Atelier
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Per un diverso ruolo di urbaniste e urbanisti: l’innovazione delle pratiche tra nuove domande sociali ed esperienze internazionali Coordinatore Daniela De Leo con Maria Chiara Tosi e Silvia Macchi
Introduzione All’interno del tema generale proposto dalla Conferenza SIU 2013, questo Atelier ha invitato a discutere i modi e le strategie attraverso le quali l’urbanistica italiana possa tornare a essere “centrale e autorevole”, facendo i conti con il ridefinirsi delle molte possibilità e maniere di “fare urbanistica” [nella ricerca e nella professione] dei principali soggetti della pianificazione. In un certo senso potremmo dire che le condizioni stanno nuovamente cambiando, ma, senz’altro, attraverso pratiche convenzionali, informali e percorsi di innovazione, gli urbanisti e, forse, ancor di più “le urbaniste”, stanno elaborando i propri spazi di ricerca e di innovazione nella oramai acclarata incertezza dei paradigmi e negli interstizi delle “alternative di sviluppo” ancora disponibili. Con questo orientamento, l’Atelier ha raccolto riflessioni teoriche e studi di caso che mettessero al centro e problematizzassero il ruolo e il contributo dei planner nella riconquista di un diverso ruolo, sociale e pubblico, della propria azione. Infatti, il focus dell’atelier è stato individuato sui soggetti e sulle loro pratiche peculiari, nell’ipotesi complessiva che, entro una più ampia consapevolezza e condivisione delle esperienze condotte, si possa provare a riconquistare maggiore peso e rilevanza nell’arena pubblica, definendo traiettorie di lavoro condiviso per “tornare a contare”. In particolare, l’Atelier si è configurato come un utile spazio per presentare e discutere ricerche, studi e riflessioni sulle pratiche in grado di valorizzare e raccordare progetti e teorie, troppo spesso disperse che non riescono a fare sufficiente massa critica con specifico riferimento al ruolo di urbaniste e urbanisti. Entro questo ambito sono state segnalate alcune piste di lavoro che sono sembrate di particolare interesse tra le quali: - la sempre più diffusa attenzione ai temi della convivenza, della qualità dello spazio abitabile, del welfare, dell’esclusione, dell’integrazione multiculturale e multietnica, nell’ambito di nuovi ruoli e paradigmi disciplinari; - il definirsi di un campo di azione e intervento sempre più affollato di urbaniste, più che di urbanisti, che aiutano a riconsiderare pratiche e saperi esperti necessari per attraversare ‘positivamente’ e con rinnovate risorse cognitive la fase attuale; - gli interventi, in ambito nazionale e internazionale, nei quali specifiche abilità e competenze esperte, hanno saputo riconquistare un più adeguato ruolo sociale e nel dibattito pubblico; - il rafforzamento del quadro dei saperi e delle competenze delle scuole italiane di pianificazione derivante dal confronto e/o dalla contaminazione con le sempre più numerose esperienze internazionali. I diversi contributi hanno consentito di ricostruire uno spaccato articolato e vario di posizioni e contesti di azione all’interno di un confronto interessante e stimolante di cui resta traccia nei full paper che seguono e, ancora di più, auspicabilmente, nelle nostre pratiche e riflessioni a venire. Daniela De Leo
Per un diverso ruolo di urbaniste e urbanisti: l’innovazione delle pratiche tra nuove domande sociali ed esperienze internazionali Coordinatore Daniela De Leo con Maria Chiara Tosi e Silvia Macchi
05 Innovazioni nelle pratiche e negli strumenti Stefano Aragona Dopo le scelte del Governo dei “ tecnici” quale città si può pianificare, progettare, realizzare? Sara Bindo Il tema rimosso del fabbisogno abitativo e del dimensionamento, tra invenduto e nuova domanda abitativa Rm/Bol Rose Marie Callà, Alessandro Franceschini Un ritaglio della città di Trento tra trasformazioni dello spazio abitabile ed evoluzioni e involuzioni della convivenza multietnica Sonia Pintus, Pasquale Mistretta Urbanistica conflittuale tra città e slum. Criticità di governance Confrontarsi con l’Africa Sub-sahariana Giuseppe Caldarola, Roberta Bartolone Nuovi paesaggi urbani per la qualità dell’abitare. Infrastrutturare l’informale, pianificare lo sviluppo: il caso di Dar es Salaam Eleonora Cuscinà Condividere. Archicamp Lomé 2012: come le N.T.I.C. modificano le pratiche Romeo Farinella, Alice Clementi, Elena Dorato, Marco Marcelletti, Riccardo Torresi, Clelia Zappalà Saint Louis du Sénégal. Strategie urbane e progetti per la costruzione di una metropoli regionale africana Roberta Nicchia, Corrado Diamantini La pianificazione in un contesto urbano emergente in Africa a Sud del Sahara: la rural town. Riflessioni sui piani di Caia e Sena, Mozambico Confrontarsi con altri modi di pianificare Paola Briata Narrazioni e politiche nei contesti multietnici: il caso di Dalston (East London) Elena Giannola Partecipazione digitale: strumenti, scenari, potenzialità Miriam Mastinu Il capitale sociale come elemento di sviluppo locale
Laura Saija La ricerca azione partecipata in urbanistica. Uno studio comparativo e una riflessione critica Innovazioni e nuove domande Chiara Belingardi Comunanze urbane, autorganizzazione e urbanistica Emma Puerari Quale innovazione per i servizi urbani? Fabrizio Pusceddu Lo spazio di invito all’azione Maddalena Rossi Fessure. Saggio sulla fine di una civiltà Un diverso ruolo di urbaniste e urbanisti? Francesca Arras, Elisa Ghisu, Paola Idini, Valentina Talu TaMaLaCà-Tutta Mia La Città. Suffragette dei diritti urbani negati Ilaria Delponte Come cambia il planning. Come cambia il planner Elena Donaggio Vita attiva, relazione fra sport e città Lorenza Perini Costruire/decostruire città. Dalle esperienze delle architette del socialismo utopico ai social settlement delle sociologhe del riformismo filantropico di fine ottocento fino alla prospettiva di genere degli anni duemila: appunti sull’abitare collaborativo Michele Sbrissa, Anna Agostini Being agents as a way of life. Learning from the Universität der Nachbarschaften project within IBA-Hamburg 2013
Dopo le scelte del Governo dei “tecnici” quale città si può pianificare, progettare, realizzare?
Dopo le scelte del Governo dei “tecnici” quale città si può pianificare, progettare, realizzare? Stefano Aragona Università Mediterranea di Reggio Calabria Dipartimento Patrimonio Architettonico ed Urbanistico Email: saragona@unirc.it stefano.aragona@gmail.com Tel: 0965.809521
Abstract After 25 years of choices driven by the market it is time that politics - that is the art of managing the polis resumes the command because the "social experimentation" that occurred for so long period showed the total ineffectiveness and inefficiency both in terms of social and natural resources. Aragona for years (2009) is conducting about the outcome of the relationship between space, city and territory policies, practices, planning the thesis, or rather, the question is whether the welfare conditions of the inhabitants have improved or less. Is there a more equitable distribution of space? Recent national policy and/or decisions of local authorities in Italy have improved the city? Is it strengthened the sense of being citizens (i.e. cum-cives, Cacciari, 1990)? As it was said (Aragona, 2012a) in the XVI Annual Conference of the Italian Society of Town Planners "The technicians are unleashing an avalanche social". Now unfortunately the social avalanche is happening and threatens to overwhelm many, although the "technicians" have not gone away, how to assess these social harm? To do this you first need to reactivate a truly transdisciplinary dialogue that allows such a reading because what "you do not see does not exist" according to a phenomenological approach. Then it needs set new national and local strategies to remedy this and propose a more equitable space model: "Sustainable, cohesive and inclusive community" is the main objective of Smart Cities (EU, 2011). Planners should ask themselves this purpose because it is the very reason for their existence as the Charter of Athens said and look for a new language for new contests, i.e. the new emerged great far Countries. Parole chiave Equità spaziale; Sostenibilità fisica e sociale; Rendita urbana
Urbanisti che abbiano nuovamente un ruolo E‘ necessario ri-pensare la città affinché vi sia l’integrazione tra aspetti fisici e gestionali, - emblematicamente deve divenire vivibile per gli anziani, quindi per tutti - cioè ecologica ambientalmente e socialmente (Aragona, 2012b) superando la città moderna nata con l’industria (Tafuri, 1972) e quindi formatasi secondo la visione delle economie di scala, stravolta dalla finanziarizzazione dello spazio (Tocci, 2009) in atto da qualche anno. Questo significa che la politica urbana, integrata (Position Paper INU, 2013, p.8) - ovvero composta di scelte riguardanti il sociale (abitazione, servizi, etc.), l’accessibilità (quindi mobilità di vario genere), la sostenibilità ambientale torni ad essere effettivamente e non solo sulla carta (quando ciò è presente…) il riferimento essenziale della città. Mirando al consumo zero di suolo quindi riqualificando la filiera della produzione edilizia, così creare nuove professionalità per tutti gli attori del settore, cooperative, imprese, professionisti, artigiani, etc., con una visione multicriteria che coniughi politiche economiche con quelle sociali e culturali: l’approccio integrato suggerito da Appold e Kasarda dal 1990 che intende combinare la massimizzazione del ritorno di capitale con l’ecologia umana. Mentre si disegna lo scenario occorrono buone pratiche che siano esempi e pratiche di apprendimento e conoscenza. Le due cose sono come due rette parallele il cui punto d’incontro all’infinito si deve/può “avvicinare” grazie al lavoro di chi si occupa di territorio che altrimenti rischia di essere inutile. Fondamentale è la continua partecipazione dei cittadini, cioè dei cum-cives, che appunto sono tra i protagonisti di questa costruzione di nuova civitas che trova realizzazione nell’urbs cioè la città, ma anche in modo più esteso Stefano Aragona
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dell’intero territorio antropizzato e non, come richiede la Carta di Lipsia dal 2007 e riaffermato nei vari Patti dei Sindaci. Così negando il presupposto culturale su cui si basa il neoliberismo che, come ricorda Harvey nel 2005, parte con la concettualizzazione della Thatcher per cui la società non esiste - quindi non esiste la città - ma esistono solo gli individui. La trasformazione dei figli dei fiori - gli hippies - in Yuppies, Young Urban Professionals è spiegabile con lo stesso autore quando nota che il liberalismo e soprattutto il neoliberismo ha utilizzato a suo interesse la spinta libertaria degli anni ’60 esaltandone la richiesta di più libertà personali e togliendo via la forte domanda di più giustizia sociale che era presente (Scienze politiche Unical, 2013). Non è questione di meccanismi premiali o meno: essenziale è la finalità. Così negoziazione, perequazione possono essere utilizzati ma è indispensabile un chiaro quadro di politiche urbane con lo scopo di costruire la città come bene collettivo. Quadro che va monitorato continuamente con Osservatori pubblici/privati. Non solo per controllo ma anche perché la città è mutamento: è l’unica via perché service tax od altri interventi simili possano essere calibrati secondo una progressività dei redditi e, con la presenza di politiche per la casa (non con il Piano Casa attuale!), si possano diminuire i rischi di incentivare ulteriore espulsione della poca popolazione residente dalle aree di pregio causata dalla rivisitazione degli estimi catastali comunque necessaria e richiesta da molte parti sociali. Le scelte nazionali, sottostanti ai vincoli di bilancio imposti da BCE (indirettamente dall’FMI) e UE ispirate, guidate dal neoliberismo stanno sollecitando e/o costringendo gli Enti Locali a sostenere ulteriori dinamiche di gentrification. Ciò associato alla contemporanea trasformazione “liberistica” di reti e servizi pubblici: prima diritti dei cittadini ora costi che vengono a gravare su essi trasformati in consumatori. Non solo annullando le ragioni costruite con lotte e conquiste dei due secoli passati che li portarono ad essere servizi e beni pubblici ma anche negando la presenza delle tante componenti senza prezzo di mercato poiché immateriali o connesse alla qualità. Dalla ricostruzione del secondo dopoguerra ad oggi già in Italia vi è stata l’esaltazione dell’edilizia come moltiplicatore macroeconomico: case ovunque, da raggiungere con automobili attraverso strade ed autostrade. Superato l’arresto di metà anni ’70, negli anni ’90 liberalismo, e poi neoliberismo (Harvey, 2013) fanno territorio e città preda dell’economia - come ricordato divenuta essenzialmente finanza - con la politica in un angolo a guardare… Da notare che la pervasività del pensiero neoliberista è tale da aver avuto un Presidente Democratico Usa, cioè Bill Clinton a completare il lavoro di deregolamentazione delle attività finanziarie avviato dal Repubblicano Reagan fino ad allora limitate dalle norme promulgate negli anni ’30 dal Democratico Roosevelt per arginare gli effetti della Grande Depressione originata dal Crack della Borsa del 1929. Quindi si giunge alla recente crisi finanziaria da cui da vari soggetti suggeriscono di uscire riperpetuando i meccanismi che l’hanno creata. Esempio emblematico ne è il rilanciato Piano Casa, come ricordano Rezzonico e Voci (2013, fig.1) con cui paesaggi e Piani (Strutturali e non, previsioni insediative, invarianti, etc.) rischiano di essere stravolti dai significativi aumenti di cubatura possibili. Ma infatti esso nelle prime parole dichiara il proprio vero scopo che non è l’urbanistica, il sociale, ma il rilancio dell’economia. Questo, associato al depotenziamento del Ministero dell’Ambiente - il bilancio ridotto a 468 mln di euro dal 1,2 mld del 2009, cioè di 2/3 – come denunciato in un Appello (2013) di oltre 140 Organizzazioni ONG - tra cui Legambiente, Italia Nostra, WWF, INU, FAI assieme a CGIL, CISL, UIL -, è un’ulteriore minaccia alla sicurezza del territorio italiano fragile e soggetto al rischio sismico ed idrogeologico come ricordano in modo tragico le recenti terribili evidenze del terremoto in Emilia Romagna e gli allagamenti in Toscana. Oltretutto Regioni non tra le peggiori nel controllo e tutela del paesaggio se confrontate con la disastrosa situazione di Calabria, Campania o Sicilia. Questa diversità è anche più generale. Al Sud poco si attaglia il canonico modello reticolare di sviluppo locale di Dematteis (1985, 1990, 2005)1 poiché molte delle condizioni indispensabili non sono presenti, ma soprattutto manca la cooperazione e l’apertura alla diversità, cioè la tolleranza. Questa significa potenziale innovazione che è una delle tre componenti, assieme al talento ed alla tecnica, della creatività: ovvero il motore della competitività delle aree. Ciò colloca il meridione in forte ritardo rispetto il centro nord (Sole 24 Ore, 2009). Urbanisti e pianificatori devono sollecitare collaborazione e reale cooperazione tra i soggetti locali utilizzando i soggetti istituzionali. A tale proposito si noti che già nel 1999 il POR invitava a costituire reti di città per costruire un quadro di coopetition di cui però è rimasta solo la parte di competizione. Anche Leggi Urbanistiche Regionali - ad es. quella della Calabria del 2002- incentivano Piani Strutturali Associati, ma ancora poco sembra essere stato fatto in tal senso. Sollecitazione che, come ricordano Fusaro ed altri (2013), dovrebbe essere estesa all’associazione istituzionale tra Comuni per diminuire i loro costi finanziari e quindi gli oneri per i cittadini. Si aggiunga che il Sud, in ragione del più arretrato sistema socio-sanitario e della minore presenza di stranieri rispetto il Centro-nord, come evidenziato dal Censis nel Rapporto Sociale della Nazione 2013, soffrirà in un prossimo futuro sia di mancanza di forza lavoro giovane che di assistenza socio-sanitaria (badanti, infermieri, etc.) entrambe le cose legate alle e con le necessità della popolazione che sta sempre più invecchiando. Così il gap con il centro-nord, che lo penalizza dall’Unità d’Italia, continuerà a crescere 2 anche se alcuni come Barca
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Anche se va ricordato che recentemente alcuni ricercatori, si veda ad es. Giannola (2013), attribuiscono gran parte dei successi collegati a tali modelli ed a quelli dei distretti alle svalutazioni competitive possibili fino ad un recente passato. 2 Per una lettura critica riguardo l’arretratezza si veda Aragona S (2012c) “Costruire un senso del territorio”, cap.1. Stefano Aragona
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(2009) puntano sulla valorizzazione delle potenzialità e responsabilizzazione locali per realizzare lo sviluppo economico e sociale di tali aree scoprendo o riscoprendo il loro essere luoghi 3.
Figura 1. La scadenza del Piano Casa per Regioni (Rezzonico S., Voci M. C., 2013)
La grande occasione dalla crisi, kρίσις: un nuovo percorso del fare territorio e città Qui si suggerisce di avviare un ripensamento della logica che sta alla base della costruzione dello spazio prendendo atto di alcune evidenze. Come sottolineato anche da un organo di stampa quale il Sole 24 Ore, la già critica condizione del mercato immobiliare con il cosiddetto governo dei tecnici ha registrato una nuova frenata. A conferma di ciò il Rapporto 2013 dell’Osservatorio Immobiliare dell’Agenzia delle Entrate pone in luce che nei recenti anni, in particolare nel 2012, vi è stato l’andamento più negativo dal 1985 e, rispetto il 2011, gli acquisti di case sono calati di circa 150 mila unità. Ciò in un quadro complessivo che vede l’ingiustizia sociale e spaziale caratterizzare il nostro paese. Infatti i salari italiani sono tra i più bassi d’Europa come rilevato da Eurostat, (2010) e, da indagini svolte dalla Demos&pi nel 2006, il possesso della casa è minore tra i redditi più bassi. Nelle pagine economiche dell’Unità (2013) il responsabile dell’Osservatorio, Guerrieri, sottolinea che c’è un rapporto forte tra la situazione di grande depressione economica - come documentato dall’Eurispes (2013) riguarda il 70% delle famiglie - e quella del mercato immobiliare. 3
E’ definita economia “placed based” da realizzarsi assieme alle comunità locali in un processo di reciproca formazione tra soggetti/attori locali e Comunitari.
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Questa impari condizione non può essere accettata però occorre ripensare alla abitazione innanzitutto come bene d’uso più che di scambio. Ciò dovrebbe essere il punto di ripartenza di politiche urbane, declinate in questo caso in politiche della casa, dei servizi (sanità e sociale innanzitutto per la terza età ed i bambini), dei trasporti, etc. Ma chi ha perso i poco meno 27 mld di euro, che riporta Dezza (2013), dovuti al calo degli scambi nel mercato immobiliare nell’anno passato? Probabilmente in gran parte la finanza ed i costruttori i quali, ricorda Camagni 4, cedono alla collettività del plusvalore generato solo un quinto di ciò che accade invece in Germania o Francia. Sulla carta strumenti attuativi quali i PRINT prevedono che 2/3 del nuovo valore da essi prodotto nella trasformazione dell’esistente (oltre ad altri obblighi) debba andare al pubblico: ecco che allora gli Osservatori pubblico/privati prima ricordati devono informare, vigilare, intervenire affinché ciò avvenga effettivamente. Nei Paesi ora nominati ove esistono politiche per la locazione sia nazionali che locali basate su sussidi e servizi. Capaci quindi sia di rispondere alla domanda delle giovani coppie che a quella di mobilità residenziale degli anziani. Il minor tasso di possesso di residenze consente una gestione delle necessità che cambiano sia durante i periodi di vita che per motivi legati al mondo del lavoro. In Italia dopo l’abrogazione dell’Equo Canone non vi sono state politiche sulla locazione se non proposte da Enti Locali illuminati, ma con tutti i limiti di tale azione: certo non si può considerare la parte “sociale” del citato Piano Casa una politica in tal senso. Tutto ciò suggerisce di cogliere questa occasione, crisi, per costruire diversi scenari. Come Crisci (2013) ha mostrato va riletto il territorio e l’uso reale di esso. Necessità e finalità per altro già prevista ma non attuata nella maggioranza dei casi dai Piani Regolatori Sociali (Aragona, 2003). Questo significa realizzare o far ripartire un rapporto multidisciplinare capace di cogliere le condizioni di vita e quindi dello spazio dei cittadini. Trasformare in indicazioni spaziali, funzionali, prestazionali (il dibattito sugli standard prestazionali dove è finito?) quello che anche ISTAT e CNEL hanno recentemente (2013) coniato come Benessere Equo e Sostenibile. Composto in questa prima uscita da 12 macro aree analizzate mediante 134 indicatori. Quindi riporre il piano in posizione prioritaria rispetto il progetto. Riprendere il Racconto urbanistico cioè quello che Secchi specificava essere La politica della casa e del territorio in Italia prendendo atto che, dopo 29 anni da questo scritto, le opere pubbliche ed i servizi - che pure le procedure semplificate richiedono raramente sono state realizzate. Viene costruito il residenziale ed il commerciale ma non le infrastrutture per il trasporto pubblico, solo quelle private come nel caso emblematico della Centralità Urbana Bufalotta a Roma. Si è avverata la previsione di Form ed altri quando scrivevano nel 185 dei rischi che si sarebbero corsi prevalendo il progetto sul piano: cosa che è accaduta nell’uso più che nella forma dei cosiddetti Programmi complessi degli anni ’90. Le battaglie sociali di oltre 30 anni addietro avevano conseguito fondamentali successi culturali/giuridici come la Concessione Edilizia del ’77, il liberalismo ed il successivo neoliberismo hanno causato un’involuzione che ha significato insensibilità diffusa riguardo tali questioni concedendo il dominio dell’economia anche nel nostro Paese. Nonostante molti avessero ricordato, come Dandri nel 1974, le vaste relazioni del settore edilizio, le case si trasformano in un prodotto e l’efficacia (sociale) del piano evidenziata/richiesta nel 1986 da Tutino ed altri “scompare” rimanendone solo l’efficienza. Mentre sensibili spinte chiedevano semplificazioni amministrative e procedurali - alcune con buone intenzioni tante invece finalizzate a conseguire il più alto profitto possibile da immobili od aree - avveniva anche una retromarcia sotto il profilo giuridico con l’attacco al rivoluzionario concetto di Concessione Edilizia (oltre che quello del ristoro economico) attraverso le Sentenze della Corte Costituzionale. Lo scenario complessivo vedeva ignorare Hall che in più occasioni (1988, 1989) sottolineava che il modello realizzato della supremazia dell’economia sulla politica, cioè quello Usa, significava l’assenza di planning ed avendo così solo “practice town planning” ed anche trascurare completamente Stokey e Zeckhauser che nel 1978 evidenziavano i limiti conosciuti dell’affidarsi unicamente all’economia. Gli esiti negativi di queste scelte sono evidenti. Esiti negativi sotto il profilo sociale perché le tante espansioni edilizie sono in molti casi abbinate a centri commerciali non funzionali alla già (ed ancor di più lo sarà nel prossimo futuro) prevalente popolazione che è anziana. Esiti negativi ambientalmente poiché si consente ulteriore espansione e consumo di suolo per residenziale e servizi - nonostante la grande presenza di invenduto con infrastrutture di collegamento e vaste superfici di parcheggio, quindi esteso impiego di suolo, ed aumento anche del consumo pro-capite di carburante e d’inquinamento poiché in tali realtà commerciali è indispensabile l’uso dell’auto privata. Tali strutture inoltre sono tra le principali cause di scomparsa dei negozi di vicinato necessari non solo a questa fascia di età ma anche a mantenere identità e vita, quindi sicurezza, nei quartieri urbani. A tale riguardo la Belfiore (2013) fa risalire la crisi della città intesa come spazio pubblico comune alla Carta di Atene poiché essa è costruita sull’individuo e non sulla collettività: certamente la Carta viene scritta quando l’industrializzazione inizia a “fare” la città quindi è un ragionamento che offre più spunti da approfondire. Esiti quanto meno discutibili nelle trasformazioni delle parti storiche delle città trasformate in quartieri solo per il turismo, non luoghi direbbe Augè (1993). Esiti negativi a scala territoriale poiché i decenni passati mostrano che opzioni di politica nazionale hanno partecipato in modo significativo alla formazione di svantaggi competitivi (Aragona, 1993) per migliaia di centri 4
Introduzione alla Conferenza Annuale di Scienze Regionali 2009 ed Apertura AA 2009-10 Corso di Laurea in PTUA Urbanistica alla Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria
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minori interni acuendone la perdita di senso, abbandono, insicurezza del territorio assieme all’aumento dell’inurbamento e delle congestioni, domanda di servizi, di lavoro etc. per il centro attrattore. Infatti da circa trenta anni si stanno tagliando connessioni ferrovie nelle aree interne e contemporaneamente liberalizzando servizi che fino ad un recente passato erano garantiti in quanto servizi pubblici ad es il servizio postale e più recentemente la chiusura di numerosi uffici giudiziari locali come attuazione della spending review 2012. E’ la microeconomia, criterio unico della visione liberistica, che estesa a scala macro priva gli abitanti di queste aree di beni e servizi pubblici e nasconde le esternalità negative create: in questo caso il venir meno dell’assidua presenza indispensabile alla sicurezza del fragile territorio.
Alcuni spunti in chiusura: Gestire la città Le trasformazioni urbane ed il mercato dello spazio, non solo quello residenziale, può declinarsi con quello dell’approccio ecologico. E’ la strada proposta dalla già ricordata Smart City dal 2011 della Ue (Aragona, 2012d) la cui finalità è perseguire modalità di antropizzazione che coniughino flussi materiali ed immateriali. Anche questi argomenti seguono due percorsi che sono come segni elicoidali di cui sta a noi, alla nostra sapienza tecnica e politica fare incrociare più volte possibili i tracciati per innescare meccanismi sinergici. Ma il percorso rischia di andare in senso opposto, sostiene il prof. di Public Affairs Nico Calavita dell’Università di San Diego nel 2013 parlando del New Urbanism in USA e come mostrano recenti progetti: quello che riporta Berger (2012) della espansione della Università di New York che minaccia la distruzione di parte del Greenwich Village è tra i più eclatanti e contraddittori rispetto l’essenza stessa dell’Università quale istituzione portatrice di cultura. Nel Decreto del fare (2013) in tal senso, evidenzia l’INU (2013b), vi sono minacce simili poiché da la possibilità di modificare le sagome ed i profili per edifici di non pregio eccezionale però caratterizzanti il paesaggio italiano. La questione dell’abitazione richiede politiche per la locazione e trasformazione dell’esistente. Perché non trasformare il tanto invenduto nelle aree dei centri commerciali in residenze per terza età con presenza di negozi di vicinato a condizioni fiscali agevolate? Per non dire delle tante caserme o proprietà pubbliche demaniali o ex demaniali da dare in gestione ai potenziali locatari similmente a quello che accade in alcuni paesi abbandonati nel Meridione affidati ad emigranti che li stanno rivitalizzando? Le Politiche europee di coesione 2014-2020 devono uscire sempre più dall’approccio microeconomico e sostenere ancor più fortemente tale filosofia integrata, per altro come indicato nella ricordata carta di Lipsia. Tutto ciò deve divenire oggetto di proposta nell’Agenda Urbana Nazionale del Comitato Interministeriale per le Politiche Urbane, essere oggetto centrale di un nuovo Piano Città dopo quello del 2012. Quindi è necessario riportare le trasformazioni dello spazio alla politica, cioè all’urbanistica. Come sostenuto nel documento per INU per il XVII Congresso (2013, p.5) <<…(essa ed il) suo strumento fondamentale d’intervento, il piano,(assumono) un ruolo maggiore e più importante che nelle passate fasi di espansione e trasformazione urbana>>. Poiché questo deve essere realizzato con il minor consumo di suolo è essenziale essere in grado di controllare e gestire le modificazioni dell’esistente in termini sia di spazi, funzioni, distribuzione che della rendita urbana generata da tali cambiamenti come sottolineato da Curti già nel 2004. Con l’attuazione dei primi Programmi Integrati di Roma si potrebbe verificare sul campo l’efficacia e l’efficienza di tali modalità d’azione, a tal fine sono indispensabili quegli osservatori prima citati viene ricordato negli incontri con gli abitanti coinvolti5. L’ideale sarebbe avere o creare le condizioni al contorno - tra le principali la proprietà dei suoli ed edifici e la gestione pubblica - che hanno permesso al Programma di Riqualificazione Urbana Giustiniano Imperatore a Roma di conseguire validi risultati in termini di miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti e/con la implementazione dei principi dell’ecologia. Tale filosofia va enfatizzata creando sempre più coerenza tra ciò che si edifica e quello che gli strumenti attuativi e Strutturali prevedono. Così in essi vanno inserite la “chiusura dei cicli” oltre che considerazioni relative all’impronta ecologica e non solamente la pur valida iniziativa del Ministro dell’Ambiente (2013) di considerare la questione energia a scala di comparto urbano e le indicazioni derivanti dalla Carta della Qualità proposta da tempo dall’Associazione Urbana delle Aree Dismesse. Chiudendo queste riflessioni ed allargando lo sguardo è inevitabile evidenziare che centinaia di milioni di persone in Asia, India, ed altri vasti luoghi stanno costruendo, abitando, formando “fatti” urbani che continuiamo a chiamare città ma che delle nostre città - quelle “occidentali” - nate dall’idea di polis e poi di urbs non hanno molto in comune se non forse i Business Center Districts necessari alla finanza, ma paradossalmente mantengono la stessa origine etimologica nella loro definizione di città mentre stanno perdendo ogni loro caratterizzazione (Fig.2). Quale urbanistica, quali urbanisti possono esserci per questi abitanti che non hanno la radice nell’essere prima polites e poi cum-cives? 5
Come quello svoltosi in occasione del PRINT Tor Fiscale all’Acquaio Romano il 23 aprile 2013. La partecipazione più efficace alle scelte si sta sperimentando in Regioni quali l’Emilia Romagna e la Toscana, in essi essenziale è l’informazione mezzo di formazione di abitanti, tecnici ed amministratori.
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Figura 2. Pechino, Area dello Stadio per i Giochi Olimpici, il Q.798 area ex industriale e skyline (foto: S. Aragona).
Bibliografia
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Stefano Aragona
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Stefano Aragona
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Il tema rimosso del fabbisogno abitativo e del dimensionamento, tra invenduto e nuova domanda abitativa
Il tema rimosso del fabbisogno abitativo e del dimensionamento, tra invenduto e nuova domanda abitativa Sara Bindo Università “Sapienza” di Roma DATA - Dipartimento di Design, Architettura, Territorio e Ambiente Email: sara_bindo@hotmail.com Tel: 3458816984
Abstract La ricerca in corso parte dalla constatazione della compresenza di due importanti fenomeni quali l’ampia diffusione di ‘invenduto’ in numerose aree urbane di più recente costruzione e l’emergere di una “nuova domanda abitativa” che non sembra ricevere risposta. La ricerca si propone, quindi, di indagare e riflettere sulla capacità di strumenti come il dimensionamento e la stima del fabbisogno (restringendo in questa sede il campo al fabbisogno abitativo) di essere ancora in grado di indirizzare le traiettorie di trasformazione e sviluppo della città contemporanea. Attraverso l’analisi di alcuni casi studio ritenuti particolarmente significativi si propone una possibile strategia per il ripensamento di questi strumenti e della loro applicazione – nelle teorie e nelle prassi – per capire se può avere ancora senso parlare di calcolo del fabbisogno e quale ruolo possano svolgere all’interno dei processi di pianificazione della città e del territorio. Parole chiave Invenduto, Fabbisogno abitativo, Dimensionamento
1 | Ipotesi Le problematiche che fanno da sfondo a questa proposta sono il fenomeno dell’invenduto e quello dell’emergenza casa. In quest’ultimo filone tematico rientrano tutti quegli aspetti che riguardano la difficoltà per porzioni sempre più ampie di popolazione di accedere al bene casa, sia esso di proprietà che in affitto, e l’emergere di una ‘nuova domanda’, che si discosta dalla famiglia tradizionale e che non riesce a trovare un riscontro nel mercato. L’altro fenomeno è quello dell’invenduto che caratterizza molte delle nostre città e che la crescita edilizia impetuosa, che ha interessato gran parte del territorio italiano, ha lasciato ossia una grande quantità di case invendute e di palazzi sfitti, tanti ancora in fase di progettazione, ma molti altri già terminati e rimasti senza acquirenti. La visione di questi due fenomeni come ‘domanda’ il primo e ‘offerta’ il secondo (che, evidentemente hanno difficoltà a incontrarsi) ha suggerito di recuperare un terzo concetto, quello di fabbisogno abitativo, osservato nella sua relazione con uno strumento storicamente utilizzato nella disciplina urbanistica, quale il dimensionamento. Oggi la domanda assume un significato più incerto e complesso che sembra andare oltre quello della domanda sociale. Attualmente, infatti, è stata evidenziata, specie a livello delle più grandi aree urbane una diversa problematica, quella che viene definita come ‘emergenza casa’. Negli ultimi anni, in effetti, il problema abitativo sembra non riguardare più solo le fasce di popolazione in condizioni di povertà ma si è andato estendendo molto rapidamente e sempre più famiglie si trovano, oggi, ad affrontare il passaggio a una situazione di vulnerabilità. Questa condizione ha dato vita a quella che è stata definita come ‘nuova domanda abitativa’ che fa difficoltà a trovare una risposta nello stock abitativo recentemente realizzato e immesso nel mercato. Allo stesso tempo anche l’offerta sta assumendo nuove caratteristiche: senz’altro non sembra possibile pensare, oggi, che la sola offerta da considerare sia quella pubblica, guidata dall’intervento diretto dello Stato e amministrata da Comuni e Regioni. Ma l’incontro tra nuova domanda e offerta appare quanto mai problematico, specie considerando le grandi quantità di invenduto che caratterizzano molte delle aree urbane italiane e che potrebbero entrare a far parte, in qualche modo, dell’offerta disponibile proprio per rispondere alle domande Sara Bindo
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delle fasce sociali più vulnerabili. In ogni caso, in questo momento occorre anche considerare che lo sviluppo edilizio delle nostre città che sembrava essere inarrestabile negli ultimi anni pare aver rallentato la sua corsa e questo ci costringe a riflettere criticamente sull’eredità delle grandi quantità di case vuote depositate sul territorio: si tratta di un fenomeno che può essere considerato come una ‘patologia’ urbana, economica, sociale ed ambientale e che, quindi, andrebbe adeguatamente compreso, studiato, analizzato anche al fine di poter proporre modi di trattarlo. In particolare, la compresenza di questi due fenomeni in evidente contraddizione ha suggerito di concentrare il paper sul ripensamento e la riconsiderazione di strumenti quali il dimensionamento del piano e del relativo fabbisogno abitativo che si vuole soddisfare, tenendo presente che entrambi sono per molto tempo stati considerati come gli strumenti principali utilizzati nella pianificazione della città, proprio per poter pianificare lo sviluppo edilizio e fornire risposte alla domanda sociale. Negli ultimi anni, in realtà, il dibattito sul dimensionamento nella pianificazione territoriale sembra aver subito una sorta di rimozione nonostante la palese inadeguatezza delle pratiche e l’introduzione di nuovi orientamenti (obiettivi di riduzione del consumo di suolo, contrazione del mercato immobiliare) che impongono un serio ripensamento delle teorie e delle pratiche.
2 | Obiettivi In questo quadro e con riferimento alle ipotesi fin qui brevemente esposte, si propone quindi di riflettere sul fenomeno dell’invenduto, non solo come problema economico e immobiliare (senz’altro cruciale), ma anche e soprattutto nella sua dimensione territoriale (che ci compete come planner). Si tratta, infatti, di un fenomeno visibile (per quanto, non a caso, di non ben definite dimensioni) effetto di un progressivo disimpegno e mancato presidio disciplinare su un’importante attività tecnica di indirizzo e regolazione. In questo senso, il paper vuole intercettare e offrire alla discussione possibili interrelazioni tra fabbisogno, dimensionamento e invenduto, e quindi, più in generale, tra quest’ultimo e gli strumenti di gestione del territorio. Per il raggiungimento di questi obiettivi si è proceduto a una ricostruzione relativa: all’evoluzione storica dei diversi concetti e degli strumenti implicati, per poter comprendere il fenomeno dell’invenduto così come si manifesta nell’attualità; a un possibile quadro di responsabilità dei piani – e quindi dell’operatore pubblico e, soprattutto, dei pianificatori – nella generazione della situazione attuale. Attraverso una riflessione sul ruolo che strumenti come il dimensionamento e la stima del fabbisogno abitativo hanno svolto storicamente, all’interno dei processi di pianificazione della città e del territorio, si vogliono intercettare ‘spazi’ per possibili innovazioni delle pratiche urbanistiche al fine di individuare strumenti in grado di restituire capacità di regolazione e controllo dei fenomeni urbani in un momento in cui obiettivo principale può essere considerato quello di una ‘diversa crescita’ e sviluppo delle città.
3 | Casi studio 3.1 | Metodo di analisi Il paper restituisce le principali considerazioni sulla ricostruzione e lo studio degli strumenti di pianificazione del territorio, adottati in due importanti realtà italiane come Roma e Bologna, promossi dalle due Amministrazioni negli ultimi 50 anni. Nel caso di Roma si sono presi in considerazione il Piano Regolatore adottato nel 1962 e l’ultimo approvato nel 2008. Nel caso di Bologna, invece, si sono analizzati i documenti relativi a tre Piani Regolatori: il PRG approvato nel 1958, quello approvato nel 1989 e infine il Piano Strutturale Comunale approvato nel 2008. Il materiale impiegato comprende soprattutto le Relazioni Generali e le Relazioni Tecniche Illustrative (Quadro Conoscitivo nel caso del PSC di Bologna); il motivo di questa scelta risiede nel fatto che ciò che si vuole comprendere sono: i diversi metodi di costruzione della domanda; il tipo di riflessione svolta sull’offerta; le motivazioni alla base delle scelte delle amministrazioni per quanto riguarda la nuova edificazione. Ciò che si vuole mettere a fuoco sono le modalità di costruzione delle previsioni, sia storicamente che in tempi più recenti, che dovrebbero essere alla base dei modi e delle tecniche per la definizione di un qualche dimensionamento del piano. Per poter comparare le grandi quantità di informazioni contenute nei vari documenti analizzati si è realizzata una matrice che mette in evidenza gli aspetti ritenuti fondamentali per poter fare delle considerazioni sul fabbisogno abitativo e sulle modalità di costruzione delle previsioni. Lo schema di analisi proposto si compone di due parti: Sara Bindo
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Con la prima parte si vuole individuare il ruolo che il fabbisogno ha assunto durante gli anni, e nei vari PRG analizzati. Per questo motivo si sono analizzati gli obiettivi dichiarati nelle relazioni e la struttura dell’indice, cercando di mettere in evidenza e comparare anche quanto spazio è stato dedicato alla definizione del fabbisogno e alle previsioni, piano per piano. In una seconda fase si analizzano anche le diverse posizioni assunte dalle amministrazioni rispetto a questioni come: riduzione del consumo del suolo, densificazione, nuova edificazione e cambio di destinazioni d’uso. Con la seconda parte della matrice si vuole mettere a fuoco il modo in cui sia stata strutturata la costruzione delle previsioni e, quindi, i calcoli fatti a sostegno delle decisioni prese in merito a nuovi alloggi e più in generale a nuove espansioni residenziali. Anche in questo caso la matrice si compone di due parti: la descrizione della situazione attuale (che include superficie, abitanti e numero di alloggi) e calcolo del fabbisogno (che si compone di: tipo di analisi demografica, durata del piano, popolazione e alloggi previsti).
3.2 | Alcuni primi risultati Di tutti gli aspetti analizzati si presenteranno, in questa sede, solo i risultati relativi ai criteri che hanno fornito informazioni più rilevanti al fine di sostenere la tesi avanzata: il tipo di analisi demografica e lo spazio a essa dedicata nelle relazioni, le previsioni di alloggi e nuove espansioni. Nel caso di Bologna, per quanto riguarda le modalità di analisi dell’evoluzione della popolazione effettuate a sostegno delle ipotesi di dimensionamento dei Piani si rileva che, con il passare del tempo, gli aspetti e i criteri messi al centro di tale analisi si vanno modificando: da una preoccupazione per la distribuzione ‘a zone’ della popolazione si arriva a una descrizione accurata delle caratteristiche di tale popolazione e delle relazioni che un Comune come Bologna, centro di attrazione per motivi di lavoro e studio, instaura con il sistema di comunisatellite che gravitano intorno. Entrando nel dettaglio si parte, nel primo PRG del 1958, da una analisi demografica più ‘rudimentale’ che si basa su interpolazione di dati: dall’evoluzione della popolazione dei precedenti 100 anni si propone una previsione a 30 anni che prevede un milione di abitanti per il solo Comune. Al centro dell’analisi svolta, alla quale non si dedicano che poche righe, troviamo la distribuzione della popolazione per zone e la relativa densità abitativa, e le condizioni igienico-sanitarie in cui vivono le famiglie. Già nel Piano Regolatore successivo il tipo di analisi si va affinando: nel PRG del 1989, infatti, si presenta una attenta e approfondita analisi della struttura della popolazione (per età e numero e composizione delle famiglie) e tipo di residenti/coabitazioni1, e si abbassa drasticamente il tempo di previsioni che da 30 anni scende a 10 anni. È nel Piano Strutturale del 2008 che cambia considerevolmente l’approccio al tema dell’evoluzione demografica: questo cambiamento si evince sia dal tipo di analisi svolta che dallo spazio che vi si dedica all’interno del Quadro Conoscitivo. Per quanto riguarda il metodo di analisi va segnalato prima di tutto l’ulteriore diminuzione del tempo di previsione proponendo un aggiornamento ogni 3 anni; l’analisi della popolazione, inoltre, si affina ulteriormente studiandone l’evoluzione per fasce di età, provenienza, numero di famiglie e numero di componenti e si allarga lo studio ai comuni limitrofi prendendo quindi in considerazione tutto il sistema che ruota attorno al capoluogo. Il secondo aspetto trattato riguarda il patrimonio edilizio, esistente e programmato, e in che modo l’Amministrazione ne abbia tenuto conto. Anche nel caso dello studio dello stock abitativo emerge un’analisi che si va dettagliando e affinando nel corso dei vari Piani Regolatori: da una previsione per aree, figlia dello zoning tradizionale, a un’attenzione per l’attività edilizia in generale, passando per una fase intermedia nella quale si inserisce la questione della ‘cultura della trasformazione’ al posto di quella dell’espansione. Nel PRG del 1958 le abitazioni prese in considerazione sono solo quelle strettamente legate all’offerta pubblica, e non c’è, quindi, un’analisi generale dell’edificato esistente. Non si da un numero esatto di alloggi ma si ‘perimetrano’ le zone d’espansione e si fornisce un indice di edificabilità e i relativi tipi edilizi che si possono realizzare per ciascuna area. Nel 1989, invece, così come dichiarato esplicitamente nella Relazione Generale, si inserisce il concetto di densificazione prevedendo nuovi insediamenti nelle zone interstiziali. Inoltre, aspetto ancora più interessante è che si inizia a far riferimento al patrimonio esistente come possibile risposta al fabbisogno. Nel Piano Strutturale del 2008, infine, si da un numero esatto di alloggi da realizzare (pubblici e privati) includendo nel calcolo il residuo dei precedenti piani e si arriva anche a inserire nella relazione del Quadro Conoscitivo un'analisi delle attività edilizie (abitazioni progettate, iniziate ed ultimate) con una formulazione di previsione di alloggi disponibili al 2010. Tra gli aspetti presi in considerazione nelle argomentazioni tecniche, inoltre, si considera anche la ‘velocità’ di realizzazione dello stock e il valore economico delle abitazioni (anche se non è chiaro come vengano utilizzati i dati raccolti relativamente all’attività edilizia). In merito al Comune di Roma non è possibile elaborare un’analisi dettagliata come quella svolta per il Comune di Bologna. In questo caso, però, è forse la scarsità dei dati da analizzare a dare spazio ad alcune riflessioni. 1
Si parla non solo di famiglie in senso tradizionale ma si considerano anche quelli che vengono definiti come ‘menages’: si considerano, quindi, anche le coabitazioni dovute alla corposa presenza di studenti in città.
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Per quanto riguarda il Piano del 1962, si deve riconoscere l’iter complesso e molto lungo che ha accompagnato l’approvazione del Piano e i numerosi organi che nelle varie fasi sono stati preposti alla stesura dei Documenti di Piano. Se si prende come documento di riferimento la Relazione del Comitato di Consulenza 2 del 1962, si rileva una totale assenza di riferimenti a studi sulla composizione della popolazione e a previsioni di evoluzione demografica. Con questo non si vuole affermare che non siano stati svolti studi tecnici a sostegno delle scelte urbanistiche ma l’unico riferimento esplicito a studi di natura demografica in documenti ufficiali si ritrova in una relazione a cura del CET del 1954, otto anni prima dell’adozione del Piano quindi, nella quale si fanno previsioni sulla base dell’incremento demografico avuto a Roma nel periodo 1904-1954 senza dare però un numero di abitanti che si prevedono a Roma negli anni successivi. Oltre a queste considerazioni non si sono ritrovati altri riscontri, almeno in documenti ufficiali3. Anche rispetto allo stock abitativo si rileva l’assenza di un’analisi generale dell’edificato esistente. Così come nel caso del PRG di Bologna del 1958, anche qui non si fornisce un numero esatto di alloggi ma si ‘perimetrano’ le zone d’espansione e si fornisce un indice di edificabilità e i relativi tipi edilizi che si possono realizzare per ciascuna area. Per quanto riguarda il PRG del 2008, infine, nella Relazione si fa chiaro riferimento alla ‘stabilità della popolazione’ ma il tipo di analisi svolta per prevedere l’evoluzione demografica non risulta essere chiara4. Ciò che invece è presentato in modo dettagliato è il tipo di domanda5 che con queste previsioni di piano si vuole soddisfare, entrando anche in descrizioni dettagliate in termini tipologico-dimensionali. Ma questa analisi non corrisponde a un altrettanto dettagliato studio dell’offerta. Nella stessa Relazione, infatti, si afferma che il dimensionamento della offerta ha seguito un iter completamente autonomo da ogni considerazione sulla domanda e si porta a giustificazione di questa scelta il vecchio residuo di Piano che l’amministrazione si trova a dover gestire. Anche in merito allo studio dello stock abitativo la situazione che emerge risulta essere piuttosto nebulosa. Dalle analisi presentate, infatti, non emerge se il dimensionamento proposto si limiti a gestire il residuo edificatorio o proponga ulteriori zone d’espansione. Si parla, inoltre, di ‘offerta residenziale contenuta’ e, a dimostrazione, si fa riferimento alla riduzione del 50% del residuo di Piano (circa 120 milioni di metri cubi di residuo edificatorio) e al fatto che la quota di residenziale sia pari solamente a circa il 56% del totale6. Ma sebbene si voglia delineare l’idea di un piano orientato alla riqualificazione del patrimonio esistente, l’offerta, che già supera in dimensioni la domanda nelle tabelle presentate nella Relazione, subisce una ulteriore maggiorazione nella successiva Relazione Tecnica, aumentando in questo modo anche la distanza tra domanda e offerta.
4 | Riflessioni conclusive I casi studio presentano due metodi evidentemente differenti di affrontare la questione del rapporto tra domanda e offerta così come definiti nelle ipotesi alla base di questo paper: le differenze emergono non solo se si confrontano i due casi studio ma anche e soprattutto se si mettono a confronto piani regolatori afferenti a diverse epoche storiche. In effetti, la stessa Gabellini sottolinea che il rapporto tra questi due aspetti sta assumendo con il passare del tempo connotati differenti: «Tra domanda e offerta non si riconosce più una linea di demarcazione netta per cui prima si calcola la domanda, poi la si confronta con l’offerta rilevando gli eventuali punti di frizione ed i problemi. Le carte si rimescolano al punto che alcuni hanno parlato di un ‘dimensionamento di scopo’, per sottolineare la priorità dell’obiettivo perseguito e delle politiche, considerando gli immobili un bene d’investimento e confidando nelle retroazioni che, in un mercato fortemente integrato, caratterizzano il rapporto tra domanda e offerta.» (Gabellini, 2007: 55). Se si pensa soprattutto ai Piani Regolatori di Roma, questo ‘nuovo rapporto’ sembrerebbe emergere in modo evidente: l’analisi sembra suggerire che negli ultimi decenni si è assistito tanto alla progressiva rinuncia alle previsioni, considerando che si è lasciato molto più spazio alle aspettative di investimento, quanto ad uno spostamento del punto di vista dalla domanda all’offerta. Al di là delle implicazioni ‘etiche’ che comporta un approccio eccessivamente orientato agli aspetti economici, infatti, ciò che questo paper ha voluto mettere in evidenza sono le implicazioni territoriali, il cui risultato più evidente può essere descritto attraverso le grandi quantità di invenduto lasciate come pesanti orme sul territorio. 2
Si fa riferimento alla relazione allegata al Piano Regolatore Generale adottato in data 9 giugno 1962 (consultata in Urbanistica num. 40 del 1964) 3 Solo in un articolo di Mario Coppa pubblicato in Urbanistica nel 1964 si afferma: «Per la distribuzione degli insediamenti residenziali si è valutata una futura popolazione inurbata di 4.000.000 di abitanti» (Coppa, 1964: 13). 4 Mentre nel caso di Bologna le analisi svolte dalla stessa amministrazione sono facilmente consultabili ed allegate ai documenti di Piano, in questo caso si rimanda a studi effettuati da Istituti di Ricerca esterni dei quali si presentano solo alcuni dati. 5 Si individuano quattro diverse tipologie di domanda: la domanda povera, la domanda primaria, la domanda temporanea e infine la domanda di qualità. 6 Si sta parlando di 65.886.062 mc di volumetria totale dei quali 37.251.979 sono a destinazione residenziale. Sara Bindo
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Volendo interpretare i due casi studio come rappresentativi di due metodi di previsione posti agli antipodi si nota che il dimensionamento, visto come strumento di gestione, stia cambiando forma e significato in modo del tutto libero, lasciando un margine, forse troppo alto, alla ‘sensibilità’ o capacità dell’Amministrazione di interpretare le necessità della città. È impossibile non notare, in effetti, la distanza che c’è tra i due approcci alla questione. Quello che sembra emergere, inoltre, è anche la necessità di un ampliamento del concetto di ‘fabbisogno’. Così come accennato nelle ipotesi, la domanda da soddisfare non è più quella strettamente legata alla richiesta di accesso al bene casa di fasce più povere della popolazione, ma si sta ampliando, e gli strumenti di pianificazione così come sono definiti sembrano non rispondere adeguatamente a questa situazione in continuo cambiamento. Ma anche quando ci troviamo di fronte a uno studio così attento delle problematiche come nel caso di Bologna non si può negare che, in ogni caso, sia riscontrabile una presenza di invenduto sul territorio comunale bolognese. Questa condizione sembra appunto suggerire la necessità di una nuova definizione degli strumenti a disposizione degli operatori pubblici ed evidentemente un diverso ruolo dei pianificatori nel mettere al lavoro strumenti vecchi o nuovi ma in grado di affrontare adeguatamente questioni complesse.
5 | Questioni aperte Quello che si è fin qui presentato non vuole suggerire soluzioni ma vuole soprattutto aprire ad ulteriori approfondimenti nei confronti di un tema, quello dell’invenduto, oggetto di studio da molti anni di molte altre discipline ma apparentemente non considerato – e forse ‘semplicemente’ sottovalutato – dalla disciplina urbanistica. Lo studio di questo fenomeno, in effetti, sembra essere rilevante anche al fine di poter sviluppare indirizzi per la definizione di buone pratiche di pianificazione territoriale, connesse a più adeguate politiche abitative, anche allo scopo di evitare la realizzazione di sempre nuovi insediamenti sovradimensionati e, quanto meno, inadeguati per la domanda esistente. In effetti, a ben guardare le modalità di sviluppo dei centri urbani scelti come caso studio, sembrerebbe importante ricercare elementi utilizzabili a supporto di più opportune scelte di crescita dimensionale delle città e di uso razionale del territorio. In questo senso un’uscita che questo paper vuole suggerire è l’ampliamento del campo delle analisi che si svolgono a supporto delle scelte di dimensionamento, anche e soprattutto da un punto di vista disciplinare. Per quanto si possa dimostrare attenzione e sensibilità nei confronti della situazione attuale, infatti, il dimensionamento e la stima del fabbisogno così come sono definiti non sembrano assolvere al loro compito. Di fronte a questa inadeguatezza un possibile spazio di azione a disposizione dell’operatore pubblico sembra praticabile attraverso l’inclusione di saperi e strumenti provenienti da altre discipline da sempre legate a vicende urbanistiche come quella fiscale, giuridica ed economica. Incorporare tecnicalità e strumenti fiscali, giuridici ed economici, in assenza di una riflessione disciplinare sufficientemente critica, avendo ampiamente abdicato al proprio ruolo di definizione delle previsioni e regolazioni pubbliche, non rassicura sulla capacità di controllare meglio in futuro gli effetti territoriali delle trasformazioni urbane e pone questioni, forse non ulteriormente procrastinabili, sul ruolo della pianificazione e, più in generale, dei planner.
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Un ritaglio della città di Trento tra trasformazioni dello spazio abitabile ed evoluzioni della convivenza multietnica
Un ritaglio della città di Trento tra trasformazioni dello spazio abitabile ed evoluzioni della convivenza multietnica Rose Marie Callà Università degli Studi di Trento Dipartimento di sociologia e ricerca sociale Email: posta@rosemariecalla.it Alessandro Franceschini Università degli Studi di Trento Dipartimento di ingegneria civile, ambientale e meccanica Email: a.franceschini@unitn.it
Abstract Il quartiere storico di San Martino, a Trento, è stato oggetto, negli ultimi anni, di trasformazioni sociali, oltre che urbanistiche, molto interessanti. In particolare, con il suo progressivo impoverimento e marginalizzazione rispetto ad altre zone della città, è stato recuperato, abitato e modellato dai cosiddetti nuovi cittadini migranti che hanno interpretato in maniera del tutto originale spazi abitativi e pubblici prima solo vissuti da cittadini autoctoni. I nuovi residenti hanno messo in atto diverse modalità di leggere uno stesso ritaglio della città che ha portato problemi di convivenza ma anche momenti di integrazione pacifica. La vicenda di questo borgo storico, che ripercorre quanto è già avvenuto in altre città del Paese, letta da una prospettiva urbanistica e sociologica, permette di individuare una sorta di idealtipo negativo che non manca, tuttavia, di offrire occasioni di positiva integrazioni tra modi e spazi culturalmente lontani. Parole chiave Spazio abitabile, convivenza, integrazione multiculturale.
1 | Il borgo di San Martino a Trento La secolare storia del «borgo» di San Martino a Trento è il percorso di un ritaglio di città storica che per molti secoli è stata l’unica propaggine urbana costruita fuori dalle mura. Uno spazio ancor oggi caratterizzato da una dimensione in bilico tra il «centro storico» e l’«espansione moderna» che ha sviluppato un’originale modalità di costruzione dello spazio pubblico e di fare ed essere comunità. Si tratta, storicamente, di una periferia antelitteram, ovvero di una maniera sperimentale, primigenia, attraverso la quale la città di Trento ha incontrato il suo territorio, che si esplicita in un tessuto urbano, sicuramente più vicino a quello dei centri storici rispetto a quello delle periferie. Eppure San Martino rappresenta la prima periferia urbana di Trento nella quale si è sviluppata una città inattesa, mai abbastanza nobile da essere considerato un «centro storico». La nascita del borgo deriva dalla particolare forma della città assunta durante il medioevo: esso si configura come un’enclave dentro la cinta muraria: un’immagine di San Martino che attraversa molti secoli, fino alle deviazione del fiume Adige (1865) e l’abbattimento delle mura urbane (a più riprese, a partire da fine Ottocento). Nel corso del Novecento – mentre il resto del territorio comunale è oggetto di significative ondate d’espansione edilizia che mutano profondamento la struttura urbana e l’equilibrio economico della città – San Martino riesce, di volta in volta, a trovare una posizione originale che, se da un lato indebolisce il senso di identità, dall’altra obbliga il quartiere ad un costante ripensamento del proprio ruolo dentro l’organismo urbano. Ma la storia di San Martino affonda le radici tanti secoli prima: nella prima metà del XIII secolo, quando la città si dota di una nuova conformazione urbana, causata soprattutto dalla costruzione di una più ampia cinta muraria – eretta attorno ai resti della «Tridentum» romana, oramai in grave stato di abbandono – destinata ad accompagnarla per quasi tutto il secondo millennio. Quella che viene a costituirsi in quel periodo è una città a Rose Marie Callà, Alessandro Franceschini
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«foggia di cuore» che si sviluppa sull’antico reticolo romano e che si dota di alcuni importanti attrattori urbani, come la Chiesa di Santa Maria della neve (poi ribattezzata, nel XVI secolo, Santa Maria Maggiore), il Castello del Buonconsiglio (sede del potere vescovile) e, appunto, il Duomo edificato sopra la tomba del martire S. Vigilio, patrono del capoluogo. Questa nuova forma urbana, caratterizzata dalla presenza di alte mura di cinta, frammenti delle quali sono sopravvissuti fino ai nostri giorni, rimarrà tale fino alla fine dell’Ottocento quando l’arrivo della ferrovia e le esigenze di sviluppo urbanistico ed economico renderanno necessario l’abbattimento di quei confini, ed apriranno l’urbanizzazione alla conquista indifferenziata di tutto il territorio circostante (Bocchi, 1983).
Figura 1. Trento ed il sedime storico del borgo di San Martino. Da notare gli assi infrastrutturali di via San Martino (a destra) e via Manzoni (a sinistra).
2 | Il percorso verso la modernità Durante l’Ottocento, si è già detto, l’ampia ansa del fiume su cui la città di Trento era stata edificata (sia nella sua configurazione romana che in quella medievale) scompare, a causa dei lavori di bonifica e di rettifica promossi dall’amministrazione austro-ungherese lungo tutta la valle dell’Adige. Nel 1860, inoltre, arriva la ferrovia Verona-Bolzano, destinata ad avere delle grandi conseguenze negli equilibri economici della città. Progressivamente, infine, le cave di pietra ammonitica della Cervara, che chiudevano il borgo sul lato est, vengono esaurite, aprendo ampi spazi anche in quella direzione. Improvvisamente il borgo si trova libero da tutti i limiti fisici che avevano governato l’articolazione dei propri insediamenti. Orfano dei suoi elementi «generatori», San Martino non è tuttavia protagonista di un nuovo progetto di disegno urbano, ma diventa, semmai, spettatore di una serie di addizioni urbane e di costruzioni infrastrutturali che andranno a condizionarne la matrice morfologiche ed il senso di unitarietà. All’inizio del Novecento San Martino vive una delle vicende più significative della propria storia urbana: l’edificio di testata, prospiciente su Piazza Raffello Sanzio, è oggetto di un concorso internazionale di architettura per la realizzazione dell’omonima scuola elementare. Nel corso degli anni Trenta un giovane progettista trentino – ma già protagonista del dibattito disciplinare nazionale – Adalberto Libera, vince il concorso realizzando uno degli edifici più significativi della sua carriera, che ancor oggi costituisce la «testata» del borgo verso il centro storico. Nel dopoguerra assistiamo al rafforzamento dell’asse infrastrutturale di via Manzoni-via del Brennero destinato a diventare, di fatto, la nuova spina dorsale sulla quale va a strutturarsi il borgo, che, contemporaneamente, allarga Rose Marie Callà, Alessandro Franceschini
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il suo bacino di influenza su larghe parti di tessuto urbano attiguo. Dal nocciolo storico di San Martino si vanno ad aggregare nuove parti urbane rendendo il borgo una piccola isola densamente edificata all’interno di un tessuto sempre più diffuso e caratterizzato da oggetti architettonici isolati e di grandi dimensioni. Il nuovo asse stradale va a configurarsi come l’inizio di una «strada mercato», dalle caratteristiche prettamente commerciali, destinata a svilupparsi in maniera esponenziale e che nel corso degli anni sposterà il suo baricentro sempre più in periferia. Specularmente anche l’architettura subisce una trasformazione, passando dal tessuto edilizio compatto della parte sud, ai grandi oggetti commerciali ed artigianali della parte nord. Negli anni Sessanta del secolo scorso il borgo di San Martino vive così una nuova fase di crescita. Il rafforzamento dell’asse veicolare consente al borgo di vivere della vivacità del boom economico, svecchiando gran parte delle attività commerciali storicamente presenti al piano terra degli edifici ed importando nuove attività «pesanti» come le officine meccaniche. In particolare San Martino sviluppa una doppia immagine: da una parte via Manzoni, caratterizzata dalla presenza di servizi tipici della periferia (distributore di benzine, meccanico…) e dall’altra la via San Martino propriamente detta, che invece si specializza su una fornitura di servizi a livello di quartiere. Questa fase di crescita economica non fu nemmeno messa in crisi dalla grande alluvione del novembre del 1966, quando la città di Trento, ed in particolare il borgo di San Martino, furono sommersi dall’acqua dell’Adige in piena, creando ingenti danni nelle strutture e nei servizi collocati in quella zona. Il nuovo impulso sarà destinato a proseguire fino agli anni Ottanta, quando lo sviluppo urbano della città, la riqualificazione del centro storico e l’arrivo di nuove modalità di commercio allontanarono molti servizi e molte attività nella nascente periferia urbana. In questo contesto va anche segnalata la costruzione di un grande parcheggio multipiano sull’antico sedime del fiume: un grande oggetto destinato a diventare un vero e proprio limite fisico e visivo tra il borgo e l’espansione otto-novecentesca della città. All’inizio del Terzo millennio si assiste ad un altro interessante fenomeno: la collocazione a San Martino di un numero rilevante di nuove residenzialità e dell’apertura di esercizi pubblici da parte di cittadini stranieri. Si tratta di una nuova fase identitaria del borgo, che vede l’utilizzo e la trasformazione da parte di civiltà “altre” caratterizzate da altri modi di vivere lo spazio pubblico e lo spazio pubblico-privato, delle strutture costruite per un modello dell’abitare cristiano-occidentale. A fianco di questo fenomeno va, infine, segnalata la lenta ma convinta trasformazione del borgo in un quartiere «cool»: San Martino viene scelto come luogo di residenza da artisti e creativi, da cittadini alternativi e giovani che trovano proprio nell’energia presente in quelle vie un ideale, informale spazio di vita con molti pregi del centro storico ma senza averne gli eccessi di compostezza e ordine. Dal punto di vista urbanistico non accadono eventi significativi. Si assiste, semmai, ad una conversione e ad un ammodernamento di parte degli edifici storici presenti nel comparto urbano. A fianco a queste rigenerazioni va segnalata la sostanziale ripresa del ruolo di attrattore del parco collocato dentro la cava della Cervara, per molti anni incapace di recitare un ruolo attivo dentro il disegno sociale dello spazio urbano di San Martino, ed il recente consolidamento di Largo Nazario Sauro, trasformato da nodo infrastrutturale ad una piazza pubblica.
3 | L’immagine del borgo oggi Attualmente, nell’immaginario collettivo dell’opinione pubblica della città di Trento, il quartiere di San Martino è luogo percepito “negativamente”, con bassa qualità della vita, a tratti diffamato. Esistono ragioni storiche di tale nomea: San Martino era separato dal resto della città dal fiume, con la presenza di un piccolo porticciolo per il trasporto su acqua di merci, in particolare legname, era il luogo in cui più spesso vivevano persone povere, pescatori, prostitute. Le cause “moderne” di tale percezione possono essere ricondotte alla presenza di residenti migranti, alla presenza di alloggi di edilizia popolare e non ultimo all’intenso traffico veicolare. Queste tre variabili intrecciate hanno abbassato lo status del sobborgo, divenendo quartiere “per immigrati”, per fasce sociali svantaggiate, disagevole per il movimento pedonale, a rischio di conflitto sociale. Tuttavia, da una recente indagine condotta sul territorio del quartiere (Bertoldi, 2013) si deduce una certa discrepanza tra la percezione diffusa nell’immaginario collettivo dell’opinione pubblica sul borgo di San Martino, fortemente veicolata anche dai media locali, e la percezione dei residenti. I soggetti che hanno partecipato all’indagine infatti sono consapevoli dell’immagine negativa che ha il quartiere in cui risiedono rispetto ad altre porzioni della città di Trento. Ma sono proprio i residenti a prendere le distanze da tale percezione, considerandola frutto di luoghi comuni e stereotipi. La sottolineatura si riferisce soprattutto alla socialità presente nel quartiere, alla presenza di diversi gruppi sociali che convivono in maniera pacifica. Da dove deriva questa lacerazione tra immaginario collettivo rappresentata egregiamente nelle prime pagine dei quotidiani locali e l’immagine dei fruitori reali del quartiere? Se da un lato l’assenza/spostamento del fiume Adige avrebbe dovuto riconciliare l’area con il resto della città, l’invadente arteria stradale che lo delimita a sud ha di fatto ricreato una secessione con il “vero” centro storico, ritagliando e relegando questo brandello di urbanità tra dimenticanza e curiosità di amministratori, cittadini, ricercatori e progettisti. Questa situazione di subalternità al resto del centro storico e trasformazione urbana che ha cancellato i segni e limiti storici senza una riflessione attenta rispetto alle conseguenze sociali di tali Rose Marie Callà, Alessandro Franceschini
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mutilazioni, ha fatto rischiare più volte all’area il collasso in termini economici e sociali e di fatto il rischio di una morte identitaria. Tuttavia, negli ultimi anni, i flussi migratori e l’utilizzo del borgo da parte di giovani hanno ridato movimento e vita al luogo, facendolo divenire oggetto di analisi, di studio, di nuova progettazione e di sperimentazione autogestita da parte dei cittadini residenti e fruitori, di rilancio da parte di creativi e artisti. Nel quartiere di San Martino si è infatti verificato di fatto il multiculturalismo urbano: si è creato un spazio multietnico per ragioni legate alla dimensione economica di affitti contenuti e alloggi di edilizia popolare, ma anche per la posizione strategica tra centro storico di Trento e zona commerciale. Tale multiculturalismo provoca da un punto di vista squisitamente sociologico istanze conflittuali tra residenti “storici” e “nuovi” residenti, ma anche luoghi/spazio temporali di convivenza. Mentre, da un punto di vista urbanistico, si rivela una città imprevedibile, non progettata che svicola dalle logiche di progettazione sia con i suoi sguardi che sono - o che pretendono di essere lungimiranti - ma anche dagli errori e lacune della disciplina.
Figura 2. Via San Martino chiusa al traffico e addobbata a festa per l’iniziativa artistico-creativa “Il fiume che non c’è”.
Inoltre, se nel quartiere è infatti scomparsa nel tempo uno spazio pubblico realmente fruibile, le associazioni e i circoli ricreativi più disparati hanno trovato un modo alternativo di fare comunità, appropriandosi di luoghi impensati: dagli scantinati che diventano circoli culturali, ai parchi ed ex magazzini che divengono luoghi di aggregazione e di eventi artistici, occupando marciapiedi per dare vita a feste cultural-popolari dai nomi poetici (“Il fiume che non c’è” – figura 2) o edifici disabitati che una volta erano luoghi significativi per la comunità (un asilo) per far nascere un centro sociale gestito da no global divenendo di nuovo dunque luogo “sotto i riflettori”. Mentre la chiesa, la macelleria araba, il supermercato italiano, il ristorante cinese, il tabacchino storico, il calzolaio autoctono e il rivenditore di kebab si affiancano in maniera armonica e imprevedibile. Soggetti molteplici dunque, creativi, culturali, politici ed economici che danno così vita ad iniziative che coinvolgono i residenti e fruitori del quartieri e altre fasce dei residenti di altri quartieri, regalando al quartiere una (nuova) dimensione pubblica e originale. Sia i flussi migratori che un incessante movimento nel quartiere, sia ancora il fare comunità in luoghi e momenti imprevisti trasformano il quartiere stesso: San Martino si è svestito dell’abito tradizionale e ne ha assunto una nuova fisionomia con un altro potenziale di autenticità e di (ri) trovamento di un’identità forte e in costante evoluzione. Rose Marie Callà, Alessandro Franceschini
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4 | Un centro periferico in cerca di identità Oggi il borgo si propone con tutte le contraddizioni ereditate dai secoli. Da una parte la forma urbana dell’insediamento si caratterizza per il suo essere «cerniera» tra il centro storico e la periferia (San Martino può essere visto, ancor oggi, «non ancora centro storico ma non ancora periferia») e tra il fondo valle e la collina. Questa dimensione dinamica, sempre alla ricerca di un equilibrio, può spiegare la dimensione identitaria di un insediamento sempre in costante mutamento. A questo va aggiunto che – in questi ultimi anni – la città sta modificando sensibilmente la propria forma della «civitas»: la presenza del nuovo asse universitario di via Verdi, il completamento del quartiere «Le Albere» di Renzo Piano alla Ex Michelin, stanno cambiando radicalmente il baricentro urbano, destinato a spostarsi, a poco a poco, verso sud-ovest (Franceschini, 2011). Tuttavia, l’aria che si respira nel borgo è, ancor oggi, un’aria diversa dal centro storico, del quale, tra l’altro, neppure formalmente, fa parte. Ma allo stesso tempo non è neppure un’aria da periferia urbana: l’immagine della struttura architettonica, la solidità della comunità insediata rendono San Martino un quartiere che mantiene inalterata la propria originalità e la propria vocazione sperimentale. Questa dimensione di recinto urbano etnico e generazionale dentro il centro storico rappresenta ancora oggi uno dei tratti più significativi di San Martino e la risorsa sulla quale conviene fare leva in un’ottica, auspicabile, di rilancio e di valorizzazione di questo borgo storico. San Martino, quindi, nato come un’enclave dentro l’urbs, ovvero come un sottoinsieme della città storica dentro il tessuto urbano, nel tempo ha progressivamente mutato questa caratteristica, integrandosi dentro la forma in cui la città di Trento è andata organizzandosi nel corso dell’ultimo secolo. Nondimeno, il quartiere è andato progressivamente a costituirsi come un’enclave dentro la civitas, ovvero come un sottoinsieme ben distinguibile dentro il tessuto sociale della città, dotato di un’identità diversa e riconoscibile. Per questo anche uno spazio che per ragioni diverse non ha più la connotazione precisa e definita di un quartiere, diviene nuovamente luogo di socialità e di comunità per l’uso originale che di quello spazio ne fanno i gruppi sociali multietnici e multi generazionali che lo vivono. Quell’essere “relegati” e sganciati dal centro storico è letto a tratti in maniera originale, divenendo punto di forza e non di debolezza, divenendo motivo di resistenza e di sopravvivenza, attivando creatività e usi alternativi dei luoghi. È soprattutto l’interazione naturale e spontanea tra gruppi sociali diversi che permette tale evoluzione che è necessariamente un’opera di “democrazia dal basso”, che si scosta dunque dalla progettazione con la p maiuscola, quella legata alle teoria e alle buone prassi e non ultimo a indici e indicatori, ma che a volte dimentica di fare una passeggiata lungo le strade di un sobborgo vecchio che può divenire improvvisamente nuovo, moderno.
Bibliografia
Bertoldi L. (2013), Smuovere le acque. Sui metodi partecipativo e gentrificatorio nell’approccio alla città contemporanea. Il caso delle zone di Centa e San Martino in Trento., Tesi di laurea, Università degli studi di Trento. Bocchi R., Oradini C. (1983), Trento, Laterza, Roma-Bari. Franceschini A. (2011), “Una città tra memoria e progetto il caso di Trento”, in Studi Trentini. Arte, nr. 2. Gullino G. (2011), Trento, Cierre edizioni, Verona.
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Urbanistica conflittuale tra città e slum. Criticità di Governance
Urbanistica conflittuale tra città e slum Criticità di Governance Sonia Pintus Università degli Studi di Cagliari Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Architettura Email: soniapintus@unica.it Pasquale Mistretta Prof. Emerito di Urbanistica Università degli Studi di Cagliari Email: p.mistretta@unica.it
Abstract Con questo lavoro si vuole porre in evidenza il profondo cambiamento storico che le città contemporanee stanno attualmente vivendo. In molti Paesi del mondo, in ambienti diversi, per contesto, aspetti culturali, sociali ed economici, le grandi metropoli si confrontano con nuove realtà insediative: gli slum. Questi 'nuovi luoghi', spesso a ridosso della città o all'interno della stessa, portano alla necessità di una riprogettazione del tessuto urbano consolidato. È dunque, sempre più di attualità, l'esigenza che la pianificazione delle grandi aree urbane, localizzate nei diversi continenti, affronti, attraverso un disegno strategico il problema dell'organizzazione funzionale, non solo delle realtà esistenti, ma anche e soprattutto degli slum che hanno infranto la 'diga' dell'urbanistica ufficiale proponendosi con forza come la chiave di volta per il futuro sviluppo della città. Parole chiave metropoli, slum, governance, planner
1 | La città e la crescita demografica Fin dalle sue origini l'urbanistica ha avuto come obiettivo quello di studiare la città, o in generale qualsiasi insediamento umano, e il suo sviluppo attraverso la pianificazione. Un dato importante lo stabilisce il fatto che oggi nelle città vive un terzo dell'intera popolazione mondiale1. Le città attuali stanno diventando delle aree urbane sempre più estese, in termini di superficie occupata ma, e soprattutto, come sovrabbondanza di popolazione residente, andando ad assumere sempre più la dimensione di grandi metropoli. Non è solo la dimensione a caratterizzare i nuovi spazi urbani ma ciò che la loro crescita comporta: la pressante richiesta di insediamenti e l'insorgere di nuove dinamiche economiche e sociali che si sommano alla complessità e alla simultaneità degli eventi. In particolar modo nei Paesi in via di sviluppo le metropoli crescono più velocemente delle loro stesse infrastrutture, per cui lo sviluppo urbano incontrollato determina alti volumi di traffico, grandi concentrazioni di produzione industriale, un sovraccarico ecologico, mercati immobiliari e regimi di commercio dei terreni eterogenei e senza regole. La dinamica della popolazione nel mondo ha quindi messo in crisi la geografia dei luoghi e l'organizzazione dei sistemi urbani ad essi riferiti. I motivi di questa crescita continua, dovuta ai grandi esodi interni e in molti casi alle migrazioni da un Paese all'altro, hanno determinato, nella macro area insediativa, tipologie di urbanizzazione diverse per livelli di efficienza, di benessere, di partecipazione, di lavoro e di operatività.
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Si stima che la popolazione urbana mondiale sia pari a 3.632.457.000 (UNDP, 2011) mentre la popolazione mondiale totale sia pari a circa 7.100.000.000 (http://www.worldometers.info/it/) rispetto ai 2.532.229.000 del 1950 (UNDP, 2011)
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1 | La realtà degli slum La crescita delle città costituisce uno dei fenomeni più rilevanti della nostra epoca e la maggior parte delle ricadute, che già si manifestano, avranno luogo nei Paesi in via di sviluppo, in particolar modo in Asia, America Latina e in Africa. La migrazione umana, che ha da sempre accompagnato la storia dell'uomo, oggi sta assumendo delle dimensioni incontrollabili in termini di capacità e di modalità di accoglienza di persone. «Quando le città non riescono a soddisfare questi bisogni essenziali su larga scala creano aree conosciute come slum2, caratterizzate per la mancanza di acqua potabile, servizi igienico-sanitari sicuri, uno spazio di vita durevole, o la sicurezza di un contratto di locazione» (Worldwatch Institute, 2012). Il termine slum assume nella maggior parte dei casi un'accezione negativa, in quanto con esso di identificano luoghi considerati dell'emergenza per l'alto rischio sociale, per il degrado ambientale e spesso anche per i problemi di ordine pubblico. Quello degli slum non è un fenomeno circoscrivibile ad un'unica area geografica, ma interessa, manifestandosi sotto diverse forme, la totalità del mondo. La città contemporanea, in generale, non è più organica ma divisa, frammentata e disarticolata. Gli slum sono dei luoghi paralleli rispetto alla città, a volte sono città nella città, ma sarebbe più corretto definirli «altre forme della città, insediamenti urbani dai caratteri ibridi, le cui caratteristiche principali sono la temporaneità, la provvisorietà, la mancanza di continuità nelle strutture architettoniche del territorio e l'assenza di quelle che comunemente vengono chiamate sicurezza sociali» (Floris, 2007). Allo stesso tempo, però, molti di questi slum costituiscono un elaborato, ma informale, motore produttivo che incide sull'economia a livello globale. A Mumbai, in India, per esempio, sotto l'apparente quotidiana vita di strada manifesta povertà su cui si basa lo 'sviluppo' del Sud del mondo.
1.2 | Il caso di Dharavi (Mumbai, India) In India, Mumbai, detta anche 'città dei sogni', si è trasformata negli anni passati in un miraggio di ricchezza. Ciò ha causato un'esplosione demografica che si è manifestata in un aumento della popolazione che, in dieci anni, è passata da 9 a 14 milioni di persone. Il sovraffollamento e l'elevato aumento nella richiesta di nuove abitazioni ha portato alla creazione di una delle più grandi baraccopoli asiatiche: Dharavi.
Figura 1. Slum di Dharavi (Mumbai, India) (Fonte: http://hccxy007.files.wordpress.com)
Al di là delle condizioni di vita critiche che caratterizzano gli slum, essi sono oggi delle comunità con una forte incidenza economica, generata dal settore informale, che ha ricadute sulla crescita del Paese. La situazione dell'India è emblematica e rappresenta la forte necessità di un intervento da parte dei governi locali. Gli aspetti da valutare sono differenti: la richiesta di nuovi e più idonei insediamenti, infrastrutture e servizi adeguati. Per altro, i leader di Mumbai che perseguono l'obiettivo di trasformarla in 'città globale' non possono trascurare i servizi che queste comunità offrono. Figura 2. Economia informale a Dharavi, (Mumbai, India) (Fonti: Meena Kadri, 2009 - http://hccxy007.wordpress.com)
1.3 | Il caso di Rocinha (Rio de Janeiro, Brasile) Rocinha è una delle più grandi favelas della città di Rio de Janeiro famosa, a livello internazionale, per le sue enormi dimensioni e per le sue problematiche. In essa vive una popolazione di circa 150.000 abitanti con un'elevata prospettiva di crescita nel prossimo futuro. Le baracche in mattoni, che la costituiscono, si contrappongono alle residenze di lusso creando un forte contrasto nell'immagine del paesaggio.
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Il termine 'slum' è usato per descrivere una vasta gamma di insediamenti a basso reddito e/o in cattive condizioni di vita umane» (UN-Habitat). Ad essi si attribuisce una differente denominazione a seconda del luogo in cui sorgono: per esempio: favela in Brasile, colonias populares in Città del Messico, township in Africa e altre.
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Figura 3. Favela di Rocinha (Rio de Janeiro, Brasile) (Fonte: http://soulbrasileiro.com)
Tra gli aspetti negativi vi sono la mancanza di sicurezza e la presenza di trafficanti di droga che il Governo sta cercando di combattere da qualche anno mediante diverse operazioni di polizia. Per via delle sue vaste dimensioni in termini di superficie occupata, la favela è suddivisa in sottoquartieri all'interno dei quali si sviluppano una grande varietà di negozi e servizi nati per soddisfare le esigenze della popolazione che diventa sempre più numerosa. In questo senso tra i tentativi del Governo per porre freno all'incontrollata, irregolare e disordinata espansione, ci fu, nel 2001, quello proposto tramite un piano di sviluppo urbano denominato Eco-limits, che cercava di fermare le nuove costruzioni mediante una delimitazione del perimetro, eseguita tramite sbarre di ferro, della favela.
Figura 4. Progetto dell'arch. Frederic Druot per la favela di Rochina (Rio de Janeiro).
Altri tentativi di miglioramento delle favelas si identificano in progetti di trasformazione che si sono posti l'obiettivo di migliorare le condizioni abitative, di rivalutare il paesaggio, di organizzare i servizi e le reti. Partendo da una diagnosi precisa dell'organizzazione urbana e delle costruzioni esistenti il progetto proposto dall'Architetto Federic Druot, per citare un esempio, mira a trasformare e adattare una situazione di fragilità ricostruendo le abitazioni precarie esistenti. L'obiettivo sarebbe quello di offrire superfici più vivibili, più luminose, più confortevoli dotando le abitazioni dei servizi di base.
2 | La produttività degli slum «Le città sono i motori della crescita economica e dello sviluppo sociale; esse hanno sostenuto lo sviluppo industriale e commerciale in tutto il mondo» (Dogan - Kasarda, 1988) essendo i luoghi nei quali nuove forme di attività e di organizzazione economica si evolvono e acquisiscono maggior valore. In misura crescente le città sono anche i nodi più importanti di accumulazione del capitale, reinvestimento in nuovi settori, e punti focali dello sviluppo di servizi specializzati. Le grandi città sono, quindi, responsabili di una quota significativa del Prodotto Interno Lordo (PIL) e come tali costituiscono le principali fonti per le opportunità di sviluppo e quello economico, in particolare, è legato all'economia informale che cresce attraverso le aziende che operano, in parte o totalmente, al di fuori del sistema legale, ignorando le norme relative alla salute, all'ambiente e alla sicurezza della manodopera. I livelli di informalità variano da Paese a Paese: per citarne alcuni, in India «l'economia informale incide per il 23% sul PIL nazionale3, mentre in Brasile per il 49%» (McKinsey Quarterly, 2011). 3
Il PIL di una nazione è il valore di tutti i beni e servizi finali prodotti all'interno di una nazione. Questa è la misura che gli economisti più preferiscono quando si confrontano le condizioni di vita o di utilizzo delle risorse tra i paesi» (IndexMundi, 2010).
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L'occupazione informale è un fenomeno molto diffuso in particolar modo nei Paesi in crescita in cui è forte la presenza di immigrati che rappresentano la parte più povera della società e che accettano condizioni di lavoro estreme essendo per loro l'unica fonte di sostentamento garantito. «I governi delle città si trovano in una situazione complessa e contraddittoria: se lo sviluppo economico costituisce un imperativo cui riferirsi nella definizione delle politiche urbane, le città devono allo stesso tempo affrontare problemi di esclusione sociale e di degrado dei quartieri periferici, causati dai cambiamenti nello stesso sistema economico. In questo diventa rilevante la capacità dei governi locali di costruire politiche integrate e complete, che non tralascino gli aspetti sociali, ambientali, di qualità della vita e di contrasto alla disoccupazione» (Debernardi, Rosso, 2007). Tabella I: Prodotto Interno Lordo (PIL) (Fonte: CIA World Factbook, 2012)
Paese
PIL (Prodotto Interno Lordo) (miliardi $)
Anno
India Mumbai Brasile Rio de Janeiro
4,515 209 2,324 96
2011 2008 2011 2011
A Dharavi sembra quasi possa convenire mantenere un coacervo di 'equilibri precari' tra realtà di forti contrasti sociali e strutturali piuttosto che correre il rischio di un tracollo 'di medio termine' della stessa metropoli nella competitività internazionale qualora si modificassero le regole del gioco tra la città affermata e il sistema, a suo modo, egoisticamente efficiente, degli slum. A Rocinha, come in quasi tutte le favelas brasiliane, trionfa l’economia informale, che costituisce quel vasto ed importantissimo settore dell’economia che reggono le sorti di centinaia di migliaia di abitanti delle città. Ma c’è anche una certa circolazione di idee e di risorse economiche, che devono essere stimolate e di cui è importante le autorità promuovano la crescita per poter sperare che queste realtà vedano dei cambiamenti nel breve periodo.
3 Il ruolo della pianificazione «La pianificazione urbanistica tradizionale non sembra in grado di affrontare la nuova dimensione dei problemi e la complessità dei fattori interagenti sugli assetti delle città e delle loro aree di gravitazione. É importante, quindi, capire in che misura, al mutare dei fattori demografici, economici e politici che incidono sulla struttura e sulla dinamica insediative nei diversi Paesi, siano ancora praticabili le formule di governance con cui costruire e gestire scenari territoriali di lungo periodo4. La pianificazione delle grandi aree urbane dei Paesi in via di sviluppo, in cui ricchezza e povertà estrema convivono, rappresenta uno dei temi più importanti dell’urbanistica contemporanea, in forte contrapposizione con quella del business-architettonico. Il disegno strategico dello sviluppo deve tener conto, non soltanto dell’organizzazione funzionale delle diverse realtà consolidate, ma anche della 'disorganizzazione' delle aree periferiche, e/o interne alle città, nelle quali è fortissima la pressione degli slum. In relazione alle modalità con cui vengono letti, interpretati, tollerati e allo stesso tempo sfruttati gli slum si sta affermando un modo equivoco ed incompleto 'di fare' urbanistica. Un’urbanistica 'subalterna' interpretabile in riferimento o all’egoismo della città del 'benessere', affermata e pianificata che manifesta insofferenza, pregiudizio, e paure di contaminazione; o alla subalternità degli insediamenti informali con tutti i problemi connessi alle masse di popolazione non legittimata che vive nella miseria degli slum. Le metropoli dei Paesi in via di sviluppo crescono più velocemente e le difficoltà che mostra l’edilizia abitativa, non essendo in grado di garantire un alloggio agli ultimi inurbati e la vicinanza tra cittadini ricchi e cittadini poveri in tante parti della città, alimentano le forti tensioni sociali che preoccupano anche la politica mondiale. Il contrasto evidente che si percepisce non sembra trovare facile risoluzione, non soltanto per la difficoltà di mettere ordine in uno zoning fortemente squilibrato sotto il profilo delle residenze e dei servizi rispetto alla direzionalità e al terziario commerciale, ma soprattutto perché con risorse finanziarie insufficienti, i parametri economici, con i quali le città possono accedere alla competitività che impone la globalizzazione per attrarre investimenti e per produrre e vendere beni nel mercato internazionale, giocano a sfavore di qualsiasi mediazione tra la città-immagine e la città-sommersa. La governance politica e manageriale, decidendo sulle strategie di sviluppo, è espressione esclusiva dei cittadini elettori e non della popolazione 'invisibile' emarginata negli slum. Ciò nonostante, il potere decisionale, ancorché 4
«Numerose istituzioni istituzionali, pubbliche e private, formali e informali sembrano gestire tutti i problemi tecnici, politici, economici, culturali, sociali del pianeta; esse formano una sorta di amministrazione del mondo, multipla e disarticolata: per non parlare ancora di 'governo', si parla di governance» (Jacques Attali, 2012: p.16).
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Urbanistica conflittuale tra città e slum. Criticità di Governance
sollecitato dal capitale privato a concentrare tutte le risorse finanziarie per la realizzazione di opere strutturali e infrastrutturali necessarie per rafforzare la competitività internazionale della città, non considera gli slum soltanto un peso e un delicato problema urbanistico, ma paradossalmente, una straordinaria fonte di reddito garantito dal lavoro prodotto in varie forme dagli uomini, dalle donne e dai bambini delle baracche. Infatti, la baraccopoli concorre in modo significativo alla crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) della città di riferimento e del Paese di appartenenza. Si tratta di una economia informale che cresce in modo esponenziale grazie ad una miriade di micro laboratori gestiti da boss che operano al di fuori del sistema legale, ignorando le norme di sicurezza, di igiene e della qualità ambientale. Accade perciò, che tra la città e gli slum, si instauri un occulto rapporto di convenienze economiche fondato sullo sfruttamento e sul basso costo del lavoro che incide sulle scelte di Piano orientate a mantenere il divario tra le 'forme' di insediamento e la loro organizzazione civica. Questa spregiudicata politica di 'conservazione' degli slum, come luoghi di produzione di beni per i mercati internazionali ad alto valore aggiunto, mette in secondo piano gli aspetti negativi e le criticità ben note degli slum interne e riflesse sulla città (delinquenza, prostituzione, droga) che vengono affrontate soltanto con azioni saltuarie di polizia. In molte città la politica interviene con progetti parziali di edilizia e di sistemazione di strade che però non modificano la condizione identitaria e strutturale di quelle aree ghetto dense di popolazione immigrata, senza diritti. Questa rappresenta la parte più povera della società costretta ad accettare condizioni estreme di lavoro come unica fonte di sostentamento. La pianificazione, come si è detto, non garantisce il superamento della asimmetria tra la città formale e quella informale degli slum. Tuttavia nella governance cittadina si manifesta l’opportunità di coinvolgere gli abitanti degli slum non solo nei processi di costruzione e di miglioramento delle parti, volta per volta considerate prioritarie, ma anche nei processi decisionali e di progettazione, tenendo ben presenti alcuni aspetti dell’inurbamento che, paradossalmente, aumentano le criticità. In particolare il miglioramento dei servizi elementari, diventa ulteriore fattore attrattivo per intere famiglie in fuga dalla povertà delle campagne col miraggio della città. Bisogna anche considerare che, nella maggior parte delle città, i piani regolatori non sono stati tradotti in piani di sviluppo socio-economico con programmi di investimento ma, sovente, si limitano a studi di dettaglio riguardanti le zone del centro urbano senza valutare l’integrazione con le aree periferiche e con quelle rurali dell’entroterra. È in questo quadro che la complessa questione degli slum può essere in parte affrontata, soprattutto tenendo conto delle peculiarità dell’ambiente rurale di per sé idoneo ad assicurare almeno una migliore qualità ambientale» (Mistretta, Garau, 2013). «Per fortuna, l’esigenza di trovare nuovi equilibri sulla macro dimensione territoriale sta producendo effetti positivi sulla rivalutazione del rapporto tra il costruito urbano e il contesto rurale che sta permettendo alla campagna di recuperare gran parte delle funzioni produttive e sociali sottratte dalle città durante lo sviluppo capitalistico» (E. Basile, C. Cecchi, 2001).
4 | Conclusioni Dallo studio di questo fenomeno nasce spontaneo riflettere in merito all'atteggiamento ottimista riguardo al futuro di queste metropoli essendo cambiati, con la grande dimensione, i riferimenti per una concreta integrazione. Infatti, mentre la storia dell’urbanistica racconta di società solidali fondate sul lavoro e sui luoghi delle fabbriche industriali, le comunità di oggi, a causa del sistema produttivo della globalizzazione, lasciano spazio all’incomunicabilità, agli egoismi, ai conflitti sociali di razza e di religione, non essendoci più i fondamentali luoghi urbani di riferimento. Inoltre l’economia di mercato, in particolare quella finanziaria e speculativa, non ha tra gli obiettivi la lotta alla povertà, che anzi viene considerata un prodotto esterno e perciò da sacrificare alla spinta della competizione globale. È difficile credere che il coinvolgimento della numerosa popolazione che vive negli slum possa avvenire attraverso passaggi democratici per scegliere i propri rappresentanti, perché questi vengono sostanzialmente imposti dalle organizzazioni che regolano lo sfruttamento e i ricatti per la sopravvivenza. Infatti «Non si riesce a immaginare che cosa possa unire i ricchi 'globalizzati' e i nuovi poveri 'globalizzati'; perché mai dovrebbero sentire la necessità di fare compromessi e quale modus coexistendi essi sarebbero pronti a cercare? I mondi che si collocano tra i due poli della nascente gerarchia, in cima e sul fondo, si distinguono drammaticamente l’uno dall’altro e sono sempre più schermati alla vista l’uno dell’altro» (Ulrich Beck, 1999). Anche la città cablata e digitale del futuro avrà difficoltà a riconoscersi; quindi per l’urbanistica si pone il problema di studiare nuove metodiche di analisi e nuovi modelli strategici per affrontare la complessa problematica della coesistenza insediativa e della integrazione funzionale tra 'la città' e gli slum.
Sonia Pintus, Pasquale Mistretta
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Bibliografia
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Sonia Pintus, Pasquale Mistretta
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Nuovi paesaggi urbani per la qualità dell’abitare. Infrastrutturare l’informale, pianificare lo sviluppo: il caso di Dar es Salaam
Nuovi paesaggi urbani per la qualità dell’abitare. Infrastrutturare l’informale, pianificare lo sviluppo: il caso di Dar es Salaam Giuseppe Caldarola Università IUAV di Venezia Dipartimento di Culture del Progetto Email: giuseppe.caldarola@iuav.it Tel: +39.347.6520314 Roberta Bartolone Università IUAV di Venezia Dipartimento di Culture del Progetto Email: r_bartolone@yahoo.it Tel: +39.347.9193336
Abstract L’area metropolitana di Dar es Salaam è interessata da rapido incremento demografico e previsione di raddoppio degli attuali 4.000.000 di abitanti nell’arco di un decennio con conseguente espansione del territorio urbanizzato. La pressione insediativa, conseguenza di flussi migratori di breve raggio, alimenta la crescita di settori insediativi informali, i cui tratti ricorrenti sono la scarsa qualità delle abitazioni, la mancanza di infrastrutturazione e il ricorso all’autocostruzione. Nonostante la recente attivazione di politiche volte alla realizzazione di servizi minimi e al miglioramento generale della qualità della vita degli insediamenti informali, gli interventi attuati hanno avuto risultati scarsamente strutturanti, almeno non sistemici o in grado di generare una nuova immagine complessiva dei luoghi. Le trasformazioni in corso si sono limitate a interventi su singoli lotti o isolati urbani: più che derivare da un programma di scelte attuative o da una pianificazione generale sono frutto di interessi economici, influenzati dal mercato immobiliare o da investimenti privati. Da ciò, la formazione di aree di frizione e spazi residuali e l’immagine di una città senza ‘architettura’, composta di tessuti eterogenei (afferenti alle diverse fasi di crescita urbana e alternativamente ascrivibili a interventi ‘pianificati’ o all’autocostruzione), senza ‘struttura’ e senza ‘infrastruttura’. Il nuovo piano urbanistico, in fase di redazione da parte di un team internazionale al fine di veicolare/governare le trasformazioni in atto, risponde alla pressione insediativa, alle richieste di aree per insediamenti non residenziali, alle necessità di miglioramento delle condizioni di vita negli insediamenti informali e di dotazione/implementazione delle reti infrastrutturali. Esso prevede il contenimento dell’espansione dei sedimi edificati con modulata densificazione o sostituzione dei tessuti edilizi esistenti sia nella città formale che informale mediante interventi finalizzati al ridisegno interno alla città consolidata e alla formazione di cinque nuove città satelliti. Induce la riorganizzazione della rete infrastrutturale esistente, l’individuazione di aree di tutela e valorizzazione delle emergenze naturalistiche e ambientali, di salvaguardia paesaggistica e prevenzione del dissesto idrogeologico in aree alluvionabili, e l’implementazione di forme di agricoltura urbana. A partire dalle previsioni di piano, il programma ‘Laboratori Metropolitani’, attivato dallo IUAV di Venezia, ha proposto alternativi scenari progettuali che costituiscono la restituzione in progetti urbani delle previsioni di piano. L’interesse di ricerca è stato la verifica dei modi in cui interventi di valorizzazione delle emergenze paesaggistiche e dei brani di naturalità interni alla città consolidata, in rapporto alla modificazione delle infrastrutture di servizio e dei tessuti edilizi esistenti, si rendono motori di trasformazione e riqualificazione, generatori di nuove centralità e della qualità dell’abitare. Giuseppe Caldarola, Roberta Bartolone
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Nuovi paesaggi urbani per la qualità dell’abitare. Infrastrutturare l’informale, pianificare lo sviluppo: il caso di Dar es Salaam
L’indagine si affianca ai più ampi paradigmi entro cui si declinano i rapporti tra paesaggio-città-infrastruttura, centro-periferia, formale-informale, autocostruzione-pianificazione. I progetti e le ricerche avviate dal laboratorio e più in generale da altri gruppi internazionali consentono di indicare i progetti urbani elaborati quali momenti di verifica delle potenzialità trasformative introdotte dalla redazione del nuovo piano generale. Essi saranno oggetto infatti di laboratori partecipati aperti alla cittadinanza atti ad una seconda fase di controllo del redigendo strumento urbanistico. Parole chiave Infrastruttura/paesaggio/città, Autocostruzione/Pianificazione, Formale/Informale
Dar es Salaam, dinamiche urbane: tra sviluppo ‘informale’ e occasioni di ‘piano’ negate. L’area metropolitana di Dar es Salaam, in Tanzania, è interessata da rapido incremento demografico con conseguente espansione del territorio urbanizzato. I valori di crescita, da dati statistici, prevedono il raddoppio degli attuali 4.000.000 di abitanti nell’arco di un decennio. La pressione insediativa, conseguenza di flussi migratori di breve raggio, genera l’incremento di insediamenti informali. Questi ultimi occupano ampie parti dell’intero territorio urbanizzato e concorrono alla formazione dell’immagine di una città i cui tratti ricorrenti sono la scarsa qualità delle abitazioni, la mancanza di infrastrutturazione e il ricorso all’autocostruzione. Nonostante la recente attivazione di politiche volte alla realizzazione di servizi minimi e al miglioramento generale della qualità della vita negli insediamenti informali, gli interventi attuati hanno avuto risultati scarsamente strutturanti, almeno non sistemici o in grado di generare una nuova immagine complessiva dei luoghi. Per queste specifiche condizioni, la città si offre quale caso esemplare di dinamiche comuni a molte città del medesimo contesto geografico1. Le correnti trasformazioni ‘pianificate’ sono di iniziativa sia pubblica che privata (con maggiore prevalenza di queste ultime e in special modo veicolati da investitori internazionali) e sono limitate a interventi su singoli lotti o isolati urbani o su aggregati degli stessi. Gli ultimi aggiornamenti della vigente strumentazione urbanistica-le cui previsioni non sono state peraltro realizzate in toto- risalgono agli anni ’70; le singole progettazioni non discendono generalmente dalla loro revisione o aggiornamento o dalla redazione di piani attuativi; fanno ancora riferimento agli strumenti medesimi, ormai non più in grado di veicolare lo sviluppo in conseguenza di mutate condizioni di contesto rispetto a quelle rilevate al momento della sua redazione. Gli interventi in corso di realizzazione si collocano all’interno del tessuto urbano senza soluzione di continuità: più che derivare da un programma di scelte attuative o da una pianificazione generale sono invece il frutto di interessi economici, influenzati dal mercato immobiliare o da investimenti privati. Sono questi, tutti interventi di densificazione edilizia che procedono con la sostituzione dei tessuti esistenti o di in-fill edilizio e urbanistico con conseguente notevole aumento dei ‘carichi’ gravanti sulle aree. Per converso, la crescita della città (in termini di popolazione insediata) risulta indotta principalmente dai flussi migratori interni al Paese che muovono cospicue fette di popolazione dai villaggi dell’entroterra verso i centri principali e che concorrono al proliferare di insediamenti informali. Da ciò deriva la formazione di aree di frizione e spazi residuali e l’immagine di una città senza ‘architettura’ composta di tessuti eterogenei, afferenti alle diverse fasi di crescita urbana e alternativamente ascrivibili a interventi ‘pianificati’ o all’autocostruzione. L’osservazione di una qualsiasi immagine satellitare della città mostra l’incidenza del fenomeno e giustifica una tale affermazione: se da un lato, si può osservare una città ‘omogeneamente’ priva di una sua struttura interna riconoscibile (a partire dal suo ‘disegno’) anche indotta dal basso livello di infrastrutturazione, dall’altro, risultano ben riconoscibili le porzioni di sedime urbanizzato quali esiti degli strumenti di piano attivati nel tempo (la città ‘pianificata’) –come anche della loro negazione o mancata applicazione- o di politiche pubbliche di riqualificazione (la città ‘regolarizzata’) a fronte della più ampia quantità di insediamenti esiti di alternative forme di autocostruzione (la città ‘informale’). La datazione di tali trasformazioni consente inoltre di ascrivere la principali dinamiche di crescita urbana all’ultimo cinquantennio: è infatti questo l’arco temporale in cui si sono collocate le maggiori trasformazioni e si è configurata l’attuale struttura urbana (Bersani E., Bogoni B., 2001). La contrazione dell’arco temporale entro cui ascrivere la formazione dell’intera conurbazione, accompagnata dal mancato aggiornamento degli strumenti urbanistici, in grado di indurre/veicolare/seguire le dinamiche attestatesi in detto arco temporale, può indicarsi quale una delle cause alla base delle modalità di crescita ivi attestatesi. 1
In controtendenza rispetto alle dimaniche più ricorrenti di città europee (i.e., contenimento dell’espansione dei sedimi urbanizzati, maggiore incidenza di interventi mirati alla riqualificazione/trasformazione del patrimonio edilizio esistente, ridotta crescita del numero di abitanti e in taluni casi riduzione dello stesso...), sono numerose le città africane in cui si assiste a fenomeni di rilevante crescita dei sedimi urbanizzati (Jatta, 1985) spesso determinati e indotti dall’afflusso di capitali esteri o dalla concentrazione di attività produttive; a consistenti flussi migratori principalmente interni ai singoli stati e che muovono cospicue unità di popolazione verso i centri principali; alla crescita degli insediamenti e specialmente degli insediamenti informali che sfuggono a qualsiasi forma di pianificazione e/o di controllo.
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Nuovi paesaggi urbani per la qualità dell’abitare. Infrastrutturare l’informale, pianificare lo sviluppo: il caso di Dar es Salaam
Figura 1. Dar es Salaam – ortofoto (procedendo da destra verso sinistra, sono riconoscibili il nucleo storico risalente al periodo coloniale tedesco e al successivo protettorato britannico al cui interno si collocano peraltro tutti gli edifici istituzionali realizzati negli anni in cui Dar es Salaam è stata capitale della Tanzania; le emergenze naturalistiche determinate dalla presenza di aste fluviali di natura torrentizia e dalla specifica orografia del sito; le aree di prima espansione esito di strumenti di piano attivati a partire dalla seconda metà del XX secolo; le ampie aree di città informale; aree di insediamenti produttivi intercluse tra gli insediamenti residenziali).
Figura 2. Dar es Salaam – fasi di crescita urbana: 1940 – 1960/70 – 1990 (fonte: Bersani E., Bogoni B. (2001), ‘Living in developing countries, Dar es Salaam’)
Le attuali condizioni, esito di tali dinamiche, risultano ancora più evidenti dalla lettura dei materiali cartografici analitici del redigendo masterplan: i quadri conoscitivi aggiornati raccontano di una struttura urbana generatasi principalmente per autocostruzione e al di fuori di logiche pianificatorie. Le trasformazioni recenti, incidenti in larga parte sulle quantità e qualità del patrimonio edilizio ricadente nell’intera area metropolitana di Dar es Salaam (con prevalenza di localizzazione nelle aree più centrali), non si sono accompagnate al potenziamento infrastrutturale. Alle nuove edificazioni non ha fatto seguito l’implementazione della rete stradale principale di servizio alla città (il cui schema di impianto, composto di quattro strade radiali e di una anulare 2, è ancora quello del periodo coloniale ad eccezione di interventi di rettificazione e allargamento delle strade esistenti); la dotazione di adeguati sistemi di trasporto pubblico3; la creazione/implementazione delle altre infrastrutture a rete (i.e., il completamento della rete idrica e fognante o di fornitura dell’energia elettrica); l’introduzione di misure di salvaguardia, valorizzazione, sistematizzazione, potenziamento dei brani di naturalità e dell’idrografia minuta (le aste fluviali di natura torrentizia) che possono costituire l’occasione, oltre che di potenziamento della qualità 2
L’assetto della trama viaria principale –si ribadisce, composto di quattro strade radiali e di una anulare più interna e ubicata a margine del nucleo storico della città- accompagnato dalla concentrazione e localizzazione delle principali funzioni urbane, generano flussi di persone e merci in entrata che creano pressione sulle aree più centrali con conseguenti fenomeni di congestione. 3 A Dar es Salaam, come in molte altre città africane, è presente il solo trasporto collettivo (i ‘Dala-Dala’, i minivan o altri veicoli adattati per il trasporto passeggeri, gestiti da privati, e per i quali le fermate e il percorso non sono generalmente prefissati ma vengono stabiliti al momento in funzione delle richieste dei passeggeri; i ‘Bajaj’, motocicli e 3ruote anch’essi adattati al trasporto passeggeri; servizio taxi). Solo oggi si sta procedendo alla realizzazione della prima linea di trasporto pubblico con sistema BRT. Giuseppe Caldarola, Roberta Bartolone
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ambientale dei luoghi, di prevenzione dai rischi di alluvioni e di dissesto idrogeologico anche in considerazione delle specifiche condizioni climatiche della zona sub-tropicale. La rapidità della crescita dei sedimi urbanizzati ha inoltre creato numerose aree di frizione e ‘scarti’ dei processi di trasformazione: una serie di territori di difficile classificazione, privi di funzione, in bilico tra abbandoni e usi impropri. Tali condizioni sono ben rappresentate nelle tavole dell’uso dei suoli (Figura 3): a fronte di una scarsa dotazione di strade principali (le sole quattro radiali e le due anulari) si evidenzia lo sviluppo diseguale di porzioni di tessuti edilizi a destinazione prevalentemente residenziale alternativamente ascrivibili a modelli pianificati, agli interventi di ‘regolarizzazione’ recente, alla crescita ‘informale’, a forme di sprawl localizzate principalmente nei settori periurbani.
Figura 3. Dar es Salaam – existing land use (rielaborazione dai materiali cartografici redatti per il nuovo masterplan)
Il nuovo piano urbanistico, in fase di redazione da parte di un team internazionale cui partecipa anche un’unità italiana, si propone di rispondere alla crescente pressione insediativa, alla richiesta di aree per insediamenti non residenziali da parte di operatori locali e stranieri (Figura 4), alle necessità di miglioramento delle condizioni di vita negli insediamenti informali e di dotazione/implementazione della rete infrastrutturale di servizio, nonché di veicolare/governare le trasformazioni in atto. A tal fine prevede interventi finalizzati al ridisegno interno della città consolidata (Figure 6 e 7) e dei suoi margini e la formazione di cinque nuove città satellite4. Promuove il contenimento dell’espansione dei sedimi 4
La previsione delle città satellite era già contenuta nel vigente piano regolatore anche se non ha prodotto nel tempo esiti realizzativi. Deriva da indirizzi di crescita urbana invalsi in molti strumeti urbanistici redatti nella seconda metà del ‘900 per città del medesimo contesto geografico (Jatta, 1985). Solo nell’arco dell’ultimo anno, già in corso la redazione del draft del nuovo masterplan, la municipalità di Dar es Salaam ha avviato una serie di interventi di smantellamento di un’insediamento informale sorto sulle aree ove il piano regolatore aveva previsto la realizzazione di una delle cinque città satellite: quella lungo la Morogoro Road, la strada di collegamento tra Dar e la capitale Dodoma e su cui si sta peraltro realizzando la prima rete di trasposto pubblico. L’intervento ‘pubblico’ si limita alla predisposizione delle aree (liberazione dalle strutture che vi si sono localizzate nel tempo, opere di sbancamento e predisposizione dei tracciati della viabilità
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edificati con modulata densificazione o sostituzione dei tessuti edilizi esistenti sia nella città formale che informale. Tali trasformazioni passano attraverso la riorganizzazione della rete infrastrutturale esistente, l’individuazione di aree di tutela e valorizzazione delle emergenze naturalistiche e ambientali, di salvaguardia paesaggistica e prevenzione del dissesto idrogeologico per le aree alluvionabili, e l’implementazione di forme di agricoltura urbana atte a favorire l’autosostentamento degli insediamenti. Alcuni di questi obiettivi costituiscono ‘occasioni’ negate, già presenti nel vecchio strumento urbanistico e pur non realizzate, come ad esempio la riproposizione, con analoga localizzazione, dell’impianto delle città satellite; la reintroduzione aggiornata di criteri già presenti per la formazione dei pattern edilizi (Figura 5) in alcuni settori urbani. Differisce dal vigente strumento urbanistico specialmente per l’introduzione di ‘standard’ edilizi e variati indici di fabbricabilità (Figure 6 e 7) per le singole aree in cui viene suddiviso l’intero territorio metropolitano; introduce misure di salvaguardia per i brani di naturalità interclusi e per le emergenze storiche 5 ancora presenti specie nelle aree più centrali.
Figura 4. Dar es Salaam – nuovo masterplan. Simulazione degli esiti trasformativi per le aree di più elevata densità edilizia
Figura 5. Dar es Salaam – pattern edilizi previsti già nel 1949
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interna di distribuzione e raccordo di quest’ultima alla viabilità principale, lottizzazione di massima. Ciò in attesa di manifestazioni di interesse da parte di investitori privati. L’introduzione di misure di salvaguardia di singoli manufatti e di intere porzioni di tessuti edilizi costituisce il principale contributo dell’unità italiana partecipante alla redazione del nuovo masterplan.
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Figura 6. Dar es Salaam – nuovo masterplan. Simulazione degli esiti trasformativi per le aree di media densità edilizia
Figura 7. Dar es Salaam – nuovo masterplan. Zonizzazione; applicazione e validazione degli standard edilizi di nuova introduzione
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Dalle previsioni di piano ai progetti urbani: sperimentazione e verifica preventiva delle nuove condizioni di urbanità. Per le specifiche condizioni urbane e la complessità delle dinamiche di trasformazione e nell’occasione della redazione del draft del nuovo masterplan, Dar Es Salaam è stata assunta quale caso-studio del programma quadriennale di ricerca ‘Laboratori Metropolitani’6 (Università IUAV di Venezia e Seminario Itinerante Villard). Il laboratorio ha potuto sperimentare alternative modalità di trasformazione di brani di tessuto urbano applicando preventivamente gli indirizzi del piano generale. In ciò ha inteso fornire un contributo proprio al completamento della redazione del masteplan aprendo a nuovi scenari nella pratica di redazione degli strumenti urbanistici – mediante verifica preventiva degli stessi ottenuta attraverso la progettazione secondo i parametri urbanistici a introdursi- e fornendo un’immagine dei luoghi in trasformazione utile ad aprire il dibattito con la popolazione 7. I progetti elaborati in co-tutela con la Ardhi University di Dar Es Salaam, quale parziale esito del programma di ricerca, rispondono ai temi generali fin qui evocati proponendo strategie di trasformazione di due brani di tessuti urbani esistenti e di un’area periferica sulla quale è prevista la costruzione di una delle cinque città satelliti del nuovo piano urbanistico. Le tre aree di progetto sono ubicate lungo il medesimo asse stradale, Morogoro Road che collega Dar es Salaam alla Capitale Dodoma e che rappresenta una delle quattro strade principali disposte in maniera radiale a servizio dell’intera città8. Tra queste, proprio la Morogoro road è peraltro già interessata dai lavori di costruzione della prima linea di trasporto pubblico urbano su gomma, realizzata sul modello del BRT (Bus Rapid Transit) di Bogotà. E’ peraltro l’asse su cui si stanno concentrando numerosi interventi di trasformazione dei tessuti edilizi esistenti, sia per effetto di politiche pubbliche (principalmente legate a funzioni residenziali) che su iniziativa privata (residenza e servizi). Tali interventi possono dirsi tutti di densificazione edilizia accomunati da un generale incremento delle volumetrie esistenti. La scelta di selezionare tre aree di progetto lungo il medesimo asse viario è stata indotta dall’utilità di sperimentare alternative strategie (tutte derivanti dalle previsioni del redigendo piano) in un ambito spaziale continuo: quello a margine della stessa infrastruttura stradale. Ciò consente di verificare come si modifica il paesaggio urbano e la percezione dell’immagine complessiva della città –in avvicinamento al centro e, viceversa, in allontanamento da questo– e quali scenari di nuova urbanità il piano può indurre in un luogo attualmente non in grado di trasmettere un’immagine complessiva o univocamente codificata e caratterizzato da alterne condizioni di contesto. Le strategie di trasformazione adottate nei tre progetti sperimentano alternative ipotesi di densità modulate; introducono forme di agricoltura e orti urbani (utili a favorire l’autosufficienza degli insediamenti) oltre che aree mercatali e attrezzature di uso pubblico, con nuove centralità e servizi locali, al fine di ridurre gli attuali flussi di merci e persone verso le aree più centrali. I progetti interni alla città consolidata intervengono su due tessuti morfologicamente differenti, assumibili a ‘modello’ per altre aree che restituiscono analoghe condizioni di contesto. Il primo progetto (Figura 8) interessa la ‘città pianificata’ (esito dell’applicazione dei ‘piani’ generali predisposti nel tempo) per la quale il nuovo masterplan prevede la densificazione con notevole aumento del carico urbanistico. Il tessuto edilizio esistente, composto per isolati regolari con case su lotto a ridotto sviluppo in altezza (uno/due piani fuori terra) e servito da una trama viaria isotropa, viene modificato a partire dalla 6
Il programma ‘Laboratori Metropolitani’ è un ciclo di workshop internazionali rivolti a studenti delle facoltà di architettura e pianificazione istituito con l’obiettivo di studiare casi metropolitani contemporanei interessati da rapida espansione/trasformazione, estranei alla gerarchia consolidata delle città europee e sospesi tra nuovi scenari globali e autocostruzione. Nel caso di Dar es Salaam, il focus principale di ricerca è stato la verifica dei modi in cui interventi di valorizzazione delle emergenze paesaggistiche e dei brani di naturalità interni alla città consolidata, in rapporto alla modificazione delle infrastrutture di servizio e dei tessuti edilizi esistenti, si rendono motori di trasformazione e riqualificazione, generatori di nuove centralità e della qualità dell’abitare. La lettura delle dinamiche correnti è stata ‘filtrata attraverso i più ampi paradigmi entro cui si declinano i rapporti tra paesaggio-città-infrastruttura, centro-periferia, formaleinformale, autocostruzione-pianificazione.
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I progetti redatti da un gruppo di studenti dell’Università IUAV di Venezia e della Ardhy University di Dar es Salaam saranno esposti presso la sede della municipalità di Dar es Salaam e, nell’occasione della stessa, saranno organizzati workshop e attività partecipate con la cittadinanza e i tecnici locali. Ciò nel duplice obiettivo di discutere preventivamente il piano e verificarne, con la partecipazione dei cittadini, le possibili ricadute tanto in termini realizzativi quanto di accettazione dei medesimi da parte della cittadinanza. L’occasione dei laboratori partecipati apre peraltro a scenari di formazione dei tecnici locali che dovranno, nella pratica professionale, misurarsi con l’applicabilità dello strumento urbanistico. Si è già fatto cenno alla strutturazione della città ove il nucleo storico risalente al periodo coloniale è ubicato a margine dell’insenatura naturale entro la quale vi è l’area portuale. Da esso si dipanano le quattro strade radiali: due di esse, quelle correnti in direzione nord e sud, seguono la linea di costa; le altre due si sviluppano in direzione nord-ovest e sud-ovest e collegano Dar es Salaam ai principali centri dell’entroterra. Le quattro strade radiali e due strade anulari, di cui la più interna è ubicata a margine del nucleo storico completano il sistema viario principale della città.
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Nuovi paesaggi urbani per la qualità dell’abitare. Infrastrutturare l’informale, pianificare lo sviluppo: il caso di Dar es Salaam
gerarchizzazione delle strade e dalla variazione delle dimensioni degli isolati in tal modo si ‘libera’ spazio per configurare reti di percorribilità pedonale lungo cui disporre attrezzature di uso pubblico e servizi di quartiere secondo le nuove densità edilizie di piano; fasce di naturalità e aree per agricoltura urbana e orti collettivi.
Figura 8. Densificare la città esistente – planimetria di progetto - Morogoro Road (progetto di Filippo Andrighetto, Giulio Mangano)
Il secondo progetto (Figura 9) interessa un brano di città informale, bassa, caratterizzata da tessuto denso ed irregolare, servito da una rete stradale interna capillare ma frammentaria. In risposta alle norme di piano, si prevedono: realizzazione di interventi di ‘leggera’ infrastrutturazione; completamento e gerarchizzazione della viabilità locale al fine di migliorare la percorribilità dell’intero settore urbano; uso di dispositivi architettonici (nello specifico, una sequenza di elementi porticati) a regolarizzazione delle aree mercatali di commercio al dettaglio bordo-strada; moderata ‘densificazione’ edilizia lungo le strade carrabili il cui controllo , per quantità e localizzazione, è reso possibile proprio attraverso l’uso dell’elemento ‘portico’; creazione di spazi collettivi e di micro-centralità, entro cui localizzare servizi e attrezzature di quartiere, e loro collegamento alla rete ambientale; valorizzazione delle emergenze paesaggistiche mediante messa a sistema della vegetazione esistente lungo le linee di percolazione delle acque piovane e delle aste fluviali torrentizie composte in forma di ‘depressioni’ orografiche che si alimentano nelle stagioni delle piogge, anche integrata con aree per orti urbani; liberazione dei sedimi alluvionabili occupati da edificazione abusiva e delocalizzazione delle relative volumetrie in aree prossime alle nuove centralità di quartiere.
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Figura 9. Attrezzare l’informale – planimetria di progetto - Morogoro Road (progetto di Francesco Bonomo, Alberto Favaro)
Il progetto Kibamba satellite city (Figura 10), a 20km dal centro, in un’area in cui la municipalità ha già avviato interventi di smantellamento di un insediamento informale di formazione recente, occupa un sedime di 1.000 ha e prevede la realizzazione di nuove residenze e relativi servizi per 200.000 abitanti secondo previsioni di piano. Il masterplan della nuova città satellite si propone quale schema di impianto urbano utile a definire alcuni criteri generali di accessibilità, percorribilità interna, dotazione infrastrutturale, localizzazione delle funzioni (principalmente residenza e servizi con particolare attenzione alla mixitè a introdursi). Il progetto di impianto Giuseppe Caldarola, Roberta Bartolone
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Nuovi paesaggi urbani per la qualità dell’abitare. Infrastrutturare l’informale, pianificare lo sviluppo: il caso di Dar es Salaam
della città satellite è strutturato a partire dal disegno della maglia infrastrutturale che fungerà da ossatura di distribuzione interna e cerniera di connessione con la Morogoro Road, una delle strade principali della rete esistente e che in quel tratto assume il carattere di infrastruttura di servizio territoriale, (il raccordo tra questa, la trama viaria urbana principale e i sistemi di trasporto pubblico è ottenuto mediante l’inserzione di una ‘rodoviaria’ a margine dell’infrastruttura e in grado di configurare ‘architettonicamente’ il margine urbano e l’interfaccia con l’infrastruttura e il paesaggio circostante). Il progetto propone differenti tipologie di tessuti a differenti densità con aree destinate ad una ‘controllata’ autocostruzione, aree attrezzate a servizi a scala urbana e micro-centralità locali, aree di tutela ambientale disposte in continuità spaziale, frangia urbana a raccordarsi con la naturalità del paesaggio circostante.
Figura 10. Masteplan per la città satellite di Kibamba (progetto di Maria Vittoria Bosi, Silvia Cittadin, Alberto Manzardo, Linda Simionato)
Bibliografia
Bersani E., Bogoni B. (2001), Living in developing countries Dar es Salaam Abitare nei paesi in via di sviluppo, Tre Lune Edizioni, Mantova. Brennan J. R., Burton A., Lawi Y. (2007), Dar es Salaam. Histories from an emerging African metropolis, Mkuki na Nyota, Dar es Salaam. Casamonti M., Giberti M. (2012), Habitar a comunidade. Estratégias de intervencao nos sistemas urbanos espontaneos: Babilonia e Chapéu Mangueira no Rio de Janeiro, Forma edizioni, Poggibonsi. Jatta Antonio (a cura di, 1985), Il territorio da Costruire, Edizioni Dedalo, Bari. Gilles Sutton J. E. (1970), Dar es Salaam. City, port and region, Tanzania, notes and records, volume 71, Tanzania Society, Dar es Salaam. Markes S. (2011), Street Level, Mkuki na Nyota, Dar es Salaam. Muzu S. (2009), Contemporary Dar es Salaam, Mkuki na Nyota, Dar es Salaam. Giuseppe Caldarola, Roberta Bartolone
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Nuovi paesaggi urbani per la qualità dell’abitare. Infrastrutturare l’informale, pianificare lo sviluppo: il caso di Dar es Salaam
Struyven I., Van Vechgel S. (2009), The book of Dar, Regal printing limited, Hong Kong. Sykes L., Waide U. (1997), Dar es Salaam. A dozen drives around the city, Mkuki na Nyota, Dar es Salaam.
Riconoscimenti
Il presente testo contiene gli esiti di ricerca e progetto di ‘Laboratori Metropolitani – Dar es Salaam’ avviato a partire dal mese di settembre 2012. Il programma si è strutturato in una prima fase preparatoria, consistente in un ciclo di conferenze introduttive dei proff. Benno Albrect, Roberto D’Agostino, Enrico Fontanari presso l’Università IUAV di Venezia; in una fase di viaggio studio e workshop presso la Ardhy Uneversity di Dar es Salaam dal 28 settembre al 15 ottobre 2012; in un laboratorio di progettazione presso la Fondazione Masieri a Venezia nei mesi di ottobre-dicembre 2012. Il comitato scientifico è composto dai docenti Aldo Aymonino, Fernanda De Maio, Enrico Fontanari dell’Università IUAV di Venezia, e dal prof. Camillus Lekule della Ardhy University di Dar es Salaam. Alle attività di workshop hanno partecipato gli studenti Filippo Andrighetto, Francesco Bonomo, Maria Vittoria Bosi, Silvia Cittadin, Alberto Favaro, Godfrie Liberatus Mrena, Giulio Mangano, Alberto Manzardo, Linda Simionato che hanno elaborato i progetti presentati in questo paper sotto la supervisione dei docenti del comitato scientifico e dei tutor Giuseppe Caldarola e Roberta Bartolone. I materiali cartografici e di piano su cui sono state condotte le fasi analitiche e progettuali sono stati resi disponibili dal prof. Enrico Fontanari e dall’arch. Roberto D’Agostino componenti l’unità italiana del team internazionale che sta redigendo il nuovo masterplan della città di Dar es Salaam.
Giuseppe Caldarola, Roberta Bartolone
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Condividere. Archicamp Lomé 2012: come le N.T.I.C. modificano le pratiche.
Condividere. Archicamp Lomé 2012: come le N.T.I.C. modificano le pratiche Eleonora Cuscinà Sapienza Università di Roma Dipartimento di Ingegneria Civile Edile Ambientale Email: eleonora.cuscina@yahoo.it 338 29 27 256
Abstract Lo sviluppo delle N.T.I.C. ha innescato importanti modifiche nelle pratiche relazionali, nuove domande sociali e innovative pratiche spaziali. Il concept di uno spazio di lavoro digitale e condiviso ha origine nella cultura open source comune all’hacker, al blogger, all’artigiano e al mastro costruttore. “Open source” è la cultura tradizionale del villaggio africano, che non conosce la proprietà e si fonda sulla libertà del fare per la comunità. Il centro digitale è un luogo in cui il mondo del fare e quello del digitale convivono: un coworking space, un maker space, un fablab, un agricultural space. Dall’imprevedibile incontro tra diversi si scopre che la diversità è solo apparente. I principi di un hacker francese, formato al M.I.T e all’Olivetti, sono profondamente simili ai principi di un maçon taberma di Niamtogou, un villaggio nel nord del Togo: l’ideologia open source e la non proprietà della casa, la condivisione libera dei mezzi e del sapere, la modestia dei mezzi e l’ambizione delle idee. Da questi principi è possibile auto costruire un centro che sia un luogo di auto costruzione, di lavoro e di condivisione. Parole chiave Incubatore, Condivisione, Rete
1 | Introduzione al concept progettuale Perché pensare, nel 2012, ad un progetto di tre centri digitali (tre coworking-spaces intorno al mondo dell’alta tecnologia informatica) a Lomé, la capitale del Togo, un paese dell’Africa dell’ovest, opera evidentemente non urgente rispetto ad altre opere dalle infrastrutture ai servizi secondari?_ Evidentemente perché non si tratta di un semplice centro polivalente per il digitale, bensì di una sfida ambiziosa, concettuale, progettuale e soprattutto sociale. Un coworking-space è un spazio di lavoro condiviso, in cui diverse figure professionali ( il professionista, l’artigiano, l’artista) svolgono le proprie specifiche attività e usufruiscono dello stesso spazio di lavoro, degli stessi mezzi (elettricità, connessione internet, macchine e materiali primari). Alla condivisione del luogo fisico e dei mezzi si aggiunge la condivisione delle relazioni, infatti la vicinanza favorisce lo scambio di contatti e permette la creazione di un network di fiducia. L’architetto avrà bisogno di un grafico per la visualizzazione del progetto, di un artigiano per la realizzazione e così via. Il social network così delineato può essere valorizzato dal social network virtuale ed in genere potenziato dal mondo digitale. Inoltre un centro digitale può essere un sistema totalmente auto-costruito, auto-finanziato ed auto-gestito, a partire da un singolo edificio come nel caso del primo sito _basket_ dell’atelier Archicamp Lomé 2012, passando per un villaggio come nel caso del secondo sito _baia_, per finire con un intero quartiere come nel terzo sito _laguna_. L’Archicamp Lomé 2012 é la prima edizione di una serie di laboratori in Africa proposti da l’Africaine d’Architecture. L’Africaine d’Architecture é una piattaforma, , nata nel 2010, per ricerca sull’architettura e sulla città africana con un approccio originale, che ragruppa antropologi, artisti, professionisti ed imprenditori locali per lo sviluppo. Thomas Sankara, un leader africano che come tanti ha lottato contro la schiavitù, disse: “Même si certains pensent que c'est impossible, toi, crois simplement à ta vision, mets toi au travail et ton rêve Eleonora Cuscinà
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deviendra réalité. Oui, utopie hier, rêve aujourd'hui, réalité demain.” (“Anche se gli altri pensano che sia impossibile, tu, credi semplicemente alla tua visione, mettiti al lavoro ed il tuo sogno diventerà realtà. Si, utopia ieri, sogno oggi, realtà domani.”). E di un’utopia stiamo parlando, nell’età della grande crisi economica il progetto propone un modello alternativo al modello capitalistico che quella stessa crisi ha generato. Un modello utopico già ieri, sogno oggi e realtà domani. _Non è forse la visione di un modello alternativo ciò che il progettista è chiamato a pensare_ I trenta creativi sono stati chiamati a progettare un coworking space, l’obiettivo del progetto era immaginare uno spazio per il lavoro, il tempo libero, la tecnologia, l’informazione e la comunicazione, realizzando questo spazio con mezzi presenti in loco, senza finanziamenti e con le tecniche costruttive locali. Gli spazi di lavoro condiviso sono stati definiti hub-incubatori per indicare tutti i contenitori del fare virtuoso: hacker space, wifi space, fablab, maker space e agricultural space. L’hacker space è uno spazio di lavoro per gli hackers, il termine coniato negli anni Sessanta negli Stati Uniti è traducibile in italiano con il termine “smanettone”. Il termine ha oggi un’accezione negativa e viene usato per descrivere il pirata informatico, che invece tecnicamente si chiama cracker. Maurin D. è un hacker, formato al M.I.T., ha lavorato alla Olivetti in Italia per alcuni anni, oggi insegna all’ENSCI e lavora liberamente in uno squatt: il Black Box a Parigi nei pressi della Gare du Nord. La sua definizione di hacker è quella del genio dell’informatica, un appassionato, un ricercatore, un innovatore, capace di manomettere un oggetto materico o virtuale, di trasformarlo e di dargli una seconda vita. L’hacker crea oggetti, migliora il software e condivide il proprio sapere con gli altri. Tra i più celebri hackers è Richard Stallman, anche lui ricercatore al MIT, ha partecipato al processo di nascita del personal computer e poi alla creazione di un free software, ossia un software gratuito e libero dalla proprietà e dagli interessi dei privati. Maurin D., durante l’Archicamp ha installato una stampante 3D insieme a giovani discepoli: abitanti del quartiere, programmatori dell’università e bloggers della città. Il wifi-space è un luogo in cui è possibile avere un libero accesso alla rete internet, gli utenti sono i bloggers, ma anche l’abitante del quartiere che può farne un uso culturale con gli e-book, di ricerca con wikipedia, sociale con i social network come facebook. I bloggers sono quei conoscitori dell’informatica che costruiscono un proprio sito ad uso relazionale, in africa il termine blogger è più generale ed indica colui che usa i social network come twitter anche a scopi lavorativi. In genere i wifi-spaces possono essere interni ad edifici, ma anche open-door. La piazza dell’occidente è luogo dell’incontro e dello svago, lo spazio open door digitale per Lomé è una piazza che deve essere progettata a partire dall’uso di internet come mezzo di relazione. Il fab-lab è un spazio di costruzione, di artigianato come un maker-space, che a questo aggiunge l’uso del mezzo digitale. Macchine come la stampante 3D, vengono costruite materialmente, in genere con materiale gettato e poi riciclato. La costruzione è accessibile a tutti grazie ai software open source. La programmazione permette l’utilizzo della macchina, attraverso comandi nel linguaggio informatico: Java, C, C++ e Wiring di Arduino. Nel caso della stampante 3D, la macchina può essere comandata anche da programma di grafica 3D di tipo vettoriale ed il movimento della macchina segue i punti del disegno tridimensionale. Il risultato è un oggetto tridimensionale in plastica, un ingranaggio meccanico che a sua volta servirà per costruirne un altro pezzo e poi ancora un altro in un processo virtuoso a catena. Il maker-space e l’agricultural-space sono i luoghi del fare dell’artigianato e dell’agricoltura. Nel make- space è possibile incontrare dei carpentieri che incidono il legno, degli scultori, dei fabbri, dei ceramisti, dei produttori di pavimenti, dei pittori, dei ballerini, dei cuochi, ecc.. L’agricultural-space è un parco agricolo in cui coltivare i prodotti locali per il sostentamento, i materiali per la costruzione, le piante medicinali, le piante desanilizzante, le piante purificanti, ecc.. Tutti questi laboratori del fare sono collegati al mondo digitale direttamente o dal digitale possono essere valorizzati. L’ambizione del concetto si confronta con la modestia della tradizione, in un dialogo alla pari tra high-tech e low-tech, tra virtuale e materico, tra ambizione e modestia, tra grande e piccolo. Il progetto architettonico è rispettoso della tecnica tradizionale dei maçon taberna dei villaggi del Togo e del Benin, che battono la terra con l’acqua, intonacano con la bava di mucca ed incidono le pareti per le decorazioni. I materiali utilizzati sono i materiali poveri e reperibili: terra cruda, legno e paglia. La tradizione africana è la chiave di lettura del progetto, l’anima del concetto, il contenuto che dà colore e forma al contenitore: l’assenza di proprietà, il rispetto per le gerarchie, l’abitudine alla condivisione, la capacità di riciclare, il tempo elastico, la ricerca dell’unità ossia di un insieme totalizzante che dia senso al tutto. _Cosa è la costante ricerca di un dialogo alla pari tra elementi apparentemente diversi se non proprio la ricerca dell’unità?_ La ricerca del dialogo con la diversità è probabilmente il motore che ha spinto ognuno dei partecipanti a partire ed intraprendere un lungo viaggio, cercarsi e riconoscersi come diversi, scontrarsi e di nuovo incontrarsi, per tornare a casa con la consapevolezza che nella diversità si ritrova se stessi. Dall’imprevedibile e apparente scontro tra diversi, si arriva a scoprire che i principi di Maurin D., un hacker formato al M.I.T., sono profondamente simili ai principi di un maçon di Niamtogou nei pressi di Kara nel nord del Togo,: la non proprietà della casa e l’ideologia open source , la condivisione libera dei mezzi e del sapere, l’ambizione delle idee e la modestia dei mezzi. Eleonora Cuscinà
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Il Togo, in quanto Stato membro delle Nazioni Unite, risponderà all’appello del 2012? Le Nazioni Unite hanno stabilito che tutti i cittadini devono avere gli stessi diritti online e offline, a partire dalla libertà di espressione. In pratica le U.N. hanno dato valore di luogo alla rete, esortando gli Stati membri “a promuovere e facilitare l’accesso ad Internet”. Investire dei soldi per lo sviluppo dell’uso della rete è un obiettivo di molti paesi occidentali, tra questi la Francia e l’Italia. Molte Regioni italiane hanno investito 30 milioni negli anni passati e altri 30 milioni sono previsti per gli anni tra il 2014 ed il 2020. Molti Comuni italiani stanno attualmente discutendo per approvare o respingere l’inserimento nello statuto del concetto di “Internet Bene Comune”. L’Africaine d’architecture o.n.g. e l’associazione Nativ (New African Technologies of Information and Vitality ) con la realizzazione dell’archicamp e del blogcamp di Lomé 2012, hanno affermato il diritto dell’Africa a competere, compiendo il primo passo di un percorso il cui obiettivo, a breve termine, sarà il Festival Lomé 2015. L’evento giustificherà la costruzione di uno dei tre spazi di lavoro collaborativo, come celebrazione del luogo virtuale per eccellenza: le rete. La rete internet è luogo di possibilità economica, di ricerca e di crescita. E’ di fatto un bene comune che garantisce il dialogo, il confronto e la democrazia. E l’Africa, con Lomé capitale del Togo deve e può cogliere questa opportunità.
Figura 2. La stampante 3D. Un giovane ne apprende l’uso, egli sarà parte della comunità che gestirà il fablab di Lomé..
2 | Il popolo della rete in Togo I partecipanti (una trentina di creativi, antropologi, grafici, architetti ed ingegneri) hanno lavorato nell’arco di tre settimane a questo progetto sociale, che in quanto tale si riferisce ad un target umano specifico: il popolo dei numeri in Africa. Intorno al popolo dei numeri il progetto costruisce una nuova identità sociale, gli spazi di condivisione promuovono momenti di socialità e contribuiscono alla crescita culturale e civile dell’intera comunità del quartiere. Ciascuno dei tre siti assume una vocazione funzionale a seconda delle caratteristiche della comunità del singolo quartiere. La partecipazione ad attività culturali nei tre luoghi di lavoro condiviso si caratterizza così in diverse attività: lo sport per il sito del basket; l’educazione per il sito della baia ben collegata con il polo universitario; il divertimento e la sanità per il sito della laguna nei pressi del primo ospedale della capitale. La condivisione è un’espressione delle migliori forze che operano nella società e che vedono l’uomo, e le sue esigenze, al centro di un percorso positivo. Espressione di forze che portano energia, solidarietà, cultura ed in generale sviluppo. _Chi è il popolo della rete intorno a cui i tre coworking-spaces costruiscono una comunità?_ Per rispondere a questa domanda durante l’atelier abbiamo intervistato direttamente bloggers, hackers ed informatici dell’Università di Lomé con lo scopo di determinane il carattere, le potenzialità, le debolezze ed infine gli obiettivi rispetto al progetto. La comunità dei numeri della capitale è numerosa, costituita prevalentemente da giovani, universitari, liberi professionisti ed imprenditori. La buona conoscenza del mezzo digitale e delle sue applicazioni, delle tecniche di informazione e comunicazione, dei mezzi open source e delle Eleonora Cuscinà
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applicazioni Android la rende potenzialmente capace. L’Africa occidentale é stata connessa dal 2000 con unico cavo, il GLO-1, che univa Londra con le coste africane dal Marocco alla Nigeria. Il cavo Main One ha migliorato la situazione, partendo dalla Spagna e coprendo le stesse coste. Il cavo Ace a partire dal 2011, ha finalmente connesso la Francia con tutte le coste dal Marocco fino al capo del Su Africa. Infine il WACS o cavo a fibra ottica, che da Londra serve le coste dell’Africa ’occidentale, a partire dal’Ottobre del 2011, ha reso la connessione potente. L’incontro tra preparazione e mezzo, a partire dal 2012, ha reso possibile una presenza forte della comunità africana nelle risorse digitali mondiali : facebook, twitter, blog. Inoltre abbiamo rilevato una forte potenzialità di sviluppo, infatti gli esperti del settore svolgono intense attività pedagogiche ad ingresso libero, nelle università, al BTS e nel Campus Numerique Francophone. _Criticità emerse dalle interviste?_ La criticità emersa è l’invisibilità culturale del popolo dei numeri; infatti, se pur attivo, questo movimento resta chiuso tra esperti del settore a causa della difficoltà culturale della materia. Non è un problema esclusivamente africano, di fatto non è chiaro cosa sia un centro digitale, manca l’informazione sul tema. Ne consegue una ignoranza in materia, che favorisce la distanza e la separazione del popolo dei numeri dal resto della comunità, da cui lo sviluppo di luoghi di incontro non ufficiali e di mezzi di diffusione non sempre legali. A livello politico non ci sono investimenti per questo settore. Alla invisibilità culturale consegue una invisibilità sociale, non esiste una identità di gruppo in cui riconoscersi, non si ha la forza politica per rivendicare dei diritti o anche rispettare dei doveri. Riflettendo sul tema della invisibilità del popolo dei numeri e della mancanza di identità nasce un parallelismo rispetto alla invisibilità fisica del territorio di frontiera in cui si trovano i tre siti di progetto. Il terreno del basket è nascosto da un rumoroso incrocio stradale; la baia è una bella immagine veloce che si percepisce in movimento dalla strada; la laguna, bellezza panoramica inestimabile, potrebbe aspirare ad avere ben altra identità a livello urbano che quella di discarica abusiva in cui attualmente versa. Inoltre la mancanza di visibilità fisica e l’abbandono in cui versano questi tre siti ha favorito lo sviluppo di numerose attività informali che si intrecciano alle attività formali in un gioco tra città formale e città informale tipicamente africano, ma anche tipicamente mediterraneo. Visibile/invisibile, legale/illegale, formale/informale, di nuovo siamo davanti al gioco dei contrari, di nuovo alla ricerca dell’unità. Il progetto del coworking-space trova un equilibrio tra il formale e l’informale, nella condivisione, che permette di rispettare la città formale e di dar voce alla città informale nel rispetto delle gerarchie. La costruzione di un luogo della condivisione per la comunità, della partecipazione per il quartiere, della formazione per lo sviluppo del digitale, del lavorare per gli esperti, crea un’identità sociale nuova. La nuova identità di gruppo permette di riconoscersi, includere e crescere. La costruzione di una rete di persone con simili obiettivi, costruisce un gruppo sociale che quindi può rivendicare dei diritti da un lato e partecipare positivamente alla vita cittadina, in uno scambio di bene comune tra il popolo dei numeri e la città di Lomé. Il progetto mobilizza il popolo dei numeri, che offre le potenzialità della rete e gli spazi di lavoro condiviso a servizio della città, come risorsa all’avanguardia per la capitale del futuro.
3 | Il Progetto di una rete urbana “Lomé in rete” Premesso che il tempo dedicato al progetto urbano, ma soprattutto la mia limitata conoscenza di Lomè non mi permette di parlare di un vero progetto urbanistico, da qui in avanti con il termine “progetto” intenderò un progetto di intenti per un possibile metodo di lavoro. Tale progetto urbano vuole far intravedere la possibilità di mettere a sistema i tre siti per creare un’energia di scambio tra il popolo dei numeri e la capitale. Proponiamo il nome “Lomé in rete” ad indicare un sistema di sinergie positive per una città moderna in uno spirito democratico. _Cosa è il progetto di una rete urbana?_ Un progetto di una rete urbana consiste nel mettere a sistema i servizi primari e secondari. La parola sistema ricorda un approccio organico, infatti la città è come un organismo vivente in cui ogni servizio è come uno specifico organo. L’organismo è costituito da vari organi, tutti gli organi hanno una funzione importante, ma è il sistema che permette a tutti gli organi di funzionare contemporaneamente, ossia le relazioni tra le parti e le connessioni. Allo stesso modo, la città è un sistema che funziona se vi sono delle infrastrutture come i collegamenti del trasporto, le strade carrabili e i percorsi pedonali. Le infrastrutture servono a connettere i servizi comuni: le scuole dalle primarie a quelle di livello urbano come l’università, le strutture sanitarie dal pronto soccorso all’ospedale urbano, le attrezzature per l’incontro dal cyber caffè al centro digitale ed i luoghi del divertimento all’aperto dal giardino al parco urbano. Dall’analisi di potenzialità e criticità del popolo dei numeri a Lomé, abbiamo definito degli obiettivi generali a partire dalla necessità di costruire un polo culturale del digitale con degli spazi specializzati, forniti di mezzi tecnologici all’avanguardia e dedicati al lavoro, alla formazione e all’incontro. Questi luoghi devono essere attrattivi nelle funzioni e nella forma architettonica, per raggruppare la comunità digitale africana attiva, divulgare la conoscenza del settore, formare figure di esperti e attrarre la cittadinanza passiva.
Eleonora Cuscinà
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In pratica questi poli culturali devono essere generatori di energia. Per questo è necessaria una rete, perché il servizio ben connesso sarà attrattore di forze, di nuove attività e di nuove energie alla scala del quartiere. Queste forze permetteranno di generare un’energia alla scala urbana, che a sua volta sarà valorizzata dalla presenza di più centri digitale messi a sistema, ognuno con una propria vocazione. Alla scala globale il polo digitale deve connettere il popolo dei numeri africano con la comunità digitale mondiale. Alla scala territoriale devono attrarre i cugini del Ghana ad investire, generando scambi culturali, sociali ed economici lungo la frontiera. Alla scala urbana devono generare sviluppo per la città, favorendo lo scambio culturale, sociale ed economico tra i diversi attori. Infine alla scala di quartiere il polo digitale ha il ruolo di coworking space, uno scambiatore di energia capace di attrarre le attività e gli usi del quartiere e poi valorizzarli attraverso il digitale, generando ulteriore energia in un processo dinamico. Il progetto “Lomé in rete” è un progetto culturale, sociale e fisico. Un progetto culturale perché una attività pedagogica ed etica è necessaria per costruire un’identità ed una coscienza di gruppo, per costruire una comunità altamente preparata, professionale e fiduciosa nei propri mezzi. Un progetto sociale segue quello culturale. Infatti, costituita una comunità, si dovrà procedere a costruire un sistema di diritti e di doveri. Il gruppo avrà così la capacità di riconoscere le proprie esigenze, rivendicare i propri diritti e partecipare alla vita cittadina. Il progetto fisico prevede la costruzione di una rete che metta a sistema i tre centri digitali, attraverso connessioni fisiche: un sistema della viabilità carrabile privata (macchine, moto), un sistema della viabilità carrabile pubblica (moto taxi, car sharing) e un sistema della viabilità pedonale . Infine il progetto vuole dare visibilità fisica a queste connessioni per disegnare l’immagine del popolo del digitale della città: segnaletica dei tre centri digitali con un’immagine visuale per ogni singolo centro; segnaletica comune per i cyber caffè; segnaletica comune per le fermate del trasporto pubblico; illuminazione notturna caratteristica per il boulevard che connette i tre coworking spaces di progetto. La visibilità viene quindi costruita lunga la strada perché è questo lo spazio aperto della città africana, uno spazio in movimento in cui le attività e gli usi della vita in comune si svolgono camminando:lo spazio del camminare.
Bibliografia Dominique Sewane, Les Batammariba le peuple voyant, La Martinière, 2004 Marcel Mauss, Saggio sul dono Marco Aime e Anna Cossetta, Il dono al tempo di internet, Einaudi Editore, 2010 Sitografia http://www.lafricainedarchitecture.com/ http://ong-nativ.org/ http://dnarchi.fr/pedagogie/archicamp-lome-atelier-de-conception-de-co-workingspaces-en-afrique/ http://www.liebebat.com/concours/ http://cditogo.wordpress.com/2012/07/23/archicamp-lome-2012-un-atelier-international-surlarchitecture-et-les-nouvelles-technologies/#more-281 http://www.africultures.com/php/index.php?nav=article&no=10926 http://adzimawhite.blogspot.fr/2012/08/petit-tour-larchicamp-de-lome-archicamp.html http://lordfera.blogspot.fr/2012/08/archicamp-lome-2012-premiere-edition.html Riconoscimenti
Si ringrazia l’Africaine d’architecture o.n.g. per l’esperienza proposta, per l’idea progettuale proposta e per la passione nel lavoro di sperimentazione sull’architettura africana.
Eleonora Cuscinà
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Saint Lous du Sénégal. Strategie urbane e progetti per la ricostruzione di una metropoli regionale africana
Saint Lous du Sénégal. Strategie urbane e progetti per la ricostruzione di una metropoli regionale africana Romeo Farinella Università di Ferrara Lab. CITER - Dipartimento di Architettura Email: fll@unife.it Tel: 0532 293626 – 248 6505986 Alice Clementi Università di Ferrara Lab. CITER - Dipartimento di Architettura Elena Dorato Università di Ferrara Lab. CITER - Dipartimento di Architettura Marco Marcelletti Università di Ferrara Lab. CITER - Dipartimento di Architettura Riccardo Torresi Università di Ferrara Lab. CITER - Dipartimento di Architettura Clelia Zappalà Università di Ferrara Lab. CITER - Dipartimento di Architettura
Abstract Il presente contributo affronta le problematiche urbanistiche di Saint Louis du Sénégal. Si tratta di una città coloniale costruita dai Francesi nella fascia subsahariana dell’Africa occidentale. Inserita dall’UNESCO nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità, la città è cresciuta in un sito straordinario quale il delta del fiume Senegal. Tale contesto rappresenta un’opportunità ma anche un fattore di rischio e degrado a causa dei cambiamenti climatici, della forte pressione edilizia, del degrado generato dalla proliferazione dei rifiuti, problemi ai quali la comunità locale cerca di dare risposte attraverso le proprie procedure di pianificazione urbana e territoriale. La ricerca presentata è maturata all’interno di alcuni programmi di ricerca europei e di ateneo e si è interrogata sulle problematiche e sulle modalità di un processo di riqualificazione urbana condotto in collaborazione con la comunità locale e le istituzioni, cercando di fornire risposte progettuali a indicazioni contenute nei documenti strategici e di piano della città. Parole chiave Riqualificazione urbana; città africana; città d'acqua.
Romeo Farinella, Alice Clementi, Elena Dorato, Marco Marcelletti, Riccardo Torresi, Clelia Zappalà
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Saint Lous du Sénégal. Strategie urbane e progetti per la ricostruzione di una metropoli regionale africana
Premessa Può una città come Saint-Louis du Sénégal quotidianamente oscurata dai tagli di elettricità; invasa dai rifiuti nelle strade e dai sacchetti di plastica neri impigliati tra i rami dei baobab; con un patrimonio architettonico e urbano che cade a pezzi, nonostante la sua strumentazione urbanistica di buon livello; con un traffico totalmente dipendente da un trasporto privato, altamente inquinante e che non sfrutta per nulla le opportunità costitute dalle sue acque; con, infine, quartieri informali cresciuti in territori fragili e a rischio idraulico; può, dicevamo, una città con questi problemi diventare entro il 2030 una città sostenibile? Questa è l’ambiziosa scommessa che ritroviamo nel documento strategico dell’amministrazione “Saint-Louis 2030: Nouvelle Metropole Africaine”, derivato dall’esperienza dell’associazione “Atelier International de Maitrise d’Oevre Urbaine” e che è stato oggetto della ricerca progettuale presentata in questo contributo, condotta da un equipe del laboratorio CITER dell’Università di Ferrara, in collaborazione con il Laboratorio Leidi dell’Université Gaston Berger de Saint-Louis e l’Amministrazione Comunale.
L’urbanizzazione di un continente e il caso di Saint-Louis Il continente africano è stato per molto tempo considerato come un territorio essenzialmente rurale. La spinta verso l’urbanizzazione inizia con la sua colonizzazione ed oggi l’Africa sta ingrandendo le sue città ad un ritmo eccezionalmente rapido. I tassi di urbanizzazione sono molto intensi e distribuiti in maniera ineguale, interessando sia aree di antica urbanizzazione, come la fascia mediterranea, che i siti la cui urbanizzazione inizia con l’avventura coloniale, come la fascia sub-sahariana e tropicale occidentale. Un recente rapporto sulle città africane stima, per i prossimi 40 anni, una triplicazione della popolazione urbana; nel 2010 questa era stimata appena sopra la soglia dei quattrocento milioni di abitanti, ma nel 2050 supererà quella del miliardo e duecentomila. Il processo di urbanizzazione dell’Africa è riconducibile a tre situazioni: la civiltà urbana dell’Africa mediterranea, la colonizzazione dell’Africa australe e quella dell’Africa sub-sahariana e inter-tropicale; è in quest’ultima che ritroviamo Saint-Louis. Le città costiere dell’Africa occidentale sono state costruite per rispondere a differenti necessità, tra le quali possiamo annoverare: il controllo politico/amministrativo del territorio, la raccolta e l’esportazione dei prodotti locali (come l’arachide e la gomma arabica) e del sottosuolo e anche la costruzione di scali per l’organizzazione della “tratta atlantica degli schiavi”, una pratica che tra il XVI e il XIX secolo ha sradicato tra i 9 e i 12 milioni di africani dal loro continente (Sinou e Poinsot, 1998). Non casualmente tali città vengono definite anche villes comptoires (Sinou, 1993). Saint-Louis du Sénégal (Ndar in lingua Wolof) fu fondata dai francesi a partire dal 1659 come scalo commerciale e fu contesa, a più riprese, dagli Inglesi. Per la costruzione del primo fortilizio fu scelta l’isola di Saint-Louis, nel tratto terminale dell’estuario del fiume Senegal e prossima al cordone costiero della Langue de Barbarie. La città fu capitale dell’Africa Occidentale Francese (AOF) ed oggi è una città dedita prevalentemente alla pesca, al commercio, al turismo e all’agricoltura orticola. La città rappresenta una soglia: confine politico tra il Senegal e la Mauritania, confine naturale tra il mare e il fiume e ancora tra il deserto, che avanza, e la brousse. La sua decadenza inizia con la perdita del ruolo di capitale dell’AOF prima (1902) e del Senegal poi (1957). Oggi la sua popolazione è di circa 170.000 abitanti, ma le previsioni demografiche ipotizzano il superamento, nel 2030, della soglia dei 500.000 abitanti. La densità abitativa è rilevante ed è una delle più alte di tutta l'Africa; nel quartiere di Guet Ndar vivono circa 35.000 abitanti, con una densità di 8.500 ab/kmq. La famiglia senegalese risente ancora di un’organizzazione polinucleare che, aggiunta alla pratica ancora diffusa e lecita della poligamia, rafforza la propensione al raggruppamento familiare.
Strategie urbane e progetti per la costruzione di una metropoli regionale Le scommesse che impegnano la città appaiono certamente affascinanti e difficili allo stesso tempo. Il declassamento di Saint-Louis da antica capitale a capoluogo regionale ha certamente comportato un declino delle principali funzioni direzionali; in ogni caso il centro riveste ancora oggi un ruolo importante nella geografia urbana del Senegal. Del resto, la città può vantare un patrimonio urbano e dei paesaggi d’acqua che la rendono unica nel panorama dell’Africa Occidentale. Le sfide ambientali, economiche e culturali che essa si trova ad affrontare richiedono la costruzione di una vision in grado di legare strategie generali e progetti urbani specifici: ma quali possono essere i punti attorno cui costruire tale visione? Uno degli interrogativi sul tavolo degli amministratori e della Agence de Développement Communal (ADC) riguarda la programmazione dello sviluppo del territorio e la definizione delle linee di strategia urbana da trasformare in progetti. Le difficoltà risiedono nelle dinamiche convulse di una città che sembra in preda ad una sorta di anarchia urbana. Questa si manifesta in diversi modi: nel non rispetto delle regole che sovraintendono la Romeo Farinella, Alice Clementi, Elena Dorato, Marco Marcelletti, Riccardo Torresi, Clelia Zappalà
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pianificazione urbana, nella difficoltà di gestione degli spazi collettivi e del ciclo dei rifiuti, nell’incertezza riguardante i regimi proprietari causata da incomplete o, in taluni casi, assenti informazioni catastali. Nonostante le mutate condizioni geo-politiche, la città può comunque tornare ad assumere il ruolo di capitale regionale in grado di supportare un progetto di sviluppo sostenibile del territorio terminale del fiume Senegal fondato su: • • • • •
delle politiche ambientali in grado di preservare e valorizzare lo straordinario paesaggio naturale; l’incentivazione di un turismo culturale ed ecologico; un miglioramento dell’accessibilità locale e turistica fondata sull’uso del "piano d’acqua" e sul ripristino della ferrovia; l’uso razionale delle risorse della terra e delle attività della pesca; il potenziamento del ruolo di città culturale e universitaria.
Prospettiva 1: réseau, una rigenerazione che parte dal fiume Le città d’acqua rappresentano oggi uno scenario privilegiato per l’attivazione d’importanti processi di riqualificazione urbana. Tali dinamiche, partendo da interventi su waterfront, aree portuali dismesse, rive e banchine hanno il compito non solo di rivitalizzare porzioni degradate o abbandonate della città, ma anche di riscattare quel legame ancestrale e necessario di questa con la sua componente liquida. Il paesaggio acquatico contamina il tessuto urbano con la fragilità del suo equilibrio e, al contempo, lo qualifica e arricchisce di un fascino unico. Saint-Louis, città-arcipelago, ha ormai perduto il suo vitale rapporto con l’acqua, difendendosi da questa ed escludendola dalle attività di vita quotidiana. La mancanza dell’utilizzo del corso d’acqua nelle pratiche quotidiane rappresenta, al momento attuale, un forte limite per la città e, al contempo, una potenzialità da strutturare e rafforzare nel futuro. Il processo di cui si parla sarà lento e faticoso e dovrà inevitabilmente cominciare da un’azione capillare di sensibilizzazione della popolazione a tale tematica; questo coinvolgimento potrà innescare un processo a macchia d’olio che, partendo dalle sue sponde, arrivi a coinvolgere l’intero sistema urbano. L’impiego più immediato attribuibile al fiume è quello di piano privilegiato per lo sviluppo del trasporto pubblico urbano, superficie perfetta per unire anziché dividere. La rete di trasporto pubblico fluviale RésEAU vuole contribuire al miglioramento della qualità della vita degli abitanti di Saint-Louis e dei turisti che verranno a visitare quest’eccezionale sito patrimonio mondiale dell’umanità. Collegando in maniera diretta tra loro le principali polarità urbane e riqualificando ambiti ormai abbandonati, il piano d’acqua rivive senza tuttavia venire sconvolto nella sua natura dal nuovo traffico; grazie ad imbarcazioni ibride ed attracchi modulari assemblabili in plastica riciclata è garantito il rispetto delle acque e dell’ecosistema fluviale. RésEAU non vuole essere un sistema di mobilità alternativo o sostitutivo a quello esistente, bensì un modo per migliorare l’offerta dei servizi urbani, sfruttando il piano d’acqua per lo spostamento delle persone. Le azioni-chiave che si vogliono gradualmente realizzare con questo intervento sono: • collegare le diverse polarità cittadine e mettere a sistema i nuovi ambiti urbani di riqualificazione; agevolare gli spostamenti di popolazione e turisti riducendone i tempi di percorrenza o, quando questo non sia possibile, assicurare un collegamento costante tra le tre isole -condizione necessaria, ma al momento non garantita poiché l’intero sistema fa perno su due soli ponti-; creare un dialogo tra la popolazione locale e il turista straniero, favorendo un processo culturale di conoscenza reciproca ed integrazione; • risanare dai rifiuti le sponde fluviali e, quindi, l’intera città, trasportandoli via acqua alla discarica, senza permettere che questi passino, su camion, per il centro cittadino; • decongestionare l’incredibile traffico esistente sulle strade rendendo la città più libera dai veicoli, più sicura, più vivibile; contribuire alla diminuzione dell’inquinamento dell’aria e non produrre nuovo inquinamento grazie all’utilizzo di un motore ibrido alimentato dall’energia solare; • riscoprire la bellezza del fiume, della sua storia, della sua importanza; ritrovare un rapporto visivo e fisico con quest’elemento naturale così identitario per la città, innescando un processo di risanamento e riqualificazione delle sue sponde che possa, gradualmente, esser concepito anche come potenzialità per lo sviluppo di un turismo sostenibile. In una realtà in cui i vuoti urbani non sono mai veramente vuoti, in cui la gente vive lo spazio esterno, la strada, molto più di quanto viva l’intimità della propria abitazione, le aree circostanti gli attracchi della nuova rete di mobilità fluviale acquisiscono un grande potenziale: da una piccola azione, come l’inserimento di una nuova funzione o di una minima struttura per supportarla, può allora svilupparsi un processo di rivitalizzazione dello spazio urbano per mano degli stessi abitanti, in maniera pienamente rispettosa dell’identità locale.
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Se la necessità di strutturazione degli spazi, al fine di incentivarne la fruizione, è nulla o perlomeno minima, significa che i processi di rigenerazione di cui stiamo parlando si basano, principalmente, sui flussi, sulle interazioni sociali, sulle dinamiche urbane, tutti elementi che RésEAU mira a potenziare. La polarità scelta come modello d’intervento a scala urbana per l’attivazione di importanti dinamiche di sviluppo sociale e riattivazione economica,.coincide con il lotto dell’ex Intendenza Militare, situato sulla sponda del grande braccio del fiume, nel quartiere nord dell’ex isola coloniale. Il tessuto disomogeneo e ricco di spazi residuali, la morfologia derivante dalle sue primitive funzioni di porto coloniale e area militare, l’ingombrante presenza di uno spazio alieno quale quello dell’avenue Jean Mermoz, la concentrazione di numerose funzioni pubbliche, culturali e turistiche, la numerosa presenza di edifici dismessi o abbandonati e l’onnipresenza di muri e recinti sono alcuni delle principali caratteristiche che ci hanno spinto ad indagare tale ambito urbano. Il fascino del suo ampio fronte fluviale, arricchito dalla presenza dell’antica gru a vapore oggi monumento UNESCO, e dalla splendida vista panoramica sul ponte Faidherbe e sull’intero arcipelago di Saint-Louis sono elementi che vanno a rafforzare la sua vocazione di polarità sia turistica che locale. L’intervento minimo di riqualificazione degli edifici esistenti e il riutilizzo degli stessi come contenitori funzionali porterà alla nascita di nuove interazioni, catalizzate dall’inserimento di un attracco speciale della rete di mobilità fluviale RésEAU. La compresenza di spazi di lavoro, svago e formazione dedicati agli abitanti e di servizi culturali, commerciali e ricreativi rivolti principalmente ai turisti potrà favorire lo sviluppo di un sistema urbano attivo, vivace e sostenibile, capace di guardare al futuro senza il rischio di perdere quella forte ed eccezionale identità che, nei secoli, ha caratterizzato Saint-Louis.
Prospettiva 2: au fil du fleuve, il fiume da limite urbano ad arteria produttiva Questa seconda proposta progettuale, a seguito di un attento studio della struttura urbana coloniale, dell’identità culturale locale e della loro reciproca interazione, propone la riconfigurazione degli argini fluviali del petit-bras del fiume Senegal, diventati oggi margini urbani. Vista la peculiare conformazione geografica della città, il fiume è diventato elemento di separazione e non più piano di connessione tra i quattro settori urbani, sviluppati come sistemi a sé stanti, caratterizzati sia per tessuto urbano che per le funzioni svolte. Per ripensare i margini e trasformarli in arterie del tessuto urbano occorre intervenire sul piano d’acqua, au fil du fleuve. Saint-Louis è una città d’acqua, il cui territorio viene costantemente ridisegnato; l’acqua ha condizionato lo sviluppo degli insediamenti, plasmando l’identità di una comunità fortemente legata al suo paesaggio fluviale. Il controllo delle inondazioni ha condizionato le relazioni tra i diversi settori urbani e l’apertura di una breccia artificiale nel 2003 ha avuto effetti diretti sul paesaggio fluviale e sugli argini interni alla città. L’isola coloniale di Ndar ospita oggi solo il 7% della popolazione e ha perso il ruolo di centro urbano a favore della penisola di Sor, principale sede del settore commerciale e dei servizi. I quartieri della Langue de Barbarie ospitano il 30% della popolazione, quasi interamente impiegata nel settore della pesca artigianale, il più dinamico motore economico della città. La strategia per la valorizzazione della città storica si articola in cinque azioni distribuite sul territorio urbano. Riconnettere la città storica con i nuovi quartieri di espansione tramite una valorizzazione del piano d’acqua per instaurare nuovi rapporti tra le 4 parti di città. La mobilità fluviale viene usata per 4 funzioni: trasporto di merci per scambi commerciali, trasporto di persone per ridurre la dipendenza dal trasporto su gomma e riattivare luoghi marginali rispetto la viabilità attuale, trasporto a fini turistici e infine la raccolta dei rifiuti per mezzo di chiatte. Risolvere i problemi di sovrappopolazione e congestione nei quartieri della Langue de Barbarie tramite un progressivo spostamento degli abitanti verso i villaggi dell’entroterra. L’azione può avere successo solo se va ad instaurare un’integrazione sociale tra i due quartieri: creare un’infrastruttura per sfruttare i terreni fertili e dare l’avvio ad attività agricole. Le attività produttive vengono diversificate e le 2 comunità avviano scambi commerciali sfruttando il nuovo piano di mobilità fluviale. Riattivare e mettere in comunicazione l’isola storica e il quartiere dei pescatori tramite la valorizzazione del petit-bras. Si avvia un processo di rigenerazione con una riorganizzazione delle parti sociali e delle attività produttive che darà ai due argini un ruolo centrale all’interno della città storica. Il nuovo asse diventa una promenade per le attività lavorative e per il tempo libero: un boulevard fluviale che fa leva sul piano d’acqua per una riattivazione della città su più livelli. La promenade si articolerà in sequenze produttive con due polarità agli estremi che vanno ad alimentare il flusso di attività e ad organizzare la pesca e l’agricoltura. Le nuove funzioni sono collegate da una rete di percorsi e dotate delle strutture necessarie. La strategia prevede la diversificazione delle attività produttive tramite il potenziamento dell’agricoltura urbana (microgiardinaggio) e peri-urbana nei quartieri di nuova espansione: potenziare l’agricoltura e creare un centro di formazione per istruire le nuove generazioni sulla coltivazione ed innescare un meccanismo in grado di generare reddito e garantire la sussistenza nei mesi di fermopesca.
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I vuoti urbani sul margine vengono integrati con il percorso creato e con le nuove attività previste. Si individuano dei nuovi collegamenti trasversali all’asse fluviale che generano una rete di connessioni tra le polarità urbane e le due rive del petit-bras. Il percorso pedonale invece, si estende lungo tutto il boulevard fluviale e si articola in una sequenza di infrastrutture e di attività produttive che andranno a potenziare l’economia e a favorire una nuova integrazione sociale tra gli abitanti dei quartieri. La gestione economica e la manutenzione degli spazi viene infatti assegnata alle associazioni di quartiere che vengono integrate e fatte interagire in una struttura unica: il Centro di Quartiere. Il Centro di Formazione è collocato sulla testata nord dell’isola coloniale nell’odierna area militare parzialmente dismessa e si pone come punto generatore del sistema di riqualificazione dell’argine che si articola in una sequenza di spazi adibiti alla coltivazione, al ricovero del bestiame, alla manutenzione delle piroghe, a punti di approdo e verde pubblico. All’interno di questo sistema di aree produttive e di percorsi troviamo i Centri di Quartiere, collocati in corrispondenza dei principali assi di ciascun quartiere e organizzati in uno spazio chiuso, dove sono collocati gli uffici del capo di quartiere e delle principali organizzazioni di gestione del quartiere, ed uno aperto su una piazza coperta utilizzata per riunioni o assemblee cittadine a seconda delle necessità. I Centri di Quartiere gestiscono anche la produzione agricola e l’approvvigionamento idrico degli orti che sono organizzati in spazi per la coltivazione a terra e sistemi a cassetta realizzati con materiali di recupero, replicabili dai cittadini nelle corti e nei vuoti urbani. L’intero intervento è pensato anche in relazione alle fluttuazioni del livello dell’acqua, sono previste infatti zone parzialmente inondabili che ospitano aree verdi e zone non permeabili dall’esondazione utilizzate per la coltivazione e l’allevamento. Nella parte sud la riorganizzazione degli argini comprende spazi lottizzati, dati in concessione ad associazioni di quartiere o a privati, e aree di manutenzione e sosta per le piroghe. All’estremità sud della sequenza urbana è collocato il nuovo mercato del pesce, posto in corrispondenza di un vuoto urbano antistante il Quai de peche, che insieme alle strutture di stoccaggio, riorganizza il sistema delle attività di pesca. Il mercato si organizza in tre spazi coperti di cui due adibiti alla vendita formale e uno dotato di servizi pubblici; i blocchi sono alternati ad un sistema di piazze nelle quali si concentrano i principali flussi di carico-scarico del pesce e le aree di commercio informale.
Bibliografia Belguidoum S. (2002), Urbanisation et urbanité au Sahara; Méditerranée, 3-4: 53-64. Coquery-Vidrovitch C. (1993). Histoire des villes d'Afrique noire : Des origines à la colonisation, Paris, Albin Michel. Pourtier R. (1999), Villes africaines, Documentation Photographique, Dossier n. 8009 : La Documentation Française. Sinou A. (1993), Comptoirs et villes coloniales du Sénégal. Saint-Louis, Gorée, Dakar, Paris, Karthala-Orstom. Sinou A., Poinsot J. (1998), Villes d'afrique noire entre 1650 et 1960, Paris, La Documentation Française.
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La pianificazione in un contesto urbano emergente in Africa a sud del Sahara: la rural town.
La pianificazione in un contesto urbano emergente in Africa a sud del Sahara: la rural town. Riflessioni sui piani di Caia e Sena, Mozambico. Roberta Nicchia Università degli studi di Trento Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Meccanica Email:nicchia@ing.unitn.it Tel/fax +39 0461 282672 Corrado Diamantini Università degli studi di Trento Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Meccanica Email: corrado.diamantini@unitn.it Tel/fax +39 0461 282672
AbstractDa dieci anni sono in corso, ad opera di alcuni urbanisti dell’Università di Trento tra cui gli autori di questo articolo, attività di ricerca, formazione e consulenza nel campo della pianificazione urbana e territoriale nel distretto di Caia, in Mozambico. Queste attività hanno riguardato il capoluogo del distretto, Caia, e un altro centro, Sena. E’ apparso subito singolare il carattere di questi due centri urbani, che è stato ricondotto a una categoria interpretativa – la rural town – che si presta ad essere applicata a modalità insediative assai diffuse nell’Africa sub-sahariana. Anche i due piani, il POTU a Caia ed il PEU a Sena, non potevano che essere redatti in modo singolare. Da qui anche il tentativo di ricondurne le problematiche e le indicazioni a un quadro di riferimento concettuale e metodologico utilizzabile in esperienze similari. Il ruolo del planner in un simile contesto, invece, non si discosta in modo sostanziale – o non dovrebbe discostarsi - da quello consueto. A patto che si verifichino alcune condizioni Parole chiave pianificazione urbana, rural town, Mozambico.
Introduzione Caia e Sena sono due piccole città con una popolazione di poco inferiore ai 20.000 abitanti, classificate come “vila rural” all'interno del sistema urbano mozambicano. Esse si situano lungo il fiume Zambesi, nel distretto rurale di Caia, a sua volta parte della Provincia di Sofala. Caia e Sena sono state create durante la dominazione coloniale come centri amministrativi e commerciali, abitati quasi esclusivamente da coloni (Newitt, 1995; Isaacman e Isaacman 1983). L'insediamento dei contadini africani ha avuto inizio soprattutto in epoca postcoloniale, subito dopo la guerra di liberazione (1975), a seguito di politiche tese a concentrare la popolazione rurale, che viveva dispersa in nuclei familiari, in pochi centri urbani dotati di infrastrutture e servizi (Orlowski 2001). Una seconda ondata migratoria si è registrata alla fine della guerra civile (1992), quando nelle piccole città del distretto sono stati allestiti campi di accoglienza temporanea, divenuti ben presto insediamenti permanenti, per i rifugiati di ritorno dal Malawi, L'ultima ondata migratoria è stata causata dalle recenti inondazioni del fiume Zambesi, che hanno forzato il trasferimento della popolazione rurale dalla piana alluvionale alle piccole città del distretto (Diamantini e Nicchia, 2009). In breve, la crescita urbana di Caia e Sena è avvenuta ad opera di famiglie contadine del distretto, costrette ad abbandonare le aree rurali a causa di eventi sia politici che ambientali. Queste famiglie hanno mantenuto i valori culturali oltre che le strategie di sussistenza tradizionali, basati sulla continuità delle pratiche agricole condotte in
Roberta Nicchia e Corrado Diamantini
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La pianificazione in un contesto urbano emergente in Africa a sud del Sahara: la rural town.
contesto urbano, al punto da rendere difficilmente percepibile, fino a pochi anni fa, una reale differenza di stili di vita tra aree urbane e aree rurali. I caratteri urbani di queste piccole città sono da ricercarsi nel loro ruolo di centri commerciali, situati al centro di una densa rete di scambi urbano-rurali, anche grazie alla vicinanza con il Malawi. Questi caratteri si sono accentuati negli ultimi anni, in seguito a importanti processi di “modernizzazione” che hanno investito il Distretto. Si possono citare a proposito la riabilitazione della linea ferroviaria oltre che del ponte ferroviario “Dona Ana” e la costruzione del nuovo ponte sullo Zambesi, l’unico passaggio carrabile sul fiume capace di connettere il nord con il sud del paese; la proliferazione di attività commerciali e produttive; la fondazione della prima banca di micro-credito del Mozambico a Sena; il miglioramento di servizi e infrastrutture urbani, quali l’elettrificazione delle due città e l'apertura di una scuola secondaria a Caia; il potenziamento dell’apparato amministrativo a seguito del decentramento di poteri dallo Stato ai distretti. Questi processi hanno determinato profonde trasformazioni nella composizione socio-economica delle piccole città e nella loro organizzazione spaziale. Gli elementi di urbanità emergenti, fondendosi con i preesistenti caratteri rurali, hanno generato un pattern insediativo ibrido, qui definito rural town. La necessità di gestire queste trasformazioni e la rapida crescita urbana che ne è conseguita, ha indotto l'amministrazione distrettuale a promuovere la redazione dei piani urbanistici delle due città, previsti dalla Lei de Ordenamento do Território approvata nel 2007. L’obiettivo di questi piani è stato fondamentalmente quello di assecondare, attraverso l’organizzazione dello spazio e la regolamentazione dell’uso del suolo, la resilienza delle due città a fronte delle trasformazioni traumatiche cui erano soggette, cercando di preservarne quanto più possibile i caratteri di rural town.Questa attività di pianificazione urbana, svoltasi con il supporto di alcuni ricercatori del Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Meccanica dell'Università di Trento, tra cui gli autori di questo articolo, è intervenuta nell'ambito di un ampio programma di cooperazione decentrata, denominato “Il Trentino in Mozambico, il Mozambico in Trentino”, rivolto a promuovere la collaborazione tra la Provincia autonoma di Trento e la Provincia di Sofala. Il gruppo di urbanisti dell’Università di Trento ha inteso la partecipazione a questo programma e in particolare il coinvolgimento nelle attività di piano anche come opportunità di formazione professionale di tecnici locali, i quali hanno in seguito costituito il personale del “Servizio del Piano e delle Infrastrutture” del Distretto di Caia, al quale la riforma della pubblica amministrazione aveva di recente trasferito le competenze in materia, senza però provvedervi con adeguati strumenti tecnici e con risorse finanziarie.
La rural town: una tipologia urbana emergente nell’Africa sub-sahariana La rural town è una tipologia insediativa ibrida, in cui gli elementi di urbanità, introdotti dal processo di modernizzazione in atto, si fondono con elementi del mondo rurale, che ancora oggi resistono e determinano fortemente l’economia locale, gli stili di vita, i meccanismi di governance e, non ultimo, i caratteri fisici dell’insediamento, come risulta immediatamente percepibile dalla Figura 1. Caia e Sena, infatti, così come la maggior parte delle vila rural del Mozambico, sono città di contadini, nelle quali lo sviluppo di attività e funzioni prettamente urbane si fonda su un tessuto sociale e culturale rurale (Nicchia, 2011). Allo scopo di comprendere le caratteristiche originali delle rural town, i ricercatori del DICAM hanno intrapreso un processo di “trasposizione transculturale” (Cardano, 1997) attraverso ricerche di campo nel distretto di Caia, adottando un bricolage di diverse metodologie, prese in prestito prevalentemente dalla ricerca etnografica, quali l'osservazione diretta, interviste ad attori istituzionali e non-istituzionali rilevanti, l'analisi di dati e documenti ufficiali. Un'inchiesta sull'aggregato familiare condotta nell'estate del 2008 a Sena, poi, è risultata particolarmente efficace nell'individuare i diversi gruppi sociali emergenti nella rural town e nel comprendere le dinamiche di urbanizzazione spontanea. Attraverso un'intervista qualitativa strutturata, proposta alle 47 famiglie selezionate, infatti, sono stati esplorati temi di ricerca dalle forti implicazioni spaziali, quali la composizione dell'aggregato familiare, le strategie di sussistenza, l'accesso a risorse socio-culturali, l'uso di risorse ambientali, le tipologie abitative. Come risultato dell’attività di ricerca sopra descritto, vengono riportati di seguito quattro temi-chiave, che descrivono le principali caratteristiche delle rural town. Il primo tema-chiave riguarda la coesistenza di modi di produzione tradizionali e moderni. L'agricoltura, infatti, è una base di sussistenza fondamentale e tutte le famiglie possiedono un appezzamento di terreno da coltivare (machamba). Essa, però, si accompagna sempre ad attività non agricole e la diversificazione delle fonti di sussistenza rappresenta una caratteristica importante, comune a tutti i gruppi sociali. Tuttavia, nonostante la relativa omogeneità socio-culturale, si rileva un emergente dualismo che divide la popolazione in due gruppi socio-economici principali. Si rileva, infatti, che il 70% della popolazione appartiene al “settore di sussistenza”, mentre il 30% rientra nel “settore capitalistico”, per usare una dicotomia proposta da McGee (1974). Nelle famiglie del secondo gruppo, le attività commerciali consentono un reddito medio-alto, profitti, risparmi ed investimenti. Questa élite socio-economica abita la città consolidata di fondazione coloniale (bairro cemento) ed i suoi immediati dintorni, dove si concentrano abitazioni “convenzionali”, infrastrutture e servizi urbani. Le Roberta Nicchia e Corrado Diamantini
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famiglie appartenenti al settore di sussistenza, invece, popolano gli insediamenti spontanei situati ai margini delle piccole città, che riproducono gli stessi pattern insediativi dei villaggi rurali e sono quasi completamente privi di servizi e infrastrutture urbane. Questa segregazione socio-spaziale è specchio di una divisione tra la parte di popolazione che partecipa al processo di modernizzazione e quella che ne è esclusa, continuando ad essere legata a forme di organizzazione socio-economica tradizionali.
Figura 1 Vila de Sena.
La dipendenza della popolazione dalle risorse naturali è il secondo tema-chiave. La maggior parte degli aggregati familiari, infatti, riesce a sopravvivere grazie al libero accesso all'acqua, alla terra dove coltivare e allevare gli animali, alla legna da ardere, alle piante medicinali e ai materiali da costruzione. Inoltre, la maggior parte dei lavori occasionali, che consentono un'integrazione monetaria fondamentale per le famiglie appartenenti al settore di sussistenza, consistono nella trasformazione e vendita di materiali raccolti direttamente in natura. Ne risulta una sostanziale simbiosi tra la città e gli elementi naturali che la circondano. L'utilizzo incontrollato delle risorse naturali, però, sta procurando seri danni all'ambiente. Particolarmente problematica sembra essere, ad esempio, la condizione delle foreste: la loro superficie si sta velocemente riducendo sotto la pressione antropica determinata dalla rapida urbanizzazione. Il degrado delle risorse naturali riduce la qualità ambientale e, di conseguenza, anche le condizioni di vita della popolazione più povera (Sachs, 2003). Un terzo tema-chiave è la persistenza di pattern insediativi, tipologie abitative e tecniche costruttive vernacolari. A dominare il paesaggio delle rural town, infatti, sono ancora i mudzi, i compound abitativi nei quali le grandi famiglie poligame dispongono le loro capanne di terra cruda e paglia circolarmente, intorno ad un ampio patio dominato da un grande albero da frutta, dove si svolgono attività domestiche e di sussistenza. La cultura abitativa tradizionale, però, sta evolvendo verso il modello dell'abitazione “convenzionale”, che consiste in un edificio compatto, costruito in blocchi di cemento con il tetto di lamiera, caratteristico delle periferie delle principali città mozambicane. Tale modello rispecchia l'aspirazione ad uno stile di vita urbano ed è spontaneamente adottato dalla popolazione a reddito medio-alto. Esso, inoltre, è fortemente sostenuto dall'amministrazione locale e dalle organizzazioni internazionali operanti nel distretto di Caia. I programmi di “resettlement” della popolazione alluvionata, ad esempio, offrono sussidi e supporto tecnico soltanto alle famiglie che si impegnano a costruire case “convenzionali” (Governo da Província de Sofala, 2007). Questa tipologia abitativa, però, presenta alcuni inconvenienti: l'organizzazione spaziale non è appropriata alla cultura locale, è troppo costosa per la maggior parte della popolazione, ha dimostrato di avere una cattiva performance in termini di indoor comfort, sta producendo la perdita del patrimonio culturale e del sapere locale. Roberta Nicchia e Corrado Diamantini
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Il quarto tema-chiave, infine, sottolinea la sovrapposizione di istituzioni formali, che a seguito del decentramento amministrativo sono responsabili della pianificazione e gestione urbana, e di autorità tradizionali (regulo, 'nfumo e sapanda), che trovano la loro legittimazione in antiche leggi e consuetudini tribali. Il D.L. 15/2000 ha di recente omologato entrambe queste istituzioni sotto l'etichetta di “autorità comunitarie”. Esse partecipano, dunque, al governo della città con all'incirca le stesse funzioni, generando spesso conflitti nella gestione urbana (West e Kloeck-Jenson, 1999; Kyed e Buur, 2006). La popolazione, infine, è sostanzialmente esclusa dai processi decisionali locali, con il rischio che una pianificazione top-down, poco centrata su esigenze e aspirazioni degli abitanti, risulti inadeguata ed inefficace in fase di implementazione.Come emerge chiaramente dai temi sopra elencati, la strada verso la modernizzazione non è affatto lineare, e reminiscenze del mondo rurale persistono in tutti gli ambiti. L'interazione tra elementi urbani e rurali è in costante evoluzione e questi ultimi, lontano dall'essere caratteri residuali, rappresentano ancora una componente strutturale fondamentale delle rural town africane.
Le due esperienze di pianificazione urbana intervenute nel distretto di Caia: il POTU e il PEU In questa parte, viene tracciata una sintesi delle due esperienze di pianificazione urbana intervenute nel distretto: il POTU-Plano de Ordinamento Territorial e Urbanização da Vila de Caia (2006), rappresentato nella Figura 2, e il PEU-Plano de Estrutura Urbano da Vila de Sena (2009). Segue una breve trattazione della strategia centrale, dei principi guida e di alcuni esempi di indicazioni di piano.
Figura 2 POTU- Plano de Ordinamento Territorial e Urbanização da Vila de Caia.
La strategia principale sottesa dai piani urbanistici consiste nel preservare le caratteristiche rurali, ancora largamente presenti nelle rural town, integrandole con i caratteri urbani emergenti. L'obiettivo dell'integrazione di forme di organizzazione socio-economica e spaziale diverse, tradizionali e moderne, è duplice: da un lato assecondare la modernizzazione della struttura urbana e, dall'altro, supportare le attività di sussistenza della popolazione. Questa strategia si basa su due principi, ampiamente presenti nei documenti programmatici del governo mozambicano: superamento della disuguaglianza e lotta alla povertà (República de Moçambique, 2005; 2006). In termini spaziali, il primo principio si traduce nel superamento del dualismo urbano, attraverso l'integrazione tra città “moderna” e insediamenti spontanei. Tale obiettivo è stato perseguito attraverso precise scelte di piano, che si sono concretizzate in progetti puntuali, la maggior parte dei quali già realizzati o in fase di Roberta Nicchia e Corrado Diamantini
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implementazione (Diamantini, 2010). La ricollocazione del mercato principale di Caia al di fuori della città consolidata, nei pressi della stazione ferroviaria in costruzione e di altri servizi urbani, ad esempio, persegue questo obiettivo. L'area del nuovo mercato, infatti, si configura come un hub di servizi, una centralità urbana strategicamente situata a ridosso della città moderna, in modo da creare un punto di collegamento e comunicazione con tre insediamenti spontanei, prima spazialmente segregati dal resto della città (vedi Figura 3). L'obiettivo dell'integrazione socio-spaziale è stato perseguito anche garantendo la libera circolazione degli abitanti all'interno della città ed evitando di creare aree inaccessibili, così come attraverso altre scelte di piano, quali la distribuzione policentrica di attività e servizi in tutto il contesto urbano, la dotazione di infrastrutture basiche in ogni quartiere, la riqualificazione degli insediamenti spontanei. Numerosi programmi di riqualificazione urbana, infatti, sono stati condotti diffusamente negli insediamenti spontanei, traendo ispirazione dal modello proposto dalla Facoltà di Architettura e Pianificazione dell'Università Mondlane di Maputo nell'ambito del progetto “Cities without Slums” (MICOA, 2005). Questi programmi definivano una serie di interventi integrati, che miravano a garantire la sicurezza del titolo di possesso della terra da parte degli abitanti, il miglioramento delle condizioni abitative, dell'approvvigionamento idrico e della rete stradale, così come la dotazione di scuole primarie. Il secondo principio ispiratore delle scelte di piano, quello della lotta alla povertà, implica la tutela delle forme di organizzazione spaziale legate alla sussistenza, quali ad esempio la mixitè dei grandi lotti abitativi, in cui il 70% delle famiglie conduce una grande varietà di attività che ne garantiscono la sopravvivenza, anche in assenza di reddito monetario (Satterthwaite e Tacoli, 2003). Un altro esempio di tutela delle forme di sussistenza, lo ritroviamo nelle scelte relative alla distribuzione del terreno agricolo urbano e peri-urbano. Per garantire a tutte le famiglie il possesso di terra sufficiente a soddisfare il proprio fabbisogno alimentare, il POTU ha stabilito che a ogni famiglia non potesse esserne assegnata più di 1,5 ha. Questa misura ha inteso soprattutto arginare l'acquisto di ampie porzioni di terreno da parte di pochi privati, considerata la quantità non illimitata di suoli coltivabili in prossimità delle due città. Tale politica è stata resa possibile dalla legislazione in vigore in Mozambico, secondo la quale la terra è una proprietà collettiva, le cui modalità di accesso sono stabilite, in contesto urbano, proprio dal piano urbanistico (Lei da Terra, 1997).
Figura 3 Localizzazione del mercato principale a Caia.
Il POTU ed il PEU si sono configurati come processi decisionali complessi, aperti in primo luogo al dialogo con e tra i due principali referenti istituzionali: l'amministrazione statale ed i leader tradizionali. Senza il coinvolgimento di entrambe le autorità, il processo sarebbe stato vanificato da veti reciproci, ritardi nella presa di decisioni, conflitto nell'implementazione delle azioni. Attraverso consultazioni avvenute nell'ambito di due assemblee consultive (il Conselho Consultivo do Posto Administrativo e il Conselho Consultivo do Distrito), si è Roberta Nicchia e Corrado Diamantini
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ottenuto l'obiettivo di giungere a decisioni condivise, che hanno consentito la concreta attuazione del piano già a partire dai mesi immediatamente successivi alla sua approvazione. Nel processo decisionale si è favorito il coinvolgimento della popolazione, come nei programmi di riqualificazione degli insediamenti spontanei, ad esempio, dove i problemi e le possibili soluzioni venivano discusse all'interno di incontri aperti agli abitanti. In alcuni programmi di gestione urbana a scala di quartiere, infine, si è richiesto il protagonismo diretto delle comunità locali, come nel caso dei comitati di gestione delle fonti di approvvigionamento idrico, composti da autorità tradizionali ed abitanti.L'interazione positiva di autorità statali, tradizionali e comunità locali all'interno del processo di pianificazione, così come la concreta implementazione delle azioni di piano, sono da considerare indicatori del successo dell'esperienza, a Caia come a Sena.
Il ruolo del planner Per brevità, ci si limita di seguito a mettere a confronto la domanda iniziale avanzata dall’Amministrazione del Distretto, con riferimento ai due piani urbanistici, con i comportamenti che sono stati effettivamente adottati nel corso della redazione del piano. La domanda dell’Amministrazione era piuttosto esplicita: connotare quanto più possibile Caia e Sena in senso moderno, concentrandosi in particolare sull’ammodernamento e la dotazione infrastrutturale dei nuclei di formazione coloniale, peraltro gli unici insediamenti in muratura. Questo avrebbe significato riprodurre di fatto, al di là delle intenzioni, l’esasperato dualismo urbano – qui condizioni di povertà e là condizioni di privilegio – diffuso nelle città dei paesi in via di sviluppo. Un dualismo ancora appena percepibile, sia a Caia che a Sena. La redazione dei due piani ha seguito, come si è detto, un altro percorso non lasciando comunque inevase alcune delle aspettative dell’Amministrazione. Questo è stato possibile, in particolare, attivando un dialogo continuo con i diversi interlocutori al di là degli incontri ufficiali, facilitato dal fatto che le grandi opzioni politiche in Mozambico fanno tuttora riferimento, come si è accennato, al superamento delle disuguaglianze e alla lotta alla povertà. Si sono proposte, inoltre, soluzioni tecniche capaci allo stesso tempo di essere coerenti con queste opzioni e di essere realizzabili da parte dei tecnici locali. Senza dubbio c’è stato un concorso attivo – non certo una supplenza politica – nella costruzione di scenari al futuro delle città, ma questo, lì come altrove, fa parte del mestiere. Va detto che questo dialogo e questa capacità di attuazione delle scelte sono stati resi possibili dalle modalità con cui interviene la cooperazione decentrata cui si è fatto riferimento. Si tratta di modalità caratterizzate dalla presenza ininterrotta, per oltre un decennio, dei tecnici e dei volontari del Consorzio Associazioni con il Mozambico nel distretto di Caia. Questa presenza ha consentito di stabilire, con le autorità locali, sia istituzionali che tradizionali, un rapporto franco, oltre che di fiducia reciproca, senza il quale il concorso attivo alle scelte di piano sarebbe stato impensabile.
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Roberta Nicchia e Corrado Diamantini
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Narrazioni e politiche nei contesti multietnici
Narrazioni e politiche nei contesti multietnici: il caso di Dalston (East London) Paola Briata Bartlett School of Planning University College London Email: p.briata@ucl.ac.uk
Abstract Il paper restituisce uno studio di caso realizzato a Dalston, un quartiere multietnico dell’East End londinese. La ricostruzione di questa esperienza è parte di una ricerca più ampia finalizzata riflettere sulla riscoperta delle politiche di social mixing per affrontare i problemi dei contesti multietnici e delle aree deprivate. A Dalston, le reazioni della società locale ad una politica di mixing sono state usate come una lente per esplorare le risorse presenti all’interno del quartiere e le pratiche di convivenza multietnica e multiculturale. La tesi sostenuta nel paper è che le politiche di mixing siano il prodotto di narrazioni “esterne” alle dinamiche di quartiere, che risultano poco utili ad individuare modalità di intervento meno standardizzate e più innovative, adottando una prospettiva centrata sulla gestione della coesistenza di individui e gruppi in luoghi dove sono presenti diversità che “fanno (più o meno) problema”, invece di creare mescolanze attraverso forme spesso fallimentari di ingegneria sociale. Parole chiave Politiche di social mixing; narrazioni dei contesti multietnici; Dalston (East London)
Introduzione Il paper restituisce uno studio di caso realizzato a Dalston, un quartiere multietnico dell’East End londinese. La ricostruzione di questa esperienza è parte di una ricerca più ampia finalizzata riflettere sulla riscoperta delle politiche di social mixing per affrontare i problemi dei contesti multietnici e delle aree deprivate1 (Arthurson, 2012). Basate sul principio di immettere classi medio-alte in aree povere, stigmatizzate e/o caratterizzate da concentrazione etnica per rompere il dominio di popolazioni problematiche e contrastare la segregazione spaziale, ma anche sull’idea che la prossimità tra gruppi di diverso background possa stimolare effetti positivi di imitazione dello “stile di vita” delle classi medie nei gruppi svantaggiati, queste iniziative sono state progressivamente estese dalle aree “segregate” a luoghi poveri, ma caratterizzati da un certo mix di popolazioni (così come viene definito dalle politiche). Londra, con rare eccezioni, non presenta veri e propri luoghi di segregazione etnica. Seppure in alcuni casi la percentuale di persone di origine immigrata sia significativa, spesso si tratta di aree dove convivono popolazioni di origine diversa. Tuttavia, la retorica del mixing è estesa a tutti i quartieri svantaggiati nei quali si propongono strategie di sviluppo, riservando poca attenzione a come preservare la composizione sociale di aree che già presentano forme di mescolanza (Colomb, 2011). Accanto alle critiche che vedono queste politiche come forme di gentrification guidate dalla mano pubblica che assolvono lo stato o i governi locali dalla responsabilità di affrontare le cause strutturali dell’esclusione sociale (Bridge et al, 2012), negli ultimi anni è emersa una letteratura che ha sottolineato come si tratti di iniziative che – per gli effetti di displacement ai quali danno luogo, spezzando network in grado di risolvere problemi concreti in aree dove a volte la mano pubblica non è in grado di intervenire – sono figlie di una concezione di welfare di
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In Italia, in assenza di un dibattito strutturato su questi temi, stimolare forme di mescolanza sembra un obiettivo positivo tout court, che non necessita di particolari giustificazioni (Briata, 2011).
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tipo universalista che le società attuali non sono in grado di sostenere (Cattacin, 2006). Si tratta dunque di politiche che rischiano di portare più danni che benefici. A Dalston, le reazioni della società locale ad una politica di mixing finalizzata anche a creare una nuova centralità in base alle disposizioni del London Plan del 2011, sono state usate come una lente per esplorare le risorse presenti all’interno del quartiere e le pratiche di convivenza multietnica e multiculturale. La concezione di risorsa adottata è vicina quella proposta dalle politiche di sviluppo territoriale (Pasqui, 2005), in base alla quale non si considera solo la dimensione economica, ma anche le risorse sociali, tecniche, relazionali o di altra natura. La scelta di quest’area è stata determinata dalle sue caratteristiche e dalle politiche di cui è stata fatta oggetto: Dalston è una inner city2 che si trova in un’area – il London Borough of Hackney – che presenta gli indici di deprivazione più alti della Gran Bretagna. È un quartiere segnato in un recente passato da processi di stigmatizzazione. Tra le circa 10.000 persone che abitano la zona, la percentuale di stranieri si attesta attorno al 42%. Come per gran parte dell’East End londinese, a Dalston è presente una working class bianca oggi in declino, che convive con popolazioni di origine immigrata. Se dalla fine dell’ottocento i nuovi arrivati erano soprattutto ebrei in fuga dell’Europa dell’est, negli ultimi cinquant’anni Dalston è stata un approdo per popolazioni di origine africana e caraibica, una presenza che oggi si attesta attorno al 30%. Le ultime ondate migratorie significative sono state quella turca e turco-cipriota e quella dall’Europa dell’est. Si tratta di un luogo di grandi contrasti: ad una middle-class radicata (31%), si affiancano percentuali significative di lavoratori non specializzati (18%), disoccupati e persone che dipendono da forme di sostegno statale (20%). Una polarizzazione che è evidente anche nel grado di istruzione degli abitanti: il 35,4% ha almeno una laurea di primo livello ma, al tempo stesso, il 26,7% non ha alcuna qualifica. Queste percentuali delineano differenze tra “ricchi e poveri” che non seguono necessariamente le divisioni etniche: sono presenti élite commerciali tra le persone di origine immigrata, così come una working class bianca che vive in condizioni critiche (London Borough of Hackney, 2007). Nel 2010 a Dalston sono state aperte due fermate dell’Overground – la metropolitana che segue il tracciato di una linea ferroviaria esistente e disegna un cerchio attorno alla città più esterno rispetto alla storica Circle Line, collegando diverse inner cities (fig. 1). Dalston non è lontana dalla City, si trova poco più a nord di Hoxton Square, uno dei simboli della rinascita creativa della Londra post-industriale, sente la pressione di aree gentrificate come Islington e Stoke Newington, immediatamente a ovest e a nord e dei luoghi trasformati per le olimpiadi a est. Il nuovo London Plan promosso dal Sindaco Boris Johnson ha confermato molte delle scelte dell’amministrazione precedente guidata da Ken Livingstone (Scanlon, Kochan, 2010). Dalston è stata inserita nelle intesification areas che, assieme alle opportunty areas, andranno a disegnare uno sfruttamento intensivo dei territori in prossimità di nodi di trasporto strategico per la città. Per lo stesso motivo, Dalston – da sempre una delle centralità di Hackney – è stata designata Major Town Centre3: l’obiettivo è quello di inserirla nelle mappe della città, facendola diventare un punto di attrazione non solo locale.
Figura 1. Dalston Junction e Dalston Kingsland sulla mappa delle metropolitane di Londra 2
Si tratta di aree centrali e semi-centrali di città, spesso definite “in negativo” per la scarsa qualità degli insediamenti, la deprivazione economico sociale, la significativa presenza di popolazione di origine immigrata (cfr. Briata et al, 2009). 3 Le 33 opportunity areas individuate dal London Plan sono quelle nelle quali si prevedono opportunità di sviluppo intensivo attraverso la realizzazione di grandi progetti urbani (creazione di 5000 posti di lavoro e 2500 vani abitativi). Le dieci intensification areas presentano un significativo potenziale di sviluppo in termini residenziali e per quanto riguarda l’impiego, ma ad un livello inferiore di quello previsto per le opportunity areas. Il piano si pone l’obiettivo di rafforzare alcune centralità inserendole in un network che include gli international centres, i metropolitan centres, i major centres, i district centers e i neighbourhood and local centres (Mayor of London, 2011). Paola Briata
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Tenuto conto che le opportunity areas sono dei brownfields – aree totalmente o parzialmente dismesse, spopolate, a volte inquinate da precedenti usi industriali – mentre le intensification areas sono quelle dove il piano deve confrontarsi con la presenza di popolazioni residenti e funzioni attive, Dalston si presenta come un’area dove è possibile osservare come il disegno di sviluppo del London Plan si stia confrontando con questioni di coesione sociale e con il tema della convivenza di diverse popolazioni in una metropoli globale.
1 | Dalston: i suoi luoghi e i suoi contrasti Sin dalla fine dell’ottocento Dalston si è sviluppata attorno ad una centralità delimitata da tre vie: Ridley Road, Kingsland High Street e Dalston Lane. Ridley Road è il cuore pulsante della comunità locale grazie alla presenza di un mercato che si svolge tutti i giorni tranne la domenica. Aperto nel 1880, il mercato è sempre stato uno specchio dei cambiamenti nella composizione etnica del quartiere. Oggi sono presenti un centinaio di bancarelle di frutta e verdura, vestiti, macellerie halal, alimentari tipici della cucina africana e caraibica che attraggono compratori a livello metropolitano (fig. 2).
Figura 2. Due tra i tanti volti del mercato di Ridley Road
Larry Julian4, presidente dell’associazione dei commercianti di Ridley Road, ha iniziato a lavorare al mercato da bambino, nel dopoguerra, quando Ridley Road era una grande comunità dove i legami familiari e amicali e si confondevano. Negli anni, l’arrivo delle nuove popolazioni ha modificato questo aspetto: ognuno vive la propria vita, ma tra i commercianti c’è rispetto e coesione, anche nei rapporti con le autorità locali che hanno proposto progetti di trasformazione non sempre accolti con favore. Kingsland High Street è una strada commerciale vittoriana dove sono presenti un numero significativo di esercizi gestiti da immigrati di origine turca che hanno avuto un momento di notorietà a luglio del 2011 quando hanno reagito in modo congiunto alle rivolte esplose in città, armandosi di mazze da baseball per difendere le proprie attività (The Guardian, LSE, 2012). Su Kingsland High Street si affaccia un centro commerciale costruito negli anni ’80 dove sono presenti attività legate a grandi catene di distribuzione ed esercizi minori gestiti prevalentemente da immigrati. Alla fine dell’ottocento, Dalston Lane era la strada principale di Dalston. Qui si affacciavano la vecchia stazione ferroviaria e “l’anfiteatro-colosseo”, un circo capace di contenere fino a 4000 spettatori. Successivamente l’edificio ha ospitato un varietà, un cinema e, dal 1964 il Four Aces Club, gestito per 33 anni da Newton Dunbar, un immigrato di origine giamaicana che ha fatto di questo luogo un punto di riferimento per la musica caraibica lanciando star che si sono imposte sulla scena mondiale. Il teatro, di proprietà della municipalità locale, è stato lasciato a se stesso negli anni del declino di Dalston durante la recessione industriale. Nel 1995 l’edificio è stato dichiarato inagibile e il Four Aces Club è stato chiuso. Il teatro è stato demolito nel 2007 per fare spazio alla nuova stazione di Dalston Junction e alle torri di un nuovo complesso residenziale destinato a classi medio-alte denominato Dalston Square (figura 3). 4
Intervista a Larry Julian, 5 Aprile 2013.
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Figura 3. Il nuovo complesso di Dalston Square con la piazza soprannominata “il canyon dei venti”
A Dalston è presente anche un’anima industriale in declino dagli anni ’70 che ha lasciato sul territorio degli edifici di un certo pregio architettonico. Alla fine degli anni ’90 le fabbriche dismesse hanno attratto una prima generazione di “creativi” che, nell’arco di un decennio, ha contribuito a trasformare l’immagine della zona: da inner city stigmatizzata nonostante il ritorno – già trent’anni fa – della middle class attratta dalla vicinanza della City e dai bassi costi degli immobili vittoriani, a culla di creatività, meno cara di Hoxton Square. L’epicentro di questa comunità è la ex fabbrica di vernici Reeves and Sons che ospita un cluster di piccole imprese, l’OTO café che propone spettacoli musicali e l’Arcola Theatre. Fondato nel 2000 dal produttore di origine turca Mehmet Ergen, questo teatro ha saputo al tempo stesso imporsi nella scena londinese e radicarsi nel contesto locale attraverso delle iniziative culturali molto apprezzate dalla comunità turca. Queste attività si sono affiancate ad altre già presenti: il Rio, un cinema d’essai attivo dal 1913, la libreria Centerprise, impegnata dal 1977 nella celebrazione del contributo portato dalle persone di origine africana e caraibica nella letteratura occidentale, il Vortex Jazz Club, epicentro dell’economia notturna della zona.
2 | Il ruolo di Dalston nel London Plan Il London Plan definisce degli orientamenti strategici per la città e degli standard che devono essere rispettati negli Area Action Plan redatti dai Borough5. Il London Borough of Hackney ha approvato il piano per Dalston nel 2011, includendovi alcuni interventi pregressi in linea con gli orientamenti del piano e “intensificando” il ruolo del quartiere in termini di Major Town Centre e Intensification area. Il piano propone una strategia di sviluppo fino al 2026, ma alcuni progetti prioritari sono già in corso di realizzazione (fig. 4). L’intervento pregresso più significativo è Dalston Square, citato nella Hackney Sustainable Community Strategy 2008-2018 come esempio di progetto finalizzato alla “promozione di comunità miste, in quartieri realizzati in base a criteri di urban design, dove le case sono accessibili e di alta qualità” (London Borough of Hackney, 2009, p. 52). La realizzazione di questo complesso – molto contestato a livello locale (§ 3) – ha comportato la demolizione del teatro. Barratt Homes, un colosso privato nel settore edilizio, ha realizzato 550 appartamenti, 57 dei quali riservati a forme di affitto sociale e calmierato. La prima fase dell’intervento è stata completata nel 2011 e include una stazione dei bus che dovrebbe integrare il ruolo di hub di Dalston Junction, dei caffè, dei ristoranti, una piazza la Dunbar Tower, in “omaggio” (senza il suo consenso) al ex proprietario del Four Aces Club, costretto ad andarsene. La seconda fase prevede la realizzazione di alcune torri di venti piani con vista sulla City, sul retro delle torri di dieci piani costruite su Dalston Lane. Su Kingsland High Street, dove si è attestato il “quartiere creativo” è prevista la realizzazione di una torre di otto piani. Il progetto, presentato nel 2012 da Taylor Wimpey e Transport for London, l’ente pubblico che detiene la proprietà del terreno, è stato fortemente contestato dalla comunità locale per i suoi caratteri di gated community, ed è attualmente in atto un ridisegno. Criterian Capital che detiene la proprietà dello shopping center di Kingsland High Street sta trattando con le autorità locali un progetto di riqualificazione che andrà di pari passo con la realizzazione di 600 appartamenti 5
La Greater London è divisa in 32 decentramenti amministrativi, i Borough, ai quali si affianca la Corporation of London che governa la City.
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sopra il nuovo centro commerciale. I commercianti stranieri che vi operano da quasi trent’anni sono certi di non poter reggere la pressione immobiliare che si verrà a creare. Due progetti riguardano il mercato di Ridley Road e le sue adiacenze. Il primo è un’operazione di “cleansing” e prevede degli interventi di urban design sul mercato e la realizzazione di due edifici commerciali su più piani nella parte conclusiva dello stesso dove oggi si trovano l’anima più etnicamente connotata del mercato – la così detta shanty town – e il Turkish Food Center, un supermercato allineato agli standard igienici occidentali. Il secondo è la realizzazione di una container city su Birbeck Mews, una via a ridosso della stazione di Dalston Kingsland che oggi funge da deposito per il mercato, dove è prevista la realizzazione di 4800 metri quadri di spazi “flessibili” dove attrarre piccole imprese creative. Tutte queste operazioni sono portate avanti seguendo una narrazione che, sul versante descrittivo celebra la diversità di Dalston. Quando ci si sposta sul piano prescrittivo, nei piani, la diversità si trasforma in diversificazione, perseguita attraverso l’attrazione di nuove popolazioni e attività economico-commerciali, senza che una sola parola venga spesa sulle possibilità di valorizzare la “diversità” esistente. Le “politiche della diversificazione” costituiscono uno dei modi più diffusi di portare avanti azioni di social mixing nei contesti europei e non solo (Demaris et al, 2012).
Fig. 3. Gli opportunity sites di Dalston
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3 | Contro-narrative della diversità e forme di resistenza ai progetti di sviluppo Il malcontento emerso a livello locale per le politiche portate avanti negli ultimi anni è stato raccolto a partire dal 2004 da OPEN Dalston Ltd, una corporate company che ha creato un network tra le associazioni del quartiere. OPEN – Organisation for Promotion of Environmental Needs – non ha una sede e organizza le proprie riunioni nei luoghi che di volta in volta costitiscono le battaglie specifiche nelle quali la comunità locale si impegna, comunicate attraverso un blog6. Quattro sono i temi su cui OPEN ha concentrato l’attenzione: heritage – da portare a nuova vita, per preservare la diversità storico-architettonica del quartiere; social-affordable housing – per preservare la diversità economico-sociale; spazi verdi – per creare una diversità ambientale perché questo è un fronte sul quale Dalston è molto carente; luoghi di aggregazione culturale e interculturale – che già esistono, ma potrebbero essere potenziati. Diversi sono i linguaggi scelti da OPEN per portare avanti le proprie battaglie: il linguaggio giuridico: alle comunità locali vengono fornite informazioni e strumenti per portare avanti forme di resistenza ai progetti di sviluppo, rimanendo nei termini della legalità (Parry-Davies, 2012); i contro-progetti: progettualità alternative a quelle in atto ed economicamente sostenibili per le autorità locali; le contro-narrative: basate su un fitto calendario di incontri che si svolgono in prossimità dei luoghi che “fanno problema” ai quali vengono invitati scrittori, poeti, giornalisti, musicisti che hanno raccontato la storia locale con uno sguardo “interno7” alle dinamiche del quartiere8. OPEN ha portato avanti battaglie contro la realizzazione di Dalston Square, ottenendo una minore densità e un numero maggiore di vani da destinare ad affitti calmierati; si è opposta alla realizzazione della nuova gated community imponendo una progettualità più aperta verso il quartiere; assieme ai commercianti di Ridley Road sta cercando di comprendere come salvaguardare gli interessi degli esercenti più fragili a fronte delle operazioni di cleansing. Battaglie minime forse, che non rappresentano l’aspetto più interessante dell’opposizione alla trasformazione di Dalston. OPEN, pur utilizzando linguaggi elitari e ponendosi esplicitamente degli obiettivi più vicini agli interessi delle classi medio-alte come la conservazione dell’eredità storico-architettonica – gli attivisti guardano con orrore alla prospettiva omologante della “pacificazione attraverso il cappuccino” (Zukin, 2010) – ha saputo coalizzare forze molto diverse tra loro. Un esempio è la campagna per salvare il Dalston Theatre. Se la leadership di OPEN ha portato avanti questa battaglia soprattutto in termini di salvaguardia di un pezzo importante della storia architettonica di Dalston, a questo movimento hanno aderito gruppi molto diversi: la comunità caraibica per la quale il Four Aces Club era un riferimento culturale; Bootsrap, una charity impegnata sul fronte del miglioramento delle prospettive di impiego per le popolazioni locali, che ha messo a punto un controprogetto nel quale il teatro veniva preservato grazie alla disponibilità a trasferirvisi di Arcola Theatre. Nel controprogetto si ragionava sulla fattibilità economica di un intervento di affordable housing, sul mantenere alcune parti a verde, sulla creazione di una nuova piazza che non fosse un “canyon dei venti” come quella effettivamente realizzata a Dalston Square – nonostante i principi di “buon urban design” professati. Il tutto senza che la municipalità dovesse fare di più di quello che ha fatto: il terreno era pubblico e le autorità locali lo hanno ceduto gratuitamente a Barratt in cambio della realizzazione della stazione degli autobus – un hub attraverso il quale transita una sola linea. La resistenza all’abbattimento del teatro racconta dunque della capacità delle classi medie bianche radicate a livello locale di impostare una battaglia nella quale molte delle diverse anime di Dalston hanno potuto dare voce ai propri obiettivi, interessi, identità. Altre mescolanze sono rintracciabili nell’opposizione alla realizzazione della gated community, altre ancora negli atteggiamenti difensivi che si stanno elaborando con gli esercenti stranieri e non che lavorano a Ridley Road e si sentono minacciati dalla riqualificazione.
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http://opendalston.blogspot.co.uk/ Il riferimento a descrizioni e dinamiche “interne” ed “esterne” viene proposto nella consapevolezza che la distinzione tra “ciò che sta dentro e ciò che sta fuori” da un territorio è un costrutto strategico messo in atto dagli attori in gioco (compreso il ricercatore che a tali distinzioni si affida) per operare delle semplificazioni utili a prefigurare corsi d’azione (e di ricerca) piuttosto che altri (cfr. Briata, 2012). 8 Sono stati organizzati incontri con il grande narratore di East London Iain Sinclair; con i giovani scrittori e poeti che hanno partecipato all’antologia su Hackney Acquired for Development By (Caless, Budden, 2012); con il giornalista Patrick Wright che si occupa delle dinamiche in atto a Dalston dai tempi della Thatcher (Wright, 2008); con lo scrittore per bambini Michael Rosen che ha dedicato a Dalston il suo Regeneration Blues. 7
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Narrazioni e politiche nei contesti multietnici
Questioni aperte, per continuare Le vicende di Dalston sono state tratteggiate per provare a comprendere come possa prendere quotidianamente forma la convivenza tra popolazioni diverse per condizione economico-sociale, etnia e cultura in una metropoli globale del XXI secolo. Il lavoro ha fatto emergere delle narrazioni di questi luoghi che, da diversi punti di vista, si distanziano da quelle messe al lavoro nelle politiche spaziali più diffuse. Dalston per molti versi sovverte alle narrazioni della gentrification proposte da Neil Smith (2002) dove la prima generazione di gentrifiers è composta da creativi che aprono la strada alle classi medio-alte. Le caratteristiche di quest’area, rintracciabili anche altrove (Butler, Hamnett, 2011) hanno fatto arrivare la middle class prima dei creativi. Queste due generazioni di gentrifiers, esprimono uno stile di vita che riesce a convivere con la presenza immigrata. Il radicamento locale di queste popolazioni fa sì che la classe media possa esercitare un ruolo di leadership nelle battaglie della comunità locale, riuscendo a trovare elementi di identificazione capaci di aggregare le diverse anime della zona in termini sia di etnia, sia di condizione economico-sociale. La retorica sociale delle politiche di mixing vedrebbe nell’arrivo delle classi medie portate dalle politiche la possibilità da parte di queste ultime di esercitare un ruolo di leadership per aiutare le comunità locali ad uscire dalle proprie condizioni di esclusione. Ma qui una middle class che svolge perlomeno un ruolo di aggregazione c’è già e, se si vogliono prendere sul serio le narrative di queste politiche, bisognerebbe forse ragionare su come la mano pubblica possa capitalizzare queste risorse. Le ricerche che hanno iniziato a studiare gli esiti della gentrification guidata dalla mano pubblica distinguono tra la middle class radicata da tempo che riesce a dialogare con le comunità locali, incluse quelle più problematiche, e le classi medie portate dai progetti di sviluppo che vivono “vite parallele” senza “mescolarsi” (Davidson, 2008). Il lavoro etnografico svolto da RhysTaylor (2010) sul mercato di Ridley Road rileva dinamiche similari anche a Dalston. Il tema delle “vite parallele” è un’altra questione ricorrente nelle narrative che sostengono (e criticano) le politiche di mixing. Se, da un lato, la presenza di popolazioni che non si mescolano nella vita quotidiana è considerato un indice di vulnerabilità di un luogo (Denham, 2001), il fallimento delle politiche di mixing viene giudicato da molti studiosi attraverso l’incapacità di queste iniziative di creare mescolanza – nel senso di uso degli stessi servizi, delle stesse scuole o degli stessi negozi (Kearns, 2001). Le vicende di Dalston e le reazioni alle politiche attivate dicono però qualcosa di più sul tema delle vite parallele che merita ulteriori approfondimenti. Come sottolineato da Larry Julian, da quando Ridley Road è diventato un mercato “cosmopolita” non è più una grande famiglia che condivide valori, tradizioni e uno stile di vita. Tuttavia, questo non impedisce il rispetto reciproco e la capacità di coalizzarsi quando ci si sente messi sotto pressione. Alcuni studi hanno rilevato come si chieda a questi quartieri di essere al tempo stesso cosmopoliti, inseriti nel XXI secolo, e capaci di esprimere un senso di vicinato e di comunità che, nelle megalopoli contemporanee, non è richiesto alle classi medio-alte (Davidson, 2008). La “comunità” è guardata con sospetto dalle politiche di mixing quando produce meccanismi di auto-aiuto che possono portare all’auto-segregazione, ma sembra essere anche un mezzo per contrastare l’esclusione: un atteggiamento ambivalente che forse potrebbe trovare alcune risposte in una osservazione più attenta di come avvengano, caso per caso, forme di coabitazione multietnica e multiculturale. . Le strade di Dalston sono spesso state descritte come un campo di battaglia. La battaglia di Ridley Road tra gli estremisti di destra durante la seconda guerra mondiale e la comunità ebraica; la battaglia di Kingsland High Street durante i riots del 2011. Uno scrittore locale ha immaginato una “Battaglia di Kingsland Road” tra i “modaioli” di Hoxton Square che minacciano il quartiere da sud e i gentrifiers di Stoke Newington che potrebbero “calare” da nord (Case, 2012). Questa battaglia si svolge in un ipotetico 2020, ma è altamente probabile che la politica gentrification adottata dal Borough acceleri un processo di questo tipo. Alcune narrazioni incontrate in questo lavoro rendono evidente le divergenze tra una strategia di sviluppo individuata a livello metropolitano e le forme di resistenza a questa strategia emerse a livello locale. Il paper ha provato a mettere in evidenza come queste strategie di resistenza possano essere una lente per esplorare come avviene la convivenza multietnica e multiculturale in un quartiere che sente la minaccia della pressione immobiliare, ma anche di un modello di sviluppo omologante e poco sensibile a “differenze e diversità” che la comunità locale declina in modo più articolato di quanto non facciano i documenti di policy. Sicuramente, la difficoltà a rapportarsi con le complesse articolazioni della “città delle differenze” sembra uno dei nodi deboli di queste politiche, prodotto di narrazioni “esterne” di quartieri spesso stigmatizzati, che risultano poco utili ad individuare modalità di intervento meno standardizzate e più innovative, adottando una prospettiva centrata sulla gestione della coesistenza di individui e gruppi in luoghi dove sono presenti “diversità che fanno problema”, invece di creare mescolanze attraverso forme spesso fallimentari di ingegneria sociale.
Paola Briata
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Narrazioni e politiche nei contesti multietnici
Bibliografia
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Finanziamenti
This work has been funded by the European Union Under a Marie Curie Action – FP7-PEOPLE-2011-IEF
Paola Briata
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Partecipazione digitale: strumenti, scenari, potenzialità
Partecipazione digitale: strumenti, scenari, potenzialità Elena Giannola Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Architettura Email: elena.giannola@unipa.it Tel: 3272062694
Abstract La costruzione dell’immagine collettiva dello spazio è alla base del senso di appartenenza e di identità che costituisce una parte essenziale della cultura urbana. Esso è fondamentale per lo sviluppo di un’adeguata coscienza civica e per l’attivazione di processi partecipativi effettivamente validi ed efficaci. La diffusione delle nuove tecnologie informatiche, accessibili anche ad utenti non specializzati, apre una serie molteplice di scenari in cui lo scambio e la condivisione, nonché la co-produzione dell’informazione georeferenziata, costituiscono un’opportunità di interazione tra abitanti di un territorio e decisori politici ed istituzionali. Certamente lo studio sistematico di iniziative autoreferenziate ed abbastanza informali appare difficile da affrontare, ma i vantaggi che ne possono derivare in termini di miglioramento dei processi decisionali rendono irrinunciabile la ricerca in tal senso. Si riportano brevemente alcuni esempi di esperienze italiane ed europee in merito, per dare un’idea della vasta casistica esistente e dei possibili sviluppi futuri. Parole chiave Condivisione, web, partecipazione.
1 | Processi di costruzione dell’immagine territoriale: cambiamenti in atto 1.1 | Immagine ed identità locale Nella discussione sulla necessità di nuovi strumenti urbanistici per la gestione dei nuovi scenari complessi che animano le città contemporanee si fa spesso riferimento a strategie innovative. Si cerca di migliorare tecniche e metodi, nel tentativo di star dietro alla società urbana che cambia aspetto, forma, meccanismi, strutture economiche e culturali, equilibri. In quest’ottica risulta spesso trascurato l’apporto non 'tecnico' che i cittadini stessi possono dare alla questione, il potenziale dei saperi non esperti che pure costituiscono il termine di confronto delle ipotesi e dei contributi teorici dell’urbanistica. Le nuove modalità di condivisione dell’informazione geografica, la diffusione di nuovi strumenti non professionali che incidono molto sulla visione e fruizione di massa del territorio, sono alla base di un cambiamento radicale nel processo di costruzione dell’immagine territoriale. Questo nuovo approccio all’esperienza spaziale non può essere trascurato dalla disciplina urbanistica, sia in quanto rappresenta una potenziale problematica da affrontare nel momento in cui si richiede consenso e condivisione delle scelte di pianificazione, sia come potenziale risorsa. Esso infatti può costituire un’importante fonte di nuovi spunti di riflessione geografica e territoriale, e di nuovi sviluppi disciplinari. Il primo a parlare di immagine territoriale come elemento strategico ai fini della qualità della vita urbana e della costruzione di un adeguato senso di identità fu Kevin Lynch, negli anni ’60; all’incirca negli stessi anni il filosofo Lefevbre teorizzava tale senso di appartenenza come 'diritto', una proprietà immateriale (Lefebvre, 1968). Tuttavia, nonostante siano passati diversi decenni, queste teorie risultano più che mai attuali. Sono state infatti riprese di recente da molti studiosi (Memoli, 2005), e portate avanti nella ricerca di ulteriori sviluppi e spunti applicativi. La mappa mentale che ogni individuo elabora dello spazio che attraversa quotidianamente, dove vive, lavora, entra in relazione con gli altri, è fondamentale per personalizzare quello spazio e farlo diventare un 'luogo', Elena Giannola
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Partecipazione digitale: strumenti, scenari, potenzialità
legato alla propria coscienza e alla propria memoria. In un contesto come quello odierno, in cui a livello fisico il tessuto urbano si presenta in forme sempre più frammentate e disperse, ed a livello sociale la comunità urbana ha una composizione sempre più varia, il recupero dell’identità è un elemento irrinunciabile per lo sviluppo di processi partecipativi realmente efficaci, che possano contribuire alla gestione delle trasformazioni in atto con metodi e strumenti adeguati. «La crescente dimensione delle nostre aree metropolitane e la velocità con cui le attraversiamo sollevano parecchi problemi nuovi per la percezione. La regione metropolitana è ora l’unità funzionale del nostro ambiente, e sarebbe desiderabile che questa unità funzionale fosse identificata e strutturata dai suoi abitanti. I nuovi mezzi di comunicazione, che ci permettono di vivere e lavorare in una regione così ampia ed indipendente, potrebbero anche consentirci di commisurare le nostre immagini alle nostre esperienze» (Lynch, 1960: 123).
1.2 | Informatizzazione e marketing urbano: nuovo ruolo dell’immagine I nuovi mezzi di comunicazione sono la chiave di molti dei nuovi scenari urbani che si stanno delineando in questi anni: l’utilizzo di internet, soprattutto, abitua i nostri sensi ad uno spazio indifferenziato, fluido, illimitato, istantaneo, e questo particolare tipo di immagine conoscitiva diventa con il tempo un codice di lettura, un paradigma della realtà stessa. L’informatizzazione dell’immagine geografica è un fenomeno non recentissimo. Il dibattito sulle ricadute culturali e disciplinari dell’informatizzazione dei sistemi di georeferenziazione, ed in particolare sui GIS (Geographic Information System), nato nel contesto accademico anglo – americano, risale infatti agli anni ’80 (Dobson, 1983) e comprende una notevole pluralità di posizioni e teorie. Negli ultimi anni il dibattito nella comunità scientifica dei geografi sui GIS ha visto un attenuarsi dei contrasti tra differenti posizioni, con una tendenza ad una maggior collaborazione sui temi dell’approfondimento epistemologico e della valutazione dello loro effettive potenzialità. Tutto questo ha però riguardato sempre e soltanto il settore strettamente tecnico: GIS e SIT (Sistemi Informativi Territoriali), ed i loro corrispettivi sistemi web, sono strumenti per addetti ai lavori, per ingegneri, architetti, geometri, pianificatori, agronomi, geologi, e tutte le altre figure professionali che in un modo o nell’altro lavorano sul territorio. Quello che però risulta più interessante come risorsa nuova (ed allo stesso tempo come questione problematica) per l’urbanistica è la diffusione di strumenti informatici di georeferenziazione e di mappe informatizzate user friendly, ovvero facili da utilizzare anche da parte di utenti non specializzati, e tali da consentire una diffusione di massa per semplicità di accesso e licenza free. Si tratta di qualcosa di assolutamente diverso e che è molto più legato alla sfera disciplinare delle scienze sociali rispetto a quella dell’urbanistica: ma per la sua ricaduta sulle dinamiche territoriali è un tema di fondamentale importanza per la pianificazione e la gestione del territorio. L’innovazione tecnologica legata all’immagine territoriale è solo uno degli aspetti della questione: ad essa infatti si intreccia una nuova modalità di concepire l’immagine stessa, come elemento strategico nella competizione economica, una risorsa per lo sviluppo, uno strumento politico. Si tratta di una vera e propria trasformazione culturale complessa: si parla infatti di cultural turn (de Spuches, 2011) e di operazioni di marketing (Rossi, Vanolo, 2010), che trattano la città e lo spazio antropizzato come un prodotto da commercializzare, promuovere, in qualche modo vendere al miglior offerente. Attrarre beni, fondi, investimenti esterni, con interventi rivolti a migliorare appunto l’immagine pubblicitaria dei territori, sembra l’unica soluzione alla mancanza di liquidità finanziaria delle casse comunali, conseguenza più o meno diretta dell’attuale crisi internazionale che si ripercuote pesantemente sulle città, sui loro meccanismi economici, sul benessere della popolazione e sulle effettive prospettive di sviluppo futuro. Ne sono testimonianza diverse esperienze recenti: il museo Guggenheim a Bilbao, in Spagna (1997), che ha trasformato una grigia cittadina industriale in un centro di attrazione di migliaia di visitatori; gli interventi edilizi per la realizzazione delle infrastrutture sportive in occasione delle Olimpiadi di Pechino del 2008; la Baku Crystal Hall costruita in Azerbaijan in occasione dell’Eurovision Music Contest (maggio 2012), per la quale è stato demolito un intero quartiere. A questi si possono aggiungere gli esempi proposti dal prof. Munoz 1 alla XV conferenza della SIU (Pescara 2012), primo fra tutti il caso del villaggio andaluso di Juzcar, che ha ospitato nel 2011 il set cinematografico del film I Puffi, diretto dal regista Raja Gosnell. Gli abitanti hanno rinunciato al colore bianco, che caratterizza le costruzioni locali da tempi immemorabili, ed hanno acconsentito a ridipingere di blu in modo permanente l’intero villaggio, trasformandolo in una meta turistica di notevoli dimensioni, a discapito della propria identità storica. Altro caso simile è quello di altri piccoli centri nella Spagna del nord, che per rivitalizzare la propria economia hanno accettato di demolire consistenti parti del tessuto urbano per trasformarle in piste della domenica, sfruttando le origini del pilota Fernando Alonso, famoso campione di Formula Uno (che attualmente gareggia 1
Il professor Francesco Munoz è docente e direttore dell’Osservatorio dell’Urbanizzazione (UAB) presso l’Università Autonoma di Barcellona.
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Partecipazione digitale: strumenti, scenari, potenzialità
per la squadra italiana della Ferrari), nato ad Oviedo, proprio nella zona settentrionale della Spagna, come emblema pubblicitario dell’iniziativa. Ai turisti è consentito noleggiare un’auto da corsa simile in tutto e per tutto a quella del campione, e gli stessi vengono incoraggiati da slogan accattivanti. Queste premesse ci consentono di affermare che siamo realmente nell’era dell’immagine: e di questo come urbanisti dobbiamo tenere conto nel lavoro quotidiano sul campo.
2 | Iniziative e progetti di e - participation: un panorama molteplice 2.1 | La retorica della rappresentazione Nell’esperienza spaziale che passa attraverso il computer, tra il territorio e la sua rappresentazione si viene a creare un’interfaccia virtuale, ovvero un terzo spazio, intermedio tra i due, composto di elementi legati a realtà fisiche (i luoghi, quindi i punti georeferenziati) e di elementi culturali (i commenti, il linguaggio, la grafica, la simbologia). Si tratta di uno spazio fittizio ma che, come tutte le rappresentazioni e le mappe, imprime inconsapevolmente nella mente di chi lo attraversa un codice di lettura, la 'retorica' di cui tutti i media comunicativi sono dotati (Harley, 2001). A tal proposito Harley parla di 'decostruzione', ereditando la definizione di questo processo analitico da diversi studiosi, tra cui Derrida (1976), Eagleton (1983), Norris (1982), reinterpretandola in chiave moderna anche alla luce del confronto con le teorie di Foucault sulla retorica testuale. Quello decostruzionista appare come uno degli approcci più adeguati allo studio della cartografia in chiave postmoderna del valore simbolico-culturale (nonché politico) delle carte. Attraverso l’analisi e la decostruzione della carta, assimilata ad un testo fatto di segni e significati, è possibile per Harley ricostruire la cultura e la scala di valori della società che l’ha prodotta, nonché individuarne gli scopi comunicativi al di là della semplice restituzione di dati. Ispirandosi a ciò che afferma Foucault a proposito del rapporto tra cartografia e potere, Harley mette in luce la dimensione politico – sociale della carta, come forma di potere/sapere. Egli distingue un potere interno da un potere esterno alla carta. Il potere esterno è quello esercitato dalla classe politica sulla carta, condizionandola, o anche attraverso di essa come strumento di affermazione decisionale (come per esempio avviene nel caso della redazione di un piano regolatore, che norma tutto il territorio ricadente in una determinata giurisdizione). Il potere interno è invece un potere che possiamo definire performativo: è intrinseco alla carta stessa, nel senso che va oltre le intenzioni di chi l’ha prodotta, è indipendente dai condizionamenti sia culturali che tecnici ed è un potere che si esercita sull’immaginario collettivo del luogo che la carta descrive. La carta cioè influenza il modo di vedere la realtà fisica e di interpretarla; e dalla visione della realtà che gli abitanti di un determinato luogo ne ricavano dipende non solo lo stile di vita che in esso viene condotto nel presente, ma anche e soprattutto la progettualità futura.
2.2 | Web 2.0 e nuove strutture organizzative dell’informazione La diffusione del web 2.0 (termine coniato nel 2004 ad opera di Dale Dougherty e Tim O'Reilly), ovvero di un sistema di condivisione dell’informazione in rete che permette un’interazione tra utenti in tempo reale, ha consentito un diverso modo di accedere alle risorse di internet, definito 'approccio wiki'. Il termine wiki è in realtà un acronimo che sta per 'what I know is...', ed indica una particolare forma di fruizione del dato informatico: l’utente è infatti allo stesso tempo anche produttore di informazione. Questa co-produzione ribalta la consueta struttura che prevede un ente accreditato e riconosciuto che raccoglie, sistematizza e fornisce dati, e una serie più o meno varia di utenti che richiedono e utilizzano i dati che vengono resi disponibili. La rete viene così inondata di un’infinità di dati, auto-referenziati e dunque sottoposti solo parzialmente ad un controllo. Quest’ultima caratteristica, se da un lato rende impossibile l’utilizzo di tali informazioni da parte di enti pubblici e istituti di calcolo statistico, permette una maggiore libertà di uploading e downloading e una velocità di condivisione dell’informazione che i sistemi tradizionali non consentono. Proliferano dunque siti web, pagine dedicate a tematiche urbane sui social network, communities, blog, che raccolgono le adesioni di cittadini di un determinato quartiere o centro urbano, o che forniscono informazioni aggiornate in tempo reale su servizi di varia natura (relativi ai mezzi di trasporto pubblico, agli sportelli municipali, agli orari di giardini pubblici o musei e altro) e permettono di segnalare eventuali disservizi o problemi che vengono annotati sulla mappa online. La velocità con cui vengono realizzate queste esperienze è pari a quella con cui, spesso, si esauriscono e vengono sostituite da altre analoghe: il risultato è quello di un panorama complesso, in continuo mutamento, in cui piattaforme informatiche di varia natura si alternano e spesso si sovrappongono, in un’atmosfera di generale caos, in cui difficilmente ci si riesce ad orientare.
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2.3 | Best practices e progetti: alcuni esempi In Italia la presenza di piattaforme web che si occupano di informazione sul territorio, rivolte ad associazioni, a singoli cittadini, ad enti pubblici, è notevole: si riportano qui soltanto alcuni esempi, considerando tuttavia che il panorama delle esperienze in merito è molto più ampio e complesso. Un’esperienza originale e significativa per il modo in cui è sorta e viene gestita è quella di Izmo, una piattaforma web nata a Torino nel 2006, i cui utenti devono preventivamente registrarsi per partecipare ed inserire commenti (figura 1). Izmo è il nome di un’associazione culturale, la quale, come riportato sulla pagina home del sito dedicato, ha come obiettivo quello di «favorire i rapporti tra gli abitanti e il costruito, la fruizione degli spazi, le relazioni sociali. Izmo ritiene che la qualità della vita sia condizionata dagli spazi quotidiani, dagli spostamenti, dai ritmi urbani, dall’ambiente e dalle relazioni sociali. L'associazione opera in questo dominio: stimola e causa mutamenti condivisi da chi è coinvolto attraverso installazioni, software, oggetti ed architetture, fino al progetto urbano» (http://www.izmo.it/Web/Associazione/Presentazione_%7C_Presentation). Izmo promuove progetti volti a coinvolgere il maggior numero possibile di soggetti, pur essendo stata fondata da tecnici, che ad oggi ne gestiscono le attività: si tratta di un caso in cui dei giovani professionisti (tra questi alcuni architetti, di cui uno dottore di ricerca in Pianificazione Territoriale e due dottorandi, oltre a laureati in diverse discipline quali Disegno Industriale, Giurisprudenza, Economia e Storia dell’Arte, Ingegneria, ed un esperto in Nuovi Media e Piattaforme Collaborative) fanno da intermediari tra il settore strettamente tecnico e il contesto sociale. Sul sito web dell’associazione si possono consultare i progetti portati avanti, che mostrano l’attenzione prestata alle voci di tutti quei soggetti che, di fatto, sono esclusi dalle scelte di pianificazione, ma che in realtà sono i protagonisti della vita quotidiana dei luoghi in questione.
Figura 1. Schermata della pagina home del sito web dell’associazione Izmo. In alto a destra vi sono diverse icone che costituiscono collegamenti ad altri siti o social network, per favorire quanto più possibile la condivisione; sono posti in primo piano i progetti più recenti e ogni testo è presente in italiano e in inglese, in parallelo.
Diversa è invece la struttura dei cosiddetti blog, come per esempio quello dell’associazione Mobilita Palermo. L’iniziativa nasce non da un gruppo di professionisti ma di giovani di formazione più varia e non specifica, animati dalla volontà di collaborare per promuovere interventi volti a migliorare la qualità della vita nella città di Palermo e a realizzare progetti condivisi e volti ad un reale sviluppo. Nel blog c’è una sezione che permette l’invio di un proprio articolo: in questo modo chiunque può contribuire ad aprire una discussione su un tema che ritiene importante, che può costituire un input significativo per la presentazione e l’approvazione in sede amministrativa di un progetto adeguato. Altro esempio degno di nota è l’esperienza del Territorial Living Lab (TLL), un portale che si propone di portare la ricerca e i suoi esiti fuori dai laboratori scientifici, per diffonderla nel mondo concreto della quotidianità e confrontarla con le reali questioni della popolazione locale. Il portale inoltre si propone di pubblicizzare eventi ed iniziative che riguardano gli spazi pubblici e le infrastrutture urbane, mettendo a disposizione degli utenti registrati uno spazio in cui è possibile inserire commenti e suggerimenti, caricare documenti ed immagini, avanzare proposte e comunicare in tempo reale con gli eventuali altri utenti presenti online. I portali TLL sono distribuiti a scala regionale e sono costituiti tramite protocolli d’intesa come derivazioni dalla rete INoLL (Italian Network of Living Labs) nazionale. Elena Giannola
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Partecipazione digitale: strumenti, scenari, potenzialità
A livello sovranazionale, e, nel caso specifico, europeo, uno dei progetti più interessanti dal punto di vista del carattere innovativo della e-participation è certamente il progetto Parterre (sigla che sta per Electronic Participation Tools for Spatial Planning and Territorial Development), che tra il 2011 e il 2012 ha coinvolto come partner: la Regione Toscana, Settore Innovazione e Ricerca nelle ICT, la Regione Sicilia e la società Avventura Urbana s.r.l. in Italia; la società TuTech Innovation GmbH e la città di Amburgo in Germania; l’Università delle Scienze Applicate di Turku in Finlandia; l’Università dell’Ulster nel Regno Unito; la Community Council di Voroklini a Cipro. Nell’ambito del progetto sono state realizzate due particolari applicazioni informatiche che sono state utilizzate come strumenti strategici di interazione tra utenti: si tratta di DEMOS-Plan (prodotto dalla TuTech Innovation GmbH di Amburgo) e di TM-Town Meeting (prodotto da Avventura Urbana s.r.l.), applicati poi ai singoli contesti locali. DEMOS-Plan è una piattaforma su cui vengono caricati documenti di uso del suolo, mappe di vario genere ed informazioni su persone di riferimento, scadenze, piani di eventi e riunioni, il tutto in modo tale da consentire la massima condivisione. Questo sistema ha visto il suo utilizzo più proficuo nella città di Amburgo, la quale nel 2008 ha ottenuto il 2° posto in un importante concorso a tema che viene periodicamente bandito tra Paesi di lingua tedesca. La struttura del Town Meeting è simile a quella di DEMOS-Plan: essa prevede che si riunisca un gruppo di cittadini, i quali vengono divisi per “tavoli” di discussione, dove un moderatore conduce il dibattito anche con l’ausilio di strumenti informatici: al termine dello scambio di pareri e di idee, le soluzioni elaborate vengono votate da tutti i partecipanti attraverso la piattaforma informatica, con speciali telecomandi. Questo sistema è stato valutato positivamente sia dalla Regione Toscana che dalla regione Sicilia: visto il successo dell’esperimento, la prima a partire dal 2006 ha organizzato una decina di Electronic Town Meetings, utilizzando un sistema di web streaming per permettere a tutti di partecipare, e la seconda si appresta a seguirne l’esempio, approfittando anche dell’attuale momento politico favorevole. Questo rapido excursus, che illustra soltanto pochi casi di applicazione di prodotti dell’innovazione tecnologica ai processi di innovazione sociale, è emblematico dell’enorme varietà delle opzioni disponibili e delle grandi potenzialità che derivano da tali applicazioni: il miglioramento del contatto e dello scambio tra tecnici e utenti può realmente incrementare la partecipazione, renderla più veloce e coinvolgere le nuove generazioni nel processo di costruzione di identità e di responsabilizzazione civica. Si tratta di una sfida e allo stesso tempo di un’opportunità che gli urbanisti del XXI secolo non possono perdere.
Bibliografia
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Sitografia
Sito web dell’associazione Izmo, che presenta sulla pagina home i link alle diverse pagine e la descrizione generale degli obiettivi dell’iniziativa http://www.izmo.it/ Blog Mobilita Palermo, sezione in cui è possibile inserire il proprio contributo http://www.mobilitapalermo.org/mobpa/invia-il-tuo-articolo-2/ Progetto PARTERRE, pagina home http://www.parterre-project.eu/ Portale Territorial Living Lab della regione Sicilia, pagina home con la descrizione dello status del gruppo promotore e degli obiettivi http://tll-sicily.ning.com/
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Il capitale sociale come elemento di sviluppo locale
Il capitale sociale come elemento di sviluppo locale Miriam Mastinu Università degli Studi di Sassari DADU – Dipartimento di Architettura Design e Urbanistica Email: mmastinu@uniss.it Tel: (+39) 3406937201
Abstract A partire dal concetto ormai assodato di capitale sociale (definito tra i principali, da Putnam, Bordieu e Coleman), l’obiettivo della ricerca è di delineare una nuova concezione di capitale sociale, ridefinendo quindi la sua misurazione. L’indagine ha anche l’obiettivo finale di rispondere all’esigenza di sviluppo di alcuni territori che si potrebbero definire ‘marginali’ da un punto di vista economico e geografico (e spaziale) e che subiscono una condizione di ‘subordinazione’ rispetto ad altri centri con maggiore influenza. La tesi che questo contributo vuole sostenere parte dalla ridefinizione degli elementi che compongono il capitale sociale: la fiducia, l’impegno civico della popolazione, l’importanza del territorio e del patrimonio culturale e l’isolamento urbano e geografico dei comuni o più in generale dei territori. La commistione di questi caratteri potrebbe dare il via alla definizione di nuove politiche pubbliche e pratiche sociali tese al miglioramento della vita della comunità e allo sviluppo urbano dei centri e dei territori sardi. Parole chiave Capitale sociale, sviluppo locale, territorio
Introduzione Il capitale sociale è da tempo oggetto di studio di vari teorici ma troppo poco spesso viene utilizzato come elemento da cui partire per promuovere politiche di sviluppo locale. La presenza più o meno alta di capitale sociale in un’area, potrebbe promuovere la costruzione di politiche pubbliche con il fine di rafforzare lo stesso capitale sociale in previsione di uno sviluppo complessivo (economico, sociale ed urbano) del territorio. La comunità e il suo territorio (ambiente e patrimonio culturale) entrano a far parte sempre più dei processi di sviluppo locale nel momento in cui il concetto di sviluppo passa dall’essere pensato solo come il puro sfruttamento del territorio, alla convinzione invece che dal territorio e dalla comunità si possa ripartire. Risulta dunque interessante soffermarsi sul ruolo che oggi più che mai, in relazione anche alle situazione socio economica attuale, può avere il capitale sociale nella definizione di linee strategiche per lo sviluppo locale di una data area e di un territorio. Il contributo presentato è quindi incentrato sulla ridefinizione del concetto di capitale sociale in senso pratico; l’indagine ha così puntato sin dall’inizio alla definizione di un modello di misurazione legato strettamente allo sviluppo urbanistico ed economico dei comuni sardi e non alla misurazione fine a se stessa.
Background In un contesto di crisi economica e fenomeni di spopolamento e mobilità giovanile, i territori necessitano di nuove linee guida e strategie per il rinnovamento. Nella prospettiva di uno sviluppo che si configura come un elemento fondamentale nella determinazione del benessere dei cittadini di un paese o di un territorio, entrano in gioco un numero sempre più crescente di fattori (economici, politici, ambientali, sociali e culturali); uno di questi è il cosiddetto capitale sociale. Esiste una vasta letteratura riguardante tale concetto che vede confrontarsi e prendere posizione teorici, Miriam Mastinu
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economisti e sociologi. I principali studiosi che hanno dedicato le proprie indagini a questo argomento sono James Coleman secondo cui il capitale sociale è inteso come «una varietà di diverse entità che hanno due caratteristiche in comune: consistono tutte di alcuni aspetti della struttura sociale e agevolano determinate azioni degli individui che si trovano dentro la struttura» (Coleman, 1990). Arriva dopo tre anni, nel 1993, la pubblicazione di Robert Putnam 1; se quella di Coleman si configura più come un’analisi teorica, l’indagine di Putnam è maggiormente indirizzata alla pratica. La prima analisi pubblicata nel 1993 (Putnam, 1993), ha l’obiettivo di individuare le differenze di sviluppo tra le varie regioni italiane e i motivi per cui queste esistono, e nello specifico tra l’Italia del Nord e la parte meno sviluppata (il Mezzogiorno). Putnam afferma che è proprio il capitale sociale piuttosto che quello materiale a favorire lo sviluppo economico e a promuovere le istituzioni rendendole più efficienti. Analizza quindi le regioni sotto il nuovo profilo del valore sociale che include l’impegno civico, la fiducia e l’associazionismo. Il successivo esempio di applicazione del concetto di capitale sociale nell’analisi del territorio italiano è l’indagine sviluppata da Massimo Cartocci proposta nel testo ‘Mappe del tesoro. Atlante del capitale sociale in Italia’ (2007). Egli, ricorrendo a dati territoriali, aggregandoli a livello provinciale, analizza la concentrazione del capitale sociale nelle province italiane. Associazionismo, fiducia nel prossimo, impegno civico e partecipazione della popolazione alla vita pubblica sono le variabili utilizzate da Cartocci per elaborare una serie di mappe utili alla definizione della quantità di capitale sociale presente sul territorio nazionale. Ciò che emerge dalla lettura di queste due indagini è che, seppur producendo una vasta e dettagliata analisi riguardo il capitale sociale, utilizzando vari e specifici indicatori, soprattutto nel lavoro svolto da Cartocci, manchi un forte obiettivo iniziale che giustifichi la misurazione proposta.
Metodologie di misurazione del capitale sociale Misurare il capitale sociale è un’operazione di non semplice gestione e formulazione ma se si fa riferimento alla letteratura e agli studi svolti negli anni si possono individuare delle metodologie di misurazione del capitale sociale molto interessanti che, anche se inserite in contesti di ricerca differenti da quelli proposti in questo contributo, riescono a dare una visione d’insieme delle variabili, degli indicatori, dei metodi e dei risulti ottenuti. Bjørnskov, nel saggio ‘The Multiple facets of social capital’ (Bjørnskov, 2006), analizza il capitale sociale chiedendosi se tale elemento possa in qualche modo influenzare il livello di governance di una comunità e il grado di soddisfazione personale della popolazione. Per rispondere a tale quesito, analizza la fiducia delle persone nei confronti della comunità, le norme sociale che regolano la quotidianità ed infine il numero di volontari all’interno di associazioni di varie categorie. Secondo Bjørnskov, è necessario individuare una voce che sia responsabile per tutte ed egli la individua nella fiducia, affermando che è l’unico fattore che ha reali ripercussioni sulla governance e sulla soddisfazione personale. L’autore, qualche anno dopo (Bjørnskov, 2009), rifacendosi a Knack e Keefer (1997), afferma che solo la fiducia può essere fortemente associata alla crescita. Alcuni esempi empirici infatti, mostrano come i Paesi con più alti livelli di fiducia hanno avuto una crescita più veloce negli ultimi decenni rispetto ad altri Paesi comparabili. Secondo Knack e Keefer, meccanismi multipli possono portare ad un aumento della qualità della governance e sottolineano due possibili spiegazioni: un grado di fiducia elevato potrebbe portare ad una maggiore responsabilità perché le decisioni delle istituzioni devono essere sensibili alle preferenze della popolazione. con maggiore fiducia, le iniziative politiche vengono incoraggiate e accettate. L’unico indicatore che viene analizzato in questo caso studio è la fiducia e Bjørnskov ne definisce i possibili canali di trasmissione individuandoli nell’educazione e nel capitale umano; inoltre la fiducia sociale supporta e rafforza i diritti e le libertà del cittadino. I risultati dell’analisi suggeriscono così che si può incentivare la crescita economica (mediante la fiducia sociale) attraverso due canali principali: l’aumento del livello di scolarizzazione e il miglioramento della goverance. Kikuchi e Coleman2, nella loro indagine, affermano che i legami sociali sono considerati indicatori di capitale sociale, noti meglio come “relazioni sociali”. Il capitale sociale può essere quindi pensato come una connessione tra individui all’interno della comunità. L’indagine si concentra sulla misurazione del capitale sociale all’interno di piccoli o grandi quartieri analizzato mediante questionari somministrati ad un campione rappresentativo della popolazione. Rapporti di vicinato, sostegno sociale e contesto (ufficio e casa), sono fattori determinanti il capitale sociale, definito attraverso reti informali e dinamiche. Un altro esempio di misurazione del capitale sociale prende in considerazione altri tre fattori: la socialità, la partecipazione pubblica e l’impegno civico. Questi sono solitamente i tre elementi utilizzati nelle ricerche e nelle 1 2
Putnam R., (1993) Kikuchi, Coleman, (2012) 22 187–203
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indagini pratiche riguardo il capitale sociale ma spesso si diversificano in base agli indicatori utilizzati. Per misurare il primo fattore, la socialità, Kikuchi e Coleman fanno affidamento ad un’analisi precedentemente condotta da Uslaner che attraverso tre domande contenute in un questionario, ‘quanto spesso visiti i membri della tua famiglia’, ‘con quale frequenza chiami i tuoi amici’, ‘quanto è grande la tua rete di sostegno sociale’, include per la prima volta i rapporti familiare all’interno delle reti di relazioni che costituiscono il capitale sociale. La partecipazione pubblica è invece espressa attraverso il coinvolgimento della comunità mediante la partecipazione della stessa a eventi pubblici. Infine l’impegno civico; questo può essere misurato in base alle azioni di volontariato svolte o in base alla partecipazione o meno della comunità ai progetti di quartiere. Per molti questo elemento è parte integrante del capitale sociale mentre per altri studiosi ne è il diretto risultato. Infine, uno dei lavori che aiuta a dare una nuova definizione di capitale sociale è quello condotto da Svendsen e Graeff3. Gli autori definiscono il capitale sociale attraverso le possibili connotazioni che può assumere: negativa e positiva. La prima si può esprimere mediante il concetto di corruzione; al contrario la fiducia sociale è espressione del capitale sociale ‘positivo’. L’aumento di quest’ultimo può funzionare come controspinta efficace alla corruzione anche se non è sufficiente a compensare la perdita economica causata dalla manifestazione negativa del capitale sociale. Tutti i casi studio analizzati forniscono una propria chiara visione del concetto di capitale sociale. Più o meno ciò che ricorre nella maggioranza delle indagine è la presenza della variabile ‘fiducia’ in senso stretto o più genericamente del concetto di relazione sociale. Da tutti i casi studio infatti si evince che la variabile ‘fiducia’ è l’unica che possa influenzare tutte le altre a partire dalla governance fino ad arrivare alle norme sociali.
Capitale sociale e sviluppo L’analisi delle ricerche portate avanti dagli studiosi sopracitati ha portato l’indagine riguardo il capitale sociale ad una nuova fase nella quale viene superato il concetto base, di cui parlano Putnam e Coleman, aprendosi a nuove definizioni e connotazioni dello stesso. Gli elementi su cui ci si può maggiormente soffermare e che portano la ricerca ad un nuovo step sono i seguenti: connotazione positiva e negativa del concetto di capitale sociale e sue conseguenza sulla società; elementi compositivi il capitale sociale e diretti prodotti di esso; azioni che incrementano il capitale sociale. Le città, come i bambini, per crescere e svilupparsi dovrebbero avere il supporto e il sostegno dei grandi, ma al contempo, o forse in primo luogo, dovrebbero essere in piena salute. A tal proposito è bene soffermarsi sul concetto di salute secondo cui un essere umano può dirsi “in salute” se risponde a tre criteri: salute fisica, mentale e sociale. Queste tre variabili definiscono dunque la situazione in cui dovrebbe trovarsi l’uomo affinché possa essere considerato ben inserito all’interno della società. Tale caratterizzazione può essere traslata dall’individualità della sfera personale a quella collettiva della comunità e quindi della città o del territorio. Ragionando intorno al tema della salute è chiaro che, riguardo la società e il luogo fisico in cui essa agisce e con cui si relaziona quotidianamente, le variabili che esplicitano il concetto di salute, possono essere ridimensionate e in parte modificato seppur seguendo la definizione iniziale. Gli elementi che potrebbero definire quindi, il concetto di salute espresso in senso collettivo e comunitario, sono tre, con l’aggiunta di un quarto fattore strettamente connesso però alla sfera più alta che “governa” la società (nel linguaggio iniziale si potrebbe esprimere attraverso il ruolo dei genitori nei confronti dei figli; figura che guida e orienta le scelte, in un primo momento, dei più piccoli). I fattori utili alla caratterizzazione del concetto di “salute collettiva” (salute della comunità) possono essere quindi: la salute fisica (di carattere urbanistico) la salute sociale (relazioni di fiducia e partecipazione) la salute culturale (vivacità culturale della comunità) la salute governativa/amministrativa (trasparenza delle istituzioni) Parlando di salute fisica, pensata appunto per la collettività e la città, si può fare riferimento alla condizione urbanistica della città. A partire dalla letteratura questa condizione è facilmente ricondotta al concetto di capitale infrastrutturale e quindi al numero e alla qualità di strutture di varia natura (siano esse ospedaliere, legate all’istruzione o ai servizi in generale). Per capitale infrastrutturale infatti si intende il capitale costituito da tutte le risorse materiali, non umane, come impianti, immobili, infrastrutture che in un luogo si possono trovare. Il capitale fisico, è come il capitale finanziario e quello umano, una risorsa accumulabile che, se non 3
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ragionevolmente gestito e aggiornato può andare incontro a fenomeni di deprezzamento o non adattabilità, dovuti al progresso della tecnologia e della ricerca. Per quanto riguarda invece la salute culturale, può essere intesa in due differenti modi (strettamente connessi al possibile sviluppo economico di un luogo): il buono stato del patrimonio culturale rappresentato da monumenti storici, musei, elementi di carattere naturalistico; la vivacità culturale della comunità espressa dalla volontà delle persone di collaborare e di valorizzare eventi e attività all’interno del paese, rafforzando appunto il senso di comunità e di identità locale. Il terzo elemento che risulta necessario nella teorizzazione della salute di una comunità, è la salute amministrativa. Questo concetto può essere traslato nella realtà, parlando di trasparenza delle istituzioni e partecipazione della popolazione alla vita pubblica e politica della società. Elemento che per certi versi completa quello precedentemente descritto dal capitale sociale. Infatti un altro aspetto proposto da Putnam nel 1993 4 (e ripreso da Cartocci nel 20075) è l’impegno civico della popolazione. Questo non dipende esclusivamente dai cittadini ma è anche una diretta conseguenza dell’impegno e della vita politica delle amministrazioni. Più queste sono trasparenti e collaborative nei confronti delle comunità, più quest’ultime rispondono maggiormente agli impegni da cittadino. In riferimento invece alla salute sociale della città, è chiaro che l’elemento che entra in gioco è il capitale sociale espresso attraverso la descrizione delle relazioni di fiducia e reciprocità che si intrecciano nella quotidianità della popolazione di una città o di un territorio. Nasce proprio da questo pensiero l’idea di ridefinire il concetto di capitale sociale in relazione al possibile sviluppo di una comunità e del territorio in cui essa vive. Gli elementi che descrivono il concetto di ‘salute collettiva’ entrano a far parte di due macro gruppi e in essi si specificano e dettagliano attraverso vari indicatori. Il primo macro gruppo è quello che fa riferimento al capitale sociale. Si cerca di concretizzare il maggior numero di elementi possibili in modo da dare una visione chiara e specifica del concetto. Gli elementi presi in considerazione nella ricerca infatti, all’interno del contesto sociale, tentano di dar luce a vari aspetti partendo dall’impegno civico fino ad arrivare al disagio socio economico. Facendo chiaramente riferimento alla letteratura e ai casi studi analizzati, le variabili e gli indicatori che verranno utilizzati nella fase di misurazione sono i seguenti: l’impegno civico espresso attraverso l’affluenza alle urne durante le ultime elezioni Politiche e Amministrative disponibili e la diffusione dei quotidiani a tiratura regionale; la fiducia e la reciprocità attraverso le donazioni di sangue; la cooperazione e la solidarietà attraverso il numero di membri di associazioni di volontariato e volontari Caritas nelle varie sedi comunali; il disagio sociale espresso in termini di criminalità attraverso il numero di sanzioni a vario titolo di reato per comune; la vivacità culturale espressa attraverso il numero di iscritti nelle Biblioteche Comunali e la consistenza del patrimonio bibliotecario delle stesse. Il secondo gruppo di variabili può essere definito attraverso il termine ‘dotazioni’. In esso si identificano due principi chiave, le dotazioni di contesto (gli elementi ambientali che caratterizzano un luogo) e il capitale infrastrutturale espresso attraverso i servizi che una città (piccola, media o grande) offre. Il primo tentativo di misurazione è proprio legato a questo elemento. La subordinazione o l’isolamento dei centri marginali rispetto ai centri maggiori può essere misurato attraverso la distanza in termini di tempo tra i servizi considerati e i nuclei urbani di riferimento. I servizi presi in considerazione nell’analisi sono i tribunali (presenti per di più nei comuni capoluogo di provincia), i servizi sanitari ospedalieri, gli atenei e i dipartimenti con sede distaccata, gli aeroporti e i porti. L’obiettivo di questa misurazione è quindi capire quanto i centri urbani minori siano isolati rispetto ai centri di maggiore influenza al fine di individuare e definire politiche e strategie urbane affinché anche i cosiddetti territori marginali possano essere inseriti all’interno di processi di sviluppo territoriale. A partire quindi dalla definizione dei macro gruppi di variabili scaturiscono due ragionamenti sul metodo di misurazione e comparazione degli indicatori. Lo scopo principale della ricerca è dunque capire se il capitale sociale sia una fra le tante o la variabile determinante nei processi di sviluppo locale. La variabile ‘capitale sociale’ è una determinante nella promozione di politiche e pratiche volte allo sviluppo o è una diretta conseguenza di quest’ultimo? In altre parole, l’alta dotazione infrastrutturale e di contesto di un territorio e il suo crescente andamento economico sono sinonimo di una forte presenza di capitale sociale? Oppure l’insieme delle dotazioni unite alla presenza di capitale sociale favoriscono lo sviluppo economico?
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Conclusioni Il contributo proposto ha analizzato una parte della ricerca che comprende l’analisi dello stato dell’arte da un punto di vista teorico e pratico e la prima fase del processo di misurazione che interessa la scelta degli indicatori (che specificano le variabili) e la conseguente raccolta dei dati. Essendo quella proposta una ricerca in itinere, le risposte agli ultimi quesiti posti saranno frutto delle ulteriori fasi dell’indagine che dovranno comprendere la vera e propria misurazione del capitale sociale e degli altri concetti chiave presi in considerazione e valutarne quindi i risultati. L’esito finale della ricerca sarà la produzione di una serie di mappe del territorio regionale preso in esame, nel caso specifico la Sardegna, con l’analisi di tutti i 377 comuni e la definizione di cluster che metteranno in evidenza il livello di capitale sociale in ogni comune; a partire da ciò si potranno riconoscere geograficamente e spazialmente quali comuni dipendono ‘strutturalmente’ da altri e quale sia il grado di influenza dei comuni maggiori sui territori marginali o deboli. Per questo motivo, la tesi proposta non rappresenta una vera e propria pratica urbana ma potrebbe, o meglio dovrebbe, costituirne la fase preliminare di definizione. Attraverso l’analisi della comunità, a livello sociale, spaziale (urbano e territoriale), la produzione di pratiche e politiche pubbliche potrebbe portare ad un risultato più concreto, a partire dalle esigenze e dalle necessità della collettività.
Bibliografia
Bjørnskov C. (2006), The Multiple facets of social capital, European Journal of Political Economy Vol. 22 22-40 Bjørnskov C. (2009), How does social trust affect economic growth?, University of Aarhus Cartocci M. (2007), Mappe del tesoro. Indagine del capitale sociale in Italia, Bologna Coleman J. (1990), Foundations of Social Theory, Belknap Press of Harvard University Press Kikuchi M., Coleman C. (2012), Explicating and Measuring Social Relationships in Social Capital Research, Communication Theory 22 187–203 Knack, S., Keefer P. (1997), Does Social Capital have an Economic Pay-Off? A Cross-Country Investigation. Quarterly Journal of Economics 112, 1251-1288. Putnam R. (1993), La tradizione civica nelle Regioni Italiane, Mondadori, Milano Svendsen G., Graeff P. (2012), Trust and corruption: The influence of positive and negative social capital on the economic development in the European Union, Qual Quant DOI 10.1007/s11135-012-9693-4
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La ricerca azione partecipata in urbanistica. Uno studio comparativo e una riflessione critica
La ricerca azione partecipata in Urbanistica. Uno studio comparativo e una riflessione critica1 Laura Saija Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Catania, e mail saija.laura@gmail.com Tel 0957382512/fax 095330309
Abstract Contro l’idea di un’Università simile a una torre d’avorio disconnessa dal mondo reale e incapace di affrontare i più urgenti problemi della società contemporanea, studiosi di tutto il mondo hanno implementato vari approcci alla ricerca e alla didattica caratterizzati dall’ingaggio diretto di docenti e studenti in pratiche urbanistiche finalizzate al trattamento di problemi concreti. Tali approcci hanno avuto una rilevanza in discipline tecniche come l’Urbanistica il cui paradigma disciplinare è centrato sulla connessione tra conoscenza, azione e innovazione dei sistemi socio economici. Spesso tali “approcci euristici di ingaggio del territorio” si ispirano alla tradizione chiamata Ricerca-azione partecipata con l’obiettivo di facilitare il coinvolgimento delle comunità e dei gruppi “disagiati” (termine che ovviamente può assumere una grande varietà di significati) nei processi decisionali, e in generale facilitano l’inquadramento di questioni squisitamente tecniche in una più ampia cornice di riflessione sulle possibilità di piena realizzazione del progetto democratico (termine, anche qui, soggetto a ampie interpretazioni). A fronte di così ambiziosi obiettivi, il paper discute le grandi potenzialità ma anche alcuni limiti strutturali delle pratiche di ingaggio dei ricercatori urbanistici con le comunità locali. Potenzialità e limiti vengono discussi attraverso la condivisione dei risultati preliminari di uno studio comparativo di due esperienze di collaborazione tra università e comunità nell’ambito di processi urbanistici altamente “controversi” (entrambe documentate dall’autore grazie al suo coinvolgimento ‘attivo’): il caso statunitense della partnership tra la Graduate Division of City and Regional Planning, University of Memphis e la Vance Avenue Collaborative, finalizzata a impedire la gentrificazione di uno degli storici quartieri afro-americani di Memphis, TN; il caso italiano della partnership tra il Laboratorio per la Progettazione Ecologica e Ambientale del Territorio, Università degli Studi di Catania e la ‘Coalizione per lo sviluppo sostenibile della Valle del Simeto’ nella Sicilia Orientale. La comparazione tra questi due casi, caratterizzati da comuni premesse etico-epistemologiche ma anche da spiccate differenze geografico-culturali, è finalizzata alla promozione nella comunità degli studiosi di urbanistica di una chiara distinzione tra diversi approcci di ingaggio dell’Università sul territorio, anche al fine di condividere tra studiosi termini e obiettivi che li caratterizzano. Ci si augura inoltre di alimentare un dibattito sulle possibilità di rimozione di alcuni di questi limiti strutturali, in un periodo di grande trasformazione delle istituzioni universitarie italiane.
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Il paper è una restituzione parziale e sintetica degli esiti di un progetto di ricerca triennale intitolato “The Participatory Action Research Approach to the Test of Southern Inertia. Comparing experiences to broaden Boundaries of Action in the Environmental and Community Planning Field,” condotto dall’autore attraverso il suo coinvolgimento attivo in entrambi i casi presentati. Il progetto è stato supportato Marie Curie International Outgoing Fellowship nell’ambito del 7th Programma Quadro dell’Unione Europea.
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Introduzione L’Università, per essere davvero militante, deve sottomettere le sue dottrine al test, non solo ai ragionati criticismi ma all’avventura creativa del mondo pratico (Branford & Geddes, 1917. p. 215). Il dibattito su quanto l’Università debba avere un ruolo attivo nella promozione dell’ideale democratico è uno dei più antichi. Soprattutto nelle discipline cosiddette tecniche, responsabili di produrre conoscenze da applicare a situazione reale (in contrapposizione alle discipline puramente descrittive responsabili della produzione di conoscenza ‘disinteressata’ e/o astratta), al modello torre d’avorio viene preferito quello di una Engaged Institution, che aiuta le comunità umane a risolvere problemi concreti mentre usa la realtà come campo di studi. Il supporto alla cosiddetta Scholarship of Engagement (Boyer 1990) si è molto diffuso a partire dagli anni ’70, soprattutto in ambito anglosassone, con l’idea che l’Engaged University aiuti studenti e ricercatori ad acquisire nuove conoscenze attraverso la costante riflessione critica nel corso dell’azione; l’eccellenza nel campo dell’educazione e della ricerca viene così raggiunta attraverso la stretta integrazione nei curricula ufficiali di teoria e pratica. Da un punto di vista etico, inoltre, il coinvolgimento attivo di docenti, amministratori e studenti in questioni controverse di carattere sociale, economico e ambientale permetterebbe infatti alle Università di giocare un ruolo attivo nell’adempimento dell’ideale democratico nelle società in cui esse operano, mentre gli studenti sono incoraggiati a diventare futuri cittadini attivi. Questo paper mette a confronto due casi diversi, uno siciliano e uno del sud degli Stati Uniti, in cui ricercatori in urbanistica e pianificazione hanno sposato la filosofia dell’Engagement, attraverso la creazione di partnership di lungo termine con gruppi e organizzazioni di comunità volte alla risoluzione di forti controversie locali e, in generale, alla promozione di sviluppo locale.
Due casi di University Engagement La Graduate Division of City and Regional Planning (CRP) e il Laboratorio per la Progettazione Ecologica e Ambientale del Territorio (LabPEAT) sono due unità di ricerca e didattica appartenenti a due relativamente grandi Atenei Universitari pubblici, rispettivamente l’University of Memphis, Tennessee, USA (UofM) e la siciliana Università degli Studi di Catania (Unict). Il LabPEAT fu fondato nel 1995 come laboratorio di ricerca ‘applicata’ interno al Dipartimento di Architettura e Urbanistica (DAU) della Facoltà di Ingegneria dell’Unict da due docenti interessati ai temi della progettazione ambientale e dell’Urbanistica partecipata (Busacca e Gravagno 2005). CRP, nella sua conformazione attuale, è invece una divisione (comparabile a un dipartimento, ma con meno autonomia amministrativa) dell’UofM che fu affiliata nel 1997 alla nuova School of Urban Affairs and Public Policies (SUAPP), quest’ultima nata con l’obiettivo di coordinare le attività di tutte le divisioni disciplinari con un taglio dichiaratamente tecnico al fine “legare la didattica, la ricerca, i servizi universitari e ogni forma di rapporto con il territorio con i bisogni specifici della regione del Mid-South” (SUAPP 2010: 4). CRP e LabPEAT condividono dunque l’affiliazione a un’unità amministrativa più ampia di natura tecnicoapplicata con stretti rapporti con il territorio, rispetto alla quale però sussistono notevoli differenze di approccio. Sia la Scuola di Ingegneria di Catania, e in particolare il DAU (oggi DARC), sia SUAPP sono soggetti coinvolti in numerosi contratti di collaborazione e consulenza con importanti attori territoriali, sia pubblici che privati, con cui co-finanziano le attività di ricerca e sulla base dei quali orientano i curriculum didattici. L’approccio prevalente in entrambe le strutture è quello del ricercatore-professionista, il quale “viene chiamato da una organizzazione che funge da cliente […] per studiare una situazione o una serie di problemi per determinare quali sono i fatti e per raccomandare un indirizzo d’azione. In questo modello, il ricercatore professionista controlla totalmente i progressi della ricerca nella misura in cui l’organizzazione-cliente non ponga alcuni limiti alle opzioni di ricerca stesse” (Whyte 1991, p. 8, 9). CRP e LabPEAT applicano invece la Ricerca Azione Partecipata, dall’inglese Participatory Action Research (PAR), in cui il ricercatore è un attore interno a un gruppo di ricerca misto di ricercatori professionisti e non, e condivide il controllo del processo di ricerca con tutti i membri del gruppo, in un processo che punta sia alla conoscenza che all’azione. Contrariamente al modello di consulenza applicato dal DARC e dalla SUAPP, queste due unità avviano partnership con comunità disagiate di lungo termine, talvolta ma non necessariamente legate a contratti di consulenza; se ci sono risorse finanziarie coinvolte, in genere queste vengono condivise con i partners esterni all’università che fungono da co-ricercatori a tutti gli effetti. In particolare, CRP lavora dal 2009 con la Vance Avenue Collaborative (VAC), una coalizione di associazioni e gruppi organizzati di uno degli storici quartieri afro-americani di Memphis per migliorare le condizioni abitative del quartiere; il LabPEAT,
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invece, lavora dal 2008 con una Coalizione di gruppi e associazioni della Valle del Simeto impegnati per la promozione di un modello di sviluppo locale equo e sostenibile’. La partnership di CRP con VAC inizia quando la City of Memphis annuncia la sua intenzione di trasformare un’area chiamata Triangle Noir (nome nuovo per indicare il quartiere di Vance) in un grande distretto per l’intrattenimento, con nuove residenze, un hotel di lusso, attraverso un investimento sia pubblico che privato di più di un miliardo di dollari. Uno degli elementi strutturali del Triangle Noir Plan era l’utilizzo di fondi HOPE VI2 per la demolizione e la ricostruzione del cuore del quartiere, Foote e Cleaborne Homes, i due soli quartieri di Public Housing della città. A fronte di numerosi problemi riscontrati nell’ambito di precedenti progetti HOPE VI implementati a Memphis (tutti con una % di residenti che ritornano inferiore al 15%) la partnership CRP-VAC ha dato vita a un processo di pianificazione partecipata al fine di generare una visione condivisa sul futuro del quartiere, con il chiaro obiettivo di contrastare il Triangle Noir Plan, percepito come un tentativo di gentrificazione, evitando l’evacuazione forzata dei residenti. Il processo è partito con il coinvolgimento di un corso universitario responsabile di ricerche d’archivio, rilievi fisici, interviste con leader e residenti al fine di produrre un report su problemi e potenzialità del quartiere. I risultati prodotti dalle ricerche erano continuamente presentati nel corso di incontri di comunità dalla cadenza mensile, e modificati in base ai feedback dei residenti, raccolti attraverso una varietà di tecniche partecipative (community mapping, esercizi di visioning, etc.). Per ogni incontro di comunità gli studenti e i docenti coinvolti nel progetto erano anche dediti a intense attività di outreach aventi la finalità di incoraggiare residenti e leader nella partecipazione diretta alle attività di ricerca. Il processo si è concluso con un Neighborhood Summit, i cui esiti, sintetizzati nel giugno 2010 in un documento denominato VAC Preliminary Planning Framework non erano certo in sintonia con il Triangle Noir Plan: i bisogni dei residenti avevano poco a che fare il problema della casa, infatti, in un quartiere dove l’unico servizio disponibile per i residenti a basso-reddito è proprio quello abitativo. I residenti avevano piuttosto bisogno di altri servizi e attrezzature di quartiere e soprattutto della creazione di posti di lavoro: in particolare il Framework poneva l’accento sulla necessità di usare specifici accordi pubblico-privati chiamati Community Benefit Agreement per legare i tanti incentivi pubblici dati agli investitori nell’area di Downtown alla creazione di posti di lavoro per i residenti di Vance. Nonostante ciò, a pochi giorni di distanza dalla presentazione pubblica della Framework la Città annunciava l’avvenuto finanziamento del suo quinto progetto HOPE VI per la ‘riqualificazione’ di Cleaborne Homes, demolito pochi mesi dopo e oggi già in fase di ricostruzione. Mentre tutti hanno cominciato a chiedersi quale fosse la sorte per Foote, a livello federale la disponibilità di fondi per questo tipo di operazioni stava progressivamente mutando. In un tentativo di affrontare i tanti criticismi mossi contro HOPE VI da valutatori ed esperti (Goez, 2003; Kleit e Manzo, 2006; Bennet et alii, 2006), l’agenzia federale responsabile del programma denominata Housing and Urban Development (HUD) aveva lanciato un nuovo programma di finanziamento denominato Choice Neighborhood (CN) con l’obiettivo di rendere più olistico e partecipativo l’approccio alla riqualificazione dei quartieri popolari. La necessità per la Città di Memphis di rivolgersi a questo programma di finanziamento per la riqualificazione di Foote ha condotto a una sorta di ‘partnership forzata’ con VAC, a cui è stato chiesto di essere fra i partners nell’ambito di un progetto di finanziamento – il Vance Choice Neighborhood Planning Grant (VanceCN) – per redigere un nuovo piano di riqualificazione per il quartiere. A partire dal luglio 2011, sono state replicate gran parte delle attività già svolte per redigere la Framework, ma allargando il numero di organizzazioni e residenti coinvolti, e potenziando le attività di raccolta dati. Il processo si è tuttavia svolto con un elevato livello di conflitto interno: da un lato, con il contratto di consulenza il comune si aspettava di aver cooptato VAC e sperava che le attività partecipative alimentassero il consenso attorno al progetto di riqualificazione di Foote basato ancora sul modello rilocazione-demolizione-ricostruzione; dall’altro VAC aveva percepito il contratto di consulenza come occasione per incidere sul processo decisionale in una direzione opposta (direzione peraltro confermata dai dati addizionali raccolti man mano). CRP è stato licenziato dal suo incarico di consulenza dopo un anno di collaborazione, ed è attualmente in corso uno scontro pubblico tra i due fronti; uno scontro il cui esito è ancora sconosciuto, ma che ha già prodotto alcuni risultati significativi: per la prima volta, in una città in cui il dibattito pubblico ha osannato HOPE VI senza in alcun modo dar voce alle tante difficoltà vissute dagli originari residenti del public housing, l’approccio della ‘deportazione in periferia dei residenti low-income’ e valorizzazione immobiliare delle aree vicine a downtown è stato pubblicamente messo in discussione, innescando un più ampio dibattito sulle grandi divisioni sociali ed etniche che persistono nella ‘Capitale’ della regione del Mississippi Delta. 2
HOPE VI è un programma di finananziamento creato dal US Department of Housing and Urban Development (HUD) nel 1992 dopo un lungo dibattito politico su come affrontare il problema del degrado di tanti quartieri di edilizia popolare statunitensi. HOPE VI permette alle Public Housing Authorities di ricevere fondi per demolire public housing projects considerati degradati e ricostruire nuovi quartieri a reddito misto dove solo 1/3 delle unità abitative sono per residenti a basso-reddito. Il progetto HOPE VI, che era partito con l’obiettivo di ‘deconcentrare la povertà’, ha ricevuto molte critiche associate alla dislocazione forzata dei residenti anche sotto la pressione immobiliare di speculatori privati interessati alla ‘privatizzazione’ di appetibili aree urbane centrali (si veda Goezt 2003, Popkin et alii 2004, Bennett et alii 2006 per una buona sintesi sull’argomento).
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La ricerca azione partecipata in urbanistica. Uno studio comparativo e una riflessione critica
La partnership tra il LabPEAT e la Coalizione per lo Sviluppo Sostenibile nella Valle del Simeto è nata all’indomani di un processo di mobilitazione sociale degli abitanti della Valle contro la decisione del 2002 di costruire a pochi km dal fiume Simeto uno dei quattro nuovi inceneritori previsti nell’allora nuovo piano regionale dei rifiuti; l’inceneritore era stato infatti percepito dalla comunità simetina come un grave ostacolo alla recente crescita di attività economiche legate al settore dell’ecoturismo e alla produzione di prodotti agricoli locali di alta qualità (spesso biologici), anche in funzione di evidenti infiltrazioni mafiose nelle procedure di incarico per la sua realizzazione e gestione. In pochi anni la Coalizione è riuscita non solo a bloccare i lavori di costruzione dell’inceneritore (progetto poi revocato a livello regionale) ma anche a fare pressione per l’avvio di un percorso di sviluppo della Valle condiviso e orientato ai valori della sostenibilità e di “rinaturalizzazione” e “valorizzazione” del fiume Simeto. Questo secondo obiettivo è stato maturato nell’ambito di un progetto di mappatura di comunità (Saija 2011), durato quasi sei mesi toccando quattro diversi territori comunali in più di 10 località sia urbane che rurali, coinvolgendo 500 mappanti, tra cui i rappresentanti di 22 associazioni o gruppi organizzati, e i rappresentanti istituzionali di 3 enti locali. Il primo evento della mappatura in particolare fu concepito come una open house dove i partecipanti erano messi nelle condizioni di condividere la proprio conoscenza e desideri di futuro per la valle, attraverso attività di mental mapping, interviste aperte e l’interazione con altri partecipanti davanti a una grande mappa murale di 10mx3m. Nel proseguimento del processo, queste modalità di lavoro sono state affiancate da: presentazioni pubbliche dei risultati intermedi; sessioni dedicate allo racconto di storie e leggende della valle; attività di mappatura dedicate alla risorsa idrica (sorgenti, sorgenti scomparse, inquinamento delle acque, etc.); sito per la mappatura on-line; reclutamento di mappanti con il porta-a-porta; interviste in profondità con esperti locali. L’evento finale è stato concepito come un workshop pubblico per la finalizzazione degli esiti della mappatura che ha coinvolto esperti e rappresentanti istituzionali. Il workshop ha prodotto un documento ufficiale consegnato poi ai rappresentanti della Regione, delle Provincie e dei Comuni simetini, contenente una mappa di comunità, una collezione di storie e leggende della valle, e una sezione maggiormente ‘politica’ che ha identificato: I tratti materiali e immateriali che caratterizzano l’identità simetina; Le idee condivise su come promuovere lo sviluppo sostenibile della Valle (ad esempio, produzione di cibo di alta qualità, creazione di posti di lavoro soprattutto legati a processi di lavorazione dei prodotti locali seguendo le tante ricette tradizionali della valle, promozione di attività economiche legate all’eco-turismo, azioni di supporto all’artigianato locale che usa le materie prime locali rinnovabili, ecc.); Azioni prioritarie che possono essere intraprese dai differenti attori locali (pubblici, privati e non-profit) nei diversi settori per lo sviluppo; Concreti progetti che potevano essere intrapresi dalle associazioni della Coalizione anche con scarso supporto istituzionale. Il documento, redatto con l’intenzione di influenzare l’allora redigendo Piano Strategico dell’Etna e altri strumenti simili in corso di redazione in tutta la Valle, è stato seguito da: due progetti di ‘riappropriazione comunitaria’ di due aree solitamente destinate a discarica abusiva (Raciti 2012); l’inizio di un processo di istituzionalizzazione di un approccio misto istituzionale-comunitario (Ostrom 1990) ‘dal basso’ alla pianificazione ambientale e per lo sviluppo che ha preso il nome di un Patto per il Fiume, seguendo il modello dell’Accordo di paesaggio implementato per il fiume Panaro (www.parcopanaro.it, Pizziolo and Micarelli 2011; per maggiori dettagli cfr. Pappalardo 2011 e Saija 2013).
Convergenze Nei casi qui sintetizzati, la PAR è stata implementata da ricercatori universitari per affrontare evidentemente problemi di natura molto diversa. A Memphis, VAC sta tentando di influenzare il processo decisionale a favore degli svantaggiati, ispirata da un ideale di giustizia sociale che è profondamente legato all’antico ma ancora attuale dibattito sui diritti civili americano. In Sicilia, la Coalizione per il Simeto sta invece lavorando per la creazione di una nuova organizzazione sociale capace di stabilire una nuova alleanza con Madre Natura, ispirata per lo più da un ideale di sostenibilità ambientale combinato alle locali istanze anti-mafia. Eppure, a guardar bene, i due casi hanno in comune più di quanto sembri da una osservazione superficiale. CRP e il LabPEAT condividono l’idea che la PAR sia distinguibile da altri approcci di ingaggio università-territorio per il fatto che si confronta in modo diretto e aperto con dinamiche di potere (cfr. Hall 2005, per una buona rassegna sull’argomento). In entrambi i casi i ricercatori stabiliscono infatti una partnership con organizzazioni più o meno formalizzate accumunate da forti perplessità iniziali sulle modalità con cui vengono condotti i processi di pianificazione ‘ufficiali (in Sicilia, il piano dei rifiuti della Regione Siciliana del 2002 e il Piano Strategico dell’Etna; a Memphis, il Trinagle Noir Plan e il Vance Choice Neighborhood Trasformation Plan); in entrambi i casi, l’obiettivo principale della partnership è quello di ‘spostare l’ago della bilancia del potere’ a favore di organizzazioni di comunità, aumentando la loro capacità di influenzare i processi decisionali. Laura Saija
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A Memphis, si tratta di forzare le elite locali a cambiare il loro modo di rappresentare il public housing e più in generale la povertà, quest’ultima considerata una condizione sociale legata alla mancanza di capacità individuali di auto-miglioramento, affrontabile dunque con approcci di determinismo sociale e fisico: HOPE VI è infatti un a approccio che affronta ‘il problema della povertà’ attraverso attività educative che mirano all’autostima e cambiamenti dell’ambiente sociale e fisico di residenza (un ambiente caratterizzato da abitudini e valori della classe media). VAC denuncia invece il fatto che ci siano cause strutturali delle scarse qualità della loro vita, cioè la distribuzione iniqua delle risorse pubbliche e delle opportunità, reclamando di essere trattati non come individui che devono imparare l’autostima, ma piuttosto come comunità sulla cui storia non è possibile speculare con un Entertainment District. In Sicilia, la Coalizione vuole invece forzare le istituzioni pubbliche ad adottare principi di trasparenza e sostenibilità delle decisioni, abbandonando un antico ‘costume locale’, ossia quello di prendere decisioni a porte chiuse e quasi sempre in favore di qualche interesse privato di dubbia legalità. La comunità simetina sta chiedendo alle autorità di affrontare, una volta per tutte, una amara realtà, di cui bene o male tutti sono consapevoli: che la gestione delle risorse ambientali (acqua, energia, rifiuti, etc.) è di fatto uno dei settori di profitto più importante per il crimine organizzato siciliano (Legambiente 2007-12). In entrambi i casi, dunque, le partnership università-comunità si confrontano con quelli che possono considerarsi gli ostacoli più rilevanti per il pieno compimento dell’ideale democratico nel proprio contesto di riferimento; ed entrambi lo fanno facendosi coinvolgere da un progetto altamente controverso che mette in crisi i processi decisionali ufficiali (e le strutture di potere stabile che vi stanno alla base). In entrambi i casi, le tecniche della pianificazione partecipata sono usate non tanto come strumenti nelle mani delle istituzioni per creare consenso attorno alle scelte pubbliche; esse sono piuttosto usate come strategie per incrementare nei partecipanti una coscienza del loro status di ‘impotenza’ e ‘sottomissione’ (in sintonia con i presupposti della pedagogia libertaria che considera questo il primo passo per un cambiamento sociale di carattere strutturale). Si tratta dunque di un uso delle tecniche partecipative molto diverso da quello tipico dell’approccio comunicativo, ispirato dall’etica del discorso di Habermas (1983), per il quale l’obiettivo è quello di effettuare una scelta d’azione che può essere condivisa da gruppi che hanno interessi anche contrastanti (Susskind & Field, 1996; Innes & Booher, 1999). Queste due partnership non affrontano il problema della mediazione tra interessi contrastanti, poiché, affinché ci sia un contrasto tra gruppi con interessi diversi, tali gruppi devono già essere formati; in altre parole deve già essere avvenuto un processo attraverso cui individui diversi hanno maturato la propria appartenenza a un gruppo e quindi la condivisione identitaria e di interessi con altri individui. I due casi presentati sono invece rilevanti ai fini della formazione di soggetti collettivi eventualmente capaci di innescare conflitti e affrontare eventuali processi di mediazione. Lo scopo del processo di pianificazione stesso è proprio quello di fornire una esperienza collettiva attraverso cui singoli individui possano maturare una identità collettiva (Castoriadis 1997). Nei casi del Simeto e di Vance, le partnership università-comunità hanno, di fatto, iniziato un processo di pianificazione partecipativo che, almeno inizialmente, non aveva alcuna legittimità istituzionale. Tale legittimità viene acquisita nel corso del processo, attraverso: Un impatto diretto nei processi decisionali pubblici (la nascita del progetto sul Patto di Fiume Simeto in Sicilia e il coinvolgimento di VAC nel Vance Choice Neighborhood Planning Initiative a Memphis); La nascita di piccolo progetti di comunità autogestiti (community gardens al posto di discariche abusive in Sicilia; una cooperative per la vendita di cibo fresco ed economico chiamata The Green Machine a Memphis). Entrambi questi livelli dell’azione sono cruciali per la formazione di nuovi soggetti collettivi che intraprendono l’ardua missione di destabilizzare antiche strutture di potere con l’immissione di nuove istanze politiche: senza progetti concreti, il solo focus sulla democratizzazione dei processi decisionali sarebbe percepito come infinito ed esaurirebbe presto gli entusiasmi di chi ha poi problemi concreti nel quotidiano. Viceversa, rimanendo al solo livello dei problemi concreti senza l’ambizione di voler democratizzare i processi decisionali, l’azione collettiva non sarebbe percepita come davvero trasformativa.
È sufficiente? La bontà degli esiti di queste due esperienze di partnership università-comunità non può esimerci dal discutere eventuali aspetti problematici di questo approccio alla ricerca in urbanistica. In che misura il lavoro di CRP e del LabPEAT stanno davvero contribuendo al cambiamento politico e sociale? Quanto sostenibili e duraturi sono i buoni esiti prodotti? Quanto si è davvero inciso nelle strutture di potere esistenti? Sia il caso americano che quello siciliano dimostrano come la PAR sia un terreno di lavoro fertile e promettente per una disciplina, come la pianificazione, il cui paradigma disciplinare è chiaramente orientato all’azione. Se ciò è vero, come mai esso appare un approccio largamente minoritario nel campo della ricerca a livello globale? Da una prospettiva focaultiana, è possibile guardare ai dibattiti epistemologici come profondamente influenzati dalle stesse strutture di potere che influenzano la società: poiché l’essenza della PAR è la redistribuzione di potere (potere di conoscere, di decidere, di agire) in favore di chi potere inizialmente non ne ha, non può destare Laura Saija
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sorpresa il fatto che tale approccio può essere difficile da digerire per grandi istituzioni la cui esistenza finanziaria dipende in misura sempre crescente dalle strutture di potere esistenti. Sia UofM sia Unict, così come la maggior parte delle altre università Europee e Nord-Americane, hanno visto notevolmente ridotti i finanziamenti pubblici, e guardano con sempre maggiore interesse al supporto finanziario di privati. Ciò rende molto difficile il supporto, genuino e/o pubblico del lavoro svolto da piccole unità di ricerca come CRP e il LabPEAT, coinvolte in progetti così controversi. Alla fine degli anni ’90, rispondendo al crescente entusiasmo per la Scholarship of Engagement in nord America, Goldsmith sosteneva l’impossibilità che le università potessero abbracciare progetti davvero trasformativi: Le università continueranno, comprensibilmente, a essere preoccupate dei loro problemi – bilanci difficili, domande interne crescenti, e nuove pressioni dalle forze governative e dai finanziatori privati (Goldsmith, 1998: 1246). In sintonia con tale previsione, l’impegno di CRP e del LabPEAT in un approccio alla ricerca mirato al cambiamento sociale non riflette affatto la mission delle loro Università di appartenenza. Il loro lavoro è, in entrambi i casi, condotto con risorse molto limitate, un alquanto occasionale supporto istituzionale di natura verbale e certo non amministrativo-finanziaria. In questa prospettiva, quanto sostenibili nel tempo possono essere queste partnership? E quanto il poco supporto istituzionale condiziona la loro capacità di produrre esiti positivi e duraturi? Nei due casi presentati il lavoro è condotto con scarsissime risorse dedicate alle attività di outreach a di PAR, talvolta attraverso l’interpretazione ‘creativa’ di progetti di finanziamento tradizionali. Oltre all’impegno personale, e in grande parte volontario sia dei membri della comunità sia degli universitari, non ci sono livelli di organizzazione amministrativa e finanziaria che possono garantire una continuità del lavoro, il quale quindi risulta molto incerto nonostante i buoni esiti iniziali 3. Ciò porta a chiedersi quanto le correnti riforme universitarie in Italia – orientate alla privatizzazione delle risorse finanziarie per l’istruzione e la ricerca – permetteranno a progetti di natura controversa come quelli qui presentati di continuare in futuro, e in generale quanto le Università potranno costituire un reale centro di innovazione sociale e culturale nei contesti che ne hanno più bisogno.
Bibliografia
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Due esemplari casi di PAR applicata per lo sviluppo locale – la Highlander Folk School fondata nel 1932 nel Tennesse (Horton 1997) e il Centro per la Piena Occupazione nella Sicilia Occidentale fondato da Danilo Dolci negli anni ’50 (Dolci 1974, Barbera 2011) – hanno operato per molti anni con continuità prima di raggiungere risultati significativi. Entrambi questi centri non erano tuttavia parte di grandi e potenti università. C’è da chiedersi se la loro totale autonomia non possa essere anche il ‘segreto del loro successo’.
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La ricerca azione partecipata in urbanistica. Uno studio comparativo e una riflessione critica
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Comunanze urbane, autorganizzazione e urbanistica
Comunanze urbane, autorganizzazione e urbanistica Chiara Belingardi Università degli Studi di Firenze DiDA – Dipartimento di Architettura Email: chiara.belingardi@gmail.com
Abstract Superata l'idea dell'urbanista tecnico o tecnica, con degli strumenti sicuri di intervento, viene consegnato alla nostra disciplina la responsabilità di fare delle scelte, muovendosi nell'incertezza.Questo accade principalmente con quei luoghi che sono gli spazi terzi, che non appartengono a nessuna delle due logiche (Stato- Mercato), ma si basano sulla autorganizzazione comunitaria. Alcuni tra questi spazi, in cui il valore d'uso ha più rilevanza della proprietà, in cui le regole di gestione vengono decise in maniera condivisa e ricorsiva e attorno cui ruotano delle persone che attraverso la gestione diventano comunità, si possono ascrivere alla logica dei beni comuni. Essendo in questo caso lo spazio urbano a essere messo in comune, questi luoghi possono essere definiti come Comunanze Urbane. Parole chiave Comunanze Urbane, autorganizzazione, diritto alla città
1 | I dilemmi dell'Urbanista Avere a che fare con l'urbanistica e la pianificazione territoriale vuol dire avere a che fare con un campo disciplinare complesso, a statuto debole, con connotati etici e politici estremamente rilevanti (si ha a che fare con l'ambiente di vita delle persone, che ne condiziona pesantemente l'esistenza). Sempre più si fanno strada e prendono voce le rivendicazioni di nuove popolazioni urbane, che emergono con i loro volti, le loro corporeità, le loro culture e le loro biografie e richiedono che le loro specificità vengano tenute in conto, ovvero di non essere trattati e trattate come utenti generici o generiche, che si devono adattare alla forma dell'urbano, ma che al contrario siano gli spazi e le politiche ad adattarsi a loro. Superata l'idea dell'urbanista tecnico o tecnica, con degli strumenti sicuri di intervento, viene consegnato alla nostra disciplina la responsabilità di fare delle scelte, muovendosi nell'incertezza. Le scelte riguardano il tipo di questioni di cui ci si vuole occupare e la loro rilevanza, come e chi coinvolgere (un'idea di pianificazione affidata solo all'esperto o all'esperta chiuso/a nel suo studio sembra essere sempre di più sorpassata), da che punto di vista e come affrontare le questioni, a chi affidarne la soluzione, con che strumenti e come leggere i risultati. Molti di queste scelte si presentano sotto una forma dilemmatica e richiedono una riflessione etica e politica, più che tecnica. Mauro Giusti, nel suo testo «Urbanista e terzo attore» (Giusti, 1995) parla di un dilemma tra rigore e rilevanza, sostenendo la necessità di scegliere tra due ambiti di intervento: uno in cui l'urbanista può usare con profitto e rigore le conoscenze e le tecniche disciplinari, poiché i problemi che appartengono a questo ambito – a cui si riferisce come a delle «terre alte» - sono ben delineabili, l'altro – le «basse terre paludose»- in cui i problemi si presentano confusi e disordinati e in cui gli strumenti propri della disciplina sono pressoché inservibili: «L'ironia di questa situazione, il suo carattere paradossale, consiste nel fatto che i problemi delle 'terre alte' tendono ad essere relativamente non importanti per gli individui o l'intera società, comunque grande possa essere il loro interesse tecnico, mentre nella 'palude' giacciono i problemi di maggiore interesse umano. Si tratta di scegliere tra il rigore delle pratiche e la loro rilevanza» (Giusti, 1995: 83-84).
Chiara Belingardi
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Altri dilemmi derivano per esempio dalla parte in cui collocarsi (l'amministrazione, gli abitanti, gli interessi economici), dalla scelta tra ricerca di universalità o rilevanza da dare alla specificità dei luoghi e dei casi, dalla lettura e valutazione che se ne da e via discorrendo. Se si scegli di lavorare con gli abitanti, dando spazio alla loro libera iniziativa, è necessario anche decidere se e quando intervenire e che grado di vuoto e di disordine è possibile 'sopportare'.
2 | I movimenti urbani e il diritto alla città In questo ultimo periodo si fa molto spesso riferimento al «Diritto alla Città», un concetto espresso per la prima volta dal filosofo francese marxista Henri Lefebvre negli anni '60. Di fronte alla città del capitalismo industriale e a modelli di produzione dello spazio che stavano creando quartieri sempre più anonimi, modi di abitare sempre meno significanti e più alienanti e costruendo uno spazio urbano sempre più escludente e ingiusto, il filosofo conia il concetto di diritto alla città come «diritto all'opera» – intesa nel doppio senso di diritto di partecipare alla costruzione e di godere di uno spazio prodotto in maniera significante, come un'opera d'arte appunto – e «diritto all'uso», ovvero del diritto delle persone di accesso e uso dello spazio urbano per soddisfare i propri bisogni, indipendentemente dalla proprietà. Il valore d'uso, in particolare, è ciò che determina l'esistenza e il valore della città: «La città e la realtà urbana dipendono dal valore d'uso. Il valore di scambio, la generalizzazione della merce prodotta dall'industrializzazione tendono a distruggere, subordinandosela, la città e la realtà urbana, ricettacoli del valore d'uso, germi di una virtuale predominanza e d'una rivalutazione dell'uso.» (Lefebvre, 1976: 23). Ora la città non è più costruita sulla base del capitalismo industriale, ma del neoliberismo. Si assiste alla progressiva 'commodificazione' e mercificazione del tessuto urbano, all'enclosure degli spazi comuni e degli spazi pubblici, alla predominanza del valore economico e della proprietà privata. (Marella, 2012; Brenner, Marcuse, Mayer, 2012; Harvey, 2008 e 2012b). A livello internazionale molti studiosi radicali ne danno conto, come ad esempio Harvey, un geografo statunitense, che sostiene: «The common is not, therefore, something that existed once upon a time that has since been lost, but something that is, like the urban commons, continuously being produced. The problem is that it is just a continuously being enclosed and appropriated by capital in its commodified and monetized form, even as it is being continuously produced by collective labour.» (Harvey, 2012a: 77): il tessuto urbano, inteso come bene comune, è qualcosa che viene continuamente prodotto dalla società urbana e dagli abitanti, ma che continuamente viene appropriato dal capitale nelle sue diverse forme. Una delle ricadute che derivano dalla finanziarizzazione dello spazio urbano è la cementificazione selvaggia del territorio. Martinelli in «Le conseguenze del cemento» spiega che può essere addirittura vantaggioso per chi costruisce un immobile lasciarlo vuoto, senza vendere gli appartamenti: esso può essere utilizzato come garanzia per avere ulteriori prestiti da parte delle banche, dichiarandone il valore, ma senza un'effettiva controprova, che sarebbe data appunto dalla vendita stessa; in termini tecnici gli immobili invenduti servono a rafforzare lo stato patrimoniale del bilancio dei costruttori. (Martinelli, 2011). La negazione della libertà di uso dello spazio urbano però non deriva solo dalla sua privatizzazione: attraverso le retoriche della sicurezza e del decoro urbano anche le pubbliche amministrazioni normano fortemente i comportamenti delle persone, ad esempio attraverso le ordinanze (Pompili, 2012; Simone, 2010). Di fronte a queste negazioni emergono i movimenti urbani di riappropriazione dello spazio urbano, movimenti che attraverso le loro pratiche sono in grado di rimettere in circolo quelli che sono gli spazi negati sotto forma di beni comuni (Cellamare, 2012): «Le forme di autorganizzazione e autogestione stanno costruendo in molti casi uno spazio di azione diretta e autonoma degli abitanti, dove lavorare 'nonostante' l'amministrazione. Allo stesso tempo è all'interno di questi processi che si producono 'beni comuni', non come categoria astratta legata ai diritti o alle identità, ma come insieme di condizioni concrete, materiali e immateriali, esito indiretto di un processo collaborativo, o anche semplicemente concorrente, comune.» (Cellamare, 2012: 40). Esempi di questo tipo sono numerosissimi: dagli orti e giardini condivisi, alle cosiddette occupazioni culturali (occupazioni di teatri e cinema e autorganizzazione della programmazione), la destinazione di alcuni spazi di occupazioni abitative a servizi per il quartiere (biblioteche, sportelli per migranti, ludoteche, corsi di italiano per stranieri e via di seguito). Essendo l'organizzazione dello spazio urbano il riflesso della società, è possibile individuare alcuni spazi che sono il frutto di particolari organizzazioni sociali: alcuni sono luoghi riflesso del 'pubblico', dello Stato; altri, come abbiamo accennato, sono i luoghi della privatizzazione, del Mercato; la società tuttavia non si esaurisce in queste due componenti: esistono degli spazi terzi, che non appartengono a nessuna delle due logiche, ma si basano sulla autorganizzazione comunitaria. Alcuni tra questi spazi, in cui il valore d'uso ha più rilevanza della proprietà, in cui le regole di gestione vengono decise in maniera condivisa e ricorsiva e attorno cui ruotano delle persone che attraverso la gestione diventano comunità, si possono ascrivere alla logica dei beni comuni. Essendo in questo caso lo spazio urbano a essere messo in comune, questi luoghi possono essere definiti come Comunanze Urbane.
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3 | Le comunanze urbane di riappropriazione e uso della città, proponendo la definizione di comunanze urbane come cornice di senso entro cui collocarle. Con questo si intende sottolineare la positività non della pratica in sé, quanto piuttosto quali sono le caratteristiche che rendono le comunanze necessarie per la creazione di una città che vada nella direzione del diritto alla città: non tutti i giardini condivisi sono hanno le stesse ricadute positive, ne hanno molte di più quelli che costituiscono una risposta alla necessità allargata di significazione dello spazio, sia in senso di costruzione e gestione, sia nel senso di uso (quelli che a cui è possibile accedere con facilità, che possono essere vissuti liberamente e la cui comunità è abbastanza allargata e permeabile). Questa griglia di lettura è composta da sei elementi, che provengono dalla letteratura che riguarda i beni comuni: 1. Prevalenza del valore d'uso rispetto al valore di mercato. Questo è il caso degli spazi occupati, in cui la proprietà è diversa dalla comunità di persone che la gestisce; altrettanto è il caso di quelle comunanze che si innestano in posti il cui valore economico speculativo è molto basso o quasi nullo, i cosiddetti wasteland. Un caso interessante è quello del Terreno di via Casilina Vecchia: la proprietà di questo triangolo di terra, stretto tra i binari e l'acquedotto romano, è delle Ferrovie, che lo hanno concesso in comodato d'uso al Municipio, che con un accordo informale lo ha affidato al comitato di quartiere. In questo caso il valore economico del bene è relativamente basso, ma il valore d'uso è elevatissimo per tutti gli abitanti del quartiere e la piacevolezza del luogo attira persone anche da fuori zona. 2. Condivisione, autogestione, flessibilità. La comunità di riferimento si auto-riconosce e si autogestisce attraverso consuetudini e norme continuamente modificate per rispondere a nuove esigenze e mutamenti nella gestione del luogo; da questa caratteristica discende l'aspetto di spazi in costruzione che molti di questi luoghi hanno, come racconta Alessandra Olivi nel caso dell'Huerto del Rey Moro a Siviglia: « tuttavia l’impressione di trovarsi di fronte ad uno spazio in costruzione. Eppure, l’immagine incompiuta ed indefinita che proietta lo
Huerto del Rey Moro si configura, in tal senso, come il risultato di un processo di negoziazione collettiva mediante il quale vengono selezionati e rinnovati i valori ed i significati attribuiti allo spazio.» (Olivi, 2012: 66) 3. Coesistenza di bene, regole d'uso comunitarie e comunità di riferimento. Come non è possibile definire un bene comune senza uno di questi tre elementi, lo stesso vale per le comunanze urbane: è necessario che siano un luogo gestito da una comunità in maniera condivisa, senza intenti lucrativi e in modalità aperta. Un esempio in questo caso sono i Community garden di New York: sono una cinquantina di giardini autogestiti da gruppi di persone che si trovano nel Lower East Side a New York, nati come risultato di un movimento di riappropriazione dello spazio urbano negli anni Settanta, hanno ottenuto la gestione da parte del Comune attraverso un accordo, il Green Thumb1. Alcuni vengono aperti quasi tutti i giorni, almeno nella bella stagione, altri rimangono chiusi. A volte – ma solo poche e sono in alcuni – è possibile vedere il giardino con delle persone dentro e il cancello chiuso a chiave. Benché siano lo stesso tipo di spazio e siano egualmente gestiti da un gruppo di abitanti, è chiaramente possibile individuare come le ricadute sul quartiere siano molto differenti. 4. Coesistenza di valore relazionale, valore fiduciario e valore simbolico: grazie al lavoro e alle relazioni che vi instaurano, questi luoghi diventano densi di significato e di senso. 5. Vicinanza gestione-esigenza sociale, come accade nelle politiche pubbliche dal basso (Paba, 2010). Nella sua elencazione delle caratteristiche delle politiche pubbliche dal basso, Giancarlo Paba ne segnala in particolare tre: «affrontano problemi che hanno per il destinatario un valore decisivo, per così dire di vita o di morte; […] si sintonizzano in modo sottile sui problemi che debbono trattare, aderendo ai corpi degli abitanti, ai contesti umani, sociali e ambientali; […] sono pratiche sensibili alle differenze, modulate sulle diversità delle popolazioni urbane - di età, genere, provenienza geografica e culturale, modalità di lavoro e di consumo, condizione sociale, stile di vita, abilità fisiche, preferenze sessuali.» (Paba, 2010: 108-109)2. Un caso 1 2
Mi interessava in questo caso delineare molto rapidamente la caratteristiche. Per una trattazione della storia e delle caratteristiche dei Community Garden di New York si rimanda a Pasquali (2008) Altre caratteristiche sono: «trasportano i destinatari dentro le pratiche, strappandoli all'indifferenza e all'inesistenza sociale, attraverso forme di inclusione attiva, se è possibile dire così; [...] esaltano l'aspetto interattivo, costruiscono beni relazionali, producono relazioni a mezzo di relazioni; adottano modelli di conoscenza interattiva, valorizzando il sapere dei destinatari, costruendo/modificando le informazioni nel corso dell'azione; sono multi-obiettivo, colpiscono obbiettivi differenti tra loro intrecciati (intrecciano obbiettivi che sembravano irrelati), il successo di ciascun obbiettivo dipendendo dal raggiungimento degli altri; mettono in relazione le persone, istituiscono il corpo a corpo tra le persone: bodies matter, i
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interessante da questo punto di vista è quello del Parco dei Galli, nel quartiere di San Lorenzo, a Roma: essendo nel quartiere mancanti spazi per il gioco dei più piccoli, lo spazio è stato costruito e attrezzato per il gioco dei bambini sotto gli otto anni: una cancello – accostato – erba, altalene, lo scivolo, un casotto autocostruito, sedie e tavoli (messi da una parte); inoltre sono a disposizione dei bambini alcuni giochi che sono stati donati dalle famiglie: sono diventati così proprietà del parco e i bambini possono usarli in condivisione, a patto poi di rimetterli a posto. La chiusura e la presenza di altre famiglie da un senso di sicurezza e di protezione, grazie a cui i bambini possono giocare con una certa libertà e a volte vengono affidati agli altri accompagnatori per andare a fare piccole commissioni (si tratta sempre di tempi molto limitati). Inoltre questo è uno spazio di integrazione per i nuovi arrivati del quartiere;
orappresentazione nello spazio. 7. Inclusività e non esclusività: come accennavamo parlando dei Community Garden di New York, è vitale che questo tipo di spazi non abbiano una modalità di gestione proprietaria: la chiusura, l'esclusione, il “lasciare gli altri fuori dalla porta” appartiene a questo tipo di logica. Individuata la cornice in cui leggere questo tipo di pratiche di comunanza urbana, rimangono comunque molti interrogativi riguardanti le strategie che l'urbanista può adottare, che necessariamente devono variare caso per caso, a seconda delle modalità di gestione messe in campo dalla comunità e ai problemi che questa incontra.
4 | Alcune possibilità di trattamento Posto che ci sia la volontà da parte di un'autorità (pianificatore e/o amministrazione comunale) di lavorare in sinergia con le comunanze urbane, riconoscendo il valore della loro attivazione ed empowerment, ci sono tre azioni che può intraprendere: la prima è la conoscenza e la lettura critica delle pratiche, la seconda azione è di sostegno e valorizzazione, la terza azione riguarda l'attivazione. Conoscere le pratiche è il primo passo di interazione: significa andare a visitare le comunanze, conoscere le urgenze/esigenze a cui rispondono e i modi in cui vengono gestite. La lettura critica è altrettanto necessaria, perché permette di riconoscere il valore delle pratiche (riconoscere le enclosures e le pratiche dannose) e di scegliere il tipo di rapporto da costruire (o non costruire in alcuni casi) con la comunità di gestione della comunanza, evitando una trattazione burocratica. Da non sottovalutare è l'enorme potenziale di attivazione che risiede nel conflitto: a volte osteggiare una pratica si rivela il modo migliore per rafforzarla, come per esempio accade in alcuni luoghi occupati, che si tende a lasciare il più aperti possibile per avere più protezione in caso di sgombero. Una volta stabilito che una comunanza ha necessità di un sostegno o ne verrebbe rafforzata, è necessario che questo venga stabilito di comune accordo tra gli attori, prevedendo la possibilità (propria della comunanza) di sperimentazione e di regolazione attraverso la consuetudine (il che significa che le regole, così come il tipo di sostegno, possono essere ridiscusse). Un'azione importante consiste nel creare reti di comunanze: far conoscere (se questo già non succede) le diverse realtà tra loro, creare o facilitare momenti di incontro e di scambio. Si intende per attivazione il sostegno alla creazione di comunanze urbane: non può essere stabilito aprioristicamente dal pianificatore che uno spazio verrà messo in comune. Ciò che può essere fatto è la creazione di una comunità che lavori in uno spazio attraverso un percorso di partecipazione e autocostruzione; lo stimolo agli abitanti attraverso bandi di affidamento ad associazioni/gruppi informali che prevedano poche regole (sul modello dei Jardins Partages di Parigi), il sostegno a gruppi che conducono un lavoro di innesco (guerrilla gardening, SLURP, o altro) dove questo non comprometta la forza che sta dentro queste iniziative.
corpi contano, nelle pratiche sociali auto – organizzate; [...] sfruttano la forza dei legami deboli, mettendo in rapporto reti di relazioni differenti, accostando mondi diversi, in un processo di reciproca fertilizzazione; sono basate sulla circolarità e la gratuità delle prestazioni; puntano alla qualità, intesa non come proprietà della cosa o del servizio, ma come proprietà relazionale, sistemica; mobilitano terzo, quarto, ennesimo settore (dal volontariato "egoista" a quello più gratuito e spontaneo);sono pratiche disegnate sui diritti di chi non ha diritti, sono rivolte a chi non è eligibile, per definizione; le pratiche si decidono, si definiscono caso per caso: sono uniche, adatte a una situazione specifica, traducibili ma essenzialmente non replicabili; si diffondono (e mutano nella diffusione)per disseminazione, gemmazione, contagio, imitazione - adattamento, proliferazione orizzontale; sono caratterizzate da un'attenzione (quasi ossessiva) sui modi di fare, ritenuti più importanti non solo del cosa fare, ma anche del come fare; superano (tentano di superare) l'opposizione tra il sostantivo e il processuale (il modo di fare è insieme la cosa e il come, in queste forme particolari di azione sociale).» (Paba, 2010, pag. 108 – 109). Chiara Belingardi
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Comunanze urbane, autorganizzazione e urbanistica
Bibliografia Monografie Brenner N., Marcuse P., Mayer M., (eds., 2012), Cities for people, not for profit. Critical urban theory and the right to the city, Routledge, London and New York. Cellamare C. (2012), Progettualità dell'agire urbano. Processi e pratiche urbane, Carocci, Roma. Giusti M. (1995), Urbanista e terzo attore. Il ruolo del pianificatore nelle iniziative di autoproduzione degli abitanti, L'Harmattan, Torino. Harvey D. (2012a), Rebel cities. From the right to the city to the urban revolution, Verso, London, New York. Harvey D. (2012b), Il capitalismo contro il diritto alla città. Neoliberismo, urbanizzazione, resistenze, Ombre Corte, Verona. Harvey D. (2008), “The right to the city”, in New Left Review, [trad. it.] Salpietro Lettera internazionale. Lefebvre H. (1976), Il diritto alla città, Marsilio Editori, Padova. (ed. or. 1968, Le droit à la ville Anthropos, Paris). Martinelli L. (2011) Le conseguenze del cemento. Perchè l'onda grigia cancella l'Italia? Protagonisti trama e colpi di scena di un copione insostenibile, Altreconomia edizioni, Milano. Marella M. R. (a cura di, 2012), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni. Ombre Corte, Verona. Olivi A. (2012), “Oltre il parco e l’orto urbano. Spazio pubblico in movimento e nuovi immaginari urbani”, in Sociologia Urbana e Rurale, n. 98, pp. 67-72 Paba G. (2010), Corpi urbani. Differenze, interazioni, politiche, FrancoAngeli, Milano. Pasquali M. (2008), I giardini di Manhattan. Storie di guerrilla gardens, Bollati Boringhieri, Torino. Pompili R. (2012), “Safety o security? Femminismo, città biopolitica e produzione del commonfare”, in Marella M. R. (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni. Ombre Corte, Verona. Simone A. (2010), Corpi del reato. Sessualità e sicurezza nella società del rischio, Mimesis Edizioni, Milano.
Chiara Belingardi
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Quale innovazione per i servizi urbani?
Quale innovazione per i servizi urbani? Emma Puerari Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Email: emma.puerari@mail.polimi.it
Abstract Il paper si propone di esplorare i meccanismi di innovazione dei servizi urbani. In particolare si concentra sul ruolo che possono svolgere le amministrazioni catturando un evidente potenziale intrinseco dei sistemi urbani ovvero quelle forze urbane singolari, isolate, in alcuni casi minute, eppure capaci di proporre, e addirittura implementare in forma embrionale, idee di servizi in risposta a problemi socio-urbani cui le città non riescono a dare risposta e che spesso stentano a riconoscere. La tesi sostenuta studia come le amministrazioni possono diventare drivers di creatività e rinnovamento dell’offerta dei servizi urbani. Gli attivatori di innovazione urbana sono tipicamente sistemi complessi che includono diversi attori, quali persone, relazioni, valori, processi, strumenti, strutture fisiche o finanziarie. Il paper si propone quindi di analizzare alcuni di questi attivatori e di sviluppare un’ipotesi sul ruolo delle amministrazioni nel traghettare tali embrioni verso possibili servizi per la città. Parole chiave istituzioni, innovazione, servizi urbani
Motivazioni I sistemi urbani complessi possiedono un forte potenziale innovativo, tanto da poterli considerare come veri e propri contenitori di flussi e di scambi di conoscenza tra gli abitanti e gli altri attori che frequentano il sistema urbano stesso (Dvir, 2005). Partendo da questo presupposto, il paper vuole esplorare proprio i meccanismi e le interconnessioni che si creano tra i diversi attori, che quando producono innovazione presentano caratteristiche specifiche che tendono a mantenersi nel tempo. Negli ambienti urbani queste caratteristiche danno forma a ciò che è conosciuto come ‘Innovazione Urbana’. La tesi proposta nel paper, partendo dallo studio della letteratura esistente riguardo a Urban Innovation Engine (Dvir, 2004), studia come le amministrazioni possono diventare ‘driver’ di creatività e rinnovamento dell’offerta di servizi urbani. Gli attivatori di innovazione urbana capaci di innescare, generare, favorire e catalizzare l’innovazione nella città, sono tipicamente sistemi complessi che includono le persone, le relazioni, i valori, i processi, gli strumenti e le infrastrutture fisiche o finanziarie. E’ all’interno di questi sistemi che possono manifestarsi embrioni di servizi. Si presuppone che queste possano essere manifestazioni isolate, minute o temporanee, capaci di proporre, suggerire e addirittura implementare, anche in forme abbozzate, idee di servizi in risposta a problemi sociourbani ai quali le città e le amministrazioni spesso stentano a rispondere o addirittura a riconoscere. In modo particolare in un momento di crisi, in cui le sfide della sostenibilità nella città moderna richiedono la ricerca di soluzioni non necessariamente infrastrutturali, è necessario ricercare soluzioni che possono essere attuate senza grandi investimenti finanziari. Seguendo la teoria proposta da Dvir (2004), il paper vuole quindi analizzare alcuni di questi attivatori e sviluppare un’ipotesi sul ruolo delle amministrazioni nel traghettare tali embrioni verso possibili servizi per la città, divenendo esse stesse ‘driver’ di innovazione.
Emma Puerari
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Quale innovazione per i servizi urbani?
Nuovi sguardi sui servizi La letteratura ha spesso analizzato il concetto di ‘innovazione urbana’ dal punto di vista spaziale, sostenendo che la concentrazione geografica di sistemi di conoscenza può costituire un’infrastruttura che promuove il trasferimento di informazioni e diminuisce il rischio e il costo per l’attività di ricerca e sviluppo per le imprese. Questo ha come effetto diretto la crescita delle imprese situate in queste aree e la successiva volontà e necessità delle altre aziende di trasferirsi verso le ‘aree innovative’. Questi interessi di tipo economico costituiscono poi implicazioni dirette con le politiche attuate dalle aziende private e dalle amministrazioni (Feldman, 1994; Breschi, 1999). Negli ultimi anni sono stati analizzati altri aspetti dell’innovazione urbana, come la governance (Dente et al.2005; Swyngedouw, 2005) di creazione di reti sociali (Gerometta et al., 2005) ed all’interno di una dimensione relazionale (Dvir, 2003, 2005; Moulaert et al., 2005; Cooke 2007). In particolare la teoria di Dvir (2005) sostiene come sia possibile applicare il modello di ‘Innovation Ecology’, composto dalle diverse dimensioni di un sistema complesso, all’interno di una ‘Knowledge Citiy’, sollecitando gli attori urbani tradizionali a divenire traghettatori di creatività e rinnovamento creando un ‘Urban Innovation Engine’. Proprio perché l’innovazione è il processo con cui si dà valore alla conoscenza, un ‘urban innovation engine’ è un sistema che può sollecitare, generare, facilitare e catalizzare l’innovazione all’interno delle città. Esso è un sistema complesso che include le persone, le relazioni che esistono tra loro, gli strumenti, le infrastrutture fisiche, tecnologiche e finanziarie. Seppur assai lontano dalla letteratura sulle città, Nonaka (1998) afferma che un motore di innovazione urbana è un ‘ba’, ovvero un luogo che facilita la creazione di conoscenza ed innovazione. E’ un contesto condiviso in cui emergono le relazioni tra i suoi diversi componenti, una piattaforma per la creazione di conoscenza collettiva. Per comprendere quale potrebbe essere in particolare il ruolo delle amministrazioni come ‘facilitatori’ nella promozione di servizi pubblici all’interno di questi motori di innovazione urbana, è necessario intendersi sul concetto di servizio pubblico; quali sono le caratteristiche che identificano un servizio pubblico? E soprattutto, chi lo fornisce?. Tradizionalmente la fornitura di servizi pubblici è associata a due tipologie di agenti: ‘partnership pubbliche’ (PP) o ‘partnership private’ (PP), da un lato il ‘Leviatano burocratico’, dall’altra il mercato. Più recentemente è stata suggerita per la fornitura di servizi, la possibilità di ‘partnership pubblico-private’ (PPP). Ad esempio, Ostrom (1990) definisce la gestione delle risorse comuni come la ricerca di soluzioni ottimali in un insieme infinito di combinazioni possibili, che può essere sviluppata in una struttura flessibile, che può essere adattata ai bisogni degli ‘appropriatori’, ovvero gli stessi attivatori di innovazione. In questo caso la struttura presentata è una ‘PPP’, in cui le diverse parti si combinano ogni volta in differenti modalità, a seconda delle necessità del contesto. La ricerca più recente comincia a considerare invece la possibilità di nuove possibili ‘partnership’, sottolineando la necessità di ‘valorizzare le persone’ nell’implementazione di servizi pubblici (Denhardt & Denhardt, 2011, p.42). In questa prospettiva le comunità creative possono rappresentare l’espressione di un’innovazione radicale nel fornire servizi pubblici, nello sviluppare sistemi di servizi partecipativi e collaborativi (Manzini et al. 2008; Baek et al., 2010). In questa prospettiva Osimo (2011) sostiene come ‘i servizi pubblici (collaborativi) migliorano maggiormente quando una grande quantità di persone li utilizza’, proprio perché le persone generano informazioni e dati utili al successo del servizio stesso. Seguendo questa visione la letteratura sta cercando di dimostrare come i progetti PPP hanno fallito nel produrre alcune caratteristiche, espresse in processi di acquisto, che invece appaiono desiderabili, e come invece è possibile sviluppare una nuova ‘partnership’ che coinvolga il settore pubblico, quello privato e le stesse persone (modello a quattro P).,Per garantire il successo di un servizio, infatti, è necessario che gli acquirenti pubblici e i fornitori privati capiscano le limitazioni delle attuali pratiche PPP per poter sviluppare in futuro una produzione di servizi maggiormente orientata ai bisogni degli utenti (Majamaa, 2008; Majamaa et al., 2008; Kernaghan, 2009; Zhang & Kumaraswamy, 2012).
Prospettive di lavoro Il paper vuole dimostrare, inserendosi in questa prospettiva, come il modello ‘4P’, all’interno di un ‘motore di innovazione urbano’ possa rappresentare un’occasione di innovazione per la realizzazione di servizi pubblici. In particolare si interessa di come le amministrazioni, inserendosi in questo modello possano diventare facilitatori di innovazione. In un momento di crisi e difficoltà economica come quello che stiamo affrontando le amministrazioni devono essere in grado di rispondere tramite nuove tipologie di servizi alla nuova domanda urbana emergente senza necessariamente mettere in atto dispendiose politiche infrastrutturali. In diversi esempi internazionali è emerso come le persone, in situazioni di difficoltà e bisogno, siano riuscite ad auto-organizzarsi, ad associarsi e a sfruttare la loro forza collettiva per riuscire a gestire i problemi quotidiani che la città propone, cercando anche di attirare l’attenzione delle amministrazioni. Emma Puerari
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Quale innovazione per i servizi urbani?
Inoltre, il mondo attuale dimostra ogni giorno come siano cambiate le modalità di connessione tra le persone: gli strumenti web 2.0, come i blog, wikipedia, la condivisione di foto e i social network hanno reso possibile un’esperienza virtuale maggiormente partecipativa. E’ interessante in questo caso analizzare come queste tecnologie disponibili, fruibili e collaborative, possano costituire non soltanto le interazioni sociali, ma anche un nuovo tipo di coinvolgimento dei cittadini nella vita, nella comunità e nello spazio della città stessa (Foth et al., 2011). Le amministrazioni devono quindi riuscire a sfruttare queste potenziale intrinseco dei sistemi urbani complessi, che costituiscono i ‘motori di innovazione urbana’, sfruttando la capacità delle persone di auto-organizzarsi delle persone anche tramite le tecnologie, riuscendo a cogliere i bisogni dei cittadini ed imparando a proporre e facilitare la costituzione di questi eventi di collaborazione tra cittadini, istituzioni, che costituiscono continui occasioni di ricerca, sviluppo e innovazione. Le amministrazioni all’interno degli ‘urban innovation engine’, arene dove può avvenire lo scambio e il confronto tra i diversi attori durante il processo di produzione di servizi pubblici, non rappresentano necessariamente il produttore o l’utilizzatore di questi beni comuni, ma possono ad esempio essere semplicemente degli attori che intervengono nella costruzione e/o gestione del processo stesso, divenendo veri e propri ‘facilitatori’ della produzione di servizi. Solo all’interno di queste arene può avvenire, può essere rintracciato il coinvolgimento dei cittadini, auspicato da Denhardt & Denhardt (2011). Il ruolo dei differenti attori all’interno di questi processi è flessibile, fluito, può avere valore temporaneo; è determinato dal contesto specifico in cui questi motori di innovazione si sviluppano. Non esiste, dunque, un modello ottimale, in cui attori pubblici, privati e i cittadini si possono combinare, ha piuttosto senso pensare ad un insieme infinito di soluzioni possibili costituito e definito dai contesti in cui il processo di innovazione si sviluppa. L’innovazione stessa diviene quindi la continua interazione tra i diversi attori che collaborano nella produzione dei servizi pubblici.
Conclusioni Il paper proposto, essendo il frutto di una tesi di dottorato ancora a livello embrionale, iniziata da pochi mesi, si propone di costituire un ‘framework’ teorico per ipotizzare un ruolo per le amministrazioni come agenti abilitanti dell’innovazione dei servizi urbani, e di proporre quelle che possono essere le prossime possibili prospettive di lavoro. La teoria proposta cerca di dimostrare come all’interno dei motori di innovazione urbana, considerati come processi e occasioni di creatività e sviluppo le amministrazioni possano svolgere un ruolo fondamentale all’interno di ‘partnership’ pubblico-private che coinvolgono le persone come agenti fondamentali. La riflessione su questa teoria pone alcune questioni fondamentali, a cui dare risposta non è semplice, o forse non è possibile dare risposta univoca o assoluta, perché strettamente connessa al contesto in cui l’innovazione nella produzione di servizi pubblici si sviluppa. ‘Cosa avviene quando i cittadini, le persone, diventano anche produttori di servizi pubblici e non solo utenti?’ ‘Come possono le istituzioni dare valore alle comunità organizzate nella produzione dei servizi pubblici?’ ‘Qual è lo spazio d’azione dei diversi attori, in particolare delle amministrazioni? Sono produttori, utilizzatori, promotori di politiche?’ ‘Qual è il tipo di interazione che le amministrazioni possono avere con le persone?’ ‘Come possono le istituzioni coinvolgere realmente le persone?’ ‘E’ possibile utilizzare tecnologie a basso impatto infrastrutturale per coinvolgere e connettere le persone?’ ‘Dove si trova l’interazione tra le istituzioni e gli utenti dei servizi?’ ‘Quali sono le possibili implicazioni e cambiamenti che questo modo di produrre servizi pubblici può avere sullo spazio urbano?’
Bibliografia Baek, J.S., Manzini, E., Rizzo, F. (2010), “Sustainable collaborative services on the digital platform: Definition and application”, Design Study Journal, no. 5. Breschi, S. (1999), “Spatial patterns of innovation: evidence from patent data”, in Gambardella, A. Malerba, F. (ed.) The Organization of Economic Innovation in Europe, Cambridge University Press, Cambridge, pp. 71 102. Cooke, P. (2007), “To Construct Regional Advantage from Innovation Systems First Built Policy Platforms”, European Planning Studies, no. 2, vol. 15, pp. 179 - 194. Denhardt, J.V., & Denhardt, R. B. (2011), The new public service. Serving, not steering, M. E. Sharpe, New York. Dente, B., Bobbio, L., Spada, A. (2005), “Government or Governance of Urban Innovation? A Tale of Two Cities”, disP-The Planning Review, no. 162, Vol. 41, pp. 41 - 52.
Emma Puerari
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Quale innovazione per i servizi urbani?
Dvir, R. (2003), “Innovation Engines for Knowledge city”, Journal of Knowledge Management, no. 8, vol.5, pp. 16 - 27. Dvir, R., (2005), “Knowledge City, seen as a Collage of Human Knowledge Moments”, in Carillo, F. K. (ed.) Knowledge Cities: Approaches, Experiences and Perspectives. Feldman, M. (1994), The Geography of Innovation, Kluwer Academic, Boston, MA. Foth, M., Forlano, L., Satchell, C., Gibbs, M. (ed. 2011), From Social Butterfly to Engaged Citizen, Mit Press, Boston. Gerometta, J., Haussermann, H., Longo, G. (2005), “Social Innovation and Civil Society in Urban Governance: Strategies for an inclusive City”, Urban Studies, no. 11, vol. 42, pp. 2007 - 2021. Kernaghan, K. (2009), “Moving towards integrated public governance: improving service delivery through community engagement”, Review of Administrative Sciences, no. 2, vol. 75, pp. 239 - 254. Majamaa, W. (2008), “The 4th P-People- in urban development based on Public-Private-People Partnership”, TKK Structural Engineering and Building Technology Dissertations, no. 2. Majamaa, W., Junnila, S., Doloi, H., Niemesto, E. (2008), “End-user oriented public-private partnerships in real estate industry”, International Journal of Strategic Property Management, no. 12, pp. 1 - 17. Manzini, E., Jégou, F., Penin, L. (2008), “Creative Communities for Sustainable Lifestyles. In 2nd Conference of the Sustainable Consumption Research Exachange”, (SCORE!) Network, Proceedings: Referred Sessions I-II. Moulaert, F., Martinelli, F., Swyngedouw, E., Gonzalez, S. (2005), “Towards Alternative Model(s) of Local Innovation”, Urban Studies, no. 11, vol.42, pp. 1969 - 1990. Nonaka, I., Konno, N. (1998), “The concept of ‘ba’: building a foundation for knowledge creation”, California Management Review, no. 3, vol.40, pp. 40 - 54. Ostrom E. (1990), Governing the commons, The Evolution of Institutions for Collective Action”, Cambridge University Press, Cambridge. Swyngedouw, E. (2005), “Governance Innovation and the Citizen: The Janus Face of Governance-beyond-theState”, Urban Studies, no. 11, vol. 42, pp. 1991 - 2006. Zhang, J, Kumaraswamy, (2012), Public-Private-People Partnership (4P) for Disaster Preparedness, Mitigation and Post-disaster Reconstruction, University of Hong Kong, Hong Kong.
Sitografia Articolo riguardante “collaborative e-government”, disponibile su egov20.wordpress, nella sezione dedicate al mese di novembre: http://egov20.wordpress.com/2011/11/03/collaborative-e-government-public-services-that-get-better-the-morepeople-use-them
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Lo spazio di invito all’azione
Lo spazio di invito all’azione Fabrizio Pusceddu Università degli Studi di Sassari Dipartimento di Architettura, Design, Urbanistica Email: fabrizio_pusceddu@yahoo.it
Abstract Progettare lo spazio pubblico della città contemporanea significa gestire culture, necessità e aspettative individuali estremamente eterogenee, assecondare soggettive forme e modalità di presa di contatto e confronto con i luoghi. È lo spazio dell’integrazione, dove ognuno deve sentirsi libero di sviluppare il proprio personale progetto di azione all’interno di un contesto condiviso. La comprensione dei meccanismi cognitivi che regolano le relazioni tra spazio-corpo-mente, sintetizzabili nell’atto percettivo, è la chiave per formulare un approccio al progetto dello spazio orientato in senso attivo e cooperativo. Parole chiave Integrazione, azione, conoscenza La città contemporanea ci pone dei problemi di natura etica, ma anche molto pratica: come possiamo far convivere in uno stesso spazio, ancor più se pubblico, persone con culture, interessi, bisogni diversi e non sempre compatibili. È il problema dell'integrazione. Una risposta è nella natura dei comportamenti umani, incapaci di stabilire relazioni se non tramite personali processi di conoscenza. Nell’etimologia stessa del termine conoscenza è contenuto un significato attivo che lega la presa di contatto con la realtà ad una necessità di scelta, decisione, presa d’atto di uno stato di cose del mondo e che determina come non possiamo forzare condizioni di intersoggettività senza favorire meccanismi soggettivi di appropriazione dello spazio, direttamente dipendenti dalla capacità di azione. Nell’atto percettivo, l’azione diretta alla conoscenza, è contenuta la componente soggettiva ed interpretativa che porta alla definizione di personali letture della realtà che ci circonda come un complesso di elementi mediato da un’organizzazione che rende la realtà accessibile sottoforma di conoscenza. «Ogni mente vede, ad ogni momento, un mondo tridimensionale immensamente complesso; ma non c'è assolutamente nulla che due menti possano vedere simultaneamente. Quando diciamo che due persone vedono la stessa cosa, troviamo sempre che, a causa del differente punto di vista, vi sono differenze, per quanto lievi, tra il loro oggetto sensibile immediato.» (Russell, 1995: 87) È la chiara presa di coscienza di come la percezione del mondo sia un fatto soggettivo, talvolta condivisibile, ma intimamente privato; quando si dice che 'si vede la stessa cosa' significa solo che le prospettive dei punti di vista sono talmente vicine tra loro da approssimarsi alla coincidenza, ma senza poter comunque mai arrivare ad essere identiche. La distinzione tra mondi privati e la lettura delle differenze è data dalle diverse aspettualità che più o meno consapevolmente si individuano nelle relazioni col mondo che ci circonda. Il 'cosa' e il 'come' divengono elementi estremamente correlati, inscindibili rispetto alla capacità attiva dei soggetti di considerare la realtà rispetto ai propri obiettivi e finalità e alla loro attitudine ad operare particolari tipi di selezione rispetto ad una certa aspettativa di possibilità. Silvano Tagliagambe sintetizza tali relazioni come «dipendenti dal ruolo attivo della nostra percezione e dal linguaggio che ne articola lo sviluppo dall’indagine esperenziale all’enunciazione dei significati.» (Tagliagambe, 1991) La condizione interpretativa è quindi intrinseca alla conoscenza stessa, inevitabile ed irraggirabile perché costitutiva della presa di contatto dei soggetti con il mondo. Quando diciamo che il «linguaggio è una maniera di ritagliare il mondo in classi di cose distinte» (De Saussure, 1916) significa definire una sintassi. E definire una sintassi significa stabilire un'organizzazione, ovvero progettare. In questo senso il progetto assume un ruolo chiave per l’accesso alla conoscenza. Tale processo è Fabrizio Pusceddu
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Lo spazio di invito all’azione
arbitrario, spesso involontario e accompagna qualsiasi momento di presa di contatto e relazione con la realtà; il ruolo del progetto emerge come personale strumento di conoscenza, ma anche come dispositivo di produzione di senso nel passaggio dalla soggettività della formulazione all’intersoggettività della sua divulgazione e ambizione di condivisione. Lo spazio fornisce affordances -occasioni di azione- e il soggetto, tramite il funzionamento del proprio sistema cognitivo, coglie opportunità in base ad una forma di scommessa, previsione, su come sarà quello stesso spazio nel futuro in funzione della sua presunta scelta di azione -principio di utilità- ed alle relazioni che intende avviare nei confronti degli altri e di tutti gli oggetti di cui si compone il suo ambiente di riferimento. La conoscenza non è più unicamente fatto cognitivo, ma direttamente collegata alla necessità di agire. Per agire necessitiamo di conoscenza, ma ad essa non possiamo accedere se non agendo. È un processo simultaneo e reciproco che investe la nostra necessità e capacità di selezione, di escludere parti di mondo per concentrarci sugli aspetti ed elementi che più interessano al nostro scopo, espresso ancora una volta tramite un’organizzazione. Berthoz individua le ragioni di questo processo nel bisogno degli esseri umani di legare reciprocamente la componente percettiva con la componente motoria, il ‘percepire qualcosa in funzione di’ e il ‘fare qualcosa in funzione di’. (Berthoz, 1997) Al centro di queste operazioni è il cervello che diviene macchina di convergenza tra le due componenti, oltre che di elaborazione delle informazioni e simulatrice di azioni. L'azione non è pura conseguenza di un processo di lettura ed interpretazione, ma momento di comprensione di uno stato di cose del mondo, dove la percezione diviene sua parte integrante e indiscernibile; è un processo che non si struttura per fasi nettamente distinguibili, ma nel compimento, effettivo o simulato, di ‘atti motori’ che portano a definire i comportamenti dei soggetti non come ‘meri movimenti’. (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006 : 3) In questi termini possiamo sostenere che il nostro cervello ci fornisce le coordinate rispetto alle quali muoverci nello spazio e che queste sono soggettive, seppur in parte condivise da persone culturalmente e geneticamente simili che si trovano all'interno di uno stesso ambiente. Le coordinate spaziali del nostro corpo sono in diretto rapporto con le coordinate spaziali del mondo ed il nostro sistema celebrale ci consente di mettere in relazione i differenti sistemi permettendoci di agire, muoverci, prendere decisioni. Emerge così il problema, già preannunciato da Poincaré, di uno spazio non unitario, dinamico e personalmente concepito; «la costituzione motoria dello spazio, in virtù del quale esso appare come un sistema di azioni coordinate, (…) non è definita una volta per tutte, sicchè lo spazio non può essere descritto in maniera statica, bensì deve essere concepito in forma dinamica. In altre parole la distinzione tra vicino e lontano non può essere ridotta a una mera questione di centimetri, come se il nostro cervello calcolasse la distanza che separa il nostro corpo dagli oggetti in termini assoluti.» (Rizzolati, Sinigaglia, 2006: 71) La comprensione dello spazio è per noi fatto per lo più inconscio e la percezione di un determinato aspetto del mondo esterno in termini positivi o negativi (ad esempio quanto la luce sia più o meno brillante in un particolare contesto) non dipende da una misura oggettiva, ma è strettamente legato alle risposte del nostro corpo in relazione all'attività che si ha intenzione di svolgere. La mente necessita di stimoli esterni per poter elaborare le informazioni e confrontarsi con la realtà; vi sono dei rapporti diretti tra stimolazione sensoriale e sistema cognitivo e le moderne tecniche di rilievo ci permettono di controllare e misurare tali aspetti. (Eberhard, 2008) Se la scelta ed il compimento di una determinata azione abbiamo visto essere esclusivamente soggettivi, dipendenti da un complesso processo di percezione che contiene in sé già le componenti di interpretazione e di azione, è altresì evidente come l'esistenza umana sia fondata sulle relazioni tra persone e sulla costruzione di condizioni di intersoggettività. Significa riconoscere la nostra capacità di immedesimarci in un comportamento o azione da altri effettuata pur senza compiere noi alcun movimento, fino a provare emozioni come se noi stessi fossimo i protagonisti della scena osservata. Questo processo di immedesimazione -dipendente da una particolare categoria di neuroni denominati mirrorpuò essere considerato a tutti gli effetti un ‘processo empatico’. Di fatto accade che il soggetto faccia suo il comportamento di un altro, sia esso nuovo o conosciuto, tramite un processo di copiatura, imitazione, non solo orientato verso i movimenti ma addirittura nelle intenzioni. (Gallese, 2008: 28-33) L'Embodied Simulation -la capacità simulativa del nostro corpo, tramite il cervello, di ripercorrere azioni nostre o altrui-, sarebbe fondamentale per comprendere il mondo intorno a noi, imparare dalle esperienze compiute dagli altri, costruire relazioni intersoggettive. L’esperienza spaziale assume un senso attivo, dove anche l’immedesimarsi è un progetto personale di conoscenza del mondo che porta a considerare lo spazio non come portatore di significati precostruiti, ma luogo di possibilità dove l’interpretazione e l’attribuzione di significato muove dal soggetto alla forma e non viceversa. La ricerca dell’integrazione implica perciò la libertà degli uomini di agire in uno stesso spazio secondo il loro personale progetto di azione, che interessa mente e corpo, nella definizione del proprio mondo, ma non l’obbligo di incontro o condivisione di idee. Le relazioni tra spazio e corpo emergono come processo interattivo; il soggetto per costruire conoscenza deve potersi porre in maniera non passiva, non unicamente recettiva, ma attiva nei confronti dello spazio. Fabrizio Pusceddu
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Lo spazio di invito all’azione
Il ‘progetto di spazi di invito all’azione’, spazi del coinvolgimento e dell’autocostruzione, è spesso sinonimo di ‘non progetto o progetto debole’. Ciò che invece si intende dimostrare è come la città contemporanea abbia bisogno di tali tipologie spaziali e che per poterle produrre sia necessario un progetto forte e consapevole, secondo un orientamento metodologico dichiarato. Le relazioni tra corpo e spazio così come finora intese, ovvero esplorate attraverso una chiave di lettura fornitaci dalle nuove scoperte in campo neuroscientifico, sono questioni ancora poco indagate a livello teorico ed ancor meno integrate in campo progettuale. Nella storia recente tali rapporti hanno trovato per lo più sintesi in manuali di ergonomia, forma e funzione, nella calibrazione del dimensionamento ottimale degli spazi rispetto ad un'idea di uomo standardizzato, ma con la conseguenza che «l'attenzione per l'uomo standard ha portato a dimenticare l'uomo concreto e (…) l'eccessiva attenzione agli standard funzionali ha portato ad un progressivo abbattimento della qualità degli spazi.» (Prestinenza Puglisi, settembre 1999: 6) Integrare al progetto dello spazio il ‘senso della possibilità’ significa concepire il corpo nella sua capacità di scelta e di libertà di azione; in questo senso il progetto emerge come processo di rappresentazione soggettiva della realtà intesa già in funzione del suo divenire futuro. Quando parliamo dunque della necessità di progettare ’spazi di invito all’azione‛ intendiamo spazi che, per propria struttura e configurazione, favoriscano il ruolo attivo dei soggetti che con essi si troveranno a confrontarsi, suggeriscano forme e modalità di azione calibrandone il giusto livello di libertà a seconda del particolare ruolo che quello specifico spazio è chiamato a ricoprire a livello urbano. Spazi che guidino il visitatore e ne orientino i comportamenti secondo un progetto consapevole di conoscenza. In una fase in cui molti critici, professori anche di una certa fama e prestigio, si scagliano contro il ruolo contemporaneo del progetto (Branzi, 2010), gli studi e le recenti scoperte neuroscientifiche intorno ai rapporti tra corpo e spazio, alle relazioni tra mente ed atti motori, azioni, sostengono una cosa chiara e ben giustificata: il progetto dello spazio, in tutte le sue scale, per gli uomini non è solo utile ma indispensabile. Credere che questo possa essere del tutto spontaneo, demandato unicamente all’agire per agire delle persone che si trovano nel bisogno di dover trovare autonomamente i riferimenti del proprio spazio è cosa possibile, ma totalmente irresponsabile per chi, all’interno della disciplina, acquisisce consapevolezza di tali meccanismi. In questa tesi si fondano i presupposti teorici per lo sviluppo di una coscienza progettuale che consideri lo spazio come ‘entità ulteriormente progettabile’, un progetto cooperativo che acquisisce significati in divenire grazie all’azione dei soggetti al suo interno. Le definizioni sul ruolo dello spazio pubblico nella città contemporanea sono molteplici, perché molteplici sono le derive concettuali intraprese dal progetto dello spazio urbano nel passaggio dalla modernità alla postmodernità. È un «problema di forma» per Sennet (Sennet, 1992), secondo cui l'interiorità dei cittadini non è rappresentata dalla geometria del potere della città moderna, così come sarebbe per noi impossibile trovare un equilibrio emotivo nell'aggressività dello spazio post-moderno, una decostruzione che non collabora, ma al contrario si oppone, agli usi ed ai comportamenti che le persone vorrebbero fare della propria città. La ‘colpa’ sarebbe così da attribuire agli architetti capaci di ricreare la sterilità degli spazi in cui gli urbanisti ripongono le loro buone intenzioni per un miglioramento della qualità della vita urbana (Sennet, 1982). È la perdita dell'interpretabilità nei confronti della città che si configura sempre più come un «magma indefinito» secondo Amendola. (Amendola, 2008) È lo spazio della conoscenza e della formazione. (Cicalò, 2010) E ancora: «spazio della diversità e dell'interscambio» (Borja, Muxì, 2001), «cyberspazio» (De Kerckhove, 2001), spazio collettivo, comune, condiviso, ‘spazio simbolico, spazio delle relazioni, spazio accessibile, spazio di visibilità’. (Cicalò, 2010) Ma qualunque sia il significato, più o meno condiviso, che si attribuisce allo spazio pubblico contemporaneo o la definizione ad esso associata, una serie di elementi risultano ricorrenti. La contemporaneità, nel passaggio dal moderno al post-moderno, rottura culturale e strutturale per le nostre città, palesa una necessità di riorganizzazione secondo quel sottile processo ciclico e spontaneo, che nei tempi recenti si fa sempre più rapido, di perdita dei riferimenti laddove esiste un eccessivo vincolo alla libertà di assegnazione di significati allo spazio, per poi ritrovarsi di nuovo privi di qualsiasi guida di aiuto alla decisione -scelta di azione e comportamenti- e bisognosi di nuova organizzazione. É ciò che Perez-Gomez identifica nel passaggio dallo spazio della rappresentanza a quello della rappresentazione, uno spazio intermedio (Perez, Gomez, 1996), dove nella convergenza delle attenzioni e necessità comuni ha luogo quel processo di consapevolezza che permette di sviluppare la propria soggettività all'interno di un tutto contestuale. Questi aspetti racchiudono l'importanza della capacità del progetto di fornire forme e modalità di interpretazione soggettiva all'interno di una piattaforma comune. Lo sfondo di riferimento risulta così essere allo stesso tempo di natura spaziale e culturale, premessa ed obiettivo di un processo di conoscenza del mondo che avviene tramite l'azione. «La comparsa di questi nuovi protagonisti (interpretazione e progetto) evidenzia come il compito che attende un sistema orientato verso la conoscenza del contesto in cui è immerso e opera non sia quello di rappresentare una realtà già strutturata e definita in tutte le sue componenti, ma quello di incidere operativamente su un ambiente Fabrizio Pusceddu
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inteso come sfondo e un campo d'azione che, almeno in parte, va inteso come un qualcosa da strutturare e ordinare ad opera della sua cognizione e del suo comportament.» (Maciocco, Tagliagambe, 1997: 142) Il progetto, alla luce di tali considerazioni, emerge sempre più come processo cooperativo dove lo spazio è un'entità dinamica ed ulteriormente progettabile dalle azioni dei soggetti che con esso si relazionano ed interagiscono. La libertà di scelta e di comportamento, la possibilità di sviluppare la propria soggettività intesa come ulteriore personale progetto di conoscenza di ognuno sul mondo, è racchiusa nel grado di interpretabilità che da progettisti assegniamo allo spazio e che abbiamo visto essere cognitivamente e inscindibilmente legata alla percezioneazione. «L'interpretazione appare necessaria (...) come modo d'essere di un soggetto che si trova in un mondo già fortemente strutturato, che in varie forme lo condiziona; i progetti d'azione sono i modi in cui egli si può orientare in quel mondo; ogni interpretazione, ogni progetto, nasce da qualche problema pratico e qualche domanda di senso che portano ad una presa di distanza dalle condizioni di appartenenza (richiedono cioè uno sforzo fenomenologico).» (Piaget , 1972) Ma non solo, possiamo andare oltre e dire che l'interpretazione non è necessaria, ma indispensabile. Nessun soggetto può confrontarsi ed interagire con il suo contesto spaziale di riferimento se non tramite un processo d'interpretazione, soggettivo e perlopiù inconscio, che abbiamo visto essere contenuto nell'atto percettivo. Dobbiamo quindi considerare due ordini di progetti dello spazio, uno comune, quello del progettista -la prima mossa spaziale-, e uno individuale, ovvero quello di tutti coloro che per muoversi, agire, comportarsi in quello spazio dovranno riversare su di esso il proprio personale progetto di azione. Lo spazio attivo, lo spazio della scelta consapevole e dell'azione, dove tale attività è concessa in egual misura a tutti i soggetti, è ciò che, per gli aspetti finora trattati, contraddistingue uno spazio pubblico contemporaneo. Le nostre città necessitano di tali spazi, talvolta è sufficiente scoprirli, più spesso, in particolare in luoghi già fortemente strutturati, è importante progettarli. Dobbiamo intendere il progetto come dispositivo di produzione di interpretazione, ‘progettare entità ulteriormente progettabili’, dove la percezione-interpretazione-azione del soggetto nello spazio è parte integrante della sua organizzazione. È la creazione di ‘pre-testi’ (Umberto Eco, 2004), premesse progettuali fondate sulla convinzione che non possa esistere un'unica interpretazione corretta di uno spazio, un'unica collezione di azioni determinate in esso contenute, ma vi sia una molteplicità di significati che ogni soggetto, confrontandosi con quello spazio, è portato ad attribuire rispetto al suo personale progetto di azione. Tale processo si sviluppa tramite l'atto percettivo che abbiamo visto essere condizione estremamente soggettiva. È lo ‘spazio come macchina pigra’, per dirla attraverso una similitudine con il testo letterario nelle analisi di Umberto Eco (Umberto Eco, 1979), che per essere compreso necessita di un'operazione di completamento da parte del ‘lettore’ di quello spazio, un'operazione di progettazione individuale su di essa. Si tratta della scoperta di ‘mondi possibili’ che per le regole di funzionamento dei nostri meccanismi cognitivi passano tramite l'azione o una sua simulazione sul mondo. E se lo spazio si lega all'azione e l'azione alla conoscenza, intervenire sullo spazio significa responsabilmente organizzare forme e modalità della conoscenza. Tale approccio progettuale passa per la riconsiderazione di alcune categorie proprie del progetto dello spazio e che, se giustamente concepite, si pensa possano essere alla base di una metodologia chiara e consapevole di organizzazione spaziale: il vincolo –il progetto come pretesto, premessa spaziale che esclude tutto ciò che quello spazio non deve essere-, la cooperazione -lo spazio che nel suo divenire necessita di un’azione di completamento da parte dei soggetti che ne fruiscono-, la flessibilità -non sinonimo di effimero, ma apertura al progetto individuale che ogni soggetto è costretto a compiere per poter agire nel mondo-. Mentre il vincolo nega interpretazioni possibili, la flessibilità ne suggerisce alcune preferenziali che il soggetto può dichiaratamente accogliere, collaborando in maniera cooperativa alla costruzione del suo spazio. Lo spazio è condiviso, l'esperienza è personale e la sua condivisione è fatto possibile, augurabile, ma non indispensabile, conseguenza dell'incontro non semplicemente tra gruppi di persone, ma tra personali progetti di azione non necessariamente condivisi.
Fabrizio Pusceddu
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Bibliografia
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Fabrizio Pusceddu
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Fessure. Saggio sulla fine di una civiltà
Fessure. Saggio sulla fine di una civiltà1 Maddalena Rossi Università degli Studi di Firenze DUPT Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio Email: nenarossa@gmail.com Tel: 340.8496696
Abstract Tra le pieghe della ‘liquidità patinata’ delle città contemporanee sta crescendo un’altra città, quella dei ‘territori di margine’. Fessure, avanzi tra i frammenti della città diffusa o spazi abbandonati nella città storica e consolidata, brani interstiziali carichi di valore simbolico e, ciò nondimeno, residuali, indecisi, sospesi. Essi divengono, in alcuni casi, catalizzatori di un’umanità in eccesso, prodotto residuale delle dinamiche mondiali di globalizzazione, sedi di un abitare informale, precario, diminuito, in un connubio forzato tra dimensione fisica e dimensione sociale della marginalità. Spesso pratiche urbane informali e innovative, rimodellano la fisionomia di tali spazi, non ripetendo copioni messi a punto una volta per tutte, ma rischiando radicalmente, ogni volta, una nuova situazione. E allora non c’è inchiostro, ma vita. Il come rapportarsi alla dimensione ‘informale’ di questi luoghi diventa sfida prioritaria per l’urbanistica contemporanea, dagli esiti non prevedibili, ma con la speranza di un agire comune: costruire lo spazio ed il tempo di una comunicazione nuova, per comporre una nuova città, in cui possa convergere, in un’azione creativa, ogni diversità storicamente strutturata. Parole chiave Fessure, margini, pratiche.
1 | I racconti «C'è un laghetto poco lontano da qui, nelle giornate luminose calme e senza vento riflette con infinita meraviglia la natura che si affaccia sulle sue rive, un'immagine doppia, appena velata, lontana da quella reale, eppure così fedele, ma cosa accade quando si solleva il vento e nulla è più in equilibrio... ? Lo specchio s'infrange e della serena e rassicurante immagine si perdono i contorni ed emerge una rivolta degli elementi » (Punzo, 2010).
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Il sottotiolo del paper ‘Saggio sulla fine di una civiltà’ prende il nome da uno spettacolo della Compagnia della Fortezza di Volterra, dal titolo ‘Hamlice. Saggio sulla fine di una civiltà’. Lo spettacolo è una combinazione drammaturgica che associa due testi: Hamlet di Shakespeare e Alice in Wonderland di Caroll. È un viaggio irriverente dalla tragedia del potere chiuso in un palazzo all’anarchia di Caroll col suo mondo alla rovescia, in cui i personaggi, detenuti attori, si ribellano al gioco della rappresentazione e escono dai propri ruoli. Esattamente come fa il romanzo di Carroll che sovverte la realtà ribaltando le prospettive. Dalla tragedia del potere al trionfo anarchico della fantasia, è una giostra febbrile di corpi tatuati e gesti pieni di poesia, cappelli di nuvole e monologhi incandescenti, danze macabre, muri che crollano e molta musica in cui Amleto, Claudio, Gertrude, Ofelia diventano Alice, il re, la regina, il Bianconiglio. Con gran finale catartico che consegna al pubblico bianche lettere da lanciare in aria a comporre l’ utopia di un nuovo alfabeto possibile, di una nuova storia ancora da raccontare. È nel tentativo di cambiare il già dato che il regista, Armando Punzo, fa incontrare Alice e Amleto. Nello spaccare e ricomporre testi alla ricerca di una nuova semantica, lavorando in un luogo lontano da ogni prospettiva culturale tradizionale, ovvero il carcere di massima sicurezza di Volterra, con persone con diversi immaginari sociali e prospettive, i detenuti, il regista imprime esemplare lezione di cultura ‘dal basso’. Ci spinge a cercare la vita nei luoghi interstiziali, a trovare altre parole, altre azioni, altre possibilità forse ancora non previste, nemmeno immaginate, e, non ultimo, a sorprenderci con ironia. Caratteristiche che possono giocare un ruolo significativo nella ridefinizione della figura professionale del planner.
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1.1 | Nel quadrilatero2 Nelle narrazioni di molti interpreti del mondo contemporaneo lo spazio fisico in cui ci muoviamo sembra diventato ‘liscio’. Un supporto piano e orizzontale sul quale si muovono indisturbate le correnti calde che globalizzano l’economia e l’informazione; dove si dispongono liberamente le reti lunghe della comunicazione; dove scorrono intensi flussi di merci, uomini e idee (Castells, 2004); dove ormai poche città globali hanno la forza di orientare i flussi di un pianeta quasi totalmente interconnesso (Sassen, 2000). Come se la completa assenza di ‘limite’ (Latouche, 2012), l’emergere inarrestabile di una modernità ‘liquida’ (Bauman, 2000), fossero la nuova angolatura da cui guardare e interpretare la spazialità contemporanea. Tali visioni, ancorché condivisibili, presentano, tuttavia carattere di parzialità, derivando dalla assunzione di una unica prospettiva macro di analisi, che tralascia, probabilmente volutamente, messe a fuoco minute, delicate e crude, che precipitano il concetto di ‘limite’ in una dimensione ‘vicina’. È’ una questione, quindi, di ‘scarto’ che si gioca nel passaggio dal grande al piccolo. Occorre perciò farsi piccoli. Le rappresentazioni della realtà urbana e territoriale basate su l’idea di una interconnessione planetaria e illimitata, infatti, «sembrano letteralmente implodere quando le cose non vanno per il verso giusto. Quando qualcosa va storto il sistema di rappresentazione entra in crisi, mostrando tutta la sua inadeguatezza e parzialità» (Petti, 2007: 78). «ma cosa accade quando si solleva il vento e nulla è più in equilibrio...? Lo specchio s'infrange e della serena e rassicurante immagine si perdono i contorni ed emerge una rivolta degli elementi » (Punzo, 2010).
1.2 | Intersezioni Se, infatti, rallentiamo e ci guardiamo attorno, se ci prepariamo a vivere e ad arrancare, a chinare la testa, per poi sollevarla, l’ecumene del mondo contemporaneo sembra mostrarci tutta un’altra fisionomia, più nuda. Lo spazio che ci circonda, non solo lo spazio geopolitico, ma anche quello della vita quotidiana, sembra più increspato e rugoso. «Lo spazio sembra essere diventato un denso agglomerato di sottosistemi che corrugano il territorio, rivendicando la loro identità (a dominanza sociale, culturale, etnica e religiosa). Invece che un fluire libero, i nostri movimenti assumono sempre più la forma di sussulti e soste, di una sequenza di ‘stop and go’, di un balletto di password e documenti di identificazione» (Boeri, 2011: 41). Un proliferare di confini investe lo spazio contemporaneo che diviene così sempre più tagliato e interrotto da muri, recinti, soglie, ostacoli, bordi normati, frontiere reali e virtuali, aree specializzate, zone protette. «I territori della nostra quotidianità sono definiti da un sistema di limiti diversi che vanno dai confini di proprietà del particellare che definisce le forme di appropriazione e di uso del territorio, alle delimitazioni delle aree di giurisdizione comunale e cantonale, a una miriade di confini ancora più fini». Dispositivi dinamici e tridimensionali i nuovi confini pulsano delle energie e degli attriti che accompagnano la storia presente. E per quanto la loro proliferazione possa essere interpretata come una reazione al movimento fluido dei corpi e delle immagini, come una risposta al moltiplicarsi delle possibilità di relazione, come una difesa di antiche identità, viene da chiedersi se, al contrario, non sia proprio questa l’angolatura più corretta per guardare il mondo contemporaneo. Come se fossero i confini, e non i flussi (vale a dire la loro assenza), la sua vera cifra.
2 | Fessure Il proliferare dei limiti crea, inevitabilmente, frammentazione spaziale. La città contemporanea come insieme di spazi distinti, paratatticamente accostati senza alcuna intersezione, muti e indifferenti gli uni agli altri, monadi difficili da interpretare nella loro struttura interna e nei rapporti che ognuno di essi stringe con tutti gli altri (Guida, 2011: 21). Tra le pieghe della ‘liquidità patinata’ delle città contemporanee sta crescendo un’ altra città, quella dei ‘territori di margine’. «Torna il motivo dell’intermittenza: è nella discontinuità che lo spazio si rende visibile» (Bianchetti, 2011:20). Fessure. Residui, spazi indecisi, privi di scelte e di funzioni formali, sui quali è difficile posare un nome. 2.1 Spazi La frattalità, caratteristica costitutiva della nuova realtà urbana, ha come conseguenza la proliferazione, all’interno del suo tessuto, di spazi urbani indefiniti e residuali, generalmente estranei ed esterni al circuito produttivo ed economico, contraddistinti da una «incorporazione efficace» (De sola-Morales, 1995), cosicchè il paesaggio urbano si dispiega fra arcipelaghi di isole ed enclave che calano su di esso indifferentemente, come fossero tutti spazi uguali, senza storia e senza nome (Petti, 2007). «Different from both the old central city and 2
I sottotitoli dei paragrafi 1.1 e 1.2, ovvero, rispettivamente, ‘Nel quadrilatero’ e ‘Intersezioni’ sono stati tratti dal romanzo di Least Heat-Moon, Prateria, una mappa in profondità. Essi indicano due diversi modi di guardare un territorio, il primo dall’alto di una visione ’lontana’ – il quadrilatero, infatti si riferisce alla cornice di una tradizionale mappa disegnata – il secondo, secondo una mappatura ‘vicina’, che presuppone tempi, sguardi e rappresentazioni diversi.
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the traditional suburb, the ‘in-between’ city is diffuse» (Young, Burke Wood, Keil, 2011:1). Sono isole interne o perimetrali alla città, ‘territori di margine’, dimenticanze e resti estranei al naturale ritmo urbano, che qui definiamo ‘fessure’ e che, in una esplosione quantitativa e qualitativa, si diffondono ubiquitariamente nella trama urbana. Spazi interstiziali, frammentari, residui rispetto a vecchie pratiche, indecisi, sospesi. Generati ogniqualvolta un’infrastruttura ritaglia il territorio attorno al sé. Un lotto rimane vuoto. Un’attività è dismessa o un campo cessa di essere coltivato. Rendono evidenti le smagliature nelle logiche di appropriazione, inclusione, specializzazione e messa a frutto dello spazio. Spazi abbandonati, che rappresentano uno slittamento continuo, vitalistico. «..Salti nel paesaggio: territori di asincronie, di incoerenze di tempi e di spazi di vita» (Tosi, 2006: 12). 2.2 Destini Negli ultimi venti anni la popolazione urbana è cresciuta in maniera spropositata, come ormai documentato da ampia letteratura. La globalizzazione economica ha modificato questo processo di inurbamento, avviatosi alla fine del XVIII sec, con la rivoluzione industriale. Infatti, in passato, la corsa alla città era guidata soprattutto dalle opportunità economiche e sociali che essa magari con difficoltà, ma realmente offriva. Al contrario oggi, le motivazioni alla base dei flussi verso l’inurbamento sono anche la crescente povertà e la disperazione di milioni di individui che i processi economici globali hanno ridotto in condizioni di assoluta marginalità e, anche se in questi percorsi di vita latente aleggia la speranza di un’emancipazione economica offerta dalla città, in realtà si è ridotta, o meglio annullata, la sua reale capacità di integrazione. Si assiste quindi a quel processo che è stato definito «urbanizzazione della povertà» (Solimano, 2006: 32), in base al quale il numero dei poveri nelle aree urbane aumenta, secondo dinamiche di amplificazione del disagio. Inoltre l’economia globale produce un divario sempre maggiore tra i settori più ricchi e i settori più poveri della popolazione mondiale, ma anche all’interno di ogni singola società, accentuando l’ambivalenza congenita del vivere urbano: l’utopia delle città come centro del benessere e della libertà e la marginalizzazione e la ghettizzazione di alcuni soggetti che la città non può e non vuole accogliere. Così, i vari contesti urbani sono sempre meno capaci di assimilare e di includere, moltiplicando, al contrario, il numero e la complessità delle figure sul margine. «Entro una società che si polarizza, il disagio sembra frammentarsi in scaglie minute e disordinate. Le ragioni del malessere abitativo non sono riconducibili solo agli aspetti monetari» (Bianchetti, 2011: 52). Questa umanità urbana in eccesso trova, spesso e preferenzialmente, collocazione negli spazi marginali, residuali e rifiutati dai paradigmi economici della città formale, in un connubio forzato tra dimensione fisica e dimensione sociale della marginalità. Una coesistenza che alla dimensione materiale del disagio e della marginalità (fisica e sociale) intreccia anche la dimensione immateriale dell’immaginario negativo che spesso stigmatizza ‘lo stare sul margine’.
3 | La rivolta dei personaggi e delle parole «Ci sono cose, suoli, tempo e vite gettate via (....) eppure questi sono i luoghi in cui iniziano nuove cose» (Lynch 1992: 14). 3.1 | Personaggi I luoghi di margine della città, come abbiamo visto, sono spazi privilegiati nei quali la società tende a relegare tutto ciò che non è funzionale alla propria riproduzione e a neutralizzare ogni dissonanza prodotta dagli usi anomali dello spazio pubblico. Così facendo, tanto il valore positivo del conflitto, quanto quello dell’incontro con la diversità, vengono compromessi. Per questi motivi i ‘luoghi di margine’ si offrono come osservatori privilegiati delle trasformazioni urbane latenti che mutano in profondità le relazioni simboliche e materiali fra uomini e territorio, ma anche come rara occasione per riscoprire e rifondare le implicazioni etiche del fare città. Pratiche urbane informali e innovative, rimodellano la fisionomia di tali spazi, non ripetendo copioni messi a punto una volta per tutte, ma rischiando radicalmente, ogni volta, una nuova situazione. Qui si danno incontro nuove socialità, per le quali lo stare insieme, il convivere, continua ad essere una esigenza umana insopprimibile dei singoli, uomini in carne e ossa. Relazioni che portano ad una reinvenzione del concetto di luogo e richiedono all’osservatore l’abbandono degli schemi mentali e interpretativi tradizionali per comprendere la pluralità delle nuove urbanità. Relazioni dense di speranza. È il trionfo dell’umano, di quello che una parte della letteratura scientifica ci rinsegna a riguardare come corpo (Paba, 2010) in carne ed ossa, che, nonostante le avverse condizioni di questo inizio millennio, stretto nella morsa dell’economia e del virtuale, ed anzi, proprio in virtù di queste avverse condizioni, esplode in tutta la sua potenza e prepotenza creativa. Infatti, anche se, il livello di estraneazione, nei nostri contesti urbani, rispetto all’ambiente in cui viviamo e alla capacità/possibilità di manipolarlo è parossistico, l’ipotesi di fondo su cui si basa questo racconto è che questa dimensione ancora ci appartiene, anzi che è una dimensione connaturata all’uomo e al suo convivere con gli altri. Maddalena Rossi
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È ciò che Edward Soja chiama «spazialità della vita umana» (Soja, 2007), attività processuale del produrre spazi e del «fare geografie». L’abitare diventa, per tale via, pratica e processo (Crosta, 2006). Abitare è attività e significato, azione, relazione. Il punto essenziale è la riaffermazione, contro la riduzione moderna, del carattere processuale dell’abitare – non un oggetto, ma atto e processo; non attività specializzata, ma relazione complessa con un ambiente - ciò implica un ruolo attivo dell’abitante nella produzione del proprio ambiente di vita (Tosi 2008: 153). «La progettualità si esplica, nei mille processi di adattamento, di appropriazione degli spazi, di riutilizzazione dei contesti abbandonati, di manutenzione e cura dei luoghi, in forma permanente, ma in molti casi anche temporanea» (Cellammare, 2011: 37). Per tale strada le pratiche urbane di costruzione della città costituiscono delle vere e proprie «tattiche di risposta alle dinamiche e alle politiche urbane» (De Certau in Cellammare, 2011: 31), che possono rivelarsi enormemente preziose in quest’epoca di crescente scarsità di risorse pubbliche e, contemporaneamente di domanda di ‘pubblico’. 3.2 | Parole La dispersione insediativa, la figura del frammento (Guida, 2011: 69), il proliferare di brani urbani di margine, l’emergere di nuove geografie umane che abitano a agiscono tali luoghi rendono desueta la categoria interpretativa dello spazio metropolitano basata sulla sintassi dicotomica centro-periferia, soprattutto perché il carattere periferico diventa una condizione “qualitativa” transitoria che molte zone della città possono trovarsi a condividere nel tempo per ragioni diverse, indipendentemente dalla loro localizzazione. Essi, quindi, si configurano come spazi temporanei di transizione fra le realtà distinte che dividono ma che, come tutti i margini, partecipano alla territorialità come causa di tensione dialettica con il contesto. Il tentativo è, allora, quello di cominciare ad osservare quello strano spazio che si trova ‘tra’ le cose, quello che mettendo in contatto separa, o, forse, separando, mette in contatto, persone, cose, culture, identità, spazi tra loro differenti. In questo tentativo il punto di partenza diventa l’acquisizione del ribaltamento concettuale della figura del margine da ‘soglia a fronte’. Tale ribaltamento postula innanzitutto la profondità del ‘margine’, quindi «lo spazio di confine, ma anche il confine come spazio» (Zanini, 1997: XIV). D'altronde «creare categorie di giudizio semplifica la vita (...) Le categorie sezionano la realtà, la scandiscono, tracciano confini, distinzioni e differenze (...) Ma le categorie hanno un’ambigua valenza. Da una parte omologano le entità del mondo (...) Dall’altra, oltre il bordo dei propri confini, scontornano differenze, rendono percepibili ambiguità, possibili promiscuità (..) Nel contingentare il mondo, insomma, ogni categoria si fa motore e fonte di ispirazione per la propria riconformazione, per nuove e rinnovate mappe del senso e dell’esperienza» (Ricca, 2013: 86). Riconoscere la profondità del margine significa, quindi, superarne l’accezione comune che evoca parole come separazione, conclusione e contenimento, per aprirsi a contenuti semantici latenti come mediazione, connessione e opportunità e, contemporaneamente, tentare una comprensione spaziale di esso in quanto ‘luogo’ multisegnico e permeabile. «Come in matematica, dove si chiama confine l’insieme di punti che appartengono allo stesso tempo allo spazio interno e a quello esterno» (Lotman, 1985: 58).L’esistenza di una pluralità di margini urbani rispondenti ad una geometria complessa può rendere i tanti confini non più barriere impenetrabili, ma elementi di sutura che, mettendo in contatto zone diverse, le separa e, separandole, stabilisce relazioni e opportunità. Così, termini come rigenerazione, mediazione, transizione, sutura e compenetrazione possono diventare la nuova chiave interpretativa per un progetto di città che ambisce ad una trasformazione della fessura da luogo di margine a confine semiotico, somma dei filtri (Lotman, 1985: 61).
4 | Scardinare e risvegliare con ironia Le fessure lasciano aperto un varco, invitano a mettere uno sguardo personale. D'altronde «le nostre vite dipendono dalla nostra capacità di concettualizzare alternative spesso improvvisando. È compito di una pratica culturale radicale teorizzare questa esperienza in una prospettiva estetica e critica» (Hooks, 1969: 68-102). Vero è che il mondo, come eravamo abituati a capirlo una volta, semplicemente non esiste più. Saggio sulla fine della civiltà. Senza pensare di essere esaustivi nella conoscenza e uso delle tante fonti del dibattito scientifico sui caratteri delle condizioni di vita del nuovo secolo, si vuole comunque sostenere una tesi: il cumulo, la pluralità sostantiva e la transcalarità dei mutamenti di cui le persone fanno esperienza, e su cui gli analisti elaborano i costrutti è, infatti, tale, da far pensare ad una vera e propria trasformazione che ha attraversato o sta determinando un cambiamento non contingente, una qualche rottura, un vero e proprio passaggio d’epoca (Laino, 2012: 21), il cui tratto distintivo sembra essere, senza dubbio, la complessità. E questa banale constatazione apre noi urbanisti alla consapevolezza della necessità di tracciare nuove strade di analisi e progetto delle città contemporanee e, nello specifico, dei territori di margine, quali uno tra i tratti distintivi di queste nuove realtà urbane. È necessario quindi compromettersi con nuove ipotesi di ricerca per proporre nuove descrizioni della città contemporanea e Maddalena Rossi
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per riuscire a condividere una sua immagine nuova, in modo da riuscire a nominare i fenomeni e quindi definire i problemi da affrontare (Balducci, Fedeli, Pasqui, 2008: 7). «Poiché alle difficoltà si può sempre far fronte con una buona dose di nuovi racconti, con riflessioni più curate, con progetti più consoni e con un linguaggio che, in un’economia di beni simbolici, è nel contempo campo di resistenza e posta in gioco» (Bianchetti, 2007: 5). C’è una luce in fondo al corridoio proviamo a seguirla. 4.1 | L’inizio La complessità come tratto distintivo della nuova civiltà contemporanea sembrerebbe suggerirci che oltre la rappresentazione muta dell’urbanistica tradizionale c’è il caos, ma anche il fermento di una nuova vita in embrione, che fa paura, terrorizza per la sua incontrollabilità. Il contributo, collocandosinel solco di un approccio ‘radicale’ alla pianificazione e alle politiche urbane, che implica l’acquisizione da parte del planner di un punto di vista incentrato sulle forze socio-culturali con cui guardare ai problemi urbani, vuole ripartire proprio da questo caos, ritrovando, quindi, il seme del suo agire nel pionieristico lavoro di Patrick Geddes, per poi passare in un fluire circolare di rimandi e ritorni ai contributi cosiddetti insurgent alla pianificazione, di cui i lavori di Forester (1998), Friedmann (1993), Sandercock (1998), Schön (1999), sono forse i più rappresentativi, postulando un ruolo attivo degli attori sociali nella costruzione della città e una nuova figura di planner. In tale ottica, da un lato, gli attori vengono avvicinati a una parte mobile di sé, lentamente, per sentieri traversi, mettendo a misura la loro forza, i loro corpi e molte altre cose. Non sono se stessi (non solo): diventano un’ipotesi di tutto ciò di altro che avrebbero potuto essere, che potrebbero diventare. L’altro nascosto dentro la nostra psiche, i sentimenti, i casi e le scelte dannate o felici dell’esistere. Dall’altro, si giunge ad una progressiva ridefinizione dell’epistemologia della professione del planner, che da tecnico capace di gestire la pianificazione del territorio in forma autonoma e distante da esso, si reinventa in termini di «professionista riflessivo» (Schön, 1999), che assume un «atteggiamento radicale e di parte» (Perrone, 2010: 121). Così «ampliare la giustizia sociale, allargare la tolleranza interculturale, salvaguardare l’ambiente diventano veri e propri impegni per la pianificazione, che richiedono un cambiamento di prospettiva e un nuovo orientamento per l’azione» (Perrone, 2010: 122)3. I luoghi di margine, quindi, ed i paesaggi che hanno generato, candidati a divenire luoghi di sperimentazione di questa pratica culturale radicale. Le prospettive di lavoro ipotizzate riguardano nuovi contributi alle politiche urbane. Infatti, dietro quella che appare una generale difficoltà del progetto contemporaneo a rapportarsi con le pratiche informali di riappropriazione dello spazio urbano, c’è la strutturale distanza tra le logiche dell’informale e l’ethos dell’urbanistica tradizionale, che è alla base di un’azione amministrativa permeata di logiche assistenzialiste ed emergenziali se non repressive. Al contrario l’approccio proposto tende alla creazione di un amministrazione pubblica aperta alla speranza e alla complessità e a fornire ad essa competenze, strumenti e nuove strutture organizzative per ritessere rapporti con le microprogettualità già presenti sul territorio. 4.2 | Il testo E allora proprio come nel testo teatrale dal quale è stato tratto il titolo del presente saggio, Elsinore è un moloch, chiede un sacrificio troppo grande ad un Amleto che non riesce, che non vuole più essere Amleto. Fuggire dal palazzo, fuggire a se stessi e trasformarsi, cercare un nuovo spazio, un altro tempo, nuove vesti tra le righe di altri autori fino a giungere nel Paese delle Meraviglie. Lasciarsi prendere per mano da Alice, farsi condurre nel mondo alla rovescia di Carroll, e ancora oltre, in un viaggio di cui non si conosce la fine. La trasformazione è la possibilità per il planner di sottrarsi al proprio ruolo definito per sempre. E così, partendo dal presupposto che «il punto da cui passa il confine di una cultura dipende dalla posizione dell’osservatore» (Lotman, 1985:63), è necessario imparare a guardare dentro, fuori e in mezzo, dall’alto e dal basso, e connettere, comparare, inventarsi ponti anche dove non paiono essercene. Stanca delle visioni euforiche che promettono da decenni nuovi mondi possibili, liberati e interattivi, ma anche dei catastrofismi di chi pensa alla fine dell’utopia, l’urbanistica contemporanea deve guardare dove è sconveniente guardare, di stabilire nessi scomodi e politicamente ‘scorretti', di vedere nell’oscurità. E allora basta con le vecchie parole che hanno perso tutte le lettere come foglie. Bruciare, bruciare verso il cielo gli alfabeti del dominio e della paura. Lanciare tutti, ormai divenuti attori, vocali e consonanti verso il cielo, rompere le frasi di oggi, affidando alla leggerezza dell’aria e alla forza del gesto del braccio una pioggia che sale verso l’alto per cancellare questo mondo e i suoi libri usurati e riscriverli per estirpare il dolore, il dominio, per ricomporre la possibilità di parlare le cose mai dette, mai immaginate, nuove parole per comporre nuove immagini, e così comincia la vita nuova. Come spiriti pensanti, in perenne trasformazione, attraversano libri di altri autori, allontanandosi da quello che li conteneva come una prigione di ruoli immutabili. E allora troveremo non più inchiostro, ma corpi, con le loro emozioni forti, con la possibilità di smacco, delle 3 Il nesso tra quest’ultima asserzione e la precedente richiede un ragionamento approfondito sull’evoluzione dell’epistemologia della professione del planner, per la quale si rimanda a Balducci, 1991 e Perrone, 2010.
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lacrime, con il desiderio di strappare la gioia a giorni non attrezzati. Un gioco. Emozionante. Finalmente.
Bibliografia Balducci A. (1991), Disegnare il futuro. Il problema dell’efficacia nella pianificazione urbanistica, Il Mulino, Bologna. Balducci A., Fedeli V., Pasqui G. (2008), In movimento. Confini, popolazioni e politiche nel territorio milanese, Franco Angeli /Urbanistica, Milano. Bauman Z. (2000), Liquid Modernity, Polity, London. Bianchetti C. (2007), Urbanistica e sfera pubblica, Donzelli, Roma. Bianchetti C. (2011), Il novecento è davvero finito. Considerazioni sull’urbanistica, Donzelli, Roma. Boeri S. (2011), L’Anticittà, Laterza, Bari. Castells M. (2004), La città delle reti, Marsilio Editori, Venezia. Cellammare D.(2011), Progettualità dell’agire urbano. Processi e pratiche urbane, Carocci Editore, Roma. Crosta P.L. (2006), L’abitare itinerante come “pratica dell’abitare”: che costruisce territori e costituisce popolazioni. Politicità delle pratiche, Dipartimento di Pianificazione, Università Iuav di Venezia.De solaMorales I. (1995), Terrain vague, in Anyplace, Anyone Coration, The MIT Press, Cambridge. Forester J. (1998), Pianificazione e potere. Pratiche e teorie interattive del progetto urbano, Edizioni Dedalo, Bari. Friedmann J.(1993), Pianificazione dominio pubblico. Dalla conoscenza all’azione, Edizioni Dedalo, Bari. Guida G. (2011), Immaginare città. Metafore e immagini per la dispersione insediativa, Franco Angeli/Urbanistica, Milano. Hookhs B. (1969), Elogio del Margine, Feltrinelli, Milano. Young D., Burke Wood P., Keil R. (2011), In-beteween infrastructure: urban connectivity in a age of vulnerability, Praxiss (e)Press, Toronto. Laino G. (2012), Il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo. La partecipazione come attivazione sociale, Franco Angeli, Milano. Latouche S. (2012), Limite, Bollati Bolinghieri, Torino. Lynch K. (1992), Deperire. Rifiuti e spreco nella vita di uomini e città, Cuen, Napoli. Lotman J. M. (1985), La semisfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pesanti, Marsilio Editori, Venezia. Paba G. (2010), Corpi urbani, Franco Angeli, Milano. Perrone C. (2010), DiverCity. Conoscenza, pianificazione, città delle differenze,Franco Angeli, Milano. Petti A. (2007), Arcipelaghi ed enclaves. Architettura dell’ordinamento spaziale contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano. Schön D.A. (1999), Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Edizioni Dedalo, Bari. Soja E.W. (2007), Dopo la metropoli, Patron Editore, Bologna. Sassen S. (2000), Cities in a World Economy, Pine Forge Press, London Ricca M. (2013), Culture interdette. Modernità, migrazioni, diritto interculturale, Bollati Bolinghieri, Torino. Tosi A. (2006), ‘Il rovescio della città”, in La Nuova città, n° 11-12, pp. 21-31. A.Tosi (2008), Le case dei poveri: ricominciare ad annodare i fili, in Bonomini A. ( a cura di), La vita Nuda, Electa, Milano. Solimano S. (2006), I poveri disturbano, in La Nuova città, n° 11-12, p. 32. Zanini P. (1997), Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano.
Sitografia Punzo (20109, Hamlice. Saggio sulla fine della civiltà, disponibile su Compagnia della Fortezza, Spettacoli. http://www.compagniadellafortezza.org/schede_spettacoli/hamlice.htm
Maddalena Rossi
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TaMaLaCà - Tutta Mia La Città. 'Suffragette' dei diritti urbani negati
TaMaLaCà - Tutta Mia La Città 'Suffragette' dei diritti urbani negati Francesca Arras, Elisa Ghisu, Paola Idini, Valentina Talu Università degli Studi di Sassari DADU - Dipartimento di Architettura, Design, Urbanistica TaMaLaCà - Laboratorio di ricerca e azione per la città dei diritti Email: gruppotamalaca@gmail.com
Abstract Compito di urbaniste e urbanisti è progettare forme, funzioni e ritmi urbani che - accogliendo la molteplicità dei modi e dei tempi di funzionare dei diversi abitanti - siano in grado di garantire a tutti e ciascuno un uso pieno, libero ed effettivo della città. Particolarmente rilevante è, in questo quadro, il ruolo delle urbaniste. A loro soprattutto appartiene, infatti, la capacità di costruire inedite alleanze con gli abitanti in grado di migliorare la condivisione e l'efficacia dei progetti e di riconoscere e rendere visibili quelle pratiche e quei saperi quotidiani, domestici che, nonostante la loro rilevanza, vengono spesso esclusi dal progetto. Questi presupposti sono alla base dei progetti pensati, realizzati e vissuti dal gruppo multidisciplinare di donne TaMaLaCà, i cui contenuti, obiettivi e prospettive saranno approfonditi nel paper. Parole chiave Diritto alla città, ruolo delle urbaniste, micro-progettazione.
Oltre l'abitante-standard Qual è, quale dovrebbe essere, oggi, il ruolo di un urbanista? È con questa domanda che abbiamo scelto di aprire questo nostro breve saggio, sebbene siamo persuase che una risposta unica, esauriente e definitiva non esista. Abbiamo scelto di farlo perché questa è 'la' domanda che ciascuna di noi ha posto a se stessa nel momento in cui ha deciso di contribuire alla nascita di TaMaLaCà1 - un collettivo di donne impegnato nella promozione e nella costruzione sperimentali di una città inclusiva - e pensiamo possa essere utile, per stimolare ed arricchire il dibattito (non esclusivamente in ambito accademico) in merito ad un possibile nuovo e diverso ruolo dell'urbanista, condividere alcune delle riflessioni, delle intuizioni e delle sperimentazioni che hanno orientato e orientano il nostro percorso di ricerca e azione, portandoci, se non a formulare una risposta, almeno a tratteggiarne alcuni aspetti. Siamo convinte che una parte importante della risposta debba fare riferimento alla necessità e all'opportunità di riagganciare, di 'ri-sintonizzare sottilmente' (Paba, 2007) il progetto della città alle specificità dei corpi dei suoi tanti e diversi abitanti. Siamo convinte - e lo siamo fermamente - che il ruolo di urbanisti e urbaniste debba essere, pertanto, quello di immaginare, progettare e costruire forme, funzioni e ritmi urbani che - accogliendo la molteplicità dei modi e dei tempi di 'funzionare'2 dei diversi abitanti - siano in grado di garantire a tutti e ciascuno un uso pieno, libero ed effettivo della città e, di conseguenza, la possibilità di godere di una vita urbana di qualità (Cecchini & Talu, 2012; Talu, 2012).
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TaMaLaCà (originale acronimo di 'Tutta Mia La Città') è un laboratorio di ricerca e azione per la promozione della città dei diritti che fa capo al Dipartimento di Architettura, Design, Urbanistica - Architettura ad Alghero dell'Università degli Studi di Sassari. Per maggiori informazioni: www.tamalaca.uniss.it. 2 Il riferimento è al concetto di 'funzionamento' individuale elaborato da Amartya Sen nell'ambito della teoria dell'approccio delle capacità, come verrà meglio specificato di seguito (Sen, 2011, 2009, 1999, 1993, 1992, 1986). Francesca Arras, Elisa Ghisu, Paola Idini, Valentina Talu
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Abbiamo costruito questa convinzione grazie ad un percorso di crescita, individuale e collettiva, caratterizzato da uno scambio e una contaminazione continui tra la ricerca accademica e l'azione sul campo e da un conseguente reciproco adattamento delle rispettive traiettorie di sviluppo. La ricerca - il cui obiettivo è proporre una reinterpretazione del concetto di qualità della vita urbana davvero 'usabile' per informare politiche e progetti orientati alla costruzione di una città inclusiva - fa esplicito riferimento alla teoria dell'Approccio delle Capacità (AC), elaborata dall'economista Amartya Sen3 e sviluppata successivamente anche da numerosi altri studiosi di diversi ambiti disciplinari, tra cui principalmente la filosofa Martha Nussbaum4 e, al contempo, attinge al concetto «work in progress» (Accolla, 2009) del Design for All (DfA). Gli aspetti di innovazione e le potenzialità operative della ricerca derivano, a nostro avviso, dall'adozione della prospettiva delle capacità nell'ambito delle discipline del progetto della città 5 e dal tentativo di far dialogare i due riferimenti, apparentemente distanti, dell'AC e del DfA6. L'AC descrive l'acquisizione del benessere individuale come un processo di interazione dell’individuo con il contesto. Nell'ambito di questo processo, i beni disponibili sono determinanti per ottenere il benessere esclusivamente in funzione del loro ruolo strumentale e non possono essere utilizzati, quindi, per misurarlo né tantomeno per definirlo: l'AC invece di focalizzare l’attenzione sugli strumenti che consentono agli individui di raggiungere il benessere (i beni disponibili, appunto) si concentra sulla effettiva libertà degli individui di raggiungere il benessere (i funzionamenti e soprattutto le capacità individuali). Per le discipline e le pratiche del progetto della città fare riferimento all'AC comporta guardare all’effettiva possibilità per ciascun individuo di usare la città, piuttosto che alle caratteristiche intrinseche della città e impone, dunque, uno spostamento dello sguardo dalla città alle molteplici interazioni individuo-città7. A nostro avviso, questa nuova prospettiva non indebolisce ma, anzi, rafforza il ruolo che la città assume nella promozione della qualità della vita e delle aspirazioni degli individui che la abitano, perché consente di individuare e descrivere le situazioni di non rispondenza della città alle esigenze specifiche dei suoi diversi abitanti, rendendo i progetti e le politiche urbani più attenti alla molteplicità dei modi e dei tempi di funzionare individuali di cui si è detto sopra e quindi più pertinenti ed equi. Il DfA è una giovane, e in continua evoluzione, disciplina trasversale8 e interdisciplinare il cui principale obiettivo è il miglioramento della qualità della vita degli individui, attraverso la valorizzazione delle loro specificità (Accolla, 2009). Nella dichiarazione di Stoccolma dell'EIDD - Design for All Europe9 del 2004 si legge: «Design for All è il design per la diversità umana, l'inclusione sociale e l'uguaglianza. (...) Lo scopo del Design for All è facilitare per tutti le pari opportunità di partecipazione in ogni aspetto della società. Per realizzare lo scopo, l'ambiente 3
La teoria dell'AC trova la sua formulazione esplicita nella Tanner Lecture dal titolo «Equality of what?» del 1979. Il saggio è stato originariamente pubblicato in «The Tanner Lecture on Human Values», Cambridge University Press, 1980, vol. I. La versione in italiano «Uguaglianza, di che cosa?» è pubblicata in Sen (1986). 4 La teoria dell'AC viene elaborata da Sen come un superamento delle principali teorie etiche sugli assetti sociali, prima fra tutte l'utilitarismo. Il riconoscimento della diversità tra gli individui, sia in termini di caratteristiche personali, sia in riferimento ad alcune caratteristiche del contesto in cui essi vivono e con cui interagiscono, determina, secondo Sen, l’impossibilità di valutare l’effettivo benessere di un individuo sulla base delle variabili focali utilizzate dalle principali teorie etiche degli assetti sociali: reddito, ricchezza, felicità, 'beni primari', ecc. A parità di beni a sua disposizione, infatti, un individuo è in grado di ottenere un livello di benessere che dipende dalla sua capacità di convertire questi stessi beni in benessere. A partire da queste considerazioni, Sen introduce le variabili che ritiene debbano essere prese in esame ai fini della valutazione del benessere individuale: i funzionamenti (stati o cose che gli individui raggiungono o fanno) e le capacità (ciò che ciascun individuo è in grado di poter essere o poter fare). Pertanto, nell’ambito dell'AC è l’insieme degli stati potenzialmente raggiungibili (capacità) e di quelli effettivamente realizzati (funzionamenti) che determina il benessere di un individuo (Nussbaum, 2011, 2006, 2000, 1999; Nussbaum & Sen, 1993; Sen, 2011, 2009, 1999, 1993, 1992, 1986). 5 Si veda Talu, in corso di pubblicazione. 6 Oosterlaken (2009) afferma, a questo proposito: «(...) philosopher working on the capability approach so far do not seem to have sufficiently realized the relevance of technology, engineering, and design for capability expansion". Di grande interesse, in questo senso, è la sua definizione di «Capability Sensitive Design»: «Capability sensitive design is not something completely new or entirely different from existing "alternative design scholarship" [...] there is a clear link with universal design and participatory design. But rather than making capability sensitive design redundant, I consider this a strength. It indicates that capability sensitive design is able to integrate lessons learned into a more comprehensive approach which offers a clear philosophical foundation of the ultimate ends of design; is connected to an expanding body of literature in philosophy and the social sciences; and - perhaps even more important - which can provide engineers and designers the inspiration that is needed to advance design for development". Oosterlaken, 2009. 7 Per approfondimenti si veda Talu, in corso di pubblicazione. 8 Sono definite 'trasversali' quelle discipline che «per occuparsi dell'uomo fanno riferimento ai problemi. Esse sanno riconoscere e gestire la complessità del reale per giungere a progetti finalizzati ad obiettivi precisi. Sanno comunque avvalersi dei saperi specialistici. Esse si occupano dell'uomo ricomposto. Sono discipline trasversali, ad esempio, l'ecologia, che pone al centro la natura nella sua totalità, il cognitivismo, che pone al centro il comportamento umano nella sua totalità, l'ergonomia, che pone al centro l'uomo nella sua totalità, il Design for All, che pone al centro l'individuo nella sua totalità (...)» (Bandini Buti, 2009, p. 12). Si vedano anche Accolla, 2009; Bandini Buti, 2008. 9 Per maggiori informazioni si rimanda ai documenti disponibili nel sito web dell'EIDD www.designforalleurope.org. Francesca Arras, Elisa Ghisu, Paola Idini, Valentina Talu
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costruito, gli oggetti quotidiani, i servizi, la cultura e le informazioni - in breve ogni cosa progettata e realizzata da persone perché altri la utilizzino - deve essere accessibile, comoda da usare per ognuno nella società e capace di rispondere all'evoluzione della diversità umana.» Sia l'AC che il DfA - sebbene a partire da presupposti e con obiettivi specifici diversi - suggeriscono di adottare una prospettiva centrata sull'individuo e sulle sue specificità e di pensare e agire, di conseguenza, nel rispetto delle differenze umane. Nell'ambito delle discipline e delle pratiche progettuali, il rispetto delle differenze umane può concretizzarsi se e solo se le specificità individuali vengono 'utilizzate' dal progetto in modo creativo ed efficace come strumenti per trasformare in senso inclusivo la città. È a partire da queste considerazioni che abbiamo maturato la convinzione che sia estremamente opportuno e utile - e non solo 'giusto' - per un urbanista, oggi, occuparsi prioritariamente e principalmente della definizione e della gestione delle politiche e dei progetti orientati alla promozione della qualità della vita urbana di quegli abitanti che, per diverse ragioni, non sono pienamente 'capaci' - à la Sen - di usare la città così come attualmente è: una città progettata, organizzata e governata principalmente per soddisfare i desideri e dare risposta alle esigenze del tanto dominante quanto poco rappresentativo abitante-standard adulto, maschio, sano, produttivo e automunito10. Bambini, anziani, donne, persone disabili, pedoni, ciclisti, skaters, migranti, ... - vale a dire quegli abitanti che per una condizione individuale temporanea o permanente, legata ad alcune caratteristiche personali (ad esempio, età, genere, disabilità), a stili di vita alternativi, a comportamenti non-dominanti (come, ad esempio, scegliere di spostarsi prevalentemente a piedi o in bicicletta) o all'assenza di diritti di cittadinanza in senso proprio (come accade, ad esempio, per minori, immigrati, visitatori)11 - sono abitanti 'progettuali' perché ci chiedono, implicitamente o esplicitamente, consapevolmente o inconsapevolmente, di pensare ad una città diversa: una città finalmente in grado di accogliere e valorizzare le loro specificità.
TaMaLaCà: un collettivo di donne per la promozione e la costruzione sperimentali di una città inclusiva Non è possibile in questa sede restituire in maniera esaustiva la ricchezza e l'articolazione della progettualità del laboratorio TaMaLaCà. Illustreremo brevemente, quindi, solo alcuni dei principali temi-strumenti ricorrenti che connotano il nostro operare: la dimensione 'micro' dei progetti; il coinvolgimento degli abitanti; l'uso costruttivo del conflitto. TaMaLaCà promuove interventi di micro-trasformazione urbana per migliorare ed estendere l'usabilità e la qualità di quella che può essere definita città quotidiana e di prossimità 12. La dimensione micro delle trasformazioni è opportuna per diverse ragioni: facilita l'attenzione del progetto nei confronti delle specificità degli individui; rende possibile l'attivazione di percorsi di coinvolgimento degli abitanti veri ed inclusivi (non solo formali e 'di facciata', come troppo spesso accade) perché si confronta con temi e problemi che, essendo quotidiani e vicini, sono più accessibili e stimolanti per gli abitanti; rende fattibile la rimodulazione del progetto sulla base del dilatarsi e del contrarsi delle aspettative e delle richieste dei soggetti coinvolti, delle difficoltà di ordine tecnico o politico, delle opportunità impreviste; assicura una maggiore qualità architettonica e urbana dei luoghi minori, perché rende più semplice ed estremamente più rilevante per i progettisti prestare attenzione ai dettagli progettuali (Gehl, 1987). La dimensione micro, inoltre, è low cost e rende dunque i progetti più capaci di farsi spazio all'interno delle agende degli enti locali (Arras et al., 2012a). I progetti che TaMaLaCà promuove prevedono sempre e comunque una qualche forma di coinvolgimento degli abitanti. Il presupposto di questa scelta è il riconoscimento del valore del punto di vista degli abitanti sulla forma e l’organizzazione della città. I bambini - forse la 'categoria' di abitanti più penalizzata dalla forma e dall'organizzazione attuali della città 13 sono stati i protagonisti delle sperimentazioni più interessanti che TaMaLaCà ha ideato e portato avanti. Ci sono molte e diverse ragioni a sostegno di questa scelta. Coinvolgere i bambini è, innanzitutto, una scelta che più di altre guarda al futuro e che è dunque spontaneamente orientata alla sostenibilità. Garantire ai bambini la possibilità di esperire in maniera piena, libera e autonoma la città non solo è un obiettivo che è necessario e urgente perseguire qui e ora, dando così una risposta adeguata 10
Si citano, a titolo di esempio, alcuni interessanti contributi che affrontano questo tema da diversi punti di vista: Accolla, 2009; Anderson, 2011; Oosterlaken, 2012; Terzi, 2011; Ward, 1978. 11 Si vedano Cecchini 2008; Cecchini & Talu 2011. 12 Essi comprendono, ad esempio, il miglioramento della accessibilità minuta del quartiere, con particolare attenzione alle modalità pedonale e ciclabile e ai luoghi sensibili, come scuole, giardini e aree verdi, piazze, strutture sportive, servizi collettivi; la riqualificazione degli spazi collettivi minori e ibridi, anche e soprattutto di quelli più marginali, come i cortili scolastici, i cortili condominiali, i piani pilotis, i marciapiedi delle strade secondarie e dei vicoli ciechi, gli "scampoli" di terra circondati da strade ed edifici; la promozione della gradevolezza urbana e la conseguente riabilitazione dell'immagine dei luoghi dimenticati, esclusi, rimossi, stigmatizzati attraverso, ad esempio, l'uso della luce o del colore o campagne di comunicazione urbana innovative. Si vedano Cecchini & Talu 2012. 13 Si vedano, a titolo di esempio, Paba 2009, 2006; Tonucci, 2002; Ward, 1979. Francesca Arras, Elisa Ghisu, Paola Idini, Valentina Talu
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all'esigenza di considerare finalmente i bambini come individui compiuti, competenti e autonomi, attori sociali e cittadini in senso pieno, ma significa anche garantire loro la possibilità di accrescere la propria autonomia e le proprie conoscenze e competenze ambientali parallelamente al percorso che conduce all'età adulta. Se si considera che è principalmente durante il corso dell'infanzia che gli individui definiscono le cornici entro le quali poi costruiranno le proprie convinzioni e stabiliranno le proprie consuetudini di vita si può affermare che il coinvolgimento dei bambini è un obiettivo di assoluta rilevanza non esclusivamente ai fini dello sviluppo individuale ma anche per lo sviluppo sostenibile della città nel suo complesso; si può affermare, cioè, che promuovere oggi il coinvolgimento dei bambini è indispensabile per far sì che domani, divenuti adulti, essi possiedano competenze e responsabilità adeguate per abitare la città in maniera sostenibile (Hörschelmann & van Blerk 2012; James et al. 1998; Paba 2006; Tonucci 2002; Ward 1979).
Figure 1 e 2. Il 'PortaColori' del quartiere periferico di Monte Rosello, a Sassari. È uno spazio per il gioco colorato, accogliente ed aperto che si trova all’interno del cortile della scuola primaria del quartiere. Si tratta di uno stralcio del progetto più ampio di "riconquista" dell'intero cortile, ideato nell'ambito di veri laboratori di progettazione partecipata che per un intero anno scolastico - hanno coinvolto tutti i bambini della scuola primaria, i ragazzi di una sezione della scuola secondaria di primo grado, i genitori, le insegnanti e le progettiste di TaMaLaCà (Arras et al., 2012a).
Concentrarsi sui bambini consente, inoltre, di gettare le premesse per la costruzione di una città più equa ed inclusiva perché permette di intercettare anche i bisogni e le aspirazioni di tipo urbano di tutti quegli abitanti che, come i bambini, non sono pienamente capaci di utilizzare la città così come attualmente è. Queste considerazioni assumono una portata maggiore se si considera che la città contemporanea sta diventando sempre più diffusamente e intensamente ostile nei confronti della presenza dei bambini, che sono stati ormai espulsi dagli spazi pubblici e dalle strade (sempre più privatizzati, specializzati e omologati), proprio in virtù della loro incapacità di utilizzarli alle condizioni imposte da un assoggettamento della forma e dell'organizzazione urbana unicamente alle esigenze del tanto dominante quanto poco rappresentativo abitantetipo di cui si è detto sopra. Francesca Arras, Elisa Ghisu, Paola Idini, Valentina Talu
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Figura 3. Il 'Fronte di Liberazione dei Pizzinni Pizzoni (FLPP)'. È un gioco urbano che ha innescato e guidato un percorso di riappropriazione degli spazi pubblici negati - perché occupati dalle automobili in sosta - del rione storico di San Donato, a Sassari, da parte degli abitanti, a partire dai bambini. L'esito spaziale della prima annualità del progetto (2012) è stato la riconquista, anche se solo per alcuni giorni, del grande spazio pubblico che circonda la scuola. (Arras et al., 2012b).
I progetti, materiali e immateriali, ideati e realizzati da TaMaLaCà non rifuggono dai conflitti che da essi possono derivare. Anzi, spesso, uno degli obiettivi principali espliciti è proprio quello di 'far uscire allo scoperto' la conflittualità latente (Giusti, 2004). Questa volontà deriva dalla convinzione che una gestione costruttiva, creativa e trasparente del conflitto sia parte integrante della buona riuscita di un progetto: «(...) non c'è equilibrio 'buono' della città che non venga raggiunto attraverso il conflitto (...) e che non venga mantenuto attraverso la capacità di gestire il conflitto senza che esso diventi "atmosfera conflittuale", guerra, violenza.» (Paba, 2010).
Figura 4. ExtraPedestri:lasciati conquistare dalla mobilità aliena. Un progetto pilota (ideato da TaMaLaCà, promosso dal Comune di Sassari e finanziato dalla Regione Autonoma della Sardegna) di promozione della mobilità pedonale in due quartieri marginali della città di Sassari (Monte Rosello e rione storico di San Donato) attraverso l'individuazione, la messa in sicurezza e la riconquista di percorsi prevalenti di quartiere. Il progetto prevede interventi materiali e immateriali, temporanei e permanenti di 'contro-occupazione' di alcuni spazi che, pur essendo pubblici, sono ad uso esclusivo delle automobili: le linee del Piedibus (attualmente in funzione), la realizzazione di segnaletica orizzontale inclusiva (in corso di realizzazione), il ridisegno delle strade su cui si affacciano le scuole (il progetto verrà realizzato nel corso del 2013). (Arras et al., 2012c; Idini, 2012).
Francesca Arras, Elisa Ghisu, Paola Idini, Valentina Talu
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TaMaLaCà - Tutta Mia La Città. 'Suffragette' dei diritti urbani negati
Figura 5 - Una delle immagini della campagna di comunicazione sociale del progetto 'Il Fronte di Liberazione dei Pizzinni Pizzoni (FLPP)'. Il rione storico di San Donato, a Sassari, è la porzione di città in cui si registra la più alta percentuale di abitanti stranieri, prevalentemente extra-comunitari: è questo l'elemento che attualmente, nel sentire comune, connota il rione e viene identificato come principale causa di inasprimento di tutte le altre sue problematiche. La convivenza tra le due anime di San Donato - la nuova, multiculturale, e la vecchia, orgogliosamente sassarese - risulta spesso difficile ed è caratterizzata da uno stato di conflitto latente, che si manifesta soprattutto attorno all’uso degli spazi pubblici. L'obiettivo ultimo della campagna di comunicazione è innescare, a partire dai conflitti tra le diverse provenienze e tra le diverse generazioni, un processo di riflessione e cambiamento che porti alla creazione di un nuovo senso di comunità e di un modo diverso di vivere il quartiere, che non si traduca più in una contrapposizione fra 'noi' e 'loro'.
Sebben che siamo donne… Abbiamo aperto questo breve saggio con una domanda: qual è, quale dovrebbe essere, oggi, il ruolo di un urbanista? Abbiamo cercato di mostrare qual è, a nostro avviso, la strada da percorrere per delineare una possibile risposta, flessibile e aperta. Ci sembra interessante, in chiusura, domandarsi se è possibile - e utile - declinare al femminile questo ruolo. Noi riteniamo che lo sia, in particolare perché è soprattutto alle donne che appartiene la capacità di costruire, rispettando tempi e sensibilità di ciascuno, inedite alleanze con gli abitanti (soprattutto con 'le' abitanti) in grado di migliorare la condivisione e l'efficacia dei progetti e di riconoscere e dare struttura, forza e visibilità a quelle pratiche e quei saperi quotidiani, domestici che, nonostante la loro rilevanza, vengono spesso esclusi dal progetto. In particolare nella pratica della micro-progettazione degli spazi pubblici di prossimità è di fondamentale importanza riuscire a costruire un certo livello di empatia con chi assume (o potrebbe assumere) spontaneamente un ruolo di gestione e cura dello spazio. La possibilità di «vedere la strada» (Jacobs, 1961) – ma il concetto è estendibile a tutti gli spazi pubblici di prossimità - e quindi di creare un certo livello di controllo sociale è condizione necessaria per lo sviluppo del senso di sicurezza e della vivibilità di un luogo. Molto spesso, ma questo dipende da molte variabili, anche culturali, sono proprio le donne ad esercitare più o meno consapevolmente questa forma di micro-organizzazione spontanea dello spazio pubblico di prossimità. Molto spesso, sono proprio le abitanti donne a conoscere profondamente i conflitti evidenti o latenti, rivelandosi i principali soggetti in grado di tracciare possibili strade di risoluzione. Ecco allora il valore del ruolo dell’urbanista donna, capace non solo di promuovere la costruzione, ma di entrare effettivamente a far parte della rete di relazioni di fiducia su cui si basa la vita quotidiana dello spazio pubblico di prossimità. Una fiducia che si basa anche sul riconoscimento di specifiche autonomie, competenze e responsabilità reciproche sullo spazio e sulla sua organizzazione (Gehl, 1987, Ward, 1973). Ma l’essere urbanista donna (ed in una certa misura giovane donna) – secondo l’esperienza maturata nell’ambito di TaMaLaCà - si rivela doppiamente utile nella gestione dei rapporti di mediazione tra le pubbliche amministrazioni e gli abitanti. La capacità, la sensibilità e - in una certa misura - l’apparenza 'innocua' che, sebbene con modalità diverse, consente di entrare a fare parte parallelamente delle due reti di fiducia (l’amministrazione da un lato e gli abitanti dall’altro), fa in modo che l’urbanista diventi una interfaccia e che venga percepita come alleata al contempo delle due controparti. In questa posizione strategica, da un lato può Francesca Arras, Elisa Ghisu, Paola Idini, Valentina Talu
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incoraggiare e favorire la mediazione, dall’altro può aiutare gli abitanti a costruirsi i propri strumenti di rivendicazione dei diritti e creare i presupposti perché gli amministratori non possano più tirarsi indietro di fronte alle richieste legittime di cambiamento che loro stessi hanno sostenuto.
Bibliografia
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Francesca Arras, Elisa Ghisu, Paola Idini, Valentina Talu
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Talu V. (in corso di pubblicazione), "Qualità della vita urbana e approccio delle capacità", in Archivio di Studi Urbani e Regionali, FrancoAngeli, Milano. Talu V. (2012), "Qualità della vita urbana e promozione delle «capacità urbane» delle popolazioni al margine", in Bellomo M. et al. (a cura di), Abitare il nuovo/abitare di nuovo ai tempi della crisi, Atti delle Giornate Internazionali di Studio "Abitare il Futuro", Clean, Napoli. Terzi L. (2011), "What metric of justice for disabled people? Capability and disability", in: Brighouse H. and Robeyns I., (eds.), Measuring justice. Primary goods and capabilities, Cambridge University Press, Cambridge. Tonucci F. (2002), Se i bambini dicono: adesso basta!, Laterza, Roma-Bari. Ward C. (1979), The children in the city, Architectural Press, Princeton. Ward C., (1973), Anarchy in Action, Allen & Unwin.
Sitografia
Sito web dell'EIDD - Design for All Europe http://www.designforalleurope.org Sito web del laboratorio di ricerca e azione per la città dei diritti TaMaLaCà - Tutta Mia La Città del Dipartimento di Architettura, Design, Urbanistica dell'Università degli Studi di Sassari http://www.tamalaca.uniss.it
Francesca Arras, Elisa Ghisu, Paola Idini, Valentina Talu
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Come cambia il planning. Come cambia il planner
Come cambia il planning. Come cambia il planner Ilaria Delponte Università degli Studi di Genova, Scuola Politecnica DICCA, Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica e Ambientale Email: ilaria.delponte@unige.it Tel: +39 (0)10 3532088, Fax: +39 (0)10 3532971
Abstract I fattori esogeni e congiunturali di natura sociale, culturale ed economica hanno avuto ricadute significative anche nell’esercizio della diverse professionalità, non ultima quella dell’urbanista e del pianificatore. Un continuo processo di cross-fertilization e di confronto di culture, con altri popoli ed altre competenze, ha arricchito il bagaglio degli urbanisti attuali, che hanno trovato la via del dialogo con temi orginariamente “altri”, ma che invece necessitano del contributo che la pianificazione territoriale sa dare con i suoi mezzi e la sua sensibilità. L’autore propone qui tre temi attraverso cui osservare le nuove sfide al cambiamento per quanto attiene il ruolo del planner e la missione del planning. Nel merito, vengono approfondite le tematiche relative allo smart planning (così come proposto dal Settimo Programma Quadro e da Horizon 2020), alla progettazione europea di vicinato in ambito mediterraneo e alla relazione fra pianificazione fisica e introduzione delle ICT (Information Communication Technologies), come applicazioni utili al governo del territorio. Parole chiave pianificazione, internazionalizzazione, cross-fertilization
La sfida per un cambiamento La crisi economica, il depauperamento delle risorse non rinnovabili, i problemi emergenti di una società multietnica e globalizzata sono indubbiamente aspetti importanti del quadro in cui, negli anni recenti, anche le discipline del territorio si sono trovate ad operare. Impreparati alle odierne sfide, gli strumenti e le procedure di pianificazione sono apparsi progressivamente insufficienti nel declinare soluzioni utili alle domande provenienti da contesti geografici mutati (in scala e in varietà di situazioni); tale consapevolezza ha contribuito ad evidenziare la necessità di cambiamento nelle modalità e nei contenuti della governance. Allo stesso modo, urbanisti e pianificatori si sono trovati di fronte a problematiche e interrogativi nuovi che hanno fatto sempre di più sorgere l’invito ad un rinnovamento nell’approccio alle prassi e ai contenuti della ricerca. Come ormai noto, le competenze richieste ad un pianificatore spaziano infatti da applicazioni strettamente tecnologiche alla biodiversità, alla progettazione congiunta con altri stati europei, alla capacità di elaborare strategie di reperimento fondi per la realizzazione di opere, ecc.. In altri termini, nuove sfide si sono affacciate alle discipline del territorio e anche i requisiti richiesti ad operatori pubblici e privati del settore sono mutati. Del resto, non fu diverso in molte delle situazioni ormai passate in cui la società italiana si è trovata costretta a ripartire: trasformando se stessa e accogliendo le istanze di un quadro in evoluzione, ha saputo trarne vantaggio e strutturarsi in maniera ancor più competitiva e vitale. Gli anni della ricostruzione post-bellica ne sono un fulgido esempio. Il momento odierno è ugualmente caratterizzato da sfide emergenti e da potenzialità inaspettate. Parimenti, nel quadro della disciplina, il panorama potrebbe apparire come ingombro da elementi nefasti: inefficacia degli strumenti tradizionali, indifferenza politica ai temi del territorio, scarsità di risorse economiche per la realizzazione di opere ingenti ed importanti; tuttavia, ad un giovane che si affacciasse per la prima volta al mondo dell’urbanistica si avrebbe qualcosa da dire e da proporre? Ilaria Delponte
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Questa è una domanda che nessuno può eludere, ne va della serietà con l’esperienza di coloro che, prima di lui, si sono coinvolti con la disciplina e continuano a farlo. Ed è chiaro che non si può risolvere la questione sbrigativamente. L’unica possibilità di risposta ad un tale interrogativo può essere solo il riconoscere ciò che il quadro contemporaneo propone: gli elementi di valore laddove sorgono, le opportunità che mettono in moto, gli ambiti disponibili a rimettersi in discussione, che già dimostrano una rinascita. Nella società civile, la voglia di fare ed intraprendere è stata minata alle sue fondamenta ed è necessario risalire la china di una sfiducia “moderna” nei confronti della realtà e del tempo. Allo stesso modo, l’accademia si trova oggi, senza alcun dubbio, nella condizione di dover recuperare quella credibilità, insita in ciò che propone, che si è andata nel tempo sgretolando, dietro a scandali creati ad hoc, ad incapacità intrinseche alla struttura nel rinnovare i propri tempi e modi ed alla diuturna resa di molti. La crisi economica e l’impossibilità a sostenere gli effetti di una gestione del territorio ingessata e poco foriera di sviluppo porta oggi coloro che si assumono la responsabilità della governance territoriale e della ricerca urbanistica a dover partire, senza posizioni di rendita o di immunità, dalla propria incapacità di rassegnazione e connaturata esperienza positiva del vivere. Questo, a ben guardare, non può quindi che essere un momento straordinariamente dinamico e ricco di prospettive, per chi intende cogliere la sfida.
Alcuni spunti concreti Come detto precedentemente, la situazione all’interno dell’ordinamento urbanistico nazionale non è diversa da quella di tanti altri settori professionali e della ricerca: tuttavia, vi sono alcuni aspetti della disciplina che possono essere meglio investigati e costituire (nel merito, questa volta) spunti di interesse e di maggiore approfondimento. In tal senso, nel presente articolo, si è cercato di enucleare alcuni degli elementi che ben si prestano ad esemplificare quanto sostenuto in premessa: si è tentato cioè di fare riferimento a quelle forme più innovative che possono costituire potenzialmente opportunità di rilancio del planning e dei planner. Detti spunti sono stati raccolti lungo il cammino personale dell’autore e come tali sono da intendersi: tuttavia, l’intento di trasmetterli e condividerli sembrava essere un passaggio imprescindibile per confrontarli e verificarli. Da tempo, l’attenzione rivolta all’intervento di recupero sulla città esistente è di grande dibattito alla scala europea: una certa similitudine nello strutturarsi delle comunità urbane e rurali, un condiviso background storico e l’obiettivo della coesione comunitaria ha fatto sì che si sia compiuto a questo riguardo, fin dagli Anni ’90, un comune percorso culturale di definizione di approcci, modalità e strumenti. Dall’inserimento dei temi della qualità della vita (riqualificazione), fino alla successiva presa di consapevolezza della necessità di una corretta considerazione delle risorse anche in prospettiva delle generazioni future (sostenibilità), si può affermare che il tema del progetto a scala urbanistica si è arricchito progressivamente di contenuti e accezioni. Ad oggi, proseguendo nel percorso, sembra essere elemento di ulteriore riflessione la misura/valutazione dell’efficienza delle iniziative (di pianificazione/progettazione/programmazione) condotte a livello urbano. In tal senso, la bontà delle azioni realizzate nelle aree metropolitane europee verrebbe dimostrata grazie alla loro capacità di raggiungere gli obiettivi prefissati con agilità, migliorando le dotazioni urbane e rispondendo contestualmente a tutti gli altri fondamenti soprarichiamati. E’ il nuovo paradigma che associa alla città requisiti di smartness, al fine di mostrarsi come attrattiva nei confronti di territori anche distanti, competitiva in termini di investimenti ottenuti, veloce nelle connessioni materiali e immateriali, in grado di sfruttare le proprie potenzialità anche dal punto di vista energetico e quindi di massimizzare i risultati dal punto di vista ecologico. Evidentemente, un tale organismo urbano deve strutturarsi fisicamente e telematicamente in maniera efficace, efficiente, veloce e intuitiva, smart insomma. Il Settimo Programma Quadro ha destinato alla smartness nella pianificazione urbana un bando di progetto nel 2011: la call emessa sotto l’egida delle Direzione Generale Energia, portava infatti il titolo di “Smart Planning”. E’ chiaro che l’investimento in questo filone di ricerca rappresenta, se visto in una prospettiva pluridecennale, l’ultimo atto di una strategia complessiva sul tema della città, affrontato da anni in sede comunitaria: ciò a scanso di equivoci rispetto al fatto che si tratti esclusivamente di uno slogan. Lo smart planning nasce in continuità con quanto compiuto negli ultimi 20 anni sul tema della riqualificazione dei contesti urbani e metropolitani europei, arricchitosi, inoltre, di nuovi contenuti e discipline “altre” rispetto al nucleo originario delle scienze architettoniche. Tutto ciò non può che determinare un interesse da parte di coloro che da sempre progettano e pianificano la città, che deve tuttavia giocarsi nel rapporto con altre esperienze culturali. In primis quella tecnica dell’energetica, dell’impiantistica, dell’informatica, delle telecomunicazioni, ecc. che rappresentano il valore aggiunto odierno alle dotazioni fisiche infrastrutturali già a regime nelle città europee. L’efficienza energetica di impianti e reti e l’interoperabilità fra dati provenienti da fonti diverse (reportistica da sensori, conteggi automatizzati, rielaborazione immagini, telerilevamenti,…) costituiscono il surplus di una città già ben organizzata spazialmente, che desidera però migliorare le proprie performance di consumo (in rispetto all’ambiente, ma anche nell’ottica di una maggiore autosufficienza energetica); inoltre, con poco sforzo realizzativo, a partire dalla base-dati esistente e dalle infrastrutture fisiche sul territorio, essa intende mettere a Ilaria Delponte
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sistema le proprie risorse per innalzare il livello dei servizi offerti, grazie alle possibilità rese disponibili dalle moderne tecnologie (consultazione della popolazione in real time, sistemi di allerta, messaggistica variabile, monitoraggio dinamico dei percorsi delle flotte o della disponibilità di spazi di sosta, aggiornamento delle condizioni di traffico, servizi online al cittadino,…). Nell’organizzazione e gestione di una città con queste caratteristiche, la pianificazione spaziale non è che un tassello del mosaico: tuttavia essa è fondamentale, non solo perché “madre” di tutte le altre iniziative da intraprendersi sul territorio (a ben vedere, il piano urbanistico è pur sempre l’unica legge che ne regola gli usi), ma anche perché essa, a differenza delle altre discipline, da sempre dialoga con un aspetto cruciale, cui altri settori sono tradizionalmente meno avvezzi: non è meramente un’attività tecnica, ma, per natura, si interfaccia e si compenetra con le dinamiche sociali e politiche fino a costituire, insieme con esse, la governance degli assetti urbani. In tal senso, determinante è il suo apporto anche nei confronti delle altre materie tecniche e tecnologiche che, offrendo il loro contributo specifico nella progettazione di impianti e reti, non ne sanno cogliere appieno i significati “urbani” (e nemmeno è loro richiesto), né parlano la stessa lingua delle prassi amministrative. Evidente è allora il ruolo di collettore che la disciplina rappresenta nella costruzione della nuova città smart. Non semplice, tuttavia, è la formazione dei profili atti a questa nuova accezione di pianificazione: coloro che vi si approcciano non calcoleranno mai forse indici territoriali e fondiari (o forse sì), ma dovranno saper intravvedere invece un disegno unitario in tutte le applicazioni singole con cui potrà essere infrastrutturato un certo ambiente, valorizzandone le potenzialità esistenti ed intercettando i possibili impatti negativi. La loro maggiore attività sarà dedicata a prevedere i risultati fisici delle attività di progettazione immateriale, ovvero: come l’accesso telematico ai servizi riduce la necessità dello spostamento contribuendo alla decongestione veicolare? Oppure: come la disponibilità biunivoca di consumo/cessione di elettricità e calore (concetto delle cosidette smart grid) cambierà il modo di vivere la città e anche il suo volto tipologico-costruttivo? Relazioni quasi del tutto inesplorate, ma su cui molta letteratura sta crescendo, soprattutto ad opera di giovani ricercatori e professionisti che hanno intravvisto in questo tema un interesse, una possibilità di lavoro e di verifica/arricchimento delle proprie tradizionali competenze. Ne è un esempio il progetto “Transform - Transformation Agenda for low carbon cities” di cui l’autore può riferire direttamente1. All’interno delle tasks progettuali, le 6 città coinvolte hanno a tema la definizione di un percorso di trasformazione dei propri contesti, mediante l’uso di indicatori di performance che permettano un rigoroso monitoraggio degli sviluppi dell’attività di governance e delle sue ricadute in termini di sostenibilità ambientale. Elementi chiave del processo sono l’efficientamento energetico (in linea con la Direttiva 20-20-20 e oltre, ponendosi già oltre nel superamento del traguardo degli obiettivi di riduzione del 20% di consumi energetici e di emissioni di anidride carbonica, accompagnati dall’impiego delle rinnovabili per almeno il 20% del totale delle fonti utilizzate) e il coinvolgimento degli attori, soprattutto tramite ICT, come fattore abilitante delle nascenti smart communities. A partecipare al progetto, non solo le città europee più rappresentative, ma anche le società distributrici dei servizi energetici, i centri di ricerca e di consulenza più attivi sul tema, nell’ottica di comprendere, nella descrizione dei passi dell’agenda, tutti gli attori chiave del management urbano. La grande maggioranza degli operatori coinvolti nel progetto (circa 60 persone tra responsabili e collaboratori) sono planners: danesi, olandesi, italiani, francesi, austriaci, tedeschi, La richiesta delle professioni e della ricerca legate all’edilizia, ai trasporti e dell’ambiente hanno subito recentemente sul mercato una evidente flessione negativa: nel panorama europeo moltissime sono le nazioni in cui costruire ex novo è difficile, se non bandito (anche in conseguenza dello scoppio di bolle speculative e dell’entrata in vigore di successive leggi dedicate alla lotta allo spreco di suolo). In tanti casi le opere infrastrutturali più ingenti sono state messe a repentaglio dalla diffusa inaccoglienza da parte di quelle popolazioni (o rappresentanze di esse) che preferiscono l’opzione di una crescita senza sviluppo. In tale quadro, afflitto, in gran parte del contesto europeo, anche da un deciso calo demografico, che rende meno urgente la necessità di costruire nuovi quartieri e nuove attrezzature, ci si potrebbe chiedere dove volgere lo sguardo nell’intento di mettere a frutto le proprie capacità e competenze. Ebbene, in tal senso, moltissimo da dire hanno i Paesi emergenti dell’ambito mediterraneo. Essi, infatti, costituiscono un’immensa risorsa, in primo luogo perché depositari di una tradizione di rapporti con l’Occidente, che li rende interlocutori già in parte preparati a modalità di lavoro ed approcci culturali che, nella sponda nord, possono considerarsi ormai consolidati. Inoltre, la richiesta di operatori specializzati nella gestione del territorio costituisce evidentemente una grossa opportunità per coloro che vogliono avventurarsi nella messa a punto (quasi da zero) di servizi ecologici, dotazioni urbane di qualità, pianificazione dei trasporti pubblici e privati, ecc. in quei territori. L’incremento demografico e la dinamicità di Paesi che sono costituiti dal 50% di giovani rendono aperto il campo all’intrapresa di professionalità che possono proporsi, praticamente senza concorrenza alcuna, facendo leva sulla capacità di visione dei processi urbani nel loro complesso. La difficoltà, spesso riscontrata, ad operare nella sponda sud del bacino mediterraneo può essere in parte ovviata tramite 1
Il progetto Transform è capofilato dalla Municipalità di Amsterdam; le altre città europee coinvolte sono Vienna, Lione, Amburgo, Copenhagen a Genova, oltre alla partecipazione di altri partners industriali e di assistenza tecnica quali Enel, ERDF, Arup, Accenture ed enti di ricerca. L’autore partecipa alle attività di progetto condotte da Comune di Genova come responsabile delle attività sugli indicatori di performance della città ligure.
Ilaria Delponte
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l’intercettazione di fondi destinati alle attività di “cooperazione di vicinato” finanziate dall’Unione Europea. Si tratta di opportunità di partecipazione ampie, pubbliche e private (da organismi di ricerca e municipalità ad Onlus, associazioni, ecc.), in cui il finanziamento, in questo caso, incentiva non tanto l’attività fra partners all’interno dell’area europea (già erogato su altri bandi), ma si allarga a stati “esterni” all’Unione (Tunisia, Egitto, Giordania, Libano,…). In tali bandi (denominati, come noto, ENPI Projects “European Neighbourhood Policy Instrument”), viene data la priorità di assegnamento non tanto al trasferimento univoco nord-sud di knowhow, quanto alla condivisione biunivoca di percorsi e di valorizzazione delle risorse umane. Anche in questo caso, si tratta di ambiti emergenti che costituiscono sfide certamente non immediate ma sicuramente stimolanti e promettenti. Significative dal punto di vista urbanistico sono le ricadute del progetto “Marakanda-Mediterranean Historical Markets”2, finanziato nella prima call ENPI del 2011. Le sue finalità, perseguite mediante la cooperazione internazionale sponda nord-sud, possono essere enucleate in tre punti principali: la riqualificazione dei mercati storici urbani come elemento di gravitazione della città mediterranea, la promozione di cluster di imprese a sostegno della produzione di beni con destinazione il mercato, la formazione di figure gestionali in grado di mettere in atto dinamiche di rivitalizzazione sociale ed economica in questo ambito. In particolar modo la prima costituisce un punto di grande interesse per i planner coinvolti: il paragone con le realtà dei souq, bazar e caravanserragli dei contesti mediterranei aiutano a comprendere e salvaguardare le identità storiche e a riconoscere e difendere quelle dinamiche che sono alla base della logica del mercato, come luogo urbano privilegiato per la funzione commerciale. Evidentemente, si tratta di uno specifico aspetto all’interno di numerosissimi fattori che necessitano un intervento nelle città mediterranee: tuttavia, esso è anche spunto di fattiva cooperazione perché sa cogliere aspetti comuni, rispettosi della tradizione, ma su cui, al contempo, si concentrano gli sforzi di una riproposizione, in termini progettuali moderni, del modello di mercato per il XXI secolo. Ultimo spunto riferito ad un settore emergente, potenzialmente di grande interesse per i pianificatori, riguarda lo sviluppo dell’ICT (Information Communication Technologies). Numerose possibilità di finanziamento e diverse opportunità a bando nazionale hanno puntato l’attenzione sull’incremento delle applicazioni tecnologiche in ambito urbano: basti pensare al Bando MIUR (Ministero dell’Università e Ricerca) “Smart City and Communities and social innovation”, in cui i settori di possibile implementazione delle conoscenze ICT spaziavano dalla sicurezza del territorio, alla domotica, al waste management, all’architettura sostenibile, ai trasporti ed alla logistica dell’ultimo miglio, ecc. L’intento del Bando, in questo caso, è quello di incentivare interventi che andranno a contribuire e promuovere l'utilizzo evoluto delle tecnologie da parte di cittadini, imprese e amministrazioni. Secondo il decreto del 5 luglio 2012, gli interventi devono essere in grado di sviluppare soluzioni tecnologiche, servizi, modelli e metodologie nel perimetro applicativo delle Smart Communities, ovvero lo sviluppo dell’innovazione deve essere finalizzato a dare soluzione a problemi di scala urbana, metropolitana e territoriale. Moltissime altre sono le occasioni a questo riguardo: tutte queste sono accumunate da un unico punto di interesse per gli urbanisti. La possibilità di coniugare la tradizionale attività di pianificazione con mezzi che in tempo reale e senza bisogno della prossimità fisica possono di gran lunga innalzare le capacità di strumenti, l’attendibilità, misurabilità e numerosità di dati di analisi e velocizzarne anche la rielaborazione. Le ICT hanno inoltre, come già richiamato, uno spiccata predisposizione al servizio al cittadino e, come tali, possono anche rendere più visibili i processi e le scelte pianificatorie. Caso esemplare in tal senso è la progettazione di interventi finalizzati all’organizzazione della logistica delle merci in ambito urbano: l’impiego delle ICT consente un insieme di operazioni che vanno a vantaggio di una semplificazione degli spostamenti, utile soprattutto se si tratta di contesti di pregio architettonico-urbanistico, come le aree centrali delle città storiche. Ne è un esempio il progetto “URBe-Log, URBan Electronic Logistics”, presentato sul Bando MIUR dedicato al “Centro Nord”, da tre grandi città italiane (Milano, Torino, Genova), insieme ad un gruppo di aziende specializzate in servizi tecnologici quali Telecom, Selex Elsag, Iveco, TNT, con il supporto degli enti di ricerca3. L’implementazione di politiche di regolamentazione accessi e di pricing flessibili, la gestione delle aree di sosta a prenotazione e con sanzione di occupazione abusiva, l’organizzazione 2
Marakanda, finanziato nell’ambito del programma ENPI CBCMED, ha come principale obiettivo quello di rafforzare la cooperazione dei paesi dell’Unione Europea con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo; il progetto è capofilato dal Comune di Firenze e raggruppa 10 partners di cui 2 provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo: Comune di Genova, Comune di Favara (Agrigento), Comune di Xanthi (Grecia), Comune di Limassol (Cipro), Institute of Markets (Barcellona), Plural Study Centre (Italia), CRUIE (Centro di Ricerca in Urbanistica, Infrastrutture ed Ecologia, Università di Genova), National Research Centre (Egitto), Souk El Tayeb Association, Beirut (Libano). La scrivente è coinvolta in qualità di membro del Consiglio Direttivo del Progetto per il centro di ricerca CRUIE. 3 L’idea progettuale URBe-LOG intende sviluppare e sperimentare un’innovativa piattaforma telematica e informatica aperta, dinamica e partecipata di servizi e applicazioni per la logistica di ultimo miglio in ambito urbano, in grado di aggregare l'ecosistema degli stakeholders e di gestire in tempo reale i processi distributivi dalla produzione alla consegna. UNIGE è coinvolta nella proposta come sub contractor di aziende ed altri enti per lo sviluppo delle attività del dimostratore genovese: l’autore cura la parte urbanistica a supporto delle applicazioni tecnologiche insieme al prof. Riccardo Bozzo, responsabile scientifico del progetto. Ilaria Delponte
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di centri di distribuzione urbana e di servizi di home-delivery, nonché il monitoraggio ambientale delle ricadute dell’iniziativa costituiscono un valido contributo alla decongestione delle località centrali e non solo, considerando il trasporto merci come responsabile di circa il 40% degli spostamenti cittadini. Anche in questo caso, il punto cruciale dell’interesse da parte delle competenze urbanistiche è il rapporto, tutto da inventare, tra pianificazione spaziale e applicazioni tecnologiche: queste ultime rendono più intellegibili le dinamiche esistenti (grazie alla quantità di informazioni ottenibili), ma ne creano anche di nuove ancora inesplorate. In tal senso, la sfida di un centro urbano in cui il cittadino, grazie alla dotazione informativa che ha a disposizione, si muove, parcheggia e fa acquisti in modo diverso, non può non essere riconosciuta come un aspetto di frontiera per coloro che studiano e si confrontano con la città e i suoi processi. Anche in questo caso, numerose sono le competenze richieste: non si tratta di snaturare il proprio contributo di pianificatori votandosi alla pura tecnologia, ma di rimanere saldamenti ancorati al ceppo della disciplina per intercettare gli spazi utili ad una sua innovativa declinazione. Così, mentre cambia il planner, cambierà anche il planning.
Bibliografia
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Ilaria Delponte
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Vita attiva, relazione tra sport e città
Vita attiva, relazione tra sport e città Elena Donaggio1 IRS – Istituto per la Ricerca Sociale Email: edonaggio@irsonline.it Tel: 3396997299
Abstract Il contributo vuole riflettere sul valore delle pratiche sportive e motorie come elementi che arricchiscono un uso plurale dello spazio pubblico. Le virtù e i benefici che l’attività fisica comporta per la salute delle persone sono ormai note, ma nonostante ciò le evidenze statistiche segnalano come in Italia sia ampio il numero di persone che non pratica attività fisica. Si ritiene quindi sia utile ampliare la riflessione fino a ricomprendere lo spazio urbano delle nostre città, quale supporto che può favorire o meno l’adozione di stili di vita più sani e attivi. Il modo in cui si costruiscono le città, si progetta l’ambiente urbano e si fornisce l’accesso all’ambiente naturale può essere un forte incoraggiamento o un grande ostacolo all’attività fisica e ad una vita più attiva. Per raggiungere questo obiettivo è importante però che le politiche urbanistiche e di welfare materiale riconoscano e accolgano questa come un’istanza in grado di sollecitare le riflessioni sullo sviluppo urbano, gli standard, i criteri di riprogettazione degli impianti sportivi e i regolamenti e le norme d’uso dello spazio pubblico, affinché le nostre città si rendano disponibili ad accogliere le pratiche sportive. Esiste ormai un’ampia letteratura che mostra poi come oltre, a migliorare la salute, le città che investono nelle politiche e nei programmi di promozione dell’attività fisica (comprese le modalità attive di trasporto) possono contare su una serie di ricadute positive di natura più ampia. Il paper proporrà alcuni elementi di riflessione utili per mettere a fuoco perché valorizzare la pratica sportiva e motoria sia materia di interesse anche per chi si occupa di territorio e di spazio urbano. Questo modo di guardare allo sport richiede però, tanto da parte del mondo dello sport che della pianificazione urbana, delle istituzioni e dei soggetti che se ne occupano, la pratica di un certo tipo di ‘sguardo’, allenato alla complessità, alla multidisciplinarietà e che vede nell’integrazione tra mondi e discipline diverse un’occasione di arricchimento reciproco utile a favorire l’avanzamento della riflessione.Per raggiungere questo risultato si richiede l'intervento di una vasta gamma di settori e professioni, molti dei quali non hanno l’attività fisica come elemento centrale delle loro missioni. L’interesse è quello di individuare strumenti e modalità di integrazione tra la progettazione e la pianificazione dello spazio urbano e i progetti locali sull’attività fisica e sull’active living volti a favorire l’attività fisica ed in generale stili di vita più attivi. Parole chiave Active living, spazio pubblico, sport e attività motoria
1 | Di che cosa parliamo quando parliamo di sport L’attività umana indicata con il termine inglese di ‘sport’ rappresenta un fenomeno moderno, di cui sono state date diverse definizioni. Secondo il sociologo francese Georges Magnane, lo sport può essere definito un’attività del tempo libero la cui dominante è lo sforzo fisico, un’attività che presenta contemporaneamente le caratteristiche del gioco e del lavoro, che comporta la creazione di istituzioni specifiche e l’applicazione di 1
Elena Donaggio è architetto e dottore di ricerca in ‘Progetti e Politiche Urbane’. Collabora stabilmente con IRS – Istituto per la Ricerca Sociale di Milano, dove si occupa principalmente di processi di trasformazione e di sviluppo territoriale, disegno e attuazione di politiche e interventi per la rigenerazione delle periferie urbane. Ha partecipato ad attività di ricerca sia nazionali che internazionali e collabora alla didattica presso il Politecnico di Milano, dove è cultore della materia alla Facoltà di Architettura e società. Il paper nasce da un progetto di ricerca, promosso da chi scrive, dal nome ‘Tracce di Sport’: un’attività di ricerca e comunicazione attiva da tre anni, ideata con l’obiettivo di guardare allo sport dalla duplice prospettiva di ricerca e comunicazione.
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regolamenti, che viene praticata in modo competitivo a livello amatoriale, ma può anche diventare professionale2. Tuttavia, le trasformazioni e i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni, il moltiplicarsi delle discipline sportive, delle finalità per cui esso viene utilizzato, delle popolazioni e dei pubblici che lo praticano o semplicemente lo seguono, hanno reso lo sport qualche cosa di estremamente variegato e complesso. La diffusione della pratica sportiva in quasi tutte le società del mondo contemporaneo è il segno dell'importanza che lo sport ha assunto da un punto di vista sociale, economico e politico. Le grandi organizzazione internazionali hanno spesso puntato l’attenzione sull’importanza e sul valore che lo sport e l’attività fisica possono avere nel favorire lo sviluppo e migliorare la coesione sociale. Il 2005 era stato dichiarato dall’Onu ‘International Year of Sport and Physical Education’3, sottolineando come, proprio in virtù del suo essere linguaggio universale, esso possa contribuire in maniera fattiva al raggiungimento dei Millennium Development Goals. All’interno di questo processo, un passaggio importante è rappresentato dal contributo dato dall’Unione Europea, che allo sport ha dedicato un’unità -interna alla Direzione Generale Educazione e Culturacon il compito di coordinare e sviluppare le attività in questo ambito. Nel luglio del 2007, l’Unione Europea ha adottato il ‘Libro bianco sullo sport’4, che costituisce il suo primo documento completo in questo settore. Tra i principali obiettivi del Libro bianco si trovano: - migliorare la visibilità dello sport nelle decisioni politiche dell'UE; - richiamare l'attenzione alle esigenze e alle specificità del settore assicurando che la specificità dello sport si rifletta nello sviluppo e nell'attuazione delle politiche europee; - promuovere le attività connesse allo sport nel territorio comunitario. La possibilità di praticare sport viene riconosciuto come un diritto dei cittadini europei che deve essere garantito a tutti in egual maniera. Lo sport è una sfera dell’attività umana che interessa tutti ed ha un enorme potenziale e un importante ruolo nella società: oltre a migliorare la salute dei cittadini europei, lo sport ha una dimensione educativa e svolge un ruolo sociale, culturale e ricreativo e può essere quindi un importante fattore di sviluppo per le società. Se come sostiene Sen5, la sfida dello sviluppo consiste nell'eliminare i vari tipi di ‘illibertà’ e nel rendere accessibili il maggior numero di 'opportunità e capacità’ per il maggior numero di persone - per dare loro la possibilità di costruirsi la vita che preferiscono - allora anche lo sport può essere visto come un’attività la cui fruizione ed il cui libero accesso deve essere garantito al maggior numero di persone possibili. La possibilità di partecipare e godere lo sport è un diritto in sè6, che deve essere promosso e tutelato. Affermare che l'opportunità di poter partecipare ad attività sportive e di gioco è un diritto, significa assumersi la responsabilità e garantire che questo diritto sia realizzato e rispettato. Oggi però le risposte, le politiche e i progetti per lo sport basati su approcci onnicomprensivi segnalano i limiti legati alla strutturale incapacità di interpretare a pieno una domanda che si presenta al contempo molto più eterogenea e sfuggente rispetto a pochi decenni fa. Le politiche formali per lo sport e l’offerta di servizi per la pratica sportiva sembrano non sfuggire a quella che viene definita la ‘teoria amministrativa dei bisogni’7, per cui le istituzioni preposte tendono a selezionare unicamente quei problemi per i quali esistono soluzioni determinate all’interno di un repertorio di risposte codificate, senza riuscire a cogliere il potenziale creativo che una diversa lettura del problema può sottendere. Conseguentemente, il campo delle soluzioni è limitato a quelle che si possono identificare con un servizio specifico, un oggetto, (nel caso dello sport) spesso un edificio8. L'attuale congiuntura economica e la scarsità di risorse impongono in tutti i settori un sostanziale ripensamento degli interventi: le politiche e i servizi per lo sport non sfuggono a questa criticità e necessitano di essere ripensate alla luce di un più completo sistema di obiettivi, aprendo alla possibilità di immaginare soluzioni in grado di superare i limiti che Tosi denunciava molti anni fa.
2 | Tra sport di vertice e attività fisica diffusa Si sono da poco concluse le Olimpiadi di Londra 2012 e come sempre, in occasione di questo grande evento, a fianco dei commenti alle grandi vittorie, riemergono le considerazioni sulla cultura sportiva del nostro paese e sulla propensione degli italiani, non tanto alle grandi imprese olimpiche, quanto ad una più banale e quotidiana attività fisica. 2
Magnane G., (1972), Sociologia dello sport, Editrice La Scuola, Brescia Fonte: sito web: http://www.un.org/sport2005/ 4 Commissione Europea, Libro Bianco sullo Sport, Direzione Generale dell’Istruzione e della Cultura, Brussels http://ec.europa.eu/sport/white-paper/index_en.htm 5 Sen A., (2000), Lo sviluppo è libertà. Perché non c'è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano 6 Sullo sport come diritto si veda: http://www.olympic.org/sport-for-all-commission 7 Tosi A., (1994), Abitanti, Il Mulino, Bologna 8 Balducci A. (a cura di) (2004) ‘La produzione dal basso di beni pubblici urbani’, Urbanistica, 123, INU, Roma 3
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In effetti, nonostante l’Italia sia, nell’UE, uno tra i paesi con il più basso numero di persone che praticano sport (42% di attivi, contro il 58% di sedentari), gli atleti di vertice, in occasione delle grandi manifestazioni sportive internazionali, raggiungono spesso risultati di un certo rilievo. Sembra dunque riproporsi una sorta di contrapposizione tra lo sport di vertice ed una più normale attività fisica e motoria, la cui diffusione e promozione, è ormai però una priorità non più rinviabile. ‘Il brutto è che non si capisce di chi sia, il benedetto compito di pensare ad avere ragazzi meno obesi, campi dove fare atletica o tennis o basket, piscine dove far nuotare i figli senza dover chiedere un mutuo. Il brutto è che al Coni interessa poco se i bambini italiani fanno due ore alla settimana di "educazione fisica" molto spesso senza avere neppure una palestra, se una volta arrivati all'università lo sport sparisce del tutto dai radar dei ragazzi. Dovrebbe interessare lo Stato, che però non ha soldi, idee, teste, cultura, freschezza per provare a colmare un gap imbarazzante con il resto d'Europa e del mondo‘9 Il caso italiano costituisce un esempio di regolazione indiretta ma in realtà marcatamente interventista. La vera peculiarità italiana consiste nel fatto che i poteri di regolazione e incentivazione dello sport, altrove esercitati dallo Stato, sono affidati alle competenze di un suo strumento specializzato, il Coni: un esempio unico di politiche pubbliche di settore esercitate per delega dello Stato da una struttura semipubblica. Di qui numerosi effetti di stress organizzativo e persino, in qualche occasione di aperto conflitto. Il problema centrale, da più parti ribadito, riguarda dunque la promozione di una cultura sportiva diffusa, che vuole dire vedere crescere il numero di persone che fanno attività fisica e motoria e praticano stili di vita più attivi e sani, anche grazie ad un più ampio ventaglio di scelte e di proposte. Un rapido sguardo alle indagini europee mostra in generale bassi livelli di attività fisica in molte popolazioni. La maggioranza dei cittadini fa sport “regolarmente”' o “con una certa regolarità'” in soli 7 Stati membri; ma in 20 Stati membri, la maggioranza dei cittadini Ue (60%) non fa mai sport o lo fa molto raramente. Una minoranza (40%) fa sport “regolarmente” o “con una certa regolarità” (una volta alla settimana o più). Il 9% degli europei fa sport regolarmente (5 volte a settimana o più), e potrebbero essere considerati sportivi seri10. I mutamenti che hanno interessato le modalità e le forme con cui si manifesta la domanda di attività fisico sportiva e di partecipazione agli eventi sportivi, hanno esercitato effetti di ricaduta anche sulla richiesta di servizi e strutture per la pratica sportiva. Per quanto concerne la dotazione di strutture, si assiste da sempre in Italia a un annoso dibattito legato al fatto che la scarsa propensione degli italiani allo sport dipenda dalla carenza di impianti dedicati; spesso anche le istituzioni locali lamentano che l’impossibilità a promuovere progetti e politiche per lo sport è da attribuirsi alla scarsa dotazione di impianti sportivi. Il Coni, che della preparazione olimpica si occupa, non si preoccupa invece dei problemi dello sport italiano, fotografati da tutte le statistiche che ci pongono in coda ai paesi europei per pratica, strutture, funzione della scuola. L’idea che l’attività fisica possa essere praticata all’aria aperta e negli spazi pubblici esistenti, utilizzati come se fossero degli ‘impianti spontanei’, vere e proprie ‘palestre all’aperto’, in cui è possibile praticare attività fisica in modo informale e all’aria aperta, è in Italia un atteggiamento decisamente meno diffuso che in altri contesti. Se guardiamo infatti ai dati europei sul numero di praticanti che preferisce fare attività in spazi aperti, questa sembra essere già una tendenza ben definita. Le risposte fornite alla domanda: ‘dove pratica attività sportiva?’- riportate nell’indagine Eurobarometer della Commissione Europea nel 201011 mostrano come, in modo assolutamente controintuitivo, la pratica sportiva all’aperto decresca via via che ci si sposta verso i paesi del sud Europa, dove di fatto le condizioni climatiche più miti e favorevoli potrebbero essere un elemento incentivante e sia, di fatto, molto più diffusa nei paesi del nord Europa. Dall’83% della Slovenia, al 76% della Finlandia, al 64% di paesi come la Danimarca e l’Austria, si passa a percentuali ben più contenute nei paesi del sud Europa: 27% in Grecia, 39% in Portogallo e solo 40% in Italia. Ciò, a nostro avviso, segnala come l’utilizzo dello spazio pubblico per l’attività sportiva dipenda molto più da fattori culturali piuttosto che ambientali e sia influenzata -più in generale- dalla propensione all’attività motoria tout court.
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Aligi Pontani, la Repubblica, Educazione sportiva, vinciamo questa medaglia, 13 agosto 2012, fonte web: http://www.repubblica.it/rubriche/tempo-olimpico/2012/08/13/news/finale-40869353/) 10 Coni, Istat, (2011), I numeri dello sport italiano la pratica sportiva attraverso i dati Coni e Istat, Roma. Documento disponibile on line: http://coni.it/fileadmin/Documenti/I_NUMERI_DEL_CONI_EM_2010.pdf 11 Commissione Europea, (2010), Sport and Physical Activity, Special Eurobarometer, Brussels. Documento disponibile on line: http://ec.europa.eu/public_opinion/archives/ebs/ebs_334_en.pdf Elena Donaggio
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3 | Vita attiva: verso una politica sportiva urbana Come accennato in apertura, la nostra conoscenza dell’universo sportivo si è alimentata e nutrita di due viaggi di ricerca, che ci hanno permesso di trovare storie e casi, incontrare attori, scoprire luoghi e pratiche. Ad oggi siamo impegnati nell’individuare pratiche di promozione dell’attività fisica nello spazio pubblico basate su alcuni principi chiari: - lavorare a partire da quello che c’è, favorendo la costruzione di reti tra soggetti interessati alla promozione dell’attività fisica; - ampliare il ventaglio delle proposte di attività fisica e motoria, rendendo la pratica sportiva accessibile al maggior numero di persone possibili a costi nulli (o molto contenuti) sia per gli utenti che per l’amministrazione comunale; - suggerire, attraverso la pratica all’aperto, la ri-significazione degli spazi pubblici come potenziali palestre all’aperto, senza che sia necessario investire nella realizzazione di specifiche strutture a supporto; - favorire pratiche di innovazione sociale che valorizzino l’intelligenza della società locale nella messa a punto di nuove forme di erogazione di servizi; - favorire la partecipazione ed il miglioramento della qualità delle vita nelle nostre città. A tal proposito sono stati individuati e raccolti inoltre una serie di casi che si caratterizzano per l’immediatezza della proposta e per la semplicità della realizzazione; sulla scorta di quanto avviene in altre città abbiamo messo a punto percorsi volti a sperimentare la promozione dell’attività fisica negli spazi pubblici, dei cui esiti è troppo presto per potere dare conto in questa sede. Vi sono però diversi buoni esempi utili a mettere in luce l’eterogeneità dei soggetti promotori, degli spazi utilizzati e delle attività fisiche e motorie che è possibile svolgere negli spazi urbani delle nostre città. A Barcellona è attivo il collettivo De La Calle12 che, appoggiandosi sul concetto di sport informale. riutilizza temporaneamente gli spazi che per motivi giuridici -amministrativi restano abbandonati: spazi in attesa di essere edificati, vuoti urbani di lunga data o che nascono in seguito a demolizioni di antichi edifici. Famosa è anche l’esperienza di Bryant Park13 a New York. Bryant Park è gestito da una associazione senza scopo di lucro, la Bryant Park Corporation (BPC), fondata nel 1980. La BPC è stata costituita con l’obiettivo di riqualificare lo storico parco, che aveva subito un grave processo di degrado sul finire degli anni ‘70. Il parco ha riaperto nel 1991 dopo quattro anni di restauro e a oggi rappresenta un caso di grande successo di pubblico.. Il parco ospita tutti i giorni, secondo un calendario molto ampio ed articolato, attività sportive, lezioni di ginnastica a corpo libero, lezioni di yoga, tai chi, scherma e giocoleria, tutte assolutamente gratuite. In Francia, si registrano invece diverse esperienze interessanti promosse tanto da enti pubblici quanto da associazioni private. Nel primo caso è il Comune di Parigi14 che offre corsi di sport per adulti all'aperto dal 1983. Sport e natura, sessioni libere dedicate alla ginnastica, al jogging e al gioco. Le attività sono definite in base al luogo e al tempo: non esiste un solo tipo di attività per ogni luogo. E’ sempre in Francia però che anche altre iniziative promosse da privati hanno trovato grande seguito. E’ il caso della Street gym o urban training: in pochissimo tempo questa pratica ha fatto il giro del mondo, trovando il più facile approdo in Francia. La peculiarità di questa attività è che la strada in generale, con tutto quello che offre (e quindi anche i centri commerciali, le scale mobili, gli elementi di arredo urbano, etc), diventa una palestra dove è possibile fare attività motoria. In questa direzione riteniamo infine che anche l’esempio inglese -dal 2010 riproposto anche in alcune città italiane - sia di un certo interesse. Si tratta della Green Gym, nata alla fine degli anni ’90 nel Regno Unito (dove negli ultimi anni sono stati sviluppati decine di progetti di lavoro, con la partecipazione di migliaia di persone). Questa attività, nata per combinare volontariato per la salvaguardia e il recupero degli spazi verdi e attività fisica per riabilitazione, si è presto sviluppata come palestra all'aria aperta. L’idea è quella di unire l’attività fisica con il volontariato ambientale, permettendo tra le altre cose felici sinergie tra diversi settori del mondo del volontariato. I casi riportati e le esperienze brevemente accennate sottolineano la rilevanza di almeno tre aspetti: il valore delle pratiche sportive e motorie come elementi che arricchiscono un uso plurale dello spazio pubblico; il ruolo dello sport come elemento intorno a cui nascono e si sviluppano comunità di pratiche; lo sport come attività che rimette al centro la dimensione corporea e ne suggerisce una prospettiva di possibile centralità anche per la riflessione sull’organizzazione dello spazio urbano. La promozione dell’attività fisica e motoria all’aperto può contribuire a ‘portare fuori’ dalle palestre e dai luoghi in cui lo sport si è (ed è stato) confinato una grande ricchezza e favorire il processo di riappropriazione e risignificazione dello spazio pubblico delle nostre città. Per raggiungere questo obiettivo è importante però che le politiche urbanistiche e di welfare materiale riconoscano e accolgano questa come un’istanza in grado di sollecitare le riflessioni sullo sviluppo urbano, gli 12
Fonte we: http://thegreatoutdoors.typepad.com/delacallefc/ Per una descrizione dettagliata della storia e del calendario di attività: http://www.bryantpark.org/ 14 Fonte web: http://www.paris.fr/loisirs/activites-gratuites/entretien-physique/le-dimanche-sport-decouvertenature/rub_6600_stand_62586_port_15005 13
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in cui lo sport si è (ed è stato) confinato una grande ricchezza e favorire il processo di riappropriazione e risignificazione dello spazio pubblico delle nostre città. Per raggiungere questo obiettivo è importante però che le politiche urbanistiche e di welfare materiale attiva, relazione tra sport e città un’istanza in grado di sollecitare le riflessioni sullo sviluppo urbano, gli riconoscano eVita accolgano questa come standard, i criteri di riprogettazione degli impianti sportivi e i regolamenti e le norme d’uso dello spazio standard, i criteri di riprogettazione degli impianti sportivi e i regolamenti e le norme d’uso dello spazio pubblico, affinché le affinché nostre città si città rendano disponibili le pratiche sportive. pubblico, le nostre si rendano disponibiliad ad accogliere accogliere le pratiche sportive.
Figura 1. Regolamento per l’utilizzo della spiaggia del Poetto dove si fa divieto ad ogni attività sportiva Cagliari Andrea Calderone Figura 1 - Regolamento per l’utilizzo della spiaggia del Foto: Poetto dove si fa divieto ad ogni attività sportiva – Cagliari Foto: Andrea Calderone
Dentro a questo quadro, un aspetto interessante risiede nella possibilità di ripensare l’utilizzo e la fruizione che si da degli spazi pubblici a partire dalla pratica sportiva spontanea all’aperto Dentro a questo quadro, unservano aspetto interessanteimpianti risiedeattrezzati nella possibilità ripensare e la fruizione che si L’idea è che non necessariamente per poter faredi attività fisica e l’utilizzo motoria: lo sviluppo e l’incentivo della pratica sportiva può e deve essere favorito soprattutto attraverso azioni e progetti che richiedono da degli spazi pubblici a partire dalla pratica sportiva spontanea all’aperto investimenti di natura economica ma che necessitano di unaattività diversa fisica prospettiva di natura L’idea è che non servanominimi necessariamente impianti attrezzati per invece poter fare e motoria: lo sviluppo e culturale. l’incentivo della sportiva può e deve essere favorito soprattutto azioni e progetti Solopratica l’adozione di uno sguardo orientato a cogliere le distinzioni sottiliattraverso dei corpi e delle persone aumentache il richiedono 15 investimenti grado minimi di natura economica ma lache necessitano invece die urbanistici una diversa prospettiva di natura . di risoluzione necessario per garantire qualità dei progetti architettonici
culturale. ‘Healthy urban planning’ is about planning for people. It puts the needs of people and communities at the heart Solo l’adozione unoplanning sguardo orientato a cogliere le distinzioni sottili corpi e delle aumenta il 16 ’ of thediurban process and encourages decision-making based on humandei health and well being’15persone grado di risoluzione necessario per garantire la qualità dei progetti architettonici e urbanistici . Il modo in cui si costruiscono le città, si progetta l’ambiente urbano e si fornisce l’accesso all’ambiente naturale
‘Healthy urban planning’ about for people. It puts theostacolo needs ofall’attività people and communities at the può essereisun forteplanning incoraggiamento o un grande fisica e ad una vita più heart attiva.of the urban planning process 16 Un aspetto che ha ricevuto negli health ultimi and anniwell unabeing’ notevole and encourages decision-making based on human ’ attenzione riguarda in che modo le caratteristiche specifiche dell’ambiente urbano costruito possono influenzare l'attività fisica.
Il modo in cui‘[...] si costruiscono le città, si progetta l’ambiente urbano e si fornisce l’accesso all’ambiente naturale The acceleration of life has made humans increasingly passive in life [...] much of what happens in modern può essere unWestern forte incoraggiamento o untogrande ostacolo fisica e ad una più attiva. cities - from engineering movie-making - is all’attività based on freeing humans from vita resistance. This is to ensure that humans confront minimal 'obstruction', 'discomfort', and engage in minimal 'effort' as they Un aspetto che ha ricevuto negli ultimi anni una notevole attenzione riguarda in che modo lemove caratteristiche through space and life17’ specifiche dell’ambiente urbano costruito possono influenzare l'attività fisica. Affrontare questi problemi non è solo una responsabilità individuale: la società tutta è responsabile della creazione delle condizioni che facilitano la vita attiva e dove l’attività fisica sia vista come una necessità, non come un lusso. Per raggiungere questo risultato si richiede l'intervento di una vasta gamma di settori e professioni, molti dei quali non hanno l’attività fisica come elemento centrale delle loro missioni. 18 15 dovrebbero essere correlati e integrati con processi di I progetti locali Differenze, sull’attività interazioni, fisica e sull’active living Paba G. , 2010, Corpi urbani. politiche, Franco Angeli, Milano 16 pianificazione più ampi. Per esempio, i piani, le politiche e i programmi sugli stili di vita attivi possono integrare Barton H. and Tsourou C., 2000, Healthy Urban Planning, London Spon and Copenhagen, WHO altre iniziative di pianificazione urbana legate ai trasporti, all’ambiente, all’energia e allo sviluppo economico. I benefici dell’attività fisica sulla salute sono ben noti. Una regolare attività fisica moderata promuove il benessere mentale, fisico e sociale e aiuta a prevenire le malattie, le disabilità e l’obesità .
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Paba G. , 2010, Corpi urbani. Differenze, interazioni, politiche, Franco Angeli, Milano Barton H. and Tsourou C., 2000, Healthy Urban Planning, London Spon and Copenhagen, WHO 17 Sennett R., 1994, The Flesh and The Stone: The Body and the City in Western Civilization, Norton&c., New York, p. 18 18 Active living (o stile di vita attivo) indica l’insieme dei comportamenti e delle modalità scelte quotidianamente per fare attività fisica. 16
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'[...]essentially, escalating levels of obesity parallel our technology and our automated society. We've literally engineered physical activities such as walking and dishwashing out of our lives' Now, with the diffusion and growth of Gold’s Gyms and the billion-dollar exercise equipment industry, we are obviously tryng to reengineer physical activities back into our lives19’ Esiste ormai un’ampia letteratura che mostra poi come oltre, a migliorare la salute, le città che investono nelle politiche e nei programmi di promozione dell’attività fisica20 (comprese le modalità attive di trasporto) possono contare su una serie di ricadute positive di natura più ampia. Questo modo di guardare allo sport richiede, tanto da parte del mondo dello sport che della pianificazione urbana, delle istituzioni e dei soggetti che se ne occupano, la pratica di un certo tipo di ‘sguardo’, allenato alla complessità, alla multidisciplinarietà e che vede nell’integrazione tra mondi e discipline diverse un’occasione di arricchimento reciproco utile a favorire l’avanzamento della riflessione. Ciò di cui abbiamo bisogno sono strumenti per integrare l'attività fisica nella vita di tutti i giorni. Fino ad oggi, la partecipazione regolare ad attività fisiche e motorie, allo sport e al gioco, cioè l’essere fisicamente attivi non è stato visto come una fonte di vantaggio competitivo. Tutte queste erano per lo più considerate attività opzionali o extra-curriculari, piuttosto che il potente investimento che rappresentano in realtà. Sul fronte dell’urbanistica, si possono segnalare una serie di carenze nel modo nel nostro paese, se guardate rispetto all’obiettivo di promuovere l'attività fisica: - non si esaminano congiuntamente le politiche di uso del suolo e la dimensione dello spazio (spazio pubblico fisico, parchi e strutture ricreative) quali leve per favorire l’attività fisica; - programmi, organizzazioni ed esperti mancano di quadri concettuali e di strumenti, per pianificare gli spazi fisici e gestire programmi e servizi pubblici che favoriscano la vita attiva; - le politiche trascurano di concentrarsi su programmi e azioni dedicate ad alcuni target di popolazione specifici e prioritari: in particolare: giovani, immigrati, anziani. In breve, le nostre città hanno bisogno di riflessioni aggiuntive per migliorare l'ambiente costruito in modo tale da promuovere obiettivi di vita attivi; riflessioni che vedano nell’incrocio tra la dimensione fisica e quella sociale il focus principale: spazi di qualità ben progettati da un lato (piazze, parchi, strutture ricreative, luoghi di lavoro, spazi verdi, sistemi di trasporto e mobilità) e fornitori di servizi pubblici, dall'altro (in particolare i comuni, associazioni, scuole). Sono quindi necessarie ulteriori ricerche. A livello concettuale, abbiamo bisogno di sviluppare politiche pubbliche che attingono da una diagnosi accurata e ridefiniscano lo sport e l'attività fisica in un approccio multidimensionale. A livello pratico, la creazione di reti interistituzionali per l'attuazione di tali politiche diventa cruciale. Qui, la formazione di profili qualificati in una vasta gamma di settori e con competenze trasversali (non necessariamente legate all’attività fisica) è certamente un presupposto fondamentale.
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Vita attiva, relazione tra sport e città
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Elena Donaggio
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Il tema rimosso del fabbisogno abitativo e del dimensionamento, tra invenduto e nuova domanda abitativa
Costruire/decostruire città. Dalle esperienze delle architette del socialismo utopico ai social settlement delle sociologhe del riformismo filantropico di fine ottocento fino alla prospettiva di genere degli anni duemila: appunti sull’abitare collaborativo Lorenza Perini IUAV, Venezia. Email: perini.lorenza@gmail.com Tel. 338-3893695
…e quando crolla l’ordine della città allora compaiono le donne (Laraux 2009) Abstract Il presente contributo vuole portare l’attenzione su alcune questioni che riguardano il concetto di housing, termine che in lingua inglese risulta assai più ricco di significati dinamici rispetto alla sua statica traduzione italiana in “abitare”. In particolar modo verrà trattato il caso del co-housing, termine anch’esso ricco di interpretazioni e di molteplici traduzioni, non solo linguistiche ma in termini di pratiche. E’ possibile tracciare un interessante percorso storico dell’abitare “socializzante” che appare influenzato non solo dalle radici letterarie rinascimentali del pensiero utopico, ma anche da visioni politico-filosofiche di stampo socialista rispetto al concetto di “comunità” che risalgono alla seconda metà dell’ottocento. Successivamente, alla fine del XIX secolo e nel corso del novecento, nuovi discorsi e nuovi significati si sono sviluppati particolarmente nell’ambito dei “femminismi”, che individuano nella casa patriarcale – e quindi la casa singola con giardino del sogno borghese- il luogo di maggior segregazione e discriminazione per le donne mettendola a tema come problema. Nella prospettiva di uno sguardo “non neutro” sull’abitare nella città contemporanea e sulle relazioni che si instaurano nel il territorio, è possibile – ci si chiede- considerare il co-hausing nella sua accezione di “abitare collaborativo” come politica pubblica verso una città e una società non discriminatorie e più sostenibili?
1 | Le architette di Utopia Dolores Hayden in uno dei suoi fondamentali studi, “The grand domestic revolution” del 1981, riconduce le origini del concetto di “vicinato socializzante” -inteso appunto come modalità di organizzazione sociale dello spazio abitativo- non tanto alla Danimarca dei primi anni settanta come molta letteratura riferisce (McCamant Durrett, 1988), ma riporta la nascita e il diffondersi di questo tipo di pratica direttamente all’esperienza delle sociologhe e architette autodidatte che del comunitarismo socialista di fine ottocento. Nel suo libro Hayden delinea la storia di due generazioni di donne che, investite del ruolo di interpreti di un progetto politico e filosofico, riescono ad inventare letteralmente di tutto, dando vita ad una storia di immensa creatività e fecondità di idee, la cui origine era data dalla semplice quanto immediata constatazione di quanto le donne fossero effettivamente “diverse” dagli uomini nel fruire gli spazi e, per questo – per la sola ragione del sesso-, in quegli spazi e da quelle pratiche fossero discriminate. La tecnologia, le soluzioni innovative e ardite, il design, l’automazione: per le pioniere della pianificazione del XIX secolo la creatività era la via di fuga da mettere in atto rispetto ad una condizione di inferiorità e costrizione delle donne nello spazio domestico che si rivelava senza senso, dettata dagli stereotipi del pensiero comune e nient’altro. Il valore del loro contributo alla pianificazione, come sottolinea Hayden, non è tuttavia misurabile in termini di soluzioni utili proposte o di Lorenza Perini
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progetti realizzati. Esso ha valore in termini di passaggio di “consapevolezza” che la società compie nel momento in cui decide di affidare proprio ad una donna le decisioni relative alle forme e ai modi dell’abitare. Il loro compito si rivelerà improbo: rendere concreto e reale un luogo dell’immaginario e dell’impossibile, del tutto privo di plausibilità, non di rado localizzato in deserti lontani e senza nemmeno le risorse elementari per immaginarvi la vita. In una parola: dare forma all’Utopia, far vedere il “mai visto”. E utopico si rivelerà in effetti pensare che per liberare il tempo delle donne oppresse dal dare nutrimento alla famigli si possa costruire una casa senza cucina (Hayden, 1978, 1986), in cui rifornimenti di cibo avvengono tramite tubi sotterranei direttamente collegati ad appositi depositi comuni (è il caso di Alice Austin che progetta e in parte realizza all’inizio del Novecento la comunità di Llano Del Rio, nei pressi di Los Angeles); utopico si rivelerà pensare che orti rigogliosi per l’auto-sostentamento di una comunità di migliaia di persone possano crescere dal nulla in mezzo al deserto, o che nel clima torrido del Messico sia plausibile costruire edifici di pietra con muri spessi come nella vecchia Inghilterra (è il caso di Marie Stevens Hawland il cui progetto per la comunità di Topolobampo nel Nuovo Messico, del tutto irrealizzabile, diventerà tuttavia un esempio rispetto al quale molti architetti troveranno fertile terreno di discussione in anni successivi). Affidare alle donne in quanto donne la progettazione dell’abitare, riconoscer a loro una naturale predisposizione a capire questo tipo di situazioni seda un lato è certamente un modo per vedere le donne, dare valore al loro sapere, dall’altro si rivela un progetto poco lungimirante, che come effetto produce un rafforzamento dello stigma della casalinghitudine, del sapere della casa come sapere delle donne, di una competenza nel domestico data dalla natura e che per questo non può essere da altri acquisita con l’esperienza. La vera novità del loro mettersi in gioco nel mercato della progettazione sta nella capacità del tutto nuova di porsi domande diverse da quelle abituali: le donne chiamate a progettare Utopia si pongono domande che molti pianificatori e architetti non si erano ancora mia posti: nella città le donne vivono come gli uomini l’interscambio tra spazio pubblico e spazio privato o c’è qualche differenza che può essere utile evidenziare, sottolineare e/o nel caso provare ad eliminare? Quello che le donne fanno nello spazio domestico della casa è lavoro vero e proprio: perché non viene considerato come tale, al pari del lavoro fuori casa svolto dagli uomini? Quante possibilità hanno le donne di fruire realmente dello spazio pubblico della comunità inteso in termini di liberazione di spazio per sé se sono oberate dal lavoro domestico e se la gestione di quello spazio pubblico alla fine le vede ancora una volta uniche protagoniste? Domande apparentemente banali ma che le progettiste pongono alla società americana con grande forza nel pieno della rivoluzione industriale, in un momento della storia in cui se da un lato evolvono velocemente i contesti produttivi, gli ambiti e i rapporti di lavoro, le fortune economiche, gli standard di vita, i sistemi di trasporto che rendono più evidenti le differenze tra città e campagna e quindi la forma stessa delle città– dall’altro- le donne, nel nuovo così come nel vecchio mondo, sono ancora lontane da un riconoscimento dei loro diritti di cittadine a tutti gli effetti. Non votano non rappresentano, non hanno voce. E se le progettiste mettono in campo il loro sapere tecnico e ipotizzano come soluzione alle discriminazioni sociali avveniristici scenari che prefigurano l’automazione quasi completa della scena domestica come in una vera e propria “casa di utopia”, lo fanno con lo spirito di chi vuole – al di là della sua effettiva realizzabilità- comunque mettere a tema un problema e lo fanno nella maniera più decisa e simbolica possibile, eliminando dalla casa l’elemento individuato come responsabile primario dell’oppressione, la cucina. Le soluzioni di case senza cucina proposte dalle architette pongono il problema di come organizzare altrimenti una delle pratiche che tradizionalmente è attribuita alle donne per antonomasia – dare nutrimento alla propria famiglia. Si tratta di uno slittamento che porta nello spazio pubblico ciò che prima era rigorosamente rinchiuso nel privato della casa e pone la necessità di attribuire alle funzioni di cura un nuovo significato. Come organizzare la riproduzione in termini di “tempo di lavoro” senza dare per scontato che siano le donne a farlo?
2 | Le riformiste di Utopia Al di fuori dell’esperienza delle comunità socialiste il cui fine sostanzialmente era di de-costruire la città industriale intesa sia dal punto di vista delle relazioni umane che dal punto di vista delle realizzazioni spaziali a favore di un’ipotetica quanto idealizzata città perfetta, nelle aree urbane più degradate delle città industriali di fine ottocento vi erano anche altre realtà: vi erano ad esempio donne, non architette ma filantrope, sociologhe ed educatrici che organizzavano “oasi” in cui sperimentare un nuovo tipo di “abitare sociale” e multiculturale per accogliere e rendere più agevole l’inserimento e l’assimilazione degli operai migranti provenienti dalla vecchia Europa che trovavano lavoro nelle fabbriche cittadine. L’idea era di affrontare non tanto con le tecnologie ma con i mezzi della pedagogia ciò che si andava evidenziando come il problema strutturale della società americana – l’accoglienza dell’altro da sé, del diverso, dello straniero. Jane Addams –sociologa autodidatta e riformista vicina alle idee e alle esperienze della scuola di Chicago- tra il 1875 e il 1925 inventa e dirige la comunità di Hull House accogliendo quei migranti -soprattutto italiani- che avevano trovato lavoro nelle fabbriche della città diventata il più grande polo industriale dell’epoca, la capitale mondiale del carbone. Analogo è il caso di Anna Smhikovitch, anch’essa fondatrice come Addams in una comunità abitativa in un’altra capitale industriale di inizio Novecento -New York- dove realizza una serie di “social settlement” improntati alla valorizzazione Lorenza Perini
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dell’esperienza delle donne rispetto al domestico, alla loro “educazione” al “fare casa” e quindi a “curare”, “accogliere”e trasmetter questo sapere per creare le condizione per una reale integrazione. Hayden sembra guardare con interesse le esperienze sulla città portate dalle riformiste, che definisce come esponenti di un “femminismo materialista”, nel senso di una volontà delle donne non solo di teorizzare ma di “make visible the invisible”, cioè di mettere in pratica la trasformazione dello spazio fisico della casa e della città in modo tale che quella casa e quella città si accorgano delle donne. Per questo danno vita a nuove forme di relazione di vicinato e di mutuo aiuto che di fatto re-inventano lo spazio della quotidianità scardinandone ruoli e stereotipi. Una “creazione della domesticità” che in questo contesto di sradicamento viene consegnata alle donne come missione, a coloro che per natura “sanno fare casa ovunque” e che quindi – in pieno spirito dei padri pionieri della patria- possono riuscire a portare la soglia del domestico sempre più avanti, anche al di là dell’Oceano, senza perderne le caratteristiche di accoglienza, di cura, di familiarità.
3 | Architette o riformiste: un’occasione mancata Le strade intraprese dalle architette così come dalle riformiste di fine ottocento verso un rinnovamento dei rapporti tra i sessi e un ri-disegnarsi dei confini tra pubblico e privato nello spazio della città pongono la questione dell’effettiva cittadinanza delle donne. Qual’ è il loro posto nella città? In un caso come nell’altro le soluzioni sono tuttavia evidentemente fuori misura. Nel caso delle utopiche ciò che si verifica è una pianificazione eccessiva, un affidamento a meccaniche improbabili in chiave di superamento verso il “neutro” tecnologico della divisione sessuale dei ruoli, pensata con grande creatività e immaginazione “futurista”, ma senza tener conto di fatto della reale predisposizione delle persone, dell’asperità e improbabilità dei luoghi, delle risorse disponibili, delle dinamiche elitarie e di chiusura che avrebbe innescato trasformare la casa e di conseguenza la città in un laboratorio di meccanica avanzata. Nel caso delle riformiste, l’entusiasmo di un atteggiamento assistenzial-educativo orientato al bene fa vedere loro come semplice e raggiungibile per tappe progressive ciò che invece semplice non è: l’integrazione dei migranti non può avvenire solo attraverso pratiche abitative di scambio e condivisione di volta in volta adattate al caso specifico, la cui responsabilità di funzionamento è per altro lasciata tutta sulle spalle delle donne, in nome di presunte capacità innate di saper accogliere, riprodurre, curare anche in assenza di condizioni adatte e per farlo ci vogliono dialogo con chi governa, collaborazione e iniziativa da parte delle istituzioni, in una parola ci vorrebbero politiche. Ma come si è detto, al di là del giudizio di valore che si può dare sull’effettivo prodotto del loro agire, il vero problema storico, sostiene Hayden, è che tutto il lavoro e lo sforzo di pensare una casa e una città diversa - il loro lavoro di planning, di creatività, di competenza architettonica e tecnica manuale- tutto questo “sapere” delle donne sulle relazioni tra i sessi e tra le culture viene ben presto totalmente dimenticato. Impreparate ad affrontare gli sviluppi del capitalismo monopolista che porta con sé quel grandioso sviluppo dei trasporti che scardina completamente i confini tra città e campagna e modifica i concetto stesso di abitare, le autodidatte dell’anti-città così come le autodidatte del social housing che avrebbe dovuto rigenerare il degrado della città industriale, ritornano in poco tempo prigioniere tra le mura domestiche, in un mondo di case singole con giardino che avanza come una marea e si richiude su di loro (Vestbro- Horelli, 2012). L’errore di prospettiva che si compie allora -se di errore si può parlare, è quello di dare valore politico alla “soglia di casa”, attribuendo in tal modo solo e sempre alle donne la soluzione dei problemi della cura e della riproduzione. Il risultato dell’assunzione di questa prospettiva è una sorta di fraintendimento sul significato dello “stare in casa” rispetto al valore dello “stare fuori” in termini di diritti effettivi di libertà disponibili per i due sessi in un caso e nell’altro. Fraintendimento che, sotto varie sfumature, perdura fino all’inizio degli anni settanta. Se attraverso una decostruzione degli spazi della casa una parte del problema della relazione tra i sessi viene messa a tema, ciò che resta invece ancora in ombra è la questione dei ruoli: anche nel nuovo abitare delle comunità del socialismo reale sono le donne le uniche deputate a svolgere i lavori di cura e riproduzione – sebbene in luoghi e con modalità che sono divenute “pubbliche”, “comuni”, “collaborative” e “condivise”. Ciò che è avvenuto è semplicemente uno spostamento di luogo, ma tutto si svolge esattamente come prima, con le stesse dinamiche che dominavano dentro le mura di casa, senza nulla risolvere rispetto a quel modello sociale che vedeva le donne e gli uomini agire in ambiti diversi -ora lo spazio è pubblico per entrambi, con la differenza che i ruoli ricoperti dalle donne continuano a perpetuare nel pubblico la condizione di subalternità che vigeva per loro nello spazio privato.
4 | Vocabolari dell’abitare: il contributo dei femminismi I casi citati di donne impegnate nella progettazione e gestione di comunità si rivelano interessanti da riscoprire e riconsiderare oggi, nonostante gli effettivi fallimenti dei loro intenti, in quanto mettono in luce come tra pianificazione e pratica dell’abitare sia di fatto tuttora mancante un dialogo, una forma elastica di relazione e di Lorenza Perini
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scambio reciproco di esperienza. In riferimento al presente, l’interesse per le esperienze delle utopiche e delle riformiste si fa pretesto per ritornare a riflettere sulle modalità dell’abitare condiviso (e sostenibile) contemporaneo e sulla relazione non solo tra pubblico e privato in quanto spazi, ma come possibilità di azione responsabile. Le domande sono: che cosa si condivide? Dove lo si condivide? Chi condivide cosa? Per il destino riservato alle donne dalla storia, per come è costruita la loro esperienza, è plausibile pensare che esse abbiano dunque un’idea diversa rispetto agli uomini su questi argomenti e pratichino l’abitare con tempi e modalità di fruizione diversi– né migliori né peggiori per definizione- semplicemente diversi. L’intreccio tra le piccole e grandi divergenze di punti di osservazione su uno stesso spazio urbano che sono contenute nell’appartenenza a sessi differenti può risultare forse utile alla costruzione di una filosofia dell’abitare che sia non “neutra”, ma “comune”, nel senso di condivisa e propensa ad attivare forme di collaborazione. Partire dalle differenze per arrivare alla composizione di una sorta di “sistema lillipuziano” di connessioni, segni, esperienze, movimenti grandi e impercettibili, pratiche, passioni, nodi: è il percorso che l’esperienza delle architette autodidatte ottocentesche accenna, pur senza arrivare a delle soluzioni e che può essere utilmente ripreso oggi nelle moderne forme del co-housing collaborativo (Delgado, 2010). I progetti pensati per le comunità del socialismo utopico, al di là della loro palese irrealizzabilità, dimostrano di avere comunque una vita propria, funzionano cioè anche da dispositivi in sé, in grado di muovere il ragionamento. Si pone in questo modo per la prima volta attraverso l’architettura il problema del “quotidiano” non solo come “spazio del” ma come relazioni che quotidianamente avvengono in un determinato spazio; si pone il problema di come tra spazio pubblico e spazio privato si svolge la vita di una donna in relazione alla vita di un uomo e ci si chiede come sia possibile trasformare questo spazio tenendo conto delle “diversità” tra i sessi. Sono progetti senza applicazione pratica alcuna, che teorizzano la città dell’eguaglianza senza dare corso però a nessuna soluzione concreta. Tuttavia il dibattito su spazi e ruoli delle donne nella città si innesca e sarà questo il grande tema di tutto il XX secolo, che a partire dalla fine degli anni sessanta le femministe imporranno all’agenda politica di ogni paese dell’occidente. Oggi il dibattito su una cura ingabbiata da ruoli e stereotipi ormai sclerotizzati che vedono tutto ancora e sempre in capo alle donne per tradizione, non avendo trovato un suo equilibrio nemmeno negli anni settanta, passando attraverso nuove definizioni di domestico, attraverso la distruzione che di esso hanno fatto le femministe per poi ricostruirlo con nuovi mattoni (Dalla Costa 1977; Balbo 1981), il dibattito –dicevo- è tornato in qualche modo alla ribalta, ma il rischio è che ancora una volta si rimanga a girovagare intorno al punto di partenza, in una diatriba infinita sul fatto se si stia o meno parlando di “luoghi di donne”, di “politiche per le donne”, di “cose di donne”, di “storie di donne”, di qualcosa cioè che non riguarda tutti, ma solo una parte della popolazione e che quindi non debba essere sussunto da tutti come modo di analizzare la realtà (Bartolini, 2011).
5 | Co-housing come politica gender sensitive?i Nella filosofia del co-housing inteso come abitare collaborativo la dimensione patriarcale che ordina le cose e che si è appena descritta, di fatto, si spezza ed è realmente possibile concepire una scena domestica in cui entrambi i sessi siano partecipi, poiché i residenti tendono ad usare tempistiche molto diverse rispetto a quelle che scandiscono la normale routine domestica solitamente appannaggio delle donne, influenzando in questo modo la costruzione di identità relazionali diverse da quelle preordinate. La cura non appare più quindi il destino obbligato delle donne e diventa invece habitus etico – “etica di cura” e non “etica della cura”- che tutti – non solo le donne per destino- collaborando possono praticare. (Sarasini, 2012). Attraverso il concetto di “collaborazione”, l’abitare si apre al punto di vista di donne e di uomini che guardano e sperimentano lo stesso luogo e le stesse relazioni non necessariamente in modo uguale o intercambiabile, quanto piuttosto complementare, poiché profondamente asimmetriche le loro storie e le cronologie che nel corso del tempo ne hanno determinato comportamenti, abitudini, costruito immaginari. Riconoscere che esiste la possibilità di uno sguardo del due che determina pratiche diverse e approcci diversi all’housing e non solo una visione ch attiene storicamente ad un sesso piuttosto che all’altro, consente un’apertura di senso in grado di fornire ricchezza di informazioni su ciò che si guarda (e che ri-guarda ognuno di noi in quanto cittadino e “abitante”), come un plus di attenzione che si ha verso cose, luoghi e relazioni umane che accadono nel perimetro della nostra vita quotidiana. Se è vero – come è effettivamente vero- che della casa le donne hanno esperienza, perché ad essa sono state educate, la loro posizione dovrebbe collocarsi allora alla radice di qualsiasi processo di pianificazione che comporti una riflessione sul come abitare. Un sapere apparentemente marginale il loro, ma che può essere invece utilmente “usato” da per entrare dentro il significato profondo dell’abitare come processo, come insieme di pratiche, come complesso di relazioni umane (Vettoretto, 2009) che si articola nel tempo in un determinato luogo. Alcune considerazioni portate avanti dalla critica di genere hanno iniziato a permeare la riflessione sulla pianificazione, ma sono rari i casi in cui dalla teoria si è passati alla pratica in maniera virtuosa; molti propositi rimangono ancora oggi solo sulla carta, anche se è piuttosto evidente che le pratiche messe in atto dal movimento femminista, specialmente il racconto collettivo e le pratiche di autocoscienza, potrebbero essere d’aiuto e integrare positivamente il lavoro del pianificatore (Sandercock, 1998; Forsyth, 1999), recuperando le relazioni Lorenza Perini
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tra insediamento umano e ambiente, ricucendo lo strappo che nel tempo si è creato tra l’azione quasi compulsiva dell’edificare e la memoria e la biografia di un territorio e che ha fatto dell’abitare, come scrive Alberto Magnaghi, un “vivere in un sito indifferente, ridotto a supporto di funzioni di una società istantanea, che ha interrotto bruscamente ogni relazione con la storia del luogo” (Magnaghi 2010). Questo per dire che un punto di vista di genere nel progettare l’abitare non si esaurisce nell’illuminare un parcheggio, raddrizzare una strada, istituire i taxi rosa, distribuire sul territorio asili, e altre strutture per l’educazione dei bambini piuttosto che per l’assistenza agli anziani come potrebbe sembrare distorcendo le definizioni e le teorie legate al concetto di “pari opportunità”. L’utilizzo del genere in quanto relazione attiva tra i sessi e sotto-forma di categoria analitica può aiutare a ridefinire in una nuova prospettiva i vecchi problemi pensati fino ad ora come neutri; può aiutarci a considerare questioni già note sotto altri punti di vista (l’asilo nido pubblico sul territorio è un diritto delle donne o dei bambini?) e rendere il confronto tra diversità proficuo per una pianificazione e un policy making che tengano conto dello “star bene” di tutti nello spazio della città. Uno star bene che si basa sulle relazioni quindi, in particolar modo sulle relazioni più prossime a noi nella pratica dell’abitare, cioè le “relazioni di vicinato”. Se si inserisce la parola “co-housing” in un qualsiasi motore di ricerca, tra i primi risultati che si ottengono vi è la definizione di “abitare selettivo”, ad indicare che una costruzione del vicinato può avvenire a priori, secondo determinate regole che hanno a che fare con la filosofia che sottende al progetto, piuttosto che altre affinità o comunanza di idee che presuppongono una “scelta”. Qualcuno che sceglie e qualcuno che è scelto: una pratica del tutto in contraddizione con il significato di “abitare collaborativo”, a partire dalle architette e dalle sociologhe ottocentesche, che sulle differenze cercavano di lavorare nella prospettiva di una soluzione morbida – per successione di prove e per stage progressivi- dei problemi della città. La pratica del “casting del vicinato” nella sua estrema rigidità limita le possibilità di relazione, di intrecci e contatti tra culture ed esperienze, che rappresentano invece la dimensione più reale della città vivente. Sono queste mescolanze a dare luogo a pratiche dell’abitare composite e fertili, un “bricolage” che si basa su un alto grado di adattabilità, creatività, varietà di pratiche temporanee- le uniche forse in grado di risolvere velocemente situazioni critiche in cui le donne – più degli uomini- si trovano sempre più spesso a vivere (donne sole, sole con bambini, con anziani, anziane loro, in coppia tra donne, in transito) e rispondente a tipologie familiari che necessariamente evolvono in maniera a volte inconsueta o che sono per loro natura diverse da quelle abituali -diversi gli usi degli spazi, diversi i costumi e i tempi di vita. Pratiche abitative “lillipuziane” che consentono alle persone di passare oltre, di superare problematiche contingenti senza farle diventare problemi più grandi e cronici, senza gravare pesantemente sulla società e le istituzioni. Individuate, riconosciute e smussate tutte le derive e le rigidità possibili, il co-housing potrebbe dunque essere davvero un’opportunità, non solo per rivedere e ripensare le città e il loro tessuto urbano, ma per rivedere e ripensare in essa relazioni improntate ad un’etica di rispetto delle differenze nell’eguaglianza dei diritti.
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Lorenza Perini
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Being agents as a way of life. Learning from the Universität der Nachbarschaften project within IBA-Hamburg 2013
Being agents as a way of life. Learning from the Universität der Nachbarschaften project within IBA-Hamburg 2013 Michele Sbrissa IUAV - Venezia Dottorato in Urbanistica Email: michele.sbrissa@fram-menti.com Tel: 3381719958 Anna Agostini IUAV - Venezia Dottorato QUOD Email: anna.agostini@fram-menti.com Tel: 3286898586
Abstract The present claim for participation is an evidence of the growing necessity to re-evaluate and re-interpret the knowledge and skills that arise from the present social, economic and technological conditions. If we do not consider these aspects and the cultural emancipation behind these traces, if we miss the chance to interact with this amount of values and resources, of informal and spontaneous practices, we simply waste one essential part of the discipline of urbanism (Roy, 2012). Furthermore this represents a chance to work for a new disciplinary balance within the present social, cultural and economic Italian context, following the vivid traces of experiences such as Astengo’s Scuola di Preganziol or De Carlo’s Ilaud. Urbanism has the chance to work to find new traces and unexpected ways, from which to re-start to act, within the contemporary and fragmented public sphere, accepting its role of social factors, accepting the necessity of being agent. This paper investigates these topics through the case study of Universität der Nachbarschaften project within IBA-Hamburg 2013. Key words Agency, participation, practice of urbanism.
Participation is a set of conditions What is participation today? What is participative urbanism and what are the implications for urbanism accepting the central role of this topic in the contemporary disciplinary debate and professional practice? What is the competence that urbanism and architecture can play within these topics? What are the visible effects on praxis? The word participation, has a double semantic meaning. Participation means ‘taking part’ and as well to ‘be part’ of an organization, a group, a community. It is both a passive and active state. Participation can be interpret as a set of conditions in which, thanks to a nonlinear, open and creative process, different subjects can have and play active and relevant roles in a specific context. The pervasive use of this term does not reflect, today, a parallel critical investigation on the disciplinary role of urbanism and architecture, that pretend to talk and deal with it. The last of the questions that open this paper is in my opinion as necessary as urgent for these disciplines, if they intend to consider these topics as truly relevant and essential aspects in the contemporary debate about inclusive urban design processes for our cities and urban contexts. The understanding of necessary new roles for the disciplines of urbanism and architecture is the central issues to be investigated, to try to generate any real and operative sequence and set of operations1 that can produce significant and inclusive urban processes and in the end, spaces. 1
Lefebvre H. (1991), The production of space, Blackwell Publishing, p 73.
Michele Sbrissa, Anna Agostini.
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Architects, urban designers and planners, are supposed to be the expert actors within their respective disciplines. At the same time they are not the only experts within urban processes, furthermore their skill and knowledge often end up exactly ‘on the site’, on the physical place where they usually unfold their projectual activity. That is in fact the place of ‘other experts’, of the citizens, of the people who belong to that specific context; they are the local experts, the ones that often are excluded from any urban process. This situation happens in parallel with an historical phase in which urbanism and architecture are experiencing an intimate great disciplinary weakness and confusion towards institutional authorities, public opinion, and in general within the public sphere in which they should be able to act 2. A phase in which some positions and researches indicate the lack of clarity, within the disciplinary codes, as one of the main issues (Mazza, 2012); and because of this lack of clarity, the professionals involved mainly into urbanism and planning, cannot hope to establish a clear and proactive dialogue even between them, and even less so, with all the other actors involved into any kind and level of urban process3. I believe that if we accept the conflict generated by this so called lack of clarity, as the real central topic, then we can change completely this perspective, because then we are obliged to work with it, not just look at it as the bad and undesired outcome of this contemporary condition. Professionals today are no longer asked (I am doubtful if they were ever) just to transfer their knowledge from the requests of a commitment to a project, a plan, nor they can assume just to produce research in their field through theoretical frameworks or “site neutral” claims. They are not passive actor, their knowledge is a research, a practice in itself, focused on a community, on a site specific contest, on a local scale. This paper tries to show a specific exemplum, the UdN (Universität der Nachbarschaften) project within IBA-Hamburg 2013, within a broader research experience around the European context. The experience I propose deals with the topics mentioned above in very different ways, through several tools and approaches, sharing the common pattern of different “forms of activism as forms of agency” 4 where the participatory strategies implemented in situ, in a specific social and spatial contest, are at the same time the opportunities to investigate in a critical way, the tools and the role of urbanism and architecture 5 and of the practitioners that work within and across them, as professionals, researchers, activists, citizens.
Wilhelmsburg Laboratory Wilhelmsburg is a neighborhood of the central district of the city of Hamburg. Together with several smaller neighborhoods, it is placed in the so called Elbeinsel, the piece of land that divides the northern side of the river Elbe where Hamburg is located, from the southern side. So, first of all, Wilhelmsburg is an island, a river island, with all the immense set of implications that this geographical condition brings with it. As I will show along this research, this is the first essential aspect to consider, to deal with this peculiar social and urban context. What I have called ‘The Wilhelmsburg Laboratory’, referring to the set of social, economic, demographic, and urban conditions, that characterize the object of my research, was already in the past an ‘infrastructural laboratory’, a territorial construction site for the city of Hamburg.
Figure 1. Wilhelmsburg island, 1790-18806 2
It is not a case that since the middle 90s, for the first time, and in deep connection with the spatial development policies of the European Union, a new debate started, dealing with the topic of a possible “future direction” for European architecture (White book of the Architects’ Council of Europe, 1994). 3 Mazza L. (2012), “Finalità e sapere della pianificazione spaziale. Appunti per la ricostruzione di uno statuto disciplinare”, in Territorio, n° 62, Milano, pp. 7-12. 4 Cerulli C., Kossak F. (edited by, 2009), “Agency and the praxis of Activism”, in Field:, n° 3. The expression that I use comes directly from a personal variation of the title of the first essay of this magazine. 5 Mazza L, op. cit., p 8. 6 Image source: Department of Cartography of the Hafencity University – Hamburg, extract from the first topographic map of Hamburg 1880. Michele Sbrissa, Anna Agostini.
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The morphological evolution of the boundaries and of the landscape of this place, from a wide and resilient marshland to a compact and artificial heavy industrial site (see Figure 1), has represented an essential element during the last four centuries, for the growth of the economy and the trading activity of the city of Hamburg, within its deep and radical relation with its harbor. Wilhelmsburg became, especially during the last century, an almost perfect machine ruled by a complex system of dykes and channels, that enabled the creation of one of the biggest docks area in Europe on the north and west sides of the island, and the permanence of an agricultural landscape on the south-east part. At the same time this processes have signed the growing vulnerability of this territory, that has slowly lost its capability to interact with water as a vital condition for the natural balances of this land, until the tragedy of the big flood of 19627. The transposition of this physical and infrastructural evolution with the parallel social and urban stratification of Wilhelmsburg is not just a metaphorical device, but a real and historically recognizable fact that expresses the conditions in which this case study is rooted. This is an evidence within the last twenty yearsâ&#x20AC;&#x2122; history of the city of Hamburg, that reflects exactly the same necessity of the Free and Hanseatic City, to look at the Elbeinsel as a necessary ground to host the growth and the evolution of the entire city. The relation between the environmental vulnerability of the island and the social vulnerability of the people and the social groups that live there, is nothing but the evidence of the unavoidable link that characterize the peculiar social and physical ecosystem of the island 8. It is not possible to deal with the urban and infrastructural evolution of Wilhelmsburg without looking at the social, cultural, and economic implications of these aspects and vice versa (see Figure 2).
Figure 2. Snapshots of Wilhelmsburg
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It is possible to recognize at least four different interpretation, strategies and approaches to this topics, all interacting alongside the same urban themes, according to different interests, tools strategies and goals. The first one refers to the policies of the senate of the city-state of Hamburg, starting from the federal norms of the Baugesetzbuch (Federal Building Code of Germany). The second one refers to the IBA-Hamburg initiative from its planning phase until the construction phase. The third one refers to the local active citizenships movements that grew in Wilhelmsburg in the last forty years. The last one, the most crucial and essential within this paper, refers to the UdN project established in 2007-08 by a joint initiative of some institutional actors within the whole set of projects inside IBA-Hamburg. Because of the different critical aspects that embrace this context, all at the same time, Wilhelmsburg emerges as one of the biggest and more relevant laboratory in Europe about the topics I am dealing with, especially about the critical practice of urban participation, interpreted and applied in several different ways at the same time, in the same common ground. Here the conditions of participation are displaying through several contradictory 7
Loeper A. (2009), The tolerant Landscape: strategies for a less vulnerable urban environment, paper from the Fifth Urban Research Symposium: Cities and Climate Change: Responding to an Urgent Agenda, Marseille, France; Grossmann I. (2006), Future Perspectives for the Lower Elbe Region 2000-2030: Climate trends and Globalization, International Max Planck Research School on earth system modeling, PhD Thesis. 8 Loeper A. (2009), The tolerant Landscape, op cit., p13. 9 Images sources: http://www.zukunft-elbinsel.de/; photos from the author. Michele Sbrissa, Anna Agostini.
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directions, according to a set of very different approaches, strategies, intentions and interests. It is possible to state that the first agent to put in place the conditions for such a process to take place in Wilhelmsburg, is Wilhelmsburg itself, not anybody else.
Universität der Nachbarschaften - Neighbourhood University
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Figure 3. UdN Wilhelmsburg:, laboratories and on-site activities
UdN: A construction site for the disciplines of urbanism and architecture «… (UdN) an interdisciplinary education-and-research project, a diverse learning platform (…): a building site, stage, laboratory, interactive space and community center» 11 . UdN acts on-site as a real and complex ‘construction-site’, both theoretical and practical, for a wide and radical set of issues that deals with the disciplines of architecture and urbanism and their meaning in nowadays urban scenarios. UdN offers to students a unique opportunity for field work activities, on the site specific context of Wilhelmsburg, dealing with a wide range of topics, from constructive-technical problems to ethnographic research, going across urban mapping activities, organization of performances, conferences and laboratories, urban agriculture, cultural praxis (see Figure 3). In this set of activities the permanent focus is always on the engagement of people, on the possible tools to realize this, according to the very specific social and ethnic milieu of Wilhelmsburg. The issue of participation, of participatory urbanism and architecture, here is not declined as a mere theoretical and/or ethic pre-condition, or as the desirable goal to reach thanks to the disciplinary and methodological skills of the professionals involved. If we look at this experience in this way this would be absolutely wrong and misleading. The ‘practice of participation’ here is the constituent condition, put in place each time in each project and initiative of UdN, to question the context, to activate the context and to work with it. The point is not «since we have to be participatory we should involve people» but: «… the point may be is how to turn it around, not asking to people to get into the process of planning but asking how planners and architects could enter into the processes of people. » 12 This position defines clearly a breaking point with the most diffuse and accepted interpretations and “schools” of participatory urbanism, understood as a topic founded around words such as good practices, mediation techniques, resolution of conflicts, etc. In this case the key words are different: performative practices 13, uncertainties, improvisation, adaptation, open processes, micro actions, being involved in a urban and social context at first person. Obviously UdN does not manage, nor it aims to, solve and give an answer to the 10
All the images used in this paragraph come from the following sources: UdN’s archive, UdN’s students’ mapping exercises, UdN’ web site (http://udn.hcu-hamburg.de/de/) and from the personal archive of the author. 11 Quoted from the description of the concept of the Neighbourhood University in the web site of the project. 12 From an open discussion with UdN students and staff, 10.10.2011. 13 I find a perfect image for the interpretation of this expression, of this practice and condition, in the following words of Christopher Dell (musician, performer, professor of Architecture Theory), where he deals with the concept of improvisation: «Improvisation is often avoided because there is no time available for interpreting ambivalent designs. Why is it worthwhile to invest time in improvisation, i.e., active interpretation? Because those who take the time (and the risk, ndr) to reflect on situations and their potential and try to integrate these reflections in open processes of action, are able to accept ambivalence, thus expanding their scope of activity leeway. Why? Because they are able to recognize when ambivalence is functional and when it is dysfunctional. » Dell C., Matton T. (2010), Improvisation on Urbanity. Trendy pragmatism in a climate of change, post editions, Rotterdam. Michele Sbrissa, Anna Agostini.
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enormous set of questions and problems that each of these concepts arise, but, UdN accepts the challenge to deal with these topics. «… everybody is talking about interdisciplinary practices, about participatory interventions and so on, but we have really less people that know what this mean, what this imply. What is the meaning of working between disciplines? What is the meaning to work with actors in site? Which is participation, and not to play the participatory game. » 14
The creation of the conditions for UdN: a project within a project UdN represents a way to interpret and to act towards several present critical issues of the so called ‘new urban question’, questioning at first the role, the positions, and the tools of those subjects and disciplines that are supposed to be appointed to give answers to these same questions. UdN started in 2008 as an outcome of the result of a student competition at the Hafencity Unversity of Hamburg held the previous year, which was named “Experiment on the island” and organized in as a joint initiative with IBA Hamburg15. The UdN project, which is listed inside the excellence initiatives of the IBA-Hamburg program, started with the first implementation of an upgrading process of the building, as the first (and permanent) action of learning-by-doing approach, that involves students, researchers, and locals since. UdN is supported by the joint cooperation of HCU, IBA Hamburg, and a partnership with Kampnagel International Culture Factory 16. From 2008 until 2013 UdN has used the building of a former Health center built in 1930s (see Figure 4) and its surrounding spaces, hosting several activities connected with IBA initiatives, but at the same time implementing independent initiative, projects, workshops and laboratories. After the pre-fixed period of five years the building will be given back to the municipality, following the schedule of the opening of the IBA exhibition in 2013. This conditions, this limited timeframe stands as a first key element to be considered, together with the budget available for the whole project. The financial support to UdN for the entire project of five years is in fact 540.000€, including all the costs for any material intervention on the existing building, and the final demolition and site accommodation, that should be arranged empty and ready for the construction of another building. Considering the whole covered surface of the building, approximately 600sqm, and considering the cost for the demolition, and the necessity to cover with the mentioned budget all the five years project, it is possible to have an idea of the extremely low budget available for the entire operation.
Figure 4. UdN building
UdN accepts the work with uncertainties, in site-specific, precise, absolutely local context. This does not mean that the horizon of this experience is simply a mere exercise that uses Wilhelmsburg as a good and interesting laboratory for students courses and research activities. It is exactly the opposite: the deep respect that emerges from this approach is the first key element that it is necessary to pretend to sit beside people and ask them to allow you to enter into their world, into their practices and lives. Being local is a way to be pragmatic, always keeping in mind a broader general framework that is an essential part for any discipline that deals with city, with society. The result is that UdN does not activate participatory strategies and actions asking people to participate (see Figure 5), asking them to enter into the mind and into the tools of urbanism and architecture, UdN tries to create the conditions to enter itself, into the processes of the context where it unfolds.
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Bernd Kniess, UdN-UD, HafenCity University, interview 23.10.2011. IBA Hamburg (2008), Experiment auf der Insel, IBA Hamburg Gmbh. 16 Kampnagel is one of the world's most important platforms for the Performing Arts.. http://www.kampnagel.de 15
Michele Sbrissa, Anna Agostini.
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Figure 5. UdN’s on site activities
The Agency of UdN. A possible framework for disciplinary evolution through site specific engagement UdN: an example of educational approach on Urbanism and Architecture as practices based on an aware uncertainty. «Just as oxygen killed primitive forms of life until living beings were able to use this toxin as a detoxicator, so uncertainty, which kills simplistic learning, is the detoxicator of complex knowledge. » 17 The context that I have analysed within my case study shows how relevant and essential are the actors of participation, their roles, the relations they establish each other (power, economic, cultural, etc.) before participation itself. Wilhelmsburg and the Elbeinsel are extraordinary example where a wide set of actors are, and have been, involved in several different ways and according to a variety of practices, methods and initiatives, in different kinds of urban processes across the past fifty years. People engagement has required and has generated, between contradictions and conflicts, different forms of knowledge and awareness, within and across all the actors involved: professionals, politicians, investors and citizens. Complexity and uncertainty embedded into this context were often the critical topics that have generated conflicts, but at the same time they are the factors that supported and pushed forward this absolutely site-specific story. A process that was not planned, nor structured around a specific program or agreement, on the opposite it has been the result of a continuous, often hard and not easy, open game, where the different actors have started to learn each other the rules to get, in the end, to better results. The peculiar conditions that allowed this process were the result of a long and articulate process, based on the actions and the initiatives of all the actors involved, but at the same time these conditions have emerged also thanks to an unplanned, arbitrary set of external factors that were simply there as the basic pre-conditions of the entire game. What UdN shows is how to keep and improve all these factors, at least some of them, in a comprehensive and broad educational-learning approach that is the unavoidable direction to follow. A process of knowledge sharing, of side by side engagement of different actors in different contexts and topics, a dubitative and investigative process, rather than one based on fixed rules and constrains. By saying educational here I mean any learning process that regards necessarily the schooling system at any level, but also the civic society, the political and institutional bodies, the professional’s field, the bureaucratic apparatus. There is a lot of work to do in each one of these fields. In this paper I try to indicate, through the case study of Wilhelmsburg, that some experiences are already working on these issues all over Europe. Urbanism and architecture have something to say on this, as UdN demonstrates, and I believe that their knowledge can be relevant within the evolution of this scenario. In the Italian context Astengo and De Carlo pointed out these topics many years ago, as the key issues of their work, proposing different experiences, different interpretations and approaches. The traces they left are maybe some of the few truly relevant ones to re-consider for a new critical praxis of urbanism and architecture, if we agree that the topics described in this paper are some of the most urgent and necessary ones for these disciplines today.
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Morin E. (1999), Seven complex lessons in education for the future, UNESCO Publishing Paris.
Michele Sbrissa, Anna Agostini.
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Bibliography
Cerulli C., Kossak F. (edited by, 2009), “Agency and the praxis of Activism”, in Field:, n° 3. Dell C., Matton T. (2010), Improvisation on Urbanity. Trendy pragmatism in a climate of change, post editions, Rotterdam. Grossmann I. (2006), Future Perspectives for the Lower Elbe Region 2000-2030: Climate trends and Globalization, International Max Planck Research School on earth system modeling, PhD Thesis. Lefebvre H. (1991), The production of space, Blackwell Publishing. Loeper A. (2009), The tolerant Landscape: strategies for a less vulnerable urban environment, paper from the Fifth Urban Research Symposium: Cities and Climate Change: Responding to an Urgent Agenda, Marseille, France. Mazza L. (2012), “Finalità e sapere della pianificazione spaziale. Appunti per la ricostruzione di uno statuto disciplinare”, in Territorio, n° 62, Milano, pp. 7-12. Morin E. (1999), Seven complex lessons in education for the future, UNESCO Publishing Paris. Whirt L. (1938), Urbanism As A Way of Life, in American journal of sociology n°44, pp 1-24. White book of the Architects’ Council of Europe, 1994.
Sitography
http://www.ud.hcu-hamburg.de/77-1-UdN.html. http://www.zukunft-elbinsel.de/
Acknowledgements
This paper comes from the research results of a PhD thesis run in cooperation between the Univerity IUAV of Venice and the HCU University of Hamburg. The PhD has been discussed in march 2013. I would like to thank the Italian and German tutors that supported me in this research. Thanks to UdN staff, students and researchers. Thanks to the staff of Agency-Sheffield, for the fundamental critical support.
Copyright
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Michele Sbrissa, Anna Agostini.
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by Planum. The Journal of Urbanism ISSN 1723 - 0993 | no. 27, vol. II [2013] www.planum.net Proceedings published in October 2013