività conoscitiva, Einaudi, Torino.

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L’inclusione come pratica di disegno e di produzione dello spazio pubblico?

L’inclusione come pratica di disegno e di produzione dello spazio pubblico? Paola Cannavò Università della Calabria Dipartimento di Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio e Ingegneria Chimica Email: pcannavo@unical.it

Abstract La costruzione dello spazio pubblico, inteso come paesaggio comune, è attivata sempre più spesso dal basso, sono i cittadini che individuano gli spazi interstiziale e si organizzano per innescare i processi di trasformazione necessari per renderli luoghi di incontro, spazi giochi, oasi urbane. La creazione di spazi inclusivi, capaci di diventare luoghi di aggregazione e di essere riconosciuti dai cittadini come paesaggi comuni, è diventata una priorità nelle politiche delle principali metropoli europee e nord-americane: i processi partecipativi sono diventati la chiave per il successo della trasformazione di vuoti degradati in spazi di qualità. L’inclusione come pratica di disegno e produzione dello spazio pubblico implica la ricerca di un metodo che sia capace di coinvolgere, attivare, rendere partecipi i soggetti interessati. Diversi i livelli di ricerca su questo argomento, la sperimentazione vede coinvolte istituzioni culturali private e progetti di ricerca inter-universitari, ma non sempre le azioni intraprese sul campo riescono ad essere realmente inclusive. Parole chiave inclusione, paesaggio urbano, interdisciplinarietà «Le città del XXI secolo dovrebbero riconoscere sempre di più il proprio ruolo di centri di tolleranza e giustizia individuale più che di luoghi di conflitto ed esclusione.» (Burdett, 2006: 23) Così Richard Burdett apriva nel 2006 la X Biennale di Architettura di Venezia completamente dedicata alla città. Il rapido incremento previsto per la crescita della popolazione mondiale urbana entro la metà di questo secolo rappresenta una sfida per le condizioni di vita nelle città, la chiave per migliorare tali condizioni e organizzare meglio gli spazi per gli abitanti si trova all'interno della comprensione delle dinamiche urbane, lo spazio pubblico inteso come paesaggio comune gioca in questo contesto un ruolo fondamentale. La costruzione di questo “paesaggio comune” è attivata sempre più spesso dal basso, sono i cittadini che individuano gli spazi interstiziale e si organizzano per innescare i processi di trasformazione necessari per renderli luoghi di incontro, spazi giochi, oasi urbane. «Il cittadino medio è un esperto, è sicuramente l’esperto per ciò che riguarda i suoi interessi personali e i suoi desideri. Il “prendere in considerazione” non dovrebbe essere visto come un orpello di marginale importanza, una volta che le decisioni di fondo sono state prese.» (Landry, 2009: 246) I cittadini in quanto protagonisti della vita urbana possono e devono avere un ruolo attivo nel processo decisionale, un ruolo che non si limiti solo alla valutazione di proposte calate dall’alto ma che dia loro la possibilità di esprimersi in maniera propositiva. Sulla scia di questa tendenza a ripensare le città partendo “dal basso”, diverse istituzioni e gruppi di professionisti cominciano ormai ad orientare i progetti di trasformazione attraverso una nuova strategia partecipativa che sia capace di coinvolgere tutti gli attori interessati e di costruire, attraverso il coinvolgimento delle comunità interessate, reali processi di trasformazione. La creazione di spazi inclusivi, capaci di diventare luoghi di aggregazione e di essere riconosciuti dai cittadini come paesaggi comuni, è diventata una priorità nelle politiche delle principali metropoli europee e nord-americane: i processi partecipativi sono diventati la chiave per il successo della trasformazione di vuoti degradati in spazi di qualità. «The strength that comes from human collaboration is the central truth behind civilization’s success and the primary reason why cities exist. To understand our cities and what to do about them, we must hold on to those Paola Cannavò

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truths and dispatch harmful myths. … Above all, we must free ourselves from our tendency to see cities as their buldings, and remember that the real city is made of flesh, not concrete.» (Glaeser, 2011: 15) Poiché l’economia mondiale è in crisi ed è ormai diffusa la consapevolezza dell’esauribilità delle risorse, è oggi proprio l'economia delle risorse ad essere fondamentale per il governo dello spazio urbano. Nell’economia della riqualificazione dello spazio urbano, la risorsa umana, cioè la volontà dei cittadini a costruire per se e per la comunità di appartenenza un ambiente di vita migliore, è la principale risorsa disponibile a livello locale: genitori che costruiscono spazi giochi per i loro bambini, anziani che trasformano spartitraffico incolti in orti urbani, giovani che inventano nuovi spazi di aggregazione, comunità etniche che ricreano luoghi di accoglienza familiari, tutte queste esperienze sono una risorsa inestimabile di cui il progetto di trasformazione urbana non può fare a meno. L’inclusione come pratica di disegno e produzione dello spazio pubblico implica la ricerca di un metodo che sia capace di coinvolgere, attivare, rendere partecipi i soggetti interessati. Diversi i livelli di ricerca su questo argomento, la sperimentazione vede coinvolte istituzioni culturali private e progetti di ricerca inter-universitari, ma non sempre le azioni intraprese sul campo riescono ad essere realmente inclusive. La recente esperienza del BMW Guggenheim Lab sta dimostrando quali possano essere le difficoltà nel rendere inclusivo uno spazio per il dialogo, che pur nato con le migliori intenzioni, una volta calato dall’alto nelle realtà locali, ha scatenato in alcuni casi il rifiuto della comunità. Il BMW Guggenheim Lab è un laboratorio mobile itinerante nato da una iniziativa congiunta della Fondazione Solomon R. Guggenheim con il gruppo automobilistico BMW.1 Nelle diverse città in cui si è insediato (New York, Berlino e Mumbai) il laboratorio ha offerto un programma di seminari, incontri, proiezioni di film, visite guidate, completamente dedicato all’esplorazione e al miglioramento della vita urbana. L’idea originaria è quella di coinvolgere le comunità locali nella costruzione di nuove idee per la riqualificazione dello spazio urbano. Il programma ha l’ambizioso obiettivo di esplorare idee innovative e creare visioni lungimiranti per la vita della città. Un gruppo internazionale di “intellettuali” e “talenti emergenti”, provenienti dai più diversi ambiti disciplinari (urbanistica, architettura, arte, design, scienza, tecnologia, istruzione), costituito specificamente per ogni tappa del laboratorio, si dedica alla costruzione di un programma che dovrebbe essere capace di coinvolgere, attraverso un confronto pubblico “inclusivo”, i cittadini nel dibattito sulla trasformazione della città. Il Laboratorio, la cui prima edizione si è svolta a New York nel 2011, avrebbe dovuto fare la sua tappa berlinese nel quartiere di Kreuzberg nell’estate del 2012 (Figura 1), prima di approdare a Mumbai in India dove si trova attualmente, ma nel marzo 2012 gli organizzatori sono stati costretti a comunicare che «In risposta alla valutazione di alto rischio della polizia e delle autorità locali, la Fondazione Solomon R. Guggenheim ha deciso di ritirare il BMW Guggenheim Lab dal sito previsto a Kreuzberg, Berlino, questa decisione fa seguito alle minacce contro il progetto.»2 Cosa è successo? Come mai una macchina sapientemente studiata come il BMW Guggenheim Lab ha incontrato il violento rifiuto di una parte dei cittadini? Una riflessione su questo evento ci induce ha considerare il tema dell’inclusione da un nuovo punto di vista. In diversi ambiti il tema dell’inclusione urbana sembra essere diventato il cardine per il successo di ogni progetto sulla città: le nostre città debbono essere inclusive, lo spazio urbano incluso genera la qualità urbana, includere è oggi azione prioritaria. Ma siamo proprio sicuri che in alcuni casi non sia l’”esclusione” lo status da difendere? Quel che è successo a Berlino, e che a scale differenti avviene spesso in molte città occidentali, è stato un chiaro rifiuto di avviare un processo di trasformazione. Sempre più spesso infatti la riqualificazione dello spazio urbano determina l’inizio del fenomeno noto come gentrification: programmi nati con lo scopo di “includere” diventano il germe da cui si sviluppa un inevitabile processo di “esclusione”. «La gente qui in zona è furiosa perché già minacciata dalla gentrification e non vuole un altro progetto che spinga i prezzi degli affitti ancora più in alto» (così David Kaufman del gruppo Stop Guggenheim Lab)3. Molte zone di Berlino stanno subendo infatti in questi ultimi anni una rapida gentrification, i quartieri, una volta emarginati dalla presenza del Muro, si sono rapidamente trasformati in aree appetibili per gli investimenti immobiliari, i bassi tassi di interesse sui mutui e i mercati finanziari instabili hanno attratto gli investitori spingendo gli affitti bruscamente verso l'alto. Nel quartiere di Kreuzberg, dove il laboratorio stava per essere installato, la popolazione locale è impegnata da anni a combattere questo processo per salvaguardare l’identità del quartiere. Il BMW Guggenheim Lab si è poi insediato a Berlino nel più chic e meno conflittuale quartiere di Prenzlauer Berg nell’area del Pfefferberg, una ex fabbrica di birra già da tempo riconvertita a luogo per eventi culturali, caffè, ostelli e ristoranti. Il tema dell’inclusione come idea guida per la riqualificazione di aree problematiche del tessuto urbano, è un concetto che rischia di essere un boomerang se affrontato con leggerezza.

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http://www.bmwguggenheimlab.org http://www.bmwguggenheimlab.org/press/press-release-archive/2012/223-guggenheim-to-withdraw-bmw-guggenheim-labberlin-from-planned-site-in-kreuzberg 3 http://www.spiegel.de/international/zeitgeist/guggenheim-lab-cancels-berlin-project-a-822853.html 2

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Figura 1. Il sito in cui avrebbe dovuto installarsi nell’estate 2012 il BMW Guggenheim Lab a Berlino nel quartiere di Kreuzberg.

La disciplina urbanistica si trova oggi a dover affrontare problemi sempre più complessi, gli attori coinvolti nei processi di trasformazione urbana sono infatti molteplici e spingono tutti in direzioni diverse: gruppi di investitori, autorità pubbliche, residenti insoddisfatti e associazioni civiche. Gli studiosi dei fenomeni urbani si trovano ad affrontare nuove dinamiche ed il mondo accademico a dover attualizzare i programmi di insegnamento e costruire nuovi metodi di ricerca. In questo contesto, in cui è crescente la varietà e il numero delle sfide poste dalle realtà urbane, diversi istituti di istruzione universitaria, in tutto il mondo, hanno istituito i cosiddetti Laboratori di Studi Urbani per ampliare e rafforzare le loro competenze nel settore paesaggistico, ambientale e urbanistico e in tutte le altre discipline che si relazionano con l’ambiente costruito, in modo da poter rispondere alle sfide associate all’urban age. L’urban age è un fenomeno globale che necessita di un costante riscontro locale. Come insegna l’esperienza del BMW Guggenheim Lab, non è sufficiente calare una scintillante Box (Figura 2) in un contesto degradato, all’interno della quale sviluppare un ricco programma di incontri e seminari, ideato dai più interessanti esperti provenienti da diverse discipline che studiano la città, per attivare un dialogo locale, che sia costruttivo ed inclusivo, con i cittadini e gli stakeholder interessati ai processi di trasformazione.

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Figura 2. Il BMW Guggenheim Lab a New York nell’East Village, autunno 2011.

Da queste considerazioni e dalla complessità della costruzione di una metodologia che sia capace di creare spazi urbani realmente inclusivi, è scaturita l’esigenza di creare una rete di Laboratori Urbani, multi-disciplinare e multi-culturale, all’interno della quale discutere e sperimentare i diversi approcci locali in modo da convergere verso un metodo che sia capace di affrontare le realtà più diverse, questo l’obiettivo della rete URBANLAB+ 4. URBAN LAB+: International Network of Urban Laboratories - Understanding urban dynamics, identifying future planning strategies, and strengthening education and research capacities è una rete internazionale di Laboratori Urbani finanziata dalla Comunità Europea nell'ambito del programma di cooperazione internazionale Erasmus Mundus. Questo finanziamento renderà possibile la sperimentazione necessaria per costruire un linguaggio comune. Il gruppo di lavoro è composto da un totale di otto Laboratori afferenti ad altrettante università: la Technical University Berlin (Germania), l’University College London (Gran Bretagna), Catholic University of Chile (Cile), École Polytechnique Fédérale de Lausanne (Swizzera), Wits University Johannesburg (Sud Africa), The Kamla Raheja Vidyanidhi Institute for Architecture and Environmental Studies of Mumbai (India), The Chinese University of Hong Kong (Cina) e per l’Italia l’Università della Calabria con un gruppo di lavoro coordinato dall’autore. Il tema che lega trasversalmente tutte le attività dei Laboratori della rete è la questione dell'inclusione urbana ed il ruolo che essa gioca nella costruzione dello spazio pubblico. Comune a tutti i Laboratori è la sperimentazione di metodi partecipativi, a livello locale, finalizzati alla creazione di forme urbane più inclusive, di paesaggi comuni, di luoghi della socialità e dell’inclusione capaci di rigenerare lo spazio urbano. La rete dei Laboratori di studi urbani che aderiscono al progetto non è una rete uniforme, diversi sono gli approcci e gli obiettivi che scaturiscono quasi sempre dalla relazione col contesto culturale di appartenenza, comune è invece la tendenza a collocarsi al di fuori dei tradizionali confini disciplinari dei programmi accademici, ad assumere l’inter-disciplinarietà come base della ricerca, ad indirizzare le risorse intellettuali e 4

http://www.urbanlabplus.eu

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disciplinari dell’accademia verso le sfere pratiche della progettazione urbana e della pianificazione a livello professionale ed istituzionale. Nel primo anno di attività, il 2013, sono in programma tre clusters sperimentali che si svolgeranno a Santiago del Cile (Figura 3), Johannesburg (Figura 4) e Mumbai (Figura 5), ad ognuno di essi parteciperanno tre dei Laboratori della rete. L’idea è di sperimentare in ogni cluster un diverso approccio metodologico per poi confrontare al termine dell’esperienza i risultati in un incontro internazionale cui parteciperà l’intera rete. Le tre esperienze intendono contribuire alla costruzione di una metodologia, articolata in diverse sfaccettature, che abbia come fine quello di indirizzare i processi di trasformazione verso la creazione di spazi inclusivi. L’approccio sarà rispettivamente incentrato sugli aspetti inter-disciplinari, su quelli multi-culturali e su quelli sperimentali. URBANLAB+ si propone di creare una piattaforma che permetterà ai diversi Laboratori della rete di espandere e intensificare la cooperazione tra loro e con altri organi esterni e, in tal modo, promuovere l’alta qualità dell'istruzione e della ricerca, sviluppando allo stesso tempo idee creative e possibili soluzioni concrete in relazione alle sfide urbane della contemporaneità.

Figura 3. CLUSTER 01: Cerro Alegre, Valparaiso - ottobre 2013 Come è possibile usare l’approccio INTER-DISCIPLINARE, proprio della struttura del laboratorio, per stimolare il processo di INCLUSIONE nello SPAZIO PUBBLICO?

Figura 4. CLUSTER 02: Johannesburg, novembre 2013 Come è possibile usare l’approccio SPERIMENTALE, proprio della struttura del laboratorio, per stimolare il processo di INCLUSIONE nelle AREE DI SVILUPPO URBANO? Paola Cannavò

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Figura 5. CLUSTER 03: fishing village Dharavi, Mumbai - dicembre 2013 Come è possibile usare l’approccio MULTI-CULTURALE, proprio della struttura del laboratorio, per stimolare il processo di INCLUSIONE nei luoghi dell’ABITARE?

Recentemente anche la politica italiana ha recepito l’importanza dell’inclusione e del “costruire dal basso” come impostazioni di metodo indispensabili per la costruzione di uno spazio urbano di qualità. Il documento Metodi e Contenuti sulle Priorità in tema di Agenda Urbana redatto dal Comitato Interministeriale per le Politiche Urbane e presentato dal Ministero per la Coesione Territoriale, riconosce come «Le numerose esperienze avviate in tutti i paesi europei, e in qualche caso in Italia, indicano nella strada del “costruire dal basso” le forme del governo della nuova dimensione della città contemporanea. Queste esperienze confermano la positività di questa scelta e la necessità che il processo “dal basso” avvenga all’interno di una visione strategica e di sviluppo territoriale in grado di garantire processi virtuosi e progressivi di “contaminazione”, in una logica di sostenibilità, all’interno degli spazi nazionali e, per il tramite di aree “cerniera”, verso gli altri paesi dell’Unione, a sostegno della costruzione delle “prossimità” territoriali e della coesione.» (pag.5) e conclude che «Qualità dello spazio e partecipazione sono due aspetti decisivi della diffusione dello sviluppo. » (pag.6) In questo contesto la sperimentazione internazionale avviata dall’Università della Calabria, all’interno della rete URBANLAB+, non potrà che apportare un contributo fondamentale per la costruzione di un metodo di Laboratorio che utilizzi l’approccio multi-culturale ed inter-disciplinare per stimolare i processi di inclusione nella complessità dello spazio urbano contemporaneo.

Bibliografia

Burdett R. (a cura di, 2006), Città, Architettura e società, Marsilio, Verona. Glaeser E. (2011), THRIUMPH OF THE CITY, How Our Greatest Invention Makes Us Richer, Smarter, Greener, Healthier, and Happier, Penguin Books, London. Landry C. (2009), City making, L’arte di fare città, Codice Edizioni, Torino.

Sitografia

COMITATO INTERMINISTERIALE PER LE POLITICHE URBANE, Metodi e Contenuti sulle Priorità in tema di Agenda Urbana, Presentato dal Ministro per la Coesione territoriale, Roma 20 marzo 2013 http://www.coesioneterritoriale.gov.it/wp-content/uploads/2013/04/Politica-nazionale-per-le-città1.pdf

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Nuovi paesaggi e nuove prospettive per i territori abitati in tempo di crisi: la rigenerazione del PEEP “Circus” a Venezia attraverso gli spazi aperti

Nuovi paesaggi e nuove prospettive per i territori abitati in tempo di crisi: la rigenerazione del PEEP “Circus” a Venezia attraverso gli spazi aperti Claudia Faraone IUAV Università di Venezia Dipartimento Culture del Progetto Email: claudia.faraone@iuav.it Valeria Leoni IUAV Università di Venezia Dipartimento Culture del Progetto Email: leoni.valeria@gmail.com

Abstract Il paper s’interroga su come rimettere in moto alcuni processi di trasformazione urbana che si sono fermati a causa della scarsità di risorse, il cui precipitato si è materializzato in vuoti urbani, servizi non offerti, processi di coesione interrotti. Tale approccio presuppone un duplice spostamento del punto di vista, nella distanza del punto d’osservazione, perché i quartieri pubblici presi in considerazione si inseriscono nel funzionamento di una porzione di territorio più ampia; e nell’oggetto osservato, rivolgendo l’attenzione non solo allo spazio “fisico” ma anche a quello abitato e delle politiche. Il caso studio del PEEP Circus di Venezia s’inserisce nel contesto tipico dei territori dispersi del Nord-Est, nel quale l'introduzione di edilizia residenziale pubblica ha seguito le stesse regole di quella privata. Nonostante siano state portate avanti alcune operazioni di miglioramento sia fisico che sociale da parte dell’amministrazione locale, è mancato un coordinamento dei diversi tipi di azione. Ne è risultato che lo spazio aperto collettivo del Circus continua a rimanere vuoto, presa di distanza, sociale oltre che fisica, da parte dei suoi abitanti. Parole chiave Rigenerazione territoriale, città pubblica, spazi aperti.

1 | Welcome to Circus! Note per la biografia di un PEEP Il Circus è uno dei casi studio approfonditi nella ricerca sull'edilizia pubblica del Triveneto di cui si occupa l'unità di ricerca FIRB 2008 dell'Università di Architettura IUAV di Venezia (De Matteis, Marina, on press). Situato ai margini occidentali dell'area comunale di Venezia terraferma, l'intervento è un progetto di edilizia economica popolare realizzato tra il 1984 e il 1997, su progetto architettonico di Cappai-Mainardis e Pastor. Il progetto era contenuto all'interno di un PEEP più ampio esito del piano comprensoriale del ’77-’80, ripreso dal secondo Piano Programma 1982-85, che rendeva operativa la scelta del PRG del ’62, o meglio le sue successive revisioni, di non privilegiare il bordo lagunare come luogo di sviluppo urbano e costruire invece un fronte residenziale pubblico nella parte a ovest e nord di Mestre (Dolcetta, 1983, Marin, 2007), per soddisfare l'alto fabbisogno alloggiativo e dotare la frangia urbana al confine del Comune di Venezia, prevalentemente composta da edilizia residenziale privata, dell’infrastruttura pubblica capace di renderla urbana. Il caso studio del PEEP Circus di Venezia s’inserisce nel contesto tipico dei territori dispersi del Nord-Est, nel quale l'introduzione di edilizia residenziale pubblica ha seguito le stesse regole di quella privata: nella diffusione, nella localizzazione rispetto ai nuclei urbani esistenti e nella dimensione degli edifici (Cegan et al., 1993). Questa “città pubblica” (Di Biagi, 1986) è chiaramente composta da edifici e interventi molto piccoli per dimensioni, rispetto a ciò che le 167 hanno proposto in altri contesti nazionali, ma numerosi e sparsi in un territorio molto ampio. Non ci sono grandi quartieri moderni, autonomi e auto-referenziali, a parte alcuni casi particolari, è stata costruita invece una moltitudine di piccoli agglomerati, interventi pubblici modesti nella loro puntualità, distribuiti all’interno di un territorio pervasivamente abitato, mista nella produzione e negli abitanti: la proprietà non è solo pubblica, ci sono anche interventi di edilizia sovvenzionata e alloggi in cooperativa. Claudia Faraone, Valeria Leoni

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Nuovi paesaggi e nuove prospettive per i territori abitati in tempo di crisi: la rigenerazione del PEEP “Circus” a Venezia attraverso gli spazi aperti

Il contesto del Circus è caratterizzato da una condizione periurbana di prima fascia, con una “crescita filamentare”, ibrido tra lottizzazione in area agricola e edificato lungo strada (Munarin, Tosi, 2001), sviluppatasi lungo la direttrice di Via Miranese, che da Mestre si diparte verso l'entroterra occidentale e che negli anni si è “attrezzata” di infrastrutture, residenze pubbliche e servizi (Officina Welfare space, 2011; Marin, 2007). L'obiettivo dei progettisti, in questo caso sia dei pianificatori e politici che degli architetti deputati a darvi forma, era quello di fornire la periferia e la città dispersa veneta di “semi di città” (Cappai, Mainardis, 1990), attraverso progetti pubblici, principalmente municipi, uffici postali, piazze, insomma dei veri e propri condensatori sociali. In questa cornice s’inseriscono anche gli interventi di edilizia residenziale pubblica che insediano nuovi abitanti, dove l’urbano si ritrova anche nel cosiddetto vivre-ensemble di differenti popolazioni (Sampieri, 2011; Pellegrini, Viganò, 2006). Le intenzioni del piano prendono forma nel PEEP del Circus con lo schema direttore fornito dal Comune1, che richiama alcune riflessioni sulla forma dell’abitare delle aree urbane periferiche proposta da Rossi e Aymonino nel quartiere Gallaratese di Milano, secondo le quali l’architettura residenziale popolare poteva offrire carattere e punti di riferimento formali e simbolici. D’altro canto è dichiarato il riferimento dell’edificio pubblico a forma semicircolare alle forme dell’esperienza anglosassone del Circus di Bath e i complessi veneti di Piazzola sul Brenta e Piazza Badoere2. Infine un riferimento importante è stato il dibattito intorno al concorso per il quartiere di San Giuliano, in particolare la proposta del gruppo di Quaroni, che cerca di rispondere urbanisticamente e formalmente alla costruzione ex-novo di un pezzo di città, uno spazio dell’abitare collettivo per una comunità in fieri, attraverso un principio insediativo che coincide con un volume, un elemento architettonico e urbano (Ciucci, 1993). Ma evidentemente questa “iniezione di pubblico” in un contesto privato ha avuto esiti di diverso tipo, non tutti positivi: nel caso del Circus, si è ripercosso nel disuso degli spazi collettivi più prossimi agli edifici pubblici. Questo è accaduto a causa di una condivisione ed un rapporto pubblico-privato che non ha trovato modi di dialogo in un contesto in cui le forme d’uso e cura degli spazi aperti sono quelli tipici della residenza individuale e del principio insediativo suburbano3. Sin da subito il quartiere è stato teatro di conflittualità di vario genere, associate4 o meno alla qualità edilizia e spaziale sia dell’edificio “Circus” che degli spazi aperti, alla compiutezza o meno degli interventi. Questo ha mobilitato una serie d’interventi pubblici sia dal punto di vista fisico che sociale. Nel primo caso c’è stata la costruzione della piazza Vittorino di Feltre da parte della municipalità che ha sostituito un campetto da calcio informale che sin da subito è stato stigmatizzato come luogo negativo5, nel secondo caso ci sono stati molti interventi da parte degli uffici afferenti al dipartimento di Politiche Sociali del Comune (Fioretti, Savaris, 2004). Quasi tutte le politiche d’intervento hanno avuto un “precipitato” materiale, alcune solo temporaneo: un locale per le riunioni delle associazioni, la costruzione di piazza Vittorino da Feltre al posto del campo sportivo informale, un gazebo (andato distrutto), un’installazione artistica (Caldura, 2005). Quasi tutte hanno avuto un effetto diverso da quello auspicato, se non generatore di ulteriori problematiche, in quanto non hanno tenuto conto delle risorse e delle opportunità disponibili (IRS, 2009). Queste operazioni di miglioramento da parte dell’amministrazione locale non hanno avuto un coordinamento dei diversi tipi di azione: ne è risultato che le attività socio-culturali hanno usato e trasformato lo spazio pubblico e aperto del quartiere PEEP in maniera tecnicamente sbagliata, infatti piazza Vittorino da Feltre (fig.1) continua a rimanere uno spazio vuoto, presa di distanza, sociale oltre che fisica, da parte dei suoi abitanti. Trasformare il campetto da calcio in piazza Vittorino da Feltre ha modificato quello che, a livello percettivo, era uno spazio intimo, in uno spazio pubblico di rappresentanza, “più normato” e meno “appropriabile” dagli abitanti. Non abbiamo quindi a che fare con alte forme di segregazione - non è un ghetto - ma con forme molecolari di esclusione.

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Planivolumetrico redatto dall’arch. Scasso, Comune di Venezia. Intervista condotta dall’arch. Valeria Leoni e Andrea Sardena. Venezia,15 marzo 2012. 2 E’ all’arch. Sasso che si deve il nome stesso “Circus” dell’edificio popolare, oggi diventato “stigma” per gli abitanti dell’edificio di residenza pubblica (confrontare l’intervista con il presidente della municipalità Maurizio Enzo, Chirignago, 27 marzo 2012 e flyer dell’ETAM). Inoltre sui frontespizi delle relazioni di progetto della porzione progettata e realizzata dall’ATER, a cura dell’arch. Paolo Modena, e negli schizzi della porzione progettata su incarico del Comune da Pastor e Cappai-Mainardis, ne compaiono i riferimenti iconografici. 3 Il fazzoletto di prato dove portare a far giocare i bambini in un contesto urbano denso e centrale, è facilmente rimpiazzato dal giardino privato dove i bambini si ritrovano e giocano sotto l’occhio vigile dei genitori in un contesto suburbano. Così come la piazza di Vittorino da Feltre disegnata dal Circus non può essere una centralità di riferimento, avendo già la piazza della Chiesa e del Comune come riferimento simbolico della comunità di Chirignago. Mentre per le altre popolazioni, diverse per cultura, etnia e stili di vita, si delineano altre geografie di spazi pubblici, che però non saranno analizzate in questo contributo. 4 Intervista al Prof. Valeriano Pastor condotta dall’arch. Claudia Faraone. Venezia, 22 febbraio 2013. 5 dall’intervista al presidente della Municipalità Maurizio Enzo, 27 marzo 2012, condotta durante un incontro con l'arch. De Matteis Milena, il Prof. Stefano Munarin, l'arch. Claudia Faraone, l'arch. Valeria Leoni e la sociologa Elisa Polo. Claudia Faraone, Valeria Leoni

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Nuovi paesaggi e nuove prospettive per i territori abitati in tempo di crisi: la rigenerazione del PEEP “Circus” a Venezia attraverso gli spazi aperti

Figura 1. Foto di Alfonsi, De Luca, Gallo, Mazzucco, Sattin

2 | A partire dalle risorse esistenti, ambientale e umana: lavorare con la scarsità, le persone e gli spazi in comune La scarsità6 di risorse porta all'immobilità, alla mancanza di azione, in questo senso ci s’interroga su come rimettere in moto alcuni processi di trasformazione urbana che si sono fermati a causa della suddetta scarsità, il cui “precipitato” si materializza in vuoti urbani, servizi non offerti, processi di coesione interrotti. Questi processi possono essere riattivati secondo traiettorie che mettono a valore quel che c'è già in termini sia fisici che socio-economici e siano quindi meno onerosi e più orizzontali nella partecipazione al cambiamento, in contrasto con le dinamiche di partenza che hanno proposto un progetto dello spazio come disegno atemporale e acontestuale. Il contesto di crisi economica che ha caratterizzato gli ultimi cinque anni ha spinto molti studiosi e progettisti in campo architettonico e urbanistico a ripensare le rispettive discipline e le loro cornici di senso e azione (Cremaschi et al., 2010; Till, 2012; Lupano et al., 2010). Le ricerche che cercano di far propria una strategia che tenga conto della scarsità di risorse soddisfano anche un altro requisito, in questa sede molto importante, quello di fornire spazi “abitabili” (Tosi, 2008) in un momento storico in cui l’investimento sul supporto fisico della città scarseggia. Soprattutto nel caso degli spazi pubblici, perché la loro presenza fa sì che la città sia più prospera e attrattiva (United Nations Human Settlements Programme, 2012), e in questo senso bilanci la diminuzione di risorse individuali e private. In questo contributo per spazio pubblico, nel contesto della città dispersa, si intendono tutti quegli spazi della città che sono riconosciuti come “in comune”, tenendo sullo sfondo le definizioni, riflessioni e avanzamenti delle ricerche più recenti che hanno affrontato il tema degli spazi comuni (Di Giovanni, 2010; Palazzo, Giecillo, 2009; Cicalò, 2009). In questa sede l’attenzione si focalizza su tutti quegli spazi del territorio che formano un paesaggio urbano e che sono condivisi, accessibili o semi-accessibili e non sono necessariamente formalizzati secondo l’idea canonica dello spazio pubblico urbano: la piazza, il viale, etc. La ricerca sul Circus si è sviluppata seguendo e cercando di integrare due livelli: da un lato intercettare tutti quegli spazi e beni comuni7 ad una scala più ampia rispetto al PEEP reclamati dai cittadini e dalle associazioni che sarà oggetto di approfondimento dei prossimi paragrafi. Dall’altro lato individuare tutte quelle risorse sociali ed umane che hanno dato vita ad alcuni processi di auto-organizzazione, supportate poi in parte anche dalle politiche sociali del Comune8. Fra queste ultime per esempio: il gruppo di lavoro “Piazza Vittorino da Feltre”, formato da inquilini e da un gruppo tecnico del Comune per promuovere interventi di manutenzione e gestione del complesso, il gruppo di mamme ”la Matita” che si occupa di organizzare attività ricreative per bambini e ragazzi, l’associazione culturale “l’Arcobaleno” che ha portato avanti alcune iniziative di animazione territoriale, organizzazione di eventi e attività di dopo scuola. Agli spazi reclamati di questa porzione di territorio si sono aggiunti quelli già connotati da funzioni di welfare, come scuole, parchi attrezzati, impianti sportivi e simili, (Officina Welfare space, 2011) che possono costruire una rete di spazi del quotidiano (De Certeau, 2010) con l’obiettivo di far emergere immagini di altri paesaggi possibili.

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Scarsità: Condizione di una risorsa presente in quantità insufficiente rispetto agli impieghi per cui è richiesta. [...] Dal dizionario di Economia e Finanza Treccani, voce a cura di Enrico Saltari http://www.treccani.it/enciclopedia/scarsita_%28Dizionario-di-Economia-e-Finanza%29/ 7 Non ci occuperemo in questa sede delle questioni legate alla gestione dei beni comuni (Ostrom, 1990) 8 In particolare l’ETAM ,unità organizzativa complessa all’interno dell’assessorato alle Politiche Sociali. Claudia Faraone, Valeria Leoni

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3 | Nuove prospettive – Territori lenti per una diversa urbanità Alla luce di queste considerazioni, sorge l’esigenza di fornire delle narrazioni “altre” del territorio che vanno oltre le consuete, ormai a un’impasse, e che siano capaci di tenere insieme i processi di sviluppo -o non sviluppoe le azioni degli abitanti o più in generale degli stakeholders. Una metafora utile all’interpretazione di questi territori e le loro dinamiche è quella di “territori lenti”9. I tempi di funzionamento e trasformazione dei territori sono generalmente di diverso tipo e ritmo (Faraone, Sarti, 2008). Nel nostro caso abbiamo a che fare con dei tempi caratterizzati da una bassa velocità: c’è il tempo lento di realizzazione del PEEP completo per cui - come sempre accade - i servizi sono stati costruiti molto dopo le residenze, i tempi fisiologici di appropriazione degli spazi da parte degli abitanti e infine il tempo lento dato dal loop tra politiche socio-urbane e loro output fisico. Nel Circus di Chirignago questi tempi lenti si sono affiancati e accavallati, producendo un paesaggio urbano in cui sono palesi la stagnazione degli spazi e la difficoltà all’interazione degli abitanti: non siamo in un contesto di pratiche di rigenerazione auto-prodotte, che reinventano lo spazio, ma neanche in una banlieue o in un ghetto del Bronx dove esistono fortissime, manifeste conflittualità10. In virtù di questa doppia condizione11 di “lentezza”, è fondamentale andare a cercare il coinvolgimento e le pratiche spontanee laddove si focalizzano ed esprimono il desiderio di un altro modo di abitare, come le condizioni imprescindibili per innescare processi di rigenerazione urbana. Gli spazi non solo prossimi ma anche intorno e tangenti al PEEP, possono diventare motore di una trasformazione più ampia, e di riflesso influenzare positivamente anche l’ambito del Circus12, conferendo un diverso grado e tipo di urbanità a questi pezzi di territorio abitato. Per urbanità s’intende quel carattere della città e i suoi territori di avere spazi condivisi, servizi che migliorino la qualità della vita, in cui il surplus della concentrazione urbana si materializza in servizi altrimenti inattuabili o non elargibili. Questa definizione è messa alla prova in un contesto storico e fisico completamente diverso da quello della città compatta e la nostra proposta è di scardinarlo guardando ai “paesaggi comuni possibili”. La prospettiva di un paesaggio lento rende questi territori capaci di “accogliere” un’urbanità diversa che si lega a domande di spazio pubblico di altro tipo, legate a diversi stili di vita oppure a contesti differenti (Annunziata, 2013).

4 | Nuovi paesaggi e place-making - Infrastruttura urbana pubblica diffusa Reinterpretare gli spazi aperti degli interventi pubblici di edilizia residenziale, a partire dalle pratiche d’uso e dal territorio circostante, è l'occasione per ripensare gli spazi aperti collettivi a una scala più ampia, mettendo in comune il patrimonio urbanistico e paesaggistico esistente, intessendo nuove trame “deboli e diffuse” dei singoli frammenti periurbani e riattivando contesti dal punto di vista spaziale e sociale13. Gli spazi e occasioni residuali che ricadono nell'iniziativa pubblica possono divenire in questo modo lo strumento delle amministrazioni per migliorare il confort e benessere dei propri cittadini, by-passando il problema di integrare approcci solo trasformativi o solo di sostegno sociale (Donzelot et al., 2003). Attraverso un approccio multidisciplinare alla pianificazione, progettazione e gestione dello spazio pubblico, il place-making14, che consiste nel guardare, ascoltare, domandare alla persone che vivono, lavorano e “attuano” in un particolare spazio. Tutto ciò per scoprire desideri ed aspirazioni realizzabili che possano portare immediati benefici allo 9

Questa metafora è già stata da tempo introdotta e fruttuosamente utilizzata da altri ricercatori che ne hanno dato diverse interpretazioni, applicandole a contesti a primo sguardo diversi, ma affini in termini di “funzionamento”. E’ il caso dei “territori lenti” ,descrizione operativa proposta da Lanzani e Lancerini (Lancerini et al., 2005) e il corrispettivo gruppo di ricerca nel tentativo di mettere in luce una “una nuova geografia degli spazi dell’abitare, del lavorare e del tempo libero concatenata a una fenomenologia legata a uno stile di vita emergente”. Oppure nel caso di considerazioni più ampie sulle politiche e modelli di sviluppo e governance per territori a diverse scale e diverse velocità , meno concentrate sulle caratteristiche spaziali (Scoppetta, 2012). 10 Intervista al presidente Da un’intervista al presidente della municipalità Chirignago-Zelarino è emersa la sua difficoltà a creare “massa critica” per la gestione dello spazio pubblico, nello specifico ha raccontato la sua difficoltà nel processo di riqualificazione della centro sportivo “Montessori”, per il quale ha impiegato tre anni a individuare una cooperativa di gestione degli spazi, che aveva più volte rinnovato e che puntualmente era oggetto di atti vandalici perché abbandonato/non utilizzato. 11 Doppia lentezza: delle trasformazioni del territorio e di un altro tipo di crescita e stili di vita. 12 Il PEEP rientra in un intervento attuativo che non suggerisce alcun cambiamento nelle future previsioni del PAT del Comune, qualsiasi sua ipotesi di trasformazione rimane quindi “isolata” all’interno dei confini e non contemplata in un processo urbanistico-paesaggistico di più ampio respiro. 13 La ricerca trova conforto e riferimento nelle ricerche già elaborate negli anni da laboratori e ricerche accademiche di livello nazionale come quelle condotte da LaboratorioCittàPubblica (PRIN 2006); OfficinaWelfareSpace (IUAV Venezia); LABIC-Abitare la città contemporanea (RomaTre); Città Pubblica Milanese (F. Infussi), Territori lenti (A. Lanzani). 14 Mutuiamo la definizione e l’approccio di place-making da Patsy Healey, che lo definisce come un processo in cui si considerano gli strumenti per attivare strategie di sviluppo proattivo, basato su accordi su come i luoghi – places dovrebbero essere e i limiti e le opportunità per trasformarli (Van Kempen et al., 2005). Claudia Faraone, Valeria Leoni

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spazio pubblico e alle persone che lo usano e utilizzare queste informazioni per creare una visione comune per lo spazio in questione. La visione può velocemente evolvere in strategia implementabile, innescando, dalla piccola scala, miglioramenti. Questa prospettiva permette di intendere questi spazi non più come frammenti eterogenei, superfici disponibili per introdurre nuove funzioni o nuovi usi, ma come occasioni per intervenire in una porzione di territorio ampio, dialogando con l’intreccio di pratiche, azioni, conflitti, che caratterizzano già quei luoghi, nel tentativo di integrarle e di farle interagire con altre pratiche e altri usi (Cottino, 2009). Per questi motivi e per il fatto che si riconosce ai cittadini che la costruzione del proprio spazio vitale può assumere varie forme (Bobbio, 2004; Castiglioni, De Marchi, 2009), la ricerca sul Circus ha intercettato i loro desiderata attraverso un’osservazione diretta e partecipante15. E’ il caso della ex-ferrovia Valsugana, oggetto di manifestazioni e eventi di riappropriazione promossi e sostenuti dalla cittadinanza attiva e dalle associazioni perché da rete ferroviaria inutilizzata diventi pista ciclabile. Questo percorso di ri-significazione (Fabian et al., 2012) ha avuto un esito positivo per cui “il Comune ha stanziato le risorse e RFI cederà il sedime gratuitamente per la realizzazione della ciclopista che congiungerà il centro di Asseggiano alla località Valsugana in via Miranese (sviluppo 3000 metri)”16. Altro esempio è rappresentato dal caso del centro sportivo “Montessori”: spazi e impianti ristrutturati dalla municipalità e mai aperti, che hanno stimolato la volontà di un gruppo di genitori a fondare un'associazione, “I Celestini”, per gestirli e garantirne la gratuità dei servizi, avviando contestualmente attività per bambini e adolescenti in collaborazione con i servizi sociali del Comune. Sono gli abitanti stessi che costruiscono il loro paesaggio di spazi “in comune”, a partire da un’interpretazione di paesaggio che non è meramente legata alla componente spaziale dei luoghi del quotidiano, ma si rivolge alla produzione sociale del paesaggio stesso (Cosgrove, 1990). Si arriva alla formulazione di una campionatura di territorio di 1,5 Km X 1,5 Km, che non si pone limiti di tipo politico-amministrativo, né funzionale-simbolico, che mira ad esplorare e analizzare il paesaggio urbano e contemporaneamente propone dei punti di contatto tra spazi contigui ma non connessi. Questo porta alla definizione di un progetto implicito (Dematteis, 1995) per gli spazi comuni che condensa l’osservazione partecipante e lo “sforzo di riannodare i fili” dell’ambito Circus (figura n.2).

Figura 2. Ambito Circus 15 16

In collaborazione con la sociologa urbana Elisa Polo. http://www.amicidellabicicletta.org/spip/spip.php?article868, Organizzazione Giornata nazionale delle ferrovie dimenticate, Cicloliberi – FIAB Gruppo di iniziativa Chirignago-Gazzera – FIAB Mestre/In bici per l’ambiente/Amici della bicicletta.

Claudia Faraone, Valeria Leoni

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Queste riflessioni hanno portato alla formulazione di strategie locali e territoriali per una rigenerazione urbana di Chirignago in “tempi di crisi”, sotto forma di punti programmatici e di una mappa meta-progettuale (fig.3 e legenda):  Riallacciarsi al sistema ambientale esistente, al contesto urbano di scala locale e a quello del Comune di Chirignago-Zelarino.  Stabilire una connessione parallela e intermedia rispetto a via Miranese, ridefinendo gli spazi collettivi di prossimità, usando lo spazio aperto come possibile elemento base di ricucitura di un pezzo più grande di territorio, inquadrando il tutto all’interno di una cornice di operazioni di place-making.  Collegamenti trasversali che attenuano la grande cesura data da Via Miranese, stabilendo una trama di percorsi Nord-Sud che collegano gli spazi comuni.  Previsione di un collegamento con la futura pista ciclabile, con il canale a Ovest e con via Miranese in vista dell’introduzione del tram.  Futura organizzazione di un fase di approfondimento progettuale che si avvarrà di un momento di consultazione e confronto con la popolazione, l’amministrazione (locale e comunale), i rappresentanti del terzo settore già individuati ed eventuali altri stakeholders.

Figura 3. Mappa meta-progettuale

Bibliografia Annunziata S. (2013), “Di quale spazio pubblico abbiamo bisogno? Ripartire dalla domanda dei territori: pratiche di cittadinanza urbana in un quartiere privato a Roma”, in Tracce Urbane. Alla ricerca della città (a cura di Cancellieri A. e Scandurra G.), FrancoAngeli, Milano. Bobbio L. (a cura di, 2004), A più voci. Amministrazioni pubbliche, imprese, associazioni e cittadini nei processi decisionali inclusivi, ESI, Napoli. Caldura R., Ambrozic M. (a cura di, 2005), Citying. Pratiche creative del fare città, Supernova, Venezia. Cappai I. Mainardis P. (1990), “Un seme di città”, in Spazio e società, n. 49. Castiglioni B., De Marchi, M. (2009), Di chi è il paesaggio? la partecipazione degli attori nella individuazione, valutazione e pianificazione. CLEUP, Padova. Cegan C., Dinale S., Magnani C. et al. (1993), “Il tramonto dell’idea di quartiere tra Venezia e la dispersione del territorio provinciale”, in: Costruire a Venezia (a cura di Campostrini T.), Il Cardo, pp. 181–217. Cicalò E. (2009), Spazi pubblici. Progettare la dimensione pubblica della città contemporanea, Franco Angeli, Milano. Ciucci G. (1993), “Progetti per i quartieri residenziali in terraferma. Il quartiere di San Giuliano, il concorso del quartiere CEP alle barene di San Giuliano, il quartiere CEP di Campalto”, in Costruire a Venezia. Trent’anni Claudia Faraone, Valeria Leoni

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Nuovi paesaggi e nuove prospettive per i territori abitati in tempo di crisi: la rigenerazione del PEEP “Circus” a Venezia attraverso gli spazi aperti

di edilizia residenziale pubblica (a cura di Campostrini T.), Il Cardo. Cosgrove D. E. (1990), Realtà sociali e paesaggio simbolico, Unicopli, Milano. Cottino P. (a cura di, 2009), Attivare risorse nelle periferie. Guida alla promozione di interventi nei quartieri difficili di alcune città italiane, Franco Angeli, Milano. Cottino P. (2009), “ Reinventare il paesaggio urbano. Approccio “di politiche” e place-making“., in Ri-Vista ricerche per la progettazione del paesaggio, University Press, Firenze. Cremaschi M., Annunziata S., De Leo D. (a cura di, 2010), Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza. Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti, Planum, The European Journal of Planning on-line. De Certeau M. (2010), L’invenzione del quotidiano. Edizioni Lavoro, Roma. De Matteis M., Marin A. (a cura di, on press), Nuove qualità del vivere in periferia. Percorsi di rigenerazione nei quartieri residenziali pubblici, EDICOM, Gorizia. Dematteis G.. (1995), Progetto implicito: il contributo della geografia umana alle scienze del territorio, FrancoAngeli, Milano. Di Biagi P. (1986) , “La costruzione della città pubblica”, in Urbanistica n. 85, pp. 8–25. Di Giovanni A. (2010), Spazi comuni. Progetto urbanistico e vita in pubblico nella città contemporanea, Carocci. Dolcetta B. (1983), “Edilizia pubblica, città, piano”, in Edilizia popolare a Venezia (a cura di E. Barbiani), Electa, Milano. Donzelot J., Mével C., Wyvekens, A. (2003), Faire société: la politique de la ville aux États-Unis et en France, Éditions du Seuil, Paris. Fabian L., Giannotti E., Viganò P. (a cura di, 2012), Recycling city: lifecycles, embodied energy, inclusion, Giavedoni, Pordenone. IRS, Faraone C., Sarti A. (2008), “Intermittent Cities On Waiting Spaces and How to Inhabit Transforming Cities”, in Architectural Design, n. 78 (1), pp. 40–45. Fioretti C., Savaris S. (2004), L’attenzione al sociale: quartieri in crisi, programmi integrati e progetto, tesi di laurea, IUAV Università di Architettura, Venezia. Lancerini E., Lanzani A., Granata E., et al. (2005), “Territori lenti”, in Territorio, n. 34. Lupano M., Emanueli L., Navarra M. (2010), LO-FI: architecture as curatorial practice, Marsilio,Venezia. Marin A. (2007), “Mestre e i suoi piani regolatori. Nuove idee di città e modelli di crescita (1946-2006)”, in Mestre Novecento. Il secolo breve della città di terraferma, E. Barbiani, G. Sarto (a cura di), Marsilio. Munarin S., Tosi M. C. (2001), Tracce di città, FrancoAngeli, Milano. Officina Welfare space (2011), Spazi del welfare. Esperienze Luoghi Pratiche, Quodlbet, Macerata. Ostrom E. (1990), Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, University Press, Cambridge. United Nations Human Settlements Programme (2012), State of the World’s Cities 2012/13 - Prosperity of Cities. Palazzo A., Giecillo L. (a cura di, 2009), Territori dell’urbano: storie e linguaggi dello spazio comune, Quodilibet, Macerata. Pellegrini P. Viganò P. (a cura di, 2006), Comment vivre ensemble: prototypes of idiorrhythmical conglomerates and shared spaces, Officina, Roma. Sampieri A. (a cura di, 2011), L’abitare collettivo, Franco Angeli, Milano. Scoppetta C. (2012) “Nuove geografie della lentezza”, in Lo Squaderno. Explorations in Space and Society, n. 26, rivista on-line. Till J. (2012), “SCIBE. Scarcity and Creativity in the Built Environment”, Working Papers, Serie S, n. 01, 10,11, London. Tosi A. (2008), “Le case dei poveri: ricominciare ad annodare i fili”, in La vita nuda, Triennale Electa, Milano. Van K.., Ronald D., Karien H., Stephen T. I. (2005), Restructuring large housing estates in Europe, The Policy Press, University of Bristol.

Sitografia PPS-Project for Public Spaces http://www.pps.org/about/, (04.07.2013). Sito web di riferimento della FIAB (Federazione Italiana Amici della Bicicletta) di Mestre/In bici per l’ambiente/Amici della bicicletta. http://www.amicidellabicicletta.org/spip/spip.php?article868 (29.03.2013). Sito web della Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/, (29. 03.2013).

Claudia Faraone, Valeria Leoni

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Spazi pubblici ‘migranti’. Processi di rivitalizzazione degli spazi pubblici della città contemporanea

Spazi pubblici ‘migranti’. Processi di rivitalizzazione degli spazi pubblici della città contemporanea Carmela Mariano Sapienza Università di Roma Dipartimento DATA - Design, Tecnologia dell’architettura, Territorio e Ambiente Email: carmela.mariano@uniroma1.it

Abstract Il paper intende fornire una riflessione sulle dinamiche spontanee di riappropriazione degli spazi pubblici da parte delle comunità ‘migranti’ che prefigurano un futuro della città, e quindi della società, non solo multiculturale ma soprattutto inter-culturale, in grado quindi di attivare processi di integrazione identitaria e culturale nei luoghi privilegiati della vita di relazione. La disciplina urbanistica non può rimanere sorda alle istanze che provengono da queste esperienze e deve interrogarsi sul proprio ruolo, a partire da una riflessione sulla progettazione dei nuovi spazi pubblici nella città contemporanea, per rispondere alle diversificate domande di spazio. Occorre superare la concezione di uno spazio sedimentato e compatto, quale poteva essere quello della città storica e moderna e immaginare nuove tipologie di spazio pubblico in linea con le trasformazioni della città contemporanea e con la domanda sociale che proviene dai diversi gruppi che coabitano il territorio metropolitano. Parole chiave Spazi pubblici e migranti, identità e confini, integrazione e inclusione sociale

Lo spazio pubblico: una risorsa contesa nella città contemporanea Negli ultimi anni la multiculturalità che connota la società contemporanea, connessa all’esigenza di integrazione sociale e culturale, ha trasformato gli usi dello spazio pubblico tradizionale e i paesaggi delle città. Nelle giornate festive si assiste, nelle piazze e nei parchi cittadini, a improbabili partite di cricket organizzate dalle comunità di pakistani e di cingalesi, ad affollati pic-nic delle donne dell’Europa dell’est, a manifestazioni religiose e a pratiche sportive, tutte a costo zero, in quei luoghi pubblici che la cittadinanza sembra aver abbandonato e che la popolazione immigrata tende a far rivivere sotto altre forme e con altri usi. Citando Crosta (2000), quando afferma che “il territorio è l’uso che se ne fa”, potremmo sostenere che il ritorno delle tradizionali pratiche di utilizzo degli spazi pubblici prefigura un futuro della città, e quindi della società, non solo multiculturale ma soprattutto inter-culturale, in grado quindi di attivare processi di integrazione identitaria e culturale nei luoghi privilegiati della vita di relazione, gli spazi pubblici. Nella città storica e moderna lo spazio pubblico veniva vissuto nella piazza e nelle strade, luoghi privilegiati della vita di relazione ma anche luoghi di identità sociale ed elementi cardine della struttura urbana; nella città contemporanea, sempre più spesso, l’idea di spazio pubblico non è più riconducibile a queste categorie spaziali e viene associata, invece, alla forma fisica chiusa dei grandi contenitori del terziario e del tempo libero, che genera nuove tipologie di spazio di uso pubblico e nuove forme di spazi di relazione (Mariano, 2011). L’esplosione della città, l’invasione dei suoi frammenti sul territorio, associata a un sistema infrastrutturale debole, ha determinato l’aumento dei luoghi privati di uso pubblico vissuti oggi come dei potenziali luoghi di socializzazione, che non avviene più nello spazio urbano tradizionale, ma in una quantità di altri luoghi indissolubilmente legati alle pratiche di consumo. I processi di globalizzazione, informatizzazione ed espansione urbana (Borja, Castells, 2002) hanno indotto una progressiva destrutturazione della città contemporanea rispetto ai canoni della città moderna e una crescente nostalgia per lo spazio pubblico classico, quello nel quale i cittadini si radunavano per discutere dei fatti riguardanti la città secondo un ideale di vita politica basata sul dialogo e l’argomentazione (Arendt 1958, Habermas 1997). Carmela Mariano

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Spazi pubblici ‘migranti’. Processi di rivitalizzazione degli spazi pubblici della città contemporanea

Zygmunt Bauman riconduce l’atrofia dello spazio pubblico al fenomeno della individualizzazione che ha prodotto una disaffezione dell’individuo verso gli spazi urbani della città «per rifugiarsi nella extraterritorialità delle reti elettroniche (…) E così lo spazio pubblico va sempre più svuotandosi di questioni pubbliche. È incapace di assolvere il proprio ruolo passato di luogo di incontro e di dibattito di sofferenze private e di questioni pubbliche» (Bauman, 2006). Lo spazio pubblico, in quanto forma che si configura nel tempo e con la progressiva appropriazione da parte dei cittadini, è nello stesso tempo ciò che si percepisce, forma fisica, immagine, paesaggio della città e luogo in cui si sta, in cui si vive, le piazze, le strade, gli spazi aperti della città (Belfiore, 2001). Due quindi le accezioni fondamentali per la sua definizione: Public Space, che corrisponde alla dimensione fisica e morfologica dello spazio, misurabile e rappresentabile nelle mappe della città e Public Realm, che corrisponde alla dimensione relazionale e all’insieme delle interazioni sociali tra gli abitanti, una dimensione non visibile e rappresentabile ma frammentata e mutevole (Lofland, 1998). Diverse le esperienze che, negli ultimi anni, hanno riportato l’attenzione sulla centralità dello spazio pubblico e sulla costruzione di strategie di riappropriazione dei territori. Seppur con naturali differenze, queste esperienze condividono l’idea che negli spazi pubblici si configurano nuove pratiche di cittadinanza. A dispetto di una lunga letteratura che lamenta l’abbandono dello spazio pubblico da parte degli abitanti delle città, oggi, si assiste ad un fenomeno nuovo, che in parte contraddice questa tendenza. Mescolati al popolo di turisti e passanti, i gruppi delle comunità straniere, i migranti, usano le piazze come piazze e le strade come strade contribuendo a ricucire quelle relazioni sociali che si erano interrotte (Careri, 2006). I migranti sono oggi «i nuovi abitanti del dominio pubblico, nei centri storici come nelle zone periferiche, e utilizzano lo spazio urbano in senso proprio e tradizionale, ovvero come centro funzionale della vita civica» (Solimano,1998), contribuendo a connotarlo e contaminarlo in maniera temporanea e talvolta in maniera stabile. La teoria della città multietnica Sedentaria e Nomade (Aureli, 2011) fa riferimento infatti da un lato a forme di appropriazione dello spazio fisico sedimentate, stabili nel tempo e dai confini definiti (come nel caso del quartiere Esquilino a Roma), in cui il migrante cerca di riprodurre artificiosamente le dinamiche spaziali e relazionali del paese di origine, e dall’altro a utilizzi temporanei ed episodici dello spazio pubblico, in cui è possibile intravedere il tentativo di integrazione da parte del migrante che partecipa dunque alla realizzazione di una nuova urbanità, restituendo agli spazi pubblici l’originaria vocazione di luoghi di relazione e scambio culturale. «Rispetto all’immigrato, che è altro dalla città, e rappresenta un fattore di disturbo per gli equilibri presenti, il migrante è un cittadino che costruisce un proprio modo di essere in città, diverso da quello del cittadino residente, ma altrettanto legittimo. Il migrante è una risorsa, e il suo modo di essere in città, uno stimolo per osservare sotto un’altra luce lo spazio urbano.» (Aureli, 2011).

Figura 1. e 2. Catania, piazza Carlo Alberto e Milano, Parco Pallavicino, fonte Fotogramma

Uno sguardo diverso con cui leggere lo spazio pubblico e allontanare la percezione diffusa di luogo insicuro, non curato, poco illuminato e ormai lontano dalla centralità della vita collettiva. Il fenomeno interessa tanto lo spazio pubblico tradizionale della città storica e moderna, che in qualche misura continua a mantenere una certa vitalità in termini di Public Realm, e soprattutto gli spazi della città contemporanea, i frammenti della metropoli dispersa sul territorio, che si sono svuotati di significato e rappresentano più frequentemente i luoghi della riappropriazione da parte delle comunità straniere (Mariano, 2012).

Carmela Mariano

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Spazi pubblici ‘migranti’. Processi di rivitalizzazione degli spazi pubblici della città contemporanea

Sono quelli che Careri (2006) definisce ‘spazi migranti’, dove il termine migrante sta a significare il carattere mutevole di questi luoghi, sia per l’alternarsi delle pratiche di utilizzo da parte dei vari soggetti fruitori, sia per la natura ‘nomade’ dei soggetti che li vivono e li attraversano. Al contrario della ‘Città generica’ che abbandona ciò che non funziona più (Koolhaas, 2006) le esperienze di riuso degli spazi pubblici segnano il riscatto della ‘identità urbana’ contrapposta ai processi di omologazione e di privatizzazione degli spazi collettivi inesorabilmente in atto nella città contemporanea. «Queste amnesie urbane non sono solo in attesa di essere riempite di cose, ma sono spazi vivi da riempire di significati. Non si tratta dunque di una non-città da trasformare in città, ma di una città parallela con dinamiche e strutture proprie che devono ancora essere comprese» (Careri, 2006). Allo stesso tempo gli spazi migranti, abbandonati dai cittadini autoctoni, diventano spazi contesi tra la volontà di ri-appropriazione e ri-utilizzo da parte dei nuovi ‘abitanti’ e la ‘paura della città’ descritta da Davis (1999), a proposito delle gated communities, delle walled cities, del senso di insicurezza e vulnerabilità crescente dell’abitante metropolitano e della richiesta di protezione e separatezza. La risposta in termini di politiche si concretizza il più delle volte in insensate chiusure o presidi militari di luoghi collettivi, parchi urbani, aree archeologiche, snaturando in questo modo il significato profondo del luogo come spazio accessibile, spazio di visibilità, spazio di relazione, spazio di conoscenza, spazio simbolico (Ben e Gauss, 1983).

Lo spazio pubblico interpretato dai migranti A Barcellona, Parigi, New York si registrano esperienze di riappropriazione degli spazi pubblici e dei giardini comunali da parte di alcune associazioni sportive (per esempio il Collettivo De la Calle), che propongono alle amministrazioni di occupare temporaneamente gli spazi pubblici abbandonati e le aree libere non ancora edificate per pratiche sportive informali all’aperto (Fútbol callejero, Street gym). A Roma nel Parco della Caffarella, al Colle Oppio o a Villa Pamphili, a Napoli a piazza del Plebiscito o Piazza Dante, a Catania in piazza Carlo Alberto o a Milano nel Parco Pallavicino o nel Parco Trotter, a Brescia nel parco delle Rimembranze le esperienze di riappropriazione degli spazi pubblici rivendicano il diritto alla città e all’uso dello spazio pubblico da parte di diverse categorie sociali e culturali (Borja, 2003).

Figura 3. Napoli, Piazza del Plebiscito, Fonte Salvatore Garzillo

La disciplina urbanistica non può rimanere sorda alle istanze che provengono da queste esperienze e deve interrogarsi sul proprio ruolo a partire da una riflessione sulla progettazione dei nuovi spazi pubblici nella città contemporanea (Public Space), per rispondere alle diversificate domande di spazio che provengono dalle varie comunità presenti sul territorio, e sulle politiche di gestione degli spazi nell’ ‘era della scarsità’ di risorse, anche immaginando forme nuove che coinvolgano gli stessi ‘nuovi’ fruitori degli spazi pubblici. Perché come sosteneva già Sennett (1972) e successivamente Gehl (1996) è responsabilità dei progettisti il progressivo impoverimento della sfera pubblica, dal momento che il modello di città imposto dal movimento moderno ha diffusamente incoraggiato il rifugio degli individui all’interno dello spazio privato. «Quando l’urbanista cerca di migliorare la qualità della vita urbana rendendola più intima ricrea la sterilità che sperava di eliminare» (Sennett, 1972) Carmela Mariano

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Spazi pubblici ‘migranti’. Processi di rivitalizzazione degli spazi pubblici della città contemporanea

A questo si aggiunge una responsabilità diretta che va attribuita all’in-capacità gestionale, ad una non-cultura del governo delle trasformazioni che sembra aver messo in secondo piano il tema della qualità per limitarsi al mero controllo burocratico della rispondenza del progetto alle norme. E poiché la qualità di una città discende soprattutto dalla qualità degli spazi di tutti si può ragionevolmente affermare che oggi viviamo in una città senza qualità. Al contrario delle dinamiche di competitività economica che vivevano le città negli anni ’80 e ’90, sostenute dai processi di globalizzazione e di apertura delle relazioni europee, le città oggi, messe a dura prova dagli effetti della crisi economica ed ambientale, avvertono l’esigenza di cambiare prospettiva, di ricostruire una immagine condivisa e inclusiva della città (Europa 2020), del quartiere, ricercando il significato profondo che ciascuna comunità assegna ai luoghi di vita e di relazione e garantendo che l’organizzazione dello spazio non sia l’esito di scelte dei singoli ma il frutto, più efficace e giusto per ciascuno, di una dimensione collettiva. Tali obiettivi si riflettono nella progettazione di uno spazio urbano privo di barriere fisiche e culturali, attraverso l'inserimento di luoghi per l'incontro e il confronto, non solo nelle parti di città ormai consolidate, ma anche e soprattutto nelle aree periferiche che più necessitano di tali attenzioni, come nel caso del progetto di riqualificazione di uno spazio pubblico, a cui hanno collaborato i gruppi Topotek1 e Superlflex, il Superkilen Master Plan di Copenaghen, che ha creato nel quartiere più multiculturale della Danimarca una piazza di 800 mq in cui gli elementi architettonici, di arredo urbano e i colori omaggiano le 60 nazionalità che qui vivono e lavorano. Un progetto che è l’esito di un processo partecipativo fortemente dinamico e che ha prodotto la realizzazione di uno spazio collettivo condiviso, vitale e di grande qualità.

Figura. 4 Verona, San Masssimo, Fonte Sartori fotoland

Anche la mostra Migrating landscapes ospitata nel padiglione del Canada alla XII edizione della Biennale di Architettura di Venezia, rappresenta una reinterpretazione del tema del common ground della nazione affidata a giovani architetti e designer provenienti da una vasta gamma di retroterra culturali e formativi e interpreti delle identità delle varie culture presenti sul territorio. Un’identità che non si configura come frontiera da innalzare a difesa del proprio senso di appartenenza, ma piuttosto come l’esito di un processo di relazioni che presuppone lo scambio e il confronto nei luoghi in cui lo scambio può realizzarsi. «Ciascuno di noi dovrebbe essere incoraggiato ad assumere la propria diversità, a concepire la propria identità come somma di appartenenze, invece di confonderla con una sola, eretta ad appartenenza suprema e a strumento di esclusione, talvolta a strumento di guerra» (Maalouf, 2001). Il contributo dei planners necessariamente deve andare nella direzione di adattare la progettazione degli spazi pubblici alle nuove pratiche sociali e ai nuovi bisogni della città, superando la concezione di uno spazio sedimentato e compatto, quale poteva essere quello della città storica e moderna, e immaginando nuove tipologie di spazio pubblico in linea con le trasformazioni della città contemporanea e con la domanda sociale che proviene dai diversi gruppi che coabitano il territorio metropolitano (Marcelloni, 2005). Il progetto e la gestione smart dello spazio pubblico possono garantire oggi le connessioni e le occasioni di confronto tra soggetti urbani eterogenei in un processo di ‘pluralizzazione’ (Crosta, 2000) dello spazio pubblico, contrastando le dinamiche di standardizzazione sociale e l’isolamento fisico che generano le tendenze contemporanee all’esclusione e alla segregazione. Immaginare e comporre nuovi percorsi di costruzione dello spazio pubblico significa avere la capacità di conoscere e comprendere la ‘differenza’ e farne un punto di forza per la progettazione dei luoghi della convivenza, significa che «tutti coloro i quali si trovano in una situazione di compresenza […] si costituiscono in Carmela Mariano

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Spazi pubblici ‘migranti’. Processi di rivitalizzazione degli spazi pubblici della città contemporanea

Pubblico», dando vita ad un processo politico ma anche di ‘politiche pubbliche’ intese come l’insieme dei processi di costruzione di azioni concrete da parte di una pluralità di soggetti, in vista della soluzione di un problema percepito come di rilevanza collettiva (Crosta, 2000).

Bibliografia Arendt H. (1958), The uman condition, The University of Chicago, U.S.A. Aureli D. (2011), Lo spazio pubblico nella città multietnica I luoghi d’incontro delle comunità straniere come risorsa per la città contemporanea, Aracne Editrice. Bauman Z. (2006), Modernità liquida, Laterza Roma-Bari. Bauman Z. (2008), Vita liquida, Laterza Roma-Bari. Belfiore E. (2001), Il rimodellamento dello spazio urbano, Gangemi editore. Benn S., Gauss G. (1983), The public and the private: concepts and action. In: S. Benn, G. Gaus, Public and private in social life, Cromm Helm, London.Borja J, Muxi Z., (2003), Espacio publico: ciudad y ciudadania, Electa Mondadori, Milano. Borja J., Castells M. (2002), La città globale. Sviluppo e contraddizioni delle metropoli nel terzo millennio, Milano De Agostini. Careri F. (2006), Walkscapes, camminare come pratica estetica, Torino, Einaudi. Crosta P.L., (2000), Società e territorio, al plurale. Lo “spazio pubblico” - quale bene pubblico – come esito eventuale dell’interazione sociale, in Foedus n.1/2000 Davis M. (1999), Geografie della paura. Los Angeles: l’immaginario collettivo del disastro, Feltrinelli, Milano. Gehl, J. (1996), Life between Buildings: Using Public Space, Arkitektens Forelag, Copenhagen. Habermas J. (1962), The Structural Transformation of the Public Sphere: An Inquiry into a category of Bourgeois Society,Polity, Cambridge. Habermas J. (1997), Teoria dell'agire comunicativo, vol. 2°Critica della ragione funzionalistica, Il Mulino. Koolhaas R. (2006), Junkspace Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, Quodlibet. Lofland L. H. (1998), The Public Realm: exploring the City’s Quintessential Social Territory, Aldine de Gruyter, New York. Maalouf A. (2001), L’identità, Bompiani, Milano. Marcelloni M. (2005), a cura di, Questioni della città contemporanea, FrancoAngeli. Marcetti C., Solimano N. (1998) - Fondazione Michelucci, Immigrazione convivenza urbana,conflitti locali, Angelo Pontecorboli. Mariano C. (2011), Progettare e gestire lo spazio pubblico, Aracne editrice. Migrating landscapes (2012), Visitor’s guide to Canada’s entry at the 13th International Architecture Exhibition – La Biennale di Venezia, Migrating landscapes organizer, Canada. Sennet R. (1972), The fall of public man, W.W. Norton & Company, New York-London [Tr. It. Il declino dell’uomo pubblico, Bompiani, Milano, 1982]. Torricelli G. P. (2009), Potere e spazio pubblico urbano. Dall’agorà alla baraccopoli, Milano, Academia Universa Press.

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Declinare in spazi le idee di welfare: nuovi materiali del progetto urbano, nuovi paesaggi.

Declinare in spazi le idee di welfare: nuovi materiali del progetto urbano, nuovi paesaggi Laura Mascino Politecnico di Milano DAStU Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Email: lmascino@libero.it

Abstract La costruzione del benessere-il welfare –inteso sia come benessere individuale che collettivo ha investito non solo le politiche socio-economiche di governo, ma anche la costruzione fisica delle città del xx secolo. Muovendosi nella contemporaneità, si percepisce un cambiamento alla radice di alcuni valori e strutture della società costruita a partire dalle dimensioni del ‘benessere’ sociale. I dibattiti sui cambiamenti hanno sollevato una varietà di questioni di “ampio respiro”. Il pensiero dominante è che non sia possibile sviluppare un programma coerente, se non si danno risposte ad alcune grandi questioni tra cui quella ecologica. Ed è proprio questa che ha investito profondamente i cambiamenti che interessano il progetto urbano. Quali sono i nuovi paesaggi che si stanno formando? Si può indagare nella contemporaneità attraverso progetti che contengano in se della ricerca. La ricerca consapevole è rimasta forse circoscritta a poche occasioni e una di questa è rappresentata dal concorso Europan. Parole chiave welfare, materiali urbani, nuovi paesaggi Per inquadrare una lettura di progetti che vuole essere fatta attraverso categorie così ampie e ambigue per la loro complessità, come quella del welfare e della sostenibilità è necessario (o almeno lo è per me) definire con tranquillità (senza lasciarsi annichilire dalla dimensione del tema e dalla sua appartenenza a diverse discipline) da che parte si sta; quale è la propria posizione rispetto alle infinite cose dette. Anche correndo il rischio di essere superficiali. D'altronde quando si affronta un discorso che ci coinvolge su più livelli, la frammentazione, come la molteplicità e l’incompletezza, sono inevitabili ed il benessere sociale, così come lo spazio, sono materiali coinvolgenti. Quindi sono doverose due precisazioni su: un’idea di welfare e il valore ormai imprescindibile della sostenibilità.

Un’ idea di welfare Welfare- città Welfare e città è stato un binomio molto importante nel progetto della città del XX secolo e deve tornare ad esserlo adesso che a causa dell’attuale situazione sociale si mette ancora più in evidenza la fragilità economica di un gran numero di cittadini. La fascia debole della popolazione sta aumentando a ritmi vertiginosi comprendendo sempre più personecittadini; le politiche di sostegno economico non possono bastare a ritrovare un senso di benessere. Se dunque: “un racconto importante per la città del XX secolo è quello di una ricerca paziente delle dimensioni fisiche e concrete del benessere individuale e collettivo; una ricerca iniziata e in gran parte svoltasi prima del Welfare State, convinta che il benessere, il Welfare appunto, sia una dimensione importante della libertà individuale e collettiva” (Secchi, 2005: 108) è importante oggi tornare a riflette ‘concretamente’ sulla costruzione anche fisica (quindi della città) di un benessere collettivo. Nella convinzione che il tendere verso l’uguaglianza sia un valore importante da perseguire e nel sospetto che le politiche degli ultimi decenni,

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attaccate da quella che Darendhorf1 chiamerebbe le opposizioni: azzurra, rossa e verde, siano andate sempre più verso un welfare di tipo residuale, piuttosto che inclusivo- socialdemocratico2. Well-being In alcuni scritti pubblicati tra il 1966 ed il 1984 l’economista indiano Amartya Sen introduce un approccio centrato su quella che è stata chiamata "etica delle capacità" per comprendere cosa si debba esattamente intendere per "vita migliore". In quest’ottica, poiché lo sviluppo mira al miglioramento dei tipi di vita che gli uomini conducono, esso non può che essere definito in relazione a ciò che gli uomini possono e devono essere e fare. Ciò che conta nel cosiddetto standard di vita è il vivere bene, non il possedere merci di per sé. E il vivere bene consiste, essenzialmente, nella piena realizzazione di talune funzioni, quelle che costituiscono la rete delle capacità di una persona, funzione, intesa in relazione al giovamento che una persona trae da ciò che è o che fa. Nutrirsi, abitare, l'essere in grado di circolare liberamente, di vivere il più a lungo possibile, di intessere relazioni sociali, di partecipare alla vita politica, di realizzare la propria creatività, sono altrettante funzioni che uno sviluppo umano deve prefiggersi di promuovere. Nucleo centrale di quello che si può definire il “programma seniano” è dunque la nozione (di derivazione aristotelica) di "stare bene" ('”well-being” in opposizione a “welfare” delle analisi economiche tradizionali, nelle quali lo “stare bene” è di solito identificato con la felicità). Per Sen il “well-being” è “una valutazione del vettore delle funzioni” - come sopra definite - che una persona consegue. Da un’indagine fatta di recente dalla società Legatum3 sullo ‘stare bene’ e ‘vivere felici’ ci sono paesi che nonostante la crisi, sembra continuino a garantire una vita serena ai propri cittadini che non stanno risentendo più di tanto del complicato periodo economico. Tra questi, non c'è l'Italia ma, secondo Legatum, neanche Stati Uniti, Francia, Germania e Gran Bretagna che non riescono ad inserirsi nella lista dei 10 Paesi più felici del mondo. Sono i Paesi scandinavi quelli che garantiscono maggiormente la felicità dei loro cittadini. In base, infatti, alle variabili prese in considerazione, che tengono conto del tasso di occupazione, del pil pro capite, ma anche della fiducia nelle autorità, l'assistenza all'infanzia e l'efficienza dei servizi, è la Norvegia a guadagnarsi la prima posizione, seguita da Danimarca e Svezia. Dalla revisione degli attributi di demercificazione e destratificazione del Welfare nordico scaturisce un sistema più articolato con una forte modalità inclusiva, della società. Oltre a questo lavoro sull’individuo all’interno della società, un altro aspetto rilevante delle politiche del nord Europa (si intendono sempre i paesi scandinavi) consiste in una forma di welfare né residuale né remunerativo, ma ridistributivo (Gøsta Esping-Andersen). Questo carattere viene espresso anche attraverso infrastrutture di qualità e il benessere di tutti passa attraverso la qualità dello spazio della città. Non è un caso che proprio nei paesi nordici si rilevino sperimentazioni legate al benessere ed al quotidiano, che hanno riaffermato il legame tra politiche di welfare e costruzione fisica dello ‘stare bene’ anche attraverso la qualità del progetto urbano. Politiche inclusive-città Ma se può rimanere il dubbio che certe politiche siano percorribili solo li dove (non per caso) non è così marcata la questione dell’aumento di povertà, è proprio il risultato dell’ultima Conferenza internazionale organizzata dal Consiglio d’Europa in cooperazione con la Commissione Europea sulla lotta alla povertà ad eluderlo4. L’approccio emergente dalla conferenza è, difatti, quello di non considerare la lotta contro la povertà come un insieme di interventi indirizzati ai poveri, ma come l’applicazione non selettiva dei diritti umani a tutti, in un’ottica di inclusione. Ed è proprio nell’ottica dell’inclusione che diventa fondamentale il progetto della città, delle sue dotazioni e delle infrastrutture.

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Nel 1995 Ralf Darendhorf osservava che sono apparsi tre diversi tipi di opposizione alle politiche di welfare che, seppur in direzioni contrapposte, propongono tutti un sostanziale cambiamento dei compiti e del ruolo dello stato sociale. L’opposizione "azzurra" (dai colori del partito conservatore britannico) è schierata per un cospicuo smantellamento dei programmi esistenti e per un ritorno alle "vecchie leggi" di mercato. L’opposizione "rossa", dal canto suo delusa per le promesse mancate di welfare state, propone un più vigoroso sforzo in direzione ridistributiva. L’opposizione "verde", infine, seppur non direttamente incentrata sul welfare state, è ad esso culturalmente ostile nella sua proposta di un generale cambiamento d’enfasi e di priorità politico – economiche.) 2 I modelli di welfare fanno riferimento a quelli individuati da Gøsta Esping-Andersen, che si rifanno alla classificazione di Tittmus. 3 Legatum è un gruppo di investimento privato che si è concentrata sui mercati emergenti e di frontiera con al suo interno una società di ricerca sui temi di sviluppo sostenibile. 4 A Strasburgo tra il 21 e 23 febbraio 2013 si è tenuta la Conferenza Internazionale organizzata dal Consiglio d’Europa in cooperazione con la Commissione Europea su “Povertà e Diseguaglianza nelle Società dei Diritti Umani: il paradosso delle democrazie – Proposte per una società inclusiva” dove si sono raccolti i contributi di esperti e di organizzazioni impegnate sul terreno dello studio e dell’iniziativa concreta nella lotta alla povertà e contro le ineguaglianze, per un’applicazione inclusiva dei diritti umani. Laura Mascino

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Il pensiero progettuale e la questione ambientale: nuovi paradigmi nella costruzione del 'benessere' Nel declinare in ‘spazio’ l’idea di benessere, un ruolo importante lo riveste la questione ambientale. Dagli anni ’90 è stata promossa in Europa una politica che, attraverso diverse tappe strategiche 5, ha come obiettivo la sostenibilità ambientale. A circa venti anni dalla prima conferenza europea sulle città sostenibili, tra fallimenti e difficoltà sono sicuramente cambiati gli standard ambientali e qualitativi, e ad oggi è possibile indagare su cosa è stato fatto, cosa è cambiato e verso dove si sta andando. Se prediamo in considerazione la prima conferenza europea sulle città sostenibili, che si è tenuta ad Alborg nel 1994, le città europee firmatarie della presente carta si impegnavano, a 'promuovere, nelle rispettive collettività, il consenso sull'Agenda 21, i singoli piani locali di azione avrebbero dovuto contribuire all'attuazione del programma di azione a favore dell'ambiente "per uno sviluppo durevole e sostenibile"'. Si proponeva che il processo di definizione dei piani locali di azione comprendesse alcune fasi, tra cui: la formazione di un punto di vista comune per quanto riguarda un modello sostenibile di svilluppo e la ricerca di un metodo di valutazione delle opzioni strategiche alternative che quindi dovevano comprendere obiettivi misurabili. Molti degli impegni sottoscritti dai paesi dall’Unione Europea non hanno avuto una completa e pratica attuazione anche per la genericità degli enunciati e dei principi. L'aspetto su cui più si è lavorato è la definizione di strumenti capaci di declinare in mosse concrete la 'sostenibilità' e riuscire a valutarne le caratteristiche. Tuttora si continua a lavorarci, leggendo infatti gli obbiettivi che ci si propone di discutere nella settima edizione della Conferenza che si terrà a Ginevra dal 17 al 19 aprile 2013, tra i più importanti c'è quello di individuare strumenti pratici per realizzare politiche concrete e piani d’azione, e favorire l’avvio di azioni intese a colmare il gap esistente nel raggiungimento degli obiettivi ambientali, economici e sociali che realizzino la sostenibilità. Dalla prima conferenza sulle città sostenibili, fino alla conferenza che si terrà a Ginevra, in questi ormai quasi venti anni si è cercato di mettere a punto politiche sempre più mirate e a dare concretezza a una serie di idee. Si continua a lavorare per andare ‘nella direzione della sostenibilità. E mentre all’inizio sono emersi quelli che Isabelle Stengers6 definirebbe concetti nomadi, ovvero “qualcosa che si impone per potenza euristica e fecondità (...) un vettore di innovazione” e un “catalizzatore di invenzioni culturali e intelletuali”, adesso molti di questi concetti si sono declinati in materiali veri e propri, ancora in fase di evoluzione e trasformazione ma ormai sempre più tangibili, con ormai, un 'breve' trascorso, su cui si può indagare. Sostenibilità, ecologia, ambiente, risparmio energetico, riuso, riciclo... sono concetti che, una volta catturati, hanno costituito le stepping stones, gli elementi di collegamento fra progetto ed ecologia. I ‘nuovi progetti’ fanno ormai i conti con l'impatto che provocano sull'ambiente: regione climatica, aerodinamica degli edifici, soleggiamento, rinfrescamento, progetto di suolo, learning from nature, ecoplan, ecopolis, tecnologie consapevoli... Quindi dalla costruzione di un novo immaginario disciplinare si sta andando verso un nuovo ‘sapere’ disciplinare. E la declinazione in spazio dell'idea di benessere riparte da qui: 'sole, aria, spazio: beni fondamentali.7 5

Alcune tappe: 1968 Parigi, prima conferenza UNESCO sulla Biosfera; 1972 Stoccolma, ‘Conferenza sull’ambiente umano’; 1971 Founex, ‘Seminario su ambiente e siluppo’; 1974 Bucarest, 1° ‘Conferenza mondiale sulla popolazione’; 1976 Vancuver, ‘Habitat Conference’; 1977 Mar della Plata, ‘Conferenza mondiale sull’acqua’; 1977 Nairobi ‘Conferenza UN sulla desertificazione’; 1979 Ginevra, ‘Conferenza mondiale sul clima’; 1984 Mexico City, 2° ‘Conferenza mondiale sulla popolazione; 1987 Montreal, firma del protocollo sulla riduzione della produzione e dei consumi di cluorofluorocarburi; 1992 Rio de Janeiro, ‘Earth Summit’; 1994 Alborg, 1° Conferenza europea sulle città sostenibili; 1996 Istanbul, City Summit e adozione della ‘Agenda Habitat’; 1996 Lisbona, 2° Conferenza europea sulle città sostenibili; 1997 Kyoto, Protocollo di Kyoto, trattato internazionale per la lotta ai cambiamenti climatici; 1999 Cairo, 3° Conferenza Mondiale sulla popolazione 2000 Hannover, 3° Conferenza europea sulle città sostenibili; 2001 New York, Conferenza Istanbul +5; 2002 Johannesburg, 2° Earth Summit, 2004 Alborg, 4° Conferenza europea sulle città sostenibili; 2007 Siviglia, 5° Conferenza sulle citta sostenibili; 2009 Copenhagen Conferenza sui cambiamenti climatici; 2010 Dunkerque 6° Conferenza europea sulle citta sostenibili; 2013 Ginevra, 7° Conferenza europea delle città sostenibili. 6 “Un concetto nomade deve riuscire ad organizzare una serie di fenomeni, a definire le domande pertinenti e il senso delle osservazioni che si possono effettuare (…); deve essere riconoscuto come adeguato a ottenere tutto ciò, non come promotore delle idee di colui che lo promuove: non devono rimanere dubbi sulla plausibilità o l’autenticità dei criteri di cui si fa portatore”. (Stengers, 1988 :11) 7 Il riferimento ai postulate della Carta d’Atene indica quanto alcuni temi siano ricorrenti nella disciplina :“Primo dovere dell’urbanistica è di consentire ai bisogni fondamentali degli uomini. La salute di ciascuno dipende in gran parte da suo sottomettersi alle “condizioni naturali”. Il sole, che presiede ad ogni fenomeno di crescita dovrebbe penetrare in ogni alloggio ed espandervi i suoi raggi, senza i quali è garantita dalla presenza degli alberi, dovrebbe essere pura, liberata dalle polveri inerti come i gas nocivi. Infine lo spazio dovrebbe essere largamente distribuito. Non si dimentichi che la sensazione di spazio è d’ordine psico-fisiologico e che l’angustia delle strade e dei cortili crea un’atmosfera che è tanto malsana per il corpo quanto è deprimente per lo spirito. Il 4° Congresso C.I.A.M., tenuto ad Atene, ha fissato questo postulato: il sole, il verde, lo spazio sono i tre elementi principali dell’urbanistica” Laura Mascino

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Nuovi materiali, nuovi paesaggi: un’osservazione attraverso il concorso Europan Per quanto riguarda il panorama contemporaneo, la sperimentazione consapevole, rispetto alla progettazione, è rimasta circoscritta a poche occasioni. Alcune di queste sono rappresentate da alcuni concorsi tra cui il concorso Europan, che vede coinvolti numerosi paesi d’Europa dal 1989. La tematizzazione relativa alla città, che si trova negli Europan non è specifica di questo ambito, ma appartiene al discorso urbanistico che in questi anni (dal 1989 ad oggi) si è sviluppato in Europa. Attraverso il concorso si è voluto e si vuole esplicitamente promuovere e animare un dibattito urbanistico a scala europea. Europan può quindi essere usato come osservatorio privilegiato. Il concorso Europan nasce su proposta dello Stato francese dall’idea di traslare su scala europea l’esperienza dei PAN (Programme d’architecture nouvelle). Vede ufficialmente luce nel maggio del 1988 a Madrid ove i rappresentanti di nove paesi (Austria, Belgio, Francia, Grecia, Italia, Olanda, Repubblica Federale Tedesca, Spagna e Svizzera, con l’appoggio di Danimarca, Gran Bretagna e Svezia) firmarono un documento che li impegnava a favorire gli scambi –su scala europea- culturali e professionali nel settore dell’architettura. Il mezzo individuato fu un concorso di idee indirizzato a giovani architetti (under 40) sul tema ‘Evoluzione dei modi di vita e di architettura dell’alloggio’. Quindi Europan ha come obiettivo raccogliere nuove idee su un tema comune alle città europee, facilitare il conferimento d’incarichi professionali a giovani progettisti capaci e, più in generale, animare il dibattito fra le reti di professionisti e le Amministrazioni locali così da favorire interventi sperimentali nel settore dell’edilizia residenziale e attivare processi di sviluppo urbano. Oggi siamo alla dodicesima edizione. Ogni tema stabilisce un nesso tra un problema legato all’evoluzione dei modi di vivere e uno di ordine spaziale. Il punto di partenza è la constatazione di alcuni cambiamenti. Analizzando tutte le sessioni degli Europan (titoli, testi critici, progetti) emergono delle parole-concetti che insieme ai progetti hanno costruito un immaginario sulla progettazione dei paesaggi . Appare subito come lo sforzo maggiore fatto in questi anni, all’interno del concorso sia stato nella lettura della città contemporanea, soprattutto attraverso il carattere “morfologico” di quest’ultima. Il disagio sociale è attribuito a un disagio urbano. La ”periferia” è soprattutto il luogo di questo disagio e per periferia si intende tutto ciò che nel territorio, fuori dalla città storica ormai codificata, non si riesce a leggere. Nella scelta delle aree e nei progetti, acquista importanza il ‘vuoto’ (in diverse edizioni di Europan si propone di partire a riflettere dal ‘vuoto’). Al di là di un’architettura contestuale che comunque emerge dai diversi Europan e quindi dalla evidenza di diverse geografie, si possono riconoscere degli atteggiamenti comuni: tra parole e progetti si è costruito un immaginario di possibili paesaggi. La scala è stata quella territoriale e il materiale con cui parole e progetti più hanno lavorato è stato il paesaggio naturale. Quest’ultimo è stato il maggior protagonista nella costruzione dei nuovi luoghi la costante di tutte le edizioni. Il paesaggio naturale si è declinato in una serie di spazi che vanno dal parco, al giardino, alla corte interna e costruiscono un sistema di spazi che sfumano nel nuovi insediamenti. Cosa appare è ciò che già nell’Europan 3 Manuel Gausa teorizza, ovvero la consapevolezza che la dicotomia città/territorio non può più essere considerata valida in quanto lascia spazio a zone di tensione, a geografie ambigue e a nuovi contesti con cui chi progetta si deve per forza confrontare. Sempre dall'analisi dei temi e dei progetti emerge che solo negli ultimi Europan si parla esplicitamente anche di questioni ‘ecologiche’ (dalla ottava edizione-2006) quindi in forte ritardo rispetto al dibattito culturale 'sui grandi temi della contemporaneità', anche negli Europan la costruzione dei paesaggio non può più prescindere dal tema della sostenibilità legata alla questione ambientale e alla questione sociale. Spazio pubblico: un progetto strategico Interessante e significativo è che il tema della sostenibilià ambientale e sociale si declini soprattutto attraverso il progetto dello spazio pubblico (non in maniera esclusiva, ma sicuramente molto rilevante). Nell'Europan 9 il progetto dello spazio pubblico diventa il tema principale, e già il titolo denuncia subito questa scelta: “Urbanità europea, città sostenibile e innovazione degli spazi pubblici”. “(...) Lo spazio pubblico rappresenta, nelle società urbane, l’insieme degli spazi di passaggio fruibili da tutti e direttamente senza restrizioni purché sia rispettata una regola d’uso stabilita dall’autorità pubblica. Esso forma la struttura spaziale che collega le aree private, favorisce o codifica le loro relazioni, il commercio, l’espressione della vita comunitaria e di alcune forme di libertà e conflitto. Come struttura esso determina lo sviluppo delle città e si adatta al sito attraverso le reti viarie e le infrastrutture (…) Lo spazio pubblico urbano è fortemente segnato dai ‘modi di vita’ e dalle attività dei suoi abitanti. Questo segno è multiforme: l’ambiente, il colore, le decorazioni della strada, i mercati, le attività collettive (terrazze, esposizioni, giochi) preservano più o meno il ruolo sociale di cisacuno, con all’interno della città una grande varietà di situazioni (...) Così lo spazio pubblico è allo stesso tempo quello del quotidiano, quello del festivo, quello ludico, quello politico. Le questioni poste attorno a questa definizione sono: quando comincia e dove finisce lo spazio pubblico? Che ruolo può avere lo spazio pubblico nella città ‘diffusa’-una città in ‘rete’ allorchè gli elementi della città sostenibile conducano a riformulare la questione dello spazio pubblico in termini di stratificazione- caratteristica principale della città europea? Lo spazio pubblico europeo messo in tensione tra questi due aspetti di città resta ancora oggi generatore di identità urbano.” (Catalogo Europan 9) Il progetto dello spazio pubblico come elemento fondamentale nella costruzione del 'benessere collettivo', lo si Laura Mascino

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ritrova esplicitato anche nell'Europan 10 dove la rivitalizzazione di aree degradate fisicamente e socialmente viene indagata attraverso il progetto di ”alcuni spazi lineari che possono giocare un forte ruolo nella struttura di aree urbane , rafforzando il loro ruolo come spazi pubblici”. (Catalogo Europan 10) Tornando però all’edizione precedente l'Italia propone ben 6 siti che lavorano a partire dal progetto degli spazi aperti: . con il sottotema di: costruire la città sopra la città. Nelle zone obsolete o nei quartieri già consolidati da modernizzare: Carbonia (CI) , Erice (TP), Pistoia; . con il sottotema di:opportunità degli spazi pubblici: Bisceglie (BT)- Firenze- Siracusa; Le aree: a Carbonia lo spazio pubblico è il progetto per un margine urbano irrisolto carico di elementi infrastrutturali; a Erice si lavora sulla riqualificazione di un area periferica del centro storico una 'zona sensibile che necessità di un delicato intervento nel rapporto tra spazio pubblico e spazio privato'; a Pistoia lo sviluppo insediativo, (avvenuto prevalentemente lungo le direttrici viarie storiche), ha lasciato dei 'vuoti tra i singoli lotti abitativi che costituiscono delle nuovo risorse'. Questo privilegerà la riorganizzazione delle funzioni, dei servizi, della mobilità, della morfologia urbana, del rapporto con lo spazio privato, ponendo al centro la realizzazione di nuovi luoghi pubblici: piazze, giardini, percorsi pedonali protetti e valorizzando ambiti naturali (aree incolte, argini fluviali) spazi di risulta o aree fortemente degradate'. A Bisceglie il progetto degli spazi pubblici diventa un progetto strategico di riqualificazione del borgo antico che soffre di forte degrado sociale; a Firenze lo spazio pubblico è una parte del lungo fiume dove 'la mancanza di continuità tra gli elementi che costituiscono l'intera area, stabilisce una condizione di isolamento sociale generalizzato che inibisce la formazione di una identità collettiva del luogo'; a Siracusa 'la dismissione degli assi ferroviari costituisce uno dei temi più significativi della città. Le parti di città che si sono sviluppate voltando le spalle alle aree occupate dalla ferrovia si trovano improvvisamente a confrontarsi con un nuovo tessuto che favorisce invece il dialogo con il paesaggio, in particolare con il mare '. I progetti : a Bisceglie il progetto vincitore lavora sulla costruzione di un delicato tessuto punteggiato da giardini tematici, piazze riconoscibili e rinnovate nella loro funzione, liberato dall’uso delle macchine. A Carbonia il nuovo margine sarà una ‘città giardino’ con una grana larga dove lo spazio aperto si declina in giardini, parco agricolo, parco lineare, parco minerale tecnologico, parco solare. A Erice il progetto riporta l’attenzione sul tessuto esistente, ridefinisce fisicamente il limite del borgo attraverso un attento articolarsi tra costruito spazi aperti privati e pubblici. A Pistoia un insediamento filamentare penetra in un parco urbano che diventa una nuova centralità. A Siracusa si ridefinisce il rapporto con il mare e le nuove centralià diventano gli accessi al mare, le piattaforme sull’acqua, i caselli ferroviari recuperati in un sistema a rete nel verde ‘E' evidente la valenza 'sociale' (a volte di facile retorica) che si da alla progettazione dello spazio aperto e la sua importanza nella costruzione di un paesaggio che abbia un carattere identitario. Ma interessante è come questo non si identifichi più solo con spazi consolidati nell’immaginario collettivo come ‘la piazza’ o il ‘viale’, ma diventi il bordo, il parco, il lungofiume, un tessuto-collante …, un insieme di spazi aperti che si confrontano con il costruito e il paesaggio naturale e attraverso cui indagare su nuovi significati e relazioni, nella costruzione di 'nuovi paesaggi' dove l’elemento naturale è quello principale’

Bibliografia

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Svantaggiata e marginale? Più città per la montagna

Svantaggiata e marginale? Più città per la montagna Fulvio Adobati1* Università degli Studi di Bergamo Dipartimento di Ingegneria, Centro Studi sul Territorio “Lelio Pagani” Email: fulvio.adobati@unibg.it Vittorio Ferri* Università di Milano Bicocca Dipartimento di Scienze Economico-Aziendali –DiSEA.DE Email: vittorio.ferri@unimib.it

Abstract La prospettiva della ‘metro-montagna’, intesa come spazio plurale di integrazione città-montagna, favorisce il superamento della politica di matrice centralista -basata sulle specificità dei fabbisogni e dei deficit e sulla separazione dagli altri contesti- verso una costruzione di politiche e di strategie più integrate e adeguate a trattare le terre alte intese quali territori di circolazione e spazi vissuti. Dalla prima esplorazione delle esperienze recenti in tre regioni, Rhone Alpes, Piemonte e Lombardia, emergono elementi di interesse: la Regione Rhone Alpes presenta significative innovazioni dal punto di vista dei contenuti e delle scelte della propria azione pubblica che potrebbe fertilizzare l’azione delle regioni alpine; la Regione Piemonte presenta un’azione ben costruita all’interno di politiche tradizionali a favore della montagna, ma pare non avere adeguatamente sfruttato l’occasione di una maggiore integrazione tra città e montagna nella fase post-olimpiadi; la Regione Lombardia nel caso dei Piani Territoriali Regionali d’Area sta sviluppando una progettualità “per territori” accanto alla razionalizzazione delle Comunità montane e alle politiche tradizionali a favore della montagna. Pare in questo senso emergere l’opportunità, anche a partire dagli input in questo senso (finora deboli) della programmazione comunitaria 8°fp_2020 (Alpine Space, 2012), di superare la tradizionale separazione dell’azioni pubblica tra territori urbani-metropolitani e rurali-montani, sviluppando dal costrutto metromontagna efficaci politiche multilivello per uno sviluppo di qualità nei territori montani. Parole chiave integrazione politiche città-montagna, sviluppo territori montani, ri-abitare le terre alte.

* Il paper è oggetto di ricerche e riflessioni condotte insieme dai due autori; nello specifico Fulvio Adobati ha curato la stesura dei cap. 1 e 5, Vittorio Ferri ha curato la stesura dei cap. 2, 3 e 4.

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Figura 1. H. C. Berann, Rappresentazione dell’arco alpino visto da nord

1 | Città e terre alte. La necessità di superare divisioni superate Nella riflessione sulle dinamiche di riconfigurazione dei contesti metropolitani le “terre alte”, apparentemente “lontane e secondarie” nel dibattito economico-territoriale, spesso assunte come periferia debole delle regioni urbane, rappresentano oggi un’occasione di riflessione e di progetto di grande rilevanza. Proprio la dimensione urbana nella vita di montagna, componente che più di altre ne ha marcato la differenza in termini di qualità della vita rispetto alle aree della pianura, vive oggi un potenziale ripensamento. I fenomeni di colonizzazione della città, fisico-spaziale ma anche culturale, hanno determinato in molte parti una omologazione delle vallate montane più prossime alle realtà metropolitane; omologazione che ha posto in crisi proprio i tratti paesaggistici distintivi delle realtà montane (Dematteis, 2010), determinando problemi sociali e un sentimento diffuso di disagio nella popolazione montana attribuibile a un mancato riconoscimento di una specificità territoriale, fatta di storia e di valori, di lavoro e di cultura dei luoghi. “(…)A lungo considerate come area omogenea connotata da arretratezza e ritardo di sviluppo, dal suo essere “civiltà dei vinti” della storia a partire dal lungo processo di industrializzazione per grandi poli produttivi localizzati nelle pianure contigue, le Alpi italiane (ma non solo), e in particolare quelle poste a nord del motore industriale pedemontano, sono state spesso complessivamente derubricate a “periferia” di processi di modernizzazione generatisi altrove. Prima con l’imporsi del modello industriale fordista che ne ha minato l’organizzazione sociale contadina, poi di quello post-fordista basato sulla primazia dei territori che meglio hanno saputo intercettare localmente i benefici della globalizzazione economica (…)” (Ersaf, 2011, p. 19). Le dinamiche delle regioni urbane europee economicamente più forti presentano, pur con variazioni, tendenze di crescita insediativa; tendenze peraltro registrabili nelle regioni urbane-metropolitane di altri contesti mondiali, anche con economie “mature”, quali le Megaregions nordamericane (Regional Plan Association, 2008). In contesti a elevata densità, quali la regione urbana milanese, tale dinamica coinvolgerà in modo sempre più significativo le porzioni alpine delle agglomerazioni extra-alpine pie-montane, ponendo da un lato la prospettiva di una dipendenza sempre più marcata delle realtà alpine da quelle extra-alpine (Bartaletti, 2005, p. 254), e sollecitando dall’altro una riflessione su una necessaria riorganizzazione della città che investe la montagna.

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Figura 2. Variazione demografica nel periodo 2002-2009_livello comunale (fonte: Eurac Institite, Bolzano)

Il tema progettuale che si apre muove intorno a una parola-chiave: integrazione. Su almeno due dimensioni: integrazione urbana e infrastrutturale (materiale e immateriale a partire dalle reti di comunicazioni informatiche): superamento/attenuazione dei diversi divide tra dotazione di servizi tra città e montagna; efficace in questo senso un passaggio di Dematteis (2012, p. 90): “Altre azioni riguardano l'infrastrutturazione dei territori montani, per accrescere l'accessibilità al loro interno alle città dell’avampaese, fornitrici di servizi. In particolare gli ostacoli morfologici e climatici all’accessibilità e alla mobilità interna richiedono un uso particolarmente diffuso, intenso e affidabile delle tecniche teleinformatiche nel campo dei teleservizi, del telelavoro e dell’e-government. Perciò la banda larga si presenta come uno dei fattori più importanti per il re-insediamento di famiglie e imprese” (Dematteis, 2012). integrazione culturale e sociale: la sfida più complessa, la capacità di comporre comunità e costituite dagli “autoctoni”, rappresentanti di una cultura profonda e in declino che li fa sentire non più protagonisti e li porta spesso a auto-segregarsi nel “ciò che eravamo e non siamo più” (Ersaf, 2011, p. 23), e quella dei nuovi abitanti di origine metropolitana portatori di una più marcata cultura individualistica, ma alla ricerca di rapporti sociali “più autentici e solidali”. La prospettiva ‘più città per la montagna’ sollecita un progetto sperimentale di un nuovo modo di vita urbano, che intreccia innovazione tecnologica, risparmio energetico, valorizzazione dei quadri ambientali e paesaggistici. Un modo di vita che negli ultimi anni prende consistenza dentro la riflessione critica intorno alla qualità della vita e agli indicatori di benessere condivisi (oltre il PIL), dalla progressiva distanza dal modello “economia della ricchezza” verso una “economia della felicità” (o più propriamente del benessere). In questo spazio si collocano i nuovi abitanti della montagna, in qualche caso nuovi “di ritorno”, portatori di progettualità atte a valorizzare i caratteri paesaggistico-ambientali e i prodotti locali, portatori di una ruralità rinnovata e declinata a corrispondere alle aspettative e alla domanda emergente del mercato metropolitano (Corrado, 2010b). Certo questo cammino non è agevole, come ci ricorda Dematteis (2012, p. 87) “…comporta un conflitto permanente tra riproduzione identitaria e omologazione, tra il radicamento ai luoghi e la mobilità dei flussi, tra la chiusura nel proprio specifico e l’apertura verso l’altro, tra valori non negoziabili e negoziabili.”

2 | Dalle aree montane alla ‘metro-montagna’, passando per le ‘aree interne’ 2.1 | La (necessaria) ridefinizione della montanità Rispetto agli obiettivi di questo lavoro, va osservato che l’approccio seguito nei decenni scorsi è stato quello di definire e individuare i comuni montani, costruire un livello di governo indiretto dedicato a trattare i problemi specifici dei territori in parola, in maniera disgiunta dagli altri. Un primo cedimento di questo approccio si è verificato allorquando le comunità montane sono state prima messe in discussione, poi, in alcuni casi abolite o sostituite dalle Unioni di comuni. Inoltre di recente le Comunità montane residue sono rientrate nel processo di

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riorganizzazione delle funzioni principali dei comuni montani (< 3000 abitanti) e dei piccoli comuni (< 5000 abitanti) in corso di costruzione mediante la Gestione Associata Obbligatoria (GAO). Un secondo cedimento all’approccio di separazione tra territori montani e non montani si è verificato con l’introduzione dei territori parzialmente montani (nonché con alcune fattispecie sopra riportate) e con le scelte di alcune regioni di internalizzare i capoluoghi nelle Comunità montane. Un terzo cedimento, riguarda la crescente attenzione verso i processi di uso reale del territorio rispetto ai confini amministrativi, ed alle interdipendenze tra diversi contesti territoriali, contermini e non, con specifico riferimento ai fenomeni turistici, alle presenza di seconde case, alle pratiche del pendolarismo per motivi di lavoro, più in generale alle variazioni nel tempo della popolazione presente nei singoli territori. Un quarto cedimento va ricondotto al fatto che le Regioni Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Toscana e Sardegna prevedono la presenza di capoluoghi di provincia nelle rispettive comunità montane. La recente definizione delle aree interne non sembra fornire un contributo determinante verso la metro montagna. Secondo Dematteis (2012) le aree interne 2 sono differenziate dal resto del territorio in senso negativo dalla perifericità (accesso ai servizi ed altre opportunità) ed in senso positivo dalla minori pressioni antropiche e dalla maggiore disponibilità di beni ambientali e da potenzialità di sviluppo e risorse finora nascoste. Senza entrare nel merito della misurazione delle aree periferiche e ultra periferiche3 va osservato che le prospettive delle aree interne dipendono dalla prossimità fisica e dall’accessibilità infrastrutturale con le aree urbane e metropolitane4, dall’attrazione di nuovi abitanti e dall’attivazione di processi di riutilizzo del patrimonio costruito e di urbanizzazione.

Figura 3. quattro aspetti delle Alpi: la densità del fenomeno turistico, gli stati e le amministrazioni, la densità del patrimonio forestale, le differenze altitudinali (fonte: Eurac Institute, Bolzano)

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La definizione di area interna (Lamorgese 2012) si fonda sul limitato accesso ai centri urbani che forniscono servizi (individuati nell’offerta completa di scuola secondaria, servizi ospedalieri e di trasporto ferroviario) e pertanto centro urbano è quel comune che offre questi servizi, mentre è area interna quel territorio la cui distanza in termini di tempi di percorrenza in auto dal centro urbano è superiore ai venti minuti. Questa modalità trascura la tipologia di infrastruttura stradale. Indicazioni significative per le aree interne possono derivare dalla considerazione dei flussi di pendolarismo per motivi di lavoro: un comune raggiungibile in giornata per motivi di lavoro non è remoto. 3 Come riportato da Cruciani (2012) il 25,6% dei comuni e oltre il 13% della superficie di tali aree ricade in un area protetta, (elenco delle aree protette del 27 aprile 2010), il 41,6% sono aree forestali, il 15,3% non è produttivo, oltre il 40% è ricoperto da foreste. 4 Da questo punto di vista risulta poco significativo l’indice di rugosità del territorio proposto in forma sperimentale dall’Istat e costruito sulla base della distribuzione della popolazione per categorie territoriali (polo, polo intercomunale, cintura, intermedio, periferico, ultraperiferico, centri, aree interne) mentre di grande interesse risultano i contributi che considerano gli effetti della prossimità fisica fra aree urbane e aree montane, interne, rurali. Dunque, questi indicatori possono risultare utili a spiegare gli effetti positivi e negativi che interagiscono in maniera diversa in funzione della distanza (Stanghellini, 2012).

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Rispetto agli interessi di questo lavoro va ricordato che le classificazioni dei territori montani francesi comprendono (Datar 2012): La montagna urbanizzata (riguarda il 63% della popolazione dei massicci (territori montani a dimensione sovra regionale) insediata su 13% della loro superficie) distinta in due categorie: le città centrali e le piccole agglomerazioni dotate di elevata accessibilità; le periferie recenti e dinamiche delle grandi agglomerazioni, con forte sviluppo delle attività residenziali, turistiche e industriali e buon accesso ai servizi commerciali5; In particolare va rilevato che la montagna urbanizzata, residenziale e turistica costituisce un fenomeno molto significativo in termini di popolazione per tutte le montagne francesi (fino ai ¾ della popolazione delle Alpi, su un territorio compreso tra il 10-20% della superficie). Inoltre, va osservato che innovazioni significative per le politiche a favore dei territori montani non sono giunte dall’azione comunitaria6. A ben vedere la prospettiva auspicata in questo lavoro potrebbe essere costruita all’interno delle politiche comunitarie di coesione territoriale da declinare a dimensione regionale dal punto di vista dell’integrazione tra territori urbani e montani.

2.2 | Le prospettive di strutturazione della metro-montagna I processi di strutturazione dei territori metro montani sono riconducibili alla presenza, alla provenienza e alla frequenza della popolazione non residente nei territori montani e viceversa (ma di difficile misurazione) dall’attrazione di alcune tipologie di popolazione montana da parte della città: ad esempio lavoratori, studenti universitari, visitatori per shopping, affari, loisir e cosi via. In pratica si fa riferimento ad un territorio di circolazione che prescinde dai confini fisico-geografici e amministrativi. In questa prospettiva il costrutto metromontagna, se esiste, è uno spazio vissuto, percepito e sentito (Fremont, 1988) definito dall’uso che ne fanno le diverse categorie di popolazioni che gravitano sui territori montani e metropolitani 7. Dunque la metro-montagna è una regione (non amministrativa) che presenta numerose tipologie di squilibri (in termini di popolazioni, redditi procapite, opportunità nel mercato del lavoro, dotazione di infrastrutture e servizi, qualità ambientale e così via) non ancora percepita come spazio geografico meritevole di considerazione nelle scelte pubbliche. Essa presenta importanti implicazioni dal punto di vista della coesione territoriale, intesa come capacità di conciliare le diverse caratteristiche dei territori e di ridurre le ineguaglianze per i cittadini, a partire dall’accessibilità ai servizi di interesse generale. Naturalmente lo scambio tra città e montagna è ineguale se consideriamo i soli indicatori economici (si considerino ad esempio i valori del mercato immobiliare, dei comuni urbani, montani, turistici e non). Tuttavia, sembra emergere una maggiore attenzione, verso le questioni ambientali, le scelte di vita che privilegiano la felicità, non rilevati dai dati statistici. Inoltre, nei prossimi anni, i territori montani, rispetto a quelli metropolitani dovrebbe avvantaggiarsi del livello dei prezzi del mercato immobiliare che potrebbe alimentare le scelte residenziali e di investimento. 5

Le restanti due categorie sono le seguenti: La media montagna agricola o industriale (riguarda ¼ della popolazione dei massicci ed il 58% della loro superficie) distinta in 3 categorie: - i territori rurali e periurbani industriali e agricoli a debole disoccupazione; - i territori agricoli fragili per densità e invecchiamento della popolazione, forte disoccupazione e emigrazione, problemi socio economici e insufficienti attività residenziali e turistiche; - i territori agricoli del Massiccio centrale, dotati di bassa densità della popolazione, e decrescita o stagnazione dell’economia locale, e situazione socioeconomica contrastata. L’alta e media montagna residenziale turistica (riguarda l’11% degli abitanti ed il 285 della popolazione dei massicci) distinta di due categorie: - gli spazi in quota attrattivi e recenti, con basso livello di disoccupazione collegato al’espansione delle grandi stazioni invernali ed alle attività turistiche e residenziali; - gli spazi in quota poco accessibili e tradizionali, a forte livello di disoccupazione, lontani dalle grandi agglomerazioni (ad esempio nei Pirenei), dove la crescita dell’economia residenziale e turistica non compensa la crisi dei settori agricoltura, industria, servizi e commercio. 6 A questo proposito va ricordato ad esempio, che, secondo la Commissione Europea, la strategia Europa 2020 (Ires Piemonte 2011 p. 45) risulta incentrata su tre priorità: crescita intelligente (conoscenza e innovazione), sostenibile (efficienza nell’uso delle risorse) inclusività (coesione economica, sociale e territoriale). Manca una visione strategica che superi la tradizionale separazione dell’azioni pubblica tra territori urbani e metropolitani e rurali-montani. 7 Oltre alla popolazione residente si può distinguere (Ferri e Lotto 2011): - la Pnr non alloggiata, con una presenza giornaliera di durata giornaliera o infra giornaliera: ad esempio gli escursionisti nei comuni turistici, i visitatori per affari o shopping e così via; - la Pnr alloggiata con presenza di durata più lunga, che occupa un alloggio nel territorio comunale, ma non è elettrice. Possiamo distinguere la Pnr a seconda della tipologia di alloggio: a) alloggio di proprietà (seconde case); b) in affitto; c) alloggio in un esercizio ricettivo.

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Ma quali indicatori possiamo assumere per definire l’attrattività di un territorio montano rispetto a un potenziale bacino d’utenza costituito dall’area metropolitana più prossima? Posto che un’area metropolitana è caratterizzata dalla presenza di particolari funzioni e servizi, nonché dalla presenza di popolazioni non residenti, la metro montagna può risultare definita dall’offerta da parte dei due territori di beni e servizi alternativi ma a ben vedere complementari: turismo, benessere, sport, cultura, paesaggio, natura che possono mobilitare flussi di popolazione: alloggiata, in seconde case, in strutture ricettive alberghiere ed extra alberghiere, giornaliera di contatto con frequenze variabili: fine settimana, vacanze estive o invernali, permanenza infrasettimanale da parte di proprietari di seconde case con particolari attività lavorative, non rilevabili dalle statistiche ufficiali in materia di popolazione residente e parzialmente da quelle sul turismo. Naturalmente, la dotazione e l’accessibilità infrastrutturale, stradale e ferroviaria può risultare un elemento strutturante della metro montagna, e viceversa, può determinare l’esclusione delle aree interne dai processi di strutturazione della metro-montagna.

3 | L’azione della Regione Rhone Alpes a favore dei territori montani (e la Métropole Nice Cote d’Azur): prime tracce di metro-montagna 3.1 | Un esito inatteso: la Métropole Nice Cote d’Azur come caso di metro-montagna La legge del 16 dicembre 2010 n. 1563 ha creato le Métropole l’ istituzione della cooperazione intercomunale più avanzata dell’ordinamento francese, riservato a raggruppamenti di comuni con popolazione superiore a 500.000 abitanti. A seguito della fusione della Comunità urbana Nizza Costa Azzurra e di tre Comunità di comuni del dipartimento Alpi marittime, il 31 dicembre 2011 è stata costituita la prima Métropole Nice Cote d’Azur, che raggruppa 45 comuni, 550.000 abitanti, una densità di 389 abitanti /kmq, con un territorio di 1.400 kmq, di cui l’80% non urbano, con competenze in materia di sviluppo economico, raccolta e gestione rifiuti, edilizia popolare, gestione delle reti idriche e depurazione delle acque, viabilità, parcheggi, gestione dei porti turistici, urbanistica e governo del territorio. Rispetto alle comunità urbane le nuove competenze sono la viabilità in precedenza in capo ai dipartimenti, i trasporti scolastici, la gestione delle aree di sviluppo economico, la promozione all’estero del territorio e delle sue attività economiche. L’assenza di distinzione tra il territorio costiero, urbano e montano costituisce un esperimento di grande interesse nella prospettiva dell’integrazione territoriale.

3.2 | L’azione della regione Rhone Alpes per i territori montani: primi riferimenti verso la metro-montagna Il massiccio centrale, le Alpi, e il massiccio del Jura costituisco il 73% della regione Rhone Alpes e presentano caratteri molto diversificati, che giustificano il riferimento a montagne, anziché a montagna. La strategia regionale a favore della montagna prevede tre assi declinati in 13 orientamenti primo asse: aprire la montagna verso l’esterno e rafforzare le solidarietà. Orientamenti (n. 2, n3, n.4): investire nella formazione, facilitare l’accoglienza di nuovi abitanti e lottare contro l’esclusione, incoraggiare le cooperazioni tra le città e gli spazi urbani e le montagne, essere attori o partner delle cooperazioni tra massicci e paesi europei; secondo asse: fare delle montagne territori d’eccellenza per le attività economiche durevoli. Orientamenti: confortare e diversificare le attività economiche in montagna; fare del Rhone Alpes una regione montana di riferimento del turismo durevole; promuovere un agricoltura di qualità, multifunzionale e perenne; valorizzare la foresta come fonte di materiali, di equilibrio paesaggistico, ambientale e dell’energia; sostenere prioritariamente i territori di montagna in difficoltà, costruire una politica solidale ed equa; terzo asse: preservare e valorizzare le risorse dei territori abitati. Orientamenti: costruire una politica innovativa in materia di trasporti e contribuire a regolare i flussi; preservare e valorizzare gli spazi naturali, gestire i rischi naturali; garantire le risorse idriche; promuovere la cultura e valorizzare il patrimonio costruito8.

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Gli orientamenti contengono alcuni riferimenti specifici per la prospettiva della metro-montagna. Orientamento n. 3: uno degli obiettivi principali del Parco naturale regionale del Massiccio di Bauges è di collaborare con le città di Chambery, Annecy, Aix-les Bains, Albertville, Rumilly, Ugine che raggiungono una popolazione di 400.000 abitanti. La città di Chambery collabora da sempre alla gestione delle risorse naturali e turistiche dei territori montani. Questa azione fa parte della strategia congiunta definita con il Parco naturale regionale del Massiccio di Bauges.

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4 | L’esperienza della Regione Piemonte Il territorio montano piemontese interessa circa la metà della superficie (distribuita nella periferia dei confini regionali senza prossimità ed interazioni con il sistema urbano e metropolitano) e dei comuni della regione ( 515 su 1206) e nel decennio precedente ha ricevuto i benefici degli investimenti realizzati in occasione delle Olimpiadi invernali del 20069. Nel periodo 2000-2006 le principali politiche a favore dei territori montani hanno riguardato: i programmi riconducibili al cofinanziamento comunitario ed ai fondi strutturali europei (DOCUP-FESR 2000-2006, Piano di sviluppo rurale 2000-2006; Leader Plus, Interreg Italia Francia e Italia Svizzera) le politiche nazionali finalizzate allo svolgimento dei Giochi olimpici (essenzialmente politiche infrastrutturali) le politiche settoriali (turismo, artigianato, cultura) regionali non specifiche per i territori montani le politiche regionali più specificamente indirizzate alle aree montane (servizi alla popolazione, trasferimenti alle Comunità montane la cui azione, anche in Piemonte, ha avuto come riferimento la legge quadro per la montagna, il Fondo Regionale per la montagna). Senza entrare nel merito della classificazione della spesa pubblica (politiche specifiche per la montagna, per aree prevalentemente montane, per le Olimpiadi, con finalità di presidio, tutela, sviluppo, distribuzione territoriale della spesa, approcci dall’alto o dal basso ) si possono avanzare criticità in ordine alla strategia generale di lungo periodo dell’intervento pubblico a favore dei territori montani piemontesi. Non emergono infatti innovazioni significative dal punto di vista della visione e della costruzione del futuro della montagna e del post olimpiadi, nonché dal punto di vista dell’innovazione istituzionale: piccoli comuni, comunità montane, unioni di comuni che saranno presumibilmente attivate a seguito dell’introduzione delle Gestioni Associate Obbligatorie.

5 | L’esperienza dei PTRA della Regione Lombardia Nel contesto lombardo, che analogamente a quello piemontese ben rappresenta in Italia una situazione di prossimità tra aree metropolitane (di Torino e di Milano-pedemontana lombarda) e valli alpine, la pianificazione territoriale regionale va assumendo quale obiettivo forte una prospettiva di sviluppo capace di superare le politiche di sostegno rafforzatesi negli anni assumendo anche l’obiettivo di re-indirizzare la componente di trasformazione territoriale principale degli ultimi decenni: l’economia delle “seconde case”. Di interesse in questo senso l’azione della Regione Lombardia, ancora in fase sperimentale, attraverso lo strumento del Piano Territoriale Regionale d’Area (PTRA) 10; due PTRA appartenenti al ‘sistema territoriale della montagna’ definito dal Piano Territoriale Regionale (PTR) sono in fase di elaborazione 11. Il PTRA ‘Valli Alpine’12 assume quale tema forte un obiettivo di riordino territoriale e urbanistico in un contesto, prossimo alla densa area metropolitana e (per conseguenti dinamiche ) caratterizzato da una presenza molto significativa di “seconde case”. Gli obiettivi fondamentali identificati (Regione Lombardia, 2011, p. 97) sono: promuovere un modello di sviluppo endogeno delle aree, che le renda capaci di valorizzare le proprie risorse e ai propri vantaggi relativi; fare in modo che anche nelle aree montane si persegua una crescita stabile e continuativa; garantire, a questo fine, servizi minimi, sia per fare in modo che la popolazione che non vuole andarsene (ad esempio gli anziani) rimanga, sia per attirare nuovi residenti (ad esempio i giovani), che, in presenza di determinate condizioni, possono ritornare a decidere di risiedere in montagna; identificare la complementarietà e integrazione tra aree di montagna, aree di fondovalle e aree di pianura (dove la complementarietà vale anche per la funzione di cerniera, interregionale o internazionale, che la montagna svolge). Il PTRA, unitamente a obiettivi di riequilibrio interno al contesto montano, che registra differenze significative tra località economicamente più forti (in particolare per economia turistica), si pone quale obiettivo integrazione 9

Per una analisi approfondita degli indicatori della montagna piemontese si rinvia a Crisminanni et alt. (2010). Il quadro dispositivo della legge urbanistica regionale LR 12/2005 individua, all’art. 20 comma 6, il riferimento allo “spazio di azione” dei piani territoriali regionali d’area, che hanno il compito di approfondire, “a scala di maggior dettaglio”, gli obiettivi già indicati dal Piano Territoriale Regionale (PTR). Il PTRA (…) approfondisce, a scala di maggior dettaglio, gli obiettivi socio-economici ed infrastrutturali da perseguirsi, detta i criteri necessari al reperimento e alla ripartizione delle risorse finanziarie e dispone indicazioni puntuali e coordinate riguardanti il governo del territorio, anche con riferimento alle previsioni insediative, alle forme di compensazione e ripristino ambientale, ed alla disciplina degli interventi sul territorio stesso (…). 11 Il PTRA “Media e Alta Valtellina” e il PTRA “Valli Alpine”. 12 Che ricomprende 45 comuni appartenenti a Valsassina, Val Brembana e Val Seriana. 10

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e complementarietà tra ambiti montani e pianura. Tale politica si misura con il consistente patrimonio edilizio di abitazioni turistiche; tale dotazione suscita valutazioni controverse: da un lato gli impatti ambientali e paesaggistici, la difficoltà di offrire una dotazione di servizi capace di reggere il massimo afflusso, la scarsa vitalità che (al di fuori dei picchi stagionali) determina una presenza massiccia di abitazioni turistiche; dall’altro un patrimonio di stabilizzazione turistica (che nella recente fase di crisi economica ha visto un significativo ‘riavvicinamento’ dei proprietari) e un patrimonio ri-usabile anche in chiave abitativa più ampia (CIPRA, 2008). Per quest’ultimo passaggio si fa riferimento a una pratica di multi-residenzialità che da anni emerge nei contesti metropolitani, favorita dalla progressiva riduzione dei condizionamenti spaziali in molte tipologie lavorative e dalle possibilità offerte dalle reti di comunicazione telematiche. Sotto il profilo delle politiche di governo del territorio quindi, nella prospettiva di metromontagna -per le valli alpine caratterizzate da forte presenza di abitazioni turistiche-, ha valore di centralità la capacità di qualificare e rilanciare l’utilizzo del consistente patrimonio edilizio, oltre che in chiave di utilizzo turistico (es. short-rent), quale occasione di abitare la città-regione nelle forme plurali emergenti (Alpine Space, 2012, Armondi 2011, Corrado 2010a).

Bibliografia

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Flessibilità e comfort nel progetto di riqualificazione dello spazio pubblico. La 'Terza Natura' a servizio dell'Adattamento

Flessibilità e comfort nel progetto di riqualificazione dello spazio pubblico. La 'Terza Natura' a servizio dell'Adattamento Andrea Cingoli ZO_loft architecture & design s.r.l. Email: andreacingoli@gmail.com Michele Manigrasso Università G. D'annunzio di Chieti - Pescara Dipartimento di Architettura Email: michelemanigrasso@gmail.com

Abstract La valutazione ambientale ha un peso fondamentale sulla vitalità degli spazi urbani. Quando il microclima offre condizioni di comfort, aumenta considerevolmente il numero di persone che frequentano lo spazio urbano, ma soprattutto si possono osservare dei cambiamenti nel carattere delle attività correlate alla sosta. Cresce il numero di persone che fruiscono lo spazio per mangiare, bere, per guardarsi intorno, per fare attività, mentre sono presenti performances ed esibizioni varie, difficili da trovare in condizioni di disagio. Alla luce dei cambiamenti climatici, acquista maggiore importanza il tema della regolazione del microclima, anche in relazione all'esigenza di flessibilità funzionale negli spazi condivisi. Oltre ai più tradizionali metodi di progettazione dei sistemi verdi, delle acque e delle geometrie fisiche dello spazio, la riflessione individua il proprio focus nella possibilità di realizzare una natura tecnica, una “Terza Natura”, che metabolizzi e reinterpreti il comportamento di tali elementi, secondo un'idea di spazio pubblico ipertestuale e flessibile. Parole chiave microclima, comfort, adattamento Questa riflessione coniuga l'idea di flessibilità funzionale e l'esigenza di comfort ambientale nel progetto di riqualificazione degli spazi pubblici, trovando argomentazione, da un lato, nel complesso tema dell'adattamento alla mutazione climatica in città; dall'altro, nel consolidato filone di ricerca che vede nello spazio pubblico, il luogo della condivisione, della libertà e della multifunzionalità. Lo scenario all'interno del quale ci si colloca è quello della riqualificazione dello spazio pubblico, sullo sfondo di programmi di rigenerazione dei contesti urbani in una condizione di evidente evoluzione ambientale, in particolare climatica, tema che invita a guardare in maniera nuova al territorio e alla città, e che pone domande inedite al progetto dello spazio pubblico, più in generale al progetto urbano. L'interesse per queste tematiche, nasce dalle attività di ricerca e progettuali1 degli autori, che da anni partecipano a concorsi di idee e di progettazione, anche a livello internazionale. Le modalità di utilizzo dello spazio pubblico in città sono fortemente cambiate nella città contemporanea. Da un lato il cambiamento va riconosciuto alla nuova morfologia urbana, perché è cambiata la città, il suo tessuto. Si è modificato il rapporto tra pieni e vuoti e alla 'tortuosità' del centro storico si è giustapposta la linearità della città moderna; dunque al piacere della scoperta dello spazio inatteso, la 'chiarezza' del razionale. E poi il ruolo della centralità che non è più unica ma che appartiene ad un sistema, ad un telaio, fatto di elementi funzionali lineari che connettono centralità plurime. Dall'altro, lo spazio pubblico ha subito importanti evoluzioni in virtù della 1

Gli autori partecipano a concori di idee e di progettazione in Italia e all'estero, con particolare predilezione per i temi dello spazio pubblico. Andrea Cingoli ha conseguito il Master 'Masp 09', mentre Michele Manigrasso è Dottore di Ricerca presso il Dipartimento di Architettura di Pescara, ed è impegnato nello studio dell'adattamento ai cambiamenti climatici in ambito urbano.

Andrea Cingoli, Michele Manigrasso

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nuova cultura del vivere e dell'abitare; diverse sono le velocità, i ritmi, le attività ludiche, aspetti che ricollocano il significato del 'vecchio', dello 'storico', in maniera nuova, a volte come cornice, a volte come elemento giustapposto o riscritto, in alcuni casi come involucro, in altri ancora come 'scarto o residuo,' sedimentato e muto, rispetto alle forme del nuovo. Successivamente sono entrate in scena, in maniera più profonda ed urgente rispetto al passato, alcune questioni di natura ambientale, oggi annoverate come temi della "sostenibilità", ma che si vogliono considerare integrati nel concetto stesso di progetto urbano e di architettura, o meglio di qualità progettuale. Ed è in uno scenario di evoluzione ambientale e dei contesti che bisogna ragionare: l'aumento delle temperature, la maggiore frequenza di ondate di calore, con il conseguente inasprirsi dell'effetto isola di calore, un nuovo regime delle piogge, fenomeni che mettono sotto accusa le modalità attraverso cui la città viene costruita, materiali e tecnologie inerti; ma non solo. L'aspetto interessante che si vuole cogliere, è la possibilità di tradurre in positivo, anche attraverso un'interpretazione creativa dei contesti, la necessità di rispondere a queste nuove esigenze attraverso modalità operative che caratterizzano con obiettivi di flessibilità, di adattabilità e di mixité funzionale, il progetto dello spazio pubblico. Questa evoluzione delle prestazioni sembra indirizzare il progetto verso un atteggiamento di "attivazione" dello spazio, attraverso dispositivi funzionali allo svolgimento di attività, attraverso un'operazione di maggiore inclusione del contesto fisico e sociale e mediante l'uso di materiali e tecnologie che "respirino" con l'ambiente e che "reagiscano" rispetto alle sollecitazioni climatiche, contribuendo al benessere psico-fisico dei fruitori, regolando le condizioni microclimatiche. Più profondamente, assecondando la mutazione come esperienza attivo-positiva di trasformazione del paesaggio come patrimonio ipertestuale. Il tema della laminazione delle acque di pioggia, o del recupero dell'acqua in contesti siccitosi, il tema del soleggiamento, quello energetico, non sono questioni che il progetto subisce e al quale porre rimedio, attraverso qualche operazione corollaria di 'aggiustamento'. Al contrario, tali temi si fanno occasione, indirizzando verso una 'nuova intelligenza dello spazio pubblico'. La ricerca procede in questa direzione, con l'obiettivo di indagare e comprendere modalità innovative di attivazione dello spazio pubblico e delle sue architetture, al servizio di una società sempre più dinamica, e di condizioni ambientali complesse e mutevoli. L'idea che sostanzia questa ricerca è che «l'architettura non debba essere percepita come contenitore ma come insieme di contenuti, non come confinamento fisico dello spazio, ma come luogo delle idee e delle frequentazione libera, dove i programmi funzionali nascono per essere condivisi ed incrementati dalla fantasia degli utenti e gli oggetti, come tutte le preesistenze in gioco, vengono risignificati dall'uso e dal tempo per trasformarsi in vere e proprie performance'» (Cingoli, 2010). Da qui una nuova interpretazione del concetto di 'terza natura', caro ai paesaggisti francesi, che la definiscono come una nature intermediaire2, tra artificio e natura, dunque tra città e natura. E' per loro uno strumento progettuale per ricucire in maniera sfumata il rapporto, spesso difficile o interrotto tra la città densa e parti più naturali. Per questo non si può ascrivere né alla sfera dell'artificio, né alla sfera della natura, quella più autentica. La ricerca progettuale degli autori declina il concetto di terza natura secondo due fronti: da una parte ci si affida a sistemi che introiettano il comportamento della natura ma sono dispositivi tecnici, artificiali, tecnologici, con comportamento attivo rispetto alle sollecitazioni ambientali, adattando lo spazio alle evoluzioni microclimatiche. Dall'altro è la "terza natura dei luoghi", da leggere in filigrana, cioè la natura del divenire, di ciò che può essere ma che ancora non è, del flessibile, del multisignificante, dell'effimero. E' la natura dell''attesa attiva' che si fa architettura altra attraverso lo scorrere del tempo. Prima di passare in rassegna una serie di progetti che gli autori hanno realizzato negli ultimi anni e che hanno ricevuto diversi riconoscimenti in ambito internazionale, si è scelto un progetto emblematico per il tema che si sta affrontando. Si tratta della riqualificazione del lungofiume di Bordeaux, un progetto del paesaggista Michel Corajoud, intervento che interessando il margine tra città e fiume, affronta il tema dell’adattamento da un’angolazione precisa con l'obiettivo di configurare uno spazio in cui la qualità del microclima sia assicurata nel tempo. Nel quadro delle importanti operazioni urbanistiche avviate a partire dal 1996 dalla Mairie di Bordeaux, uno dei temi strategici per la definizione della nuova struttura della città è costituito dalla riconfigurazione del sistema dei quais lungo la Garonna, sulla base del progetto affidato a Corajoud, in seguito al concorso bandito nel 1999 dall’amministrazione. Il programma del concorso richiedeva ai partecipanti la trasformazione del lungofiume in uno spazio vivo e funzionale che tenesse conto degli usi impliciti e spontanei del luogo, già in atto, e si inserisse nel sistema della nuova mobilità (in particolare la tramvia), riconnettendo il centro storico con le rive del fiume e ricalibrando lo sviluppo urbano sulla spina centrale dell’alveo, dal quale, nel tempo, la città era stata separata. Il concorso propone dunque ai partecipanti l’obiettivo prioritario di riconnettere i due sistemi, urbano e fluviale, ricostruendo i legami spaziali, simbolici e funzionali scomparsi, e definendo un nuovo lungofiume urbano per attività legate al tempo libero, volutamente privo di riferimenti al passato portuale. Per conseguire questo risultato, Corajoud e associati sviluppano il tema della 'terza natura', proponendo un’interfaccia che si confronti con la struttura minerale della città storica e con quella naturale dell’ambito fluviale della Garonna, raccordandole, e disegnando una fascia di 'quais jardinés' (letteralmente 'lungofiume trattati a giardino') che utilizzino come strumenti di mediazione 'acqua, ombre e luci'. 2

Il Concetto di Nature Intermediaire è stato introdotto dal paesaggista Michel Desvigne che l'ha definita come 'architettura che non resta immutata nel paesaggio'.

Andrea Cingoli, Michele Manigrasso

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Uno dei luoghi simbolo della sequenza dei quais bordolesi è costituita dalla monumentale Place de la Bourse, la place royale realizzata da Jacques e Jacques Ange Gabriel tra il 1728 ed il 1755, e completamente riconfigurata dall’équipe di Michel Corajoud tra l’ottobre 2005 ed il settembre 2006, in seguito ad un nuovo concorso internazionale. La nuova place inondable (Figura 1), collocata tra l’ambito esistente della piazza settecentesca ed il fiume, intende rievocare l’immagine originaria del paesaggio fluviale della Garonna che, prima delle installazioni portuali novecentesche e dei lavori di canalizzazione, scorreva molto più vicino alle facciate monumentali, riflettendone l’immagine e costituendo un forte elemento di aggregazione e di caratterizzazione estetica. Così la sistemazione effettivamente realizzata da Corajoud ha prodotto uno spazio urbano multiforme, declinabile secondo tre diverse interpretazioni che si succedono periodicamente, segnando il passare del tempo e contribuendo all’abbassamento della temperatura nelle calde estati: il miroir d’eau (specchio d’acqua), brouillard (nebbia) et place sèche (piazza asciutta). Il miroir che evoca l’antico letto della Garonna è costituito da un alloggiamento per uno specchio d’acqua dall’altezza di tre centimetri, che periodicamente risalgono da una sorta di falda artificiale sottostante alla piazza (una cisterna di ottocento metri cubi di capacità), ricordando le ricorrenti piene del fiume e, senza costituire alcun pericolo, sono sufficienti per divertire i fruitori, adulti e bambini, per rinfrescare l’aria nelle giornate estive e per riflettere le facciate dei palazzi retrostanti.

Figura 1. La nuova place inondable. La neubulizzazione mitiga le temperature nelle giornate estive e realizza uno straordinario 'effetto di dissolvenza' del fronte urbano compatto.

Del tempo, come strumento progettuale, si è servita l’equipe dei paesaggisti, nel definire questo spazio ibrido, una terza natura, fatta d’acqua, d’ombra e di luce, che segna il limite tra due ambiti diversi, relazionandoli. Attraverso dispositivi che affermano e valorizzano la mutevolezza dello spazio nel tempo, il progetto ricostruisce in maniera inedita, il rapporto tra fiume e patrimonio esistente.

Inscape. Recupero e valorizzazione storico-urbanistico-ambientale della Piazza del Duomo a Cerignola (FG) L’impressione che il luogo suscitava era quella di una centralità avvalorata dalla presenza importante del Duomo, dal chiaro senso storico dell’intervento ottocentesco e dalla vastità e forte dilatazione spaziale. In opposizione a ciò, la piazza non sembrava rappresentare, funzionalmente, luogo polarizzante, catalizzatore sociale per la città. Per l’uso prevalentemente residenziale dei suoi fronti, il parterre povero, la piazza risultava fortemente sottoutilizzata, presenza muta, anche se potenzialmente rappresentativa di una città intera. La proposta progettuale3 è occasione per restituire un luogo attualmente decontestualizzato alla sua città e ai suoi abitanti, conferendogli un’immagine architettonica capace di strutturare, in maniera sistemica, rispetto agli 3

La Proposta progettuale 'Inscape', terza classificata al concorso, è stata realizzata da Andrea Cingoli e Michele Manigrasso, con Filomena Acquaviva, Francesca Fontana, Roberto Potenza, Sergio Rollo.

Andrea Cingoli, Michele Manigrasso

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Flessibilità e comfort nel progetto di riqualificazione dello spazio pubblico. La 'Terza Natura' a servizio dell'Adattamento

*+/-#.#/2+1"%)4/>%,,51%/#)5.*?%'#''+/%*5)*505*#)2%)$'.4''4.5.#@)%/),5/%#.5)$%$'#,%*5@).%$0#''+)51"%)#"#,#/'%)2%) elementi di permanenza, un nuovo 'landscape urbano'. Cerignola è sempre stata tradizionalmente una città basata 0#.,5/#/65@ ) 4/ ) /4+<+ ) 9"5/2$*50# ) 4.&5/+97modificatasi ) A#.%1/+"5 ) B )però, $#,0.#in) $'5'5 ) '.52%6%+/5",#/'# ) 4/5 ) *%''( ) &5$5'5 ) $4) che su un'economia prevalentemente agricola conseguenza dell’espansione urbana, 4/9#*+/+,%5 ) 0.#<5"#/'#,#/'# ) 51.%*+"5 ) ,+2%-%*5'5$% 0#.C@ ) %/ ) *+/$#14#/65 ) 2#"">#$05/$%+/# ) 4.&5/5@ )anche *?#) il procedendo in maniera concentrica, ha saturato i suoli ) tra nucleo storico ed extramurale, inglobando 0.+*#2#/2+)%/),5/%#.5)*+/*#/'.%*5@)?5)$5'4.5'+)%)$4+"%)'.5)/4*"#+)$'+.%*+)#2)#D'.5,4.5"#@)%/1"+&5/2+)5/*?#)%") tracciato del Tratturo Regio e lasciando poche aree libere come verde pubblico. Il progetto ha reinterpretato la '.5**%5'+)2#"):.5''4.+)E#1%+)#)"5$*%5/2+)0+*?#)5.##)"%&#.#)*+,#)<#.2#)04&&"%*+7)F")0.+1#''+)?5).#%/'#.0.#'5'+)"5) piazza come luogo dell’incontro e sintesi dei due volti facendosi paesaggio doppio. Un paesaggio da osservare e 0%5665)*+,#)"4+1+)2#"">%/*+/'.+)#)$%/'#$%)2#%)24#)<+"'%)-5*#/2+$%)05#$511%+)2+00%+7)G/)05#$511%+)25)+$$#.<5.#)#) da vivere ma, al tempo, un paesaggio da comprendere e nel quale riconoscersi perché evocativo di un passato 25)<%<#.#),5@)5")'#,0+@)4/)05#$511%+)25)*+,0.#/2#.#)#)/#")345"#).%*+/+$*#.$%)0#.*?H)#<+*5'%<+)2%)4/)05$$5'+) ' che ritorna a plasmare gli spazi urbani in maniera contemporanea. Questo è l’'inscape ! , il paesaggio interiore, del *?#).%'+./5)5)0"5$,5.#)1"%)$056%)4.&5/%)%/),5/%#.5)*+/'#,0+.5/#57)I4#$'+)B)">9%/$*50# @)%")05#$511%+)%/'#.%+.#@)2#") singolo e della collettività, specchio che riflette le radici dell’individuo. Vi è perciò un interscambio continuo: $%/1+"+)#)2#""5)*+""#''%<%'(@)$0#**?%+)*?#).%-"#''#)"#).52%*%)2#"">%/2%<%24+7)J%)B)0#.*%C)4/)%/'#.$*5,&%+)*+/'%/4+K) l’utente modifica questo paesaggio con le sue azioni e le tante attività che su questo piatto saranno possibili, ed il ">4'#/'#),+2%-%*5)34#$'+)05#$511%+)*+/)"#)$4#)56%+/%)#)"#)'5/'#)5''%<%'()*?#)$4)34#$'+)0%5''+)$5.5//+)0+$$%&%"%@)#2)%") paesaggio modifica l’uomo, arricchendolo di un 'palinsesto culturale' che lo influenza nel modo di osservare e 05#$511%+),+2%-%*5)">4+,+@)5..%**?#/2+"+)2%)4/)905"%/$#$'+)*4"'4.5"#9)*?#)"+)%/-"4#/65)/#"),+2+)2%)+$$#.<5.#)#) percepire questo spazio. All’idea di colonizzazione permanente si è sostituita quella di un modello attento al 0#.*#0%.#)34#$'+)$056%+7)="">%2#5)2%)*+"+/%6656%+/#)0#.,5/#/'#)$%)B)$+$'%'4%'5)34#""5)2%)4/),+2#""+)5''#/'+)5") 0.+*#$$+)#)5")$4+).#"5'%<+)'#"5%+)2>4$+)0%L)-"#$$%&%"#)#)2%/5,%*+K)B)%")05.'#..#)5)*+/-#.%.#)5""5)0%5665)<5.%5&%"%'()#) processo e al suo relativo telaio d’uso più flessibile e dinamico: è il parterre a conferire alla piazza variabilità e -"#$$%&%"%'()5)"%<#""+)-4/6%+/5"#)#)$#/$+.%5"#7) flessibilità a livello funzionale e sensoriale. )F")<#.2#@)*+$'%'4%'+)0.#<5"#/'#,#/'#)25)$0#*%#)<#1#'5"%)1.5$$#@)B)">#"#,#/'+)*?#@)0%L)2%)+1/%)5"'.+@)$'.4''4.5)">%,,51%/#)2#") Il verde, costituito prevalentemente da specie vegetali grasse, è l’elemento che, più di ogni altro, struttura l’immagine del "4+1+K)$%)5**+$'5)*+/)5.,+/%+$+).%$0#''+)5")M4+,+@) luogo: si accosta con armonioso rispetto al Duomo, )0.+%#''5/2+)%")-.4%'+.#)<#.$+)4/5)0.#$5)2%)*+$*%#/65)2#")0.+0.%+) proiettando il fruitore verso una presa di coscienza del proprio N05#$511%+)0%L)%/'%,+O@)34#""+)"#15'+)5""5)'.52%6%+/#)2#""5)*5,051/5)#)*?#)0#.)%")0.+1#''+).500.#$#/'5)"5)9'#.65)/5'4.59)2#") “paesaggio più intimo”, quello legato alla tradizione della campagna e che per il progetto rappresenta la 'terza natura' del "4+1+7)P!%14.5)QR luogo. (Figura 2)

"#$%&'()*(+#,-.(/.00'(1#'22'*(3!#/.4-#-5('$&#670'(/.00'(6#--5(/#(8.&#$470'9(,#(:'(!#4,6'1.!(&#/#,.$4'4/7(;#'22'(<%7=7* Figura 2. Viste della piazza. L'identità agricola della città di Cerignola, si fa 'inscape' ridisegnando Piazza Duomo.

!"##$%&''()*&)+,&--&).#')/0'0)1$,2#"3,4&",0).#''&)50'6&"&()7&33,$0 Greenhall. La piazza del Polo Universitario della Folcara. Cassino F")&5/2+)2#")*+/*+.$+ )%/'#.#$$5<5)"5).#5"%6656%+/#)2%)4/5)0%5665)'.5)24#)#2%-%*%)%/)-5$#)2%).#5"%6656%+/#)0#.)4/) la realizzazione di una piazza tra due edifici in fase di realizzazione per un Il bando del concorso4 interessava /4+<+)0+"+)4/%<#.$%'5.%+@)5)A5$$%/+@)5""9%/'#./+)2%)4/)1.5/2#)05.*+7)G/)"4+1+)0#.)">%/*+/'.+@)4/)"4+1+)0#.)%") nuovo polo universitario, a Cassino, all'interno di un grande parco. Un luogo per l’incontro, un luogo per il 05$$511%+@)%").%0+$+)#)"5)*+/<%<%5"%'(@)0#.)$+22%$-5.#)"#)#$%1#/6#)2%)4/)5'#/#+)#)2%)*+"+.+)*?#)"+)-.#34#/'5/+@)4/) passaggio, il riposo e la convivialità, per soddisfare le esigenze di un ateneo e di coloro che lo frequentano, un "4+1+)2%)$%/'#$%)'.5)5.'%-%*%+)#)/5'4.5@)*505*#)2%)5**+1"%#.#)#).500.#$#/'5.#7)I4#$'%)1"%)+&%#''%<%)2%)9T.##/?5""9@)4/) luogo0.+1#''+)*?#@)"5<+.5/2+)$4"">5.*?#'%0+)2%)"+11%5@)$%)0.+0+/#)2%)2%<#/'5.#)/+/)$+"+)0%5665@),5)5/*?#)-+U#.)2%) di sintesi tra artificio e natura, capace di accogliere e rappresentare. Questi gli obiettivi di 'Greenhall', un progetto che, lavorando sull’archetipo di loggia, si propone di diventare non solo piazza, ma anche foyer di %/1.#$$+)5")*5,04$@)#$0"%*%'5/2+)*+/)4/)05.'#..#)-"#$$%&%"#)#)4/5)$0%**5'5)$%/'+/%5)*+/)">5,&%#/'#)*%.*+$'5/'#@)%") ingresso al campus, esplicitando con un parterre flessibile e una spiccata sintonia con l’ambiente circostante, il 2%/5,%$,+)2%)4/)5'#/#+)1%+<5/#)#)5''%<+@)5''#/'+)5""5)$+$'#/%&%"%'()#)5")*+,-+.'7)V%)0.+0+/#)0.%,5)2%)'4''+)2%) dinamismo di un ateneo giovane e attivo, attento alla sostenibilità e al comfort. Si propone prima di tutto di %/'#1.5.$%)0%#/5,#/'#)*+/)%")05.*+)5/'%$'5/'#@)"5<+.5/2+)5""5)$*5"5)05#$511%$'%*5)'.5,%'#)">4$+)2%)4/),4$*+"+$+) integrarsi pienamente con il parco antistante, lavorando alla scala paesaggistica tramite l’uso di )#$'#./5)5") un muscoloso %//#$'+)<#.2#)51.%*+"+)W)+./5,#/'5"#@)0+/#/2+$% )*+,# )/+2+)%/'#.,+25"#)'.5 )"5),+&%"%'()*5..5&%"# *5,04$)#)34#""5)*%*"+0#2+/5"#)%/'#./5)5")05.*+X)%/)$#*+/2+)"4+1+)*#.*5)2%)25.#)*+/'%/4%'()5""#)?5"")2#1"%)#2%-%*%) innesto verde agricolo - ornamentale, ponendosi come nodo intermodale tra la mobilità carrabile esterna al 2#""#)-5*+"'()2%)8#''#.#)#)V*%#/6#)Y+'+.%#@)*.#5/2+)4/)*+/'%/44,)$056%5"#)'.5)%/'#./+)#2)#$'#./+)*?#)0#.,#''#)2%) campus e quella ciclopedonale interna al parco; in secondo luogo cerca di dare continuità alle hall degli edifici delle<%<#.#)%/2%--#.#/'#,#/'#)1"%)$056%)2#"">4/%<#.$%'()%/2%0#/2#/'#,#/'#)25""#)<5.%5&%"%),#'#+.+"+1%*?#)#)*"%,5'%*?#) facoltà di Lettere e Scienze Motorie, creando un continuum spaziale tra interno ed esterno che permette di 0+%*?H)0.+'#11#)25""#)0.#*%0%'56%+/%)#)25%)<#/'%@)$*?#.,5)25")$+"#)#).#1+"5)"#)*+/2%6%+/%)%1.+,#'.%*?#)P!%14.5)SR7) vivere indifferentemente gli spazi dell’università indipendentemente dalle variabili meteorologiche e climatiche :.#)1"%)#"#,#/'%)0.%/*%05"%)5%)345"%)$%).%*+/+$*+/+)$0#*%-%*%).4+"%)-+.'#,#/'#)*5.5''#.%665/'%)$%5)25")04/'+)2%)<%$'5) poiché protegge dalle precipitazioni e dai venti, scherma dal sole e regola le condizioni igrometriche (Figura 4). -4/6%+/5"#)*?#)*+,0+$%'%<+K)"5)*+0#.'4.5@)%")05.'#..#)#)%")$%$'#,5)<#.2#)2#1"%)+.'%7)85)*+0#.'4.5)B)25'5)25)4/5) Tre gli elementi principali ai quali si riconoscono specifici ruoli fortemente caratterizzanti sia dal punto di vista 0%5$'.5).#'%*+"5.#)$056%5"#)-+.5'5)%/)0%L)04/'%)0#.)*.#5.#)2#""#)%$+"#)2%)<#.2#)%/'#./+)5")-+U#.)W)0%5665@)2%$0+$%'%<+) funzionale che compositivo: la copertura, il parterre e il sistema verde degli orti. La copertura è data da una *?#)5**+1"%#)1.5/)05.'#)2#"">%,0%5/'%$'%*5)2%)0.+1#''+)P%/)05.'%*+"5.#)%")$%$'#,5)2#%)05//#""%)-+'+<+"'5%*%@)%")$%$'#,5) piastra reticolare spaziale forata in più punti per creare delle isole di verde interno al foyer - piazza, dispositivo 2%)%""4,%/56%+/#)#)34#""+)2%).5**+"'5)2#""#)5*34#)25).%*%*"5.#)0#.)"9%..%156%+/#R7)Y#/'.#)"5)*+0#.'4.5)*+/)"5)$45) che accoglie gran parte dell’impiantistica di progetto (in particolare il sistema dei pannelli fotovoltaici, il sistema $'.4''4.5)0+.'5/'#)$%)*+/-%14.5)*+,#))%/-.5$'.4''4.5)-4/6%+/5"#)2#""5)0%5665@)%")05.'#..#)B)$'42%5'+)0#.)25.)0%#/5)#) di illuminazione e quello di raccolta delle acque da riciclare per l'irrigazione). Mentre la copertura con la sua S Z.+1#''+),#/6%+/5'+@)345.'+)*"5$$%-%*5'+@).#5"%665'+)25)=/2.#5)A%/1+"%)#)Y%*?#"#)Y5/%1.5$$+)*+/)!%"+,#/5) struttura portante si configura come infrastruttura funzionale della piazza, il parterre è studiato per dar piena e =*345<%<5@)Z5+"+)[,%"%+)\#""%$5.%+@)!.5/*#$*5)!+/'5/5)#)E+&#.'+)Z+'#/657) più agevole accessibilità a tutte le attività che si possono svolgere nella hall ed è diviso in due grandi aree: una ad uso flessibile ed una più adatta al riposo e alla lettura. S

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Progetto menzionato, quarto classificato, realizzato da Andrea Cingoli e Michele Manigrasso con Filomena Acquaviva, Paolo Emilio Bellisario, Francesca Fontana e Roberto Potenza.

Andrea Cingoli, Michele Manigrasso

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Figura 3. Parterre flessibile e adattabile, per una piazza che diventa hall multifunzionale.

Il piano inclinato è stato pensato come una serie di orti in cui la piantumazione di alberi da frutto e cespugli aromatici conferisce tutta una serie di benefici psico-fisici per chi fruisce l’intera area, e per chi magari si fermerà a sostare e riposarsi all’ombra del frutteto. In particolare si fa leva sui benefici microclimatici che il verde fornisce a costi bassissimi: la mitigazione microclimatica, l’adattamento ad eventi climatici intensi, la regimazione idrica; unitamente al conferimento di colore, al trattenimento delle polveri, al profumo e alla creazione di aree di relax. In particolare è stato dimostrato come il sistema di superfici permeabili e di piantumazioni del progetto proposto allontanerebbe l’effetto albedo che si avrebbe ipotizzando una piazza completamente impermeabile. Ciò comporterebbe, anche in virtù delle esposizioni, della morfologia e dei materiali degli edifici presenti, un fortissimo surriscaldamento delle superfici poco riflettenti: in pratica, nonostante la presenza della piazza in un grande parco, il calore dovuto all’irraggiamento verrebbe trattenuto dal parterre impermeabile, dalle superfici orizzontali e verticali degli edifici, causando l’innalzamento delle temperature in loco, con un comfort microclimatico chiaramente scarso.

Progetto di riqualificazione Urbanistica e Architettonica di Piazza Giovanni XXIII. Monteiasi (TA) Il progetto proposto5 riguarda la riqualificazione urbanistico-architettonica di uno slargo irrisolto, e rimasto per fin troppo tempo sottoutilizzato, lì dove Monteiasi, piccolo centro del tarantino, si dissolve nella campagna. Un semplice piatto asfaltato sul quale convergono 6 strade, privo di disegno, diventa spesso la sede di incidenti automobilistici, e al tempo stesso, vive costruttivamente della spontaneità e temporaneità degli eventi: le feste, il gioco quotidiano dei ragazzi che si danno un campo da calcetto o una campana, disegnando col gesso sull’asfalto. Ma questo non basta per rendere uno spazio pubblico aperto uno spazio di qualità. E’ il momento di ripensarlo puntando sulle sue potenzialità, per restituirlo ai suoi cittadini come nuova 'stanza urbana' dove poter svolgere quelle attività che in nessun altro spazio del paese sono possibili. Infatti questo slargo viene utilizzato ogni anno per la 'Festa delle Contrade', una tre giorni di giochi e di eventi vari che è diventata ormai tradizione nel programma delle iniziative del paese. Da un lato la posizione del sito a margine, a ridosso di un’area incolta che ospita temporaneamente le giostre, dall’altro l’uso che se ne fa giornalmente per il transito e il gioco 'improvvisato', e ogni anno per la festa estiva, hanno guidato una strategia di progetto con un alto grado di flessibilità. E’ una piazza in cui sarà possibile svolgere il mercato settimanale, giocare nel campetto disegnato sull’asfalto o con l’acqua della fontana a raso; rilassarsi all’ombra del frutteto e realizzare eventi diversi: rappresentazioni teatrali, cinema all’aperto, mercatini tematici domenicali. Quindi uno spazio pensato nel tempo rimodellando e ridefinendo i suoi confini. Grande attenzione è stata data, inoltre, al sistema di raccolta delle acque di pioggia, da riutilizzare per l'irrigazione. 5

Progetto proposto all'amministrazione comunale di Monteiasi (TA) e realizzato da Michele Manigrasso, con la collaborazione di Marco Cusato, Davide Gerbasi e Paolo Sabatini.

Andrea Cingoli, Michele Manigrasso

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Flessibilità e comfort nel progetto di riqualificazione dello spazio pubblico. La 'Terza Natura' a servizio dell'Adattamento

Un importante impianto di drenaggio lamina le acque in una cisterna ipogea, posta sotto il palco, elemento architettonico prevalente che emerge dal suolo come scaglia monolitica. (Figura 4)

Figura 4. Viste a volo d'uccello, dell'intero sistema della piazza mercatale e del palco per eventi.

In definitiva i progetti di ricerca brevemente illustrati provano a farsi carico della responsabilità che attiene alla progettazione "debole" dello spazio, quella che fa capo ad un'attenta ed approfondita analisi delle caratteristiche del territorio e del tessuto sociale che lo abita per ottenere soluzioni "aperte" alla "sana incertezza" sul fluire degli eventi, siano essi prevedibili, programmati o imprevisti; soluzioni ad_attive6 che reagiscono in modo istantaneo alla user experience ed alla repentina mutevolezza del clima. In questo senso l' approccio proposto, pur non essendo "fortemente" conformativo dello spazio e dell'uso dell'utenza, si rivela in generale più efficace e sostenibile per una realtà come quella odierna in continuo cambiamento.

Bibliografia AA.VV, La città oltre la forma, Di Baio Editore, Milano, 2008. M. Angrilli, A. Clementi, S. Ferrini. Progettare le Nuove centralità. URBAN VISION / Esperienze di un laboratorio integrato. Sala Editori. Pescara 2010. Bossi P. et al. (a cura di), La città e il tempo: interpretazionee azione, Maggioli Editore, Milano, 2010. Desvigne M., Gilles A. Tiberghien, Nature Intermédiaires. Les paysage de Michel Desvigne, ed. Springer, Birkhaüser, 2009. Mostafavi M., Ecological Urbanism, Lars Muller Publishers, Harvard, 2010.

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Concetto coniato e approfondito nella tesi di dottorato di Michele Manigrasso.

Andrea Cingoli, Michele Manigrasso

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Aree industriali dismesse e opportunità pubbliche

Aree industriali dismesse e opportunità pubbliche Daniela Corsini Università degli Studi di Firenze Email: corsini_daniela@yahoo.it

Abstract La rigenerazione e rifunzionalizzazione delle aree industriali dismesse rappresenta un’enorme opportunità per aumentare la qualità urbana e la dotazione di spazio pubblico e, come tale, deve essere oggetto di grande attenzione e di una progettualità accorta a tutti i livelli (pianificazione territoriale e urbanistica, scala urbana e architettonica). Si riportano le esperienze delle città di Bilbao, Torino, Zurigo, Parma e Valencia sottolineando con quali strumenti sono intervenute e quali sono stati i risultati ottenuti. Queste esperienze positive hanno in comune un approccio multidisciplinare, una scala di lavoro capace di studiare tutte le relazioni a livello territoriale e urbano e una visione sistemica degli elementi. Nella seconda parte dell’articolo si dà una chiave di lettura particolare ai casi studio, relativa al rapporto tra intervento di rigenerazione, memoria e identità del luogo. La capacità di mantenere un rapporto con la storia del luogo è un’ulteriore opportunità capace di dare un’anima ai luoghi e differenziarli, rafforzando le loro diverse identità. Parole chiave rigenerazione, aree industriali dismesse, spazio pubblico.

1 | Opportunità pubbliche in alcune esperienze significative di rigenerazione Le aree industriali dismesse sono luoghi spesso in stato di forte degrado ma ricchi di fascino e di memoria collettiva. La loro dismissione può rappresentare un’importante opportunità per riaprire connessioni tra le diverse parti della città e aumentarne la qualità. Nella riconversione di queste aree spesso ci si fa carico delle criticità esistenti nella città consolidata, come ad esempio la ripetitività dei quartieri, la mancanza di mix funzionale e la sottodotazione di servizi e di spazi aperti. Le notevoli dimensioni che solitamente hanno le aree industriali in dismissione e la loro collocazione in ambiti della città spesso particolarmente appetibili dal punto di vista immobiliare, rendono alto il rischio di interventi di speculazione edilizia, perdendo così le importanti opportunità che si potrebbero cogliere per un innalzamento della qualità urbana. Le esperienze di rigenerazione che si riportano di seguito mostrano come una pianificazione attenta e consapevole possa diventare un’occasione per ri-strutturare la città, per aumentare la dotazione di verde urbano (Leone, 2003; Leone, 2007), per rivitalizzare le aree marginali, per rispondere alle necessità di spazi di socializzazione, per collocare servizi e nuove polarità e per ristabilire connessioni con elementi di naturalità prima interrotte da barriere industriali o infrastrutturali (Carta, 2004; Callegari, 2005). Le esperienze qui illustrate sono state selezionate per la loro capacità di sintetizzare i temi proposti e sono presentate in ordine cronologico. Questi esempi positivi hanno in comune un approccio multidisciplinare, una scala di lavoro capace di studiare tutte le relazioni a livello territoriale e urbano e una visione sistemica degli elementi.

1.1 | Bilbao: la ri-strutturazione della città Negli anni ’70 la città di Bilbao venne colpita da una grave crisi sociale, peggiorata da una disastrosa alluvione. Dagli anni ’80 si assistette a un grosso calo della popolazione per un’azione combinata di diminuzione dell’immigrazione e aumento dell’emigrazione dovute principalmente agli alti tassi di disoccupazione derivanti dalla crisi dell’industria e delle attività portuali. Avviandosi a una graduale manovra di dismissione delle aree industriali e delle attrezzature portuali, ci si accorse che ci si trovava davanti a un territorio mai veramente pianificato: l’industria aveva, infatti, fortemente condizionato la struttura urbana della città. La trasformazione delle aree industriali rappresentava quindi un’enorme opportunità per il futuro. Daniela Corsini

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All’inizio degli anni ‘90 un Piano Strategico di larga scala e di ampie vedute permise di avviare la realizzazione di numerosi obiettivi: migliorare la qualità della vita e dell’ambiente, le comunicazioni e la struttura della città; modernizzare le infrastrutture, privilegiando i trasporti pubblici; trasformare l’economia e l’aspetto della città, prestando maggiore attenzione alla sostenibilità e alla salubrità; creare nuove strutture per cultura e tempo libero. Uno degli interventi di maggior interesse fu il riallocamento del Porto di Abandoibarra (1992) che permise la riqualificazione dell’area, per anni occupata da attività portuali. La trasformazione iniziò nel 1988 e oggi Abandoibarra rappresenta il cuore della nuova Bilbao e ne è l’emblema anche grazie alla presenza del Guggenheim Museum (figura 1). La collocazione del museo vicino al fiume è strategica e va a costituire un landmark per la rinnovata città, al centro di un progetto più ampio di interventi sugli spazi pubblici e sulle infrastrutture. La politica di trasformazione ha riguardato anche gli spazi aperti della città, che sono fortemente aumentati sia come consistenza sia come qualità. Particolarmente interessanti sono gli assi pedonali e i parchi lineari come l’Abandoibarra Promenade e il Riverside Park che connettono i luoghi nevralgici creando allo stesso tempo spazi per il tempo libero. Come risultato di queste politiche il territorio è stato in gran parte riqualificato, l’immagine di Bilbao è profondamente cambiata e la città è entrata a far parte della scena internazionale. Gli obiettivi stabiliti sono stati raggiunti anche grazie all’integrazione tra le politiche urbane e un’efficace revisione amministrativa. Per raggiungere gli scopi fissati dal Piano Strategico si sono infatti formati numerosi organismi pubblico-privati come Bilbao Metropoli 30 e l’agenzia Bilbao Rìa 2000.

Figura 1. Bilbao (Spagna), Muelle de la Campa de los Ingleses e Paseo de Abandoibarra.

1.2 | Torino: un sistema integrato di nuove polarità Dopo aver conosciuto una straordinaria crescita economica e demografica (anni ’50 e ’60), la città di Torino visse negli anni ’70 una grossa crisi industriale e sociale. Già dagli anni ’80 si manifestarono i primi segni dell’inversione: iniziò il processo di deindustrializzazione, vennero elaborati numerosi progetti di riqualificazione di aree dismesse, si riorganizzò il nodo ferroviario e si avviò un sistema moderno di trasporto pubblico. Simbolo di questa trasformazione fu la fabbrica del Lingotto, oggetto dal 1983 di un’operazione di restauro urbano portata avanti a più riprese da Renzo Piano. Questo progetto ha segnato una tappa importante nel dibattito contemporaneo sulla rivitalizzazione di grandi aree dismesse e sulla trasformazione del patrimonio dell’architettura industriale. Nel 1986 fu affidata allo studio di Vittorio Gregotti la redazione del nuovo Piano Regolatore, approvato poi nel 1995. Il piano forniva una visione complessiva e di grande respiro della città; il patrimonio di aree industriali dismesse in area urbana fu studiato in modo che fosse compreso in un unico grande progetto. Queste aree hanno giocato un ruolo importantissimo nella riqualificazione della città. L’occasione per un completo rinnovo dell’immagine urbana è stata fornita dai Giochi Olimpici Invernali del 2006. Grazie ai finanziamenti portati dall’evento è stato possibile dare un nuovo volto alla città, sfruttando in particolare le aree industriali dismesse in ambito urbano e dotando la città di nuove infrastrutture. Nella consapevolezza che le infrastrutture e i servizi sono essenziali per la crescita della competitività di un territorio, l’Amministrazione comunale ha puntato ad elevare l’accessibilità urbana, a potenziare il sistema dell’accoglienza universitaria-formativa e la ricettività turistica e, infine, a creare impianti polivalenti per ospitare grandi eventi culturali, congressuali, espositivi, musicali e non soltanto manifestazioni sportive. Questa complessa operazione è stata gestita tramite un Piano Strategico, redatto alla fine degli anni ’90, i cui obiettivi principali erano migliorare la qualità urbana, rafforzare la coesione sociale e investire in formazione, ricerca e comunicazione. Torino ha puntato ad avere un ruolo nella scena globale qualificandosi come città del tempo libero e della cultura, dei servizi, dell’industria e del terziario, ponendo un accento particolare sulla qualità della vita che può Daniela Corsini

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contare su un patrimonio straordinario che aggiunge alla città storica un corredo di risorse ambientali (fiumi, colline e montagne) connesse con il capoluogo.

1.3 | Zurigo: dalla fabbrica al parco Il quartiere Oerlikon è localizzato nella parte più a nord della municipalità di Zurigo, in prossimità della stazione ferroviaria di Oerlikon, uno dei principali hub del trasporto pubblico della Grande Zurigo. Fino agli anni ’90 era costituito da un grande settore industriale intercluso nel territorio urbano consolidato. Nel 1992, considerato il grande numero di edifici industriali dismessi, l’ubicazione dell’area e la sua dimensione (circa 55 ettari), l’amministrazione diede il via a un grande concorso di idee urbanistico. La ri-progettazione del quartiere si basò sul masterplan vincitore del concorso, che mantenne solo alcuni edifici industriali e assegnò circa cinque ettari di terreno a quattro nuovi parchi. Nel 2001 venne ufficialmente consegnato alla popolazione con cerimonia di inaugurazione Oerliker Park, nel 2002 MFO-Park, nel 2003 LouisHafliger-Park e nel 2005 Wahlen Park. Si tratta di progetti del verde di alto design, che tengono in considerazione le esigenze di utilizzo odierne dello spazio aperto. La rigenerazione dell’area industriale ha permesso la creazione di alloggi per circa 5.000 persone e 12.000 posti di lavoro, principalmente nel settore terziario. Il quartiere Oerlikon rappresenta oggi una delle zone più vitali della città di Zurigo, e i suoi parchi sono un’attrazione di grande richiamo.

1.4 | Parma: da marginalità ad area a servizi La città di Parma nella seconda metà degli anni ’90 lamentava forti carenze nelle dotazioni di servizi e contemporaneamente presentava aree con impianti industriali obsoleti in ambiti urbani centrali. Queste aree, per lungo tempo destinate alle attività produttive, si resero così disponibili a una rigenerazione che permise il ripensamento delle funzioni insediate per colmare le lacune di aree per servizi e spazi pubblici (Tira, Zazzi, 2006). A partire dal Piano Regolatore del 1998 si avvertì il tentativo della città di affrontare programmi complessi. In particolare il procedimento operativo adottato dall’Amministrazione fu di lanciare iniziative capofila, di interesse e con capitale privato, associate alla qualificazione dello spazio pubblico. Questo modus operandi è stato utilizzato ad esempio per l’area Barilla ed ex Eridania e sta riguardando attualmente l’area della Stazione Ferroviaria. L’area Barilla ed ex Eridania, posta ai limiti della città storica, era sorta nei primi decenni del ‘900 e lì si concentravano i primi opifici e i grandi servizi tecnologici dell’epoca. Dal punto di vista della rigenerazione urbana rappresentava una vera e propria area strategica per la città, perché dava la possibilità di ripensare circa tredici ettari in posizione centrale, capaci di influire fortemente sulla qualità della vita cittadina. Il Programma di Riqualificazione Urbana (PRU) ha previsto il complessivo riuso delle strutture insediate conservando le architetture più significative e inserendovi funzioni di rilevanza urbana e territoriale. L’ampio programma di riqualificazione urbana ha comportato la realizzazione dell’Auditorium Paganini all’interno di un nuovo parco urbano (figura 2), una multisala cinematografica, una galleria commerciale, un centro congressi, un albergo, un quartiere residenziale, la sede dell’Archivio Storico della Barilla, la scuola di cucina 'Accademia Barilla' e un ampio parcheggio. L’area ex Eridania e Barilla si configura oggi come un luogo da vivere durante tutto l’arco della giornata, con funzioni legate all’intrattenimento e al tempo libero. L’Auditorium Paganini potenzia il sistema dei teatri e dei contenitori culturali della città di Parma, ponendola tra le città italiane più attrezzate dal punto di vista musicale (Davoli, 2006).

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Figura 2. Parma, Area ex Eridania e Barilla, l’Auditorium Paganini è stato ricavato nello stabilimento dismesso dallo zuccherificio.

1.5 | Valencia: il recupero del rapporto con gli elementi di naturalità I corsi d’acqua hanno da sempre costituito una fondamentale infrastruttura di supporto per lo sviluppo, sia economico sia culturale, delle popolazioni. Dalla rivoluzione industriale, l’intenso rapporto che legava uomo, acqua e territorio è stato progressivamente compromesso fino a giungere in alcuni casi alla sua totale negazione. L’acqua è stata troppo spesso considerata fattore di disturbo, ostacolo da sormontare e vi sono state prese le distanze, arrivando a occultarla laddove gli interessi economici e immobiliari erano più forti. Le città intimamente legate al rapporto con l’acqua, pur dovendo sopportare a volte difficoltà o addirittura disastri, stanno vivendo una fase nuova e interessante della loro lunga esistenza: quella della riappropriazione e della rivalorizzazione dell’acqua urbana. L’acqua è, infatti, un elemento importante per la qualità urbana e l’identità dei paesaggi, e negli ultimi anni si vanno suggerendo nuovi usi e attività per la sua stessa presenza (Ferrari, 2005; Monti 2007). La città di Valencia è cresciuta alle spalle della costa marittima e tenta oggi ricucire lo strappo tra il centro urbano e l’acqua, incoraggiando lo sviluppo dell’area portuale e del litorale. Importanti impulsi in questa direzione arrivarono in occasione della Coppa America, che portò alla città una certa visibilità internazionale. Tra gli interventi realizzati spicca il progetto di valorizzazione del Porto industriale, con importanti interventi architettonici quali l’edificio Veles e Vents di David Chipperfield e la base operativa di Luna Rossa a firma di Renzo Piano. Simili processi possono essere osservati anche a Barcellona, che in molti modi ha provveduto a rompere le barriere infrastrutturali e industriali che la separavano dal mare, e a Bilbao, che si è riappropriata del rapporto con il fiume Nervión.

2 | Una chiave di lettura trasversale: la memoria del luogo come opportunità Le esperienze illustrate mostrano numerosi punti di contatto nella capacità di migliorare la qualità della vita dei cittadini e dell’ambiente urbano. Si riscontrano però anche grandi differenze nell’approccio alla memoria del luogo: alcuni di questi interventi mantengono la 'grana grossa' del tessuto industriale, si rifunzionalizzano una o più fabbriche, in altri casi si rievoca il passato industriale con architetture ex novo ed elementi di arredo urbano o tramite l’utilizzo di alcuni materiali, altre volte ancora si fa tabula rasa e la memoria si perde completamente.

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Figura 3. Winterthur (Svizzera), Katharina Sulzer-Platz, il parcheggio conserva l’aspetto e l’atmosfera dell’industria convertita che lo 'ospita'.

La capacità di mantenere un rapporto con la storia del luogo è un’ulteriore opportunità capace di dare un’anima ai luoghi e differenziarli, rafforzando le loro diverse identità. Il passato industriale è storia recente, spesso molto viva nei ricordi e nell’immaginario locale. Uno dei casi più interessanti di conservazione delle tracce del passato industriale è rappresentato dall’area Sulzer a Winterthur, in Svizzera. Nel 1995 il piano urbanistico di Winterthur dà avvio al processo di trasformazione dell'area Sulzer, quartiere industriale della città, dell'estensione di circa 20 ettari. Principale obiettivo era quello di mantenere il tessuto industriale con edifici di grosse dimensioni assegnando al contempo funzioni differenti. Elemento emblematico dell'intervento è il parcheggio pubblico di Katharina Sulzer Platz, ricavato nel volume di un edificio industriale, mantenuto in toto comprese le attrezzature industriali, con l'aggiunta di pochi elementi scelti con grande attenzione (figura 3). Questo modo di operare che mantiene l'esistente, inserendo oggetti 'di design' ed enfatizzando alcune tracce, sostanzia tutto il quartiere. Un esempio di valorizzazione delle tracce è rappresentato dall’intervento in piazzetta Pionerpark, dove il sedime ferroviario dismesso viene mantenuto e colorato di rosso. Un altro caso molto interessante in tema di conservazione del tessuto urbano è quello del villaggio artigiano di Modena ovest, sorto negli anni ‘50 alla ricerca di una soluzione per il problema dei numerosi operai licenziati dalle grandi fabbriche a seguito della crisi produttiva delle tensioni sociopolitiche del periodo. Invece di tentare la strada delle sovvenzioni o degli accordi con le principali industrie, si convinsero gli operai licenziati a spendere la professionalità acquisita in fabbrica per reinventarsi come piccoli imprenditori. L’iniziativa riscosse un enorme successo e nel giro di pochi anni tutti i lotti predisposti alla prima periferia ovest della città vennero venduti ed edificati (Manni, 2004). Quando pochi anni fa l’Amministrazione comunale di Modena si è trovata davanti all’opportunità di ripensare all’identità e all’assetto del villaggio artigiano, il ruolo-simbolo dell’area per l’identità modenese ha suggerito di approcciarsi al progetto cercando di mantenere il più possibile gli elementi di identità del luogo, come ad esempio il tessuto fatto di strade regolari, l’alta densità dell’insediamento e la tipologia della casa-bottega (figura 4). Questo è possibile anche grazie all’insediamento di nuove imprese, molte delle quali innovative e creative, che rendono il villaggio un luogo di 'artigianato 2.0' e che permettono il mix tra residenza e produzione. Il progetto sarà quindi costituito da una serie di interventi alla scala dell’edificio e dalla riqualificazione degli spazi aperti come ad esempio il ripensamento delle strade interne al villaggio, il riuso del sedime della ferrovia di prossima dismissione e convenzioni per l’apertura al pubblico dei cortili privati delle aziende.

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Figura 4. Modena, Villaggio Artigiano, tipologia della casa-bottega e sezione stradale tipo.

Alla scala del singolo edificio spesso la rifunzionalizzazione avviene attraverso la 'tecnica dello zucchino ripieno' (Nicolin, 2005), mantenendo l’involucro e ripensandone l’interno. È il caso dell’Auditorium Paganini a Parma che sorge nell’antico zuccherificio Eridania, costruito nel 1899 e dismesso nel 1968 (figura 2). La morfologia dell’edificio è rimasta inalterata, nonostante numerosi interventi sulla struttura. Questo modo di intervenire è molto diffuso in tutta Europa dove fabbriche, ospedali, magazzini, collegi, caserme, prigioni dopo aver svolto per secoli la loro funzione, ne assumono una nuova dopo accurati lavori di restauro e di trasformazione che propongono una completa metamorfosi dei luoghi. Gli edifici recuperati a nuove funzioni, ma ricchi di storia, costituiscono lo scenario ideale per accogliere progetti artistici nati dalla sensibilità contemporanea. Talvolta invece si rievoca il passato industriale principalmente con architetture ex novo ed elementi di arredo urbano. Il quartiere di Zurigo Oerlikon è particolarmente ricco di suggestioni, soprattutto all’interno dei nuovi parchi. MFO Park sorge sul sedime della Maschinenfabrik Oerlikon, da cui il nome. Dell’edificio non rimane alcuna traccia ma il progetto ha previsto la costruzione di un’architettura in acciaio che ricorda nella forma una fabbrica, completamente permeabile, sulla quale si articolano giardini su più livelli (figura 5). Un altro elemento di forte richiamo al passato industriale è presente nell'Oerliker Park: la torre panoramica, alta 35 metri, evoca la memoria delle alte ciminiere dell’ex area industriale.

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Figura 5. Zurigo (Svizzera), MFO Park ricorda nella sagoma una fabbrica, e funge così da testimonianza del passato industriale dell’area.

All’interno del Riverside Park a Bilbao si colloca una grande collezione di statue che costituisce il 'Paseo de la Memoria', a ricordare il passato industriale della città. Anche l’edificio della Conference and Music Hall rimanda alla storia della città e del porto: l’edificio è infatti concepito, nella faccia verso il fiume, come una nave in costruzione permanente.

3 | Prospettive di lavoro In un recente passato le aree industriali dismesse hanno subito ingenti trasformazioni che, sapientemente gestite, hanno permesso interessanti rigenerazioni del tessuto. In tempo di crisi economica sono sempre più numerose le aree dismesse, ma decisamente inferiori le risorse per intervenire nella loro rifunzionalizzazione. È possibile coniugare rigenerazione e interventi low-cost?

Bibliografia

Callegari G., (2005), “Paesaggi dismessi. I nuovi territori del progetto”, in Bondonio A., Callegari G., Franco C., Gibello L. (a cura di), Stop & go. Il riuso delle aree industriali dismesse in Italia. Trenta casi studio, Alinea Editore, Firenze. Carta M. (2004), Next city: culture city, Meltemi, Roma. Davoli P., (2006), “Intreccio fra musica e parco”, in Monti C., Ronzoni M.R. (a cura di), L’Italia si trasforma. Città in competizione, BE-Ma Editrice, Milano, pp. 176 - 187. Ferrari L. (2005), L’acqua nel paesaggio urbano: letture esplorazioni ricerche scenari, Firenze University Press, Firenze. Leone U. (a cura di, 2003), Aree dismesse e verde urbano. Nuovi paesaggi in Italia, Pàtron, Bologna. Leone U. (a cura di, 2007), Aree dismesse e verde urbano. Nuovi paesaggi in Italia vol.2, Pàtron, Bologna. Manni B. (2004), Un villaggio tra la ferrovia e la campagna. 30 storie di artigiani, Il Fiorino Editore, Modena. Monti C. (2007), “Città fra terra e acqua”, in Monti C., Ronzoni M.R. (a cura di), L’Italia si trasforma. Città fra terra e acqua, BE-Ma Editrice, Milano, pp. 8 - 13. Nicolin N. (a cura di, 2005), Conflitti. Architettura contemporanea in Italia, Skira, Milano. Tira M., Zazzi M. (2006), “Un nuovo rango per la città”, in Monti C., Ronzoni M.R. (a cura di), L’Italia si trasforma. Città in competizione, BE-Ma Editrice, Milano, pp. 161 - 169.

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Nuovi spazi di prossimità

Nuovi spazi di prossimità Anna Moro* Politecnico di Milano DAStU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Email: anna.moro@polimi.it Roberto Manuelli* Email: roberto.manuelli@gmail.com Gianfranco Orsenigo* Email: gianfranco.orsenigo@gmail.com

Abstract Il progetto di trasformazione del territorio contemporaneo ci porta sempre più spesso a confrontarci con condizioni di risorse scarse e di spazi da preservare a fronte dell'elevata compromissione del patrimonio territoriale. Ciò accade in particolare in contesti localizzati “al margine”, debolmente urbanizzati e che si caratterizzano per una forte contrazione degli investimenti legati ai processi di trasformazione. Proprio in queste circostanze sembra affermarsi con nuovi toni la centralità del ruolo dello spazio pubblico: questo rappresenta non solo l’ossatura e la materia irrinunciabile del disegno del progetto della città, ma anche l’elemento attorno al quale costruire politiche e progetti di trasformazione condivise tra i soggetti pubblici e privati, tra istituzioni e cittadini. Il testo sviluppa una riflessione attraverso il progetto dello spazio pubblico, in particolare legato alla riconversione di aree produttive obsolete o di ambiti marginali. Si articola in una trattazione dei temi generali sollevati entro un panorama di riferimenti più ampio per poi descrivere, con un racconto per parole chiave, diverse spazialità immaginate, a partire da tre progetti specifici. Parole chiave risorse, prossimità, condivisione

Territori della frangia, vuoti urbani e occasioni di progetto Molti contesti attuali di trasformazione che interessano comparti produttivi obsoleti e parti di città marginali, spesso affacciate su brani di campagna urbana, offrono la possibilità di trattare il tema dell’ibridazione, dell’incontro e della convivenza tra funzioni e usi, generando spazialità inattese, per scala, carattere e statuto. I territori indagati sono parti di città scariche, marginali, spesso soggette a dismissioni puntuali. La presenza di aree in attesa da un lato aumenta la frammentazione dei territori e il grado di incertezza del destino generale di brani di città (Lanzani, 2003), dall’altro costituisce una occasione per accogliere, senza particolari difficoltà, una trasformazione che genera nuovi carichi di presenze ed usi. Generalmente infatti tali vuoti urbani si collocano proprio in prossimità di spazi aperti che appartengono a sistemi ecologici e/o linee infrastrutturali di scala territoriale, e la risorsa spazio aperto (agricolo o naturale) è centrale nella loro riconfigurazione. Questo perché, se si pensa ad esempio alle aree produttive, il loro collocamento eredita, nei diversi cicli urbani, una immediata relazione con la rete ferroviaria, con la risorsa idrica e, più recentemente, con la rete stradale ad alto scorrimento, distante dalle aree centrali1. Scorrendo alcuni casi di trasformazioni recenti si possono evincere alcune condizioni ricorrenti nel panorama della riconversione di parti di città, specie produttive. Un caso in cui un’area posta ai margini del centro urbano * La redazione del primo paragrafo è di G. Orsenigo, il secondo di R. Manuelli, il terzo e il quarto di A. Moro. 1 Su questo tema per una riflessione sulla tipizzazione dei tessuti produttivi, in particolare del territorio a nord di Milano si vedano: DiAP (2011), Manuelli, Orsenigo (2004). Anna Moro, Roberto Manuelli, Gianfranco Orsenigo

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Nuovi spazi di prossimità

subisce una condizione di sottoutilizzo e dismissione molecolare è il Villaggio ovest di Modena2, uno dei ‘quartieri artigianali attrezzati’ nati a partire dalla fine degli anni ‘50. Il progetto realizzato mette in campo forme nuove e sperimentali di mix funzionale (case atelier, nuove case-bottega, condivisione di servizi e spazi, ecc.), costruisce nuove centralità mettendo a sistema processi disomogenei/disarticolati di sostituzione spontanea delle attività produttive in atto, coglie infine le opportunità offerte dalla dismissione della linea ferroviaria per ripensare intere parti di città. Ai progetti di trasformazione è spesso richiesto oggi di ottimizzare sforzi e investimenti e risorse presenti nel contesto al fine di ottenere una maggiore eco. Caso emblematico è la trasformazione dell’area industriale di Padova ovest (ZIP)3 ed in particolare del progetto di ampliamento verso il canale Roncajette. Qui il tema del trattamento delle acque è centrale sia nell’ottica della realizzazione di un’area industriale prestante e sostenibile, sia nella direzione della definizione di spazi qualità dentro all’area e di un parco fruibile lungo il canale. La ricerca di una maggior qualità dello spazio collettivo a partire dal trattamento di problemi tecnico-pratici che ottimizzino le risorse è ricorrente in casi italiani di scala più contenuta (ad esempio l'ex Gilera di Arcore 4) e in realtà che si estendono lungo sistemi territoriali di scala vasta (si pensi ai sistemi vallivi oggetto di industrializzazione di inizio ‘900 oggi oggetto di riflessione nei piani di scala sovralocale) ma è soprattutto in Europa5 che progetti di questa natura sono già in modo abbastanza diffuso in atto (alcuni riferimenti sono il Parklandschaft Zentrum di Zurich North e il parco industriale di Vreten in Svezia 6).

Tre occasioni di sperimentazione Tre sono le occasioni di progettazione in Italia ed in Europa elaborate dal nostro gruppo di lavoro tra il 2009 e il 2012 selezionate per costruire la riflessione qui esposta. Si tratta di progetti che declinano lo spazio dell’abitare e della riconversione dei comparti produttivi, individuando per ciascuno di essi un dispositivo spaziale che è al contempo elemento caratterizzante del paesaggio e strumento di governo del processo di trasformazione. - Turku, Finlandia7. Europan 11, 2009.

Figura 1. Assonometria d'insieme: immersi nel bosco ed agganciate alla viabilità secondaria, si innestano le piastre pubbliche di accesso alle unità residenziali.

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Il progetto ha inizio formalmente nel 2010 con l’approvazione da parte del Comune di Modena di un Documento di indirizzo sulle opportunità trasformative di questa parte di città, a seguito della prossima dismissione del tracciato ferroviario della linea Milano/Bologna. Successivamewnte un workshop aperto a professionisti raccoglie idee per la riprogettazione del Villaggio Artigiano e nel febbraio 2012 è adottato il POC MO.W (Piano Operativo di Riqualificazione urbana per il quadrante urbano di Modena Ovest). Il soggetto promotore è il Comune, con la collaborazione degli Ordini professionali della Provincia di Modena raggruppati nel Comitato Unico di Professionisti di area tecnica e da Progetto CITIES, progetto europeo finanziato nell’ambito del programma Interreg IVC, 2008-2011. 3 Si tratta di un progetto promosso dal Consorzio ZIP e Comune di Padova con il coinvolgimento della Harvard University Graduated School of Design i cui risultati sono stati pubblicati in Steinitz, Cipriani, Vargas-Moreno, 2012. 4 Sul progetto di conversione in “condomino artigianale” degli spazi liberatisi con la chiusura dalla fabbrica Gilera di Arcore si veda Armondi, 2011. 5 Altri riferimenti sono descritti in Camera di Commercio e Confindustria di Padova, 2008. 6 Progetto promosso dall'amministrazione della città di Solna e dalle imprese insediate all'interno del Parco industriale di Vreten con la finalità di rendere sostenibile il trasporto di persone e merci. 7 Co-autori del progetto, oltre agli scriventi sono A. Fea e N. Ratti, il progetto ha ricevuto una Honorable Mention. Anna Moro, Roberto Manuelli, Gianfranco Orsenigo

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Nuovi spazi di prossimità

L’area di progetto si colloca in un ambito residenziale a bassa densità, fortemente integrato con il paesaggio circostante. L’area, ad oggi inedificata, è parte si un ampio sistema di spazi aperti boscati ed al contempo si trova in prossimità della rete infrastrutturale principale ed a spazi commerciali di media-grande dimensione. La richiesta riguarda un intervento residenziale a bassa densità che integri la dimensione collettiva dell’abitare a quella privata in un contesto di alta qualità ambientale. L’intervento proposto riconosce nell’articolazione e differente caratterizzazione dello spazio aperto l'ambito in cui sollecitare la dimensione collettiva dell'abitare. In particolare individua in una serra climatizzante (fig. 2), attorno alla quale si raggruppano le unità abitative, il fulcro e cuore del progetto: un’estensione degli ambienti introversi della casa che si aprono alla condivisione di spazi e delle attività che è possibile praticare. Le caratteristiche della serra (climatizzazione e continuità visiva con la natura circostante) rendono possibile immaginare lo svolgimento di attività all’aperto (coltivazione, gioco, ecc.), in forma collettiva, anche in periodi dell’anno caratterizzati da condizioni climatiche avverse. Le abitazioni sono distribuite sui due lati lunghi della serra la cui testata si aggancia da un lato su una piastra dura, spazio condiviso di pertinenza che limita al necessario lo spazio dell'automobile e che si connette con la viabilità secondaria, dall'altro a contatto con la foresta che cinge l’intervento (fig. 1). Su di essi vengono predisposte una serie di strutture che possono ospitare servizi dedicati principalmente agli abitanti del nuovo quartiere, ma allo stesso tempo disponibile per gli utenti provenienti dalle aree circostanti. Il complesso progettato punta ad un contenimento del consumo di suolo e dell’invasione dello spazio naturale, creando con esso una sinergia virtuosa.

Figura 2. La serra. Dispositivo di climatizzazione e spazio collettivo intermedio.

- Ponte San Pietro (BG)8. Riusi industriali 2012. Concorso di idee per la riconversione di tre insediamenti industriali dismessi nella provincia di Bergamo, 20129 Obiettivo del concorso è la definizione di proposte progettuali sulla riconversione di siti industriali dismessi in cui la funzione produttiva conservi un ruolo caratterizzante. All'interno di questa iniziativa è stata elaborata una proposta per l'area Legler a Ponte San Pietro, posta a cerniera tra il sistema ecologico del fiume Brembo e lo spazio residenziale, caratterizzato da edifici mono e plurifamiliari. La proposta progettuale elaborata, come immagine per raccontare la futura evoluzione del sito, pone l’“abitare lo spazio del lavoro” come tema centrale, capace di contenere la dimensione della fruizione dello spazio aperto, le dotazioni di spazio collettivo e di servizi e alcune funzioni di eccellenza a servizio della produzione e dell’abitare che siano in grado di attrarre utenze diversificate. L’intervento interpreta l’insediamento produttivo come un luogo che appartiene a Ponte San Pietro, creando la possibilità di aprirsi a utenze differenti con l'idea che l’area possa ibridarsi attraverso l’introduzione di funzioni di nuova creazione e aspetti differenti legati a criteri gestionali, distributivi, economici ma anche paesaggistici, ecologici ed energetici. Una sorta di “parco” regolato aperto a tutti e inserito in un disegno di paesaggio più ampio, che costituisce sia il telaio dello spazio costruito, sia l’elemento che dà forma allo spazio pubblico/fruibile (fig. 3). Il parco, ed il suo disegno sono il dispositivo fisico di governo nel lungo periodo del possibile avvicendarsi di attività ed usi dell'area, ma che nasce anche 8 9

Co-autore del progetto, oltre agli scriventi è C. Maiello. Con la collaborazione di A. Bortolotti e F.Magni. Per una descrizione più approfondita dell'area e alle richieste del bando si rimanda ai documenti del concorso al sito www.riusindustriali2012.it.

Anna Moro, Roberto Manuelli, Gianfranco Orsenigo

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Nuovi spazi di prossimità

dall’esigenza di trasformare una necessità, quella di un sistema efficiente di trattamento e smaltimento delle acque, in una risorsa per il disegno dello spazio aperto che col suo declinarsi in modalità differenti delinea differenti parti 10e funzioni di tipo produttivo, terziario e dei servizi all’interno dell’area di progetto.

Figura 3. Il parco centrale che ospita il sistema di raccolta e collettamento delle acque piovane come elemento di accesso e distribuzione alle attività insediate e come spazio con diversi gradi di fruizione e apertura al pubblico.

- Dietro Poggio, Calenzano (FI)11. Concorso di idee per la riqualificazione dell'area Dietro Poggio, 2012 Obiettivo del concorso è raccogliere proposte progettuali per uno “Schema preliminare di assetto territoriale” in grado di suggerire una conversione dell'area oggi prettamente produttiva e con forti fenomeni di dismissione con una proposta a prevalenza residenziale che mantenga anche una quota di produzione e commercio. La proposta progettuale individua un nuovo ruolo per l'area Dietro Poggio suggerendo il potenziamento del sistema ecologico del torrente Marina ed integrandosi con il sistema del Parco Agricolo di Travalle; a livello locale costruisce una forte relazione con l’abitato di Calenzano attraverso connessioni fisiche ciclo-pedonali e l’inserimento di spazi attrattivi per gli abitanti delle aree circostanti. La prima operazione adottata per ottenere la riconnessione delle parti è stata la realizzazione di un anello ciclopedonale che dal percorso lungo il torrente Marina, già previsto, piega e circoscrive l’area di progetto (fig. 4). Un elemento capace di riconnettere l’area ai principali flussi della città e allo spazio aperto. Lungo l’anello si succedono e si articolano una varietà di luoghi per la collettività che sono pensati come strutturanti di un percorso che offre nuove ‘dotazioni’ di servizi che aspirano a divenire nuovi ‘nodi della socialità’.

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L’ambito nord si caratterizza come comparto della riconversione dei prodotti di scarto e il loro sfruttamento per la generazione di energia, associata all'uso di biomasse prodotte dagli impianti di arboricultura sub-irrigate con la dispersione delle acque reflue dopo il trattamenti di depurazione. L’ambito sud dove sono convogliate e trattare le acque grigie ospita una fascia di rinaturalizzazione e attività produttivi più tradizionali, utilizzando i volumi esistenti e prevedendone un'eventuale loro frazionamento interno. L’ambito centrale è il luogo più aperto al pubblico in cui si realizza il contatto tra produzione e città. Un luogo aperto e verde il cui disegno è caratterizzato ed organizzato dal sistema di collettamento, trattamento e dispersione delle acque meteoriche, fatto di vasche di sabbia ed arbusti, e trincee drenanti che accompagnano il sistema dei percorsi. Questa piazza verde gestisce l'accesso agli spazi collettivi (pubblici e fruibili), al fiume Brembo e a tutti quei servizi di completamento e supporto sia delle attività produttive insediatesi che delle aree residenziali circostanti. 11 Co-autori del progetto, oltre agli scriventi sono I.Castelnuovo e C.Maiello. Con la consulenza scientifica di A. Lanzani. Con la collaborazione al ridisegno di F. Magni. Anna Moro, Roberto Manuelli, Gianfranco Orsenigo

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Nuovi spazi di prossimità

Figura 4. L'anello ciclo-pedonale come sistema di riconnessione alle risorse del territorio ed insieme generatore di nuove spazialità interne all'area.

Il progetto conformemente alle indicazioni del bando prevede nella riconversione dell’area una predominanza della funzione residenziale, mantiene alcuni ambiti di produzione che vengono riconfigurati di e introduce spazi del commercio concentrati a ridosso della Strada Provinciale n.8. Le parti si integrano in specifici punti, quelle dei servizi posti lungo l’anello ciclo pedonale, dispositivi capaci di attivare forme di scambio tra le diverse componenti dell’intervento (fig. 5). L'immagine dell'anello si configura come sfondo in grado di guidare le trasformazioni che si succederanno per fasi, di volta in volta a seconda delle risorse reperite dall’attuarsi delle trasformazioni stesse.

Figura 5. La successione degli spazi aperti:dalla strada bianca (anello ciclo-pedonale) di carattere pubblico, verso le residenze più domestici e protetti.

Anna Moro, Roberto Manuelli, Gianfranco Orsenigo

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Nuovi spazi di prossimità

Un racconto per parole chiave Se il contesto concorsuale non è probabilmente rappresentativo delle modalità in cui si danno le trasformazioni effettive della città, tuttavia le tre occasioni progettuali descritte sono significative per il campione di attori che rappresentano: da un lato un ente locale entro un grande concorso internazionale (Europan a Turku), dall’altro un’associazione di categoria (Confindustria Bergamo) attraverso un concorso che mette in gioco tre aree produttive dismesse (Ponte San Pietro), infine una amministrazione locale aperta ai processi partecipativi e scontenta della parziale trasformazione realizzata nell’area in oggetto (Dietro Poggio, Calenzano). Il contesto concorsuale sembra inoltre essere una dimensione che più di altre è indicata per sperimentare, nello specifico del tema qui trattato, la valenza e le forme che lo spazio aperto, in una accezione un po’ più ampia del termine ‘spazio pubblico’, può assumere. Risorse. Confrontandosi con una condizione condivisa di incertezza dei tempi, della fattibilità e della gestione dei processi di trasformazione ed in particolar modo della quota che nelle trasformazioni è riservata allo spazio pubblico, è centrale, come prima mossa progettuale, l’individuazione selettiva e precisa delle risorse esistenti nel contesto prossimo. Si tratta di risorse di tipo spaziale, economico, delle reti di attori, delle politiche e dei progetti, ma anche delle risorse in termini di relazioni attivabili e di immaginari associati ai luoghi. Il progetto potrà avere una maggiore speranza di successo se riesce a coinvolgere e riorientare energie già presenti, reinterpretarle e declinarle senza snaturare il significato originario dei luoghi. Nel caso dell’intervento che inaugura la trasformazione di Dietro Poggio, si prevede come azione prioritaria la realizzazione di una parte della strada bianca, il primo tratto dell’anello ciclo-pedonale che circoscrive l’area. Questo permette di porre da subito in relazione tra loro, e ad una scala più vasta, i servizi e gli spazi pubblici esistenti di Calenzano e il parco agricolo. La ricucitura delle trame ciclo pedonali genera anche un effetto interno all’area di progetto: l’occasione è quella di aprire gli orti sociali, innescando una graduale apertura e permeabilità di tutta l’area. Le risorse per la realizzazione dell’anello non sono imputabili ad un nuovo intervento pubblico o privato, poiché derivano dalla messa a sistema di risorse e interventi già previsti dal Comune e dall’ente che sovraintende il Parco. L’effetto sarebbe invece quello di costruire un elemento spaziale di coerenza che dà una riconoscibilità alla trasformazione futura, inaugurando una nuova immagine dell’area. Dunque una risorsa economica (destinata alla realizzazione del percorso ciclo pedonale) connette l’area a risorse territoriali, urbane e dei servizi, innescando nuove pratiche d’uso, nuove relazioni e sinergie. Problemi. Non solo le risorse sono essenziali alla costruzione del campo entro cui agisce il progetto 12, anche l’individuazione dei problemi è necessaria a definire la direzione della nostra azione. Dei contesti osserviamo anche la dimensione disfunzionale, totale o parziale, e integrandola a domande più esplicite, usiamo il progetto come un nuovo modo per guardare ai problemi entro una nuova formulazione degli stessi. In alcuni casi anzi è proprio nel trattare problemi dalla natura tecnica e concreta che emergono spazialità innovative. Una esemplificazione efficace è visibile nello spazio aperto centrale dell’area Legler immaginato come un grande giardino che è allo stesso tempo un dispositivo di trattamento delle acque di tutto il comparto produttivo. Anche la serra di Turku rappresenta un luogo intermedio che, oltre ad una funzione tecnica, allarga il ventaglio delle occasioni di vivibilità dello spazio in una particolare condizione di clima rigido. Diaframma. L’esito di questo approccio è la costruzione di spazi dal carattere flessibile, capaci di misurare e declinare, a seconda dei contesti, differenti sfumature del rapporto tra dimensione pubblica e privata. In questo senso un particolare rilievo assume il diaframma che separa e unisce lo spazio privato e lo spazio pubblico, tradizionalmente intesi (Gehl, 2001). Non si tratta di un confine o di una soglia, anzi, a ben guardare, non si tratta di alcuna forma predeterminata. Più efficacemente si può parlare di una membrana, a volte dilatata, altre più serrata, a cui è assegnato il ruolo di costruire un rapporto chiaro, tuttavia ricco, tra le parti. Si tratta di uno spazio racchiuso nel caso della serra a Turku che genera da un lato privacy per lo spazio delle residenze poiché le separa, dall’altro è giardino collettivo; di una linea a Calenzano lungo la quale si distribuiscono servizi e spazi che sono pubblici al centro e via via più privati avvicinandosi alle residenze; di sezioni-corridoi di spazio aperto profondi che danno accessibilità alle funzioni con gradi di apertura al pubblico diversi a Ponte S. Pietro. Il disegno, o più precisamente, il progetto di suolo13 è così declinato secondo soluzioni formali differenziate che moltiplicano la spazialità dell’abitare e intensificano le occasioni di vita nello spazio aperto. A partire dall’interno dell’alloggio fino al suolo pubblico, incontriamo spazi di natura diversa, in cui con diversa intensità si è più o meno invitati all’uso e all’appropriazione. Prossimità. Non solo i materiali di cui si compone lo spazio ma anche la definizione degli edifici e delle funzioni che vi si affacciano è decisiva nella costruzione delle condizioni di vita di uno spazio pubblico. I luoghi da noi immaginati accettano nuove caratterizzazioni proprio a partire dal concetto di prossimità ad altre funzioni, ad altri usi e presenze. Così, se il tema della mixitè delle funzioni è a diverse scale un carattere auspicabile e forse 12 13

Per la definizione di ‘campo del progetto’, del ruolo e dei caratteri del ‘progetto’ contemporaneo si veda: Infussi, 2009. Il riferimento è alla trentennale riflessione di B. Secchi, su ruolo e carattere del ‘progetto di suolo’ nella città contemporanea.

Anna Moro, Roberto Manuelli, Gianfranco Orsenigo

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Nuovi spazi di prossimità

necessario all’innesco delle trasformazioni e al loro buon esito 14, è proprio nello spazio pubblico di prossimità che si possono collocare quei dispositivi intermedi che la realizzano. Natura. Gli spazi aperti immaginati creano anche l’occasione per un più stretto rapporto tra uomo e natura: lo stesso ‘bosco collettivo’ su cui affacciano i gruppi di residenze di Turku, ma anche l’anello di Dietro Poggio lungo il quale oltre ai servizi collettivi si aggregano anche spazi aperti dalla natura domestica 15 e spazi verdi di dimensioni maggiori. Come il bosco, che già per le sue caratteristiche intrinseche possiede il tratto dell’immersione nella natura, anche gli spazi aperti di Dietro Poggio permettono di godere di momenti di silenzio e riposo, praticare attività singole o collettive a contatto con la natura, non distante dai luoghi dell’abitare e del lavoro. Riconoscibilità. Il bosco abitato, la serra, l’anello sono spazi aperti di prossimità, fortemente riconoscibili, a cui abbiamo dato in modo spontaneo un nome, a cui si associano specifiche prestazione e un’atmosfera. La riconoscibilità e con essa la relativa semplicità che caratterizza questi spazi ci sembra essere strategica e irrinunciabile. L’innesto di uno spazio pubblico di questa natura è utile a restituire un senso, oltre che un uso, agli elementi e alle parti tra cui si colloca. Questi dispositivi mettono infatti in tensione la dimensione simbolica e sensibile dello spazio (Lembi, Moro, 2010); ciò permette a nostro avviso che il progetto abbia una maggior presa rispetto agli attori coinvolti (Healey, 2007) in contesti in cui l’immaginario condiviso dei luoghi è spesso scarico o negativo. Il dettaglio tecnico ad esempio dell’esecuzione dell’anello ciclo-pedonale come una strada bianca di campagna a cui si accostano i filari di cipressi rappresenta un forte elemento di riconoscibilità e caratterizzazione di tutta la trasformazione. Nell’immaginario la sezione del percorso e i materiali di cui si compone, richiama un paesaggio agrario tradizionale caratterizzato dalla cura e dalla qualità spaziale dei manufatti. Un elemento molto semplice dal punto di vista della sua fattibilità economica, tuttavia estremamente significativo in termini di rifondazione dell’immagine della località Dietro Poggio, in particolare della sua percezione da parte degli abitanti, degli utenti del parco, dei potenziali investitori che potranno insediare nuove funzioni produttive. Spazio ordinario. Sembra importante ancora una precisazione rispetto ai materiali che il progetto usa: si tratta di una selezione e ricomposizione di elementi non eccezionali, piuttosto legati alla dimensione dell’“ordinario” (Corboz, 1998; Merlini, 2010; Perec, 1994). Non abbiamo realizzato spazi di rappresentanza dal carattere magniloquente, è stata invece privilegiata l’abitabilità e qualità dello spazio (Armondi, 2011). L’ordinarietà è perciò un valore nel momento in cui il disegno dello spazio aperto si legge in continuità con il contesto circostante, attraverso l’integrazione con il paesaggio locale. D’altro canto, dal punto di vista della gestione degli spazi, la scelta di materiali semplici garantisce una più facile manutenzione. La cura è infatti un aspetto imprescindibile nel prefigurare uno spazio pubblico. Tempo, fattibilità, rischio. Infine un’ultima considerazione riguarda la fattibilità dei progetti. Già si è detto della esigua presenza di risorse e della necessità di lavorare a ridosso della sostenibilità economica. Inoltre sarà strategico l’elaborazione di progetti entro una logica di condivisione dei rischi (Giannotti, Viganò, 2012) ambientali, economici, ecc., capaci di supportare trasformazioni dalle temporalità poco prevedibili che seguono i tempi dei potenziali fruitori, operatori e investitori i quali agiscono spesso in modo discontinuo e con fini e significati disomogenei. Lo strutturare la trasformazione dello spazio pubblico per fasi, compiute e auto sostenibili che realizzano spazi conclusi ma capaci di innescare ulteriori trasformazioni e nuove sinergie (Desvigne, 2009), è visibile nei casi esposti declinata come modularità nel caso di Turku e di Ponte San Pietro o componibilità dei suoi elementi nel caso di Turku.

Prossimità e distanze Le forme articolate dello spazio pubblico, definite come spazi di prossimità, possono rappresentare una sperimentazione dell’adesione dei soggetti a tale idea di condivisione dei luoghi. Siamo consapevoli che sottotraccia tutti i progetti si ispirano ad una visione dell’abitare insieme, del senso civico e della cura dello spazio che l’accompagna, di un senso di appartenenza che ha seguito a partire dalle pratiche (Crosta, 2010) realizzate nei luoghi. Gli spazi, che anche nella scelta del tipo di atmosfera rappresentata veicolano questo concetto, sono al contempo dei dispositivi atti a soddisfare esigenze specifiche, di tipo funzionale o tecnico. Hanno una coerenza cioè a prescindere dal loro essere più o meno densamente popolati, dato che è totalmente incerta come risorsa l’appropriazione dei luoghi da parte degli abitanti. In questo modo ciò che questi spazi realizzano sono le condizioni perché tutto un insieme di usi sia possibile, a discapito di altri invece esclusi. 14

Nella configurazione di parti di città vivibili e funzionali la mixitè è un tentativo per garantire la frequentazione degli spazi in situazioni dove non è certa la permanenza e perdurare della frequentazione e degli usi. 15 Spazi per il gioco dei bambini protetti da una vegetazione bassa, spazi ad orto di minore estensione utilizzabili dagli abitanti dell’immediato contesto, superfici attrezzabili per lo sport, aree di rinaturalizzazione e vasche per il trattamento e l’infiltrazione delle acque sono gli spazi che si distribuiscono lungo l’anello. La varietà degli usi immaginati intorno all’anello lo rende un “elemento attrattivo” per pratiche di vita all’aperto realizzando un presidio continuo dello spazio senza però renderlo troppo carico e caotico. Anna Moro, Roberto Manuelli, Gianfranco Orsenigo

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Nuovi spazi di prossimità

Il grado di condivisione nello spazio con altri soggetti e popolazioni (Pasqui, 2008) è evidentemente demandato agli individui che ritrovano tuttavia molteplici condizioni dello stare dentro allo spazio, isolati o partecipi.

Bibliografia

Armondi S. (2011), Disabitare. Storie e spazi separati. Maggioli Editore, Sant'Arcangelo di Romagna. Balducci A., Fedeli V., Manfredini F., Pucci P. (2006), I territori della produzione. Riorganizzare gli spazi della produzione in provincia di Vicenza. Alinea Editrice, Firenze. Camera di Commercio di Padova, Confindustria di Padova, INU Veneto (2008), Green park. Parchi in produzione, Confindustria Padova. Corboz A. (1998), Ordine sparso. Saggi sull’arte, il metodo, la città e il territorio, a cura di P. Viganò, Franco Angeli, Milano. Crosta P.L. (2010), Pratiche. Il territorio ‘è l'uso che se ne fa’, FrancoAngeli, Milano. DiAP (2011), Dopo la crescita: la riforma degli spazi aperti e le aree produttive della provincia di Monza e Brianza, Rapporto finale, Resp.: A. Lanzani. Desvigne M. (2009), Intermediate Natures. The landscape of Michel Desvigne, Birkhauser, Berlin. Gehl J. (2001), Life between Buildings. Using Public Space, The Danish Architectural Press, Copenhagen. Giannotti E., Viganò P. (eds., 2012), Our Common Risk. Scenarios for the diffuse city, et al. Edizioni, Milano. Healey, P. (2007), Urban Complexity and Spatial Strategies, Routledge, London-New York. Infussi F. (2009), “Campo del progetto” e “Progetto” nella sezione Lessico, in Laboratorio Città Pubblica, Città pubblica. Linee guida per la riqualificazione urbana, Bruno Mondadori, Milano, pp. 144-145, 205-207. Lanzani A. (2003), I paesaggi italiani, Meltemi, Roma. Lembi P., Moro A. (2010), Esperienze dello/nello spazio, Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna Merlini C. (2010), Cose/viste. Letture di territori , Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna. Manuelli R., Orsenigo G. (2004), Immagini produttive, Tesi di laurea, Facoltà di Architettura, Politecnico di Milano. Pasqui G. (2008), Città, popolazioni, politiche,Jaca Book, Milano. Perec G. (1994), l'infra-ordinario, Bollati Boringhieri, Torino. Steinitz C., Cipriani L., Vargas-Moreno J.C. (2012), Padova e il paesaggio: scenari futuri per il parco Roncajette e la zona industriale, Università degli Studi di Trento, Trento.

Sitografia

Presentazione e materiali del progetto di rigenerazione urbana Villaggio Artigiano di Modena. http://www.villaggioartigianomodena.it/ Presentazione e materiali del progetto di realizzazione di spazi pubblici nell'area industriale nord di Zurigo Parklandschaft Zentrum Zurich Nord, disponibile su Public Space, sezione "Archive". http://www.publicspace.org/en/works/b006-parklandschaft-zentrum-zurich-nord Bando e materiali del concorso Riusi industriali 2012. Concorso di idee per la riconversione di tre insediamenti industriali dismessi nella provincia di Bergamo http://www.riusindustriali2012.it.

Anna Moro, Roberto Manuelli, Gianfranco Orsenigo

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Diffusione, enclave, scarti e tracce di felicità nella Piana Campana

Diffusione, scarti e tracce di felicità nella Piana Campana Libera Amenta* Università di Napoli Federico II Dipartimento di Archiettura Email: libera.amenta@gmail.com Tel: +39. 3201435079 Enrico Formato* Università di Napoli Federico II Dipartimento di Archiettura Email: e.formato@unina.it Tel: +39. 3281176739

Abstract L’espansione urbana è un fenomeno che sta rilevando la sua insostenibilità. Il paesaggio della dispersione ha dato luogo a territori privi di identità, espressione delle nuove esigenze di vita, la cui naturale conseguenza è un’accumulazione di “drosscapes”, avanzi inevitabili del processo di rapida e incontrollata urbanizzazione. Il presente contributo propone un’interpretazione della dispersione in Campania esplorando, in particolare, i territori del Comune di Casaluce, conurbazione aversana in cui i fenomeni di dismissione o trasformazione delle aree agricole si intrecciano con la diffusione dovuta all’abusivismo e alla perdita di attrattività del centro antico che di fatto risulta svuotato. In questi luoghi gli insediamenti esterni alla città antica, dove ancora permangono le tracce della centuriazione, si possono leggere come parte di un’unica conurbazione diffusa che tiene insieme, quasi senza soluzione di continuità, l’urbanizzato dell’ambito aversano. I temi affrontati fanno parte di ricerche ancora in corso presso il Dipartimento di Architettura di Napoli. Parole chiave Dispersione insediativa, drosscapes, rigenerazione

1 | Napoli, città diffusa Espressioni quali città disfatta (Sernini, 1988), città diffusa (Indovina, 1990), spreco urbano (Bevivino, 1991), sprawl (Ingersoll, 2006), ricorrono di frequente nel dibattito architettonico-urbanistico, definiscono nuovi modi di abitare e persino individuano la fine, senza un possibile ritorno, della città tradizionale (Benevolo, 2011). La rottura della forma urbana tradizionale, la dissoluzione della concentrazione urbana e la dispersione edilizia e degli insediamenti sono fenomeni che, pur al di fuori di qualunque vulgata di globalizzazione, sembrano accomunare le nuove forme del territorio abitato ben oltre i confini del vecchio continente: la trasmigrazione delle idee, dei modelli e delle pratiche, iniziata dai tempi dell’Illuminismo e rimbalzata per l’intero 900 tra Europa ed America (Basco, Formato, Lieto, 2012), pare coinvolgere oggi, seppur con diverse modalità, l’intero mondo industrializzato: secondo questa tesi il binomio densità-rarefazione, produce città attraverso la messa in tensione di infiniti downtown e suburbi. Una infinita ripetizione della delirante New York di Koolhaas (1979) che assume modi e caratteri differenti in rapporto alla diversa situazione di contesto. Il tratto costante sembra la rottura strutturale di ogni continuità topologica, la polarizzazione tra spot e fasci di condensazione, di funzioni e senso ( “iperluoghi”, “pieghe” dello spazio) da contrapporre ai vuoti che, proprio come strappi in una rete, diventano naturale anticittà, perdono funzione e senso; spariscono dalla geografia e dalla percezione delle comunità; sono assimilabili a scarti del processo di urbanizzazione (Berger, 2006). Si tratta di un moto dialettico, vorace conquistatore di nuove terre che, come l’Impero postcoloniale (Negri, * Il presente contributo è frutto di un lavoro collettivo: ogni paragrafo è stato di comune ideato e sviluppato. Tuttavia la redazione materiale del paragrafo 1 è di Enrico Formato; del paragrfo 2 è di Libera Amenta; il paragrafo 3 è scritto a quattro mani.

Libera Amenta, Enrico Formato

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Diffusione, enclave, scarti e tracce di felicità nella Piana Campana

Hardt, 2001), secondo una struttura rizomatica che ripete a diversa scala il medesimo topos, rende la conurbazione priva di frontiere verso l’esterno ma strutturalmente cariata (Benjamin, 1955), discontinua, polarizzata intorno ad alcune emergenze e collassata nei pressi di alcune altre. Rende il territorio privo di gerarchie senza però che si realizzi alcuna forma di isotropia. Le infrastrutture, tradizionalmente trattate da un punto di vista settoriale e/o ingegneristico, diventano elementi avulsi dal contesto, rappresentando talvolta barriere insormontabili (Fig.1).

Figura 1. Casaluce, lo spazio delle infrastrutture. A sinistra, fonte: Google Maps. A destra, foto di Libera Amenta.

Una condizione universale che assume caratteri estremi nella Piana Campana dove la Napoli diffusa trova il suo terreno di espansione1. Una conurbazione, esplosa disordinatamente a partire dai Sessanta e a tutt’oggi in espansione, che si nutre dell’antica Terra di Lavoro trasformando i luoghi mediante fibrillanti processi di consumo e dismissione. Un territorio, esito delle politiche pubbliche del dopoguerra ma privo di qualunque controllo pianificatorio, nella sostanza estremamente paradossale. La descrizione parte dall’agro aversano e si poggia su una ricerca in corso che ha per oggetto il Comune di Casaluce (10.000 abitanti, 9 kmq)2. Ne deriva un racconto che restituisce una città moderna, aggrappata parassitariamente ai nuclei antichi, spesso di fondazione romana, oramai vuoti, inutilizzati, dismessi, ad altra scala, come il cuore industriale della inner Detroit. Dà conto di una campagna – una volta felix per i sei raccolti annuali - in corso di desertificazione a causa dell’innalzamento della falda, a tratti violata da discariche, depositi a cielo aperto, parcheggi per i Tir che sfruttano la ponderosa rete infrastrutturale creata negli anni del boom dalla Cassa per il Mezzogiorno. S’interroga sulle piattaforme produttive, ampie quanto un intero nucleo urbano di diecimila abitanti, traboccanti di capannoni manifatturieri inutilizzati, centri commerciali, sale bingo e bowling, in bilico tra la fantasmagoria delle luci al neon delle insegne e i fantasmi che provengono dal vuoto agricolo e dalla dismissione delle fabbriche (di raro riutilizzate, è più facile costruire un altro capannone), dei centri storici, delle casine e delle masserie che punteggiano l’agro. Indugia sulla Reggia di Carditello con gli assi barocchi che solcano la piana fino all’infinito, su ciò che resta delle vecchie interpoderali con la vite ed il pioppo maritati; immagina l’acqua che pure ha scorso nei canali tracciati da Domenico Fontana, oggi ingabbiati nel calcestruzzo degli improvvidi argini. Il tutto riflesso nell’abbagliante luce di un Mediterraneo che a pochi chilometri è già mare, con le dune e le pinete punteggiate dai relitti delle seconde case abbandonate, frammenti di una guerra silenziosa ma immanente. Una guerra che utilizza il suolo come proprio campo di battaglia, rende il mare non balneabile, la campagna inutilizzabile, questa città banale, inefficiente, brutta. 1

Il Comune di Napoli presenta un’estensione estremamente limitata, pari a circa un decimo del territorio comunale di Roma. Tuttavia l’estensione vera della Napoli contemporanea è nella Piana verso Caserta, oltre le colline che descrivono la città costiera più densa. In questa conurbazione, estesa a circa cento Comuni distribuiti tra le Provincie di Napoli e Caserta vivono più di tre milioni di persone. 2 La ricerca fa parte di una convenzione stipulata tra il Dipartimento di Architettura dell’Università di Napoli ed il Comune di Casaluce, per la redazione di studi a supporto del nuovo Piano urbanistico comunale. Il responsabile scientifico della convenzione è il prof. Michelangelo Russo. Il gruppo di ricerca è formato da: Enrico Formato (coord.), Libera Amenta, Giovanni Bello, Ottavia Gambardella e Susanna Castiello. Nel territorio comunale di Casaluce, caso campione emblematico della città diffusa campana, è possibile riconoscere i caratteri comuni ai luoghi contemporanei dello sprawl: genericità, estensione, dispersione, frammistione città-campagna danno vita a paesaggi di scarto, a spazi che sfuggono alle classificazioni e resistono a nuove stabilità «rendendo necessaria una “tassonomia” diversa per indicare i nuovi modelli urbani, per i quali la categoria classica di “città” si rivela insufficiente» (Font, 2005: 11). I fenomeni di dismissione, trasformazione o compromissione delle aree agricole si intrecciano con le diverse forme di dispersione generate dall’abusivismo, dalla perdita di attrattività del centro antico, che di fatto risulta svuotato, e dal dominio delle grandi infrastrutture che generano uno spazio «derealizzato» (Choay, 1992) che non ha relazioni intenzionali e non è integrato con la città e il territorio. Libera Amenta, Enrico Formato

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Diffusione, enclave, scarti e tracce di felicità nella Piana Campana

Una condizione che non si risolve in un’asettica aspirazione alla legalità (che pure è una condizione necessaria). Città abusiva e città legale sono categorie che non servono molto a capire questa realtà: non di rado gli insediamenti legali sono confondibili negli esiti con le lottizzazioni abusive; né è raro scovare lottizzazioni legali poi sequestrate dalla Magistratura, con gli edifici semifiniti che da anni vivono nel limbo della sospensione di chissà quale giudizio e quale Tar. Senza dimenticare che le opere della Cassa per il Mezzogiorno, le superstrade che solcano la piana, gli argini del canali che - impedendone il ruolo drenante fanno sì che la falda salga fino al punto da riportare la piana ad una condizione pre-bonifica, in bilico tra palude e deserto – tutto ciò è l’esito più concreto proprio delle politiche pubbliche del dopoguerra. Senza stupirsi davanti al paradosso che fa caserme dei Carabinieri in edifici che sembrano case abusive, e fa somigliare le case più ricche alle ville di Scarface (Brian De Palma). Una realtà complessa, contraddittoria, come detto, paradossale: qui c’è il meglio e il peggio, come nella Gomorra di Saviano-Garrone con il sarto-camionista che ammira per caso dal televisore 7/24 dell’Autogrill, la famosa attrice, con il suo vestito alla premiazione degli Oscar. Proviamo ad osservare questo territorio in bilico tra struggente rimpianto, inarrestabile nevrosi anticivica, infinita possibilità di riscatto. Pensiamo ad una diversa possibilità per la città contemporanea che proprio da quest’Anno zero può provare a ripartire ribaltando i termini di ogni discorso tradizionale sulla città, il paesaggio, la difesa dell’agro. Il problema all’inizio è svolgere la matassa che intreccia bianco e nero, ritrovare i fili dei tanti discorsi interrotti, provare a ricomporre frammenti e vocazioni sommerse, ridare centralità e senso agli spazi aperti che pure sono stati fonte di ricchezza e benessere.

2 | Stato dei luoghi Dispersione/abusivismo Il particolare paesaggio dell’abusivismo formato dai tessuti urbani sorti senza autorizzazioni amministrative, in assenza o meno di pianificazione urbanistica, è molto diffuso in Campania e interessa quasi sempre le frange periurbane; è caratterizzato da bassi livelli di densità e di qualità fisica, da carenza di opere di urbanizzazione, generalmente strutturato in lottizzazioni estremamente frammentate, con piccoli appezzamenti prima recinti , poi occupati da unità abitative familiari (anche più alloggi ma in genere occupati da componenti della medesima famiglia), di altezza non superiore ai tre piani fuori terra (però sviluppati nel tempo), quasi sempre dotate di pertinenze esterne. La crescita spontanea e incontrollata di questi insediamenti contribuisce alla bassissima qualità urbana dell’intero sistema insediativo.

Figura 2. Casaluce, ortofoto e carta con l’individuazione (in blu) degli insediamenti abusivi sorti lungo Via Limitone.

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A sud di Casaluce, lungo la Via Limitone, si è sviluppata una “città latente” (Zanfi, 2008) fatta di insediamenti spontanei, attestati lungo un percorso matrice, a bassa densità e fuori dalle previsioni del Piano Regolatore Generale del 1986 che individuava quelle aree come Zone Agricole (Fig. 2). L’abuso edilizio si afferma in questi luoghi come pratica consueta e piuttosto sicura, basata sulla «quasi certezza di non incorrere in sanzioni e di potere regolarizzare in un secondo momento – se sarà conveniente – la propria posizione» (Zanfi, 2008: 59) traducendo la sregolazione in attività comune, con gravi ricadute sulla sfera pubblica. Poco fuori dal centro storico del Comune di Casaluce si ritrovano, d’altro canto, alcuni edifici residenziali plurifamiliari, esito di concessioni edilizie rilasciate illegittimamente (permessi annullati dall’Amministrazione, nel frattempo commissariata per “infiltrazioni camorristiche”, mentre i lavori erano in corso), rimasti incompiuti perché sequestrati dalla Magistratura (Fig. 3).

Figura 3. Casaluce, lottizzazioni abusive nei pressi della Casa Comunale, foto di Libera Amenta.

Dispersione/spazio pubblico I territori della dispersione privi di identità, in cui “un individualismo sfrenato” (Bianchetti, 2003) è prevalso rispetto a un progetto unitario e condiviso, sono caratterizzati da un complesso e variabile rapporto tra spazio pubblico e privato. I binomi interno/spazio privato, esterno/spazio pubblico sembrano non funzionare più. Gli spazi pubblici tradizionali appaiono sempre più come elementi labili nella forma urbana, attraversati da oggetti, ingombri che li rendono sempre meno interessanti per la collettività; si passa così dal concetto di spazio pubblico collettivo a quello di spazio aperto. Lo spazio pubblico risulta quindi segmentato, diventa evanescente (Bianchetti, 2003), sempre più residuale, esito della rapida urbanizzazione orizzontale ed incrementale; è strettamente connesso ai nuovi modelli di consumo in cui la mobilità privata su gomma gioca un ruolo centrale e i grandi contenitori commerciali/multifunzione si impongono come sostituti degli spazi urbani. Nelle aree della diffusione, povere di luoghi di socialità, di spazi pubblici e carenti nella dotazione infrastrutturale domina il protagonismo di tante “microindividualità” espressioni di nuove esigenze abitative e di vita della società contemporanea; la forma del costruito è data dalla ripetizione delle singole architetture ricche di dettagli superflui e dalla forma spesso incoerente rispetto alla funzione che ospitano. Le case nascono da inattesi “domino” di memoria corbusiana e, anno per anno, sono completate nelle finiture, spesso arricchite da decorazioni ed improbabili facilities per la ricreazione. In genere il muro di recinzione diventa l’oggetto privilegiato di accumulazione segnica; un coronamento di telecamere per la videoserveglianza completa il quadro e fa da contraltare alla piscina gonfiabile in giardino. Lo spazio pubblico è lontano, da raggiungere in auto, e prioritariamente legato al consumo. Difficilmente le strade tra le case hanno dimensione adeguata ad ospitare un marcipiede.

Dispersione/paesaggio agrario Il paesaggio agrario della piana può essere guardato da due punti di vista opposti. Da un lato, all’interno delle maglie agricole, si possono individuare numerose “aree negate” (De Lucia ed altri, 2012) prive di una funzione univocamente definita e contrassegnate da evidenti segni di degradazione. A ciò si aggiunge un fenomeno di dismissione dei fondi agricoli e delle dimore rurali che si trovano ora in forma di rudere (Fig.4).

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Diffusione, enclave, scarti e tracce di felicità nella Piana Campana

Figura 4. Casaluce, la dismissione “in nuce” dei fondi agricoli. Foto foto di Libera Amenta.

Numerose aree produttive sono disseminate nelle zone periurbane del comune e, organizzate per enclave, generano una moltitudine di aree interstiziali e paesaggi di scarto, spazi dall’incerta collocazione tra periferia urbana e campagne difficili da interpretare. D’altra parte è evidente però la permanenza, all’interno del sistema dello spazio rurale, di agricolture di pregio, tracce di felicità della Piana.

Dispersione/centro storico Nelle trame della città storica, dove è ancora visibile il tracciato della centuriazione ed i rapporti planovolumetrici sono tipici del castrum, vi è una diffusione a macchia di leopardo di aree sottoutilizzate o inutilizzate, diretta conseguenza di un fenomeno di contrazione urbana che attraversa il territorio urbanizzato (verso la periferia degli inseidamenti) e che genera un’importante perdita di qualità del tessuto più denso.

Diffusione/enclave e paesaggi di scarto I territori contemporanei sembrano caratterizzati dalla tendenza alla formazione di aree metropolitane organizzate per diverse specializzazioni e secondo gerarchie variabili. Nelle periferie delle maggiori città si sono sviluppati nuovi tessuti insediativi autoreferenziali e una diffusione incontrollata delle funzioni. Dal punto di vista morfologico, è possibile individuare una serie di ambiti spaziali caratterizzati da determinati livelli di densità, da assenza o presenza di soluzioni di continuità, da regole aggregative ben precise, relazioni di prossimità e separazione, e al cui interno è possibile riconoscere articolate relazioni funzionali e sociali. Lo scenario urbano della città contemporanea è fortemente cambiato rispetto a quello funzionale precedente a causa di fenomeni di specializzazione e segmentazione che hanno dato vita a enclave di diversa natura diffuse nella periferia. «La città è conosciuta in modo frammentario, per recinti, per punti; solo alcuni di questi diventano “luoghi” e assumono identità. Si attraversa una città “senza luoghi”, spostandosi da un recinto all’altro» (Pavia, 2002:45). La città è sempre più un insieme di “interni”, di recinti fortificati, dove domina la ricerca di sicurezza, di protezione. Implode nelle sue nuove eterotopie (Focault, 1994): supermercati, stazioni di servizio, discoteche, aeroporti, interporti, parchi a tema. Ciò comporta la formazione di spazi in-between, ossia di spazi residuali e non utilizzati tra una enclave ed un’altra. La dispersione urbana a Casaluce ha generato un arcipelago di spazi interstiziali, incuneati nei tessuti della città, diffusi in modo puntiforme che generano una nuova porosità del tutto diversa dai grandi “vuoti urbani” risultato dei processi di de-industrializzazione: drosscapes (Berger, 2006) che sono una naturale conseguenza dell’evoluzione dinamica di ogni città, generati principalmente dalla veloce urbanizzazione orizzontale (che conosciamo come urban sprawl), strettamente legati al drastico diminuire dei costi di trasporto (di beni e persone) che hanno caratterizzato il secolo scorso. La rapida crescita orizzontale delle città ha generato una forte riduzione delle aree non urbanizzate, causando la scomparsa dei confini tra città e campagna. Gran parte della superficie di territorio rimasta come “scarto” della rapida urbanizzazione orizzontale non è chiaramente definita o stabile. Il futuro aspetto della città dipende dalla reinterpretazione dell’insieme degli spazi interstiziali del paesaggio; occorre individuare gli scarti, identificare i problemi potenziali e le opportunità intrinseche per poterli riutilizzare. Ritroviamo una moltitudine di “rifiuti” dispersi in vari modi in tutto il territorio; la città contemporanea può essere considerata quindi come un “palinsesto di scarti e di rifiuti” dell’urbanizzazione orizzontale. La città, al pari di un organismo vivente, produce degli scarti; la sfida per i progettisti non è cercare un’urbanizzazione che non produca scarti, piuttosto è quella di integrare gli inevitabili rifiuti in una più flessibile strategia estetica e di progetto. Il riciclo dei drosscape, con l’interpretazione dello scarto come materiale per il

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progetto, crea un nuovo valore e un nuovo senso per l’esistente, trasformando gli scarti in figure di spicco (Ricci, 2012: 27).

3 | Nuovi paesaggi I cambiamenti che possiamo leggere nelle situazioni di diffusione come invecchiamento della popolazione, presenza di nuove fasce di immigrati, riduzione dei fondi pubblici, incremento del costo dei combustibili fossili, mettono in luce l’insostenibilità del modello della città dispersa e impongono un ripensamento della qualità dei sistemi urbani a bassa densità. Occorre individuare strategie di rigenerazione a partire dal riciclo e dalla messa in rete dei drosscape, dal riciclo del paesaggio agrario come grande spazio aperto pubblico, dal riciclo di attività all’interno delle maglie insediative diffuse basandosi sull’integrazione tra fasce sociali, tra identità ed inclusione. La messa a norma degli insediamenti abusivi, attraverso la tecnica della “densificazione” (funzionale, non necessariamente edilizia) può essere vista come volano economico atto a consentire la realizzazione di servizi e sottoservizi mancanti. Gli spazi urbani residuali, i territori di scarto dell’infrastruttura, le “aree negate”, rappresentano porzioni di territorio dalla forte valenza strategica all’interno delle dinamiche comunali di Casaluce e dell’intero quadrante insediativo.

Strategie di rigenerazione urbana per la città diffusa Dispersione insediativa, consumo di territorio agricolo e compromissione dei paesaggi periurbani rappresentano oggi alcuni tra gli effetti collaterali negativi dello sviluppo delle nostre città contemporanee. La “questione abitativa” «cioè la domanda espressa da quote rilevanti di popolazione della società in mutazione, di nuove opportunità residenziali, con costi insediativi competitivi rispetto al mercato della città concentrata (dove la scarsità di offerta crea sempre più di frequente fenomeni di gentrification)» (Russo, 2011:117), individua nelle fasce di territorio extraurbano i luoghi dove è massimizzata l’offerta di spazio disponibile a costi contenuti. I vantaggi dell’insediamento nella campagna urbanizzata si ritrovano nella possibilità di costruire una casa dotata di spazio e pertinenze esterne in grado di soddisfare le esigenze dei nuovi stili di vita che si vanno affermando nella contemporaneità, similmente a quanto accade nei processi di suburbanizzazione della città statunitense. In particolare nel Mezzogiorno la domanda di nuove residenze a costi contenuti proviene dagli strati sociali più deboli che decidono di abbandonare la città o che ne vengono espulsi e che urbanizzano, spesso senza regole, il territorio suburbano. Le campagne intorno alle città, che costituiscono il paesaggio dei territori agricoli periurbani (Donadieu, 1998) sono, per certi aspetti, i luoghi più instabili del territorio e quelli maggiormente investiti da processi di trasformazione; sono i suoli delle future periferie che diventeranno molto spesso aree interstiziali difficili da interpretare.

Figura 5. Casaluce. Strategie di rigenerazione urbana

Il riciclo dei paesaggi di scarto, i filamenti insediativi tra città e campagna, i margini periurbani e le aree di frangia che da essi si dipartono possono rappresentare una risorsa strategica per i nuovi paesaggi dell’urbanistica, per l’elaborazione di piani e progetti che propongano una nuova visione sulla dispersione e una rigenerazione dei paesaggi della diffusione e per la formazione di una rete di spazi aperti multifunzionali per la città Libera Amenta, Enrico Formato

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contemporanea. La riconfigurazione morfologica e urbanistica dei drosscape, spazi urbani e periurbani di svariata dimensione, in forte relazione con gli insediamenti urbani consolidati e con lo sprawl territoriale, è una strategia di rigenerazione urbanistica orientata alla costruzione di network paesaggistici a diverse scale, costituiti da spazi aperti abitati e caratterizzati da mixitè funzionale, capaci di dialogare con un’idea di città intesa come sistema di relazioni multi-scalari. Il riciclo dei drosscape interagisce strettamente con il mosaico degli spazi rurali urbani e periurbani e più in generale con le componenti strutturali del paesaggio urbano: le reti delle acque superficiali e profonde, le infrastrutture, i sistemi insediativi da riqualificare. 3

Azioni di rigenerazione La trasformazioni proposte sono raggruppabili in tre proposizioni strategiche (Fig.5), ognuna delle quali pensa ed opera, in modo differente, lo spazio aperto con finalità pubbliche. L’insieme di queste tre proposizioni sembra ribaltare l’approccio tradizionale su questi tessuti urbani, invertendo il punto di vista: considerando le parti urbanizzate come oggetto di trasformazione e, viceversa, le aree non edificate come risorsa in sé, da non urbanizzare. La prima proposizione è legata alla messa in rete delle emergenze storico-paesaggistiche ed archeologiche, le tracce di felicità (perché residui della Campania felix), mediante nuovi percorsi pubblici ciclo-pedonali e nuovi usi di manufatti oggi sottoutilizzati o abbandonati (tra i quali anche interi centri storici). Il secondo progetto è volto al recupero dei drosscapes prossimi alla compagine urbanizzata per la realizzazione di attrezzature produttive integrate con la campagna e sinergiche con le attività agricole. Il contraltare necessario di questo progetto è la colonizzazione naturalistica di una parte della enorme piattaforma produttiva, in parte dismessa, creata dall’Asi con i finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno. La terza proposizione, relativa al sistema urbanizzato, si basa sulla individuazione di incentivi per la trasformazione degli insediamenti, orienta i processi di dismissione in vista di un ribaltamento dell’accessibilità ai quartieri periferici con la strutturazione di greenbelt attrezzate e dotate di strade-parco capaci di sgravare i percorsi storici dai traffici di attraversamento. Per gli insediamenti spontanei si prospetta un’integrazione nelle maglie della nuova condizione rurbana, mediante una densificazione funzionale ed una costituzione di nuovi spazi pubblici di quartiere, sostanzialmente ottenuti trasformando la viabilità attuale in percorsi ciclo-pedonali.

Bibliografia

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Sitografia

De Lucia V. ed altri (2012), Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale di Caserta, disponibile sul sito della Provincia di Caserta, nella sezione “Le aree tematiche - Urbanistica” ftp://ftp.provincia.caserta.it/pub/Ptc%20Caserta/

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Riflessioni elaborate all’interno della ricerca (in corso) PRIN “RE-CYCLE. Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture della città e del paesaggio”, Unità di ricerca dell’Università di Napoli “Federico II”.

Libera Amenta, Enrico Formato

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Lettura e progetto di spazi urbani collettivi: il transetto processuale

Lettura e progetto di spazi urbani collettivi: il transetto processuale Alessandro Camiz Università di Roma “La Sapienza” DiAP - Dipartimento di Architettura e Progetto Email: alessandro.camiz@uniroma1.it Tel: 06 49919133

Abstract Secondo un parallelo tra morfologia urbana e biologia, la teoria del transetto ha preso in prestito una tecnica di campionamento utilizzata dagli zoologi, il transetto lineare. Si tratta di un metodo ideato per il censimento della fauna selvatica. Tracciando un asse attraverso il territorio è possibilecampionare le specie viventi e progettare il ripopolamento, evitando di introdurre esemplari non conformi ai caratteri di ciascun luogo. L’applicazione di questa teoria al progetto urbanoè stata ampiamente sperimentata dalla scuola del New Urbanism. Abbiamo applicato questo metodo ad alcune sperimentazioni progettuali, alle diverse scale, nella zona a Est di Roma, desumendo le regole per la trasformazione dall'analisi morfologica e dalla storia del luogo. Il transetto processuale aggiunge pertanto la dimensione diacronica ed evolutiva alla teoria del transetto classica.

Premessa teorica Il transetto lineare è stato ideatoper l’indagine geografica (Von Humboldt e Bonpland 1793) e in seguito sviluppato in botanica e negli studi di ecologia (Buckland et al. 1993). Si tratta di una tecnica per campionarele diverse specie in un determinato territorio e per misurare la distanza di ciascun esemplare da un punto. Il movimento del New Urbanism (Katz 1993, Duany 2002) a partire dagli anni ‘80 ha sperimentato con successo l'applicazione di questa teoriaal progetto urbano,derivandone unatecnica basata sui parametri di densità e distanza, raccogliendo anche la richiestaperla qualità urbana che era stata espressa dai movimenti di base. Utilizzando la densità demografica e la distanza dal centro città, il transetto urbano-rurale (Bohl, Plater-Zyberk 2006) è stato concepito per ottimizzare il traffico pedonale e veicolare nel progetto di nuovi insediamenti, utilizzando diverse densità per ottimizzare i flussi di traffico in modo da contrastarela crescita urbana indiscriminata, e introducendo pertanto una sostanziale innovazione rispetto alla tecnica dello zoning. Diversi autori (Lejeune 2000, Duany et al. 2010, Correa 2009) hanno applicato tale teoria al progetto urbano e di paesaggio con grande successo, anche diversi enti locali negli Stati Uniti hanno adottato questatecnica per la pianificazione urbana. L’articolo prende in esame l'applicazione della teoria transetto al progetto di spazi pubblici in diverse aree adEst di Roma: la proposta di un parco archeologico a Castel Madama (RM) (Camiz 2009), il progettoper il Casilino 23di Ludovico Quaroni, ora Villa de Sanctis (Strappa 2012), il progetto di un’unità abitativa orizzontale energeticamente autosufficiente a Casal Monastero, e la realizzazione di un orto didatticonel parco del Casale Garibaldi, Roma. Ognuno di questi casi di studio, a una scala diversa, implementa un nuovo aspetto della teoria del transetto, aggiungendo ai parametri tradizionalmente adottati, la densità e la distanza, anche la definizione dei tipi, dei tessuti urbani e rurali, la rete stradale e soprattutto i siti archeologici, considerando l'evoluzione processuale in modo da completare il processo di sviluppo urbano in conformità con la sua storia. L'obiettivo è di sviluppareil transetto per aderire alla morfologia e alla storia del sito, con particolare attenzione alla progettazione del paesaggio. Alcuni di questi risultati sono stati pubblicati (Camiz 2011, Strappa 2012) senza evidenziare le implicazioni per la teoria del transetto, altri sono in corso di realizzazione come azione partecipata da parte di comitati di base locali.

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Lettura e progetto di spazi urbani collettivi: il transetto processuale

Figura 1. Il transetto urbano-rurale con sei zone normative. (Duany Plater-Zyberk & Company)

Parco archeologico a Castel Madama (RM) L'azione "Workshop internazionale di architettura sostenibile in area archeologica" è stata proposta nell'ambito della Agenda 21 Locale della provincia di Roma ed è stata implementata nel 2008 in collaborazione tra la School of Architecture of the University of Miamie la Facoltà di Architettura " La Sapienza "(Camized. 2011). Trenta studenti di architettura hanno lavorato su diversi progetti a Castel Madama e soprattutto sulla progettazione del paesaggio lungo il tracciato dei quattro antichi acquedotti aniensi (Anio Novus Anio Vetus, Aqua Marcia, Aqua Claudia). Tra le realizzazioni del workshop occorre citare qui il vincolo archeologico proposto lungo l'intero percorso dei quattro acquedotti nel territorio comunale. La striscia del vincolo è stato dimensionatacon una ampiezza di 71 m. (pedes CCXL) secondo il modello dell'antica iugeratio. Il vincolo proposto è stata inserito nella variante generale del piano regolatore locale ed è ora il presupposto per la costruzione di un parco archeologico degli acquedotti che colleghi l'alta valle dell'Aniene con Roma, con una dimensione (70 km) paragonabile a quella della Grande Muraglia cinese. Il percorso dei quattro acquedotti è stata desunto dalle indagini archeologiche (Giuliani 1966). Questo percorso, come abbiamo verificato durante la ricerca, presenta alcune incertezze, soprattutto nelle parti sotterranee. In attesa di studi specifici e indagini approfondite, abbiamo proposto un vincolobasato sula misura del lato più lungo di unoiugerum (circa 71 m), il sistema mensurale utilizzato in epoca romana per la partizione della terra, in modo da costituire un corridoio verde lineare (Angrilli 2002) abbastanza largo per contenere eventuali deviazioni dei percorsi indicati in letteratura. La permanenza del sistema iugeralenelle partizioni agricole correnti è stato utilizzato per la costruzione di una fascia adiacente agli acquedotti come sistema semantico per comunicare il loro percorso alla scala di paesaggio. Il modello è stato fornito dagli acquedotti stessi ed è essenzialmente una griglia quadrata di 240 piedi. Questa stessa griglia è stata utilizzata nella progettazione del paesaggio per produzioni agricole specifiche quali vigneti e uliveti (Deretta, Uras 2010). Le piantagioni forniscono un'indicazione della presenza degli acquedottialla scala di paesaggio, anche quando il percorso è sotterraneo. Il sistema mensurale romano è stato considerato come modello immateriale desunto dalla storia e utilizzato nel progetto come se fosse un transetto processuale.

Figura 2. Tracce di antichi orti romani venute alla luce durante gli scavi per il cantiere della metropolitana, via Formia, Roma.

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Casilino 23 (Villa de Sanctis), Roma Questo caso è parte di una ricerca (Strappa 2012) che ha indagato sui processi formativi dei tessuti rubani e rurali di una zona della periferia est di Roma, il cosiddetto Casilino 23. L'identificazione del processo formativo del tessuto urbano è diventato cruciale per il progetto, che si propone di continuare questo processo in atto, dopo aver preso atto della crisi della città contemporanea. Il piano regolatore di Roma del 1931 prevedevaqui lo sviluppodella città attraverso un tridente come continuazione dell'asse urbano di via Malatesta. Questo disegno è stato obliterato dal nuovo piano regolatore del 1962 e dal piano di zona di Ludovico Quaroni, ma il tridente è ancora leggibile nella rete stradale. L'asse di via Malatesta collega l'asse di viale delle Gardenie a Centocelle, il ramo meridionale del tridente raggiunge via Ceprano, e la Via Federico Delpino incontra il Forte Prenestino. Il ramo meridionale coincide con una delle direzioni dei raggi del quartiere disegnato da Quaroni. L'asse non solo corrisponde a una delle diverse direzioni del ventaglio, ma alla più importante, quella che determina la posizione della piazza principale dove si trovano la chiesa, il mercato e la scuola. L'intervento di Quaroni, forse casualmente, ha raccolto uno degli assi del tridente previsto dal piano del 1931 e la piazza San Gerardo Maiella si trova alla fine di questo asse. L'asse determina così la posizione della piazza centrale, allineando il campanile della chiesa e individuando la posizione del centro. L'asse sud del tridente del '31 è stato proposto come un piano generale all'interno di un laboratorio di progettazione. Lungo questo asse - usato come un transetto - sono stati campionati i tipi di edifici. In questo progetto abbiamo voluto utilizzare per ogni zona il tipo edilizio prevalente, come se si trattasse di una specie animale.

Unità abitativaorizzontale energeticamente autosufficienteaCasal Monastero, Roma La stessagrigliadegli orti romaniè stato accoppiata conil modellodel tessuto urbano didomus, vale a dire35,50x17,70m. ca. (Caniggia, Maffei1979)comegriglia per un altroprogetto sperimentale, il progetto di una Unità abitativa orizzontale energeticamente autosufficiente a Casal Monastero(Zappalà 2012). Questo progettomostracome l'anticagriglia urbanaromana ela reterurale sianobasati sullo stessosistemamensuralebasata sull iugerum,e possono pertanto essere combinatinel progetto urbano e di paesaggio. Questa composizioneè stata studiata con l'applicazione di tecnicheprocessualispecifiche(Caniggia, Maffei1984), definendo le case a corte su due livelli, con otto appartamenti ciascuna,e le case a schierasu due piani.Il progettocomprendeortiprivatie comuni, giardini pensili, aree umideper il compostaggio, la raccolta di acqua piovanaper l'irrigazione eper l'usoresidenziale, pannelli fotovoltaici, riscaldamentosolare termico dell'acqua, eha propostoun modello insediativo completamenteautosufficienteconcepito peròconun profondoradicamentonella storia antica. Il progetto nonmette in atto l'imitazione delle forme storicheereditate, nonècerto revivalistaopostmoderno, maè la continuazione diun processo in corsocon radicimoltoprofonde nellastoria antica, in modo dadarevita contemporaneaall'organismoarchitettonico, conun preciso riferimentoad unodei piùmoderniarchitetti italiani,AdalberoLibera, ealla suaunità di abitazioneorizzontalealTuscolano, Roma1950-1954.

Lavangaquadra: Orto didattico al Casale Garibaldi, Roma Il ministero dell’informazione del governo laburista inglese lanciò negli anni ’40 una formidabile campagna ideologica dal titolo “dig for victory” (scaviamo per la vittoria) per la realizzazione di orti sociali nel territorio britannico con il fine dichiarato di sconfiggere la barbarie nazista con l’agricoltura: dall’emblema di quella campagna, rappresentante un piede che spinge nella terra una vanga di tipo inglese, abbiamo tratto il nome della nostra associazione Lavangaquadra (Nova Arcadia), un’organizzazione di volontariato senza scopo di lucro con finalità di studio e realizzazione e di orti e/o giardini sociali condivisi con attenzione alle richieste degli associati e della cittadinanza. Le attività, svolte fino ad oggi sono tese alla costruzione di una community di persone e associazioni interessate a poter coltivare un orto nel sesto Municipio del Comune di Roma. Attraverso facebook, con il gruppo “basta chiacchiere vogliamo gli orti sociali subito”, si sono liberamente aggregati numerose cittadine e cittadini che a vario titolo hanno partecipato all’iniziativa: è stato creato il sito www.lavangaquadra.com con cinque liste di discussione, sempre utilizzando software open source. Attraverso gli strumenti digitali questa community si è incontrata realmente intorno al progetto di partecipazione: tramite il sito e tramite questionari cartacei si è raccolta, con il fine di rappresentarla in forma aggregata, la domanda di orti nel sesto Municipio, fino ad ora sono state raccolte cento richieste dettagliate di cittadini per un piccolo orto. Questi aspiranti ortisti sono stati coinvolti nel progetto attraverso assemblee, cene, riunioni e soprattutto azioni sul territorio, quali la pulizia di aree verdi, la realizzazione di piccole aiuole e la distribuzione di piantine (vivaio diffuso). Sono stati prelevati campioni del terreno in tre distinte località per verificare la presenza di metalli pesanti, nei tre i siti la presenza di piombo e zinco è risultata assolutamente rilevante e oltre i limiti di legge (Decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale, allegato 5, tab. 1. Concentrazioni soglia nel suolo e nel sottosuolo per siti ad uso Verde pubblico, privato e residenziale). In presenza di suoli così Alessandro Camiz

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Lettura e progetto di spazi urbani collettivi: il transetto processuale

inquinati si sono cominciate a sperimentare le tecnologie per bonificare, ovvero coltivare con terre non inquinate riportate da altri siti. Al Casale Garibaldi, giardino del Comune di Roma affidato all'Associazione “Casale Garibaldi”, come previsto nel progetto di partecipazione al bando, si è avviato un piccolo orto didattico, dove si stanno attuando sperimentazioni, in forma di laboratorio municipale dell’eco museo “ad duas lauros”(Santilli 2011) per la coltivazione di verdure commestibili in area metropolitana. Aggregando altri cittadini intorno al laboratorio dell’Orto Didattico, anche tramite le scuole del quartiere e i gruppi scout, sono stati avviati tre bancali di coltivazione in terreno contaminato con l’obiettivo di fare analizzare le verdure per verificare la presenza di piombo. E' stata avviata una stazione di compostaggio dell’umido di comprensorio. Ultimo esperimento è stato la realizzazione di aiuole sopraelevate (raised bed) riempite con terriccio biologico per la coltivazione di verdure commestibili.

Figura 3. Tracciamento di aiuole sul modello degli antichi orti romani all’orto didattico del Casale Garibaldi, Roma.

Tabella I. Inquinamento del suoloda metalli pesanti Sito Parco Sangalli, Roma Via Pisoniano, Roma Casale Garibaldi, Roma QuantitàAmmessa

Piombo (Pb) mg/kg s.s. 96 138 223 100

Zinco (Zn) mg/kg s.s. 92 89 249 150

Mercurio (Hg) % < 0,32 < 0,32 0,62 0,32

All'interno del sito più inquinato, nel parco di Casal Garibaldi, il gruppo sta attualmente sperimentando una tecnologia per la fitoestrazione del piombo dal terreno tramite una piantagione di Brassica Hirta (Sinapis alba L.) che assorbe una percentuale di piombo nel suolo dopo due anni. Tutti questi elementi sono stati progettati seguendo la rete iugerale e utilizzando come modello gli orti romani trovati nelle vicinanze. Questo caso mostra lo sviluppo di un orto didattico nel quartiere basato sul modello fornito dalle evidenze archeologiche di tecniche agricole romane. Il parco urbano, un luogo collettivo dove la natura è protetta dallo sviluppo industriale, detiene nella società di oggi un notevole valore simbolico e materiale (Ippolito 2006).Si rifletta sul fatto le tre grandi religioni monoteistiche promettono ai propri adepti come premio nell’aldilà un giardino. Sembra che il verde abbia un carattere archetipico e sovrannaturale, che si tratti di una premialità teologica. Eppure nella metropoli contemporanea, nonostante le normative e gli standard urbanistici, il verde –divorato dalla rendita– è sempre meno e gli abitanti sono sempre di più, attratti da logiche globali di mercato. Le risorse del pianeta sono limitate, e giorno dopo giorno interi ecosistemi stanno lentamente scomparendo. La realizzazione di una rete di orti urbani, una delle esperienze più interessanti di socializzazione della terra, è utile anche per la lotta contro il riscaldamento globale con l’incremento della biomassa nelle aree metropolitane.

Utilità del transetto processuale Tutti i casi di studio, a scale molto diverse, implementano una versione sperimentale della teoria del transetto processuale sulla base del presupposto che per progettare quello che sarà, abbiamo bisogno di sapere bene che cosa c'è ora e soprattutto quello che c'era prima: introdurre la dimensione temporale nella teoria del transetto ci porta a riconoscere l'evoluzione processuale dei tipi e dei tessuti nelle aree urbane, metropolitane e rurali, per trovare ciò che altrove - nello stesso senso finalizzato al progetto - è stato chiamato “variante diacronica di un Alessandro Camiz

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tipo” (Caniggia Maffei 1979). Questo metodoci permette di trovareall'interno di undeterminato territorio le informazioni di baseda utilizzareper il rinnovocontemporaneo. Il transetto processuale consente lo studio di un determinato territorio, con attenzione alla sua storia passata, ma finalizzato alla sua futura trasformazione: solo se la trasformazione è compatibile con il processo ancora in atto, il progetto può essere realizzato senza alterare l'equilibrio del sito. La tesi dell’introduzione della quarta dimensione nella teoria del transetto si colloca nel progetto urbano radicato, capace di inserire una identità nei contesti particolarmente sensibili quali i paesaggi fragili, le periferie metropolitane e i piccoli centri storici.

Bibliografia Angrilli, M. (2002). Reti verdi urbane, Quaderni del Dipartimento di Architettura di Pescara, Roma, Palombi editori. Buckland S.T., Anderson D.R., Burnham K.P., Laake, J.L. (1993). Distance Sampling: Estimating Abundance of Biological Populations. London, Chapman and Hall. Camiz A. (2008). Luoghi collettivi significanti: il sito e le deformazioni del modello. Architettura e città. Questioni di progettazione. Panella R. (ed.) Roma, Gangemi, 111-123. Camiz A. ed. (2011). Progettare Castel Madama. Lettura e progetto dei tessuti e del patrimonio archeologico. Roma, Edizioni Kappa. Camiz A. (2011) Riqualificare la periferia con nuovi tessuti: il Casilino 23 (Villa de Sanctis), Roma, in Il progetto di architettura fra didattica e ricerca, La Ricerca, vol. 2**, D’Amato C. (ed.), Bari, Polibapress: 827836. Caniggia G., Maffei G.L. (1979). Lettura dell’edilizia di base. Composizione architettonica e tipologia edilizia. 1. Venezia, Marsilio. Correa, J. (2006). Counterpoint: Transect transgressions, Places, 18(1), 24-25. Correa, J. (2009). Seven Recipes for the New Urbanism, Morrisville, N.C., Lulu. Deretta A., Uras S. (2010). Progetto del Museo e del Parco Archeologico dell’Acqua Claudia. Architettura e Città, 5: 220-222. Duany, A. (2002). Introduction to the special issue dedicated to the transect, Journal of Urban Design, 7(3), 251260. Duany, A., Speck, J., Lydon, M. (2010).The Smart Growth Manual. New York, McGraw-Hill. Giuliani, C.F. (1966). Forma Italiae, regio I, volumen tertium,Tibur, pars altera. Roma, E. De Luca. Ippolito A. M. (2006).Il parco urbano contemporaneo: notomia e riflessioni. Firenze, Alinea. Katz P. (1993). The new urbanism: toward an architecture of community,New York, McGraw-Hill. Lejeune J.F.,(2000). Le Nouvel Urbanisme ou le temps retrouve, in Dynamic City, Culot, M., Filser N., Rabinowicz M. (eds.), Milano, Skira: 155-167. Santilli, G. (2011). Piano Particolareggiato Comprensorio Direzionale Orientale Casilino di cui alla delibera n. 148/2002 del Consiglio Comunale di Roma. Revisione dell’assetto urbanistico e valorizzazione delle aree a verde pubblico. Realizzazione di un ecomuseo. Mozione n. 002/2011, Consiglio Municipale Roma 6. Sereni E. (1961).Storia del paesaggio agrario italiano. Bari, Laterza. Strappa G. (1995).L’unità dell’organismo architettonico. Note sulla formazione e trasformazione dei caratteri degli edifici, Bari, Dedalo. Strappa, G. (2005). The question of “proper” and “improper” types.“Urban Morphology”, 9 (2): 126-127. Strappa, G. (ed.) (2012).Studi sulla periferia est di Roma. Milano, Franco Angeli. Von Humboldt, A., Bonpland A. (1793). Essay on the Geography of Plants, London, University of Chicago Press. (2009) Zappalà M. (2012).Unità di abitazione energeticamente autosufficiente a Casal Monastero, in Naturally… Architecture. The sustainable project, “Quaderni di Architettura & Città”, Milano, Di Baio: 142-143.

Alessandro Camiz

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Nuovi strumenti (fenomenologici) per la rigenerazione urbana: l’apporto del racconto e del romanzo nel progetto dello spazio periurbano

Nuovi strumenti (fenomenologici) per la rigenerazione urbana: l’apporto del racconto e del romanzo nel progetto dello spazio periurbano Francesco Marocco Università degli Studi della Basilicata International PhD in Architecture and Urban Phenomenology Email: kekkomarollo@gmail.com Mariavaleria Mininni Università degli Studi della Basilicata Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo (DICEM), docente di Urbanistica Email: mv.mininni@poliba.it

Abstract Lo studio proposto cerca dentro la nozione di paesaggio strumenti di interpretazione della realtà contemporanea sensibili e tali da aiutare a delineare proposte per la loro trasformazione. La proposta muove da un territorio della contemporaneità molto impegnativo, la periurbanità. Il periurbano è lo spazio più abitato e mostra pratiche inedite che reclamano una presa di responsabilità e pongono un quesito di fondo: si può progettare la periurbanità o sarà ancora a lungo esito di un progetto senza autore? In un’epoca nella quale il progetto dello spazio pubblico interessa sempre di più la riqualificazione di aree interstiziali e intercluse, la presente tesi sostiene la centralità di una riflessione e di un uso del progetto nello spazio periurbano. A tal proposito, assumendo come sfondo che il progetto dello spazio periurbano debba innanzitutto confrontarsi con la sua materialità non meno che con la sua rappresentazione, lo studio indaga la validità delle narrazioni (fotografiche, cinematografiche, documentaristiche e soprattutto letterarie) concentratesi sullo spazio periurbano, che hanno contribuito a creare una mappa cognitiva aperta del paesaggio, nella quale non solo la dimensione fisica dei luoghi, ma anche il modo in cui essi vengono percepiti da chi li abita o li attraversa, assurge al ruolo di istanza progettuale. La metodologia di lavoro prende avvio da una riflessione sul contesto materano nella quale essa viene elaborata, e sul valore che la narrazione Leviana del Cristo si è fermato a Eboli ha dimostrato nel fondare un’identità e un immaginario associati ai luoghi materani. Parole chiave periurbano, romanzo, geografia emozionale

1 | Oltre la dimensione del visibile Lo studio parte dalla consapevolezza che, a partire dalla seconda metà del XX secolo e in particolare negli ultimi tre decenni, la velocità dei cambiamenti in atto sulla città e sul paesaggio contemporanei è aumentata, assottigliando la grana delle trasformazioni e rendendone opaca la lettura. Il rapporto tra città e campagna ha visto l’insorgere di nuovi fenomeni, di deurbanizzazione (ritorno alla campagna) e controurbanizzazione (occupazione di spazi interstiziali), che da un lato accompagnano il declino della società rurale, e dall’altro lato misurano l’inadeguatezza dell’infrastrutturazione alle logiche dell’abitare decentrati (Mininni, 2012)1. Il moltiplicarsi delle tassonomie della dispersione autorizza a parlare di Paesaggi liquidi2, per denominare tutti quegli spazi di recente sedimentazione che mutano rapidamente sul territorio europeo: paesaggi costieri, paesaggi abusivi, paesaggi periurbani, ecc. In taluni casi si tratta di veri e propri spazi inediti, esito di un progetto senza autore, e sul cui progetto stesso la disciplina urbanistica è chiamata a riflettere, accogliendo come prima 1 2

Mininni M. (2012), Approssimazioni alla città. Urbano, Rurale, Ecologia. Donzelli, Roma. Liquid Landscapes è il titolo del Catalogo della VI Biennale Europea del Paesaggio di Barcellona, edito nel 2012.

Francesco Marocco - Mariavaleria Mininni

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Nuovi strumenti (fenomenologici) per la rigenerazione urbana: l’apporto del racconto e del romanzo nel progetto dello spazio periurbano

missione quella di fondare una antropogeografia di questi spazi, per descrivere non solo la loro consistenza fisica, ma anche il modo in cui essi vengono percepiti dalle persone che li abitano e li attraversano. In questo senso l’architettura e l’urbanistica hanno perso il primato nella capacità di raccontare i luoghi e richiedono l’apporto di professionalità extradisciplinari (sociologi, geografi, ecologi, …) per adeguare le proprie analisi alla complessità dei fenomeni. La necessità di un’adeguata rappresentazione nasce dalla consapevolezza che la descrizione e l’analisi siano vincolate all’azione progettuale e a essa partecipino (Viganò, 2010)3, se si tiene conto che il destino di un luogo dipende innanzitutto dalla comprensione e dall’interpretazione che si riesce a dare dello stesso (Zanfi, 2008)4. Trasformare i luoghi in evidenze per il progetto vuol dire quindi rilevare la consistenza fisica degli stessi, ma anche porre l’accento sulla loro ricchezza di dimensioni immateriali e invisibili che la logica della rappresentazione cartografica non riesce a cogliere. Per far questo il filtro culturale adottato guarda al Paesaggio, analizzando gli esiti del lungo processo di modellamento tra territori e società, studiandone la vasta gamma di variazioni, dalla più completa aderenza tra luoghi e abitanti, alla loro totale estraneità. Se prima dell’avvento del paradigma cartografico, il territorio era considerato come l’esito di una serie di relazioni visibili e invisibili che, in tempi diversi, gli esseri umani stabilivano con il loro ambiente, la cartografia privilegia invece solo la dimensione della visibilità (esiste solo ciò che è rappresentabile su un piano cartografico) e della atemporalità (tutti i segni che appaiono sulla mappa vengono resi contestuali) e finisce con il trasformare le storie in segni, separandoli dalle pratiche da cui sono stati prodotti (De Candia, 2008)6. Riscattare la mortificante nozione di reale appiattita sulla dimensione del visibile vuol dire catturare le relazioni e i fermenti immateriali che, sotto il visibile, aldilà della rappresentazione, pullulano sul territorio, agendo sempre in complementarietà, e non in alternativa, agli strumenti tradizionali dell’urbanistica. Tra le professionalità che si affiancano ai saperi tecnici, nella rappresentazione della città, ci sono gli sguardi artistici. C’è un paese, che costituisce il sostrato materiale, geografico, il grado zero, da cui si modella un paesaggio. Questo passaggio avviene attraverso un processo di artialisation: una sorta di realizzazione attraverso l’arte (Roger, 2009)7. Essa avviene in situ – ed è l’opera di coloro che intervengono direttamente sul suolo e lo modificano nel tempo seguendo i modelli culturali – e in visu – ed è l’opera dei pittori, degli scrittori, dei fotografi, che intervengono indirettamente sul paesaggio costruendo un modello che influenzerà la maniera collettiva di guardarlo. Gli sguardi maggiormente “indisciplinati”, del cinema, della fotografia, delle arti visive e della letteratura, mostrano pertanto una capacità di portare alla luce la dimensione emozionale dei luoghi, tutte quelle immagini stratificate che sono espressione del bagaglio culturale e dell’immaginario della gente che lo abita, lo osserva, lo attraversa. Il contributo della fenomenologia della percezione 8 reclama, accanto a tutte le istanze esperibili fisicamente, l’esistenza di altre, ugualmente attive nell’ordinamento di uno spazio, che risiedono in una dimensione sganciata dall’esperienza fisica e legata invece al dato emotivo e culturale. Esiste una semiosfera di linguaggi, di comunicazioni e di segni che avviluppa la crosta terrestre. Attorno alla natura fisica dello spazio, si forma uno strato denso e intricato di segni (Lotman, 1985)9: il paesaggio diventa l’insieme del substrato fisico e della sua incrostazione di significati produttivi, sociali, estetici, che vanno anche oltre la dimensione del visibile (Paba) 10. Accanto alla geografia fisica, la geografia emozionale reclama la sua validità epistemologica (Bruno, 2002)11.

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Viganò P. (2010), I territori dell’Urbanistica. Il progetto come produttore di conoscenza. Officina edizioni, Roma. Zanfi F. (2008), Città latenti. Un progetto per l’Italia abusiva, Bruno Mondadori, Milano. 6 Decandia L. (2008), Polifonie urbane. Oltre i confini della visione prospettica, Meltemi, Roma. 7 Roger A. (2009), Breve trattato sul paesaggio, Sellerio Editore, Palermo. 8 Accanto alla dimensione visibile dei luoghi esistono altre geografie, come per esempio le sensous geographies (Rodaway) L’attenzione trascorre dagli occhi al corpo intero, alla percezione sinestetica dell’ambiente nella quale le informazioni provenienti dai diversi sensi si contaminano. La percezione non è più una questione tra osservatore e fenomeno osservato, quanto un’interazione tra soggetto percipiente e ambiente percepito (Merleau-Ponty). Ritrovare nell’esperienza percettiva il corpo operante ed effettuale, intreccio di visione e movimento. Il sentire avviene con il corpo intero, che si muove sentendo una stanza, una strada, una città o un paesaggio. Lo spazio non si pone davanti al soggetto, ma circonda il corpo. Il nostro corpo non è nello spazio come le cose, ma lo abita (Merleau-Ponty). Alla percezione ottica si sostituisce la percezione aptica, letteralmente “che entra in contatto con”, composta da un’esperienza tattile vera e propria, unita al senso cinestetico che fornisce informazioni sulla posizione del corpo e i suoi movimenti. Lo sguardo aptico è uno sguardo che vede, tocca e si sposta (Bruno). 9 Lotman J.M. (1985), La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Marsilio, Venezia. 10 Paba G. (1998), Luoghi comuni. La città come laboratorio di progetti collettivi, Franco Angeli, Milano. 11 Giuliana Bruno, nel suo Atlante delle emozioni, edito da Bruno Mondadori nel 2006, sottolinea in particolare la validità degli atlanti delle emozioni, mappe in movimento in grado di collegare gli affetti ai luoghi, di connettere “topografie esterne ed interne” fatte di itinerari potenziali, di traiettorie vissute, di narrazioni situate in cui possa essere espresso, rimettendo insieme visibile ed invisibile, il caleidoscopio delle diverse esperienze percettive che marcano di significati e di senso gli spazi delle città. La geografia emozionale si affianca e integra i dati della geografia fisica per comprendere appieno lo spirito e l’identità dei luoghi. 4

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La posizione su cui si fonda il contributo di questo studio è in definitiva che le istanze emotive e culturali che pullulano negli spazi della città contemporanea sono indissociabili dall’evidenza fisica dei luoghi e sono determinanti tanto nella costruzione di un’identità degli stessi luoghi, quanto nelle trasformazioni materiali e immateriali che su di essi sono attive. Non solo, per dirla con Gilles Clement, “ogni luogo sulla terra [...] accetta una leggenda che associa in modo durevole l'uomo al suo territorio”12, ma questa leggenda è parte insostituibile in tutti i processi di modificazione che ogni luogo subisce.

2 | Urbanistica e Racconto, una nuova posizione L’accostamento dell’Urbanistica al Racconto non può prescindere dal confronto con le riflessioni di quanti hanno già provato a misurare il vantaggio di una contaminazione extradisciplinare e in particolare con il lavoro di Bernardo Secchi, Il racconto urbanistico (1984)14 e con l’Atlante del Romanzo Europeo 1800-1900, di Franco Moretti (1997)15. Se Bernardo Secchi è il primo a istituire un legame un legame tra racconto e fenomeni urbani, riconoscendo che tanto l’urbanistica quanto il dispositivo del racconto hanno per oggetto una trasformazione, e in entrambi permane una struttura narrativa, che subisce nel tempo variazioni semantiche ma mantiene saldamente la propria morfologia, Moretti delinea invece una vera e propria teoria dello spazio come elemento morfogenetico, secondo la quale esiste una mutua interazione tra forza geografica e forza narrativa: a una determinata spazialità deve per forza corrispondere un certo tipo di storia, e, viceversa, lo svolgersi di una narrazione in un luogo concorre alla definizione di una determinata geografia di quel preciso posto 16. Il confronto con questi riferimenti fondativi, dà vita a una nuova posizione, una visione paesaggista in maniera conclamata che riconosce come le pratiche e le azioni viste dentro i racconti concorrano alla traduzione spaziale dello spirito di un luogo. La finalità del lavoro è quella di riconoscere non solo istanze analitiche che aiutino a veder meglio nella mutevole densità di ‘storie’ che pullula negli spazi della contemporaneità, ma anche quella di lavorare in chiave progettuale, utilizzando il dispositivo del racconto come uno strumento di progetto, immaginando e costruendo nuove azioni e nuove storie, che uno spazio modificato da un progetto di trasformazione “poetico e sensibile” potrebbe in futuro contenere. Un altro presupposto fondamentale da tenere in conto per comprendere la metodologia e gli obiettivi che sottendono la presente tesi, è il forte radicamento territoriale che lo studio dimostra con il contesto materano nel quale esso prende vita17. La riflessione è stata infatti innescata proprio muovendo dalla consapevolezza del valore identitario che la narrazione leviana del Cristo si è fermato a Eboli riveste per questi luoghi. Il romanzo di Carlo Levi costituisce un riferimento fondativo per l’identità materana ed esemplifica in maniera lampante il valore che le narrazioni rivestono nella descrizione e nella rappresentazione delle dimensioni fisiche e di quelle emozionali stratificatesi sui luoghi. Ogni racconto, infatti, porta a galla il sovrapporsi e lo stratificarsi delle storie che giacciono su un luogo e che riemergono come una sorta di profondità latente. Le narrazioni, i racconti letterari, le fotografie, i dipinti, e le riprese che si depositano su un luogo, servono cioè a consolidare il suo carattere specifico, rendendolo raffigurabile, quindi riconoscibile. Un luogo esiste solo se raccontato18, si potrebbe dire, perché un luogo inizia ad esistere nell’immaginario di chi lo abita o lo nomina solo nel momento in cui esso inizia a essere rappresentato. Oppure, che è lo stesso: i luoghi non esistono, se non nelle rappresentazioni che di essi vengono date. Non esistono perché non appartengono al sempre, ma alla magia di un istante che non si ripete, e perché l'autentica, più profonda natura di un luogo si compone di elementi immateriali (Di Paolo, 2012)19. I romanzi, in particolare, riescono ad avvicinare la messa a fuoco sul pulviscolo di pratiche che affollano i paesaggi della contemporaneità in maniera arguta e calzante, apportando tutta una serie di informazioni 12

Clement G. (2011), Il giardino in movimento, Quodlibet, Macerata. Secchi B. (1984), Il racconto urbanistico. La politica della casa e del territorio in Italia, Einaudi, Torino. 15 Moretti F. (1997), Atlante del romanzo europeo 1800-1900, Einaudi, Torino. 16 Va ricordato anche che sotto la direzione dello stesso Secchi, tra l’86 e l’89, la rivista Urbanistica pubblica una rubrica intitolata Le città letterarie, il primo tentativo di indagare il legame tra Romanzo e Città: vengono scelti alcuni romanzi (XIX secolo e inizio XX), ritenuti in grado di suggerire al lettore esperto nuovi spunti e linee interpretative del fenomeno urbano. Si tratta di una rassegna antologica più che dichiaratamente metodologica, il cui obiettivo è quello di indicare una possibile via di connessione tra romanzo e città, molto più che di proporre un programma rigoroso di lavoro che vincoli sistematicamente un certo tipo di produzione letteraria incentrata sulla città con i temi della fenomenologia urbana. In questo senso, l’operazione di Franco Moretti è Più rigorosa nel tentativo di sistematizzare il ruolo decisivo della geografia nello sviluppo e nell’invenzione letteraria: gli itinerari di una storia possono assumere forme cartografiche, e, dal canto loro, le topografie e le architetture possono essere investite di una composita figurazione narrativa. 17 Mariavaleria Mininni è docente di Urbanistica alla Facoltà di Architettura di Matera sin dalla sua fondazione, mentre Francesco Marocco ha appena chiuso e discusso la propria tesi di ricerca all’interno del Dottorato di Ricerca Internazionale in Architecture and Urban Phenomenology, dell’Università degli Studi della Basilicata. 18 E’ questo il titolo di una serie di seminari avviati dagli autori sul tema del racconto delle città, ed è anche il titolo della tesi di dottorato di Francesco Marocco, di cui Mariavaleria Mininni è stata tutor e relatore. 19 Di Paolo P. (2010), Introduzione in TOMEI E., Dalla parte di Marcel, Postcart, Roma 14

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inaccessibili agli strumenti tradizionali delle scienze che studiano i fenomeni urbani, perché oltre a fornire informazioni sullo stato fisico dei luoghi, i romanzi mettono in luce le istanze emotive che producono spazialità. I romanzi esprimono anche un valore progettuale perché spiegano come un luogo viene percepito dalle persone che lo abitano e perché illustrano il carico di sogni, desideri, paure, immaginari che gli abitanti riversano su di esso. Le diverse storie, fatte di materiali, pratiche, sensi e significati, stanno sovrapposte sul territorio come su un grosso palinsesto, e il merito della letteratura consiste nel selezionare e accendere le singole storie, proponendo chiavi di lettura e figure interpretative dei tematismi che affollano la città. Ne vengono fuori inedite mappature di quei fenomeni urbani che, pure sotto gli occhi di tutti, solo la letteratura riesce a cogliere, nella consapevolezza che il romanzo aiuta a veder meglio.

3 | Il periurbano come spazio molto praticato20 La scelta del campo d’indagine del presente studio ricade sulla più interessante tra le declinazioni delle forme di dispersione della città-territorio: il paesaggio periurbano21. Luogo di maggiore dinamicità, criticità, vitalità, tra i paesaggi del contemporaneo, il periurbano rappresenta un contesto ideale per una riflessione disciplinare sul ruolo centrale della produzione e del disegno dello spazio pubblico, nella nuova qualità dell’abitare 22. Il periurbano è lo spazio più abitato e mostra pratiche inedite che reclamano una presa di responsabilità e pongono un quesito di fondo: si può progettare la periurbanità o sarà ancora a lungo esito di un progetto senza autore? In tal senso la risposta del presente contributo invita a scardinare la retorica di figura (città) e sfondo (agricoltura), per capire che la periurbanità va considerata un territorio a metà strada tra urbanità e ruralità, una terzietà che non è né campagna, né città, ma è più campagna e più città: un territorio che presenta caratteri inediti e che ha ragione di esistere solo dentro una forte opzione progettuale. Guardare allo spazio periurbano vuol dire allora riconoscerne le potenzialità come luogo nel quale mettere alla prova il progetto del paesaggio per l’urbanistica. Si tratta cioè di una sfida e di una opportunità: il periurbano come il luogo privilegiato per un nuovo modo di pensare e rigenerare le città e il paesaggio, attraverso il progetto del vuoto e della natura. Se è vero, come si è sostenuto, che la prima mossa progettuale verso un luogo è sempre la messa a punto di un’adeguata strategia di descrizione, rappresentazione e raffigurazione, per modificare e governare il cambiamento dello spazio periurbano, è necessario mettere a punto un’immagine del modo in cui esso viene percepito, costruendo una mappa cognitiva aperta, che possa penetrare nella maglia minutissima di materiali, pratiche e storie che affollano questo spazio. In tal senso, il ricorso allo strumento di indagine fenomenologica del romanzo non va inteso come un alleggerimento disciplinare, quanto come un contributo prezioso che le narrazioni riescono a dare alla creazione di questa mappa23. La posizione assunta cerca di costruire un osservatorio angolato dal quale guardare contemporaneamente alla città da scrittore24, rilevando le stratificazioni di significati immateriali ed emozionali di cui la città è pregna, e 20

Le riflessioni che gli autori portano avanti sul tema dello spazio periurbano sono già state occasione di dibattito all’interno della Conferenza SIU di Torino del 2011. E’ di recente pubblicazione, inoltre, il testo di Mariavaleria Mininni (cit. 2012) che racchiude e sistematizza molte delle riflessioni che si addensano attorno al contesto periurbano. 21 La definizione di periurbano a cui si fa riferimento è quella di Pierre Donadieu: “Il periurbano è lo spazio intorno alle città costituito dalle aree agricole di prossimità nelle quali le infrastrutture, i grandi nuclei accentrati delle piastre commerciali e produttive, il tessuto pulviscolare della dispersione abitativa concorrono a disegnare una nuova figura che insorge come un tipico territorio della contemporaneità”, Donadieu P. (1998), Campagnes urbaines, Actes Sud, Paris. 22 Si tratta di un contesto nel quale il progetto abitativo si è sviluppato quasi sempre in maniera individuale e incrementalista. Lo spazio periurbano porta i segni delle diverse intenzionalità nell’occupazione del suolo, e ne segue i cambiamenti, tanto che la periurbanità è il land use più dinamico prodotto nella contemporaneità. Se è vero che la genesi di questi suoli si spiega anche con un errore di valutazione dei processi di pianificazione (aree destinate alla realizzazione di standard pregressi, gli spazi pubblici delle zone periferiche mai realizzati, una attesa urbana di nuove edificazioni, attrezzature che tardano a realizzarsi, suoli agricoli abbandonati nella speranza di valorizzazioni immobiliari), la valutazione degli esiti diventa operazione fuggevole, resa complessa dalla distesa pulviscolare di pratiche che una nuova società paesaggista svolge e riversa su questi luoghi. 23 Anche in questo caso, lo studio cerca dei riferimenti culturali e metodologici, trovandoli nella scuola francese e in particolar modo nel lavoro di Agustin Berque, il quale sostiene che “le società utilizzano e trasformano il proprio ambiente in funzione delle rappresentazioni che esse stesse ne fanno e, reciprocamente, lo interpretano in funzione delle proprie prassi materiali”, Berque A. (1995), Les Raisons du paysage. De la Chine antique aux environments de syntèse, Hazan, Paris. Berque enuncia quattro requisiti perché si determini l’esistenza di un paesaggio per una società. Uno di questi (oltre a: parole per nominarlo, rappresentazioni grafiche che lo riguardino e progettualità che lo investa) riguarda proprio l’esistenza di una produzione letteraria sullo stesso. Al fine di fondare un’antropogeografia del periurbano, lo studio guarda quindi all’esistenza di narrazioni letterarie che si rivolgano a questo spazio, cercando di riconoscere nella letteratura sul periurbano, elementi utili nella descrizione delle sue istanze fisiche ma anche di tutte quelle istanze emotive e immateriali che pullulano nel periurbano e sono operanti nella modificazione del suo ordinamento spaziale. Francesco Marocco - Mariavaleria Mininni

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Nuovi strumenti (fenomenologici) per la rigenerazione urbana: l’apporto del racconto e del romanzo nel progetto dello spazio periurbano

insieme guardare al romanzo da paesaggista, avvicinandosi alla letteratura senza considerarne il valore letterario, ma solo la capacità dei romanzi selezionati di descrivere, inventare e costruire spazialità. Il senso sotteso da questa metodologia di lavoro è quello di guardare all’attitudine delle storie di saper leggere gli spazi, con l’obiettivo di tradurre questa forma aggiunta di spazialità, preziosa perché proveniente dall’occhio sensibile degli scrittori, in una rappresentazione utile al progetto della città contemporanea.

4 | Il periurbano nella letteratura: progettare spazi pubblici e paesaggi comuni per rigenerare le città Il presente studio indaga il contributo che alcuni romanzi usciti in Italia negli ultimi trent’anni hanno dato alla descrizione dello spazio periurbano e al riconoscimento di una progettualità latente che lo investe e che può risultare una componente strategica nel progetto di rigenerazione della città 26. Si sono analizzati testi che, a volte apertamente, più spesso tra le righe, si avvicinano allo spazio periurbano seguendo la naturale pulsione della materia narrativa a spostarsi dove sono in atto le trasformazioni. Se la letteratura insegue le storie, e le storie presuppongono una trasformazione, il periurbano, luogo della trasformazione per eccellenza, funziona da vero e proprio catalizzatore della materia narrativa. Si vuol di seguito dimostrare, attraverso una sintetica e circostanziata serie di esempi, come sia possibile riconoscere al romanzo un valore progettuale, data la sua capacità di concorrere alla descrizione e al riconoscimento di una spazialità quale quella periurbana, nella quale ogni esercizio di visione e di descrizione contiene già in sé il seme di un progetto implicito. I movimenti, le sensazioni, gli stati d’animo ricorrenti, le azioni compiute dai personaggi concorrono attivamente alla definizione di quella mappa aperta nella quale i processi di analisi non sono mai slegati dalle elaborazioni progettuali. Per capire come intervenire sul periurbano, è necessario capire non solo di cosa è fatto questo luogo, ma anche come esso viene percepito: in tal senso l’apporto dei romanzi è determinante. I lavori dello scrittore emiliano Gianni Celati, Narratori delle Pianure (1985) e Verso la foce (1989) e il romanzo di Fruttero e Lucentini (1979), A che punto è la notte, collocandosi sugli anni zero della periurbanità, tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80, diventano il primo momento in cui ci si accorge che qualcosa è cambiato, che un nuovo paesaggio insorge, nei dancing e nei mobilifici della cintura torinese, o nelle ville a schiera con giardino della pianura padana, un luogo che non è più possibile interpretare soltanto mediante le categorie dello spazio urbano o rurale. La progettualità del romanzo, in questo caso, sta nel rilevare un fenomeno inedito, arrivando molto in anticipo e con una grana assai più minuta rispetto agli strumenti tradizionali delle scienze che indagano i fenomeni urbani. I romanzi di Nicola Lagioia, Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) (2001), e Riportando tutto a casa (2009), e di Cosimo Argentina, Cuore di cuoio (2009), diventano strumenti progettuali, innanzitutto per la loro capacità di indagare una dimensione sensoriale ma soprattutto emozionale dei luoghi del periurbano. 24

Il riferimento è all’attività narrativa che Francesco Marocco porta avanti da anni, attraverso la pubblicazioni di racconti e romanzi, che spesso riflettono sugli spazi urbani periferici e sulle storie che su questi luoghi sono stratificate. 26 Prima di concentrarsi sulle narrazioni contemporanee stratificatesi sullo spazio periurbano, il presente contributo, attraverso una reinterpretazione critica del lavoro di Moretti, ha provato a sondare un approccio genealogico al legame tra spazio costruito e spazio naturale, nei romanzi dell’800, indagando in particolare nella poetica di tre grandi romanzieri inglesi del XIX secolo, Jane Austen, Charles Dickens e Arthur Conan Doyle. Per Jane Austen la campagna è una rete di dimore che copre l’intera Inghilterra del Sud. Una rete della quale, più che delle maglie, la Austen mette a fuoco i nodi, le solide mansioni della borghesia latifondista. Nell’immaginario costruito dai romanzi di Jane Austen, la campagna è il luogo della felicità raggiunta: chi si sposta e abbandona la città viene premiato, coronando il proprio amore con il desiderato matrimonio. Nella consistenza fisica invece la campagna è uno spazio vuoto e desolato. In uno slogan, si potrebbe dire: la campagna come home-land. Diversa è la visione di Dickens, i cui romanzi tracciano una geografia a scala molto più urbana rispetto alla visione territoriale della Austen. La Londra di Dickens, che nel giro dei 50 anni occorsi tra la pubblicazione di Orgoglio e Pregiudizio (1814) e quella de Il nostro comune amico (1864) ha visto triplicarsi il numero di abitanti, 26 è un luogo asfissiante, violento e sporco. Non sorprende allora che alla fine delle vicende, i personaggi Dickensiani, in preda a una repulsione centrifuga, si spostino quasi sempre verso i margini della città, non appena lo spazio costruito entra in contatto con la dimensione naturale, in uno spazio che potremmo definire protoperiurbano. La campagna come ristoro. Trent’anni dopo ancora, è Conan Doyle a offrire la propria versione della tensione città-campagna: le avventure di Holmes, concentrate principalmente nel West End londinese, non disdegnano le sortite al di fuori del recinto urbano, per le campagne delle contee inglesi del Sud. I crimini che richiamano Holmes fuori città sono inequivocabilmente più efferati dei crimini urbani. La campagna di Conan Doyle possiede un carattere ancora poco sedimentato nella coscienza collettiva, è un luogo da inventare negli immaginari, a cui Conan Doyle assegna lo stigma dell’efferatezza e della violenza. La campagna come luogo de-regolato, disponibile alle passioni. Si tratta di tre visioni che mettono a fuoco un’immagine ancor oggi attualissima dello spazio periurbano e delle tensioni che attirano in questi luoghi i materiali e le pratiche riversate dai componenti di una nuova società paesaggista. Francesco Marocco - Mariavaleria Mininni

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Nuovi strumenti (fenomenologici) per la rigenerazione urbana: l’apporto del racconto e del romanzo nel progetto dello spazio periurbano

L’idea che emerge dalla rilettura spaziale di questi romanzi, del periurbano come il luogo dell’avventura, dell’iniziazione, della scoperta è un’intuizione assolutamente progettuale, perché coglie appieno il senso di una tensione tra città e campagna, che si manifesta con il desiderio di una nuova maniera di abitare il territorio di mezzo. Esiste chiaramente un’attrazione di personaggi, storie, materiali e pratiche verso questo territorio. Il periurbano è uno spazio dall’enorme forza gravitazionale, spiegano i romanzi, un paesaggio da inventare, un paesaggio per reinventarsi. Molti dei romanzi analizzati nel corso di questo studio condividono una visione cruda e degradata di questi luoghi: è il caso ancora dei romanzi di Lagioia e Argentina, del romanzo di Niccolò Ammaniti, Come Dio comanda (2007) e soprattutto dei romanzi di Tommaso Giagni, L’estraneo (2012) e di Walter Siti, Il contagio (2008), ambientati nelle estreme periferie di Roma, nel punto in cui spazio naturale e spazio costruito vengono a contatto. Al degrado dello spazio fisico, denunciato in questi romanzi, corrisponde sempre lo sgretolamento dell’utopia di un vivere urbano soddisfacente e comunitario. Talvolta gli autori riconoscono le responsabilità dell’urbanistica nella carenza di qualità che affligge gli spazi del periurbano, imputando la strutturale mancanza di qualità di questi luoghi a un’incapacità della disciplina di governare le trasformazioni che li hanno investiti. E’ progettuale la capacità di invenzione del paesaggio periurbano messa in scena in Come Dio comanda da Niccolò Ammaniti: attraverso un onesto ricorso alla verosimiglianza della letteratura, l’autore romano ricostruisce, con estrema pertinenza disciplinare e con una chiarezza per certi versi quasi paradigmatica, la genealogia del paesaggio disperso della città territorio attraverso la degradazione e la complicazione di un originale modello insediativo agro-urbano. E’ continua, nel romanzo di Ammaniti, la sottolineatura della necessità di riqualificazione di alcuni di questi luoghi verso i quali gli abitanti gravitano, tanto più frequentemente quanto più intime e intense sono le emozioni che provano e le situazioni che vivono. Nei romanzi analizzati, la chiave suggerita per esplicitare questa strategia di riqualificazione sembra passare per la risignificazione degli spazi aperti, trascurati, irrisolti, mai progettati. La progettualità latente colta nei romanzi non si concentra tuttavia sulla risoluzione di una destinazione d’uso appropriata, o sul recupero di una funzione produttiva dei suoli agricoli. In nessuno dei romanzi presi in considerazione viene mai portata in scena la nostalgia bucolica di una riattivazione della produzione agricola: non sarà il banale orto urbano, ci dicono gli scrittori del periurbano, a redimere il destino del paesaggio di mezzo. Quello che i romanzi sembrano enfatizzare è invece la necessità di una presa di coscienza della dimensione aggregativa e comunitaria del progetto di paesaggio che è progetto della natura, progetto del giardino. La nozione di paesaggio si sbilancia fortemente sul dato emozionale, culturale e sociale, rispetto alla questione produttiva. Nelle borgate romane, nella periferia barese, nei grandi distretti produttivi a bassa densità abitativa della pianura padana si rinsalda la necessità di spazi di aggregazione alternativi alle nuove cattedrali del periurbano: i centri commerciali, i solarium, le palestre, le sale scommesse. Spazi nei quali ritrovare il contatto con la dimensione naturale, con una natura che non è selvaggia, ma è progettata. Un’altra istanza progettuale emersa nella lettura di questi romanzi è la necessità di realizzare una connessione tra i tessuti dispersi del periurbano e i nuclei originari dai quali essi sono stati gemmati. Si tratta innanzitutto di una connessione culturale e identitaria che punti a stigmatizzare la dicotomia tra abitanti privilegiati del centro e abitanti reietti confinati in periferia attraverso una serie di politiche, piani, programmi e interventi che lavorino nel tentativo di riconciliare le forme frammentate della città dispersa con un riferimento identitario nel quale riconoscersi. Ma si tratta anche di una riconnessione fisica, tra centro e periferia. Una riconnessione da attuare potenziando la mobilità, le infrastrutture, il trasporto pubblico e altre nuove forme di spostamento. E’ singolare notare come la sensazione di ansia e di generica attesa che i personaggi che attraversano il periurbano vivono, si attenua, si risolve, in taluni casi scompare, quando essi riconoscono una fermata dell’autobus, l’unico gesto di una sintassi urbanistica, che funga da linguaggio di riconnessione di territori altrimenti incapaci di comunicare tra loro. La riconnessione fisica con il centro, emerge dai romanzi, deve diventare una delle strategie progettuali vincenti nel disegno del paesaggio periurbano. Emerge in definitiva, dal ricorso all’uso del romanzo come strumento di indagine fenomenologica dello spazio periurbano, la consapevolezza che una prospettiva di rigenerazione urbana passi chiaramente attraverso il riprogetto dello spazio pubblico e dei paesaggi comuni, intesi come luoghi della socialità e dell’inclusione, della continuità tra reti e spazi, del riequilibrio tra funzioni e polarità urbane. In questo senso, lo studio propone quindi una strategia progettuale conclusiva che permetta di riversare sul periurbano le istanze emerse nel corso dell’indagine. Tale strategia si sostanzia fondamentalmente di tre azioni: (i) riportare le istanze progettuali emerse dalla lettura dei romanzi sul periurbano, all’interno del dibattito delle scienze della fenomenologia urbana, come una cassetta di attrezzi, da impiegare nel progetto del paesaggio; (ii) attingere a piene mani da quella mappa cognitiva aperta che si sostanzia di dati fisici e dati percepiti (iii) utilizzare i dispositivi narrativi per la rappresentazione e la comunicazione del progetto.

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Nuovi strumenti (fenomenologici) per la rigenerazione urbana: l’apporto del racconto e del romanzo nel progetto dello spazio periurbano

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Tempo e costruzione dello spazio pubblico urbano

Tempo e costruzione dello spazio pubblico urbano Marialuce Stanganelli Università di Napoli Federico II Dipartimento di Ingegneria Civile Edile e Ambientale Email: stangane@unina.it

Abstract Considerare lo spazio pubblico come paesaggio richiede un ripensamento dell’idea di spazio e la proposizione di nuove modalità di lettura e interpretazione delle categorie di spazio e tempo. Analizzare lo spazio urbano come paesaggio significa mettere in rilievo le relazioni tra gli elementi, le modalità di percezione, i valori identitari. Il paper proposto analizza la relazione tra comunità ed il suo ambiente di vita attraverso il filtro del tempo con l'obiettivo di verificare come la percezione del tempo propria di una determinata epoca e cultura abbia influenzato la produzione di spazi antropici e quindi la configurazione dello spazio pubblico urbano. Parole chiave Tempo, spazio pubblico, paesaggio urbano

Tracce di tempo La natura del tempo resta in gran parte inintelligibile, gran parte della difficoltà di studio è dovuta al fatto che del tempo si ha solo una percezione indiretta in quanto non è possibile percepirlo in forma tangibile e diretta come la luce, il suono o gli odori; il tempo viene percepito solo in relazione ai suoi effetti sulle persone, sulle cose, sugli eventi. Questa conoscenza “obliqua” ottenuta tramite l’osservazione degli effetti più che del fenomeno in sé, lega in maniera forte le conoscenze conseguibili ai modelli di conoscenza adottati per osservare realtà ovvero al modo in cui siamo abituati a “guardare” e interpretare tali effetti. In relazione alle diverse epoche storiche e alle diverse società, i modelli di conoscenza che si sono succeduti hanno determinato differenti percezioni della natura, del tempo e dello spazio. La diversificazione dei modelli interpretativi di tempo e spazio è avvenuta anche tra civilità coeve. Ciò ha fatto sì che due culture non vivano mai concettualmente nello stesso genere di tempo e di spazio (Mumford, 1961). Tracce di tempo si sono incrostate nel linguaggio e nelle cose a testimoniare il modo in cui il passaggio del tempo veniva percepito. Le espressioni verbali che contestualizzano le azioni nel tempo nelle varie lingue forniscono un'interessante testimonianza dei diversi modi di percepire lo scorrere del tempo in ambiti culturali differenti. Il tedesco, ad esempio, non possiede la forma dell’imperfetto, è privo cioè della nozione di azione continuata e reiterata nel passato, così come il latino non ha il passato prossimo ma solo il passato remoto: «si potrebbe suggerire che gli antichi tendessero a sentire il passato come terminato e morto per sempre, mentre noi ne avvertiamo l’inevitabile riverbero nel presente» (Toraldo di Francia, 1994: 6). Le articolazioni linguistiche mostrano i diversi modi in cui culture differenti collocano le azioni nel tempo, ciò genera diversi modi di raccontare una storia e soprattutto diversi percorsi per articolarne lo sviluppo collocando in successione i singoli fatti. Il lavoro proposto analizza la relazione tra costruzione dello spazio e percezione del tempo. La costruzione dello spazio urbano da parte dell'uomo è strettamente correlata all'idea che l'uomo ha del tempo e del modo in cui questo si svolge nel corso di una giornata, di una vita, di un periodo storico. Le attività quotidiane sono scandite dal tempo e si svolgono in spazi pensati e specificamente adattati in funzione dell'attività, della sua durata, della sua collocazione nell'arco della giornata, della sua relazione con altre attività ed i relativi tempi. Il paesaggio urbano costituisce in ogni cultura la scenografia in cui si rappresenta il racconto della vita della comunità che lo abita. In quanto scenografia di una narrazione, il paesaggio urbano presuppone la concettualizzazione di un'articolazione e di un ordine dei tempi del racconto spaziale. Occorre definire cosa deve essere visto per primo e posto in primo piano, cosa deve essere intravisto, che aspettativa bisogna creare, quale sarà l'effetto finale del Marialuce Stanganelli

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Tempo e costruzione dello spazio pubblico urbano

racconto e in quale modo, in quale successione le fasi del racconto percettivo spaziale debbano svolgersi: tutto ciò avviene nel tempo. 'Prima', 'durante', 'dopo', 'infine' sono gli avverbi temporali che accompagnano la fruizione percettiva del paesaggio urbano. La percezione del tempo influenza la creazione del paesaggio urbano.

Il tempo variabile e il paesaggio organico Nelle società rurali pre-moderne il tempo era scandito dagli eventi naturali. Sorgere e tramontare del sole, alternarsi delle stagioni, intervento di calamità naturali erano i principali riferimenti adoperati dall'uomo comune per collocare nel tempo un evento o un'azione. Nella Roma repubblicana, il trascorrere del tempo veniva reso pubblico dall’araldo che annunciava il sorgere e il tramontare del sole e, solo successivamente, il mezzogiorno. Il tempo così scandito era variabile ed elastico, articolato in 'prima' e 'dopo' questi tre momenti cardine della giornata che in relazione alle stagioni erano più o meno ravvicinati tra loro. Nell'alto Medioevo, la massima sistematizzazione del tempo si diffuse grazie al monachesimo e faceva riferimento ai momenti di preghiera organizzati secondo la Regola di San Benedetto. La giornata era articolata su 'ore canoniche' variabili che misuravano la distanza dal sorgere del sole, dal tramonto e dal mezzogiorno. Il tempo era quindi percepito come una successione di giornate a dimensione variabile, più estese d'estate e più brevi d'inverno, caratterizzate dagli eventi metereologici. Ancora oggi nelle lingue di derivazione latina, i termini indicanti tempo cronologico e tempo metereologico coincidono. Nell'alto Medioevo cultura e vita quotidiana sembrano essere impostate su due sole dimensioni temporali, una interna ed una esterna al tempo: il presente e l’eternità. L’uomo medioevale viveva nel tempo percependone un'unica dimensione: il presente. Il suo orizzonte futuro, il suo sogno di felicità, era traslato al di fuori del tempo: nell’eternità. La vita quotidiana si svolgeva in un contesto caratterizzato da un’economia fragile che facilmente andava in crisi rendendo la sussistenza futura molto incerta. La massa della popolazione mangiava poco e male, i redditi erano bassissimi. Negli anni ordinari, la spesa per il vitto impegnava circa il 70-80% del reddito, rendendo quasi impossibile il risparmio. Gli anni ordinari, privi di crisi, non erano la norma, in quanto alle carestie si alternavano o si sovrapponevano epidemie e guerre (Cipolla, 1974). In questo quadro di estrema incertezza sui tempi a venire, l’uomo era concentrato principalmente sulla dimensione terrena del presente, l’unica speranza per il futuro era proiettata in una dimensione al di fuori dal tempo: l’eternità. Il passato veniva percepito come chiuso e morto per sempre, il futuro come avverso e infausto. Nel Medioevo esisteva solo il 'qui ed ora', lo spazio dell’immediato intorno vissuto nel tempo presente, tutto il resto fa parte dell’eternità ed è fuori dal tempo. Ciò porta gli artisti a contestualizzare nel presente le storie del passato e a dissolvere in una dimensione trascendentale le altre forme di temporalità. Nei dipinti medioevali, lo spazio viene percepito essenzialmente in due dimensioni, l’azione che si svolge nel presente viene rappresentata in primo piano mentre lo sfondo, piatto e adimensionale, fa riferimento all’eternità a quel 'fuori dal tempo' che ingoia il passato e da cui il futuro deve ancora emergere. Nella dimensione del presente il tempo considerato è il tempo ciclico scandito dal ripetersi delle stagioni, in cui i giorni si succedono ai giorni, sempre uguali, eppure diversi. Nello spazio dell'alto medioevo unità di tempo e di luogo coincidono, la vita si svolge 'qui ed ora' in un raggio molto limitato. Lo spazio architettonico della vita quotidiana appare piatto e privo di specializzazione: in un unico ambiente vivevano uomini e animali, si cucinava, si dormiva, si lavorava. Da questa uniformità spaziale emergevano solo gli ambienti che in qualche modo rappresentavano quell'aspirazione ad 'uscire dal tempo' per tendere all'eternità: cattedrali, monasteri e fortezze. Il paesaggio urbano della città dell'alto medioevo non ha carattere sistematico e generale, ma è fortemente aderente al contesto naturale, come la percezione del tempo. Le città occidentali dell'alto medioevo appartengono a due tipologie: quelle che si innestano sulle rovine delle città romane preesistenti e i borghi nuovi. Nel primo caso si pose il problema del riutilizzo di uno spazio urbano sovradimensionato alle nuove esigenze medioevali e per il quale non sussistevano più le condizioni tecniche ed economiche per tenerlo in efficienza. Lo spazio urbano antico venne abbandonato e cannibalizzato, o destrutturato e trasformato per renderlo adeguato al presente. Coerentemente all'indifferenza che l'uomo medioevale nutriva per il passato e per la sua memoria tangibile, le antiche vestigia venivano smantellate e riutilizzate, poiché le esigenze del presente erano prioritarie rispetto al passato. «Gli isolati vennero divisi da nuovi percorsi interni, tortuosi anzichè diritti» (Benevolo, 1993: 29) La frammentazione dello spazio urbano venne riproposta anche nei nuovi borghi dove manca la dimensione narrativa dello spazio articolata nel tempo. La percezione del tempo, incentrata sull'asse presente-eternità, si rifletteva nel paesaggio urbano dell'alto medioevo in cui ogni elemento non fa parte di una sequenza complessiva (spaziale e temporale) ma va percepito singolarmente attraverso la visione ravvicinata, per singoli istanti di presente successivi. Sono assenti i rimandi ad altri spazi e ad altre dimensioni, tranne quando si allude all’eterno nelle infinite guglie di chiese e cattedrali. Non esiste il 'prima' e il 'dopo' nella percezione dello spazio medievale, ma solo l''improvvisamente'. Improvvisamente la visuale si apre sul paesaggio naturale, improvvisamente la stradina tortuosa si apre sul sagrato della cattedrale senza che vi siano allusioni, anticipazioni, riferimenti. E' uno spazio in cui esistono due soli livelli gerarchici: gli spazi diffusi della vita quotidiana e lo spazio straordinario ed eterno rappresentato di volta in volta dal castello, dal monastero, dalla cattedrale attorno cui si raduna il borgo, Marialuce Stanganelli

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dal paesaggio naturale circostante. Ordinario e straordinario non ammettono misure intermedie nel paesaggio urbano dell'alto medioevo, così come presente ed eternità non hanno altre dimensioni temporali che ne attutiscano il brusco passaggio.

La struttura del tempo – Il paesaggio prospettico Sin dalla sua nascita, la città ha determinato l’avvento di un diverso rapporto con il tempo. Tra città e tempo la relazione è duplice: da un lato la città accelera i tempi del cambiamento, dall’altro lato spazi e luoghi urbani conservano la memoria del passato. E' in città che per la prima volta viene formalizzata in maniera sistematica la percezione del tempo: «I cittadini misurano il tempo con l’orologio. […] Le loro attività sono segmentate dai punti che si susseguono in un astratto continuum, punti che designiamo come ore e minuti.» (Landes, 1984: 5) La misurazione del tempo è sempre stata una prerogativa urbana; nell'antichità era qui che gli araldi annunciavano il passare del tempo ed erano collocate le grandi meridiane che segnavano il tempo pubblico prima dell’avvento degli orologi. La rinascita urbana del XI-XIII secolo segnò l’avvento di una nuova concezione del tempo. La nuova organizzazione urbana della città basso-medioevale e la conseguente divisione del lavoro determinò il passaggio dal tempo soggettivo al tempo oggettivo. Il lavoro urbano non era più legato al verificarsi di eventi naturali ma necessitava di essere sincronizzato con gli altri mestieri. Nella nuova organizzazione della vita quotidiana, il tempo andava misurato con continuità e doveva essere uguale per tutti. In città il tempo venne standardizzato, le sue modulazioni ed articolazioni di memoria rurale vennero appianate e rese omogenee. A partire dal XIV secolo gli europei si cimentarono nella produzione di macchine sempre più precise per misurare il tempo e nel giro di pochi decenni ogni città fu caratterizzata dal suo orologio meccanico posto sul campanile delle chiese o sulle facciate dei municipi (Rykwert, 2003). Tali orologi erano spesso accompagnati dal suono della campana o dall’evoluzione di automi. Il tempo non solo veniva misurato ma anche annunciato attraverso rappresentazioni talvolta spettacolari. La principale novità della meccanizzazione della misurazione del tempo fu proprio nel rendere pubblico e univoco il passare del tempo. Attraverso questa grandiosa operazione di pubblicizzazione del tempo si ottenne il risultato di sincronizzare le attività urbane e di rendere efficiente il funzionamento della città. Al tempo variabile ed elastico dell’esperienza soggettiva si sostituì il tempo oggettivo e misurabile. Tale concezione si è riflessa nel paesaggio urbano del basso medioevo: lo spazio divenne un continuum che poteva essere diviso in moduli e riprodotto uguale a sé stesso, come le ore. Il tessuto edilizio era formato da moduli (lotto gotico) che si ripetono sempre uguali pur creando, in relazione all’adattamento morfologico, effetti sempre diversi che si ispirano al canone della ripetizione nella variazione. Ogni modulo a sua volta era internamente suddiviso in spazi adibiti a diverse funzioni ed utilizzati solo in determinate ore della giornata. La nascita dell’orologio può essere vista come uno dei punti di svolta nella percezione del tempo. «L’orologio ha dissociato il tempo dagli eventi umani, ha contribuito a creare la comprensione di un mondo indipendente di sequenze matematicamente misurabili: il particolare mondo della scienza» (Mumford, 1934: 15). La suddivisione astratta del tempo in ore, minuti e secondi, divenuta comune verso la metà del XIV secolo, rappresentò il primo sforzo astratto di sistematizzazione di un fenomeno naturale che si è compiuto nel mondo occidentale. Nel basso medioevo il tempo cambiò natura «divenne spazio orario che si controlla e si organizza» (Le Goff, 2011). La sistematizzazione del tempo pubblico determinò dei cambiamenti radicali nella psiche e nella vita quotidiana dell'uomo occidentale (Preto, 2002), cui corrisposero cambiamenti dello spazio sia privato che pubblico urbano. A partire dal basso medioevo lo spazio cominciò progressivamente a differenziarsi in funzione delle diverse attività che vi si svolgevano e delle diverse ore del giorno e dei giorni della settimana in cui erano svolte. Ad ogni attività corrispose uno spazio e un tempo. Tale trasformazione è evidente nell'evoluzione dello spazio pubblico urbano (Berengo, 1999): a partire dal XII sec. le città si dotarono di spazi pubblici ad uso delle adunanze cittadine che precedentemente si tenevano nelle chiese, Questa differenziazione tra spazio pubblico e spazio sacro continuò nel corso del rinascimento con la creazione delle piazze del Podestà o della Signoria, dominate dall'edificio simbolo del potere laico e dalla torre dell'orologio. Tempo pubblico e spazio urbano pubblico nacquero contestualmente nello stesso periodo. Alla misurazione del tempo, alla sua strutturazione in una griglia oraria, seguì la misurazione dello spazio: la prospettiva trasformò il rapporto visivo con la realtà in una relazione quantitativa. Vennero analizzati i rapporti degli oggetti nello spazio, e ogni composizione spaziale fu inquadrata sistematicamente nel nuovo schema, costituito da un primo piano, dall’orizzonte e da un punto di fuga. Lo sfondo dei quadri rinascimentali è un paesaggio naturale, una prospettiva urbana, uno scorcio architettonico, sottolineando in tal modo un ritorno di interesse verso il mondo esterno e la realtà: l’orizzonte delle azioni umane è di nuovo terreno, torna ad essere all’interno del tempo. L’intera esperienza temporale umana venne rivalutata: il passato con la sapienza degli antichi studiosi, il presente e il futuro ricco di promesse. Un'ondata di ottimismo pervase il Rinascimento portando l’uomo a considerare nuovamente la possibilità di un sogno di felicità che si potesse avverare nel corso del suo iter temporale. Il paesaggio urbano guadagnò in ariosità, ogni Marialuce Stanganelli

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Tempo e costruzione dello spazio pubblico urbano

elemento non era più pensato ed elaborato per essere fruito singolarmente, da vicino, ma divenne parte di una composizione complessiva in cui il ruolo del singolo edificio emergeva in una visione d'insieme.

La freccia del tempo – Il paesaggio infinito Il tempo ‘misurato’ ebbe effetti dirompenti sulla cultura occidentale rivestendo un ruolo fondamentale nella rivoluzione scientifica. Nel corso del XVII secolo prima Galileo e poi Newton misero a punto le leggi fondamentali del moto, sistematizzate nei Principia Matematica di Newton. Fondamentale, in questo percorso fu la scoperta che il tempo poteva essere incluso nella formulazione quantitativa delle leggi fisiche che regolano il mondo. Il paradigma scientifico messo a punto da Newton dominò incontrastato sino al XX secolo. Il tempo di Newton era un tempo assoluto e indipendente dagli altri fenomeni esterni, esso scorre sempre uguale a sè stesso non condizionato da eventi umani e naturali. Nelle leggi del moto apparve il concetto di accelerazione nella cui formula il tempo è elevato al quadrato, anche nella percezione comune il tempo divenne una retta orientata la cui freccia puntava verso l'infinito. Anche lo spazio perse concretezza nelle leggi del moto. Al tempo astratto, indipendente dagli eventi umani, corrispose uno spazio altrettanto astratto, uno spazio assoluto in cui compare la nozione di infinito. Spazio e tempo cominciarono ad essere associati nelle leggi della fisica e «concepiti come un palcoscenico fisso sul quale gli eventi avevano luogo, ma che non risentiva di ciò che accadeva in esso. [...] Era naturale pensare che spazio e tempo durassero per sempre» (Hawking, 2005) cioè all'infinito. Il tempo infinito ha un significato ben diverso dall'eternità medioevale: l'eternità è al di fuori del tempo, mentre il tempo infinito continua ad essere una dimensione temporale concreta che si perpetua in forma illimitata. Il futuro divenne infatti, in questo periodo, una dimensione temporale sempre più concreta: la dimensione infinita del tempo alimentava la speranza di una progressione illimitata e cumulativa dell'umanità. L'architettura urbana venne «sollecitata ad inseguire coi suoi mezzi, cioè con l'ordinamento prospettico di elementi riconoscibili, la nuova nozione di infinito» (Benevolo, 1993). La prospettiva rinascimentale applicata allo spazio urbano, infatti, era una prospettiva ‘finita’ con un punto di fuga reale, tesa in molti casi a correggere e regolarizzare la percezione visiva di spazi irregolari ereditati dalla tradizione medioevale. Lo spazio pubblico rinascimentale, però aveva sempre al suo centro l'uomo che lo fruiva e lo percepiva, ed all'uomo erano raccordate le misure dello spazio urbano. Gli spazi rinascimentali generavano prospettive che andavano fruite entro distanze limitate, gli stessi assi urbani ideati nelle principali città europee sino alla metà del Cinquecento creavano delle prospettive ‘brevi’ all'interno del tessuto urbano preesistente che non superavano in generale il chilometro di lunghezza. La situazione cambiò dal Seicento in poi quando gli assi urbani cominciarono a forzare le dimensioni fisiche della prospettiva fino al limite della percezione visiva nel tentativo di interpretare i nuovi concetti di spazio e tempo assoluto e di infinito. In quest'epoca, d'altronde, le trasformazioni urbane non erano più opere corali guidate da un capomastro, ma venivano ideate e progettate da architetti rinomati che erano contesi per la loro abilità da tutte le corti europee, a questi non poteva certo sfuggire il portato delle nuove acquisizioni scientifiche. Le nuove sistemazioni rettilinee diventano più frequenti. Le nuove strade a tridente tracciano una triangolazione prospettica all'interno del tessuto irregolare medievale che ambisce a collegare visivamente luoghi anche distanti tra loro. I punti d'arrivo sono visivamente segnalati da obelischi, colonne o facciate monumentali. Oltre che negli angusti spazi urbani fortemente vincolati dal tracciato medioevale con cui entravano in evidente conflitto, il tracciato in prospettiva si cimentò nei grandi paesaggi esterni alla città in opere grandiose che cercavano di controllare un intero paesaggio alla scala topografica: le grandi regge extraurbane Versailles, l'asse Rivoli - Superga a Torino, la reggia di Caserta.

La frammentazione del tempo – Il paesaggio destrutturato Una nuova ‘rivoluzione del tempo’ di portata analoga a quella che vi fu nel basso medioevo e rinascimento si verificò agli inizi del XX secolo, quando nuove visioni della realtà fisica incominciarono a mettere in discussione il paradigma newtoniano, scardinando i concetti di spazio e tempo assoluti e mettendo fine alla rappresentazione lineare del tempo. Relatività e meccanica quantistica segnano il dibattito scientifico del primo ‘900, imponendosi come le ‘rivoluzioni scientifiche’ che costringeranno la cultura occidentale a confrontarsi con i risultati delle scienze ‘dure’. E se già nella meccanica newtoniana si possono incontrare le leggi di trasformazione della velocità e dell’accelerazione in sistemi di riferimento in moto ‘relativo’, il ‘relativo’ della teoria di Einstein è cosa ben diversa, e di portata più radicale. Il postulare la costanza della velocità della luce porta a ripensare il concetto di sistema di riferimento e quindi il significato che per ogni specifico osservatore assume la tripartizione dello spazio degli eventi tra passato, presente, e futuro. Finiscono lo spazio e il tempo ‘oggettivi e disgiunti’, intesi quali forme a priori kantiane, quinta di scena contro la quale si staglia lo spettacolo del fenomenico. Ad essi si sostituisce il continuum spazio-tempo, non più oggetto bensì soggetto all’azione della massa-energia, che lo deforma, curvandolo e rallentandolo. Marialuce Stanganelli

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Nello stesso giro di anni, la dinamica dei sistemi complessi e la meccanica quantistica infliggono un duro colpo all’intelligenza di Laplace, ovvero alla possibilità della perfetta conoscibilità del futuro, noto con infinita precisione il presente (Seta, 2010). Nella vita comune si comincia sempre di più a percepire l'accelerazione del tempo che sembra scorrere a velocità sempre crescenti ma perde l'orizzonte del futuro. A partire dagli ultimi cinquant'anni le trasformazioni scientifiche e tecnologiche si sono susseguite ad un ritmo frenetico, il ‘cambiamento’ è divenuto pressante nella vita di tutti ed è il tema dominante del nuovo millennio. Come evidenziato in premessa, il tempo si percepisce solo attraverso i suoi effetti, attraverso i cambiamenti che si generano nel suo corso, così il continuo succedersi di questi cambiamenti nell'ultimo cinquantennio ha generato la sensazione di un'accelerazione improvvisa nello scorrere del tempo. L'uomo è in balia del tempo e si sente risucchiato dalla spirale del tempo. Se l'impossibilità di previsione e di azione sugli eventi a venire sottrae la prospettiva futura, il continuo succedersi degli eventi riporta il presente in primo piano annullando il passato. «Da uno o due decenni il presente è diventato egemonico. Agli occhi dei comuni mortali esso non è più frutto di una lenta maturazione del passato, non lascia più trasparire i lineamenti di possibili futuri, ma si impone come un fatto compiuto, schiacciante, il cui improvviso sorgere fa sparire il passato e satura l'immaginazione del futuro» (Augé, 2010). Come nel medioevo, l'uomo contemporaneo è tornato a concentrarsi sul presente cancellando le dimensioni futura e passata. Vi è una generale perdita di interesse per il futuro: le generazioni sembrano non emanciparsi più rispetto a quelle precedenti, lo stesso mondo sembra peggiorare progressivamente sotto l’effetto della pressione ambientale e del cambiamento climatico. Anche il passato ha subito una trasformazione «Il passato remoto tende a sparire non solo nel colloquio ma anche nella lingua colta» (…) per cedere il passo al passato prossimo. Infatti, «a partire dagli anni Sessanta si è cominciato a “riflettere” sul passato più vicino per produrne un’immagine diversa, trasfigurata. Una buona parte dei prodotti culturali che ci circondano trae spesso la sua forza di risonanza dal suscitare sentimenti di nostalgia, di rimpianto del passato» (Morreale, …). L'uomo contemporaneo occupa un intervallo temporale ristretto che va dal passato prossimo al futuro più vicino e si concentra prevalentemente sulla dimensione del presente. Il presente contemporaneo si differenzia in maniera sostanziale dalla analoga dimensione medioevale. Il presente dell'uomo medioevale era un unicum compatto, mentre nell'epoca contemporanea il presente si frammenta in molteplici schegge che sussistono contestualmente. Nuove tecnologie e globalizzazione consentono di infrangere i limiti della distanza spaziale nella vita quotidiana consentendoci di agire ed intervenire anche in luoghi molto distanti da quello in cui siamo situati. Contestualmente abbiamo la possibilità di essere aggiornati ‘in tempo reale’ su tutto ciò che succede in qualsiasi parte del mondo. Grazie alle nuove tecnologie è sempre più possibile fare più cose contemporaneamente. Il tempo odierno è così il tempo ‘simultaneo’, è il tempo impiegato per fare innumerevoli cose nello stesso momento, è il tempo del presente che si dispiega e si moltiplica. La frammentazione del tempo è evidente già nella letteratura. Nel racconto contemporaneo non sussiste più l'obbligatoria sequenza in fasi temporali ordinate che portano dall'inizio della vicenda sino alla fine. Il tempo è completamente scardinato e non esiste più una sequenza cronologica, i fatti sono narrati attraverso il continuo oscillare tra diversi orizzonti temporali, spesso, anche attraverso diversi punti di vista con diversi narratori, ciascuno dei quali si introduce nel racconto con il suo personale sistema di riferimento spazio-tempo, in relazione a come e a quando ha avuto un ruolo nella vicenda principale. In tal modo tutta la narrazione viene riportata sullo stesso piano del presente e tutto diventa simultaneo. E' una tecnica desunta dal cinema che probabilmente ha cominciato per primo a frammentare il racconto, in quanto è un mezzo molto versatile a questo scopo. Dal punto di vista spaziale vi è una perdita di interesse per la tridimensionalità e per la prospettiva che offre punti di vista fissi. Già nel corso dei secoli precedenti le prospettive si erano moltiplicate sia nel paesaggio urbano che in quello pittorico: nel barocco alle forme monocentriche venivano preferite quelle ellissoidaili dotate di più centri focali e il tipico tracciato urbano con i tre assi convergenti su una piazza, il cosiddetto ‘tridente’, non offriva più un’unica prospettiva privilegiata ma la moltiplicava per tre. La destrutturazione dello spazio materico si ripropone nell’architettura contemporanea che rompe la simmetria e spezza la lettura sequenziale degli spazi generando lo spazio simultaneo, lo spazio della polifunzionalità. La ‘destrutturazione controllata’ dello spazio delle grandi architetture d’autore contemporanee non trova un corrispettivo alla scala urbana dove invece dilaga l’’urbanizzazione incontrollata’. Il paesaggio urbano contemporaneo è quello anonimo e amorfo della periurbanizzazione. E' uno spazio destrutturato, privo di punti di vista privilegiati e di una forma percepibile. E' uno spazio despecializzato dove simultaneamente convivono gli estremi: città e campagna, fabbrica e residenza, centro commerciale e villetta. L'assenza di una prospettiva temporale futura ha riportato anche lo spazio fisico sul piano della mera contingenza. Il paesaggio urbano contemporaneo è privo di spazio pubblico. Gli edifici sono liberamente disposti in spazi estesamente pubblici, ma privi di qualità formali, quindi non percepibili in quanto spazi strutturati, e sostanzialmente poco fruibili come spazi pubblici. L’interesse è tutto incentrato sullo spazio interno e sull’abitazione privata, mentre lo spazio esterno –spesso vuoto, informe e abbandonato – testimonia l’incapacità della società contemporanea di esprimere nuove forme di vita collettiva attraverso un nuovo ambiente urbano. La mancanza di spazio pubblico è esasperata nei territori della diffusione insediativa. Strade e piazze della città storica si traducono nella città diffusa in assi di scorrimento, slarghi e svincoli, in cui non è prevista la presenza Marialuce Stanganelli

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Tempo e costruzione dello spazio pubblico urbano

di pedoni. Lo spazio urbano pubblico è uno spazio che si alimenta di futuro; per poter produrre una propria espressione di spazio pubblico una comunità deve avere un'idea di futuro comune, un obiettivo da perseguire, un progetto da realizzare.

Conclusioni Nel corso dei secoli la percezione del tempo è cambiata più volte influenzando il modo in cui l'uomo ha progettato e costruito lo spazio. Dal tempo ciclico legato ai ritmi naturali del basso medioevo, si è passati al tempo lineare dell'età moderna, sino alla spirale del tempo contemporanea. La perdita di un riferimento temporale assoluto ci ha riportati da un tempo oggettivo ad un tempo soggettivo. La percezione contemporanea del tempo, incentrata sul presente, sull'istante simultaneo, frazionabile e moltiplicabile, priva di futuro e di passato remoto, porta a produrre spazi privi di tempo. Ma il tempo è una caratteristica ineludibile della qualità urbana. I contemporanei apprezzano la bellezza urbana soprattutto all’interno della città storica, pur vivendo in un'epoca che sembra aver cancellato il valore dell'esperienza passata. Tuttavia l'apprezzamento contemporaneo per le vestigia del passato si trasforma spesso in una mistificazione dello stesso. Le città storiche divengono risorsa economica in quanto attrattori turistici e in tal senso vengono imbalsamate, museificate e trasformate in vuoti contenitori per il tempo libero. Il passato non è considerato una miniera di conoscenze da cui imparare per andare avanti incontro al presente e costruire il futuro, non è più un modello da reinterpretare alla luce della nuova sensibilità contemporanea. La città storica viene cristallizzata nell’aspetto fisico ma svuotata nella parte immateriale. Ciò che rende unica la città antica è la presenza palpabile del tempo. Nei paesaggi urbani contemporanei non c’è stata quella stratificazione degli usi e dei significati la cui sedimentazione crea nella città storica quell’insieme di valori intangibili che chiamiamo identità dei luoghi. Il paesaggio urbano contemporaneo è privo di identità, poiché questa è il frutto di un lento processo di sedimentazione e di metabolizzazione delle sollecitazioni esterne e delle capacità reattive interne che avviene su lunghi periodi temporali. L’assenza di una prospettiva futura rende difficile portare avanti un progetto di spazio dotato di significato. Lo spazio urbano contemporaneo non rappresenta più le prospettive e le aspirazioni di una comunità; l’importanza dell’attimo presente che non ha passato e non va verso il futuro rende la creazione dello spazio urbano un esercizio che ha come unico vincolo la contingenza ed è aperto al libero esercizio dell’auto-referenzialità e dell’auto-rappresentazione. Ciò si traduce sul piano paesaggistico in lunghi assi stradali, destinati alla sola mobilità veicolare, su cui si alternano in maniera casuale edifici e attività disparate –case, centri commerciali, aziende, residui di attività rurale- disposti in una lunga sequenza in cui ciascun oggetto ha dimensioni proprie, il proprio orientamento, il proprio sistema di riferimento spazio-tempo non commensurabile con quelli contigui. Ciascun oggetto interviene nel racconto ‘spaziale’ in maniera casuale con una storia diversa: finti capitelli gotici, big boxes, giardini popolati da nani di gesso, megaparcheggi, frutteti, finti archi in cemento armato di ogni foggia: a tutto sesto, a sesto acuto, ogivali. Ognuno trae ispirazione dal proprio trascorso per ritagliarsi nel proprio intorno uno spazio a misura della propria individualità, senza cercare di relazionarsi con quanto vi è intorno, contribuendo alla creazione dello spazio delle dissonanze. L’assenza di un progetto condiviso basato su una visione comune di prospettiva futura, l’incapacità di reinterpretare il passato per dare forza al presente rende il paesaggio urbano contemporaneo privo di tempo.

Bibliografia

Benevolo L, 1993. La città nella storia d’europa. Laterza, Roma-Bari Berengo M, 1999. L’Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevo ed età moderna. Einaudi, Torino Cipolla C M, 1974. Storia economica dell’europa pre-industriale. Il Mulino, Bologna De Michelis M, 1989. Le avanguardie artistiche del Novecento. Feltrinelli, Milano Hawking S W, 2005. La grande storia del tempo. BUR Rizzoli, Milano Landes D S, 1984. L’orologio nella storia. Mondadori, Milano Le Goff J, 2006. Un lungo medioevo. Edizioni Dedalo, Bari Le Goff J, 2011. La città medioevale. Giunti, Prato Morreale E, 2009. L’invenzione della nostalgia. Donzelli, Roma Mumford L, 1961. Tecnica e Cultura. Mondadori, Milano. Panofsky E, 1984, La prospettiva come forma simbolica. Feltrinelli, Milano Preto P, 2002. Il tempo ‘laico’ tra età moderna e contemporanea. In De Salvo L, Sindone A (eds), Tempo sacro e tempo profano: visione laica e visione cristiana del tempo. Rubettino editore, Soveria Mannelli CZ Rykwert J, 2003. La seduzione del luogo Storia e futuro della città. Einuadi, Torino. Seta L, 2010. Apprendere in Mobilità. Encyclopaideia n. 28, luglio-dicembre 2010, pp. 111-131. Bologna (IT): Bononia University Press Toraldo di Francia G, 1994. Tempo Cambiamento Invarianza. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino Marialuce Stanganelli

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L’urbanistica della sostenibilità. Una nuova cultura del Sustainability Sensitive Urban Design per lo spazio pubblico

L’urbanistica della sostenibilità. Una nuova cultura del Sustainability Sensitive Urban Design per lo spazio pubblico Ester Zazzero Università “G. d’Annunzio”, Chieti-Pescara Darch - Dipartimento di Architettura Email: esterzazzero@hotmail.it Tel: 349.1788263

Abstract Il paper si propone di delineare una prospettiva di lavoro, definita dall’incontro da domande di trasformazione dello spazio pubblico connesso ai temi di riuso dell’esistente, da riciclare, riconfigurare, rigenerare e le prospettive d’innovazione dell’ urbanistica, tenendo conto della necessità di coinvolgere attivamente le popolazioni locali e le loro istituzioni. Interesse della ricerca è indagare non soltanto i temi del progetto urbano e della sua attuazione con riferimento alle capacità dei sistemi d’impresa locali, ma anche il contributo che ne può provenire ad una nuova strategia di green economy in grado di radicarsi nel sistema economico e produttivo italiano. Impostato, come combinazione mirata tra strategie d’area e quelle di rete finalizzate alla sostenibilità, il progetto urbano diventa espressione di una nuova cultura del Sustainability Sensitive Urban Design, che dovrebbe ispirare in futuro le strategie della riqualificazione urbana in Italia e altrove. Parole chiave: riciclare ecologie, rigenerare paesaggi urbani, urbanistica delle relazioni

Sustainability Sensitive Urban Design Il paper muove dalla tematizzazione di un’intuizione seminale introdotta anni fa da Banham, la città sostenibile dovrebbe essere ripensata oggi come intreccio di ecologie relazionali, individuando le sue diverse articolazioni sulla base delle modalità specifiche di uso delle risorse locali, di funzionamento ambientale, di stile di vita, di benessere della popolazione, di uso delle infrastrutture, di costruzione delle forme insediative, dei linguaggi architettonici e della loro rappresentazione sociale. Combinando in modo pertinente le diverse dimensioni in gioco, tanto nella conoscenza che nell’azione, il progetto urbano verrebbe così a interiorizzare appieno il valore della sostenibilità, senza rinviarlo al ruolo risolutivo delle tecnologie ambientali, che invece si stanno imponendo largamente nelle pratiche correnti. Impostato, come combinazione mirata tra strategie d’area e quelle di rete finalizzate alla sostenibilità, il progetto urbano diventa espressione di una nuova cultura del Sustainability Sensitive Urban Design, che dovrebbe ispirare in futuro le strategie della riqualificazione urbana in Italia e altrove. La variabilità delle scale in gioco induce a precisare meglio il modo d’intendere il Sustainability Sensitive Urban Design, SSUD, che assumiamo come riferimento per caratterizzare la progettazione nella prospettiva della sostenibilità, in cui lo spazio pubblico diviene riferimento stabile nei processi di trasformazione finalizzati alla rigenerazione delle aree abbandonate, degradate e marginali. SSUD è un procedimento progettuale che risponde ad alcuni principi chiave, con cui affrontare i temi dello sviluppo urbano mirato alla sostenibilità, valorizzando per quanto possibile il patrimonio delle risorse di contesto in modo riproduttivo e non distruttivo, migliorando le condizioni di vita delle popolazioni locali e riqualificando gli assetti spaziali che caratterizzano il paesaggio urbano. Mirare prioritariamente alla riconversione e riciclaggio della città esistente, riqualificando in particolare gli spazi di degrado fisico, funzionale e sociale, o di scarso valore paesaggistico-ambientale ( go brownfields, not greenfields ). Ester Zazzero

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L’urbanistica della sostenibilità. Una nuova cultura del Sustainability Sensitive Urban Design per lo spazio pubblico

La nozione di spazio pubblico assunta nella ricerca SSUD apprende dall’avanzamento delle tecnologie della sostenibilità, le nuove clean tech, che hanno ormai un campo di saperi e tecniche notevolmente avanzato, fondato su conoscenze scientifiche di particolare complessità per studiare il funzionamento degli ecosistemi e i loro specifici metabolismi urbani di cui il progetto deve tener conto per non oltrepassare le capacità di carico ambientale dell’area d’intervento. Al tempo stesso apprende dalla migliore tradizione dell’urbanistica della modernità la capacità di trovare nel contesto le condizioni che di volta in volta consentono di stabilire il corretto rapporto con i valori della natura, evitando per quanto possibile trasformazioni che snaturano gli equilibri esistenti. Ma nel nuovo progetto urbano, lo spazio pubblico è orientato a trovare una sintesi più avanzata tra la maggiore complessità acquisita dalle tecnologie della sostenibilità e l’accresciuta consapevolezza del ruolo determinante del contesto. Non ritiene una risposta adeguata alla sfida della sostenibilità né quella offerta dalle pratiche correnti, che tendono a non modificare l’impostazione concettuale del progetto, ricorrendo poi, a posteriori, ai saperi esperti che sono chiamati a mettere in sostenibilità le scelte di assetto già fatte in precedenza; e neanche il giusto richiamo alla tradizione del moderno, che però purtroppo non ha quasi mai prodotto risultati convincenti, banalizzando spesso il rapporto con le condizioni ambientali alla semplice valutazione dell’ esposizione alla traiettoria solare e alla presenza qualificata del verde. La nuova cultura del progetto urbano sustainability sensitive richiede invece di aprire già la fase dell’ideazione all’integrazione tra le diverse dimensioni della sostenibilità, con un approccio più consapevole che fin dall’inizio del processo di costruzione del progetto si propone di contribuire a rendere il metabolismo urbano più coerente agli obiettivi della sostenibilità. La proposta del presente contributo muove dal riconoscimento dell’importanza di un approccio realmente integrato, che consente all’urbanista e all’architetto di interiorizzare la dimensione della sostenibilità fin dall’avvio del processo di ideazione del progetto, quando nel concept iniziale devono essere già presenti in nuce tutte le scelte di contemperamento critico tra le diverse dimensioni in gioco che portano alla sintesi tradotta in forme fisiche e assetti funzionali dello spazio. In questo senso l’approccio proposto non guarda alla città come un insieme di processi ambientali da scomporre e da riprogettare in funzione degli specifici indicatori di sostenibilità. Al contrario, riafferma la necessità di una visione globale sia dello spazio pubblico con le sue qualità morfolologiche , funzionali, figurative e simboliche, sia del processo di progettazione che deve integrare e portare a sintesi le diverse dimensioni in gioco.

Le reti della sostenibilità Un contributo significativo alle strategie di messa in sostenibilità della città esistente proviene comunque dalla introduzione di un concetto innovativo, le reti della sostenibilità. S’intende per reti di sostenibilità la combinazione efficace, e qualificata morfologicamente, delle reti di gestione delle acque, reti per le energie rinnovabili, reti verdi, reti per la biodiversità, reti per la mobilità sostenibile, reti di spazi identitari (permanenze storico-culturali, spazi pubblici, altri luoghi cospicui d’identificazione sociale), reti per la sicurezza urbana. Tutte queste reti, prese singolarmente ma ancor più nel loro insieme, contribuiscono potentemente alla diffusione spaziale delle condizioni di sostenibilità ambientale all’interno della città esistente, consentendo anche di connettere organicamente i network locali con quelli di area vasta del territorio di appartenenza. Il progetto della trasformazione è chiamato allora a predisporre prioritariamente una trama unitaria delle infrastrutture ambientali, multiscalare e multisettoriale, destinata a fungere da matrice e da legante della città sostenibile, garantendo al tempo stesso le prestazioni d’insieme cui sono riferite le singole unità di edificazione. Impostato in questi termini, come combinazione mirata tra strategie d’area e quelle di rete finalizzate alla sostenibilità, il progetto urbano diventa espressione di una nuova cultura del Sustainability Sensitive Urban Design, che dovrebbe ispirare in futuro le strategie della riqualificazione urbana in Italia e altrove.

Verso il progetto urbano sostenibile Nel definire le tecniche procedurali e di metodo per la progettazione sostenibile di quartieri ecologici oggetto della ricerca1, ci si interroga su quali debbano essere le prerogative intrinseche del nuovo progetto urbano sostenibile relativamente alla sperimentazione e predisposizione di nuove tipologie, alle prestazioni richieste ai materiali e ai componenti impiegati, all'integrazione nel processo di progettazione di tecnologie finalizzate al risparmio energetico, se esso vuole essere davvero l'entità che coordina la crescita e che misura le grandezze costitutive della città della trasformazione. Relativamente a queste considerazioni, con una forte 1

Ricerca EcoQuartieri d’Abruzzo_laboratorio per il progetto urbano sostenibile, Regione Abruzzo, Centro di ricerche SCUT Università degli Studi G.d’Annunzio Chieti-Pescara, Responsabile scientifico Prof.A.Clementi, Coordinatore scientifico E.Zazzero.

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schematizzazione sono stati individuati cinque vettori di sostenibilità sui quali il progetto urbano sostenibile orienta le proprie prerogative e per i quali assicura un elevato livello di sostenibilità degli insediamenti urbani. Il primo vettore di sostenibilità, è quello che attiene alla trasformazione tipologica,tecnologica e morfologica dell'architettura nella implementazione degli elementi di sostenibilità ambientale quali elementi portanti ed efficaci del progetto(fig.1-2). Dimensione questa, che comporta il mutamento dei caratteri tipologici, morfologici e tecnico-costruttivi dell'architettura, insito nella ricerca delle potenzialità progettuali che determinano la qualità dello spazio sostenibile. In questa prospettiva gli indirizzi delle più innovative e recenti sperimentazioni progettuali manifestano la convinzione che le trasformazioni indotte dalla cultura dell'ambiente possono oggi incidere profondamente sugli stessi caratteri tipologico-morfologici dell'abitare umano, nella consapevolezza che alla diversità degli input esterni di contesto non può che rispondere una mutata identità formale dell'architettura. II progetto urbano che si voglia definire "sostenibile" è cosi chiamato a rispondere in modo fortemente articolato, complesso e diversificato, ad una quantità di stimoli e vincoli che mettono in gioco sotto diversa luce, contemporaneamente, il ruolo dell'innovazione tecnologica quale elemento-chiave in grado di porsi come veicolo di trasformazione evolutiva più che di consumo dissipativo, e gli aspetti fisico-formali dello spazio costruito quali elementi in grado di restituire, in termini di adattività e flessibilità allo specifico locale, la qualità ecologica dello spazio abitato. Il secondo vettore di sostenibilità, attiene al rifiuto dell'omologazione degli interventi per una riconsiderazione attiva delle specificità locali attraverso un'azione flessibile e adattiva finalizzata alla valorizzazione delle diversità dei luoghi e dei contesti(fig.3). Si tratta di agire, secondo l'ormai affermato principio "Agire localmente e pensare globalmente", che non è solo uno slogan ad effetto, ma una proposizione di principio capace di informare, ormai, qualsiasi approccio progettuale votato ad interpretare efficacemente le istanze di un'architettura ambientalmente consapevole. La concezione egemone di indifferenza al contesto viene così ribaltata nel rispetto e riconoscimento delle identità di contesto, processo che si identifica nell'affermazione di un nuovo paradigma dell'abitare fondato sulla rivalutazione di saperi costruttivi, tecniche e materiali che provengono dalle tradizioni locali e che possono tornare a comporre gli spazi di un sito in una fisionomia propria. Significa invece immaginare tante espressioni vive di una nuova cultura che non pretende più di controllare, isolare e frammentare secondo logiche precostituite le componenti del progetto, ma finalmente riorganizzarle in un disegno ciclico dove ciascun elemento è, già in sé, vettore della irripetibilità delle vocazioni locali e, in ragione di questo, connesso al tutto. Va sottolineato infatti che l'agire localmente non può consistere in un abbandono esclusivo alla differenza: esso deve accedere a un'idea di totalità corrispondente a quel bisogno di pensare in modo integrato, per sistemi complessi, che è la lezione recente pervenuta alla cultura umana proprio e soprattutto dal riconoscimento delle dinamiche e prerogative ambientali. Anche in questo caso tra le strategie di intervento individuate all'interno delle buone pratiche ce ne sono alcune trasversali e comuni ai diversi profili che ribadiscono in particolare la specificità e identità locale attraverso l'ottimizzazione delle specifiche condizioni di mobilità/trasporto e relativa riconsiderazione/riorganizzazione del sistema dei percorsi locali, anche con valorizzazione e qualificazione delle relazioni tra visuali prospettiche, punti di vista e linee di fruibilità; la considerazione e valorizzazione delle condizioni del suolo in termini orografico-litologico-stratigrafici dei siti, e rispetto delle condizioni locali di tipo idrogeologico, con la considerazione dei deflussi delle acque piovane ed in genere di tutte le situazioni legate alla gestione del sistema idrografico superficiale e non misure che attengono alla valorizzazione, protezione e ripristino degli assetti paesaggistico-vegetazionali locali, nel pieno rispetto e conoscenza della possibile crescita spontanea delle serie vegetazionali potenziali, ed in genere alla valorizzazione delle preesistenze storico-architettoniche e ambientali caratterizzanti il sito, nonché all'approfondimento degli studi sulle condizioni di relazione/interazione tra i differenti aspetti antropici in ambito locale, nel progetto di organizzazione e gestione dei flussi di materia, energia e informazione. Strategie di sostenibilità finalizzate in ultima analisi all'ottimizzazione di quel rapporto interpretativo con gli specifici caratteri della vocazione locale del costruire, con la messa in gioco delle questioni legate alla cultura dell'abitare in un'ottica che prediliga il dialogo dell'innovazione con la tradizione, del cambiamento sperimentale con la continuità evolutiva, del "locale" con il "globale". II terzo, sostanziale vettore di sostenibilità è quello che attiene alla necessità del momento di controllo, verifica e monitoraggio della qualità dell'architettura e della forma della città, dall'impostazione di progetto alla gestione dei suoi cicli di vita. Si tratta di un passaggio fondamentale dal concetto di verifica a posteriori del progetto completato, a quello di supporto e di controllo dei differenti gradi di qualità ambientale operabile prima e durante l'impostazione progettuale. Secondo il principio che vede l'affermazione della centralità del controllo e verifica quali momenti fondamentali e strutturanti del progetto, in altre parole il fulcro per affrontare la complessa sfida d'invertire la tendenza a sovrapporre l'artificio alla natura, a vivere la tecnologia come fatalità distruttrice dell'ambiente. In questo senso passo nodale è il superamento delle logiche di verifica "ex post", solo correttive di progetti già compiuti e il più delle volte non improntati ad un'ottica di sostenibilità ambientale, per una conquista del concetto di controllo "ex ante" di supporto al progetto, che, con strumenti flessibili, evolutivi e adattivi alle Ester Zazzero

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specificità delle situazioni, ponga le basi per operare il necessario indirizzo e organizzazione di un'architettura "ecoefficiente" che non può e non deve più essere sostenuta da pretese etiche trascendentali, né da ideologie coagulate in atti prescrittivi. Altrettanta importanza avrà allora la fase di monitoraggio dei comportamenti dell'architettura realizzata, per "testare" il grado di sostenibilità effettiva a cui durante il suo ciclo di vita l'architettura osservata è in grado di ottemperare. Questa operazione si declina su alcune linee strategiche che individuano come particolarmente importanti l'approfondimento del sistema di analisi dei fattori antropici, biofisici e bioclimatici a supporto dell'impostazione di progetto; l'ottimizzazione del sistema di controllo delle componenti ambientali nella fase di sviluppo dei contenuti del programma/progetto d'intervento; la massimizzazione delle capacità strumentali di verifica dei gradi di qualità ed ecoefficienza del progetto d'architettura e della realtà urbana, a tutti i livelli; la valorizzazione dei momenti di controllo/verifica dei diversi gradi di qualità e sostenibilità ambientale da assegnare alle fasi evolutive del progetto, ed infine, l'ottimizzazione del sistema di monitoraggio dei comportamenti degli spazi aperti, intermedi e confinati nell'ambito delle trasformazioni urbane realizzate. Un altro vettore di sostenibilità fondamentale è quello che concerne l'incentivazione degli aspetti "passivi", integrati a quelli attivi, nel progetto d'architettura per una intelligente ed efficace regolazione climaticoenergetica nel funzionamento e gestione degli edifici e degli aggregati urbani. Secondo un approccio logico che mira ad associare l'ottenimento di un elevato grado di "qualità ambientale", al conseguimento di un comportamento energetico "passivo", ossia capace di implementare "per forma" le potenzialità offerte dai fattori macro e microclimatici, nella consapevolezza che a differenti situazioni climatiche, ambientali, culturali, sociali, corrispondono con coerenza differenti sviluppi dei caratteri distintivi della forma dell'architettura, e che porta secondo quest'ottica alla centralità del tema del "passivo" quale questione chiave attraverso la quale operare, in modo "naturale" e, per quanto possibile, senza ricorso all'impiantistica "attiva", o quantomeno in forma fortemente integrata con essa, l'indirizzo ed ottimizzazione delle interazioni materiali e immateriali tra costruito e ambiente immediatamente circostante, tenendo in considerazione i cambiamenti stagionali e giornalieri delle condizioni climatiche, le esigenze di comfort e benessere degli occupanti, e gli equilibri di consumo energetico del luogo. Divengono in questa dimensione questioni portanti, tra le altre, quelle del perseguimento, soprattutto tramite una adeguata conformazione del costruito, degli obiettivi strategici di raffrescamento passivo per ventilazione ed evapotraspirazione naturali, di riscaldamento passivo per accumulo termico, d'illuminazione naturale diffusa per irraggiamento diretto o indiretto, e di controllo passivo del grado di umidità relativa per la copartecipazione degli stessi fattori di soleggiamento e ventilazione. Si impongono all'interno di questo quadro logico le linee strategiche che conducono all'eliminazione o riduzione dei fattori inquinanti di aria, acqua, suolo, all'elevazione della qualità abitativa e della salubrità globale del sito e dell'edificato; alla riduzione dell'inquinamento acustico; al potenziamento degli effetti benefici indotti sugli ecosistemi dall'impiego progettuale di elementi vegetali e alla definizione dei caratteri morfologico/prestazionali degli edifici e dell'assetto urbano con le condizioni ambientali dei luoghi. Infine il quinto, forse il più difficile vettore di sostenibilità è quello di assicurare forti elementi di riequilibrio biologico da far valere come enzima attivatore di contesto(fig.4). E' questo il vettore che più direttamente risponde al bisogno di un intervento strutturante la forma urbana che attiene al significato dello "spazio intermedio" o "spazio tra" (space between), aperto o semiaperto, quale elemento su cui articolare il progetto urbano sostenibile. Lo spazio intermedio non si configura solo come elemento fisico (spazi/filtro aperti, strade, percorsi, piazze, ecc), ma come dimensione concettuale entro cui inquadrare il passaggio, da un livello all'altro, di tutte le interazioni materiali e immateriali in gioco in un progetto ecosistemico di architettura. II concetto di space between, nella tensione verso un equilibrato rapporto tra progetto del costruito e contesto ambientale, conduce a cambiamenti profondi che vanno operati nella ridefinizione formale e funzionale dello spazio Si delineano, anche in questo caso, all'interno delle tecniche/buone pratiche delle linee strategico-progettuali trasversali ai vari profili di sostenibilità che si articolano nel controllo e valorizzazione degli elementi vegetazionali nel loro ruolo-filtro tra fattori ambientali e fruizione tisica degli spazi aperti; nell'organizzazione degli spazi aperti finalizzati alla relazione e all'incontro, nel quadro di generale riorganizzazione dei percorsi e della mobilità; nella valorizzazione in senso ergonomico e prossemico degli spazi aperti "tra" gli edifici; nella massimizzazione delle condizioni di comfort psico-percettivo degli assetti morfologici caratterizzanti gli spazi aperti intermedi e nella minimizzazione del sistema di traffico veicolare su gomma e massimizzazione di quello pedonale. In conclusione possiamo affermare che operare verso un progetto urbano sostenibile, anche nell'ottica di una globale sostenibilità ambientale, è oggi più che mai un obiettivo carico di nuove strategie flessibili e adattive, attraverso cui indirizzare la progettazione di nuovi insediamenti, il recupero e la riqualificazione dell'esistente ed in particolare il rapporto periferia-città, tra evoluzione degli aspetti tipologico/formali ed ecoefficienza globale dell'ambiente costruito. L'obiettivo ultimo di questo lavoro di ricerca è quello di legare intimamente ai caratteri del territorio e del luogo di riferimento la pianificazione urbanistica, la progettazione ambientale ed urbana, e Ester Zazzero

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L’urbanistica della sostenibilità. Una nuova cultura del Sustainability Sensitive Urban Design per lo spazio pubblico

l'attuazione degli interventi di architettura volti all'innalzamento della qualità ed ecoefficienza dell'ambiente costruito, basandoli su accordi volontari tra le parti interessate alla realizzazione, senza imporre regole o norme, ma indirizzando l'ideazione degli strumenti urbanistici e l'organizzazione delle operazioni di trasformazione con l'ausilio di apparati finalizzati alla proposizione e verifica di azioni strategiche adeguate alla complessità dei fenomeni.

Figura 1. Houses under light a Teramo_progetto di riconversione urbana dell’area industriale Villeroy & Boch

Figura 2. Houses under light a Teramo_progetto di riconversione urbana dell’area industriale Villeroy & Boch

Ester Zazzero

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L’urbanistica della sostenibilità. Una nuova cultura del Sustainability Sensitive Urban Design per lo spazio pubblico

Figura3. Houses and limes a Chieti Scalo_progetto di riconversione urbana dell’area industriale General Sider

Figura4. Houses and fields a Pescara_progetto di riconversione urbana di Fontanelle

Bibliografia ADEME (2006) Réussir un projet d’urbanisme durable, Le Moniteur, Paris. C.Charlot-Valdieu, P.Outrequin (2009) L’urbanisme durable.Concevoir un écoquartier, Le Moniteur, Paris. A.Clementi ( a cura di) (2010) EcoGeoTown, List, Trento-Barcellona. A.Clementi (2012) Urbanistica della sostenibilità, in E.Zazzero, G.Vallese, a cura di, “Rijeka/Pescara. Progettare la città sostenibile”, Sala, Pescara. DRE Ile-de-France (2008) L’@menagément durable, in C.Charlot-Valdieu, P.Outrequin, 2009, ”Ecoquartier. Mode d’emploi”, Eyrolles, Paris. P.Droege (2006) The Renewable City, Wiley&Sons, Chichester, ( trad.it. 2008, edizioni Ambiente). S.Lehmann (2010) The Principles of Green Urbanism, Earthscan, London-Washington. P.Lefèvre, M.Sabard (2009) Les Ecoquartiers. Avenir de la ville durable, Apogèe, Rennes. A.Ritchie, R.Thomas (2009) Sustainable Urban Design,Taylor&Francis, London-NewYork. E.Zazzero (2010) Progettare Green Cities, List, Trento-Barcellona.

Riconoscimenti Si ringraziano la Regione Abruzzo, Assessorato Sviluppo Economico, Servizio Programmi intersettoriali, Ricerca e Innovazione, le Amministrazioni Comunali di Chieti, Pescara e Teramo, il Responsabile scientifico Prof.A.Clementi, i proff. L.Pignatti, F.Raimondo, C.Pozzi e gli Architetti G.Vallese, C.Di Girolamo, C.Corfone, V.La Rosa, F.Chella, G.Di Marzio e E.Braì. Ester Zazzero

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Una metodologia per la valorizzazione del paesaggio storico urbano secondo le linee guida UNESCO

Una metodologia per la valorizzazione del paesaggio storico urbano secondo le linee guida UNESCO Emanuela Abis Università degli Studi di Cagliari DICAAR - Dipartimento Ingegneria Civile Ambientale ed Architettura Email: emabis@unica.it Chiara Garau Università degli Studi di Cagliari DICAAR - Dipartimento Ingegneria Civile Ambientale ed Architettura Email: cgarau@unica.it Stefano Pili Università degli Studi di Cagliari DICAAR - Dipartimento Ingegneria Civile Ambientale ed Architettura Email: stefano.pili@unica.it

Abstract Le raccomandazioni UNESCO per tutelare e valorizzare il paesaggio storico urbano sottolineano la necessità di comunicare ai city users il valore sia delle emergenze architettoniche che del sistema culturale territoriale in cui esse si inseriscono e si relazionano. Partendo dal caso di studio di un quartiere storico di Cagliari (Castello), si è definito un approccio metodologico per la costruzione, la condivisione e la gestione della conoscenza applicata al processo di tutela e valorizzazione del patrimonio storico urbano, in coerenza con le raccomandazioni UNESCO. Nel contributo si mostrano i primi risultati di una ricerca in corso, in cui, utilizzando l'ampia disponibilità di Open Geodata (OG) e le capacità di analisi spaziale proprie degli strumenti GIS, sono stati sintetizzati alcuni layers informativi allo scopo di rappresentare le relazioni tra le componenti fisico-qualitative degli edifici, le caratteristiche demografiche e sociali dei residenti e i valori immateriali che caratterizzano il patrimonio edificato. Parole chiave Patrimonio storico urbano, integrazione, conoscenza.

Il nuovo concetto di paesaggio storico urbano La riflessione proposta è finalizzata essenzialmente a comprendere le potenzialità degli Open Geodata (OG) opportunamente elaborati attraverso indicatori sintetici, come basi per la costruzione di un GEO-blog integrato con le Volunteered Geographic Informations (VGI), al fine di impostare un processo iterativo di implementazione e condivisione della conoscenza in contesti fortemente caratterizzati come “paesaggi storici” secondo la definizione data dall’UNESCO nella raccomandazione per la valorizzazione e la tutela del Paesaggio Storico Urbano (Recommendation on the Historic Urban Landscape, adottata nel novembre 2011 e approvata nel maggio 2012). L’applicazione ad un caso di studio della città di Cagliari ha lo scopo di validare il modello metodologico mettendo a fuoco le criticità che emergono nel passaggio dall’enunciazione generica di principi quali partecipazione, valorizzazione, tutela, del patrimonio storico diffuso, contenuti nei documenti di indirizzo UNESCO e nella letteratura, alla loro attuazione a livello locale. Il contributo riporta alcuni risultati delle attività svolte nell’ambito del progetto di ricerca “Procedure e modelli per la valorizzazione integrata del patrimonio insediativo storico. Linee guida per l'applicazione della Raccomandazione Unesco sul paesaggio storico urbano”

Emanuela Abis, Chiara Garau, Stefano Pili

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Una metodologia per la valorizzazione del paesaggio storico urbano secondo le linee guida UNESCO

finanziato dalla Regione Sardegna nell’ambito della Legge regionale di promozione della ricerca scientifica (LR 7/2007). La tutela e la valorizzazione del patrimonio storico fanno parte della tradizione culturale di ogni società (Tweed et al., 2007; Doratli et al., 2004) ed hanno acquisito un ruolo sempre più significativo e centrale nelle attuali politiche urbane. Tuttavia il concetto di patrimonio culturale risulta essere in continua evoluzione, come dimostrato anche dalla rielaborazione dello stesso concetto operata dall’UNESCO a partire dal World Heritage Convention (1972). Si è passati dall’identificare il patrimonio come un bene indipendente dal suo contesto, al considerarlo come esito architettonico corale. Oggi la letteratura è concorde nell’affermare che un monumento fa parte del tessuto urbano in cui si contestualizza, nel considerare i centri storici nella loro interezza come sistemi culturali identitari (Gabrielli, 2010); più recentemente l’interesse si è esteso al contesto geografico entro cui la città si è nel tempo costruita e modificata fino ad arrivare al concetto di paesaggio storico culturale (Rössler 2005; Leask et al. 2006). Partendo da questi presupposti, si capisce come la raccomandazione UNESCO citata, non modificando gli approcci conservativi esistenti, integra e promuove le politiche e le pratiche di conservazione dell'ambiente costruito attraverso il landscape approach. Tale raccomandazione va oltre il significato e i limiti dell’organizzazione spaziale, sociale e culturale, tipici e radicati nel vivere urbano; si sofferma sulla percezione visiva e sul rapporto tra edifici e morfologia, integrando anche l’insieme dei beni materiali ed immateriali che costituiscono l’«espressione della cultura di una determinata collettività» (Buratti, 2012: 35). Conservare il paesaggio urbano assume quindi il significato di un suo pieno coinvolgimento nella contemporaneità (Spagnolo, 2011), attraverso azioni di riutilizzo che ne garantiscano la permanenza e la salvaguardia dell’identità.

Una metodologia di analisi Definire strategie e programmi per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico urbano implica sempre cogliere le opportunità di sviluppo culturale ed economico del contesto in cui si opera senza introdurre fattori che possano compromettere la conservazione dei beni da tutelare, definendo condizioni compatibili di riutilizzo sia per le funzioni pubbliche che per quelle private. A tal fine si propone un modello di rappresentazione della realtà che ne evidenzi i caratteri identitari peculiari mediante indicatori quantitativi e qualitativi utili all’elaborazione di scenari sui quali valutare gli effetti conseguenti alle diverse potenziali azioni di modificazione. Nella fase preliminare l’approccio si concretizza attraverso un’analisi SWOT su cui formulare obiettivi, individuare azioni e monitorarne gli effetti. In letteratura si rileva la difficoltà nell’applicazione tradizionale di tale analisi al patrimonio storico urbano in quanto alcuni fattori esterni, che possono anche essere letti con un'accezione negativa per l'intero contesto urbano possono viceversa rivelarsi come fattori chiave per lo sviluppo di un particolare quartiere storico (Bryson, 1988; Cuesta et al., 1999; Doratli et al., 2004). Per adattare l’analisi all’approccio metodologico strategico si propone di strutture la base conoscitiva su due macro categorie: il patrimonio storico urbano, con i suoi valori materiali ed immateriali da tutelare e valorizzare, caratterizzato da fattori più costanti nel tempo, attraverso i quali si possono definire i punti di forza e debolezza; le funzioni, anch'esse materiali ed immateriali, caratterizzate da una maggiore variabilità, in base alle quali individuare opportunità e minacce per lo sviluppo. Si sono assunte come riferimento le linee guida per la costruzione di un modello di Piano di Gestione previste dalla raccomandazione UNESCO. Tali linee guida propongono alcuni assi strategici per l’individuazione di obiettivi e risultati attesi di medio e lungo termine, utili a orientare la decisione e facilitare il dialogo tra PA e stakeholders locali. In particolare si rinvengono cinque strategie: di conoscenza; di conservazione; di partecipazione; di valorizzazione e sviluppo; di marketing e comunicazione territoriale intorno alle quali si è strutturata l’analisi del contesto. Le componenti del patrimonio storico urbano rappresentano le caratteristiche identitarie in quanto a unicità, conservazione e rilevanza. La maggior parte delle componenti riferite al patrimonio fisico ha un andamento prevalentemente statico, così come i valori identitari che costituiscono le relazioni col sistema storico culturale territoriale della lunga durata. Le altre componenti, legate alla fruizione dello spazio, hanno invece un andamento più dinamico che richiede strumenti di monitoraggio flessibili ed implementabili anche con metodi partecipativi. La seconda categoria di analisi, ossia le funzioni, è caratterizzata dall'integrazione di componenti fisiche, quali la consistenza degli alloggi e la presenza dei servizi, con componenti immateriali. La definizione del profilo dell'utenza, unitamente alle caratteristiche di pregio ed obsolescenza delle funzioni, permette di individuare le opportunità di rifuzionalizzazione del patrimonio (Bullen, 2010). Le funzioni, pur basandosi su fattori di natura fisica, sono l'elemento più dinamico del sistema su cui l'azione strategica può agire in maggior misura e necessitano di strumenti di monitoraggio che coinvolgano più direttamente tutti i fruitori. La rappresentazione sintetica di alcune componenti si può basare sul vasto panorama di OG che, pur con peculiarità diverse dettate dal contesto, può fornire informazioni di natura topografica (disponibile con alto grado Emanuela Abis, Chiara Garau, Stefano Pili

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Una metodologia per la valorizzazione del paesaggio storico urbano secondo le linee guida UNESCO

di dettaglio per gli ambiti urbani), sui vincoli e sugli strumenti di pianificazione e, più in generale, sui dati statistici disponibili presso banche dati istituzionali: la morfologia urbana; il patrimonio edificato; la localizzazione dei servizi; i beni architettonico monumentali. L’utilizzo delle capacità di analisi e rappresentazione degli strumenti GIS permette di ricavare letture integrate tra componenti di diversa natura che possono essere diffuse on-line mediante WebGis (Dragicevic et al., 2004; Di Pasquale et al., 2011; Minghini, 2012; Skarlatidou et al., 2013). Il patrimonio documentale conservato presso archivi e biblioteche è, invece, la base per definire e rappresentare i valori immateriali dell’edificato storico nei loro significati e valenze identitarie consolidate dei luoghi. Lo studio delle componenti, che coinvolge a vario titolo i city user, seppure possa essere basato su una certa disponibilità di dati statistici riguardanti il profilo dei residenti, può richiedere l’integrazione di un contributo informativo di tipo partecipativo sia per colmare lacune dei dati ufficiali che per ottenere nuove informazioni. In questo modo vi è una “redazione corale” della mappa, come forma di creazione, scrittura, pubblicazione di contenuti georeferenziati da parte non solo degli addetti ai lavori, ma di tutti gli utenti, in cui la produzione “tecnica” viene implementata da informazioni provenienti dai VGI. In letteratura si ritrovano diverse recenti sperimentazioni di Geoblog o WebGis integrati con i VGI applicati al patrimonio storico urbano (Goodchild, 2007, 2010; Salvatori et al., 2012; Oliveri et al., 2012; Rotondo, 2012). Tuttavia, sebbene sia possibile controllare la qualità del dato ex ante ed ex post con modalità preventive e correttive, non bisogna sottovalutare alcune problematiche che portano inevitabilmente alla questione della classificazione degli utenti (Coleman et al., 2009). Infatti può capitare che i) i dati raccolti volontariamente manchino di una corretta localizzazione (causata dall'inesperienza degli utenti); ii) si manifestino difficoltà nell’elaborare le stesse informazioni volontarie perché sono da sovrapporre, combinare, far interagire con altri strati informativi mediante apposite mash-up; iii) non sia sufficiente o venga a mancare del tutto l'attendibilità degli utenti volontari.

L’applicazione della metodologia al quartiere storico di Castello (Cagliari) Come detto nella premessa Castello, uno dei quattro quartieri antichi della città di Cagliari, è stato assunto quale ambito di studio poiché il suo carattere fortemente identitario come nucleo di prima e antica formazione della città, che conserva ancora oggi pressoché invariato l’impianto urbanistico medioevale racchiuso dalle mura risalente alla fondazione pisana, lo rende particolarmente idoneo all’applicazione dei criteri contenuti nella raccomandazione UNESCO. La concentrazione di beni storico culturali e l'elevata incidenza di edifici pubblici caratterizzano il quartiere per una forte presenza di funzioni istituzionali e di servizio di scala urbana tra le quali spiccano quella universitaria e quella museale. Il Comune di Cagliari ha recentemente adottato (2011) il Piano Particolareggiato del Centro Storico che andrà a sostituire il precedente strumento regolatore, il Piano Quadro per il Centro Storico (2000). Il quartiere non è stato sinora interessato da alcuno specifico piano di valorizzazione capace di indirizzare le politiche e gli interventi dei diversi soggetti pubblici e privati cui compete la gestione dell’importante patrimonio costruito oggetto di interventi di riuso sempre più sporadici e non coordinati.

Il patrimonio storico urbano Nello sviluppo dell’applicazione metodologica al caso di studio si è riscontrata inizialmente l’elevata eterogeneità dei documenti OG disponibili riferiti al contesto. Nella prima fase si è provveduto alla raccolta degli OG tramite ricerche di archivio e di dati territoriali sistematizzando la conoscenza in maniera funzionale alle analisi, attraverso una piattaforma di condivisione su base spaziale. Le informazioni sono contenute in dati di varia natura (fotografie, disegni, delibere, testi...), non sempre disponibili in versione digitale e provvisti di un riferimento spaziale esplicito. Non tutte le informazioni possono essere rappresentate su base spaziale: alcuni dati sono privi di riferimento mentre altri, pur essendo in qualche modo riconducibili ad un ambito spaziale non possono essere georiferiti per l’onerosità dell’operazione o per la poca significatività della stessa. La spazializzazione, perciò, è stata effettuata tramite letture sintetiche, organizzate in maniera multi scalare per rappresentare le principali componenti che caratterizzano il patrimonio storico tramite l'utilizzo di elementi vettoriali, immagini RASTER e un sistema di hyperlink legati in modo univoco agli oggetti cartografici e ad un database strutturato che potrà essere implementato in WebGis. Tale approccio è funzionale all’organizzazione della conoscenza nella fase dell'individuazione dei valori e contribuisce, fin dalle prime fasi della ricerca, a costruire una struttura dei dati utile non solo alla condivisione e diffusione dei risultati ma anche all'identificazione delle informazioni mancanti da integrare con strategie di comunicazione e di partecipazione. La rappresentazione sintetica si articola per temi qualitativi a carattere prettamente spaziale ed in alcuni indicatori quantitativi che misurano la consistenza e il grado di conservazione del patrimonio rispetto al contesto urbano.

Emanuela Abis, Chiara Garau, Stefano Pili

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Una metodologia per la valorizzazione del paesaggio storico urbano secondo le linee guida UNESCO

Le funzioni Come già accennato, lo studio delle funzioni si compone dell’analisi delle componenti materiali, legate alla fisicità dei luoghi, e immateriali, basate sulla percezione dello spazio da parte dei suoi fruitori. L’approccio sviluppato parte dall’analisi delle informazioni ufficiali disponibili, per poi identificare le componenti necessarie e non reperibili se non attraverso una implementazione su base partecipativa da parte dei city users. In generale, ed anche nel caso di studio, la funzione residenziale può avvalersi di una vasta quantità di informazioni ufficiali, di buon dettaglio spaziale e aggiornate con periodicità, su cui basare lo studio e la rappresentazione. L’ISTAT, ad esempio, rende disponibili i dati dei censimenti della popolazione e delle abitazioni col dettaglio della sezione censuaria. Sono un utile strumento anche le pubblicazioni annuali dell’Ufficio Statistico del Comune di Cagliari che riportano dati ricchi di dettaglio sintetizzati dall’anagrafe comunale col riferimento spaziale del quartiere. L’insieme dei dati disponibili permette di tracciare il profilo dei residenti in relazione con i caratteri fisico-qualitativi del patrimonio residenziale. In questo modo le caratteristiche del quartiere di Castello possono essere confrontate con quelle degli altri quartieri storici e dell’intero sistema urbano, scendendo ad un dettaglio di scala anche maggiore. Con la sintesi necessaria in questa sede, si possono riportare alcune informazioni di base: il quartiere ha una popolazione residente di limitata entità (sui 31 quartieri di Cagliari, è il terz’ultimo per popolazione residente; ISTAT 2011) con un andamento in costante decrescita, in linea con l’andamento del centro storico e con queelo più generale della città. Il profilo della popolazione, unitamente alle caratteristiche qualitative degli alloggi, evidenzia una certa specializzazione funzionale della residenza in alloggi di piccole dimensioni, ricavati dal frazionamento di più vaste unità immobiliari, tipologie apprezzate da famiglie mononucleari di maschi in età lavorativa. È chiaro che il quartiere non è attrattivo per i nuclei familiari più numerosi, o per la popolazione straniera che, al contrario, negli altri quartieri storici pare avere trovato un’offerta residenziale più adatta alle esigenze delle famiglie con più componenti. Il quartiere mostra una limitata presenza dei attività commerciali rispetto ai quartieri storici circostanti, con una forte concentrazione di attività artigianali. Per quanto riguarda le altre funzioni, il livello informativo ufficiale è molto più limitato: è disponibile nel DBMP della Regione Sardegna un censimento delle attività commerciali, artigianali, industriali e dei servizi pubblici presenti nella città di Cagliari spazialmente aggiornato al 2008. Sono disponibili alcuni dati quantitativi dei principali servizi generali relativi ai flussi di utenza che il quartiere ospita giornalmente (lavoratori e studenti del settore universitario), ma per quanto riguarda i flussi turistici sono disponibili solo stime basate sugli arrivi e le presenze a livello comunale. Nei dati ufficiali, inoltre, è completamente assente la componente relativa alla percezione dei city user sugli aspetti qualitativi e funzionali del patrimonio così come la valutazione delle possibili strategie di riqualificazione funzionale. La forte presenza di patrimonio pubblico e l’alta incidenza di alloggi non utilizzati offrono l’opportunità di delineare strategie per la riqualificazione funzionale del patrimonio finalizzata alla rivitalizzazione dell’intero contesto, che però non potranno essere efficaci senza il coinvolgimento diretto dei city user sia con metodi innovativi che di natura più tradizionale. Ad esempio per definire le potenzialità di riuso del patrimonio abitativo potrebbe essere necessario integrare le OG con informazioni sulla propensione dei proprietari all’investimento finalizzato a rifunzionalizzare gli immobili per la ricettività turistica o studentesca e alla riqualificazione energeticoimpiantistica.

Conclusioni e considerazioni sullo sviluppo della ricerca Nel modello metodologico brevemente illustrato in questo contributo resta da sperimentare quali siano le potenzialità dell’insieme dei dati ufficiali, integrati con le Volunteered Geographic Informations (VGI) per la costruzione del quadro conoscitivo finalizzato alla definizione di strategie di tutela e valorizzazione del patrimonio. Alcuni aspetti sembrano essere di maggiore interesse per costruire un’efficace integrazione tra OG e VGI : • la qualità percepita degli ambienti interni delle abitazioni (temperatura, umidità, luminosità, obsolescenza) e la propensione ad interventi di riqualificazione e ristrutturazione; • la qualità percepita dello spazio pubblico e dei beni culturali; • il livello di qualità dei servizi generali e di quartiere percepita dei fruitori; • il livello di accessibilità e di collegamento con la città percepito dai city users; • il livello di qualità dei servizi turistico - ricreativi percepito dai city users; • la valutazione del grado di condivisione delle trasformazioni tramite l'uso di specifici scenari progettuali. In questo modo si verrebbe a costruire un sistema dinamico utile alla definizione di linee guida progettuali all'interno del Piano di Gestione.

Emanuela Abis, Chiara Garau, Stefano Pili

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Una metodologia per la valorizzazione del paesaggio storico urbano secondo le linee guida UNESCO

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Emanuela Abis, Chiara Garau, Stefano Pili

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Dall’Architettura della Città all’Architettura del Paesaggio Urbano? Una ricerca di una nuova praxis per il progetto dello spazio pubblico

Dall’architettura della città all’architettura del paesaggio urbano? Una ricerca per una nuova praxis per il progetto dello spazio pubblico Raffaella Campanella Università Mediterranea di Reggio Calabria Dipartimento di Architettura e Territorio - dArTe Email: rcampanella@unirc.it

Abstract Da oltre un trentennio la città è prigioniera di una sorta di ‘impasse tautologica’ che rende problematica ogni forma di approccio progettuale che non si fondi su tale nominalismo e sui suoi contenuti pregiudiziali. Tale impasse si traduce, infatti, in una grande difficoltà a definire e progettare lo spazio urbano contemporaneo con modalità differenti da quelle ereditate dalla ‘tradizione’, storica o moderna che sia. L’antica unità si è scissa però in entità molteplici e l’interpretazione e progettazione della realtà urbana contemporanea è divenuta così complessa da necessitare di un differente ‘contenitore concettuale’, di una sorta di ‘entità vicaria’ di ciò che fino ad oggi abbiamo nominato con il termine città. Può questa ‘entità vicaria’ della città essere riconosciuta nel ‘paesaggio urbano’? Può la ‘metafora del paesaggio’ con la sua valenza bisociata sostituire la matericità del ‘corpo della città’ ed essere posta a fondamento della ricerca di una nuova ‘praxis’ per il progetto dello spazio pubblico nella contemporaneità? Ogni Altrove non è che questa riva, questa città. Inutilmente speri un altro porto per la tua nave un altro sbocco per la tua strada (Costantino Kavafis – La città) Da oltre un trentennio la città è prigioniera di una sorta di ‘impasse tautologica’ (una città è una città) che nonostante l’ondata interpretativa che, già a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, tenta di comprendere e rinominare i nuovi materiali urbani e di individuare differenti e possibili modalità costruttive del ‘progetto dell’esistente’ – rende problematica ogni forma di approccio che non si fondi su tale nominalismo e sui suoi contenuti pregiudiziali e si traduce in una grande difficoltà a definire e progettare lo spazio urbano contemporaneo con modalità differenti da quelle ereditate dalla ‘tradizione’, storica o moderna che sia. Nonostante la spazialità urbana con cui ci confrontiamo sia oramai da lungo tempo caratterizzata dalla dispersione, dall’incompletezza e dall’indeterminazione, e l’antica unità, rappresentata dal termine ‘città’ e dal relativo concetto, si sia scissa in entità molteplici, differenti e contrastanti, che manifestano una forte (nonché tal volte fiera) opposizione alla codificazione ed alla sistematizzazione; la sua ‘qualità’ viene letta ancora oggi utilizzando prevalentemente le categorie «dell’interno, uno strumento ricavato dall’identificazione albertiana della casa con l’organismo urbano». (Purini, 1994: 226) Per contro, la diffusione urbana contemporanea ha assunto caratteri macroscopici, inglobando al suo interno ampie aree dal carattere incerto o non più certo - nelle quali il ‘senso’ del paesaggio prevale sul ‘racconto’ del territorio - caratterizzate in alcuni casi da un alto grado di ‘atopicità’, mentre in altri dal possedere una ‘topicità’ talmente forte da sembrare oramai fuori luogo. (Campanella, 2012b) In questo nuovo panorama urbano, infatti, che sembra caratterizzato unicamente dalla diffusione e dalla omotopia; in questo ‘spazio-contenitore’ di elementi eterogenei, accostati e al contempo isolati, tenuti insieme casualmente dai deboli fili degli ‘attraversamenti’ (Ilardi, 1999: 107) e dalla ‘dimora mobile’ dei mezzi di trasporto (Virilio, 1998: 82), persino

Raffaella Campanella

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Dall’Architettura della Città all’Architettura del Paesaggio Urbano? Una ricerca di una nuova praxis per il progetto dello spazio pubblico

«lo stesso centro storico finisce con l’assumere il ruolo di un puro incidente morfologico, una presenza divenuta casuale che riceve oggi dalla periferia gran parte della propria identità». (Purini, 1997: 277) Sono cambiati inoltre i modi di utilizzare la città, sia da parte dei suoi abitanti stanziali che da parte dei cosiddetti user. E sono cambiati anche i modi di percepire lo spazio urbano, nei suoi caratteri fisici e simbolici, da parte delle comunità insediate in quanto, nell’attuale organizzazione urbana, «la marginalità e il nomadismo sono divenuti simbolo di una società di minoranze chiuse in una mutua indifferenza che deve reimparare a riconoscere attraverso le proprie contraddizioni le necessità dell’interesse collettivo». (Gregotti, 1993: 24) Già negli anni ’60 del secolo scorso Ludovico Quaroni aveva compreso che la dimensione metropolitana avrebbe rappresentato il futuro della città: «la metropoli è grande, contiene in se il concetto di incommensurabile […] Non esistono più mura di cinta, e non esistono confini; non esiste separazione fra città e campagna […] il fenomeno metropoli finirà per verificarsi dappertutto, anche in quei luoghi nei quali l’agglomerato edilizio è ‘finito’ perché gli altri più vicini sono a grande distanza. Metropoli è il modo d’essere della città moderna, indipendentemente dalle statistiche ufficiali e dagli annuari geografici». (Quaroni, 1967: 69) Quello che però colpisce nelle parole di Quaroni è il senso latente di una fiducia, comunque, riposta nel ‘progetto del moderno’. Un progetto che si misura con una trasformazione quantitativa e qualitativa della città, ma non con una sua possibile dissoluzione. Un progetto in cui «politica (come imposizione di norme etiche per rendere virtuosa l’esistenza degli uomini) e architettura (come creazione di forme spaziali per ridurre all’ordine il caos) si identificavano per teorizzare le forme di una nuova società che restituissero all’esistenza dell’uomo moderno un ethos continuamente rinnovato». (Ilardi, 1999: 8) Ma nella dimensione contemporanea, in cui l’ordine economico diviene egemone e detta le regole delle relazioni sociali e i poteri che originano la crescita metropolitana faticano sempre più a territorializzarsi e a generare forme di convivenza radicate spazialmente sul territorio (Cacciari, 2004), il ‘progetto del moderno’ sconta, in questi ultimi trent’anni, il fallimento del suo portato ‘ricostruttivo’ della condizione urbana contemporanea, scontrandosi col ‘tramonto della politica’ e con la ‘deriva dell’architettura della città’. La prima, infatti, si ritrae dalla scena del teatro collettivo, perdendo la capacità di allestirne le rappresentazioni sociali e lasciandola colma di un enorme vuoto di quei valori e simboli propri della cittadinanza e dell’identità pubblica; mentre la seconda appare come risucchiata in forme di ‘autismo culturale’ che oscillano «dall’esaltazione postmoderna del mito della storia e della tradizione alla attuale, altrettanto acritica, glorificazione del futuro, entrambe celebrate sull’altare del presente e dell’istantaneo nel quale, in realtà, altro non si reifica se non il mito del mercato e del consumo». (Neri, 2010: 96) Nella dimensione spaziale dell’urbano contemporaneo, nonostante vi sia immersa, l’architettura tende ad abbandonare ogni riferimento a città e territorio, a tempo e luogo, accettando «di farsi spettacolo, strumento di comunicazione di massa, evento, espressione diretta delle evoluzioni del gusto. […] rinunciando a esprimere ciò che di stabile questa stessa società produce»; ritenendo, probabilmente, «che gli insediamenti umani, specialmente le metropoli e le megalopoli, siano ormai del tutto fuori controllo, (e che) in esse l’architettura possa intervenire solo in modo puntiforme e sostanzialmente casuale rinunciando, di fatto, a pianificare lo sviluppo, sostituito da un’espansione lasciata alle grandi iniziative speculative private, sostenute da quelle potenti strutture finanziarie internazionali sintetizzate nella sigla real estate.» E in questa visione «anche lo spazio pubblico […] viene ritenuto superato, se non ridotto a un vero e proprio rifiuto prodotto dalla crescita delle città. Nella maggior parte dei casi, esso è ritenuto una semplice appendice al consumo, buono soltanto per ospitarne i rituali e ampliarne le mitologie». (Purini, 2008: V-VI) Smarrito il senso della cittadinanza e dell’identità pubblica gli attori sociali non vivono più una realtà degli spazi collettivi creata a loro misura e da loro stessi, ma si trovano immersi in un mondo preconfezionato, fatto di stereotipi e di modalità di azione ‘manierate’ secondo i dettami di un processo di marketing culturale che, in un continuo gioco di simulazione e seduzione, crea realtà urbane fittizie - per eccesso di derealizzazione o di iperrealizzazione - caratterizzate da una sorta di ‘semiorragia’: un’emorragia di segni per eccesso di significante (Baudrillard, 1984) che, paradossalmente ma non troppo, assottiglia il valore per eccesso di carattere generando, di fatto, una forma di kitsch contemporaneo che dal pseudo-oggetto si propaga allo spazio pubblico e alle modalità della sua fruizione. Questo assottigliamento di valore viene, inoltre, esasperato dalla massa in costante crescita di user, una valanga di umanità che, alla ricerca perpetua del ‘carattere’, macina identità storicizzate fino a ridurle in polvere senza significato. In quest’ottica interpretativa lo spazio pubblico, concepito come elemento di una cittadinanza attiva e di un’identità culturale alla base di valori condivisibili, rischia di divenire un’affermazione perdente: non solo in un modello culturale derivato da quell’estetica della simulazione, fondata su pseudo-spazi, poveri di significato reale ma sovrabbondanti di segni, non più in grado di tradurre l’anticipazione sociale in affiliazione culturale c’è proporzionalmente sempre meno da condividere, ma i luoghi stessi così concepiti finiscono col possedere una emivita odiosa: più se ne abusa meno si fa significativa, finché i suoi vantaggi depauperati diventano dannosi. (Koolhaas, 2006) Tale fenomeno di mercificazione dei luoghi del collettivo sembra incarnare l’in-esperienza estetica del nostro tempo, che diventa così un’esperienza sui generis, rispetto alla quale le nostre categorie culturali di architetti e urbanisti paiono inadeguate - perché incapaci di cogliere il carattere effimero e seriale dei suoi prodotti, Raffaella Campanella

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l’eclettismo che la domina e genera la conseguente impossibilità di cogliere in essa qualche ‘essenza’ o ‘forma’ (Vattimo, 1989) - vanificando la capacità di distinzione e generando una sorta di ‘in-differenza referenziale’: la mancanza cioè di uno sfondo adeguato su cui proiettare, orientandoli, i nostri giudizi per produrre ridescrizioni e reinvenzioni degli spazi. Si pone, probabilmente, la necessità di orientare diversamente lo sguardo. Ma quanto questo sguardo viene ingannato in una società che si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli? In un mondo in cui tutto quello che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione? (Debord, 1997) In una realtà in cui l’attore, divenuto di fatto spettatore, non si sente presso di sé da nessuna parte, perché lo spettacolo é dappertutto? (Baudrillard, 1984) In un tempo in cui è impossibile discernere radicalmente il reale dall’immagine artificiale? In un momento storico in cui la liquefazione e polverizzazione (Bauman, 2007; Appadurai, 2004) dei referenti e la loro resurrezione artificiale in sistemi di segni hanno di fatto generato unicamente ‘simulacri’, ovvero qualcosa che è immagine senza identità e che non può essere definito secondo parametri di verità o falsità? (Baudrillard, 1980) Come affrancare questo sguardo dal ‘terrore’ di questo mondo divenuto un colossale sobborgo Potëmkin (Loos, 1972) enigmatico e ingannevole, dove assistiamo senza tregua alla ridda dei simulacri? (Calasso, 1991) E come lo sguardo del cosiddetto ‘operatore culturale’ – il nostro sguardo di progettisti - può differenziarsi da quello del fruitore/spettatore di tali oggetti-simulacro (iperspazi, ipermercati, ipermusei, ipermonumenti, iperparchi, ipercittà) né veri né falsi, in quanto trovano nella loro dimensione di iperrealtà, di uso e di abuso, l’origine stessa della loro derealizzazione? Per cercare di dare una risposta o, forse, soltanto di interrogarsi su tale argomento in maniera costruttiva e propositiva di una linea di ricerca è necessario fare qualche passo indietro fino a ritrovare il titolo di questo scritto ed esplicitare, scomponendola, la domanda in esso contenuto in quelle che seguono. Se il ‘corpo della città’ è definitivamente scomparso, e con esso anche ‘il quadro teorico e operativo che era alla base della sua origine e del suo sviluppo’, quale è ‘l’entità vicaria’ che ne può oggi prendere il posto? (Purini, 2002: 343) Può la ‘metafora del paesaggio’ con la sua valenza bisociata (cosa e immagine; significato e significante) sostituire la matericità del ‘corpo della città’ ed essere posta a fondamento della ricerca di una nuova praxis per il progetto dello spazio pubblico nella contemporaneità? Ma prima di tentare di dare risposta a questi interrogativi è necessario porsene uno ancora più basilare, e cioè: di cosa parliamo quando parliamo di Paesaggio? I tentativi di definire in maniera esaustiva il paesaggio sono numerosi quasi quanto i punti di vista degli studiosi che si sono approcciati a esso. Per questa ragione, probabilmente, il concetto di paesaggio tende ad assumere una serie di significati che ne rendono la definizione sempre più vasta e al contempo imprecisa, fino a farlo divenire ‘l’onnipaesaggio’ cui si riferisce Michael Jakob, vale a dire paesaggio che ha subito la perdita dell’autenticità. (Jakob, 2009) È un senso di indefinito disagio quello che oramai si prova di fronte all’imperversare dell’espressione paesaggio nei più svariati campi: dai dibattiti disciplinari ai battage mediatici della cultura mainstream, in quanto l’abuso del termine implica interpretazioni ambigue o travisamenti superficiali e strumentali. C’è, però, da riconoscere che il paesaggio funziona come metafora in generale e, ancor più, come metafora progettuale. Prova ne sia che sempre più settori dell’architettura e dell’urbanistica, per compiere azioni che hanno a che fare con la conoscenza, trasformazione e gestione, di ciò che in termini più strettamente disciplinari definiremmo con le voci ‘ambiente’, ‘territorio’ e persino ‘città’, utilizzano come fondamento la parola ‘paesaggio’. Una parola che serve a designare la cosa e allo stesso tempo l’immagine della cosa. Vale a dire: una parola che esprime insieme il significato e il significante, e in maniera tale da non poter distinguere l’uno dall’altro. Una parola che, per dirla con Barthes, (Barthes, 1974) contiene in se la ‘fisica dell’alibi’: la possibilità, cioè, di far passare come naturale ciò che in realtà è l’effetto volontario di un meccanismo ideologico e, conseguentemente, di far sì che un sistema di valori venga percepito come sistema di fatti. (Campanella, 2012a) Di fatto, oggi, il dibattito sul paesaggio sembra avere sostituito le teorizzazioni proprie della modernità ed incentrate sul rapporto tra progetto e contesto. E ciò è avvenuto, probabilmente, perché tale concetto è in grado di associare in maniera assai efficace il tema del contesto alla esigenza di spettacolarizzazione che contraddistingue il nostra tempo (Zancan, 2005) e, inoltre, «appare più adatto a rappresentare la distribuzione allargata dei fatti urbani; perché è meno ‘locale’ del luogo». (Ilardi, 2012: 70) In quest’ottica il paesaggio è divenuto una sorta di ‘spazio discorsivo totale’, una categoria interpretativa e al contempo progettuale che, includendo l’urbano e l’architettonico di fatto, assai spesso, li trascende entrambi riducendo la complessità e la molteplicità dei contesti a una mera gestualità espressiva, omologante e semplificatrice, densa di significanti globali e astratti che rifuggono i significati concreti e locali propri dei territori, delle loro culture e delle loro pratiche politiche, sociali ed economiche. Quanto può essere rischioso allora utilizzare la metafora del paesaggio nell’ambito della progettazione territoriale e del progetto urbano?

Raffaella Campanella

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In che modo il dissolversi dell’architettura della città in immagini di scenari urbani e il dileguarsi del territorio nel paesaggio potranno essere governati in un’ottica di progettualità attenta ai luoghi, ai loro abitanti, ai loro portati narrativi, alle loro necessità di un passato e desiderio di un futuro? In che modo il progetto di recupero e restauro dell’esistente - mirato alla risignificazione delle aree degradate e alla significazione delle aree destrutturate, in un’ottica che pone come base per la ‘rigenerazione urbana’ la costruzione di nuovi spazi per nuove collettività - potrà trovare fondamento in una differente ‘architettura del vuoto’ che trovi forma e sostanza nel paesaggio concepito come ‘entità vicaria’ della città? Dopo secoli di ‘statuto precario’ - dopo la caduta nel vuoto e nell’oblio di fondamentali teorizzazioni e rilevanti esperienze progettuali che avevano interpretato il rapporto tra città e paesaggio come uno dei temi centrali del progetto urbano in Europa attraverso tutta l’epoca moderna fino ai nostri giorni (Campanella, 2012b) - il paesaggio torna alla ribalta delle cronache dell’architettura oltre tre lustri fa con «Il Manifesto di Modena, Paesaggistica e linguaggio grado zero della scrittura architettonica, nel quale l’autore annuncia l’utopia di un ripensamento totale del costruire umano: l’architettura diventa ‘scrittura terrestre’ per trovare una continuità avvolgente dello spazio, una fluidità della forma come traduzione di una riscoperta libertà di immaginare la città in quanto espressione diretta della vita della comunità che essa accoglie». (Purini, 2002: 341) Ma, rispetto al ruolo assegnatogli da Zevi, il paesaggio assume oggi un ruolo ulteriore: crollate le ‘sacre regole’ della proporzione, del ritmo, della simmetria, degli impianti prospettici, dei vincoli stereometrici, della staticità monumentale (Zevi, 1997); perduta la dialettica tra misura e dismisura che aveva segnato la città moderna, il ‘ricominciamento’ della città (o di ciò che ne ha preso il posto) e del suo progetto può forse essere individuato nel paesaggio territoriale - molteplice, costituito da una collezione di pezzi giustapposti, esito di storie spaziotemporali diversificate, irriducibili le une alle altre (Deleuze, 1997) - nella sua innata continuità/discontinuità, nella connaturata incommensurabilità, nel suo ordine non più ‘quantitativo’, ma solo ‘qualitativo’. Questo ‘ricominciamento’ potrebbe, inoltre, gettare le basi per la composizione di uno Statuto per una nuova ‘modernità’ intesa - secondo la definizione data da Baudrillard e ripresa poi da Zevi – come un’azione mirata a trasformare la crisi – nel nostro caso l’aporia quantitativa e qualitativa della città e del suo progetto - in valore, creando un’estetica di rottura. Due, allora, potrebbero essere i principi cardine di tale azione, peraltro strettamente correlati: territorializzare il concetto di paesaggio; dare vita a una ‘poetica dell’esistente’. Nel caso del primo principio è opportuno ricordare che «il territorio non nasce dal paesaggio, ma il paesaggio nasce entro e dal territorio». (Gambi, 1986) Il paesaggio quindi non esiste se non come pura forma mentale, come pura virtualità, come luogo dell’anima, come nostalgia di un passato spesso mai realmente esistito e desiderio di un futuro quasi sempre irrealizzabile. Esso sfugge alla concretezza del presente, alle radici terresti dell’abitare collettivo, alla durezza necessaria alla scena della vita degli uomini sulla terra. Territorializzare il paesaggio significa, quindi, ripartire dal luogo, radicare l’architettura dello spazio al luogo, – città o territorio che sia – e ai suoi abitanti, perché, nonostante l’atopia del mercato globale, «l’architettura non riesce a risolversi in architettura del puro cammino. Il suo ethos non può dare sede a una comunità d’esodo, a cives futuri qui-e-ora completamente ‘liberi’ da ogni ethos e completamente estranei a ogni sede». (Cacciari, 1998) Ma, territorializzare il paesaggio, significa pure imparare a «osservare con occhi attenti e partecipi tutte quelle situazioni di conflitto e di accumulazione che le varie ‘zolle ambientali’, scontrandosi l’una contro l’altra, generano sotto forma di ‘enigmi’, liberando regioni sconosciute di significato». (Purini, 1998: 283) E ciò si connette al secondo principio, alla necessità di aprire il nostro sguardo al presente, alla contraddittorietà della contemporaneità, ai territori del degrado e del disagio, a ciò che appare stridente e irrecuperabile. Aprire il nostro sguardo e orientarlo alla messa in opera di una ‘poetica dell’esistente’, alla creazione di una nuova iconografia urbana volontaria che, partendo dal riconoscimento e dall’appropriazione di ‘ciò che è e di come è’, riesca a produrre progetti di trasformazione – progetti di paesaggio??? - capaci di generare bellezza dal suo contrario.

Bibliografia

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Raffaella Campanella

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Dall’Architettura della Città all’Architettura del Paesaggio Urbano? Una ricerca di una nuova praxis per il progetto dello spazio pubblico

Campanella Raffaella, Nuovi paesaggi urbani e progetto dello spazio pubblico nella città liquida. Il paradigma della rete ecopolitana, Atti della XV Conferenza della Società Italiana degli Urbanisti. L'urbanistica che cambia. Rischi e valori, Pescara 10-11 maggio 2012, in Planum. The journal of urbanism, n.25, vol. 2/2012. Debord Guy, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano, 1997. Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997. Gambi Lucio, La costruzione dei piani paesistici, in Urbanistica n. 85, 1986, pp. 102-105. Gregotti Vittorio, La città visibile, Einaudi, Torino, 1993. Ilardi Massimo, Negli spazi vuoti della metropoli, Bollati Boringhieri, Torino, 1999. Ilardi Massimo, Spazio, territorio, paesaggio, in Quaderni del Laboratorio Internazionale d’Architettura 5 – Il progetto dell’esistente e il restauro del paesaggio, Iiriti Editore, Reggio Calabria, 2012. Jakob Michael, Il paesaggio, Il Mulino, Bologna, 2009 Koolhaas Rem, Junkspace, Quodlibet, Macerata, 2006. Loos Adolf, La città alla Potëmkin, in Id. Parole nel vuoto, Adelphi, Milano, 1972. Neri Gianfranco, Memoria, oblio e altre forme del tempo, in Quaderni del Laboratorio Internazionale d’Architettura 4 – Il progetto dell’esistente e il restauro del paesaggio, Iiriti Editore, Reggio Calabria, 2010. Purini Franco, Un nuovo statuto dell’esistente, 1994, in Margherita Petranzan e Gianfranco Neri (a cura di), Franco Purini – La città uguale, Il Poligrafo, Padova, 2005. Purini Franco, Il progetto urbano come pratica del limite, 1997, in Margherita Petranzan e Gianfranco Neri (a cura di), Franco Purini – La città uguale, Il Poligrafo, Padova, 2005. Purini Franco, Avere a cuore, 1998, in Margherita Petranzan e Gianfranco Neri (a cura di), Franco Purini – La città uguale, Il Poligrafo, Padova, 2005. Purini Franco, Dopo la città il paesaggio, 2002, in Margherita Petranzan e Gianfranco Neri (a cura di), Franco Purini – La città uguale, Il Poligrafo, Padova, 2005. Purini Franco, La misura italiana dell’architettura, Editori Laterza, Roma-Bari, 2008. Quaroni Ludovico, La Torre di Babele, Marsilio Editori, Padova, 1967. Vattimo Gianni, La società trasparente, Garzanti, Milano, 1989. Virilio Paul, Lo spazio critico, Edizioni Dedalo, Bari, 1998. Zancan Roberto, Corrispondenze. Teorie e storie dal landscape, Gangemi, Roma, 2005 Zevi Bruno, Il Manifesto di Modena, Paesaggistica e linguaggio grado zero della scrittura architettonica, Canal, Venezia, 1998.

Raffaella Campanella

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Dalla rappresentazione alle rappresentazioni di paesaggi e territori

Dalla rappresentazione alle rappresentazioni di paesaggi e territori Giacomo Chiesa Politecnico di Torino Dipartimento di Architettura e Design Email: giacomo.chiesa@polito.it Luigi La Riccia Politecnico di Torino Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio Email: luigi.lariccia@polito.it

Abstract La rappresentazione dei paesaggi, così come percepiti dalle popolazioni, pur nella sua grande complessità e difficoltà nel trovare soluzioni operative in campo urbanistico lontane per quanto possibile dal rischio di riduzionismi e di inadeguate interpretazioni progettuali, si è avvalsa tradizionalmente di strumenti e metodi classici, già ampiamente consolidati (fotografia, filmato, mappe mentali, ecc.). Lo scambio tra realtà e rappresentazione, di fatto, è sempre un’operazione complessa: esso è sotteso alle metafore disponibili per tradurre l’una nell’altra. È necessario pertanto sperimentare questi nuovi strumenti per la rappresentazione: il problema consiste nel ricostruire un modello diacronico del territorio per essere in grado, al momento giusto, di decidere le linee di un piano, di fare delle scelte coerenti, o di sapere che esse non siano almeno in contraddizione con l’immagine paesaggistica complessiva. Parole chiave paesaggio, rappresentazione, cloud technologies

Introduzione I paesaggi costituiscono un tutto, un layer che si sovrappone ad altri in una stratificazione territoriale che, sempre di più, si costituisce nella sua duplicità reale-virtuale. La rappresentazione e la trasmissione delle informazioni culturali e territoriali si legano insieme in una visione fisico-virtuale complessa e dalle molte implicazioni. Tecnologia e ricerca sono pronte per gestire la complessità del paesaggio attraverso la realtà aumentata, le reti e le geografie digitali, ma le implicazioni sociali e urbanistiche sono lungi dall’essere state esplorate, anche in un contesto di finanziamenti europei e nazionali a questo nuovo settore di R&S1. I nuovi strumenti iniziano ad essere sviluppati in ambito industriale e sono utilizzati ormai da community di amatori e professionisti. Tuttavia, si riscontra una scarsa attenzione e applicazione nell’ambito della pianificazione territoriale e paesistica strutturata. Il contributo si interroga sullo scambio duplice di informazioni tra il reale e il virtuale.

1 | Rappresentare il reale La rappresentazione dei paesaggi, ‘così come percepiti dalle popolazioni’, pur nella sua grande complessità e difficoltà nel trovare soluzioni operative in campo urbanistico lontane per quanto possibile dal rischio di riduzionismi e di inadeguate interpretazioni progettuali, si avvale di strumenti e metodi ormai definibili come classici, già ampiamente consolidati quali ad esempio la fotografia, il filmato, le mappe mentali, ecc. Questi

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Si vedano, a tal proposito, i bandi SmartCity europei e nazionali: in particolare, i bandi Smart Cities and Communities and Social Innovation.

Giacomo Chiesa, Luigi La Riccia

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Dalla rappresentazione alle rappresentazioni di paesaggi e territori

strumenti hanno sostituito, in un palinsesto scientifico, le rappresentazioni totalmente soggettive derivanti dalla pittura e dalla letteratura, pur riconoscendo in esse una grande valenza per la restituzione delle percezioni. Per qualunque dizionario contemporaneo, infatti, il paesaggio è una porzione di territorio considerata dal punto di vista prospettico o descrittivo. Questa definizione è stata adottata, con varianti, dalla Convenzione Europea del Paesaggio (CoE, 2000): esso diviene così il prodotto di uno sguardo, messo in scena attraverso un qualunque linguaggio. Solo negli anni recenti la realtà materiale e l’immagine che la rappresenta sono considerati sinonimi e nel linguaggio quotidiano, quello dei media, quasi la medesima cosa. La realtà materiale nella quale viviamo, il territorio, è il risultato di continue modifiche ed è sottoposto a perenne mutamento in quanto espressione immediata della vita quotidiana e della storia. Il paesaggio, al contrario, è il risultato di un processo di produzione mentale, che ha origine dallo sguardo, a sua volta mediato da linguaggi differenti (come risultato del passaggio dalla realtà alla rappresentazione, costituisce l’esito di un processo intellettuale necessario per produrre gli strumenti utili all’analisi del reale, e diviene strumento di conoscenza). La sistemazione in successione di immagini sincroniche ci permette, in effetti, di costruire un’asse diacronico utile per la lettura dell’evoluzione del territorio. Le immagini o le rappresentazioni del reale costituiscono modelli non soltanto in grado di descrivere la materialità, ma anche di spiegarla da un punto di vista scientifico, secondo il linguaggio utilizzato. Tali rappresentazioni permettono di esplorare la realtà, senza esaurire mai la sua ricchezza, la sua diversità: senza segni e simboli non può esserci conoscenza della realtà. Il processo che è all’origine della rappresentazione si basa sempre su una ‘osservazione’, talvolta dichiarata (es. fotografia), ma più sovente spontanea e implicita. È per questo motivo che è possibile affermare che esiste un’infinità di immagini della realtà, perché infiniti possono essere i punti di osservazione. Dematteis (1985) afferma che ciò è solo in parte vero: in sostanza, possiamo dire che, seppure elevato, esiste un numero limitato di punti di osservazione perché limitate sono le metafore del reale: «Per quanto mal definita, la realtà ‘territorio’ è divenuta così l’oggetto non eludibile della rappresentazione geo-grafica contemporanea». L’osservazione è di grande interesse perché essa sottintende che, per conoscere il territorio, sia necessario affidarsi a rappresentazioni/modellizzazioni che non sono altro che punti di vista differenti, con cui si guarda all’oggetto rappresentato (cioè il territorio). Il territorio, quando è osservato da un punto di vista esclusivamente geografico, diviene una geostruttura più o meno definita, a partire dalla quale si possono costruire geogrammi o immagini (Dematteis, 1985). Nel processo di rappresentazione, la realtà svanisce per lasciare il posto a una o più immagini, più o meno banalizzate (a seconda della profondità linguistica ed epistemologica del processo di modellizzazione): il reale precede spesso la sua rappresentazione, la cui funzione non è di evocare una realtà contemporanea della percezione, ma di svelare un reale ‘precedente o anteriore’ al presente. Una realtà può essere spesso riconosciuta molto tempo dopo la sua prima realizzazione materiale: la storia contemporanea, ad esempio, dimostra come il paesaggio industriale abbia contribuito a fare conoscere tale realtà quando questa ha cominciato un suo primo declino2. Questo ritardo coincide con il momento in cui le società industriali, in riorganizzazione, sono state in grado di osservare criticamente e creare immagini della realtà che le circondava, un processo necessario per azioni di recupero/riqualificazione. Per specificare la distinzione tra realtà materiale e immagine, quando intesa come modello scientifico, si può partire dalla teoria di Belting (2008). Egli afferma che: «quando cerco di evocare Piazza San Marco a Venezia l’immagine che compare è quella che la mia memoria è capace di creare sullo schermo della mia mente, ma questa immagine nessuno può vederla ne prenderla e sono incapace di renderla senza fare una descrizione verbale o grafica che sarà molto povera perché non renderà mai conto di quello che credo di avere nella mia mente». Tuttavia è possibile, in un’ottica più kantiana che platonica, definire in modo diverso l’immagine intendendola come un modello, quindi come oggetto, proprio di un processo sia riproduttivo sia produttivo. Si riconosce quindi la funzione costruttiva dei modelli, propria dell’epistemologia della costruzione (Borutti, 1991). La fotografia territoriale, così come definita secondo Chiesa, La Riccia (2011) e Chiesa, Di Gioia (2011), è un valido strumento di supporto alla progettazione paesistica. Infatti, la fotografia territoriale si discosta dalle rappresentazioni artistico-paesaggistiche del bello e delle pure sensazioni per lasciar spazio a un’iconografia complessa e culturalmente stratificata che fa del fotografo un professionista del territorio in grado di restituire, pur in un’accezione visivamente qualitativa e geograficamente sentimentale (Ghirri, 1989), peculiarità territoriali effettive. In quest’ottica, la fotografia assume un ruolo di strumento per la progettazione del paesaggio e l’individuazione delle peculiarità da salvaguardare in fase di pianificazione sul territorio. Anche le mappe costituiscono una traduzione simbolica del territorio tale da poter identificare e descrivere geograficamente una realtà fisica utilizzando un modello. La recente trasposizione dalla mappa statica ad una mappa digitale 2.0 in grado di interfacciarsi con database e informazioni aggiuntive (concetto che, quando ampliato, si avvicina alla realtà aumentata) permette di costruire non solo output iconografici, il cui processo produttivo è introdotto dal tema della metafore della realtà (si veda, ad esempio, il progetto Atlante di Luigi Ghirri), ma anche un mezzo di analisi e interfaccia nell’asse territorio-monitoraggio-dato-analisi-risposta2

È stata conclusa da poco una ricerca su questo tema, riguardo i paesaggi industriali della Sardegna: la definizione di specifici indirizzi fa i conti con la complessità dell’immagine comune di questi luoghi.

Giacomo Chiesa, Luigi La Riccia

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Dalla rappresentazione alle rappresentazioni di paesaggi e territori

attuatore, in altre parole si acquisisce quella potenzialità intrinseca di scambio bidirezionale tra il reale e il virtuale. Lo scambio tra realtà e rappresentazione, di fatto, è sempre un’operazione complessa: esso è sotteso alle metafore disponibili per tradurre l’una nell’altra e alle modalità di lettura delle stesse. In altri casi, la rappresentazione del paesaggio può definirsi come la capacità di semplificare, cioè scegliere e selezionare, e in cui l’immaginazione interviene nella restituzione delle sue forme.

Figura 1. Fotografia territoriale. Bezonvaux, villaggio distrutto nel 1916 (territorio di Verdun). Foto: © G. Chiesa 2010 Si noti l’effetto della guerra di trincea sulla morfologia del suolo, doppiamente leggibile nel territorio e nel paesaggio.

2 | Dalla rappresentazione al reale Al contrario di ciò che si pensa nel pensiero quotidiano, il paesaggio non è una realtà materiale, ma l’immagine di una realtà materiale. Per questa ragione, è lecito dire che produciamo immagini per mezzo di altre immagini (Raffestin, 2007). Oggi, nella nostra società ‘paesaggistica’ (Donadieu, 2002), siamo di fronte a città e territori che mettono alla prova nuove immagini nell’attesa di adattarli alle nuove territorialità. Gli urbanisti, come gli architetti, si devono interfacciare con territori-puzzle, i cui elementi devono essere ripensati attraverso nuove immagini o rappresentazioni. Siamo allora di fronte ad un doppio sistema di relazioni tra la materia reale, in continuo divenire, e le diverse possibili rappresentazioni di questa realtà. Da un lato, c’è una realtà prodotta in modo diacronico ininterrotto; dall’altro, immagini prodotte in modo sincronico. Il contrario di come dovrebbe essere, perché la realtà è prodotta secondo un modo continuo, ma l’immagine è prodotta secondo un modo discontinuo, anche se sarebbe interessante produrre immagini in modo ininterrotto. Lo stesso discorso vale per i dati e per gli altri layer del territorio, non solo per il paesaggio. Le nuove tecnologie informatiche di comunicazione e informazione lasciano presagire di poter interfacciare, in tempo reale, immagini del territorio prodotte ininterrottamente (attraverso cioè la produzione di un layer digitalizzato del mondo reale) con dati e informazioni, modificati in tempo reale o meno (mediante un layer informativo/percettivo aggiuntivo), tramite l’adozione di hardware di proiezione (schermi, occhiali, cellulari, ecc.). Siamo posti di fronte al doppio sistema di rapporti: l’immagine come strumento di scoperta del ‘nascosto’ nei diversi luoghi che possono essere rappresentati e l’immagine come strumento per rendere comprensibili le diverse ideologie messe in movimento per dare una nuova identità territoriale allo sguardo. La realtà è, quindi, lo spazio di partenza per la produzione di immagini suscettibili di rappresentare allo stesso tempo il luogo e lo sguardo mediatizzato dall’osservatore: il paesaggio, sovente, è un ottimo strumento per conoscere il modo di guardare la realtà e di usarla. A ogni livello, il reale è una costruzione sociale ed è per questa ragione che lavoriamo sempre, quasi spesso inconsciamente, sulla rappresentazione più che sulla materia e, in un’ottica futuristica, sui layer virtuali più che sulla realtà materiale da cui derivano e che modificano.

Giacomo Chiesa, Luigi La Riccia

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Dalla rappresentazione alle rappresentazioni di paesaggi e territori

Tuttavia, possiamo affermare che il paesaggio come rappresentazione può essere un’invenzione e pone in essere il problema nei confronti del realismo della rappresentazione. Per fare un esempio, si pensi ai videogiochi, poiché sempre di più ci si trova di fronte ad illusioni ben riuscite tali da indurre il giocatore a supporre che egli sia immerso in ciò che vede, date le caratteristiche reali in un territorio non reale. La misura di realismo proposta coincide, in altre parole, con la probabilità di scambiare la rappresentazione con ciò che è rappresentato: problema che diventerà sempre più attuale con la diffusione di sistemi di virtualizzazione applicati non solo al campo dei videogiochi, ma anche a quelli della fornitura di servizi e dell’utilizzo diretto dello spazio reale e che, almeno in parte, coincide con la qualità del modello e del linguaggio utilizzato. Tale spiegazione è plausibile ma, nel caso del paesaggio, non del tutto convincente poiché il realismo non è la cosa che si vuole misurare o che interessa di più: se il paesaggio, ogni volta, è ricerca di questa perfezione nell’immagine, che non è attingibile dalla realtà materiale, allora non è nient’altro che la misura della probabilità di sostituire la rappresentazione al prodotto rappresentato (un territorio non reale, appunto). In questo senso, l’appropriazione del territorio si fa, anche e soprattutto, con la rappresentazione. Non è possibile abitare la realtà territoriale senza pensare l’immagine di questa realtà: la produzione di paesaggi ideali, utopistici o meno, ne è la prova. La rappresentazione di territorio e paesaggio è il risultato di un complesso processo, circolare e retroattivo, di sostituzione dell’immagine alla realtà e che dà poi luogo a progetti spesso decontestualizzati: rappresentare i paesaggi e i territori è un compito arduo perché deve interfacciarsi con dati quantitativi e percezioni qualitative per restituire una visione attenta all’immagine paesistica complessiva e ai parametri socioeconomici. In particolare, dal lato della percezione e dell’immagine paesaggistica, se alcune tecniche di rappresentazione dei paesaggi sono oggi consolidate (ma non sufficientemente utilizzate), tuttavia queste devono interfacciarsi con visioni spesso lontane dai paesaggi reali, ma più legate a interpretazioni virtuali o indotte degli stessi. Permanendo nell’esempio dei videogiochi, si pensi al caso emblematico del borgo di Monteriggioni, in centro Italia, oggetto di una vera e propria riscoperta paesaggistica a seguito della saga del gioco Assassin’s Creed. La cittadina medievale vive ora nel suo ‘doppio’ digitale, da cui ha ricevuto le modalità di percezione, e al quale tende, almeno mentalmente. La mancanza reale di Villa Auditore, anche se virtualizzata nello spazio digitale, può trovare spazio nella realtà aumentata, nelle app, ma anche nell’idea espressa in un’intervista dai partecipanti degli annuali fan day3,nonché dalle stesse autorità locali, di realizzare davvero ciò che manca per ridurre la distanza tra paesaggio percepito (virtuale) e paesaggio osservato (reale), diremmo, a fini turistico-sentimentali.

Figura 2. Mondo reale vs. mondo virtuale. Le due immagini in alto presentano il borgo di Monteriggioni in una fotografia aerea e in una mappa storica. Le due immagini in basso mostrano il borgo di Monteriggioni così come rappresentato ed esplorabile nel videogioco Assassin’s Creed, che costituisce la sede del protagonista. Si può notare con particolare evidenza l’immaginaria Villa Auditore. (Fonti: varie di Google Immagini).

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Si rimanda a questo link: http://www.youtube.com/watch?v=ahaW7BPXTpc. (ultimo accesso: Marzo 2013)

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Dalla rappresentazione alle rappresentazioni di paesaggi e territori

Il mondo virtuale proposto in Assassin’s Creed si pone come un’esperienza che coinvolge tutto il soggetto e che presenta, comunque, una forte connotazione geografica (il giocatore può spostarsi anche in altre città come Firenze, Venezia, Roma, S. Gimignano, ecc.), in uno specifico periodo temporale: un mondo virtuale aperto e, per certi versi più ‘accogliente’ rispetto ad un mondo reale ostile, di cui sicuramente non si ha il pieno controllo. Si tratta, inoltre, di un mondo condiviso con altri giocatori, in una struttura comunicativa/ambientale che richiede una sorta di ‘cooperazione on line interpretativa’. Assassin’s Creed interpreta in qualche modo l’ambiente reale offrendo una rappresentazione contemporanea del modo di intendere il termine geografico di paesaggio umano: la dimensione simbolica del mondo virtuale è raggiunta dagli elementi stessi che entrano in gioco e, al tempo stesso, dalle modalità di interazioni tra i diversi giocatori all’interno di un paesaggio fortemente narrativo, dove ogni cosa ha un proprio significato e al tempo stesso un ruolo preciso nella storia. Riprendendo Nelson Goodman nel suo Ways of World making (1978): «(…) il mondo non è, in se stesso, in un modo piuttosto che in un altro, e nemmeno noi. La sua struttura dipende dai modi in cui lo consideriamo e da ciò che facciamo. E ciò che ci facciamo in quanto esseri umani è pensare, parlare, costruire, agire e interagire». L’esempio di Assassin’s Creed introduce a pieno l’incremento di difficoltà contemporaneo, quando occorre tradurre la rappresentazione in realtà (un processo di ‘materializzazione’). Inoltre, nell’ambito della percezione, permane la difficoltà e l’ingenuità intrinseca di scindere l’immagine (modello) dalla realtà cui si riferisce (mondo reale) come ben descritto nel saggio L’asse Rose/Duchamp (Marra, 2000). Difficoltà che aumenta considerevolmente di fronte a mondi virtuali sempre più veritieri e accessibili (nell’uso e nella creazione - si veda il software Lumion 3d).

3 | Nuove modalità di rappresentazione: la conoscenza diffusa e il data mining Viviamo, di fatto, in una società dell’informazione, dove il sapere diffuso dal Cloud supera il sapere puntuale pur nel suo bassissimo grado di concentrazione. Le tecniche di analisi dati, a fronte della grande espansione di fonti accessibili on line o tramite la creazione di piattaforme software specifiche, è tale da permettere una grande possibilità di elaborazioni diversificate. Il ruolo dello scienziato, almeno in parte, evolve da quello di costruttore del sapere verso quello di analista e concentratore delle conoscenze e dei dati diffusi per distillare un sapere concentrato sulla base delle richieste specifiche. La ricerca sta sviluppando tecniche di data mining sempre più complesse e articolate che trovano numerose applicazioni. Anche a livello di pianificazione territoriale e del paesaggio i nuovi strumenti informatici e l’enorme velocità con cui evolvono i mezzi digitali rendono oggi disponibili nuove modalità di analisi e visualizzazione di paesaggi e dati territoriali. Infatti, la crescente mole di dati e informazioni digitali localizzabili in rete in tempo reale e georeferite è in costante crescita così come le potenzialità di elaborazione di tali banche dati caratterizzate dall’essere, almeno in parte, aperte e gratuite. Le potenzialità, in campo pianificatorio e non solo, di questi nuovi strumenti sono enormi e sono alimentate da un flusso di informazioni a bassissimo contenuto specifico di competenza, ma da un enorme potenziale complessivo in grado di rispondere alla necessità di evidenziare i veri paesaggi percepiti e i punti focali in essi contenuti; in altre parole di costruire una mole di immagini, così come definite da Belting, tale che, se analizzata, può ricostruire immagini-modelli del paesaggio. Tecniche di questo tipo sono già in fase di sperimentazione come dimostrato da alcuni progetti del SENSEable City Lab del MIT. In particolare un paper recente (Girardinet al., 2008) mostra come si possano tracciare i flussi (e quindi le emissioni di CO2) tramite le fotografie georeferenziate postate dai cellulari. Questo caso fa presagire come la stessa tecnica sia applicabile alla costruzione delle immagini del territorio proprie dello studio del paesaggio. È necessario pertanto sperimentare questi nuovi strumenti per la rappresentazione ricordando come il problema consista nel ricostruire un modello diacronico del territorio capace di decidere le linee di un piano, di fare scelte coerenti, o di sapere che esse non siano almeno in contraddizione con l’immagine paesaggistica complessiva.

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Dalla rappresentazione alle rappresentazioni di paesaggi e territori

Figura 3. Progetto ‘The world’seyes. Tourism: space of fiction’ del MIT. Team: C. Ratti, A. Bidermann, F. Girardin, D. Lu, A. Vaccari, E. Arroyo (fonte: http://senseable.mit.edu/worldseyes/index.html).

4 | Conclusioni Il paper mostra come le nuove tecnologie digitali stiano cambiando le modalità di intendere i processi di modellizzazione e materializzazione del territorio nel paesaggio e del paesaggio nel territorio. Identifica anche la necessità di sviluppare un corpo teorico e una serie di ricerche applicate per sviluppare protocolli in grado di utilizzare il potenziale tecnologico contemporaneo secondo strumenti scientificamente adeguati. Questo per evitare che la sovrapposizione delle immagini digitalmente costruite finisca per incidere sul territorio reale in modo incondizionato, come si paventa negli esempi tratti dalle virtualizzazioni proprie dei videogiochi contemporanei. Per concludere, si vuole riprendere una frase di Jean-Marc Besse (2003), il quale afferma: «La presenza del paesaggio (…) come immagine prodotta – nel senso costruita, non naturale si potrebbe dire artificiale – è comunque il risultato di un tentativo di leggere un mondo e di renderlo leggibile. Lo spazio del testo in entrambi i casi prospetta un’immagine del mondo, non la convoca come presente: ce ne dà la consistenza partendo dal ‘sono’ per arrivare al ‘visivo’ attraverso la mancanza».

Bibliografia

Belting H. (2010), I canoni dello sguardo. Storia della cultura visiva tra Oriente e Occidente. Bollati Boringhieri, Torino (ed. or. 2008). Besse J. M., (2003) Face au monde, Atlas, Jardins, Géoramas, Desclée de Brouwer, Paris. Borutti S. (1991) Teoria e interpretazione. Per un’epistemologia delle scienze umane, Guerini e Associati, Milano Chiesa, Di Gioia (2011), “Rappresentare il territorio della contemporaneità: la fotografia ambientale come supporto all'analisi territoriale”, in Planum, 2011. Chiesa, La Riccia (2011), “Fotografia e indicatori del paesaggio. Lo spazio dell’abitare”, in Planum, 2011. Council of Europe (2000), European Landscape Convention, European Treaty Series n. 176, Firenze. Dematteis G. (1985), Le metafore della terra, Feltrinelli, Milano. Donadieu P. (2002), La Société paysagiste, Coédition Ecole Nationale Supérieure de Paysage, Paris. Girardin, F., et al. (2008).“Digital footprinting: Uncovering tourists with user-generated content”, in IEEE Pervasive Computing, vol. 7(4), pp. 36–43. Ghirri L. (1989) “Fotografare i luoghi, fotografare le architetture. Intervista di Mario Lupano a Luigi Ghirri”, in Ghirri L. (a cura di ) (1989) Paesaggio italiano, Electa, Milano, pp.10-12. Goodman N. (1978), Ways of Worldmaking, Hackett, Cambridge (USA). Marra C. (2000) “L’asse Rose/Duchamp”, in Marra C. (2000), Il battito della fotografia, CLUEB, Bologna. Raffestin C. (2005), Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio, Alinea, Firenze.

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Lo spazio pubblico nei quartieri di ERP della città di Avellino

Lo spazio pubblico nei quartieri di ERP della città di Avellino Felice De Silva Università degli Studi di Salerno DICIV Dipartimento di Ingegneria Civile Email: fdesilva@unisa.it Tel: 3297666134

Abstract La realizzazione dei quartieri di Edilizia residenziale pubblica di Avellino ha svolto un ruolo fondamentale nella costruzione della città dal secondo dopoguerra ad oggi. La struttura insediativa di questi quartieri, caratterizzata dalla dissoluzione dell’isolato tradizionale, ha dato luogo a tessuti urbani più aperti e dilatati i cui spazi aperti presentano oggi caratteri diversi. La qualità di questi spazi e la loro capacità di diventare spazio pubblico dipende in gran parte dall’efficacia del principio insediativo e dal rapporto tra lo spazio del quartiere e la città al contorno; tale rapporto è determinato dai diversi meccanismi progettuali adottati - in termini di attacco a terra degli edifici, di permeabilità dei bordi, di forma e dimensione degli spazi di relazione - per conciliare il bisogno di privacy proprio della sfera domestica e la necessità di partecipare attivamente alla vita pubblica. Il contributo propone una ricognizione sulle condizioni dello spazio pubblico di alcuni di questi quartieri per indagarne le qualità fisiche e spaziali e si pone come occasione per riflettere sulle possibilità che esso offre nel processo di rigenerazione della città. Parole chiave Quartiere, margine, città La realizzazione dei quartieri di edilizia residenziale pubblica di Avellino, costruiti con i fondi delle varie leggi di finanziamento alla casa o di ricostruzione connessi al sisma dell'agosto 1962 e del novembre 1980, ha svolto un ruolo fondamentale nella costruzione della città dal secondo dopoguerra ad oggi (Fig. 1). La struttura insediativa di questi quartieri, caratterizzata dalla dissoluzione dell’isolato tradizionale sostituito da blocchi, torri e stecche, ha dato luogo a tessuti urbani più aperti e dilatati i cui spazi aperti avrebbero dovuto contribuire, almeno nelle intenzioni iniziali, alla definizione del sistema di spazi pubblici della città. In alcuni casi lo spazio pubblico di questi quartieri si presenta oggi diffuso e strettamente connesso al costruito e allo spazio urbano, in altri casi, invece, evidenzia un carattere di residualità concentrandosi in frammenti, isolati e indefiniti, privi di relazione tra loro e con il costruito. La qualità degli spazi aperti e la loro capacità di diventare spazio pubblico dipende in gran parte dall’efficacia del principio insediativo e dal rapporto tra lo spazio del quartiere e la città al contorno; questo rapporto è determinato dai diversi meccanismi progettuali adottati - in termini di attacco a terra degli edifici, di permeabilità dei bordi, di forma e dimensione degli spazi di relazione - per conciliare il bisogno di privacy proprio della sfera domestica e la necessità di partecipare attivamente alla vita pubblica oltre che da mix funzionali capaci di garantire vivacità sociale e culturale. Nei complessi residenziali di Avellino tali spazi si configurano come un ampio repertorio di soluzioni, che variano dagli ambiti esterni di pertinenza dell’alloggio, alle piazze e alle strade pubbliche, in una gradualità di transizione tra ambiti privati e ambiti collettivi, e rappresentano un laboratorio (Di Biagi, 2006) privilegiato per l’elaborazione di approcci progettuali volti a rispondere alle problematiche di degrado spaziale e sociale in cui versa la maggior parte dei quartieri della città. Oggi infatti al tema dell’espansione urbana, che è stato il motore guida dei principali interventi residenziali pubblici, si sostituisce un nuovo approccio che vede nel recupero, inteso nel senso etimologico di riacquisizione, ri-conquista (Vanacore, 2012), del patrimonio edilizio esistente e soprattutto degli spazi aperti ad esso connessi, un ambito privilegiato di sperimentazione. Già nella metà degli anni ’80, sulle pagine di Casabella, Bernardo Secchi scriveva che Felice De Silva

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lo spazio entro il quale vivremo i prossimi decenni è in gran parte già costruito. Il tema è ora quello di dare senso e futuro attraverso continue modificazioni alla città, al territorio, ai materiali esistenti e che la complessità attuale della società e del territorio, la difficoltà di collegare ogni loro elemento ad ogni altro ci dovrebbe spingere ad agire inizialmente selezionando relazioni semplici: ad esempio a distinguere realisticamente ciò che nella città e nel territorio è “duro”, da ciò che è “malleabile”, modificabile nelle sue proprietà, nel suo assetto fisico, nelle sue funzioni, nei rapporti con gli altri oggetti, nel suo senso complessivo. (Secchi, 1984)

Figura 1. I quartieri Iacp della città di Avellino. Il perimetro bianco individua il quartiere San Tommaso.

Riconoscere che le condizioni sono cambiate e individuare gli ambiti malleabili all’interno dei quali operare diventano quindi le operazione preliminari da compiere ricordando che i due termini duro e malleabile non sono semplicemente descrittivi di proprietà fisiche e di rapporti visivi ma servono anche a descrivere le differenti capacità di resistenza delle forze sociali ed economiche che agiscono nella società contemporanea divenendo in tal senso termini prossimi a negoziabile e non negoziabile. Generalmente all’interno dei quartieri residenziali di iniziativa pubblica, che pur si pongono come elementi duri del territorio e della città contemporanea, la distinzione tra i due termini non è mai netta, ma esiste sempre la possibilità di individuare una gradualità tra le due condizioni, una sorta di gradiente di trasformabilità che aumenta di intensità man mano che ci si sposta dall’alloggio verso la città. In altre parole gli alloggi possono essere considerati come le parti dure, quelle che, presentando vincoli maggiori determinati dalle loro specifiche condizioni (proprietà, caratteristiche tecniche e costruttive, caratteri funzionali, logiche di utilizzo, ecc.), sono cristallizzate nella loro configurazione e quindi sono più resistenti al cambiamento; al contrario gli spazi aperti sono quelli malleabili e quindi più disponibili a fare da perno a più ampi processi di trasformazione, e lo sono quanto più sono distanti dall’alloggio e dalle sue strette pertinenze. La differente consistenza degli elementi che costituiscono il quartiere si riverbera anche nella diversa libertà che essi concedono nell’individuare soluzioni progettuali generalizzabili, strategie di intervento, da mettere in atto nel progetto di recupero. Nel caso dell’alloggio, infatti, è molto difficile definire criteri generali capaci di indirizzare la trasformazione e questa difficoltà è dovuta al fatto che esso richiede soluzioni specifiche in grado di dare risposta alle esigenze particolari espresse da chi vi abita; viceversa gli spazi aperti consentono di definire ipotesi maggiormente generalizzabili, e ciò proprio in virtù della loro natura di luoghi in cui si esprime una domanda collettiva di abitare e di appartenenza ad una comunità che ci fa riconoscere questi spazi come spazi pubblici. In quest’ottica i bordi del quartiere, i margini attraverso cui esso entra in contatto con la città, si configurano come le parti che offrono i maggiori gradi di libertà e divengono cosi gli ambiti privilegiati attraverso i quali proporre una sua reinterpretazione per ridefinirne il ruolo nella città contemporanea. Come è noto la nozione di margine ha una natura molteplice tuttavia in questa sede il campo di studio è stato ristretto ai margini di tipo fisico, siano essi naturali o artificiali, ben consapevoli che in ambito urbano esistono anche limiti di tipo immateriale come quelli individuati dai confini amministrativi, da specifici usi del suolo o da alcune consuetudini sociali. Negli anni ’60 Kevin Lynch definiva i margini di questo tipo come confini tra due diverse fasi, interruzioni lineari di continuità precisando che essi in quanto tali possono costituire barriere, più o meno penetrabili, che dividono una zona dall’altra, o possono essere suture, linee di scambio secondo le quali due zone sono messe in relazione l’una all’altra. (Lynch, 1964)

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Un confine, quindi, può trasformarsi in elemento unificante se attraverso di esso è possibile qualche penetrazione di visuale o di movimento, se cioè è strutturato con qualche profondità nelle aree laterali. (Lynch, 1964) In tal senso assume particolare rilevanza la distinzione recentemente proposta da Richard Sennett tra due tipi di margini: il limite/parete e il bordo/membrana. Il limite, scrive Sennett, è un confine dove le cose finiscono; il bordo è un confine dove diversi gruppi interagiscono. Sui bordi, gli organismi diventano anzi maggiormente interattivi, proprio per l'incontro di diverse specie e condizioni fisiche; per esempio, dove la sponda del lago incontra la terraferma si crea una zona attiva di scambio per gli organismi, che trovano e si nutrono di altri organismi. Non sorprende perciò constatare che l'attività di selezione naturale è più intensa proprio lungo i bordi, mentre il limite racchiude un territorio custodito, demarcato ad esempio da un branco di leoni o di lupi. Non si ammettono trasgressioni lungo i limiti: state alla larga! E ciò significa che quella stessa zona del limite è, a tutti gli effetti, priva di vita. Prendiamo in considerazione un'altra situazione di confine, a livello cellulare, la distinzione cioè tra parete e membrana delle cellule. La parete della cellula trattiene tutto al suo interno, è analoga a un limite. La membrana della cellula, invece, è più aperta, permeabile, più somigliante a un bordo. Le differenze naturali tra limite/parete e bordo/membrane si rispecchiano nella forma edificata chiusa e aperta. La città moderna è oggi dominata dal limite/parete. L'habitat urbano è suddiviso in settori segregati dai flussi del traffico, dall'isolamento funzionale tra le varie zone destinate al lavoro, al commercio, alla famiglia, allo svolgimento delle funzioni pubbliche. Ne consegue un minor scambio tra le varie fasce sociali, economiche ed etniche. Noi ci proponiamo pertanto di costruire un bordo/membrana, non un limite/muro. (Sennett, 2013) Il progetto di riqualificazione per essere efficace deve spingersi quindi oltre i confini (Di Biagi, Marchigiani, 2010) del quartiere e lavorare all’infrastrutturazione dei suoi i bordi, per tendere alla creazione di confini porosi e permeabili, confini ambigui tra le diverse parti urbane, nei quali realizzare scambi osmotici tra gli spazi aperti del quartiere e il sistema di spazi pubblici della città, per poter fare della città pubblica un fertile dispositivo per la riqualificazione dei territori della nostra contemporaneità. (Di Biagi, 2006)

Figura 2. Il quartiere San Tommaso.

Non sfuggono a queste considerazioni di carattere più generale i quartieri popolari della città di Avellino dove, su un totale di più di 20000 immobili ad uso residenziale, circa il 9% è gestito direttamente dall’Iacp Avellino e più della metà di questo 9%, pari a poco più di mille alloggi, è concentrato nei quartieri rione Mazzini e San Tommaso (Fig. 2), insediati nella periferia sud della città, a partire dagli anni ’50 del novecento, per offrire risposta a quella pressante richiesta di alloggi popolari, servizi e spazi aperti che ha accomunato il futuro del capoluogo irpino a quello delle maggiori città italiane dell’epoca.

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Il popoloso quartiere San Tommaso, in particolare, si configura oggi come una vera e propria appendice al centro consolidato, realizzata, lungo l’asse storico di via Due Principati che collega il quartiere al centro urbano, in più fasi che hanno portato alla configurazione di quattro parti chiaramente riconoscibili, perché frutto di modelli insediativi differenti, più o meno maturi e consapevoli, ma che oggi appaiono saldate l’una all’altra in assenza di un disegno urbanistico generale che le connetta in un insieme unitario e dotato di senso. Il primo insediamento fu realizzato ad opera dell’Ina Casa su progetto di Luigi Piccinato e Bruno Zevi tra il 1954 e il 1957, anno in cui si consegnarono i primi alloggi, sulla base di un progetto che prevedeva una attenta articolazione di spazi edificati e spazi aperti, ambiti individuali e ambiti collettivi nella migliore tradizione delle realizzazioni figlie del Piano Ina Casa (Fig. 3). A questa prima fase ne seguirono altre tre, 1960-1962, 1963-1965 e 1967-1969 anni in cui furono consegnati gli ultimi alloggi, fu completata la rete di illuminazione stradale e furono realizzati i primi servizi interni al quartiere tra cui la scuola elementare e il primo ufficio postale. (per le notizie relative alle fasi di costruzione del quartiere San Tommaso si è fatto riferimento alla tesi di Dottorato Verso una nuova qualità dell’abitare: la riqualificazione dell’edilizia residenziale pubblica, Monica Guarino, 2007-2010).

Figura 3. Lettura morfologica del quartiere San Tommaso e fasi di costruzione.

Le diverse parti di cui si compone il quartiere presentano caratteri differenti; alcune sono introverse, rivolte in se stesse, con scarsi riferimenti alla città circostante; altre invece si configurano come spazi più aperti, rivolti all’esterno e maggiormente connessi agli elementi adiacenti e al paesaggio circostante. Il diverso carattere delle sue parti è sicuramente determinato dai differenti gradi di permeabilità dei suoi margini. Alcuni di essi sono duri definiti, precisi come nel caso del salto di quota che delimita l’insediamento ad ovest separandolo nettamente dalla strada comunale Quattrograna e la cui forza è dovuta non solo alla sua preminenza visiva ma soprattutto alla sua forma continua ed alla sua impenetrabilità (Fig. 4). In questo caso è evidente come il quartiere, già riconoscibile al suo interno, sia ulteriormente precisato dalla definizione e dalla chiusura del suo contorno. Altri margini sono al contrario soffici o incerti, mentre alcune parti sembrano non avere affatto confini. E’ esemplificativo in tal senso il bordo orientale della grande corte aperta edificata tra il 1963 e il 1965 che risente fortemente della particolare condizione orografica e del modo in cui sono collocati gli edifici. In questo caso infatti il disegno dello spazio aperto è organizzato attraverso una successione di terrazze attrezzate disposte a differenti quote, che determinano uno spessore infrastrutturato e permeabile che media il passaggio graduale dalla strada pubblica verso gli ambiti più privati dell’insediamento. Oggi la condizione di totale abbandono e degrado in cui versano gli spazi aperti dei quartieri di Avellino, e soprattutto il loro carattere frammentario e privo di relazione con il costruito, ne impone il radicale ripensamento. In particolare la trasformazione dei loro margini più duri in spessori permeabili, membrane, sembra essere l’occasione per una strategia di recupero che porti ad una rinascita delle componenti spaziali e sociali che li caratterizzano, quali parti integranti e funzionali della città contemporanea.

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Lo spazio pubblico nei quartieri di ERP della città di Avellino

Figura 4. Il limite/parete occidentale del quartiere San Tommaso.

Bibliografia

AA.VV. (2009), Indirizzi per orientare lo sguardo, in Paola Di Biagi, Elena Marchigiani (a cura di) Città pubbliche. Linee guida per la riqualificazione urbana, Bruno Mondadori, Milano. Paola Di Biagi (2006), La periferia pubblica: da problema a risorsa per la città contemporanea, in A. Belli (a cura di), Oltre la città: pensare la periferia, Cronopio, Napoli. Kevin Lynch (2010), L’immagine della città, Marsilio, Venezia. Bernardo Secchi (1984), Le condizioni sono cambiate, in Casabella, n.498/499 Architettura come modificazione. Richard Sennett (13 Aprile 2013), Incompleta, flessibile, senza confini. La città ideale è un romanzo aperto, in Il Corriere della Sera. Roberto Vanacore (2012), La riqualificazione sostenibile degli insediamenti di edilizia residenziale pubblica. Percorsi di ricerca e di serimentazione progettuale, in Abitare di nuovo/abitare di nuovo ai tempi della crisi. Atti delle giornate internazionali di studio, Clean Edizioni, Napoli.

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Ecologie per la Rigenerazione Urbana_Il vento nel progetto di spazio pubblico

Ecologie per la rigenerazione urbana Il vento nel progetto di spazio pubblico Gioia Di Marzio Università G. d’Annunzio Chieti-Pescara Scuola Superiore G. d’Annunzio d’A - Dipartimento d’Architettura Email: gioia.dimarzio@libero.it Tel. 3472297914

Abstract Il paper muove dall’interpretazione di un percorso di ricerca notevolmente innovativo, che combina creativamente dati geografici e climatici, paesaggi, comportamenti e stili di vita, uso delle infrastrutture, forme architettoniche e urbanistiche, definita sinteticamente come Ecologia, come nell’opera di Reyner Banham ‘Los Angeles, L'architettura di quattro ecologie’; risorsa a cui è direttamente collegata la pratica sociale relativa alla città oggetto di studio. Rifacendoci a quell’intuizione seminale, si cerca di dare un contributo riguardo riflessioni in merito allo stretto rapporto che intercorre tra il progetto di rigenerazione urbana e l’ecologia del Vento, intesa non solo come risorsa energetica ma anche come risorsa di progetto, cosicchè attraverso la riqualificazione di una rete di aree degradate della città non solo si determina una rigenerazione urbana ma anche l’inserimento di quest’ultima all’interno di una strategia più ampia a scala territoriale.

Inquadramento storico, normativo e scientifico L’importanza delle risorse ambientali, acqua, vento, suolo sono state sin dall’antichità elementi fondamentali per la determinazione degli orientamenti di nuove città, per la disposizone degli edifici stessi, per il posizionamento delle strade affinchè le città avessero naturalmente le migliori condizioni di comfort. Nel tempo questa cultura che gli antichi naturalmente avevano nel considerare le risorse come elemento base nella progettazione è andata via via scemando ed è stata la tecnologia a prendere il sopravvento. La condizione odierna che le città italiane si trovano ad affrontare, come possiamo ben sapere, è particolarmente problematica ed estremamente collegata con lo sfruttamento delle risorse; gli aspetti critici ambientali, quali cattiva qualità dell’aria, traffico e congestione intensi, inquinamento acustico, cattiva qualità dello spazio edificato, carenza di spazi pubblici, presenza di aree abbandonate, emissioni di gas serra, proliferazione urbana, produzione smisurata di rifiuti e di acque reflue, rappresentano il manifestarsi del malessere del nostro secolo nel quale credendo di progredire andiamo sempre di più verso una profonda regressione. Il crescente degrado dell’ambiente urbano che continua a dilagarsi senza controllo, causato dalla spietata crisi economica, la mancanza di attuazione di un vero e prorio piano strategico di riqualificazione delle aree degradate della città e la crisi energetica che ogni giorno ci troviamo ad affrontare, mostrano come questa condizione può essere vista sia come una situazione critica del nostro paese e degli altri ma anche come una importantissima potenzialità. La Commissione Europea, per ovviare a queste problematiche, in relazione agli obblighi previsti nel Trattato di Kyoto (1997), nel 1998 presentò un ‘Quadro d’Azione per uno sviluppo urbano sostenibile nell’Unione Europea’ nel quale delineava alcuni dei seguenti obiettivi : « • migliorare la qualità dell’aria nelle zone urbane, l’affidabilità e la qualità dell’acqua potabile, la protezione e la gestione delle acque di superficie e di falda; • tutelare e migliorare l’ambiente modificato dall’uomo e il patrimonio culturale; diffondere la diversità biologica e moltiplicare gli spazi verdi nelle zone urbane; • diffondere modelli di insediamento compatibili con un’efficace utilizzazione delle risorse, capaci di ridurre al minimo lo spazio occupato e lo sviluppo urbanistico incontrollato;

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• ridurre in modo significativo e quantificabile le emissioni dei gas responsabili dell’effetto serra nelle zone urbane, soprattutto utilizzando razionalmente l’energia, ricorrendo maggiormente alle fonti di energia rinnovabile, e alla produzione di energia combinata (calore ed elettricità) e riducendo la quantità di rifiuti; • promuovere strategie di gestione delle zone urbane più integrate, plurisettoriali e sostenibili dal punto di vista ambientale; nell’ambito delle zone urbane funzionali, promuovere strategie di sviluppo compatibili con gli ecosistemi, che tengano conto dell’interdipendenza tra città e campagna, migliorando in tal modo i legami esistenti tra centri urbani e rispettive periferie rurali » (Commissione Europea, 1998: 20). Mentre nel 2006 introdusse una ‘Strategia tematica sull’ambiente Urbano’, considerando che le aree urbane assumono un ruolo fondamentale per la realizzazione degli obiettivi di questa strategia in quanto rappresentano il vero motore dell’economia, mettendo in connessione aspetti ambientali, economici e sociali. L’obiettivo fondamentale generale, menzionato nel documento ufficiale ‘Comunicazione della commissione al consiglio e al parlamento europeo _ relativa ad una strategia tematica sull’ambiente urbano’ è il medesimo: « contribuire ad una migliore qualità della vita mediante un approccio integrato concentrato sulle zone urbane [e] contribuire a un elevato livello di qualità della vita e di benessere sociale per i cittadini attraverso un ambiente in cui il livello dell’inquinamento non provochi effetti nocivi per la salute umana e l’ambiente e attraverso uno sviluppo urbano sostenibile » (Commissione Europea, 2006: 2). Di seguito sono state riportate strategie tematiche fondamentali, come la ‘promozione della biodiversità urbana’ (Commissione Europea, 2006: 10), che si inserisce nell’ambito dell’urbanistica sostenibile, della pianificazione territoriale sostenibile, avendo come fine la riduzione della proliferazione urbana che è causa del danneggiamento e della perdita della biodiversità e di habitat naturali. In particolare nelle città, le quali appaiono soffocate dal degrado, la gestione integrata dell’ambiente urbano dovrebbe prevedere la ‘promozione della biodiversità urbana’ limitando l’impermeabilizzazione dei terreni e la proliferazione urbana. Considerando le problematiche generali che le città affrontano a causa dell’aumentare di aree abbandonate, aree industriali dismesse, carenza di spazi pubblici, viene inserita la ‘strategia tematica sulla protezione dei terreni’ direttamente collegata alla precedente, attraverso la quale si è orientati alla riqualificazione e al recupero di queste aree, senza impiegare nuovi terreni incontaminati. Inoltre di primaria importanza è la ‘strategia tematica sull’uso sostenibile delle risorse naturali’ (Commissione Europea, 2006: 11), strettamente interconnessa con la problematica dei cambiamenti climatici e dell’esaurimento delle risorse non rinnovabili che oggi tutto il mondo si trova ad affrontare. Viene riconosciuto appunto il ruolo fondamentale che le aree urbane svolgono nella riduzione delle emissioni di gas serra e nell’adattamento ai cambiamenti climatici, attraverso il trasporto urbano sostenibile, l’edilizia sostenibile e la politica energetica mediante l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili. Per questo viene consigliato di limitare al loro interno l’utilizzo delle risorse naturali quali acqua ed energia attraverso una migliore gestione urbana; grazie soprattutto alla riduzione della proliferazione urbana servendosi di piani di insediamento ad alta densità e a uso misto vi è un ingente risparmio in termini di risorse e vantaggi ambientali. Inerente a quest’ultima strategia, la Commissione Europea, presentò nel 2005 una ‘Politica di coesione a sostegno della crescita e dell’occupazione: linee guida della strategia comunitaria per il periodo 2007-2013’ affermando che: « L'Europa deve rinnovare le basi della sua competitività, aumentare il suo potenziale di crescita e la sua produttività e rafforzare la coesione sociale, puntando principalmente sulla conoscenza, l'innovazione e la valorizzazione del capitale umano. Per raggiungere tali obiettivi, l'Unione deve mobilitare maggiormente tutti i mezzi nazionali e comunitari appropriati - compresa la politica di coesione nelle tre dimensioni economica, sociale e ambientale della strategia per utilizzarne meglio le sinergie in un contesto generale di sviluppo sostenibile » (Commissione Europea, 2005: 4). In relazione a questo obiettivo più ampio, vengono inseriti orientamenti riguardo il ‘Ridurre l’uso intensivo delle fonti energetiche tradizionali in Europa’; i più interessanti al fine della ricerca sono i seguenti: « • sostenere i progetti volti a migliorare l’efficienza energetica e la diffusione di modelli di sviluppo a bassa intensità energetica. • Promuovere lo sviluppo delle tecnologie rinnovabili e alternative (energia eolica, energia solare e biomassa), che possono conferire un netto vantaggio all’UE rafforzandone quindi la posizione concorrenziale. Questo tipo di investimenti contribuisce inoltre all’obiettivo di Lisbona secondo il quale, entro il 2010, il 21% dell’elettricità dovrà provenire da fonti rinnovabili » (Commissione Europea, 2005: 17). Nell’ambito delle Ricerche Europee, mentre, sono state pubblicate nella rivista mensile ‘Research eu’ articoli che evidenziano ricerche inerenti alla tematica del vento solamente come risorsa energetica e qui di seguito verranno riportati i nomi di alcuni di essi: ‘Calculating wind variances for better performance’ (Research eu, Gennaio 2009: 18), ‘Improving stability control in wind turbines’ – ‘Designing aero-elastic stability into wind turbines’ (Research eu, Giugno 2009: 28-29), ‘New sensors and data network for offshore wind farms’ (Research eu, Settembre 2009: 26), ‘Balancing wind power fluctuations’ – ‘Modern standards for wind turbine technology’ (Research eu, Ottobre 2009: 25), ‘Energy and Transport - EU must invest more in wind power for 20 MW turbines to become reality’ (Research eu, Giugno 2011: 14). Gioia Di Marzio

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Tesi sostenuta Da questa accurata analisi nell’ambito sia delle direttive della Commissione Europea e sia delle Ricerche Europee effettuate dalla Comunità Scientifica, si può facilmente dedurre come l’approccio che si ha nell’affrontare tematiche inerenti il Vento come risorsa sono meramente tecniche e settorializzate. Attraverso questa ricerca, proprio per questo, si vuole conferire al vento un significato più ampio. Non solo risorsa energetica ma una vera e propria risorsa progettuale che assume una valenza strategica di riqualificazione e rigenerazione urbana. Qui entra in gioco il concetto di Ecologia, definita nell’opera di Reyner Banham ‘Los Angeles, L'architettura di quattro ecologie’ (Reyner Banham, 2009) come l’interazione dei caratteri geografici e climatici, paesaggi, comportamenti e stili di vita, uso delle infrastrutture, forme architettoniche e urbanistiche, figure di senso e immagini nell’esperienza di attraversamento e uso dei diversi territori. Ecologia come risorsa a cui è direttamente collegata la pratica sociale. Questa intuizione di Risorsa concepita nella sua totalità sarà la base per un nuovo approccio progettuale, non settorializzato ma pluridisciplinare, con lo scopo di far interagire gli aspetti urbanistici, architettonici e tecnologici. Considerando l’importanza del riqualificare e non della proliferazione urbana, da qui si potrà intervenire progettualmente nella rigenerazione delle aree degradate, abbandonate, prive d’identità della città con un approccio innovativo utilizzando il vento come risorsa di progetto, risorsa energetica, risorsa che interagisce con altre risorse quali l’acqua, il verde urbano, il suolo, considerando gli aspetti che concernono la riduzione dell’impermeabilizzazione dei suoli, la carenza di spazi pubblici e il rispetto e promozione della biodiversità urbana. Inoltre in linea con i nuovi orientamenti comunitari, il progetto per la rigenerazione urbana dovrà espandersi oltre le dimensioni territoriali praticate tradizionalmente, e in particolare misurarsi con la dispersione dei territori urbani che ormai rende irriconoscibili i confini tra aree urbanizzate e spazi aperti.

Figura 1. Vista panoramica città di Popoli - credits: www.flickr.com Gian Piero Ottaviani

Una prima ipotesi di ricerca è stata applicata nel territorio di Popoli in Abruzzo (figura 1) per il progetto ‘Popoli la Città dell’Acqua e del Vento - Riqualificazione Urbana di Popoli - Schema Direttore per lo Sviluppo Sostenibile’ in cui si è considerato come le Ecologie Urbane possano essere la base per una nuova progettazione sostenibile, restituendo una nuova funzione e una nuova forma alle aree degradate e determinando una nuova conformazione della città, data dalla messa a sistema degli spazi pubblici. Il fine della ricerca era la riqualificazione urbana della Città di Popoli attraverso l’utilizzo delle sue Risorse principali, l’Acqua e il Vento, inserita in un progetto strategico di più ampia scala; infatti la progettazione intrapresa ha assunto un approccio multiscalare partendo, a scala territoriale, con la realizzazione di un Parco fluviale, lungo tutta la valle del Pescara, con porta del Parco la città di Popoli, luogo di particolare rilevanza naturalistica per la sua posizione, che si estende tra la Valle Peligna e quella del Pescara alle pendici del Monte Morrone, per la coesistenza di due Riserve Naturali, quella delle Sorgenti del Pescara e l'altra del Monte Rotondo, e per la presenza di ben due Parchi Nazionali, quello del Gran Sasso e quello della Majella. Naturalmente questo lungo corridoio blu e verde che si articola e ha come infrastruttura di base il sistema delle acque, il fiume Pescara, ha come punto d'inizio Popoli ma nello specifico l'Oasi delle Sorgenti del Pescara, portandosi dietro di se svariate specie di flora e fauna lungo tutto il tragitto di 52 Km, sino ad arrivare alla foce del fiume presso la città di Pescara, località marittima, dove non solo si può notare un cambiamento dal punto di vista di essenze arboree e specie faunistiche ma anche riguardo la città stessa, dalla dimensione e quindi al numero di abitanti, alla tipologia, allo stile di vita ma soprattutto riguardo l'inquinamento acustico, predominante in una città turistica e giovane come questa. Possiamo parlare di una progettazione dalla ‘testa ai piedi’. Da una scala territoriale si è passati a considerare una scala intermedia dove mettere in gioco anche il paese di Bussi e Bussi Officine, le quali insieme alla città di Popoli formano una realtà policentrica pensata in una visione d'insieme e infine si giunge ad una scala di progettazione urbana inquadrando il centro abitato di Popoli. Anche oggi come nel passato il fiume, ma precisamente i quattro fiumi che confluiscono a Popoli, il Pescara, l'Aterno, il Giardino e il San Callisto, rappresentano un punto di grande forza per la città e per restituire a Gioia Di Marzio

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quest'ultima la sua identità ormai andata scemando nel tempo. Per questo l'Acqua rappresenta sia uno degli elementi predominanti di questo territorio, riuscendo a conferire a questa città uno stampo veneziano e allo stesso tempo grazie all'immagine dei campi che sembrano essere sospesi sull’acqua alle terre d'Olanda, e sia una delle principali risorse. A causa delle trasformazioni antropiche effettuate sul territorio, il centro storico di Popoli ha perso completamente il rapporto diretto con il fiume Aterno - Pescara e con l'altra parte di città al di là del corso d'acqua. Da queste considerazioni vengono definiti gli obiettivi di qualità per conferire una nuova identità alla Città di Popoli, introducendoli come una vera e propria innovazione al P.T.C.P. vigente di Bernardo Secchi. L'immagine della Visione Guida sembra assumere connotati organici essendo carica di vita e piena di contenuti. Il fulcro centrale è dato naturalmente dal Centro Storico, rappresentato come il cuore di tutta la composizione, mentre l’infrastruttura dell’acqua e del vento, come un sistema di arterie e vene, assume il ruolo fondamentale di matrice sulla quale si sviluppano le reti dei tre sistemi verdi che hanno la funzione di collegare le polarità, o organi secondari, tra di loro ma sempre ritornando al nucleo originario, il cuore. Da questo possiamo dedurre come le Risorse qui menzionate (Acqua e Vento) intese nei loro vari aspetti rappresentino non solo un valore dal punto di vista energetico ma in particolare vere e proprie Risorse di Progetto, infrastrutture di progetto, che hanno la capacità di riconferire un nuovo aspetto alla città e un’identità forte che nel tempo è andata perduta. Infine il quadro di coerenza dei progetti che ha come obiettivo quello di restituire alla Città di Popoli una nuova immagine (La Città dell'Acqua e del Vento), è dato dalla messa a sistema di cinque interventi progettuali fondamentali di riqualificazione urbana e rigenerazione delle aree degradate: il Progetto del Parco Fluviale, il Progetto del Percorso dalle Sorgenti al Castello, il Progetto del Percorso d'Acqua, il Progetto delle Quattro Piazze, il Progetto degli Accessi Urbani.

Figura 2. Vista area di progetto prima e dopo - credits: Gioia Di Marzio

A scala urbana sono stati affrontati due principali progetti di riqualificazione di aree prive ormai della propria identità e al di fuori di una strategia di sviluppo ambientale, economico, sociale e culturale, dei quali uno è un vero e prorio progetto cardine: ‘La Nuova Porta Urbana alla Città di Popoli’ (Figura 2-3) in quanto priva di un ingresso riconoscibile. Valorizzando le risorse presenti, l’acqua,il vento e il suolo, si è giunti a definire le linee progettuali di quest’area così importante. La scelta determinante è stata quella di recuperare l’antica sede del centro termale per riconvertirla nel Nuovo Museo dell’Acqua, posizionata proprio all’ingresso della città, punto strategico. Area attualmente lasciata in stato di abbandono, subito dopo le strette Gole di Tremonti, adiacente alle reti ambientali e infrastrutturali. Il Museo presenta spazi interni e spazi esterni dove poter ammirare allo stesso tempo l’esposizione di pannelli, sculture del vento che producono dolci suoni e le acque dei fiumi Pescara e Giardino, percorrendo il duplice percorso pedonale e ciclabile. Naturalmente le Risorse sono considerate non solo come elementi per ricucire un’identità ma sono utilizzati anche sotto il profilo energetico e di sostenibilità. I parcheggi sono collocati all’ingresso della città in modo tale da poter fruire il paese attraverso i percorsi ciclabili, pedonali e attraverso la funicolare per poter raggiungere comodamente il Castello; mentre si è pensato di deviare il traffico pesante da un tratto importante della Tiburtina Valeria SS5 per poter ristabilire un contatto ormai perso con il fiume attraverso un sistema di ponti e pontili che sia colleghino direttamente con l’altra parte di città al di là del fiume e sia si inseriscano nel progetto più grande del Parco Fluviale.

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Conclusioni Come possiamo dedurre anche nella prima ipotesi di ricerca, si propone di delineare una più interessante prospettiva di lavoro, particolarmente urgente nel caso italiano, dovuta al continuo degradarsi del paesaggio urbano e alle crescenti domande di rigenerazione; occorre affermare una nuova cultura d’intervento, in cui gioca un ruolo centrale il progetto dello spazio pubblico e la sua qualità nei confronti delle ecologie di contesto. La rigenerazione urbana di alcune città, potrà avvenire attraverso la messa a sistema di nuovi spazi pubblici, generati dalla riqualificazione di aree degradate attraverso la gestione del Vento come risorsa nella sua totalità, plasmando gli spazi, le strade, gli edifici con forme e direzioni precise in modo tale da permettere al vento di essere utilizzato nel migliore dei modi anche come Risorsa energetica. Si determina così un unico grande sistema della Risorsa Vento, capace di far interagire i suoi innumerevoli e vari aspetti sino ad oggi considerati separatamente, che sarà alla base per una nuova progettazione e rigenerazione urbana sostenibile. Alle città si conferirà così un nuovo volto.

Figura 3. Masterplan area di progetto - credits: Gioia Di Marzio

Bibliografia Reyner Banham, (2009). Los Angeles, L'architettura di quattro ecologie, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi. Aldo Rossi, (1966). L’architettura della città, Padova, Marsilio. Anna Marson, (2008). Archetipi di territorio, Firenze, Alinea editrice. Pietro D’Amato, (2008). Piano di Ricostruzione dell’abitato di Popoli, Pescara, Edizioni Tracce. Adriano Ghisetti Giavarina, (2006). Popoli città d’Arte e Natura, Pescara, Carsa Editore. Adriano Ghisetti Giavarina, (1990). Popoli le Pietre, l’Acqua e la Gente, Pescara, Pierre Congress. A.Clementi, M.Ricci, (2004). Ripensare il progetto urbano, Meltemi, Roma J. Corner, (2003). Landscape Urbanism, in M.Mostafavi, C.Najle, edited by, Landscape Urbanisme, Architectural Association, London D.Mertins, (2003) landscapeurbanismhappensintime, in M.Mostafavi, C.Najle, op.cit P. Ingallina, (2001). Le projet urbain, PUF, Paris Ludwig Hilberseimer, (1944). The New City; Principles of Planning, Chicago, P. Theobald Publication. Leon Battista Alberti, (1989). L’architettura, Milano, il Polofilo (ed.or. De re aedificatoria 1485) Hippocrates, (1986). Arie, acque, luoghi. A cura di Luigi Bottin, Venezia, Marsilio (ed. or. Perì aeròn udaton topon - De aeris aquis et locis. V-IV sec a.C.) Vitruvio Pollione Marco, (1997). De architectura. Edizione a cura di Pierre Gros, Torino, G. Einaudi (ed.or. 3020 a.C.) Camillo Sitte, (1981). L’arte di costruire le città, Milano, Jaca Book.

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Sitografia Commissione Europea. Strategie Europee. Disponibile nel sito http://ec.europa.eu/environment/index_it.htm: Commissione Europea, O (1998). Quadro d’Azione per uno sviluppo urbano sostenibile nell’Unione Europea, 3(3.1), p.20. Commissione Europea, Ju (2005). Politica di coesione a sostegno della crescita e dell’occupazione: linee guida della strategia comunitaria per il periodo 2007-2013, 1 - 4(1.3), p.4,17. Commissione Europea, Ja (2006). Strategia tematica sull’ambiente Urbano, 1 - 6(2) – 6(4), p.2,10,11. Commissione Europea. Ricerche Europee. Rivista ‘Research eu’ disponibile nel sito http://cordis.europa.eu/research-eu/: (Gennaio 2009). Research eu - Calculating wind variances for better performance, p.18. (Giugno 2009). Research eu - Improving stability control in wind turbines - Designing aero-elastic stability into wind turbines, p.28-29. (Settembre 2009). Research eu - New sensors and data network for offshore wind farms, p.26. (Ottobre 2009). Research eu - Balancing wind power fluctuations - Modern standards for wind turbine technology, p.25. (Giugno 2011). Research eu - Energy and Transport - EU must invest more in wind power for 20 MW turbines to become reality, p.14.

Riconoscimenti Desidero ringraziare vivamente il mio relatore di tesi prof. Alberto Clementi e la mia correlatrice di tesi arch. Ester Zazzero, rispettivamente tutor e co-tutor del mio dottorato di ricerca, per i preziosi aiuti e insegnamenti.

Copyright Figura 1. Vista panoramica città di Popoli - credits: www.flickr.com - Gian Piero Ottaviani Figura 2 - 3. Vista area di progetto prima e dopo - Masterplan area di progetto - credits: Gioia Di Marzio

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Lo spazio archeologico come spazio pubblico

Lo spazio archeologico come spazio pubblico Bruna Di Palma Università degli Studi di Napoli Federico II DPUU Dipartimento di Progettazione Urbana e Urbanistica Email: brunadipalma@libero.it Tel: 3281428476

Abstract Non esiste opposizione tra archeologia e città, poiché anche il sito antico, in quanto strato della città, è parte della sua struttura, tuttavia è necessaria una riflessione sullo spazio archeologico come spazio pubblico a causa della condizione di isolamento che, invece, continua a caratterizzare, ancora oggi, la maggior parte delle aree archeologiche, aree della città contemporanea marginali e separate dalla vita degli insediamenti attuali. D’altra parte, operare una strategia di riconnessione del sito archeologico con la città, significa non solo salvaguardarlo attraverso una tutela attiva, ma mettere in atto una ben più ampia azione di riqualificazione urbana. Si è cercato di perseguire questo obiettivo all’interno di due proposte progettuali che si intende presentare all’interno di questo contributo e che hanno riguardato alcune aree urbano-archeologiche strategiche delle città di Napoli e di Pozzuoli. Parole chiave Archeologia, spazio pubblico, continuità

L’isolamento dei monumenti e la priorità archeologica: logiche di discontinuità nel progetto urbano In molte città storiche, la componente archeologica rappresenta un’importante parte della struttura urbana, non solo per il richiamo ad una memoria collettiva a cui, comunque, più di ogni altra componente rimanda, ma soprattutto per le potenzialità e per la spinta progettuale che possiede rispetto a margini di riqualificazione che possono andare ben oltre le aree archeologiche strettamente intese, per arrivare a coinvolgere l’intera città. La necessità di un approfondimento su questo tema nasce dalla condizione in cui versa, oggi, la maggior parte di queste aree, in particolare nelle città stratificate, in cui molto complesso risulta il controllo del limite, spesso fisicamente non definibile con chiarezza tra la parte propriamente archeologica e l’area urbana circostante. La conseguenza che deriva dal mancato inserimento di queste aree in logiche di riqualificazione integrata tra archeologia e città, e quindi dalla discontinuità che viene a crearsi tra lo spazio urbano e lo spazio archeologico e che si localizza soprattutto in corrispondenza di questo più o meno chiaro bordo tra le due entità considerate come differenti, porta ad un degrado diffuso che va ben oltre i cosiddetti recinti archeologici, per coinvolgere porzioni di territorio ben più ampie. Alcune ragioni dello stato in cui versa oggi l’archeologia e conseguentemente la città che in alcuni casi viene a trovarsi tra le archeologie, assolutamente vicina, sovrapposta e intrecciata ad essa, sono da ricercare tra le logiche teorico progettuali che fino a qualche decennio fa dominavano il dibattito culturale su questi temi: l’isolamento dei monumenti, perseguito come liberazione delle antiche strutture da quelle nate successivamente, diventa oggi la principale causa di degrado e abbandono di quelle archeologie che con tale pratica si voleva, all’opposto, salvaguardare. Un caso esemplare a tal proposito è quello della città di Napoli: nel corso degli anni ’70, Roberto Pane, fondatore del restauro critico, avanzò una proposta di liberazione dei teatri romani di Neapolis, per una loro opportuna valorizzazione. Ma il centro antico di Napoli rappresenta un chiaro esempio di città pluristratificata a continuità di vita e isolare il monumento avrebbe significato la perdita di tutta un’altra serie di testimonianze insediative che invece hanno caratterizzato un modello di sviluppo della forma urbana che ha confermato l’antico tracciato viario conservandone anche la vitalità abitativa. Bruna Di Palma

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La pratica progettuale dell’isolamento appartiene alla stessa epoca durante la quale la cosiddetta priorità archeologica manifestava con forza la sua presenza nei programmi di avanzamento o di programmazione delle opere rispetto ad una logica progettuale integrata. «[…] nei Paesi ove, per la ricchezza del patrimonio, più impegnativo si presenta il problema della conservazione monumentale e del conseguente “compromesso” ambientale, prevale la tendenza a porsi di fronte alla complessità del reale con atteggiamenti garantisti accentuatamente selettivi, appoggiati a un sistema di preconcetti; quale è, per esempio, la molto insistita (soprattutto in Italia) “priorità archeologica”, la quale porrebbe all’interno di un contesto urbano nel quale si effettua l’intervento, un concreto e cogente distacco che, nell’ottica integrativa […], rappresenta un elemento di disomogeneità e disorganicità, in un continuum la cui forza vitale consiste proprio nell’integrazione di ogni sua parte con il tutto» (M. Manieri Elia, 2010).

Dall’isolamento dei monumenti ai processi compositivi di tipo integrato: il rapporto tra l’archeologia urbana ed il progetto dello spazio pubblico Da qualche decennio una spinta verso proposte d’intervento di tipo integrato, più complesse rispetto a quelle consolidate che prevedevano di affrontare singolarmente le questioni progettuali lasciando la logica del progetto archeologico e quella del progetto urbano all’interno di steccati disciplinari ben autonomi e distinti, proviene proprio dall’ambito archeologico. Infatti è ormai consuetudine parlare della cosiddetta archeologia urbana, definita da G. P. Brogiolo all’interno del Dizionario di Archeologia curato da R. Francovich e D. Manacorda, come «la ricerca archeologica globale in una città tuttora esistente ovvero sull’intera sequenza insediativa, dalle fondazioni ai giorni nostri, senza privilegiare un periodo storico rispetto all’altro» (G. P. Brogiolo, 2009). A questo proposito, Andreina Ricci sostiene che «si rimanda esplicitamente al rapporto tra la componente propriamente archeologica e lo sviluppo della città, che ha visto Londra, negli anni della ricostruzione successiva alla fine dell’ultima guerra, un campo di sperimentazione importante dal quale ha preso l’avvio la cosiddetta archeologia d’emergenza. […] Con la pubblicazione nel 1973 del libro di Biddle e Hudson, The future of London’s Past, e con le riflessioni e gli affinamenti che hanno occupato il decennio successivo, l’archeologia urbana si è lì radicata anche nello stabilire procedure di intervento e soggetti impegnati nell’opera di recupero e valorizzazione» (A. Ricci, 2000). Questo approccio rispetto alla problematica dell’integrazione tra archeologia e città, presenta caratteristiche fortemente progettuali: «soprattutto in connessione con circostanze conoscitive e interessi scientifici non di tipo analitico e filologico né, tanto meno, antiquario, ma di tipo decisamente attivo, quindi trasformativo e inevitabilmente anche progettuale. Storia e progetto, in definitiva, sono fatti della stessa essenza concettuale: prendono forma e mutano nel tempo in ragione del legame interattivo che lega ogni cosa nel mondo, registrando, sia in sede di bilancio consuntivo (la storia) sia preventivo (il progetto), la complessa vicenda di quel rapporto e, cioè, delle modalità con cui si avvolge e si svolge la fondamentale funzione dell’adattamento degli uomini all’ambiente mutevole, nella nostra necessità/intenzionalità di viverlo, abitandolo» (M. Manieri Elia, 2010). Fin dalla prima formulazione di questo specifico ambito della disciplina archeologica, appare dunque chiara la necessità per la quale affrontare il progetto archeologico significa coniugare l’istanza della conservazione del singolo reperto con quella dello sviluppo dell’intero ambito urbano in cui essa si colloca. «Dove il contesto urbano antico si offre e si apre alle interpretazioni, manifestandosi per contrapposizione, per integrazione e continuità, per differenza o per identità con l’attuale» (M. Leonardi, 2003), è necessario proporre progetti di trasformazione che superino logiche settoriali: «qualsiasi progetto d’intervento su un sito archeologico nel centro di una città è un potenziale progetto archeologico, e qualsiasi campagna archeologica è un progetto urbano, dal momento che, o presto, o tardi, si porrà la questione dell’integrazione del sito nell’ambito della città e del modo in cui trattarne i diversi limiti, cioè la questione della relazione del sito stesso con la città» (Y. Tsiomis, 2002). Dal punto di vista delle sperimentazioni, un’impostazione progettuale integrata e tesa a coniugare le questioni urbano - archeologiche vede il tema della diffusione dello spazio pubblico come tema dominante; ad esso strettamente connesso si presenta quello dell’uso pubblico della storia, entrambi correlati al superamento del limite, della cosiddetta frontiera tra archeologia e città: «si è detto e fatto molto per restituire centralità al ruolo del progetto, investendo ad esempio il tema della frontiera, il nodo delle cosiddette aree di bordo tra città attuale e città archeologica: margini delicatissimi di ferite aperte nel tessuto urbano [...] dove, affacciandosi, è possibile oggi guardare ma non vedere, come ha suggestivamente notato Andreina Ricci. Ma la centralità del progetto investe direttamente anche il monumento, e il suo uso, tanto che talora si pensa che continuare con l’uso quotidiano a ‘calpestare le tracce’ del passato sia quasi l’unico strumento in grado di garantirne la conservazione. E infatti riflettendo sul rapporto tutela/valorizzazione ci si interroga se proprio l’uso pubblico dei monumenti e delle aree archeologiche non possa essere uno strumento che in definitiva aiuti a proteggerle e conservarle meglio» (D. Manacorda, 2011). Uno spunto per approfondire il tema in questione ci viene offerto dal progetto che l’architetto greco Yannis Tsiomis propone per la disposizione dello spazio pubblico del sito archeologico dell’Agorà di Atene e del quartiere storico adiacente. L’architetto, nel descrivere la strategia progettuale, non separa mai il discorso Bruna Di Palma

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archeologico dal discorso urbano, e anzi trasforma l’idea romantica degli Enti pubblici committenti di formare una passeggiata archeologica in un progetto che rispondesse effettivamente alle esigenze della realtà urbana, della città esistente contemporanea. Per agire sulla città bisogna, secondo lui, agire prima di tutto sullo spazio pubblico attraverso quella che definisce topografia storica: «la topografia storica è operativa, in quanto non si frammenta lo spazio in un unico modo, ma in base ad alcuni criteri: sicuramente quello dell’approccio archeologico, quello della relazione da stabilire tra spazi urbani che appaiono differenziati in termini di tempo, di uso e di funzione, e ancora il criterio del paesaggio come testimone dell’evoluzione della scrittura del luogo (secondo l’etimo della parola topografia) e come scrittura della storia attraverso il luogo. La topografia storica diventa – io credo – non un paesaggio/museo, ma una nozione operativa per predisporre lo spazio pubblico. Lo spazio pubblico è quindi il grande ordinatore sia della diacronia che della sincronia» (Y. Tsiomis, 2002). Di conseguenza, operare una strategia di riconnessione del sito archeologico con la città, significa mettere in atto un’ampia azione di riqualificazione dello spazio pubblico, sostenendo, in termini ancor più sintetici, la totale corrispondenza tra lo spazio archeologico e lo spazio pubblico, attraverso un rilancio dell'identità culturale ed una risignificazione urbana: «reintegrare il sito alla vita attribuendo continuità di uso tra la città archeologica e la città abitata, è la migliore maniera per conservare la prima e dinamizzare la seconda» (A. Tejedor Cabrera, 2010).

Archeologia, paesaggio e città: un progetto per il centro antico di Napoli e per la città di Pozzuoli Attraverso un approccio dialettico e pluridisciplinare, intendere lo spazio archeologico come spazio pubblico, tenendo conto delle più diffuse situazioni in cui l’archeologia e la città di più recente formazione si collocano l’una rispetto all’altra, può significare riflettere sul tema del rapporto alto – basso, tra suolo e sottosuolo, e sul tema della trama - racconto come riconnessione di un sistema di frammenti. Il primo tema attraverso cui si è provato a sperimentare la questione dello spazio archeologico come spazio pubblico è quello del rapporto alto – basso: a Napoli, città stratificata per eccellenza, al di sotto della quota attuale del decumanus Superior, l’attuale via Anticaglia, si trovano infatti i resti dell’antico teatro romano di Neapolis. La quasi totale assenza del teatro allo sguardo di chi passeggia per i vicoli del centro antico, contribuisce a creare quell’effetto di sorpresa, quando, invece, scendendo nel sottosuolo, le strutture che rimangono dell’antico corpo architettonico sono assolutamente sufficienti a ricreare la suggestione dell’edificio originario. Ma l’azione trasformativa della storia, l’evoluzione della città, hanno consentito di ottenere oggi non un semplice reperto archeologico antico, bensì un episodio quanto mai emblematico di stratificazione per sovrapposizione di strutture di successiva formazione, un palinsesto complesso e affascinante. Capita raramente che un edifico storico, destinato ad accogliere una funzione pubblica, assommi in sé un insieme tanto vasto di significati da porre quasi in second’ordine le proprie caratteristiche architettoniche per presentarsi soprattutto come un potenziale riferimento urbano, fondamentale nella vicenda contemporanea della città cui appartiene. Più in generale però, l’area in cui si trova il teatro (Fig. 1), e tutta l’area del centro antico di Napoli, presenta un alto livello di degrado degli spazi pubblici e privati, cui segue una bassa qualità della vita e uno scarso livello di sicurezza.

Figura 1. Planimetria e foto dello stato attuale dell’area del Teatro romano di Neapolis.

In primo luogo, con l’obiettivo di migliorare queste condizioni, il progetto propone un nuovo perimetro, più ampio rispetto a quello definito dal Comune per l’ambito urbanistico (ambito n. 25 della Variante al PRG vigente) individuato come area per la valorizzazione del teatro, definendo, come area progetto, quella Bruna Di Palma

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comprendente quattro insulae del tessuto antico e non più tre. Si individua così, nell’insula aggiunta, un’occasione di congiuntura tra l’area del teatro e quella della città secondo una convinzione per la quale un efficace intervento sul teatro debba metterlo necessariamente in relazione con il contesto e con la vita che in esso avviene. Tra gli elementi che caratterizzano la trama edilizia delle insulae che circondano e si sovrappongono al teatro, si evidenzia la presenza di alcuni vuoti urbani, tra cui il Largo Proprio d’Avellino, un’eccezione all’interno del fitto tessuto costruito del centro antico, di un rudere da riconfigurare come numerosi se ne concentrano in quest’area e di un complesso edilizio ottocentesco in cattive condizioni per cui è prevista dagli strumenti urbanistici la sostituzione edilizia. Questa parte urbana si presenta dunque come un insieme disomogeneo di luoghi incompiuti all’interno della città. L’intervento crea allora nuovi spazi di relazione, riordinandoli nel rispetto delle preesistenze e del loro significato e confrontandoli con le configurazioni geometriche e spaziali dell’intorno, adattandosi rispettoso a ciò che esiste, ma facendolo rivivere nell’uso collettivo. Il teatro appare tuttavia irraggiungibile, obiettivo cardine del progetto è dunque renderlo, in primo luogo, accessibile. Il progetto affronta le complesse criticità esistenti attraverso una logica progettuale concreta che si attua a partire dalla configurazione architettonica di un edificio di ingresso ai resti archeologici, attualmente isolati rispetto al contesto, da Largo Proprio d’Avellino. Partendo da questo vuoto - pausa nella densa edificazione del centro antico, viene definito un percorso di attraversamento e di comprensione della complessa stratificazione esistente. Superato lo spazio aperto di questo vuoto aperto e riconfigurato come piazza pubblica su via Anticaglia, attraversate le volumetrie preesistenti di Palazzo Caracciolo d’Avellino e dei primi resti archeologici del teatro su un lato di vico Cinquesanti, grazie alla progettazione di nuovi spazi espositivi, di accoglienza e di servizio in superficie e di spazi di raccordo, racconto, attraversamento nel sottosuolo, si arriva dall’altro lato del vico, dove permangono, a loro volta isolati, gli altri resti dell’edificio antico. Si giunge quindi, grazie al passaggio nelle strutture di fondazione ad arco, riportate alla luce, di Palazzo Garzillo, ad ammirare, attraversandoli, la cavea del teatro all’aria aperta, gli spazi dell’ambulacro, la loro relazione reciproca e quella con le strutture e gli spazi delle successive epoche della città in un progetto complesso che attraversa i tempi e gli spazi della città, sia quelli antichi che quelli contemporanei, intrecciandoli (Fig. 2).

Figura 2. Progetto di valorizzazione del Teatro romano di Neapolis. Planimetrie e sezione.

Una seconda sperimentazione ha riguardato il lavoro sul tema della trama - racconto come riconnessione di un sistema di frammenti archeologici per rileggere la città contemporanea di Pozzuoli e il suo paesaggio. Nei Campi Flegrei infatti, la presenza archeologica rappresenta un importantissimo e fondamentale aspetto da cui partire per Bruna Di Palma

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Lo spazio archeologico come spazio pubblico

la rilettura, l’interpretazione ed il progetto della città e del paesaggio attuali. In particolare a Pozzuoli, la diffusione dei resti è tale da rendere indiscutibile l’impossibilità di distinguere la città contemporanea da quella archeologica. A questa condizione non corrisponde però nè una continuità spaziale tra spazio pubblico e spazio archeologico, nè una reciproca valorizzazione e neanche un uso capace di tutelare attivamente l’archeologia e, allo stesso tempo, garantire dinamicità allo spazio pubblico della città. Per Pozzuoli si è partito dal rileggere la città come basata, oltre che da uno sviluppo parallelo alla costa, su una giacitura trasversale che dal cratere della Solfatara si collega con il molo. Lungo questa spina l’andamento orografico subisce variazioni notevolissime e consente, in corrispondenza della Solfatara e dunque del suo punto più alto, di avere una visuale continua verso il Rione Terra, ultimo promontorio archeologico prima della ripida discesa verso il molo ed il mare (Fig.3).

Figura 3. La complessa struttura urbana di Pozzuoli ed una sua possibile lettura lungo la trasversale che va dalla Solfatara al molo

Una visuale continua, una continuità di spazi capace di tenere insieme le componenti della struttura della città, che ha suggerito la composizione di una trama che ricostruisse come in un racconto, lo spazio della Pozzuoli contemporanea attraverso la mixitè, la contaminazione dei suoi tempi. Il punto di partenza della trama-percorso di questo grande paesaggio pubblico potrebbe essere l’attuale fermata della linea 2 della Metropolitana, dalla quale con una nuova uscita verso l’anfiteatro minore, nuova piazza della stazione, si partirebbe per attraversare il parco agricolo-archeologico verso la Solfatara. Qui potrebbe essere previsto un nuovo ingresso-belvedere, che consentirebbe di superare la barriera infrastrutturale costituita dalla strada sulla quale affaccia l’attuale edificio di ingresso al cratere e di connettere in maniera continua il nuovo parco con quello esistente. Si potrebbe proseguire quindi attraverso antichi percorsi tra le vigne, riqualificati e attrezzati che consentirebbero anche di garantire un più piacevole percorso verso gli istituti scolastici ai quali conducono. Si proseguirebbe ancora verso la Piscina Cardito, posta lungo un’area che fa da bordo a numerose funzioni pubbliche della città contemporanea, tra cui una sala cinematografica, alle quali potrebbero offrire spazi di supporto, venendo valorizzate anch’esse, non fosse altro che attraverso un nuovo uso e dunque una tutela attiva. Si giungerebbe così al Rione Terra, la parte più antica della città, nodo di congiunzione con il molo e da cui dunque tracciare nuovi percorsi di connessione con la fascia costiera. Da qui si risalirebbe verso lo spazio lungo via Marconi, attualmente adibito a parcheggio a raso, ma con potenzialità di divenire una piazza verso il mare circondata dai resti del Collegio dei Tibicines. Una piazza che precederebbe il parco urbano che potrebbe essere ricavato riqualificando l’area dell’antica Villa Avellino, vera e propria area di connessione con l’Anfiteatro Maggiore che ritornerebbe a far parte della città, rompendo la barriera dell’attuale recinzione, attraverso una frangia attrezzata, luogo della città contemporanea e di quella originaria insieme (Fig.4).

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Lo spazio archeologico come spazio pubblico

Figura 4. Una proposta progettuale per un grande paesaggio pubblico a Pozzuoli.

Bibliografia

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Il “metrobosco” per San Pietro in Casale: “un buon posto per vivere”

Il “metrobosco” per San Pietro in Casale: “un buon posto per vivere” Romeo Farinella Università di Ferrara Lab CITER - Dipartimento di Archiettura Email: fll@unife.it Tel: (+39) 0523 2936626 – (+39) 348 6505986 Saveria Olga Murielle Boulanger Università di Ferrara Lab CITER - Dipartimento di Archiettura Email: fll@unife.it Tel: (+39) 0523 2936626 – (+39) 348 6505986 Michele Ronconi Università di Ferrara Lab CITER - Dipartimento di Archiettura Email: fll@unife.it Tel: (+39) 0523 2936626 – (+39) 348 6505986

San Pietro in Casale: un territorio debole ma vivo Periferia. 11 936 abitanti. Più del 50% pendolari. Bologna e Ferrara le due realtà attrattrici. Camminiamo per il centro di San Pietro in Casale e immediatamente ci rendiamo conto che qualcosa non va: i negozi sono chiusi, altri svendono i prodotti per fine attività, pochi i passanti, perlopiù anziani. Un abitante afferma «fino a qualche mese fa, in piazza, trovavi fruttivendolo, macellaio, negozi di abbigliamento, cartolerie e tabaccherie, ferramente, fiorai, profumerie». Oggi sono pochi i commercianti superstiti e i locali vuoti vengono occupati dalle banche o rimangono inutilizzati. Nell’immediata periferia, poi, si assiste ad un fenomeno che ricorre nella maggioranza dei comuni italiani: presenza di abitazioni su abitazioni, senza l’ombra di un commercio di prossimità. Non si tratta di un comune triste o di un comune senza storia, come si potrebbe immaginare. Al contrario sono presenti gruppi sociali di forte vitalità e una popolazione molto giovane, in via di espansione. Il passato storico del comune ne conferma l’importanza, in quanto San Pietro in Casale ha visto le sue origini nell’antica Roma e, nei secoli, è stato territorio di commercio e di passaggio dell’importante rete di comunicazione che da Bologna porta a Venezia, passando per Ferrara. Dunque cosa è successo negli ultimi anni? Cosa ha provocato la crisi sociale che investe il comune? Certamente l’attuale situazione economica ha influito, ma il fenomeno cui assistiamo è, in parte, più antico della grande crisi economica che investe il mondo attuale. San Pietro in Casale è un comune che scelse più di vent’anni orsono di favorire lo sviluppo residenziale, piuttosto che quello industriale. Per quanto sia presente una zona industriale e artigianale importante, la politica amministrativa che il comune porta avanti da tempo è quella della cementificazione diffusa, per far fronte all’aumento demografico, dovuto soprattutto alla presenza della stazione ferroviaria. Questo fenomeno si è acuito a seguito della chiusura dello zuccherificio, posto nei pressi della frazione di Gavaseto, per la precisa volontà di mantenere un’economia attiva e di continuare a garantire posti di lavoro. Il risultato che si osserva oggi è la vasta presenza di quartieri residenziali che presentano, a margine, realtà di tipo artigianale e industriale dismesse o ancora in funzione. Questi quartieri si configurano a tutti gli effetti come quartieri dormitorio, ospitando abitanti che lasciano quotidianamente il paese per recarsi a lavorare nelle vicine realtà di Bologna, Ferrara e Cento. Si tratta di aree di territorio deserte nelle ore centrali della

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giornata, prive di commerci di prossimità, di servizi, ma anche di collegamenti dolci adatti alle principali infrastrutture di comunicazione. Tutto è costruito a misura di auto. La crisi degli ultimi anni ha, di conseguenza, acuito le problematiche latenti all’interno di una pianificazione di questo tipo: la sottovalutazione della qualità urbana del centro abitato; la complessità nell’adattarsi ai cambiamenti radicali nell’organizzazione della produzione e della distribuzione; la difficoltà nel mantenere alto il livello dei servizi; la generale mancanza di considerazione dell’uomo e della joie de vivre come obiettivo principe della progettazione urbana. All’interno di tale duplice contesto, da un lato privo di qualità urbana, dall’altro particolarmente vitale dal punto di vista umano, alcuni cittadini si sono attivati per denunciare le pratiche urbane espansioniste in favore di progettazioni avanguardistiche, mirate alla costruzione zero. Si tratta dell’Associazione Amici del Metrobosco, nata due anni fa, con l’obiettivo primario di favorire un rilancio del territorio mirato al buon vivere dei cittadini. La proposta ha incontrato il favore di ambienti istituzionali, politici, sociali ed accademici: la realizzazione di un grande ambito verde attorno al paese, il cosiddetto Metrobosco, ovvero un bosco urbano, atto a contrastare l’attuale tendenza che vede sempre più trasformarsi l’attuale insediamento residenziale in città dormitorio, al fine di rendere, come recita lo slogan, “San Pietro in Casale, un buon posto per vivere”. In particolare la Provincia di Bologna si è posta come interlocutore attivo, riconducendo tale proposto all’interno della azioni finalizzate alla costruzione della Rete Natura provinciale. La proposta non consiste nella creazione di una cintura che, materialmente, impedica l’espansione edilizia, ma piuttosto nella creazione di una serie di ambiti protetti, funzionali alla cittadinanza e alle attività della campagna o del tempo libero. All’interno di tali ambiti ogni tipo di cementificazione viene vietata, per lasciare spazio a orti urbani, giardini, parchi gioco, ma anche attrezzature per la raccolta differenziata del rifiuti, attività sportive, ambiti di vendita dei prodotti locali. L’Associazione non progetta una serie di funzioni specifiche, ma fornisce delle indicazioni guida, all’interno delle quali l’urbanista può muoversi più liberamente.

Associazione Metrobosco e laboratorio di ricerca Citer: un dialogo proficuo Per avere un’immagine più concreta della proposta, da poter mostrare alla cittadinanza e all’amministrazione, e per ricevere un supporto culturale e scientifico, l’associazione si è rivolta nel 2010 al Laboratorio di Urbanistica Citer, presso l’Università di Architettura di Ferrara. L’obiettivo era, in primo luogo, verificare la fattibilità teorica e pratica del progetto, unitamente ad una consulenza di tipo urbanistico, ed, in secondo luogo, portare avanti ulteriori operazioni di divulgazione presso le opinioni pubbliche e gli enti territoriali della regione. L’interesse mostrato dal Citer, nel proseguimento di una proficua collaborazione, ha avuto fondamento in alcune considerazioni, attuali all’interno della pratica urbanistica e, in qualche misura, avanguardistiche. In particolare le seguenti: -

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la proposta è un esempio di processo bottom-up, ovvero di volontà di miglioramento territoriale nata dalla base sociale, ovvero dalla cittadinanza, che ha saputo, in parte, farsi ascoltare dall’amministrazione; l’oggettiva necessità di formulare proposte operative per una corretta gestione degli spazi peri-urbani. Il caso di San Pietro in Casale può divenire un esempio pratico nella trasformazione degli ambiti periurbani e, in particolar modo, al fine di frenare la progressiva espansione edilizia. In secondo luogo, l’obiettivo è scongiurare lo scenario, comune a molte realtà italiane, di fusione di centri urbani limitrofi, a scapito della identificabilità e storicità di ogni singolo contesto territoriale; la riconosciuta importanza, accordata a tali ambiti, anche da parte delle recenti normative regionali in materia urbanistica, che pongono l’accento sulla necessità di una salvaguardia degli spazi agricoli periurbani, cui vanno riservate funzioni di tipo collettivo, legate al tempo libero o connesse alle attività agricole. Una serie di indirizzi che traducono la doppia volontà del legislatore: sottrarre tali ambiti, cui spetta alle amministrazioni comunali definirne le esatte perimetrazioni, all’urbanizzazione e porre, in via definitiva, un freno all’espansione, senza limiti, dei territori urbani e del consumo di suolo.

Il Metrobosco diventa workshohp e ricerca: partecipazione pubblica e premi internazionali ne testimoniano l’interesse La prima azione comune, tra Amici del Metrobosco e Citer, è stata l’organizzazione di un workshop, in collaborazione con il Laboratorio di Sintesi Finale, della Facoltà di Architettura. “Progettare il Metrobosco. Un Romeo Farinella, Saveria Olga Murielle Boulanger, Michele Ronconi

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Il “metrobosco” per San Pietro in Casale: “un buon posto per vivere”

parco per San Pietro in Casale” il titolo dei lavori svolti, nel maggio – giugno 2011, dagli studenti del quinto anno del Dipartimento di Architettura di Ferrara centrati sull’elaborazione di linee guida per la definizione di un metrobosco per il comune di San Pietro in Casale. Il workshop ha inteso, inoltre, attivare procedure partecipative, attraverso le quali costruire un progetto, e discuterne gli esiti e le suggestioni. Durante i mesi di lavoro sono stati organizzati momenti di confronto, preliminare e consuntivo, sia con esponenti delle istituzioni locali che con la comunità stessa, al fine di raccogliere impressioni e condividere riflessioni sulle proposte in corso di elaborazione. Le giornate del workshop si sono aperte la sera di Giovedì 19 Maggio 2011, con un evento di urbanistica partecipata, rivolto ai cittadini del comune sottoforma di un world café. L’elaborazione progettuale è stata condotta dagli studenti, suddivisi in tre gruppi, con il supporto, nelle fasi analitiche e nella definizione delle linee guida, di esperti e ricercatori invitati a prendere parte ai lavori. Gli esiti raggiunti al termine del workshop sono attualmente visibili e consultabili in formato digitale, sul sito web dell’Associazione Amici del Metrobosco, all’indirizzo www.amicidelmetrobosco.it. Non si tratta di progetti operativi, ma piuttosto di linee guida che si costituiscono come base di partenza per una successiva e più dettagliata elaborazione, che possa dare vita ad un vero e proprio masterplan. Tali indicazioni potranno, eventualmente, venir assunte e riformulate dall’amministrazione, entro gli strumenti di pianificazione urbanistica. La presentazione finale degli elaborati si è svolta a San Pietro in Casale Mercoledì 15 Giugno 2011, ed ha visto un’ampia partecipazione della popolazione locale. Questo conferma la radicata e diffusa conoscenza del territorio da parte dei cittadini e soprattutto il loro forte senso identitario e comunitario, simbolo di una elevata vitalità sociale e della volontà di promuovere e valorizzare il proprio territorio a livello regionale. Uno dei tre esiti finali ha partecipato ed è stato premiato, nel Giugno 2012, al Concorso Internazionale di Urbanistica Art Urbain di Parigi; concorso organizzato dal Ministère de l’Écologie, du Développement Durable, des Transports et du Logement francese. Nell’autunno 2012, gli esiti del workshop, insieme ad una tesi di laurea, sono stati presentati, per due settimane, all’interno degli spazi espositivi dell’ Urban Centre di Bologna, accompagnati da un seminario di approfondimento sui temi della diffusione urbana e della gestione degli spazi peri-urbani. Tale seminario ha visto la partecipazione, in qualità di relatori, di alcuni rappresentanti delle istituzioni politiche e culturali. A seguito di tale esperienza, sono state redatte diverse tesi di laurea, che hanno riscosso i consensi delle commissioni esaminatrici. A partire dalla sessione estiva del 2012, fino alle ultime, discusse nei mesi di Febbraio e Marzo 2013. Tali lavori si sono incentrati sull’idea di un bosco metropolitano, declinandolo con modalità e funzioni differenti: punto di partenza per una rete di turismo gastronomico di qualità, incentrato sulle produzioni agricole locali sulla presenza di numerose aziende che operano nel settore; logo utile a favorire il turismo domenicale in aree aperte al paesaggio agricolo e attrezzate per il tempo libero, il picnic, gli orti urbani, anche con funzioni educative (fattorie educative, utilizzo di animali nelle terapie mediche, giardini botanici, centri di educazione alla coltivazione e mantenimento di piante e orti); punto di partenza per la creazione di una rete artigianale, capace di risollevare, in parte, le sorti economiche del comune e dei centri limitrofi; punto di partenza per la creazione di una rete di automobili elettriche, che colleghi i comuni, posti tra Bologna e Ferrara, fra loro e che offra permessi di circolazione all’interno delle zone a traffico limitato delle suddette province. “Artigianato e citta”: il Metrobosco come ambito ecologico e sistema produttivo

Le realtà peri-urbane sono, oggi, molto diffuse all’interno del panorama comunale e rischiano, sempre più, di essere inglobate in sistemi più ampi, con la conseguente perdita di identità sociale e storica, a favore di una semplice gestione fisica e amministrativa del territorio. Il rischio è l’omologazione di una diversità che, oggi, è principale patrimonio italiano. Nel caso specifico del Metrobosco , si tratta di una risposta plurale, ovvero: ambientalista, finalizzata al miglioramento della qualità dell’aria e all’incremento della biodiversità locale; urbanistica, mirata al miglioramento e mantenimento della qualità paesaggistica, alla riqualificazione e configurazione delle aree marginali, a porre un freno all’espansione edilizia; di sviluppo territoriale, volta all’insediamento di aziende tecnologicamente avanzate, alla riqualificazione delle attività commerciali esistenti, allo sviluppo di modelli di agricoltura multifunzionale ed al diffondersi di forme di turismo sostenibile.

Il Metrobosco vuole essere brano di disegno più ampio, inserendosi coerentemente, come elemento connettivo della Rete Ecologica provinciale e sovra provinciale, di cui ne specifica alcune indicazioni alla scala locale. Romeo Farinella, Saveria Olga Murielle Boulanger, Michele Ronconi

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Il “metrobosco” per San Pietro in Casale: “un buon posto per vivere”

La tesi che presentiamo è frutto di una ricerca che fa riferimento non solo all’iter già descritto sul Metrobosco, ma ad esperienze, precedenti e contestuali, sulle tematiche dell’artigianato e della città. Il caso di San Pietro in Casale è apparso adatto alla realizzazione di un progetto su tali questioni, per la presenza di un’associazione cittadina attenta ai temi dell’avanguardia urbanistica e di un ampio settore artigianale in declino. Il fenomeno della crisi della piccola industria artigianale è comune a numerose altre realtà locali italiane. L’obiettivo della ricerca è, dunque, tentare di offrire un nuovo punto di partenza per lo sviluppo di tali realtà. Il progetto si sviluppa a seguito del dialogo con le associazioni di categoria, con l’associazione Amici del Metrobosco e con alcuni artigiani del comune. Il lavoro prende avvio da un ridisegno generale degli ambiti attorno al tessuto urbano, in risposta alla volontà dell’associazione di creare un ambito verde protetto. Tale fascia protetta non solo circonda, ma entra e ridisegna i punti chiave interni al tessuto urbano, creando, inoltre, una vera rete di percorsi ciclo pedonali. L’obiettivo è creare una città attiva, ovvero costruire una rete di percorsi preferenziali che colleghi in modo appropriato i quartieri ai principali nodi infrastrutturali e alle principali funzioni pubbliche (stazione FS e fermate dell’autobus, comune, scuole, centro sportivo). Questo per favorire l’utilizzo da parte dei cittadini di modalità di spostamento ecologiche e dolci, quali la camminata e la bicicletta. L’obiettivo finale è fornire la possibilità di fare attività fisica all’aperto, senza il bisogno di ricorrere a strutture a pagamento. La fascia verde esterna al comune si declina in molteplici situazioni urbane, che tentano di ridisegnarne i margini, prestando particolare attenzione alle visuali e ai possibili ambiti di espansione. Sono presenti aree destinate ad orti urbani, a giardini pubblici con attrezzature sportive, alla piantumazione di alberi per scopo energetico, alla realizzazione di giardini per la fitodepurazione dell’acqua piovana (da reimpiegare all’interno delle case per usi specifici), alla realizzazione di un bosco artistico, ovvero di un bosco “delle ceneri”. Dall’ampia scala, si passa alla specificazione di un ambito particolare, posto in una posizione centrale rispetto allo sviluppo odierno del tessuto urbano: la linea ferroviaria. Storicamente la ferrovia costituiva il margine est dell’espansione edilizia, che si estendeva maggiormente a sud e a nord. La ferrovia ha sempre costituito un limite invalicabile per il settore residenziale. Al di là di essa si è costruita la zona artigianale e industriale: un quartiere produttivo, in cui non erano presenti contaminazioni con il settore residenziale. A causa del raggiungimento del limite fisico di costruzioni residenziali, a nord e a sud del centro (in particolare con il raggiungimento di due strade provinciali), si è iniziato ad espandere le abitazioni al di là del tracciato ferroviario, con i conseguenti problemi di viabilità e attraversamento dello stesso e le questioni sulla commistione fra produttivo e residenziale (tuttora non risolti e spesso taciuti). Tale situazione appare in peggioramento in quanto la zona agricola compresa tra la ferrovia e la strada statale è, a est, limitata e in gran parte già occupata. L’orizzonte che si prospetta e che, osservando la carta appare palese, è la volontà di colmare questo vuoto, con una cementificazione diffusa, a scapito del notevole paesaggio agricolo e delle preesistenze storiche e testimoniali. Per questa ragione, il progetto propone di arrestare la cementificazione e piuttosto di ridensificare un centro storico che possiede notevoli vuoti urbani, non sfruttati. Questi vuoti si posizionano in larga parte lungo la ferrovia stessa. Si tratta sia di ambiti vuoti completamente, sia di piccole industrie dismesse o in via di dismissione. Tali aree sono tutte collegate tra loro, costituendo un percorso potenzialmente privilegiato e veloce per il raggiungimento del centro storico da qualunque punto del tessuto esistente. Il progetto propone dunque un ridisegno di tali aree e un loro riutilizzo funzionale all’economia locale. Vengono identificati tre macro interventi, in tre settori diversi: il collegamento tra sede comunale, scuole e ferrovia. Questo intervento si può agevolmente attuare tramite la pedonalizzazione o la modifica di una strada carrabile oggi senza uscita. Rendere quest’area più accessibile ai cittadini permette intanto di risolvere alcuni piccoli problemi di sicurezza e di collegamento dolce tra realtà molto utilizzate dalla popolazione, dall’altro permette di allargare e trovare nuovi spazi (richiesti) per lo svolgimento del mercato settimanale e dei numerosi mercatini, qui, che vengono organizzati; la ristrutturazione e il ripensamento della ferrovia. Oggi più di metà popolazione utilizza quotidianamente la ferrovia e moltissima proviene dai comuni limitrofi. La struttura attuale non è capace di assorbire e gestire agevolmente e debitamente il flusso che si crea, soprattutto nelle ore di punta. Come in altre realtà, anche qui la stazione è simbolo di degrado e di insicurezza, nonché di difficile gestione delle sue stesse funzioni. Si ritiene assolutamente necessaria una ridefinizione degli spazi, in chiave più moderna ed ecologica, ed una redistribuzione dei parcheggi, oggi insufficiente, o meglio mal disposti. la creazione di una città artigianale all’interno di una struttura industriale in via di chiusura, che costituisce ambito degradato, ma che si colloca in una posizione strategica all’ingresso del comune. Quest’ultimo ambito viene scelto come progetto specifico, per la sua volontà di fare riferimento ad un ciclo corto di produzione, che si fondi sulle potenzialità del territorio. In questo caso San Pietro in Casale si presenta adatto alla sperimentazione per la grande presenza di artigiani sul territorio sia oggi, sia nella storia. L’idea si fonda sulla collaborazione fra competenze: un’associazione di artigiani competenti in più ambiti che collaborano per la realizzazione di prodotti di qualità, in modo da diventare competitivi sul mercato nel rapporto qualità / prezzo. L’idea principale è la seguente: ciò che un unico artigiano non può fare (un buon prezzo), può essere raggiunto all’interno di un insieme più grande di artigiani (un associazionismo che condivida locali, competenze, uffici, Romeo Farinella, Saveria Olga Murielle Boulanger, Michele Ronconi

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Il “metrobosco” per San Pietro in Casale: “un buon posto per vivere”

showroom). Il secondo punto importante è la creazione di una struttura in grado di mettere in mostra i prodotti e invogliare il compratore: sulla scia delle moderne scelte di marketing, si propone un vero e proprio showroom che contenga al suo interno dei percorsi espositivi studiati ed appropriati, per la messa in mostra non solo di prodotti singoli, ma soprattutto di situazioni (piccole strutture prefabbricate, o stanze create ad hoc) all’interno dei quali i prodotti si relazionino fra loro e con lo spazio. Il sistema si relaziona al progetto più ampio del Metrobosco, in quanto è in esso compreso e su di esso si esplica in una relazione mutua tra grande e piccola scala. Metrobosco e città artigianale sono due aspetti di uno stesso concetto, che si amplificano a vicenda, nell’ottica di migliorare la qualità di vita all’interno del comune, anche dal punto di vista lavorativo e produttivo.

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Rigenerare paesaggi comuni complessi: I waterfront delle isole

Rigenerare paesaggi comuni complessi: i waterfront delle isole Valeria Lingua Università degli Studi di Firenze Dipartimento di Architettura (DIDA), Sezione di Urbanistica e Pianificazione del Territorio Email: Valeria.lingua@unifi.it

Abstract Focus del paper è la riqualificazione dei waterfront delle città porto insulari: contesti particolari, in cui peculiarità paesaggistiche e culturali uniche si sommano a una estrema fragilità ambientale e alla debolezza del sistema socio-economico. Il tema non può dunque essere trattato alla stregua dei grandi progetti urbani che hanno interessato i waterfront delle città-porto continentali, ma occorre una attenzione specifica al contesto, in cui la produzione e il disegno di uno spazio pubblico aperto e accessibile, attrattivo e multifunzionale, porti alla costruzione di nuovi paesaggi comuni capaci di rispondere, allo stesso tempo, alle esigenze della esigua comunità insediata e agli effetti dei flussi turistici sempre più ingenti che si riversano stagionalmente in tali contesti. Nell’ottica della coesione istituzionale, il tema della valorizzazione del patrimonio culturale delle aree e delle strutture urbane storicamente legate ai porti insulari richiede dunque di affrontare il progetto con una prospezione complessa ed integrata, assumendo un approccio multiscalare e multiattoriale. Parole chiave waterfront delle isole, governance multiscalare, progetto urbano integrato

I waterfront delle isole, paesaggi comuni complessi Il tema della riqualificazione delle città-porto, generalmente declinato come rigenerazione del waterfront, negli ultimi anni è stato elevato a rappresentare uno dei campi più stimolanti per la sperimentazione di nuove politiche di sviluppo urbano, in un contesto che volge sempre più verso dinamiche competitive globali. Il conflitto città/porto è oggi acuito dall’estensione dei traffici delle merci, dalla dilatazione dei bacini di approvvigionamento, dalle nuove sfide competitive sul mercato globalizzato, che rendono pressante l’esigenza di modernizzazione tecnologica dei porti e di adeguamento della dotazione infrastrutturale, insieme alla ricerca di nuovi spazi retroportuali che spesso finisce col comprimere le esigenze urbane e turbare gli equilibri insediativi consolidati. In questo contesto, le politiche di riqualificazione del waterfront delle grandi realtà portuali rappresentano l’ultima frontiera della rigenerazione urbana, attraverso operazioni che, se da un lato vengono assurte a risolutive del rapporto città/porto, in quanto finalizzate a riscoprire identità perdute o a crearne di nuove (soprattutto se i progetti sono firmati da archistar), dall’altro lato fanno emergere la necessità di ricondurre approcci prettamente progettuali ed episodici all’interno degli scenari della pianificazione urbana e territoriale. Ovviamente, la ricetta per declinare al meglio il rapporto tra la città e il suo fronte mare non è univoca, ma la necessità impellente sembra proprio quella di rifuggire il rischio dell’omologazione, del trasferimento tout court di modelli che nulla hanno a che vedere con la situazione specifica. Si tratta, infatti, di un rischio sempre incombente in un tema come questo, sottoposto ai venti della globalizzazione non solo a livello di mercato, ma anche nelle sue declinazioni architettoniche e urbanistiche. Si tratta di temi che, fino ad oggi, sono stati ampiamente trattati nell’ambito del più ampio dibattito sulla riqualificazione dei waterfront (Gabrielli, 1992; Pavia e Di Venosa, 2006; Savino 2010), ma per i quali manca ancora una riflessione compiuta in merito alle specificità delle città-porto isolane, dovuto forse a una certa difficoltà a cimentarsi con la “specifico insulare” (Bruttomesso, 2004). Affrontare una riflessione sul secolare conflitto tra tessuto insediativo e area portuale assumendo il punto di vista delle realtà isolane impone di interrogarsi, in primo luogo, sull’essenza stessa del contesto, l’isola. Valeria Lingua

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Rigenerare paesaggi comuni complessi: I waterfront delle isole

Un contesto denso di significati fisici e metaforici, in cui un approccio evocativo (isola come categoria concettuale, paradigma di lontananza e limite, ambito analitico primario) si fonde inesorabilmente con una dimensione operativa legata ai caratteri dell’isola stessa, che determinano specifici limiti e potenzialità di sviluppo. L’isola ha infatti caratteristiche specifiche che la rendono unica e la differenziano dal resto della terra ferma, in primis proprio l’isolamento (remotness) che, se da un lato evoca il concetto di separatezza, di lontananza, di altri mondi possibili (Schalansky, 2010), dall’altro lato implica una serie di limiti allo sviluppo dovuti alla scarsa accessibilità, alla mancanza di economie di scala e alla disponibilità limitata di servizi pubblici e privati, nonché di risorse umane. L’isola, poi, rappresenta un contesto chiuso, definito, spesso di dimensioni fisiche anche limitate, in cui a caratteristiche ambientali e paesaggistiche di notevole pregio corrisponde una ristrettezza di risorse, tale da renderla vulnerabile rispetto a perturbazioni di tipo naturale e soprattutto antropico. Se, dunque, da un lato l’insularità significa necessariamente scarsa attrattività di determinati mercati e imprese per i costi aggiuntivi dovuti alle esigenze di accessibilità, dall’altro lo sviluppo insulare necessita selettività e scelte strategiche legate proprio alle specificità ambientali e culturali proprie dell’isola. Il focus sulle isole permette dunque di declinare il tema della riqualificazione del waterfront alla luce di specifiche caratterizzazioni di contesto e territoriali (De Luca e Lingua, 2012): così come risulta difficile, per i porti minori, entrare nel sistema della competitività globale, allo stesso modo il tema della riqualificazione del sistema città-porto non può essere trattato al pari delle grandi realtà portuali continentali, con le loro connessioni ai sistemi infrastrutturali, logistici, culturali e socio-economici dell’interno. Soprattutto nella realtà delle isole, dove diventa indispensabile un’attenta lettura dello spazio e del senso dei luoghi, in grado di valorizzare la funzione assunta dal waterfront nell’evoluzione dell’ambito urbano, per restituirne un ruolo specifico nell’organizzazione complessiva della città e del territorio. La progressiva tendenza a rileggere il ruolo del porto della città di accesso all’isola in chiave turistica comporta la necessità di trasformare il porto per renderlo idoneo a tale funzione e, al tempo stesso, incrementa un parallelo e complementare processo di trasformazione delle regole insediative che storicamente hanno definito il carattere delle aree retro portuali e urbane. Tali cambiamenti, se da un lato sono assurti a motore dello sviluppo locale, dall’altro rischiano di generare squilibri a livello locale e nel più ampio sistema territoriale di riferimento della città portuale, sia esso l’intera isola o una sua parte. Le politiche di intervento sono dunque chiamate a coinvolgere e svelare i loro effetti in un più ampio raggio d’azione, sia fisico che funzionale, che implichi: - l’intera area portuale e i quartieri che vi si affacciano; - il nucleo urbano nel suo complesso, soprattutto nel caso di città portuali che svolgono la funzione di porta dell’isola, generalmente utilizzate come approdo e poi bypassate per raggiungere il luogo di villeggiatura; - l’entroterra, meta di sporadiche visite turistiche.

Dilemmi del riqualificare le città-porto insulari Il passaggio dalla riqualificazione del waterfront a una considerazione delle città portuali insulari come sistemi sempre più integrati, in cui le operazioni sono improntate a perseguire uno sviluppo sostenibile non solo delle aree di waterfront ma dell’intero sistema territoriale di appartenenza (parte o l’intera isola), non è scontato né indolore. Rispetto alle questioni evidenziate da Savino per i grandi contesti urbani (2010)1, le esperienze di riqualificazione in corso in diverse città-porto insulari dell’area euro-mediterranea2 permettono di evidenziare i seguenti nodi da risolvere:

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Nel più ampio contesto della riqualificazione dei waterfront in Italia, Savino (2010) individua cinque nodi problematici ancora da sciogliere: la difficoltà di costruire forme di integrazione tra le economie portuali e il contesto socio-economico della città portuale; la mancanza di un approccio strategico e territoriale al tema, rispetto a interventi sporadici e legati per lo più a programmi e finanziamenti specifici; il ruolo del progetto, soprattutto di quello d’autore, spesso caricato di obiettivi e funzioni che vanno ben oltre le sue potenzialità; la scarsa attenzione agli spazi e alle funzioni pubbliche: la creazione di nuove centralità senza una attenta analisi delle reali esigenze della città, crea spesso ulteriori congestioni, se non vere e proprie cattedrali nel deserto; infine, la questione annosa degli strumenti: resta irrisolto il rapporto tra piano regolatore portuale e piano comunale di governo del territorio, anche gli strumenti attuativi risultano troppo settoriali e deboli, quindi scarsamente efficaci. Le considerazioni che seguono sono frutto del lavoro effettuato nell’ambito del Progetto Operativo (Med Italia –Francia) “Arcipelago Mediterraneo”, relativo a “Strategie e politiche urbane (valorizzare il patrimonio culturale delle aree e delle strutture urbane storicamente legate ai porti)”. Obiettivi della ricerca, coordinata dal Prof. G. De Luca, sono la definizione delle politiche di recupero/rivitalizzazione delle vecchie aree portuali maggiormente pertinenti per l’Arcipelago mediterraneo, attraverso l’analisi comparativa delle politiche di riqualificazione urbana di 17 realtà insulari (De Luca e Lingua, 2012).

Valeria Lingua

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una tendenza omologante nel ruolo e nell’identità della città portuale di accesso all’isola: nelle isole del Mediterraneo, le città nascono a servizio dei porti, a difesa dalle incursioni barbaresche. La riconversione che investe in modo differente le città nel XIX secolo (città degli scambi Cagliari, capoluogo imperiale Ajaccio, scalo industriale Portoferraio, “Venezia dell’Est” Creta), entra in crisi nel dopoguerra e, a partire dalla fine del Novecento, volge tendenzialmente a una specializzazione turistica, con una predilezione verso la nautica turistica e il settore crocieristico. Un atteggiamento influenzato dalla “vocazione” dell’isola nel suo complesso, legato anche alle dimensioni fisiche e al peso della stessa nell’ambito territoriale di riferimento: prevalgono le attività terziarie, legate allo status di capoluogo di regione, nelle città di Ajaccio, Cagliari, Palermo, o di capitale, come La Valletta. In realtà di piccole dimensioni come quella Elbana, Greca e delle isole Baleari, invece, la vocazione turistica risulta preminente e spesso incapace di modernizzarsi, oltre all’offerta turistica di base, e di attivare politiche di valorizzazione capaci di trattenere il traffico passeggeri, che generalmente utilizza la città-porto solo come approdo all’isola, lasciandola immediatamente per raggiungere il luogo di vacanza; la stessa tendenza omologante si evidenzia nella difficoltà di individuare nuove funzioni nell’ambito della riqualificazione di aree portuali e/o retroportuali dismesse e di fortezze e cittadelle fortificate, strutture caratterizzanti le città-porto insulari del Mediterraneo: generalmente ceduti dal Demanio al Comune, questi immobili rappresentano contenitori di enormi dimensioni, in cui la riappropriazione del sito da parte della città implica una importante riflessione sulle funzioni future, oltre a ingenti costi di riqualificazione e manutenzione che spesso le città non sono in grado di sopportare. Alla non meglio definita funzione di “contenitore culturale”, generalmente attribuita a questi spazi, si affianca la creazione di nuove centralità in aree dismesse, anche queste spesso indefinite nella loro portata e nel loro legame con la città: il museo del mare a Portoferraio, l’acquario a Funchal (ipotesi in seguito scartata e sostituita con il progetto del centro polifunzionale del Praca do Mar), il museo dell’Arte Nuragica e dell’Arte Contemporanea a Cagliari. Quest’ultimo, progettato da Zaha Hadid, solleva ancora una volta la questione della tendenza omologante dei progetti delle cosiddette archistar. Se è un problema riscontrabile in città e porti di rango regionale come Cagliari, Santa Cruz de Tenerife, Funchal e Ponta Delgada, il pericolo pare meno evidente per le città delle isole minori come Portoferraio, Rodi e Heraklion, dove le disponibilità finanziarie sono ridotte e finalizzate soprattutto agli interventi direttamente funzionali all’attività portuale (stazione marittima);

Figura 1. Individuazione di nuove funzioni nell’ambito della riqualificazione di aree portuali e/o retroportuali dismesse e di fortezze e cittadelle fortificate: musei e centri culturali a Las Palmas, Santa Cruz de Tenerife, Palma de Mallorca, Cagliari

l’ambiguità del ruolo del turismo crocieristico per lo sviluppo locale: considerato per lo più come una risorsa (Fabbro 2004, Moraitou 2012), determina spesso una fruizione superficiale della città di attracco, localizzata nel tempo e nello spazio (spiagge e centro storico/marina). Ad Ajaccio si rileva, infatti, che i flussi di turisti riversati dalle navi da crociera nella città antica alimentano dinamiche di sviluppo stagionali di tipo “mordi e fuggi”, senza indotti particolari (sviluppo della ristorazione e dei negozi di souvenir nel solo periodo estivo). Diventa quindi opportuno che le politiche di sviluppo della città tengano in dovuta considerazione l’impatto dei flussi crocieristici, come nel caso del piano di azione locale elaborato dalla città di Rodi; la necessità, per la città, di riappropriarsi dell’accesso al suo fronte mare: in un contesto come quello isolano, in cui il rapporto col mare è connaturato con l’essenza stessa della città, proprio nelle aree portuali risulta gravemente alterato l’affaccio diretto sull’acqua, che avviene solamente in parti limitate del fronte mare e con livelli di permeabilità differenti. In tutti i casi, il tema è generalmente affrontato attraverso la realizzazione di percorsi pedonali e ciclabili lungo tutto lo sviluppo dell’area portuale, che sono assurti a trait d’union tra i diversi progetti urbani; in alcuni casi (Palma de Mallorca, Portoferraio, Palermo e Alghero) tali percorsi sono affiancati da aree verdi e aperture trasversali della città verso il mare; la difficile soluzione della congestione strutturale che interessa il sistema di accesso alla città-porto dall’entroterra: congestione che deriva direttamente dalla natura stessa dell’isola e dalla conseguente configurazione delle città, compresse tra costa e altura in configurazioni orografiche che non permettono di prescindere dal confronto/conflitto col contesto urbano. Lo sviluppo longitudinale e parallelo alla costa, spesso con un unico asse di accesso dall’interno al porto e viceversa, determina notevoli disagi nelle ore di sbarco e reimbarco. Se a Cagliari il porto industriale è stato da tempo spostato all’esterno della città (come avviene in altre grandi realtà portuali continentali) e si prevede di ovviare al problema immettendo il traffico Valeria Lingua

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esterno al porto in un tunnel (come a Las Palmas e Santa Cruz o come a Ponta Delgada con il Park Avenue), la soluzione non è altrettanto ovvia in altre città, dove si prevede piuttosto lo spostamento di funzioni in altre zone. Ad Ajaccio lo spostamento di parti importanti del porto commerciale (gasometro e settore merci) a Saint Joseph interferisce con la concomitante previsione di una ingente urbanizzazione. Si tratta di questioni che richiedono necessariamente un dialogo tra i diversi portatori di progettualità e i decisori amministrativi nelle aree portuali e urbane, nonché tra diversi livelli di governo del territorio; la necessità di rapporti di collaborazione con gli enti sovraordinati, che risulta inversamente proporzionale al ruolo della città nel suo contesto decisionale: nelle realtà di medie o grandi dimensioni, come quella di Cagliari, Ajaccio, Palermo, permane un conflitto latente con l’Autorità portuale, che si esplicita in previsioni spesso configgenti o comunque inorganiche tra gli strumenti di pertinenza reciproca; al contrario, nelle realtà di piccole dimensioni, come Portoferraio, diventa fondamentale un rapporto di collaborazione con gli enti sovraordinati (Regione e Autorità Portuale), non solo per evidenti dipendenze di carattere finanziario, ma soprattutto per includere gli interventi in strategie di sviluppo di più ampio respiro3. la scarsa propensione ad aprirsi all’area vasta. Se la necessità di un più ampio confronto con politiche e progettualità espresse dai livelli sovraordinati pare evidente, ma non scontata, permangono resistenze strutturali e conflitti atavici tra autorità e strumenti di intervento dei comuni contermini. Il confronto con l’area vasta sembra auspicabile, se non indispensabile, proprio nelle realtà isolane, e in particolar modo in quelle minori, in quanto geograficamente definite. Tuttavia, proprio in questi casi sembra aumentare il campanilismo e la tenenza alla chiusura: la pianificazione strategica assume caratteri di autoreferenzialità (come nel caso del piano strategico di Cagliari), tende a rafforzare il ruolo del capoluogo (Ajaccio) e stenta a decollare (Portoferraio, Rodi, Creta). I problemi ricorrenti nelle città portuali, nel caso delle isole paiono assumere sfumature diverse: il rischio di omologazione è sempre attuale, ma permane in contesti insulari di grandi dimensioni, dove la città porto è anche capoluogo regionale o di stato, per cui assimilabile a realtà simili della terraferma, mentre le città di dimensioni minori, con disponibilità inferiori di risorse, sembrano essere meno minate dall’“effetto archistar”. Al contrario, al diminuire della superficie e del rango territoriale dell’isola e della sua città-porto aumentano le difficoltà legate all’attività portuale, nonché i conflitti territoriali che ne derivano. Pare dunque di un certo interesse tentare di comprendere come variano tali problemi e dilemmi in relazione al variare delle dimensioni e della performance socio-economica dell’isola, per individuare le modalità di intervento maggiormente pertinenti nell’ambito della ricucitura del rapporto città-porto-isola.

Verso un modello di riqualificazione e sviluppo Affrontare la riqualificazione del waterfront, dell’area portuale o dell’intera città di un’isola richiede una cassetta degli attrezzi che, se da un lato comporta la formulazione di ipotesi progettuali tipiche del tema della riqualificazione urbana e portuale, dall’altra implica una specifica attenzione alla questione dell’insularità. Atteggiamento, questo, che deve essere calibrato rispetto alle reali esigenze e aspettative della città-porto, in relazione alla sua posizione nell’isola e alle caratteristiche territoriali dell’isola stessa. A seconda del livello territoriale e della grandezza dell’isola, infatti, cambia il ruolo delle città portuali e dunque il tema della rigenerazione della città-porto e del suo rapporto col territorio: a differenti livelli di appartenenza corrisponderanno diverse letture e approcci al tema della rigenerazione della città-porto e del suo rapporto col territorio. Sulla base di diverse classificazioni delle isole formulate in sede Europea (Planistat 2002, Espon 2010) è stato possibile definire una tassonomia di città-porto in relazione alla loro posizione rispetto al sistema insulare di appartenenza e alle altre città ivi presenti (De Luca e Lingua, 2012). Le quattro categorie individuate (città-porto capoluogo di isole continentali e/o di livello sovra locale, città porto locali di isole continentali, città porto capoluogo di isole minori e città porto locali di isole minori) permettono di formulare strategie di riqualificazione e sviluppo diversificate, ritenute maggiormente pertinenti in relazione alle dimensioni della città-porto e al suo rapporto con l’isola. 1. Le isole di maggiori dimensioni (Cipro, Malta, Corsica, Sardegna, Sicilia, Rodi, Creta), definite in questo lavoro “isole continentali”, sono anche Stati e Regioni, per cui ambiscono a inserirsi nel sistema della coesione europea e della competitività tra porti, attraverso la gestione diretta di finanziamenti e operazioni di marketing urbano. A questo scopo, occorre puntare sulla accessibilità e sicurezza del sistema portuale, nonché sulla integrazione di funzioni e risorse, in un’ottica transcalare di tipo cooperativo.

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Come quella prefigurata dal Masterplan “La rete dei porti toscani” allegato al Piano di Indirizzo Territoriale 2005-10 della Regione della Toscana.

Valeria Lingua

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Inoltre, queste sono le realtà maggiormente esposte alla tendenza a riqualificare i propri waterfront attraverso la realizzazione di nuove centralità banali e a rischio di omologazione, soprattutto nei casi in cui i progetti sono affidati ad archistar per rispondere ad esigenze di marketing urbano e/o rischiano di sposare modelli ripetitivi e di creare nuove polarità che non rispondono alle esigenze dell’organismo urbano (Savino, 2010). Tali rischi derivano dalla capacità delle città in questione di attrarre grandi operazioni e investimenti, anche da parte dei privati, in quanto sedi di grandi dimensioni, poli di attrazione di aree metropolitane (è il caso, ad esempio, di Cagliari, Palermo, Ajaccio) e città capoluogo regionale o nazionale (La Valletta, Nicosia-Limassol) che rispondono in via diretta della gestione dei finanziamenti europei e nazionali. Tabella II: Tassonomia delle città-porto del Mediterraneo elaborata nell’ambito del progetto Arcipelago Mediterraneo

CITTÀ-PORTO CAPOLUOGO/ DI LIVELLO SOVRALOCALE

CITTÀ-PORTO LOCALE

ISOLA CONTINENTALE

Cagliari e Olbia (Sardegna) Ajaccio e Bastia (Corsica) La Valletta (Malta) Palermo, Catania, Messina, Siracusa, Trapani (Sicilia) Heraklion (Creta) Rodi (Dodecaneso) Palma di Maiorca (Maiorca) Limassol (Cipro) Santa Cruz de Tenerife (Tenerife, Canarie) Las Palmas de Gran Canaria (Gran Canaria, Canarie)

Alghero e Arbatax (Sardegna) Porto (Corsica) Cefalù, Augusta, Gela, Pozzallo e Porto Empedocle (Sicilia) Chania (Creta) Alcuadia (Maiorca) Los Cristianos (Canarie, Tenerife) ...

ISOLA MINORE

Portoferraio (Elba) Ponta Delgada (Azzorre, Sao Miguel) Funchal e Canical (Madeira) Mahon (Baleari, Minorca) Ibizza (Baleari, Eivissa) Horta (Azzorre, Faial) Puerto del Rosario (Fuerteventura, Canarie) Rab (Rab, Croazia) Mali Losinj (Lussino, Croazia) Cres (Creso, Croazia) Arrecife (Lanzarote, Canarie) Lipari, Favignana, Ponza, Ventotene (Italia) Gozo (Malta)

Cavo e Riomarina (Elba) LefKada (isole Ioniche, Grecia) Samos (isole del Dodecaneso, Grecia) Lopar (Rab, Croazia) Punat (Veglia, Croazia) … Porti turistici

Tabella II: Opportunità (+) e limiti (-) per le città-porto del Mediterraneo in relazione alla tassonomia individuata

CITTÀ PORTO CAPOLUOGO/ DI LIVELLO SOVRALOCALE

ISOLA CONTINENTALE

- Conflittualità legate alla presenza di un sistema complesso di attori, strumenti, fondi - Tendenza a realizzare nuove centralità banali e a rischio di omologazione - Sovrapposizione e incoerenza tra le diverse progettualità + Potenzialità di attrarre grandi operazioni/investimenti/finanziamenti + Diversificazione delle attività (non solo turismo ma attività terziarie e direzionali)

CITTÀ PORTO LOCALE - Minori potenzialità di attrazione di progettualità e finanziamenti - Opportunità di sviluppo tendenzialmente legate al turismo - Mancanza di coerenza territoriale + Esprimono progettualità di livello locale + Se sede di porti passeggeri o se raggiunte da linee low cost diventano nuove porte dell’isola

ISOLA MINORE

Valeria Lingua

Propensione a sposare modelli di sviluppo - Monofunzionalità dello sviluppo, basato unificanti esclusivamente sulla nautica da diporto - Sono generalmente bypassate dai flussi (porti a approdi turistici) turistici - Mancanza di connessione via terra tra i porti + Attenzione al riutilizzo del patrimonio edilizio e approdi turistici esistente + La presenza dei porti e approdi turistici è + Tendenza a fare sinergia con altri porti uno stimolo alla realizzazionedi servizi di 5


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dell’arcipelago o della terraferma (cfr. APPE o APSM)

base a terra

2. Le città presenti in contesti insulari continentali, ma in posizioni defilate rispetto a questi nodi e reti, presentano invece maggiori problemi di sopravvivenza e sviluppo, ma in alcuni casi riescono ad emergere per la loro capacità progettuale di fare rete o di attrarre determinate infrastrutture (dall’aeroporto all’università, come nel caso di Alghero). Da un lato, infatti, queste realtà rischiano di essere maggiormente soggette alla dipendenza da risorse pubbliche (Carta, 2012), per cui i fondi pubblici rappresentano l’unica risorsa per operazioni di rigenerazione dei waterfront senza coerenza e senza sostenibilità, frutto di un’interazione città-porto più propagandistica e mirata al marketing urbano che realmente propulsiva ed efficace in termini di innovazione urbana. Dall’altro lato non mancano casi di gestioni oculate e di politiche di riqualificazione pertinenti, in cui la limitatezza delle risorse finanziare genera un minore pericolo di ricorrere a soluzioni di tendenza (archistar) e una maggiore propensione a partecipare a programmi e reti europee e a mettersi in rete per entrare a far parte dell’armatura territoriale di riferimento (Barbarossa, 2009), compensando un ruolo defilato del porto nel sistema della portualità isolana. 3. Le piccole isole presentano fattori di competitività differenti, legati alle dimensioni ridotte, all’isolamento e alla remoteness, che danno un senso di sicurezza sia agli abitanti che ai turisti. Un patrimonio ambientale e culturale di pregio, con habitat spesso unici rispetto alla terraferma, e tradizioni e culture immateriali specifiche che spesso sopravvivono alla modernità, rappresentano i principali elementi su cui puntare per il rilancio dell’isola. In questi contesti, l’intervento di rigenerazione del waterfront della città porto non può prescindere da un confronto con l’identità dell’isola, per evitare gli effetti degenerativi del turismo di massa 4. Le città porto capoluogo di isole minori, infatti, sono realtà in cui porto, città e isola spesso coincidono (nel nome e nei fatti): il porto non si appoggia a un sistema urbano forte e autonomo ma le due realtà sono strettamente integrate, per cui necessitano di narrazioni progettuali integrate. Inoltre, più che di waterfront, è forse necessario parlare di water’s edge in virtù dell’esiguità degli spazi, per cui le implicazioni progettuali assumono implicazioni specificatamente rivolte alle comunità locali (Savino, 2012). Gli interventi devono quindi puntare, in primo luogo, sull’identità del sistema urbano-portuale e sulla sua permeabilità, coinvolgendo e responsabilizzando la popolazione residente e cercando di contrastare gli impatti degli ingenti flussi turistici di carattere spesso stagionale. 4. Effetti che colpiscono, a maggior ragione, le altre città dell’isola minore, interessate da porticcioli e approdi turistici: qui le parole chiave sono sicuramente quelle della permeabilità delle infrastrutture e del loro corretto inserimento paesaggistico, insieme alla definizione di interventi normativi e operativi tesi alla salvaguardia del paesaggio e dell’ambiente e alla sperimentazione di forme di gestione ambientale innovative. Una corretta azione ambientale, capace di attivare una gestione integrata dei servizi a rete (acquedotti, fognature, smaltimento rifiuti), e di perseguire l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili, può permettere all’isola di ottenere l’autosufficienza energetica e configurarsi come Zero Impact Island. Individuare strategie di riqualificazione e sviluppo nelle città-porto delle isole significa, quindi, avere la capacità di considerare le caratteristiche dell’insularità come vantaggi e opportunità piuttosto che come svantaggi strutturali e vulnerabilità: «The challenge is to maintain viable islandness without succumbing to vulnerability, but using islandness to reduce vulnerability» (Kelman, 2010). L’intervento di riqualificazione e sviluppo delle città porto situate in contesti insulari, determina oggi una necessità impellente: individuare strategie e interventi capaci di trasformare le caratteristiche geografiche (specificità ambientali e culturali dell’isola) e gli handicap permanenti (scarsa attrattività di determinati mercati e imprese per i costi aggiuntivi dovuti alle esigenze di accessibilità) in potenzialità di sviluppo. In particolare, proprio le isole di minori dimensioni sono quelle in cui il passaggio da un punto di vista centrato sulla terraferma a una strategia site and context specific deve avvenire attraverso la valorizzazione di quelli che sono considerati i principali limiti dell’insularità: scarsità di risorse naturali e di suolo, fragilità ecologica, dimensioni ridotte e svantaggi posizionali, che espongono le isole agli effetti del cambiamento climatico, all’aumento del costo dell’energia, alla scarsità dell’acqua, alla necessità di smaltire adeguatamente i rifiuti che derivano dai flussi turistici. 4

I flussi stagionali generano infatti due effetti negativi: da un lato, tendono spesso a bypassare la porta dell’isola, per volgere verso località turistiche interne o sulle coste, portando dunque altrove i benefici e caricando la città-gate dell’isola dei soli impatti dovuti al traffico passeggeri e alla congestione del sistema urbano in determinate ore della giornata. Dall’altro lato, proprio le potenzialità di sviluppo turistiche sono quelle maggiormente soggette ai venti della globalizzazione, che tendono a plasmare le coste secondo evidenti tendenze omologanti: «i luoghi del turismo, infatti, tendono a essere simili, visto che devono corrispondere allo stesso standard di bellezza, piacevolezza, accoglienza e offerta di servizi. Questa tendenza all’omologazione è molto evidente nelle piccole isole: qui infatti l’estesa adozione del turismo di massa spesso si traduce in una trasformazione delle caratteristiche peculiari delle isole verso una standardizzazione dell’immagine turistica – da treasure islands a pleasure islands» (Staniscia, 2011, p. 130).

Valeria Lingua

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In termini generali, le realtà insulari richiedono un indispensabile cambiamento culturale nell’approccio al tema della riqualificazione dei waterfront e della ricucitura del rapporto città-porto: occorre infatti abbandonare una lettura ancora vincolata alle categorie interpretative della terraferma, a favore di un vero e proprio approccio integrato, capace di considerare la realtà urbano-portuale insulare nel suo complesso e nei suoi rapporti non solo con il mare, ma con il territorio inteso in senso lato. In quest’ottica, l’analisi finalizzata alla definizione di politiche di intervento è dunque chiamata a porsi in un’ottica multiattoriale, tesa a considerare tutti gli interessi implicati nella gestione della città-porto e nella sua fruizione (dalle comunità locali ai turisti stagionali), affinché le strategie di intervento possano svelare i loro effetti a tutte le scale, dal water’s edge all’isola, dall’arcipelago al contesto regionale di riferimento.

Bibliografia

Bruttomesso R. (a cura di, 2004), I waterfront delle isole, Città d’Acqua, Venezia. De Luca G., Lingua V. (a cura di, 2012), Arcipelago mediterraneo. Politiche di riqualificazione e sviluppo per le città porto delle isole, Alinea, Firenze. ESPON (2010), The Development of the Islands –European Islands and Cohesion Policy (EUROISLANDS), ESPON 2013 Program. Staniscia, S. (2011), Islands, Barcellona, LISt Lab Gabrielli B. (1992), (a cura di), La città nel porto, Nuova ERI, Roma. Savino M. (a cura di, 2010), Waterfront d’Italia. Piani, politiche, progetti, FrancoAngeli, Milano. Fabbro G. (2004), “Turismo delle crociere: un’opportunità da sviluppare per le isole”, in Bruttomesso R., I waterfront.., cit., pp. 154-157. Pavia R., Di Venosa M. (a cura di, 2006), “I porti delle città: piani e progetti”, in Urbanistica n. 131. Schalansky J. (2010), Atlas of remote islands - Fifty Islands I have not visited and never will, Penguin Group, London. Moraitou P. (2012), “City of Rhodes: urban renewal while exploring the city-port heritage”, in De Luca G., Lingua V. (a cura di), Arcipelago mediterraneo. Politiche di riqualificazione e sviluppo per le città porto delle isole, Alinea, Firenze, pp. 133-146

Valeria Lingua

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Le nuove forme del territorio en débat. Il paesaggio come strumento analitico e progettuale della post-metropoli Cristina Mattiucci*1 Università degli Studi di Trento - DICAM Laboratorie Architecture Milieu Paysage – Paris - LAVUE (UMR CNRS 7218) Email: cristina.mattiucci@gmail.com Rosa De Marco* Ecole Nationale Supérieure d'Architecture de Paris-la Villette Laboratorie Architecture Milieu Paysage – Paris - LAVUE (UMR CNRS 7218) Email: rdemarco@paris-lavillette.archi.fr

Abstract La condizione contemporanea delle relazioni sociali ed economiche, mediate da flussi e infrastrutture materiali e immateriali, genera e rigenera le forme del territorio e fa emergere la centralità del rapporto inter-scalare tra le diverse realtà spaziali della postmetropoli, che informano) di conseguenza gli li approcci epistemologici, analitici ed operativi. Presentando alcuni materiali tratti da una ricerca in corso,selezionati del caso dell’Agglomération Grenobloise e del PNR du Vercors, si intende discutere le potenzialità degli strumenti integrati di progetto del territorio, che muovono dalla dilatazione della dimensione metropolitana e degli interessi delle diverse istituzioni che vi operano. In particolare, a partire dalla 'Charte paysagère de la communauté des Communes du Vercors', si propone il paesaggio come approccio alla comprensione ed alla trasformazione del territorio, da (ri)discutere come riferimento/oggetto/disciplina che interseca le differenti scale delle trasformazioni e dello sguardo, in una prospettiva interdisciplinare, ove i temi della governance e delle emergenze ambientali incontrano le sue peculiarità, legate al progetto spaziale ed alla dimensione sociale e culturale dei territori. Parole chiave Paesaggio, inter-scalarità, post-metropoli.

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*La redazione dei paragrafi 1.2 e 2.1 è di Cristina Mattiucci & Rosa De Marco; la redazione dei paragrafi 1.1, 2.2 e 3 è di

Cristina Mattiucci. Il paper è stato concepito ed elaborato nell’ambito della ricerca 'La montagna come giardino urbano. Letture e proposte operative per la traformazione delle metropoli alpine', alla quale si farà riferimento nel testo come ‘ricerca in corso’. La ricerca è finanziata dal FP7 - European Framework Program 2007-2013 - specific program “People” - Actions Marie Curie – COFUND (progetto: "Trentino - The Trentino programme of research, training and mobility of post-doctoral researchers" of the Autonomous Province of Trento). Ricercatrice: Cristina Mattiucci. Supervisors: Corrado Diamantini (IT) e Rosa De Marco (FR).


1 | Le nuove forme del territorio en débat 1.1 | La dimensione post-metropolitana delle città dell'arco alpino La condizione contemporanea delle relazioni sociali ed economiche, mediate da flussi e infrastrutture materiali e immateriali genera e rigenera le forme del territorio. In particolare, in molti contesti, le condizioni di prossimità e di distanza si caratterizzano per nuovi attributi ed emerge la centralità del rapporto inter-scalare tra le diverse realtà spaziali della post-metropoli, che ha orientato ed orienta – di conseguenza – gli approcci epistemologici, analitici ed operativi. E' possibile riconoscere già all'inizio del ventunesimo secolo, rispetto a questi temi, una rinnovata consapevolezza della simultaneità, della interconnessione e della spesso problematica interdipendenza delle differenti dimensioni sociali, storiche, culturali e spaziali, che ha informato il dibattito interdisciplinare sulla comprensione e quindi sulla governance degli spazi, secondo quando stava emergendo dalla rilettura dell'opera di Lefebvre (1974), quale fondamento teorico per la concettualizzazione contemporanea delle interrelazioni tra spazialità e società. Partendo dunque dal dibattito che da dieci anni si muove intorno alla nota riflessione sulla postmetropoli, ad opera di E. Soja e dalla sua stessa revisione/aggiornamento (Soja, 2000, 2011), questo paper intende presentare una riflessione sulla post-metropoli applicata al complesso dei territori alpini. E’ possibile infatti rilevare come in tali territorii centri abitati si costituiscano ed interagiscano mediante pratiche e politiche - localizzate su un territorio orograficamente peculiare - che fanno emergere un nuovo modo di intendere non solo la forma urbana, ma la stessa istituzione metropolitana, secondo modalità insediative che assumono le forme di quella che è stata definita regional urbanization (Soja, 2011: 455). In particolare, con riferimento alla dimensione regionale del cityspace che connota la postmetropoli (ib), è evidente come questo sottenda una configurazione larga e complessa, che di per se' tende ad essere dinamica ed espansiva nel suo territorio. La scala stessa delle relazioni viene dunque allargata 2 oltre lo spazio di una singola città, che invece è concepita come parte di un più largo policentric regional system of interacting nodal settlments (city-region). Come rilevato da alcune letture specifiche (Dematteis 2009, Perlik Messerli 2004), tali termini interpretativi possono essere applicati alla Regione Alpina, dove la storia e la posizione centrale di questi territori rispetto all'Europa hanno favorito la formazione di una struttura urbana policentrica, che punta a partecipare tanto alle dinamiche globali (economiche e più in generale di sviluppo), con la peculiarità dei contesti e delle risorse naturali, storico-culturali, cognitive ed istituzionali, specifiche del territorio alpino. In particolare, M. Perlik, P. Messerli e W. Bätzing, nel 2001, notavano come – come già in altre zone d’Europa – il passaggio a sistemi di produzione postfordista stava determinando una maggiore internazionalizzazione delle piccole e medie città, così come delle conurbazioni, determinando dei complessi urbani interdipendenti ove il paesaggio di quello che era il bordo alpino, a partire dagli anni Ottanta, si andava caratterizzando per una multifunzionalità prevalentemente residenziale e ricreativa, non più occasionale, che ora ne mutava lo statuto. Come M. Perlik (2011) sottolineerà poi più recentemente, infatti, la trasformazione delle aree montane europee come luoghi di residenza è legata alla sostituzione delle attività economiche più tradizionali (agricoltura, manifattura, turismo) che vi avevano sede, su scala regionale. Questa tendenza, ancora oggi in atto, partecipa alla formazione delle regioni metropolitane (metro-regioni), ove nuclei metropolitani e paesaggi di loisir sono parte dello stesso sistema. Qui i residenti originari ed i cosiddetti nuovi abitanti dal profilo 'multilocale' scelgono di abitare, proprio per questa commistione delle attrattive dei centri metropolitani e delle amenità del paesaggio, che in questo processo assume un ruolo centrale. Infatti, non è la sola dimensione estetica ed amena del paesaggio a dare luogo a queste dinamiche, ma piuttosto quei processi spazio-economici, in cui il paesaggio è al centro delle scelte abitative quale 'capitale territoriale', ovvero quello determinato dal patrimonio locale, che i processi in corso stanno facendo emergere, stimolando una riflessione critica sui suoi usi e la sua mercificazione. Assumendo dunque una riflessione sulle potenzialità (e criticità) di questi processi e riconoscendo la centralità del paesaggio nelle sue dimensioni complesse in questi contesti, è possibile proporre il paesaggio quale strumento conoscitivo e operativo di queste realtà montane.

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Tale allargamento è funzione del synekism (Soja, 2003), ovvero: the stimulus of urban agglomeration, che sintetizza la concettualizzazione della formazione dinamica di una regione urbana intorno a più centri.


1.2 | Il paesaggio come strumento analitico e progettuale della post-metropoli Infatti, quando la montagna e più in generale il territorio periferico di quota diventa parte integrante di una residenzialità stabile per le conurbazioni perialpine e quindi poi di diverse altre attività, essa pone nuove questioni al governo del territorio. Tra queste, in una prospettiva progettuale, emerge come attuale quella che riguarda la possibilità di dare luogo alle relazioni inter-territoriali, puntando sulla complementarietà degli spazi, piuttosto che su una continua espansione, secondo gli assunti dell'ecologia contemporanea e facendo del paesaggio il presidio di un vuoto che diventa occasione per il progetto integrato del territorio. Il cosiddetto cityspace postmetropolitano sottende infatti una configurazione larga e complessa, che di per se' tende ad essere dinamica ed espansiva nel suo territorio. Contiene tanto aree abitate che inabitate, wild nell'aspirazione e nell'ispirazione, che non sono urbane in senso convenzionale, ma sono profondamente urbanizzate negli usi e nelle percezioni. Le categorie tradizionali dell’urbano, del rurale, del centro, della periferia, necessitano di una continua riformulazione e reclamano la revisione degli strumenti per comprendere e per operare, con la conoscenza complessa di tutti quei fattori materiali ed immateriali che producono il territorio. In questo contesto, è possibile proporre il paesaggio quale approccio alla comprensione ed alla trasformazione del territorio, da (ri)discutere come riferimento/oggetto/disciplina che interseca le differenti scale delle trasformazioni e dello sguardo in una prospettiva interdisciplinare, ove i temi della governance e delle emergenze ambientali incontrano le sue peculiarità, legate al progetto spaziale ed alla dimensione sociale e culturale dei territori. Tale operazione è possibile assumendo il paesaggio come oggetto transdisciplinare e complesso, in cui riconoscere il valore dell'ordinario e del quotidiano, che non è semplicemente conseguenza del riferimento ad alcuni approcci interpretativi, ma è legata alle peculiarità di questi contesti, di cui esso possa diventare effettivamente – proprio per la dimensione ontologica assunta – potenzialmente strumento analitico e progettuale. Assumendo la rilettura critica che M. Domosh (2011) fa della post-metropoli, ed estendendone, aldilà della diversità dei contesti, il focus dalla città ai paesaggi postmetropolitani, in conseguenza delle crisi e delle instabilità degli anni 2000 sono effettivamente cambiati i modi di pensare, analizzare e progettare i territori e lo spazio ordinario, le diverse scale di analisi, la dimensione temporanea, la commistione urbana nella natura. I tratti del paesaggio contemporaneo, dunque, potrebbero rivelarsi un approccio efficace per ripensare i territori, tanto più che a queste scale il paesaggio stesso è una forma emergente di spazio pubblico (Delbaere, 2010) il cui progetto a dimensione multiscalare, dalle politiche alle configurazioni più specifiche, ha le potenzialità per ricostruire – per un tempo e per un luogo – un nesso tra le società e i territori3.

2 | Un caso di studio francese 2.1 | l'Agglomération grenobloise ed il Parco Nazionale Regionale del Vercors Questi temi trovano una loro specificazione nei casi di studio di una ricerca in corso, che si occupa dell'uso e delle possibili trasformazioni degli spazi aperti nelle città di montagna, di cui intendiamo presentare una interpretazione, nella prospettiva dell'esplorazione e della proposizione delle potenzialità strumentali del paesaggio per il progetto del territorio postmetropolitano, proponendo uno sguardo analitico e potenzialmente comparativo su un contesto dell'arco alpino francese, che fa riferimento all'Agglomération grenobloise. Questa costituisce una complessa realtà metropolitana, fondata nel 1999 come Communauté d'agglomération Grenoble Alpes Métropole (la Métro) dall'aggregazione volontaria di 28 comuni. Sviluppata su una superficie di più di 30.700 ettari la Métro mette insieme le energie dei suoi Comuni per sviluppare progetti comuni e organizzare l'azione politica, per lo sviluppo del territorio e per la realizzazione di attrezzature e servizi. Di fatto, si sperimenta una cooperazione interistituzionale su diversi settori, che contemplano – tra gli altri - la rete di trasporti pubblici, la tutela dell'ambiente, la promozione della cultura del paesaggio, le politiche di housing e dei servizi urbani, rivolta ad un nuovo tipo di cittadinanza, costituita da oltre mezzo milione di abitanti sparsi in un territorio vasto, esteso dal centro di Grenoble ai rilievi. 3

Come già emerso da una ricerca sperimentale precedente sulla percezione dei paesaggi ordinari (Mattiucci, 2012) uno dei tratti della contemporaneità è la rottura di un nesso organico e di prossimità fisica e continua tra società e territori. Di conseguenza, tale ricostruzione può essere possibile, consapevolmente, nella sua dimensione temporanea.


Rileggere la storia di Grenoble e della sua Agglomération permette innanzitutto di comprendere come essa si costituisca sin dalla sua genesi in costante relazione con il territorio montano e vallivo ed in una dimensione che potremmo considerare post-metropolitana in nuce, sia rileggendone la crescita, che riconoscendo quella prospettiva inter-territoriale – ergo cooperazione città montagna - che molti autori hanno rilevato (Vanier, 2008) come una delle possibilità ove sperimentare una relazione dialogica tra società e territori attraverso le politiche: «le défi politique contemporain de l'interterritorialité est d'apporter une solution alternative entre gouvernements des territoires et gouvernements des usages...entre cloisonnements et circulations» (ib: 160). Questa relazione è profondamente connessa alle mutazioni economiche e sociali che hanno mutato i modelli di sviluppo del territorio e quindi le sue forme. Per una storia dettagliata de la Métro, si rimanda ai vari testi che sono stati prodotti per raccontarne la genesi e definirne l'identità (Joly e Parent, 1989; Parent 2002; Parent and Dulac, 2006) e ai vari reports che danno la dimensione delle diverse politiche in corso4 . Quello che è rilevante sottolineare in questa sede sono le ragioni per cui la città di Grenoble ha sempre misurato la propria crescita con il territorio al di là dei suoi confini amministrativi (come peraltro adesso sta facendo l'Agglomération grenobloise, spostando il confine del proprio interesse più direttamente verso i rilievi a quota via via più elevata) e le modalità con cui, nel corso degli ultimi 40 anni, questo complesso ha costruito la propria realtà territoriale insieme con le montagne intorno, costituendo un insediamento che si protrae dalla piana, alla confluenza dei fiumi Drac e Isere, fino ai tre massivi del Vercors, della Chartreuse e del Belledonne. Come Parent ricorda (2002), le radici e le ragioni di questa gestione dello spazio caratterizzata da una visone allargata oltre la municipalità di Grenoble, congiuntamente con i vari Sindacati e le Associazioni Intercomunali, si possono riconoscere sin da fine Ottocento, quando le questioni infrastrutturali e quelle che legavano la pianificazione con la nascita delle industrie locali erano già una questione comune, mentre si andava registrando una crescita demografica che - nei primi nei primi decenni del Novecento – contava una popolazione di 100000 abitanti a Grenoble e 40000 nei comuni intorno. Durante tutto il secolo scorso la creazione di diversi Sindacati Intercomunali e varie forme di agglomerazione si sono succedute, a seconda delle singole questioni collettive da gestire, dall'industria, alle risorse idriche, al grande evento dei giochi olimpici invernali del 1968 e così via, fino alla più recente formalizzazione de la Métro che si propone di affrontare tutte queste questioni in rete ed in modo complesso. Come emerge dalle letture di Blanchard (1937) - che fa appunto dello studio di Grenoble un caso pioniero di geografia urbana – la città manifesta già nella crescita rapida di fine Ottocento dimensioni e problematiche tipicamente urbane che connettono la piana e i rilievi, essendo la montagna il contesto caratteristico e fondamentale dell'immagine e dell'economia grenobloise, costituitasi su due assi prevalenti di sviluppo, da un lato come centro di ricerca d'eccellenza e dall'altro come stazione internazionale di sport invernali. Facendo riferimento alla recente storia economica, sociale e territoriale, nella definizione dei tratti per una narrativa della configurazione contemporanea di questa realtà, si possono indagare i processi indotti dalla mutazione dei suoi motori di sviluppo, tentando una esercizio di attualizzazione della concettualizzazione lefebvriana del cityspace, nella combinazione della prospettiva macro e micro delle trasformazioni, che lega i cambiamenti globali con le pratiche spaziali e la vita quotidiana.

Figura 1. L' Agglomération grenobloise. In primo piano la 'Presqu'île (fonte web: www.lametro.fr).

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Molti sono consultabili sul sito de la Mètro: www.lametro.fr


In particolare, è proprio nei due settori caratteristici dell'industria e degli sport invernali che stavano andando in crisi, che l' Agglomération ha trovato la base per costruire la propria dimensione postmetropolitana. Le sfide di un'economia decisamente post-fordista sono state affrontate in modo strutturale “al plurale” 5, mediante l'affermazione progressiva – sia con politiche economiche che con progetti urbani di rilevanza funzionale e simbolica6 - dei caratteri di centro di eccellenza nel campo della formazione e della ricerca applicata, soprattutto nel settore delle nanotecnologie, delle tecnologie per la produzione energetica, della microelettronica e dell'informatica. Programmaticamente collocato in modo competitivo nella rete delle città globali (Farinelli, 2003), esso è un polo di attrazione per lavoratori e lavoratrici che, giunti da varie parti del mondo, si insediano, in modo temporaneo o permanente, o temporaneamente permanente, con le proprie istanze. Qui, la progressiva perdita del valore di risorsa economica della neve, legata sia alla mutazione delle mete di loisir, che ai cambiamenti climatici, ha determinato non solo un ripensamento dei rapporti di dipendenza e d'uso tra gli spazi in valle e in quota, o delle strutture e degli edifici dell'infrastruttura ricettiva stagionale invernale, ma una trasformazione ed una rinnovata centralità del paesaggio della montagna. Quando infatti negli anni Novanta del Novecento è calata la consistenza dell'indotto proveniente dall’esclusivo uso turistico-sciistico della montagna, l'agglomération grenobloise ha rivalorizzato e rilanciato l’aspetto paesaggistico dei suoi territori, invitando/incoraggiando ad un uso quotidiano di tali paesaggi, mediante la strutturazione di infrastrutture capillari ed ordinarie, collocando servizi e facilities, facendone propri gli spazi aperti, includendola più o meno direttamente nelle proprie politiche, non solo come destinazione di frequentazioni turistiche ed episodiche, o presidio di comunità locali, ma come luogo di residenza sempre più stabile (Martin, Bourdeau, Daller, 2013) di quei pendolari che si muovono tra la quota e la valle o di chi ha scelto di sperimentare nuovi modelli abitativi e nuove professioni in quota (i cosiddetti neorouraux) e, di converso, come luogo che appartiene, quale destinazione ordinaria, anche ai residenti di piano. Di conseguenza, essa sta attivando numerose politiche che sostengono questa interrelazione e che permettono di rileggere il territorio meno densamente insediato della montagna come appartenente allo stesso sistema, come fosse il proprio “giardino urbano” 7.

2.2 | Il progetto del paesaggio nelle dinamiche inter-territoriali Questi processi influenzano dunque le forme del territorio e fanno emergere, insieme con le dinamiche che essi hanno generato, nuove questioni che esortano a rinnovare letture e approcci. Tali dinamiche riguardano da un lato la connotazione del paesaggio, ibrido negli attributi urbano/rurali e nelle pratiche quotidiane d'uso (De Marco & Mattiucci, 2012). Dall’altro, esse interessano la governance di questa nuova dimensione inter-territoriale, che impone 'un nuovo sguardo' ed una nuova prospettiva operativa: la dilatazione della dimensione metropolitana e gli interessi e le reciproche interdipendenze tra le diverse istituzioni che vi operano hanno prodotto diversi strumenti integrati di progetto (sociale e fisico) del territorio. Mentre dunque la metropolizzazione della montagna si realizza in conseguenza di queste condizioni, l' Agglomération grenobloise ne reinterpreta il paesaggio quale centro delle proprie politiche e dei propri progetti. In questa prospettiva, il sistema territoriale e inter-istituzionale del Parco Nazionale Regionale (PNR) del Vercors è paradigmatico per comprenderne la dimensione complessa, nella prospettiva inter-territoriale che caratterizza la dimensione post-metropolitana del territorio ove insiste. Uno dei tratti rilevanti di questa condizione paradigmatica è connessa al suo essere al centro di diverse azioni di 'territories et cooperations ville-montagne', come quelle sintetizzate nel rapporto elaborato dalla CIPRA nel 2007. In questo documento si motiva, per esempio, in modo eloquente la centralità del Vercors nel progetto integrato del proprio territorio con quello di Grenoble: «Le caractère rural montagnard du Vercors est toujours présent ; bien présent même et c’est là sans doute sa première source d’attractivité pour des urbains de plus en plus nombreux, en visite comme en résidence temporaire ou permanente. Le Vercors, à l’instar de nombreux massifs alpins périurbains est alors devenu une banlieue de Grenoble avec un nombre croissant de pendulaires : 40 % des actifs de Villard de Lans travaillent "en bas"» (CIPRA, 2007: 9). 5

Come si legge per esempio sul sito http://www.lametro.fr/549-grenoble-territoires.htm, «Grenoble Territoires c'est le nom que s'est donné la grande région grenobloise, au cœur des Alpes, pour promouvoir ses atouts économiques», e tale nome riunisce tre territori confinanti: la communauté d'agglomération Grenoble-Alpes Métropole, la communauté d'agglomération du Pays Voironnais et la communauté de communes du Pays du Grésivaudan. 6 Come la 'Presqu'île' http://www.grenoblepresquile.fr/369-decouvrir-la-presqu-ile.htm (campus d'innovazione ed ecocittà sperimentale). 7 ‘La montagna come giardino urbano’ è l’ipotesi interpretativa della ricerca in corso, cfr. nota 1.


Figura 2. Il PNR del Vercors. La mappa è inserita seppur nella difficoltà della lettura dei simboli a questa scala, per poter comprendere la dimensione tra il PNR e l'Agglomération grenobloise. (fonte web: Plan du Parc - Charte 2008 ).

L'istituzione stessa dei PNR, che all'origine, nel 1966, identificava solo un presidio di cintura verde tra le agglomerazioni, fa oggi riferimento, piuttosto che ad una riserva naturale, ad un territorio spesso molto abitato, il cui progetto deve intersecare la dimensione sociale ed urbana, con le istanze ambientali proprie del parco. La Charte paysagère de la communauté des Communes du Vercors si pone come un vero e proprio strumento che 'formalizza il progetto condiviso del territorio'8 (a carattere non solo normativo vincolistico9), che sperimenta un indirizzo sostenibile delle interazioni tra economia, spazio e società. Alla sua redazione concorrono soggetti istituzionali plurali (vi insistono 95 Comuni) e la Mètro include quelle del PNR nelle sue politiche di connessione spaziale, considerando il Parc parte integrante dei cosiddetti propri 'spazi naturali'. A differenza del Plan du Parc, che è un documento strategico di azioni, quello della Charte è di fatto un indirizzo per il progetto di un paesaggio più complesso, mediante la definizione di contenuti e di intenzioni intersettoriali ed

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Si veda: http://parc-du-vercors.fr/fr_FR/agir-et-innover-1109/le-parc-mode-d-emploi-1580/sa-charte-1730.html Nel contesto della pianificazione paesaggistica francese l'istituzione delle Chartes, come strumenti di gestione dei parchi naturali regionali, risale alla legge dell'8/1/93. La Charte ha gli stessi effetti giuridici di uno SCOT (schema di coerenza territoriale, a contenuto prevalentemente urbanistico) o di una direttiva di protezione o messa in valore del paesaggio e le decisioni prese in materia di pianificazione territoriale dovranno essere compatibili con gli orientamenti in essa fissati.


interistituzionali per una gestione coerente e concertata del territorio, secondo 8 assi10, che determinano gli orientamenti e le azioni per la tutela, la valorizzazione e lo sviluppo del territorio, la cui temporalità (vale 12 anni) è coerente con la dimensione en mouvence (Berque et al., 1998) del materiale di cui tratta. I riferimenti in base ai quali la Charte determina gli orientamenti di protezione, sviluppo e valorizzazione non sono solo connessi alle “strutture paesaggistiche” da salvaguardare, ma si basano sulla costruzione di un inventario di un patrimonio e della situazione storica, culturale, sociale ed economica, che tende a capitalizzare in modo integrato diversi studi interdisciplinari. Aldilà della forma del documento 11, le potenzialità progettuali implicite sono molto evidenti e non è un caso che la gestione del PNR preveda dipartimenti che disciplinano paysage&urbanisme, facendo emergere questa commistione – ove il paesaggio è considerato non solo per le sue componenti di risorsa naturale, ma anche per le attività umane e gli insediamenti - come strutturale.

Figura 3. Il PNR del Vercors come territorio abitato. La maggior parte della popolazione è concentrata verso Grenoble (fonte web: documento 'Diagnostico' PNRV 2008).

3 | Prospettive Il caso francese sembra configurare un territorio ove i rapporti socio-spaziali sono continuamente rinegoziati, nella prospettiva dell'interterritorialità, ed invita a riformulare, con il ripensamento degli strumenti di governo di territorio, le nozioni di territorio e paesaggio che essi implicano, secondo un approccio che si nutre dell'incontro delle scienze ambientali e con gli studi sul paesaggio, che, con la loro tradizione storicamente legata al progetto spaziale ed alla dimensione sociale e culturale dei territori, arricchiscono l’osservazione dalle dinamiche in corso. Analizzando il ruolo della Charte ed il suo rapporto con altri strumenti più specificatamente urbanistici è rilevante notare come tra di essi non ci sia una relazione gerarchica vincolistica, ma piuttosto di coerenza, che, sebbene resti nelle sue effettive possibilità operative una questione attuale ed aperta12, fa della Charte la cornice entro la quale

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AXE 1. Préserver, restaurer et mettre en valeur les patrimoines et les ressources du Vercors; AXE 2. S’impliquer pour un développement économique durable fondé sur la valorisation des ressources spécifiques du Vercors; AXE 3. Inventer et préparer les territoires de demain; AXE 4. Anticiper et accompagner les mutations économiques et les changements sociaux; AXE 5. Mettre la connaissance et la recherche au service de la dynamique du territoire; AXE 6. Impulser les démarches participatives et renforcer l’implication des territoires et collectivités du Vercors; AXE 7. Consolider les partenariats, l’ouverture et les coopérations; AXE 8. Suivre et évaluer la chart. 11 Tutto il materiale è disponibile online (http://parc-du-vercors.fr/fr_FR/agir-et-innover-1109/le-parc-mode-d-emploi-1580/sacharte-1730.html). La Charte è un documento composto da testi e cartografie, ma come sottolineato nella sua presentazione essa contiene una dimensione progettuale che aspira ad essere effettiva, ovvero: le projet de protection et de développement de ce territoire pour les douze ans à venir et les règles du jeu que se donnent les partenaires pour la mise en oeuvre de ce projet. 12 Essa è stata al centro del recente seminario/dibattito 'Mais où est l’avant-garde de l’urbanisme dans les territoires ruraux et comment la rendre plus opérationnelle?' ed in particolare della giornata tematica 'SCoT et Parc naturel régional: vers une meilleure articulation', di portata nazionale, organizzato dalla Fédération des Parcs naturels régionaux l'11 e il 12 aprile 2013


concepire gli altri interventi sul territorio e fa quindi del paesaggio come materiale complesso non un semplice sottotema settoriale. In queste modalità, nel linguaggio e negli strumenti adottati, è possibile cogliere dunque come intorno al progetto di questo paesaggio si giochi l'effettiva possibilità di progettare il territorio secondo i paradigmi di sostenibilità e sviluppo, senza cristallizzare il patrimonio di un Parco Regionale entro un sistema di vincoli e divieti. Anzi, molte politiche, come per esempio quelle legate alle infrastrutture digitali, o all'insediamento di imprese di “qualità territoriale e ambientale”, nella prospettiva del rispettare gli standard internazionali (démarche HQE, bâtiment écologique, e così via) tendono a fare del Parco una destinazione per (nuovi) abitanti che possano effettivamente interpretare una cittadinanza posmetropolitana, per la quale quel paesaggio, individuato come deterrente e attrattore, si afferma come elemento di costruzione del territorio.

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Gli spazi del welfare come “semi di urbanità”. Verso nuovi cicli di vita per il territorio veneto?

Gli spazi del welfare come “semi di urbanità”. Verso nuovi cicli di vita per il territorio veneto? Stefano Munarin Università IUAV di Venezia dCP - dipartimento Culture del Progetto Email: munarin@iuav.it Maria Chiara Tosi Università IUAV di Venezia dCP - dipartimento Culture del Progetto Email: mariachiara.tosi@iuav.it

Abstract Ancora oggi, dopo decenni di ricerche, nelle descrizioni dei territori caratterizzati da dispersione insediativa viene spesso messo in evidenza il ruolo preminente, se non esclusivo, della casa su lotto e del capannone, vengono descritti come un susseguirsi disarticolato di case e capannoni. Come territori assai poco articolati, privi di centralità urbane e attrezzature, “disorganici”, banali, e quindi riconducibili alla formula della “villettopoli”. In questo testo proveremo a sostenere invece che proprio il riconoscimento della ricca articolazione interna di vaste parti della cosiddetta città diffusa, il riconoscimento della presenza al suo interno di numerosi ed articolati “spazi del welfare” può essere un punto di partenza importante (anche se non l’unico) per ripensare questi territori, per immaginarne una “evoluzione sostenibili”. Proprio qui ed ora, a partire dalla crisi (finanziaria, economica, sociale, ambientale) che li sta attraversando. Parole chiave Dispersione, welfare, progetto.

Introduzione La costruzione di spazi e attrezzature collettive nella città e nel territorio contemporanei, in particolare laddove i fenomeni di dispersione insediativa risultano più evidenti, ha seguito negli ultimi decenni una pluralità di sentieri: da quelli più tradizionali di “semplice” messa in forma degli standard urbanistici fino a quelli più recenti e in parte innovativi attraverso i quali, a partire da pratiche dal basso di sensibilizzazione della società rispetto ad istanze ambientali, porzioni significative di territorio sono state trasformate in sistemi articolati di spazi collettivi assumendo il ruolo di nuove attrezzature ambientali che si estendo anche a scala territoriale. Nel loro insieme questi spazi, che si configurano come un considerevole patrimonio di suoli pubblici nel mezzo di una distesa di aree privatizzate, possono essere considerati embrioni non solo di una diversa urbanità, ma anche punti di partenza per immaginare un nuovo ciclo di vita (Viganò 2011) per i territori caratterizzati da dispersione insediativa. Alcune porzioni del territorio italiano, e il Veneto in particolare, costituiscono il campo di sperimentazione entro cui stiamo cercando di affrontare questo tema, lavorando su una pluralità di casi ed esempi. Le attrezzature parrocchiali localizzate pressoché in ogni piccolo e medio paese, i distretti scolastici, sportivi e ospedalieri, le rive dei fiumi usate come ampie palestre all’aperto, oppure le molte ex cave di argilla o ghiaia trasformate in oasi faunistiche e aree per il tempo libero, costituiscono le sequenze e le trame diffuse la cui descrizione contribuisce a far emergere l’articolazione di attori, strumenti e pratiche coinvolti nel processo di infrastrutturazione del territorio. Quali scenari si aprono oggi per questi sistemi di spazi e per il territorio entro cui si collocano? E’ possibile immaginare che proprio a partire da questi spazi, talvolta considerati come banali risposte burocratiche ad Stefano Munarin, Maria Chiara Tosi

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Gli spazi del welfare come “semi di urbanità”. Verso nuovi cicli di vita per il territorio veneto?

esigenze di legge (gli standard), altre come riconquista sociale del paesaggio e dell’ambiente si definiscano le condizioni di un nuovo ciclo di vita per il territorio contemporaneo? E’ possibile pensare che proprio da questa articolata rete di spazi pubblici e collettivi, oggi spesso considerati anche come spesa insostenibile e peso difficile da sopportare per le casse degli enti locali, si possa ripartire, immaginandoli come “semi” di una nuova forma di città? Ripensare e riconcettualizzare questo esteso patrimonio di spazi pubblici, attraverso l’elaborazione di progetti esplorativi e di scenari apre alla possibilità di sondare il loro possibile ruolo attivo nella ridefinizione della forma e delle modalità di funzionamento complessivi di questi territori, l’opportunità di considerarli “semi” dai quali possano prendere avvio nuovi (e diversi) processi evolutivi per i territori della dispersione (e del territorio veneto in particolare).

Attrezzare il territorio: una scuola, un asilo, un campo sportivo per ogni campanile Il sistema insediativo veneto è quindi qui indagato a partire dall’ipotesi che i fenomeni di dispersione insediativa hanno interessato non solo i processi e le forme di costruzione del tessuto residenziale e industriale, ma anche la produzione dei servizi e delle attrezzature collettive, degli spazi del welfare. “Una ciminiera per ogni campanile” è stato l’obiettivo e la missione più o meno esplicita delle principali politiche sociali, economiche e territoriali che a partire dalla seconda metà del Novecento, in modo diffuso e continuo hanno distribuito una o più aree industriali piccole, medie e grandi in ciascun territorio comunale, contribuendo in questo modo a far uscire il Veneto dalla miseria e trasformandolo nel Nord-est dello sviluppo economico (Bagnasco Trigilia 1984). Nondimeno, accanto a questo processo di industrializzazione diffusa si collocano progetti e politiche interessate ad attrezzare in maniera pervasiva centri, nuclei e case sparse: una dispersione di servizi ed attrezzature che è andata di pari passo con l’emersione economica e sociale di questo territorio e ha portato a configurare pur piccoli insiemi di spazi collettivi. Nel corso del tempo queste politiche di infrastrutturazione sociale, di investimento in capitale fisso sociale, sono mutate (Indovina 1999), dando luogo a diverse organizzazioni spaziali, perseguendo diversi “disegni”, diferenti relazioni tra le attrezzature collettive e gli altri materiali costitutivi della città diffusa: in alcuni periodi si sono realizzate singole attrezzature sparse (una piccola scuola per ogni frazione) in altri si è sperimentata la loro aggregazione (la stagione dei distretti scolastici o sportivi appartiene a questa seconda modalità). Cionondimeno, ci sembra sia possibile affermare che nel suo insieme la distribuzione di questi servizi e manufatti, pur nelle sue diverse declinazioni, sia stata mossa da un obiettivo analogo a quello che ha spinto le politiche economiche, e riassumibile nello slogan: “una scuola, un asilo e un campo sportivo per ogni campanile”. Ovviamente non intendiamo negare che la costruzione della città diffusa sia legata anche alla continua ricerca individuale di un maggiore benessere dell’individuo e della famiglia: stare bene in uno spazio privato, goderne con piacere è sicuramente uno degli obiettivi che ha contribuito a spostare quote considerevoli di popolazione. La difficoltà di abitare in città in alcuni periodi ha spinto parti importanti della popolazione a trovare soluzioni individuali al problema, a ricercare il comfort all'interno della propria abitazione. Tuttavia ci sembra oggi possibile e utile osservare i territori della dispersione (ed il Veneto come caso studio) mettendo in evidenza la considerevole quantitativo di attrezzature che vi si sono depositate: territori tanto diffusi quanto attrezzati, che oggi spesso faticano a gestire e valorizzare questo ingente patrimonio di spazi collettivi, ma che proprio da qui possono ripartire.

Stagioni, attori e forme degli spazi del welfare A partire da ricerche già svolte (Munarin e Tosi 2001, 2012) e nuove indagini, prima di tutto ci sembra utile riconoscere come il processo di dotazione di spazi e attrezzature collettive nel Veneto si sia articolato attraverso diverse stagioni, legate ai più generali mutamenti culturali e politici, all’evolversi della cultura urbana, dei modi di pensare la città e il ruolo affidato alle attrezzature e alla conseguente evoluzione degli strumenti urbanistici. Alla stratificazione storica di alcuni servizi e attrezzature come la sede municipale e le scuole elementari, solitamente posizionate nel centro urbano, assai visibili e rese accessibili da un discreto tessuto pedonale, dal secondo dopoguerra si assistite al rafforzamento dell’ente ecclesiastico nel suo ruolo di fornitore di servizi e attrezzature: l’oratorio assieme alle scuole materne, gli asili nido e le scuole primarie, il campo sportivo costituiscono un importante insieme di spazi attraverso cui la chiesa è riuscita a dare risposta ai bisogni sociali di una parte considerevole della popolazione, acquisendo visibilità e importanza. Un processo di costruzione degli spazi del welfare che potremmo definire “parrocchiale”, sullo sfondo del quale si collocano amministrazioni comunali governate da partiti filo cattolici fortemente orientati a fare spazio all’intervento della chiesa, redigendo e approvando i primi piani regolatori che “accompagnano” questo processo di infrastrutturazione.

Stefano Munarin, Maria Chiara Tosi

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Gli spazi del welfare come “semi di urbanità”. Verso nuovi cicli di vita per il territorio veneto?

In quegli anni lo stretto legame locale tra chiesa e politica segue precisi indirizzi, puntando a diffondere capillarmente sull’intero territorio regionale l’insieme dei servizi e delle attrezzature collettive, innervando anche i più piccoli centri e nuclei urbani. La pervasività dei servizi parrocchiali è funzionale al capillare controllo culturale. Storie analoghe, anche se di segno diverso, si possono ovviamente riconoscere in altre regioni italiane. (Munarin e Martelliano 2012) (Magagnoli, 2012) A partire dagli anni Settanta prende avvio una stagione diversa, legata a nuove ipotesi progettuali e riferimenti legislativi (dal recepimento del decreto legge sugli standard al passaggio di competenze urbanistiche alle regioni) che porta in modo molto preciso alla realizzazione di nuovi servizi e attrezzature: i distretti scolastici e quelli sanitari sono forse i due elementi più significativi. Queste nuove attrezzature introducono spesso un rilevante cambiamento di scala, si presentano come elementi “altri” rispetto all’intorno. A volte diventano giocoforza occasione di sperimentazione, momenti attraverso i quali la cultura del progetto urbano cerca di confrontarsi con i caratteri della dispersione insediativa. A questo proposito pensiamo all’ospedale realizzato da Giancarlo De Carlo a Mirano, alle numerose attrezzature realizzate da Igino Cappai e Pietro Mainardis a Campolongo, Mira, Feltre ed in altri piccoli centri del Veneto, ai distretti scolastici di Valeriano Pastor a Dolo e Romano Chirivi a Mirano, ecc. Altre volte la nuova dotazione di servizi “superiori” si traduce nella introduzione di frammenti monofunzionali, recinti chiusi contenenti edifici scolastici, sanitari o sportivi, scarsamente relazionati all’intorno e incapaci di costruire nuove centralità, nuovi spazi per la socialità. E’ in questi casi che spesso, la dimensione quantitativa del provvedimento sugli standard prevale, spingendo le amministrazioni locali ad aggiungere spazi e attrezzature collettive ponendo scarsa attenzione ai sistemi di accessibilità pedonale e ciclabile, facendo emergere lo spazio dell’automobile (strada, parcheggio, spazio di manovra) quale esclusivo dispositivo di mediazione verso gli altri spazi urbani. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, periodo nel quale molti comuni si dotano di un nuovo Piano Regolatore, prosegue la realizzazione di edifici per attrezzature collettive, utilizzate a volte anche per dare forma a nuove centralità urbane, spostando il centro del paese dall’asse stradale principale (congestionato, pericoloso e inquinato), ricostruendo altrove un nuovo insieme di attività urbane: una “piastra” commerciale con una piccola galleria ma anche nuove scuole, biblioteche, ludoteche, playground e talora sedi comunali o di altri enti pubblici (Asl, poste, ecc.). Questi interventi non sempre giungono a completa realizzazione ma a volte riarticolano e modificano profondamente la struttura dei paesi, moltiplicandone le centralità e garantendo nuova accessibilità e visibilità agli spazi del welfare. Entro questa stagione possiamo collocare i progetti di Giuseppe e Alberto Samonà per il ridisegno del sistema degli spazi pubblici e collettivi di Cadoneghe, anche se appare evidente la loro relazione anche con la precedente fase di sperimentazione.

Fenomeni emergenti L’affermarsi di pratiche spontanee di uso collettivo entro vasti ambiti territoriali come cave dismesse, argini di fiumi, strade agricole, fontanili, boschi, ex forti militari e molti altri spazi naturali, ha spinto più di recente amministrazioni locali e sovra locali a promuovere una nuova stagione di progetti e politiche per i servizi e le attrezzature collettive che introducono uno scarto radicale rispetto al passato nelle procedure tanto quanto nelle strutture territoriali coinvolte. Si tratta, infatti, sovente di interventi su spazi che interessano il territorio agricolo e comunque esterno ai centri urbani, che coinvolgono più enti locali (comuni, province, consorzi di bonifica, ministero della difesa, ecc.) e che di fatto “approfittano” di spazi già esistenti rendendoli accessibili attraverso percorsi ciclo-pedonali (non sempre continui) e altre piccole opere che cercano di reinventare tali luoghi con poche trasformazioni e utilizzando risorse relativamente contenute. Nel loro insieme questi nuovi spazi del welfare rivendicano il territorio come bene comune, come spazio esterno ma non più estraneo alle dinamiche sociali dei centri abitati. Il territorio come “bene collettivo ecologico”, luogo dove la bassa soglia d’accesso consente l’esercizio e la formazione di diritti di cittadinanza. Per queste ragioni possiamo dire che questi interventi si presentano come investimenti pubblici che cercano di ricapitalizzare un patrimonio territoriale già esistente: si tratta della costruzione di reti di piste ciclabili che mettono in valore numerosi e importanti elementi del paesaggio, il recupero e riconversione di molte cave come aree per la natura e il tempo libero, il recupero e la risignificazione di molti centri antichi che così diventano i nuovi salotti e luoghi di urbanità, ecc. Un processo sufficientemente esteso da renderlo fenomeno rilevante ed emergente. Allo stesso tempo, osservando questi spazi possiamo dire di trovarci di fronte a nuove popolazioni che abitano il territorio veneto attraverso pratiche collettive e stili di vita diversi da quelli del passato, attribuendo nuovo senso collettivo agli spazi urbani e al paesaggio, eleggendo a centri della vita collettiva nuovi spazi o riattribuendo alle vecchie centralità un rinnovato senso civico. Un’ulteriore riflessione può essere fatta osservando gli spazi del lavoro, dove è possibile rintracciare pratiche virtuose e innovative. Dopo una fase di intensa espansione, gli spazi dedicati al lavoro che hanno ritagliato sul territorio numerose enclaves monofunzionali, anche grazie alla loro buona accessibilità interna ed esterna e Stefano Munarin, Maria Chiara Tosi

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Gli spazi del welfare come “semi di urbanità”. Verso nuovi cicli di vita per il territorio veneto?

l’ampia dotazione di parcheggi, si stanno rivelando negli anni recenti tessuti flessibili in cui si insinuano sempre più spesso servizi ed attrezzature per il tempo libero (palestre, piscine, campi per il gioco, piste ciclabili, mense aziendali, asili nido e scuole dell’infanzia, ecc.). Queste dinamiche tendono a configurare i luoghi del lavoro, le aree industriali, come spazi della compresenza se non addirittura dell’inclusione tra popolazioni diverse per censo, nazionalità, religione, ecc., differenziandosi dai molti settori residenziali e commerciali costruiti invece spesso sulla base di un’esplicita caratterizzazione sociale. Detto in maniera diversa, popolazioni che risiedono in quartieri socialmente (ed a volte etnicamente) diversi, nelle zone industriali trovano a condividere non solo il luogo di lavoro ma anche la mensa e numerose altre attrezzature.

Scenari Muovendo dal presupposto che la città e il territorio contemporanei, anche nelle forme disperse e frammentate che caratterizzano il Veneto non rappresentano lo stato conclusivo di un lungo processo di modificazione e stratificazione, ma solamente una sua fase, risulta evidente come proprio la “crisi” che stiamo attraversando richieda un nuovo sforzo di immaginazione volto a definire futuri assetti territoriali. Nuovi assetti che, per quanto concerne lo specifico ambito degli spazi del welfare, devono certamente rispondere a criteri di sostenibilità (anche economica), ma soprattutto dimostrarsi maggiormente inclusivi, capaci di rispondere alle domande espresse da nuove popolazioni (immigrate e non) diventando al contempo sempre più elementi portanti dell’assetto territoriale complessivo: vere e proprie architetture e paesaggi del welfare, che aspirano non solo a essere contenitori/erogatori di un servizio ma anche più complessi fatti urbani. In che modo quindi quest’articolato sistema di spazi del welfare, l’insieme di manufatti e aree collettive costruite nel corso di più di mezzo secolo può costituire il punto di partenza per una grande trasformazione del territorio veneto, per l’immissione di alcune sue parti e materiali entro nuovi cicli di vita? Quale ruolo possono svolgere nei contesti di dispersione insediativa (e nel Veneto in particolare) gli spazi del welfare? Possiamo immaginarli (nuovamente) come “semi” (Pavan 2004) di una diversa urbanità in cui l’accessibilità (Rifkin, 2000) rappresenti uno tra gli obiettivi imprescindibili, una proprietà degli insediamenti capace di qualificare la società locale nel suo complesso, definirne il grado di equità sociale e la relativa qualità della vita? (Borlini, Memo 2011) Poter utilizzare gli spazi del welfare senza percepire limitazioni al proprio “diritto allo spazio”, non accontentandosi della loro presenza anche considerevole, lavorando per abbassare e ridurre le soglie di ingresso affinché essi siano visibili ed estesamente accessibili alle diverse popolazioni che vivono questo territorio, questo può essere un primo obiettivo. La grande trasformazione proposta attraverso lo scenario “Veneto Welfare Space 2030: attrezzato e accessibile”, sta in un’idea semplice e apparentemente banale: che ogni abitante possa raggiungere a piedi, in bicicletta o con i mezzi pubblici, in un tempo ragionevole (15/20 minuti) scuole elementari e medie, parchi giochi, spazi naturali, presidi sanitari, spazi sportivi, centri anziani, biblioteche e ludoteche, municipi e che ciò possa avvenire in tutta sicurezza e in condizioni confortevoli. Risulta del tutto evidente che la questione da prendere in considerazione non riguarda l’aumento delle dotazioni (anche se talvolta ciò risulta ancora necessario), quanto la loro “accessibilità” intesa qui come strumento attraverso cui garantire “il diritto ad avere diritti” all’istruzione, alla salute al tempo libero, ecc. (Rodotà 2013). Nonostante la garanzia di un’equa presenza di servizi e attrezzature collettive dove poter istruirsi, svolgere pratiche sportive, essere curati, trascorre il proprio tempo libero in spazi adeguati, ecc. sia stato uno dei vessilli (standard) da difendere e supportare attraverso le politiche sociali ed urbane lungo tutto il Novecento, oggi è la loro accessibilità a dover essere garantita: lo spazio fisico, sociale, economico, finanche simbolico che circonda e rende accessibili gli spazi del welfare deve essere confortevole, sano e sicuro così che chiunque possa accedere ai servizi e alle attrezzature collettive senza alcun impedimento o imbarazzo perché chi sperimenta un accesso limitato a queste attività si trova in una condizione di svantaggio ed esclusione: di ingiustizia. (Feinstein 2010, Nussbaum 2011, Sen 2009, Soja 2010). La cosa che ci sembra rilevante e fa assumere a queste ipotesi un carattere assi più generale di quanto non sembri a prima vista, è che immaginare come far aderire il territorio veneto a questa idea semplice ed elementare, facendo leva sulla importante struttura di spazi e attrezzature collettive esistenti, chiede di rimettere al centro l’ovvietà delle pratiche quotidiane, modificando radicalmente l’idea di accessibilità coltivata nei decenni recenti che si è sviluppata attraverso politiche infrastrutturali assai selettive, tese a privilegiare la mobilità carrabile e individuale a scapito di quella pedonale-ciclabile e collettiva, discriminando e sovente emarginando il vasto ed articolato insieme delle popolazioni più deboli e in difficoltà. Politiche che quindi di fatto hanno rifiutato di confrontarsi con le prestazioni richieste in tutte le “fasi della vita” (Mumford 1949) Per fare ciò l’ipotesi di fondo è che la fitta trama di percorsi urbani e agricoli minori, gli argini dei canali e dei fiumi e tutto quell’insieme di percorsi che per lungo tempo ha costituito il supporto essenziale per il funzionamento di questo territorio e che durante gli importanti decenni dell’industrializzazione diffusa è diventato marginale, finanche rimosso dalle pratiche e dall’immaginario degli abitanti, ritorni a diventare il supporto essenziale per consentire l’abitabilità allargata di un “Terzo” Veneto attrezzato e accessibile. Un Stefano Munarin, Maria Chiara Tosi

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Gli spazi del welfare come “semi di urbanità”. Verso nuovi cicli di vita per il territorio veneto?

territorio in cui, non escludendo dall’accesso a beni importanti anche chi ha difficoltà di utilizzo della mobilità privata, si favoriscono le occasioni di sociabilità (Southworth 2005): dove le scuole, le biblioteche e i parchi possono essere raggiunti a piedi o in bicicletta anche dai bambini senza dover essere accompagnati, dove i ragazzi e le ragazze possono tornare a casa dalla palestra o dal campo sportivo, dal cinema o dall’auditorium la sera tardi da soli e gli anziani possono raggiungere spazi collettivi in autonomia. (www.walkscore.com) A ben guardare quindi, si tratta di interventi essenziali e indirettamente funzionali ad un ampio ventaglio di obiettivi. - Assumere il criterio delle “3R” puntando sul riuso/riciclo degli spazi esistenti anche attraverso un loro utilizzo più articolato (Boeri 2013) - Ridurre gli incidenti stradali con il loro peso sulla spesa sanitaria e migliorare la salute delle persone aumentando le distanze percorse a piedi e in bicicletta (Barp 2012) - Contenere le spese per acquisto e manutenzioni di automobili a carico delle famiglie e la riduzione della congestione e delle emissioni di Co2. Se ricordiamo che, da dati recenti, ogni famiglia italiana in media spende ogni anno 7/8 mila Euro per mantenere i propri mezzi di trasporto privato (stima su dati Codacons che parla di 4.000 euro per ogni auto), possiamo dire che renderla “non necessaria” può non solo (e non tanto) ridurre le uscite delle famiglie, ma soprattutto indirizzarle verso attività diverse. Ad esempio: investire sull’istruzione dei figli o aiutarli ad avviare un’attività economica. Si tratta quindi di partire dagli spazi del welfare avendo però uno sguardo e un obiettivo più ampio: l’avvio di una vasta e articolata modificazione, una trasformazione radicale del territorio che di fatto porta a verificarne e “misurare” la capacità di “resilienza”, a sondare la loro capacità di avviare nuovi processi evolutivi. (Newman 2009).

Bibliografia

Bagnasco, A., Trigilia, C. (1984), Società e politica nelle aree di piccola impresa. Il caso di Bassano, Arsenale, Venezia Barp A. (2012), Camminare fa bene alla salute, il Poligrafo, Padova Boeri S. (2012), Di più con meno, il Saggiatore, Milano Borlini B. , Memo F. (2011), “Mobilità, accessibilità ed equità sociale”, Conferenza Espanet: Innovare il welfare, Milano Indovina F. (1990), (a cura di), La città diffusa, Daest, Venezia Magagnoli S. (2012), “La forma dell’acqua. Il welfare state italiano tra sostegno all’impresa e politiche abitative”, in Munarin, Martelliano 2012 op. cit. Munford L. (1949), “Planning for the Phases of Life”, in The Town Planning Review, vol XX, 1 april pag. 5-16 Munarin S. , Tosi M.C., (2001), Tracce di città, F. Angeli Milano Munarin S. , Tosi M.C. (2012), Gli spazi del welfare. Esperienze, luoghi e pratiche, Quodlibet, Macerata Munarin S. , Martelliano V. (2012), Spazi, storie e soggetti del welfare, Gangemi, Roma Pavan L. (2004), Cappai e Mainardis. Laboratorio veneziano, Testo&imagine, Torino Rifkin J. (2000), The Age of Acess: How the Shift from Ownership to Access is Transforming Modern Life Penguin Books, London Rodotà S. (2013), Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari Feinstein S. (2010), The Just City, Cornell University Press, N. Y. Newman P. et al (2009), Resilient Cities, Island Press, London Nussbaum M. (2011), Creating Capabilities. The Human Development Approach, The Belknap press, Cambridge Sen A. (2009), The Idea of Justice, Harvard University Press, Cambridge Mass. Soja E. (2010), Seeking Spatial Justice, University of Minnesota Press, Minneapolis Southwort M. (2005), “Designing the Walkable City”, Journal of Urban Planning and Development 131, 246 Tosi M.C. (2009), “La fatica di abitare”, Urbanistica n. 139 Viganò P. (2011), “Riciclare città”, in Marini S. Ciorra, P. (2011), Re-cycle, Electa, Milano

Stefano Munarin, Maria Chiara Tosi

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by Planum. The Journal of Urbanism ISSN 1723 - 0993 | no. 27, vol. II [2013] www.planum.net Proceedings published in October 2013


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