Atelier
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La cura del territorio come forma di sviluppo Coordinatore Roberto Bobbio con Fabrizio Esposito Discussant Grazia Brunetta
Introduzione Il senso di precarietà e l’urgenza di riequilibrio che pervadono il tempo attuale sono riferiti allo spazio fisico in cui viviamo, prima ancora che a quello sociale e politico. La riduzione del rischio, il ripristino degli equilibri ambientali, la riqualificazione del paesaggio appaiono come operazioni necessarie e indifferibili, che possono essere intese come risposte tecniche specialistiche a problemi circoscritti o come componenti di un nuovo modo di progettare il territorio, che richiede visioni integrate e chiama in causa le competenze dell’urbanista. Nel secondo caso si configura un “aver cura del territorio” che non è più soltanto conservazione e tutela dei patrimoni ma che diventa processo continuo di manutenzione e proposta di nuovi assetti, in cui si vadano ad integrare le varie componenti del paesaggio [come definito dalla Convenzione Europea del 2000]. Quali sono le possibili declinazioni di questa cura? possono, nell’immediato, creare posti di lavoro, stimolare iniziative imprenditoriali, avviare processi di recupero? e, in una prospettiva di più lungo periodo, volgere in positivo l’arresto della crescita, trovando tempi e modi per la valorizzazione di aree depresse e per il risarcimento di quelle che la crescita ha devastato? Nell’atelier si sono presentati casi di successo e buone pratiche e avanzate riflessioni sul senso e le potenzialità della cura del territorio, anche al fine di individuare raccomandazioni a carattere generale e di inquadrare le azioni di cura in piani e politiche che consentano di massimizzarne e renderne sistematici gli effetti. E’ emerso che, per ridare slancio a territori in crisi e favorire nuovi processi di sviluppo sostenibile, è necessario ripensare al metodo progettuale in una dimensione multiscalare, riconoscere e rimettere in circolo le risorse locali, in primis favorendo il coinvolgimento degli abitanti. Ciò sembra valere soprattutto per i territori interni e marginali, dalla cui riscossa possono venire, forse più facilmente, spunti per un nuovo e diverso sviluppo. Roberto Bobbio
La cura del territorio come forma di sviluppo
Coordinatore Roberto Bobbio con Fabrizio Esposito Discussant Grazia Brunetta
01 Strumenti e casi Francesco Bruno, Vincenza Chiarazzo, Ettore Donatella Amplificatore sociale d’impresa: la città industriale di Taranto Loreto Colombo Ricompattazione, marginatura, densificazione, ridisegno, consenso. Dalla diffusione edilizia alla nuova città di pianura Vincenzo De Stefano De TourS: uno strumento di supporto alle decisioni per lo sviluppo turistico di un territorio Luana Di Lodovico Una legge per i disastri naturali. Creare un nuovo modello di gestione dell’emergenza, di prevenzione e di sviluppo Maria Falcone La tutela dell’architettura rurale come forma di sviluppo del territorio. Rigenerare il paesaggio agrario flegreo attraverso la conservazione e valorizzazione del sistema delle masserie Paola Ianni Per una ri-costruzione fisica ed economica del territorio aquilano dopo il sisma del 6 Aprile 2009 Raffaele Pelorosso, Federica Gobattoni, Nicola Lopez, Antonio Leone Gestione adattativa dei territori abbandonati: verso un nuovo approccio per la salvaguardia della funzionalità paesaggistica Temi, metodi, principi Daniele Balzano, Andrea Tulisi La memoria come cura del territorio Alessandro Boldo Territori del dissesto Riccardo Bonotti, Claudia Confortini Riduzione del rischio sismico e lo sviluppo del territorio attraverso gli strumenti ordinari di pianificazione urbana Claudio Calvaresi Lo spazio del possibile: progetti di sviluppo per le aree interne. Lezioni apprese e indicazioni a partire da un caso Giuseppe Caridi La cura del suolo per una diversa idea di crescita
Pio Castiello Sky(back)line Lidia Decandia Giocare sui due tavoli del tempo per liberare le energie imprigionate nelle sopravvivenze del passato e risvegliare un sentimento di cura dei paesaggi contemporanei Luigi La Riccia, Claudia Cassatella, Stefania Maria Guarini I paesaggi delle industrie: un approccio per problemi Elvira Petroncelli Politiche e criteri di intervento per il paesaggio storico urbano. Un contributo dai documenti internazionali Maria Sapone, Domenico Passarelli, Nicola Tucci, Antonino Labate, Caterina Barrese, Salvatore Barbagallo Le trasformazioni territoriali, strumenti di sicurezza Angioletta Voghera, Dafne Regis Progetti per sistemi territoriali in trasformazione
Amplificatore sociale d’impresa: la città industriale di Taranto
Amplificatore sociale d’impresa: la città industriale di Taranto Francesco Bruno Politecnico di Bari Vincenza Chiarazzo DICATECh - Politecnico di Bari v.chiarazzo@poliba.it Donatella Ettorre DMMM - Politecnico di Bari d.ettorre@poliba.it
Abstract Il paper propone un’idea radicalmente nuova per gestire le situazioni di crisi. Mentre le città italiane sono chiamate sempre più spesso a misurarsi su rischi e contesti ambientali che ci costringono a pensare a nuovi paradigmi della pianificazione, l’obiettivo del progetto proposto è lo sviluppo di una idea innovativa che possa supportare la definizione di soluzioni per la riconversione e la riqualificazione delle aree industriali, garantendo adeguati livelli occupazionali e maggiore compatibilità ambientale. Un elemento innovativo è la gestione della complessità, mediante la considerazione delle competenze dei singoli lavoratori, in modo da far emergere opportunità non ovvie e ipotesi di ri-collocazione in ambiti differenziati e nuovi sul territorio. La città di Taranto è la sede di un living lab, la cui soluzione tecnologica può essere di supporto alla definizione di nuovi scenari di sviluppo e può favorire l’identificazione di interventi per la bonifica ambientale e per una riqualificazione sociale del territorio.
Introduzione Il nostro tempo è caratterizzato da significativi cambiamenti di natura economica, ambientale e sociale, determinati da cause che presentano effetti su scala planetaria. Per affrontare tali crisi, e rimediare non solo agli effetti economici e sociali che esse comportano, ma anche e soprattutto ai danni apportati all’ambiente e ai paesaggi, di solito si utilizzano strumenti che attaccano lo specifico problema in modo complessivo. Tale impostazione vincola significativamente lo spazio delle possibili soluzioni, rendendo così queste ultime più difficili, nonché statiche, ossia intrappolate all’interno di logiche votate al mantenimento dello status quo, senza tuttavia generare processi di sviluppo alternativi. Infatti, laddove una soluzione alla crisi fosse individuata e attuata, il nuovo equilibrio avrebbe limitate probabilità di differire adeguatamente da quello precedente, così risultando esposto a prossimi analoghi rischi. Il presente progetto, finanziato dal MIUR - Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca, propone un’idea radicalmente nuova per gestire le situazioni di crisi. Un primo elemento innovativo è la gestione della complessità, mediante la considerazione delle competenze dei singoli lavoratori di un determinato territorio, anche tenendo conto delle (e facendo leva sulle) loro passioni (cioè i loro interessi, più o meno collaterali all’attività lavorativa), e provando a ricombinare tali competenze, in modo da far emergere opportunità non ovvie e ipotesi di ri-collocazione in ambiti differenziati e nuovi. Un secondo elemento di innovazione consiste nella identificazione di soluzioni che attivino anche percorsi di auto imprenditorialità, sostenendo l’incontro tra idee di business e disponibilità di forza lavoro. Tale progetto si concretizzerà in un social network basato su una piattaforma informatica di tipo web 2.0 che svolgerà la funzione di mettere in contatto le persone con competenze simili all’interno dei padiglioni virtuali, quali specifiche aree tematiche di business, nonché di effettuare in automatico le analisi di alto livello per Francesco Bruno, Vincenza Chiarazzo, Donatella Ettorre
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evidenziare le potenzialità di sviluppo di specifici ambiti territoriali (questo sia sulla base della numerosità e qualità delle persone presenti nei singoli padiglioni, che sull’opportunità che determinati business si inseriscano in specifici ambiti territoriali). Scopo ultimo del progetto è pertanto la creazione di padiglioni tematici virtuali che si configurino come aree di sviluppo territoriale. Tali padiglioni emergeranno in primis dall’analisi dei casi di riconversione industriale esistenti a livello nazionale, europeo ed internazionale e, in secondo luogo, dall’adozione di metodologie basate sui concetti di prossimità tecnologica tra individui e business, così da indicare la presenza di competenze comuni più numerose e procedere all’identificazione di quegli ambiti industriali nei quali, tali competenze possano trovare applicazione. Tali scenari, che potrebbero non emergere da una superficiale analisi delle competenze dell’individuo, potrebbero tuttavia risultare molto utili nell’indirizzare le politiche pubbliche verso una riqualificazione ambientale, una riconversione industriale e verso specifici progetti imprenditoriali.
Casi di riconversione industriale Il progetto, attraverso le ricerche e l’analisi di alcuni casi di studio, vuole indagare le modalità attraverso le quali può avvenire l’evoluzione verso una città più ecologica ed intelligente, dotata di un nuovo equilibrio tra lavoro e ambiente, che ne migliori le prestazioni ecologiche assicurando allo stesso tempo adeguati livelli occupazionali sul territorio. A livello non solo europeo, ma anche internazionale (Tab. I), si possono riportare diversi esempi di città fortemente concentrate su un settore economico, e che, a seguito della crisi economica che le ha investite, hanno dovuto reinventarsi, puntando soprattutto su uno sviluppo culturale. La città di Dortmund in Germania, nell’immaginario collettivo città del carbone e della birra, ha trasformato i siti industriali del passato in musei da visitare, ovvero ha adibito la cokeria dismessa nel 1992 a percorso museale. La riqualificazione è emersa in tutta la sua evidenza durante le manifestazioni della città come capitale europea della cultura nel 2010. Restando in Germania, a Duisburg, città sul Reno, in passato principale porto industriale per il trasporto del carbone e dell'acciaio prodotti nella regione della Ruhr; ad oggi, miniere e altiforni sono stati dismessi, il territorio è stato bonificato, di sera alcuni vecchi altiforni vengono illuminati da luci al neon coloratissime, così da rendere la vista suggestiva, di notte vengono organizzate passeggiate guidate alla luce delle fiaccole tra gli impianti industriali messi a riposo, il club alpino tedesco ha trasformato il vecchio bunker che fungeva da magazzino per il ferro in una parete per arrampicate. Bilbao, città spagnola che alla fine del XX secolo è stata colpita da una grave crisi industriale, riqualifica la sua area industriale abbattendo le vecchie strutture siderurgiche e i cantieri navali dando spazio ad altre attività produttive più moderne e più vicine alle esigenze degli abitanti. Volano della rinascita della città fu una società privata a partecipazione statale. Punto fondamentale nella riconversione è rappresentato dallo sviluppo della ricerca, che ha trovato nell’Università la culla ideale. In ambito culturale vi è stata una forte spinta allo sviluppo di qualsiasi forma d’arte, che ha creato un incremento dei flussi turistici, compensato dalla creazione di strutture ricettive (hotel) e ricreative (Pub, bar). Lo sviluppo economico è stato supportato grazie alla realizzazione di moderne strutture per il terziario, centri commerciali e l’aeroporto. In linea generale, la sostenibilità ambientale si è cercata anche inserendo le nuove centralità in aree verdi dotate di mobilità sostenibile grazie anche alla realizzazione di numerosi km di piste ciclabili e reti ferroviarie. Appare d’obbligo citare Pittsburgh, la “capitale dell’acciaio”, che è passata dal produrre la metà dell’acciaio di tutti gli Stati Uniti a essere una delle dieci città più pulite d'America secondo la classifica Forbes del 2007 e la città più vivibile del paese secondo la classifica dell'Economist del 2009: Pittsburgh ha risposto alla crisi con centri tecnologici all’avanguardia, aziende high-tech, software e aziende nel terziario avanzato, investendo sulla ricerca e nelle università, trasformandosi così da città iper-inquinata a città verde. Fino agli anni settanta la produzione di acciaio nella città di Pittsburgh aumentò sino a raggiungere la metà del totale prodotto negli States. Poi la concorrenza dei paesi del sud-est asiatico ridimensionò la produzione vista anche la vetustà degli impianti che, non essendo stati interessati dalla distruzione bellica, non erano stati modernizzati. Questo, assieme ad un aumento di una legittima cultura ambientalistica, allo sviluppo di poli universitari di eccellenza planetaria ed al re-investimento degli utili della siderurgia in altre attività ad alto valore aggiunto, portò alla dismissione degli insediamenti industriali e relativa riqualificazione. Agli albori della rivoluzione tecnologica, intorno alla fine degli anni 80, Pittsburgh vide la nascita di aziende high tech e l’incremento di super cliniche mediche grazie ad una tradizione di studi e ricerca, che vide come punta di diamante l’università di Carnegie Mellon, nel campo tecnologico, e l’Università cittadina, nel campo sanitario, importante centro di ricerca biomedica e sanitaria: è indicativa la scoperta del vaccino antipolio. L’essere un grande centro di ricerca e l’essere anche industria della conoscenza, ha incrementato anche in questo caso il turismo, riguardante principalmente l’arrivo di studenti e ricercatori, supportato con la realizzazione di strutture ricettive, di svago e commerciali. Lo sviluppo del terziario è invece focalizzato principalmente su servizi finanziari; si aggiunge che la realizzazione di un HUB aereo ha reso la zona ideale ad ospitare sedi di rappresentanza. Si è assistito ad un aumento di professioni qualificate legate all’economia “green” e allo Francesco Bruno, Vincenza Chiarazzo, Donatella Ettorre
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sviluppo dell’ingegneria nucleare. Da un punto di vista prettamente culturale, si è indotto lo sviluppo dell’industria cinematografica con l’utilizzo di ex strutture siderurgiche che, assieme al coinvolgimento di ex operai, hanno dato forte autenticità a programmi di realismo industriale. Inoltre l’area ha subito una riqualificazione residenziale mediante il recupero anche di villette abbandonate. Non mancano casi di riconversione industriale anche in Italia. Bagnoli (Napoli), dopo aver raggiunto il massimo della produzione nel 1970 con 7000 addetti , vede ridurre la sua attività fino alla chiusura totale nel 1993, scelta industriale del management a causa della crisi di consumi di acciaio che in quegli anni caratterizzò l’Europa. Il progetto di riconversione di Bagnoli è ancora in atto e prevede innanzitutto di rafforzare la cultura e la ricerca, anche grazie alla collaborazione del CNR con la costruzione della Cittadella della Scienza, struttura che ultimamente è andata distrutta per un incendio doloso; inoltre prevede di valorizzare la cultura dello sport, qualificando la zona come sede prestigiosa di sport acquatici e nautici vista la tradizione in questo settore. Si sta provvedendo anche allo sviluppo musicale del territorio, utilizzando spazi restaurati dell'acciaieria per lo svolgimento dei concerti, con relativa sala di incisione. Da un punto di vista ambientale, si sta cercando di valorizzare le straordinarie risorse ambientali presenti realizzando un grande parco con recupero di manufatti di archeologia industriale. Un aspetto cruciale riguarda anche la realizzazione di nuovi insediamenti produttivi al servizio del territorio e della grande distribuzione. Per far fronte ai volumi di traffico, si sta provvedendo anche a migliorare la mobilità modernizzando la viabilità. L’obiettivo è quindi quello di rafforzare la vocazione turisticoculturale creando un’area integrata tra tutte queste nuove attività con l’ambiente circostante. Pur essendo un intervento ancora in corso, la riqualificazione di Bagnoli può essere considerata una “best practice” perché queste soluzioni sono diventate esempio di sviluppo e rinnovamento. Come si nota, vi è una forte spinta allo sfruttamento di tradizioni locali (musica, sport, turismo) e all’utilizzo del mare per i trasporti. Si appura che le infrastrutture (residenze, hotel) sono costruite con fondi privati, ma vi è un forte ruolo Statale nella creazione di Istituzioni per la Ricerca, nella bonifica e nelle opere. Tabella I: Casi di riconversione industriale
Località Provincia Bagnoli (NA) CampiCornigliano (GE) Sesto San Giovanni (MI) Piombino (LI) Cremona Settimo Torinese (TO) Bacino della Ruhr Bilbao Lisbona Pittsburgh
NAZIONE Italia Italia Italia Italia Italia Italia Germania Spagna Portogallo Stati Uniti d’America
Il caso di studio: un living lab L’attività di ricerca proposta per il nostro progetto si riferisce ad un caso pilota, che è quello dell’area di Taranto (Puglia), quale comunità e città laboratorio (living lab) di particolare interesse, nonché potenzialmente interessata a processi di trasformazione industriale. La città di Taranto, caratterizzata da importanti insediamenti industriali, presenta infatti rilevanti sfide sul piano della ricerca della compatibilità tra lo sviluppo industriale, l’inclusione sociale e il rispetto dell’ambiente e della salute. Tali sfide sono enfatizzate da possibili scenari in cui gli attuali comparti industriali presenti sul territorio, quali ad esempio la siderurgica, potrebbero entrare in crisi a causa di fenomeni globali. Nel 1959 si deliberò la nascita del quarto centro siderurgico italiano e la scelta della locazione dell’impianto ricadde su Taranto. Secondo lo “Studio per la creazione di un polo industriale” che fu redatto dalla CEE, la città oggetto dell’investimento doveva avere dei parametri ben definiti: occorreva una città dalle dimensioni di 250.000 abitanti e che avrebbe potuto anche ospitare un flusso migratorio di 500.000 individui dalle campagne. La scelta ricadde su Taranto principalmente per le seguenti motivazioni: • caratteristiche geomorfologiche dell’area atte ad ospitare un impianto a ciclo integrale, • presenza di infrastrutture idonee a soddisfare le necessità dello stabilimento ( con particolare riferimento alla connettività del porto); • modesti investimenti economici necessari per l’ampliamento di queste strutture; Era importantissimo infatti, con spese modeste, realizzare un porto che potesse accogliere simultaneamente e con qualsiasi condizione del mare navi minerarie e carboniere. Il bacino del mar Grande offriva questa possibilità.
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Inoltre occorreva un terreno di 60 ettari, ben collegabile con il mar grande e con le reti ferroviarie e stradali esistenti, con livelli altimetrici appropriati e un sottosuolo capace di sopportare carichi stradali previsti. Negli anni ’80 lo stabilimento diede grande impulso alla città che si popolò, come lo studio aveva previsto, di circa 240.000 abitanti (Fig.1) grazie alle possibilità lavorative che il distretto industriale forniva. Negli ultimi anni però il processo si è invertito a tal punto che i residenti sono diminuiti sino a circa 200.000 nel 2011 (dati ISTAT).
Figura 1. (Comune di Taranto – Popolazione residente - Dati ISTAT) Edifici e aree abbandonate aumentano perchè non più utilizzate o non più adatte ad assolvere alla funzione per cui erano state pensate, come il risultato di un processo di cambiamento del modo di “vivere” il territorio. Incrementano i capannoni industriali abbandonati, le aree urbane incolte e trasformate in discariche, gli edifici sparsi nella città in stato di decadenza e abbandono, in particolare nella parte di città più antica “l’isola”, chiamata così perché divisa tra i due mari di Taranto. Molte città affrontano questo grave problema con politiche urbane che trasformano la presenza di aree ed edifici dismessi in una risorsa: la loro riconversione infatti consente alle nostre città di dotarsi delle strutture e dei servizi necessari ad elevare la qualità urbana e quindi della nostra vita quotidiana. Inoltre il recupero di aree ed edifici dismessi è uno dei temi centrali delle politiche di governo del territorio della regione Puglia e moltissimi degli interventi legati alla promozione della rigenerazione urbana e territoriale sono progetti di rifunzionalizzazione e di recupero su cui si potrà lavorare. In particolare tali aree e/o edifici attraverso i progetti di rigenerazione possono diventare Laboratori Urbani, Parchi Urbani o di quartiere, centri polivalenti, teatri all’aperto e in generale luoghi al servizio della cittadinanza e che possano dare nuovi implulsi lavorativi. Gli edifici abbandonati e in disuso possono essere recuperati per ovviare anche al consumo di suolo che continua in particolare nei comuni di prima corona orientale della Provincia di Taranto, considerati negli ultimi anni come luoghi per una qualità della vita superiore e per una più sicura qualità dell’ aria. Di tutte queste dinamiche si terrà conto in fase di realizzazione dei padiglioni, insieme con la consapevolezza che l’azienda è tuttora presente sul territorio, benchè coinvolta in problematiche politiche, economiche e ambientali ben complesse. La chiusura dello stabilimento industriale non ne costituisce una condizione né necessaria né sufficiente perché il futuro della città e dell’economia possano comunque essere guidati da altri vettori, che risultino indipendenti dalle sorti dell’acciaieria. Le strade che si tracciano nel progetto di ricerca come ambiti di possibile investimento, infatti, sono per la maggior parte indipendenti dagli sviluppi dell’azienda.
Conclusioni E’ ormai certo che l’urbanistica delle reti digitali ICT e della sostenibilità, giungano a determinare significativi cambiamenti nei modelli urbani del futuro. I paradigmi di città ecologica e città intelligente sono sempre più spesso connesse alle politiche occupazionali, ed i valori ambientali e dell’informazione sono da ritenersi valori fondamentali in grado di migliorare la qualità di vita e la capacità competitiva di un territorio, scongiurando i rischi connessi alla crisi ecologica ed alla disoccupazione dilagante. È per questo che le idee presentate, e tante altre, convergeranno nei padiglioni virtuali, in termini di ‘pratices’ già consolidate, così da rendere gli abitanti della città i veri protagonisti della vita economica e i detentori delle scelte, non vincolate a un unico settore. Il fine ultimo del progetto è dunque lo sviluppo di una soluzione innovativa basata sull’ICT che possa supportare la definizione di soluzioni per la riqualificazione e/o riconversione industriale dell’area di Taranto, garantendo adeguati livelli occupazionali e maggiore compatibilità ambientale, nonché favorire lo sviluppo di imprenditorialità diffusa, riducendo così la vulnerabilità dell’economia locale e la crisi di specifici comparti. Inoltre, è importante sottolineare come la soluzione tecnologica target del progetto, poiché di supporto alla Francesco Bruno, Vincenza Chiarazzo, Donatella Ettorre
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definizione di nuovi scenari di sviluppo, possa favorire anche l’identificazione di interventi per la bonifica ambientale e la riqualificazione sociale che siano coerenti con l’uso del territorio. Infine, i padiglioni potranno assolvere al compito più “tradizionale” di rappresentare un serbatoio di forza lavoro raggruppata su base tematica, finalizzata a potenziali assunzioni (eventualmente successive all’investimento diretto). Inoltre, i padiglioni rappresenteranno anche uno strumento per far “incontrare” direttamente domanda e offerta di lavoro, attraverso la creazione di un mercato delle competenze che consenta alle aziende la ricerca diretta delle professionalità disponibili e ai lavoratori di dichiarare in maniera facilmente ricercabile e affidabile le proprie capacità.
Bibliografia Piano Paesaggistico Territoriale Regionale e L.R. 21/2008 sulla rigenerazione urbana e territoriale
Siti web: Disponibile su http://www.germany.travel/it/citta-e-cultura/citta/dortmund.html Disponibile su http://tempolibero.blogosfere.it/2007/10/germania-duisburg-citta-ricca-di-attrattive.html Disponibile su http://www.tuttitalia.it/puglia/64-taranto/statistiche/censimenti-popolazione/
Informazioni aggiuntive Il progetto è finanziato dal MIUR - Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca – PON04a3_0042, http://www.ponrec.it/media/114072/graduatoriaasse3.pdf
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Ricompattazione, marginatura, densificazione, ridisegno, consenso. Dalla diffusione edilizia alla nuova città di pianura
Ricompattazione, marginatura, densificazione, ridisegno, consenso. Dalla diffusione edilizia alla nuova città di pianura Loreto Colombo Università di Napoli “Federico II” Dipartimento di Architettura Email: colombo@unina.it
Abstract La diffusione edilizia incontrollata erode in modo irreversibile la risorsa suolo e implica l’estensione tentacolare delle urbanizzazioni a rete. Nella piana campana l’abusivismo raggiunge il livello record del paese. Le misure repressive sono generalmente disattese: ciò impone la ricerca di metodi e riferimenti progettuali per l’arresto della tendenza e la riqualificazione insediativa. La ricerca presentata assume come caso di studio il settore occidentale della conurbazione aversana e adotta metodi di riqualificazione fondati sul consenso: si ipotizza un programma di concertazione con e nella cittadinanza che a fronte dell’arresto della proliferazione edilizia consenta la densificazione premiale promuovendo la dotazione di servizi, l’adeguamento tecnologico e l’efficientamento energetico dell’edilizia. Il modello gestionale è basato sull’attività di una STU per la rivalutazione del patrimonio immobiliare tramite un programma organizzato per stralci temporali. Parole chiave Riqualificazione, densificazione, ridisegno
1 | Il caso di studio: lo stato dei luoghi Con l’espressione “città diffusa”, o “campagna urbanizzata”, si identificano da tempo le forme insediative basate sulla crescita edilizia nelle aree periurbane o rurali. Le tipologie diffusive sono molteplici e possono distinguersi in funzione della densità, dei sostegni infrastrutturali, dell’orditura poderale che ne condiziona l’impianto, dei tipi edilizi; e infine della legittimità: l’impianto planimetrico assume infatti caratteri precisi nelle piane centromeridionali del paese, nelle quali l’abusivismo raggiunge punte record. Il caso di studio qui trattato è quello emblematico della piana sud-occidentale casertana, occupata dalla città diffusa e continua, prevalentemente spontanea, che da Aversa si spinge verso ovest fino a Villa Literno. I sette comuni che ne fanno parte sono tutti dotati di strumenti urbanistici, ma nella maggior parte dei casi si tratta di piani datati o inadeguati e comunque per buona parte inattuati. L’abusivismo è avallato dal complice silenzio dei pubblici poteri. Ma proprio la mancanza di applicazione delle procedure repressive e il perpetuarsi del fenomeno richiedono soluzioni alternative: non è infatti ammissibile che realtà insediative del genere restino del tutto prive di qualità urbana ed edilizia. Mancanza di attrezzature e servizi anche elementari; tecnologie costruttive arcaiche, fuori norma e dissipative; erosione delle aree agricole anche pregiate ed impermeabilizzazione di enormi quantità di suolo; inquinamento da discariche di materiali pericolosi: sono questi i caratteri che rendono tali realtà inaccettabili in un più ampio contesto con pretese di civiltà. E che impongono tanto al mondo della ricerca quanto alla pubblica amministrazione l’individuazione di metodi e procedimenti per una riqualificazione insediativa che dalla scala urbana proceda verso quella edilizia (Lettieri, 2008). Secondo i dati del PTCP di Caserta, oltre i due terzi delle aree urbane consolidatesi dal secondo dopoguerra ad oggi sono costituite da tessuti urbani realizzati in assenza di P.R.G. e quasi il 90% di tali tessuti sono stati realizzati prima del 1984; circa il 20% dell’edilizia realizzata nei sette comuni dell’area di studio dal 1984 ad oggi è abusiva, con un picco del 35% nel comune di Casal di Principe. L’abusivismo edilizio, quindi, caratterizza il paesaggio di questo territorio ed interessa soprattutto le aree periurbane (Figura. 1).
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L’analisi del tipo di occupazione del suolo e delle sue regole d’impianto porta al riconoscimento di matrici geometriche e abachi (Figura 2). In attuazione di lottizzazioni clandestine o di piani che prescrivono analoghe tipologie di espansione recependo modalità e accordi già decisi, i suoli agricoli vengono dapprima lasciati incolti. Successivamente si passa al frazionamento in fasce di larghezza variabile (misurate larghezze tra i 38 e i 53 metri) che vengono poi divise in lotti da cedere singolarmente; ogni due fasce, viene lasciata libera una striscia per la strada di servizio, della larghezza strettamente necessaria (da 6 a 9 metri). Le dimensioni dei lotti sono varie, con una media di 20 m x 24 m (480 mq). Il volume poi edificato su ciascun lotto occupa in generale la metà della superficie fondiaria (250 mq) (Figura 3). Quando tutti i lotti sono stati edificati si raggiunge la densità media di 4,2 mc/mq. La tipologia sono prevalente è quella della casa unifamiliare o bifamiliare a uno o due piani in cemento armato, costruita al centro del lotto o in aderenza sul confine e alta tra i 6 e i 9 metri - due piani con eventuale seminterrato (Figura 4). La paura serpeggiante e l’esigenza di controllo hanno contribuito a determinare i caratteri dei luoghi. E’ diffuso il sospetto permanente delle intenzioni altrui e la psicologia della “società della paura” condiziona gli stili di vita e l’edilizia (Castel, 2004). In una delle aree a più alta densità criminale d’Europa, la maggior parte delle abitazioni sono
Figura 1. L’area di studio è quella della conurbazione che dalla città aversana si spinge verso ovest fino a Villa Literno.
circondate da muri di cinta, cancellate invalicabili, telecamere di sorveglianza e fitte alberature che sembrano rassicuranti, ma in realtà isolano gli individui.1 Anche le scuole, le piazze e i pochi spazi pubblici sono circondati da barriere fisiche. Gli edifici sono “spazi preclusi”, organizzati per dividere, segregare, escludere e non per facilitare la comunicazione e l’interazione tra gli abitanti, fisicamente vicini ma socialmente lontani.2
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C. Jencks (The Urban Condition: Space, Community, and Self in the Contemporary Metropolis, 010 Publishers, 1999) definisce questa dinamica del paesaggio urbano come wallification, “murificazione”. … le città sono diventate delle discariche per i problemi causati dalla globalizzazione. I cittadini, e coloro che sono stati eletti come rappresentanti, vengono messi di fronte a un compito che non possono neanche sognarsi di portare a termine: il compito di trovare soluzioni locali alle contraddizioni globali …(Z. Bauman: Repairing cities. La riparazione come strategia di sopravvivenza, LetteraVentidue Edizioni, 2008).
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2 | Il piano-programma3 2.1 Gli obiettivi La ricerca nasce dall’assunto che le misure repressive contro l’abusivismo edilizio prescritte dalla legge (confische e demolizioni), non essendo state applicate finora, non potranno più essere applicate perché il patrimonio edilizio frattanto accumulatosi ha raggiunto enormi dimensioni (Totaforti, 2012; Nuvolati e Piselli, 2009). Proprio per questo l’erosione dei suoli va arrestata una volta per tutte. Ma tale scelta non può però essere operata in modo semplicistico, perché nulla induce a pensare che gli abusi dei cittadini e le inadempienze dei pubblici poteri possano d’un tratto arrestarsi.
. Figura 2. L’abaco dei tipi edilizi prevalenti nei centri storici, nella città consolidata e nella città in formazione.
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Nel filone di ricerca oggetto di questo contributo si inserisce la tesi di laurea – della quale questo testo riprende alcuni contenuti e immagini – svolta con la guida dell’autore, nel Dipartimento di Architettura dell’Università Federico II, da Marcello Ferrara; correlatore per gli aspetti economici e gestionali il prof. Pasquale De Toro.
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Figura 3. Le modalità di consumo del suolo per la crescita edilizia: matrici geometriche d’impianto.
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Figura 4. Stralcio del quadro di unione degli strumenti urbanistici vigenti. All’interno delle Zone agricole dei piani sono evidenziate (rigatura rossa) le vaste aree di conflitto città/campagna.
Occorre allora garantire, a fronte di un rigido blocco della diffusione abusiva imposto da un autorevole ritorno alla legittimità, il coinvolgimento di tutti gli attori che abbiano un ruolo, in fatto e in diritto, nei processi di regolazione degli assetti territoriali. Si prospetta pertanto un programma di prevenzione dell’abusivismo associato ad una densificazione edilizia premiale delle frange urbano-rurali secondo regole chiare, che consentano una gestione attenta e disciplinata. In uno con la generale riqualificazione vengono marcati i limiti tra città e campagna e la città continua viene dotata dei servizi e delle infrastrutture mancanti o inadeguati. Tali scelte si compongono in una sorta di piano d’ambito sovracomunale a carattere straordinario per contenuti e per modalità di gestione - data appunto la particolarità del caso - che non presenta analogie nel territorio italiano e che, pertanto, non può essere efficacemente governato con le farraginose regole ordinarie della pianificazione. Gli obiettivi di fondo del piano-programma sono: Loreto Colombo
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- la confinazione del sistema urbano rispetto al territorio rurale; - la salvaguardia delle qualità ambientali, culturali e insediative attraverso la conservazione e la valorizzazione dei beni ambientali, naturali e antropici; della qualità dei paesaggi urbani ed extraurbani come identità storicoculturale; - il recupero del patrimonio edilizio e la riqualificazione degli insediamenti e del territorio non urbanizzato, delle sue parti compromesse o degradate in uno con lo sviluppo economico e sociale. L’ipotesi è basata sul consenso in quanto considera come irrinunciabile premessa all’attuazione del piano-programma gli accordi pubblicoprivati a seguito della concertazione. Fondamentale importanza, ai fini dell’attuazione di un siffatto programma, assume il ruolo dei professionisti gestori della partecipazione e dei facilitatori, in quanto alle difficoltà dovute alla oggettiva complessità del piano vanno aggiunte quelle intrinseche della società locale. La realizzazione di una quota consistente di opere pubbliche è a carico dei privati, che in cambio della cessione di aree a destinazione pubblica ricevono premi volumetrici e incentivi fiscali. Il piano regola quindi i processi di sviluppo del territorio in armonia con gli interessi generali della collettività attraverso la convenienza dei singoli.
2.2 | Popolazione e fabbisogni La tendenza che emerge dall’analisi della dinamica demografica recente - costanza dei tassi endogeni (fecondità e mortalità della popolazione) ed esogeni (movimenti migratori in entrata e in uscita) - è quella dell’aumento della popolazione residente nei territori dei 7 comuni (Tabella 1). E’ anche prevedibile una variazione della composizione dei nuclei familiari, col conseguente aumento della domanda abitativa e del fabbisogno di servizi pubblici. Più di un metodo di proiezione porta all’incremento demografico, a 20 anni, del 18%, corrispondente ad oltre 14.500 abitanti. Tale dato implica un fabbisogno di attrezzature pubbliche di standard – secondo la dotazione unitaria di 22 mq/ab dovuta all’esigenza di migliorare la qualità insediativa -, di oltre 1.825.000 mq. Considerando il volume unitario della stanza di 80 mc, il Rapporto di copertura fondiario di 0,3 mq/mq e l’Indice di fabbricabilità fondiario di 1,3 mc/mq, la superficie totale lorda di pavimento risulta di circa 391.500 mq (Tabella 2).
Tabella 1. La proiezione demografica al 2032
2.3 | I contenuti Si prevede una complessiva rigenerazione dei centri storici alterati e degradati mediante la riqualificazione dello spazio pubblico, la tutela e il recupero dei superstiti edifici di interesse ambientale, la riduzione della pressione del traffico, la riconfigurazione degli edifici incongrui. Gli edifici di recente costruzione in calcestruzzo armato
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sono sottoposti a ristrutturazione o sostituzione nel rispetto di progetti guida orientati a criteri di sostenibilità (Figura 6). Le aree della città consolidata, della città in formazione spontanea e dell’edilizia pubblica sono soggette a riqualificazione urbano-edilizia e densificazione mediante interventi di ristrutturazione edilizia o sostituzione con incrementi premiali fino al 30% del volume esistente. Sostituzione e densificazione sono integrate da interventi di diradamento urbano, compattazione dei volumi e arretramento degli edifici per ricavare spazi verdi (Figura 5). Tutti gli interventi di trasformazione sono orientati alla riduzione dei consumi, puntando l'efficienza energetica e idrica passiva (serre solari, schermature solari, tripli vetri con capacità termoisolante, sistemi di recupero e riciclo dell’acqua, ecc.) e attiva (fotovoltaico) e utilizzando materiali riciclati e rinnovabili (Figura 6). Viene definito il confine città-campagna: all’interno dell’area edificata sono previste la densificazione e compattazione edilizia con integrazione di attrezzature e servizi mediante la perequazione a distanza. La densificazione avviene mediante premi volumetrici in cambio della realizzazione delle attrezzature collettive e del ricorso a standard costruttivi eco-compatibili garantendo la qualità architettonica (Figura 6).
Tabella 2. Dimensionamento del fabbisogno abitativo in funzione della popolazione previsionale
Figura 5. Stralcio della zonizzazione del Piano consensuale.
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Figura 6. Riqualificazione urbano-edilizia e densificazione: abaco dei progetti guida
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Ai fini del recupero, vengono individuate, in ambito urbano, le aree delle attrezzature pubbliche di quartiere; in ambito rurale, le masserie di interesse storico-ambientale in stato di degrado. Viene anche ipotizzato il rafforzamento delle attività artigianali e commerciali in grado di contribuire alla vitalità dei centri. Il parco agricolo lungo il confine città-campagna svolge la funzione di cuscinetto ecologico tra la città continua e le aree a prevalente naturalità. All’interno del parco l’edificabilità è limitata alle necessità produttive (laboratori, silos, locali per l'esposizione e la vendita dei prodotti locali). Per il territorio rurale viene confermata la strategia del Piano Territoriale Regionale (per una nuova alleanza tra città e territorio rurale), che considera il complessivo spazio rurale come “bene comune”, al di là degli assetti proprietari. L’attenzione è rivolta alla multifunzionalità del territorio rurale, alla sua capacità di produrre flussi di beni e servizi per la collettività, legati non solo alla produzione primaria, ma anche e soprattutto al riciclo ed alla ricostituzione delle risorse di base (aria, acqua, suolo), al mantenimento degli ecosistemi, della biodiversità, del paesaggio; alle occasioni di ricreazione e di vita all’aria aperta. Viene così perseguita anche la coerenza con la concezione di fondo del PTCP di Caserta come piano di ricostruzione della qualità ambientale. La conservazione delle aree agricole comprende sia quelle a rischio di urbanizzazione, cioè marginali, interstiziali o interne al tessuto urbano, che quelle più vaste della Campania felix. Si tratta infatti di aree che svolgono la doppia funzione di riserve produttive primarie e di connessione tra gli ambiti a prevalente vocazione naturalistica. Si prevede pertanto il recupero ambientale delle aree agricole incolte, la salvaguardia e la valorizzazione di quelle di pregio agronomico-produttivo e dell’agricoltura locale. I Poli comprensoriali,4 collocati in aree interstiziali per costituire nodi attrattivi cardini della struttura insediativa, sono collegati, mediante la viabilità di progetto (Fabian, Morandi, Piazzini, Ranzato, 2012; Fabian, Pellegrini, 2012) sia alle strade principali (Asse di Supporto Villa Literno - Nola e SS 265 dei Ponti della Valle) che ai centri urbani del sistema integrato (figura 7, tabella 3). La viabilità è gerarchizzata: quella di livello intercomunale connette i Poli comprensoriali per i servizi rari e generali; quella locale è ovviamente più capillare. E’ inoltre previsto il recupero e riempimento delle cave abbandonate per la realizzazione di impianti sportivi, per il gioco all’aperto e il tempo libero.
3 | La sostenibilità economico-finanziaria La complessità e l’articolazione del programma, gli ingenti apporti economici, le qualificate esperienze necessarie per la gestione tecnico-economica dell’iniziativa spingono ad ipotizzarne l’attuazione mediante la costituzione di una Società per azioni di Trasformazione Urbana5 a capitale pubblico-privato. La STU viene promossa dai comuni, eventualmente con la partecipazione della Regione, e ha come scopi: l’acquisizione delle aree di intervento; la realizzazione delle opere; la loro gestione o vendita.6 La ricerca analizza in termini puntuali le diverse opere del piano-programma, effettuandone la stima dei costi. Vengono esplicitate le categorie di opere, le opere specifiche, le quantità, i costi unitari ed i costi totali. Vengono distinti i costi pubblici ed i costi privati. I soggetti privati, d’accordo con gli enti pubblici, essendo i beneficiari diretti di tutte le opere che costruiscono, provvedono anche alla realizzazione dei servizi collettivi (attrezzature pubbliche di quartiere; parco urbano attrezzato, biblioteca-mediateca) dai quali non si ottengono ricavi.
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I poli comprendono attrezzature pubbliche di interesse generale dimensionate in conformità alle normative vigenti e aree commerciali: complesso per l’istruzione superiore per 3.000 alunni; ambulatorio (3,4 posti letto x 1.000 abitanti); complesso polisportivo all’aperto e palazzetto dello sport con 5.000 posti; auditorium di 2.000 posti; biblioteca e mediateca per 700 utenti; mercato generale per 1.200 stand; parchi urbani per complessivi 146.000 mq; aree commerciali per 91.500 mq. 5 La STU è stata istituita con l'art.17 della legge 15.5.1997 n. 127, oggi art. 120 del Testo Unico delle leggi sull’Ordinamento degli Enti Locali (D. lgs. n. 267 del 18.8.2000). I comuni, dopo aver formalmente costituito un organismo intercomunale cui vengono delegati gli interventi da realizzare, individuano le aree di intervento e propongono il programma di trasformazione. Seguono: l’approvazione di un programma pluriennale, dell’Atto costitutivo, dello Statuto e della Convenzione per la disciplina dell’attività sociale; l’individuazione dettagliata dell’area di intervento e la specificazione delle quote di capitale sociale da riservare ai soci pubblici e privati. La scelta dei privati partecipanti (istituti di credito, imprenditori o loro associazioni, soggetti in grado di fornire servizi per la fattibilità, la vendita e la gestione del programma) avviene attraverso procedure di evidenza pubblica. 6 L’acquisizione delle aree può avvenire consensualmente o tramite ricorso a procedure espropriative. Nel caso dell'acquisizione consensuale la società contratta con i proprietari delle aree l'acquisizione delle stesse, provvedendo a determinare prezzo, condizioni e modalità. Nel caso di acquisizione in forma coattiva, il procedimento di esproprio è disciplinato dal Testo unico sugli espropri (D. P. R. 8.6.2001 n. 327) ed è effettuato dal Comune competente per territorio, anche se beneficiaria dell'espropriazione è direttamente la STU, su cui grava il pagamento dell'indennità. Infine, è da evidenziare che la norma prevede la possibilità che i proprietari delle aree possano diventare soci della STU conferendo nella stessa le aree, il cui valore sia da determinare mediante procedura estimativa da definirsi. Loreto Colombo
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Per il calcolo sommario della spesa vengono applicati alle quantità i corrispondenti costi parametrici, rilevati o desunti da interventi similari già realizzati oppure ottenuti utilizzando i prezzi unitari ricavati dai prezziari o dai listini ufficiali
Figura 7. Uno dei poli per i servizi generali
Tabella 3. Poli di servizio di interesse generale: destinazioni e dimensionamento.
vigenti nell’area interessata.7 La tabella 4 riporta la stima dei costi per la realizzazione del Piano consensuale di assetto. Richiedono un notevole investimento economico la realizzazione della nuova edilizia e delle attrezzature pubbliche di quartiere, che incidono sul totale per oltre i tre quarti. Tenendo conto della natura e delle caratteristiche degli interventi, nonché dell’attribuzione dei costi, viene sviluppata una possibile identificazione
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In particolare, per valutare il costo per la realizzazione delle attrezzature pubbliche di quartiere viene calcolata la media ponderata tra le differenti attrezzature (scuola dell’obbligo: 1600 €/mq; attrezzature di interesse comune: 600 €/mq; parcheggi a raso: 45 €/mq; verde attrezzato: 40 €/mq), pervenendo al risultato finale di 430 €/mq. Le categorie di opere vengono distinte tenendo conto dei principali interventi previsti: recupero, opere di nuovo impianto e opere infrastrutturali.
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dei ricavi.8 La Tabella 5 riporta il ricavo netto derivante dalla realizzazione della nuova edilizia a fronte dell’ingente investimento. Nella Tabella 6 viene sintetizzato il cronoprogramma dell’intera operazione, ipotizzando che i primi due anni vengano impiegati per la progettazione e per l’acquisizione dei pareri preventivi e delle aree. Si prevede la realizzazione. prioritaria delle opere di urbanizzazione primaria e infrastrutturali e degli interventi di recupero. La realizzazione della nuova edilizia è contestuale a quella delle attrezzature pubbliche di quartiere. Per i Poli comprensoriali, la precedenza è data alla realizzazione degli edifici per l’istruzione superiore, del poliambulatorio, delle strutture per lo sport all’aperto, dei mercati generali e delle aree commerciali. L’analisi finanziaria consiste nella valutazione dell’investimento necessario e dei successivi rientri da parte di tutti gli operatori, gli enti e le imprese (pubbliche e private) coinvolti nell’attività di realizzazione degli interventi. Lo scopo è quello di verificare la convenienza per i diversi operatori a partecipare alla realizzazione e gestione degli interventi. Si mira ad individuare l’opzione preferibile sulla base della regola decisionale della massimizzazione della differenza tra ricavi e costi. Il criterio più comunemente usato nella valutazione dell’accettabilità o meno di un intervento consiste nell’esplicitazione del valore attualizzato dei ricavi netti derivanti dall’intervento stesso, definiti in termini incrementali in comparazione con la situazione in assenza dell’intervento. Si calcola, cioè, il cosiddetto Valore attuale netto (VAN) del progetto di intervento.9 Viene anche applicato il criterio che fa riferimento al Tasso interno di rendimento (TIR)10 di ciascuna opzione, costituito dal saggio di attualizzazione per il quale il VAN è pari a zero. Vengono considerati come costi quelli diretti di investimento per la realizzazione degli interventi, in quanto nella stima dei ricavi vengono inglobate le annualità relative ai costi di manutenzione e gestione - ricavi netti – (/abella 7a).
Tabella 4. Stima dei costi.
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Per ciascuna delle opere previste viene ipotizzato un “modello di funzionamento” che tiene conto di alcuni elementi significativi: superficie, parametro unitario, capacità complessiva, coefficiente medio di riempimento, utenza giornaliera, periodo di attività, utenza annuale, ricavo unitario netto, ricavo totale netto, ricavo pubblico e ricavo privato. I ricavi vengono determinati al netto dei costi di manutenzione e gestione. Viene così definito il Piano economico-finanziario esplicitando le categorie di opere, le opere, i costi e i ricavi netti. 9 ll calcolo del VAN viene effettuato al tasso convenzionale del 5%. 10 Il TIR è pari al 9%. Loreto Colombo
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Tabella 5. Stima dei ricavi netti.
Tabella 6. Cronoprogramma degli interventi.
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Le voci contenute nel quadro economico sono ripartite negli anni previsti per la realizzazione delle diverse opere tenendo conto degli specifici tempi indicati dal cronoprogramma. A fronte di tali costi (Tabella 7b), la STU percepisce ricavi direttamente connessi alla realizzazione dell’opera. In relazione all’arco ventennale di riferimento, per le opere di recupero si ottengono ricavi netti a partire dal 2016, stesso anno in cui si ottengono i primi ricavi dalla realizzazione della nuova edilizia e delle attrezzature pubbliche di quartiere (parcheggi). I Poli comprensoriali producono ricavi a partire dal 2018, con l’apertura dei Mercati generali. I risultati ottenuti confermano la stabilità del piano, evidenziando che i ricavi compensano i costi. Vengono infine calcolati i benefici pubblici e privati: i benefici privati rispecchiano effettivamente i ricavi privati, mentre i benefici pubblici rappresentano la somma tra i ricavi pubblici ed i costi risparmiati per la costruzione di opere pubbliche realizzate dagli enti privati. I risultati ottenuti dal rapporto tra benefici e costi, pubblici (7,25) e privati (1,25), sono giustificati dalla volontà di privilegiare i benefici collettivi rispetto a quelli individuali.
Tabella 7a . Analisi finanziaria. Ricavi
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Tabella 7b  Analisi finanziaria. Costi.Â
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Tabella 7c . Analisi finanziaria. Benefici.
L’analisi finanziaria dimostra sia l’effettiva convenienza per i soggetti privati e pubblici nel realizzare il piano consensuale di assetto che i benefici che esso produce per l’intero territorio. Va inoltre evidenziato che i risultati dell’analisi finanziaria modifica le scelte di piano durante tutto il suo periodo di redazione. Ciò evidenzia l’importanza dell’elaborazione contestuale tra piano e studio economico-finanziario (tabella 7 c).
4 | Conclusioni Un grande programma di riqualificazione territoriale potrebbe favorire la ripresa economica del paese, integrando l’agibilità territoriale; il restauro e la valorizzazione del paesaggio; la mitigazione dei rischi; la qualità edilizia e architettonica con l’adeguamento antisismico e l’efficienza energetica. La ricerca sintetizzata, che si inquadra nel più ampio filone seguito da un numero crescente di ricercatori con competenze diverse ma integrabili, riguarda un possibile “punto di attacco”, con finalità sperimentali, di un programma ambizioso: proprio nei momenti di depressione la volontà di pensare e di agire “in grande” può aprire prospettive concrete di sviluppo.
Riferimenti bibliografici Totaforti S., La città diffusa. Luoghi pubblici, luoghi comuni, luoghi abusivi, Liguori, Napoli, 2012. Fantin M., Morandi M., Piazzini M., Ranzato L. (a cura di), La città fuori dalla città, INU Edizioni 2012. Fabian L., Pellegrini P. (a cura di ), On mobility 2. Riconcettualizzazioni della mobilità nella città diffusa, Marsilio, Venezia, 2012. Nuvolati G., Piselli F. (a cura di), La città: bisogni, desideri, diritti. La città diffusa: stili di vita e popolazioni metropolitane, FrancoAngeli, Collana Sociologia urbana e rurale-Sez. 1, 2009.
Bauman Z., Repairing cities. La riparazione come strategia di sopravvivenza, LetteraVentidue Edizioni, 2008. Lettieri D., Architettura e città diffusa. Castelvolturno e la fascia domizia, Liguori, Napoli, 2008. Castel R., L'insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino, 2004.
Jencks C., The Urban Condition: Space, Community, and Self in the Contemporary Metropolis, 010 Publishers, 1999.
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DeTourS: Uno Strumento di Supporto alle Decisioni per lo Sviluppo Turistico di un Territorio
DeTourS: Uno Strumento di Supporto alle Decisioni per lo Sviluppo Turistico di un Territorio Vincenzo De Stefano Università degli Studi di Napoli Federico II DICEA - Dipartimento di Ingegneria Civile Edile ed Ambientale Email: vincenzo.destefano@unina.it
Abstract Il turismo può tramutarsi sia in un volano per lo sviluppo di un’area, sia in un boomerang che dopo un effimero e fragile riscontro economico, porta sul lungo periodo l’area al degrado. Gestire il turismo, per renderlo una risorsa duratura e sostenibile, significa scegliere politiche e strategie adatte alle reali condizioni culturali, sociali, ed economiche locali. È necessario quindi che il processo di sviluppo sia supportato sia nella fase d’innesco che in quella di gestione da idonee valutazioni e monitoraggi. Il paper proposto presenta uno strumento di supporto alle decisioni nell’ambito dei progetti per lo sviluppo turistico di un territorio. La metodologia di supporto si basa su una ’What if Analysis’ attraverso cui è stato costruito un albero delle possibilità basato sull’analisi di numerosi best e worst cases nazionali e internazionali di sviluppo turistico. La scelta delle percorrenze lungo i rami dell’albero viene effettuata attraverso la valutazione di soglie critiche di indicatori seguendo la metodologia dei ’Flag Model’. Parole chiave Turismo, Sostenibilità, Decisioni.
Perché il Turismo? Il turismo è un’attività che lega il 'movente psico-sociale' ai processi messi in atto dalla circolazione di uomini, immagini, servizi, redditi e idee, configurando un particolare momento di 'incontro' fra diverse società: coloro che 'ospitano' e gli 'ospitati'. Queste interazioni generano un complesso di conseguenze sociali, economiche, culturali e ambientali di vasta portata. Il fenomeno turistico è una fonte di reddito, trasferendo ricchezza da un paese all’altro e di conseguenza anche un’occasione per creare occupazione. È possibile caratterizzare tale fenomeno anche come modello culturale, precisando però che ci si riferisce ad una concezione di cultura intesa non come erudizione, ma come arricchimento personale e quindi di allargamento degli orizzonti culturali per le diverse modalità di vita e sistema di valori. Pertanto si traduce in un veicolo preferenziale e motore trainante per i mutamenti culturali, a cui però è connesso in maniera biunivoca per quanto riguarda le modalità di fruizione. Inoltre l’attività turistica è capace di modificare l’aspetto e i meccanismi organizzativi del territorio su cui è diffusa, al quale però è legata in maniera imprescindibile per riuscire ad avere una capacità di attrazione. Si può riscontrare un’azione di tipo conservativa: monumenti, paesaggi, aspetti della natura e dell’arte, e più in generale tutte le possibili testimonianze storiche, diventano oggetto di conservazione non solo per gli abitanti del posto, ma anche per offrire motivi d’interesse e quindi potenzialità attrattiva per richiamare turisti. Altra azione, invece può essere quella di cambiamento, secondo modalità che possono essere definite selettive, in quanto mirano ad enfatizzare paesaggi e lineamenti del territorio già esistenti o innovatrici se si creano ex-novo elementi di attrazione turistica. Considerando l’eterogeneità degli elementi coinvolti nella domanda di turismo e dei servizi dell’offerta correlati che interessano quasi tutta l’organizzazione di un territorio, il turismo viene assunto come fenomeno 'avvolgente' (Faggiani, Imbesi, Morabito, Vaccaro, 2008). L’attuale modello di sviluppo turistico ha la necessità di fare fronte a diverse problematiche e questioni che si sono evidenziate e sviluppate nel tempo. Con riferimento alla capacità massima di ciascun territorio di sostenere la fruizione turistica di risorse in molti casi non riproducibili e Vincenzo De Stefano
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degradabili, risulta indispensabile operare valutazioni in grado di cogliere, accanto alla dimensione economica del fenomeno turistico (studiata da sempre poiché capace di muovere ingenti quantità di denaro), anche le altre dimensioni della sostenibilità. Particolare riferimento sarà dovuto alla sostenibilità fisica, in termini di modificazione dell’ambiente naturale e a quella riguardante le modificazioni delle attività sociali e culturali, rappresentative della qualità della vita della popolazione locale. In passato, soprattutto agli esordi del boom del turismo di massa, una località poteva basare la propria capacità attrattiva su un’unica risorsa, come il mare o la montagna, realizzando situazioni che nel tempo si sono rilevate insostenibili per l’elevata stagionalità e i carichi che si concentravano in determinati periodi su territori di dimensioni limitate. La “mono-risorsa” non riesce più ad essere competitiva come un tempo a causa del cambio delle modalità di fruizione delle vacanze e del tempo libero; oggi il tempo da dedicare alle vacanze è molto più frazionato rispetto al passato, consentendo brevi finestre temporali, in cui chi ne usufruisce cerca di condensare quante più esperienze e quante più 'tipologie' di turismo. A questa evoluzione della domanda, ha fatto seguito anche una riqualificazione del sistema dell’offerta. Non solo si è assistito alla proliferazione di “micro” strutture ricettive (b&b ed ostelli oramai si trovano ovunque), ma quasi tutte le strutture di fascia elevata si sono indirizzate verso un processo di modernizzazione per riuscire ad adeguarsi ai migliori standard internazionali, per competere sul mercato globale. Inoltre, grazie alla diffusione delle nuove tecnologie informatiche (internet, social network, smartphone, tablet), queste stanno contribuendo al cambiamento radicale della pianificazione e della fruizione turistica: basti pensare alle prenotazioni dei vettori di viaggio e delle sistemazioni per i pernottamenti, un tempo patrimonio delle agenzie di viaggio e dei cosiddetti agenti intermediari, che oggi si vedono 'scavalcati'. Le esperienze passate hanno mostrato che un tipo di sviluppo turistico che lascia l’iniziativa solo ad una compagine (pubblica o privata) o che si basa su un territorio circoscritto e su poche se non singole risorse, non è più competitivo nel panorama mondiale. Oggi è necessario puntare ad un modello turistico integrato che si basa sulla partecipazione dei diversi attori e sulla convivenza di quante più tipologie di risorse possibili, per creare un ventaglio di esperienze praticabili quanto più ampio è possibile. Questo non solo per arrivare ad una fetta di turisti sempre maggiore ma anche per poter superare la 'stagionalizzazione'. Vista la complessità del turismo si necessita di una politica lungimirante, per riuscire a conciliare le molteplici tipologie di interessi in gioco. Un progetto di sviluppo turistico, con tutte le sue implicazioni nelle diverse sfere ambientali, economiche e sociali, può tramutarsi sia in un volano per lo sviluppo dell’area, che in un boomerang che rischia di far degradare la stessa area. Gestire il turismo, per renderlo più duraturo, significa scegliere le soluzioni giuste adattate alle reali capacità sia della cultura locale sia dell’ambiente in cui si inserisce. È necessario quindi che il processo di sviluppo sia accompagnato e supportato per tutta la durata e la vita dei numerosi investimenti che richiede per non essere un’ulteriore occasione mancata. Per favorire questo tipo di sviluppo turistico auspicabile e sostenibile, è fondamentale «effettuare un salto di scala e coinvolgere nella programmazione dello sviluppo turistico porzioni di territorio più ampie della singola località turistica» (Stanganelli, 1998). Questo presuppone inoltre la concertazione di strategie comuni che vedono coinvolti ed impegnati sia soggetti pubblici (Enti Locali), che soggetti privati (imprenditori, associazioni di categoria), ovvero coloro i quali operano fattivamente sul territorio. Diventa quindi di fondamentale interesse la messa a punto di uno strumento che in tempi di risorse economiche limitate e spending review su tutti i fronti dell’economia, guidi le decisioni e metta in guardia dai possibili rischi e sviluppi futuri cui si va in contro in base a considerazioni effettuate rispetto ad esperienze reali. Tale strumento deve permettere di mettere in evidenza rispetto a un quadro generale di riferimento, quali siano i punti di forza dell’area ed indirizzare in maniera agevole e senza equivoci, dove è necessario intervenire per poter supportare lo sviluppo di un turismo locale sostenibile.
Gli Strumenti di Supporto alle Decisioni Classici Gli Strumenti informatici di Supporto alle Decisioni (SSD) maggiormente diffusi e conosciuti sono sviluppati in modo da essere Project Oriented; ovvero sono perfetti per valutazioni di progetti o linee di sviluppo in cui si può simulare l’incidenza sul territorio, più in generale, risolvono problemi che riguardano: efficienza economica, scelta della destinazione d’uso più sostenibile di un’area e scelta della localizzazione più sostenibile di un impianto. Tali strumenti non sono adatti per decisioni in cui non esistono chiare e definite azioni da implementare, ma solo linee strategiche cui puntare, quindi per decisioni proprie di una pianificazione territoriale d’area vasta. SSD classici, come il DEFINITE, l’Expert Choice o il SAMI-Soft, sono fondamentalmente studiati per un utilizzo a livello tattico-attuativo delle decisioni, ovvero sono in grado di simulare i diversi scenari realizzabili in funzione degli indicatori da caratterizzare nelle situazioni di partenza e in tutte le possibili tipologie di sviluppo auspicate. Le interfacce grafiche di questi strumenti non sono propriamente intuitive, presentando alti coefficienti di macchinosità nell’inserimento dei dati e nella definizione dei parametri, e quindi non sono facilmente utilizzabili da utenti che non siano addentro alle questioni tecniche o avvezzi a tali strumenti. Vincenzo De Stefano
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SSD specifici in funzione della tematica turismo, in Italia non risultano essere stati sviluppati. Da ricerche effettuate emergono diverse proposte di metodologie teoriche da seguire per poter valutare progetti e programmazioni estese al massimo alla scala comunale. Lo strumento informatico di supporto alle decisioni sviluppato si colloca ad un livello decisionale antecedente a quelli accennati in precedenza, che possiamo chiamare strategico o metastrategico (Nijkamp, Fusco Girard, 1997), in quanto si pone la questione di supportare il decisore nella scelta di decidere se intraprendere o meno il cambiamento in un’ottica di sviluppo turistico. Inoltre questo strumento oltre a presentare un’interfaccia grafica user friendly, in cui sono specificati i diversi ambiti di riferimento e gli indicatori da caratterizzare, permette anche il calcolo degli stessi partendo dai dati di base. In fine poiché la valenza di alcuni indicatori è sostanzialmente legata al contesto territoriale cui si fa riferimento, è data la possibilità di definire un riferimento in modo da poter contestualizzare tutti quegli indicatori il cui senso non sia esplicativo in termini assoluti.
Il Programma DeTourS L’obiettivo del sistema di supporto alle decisioni sviluppato attraverso il percorso in Figura 1, è quello di supportare la costruzione di uno scenario possibile dello sviluppo territoriale in ottica turistica che serva come base per definire una visione condivisa del futuro, di ciò che il territorio in studio potrebbe diventare seguendo le politiche strategiche adottate. In questo modo il decisore potrebbe definire nuove strategie e obiettivi da raggiungere in base ai “valori” condivisi dai residenti di quel territorio, qualora quelli probabili non fossero compatibili o soddisfacenti.
Figura 1. Percorso metodologico.
Dall’approfondimento di numerosi casi studio nazionali e internazionali, rappresentativi di best e worst cases di sviluppo turistico, è stata tratta la fenomenologia dello sviluppo turistico locale e degli impatti indotti. Dallo studio di ciascun caso sono state tratte le caratteristiche fondamentali: • cosa ha determinato lo sviluppo turistico di un’area; • quali caratteristiche sono state fondamentali per innescare il fenomeno; • cosa ha determinato il successo e l’insuccesso dello sviluppo turistico; • quali strategie e politiche hanno influito positivamente e quali meno; • che conseguenze si sono avute sul territorio considerato. La disamina dei casi di studio ha mostrato rischi e opportunità scaturite dalle diverse politiche e scelte effettuate in diversi contesti territoriali per le diverse situazioni riscontrate. Questo aspetto è stato fondamentale per poter ottenere delle caratteristiche quanto più generali possibile, e quindi valide nei più diversi contesti. Da questi casi studio, sono stati evidenziati i 'Fattori' per lo sviluppo che hanno portato ad individuare diversi percorsi di sviluppo delle diverse iniziative turistiche. Questi Fattori sono stati rappresentati tramite degli indicatori legati a tali peculiarità e che compongono un set utilizzato nello strumento finale; questi sono stati suddivisi in: 1. Complesso delle Risorse; Vincenzo De Stefano
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2. 3. 4. 5. 6.
Tipologia di Innesco Struttura Economica del contesto; Contesto Politico; Contesto Sociale; Gestione del Mercato Esistente.
Con la prima famiglia di Fattori si cerca di valutare il territorio in esame in funzione di: complessità fisica, accessibilità (collegamento ai possibili centri di irradiazione della domanda), complessità funzionale (ubicazione o meno di altre funzioni economiche e sociali), dotazione di strutture ricettive (qualità e diffusione sul territorio dell’offerta turistica locale), caratteristiche principali della domanda turistica (stagionalità, bacino d’utenza) e presenza di attrattori (turismo integrato su una molteplicità di risorse presenti o su poche risorse disponibili rispetto un contesto territoriale più ampio). La seconda famiglia di Fattori dello sviluppo valuta la Tipologia di Innesco del fenomeno turistico, che può essere: spontaneo oppure indotto e/o programmato. L’innesco spontaneo è in genere subordinato dalla presenza d’importanti risorse, che possono essere di tipo culturale (musei, elementi archeologici, elementi architettonici, Beni UNESCO) o naturale (ad esempio singolarità geologiche come i Faraglioni) e aree costiere dalla morfologia singolare (Costiera Amalfitana e Cinque Terre). Spesso la presenza dei cosiddetti 'Grandi Attrattori' su un determinato areale è tipica dei territori dallo sviluppo turistico 'maturo', dove il turismo si è affermato attraverso un processo cumulativo spontaneo di domanda-offerta basato sulla fruizione di risorse riconosciute a livello internazionale. Diverso è il caso di territori caratterizzati da una qualità diffusa, ma da poche singolarità che non rientrano nei circuiti turistici già affermati e che hanno bisogno dell’attuazione di specifici progetti di promozione turistica; a seconda del promotore si possono riscontrare: 1. iniziativa pubblica: gli enti pubblici, grazie a finanziamenti, incentivi e iniziative particolari, cercano di sviluppare azioni propulsive per lo sviluppo turistico locale (Torino); 2. iniziativa privata: gli imprenditori privati, investono creando attrattori 'artificiali' o riqualificando le risorse presenti (parchi tematici); 3. partnership: con il partenariato pubblico-privato, si definiscono diverse forme di cooperazione tra settore pubblico e settore privato, attraverso le quali le rispettive competenze e risorse si integrano per realizzare e gestire opere e iniziative in funzione delle diverse responsabilità ed obiettivi (Santo Stefano di Sessanio). Il terzo gruppo di Fattori riguarda la Struttura Economica del Contesto, e descrive l’economia di base del territorio in studio, mettendo in evidenza se la struttura economica locale su cui si instaura il fenomeno turistico sia forte e radicata o sia una struttura economica debole. I casi di studio hanno evidenziato come in un contesto economico forte e diversificato il turismo riesca ad inserirsi entrando in sinergia con le altre attività (Monaco di Baviera, Emilia Romagna). In situazioni economiche già strutturate, il turismo con le sue attività indotte potrebbe tendere a diventare una attività complementare alle altre presenti sul territorio, rafforzando ulteriormente l’economia locale, con l’inserimento di nuove funzioni e portando nuovi ricavi. Laddove invece il contesto economico è debole e destrutturato vi è il rischio di puntare al turismo come 'la panacea che cura tutti i mali'. In condizioni di fragilità economica (Calabria) e quindi di scarsa propensione imprenditoriale della popolazione, è facile incorrere nel rischio di 'colonizzazione' turistica, ovvero imprenditori esterni che prendono iniziative di sviluppo lasciando al di fuori la popolazione residente. Ciò finirebbe per non generare vero sviluppo, ma solo sfruttamento turistico di un’area. Si potrebbe inoltre, andare incontro alla possibile sostituzione delle attività tradizionali a favore di quelle legate al turismo, e dai ricavi più immediati. Nella quarta famiglia di Fattori è valutato il Contesto Politico locale per comprendere se c’è una continuità di programmazione e visione per lo sviluppo territoriale e di conseguenza, se c’è un ambiente di certezza o di incertezza di programmazione della politica locale. L’ambiente di certezza politica agevola gli investimenti e l’implementazione di strategie di sviluppo a medio/lungo termine, dando fiducia agli imprenditori sulla continuità nel tempo delle politiche messe in atto. La continuità di programmazione e visione è uno stimolo per la costruzione di un contesto economico e sociale coeso e la collaborazione tra pubblico e privato. L’aspetto politico è fondamentale poiché se l’azione pubblica risultasse debole si potrebbero riscontrare anche pericoli di 'intrusione', da parte di portatori d’interessi esterni. D’altro canto un’azione pubblica forte potrebbe favorire una strategia comune di sviluppo territoriale turistico, seguendo degli obiettivi condivisi e programmati. Il quinto gruppo di Fattori valuta la consistenza del Contesto Sociale, verificando la presenza di coesione sociale, consapevolezza del valore del proprio territorio e la sicurezza. La coesione sociale è fondamentale per lo sviluppo turistico favorendo la convergenza delle azioni pubbliche con quelle private, in maniera sinergica indirizzandole verso risultati condivisi e concordati. Inoltre è fondamentale per le capacità cooperative che si sviluppano all’interno di un territorio tra diverse fasce sociali e tra diversi Comuni limitrofi. Una società fortemente coesa riesce ad agire in maniera unitaria senza disperdere le proprie forze (economiche e politiche) nel perseguimento di utilitarismi individuali o campanilistici. Questo aspetto ha portato ad ottimi risultati in termini di sviluppo in Trentino, «in virtù della strettissima coesione della società che l’ha prodotto» (Lanzani, 2003). La stima di tale aspetto dipende da due caratteristiche importanti riguardanti i residenti dell’area: l’apertura culturale e la consapevolezza del valore del proprio territorio. Il primo aspetto esprime la capacità di Vincenzo De Stefano
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accettare le diversità culturali dei turisti e di ciò che è estraneo all’area. La consapevolezza del valore del proprio territorio, consente di avere una misura riguardante una potenziale schermatura verso i cosiddetti 'attacchi esterni' derivanti dai flussi turistici; ovvero modi di comportamento, abitudini alimentari, modi di dire, che potrebbero portare a lungo andare come conseguenza alla perdita delle tradizioni locali o all’omologazione dei comportamenti sociali che invece potrebbero essere contrastati da una radicata identità locale e quindi da un maggiore legame verso il proprio territorio e le proprie tradizioni. Infine, anche la sicurezza è un prerequisito fondamentale per il turismo come emerso dai casi studio di Napoli e dell’Egitto. L’ultimo gruppo di Fattori riguarda la Gestione del Mercato Turistico Esistente, che come evidenziato dai casi studio sono determinanti per individuarne il percorso: crisi, sviluppo o ripresa. È importante quindi distinguere se la gestione sia avvenuta: in maniera imprenditoriale, familiare o frutto di un’azione supervisionata. La prima tipologia, potrebbe essere migliore da un punto di vista strettamente aziendale, poiché potrebbe portare a una più facile internazionalizzazione dell’area (Bibione), ma di contro si potrebbe anche avere una situazione in cui i benefici non sono direttamente connessi alla comunità locale se raccolti da imprese e aziende non 'locali' (Egitto). Inoltre, la maggior 'professionalità' richiesta non è ovvio si trovi direttamente disponibile fra le forze lavoro locali e non è scontato che tali aziende si preoccupino di formare personale autoctono in loco. La gestione familiare, generalmente favorisce un maggior rapporto fra turisti e imprenditori stessi; in questo modo si viene a creare un maggior confronto sulle problematiche reali e soprattutto sulle reali necessità dei visitatori, portando ad un processo di fidelizzazione del cliente. Questa tipologia di gestione però rappresentando un tipo di gestione più facile da mettere in pratica e quindi alla portata di tutti, potrebbe trovare un ostacolo nello scontrarsi con le differenti individualità degli stessi imprenditori locali, qualora non si venissero a creare delle reti di PMI come sub-strato sul quale lavorare per contribuire in maniera sinergica allo sviluppo locale. La partnership e la supervisione da parte di enti territoriali si basa generalmente su politiche di sviluppo comuni e condivisibili, promosse dagli enti pubblici e accettate dai soggetti privati locali. Nella gestione pratica ciò è favorito e sponsorizzato dalla presenza attiva in un territorio di un Sistema Turistico Locale o dall’esistenza di un Prodotto d’Area, che caratterizza il territorio. Inoltre va presa in considerazione l’incidenza delle strutture ricettive di qualità riconosciuta e/o appartenenti a marchi internazionali, in quanto come per la Croazia, può essere un primo passo per l’internazionalizzazione del prodotto turistico. Inoltre è da valutare l’esposizione sul Web da parte dell’area come elemento d'interesse per gli utenti nella scelta di una destinazione turistica.
Figura 2. Sequenza di valutazione completa dei ‘Fattori’ dello sviluppo turistico con gli Alberi degli indicatori.
Questi gruppi di indici sintetici sono organizzati in una struttura del tipo 'albero delle decisioni' dove i nodi rappresentano i discriminanti per il passaggio alla definizione delle caratteristiche successive. In questo modo è Vincenzo De Stefano
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possibile costruire degli scenari tramite la What if Analysis (che cosa accadrebbe se) (Rizzi, 2008) che risultano fondamentali per i decisori, in quanto consentono di studiare come variano i risultati al variare della caratterizzazione degli elementi presi in considerazione. Per definire l’appartenenza a una categoria piuttosto che a un’altra in base alle misurazioni degli indicatori, è stata utilizzata la metodologia tipica dei Flag-Model (Nijkamp, H. Ouwersloot, J. Ouwersloot, 1997). In base alle condizioni del contesto di riferimento rispetto al quale viene studiata l’area in esame, sono determinati dei valori di soglia limite oltre il quale si stabilisce l’appartenenza ad una categoria piuttosto che ad un’altra. Per poter rendere più agevole l’utilizzo di tale strumento di supporto alle decisioni, questi ragionamenti sono confluiti in un applicativo informatico sviluppato in C# chiamato DeTourS, acronimo di Decision Touristic Support.
Figura 3. Schermata iniziale del programma DeTourS.
Sviluppi Futuri Lo strumento DeTourS implementato per un utilizzo desktop, a seguito di una fase di collaudo per individuare le carenze di correttezza, completezza e affidabilità, potrebbe essere ricompilato per essere integrato in un sito Web e quindi essere fruibile via Internet. In questo modo si garantirebbe un elevatissimo grado di trasparenza e partecipazione a tutto il processo decisionale, oltre a favorire una maggiore condivisione dei risultati, consapevolezza e partecipazione allo sviluppo territoriale. Inoltre si potrebbe integrare con tecnologie GIS, per poter dialogare direttamente con strumenti in grado di creare e gestire sistemi informativi informatici.
Bibliografia Faggiani G., Imbesi G., Morabito G., & Vaccaro G. (2008), Trasformazioni Territoriali e Progettualità Turistica. Per la Valutazione delle Interrelazioni Turistiche, Gangemi, Roma. Fusco Girard L., & Nijkamp P. (1997), Le valutazioni per lo sviluppo sostenibile della città e del territorio, Franco Angeli, Milano. Lanzani A. (2003), I paesaggi italiani, Meltemi, Roma. Stanganelli M. (1998), “Il concetto di comprensorio turistico e di offerta turistica integrata”, in G. Mazzeo, Saper Vedere, Francesco Giannini e figli, Napoli. Rizzi S. (2008), What-If Analysis. Università di Bologna, DEIS.
Vincenzo De Stefano
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Una Legge per i Disastri Naturali. Creare un nuovo modello di gestione dell’emergenza, di prevenzione e sviluppo
Una legge per i disastri naturali. Creare un nuovo modello di gestione dell’emergenza, di prevenzione e di sviluppo Luana Di Lodovico Università de L’Aquila Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile - Architettura, Ambientale - DICEAA Email: luanadilodovico@hotmail.it
Abstract La prevenzione e la manutenzione sistematica del territorio e del costruito possono diventare processi ordinari. Tuttavia oltre ad “orientare” popolazione, tecnici e Pubbliche Amministrazioni, è necessario che ci sia una Legge di Riferimento Nazionale per i Disastri Naturali. È certo vero che nel nostro Paese non mancano leggi per il Governo del Territorio, per la tutela ambientale e del suolo a cui corrispondono strumenti specifici (programmi, piani, etc) redatti e monitorati, di volta in volta, da diversi Enti Pubblici (Stato, Regioni, Provincie e Comuni). Partendo dal caso aquilano, dove molti errori sono stati fatti, si intende predisporre un’Agenda Strategica come canovaccio per la legge che, a fronte dei problemi riscontrati nella cattiva gestione delle fase emergenziale, contenga obiettivi strategici atti a creare un modello, facilmente replicabile, che permetta di assicurare una buona organizzazione nella prima fase emergenziale e che, contestualmente , permetta di prevenire i danni al patrimonio edilizio e garantisca uno sviluppo sostenibile e di qualità per il tutto il territorio nazionale. Parole chiave: Agenda Strategica, Emergenza, Pianificazione
1 | Disastri naturali e la cattiva gestione del Territorio In quest’ultimi anni sembra aumentato esponenzialmente il numero di catastrofi definite come “naturali”, ma che di naturali hanno solo l’origine. È più corretto parlare di fenomeni naturali estremi (terremoti, eruzioni vulcaniche, esondazione di fiumi, etc) che colpiscono un territorio particolarmente vulnerabile: un tornado in un deserto non provoca, in fin dei conti, danni materiali ne perdite di vite umane. Tali fenomeni risultano sì in aumento, a causa del cambiamento climatico e dell’innalzamento delle temperature, ma soprattutto a causa della “cattiva gestione” del nostro territorio. Basti pensare come lo sviluppo edilizio dell’ultimo secolo abbia progressivamente invaso aree di grande fragilità (a rischio idrogeologico, a rischio frane, etc) creando le premesse di futuri eventi calamitosi in considerazione del numero degli abitanti colpiti, ma altresì per l’alterazione degli equilibri ambientali. Si tratta, dunque, di contrastare da un lato diffusione insediativa, e dall’altro tutte quelle pratiche di governo del territorio che producono ed hanno prodotto effetti negativi sulle risorse naturali ed antropiche.
1.1 | Un Territorio Vulnerabile
E la vulnerabilità1 di un territorio da cosa dipende? La risposta non è intuitiva in quanto essa risulta essere l’effetto dell’interazione di più fattori tra cui: • Il gran numero di edifici storici oggetto, spesso, di rari interventi di manutenzione (Fig. 1); • Il degrado di estesi quartieri di aree metropolitane; 1
La vulnerabilità è riferita a due livelli di danneggiamento, corrispondenti, in termini prestazionali (FEMA, 2000) alla condizione limite di operatività, ossia di danneggiamento lieve tale da non pregiudicarne l’utilizzazione, e alla condizione di collasso incipiente. La vulnerabilità, pertanto, viene intesa come stima dell’intensità del terremoto per la quale l’edificio raggiunge le due condizioni dette (Dolce, Moroni, 2012).
Luana Di Lodovico
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• Un’edilizia abusiva diffusa in zone a maggior rischio sismico e/o idrogeologico; • Le scarse conoscenze nel passato della pericolosità sismica ed idrogeologica del territorio; • L’inadeguatezza nell’applicazione di norme. A questo si aggiunge l’innalzamento dei rischi dovuto alla distruzione delle naturali difese ambientali costituite da foreste, barriere coralline e zone umide da parte della comunità, ovvero di quella parte della popolazione che vive in aree urbane densamente popolose ( il 50% della popolazione vive in aree “urbane” dato che nel 2030 salirà al 61% ovvero 5 miliardi di persone su 8,1 miliardi totali). Nel Nostro Paese, poi, l’analisi della mappa
PATRIMONIO AD ELEVATO RISCHIO SISMICO Abitazioni: 10,7 milioni Edifici Residenziali: 4,7 milioni Edifici non residenziali: 395 mila di cui Capannoni: 95 mila Edifici commerciali: 79 mila
Figura 1. Mappa delle provincie al elevato rischio simico – Capannoni Produttivi (Fonte: Elaborazione CRESME su dati ISTAT e Dipartimento Protezione Civile 2012)
sismica italiana (Fig. 2) aggiornata al 2012 e diffusa dal Dipartimento di protezione civile, evidenzia come l’Italia sia un territorio molto fragile e vulnerabile, con elevato rischio sismico che interessa 10 milioni di abitazioni, circa 5 milioni di edifici residenziali, 750 mila non residenziali e ben 22 milioni di abitanti (Fig. 3 e Tab. I).
Figura 2. Mappa sismicità italiana dal 1981 al 2011 sinistra e mappa di pericolosità sismica a destra (Fonte: : Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia)
Luana Di Lodovico
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ZONA 1/ 1-2A 760 Comuni per 26.959 Kmq ZONA 2/ 2A / 2B 2.187 Comuni per 104.232 Kmq ZONA 3/ 3A / 3B / 3S 2.003 Comuni per 82.149 Kmq ZONA 4 3.196 Comuni per 87.996 Kmq Figura 3. Classificazione Sismica di Comuni italiani 2012 (Fonte: Dipartimento di Protezione Civile 2012)
Tabella I. Il territorio italiano e il rischio sismico:popolazione, superficie e numero comuni (Fonte: CRESCE 2012
1.2 | Azioni di mitigazione e prevenzione del Rischio: le tre macrocategorie Numerose sono le ricerche che hanno messo in luce come la prevenzione effettiva dei disastri non solo sia possibile dal punto di vista tecnico, ma anche conveniente dal punto di vista economico. Azioni possibili per la mitigazione e prevenzione del rischio possono essere racchiuse in tre grandi macrocategorie: 1. Miglioramento delle Conoscenze: un sistema di conoscenze ben articolato può garantire ed attenuare gli effetti dovuti a processi quali la metropolitanizzazione, la crescita della città diffusa che genera consumo di suolo, diseconomomie di scala e progressive disarticolazioni delle funzioni urbane. Parliamo di conoscenze: 1.1. Tecnico – Scientifiche (promozione e finanziamento di programmi di ricerca applicata); 1.2. Del Territorio ( Quadri Conoscitivi, Microzonazione, etc); 1.3. Del patrimonio costruito. 2.
Riduzione vulnerabilità ed Esposizione attraverso: 2.1. Azioni Indirette: miglioramento degli strumenti per la progettazione e pianificazione; 2.2. Azioni Dirette: adeguamento e miglioramento sismico del costruito sia pubblico e privato, prevedendo per quest’ultimo incentivi (es. OPCM 4007/2012).
3.
Mitigazione Effetti attraverso il miglioramento del monitoraggio, la redazione di Piani di Protezione Civile, la sensibilizzazione di Popolazione, Tecnici ed Amministratori ( Dolce, 2012).
A queste azioni si deve affiancare un concreto supporto normativo che oltre a dettare regole puntino anche sull’incentivazione di investimenti, soprattutto del privati, per manutenzione e sicurezza territoriale. Certo nel nostro Paese non mancano leggi per il Governo del Territorio, per la tutela ambientale e del suolo a cui corrispondono strumenti specifici (programmi, piani, etc) redatti e monitorati, di volta in volta, da diversi Enti Pubblici (Stato, Regioni, Provincie e Comuni). A queste si somma la Legge 77/2009 che può esser vista come un primo tentativo di Legge Nazionale di prevenzione del Rischio Sismico (Dolce, 2012). Tale Legge ha introdotto due importanti provvedimenti: Luana Di Lodovico
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L’entrata in vigore anticipata delle Nuove Norme Tecniche per le costruzioni (DM 14.01.2008); Lo stanziamento di 965 M€ (art.11), dilazionati in sette anni (dal 2010 al 2016), per la prevenzione sismica per comuni dove, secondo l’art.2, l’accelerazione massima al suolo in caso di sisma è ≥ 0.125 g. Tutto questo insieme di leggi e norme ci dimostra che la pianificazione può ridurre i livelli di rischio e quindi i danni alle comunità, attraverso scelte localizzate che privilegino siti a minor pericolosità locale, soluzioni strutturali e norme tecniche che abbassino la vulnerabilità e controllino l’esposizione, non necessariamente introducendo un vincolo, quanto piuttosto identificando i problemi e scegliendo strategie a cui corrispondono azioni mirate ( Tira, 2012). • •
2 | Quanto costa l’Emergenza? A seguito di calamità naturali le amministrazioni devono affrontare e gestire, inizialmente la cosiddetta fase emergenziale, lavorando su due piani paralleli: soccorrere tempestivamente i soggetti colpiti e, nello stesso tempo, assicurare che gli investimenti pubblici permettano non solo la ricostruzione materiale ma la creazione e il rilancio dell’area interessata. Basta pensare che nel nostro Paese si sono affrontate spese per ricostruire le aree distrutte da terremoti, alluvioni, frane, etc, che hanno fatto e fanno lievitare il PIL (Prodotto Interno Lordo) del nostro Paese verso l’alto: solo negli ultimi 100 anni in Italia ci sono state 7.000 alluvioni e 17.000 frane ed i costi stimati per l’emergenza sono di circa 25 miliardi di euro solo negli ultimi 25 anni. Se investire in prevenzione ha senso dal punto di vista per economico per uno Stato, lo ha ancora di più in termini globali di vite umane: solo nel 2012 sono state circa 9.500 le persone che in tutto il mondo hanno perso la vita a causa di catastrofi naturali (Fig. 4).
Figura 4. Disastri naturali nel mondo: costi e vittime (Fonte: ENEA, 2012)
Per ridurre al minimo il rischio di una possibile emergenza a seguito di un distratto naturale bisogna far in modo che prevenzione e manutenzione sistematica del territorio e del costruito diventino processi ordinari. Urge investire nel campo della prevenzione non solo “educando” le popolazioni, i tecnici e le Pubbliche Amministrazioni, ma è altresì necessario che ci sia una Legge di riferimento nazionale per i Disastri Naturali. Parliamo di una legge in grado di collegare urbanistica e sicurezza e che sia in grado di coordinare, attraverso un riordino e una semplificazione procedurale, la pianificazione territoriale ed urbanistica con i temi della prevenzione, dell’emergenza e della successiva pianificazione per la Ricostruzione prevedendo Piani e Programmi di Area Vasta che riescano a formare una “Rete di Città Sicure” oltre che “Intelligenti” ( Di Lodovico, Iagnemma, 2012).
2.1 | I costi della Ricostruzione post sismica in Italia dal Belice (1968) all’Emilia Romagna (2012) È interessante mettere a confronto i diversi costi di ricostruzione relativamente ai sette eventi sismici italiani più rilevanti degli ultimi anni: Belice, Friuli, Irpinia, Marche - Umbria, L’Aquila e l’Emilia – Romagna. Considerando sfollati, morti, i finanziamenti stanziati e il periodo di erogazione di quest’ultimi si può calcolare d’indice di spesa di ogni evento sismico come mostrato nella Tabella II.
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Tabella II. Gestione Dell’Emergenza: Costi degli eventi Sismici (Fonte: Elaborazione propria su dati del Dipartimento della Protezione Civile e della Presidenza del Consiglio dei Ministri 2012)
Come si evince dalla tabella suddetta i terremoti che hanno un maggior numero di sfollati sono quelli con indice di spesa più basso in quanto l’importo totale è maggiormente ripartito e il periodo di erogazione dei fondi è molto dilazionato, anzi in alcuni casi, come il Belice siamo sull’ordine di 50 anni. Ad accumunare inoltre i Paesi con indice di spesa minori è anche il Modello di Ricostruzione che risulta essere, nella maggior parte dei casi, caotico ed intrappolato in un sistema burocratico “all’italiana” ovvero confuso e fatto di troppe e sconclusionate norme e regole (L’Aquila oltre 1000 tra leggi, ordinanze e decreti in quattro anni, quasi una al giorno). Con riferimento a L’Aquila il risultato è una ricostruzione lenta, un territorio che lentamente muore e una città che finisce inesorabilmente vittima di un sistema di norme e piani che invece di favorire lo sviluppo e rilancio della stessa ne diventano la “prigione”.
3 | Quale Modello di Ricostruzione e Sviluppo: dall’Aquila a L’Emilia – Romagna Parliamo in questo paragrafo di Ricostruzione, ovvero di quella fase che entra in gioco subito dopo la fine di quella emergenziale e che dovrebbe provvedere al ripristino delle normali condizioni di vita della popolazione e, nel contempo, a migliorare tali condizioni attraverso azioni volte allo sviluppo dei territori coinvolti. A differenza della fase di emergenza, nella quale si procede con ordinanze, spesso in deroga alle normative vigenti e nel rispetto, comunque, dei principi generali dell’ordinamento giuridico, in questa fase si dovrebbe procedere con decreti legge e leggi delimitate all’ordinarietà. Le due fasi sono tuttavia fortemente connesse perché nella seconda vengono portate a termine molte azioni attivate nella prima. Tuttavia il “genio Italico” , nonostante i numeri eventi calamitosi a cui ha dovuto far fronte, non si è mai dotato di una un’unica e chiara legge. Di volte in volta, invece, si sono compiute scelte che hanno, nella maggior parte dei casi, procrastinato la soluzione del problema (si veda l’Irpinia). Anche se si è data una forma organizzativa alla Protezione Civile S.p.a. dotandola, forse, di troppo potere, non si è mai tentato creare un unico sistema delle conoscenze mettendo, per esempio, insieme tutte le esperienze nazionali e cercando di costruire un’agenda strategica basta su obiettivi da perseguire attraverso un univoco modello di gestione territoriale. Esaminando la gestione degli ultimi due eventi sismici che hanno interessato la nostra Penisola (Abruzzo 2009, Emilia – Romagna 2012), ci si accorge che, rispetto al modello farraginoso abruzzese, in Emilia Romagna si è tentato di costruire un modello per la ricostruzione molto più semplificato che va comunque perfezionato e limato. È interessante quindi mettere a confronto i due modelli per cercare di prendere il buono e mettere in evidenza le criticità di entrambi.
3.1 | Il Modello Aquilano della L. 77/2009 La fase emergenziale causata dal sisma del 6 aprile 2009 che ha colpito L’Aquila e l’intero Cratere Sismico (composto da altri 56 comuni) è stata affrontata, sul piano normativo, con il Decreto Legge 28 aprile 2009, n. 39, convertito in legge 24 giugno 2009 n. 77 e, sulla scorta di tale decreto legge, con numerose ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri nonché con decreti e circolari del Commissario delegato (Fig. 5).
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Il tutto, poi, è stato gestito nel segno di un’evidente e prolungata straordinarietà (durata ben 3 anni e mezzo), di una tendenziale commistione tra funzioni normative e funzioni amministrative, nel quadro di un forte accentramento dei poteri sul Dipartimento della protezione civile e sul Commissario delegato ovvero il Presidente della Regione Abruzzo e sulla sua Struttura Tecnica di Missione ( Cacace, 2012).
Figura 5. Gestione del Post Terremoto: Strumenti di Attuazione (Fonte: CDR – Presidente della Regione Abruzzo)
In coerenza con al legge suddetta la STM (Struttura Tecnica di Missione) ha definito un sistema di governo della ricostruzione basato su un impianto di indirizzi, norme e procedure molto articolato (Fig. 6), ignorando l’intero sistema di pianificazione in essere ed in itinere come il nuovo PRP2 e il suo Quadro Conoscitivo (CLeP3) e soprattutto dal ddl “Norme d’uso del suolo” all’esame del Consiglio Regionale4 (Properzi, 2011). Questa assenza di relazioni con il sistema di pianificazione ordinaria ha prodotto un’esperienza negativa della governance della Ricostruzione che ha visto un blocco della stessa proprio a causa della conflittualità e della inadeguatezza delle strutture operative. Non si può infatti praticare una vera governante interistituzionale in mancanza di strutture tecniche sufficientemente strutturate e capaci di predisporre il tavolo della discussione, in quanto non colloquianti tra di loro su un piano collaborativo e in assenza di una struttura di copianificazione (Properzi, 2012). Oltre ad una gestione lunga ed obsoleta della fase emergenziale la L. 77/2009 ha confuso la Ricostruzione della Città con la Ri-pianificazione e con lo sviluppo economico, all’interno di un unico strumento di cui non ha definito finalità e contenuti. Stiamo Parlando del Piano di Ricostruzione (PdR) strumento di RipianificazioneRicostruzione ch’è stato contemporaneamente caricato di due funzioni: una strategica di programmazione e una attuativa ovvero di pianificazione. Sembra che in questa inutile diatriba, che si sia perso il filo conduttore della ricostruzione e il ruolo di piano di attuazione dei PdR così come prevedeva la “vecchia” L. 1402/51 (PdR = Piano Particolareggiato con validità decennale). Il risultato è una Ricostruzione fatte di tante “buone intenzioni” riportate negli schemi di assetto generali fatti di progetti pubblici e privati frammentati. Il PdR sembra aver perso la sua natura di Piano Particolareggiato, ovvero di piano attuativo in grado di tradurre gli schemi in azioni concrete di ricostruzione, di riqualificazione, di recupero e di sviluppo ed in particolare di intervento strutturale sulla sicurezza insediativa generale (Di Lodovico, Iagnemma, 2012). Con la L. 134/2012 sono cambiati gli strumenti e le modalità: con l’ 67 quater i “Programmi integrati” (Fig. 7) . Questi Programmi ( che già esistono ma con contenuti molto specifici nella legislazione vigente, L. 179/’92 e D.M. LLPP. 1998) sono strumenti urbanistici attuativi ma con indicazioni programmatiche e di progetto, permettono infatti azioni che al tempo stesso siano si riqualificazione - ricostruzione e sostenibilità ( economica, sociale, ambientale) attraverso la compresenza di più attori e forme di finanziamento (pubbliche e private). I Piani di Ricostruzione, oggi in gran parte già affidati ed elaborati, vengono considerati inutili della nuova legge 2
PRP: Piano Regionale Paesaggistico CLeP: Carta dei Luoghi e Paesaggi, Quadro Conoscitivo della Regione Abruzzo (DdLR 202/2006) 4 Del G.R. n. 380/c del 21 luglio 2009 “Norme in materia di pianificazione per il governo del Territorio 3
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tanto che se non vengono non succede nulla, ma che, se per caso fossero stati fatti, non hanno comunque valore “urbanistico”, cioè non servono a nulla. Ricostruire attraverso Programmi Integrati dovrebbe aiutare coordinare e definire interventi pubblici e privati con l’obiettivo di miglioramento dell'assetto e della qualità del territorio.
Figura 6. Sistema Pianificazione e Attivita STM (Fonte: Properzi/Mantini PTCP)
3.2 | Il Modello di Ricostruzione dell’Emilia – Romagna La L. 16/2012 è legge di riferimento per la ricostruzione a seguito del sisma del 20 e 29 maggio 2012 che ha colpito l’Emilia Romagna. A differenza della L.77/2009, la legge suddetta snellisce il processo di ricostruzione e contemporaneamente costruire un modello di sviluppo e prevenzione per il territorio. Facendo tesoro dei modelli di ricostruzione applicati in Friuli e nel più recente terremoto che ha visto coinvolte l’Umbria e le Marche, e cercando si superare il precedente modello, si opera per UMI (unità Minime d’Intervento) e, in particolare, si è dato ai Comuni il solo compito di individuare le priorità negli interventi per assicurare il rapido rientro della popolazione nelle loro abitazioni e, soprattutto, la ripresa delle attività economica. Le Amministrazioni cittadine, quindi, non programmano nel tempo l’attuazione degli interventi privati. In particolare con l’art. 12 si introducono si i Piani di Ricostruzione (facoltativi) i cui compiti sono quelli di tutela dell’edilizia storica e di modifica delle previsioni e della normativa della pianificazione vigente in modo da facilitare da un lato la ricostruzione, e dall’altro di riqualificare e migliorare i livelli di sicurezza del patrimonio edilizio esistente.
Figura 7. Novità della L. 134/2012 (Fonte: Elaborazione propria)
Tale Piano può regolamentare il territorio anche al di fuori delle aree più pesantemente colpite, in modo da creare un reale modello di sviluppo e prevenzione del territorio. A differenza dell’Aquila, la copertura per la ricostruzione degli immobili danneggiati (il 36% del totale degli immobili presenti nell’area ha subito danni, mentre a L’Aquila gli immobili danneggiati sono il ) si assesta sui dal sisma in Emilia – Romagna è del 100% come riportato anche nelle Ordinanze n. 29, 51 e 89 del 2012 (abitazioni) n.14 e 15 del 2013 (Imprese). Saltando tutta la filiera messa in piedi per L’Aquila dalla STM la procedura di rilascio del contributo viene semplificata con la creazione di due piattaforme informatiche: Sfinge e Mude (Modello unico digitale per l’edilizia). I risultati di queste azioni? Ad oggi, quindi a poco meno di anno Luana Di Lodovico
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dal terremoto, sono state esaminate 987 pratiche (attraverso il Mude) e 309 sono in fase di approvazione da parte di Comuni. Non solo, 167 sono i quali le procedure già depositate presso gli istituti bancari i quali attendono solo la fatturazione dei lavori per eseguire i pagamenti (parliamo di circa 6,8 milioni di euro). Queste ultime procedure riguardano 1320 unità abitative e 2316 persone. Le richieste di contributo presentare dalle imprese sono 25 per una cifra complessiva di 11,4 milioni di euro, Tutto questo mentre a L’Aquila la ricostruzione rischia di bloccarsi per l’ennesima volta a causa della mancanza di copertura finanziaria.
4 | Una Legge Quadro mai approvata Esiste, per onor di cronaca,un testo di legge quadro sulle calamità naturali, presentato alla Camera il 21 febbraio 2011 ma che non è mai stato approvato dal Parlamento. Nel marzo 2011, presso la Commissione VIII della Camera (Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici) si sono tenute diverse audizioni invitando quasi tutti gli attori interessati (compresa la Protezione Civile) tranne la Regione Abruzzo, il cui presidente era anche il Commissario Delegato per la Ricostruzione. Tutti si pronunciarono a favore di tale legge voluta fortemente dai tutti i cittadini italiani, non solo aquilani, e per la quale si erano raccolti per sei mesi milioni di firme (da novembre 2010 a maggio 2011). Tuttavia le vicissitudini del Governo Italiano hanno fatto sì che, mentre la discussione in aula di questo disegno di legge fosse più e più volte rimandato, nel nostro Paese ci sono stati altri eventi calamitosi: le alluvioni in Sicilia, Campania e Liguria, il Terremoto in Emilia – Romagna, avvenimenti che hanno provocato danni ingenti a territori e popolazioni interessati. Qual è l’obiettivo principale che si propone la Legge Quadro? Oltre a garantire norme certe, risorse finanziare e strumenti per la Ricostruzione nei Comuni del Cratere Aquilano colpiti dal Sisma del 6 aprile 2009, l’obiettivo cardine che si prefigge il disegno di legge è quello di creare un modello che dia certezza e metodo, e che sia replicabile ed attuabile in tutti i territori colpiti da calamità naturali. Una legge sicuramente da rivedere e migliorare in grado però di: • stabilire strumenti certi; • misure finanziarie certe ed atte a garantire la ripresa economica delle zone colpite; • copertura dei finanziamenti perla ricostruzione del patrimonio edilizio pubblico e privato; • adozione di misure ordinarie e non commissariali; • istituzione di un Osservatorio sulla Ricostruzione • adozione di misure di prevenzione. Bisogna garantire che lo stato di emergenza sia davvero transitorio e sostituito, in tempi relativamente brevi, da strumenti di natura ordinaria. Bisogna evitare il “Modello L’Aquila” dove, a quasi quattro anni dal sisma, nonostante anche tutte le attività portate avanti dall’INU5 e soprattutto dal LAURAq6 (Manifesto Urbanisti, Workshop, Atelier, intesa con Comune di L’Aquila per l’istituzione dell’Urban Center e dell’archivio della Ricostruzione, etc) la Ricostruzione è ancora affrontata con OPCM perché, paradossalmente, una legge speciale non c’è!
5 | L’Agenda Strategica: il punto di Partenza per una Legge Nazionale Il punto di partenza oggi per la definizione di una Legge Nazionale per i disastri naturali che possa essere da garanzia per un costruire un modello di gestione e sviluppo (del territorio) è la costruzione di un’Agenda Strategica rispetto alla quale ordinare la prossima attività legislativa nazionale e regionale. Analizzando, infatti, il vasto e complesso sistema normativo nato a seguito dei vari eventi calamitosi, le criticità dei vari modelli di ricostruzione si possono individuare priorità ed obiettivi generali da inserire nella Legge. In questo modo è possibile garantire delle prestazioni elevate e certe per uno schema di governo territoriale che nello stesso tempo sia applicabile anche nelle fasi di emergenza e ricostruzione. Sei sono le tematiche fondamentali: 1. La Prevenzione come processo nei Piani urbanistici ordinari: - Schedatura del patrimonio edilizio pubblico e privato con fattori di criticità sismica; - Prevenzione attraverso sostituzione edilizia programmata; - Obbligo Relazione su impatto della microzonazione nelle scelte del Piano; - Normativa di attuazione con specifiche indicazioni su tecniche e metodi di intervento; - Coerenza con Piano Protezione Civile / PEC. 2. Le Procedure dell’Emergenza attraverso indirizzi che permettano di scongiurare quanto è accaduto a L’Aquila: 5 6
INU: Istituto Nazionale di Urbanistica (http://www.inu.it/) LaURAq: Laboratorio Urbanistico per la Ricostruzione de L’Aquila – nato da un’iniziativa dell’Istituto Nazionale Urbanistica (INU) e dell’ Associazione Nazionale Centri Storici Artistici (ANCSA) (http://www.laboratoriourbanisticoaquila.eu/)
Luana Di Lodovico
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- Evitare strumenti straordinari (PdR); - Strumenti specifici previsti nelle leggi regionali, - Aggiornamento speditivo del Piano Urbanistico a seguito del sisma; - Delocalizzazione degli edifici strategici solo provvisoria (evitare duplicazioni); - L’uso di strutture stabili per l’emergenza deve essere previsto nei Piani in zona sismica 1; - Individuare aree per il trattamento delle macerie. La Ri – pianificazione Ordinaria a fronte sia della Prevenzione che dell’Emergenza, che della Ricostruzione attraverso: - Piani che contengono elementi di Prevenzione (lettura del danno sismico e della sua evoluzione storica nei tessuti urbani) e Precauzione (Prevedere aree per edilizia per le fasi emergenziali) - Piani che contengono strategie allineate con il Piano Strategico Regionale (Area Vasta); - Strumenti generali “speditivi “; - Strumenti Regolativi “per parti”; - La correlazione tra storia della formazione dei tessuti urbani e definizione degli aggregati di intervento Le Procedure Ordinarie/Straordinarie e Sostitutive: - Definizione dei Limiti dell’azione Commissariale; - La Governance e i Poteri sostitutivi dei Sindaci; - Il Ruolo dello Stato (Legge Generale + Trasferimenti parametrici + Controllo in opera); - Separare le Decisioni nell’Emergenza dalle Decisioni per la Ricostruzione; - Le Strutture di Valutazione dei Progetti e dei Piani; - Gli Indicatori di Sostenibilità e di Coerenza (Quadri conoscitivi regionali con specifico riferimento a Rischi e Valori in area sismica 1). La Parametrizzazione dei Costi della Ricostruzione come base per Ricostruzione veloce : - Costi base e Criteri di Incremento; - Intese MIBAC/Comuni; - Rapporto Contributi – fiscalità. Le Procedure di esame e di approvazione dei Progetti di Ricostruzione: - Utilizzo di Costi parametrici che permettono di semplificare l’iter approvativo; - Controllo in opera (utilizzando gli stessi fondi che a L’Aquila sono stata elargiti alla FINTECNA); - Autocertificazione da parte del progettista che comporta l’assunzione di responsabilità da parte di quest’ultimi sui progetti (gli ordini possono avere il ruolo di controllore).
Partendo da questi sei punti si può arrivare ad un modello che sia facilmente replicabile che permetta di assicurare una buona organizzazione dell’emergenza e contestualmente prevenire i danni al patrimonio edilizio e garantire uno sviluppo sostenibile e di qualità per il tutto il territorio nazionale. Certo una Legge da sola non potrà controllare un evento calamitoso, ma potrà essere la base di ripartenza per un territorio duramente colpito, e fungendo, allo stesso tempo, da strumento di prevenzione per calamità future, in quanto dovrà far tendere a zero il danno che una città potrà subire e garantire un buon livello di sicurezza per i suoi abitanti.
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Luana Di Lodovico
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La tutela dell’architettura rurale come forma di sviluppo del territorio. Rigenerare il paesaggio agrario flegreo attraverso la conservazione e valorizzazione del sistema delle masserie.
La tutela dell’architettura rurale come forma di sviluppo del territorio. Rigenerare il paesaggio agrario flegreo attraverso la conservazione e valorizzazione del sistema delle masserie Maria Falcone Università degli studi di Napoli ‘Federico II’ Dipartimento di Architettura Email: maria.falcone@unina.it Tel: 338.8473071
Abstract Come in altre aree geografiche di grande valenza paesaggistica, il sistema delle masserie dei Campi Flegrei può divenire il motore di una possibile crescita, che, a partire dalla tutela, possa condurre ad una rigenerazione culturale e sociale e stimolare iniziative imprenditoriali legate alle vocazioni storiche del luogo. Nel corso degli ultimi anni sono state introdotte innovazioni normative e avviati numerosi progetti e programmi di valorizzazione e salvaguardia dei valori ambientali, culturali, storico-archeologici, architettonici e folcloristici del territorio flegreo. Tali iniziative necessitano di una profonda conoscenza del contesto e di un censimento delle emergenze architettoniche presenti, al fine di individuare strategie e strumenti direttamente operanti tanto sul paesaggio quanto sul patrimonio costruito che non si limitino alla sola tutela, ma che possano condurre ad una oculata gestione delle risorse materiali presenti sul territorio, nel pieno rispetto dei valori di cui sono portatrici. Parole chiave architettura rurale, tutela, campi flegrei L’indagine sul patrimonio dell’architettura rurale, al fine di indagarne le problematiche di conservazione e tutela, può essere facilmente ricondotta al più ampio discorso sulla tutela del patrimonio ambientale e paesaggistico spontaneo, che già negli anni ’30 vedeva il fiorire dei primi studi specialistici di settore. L’interesse nei confronti del fenomeno insediativo spontaneo rurale sta nell’ormai riconosciuta coralità insediativa e morfologica, portatrice di valori, tradizioni, saperi e particolari caratteristiche figurative e architettoniche, facenti parte del genius loci di un dato luogo, e tragicamente in via di estinzione. Attualmente si assiste ad un rinnovato interesse per le tecniche e le forme dell’edilizia spontanea, indotto dal tentativo, a carattere comunitario, nazionale e locale, di operare una più matura e consapevole tutela di tale patrimonio costruito e del contesto ambientale di cui fa parte, tramite l’emanazione di una normativa specifica. Dalla legge 378/2003 recante «disposizioni per la tutela e la valorizzazione dell’architettura rurale», alle specifiche prescrizioni contenute nella normativa regionale di settore, tra cui la Legge della Regione Campania n°22 del 2006, che ha il compito di recepire e definire il campo della tutela e degli interventi previsti per una idonea conservazione dei manufatti, tale corpus normativo ha favorito l’interesse verso un’architettura spesso dimenticata e oggetto di quotidiane manomissioni. Le disposizioni per una valorizzazione di tale patrimonio costruito, l’individuazione delle tipologie ricorrenti sul territorio nazionale e regionale, l’individuazione degli interventi ammissibili a contributi economici e le numerose iniziative legislative in tal senso rappresentano un importante passo in avanti verso la conoscenza, la conservazione integrata e, di conseguenza, verso l’individuazione di nuove destinazioni d’uso compatibili di tanta architettura ormai allo stato di rudere che costituisce, tuttavia, parte integrante dell’immagine del paesaggio agrario italiano. Il paesaggio agrario flegreo, in particolare, è caratterizzato da uno sviluppo urbano e territoriale che è la diretta conseguenza della complessità delle vicende storiche del luogo, che hanno dato vita, nei secoli, a organismi di architettura spontanea costituiti da stratificazioni storiche strettamente interrelate tra loro e con l’ambiente Maria Falcone
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La tutela dell’architettura rurale come forma di sviluppo del territorio. Rigenerare il paesaggio agrario flegreo attraverso la conservazione e valorizzazione del sistema delle masserie.
circostante. Quest’ultimo presenta, dunque, un incrocio di valenze naturalistiche e culturali di particolare interesse: la natura vulcanica dei luoghi e la loro particolare conformazione geomorfologica (Mazzoleni, Di Gennaro, Ricciardi, Filesi, Motti, Migliozzi, 2001: 3), la fertilità delle campagne dell’entroterra e la facilità nel reperimento di materiali da costruzione di qualità hanno favorito l’insediamento umano e con esso la graduale trasformazione dell’ambiente in 'paesaggio antropizzato' e, quindi, in 'paesaggio agrario'. Ancora oggi la fertilità del territorio consente il perpetrarsi delle coltivazioni tradizionali, tra cui alcune apprezzate qualità di vitigni (Escalona, s. d.). L’ambito territoriale approfondito in questa sede, il paesaggio agricolo dell’entroterra, è in realtà l’aspetto meno conosciuto dell’ambiente flegreo. Le sue corone montuose, evidenti testimonianze di antichi crateri vulcanici, nei secoli sono state abilmente plasmate dalla mano dell’uomo tramite il sistema dei terrazzamenti e adattate alle coltivazioni di viti. Le fertili pianure in esse circoscritte hanno rappresentato, fin dall’epoca imperiale romana, l’approvvigionamento di risorse alimentari per le grandi città del circondario: Pozzuoli prima e Napoli dopo (Annecchino, 1996). In età romana, infatti, tale territorio agricolo era in stretta comunicazione con le grandi metropoli del mondo classico attraverso alcune importanti vie di comunicazione quali la via Consularis Puteolis-Capuam e la Puteolis Neapolim per colles1, che lo solcavano creando una fitta rete viaria, lungo la quale nei secoli successivi sono sorti i primi nuclei abitati dei futuri casali del regno di Napoli e, a partire dall’età moderna (intorno ai secoli XVII-XVIII), le 'masserie', strutture architettoniche anche complesse intorno a cui gravitava un vasto territorio coltivato. Il paesaggio è stato, quindi, 'umanizzato' grazie alla trasformazione avvenuta già in tarda età repubblicana, operata tramite le centuriazioni e la diffusione delle villae rusticae, vere e proprie aziende agricole, e ha cominciato col tempo ad assumere l’aspetto di una città continua (AA.VV., s. d. b: 24 - 54). Il territorio in esame, in epoca romana, ricalcava, dunque, senza soluzione di continuità, la vicina Leboriae Terrae, il cui confine meridionale, secondo Plinio il Vecchio, coincideva proprio con il tratto di strada che «da Puteoli e da Cuma conduce a Capua» (Amalfitano, Camodeca, Medri, 1990)2, cioè con la via Consularis Puteolis-Capuam, attuale via Campana. L’ipotesi di un intensivo sfruttamento agricolo del luogo sia in epoca classica che nei periodi successivi giustifica la cospicua presenza di cisternae e pozzi per la captazione dell’acqua, scavati nei banchi tufacei, e la cospicua presenza di resti di magazzini agricoli. Il paesaggio dell’entroterra flegreo ha, quindi, codificato nei secoli il proprio aspetto grazie alle coltivazioni, alle tecniche colturali impiegate e all’urbanizzazione rurale diffusa innestatasi sui resti di età classica sopra citati, assumendo nel corso dei secoli una morfologia caratteristica (Sereni, 1961). La Mappa Topografica della città di Napoli e de’ suoi contorni (Duca di Noja, 1775), la Topografia dell'agro napoletano con le sue adiacenze (Rizzi Zannoni, 1793) e, ancor di più, la Carta topografica ed idrografica dei contorni di Napoli (Regio Officio Topografico, 1817 - 19) restituiscono un’immagine chiara della situazione planimetrica tra i secoli XVIII e XIX. In quest’ultima, i Campi Flegrei appaiono nella loro complessità orografica, fatta di laghi e crateri, ed è evidente il sistema delle masserie alle spalle delle città di Napoli e Pozzuoli. Il territorio appare come un unico grande giardino coltivato scandito solo da arterie viarie (Fig.1). Attualmente la Consularis dei romani, coincide con la Via Campana passante per i comuni di Quarto e Pozzuoli mentre parte della Neapolim-Puteolis per colles si è trasformata nella Via Montagna Spaccata3 passante per Pianura, Pisani e Soccavo, nel comune di Napoli. Questi luoghi sono stati recentemente inseriti in numerosi progetti e programmi di valorizzazione e salvaguardia dei valori ambientali, culturali, storico-archeologici, architettonici e folcloristici del territorio flegreo. Il Progetto Integrato Grande Attrattore Culturale Campi Flegrei4, attuato con fondi del Programma Operativo Regionale Campania 2000-2006, il cui obiettivo è stato lo sviluppo di un sistema turistico culturale ed ambientale strettamente collegato al grande patrimonio esistente (AA. VV., s. d.a), ha avuto il merito di portare a compimento numerosi interventi di restauro e valorizzazione dei beni culturali presenti nell’ambito del Parco Regionale dei Campi Flegrei e di mirare alla realizzazione di un Grande Itinerario di visita architettonico-archeologico-paesistico di valenza internazionale, chiamato 'RE-TOUR dei Campi Flegrei'. 1
Per l’andamento della Puteolis Neapolim per colles si veda: Johannowsky W. (1952), Pianta della viabilità antica. Su tale andamento ci sono, tuttavia, opinioni discordanti: Lepore E. (1967), Napoli greco-romana. La vita politica e sociale, in AA. VV., Storia di Napoli, vol°1, s. n., Napoli, pp. 141-371; Napoli M. (Rist., 1996), Napoli greco-romana, Colonnese, Napoli. Per l’andamento della Consularis Puteolis-Capuam, è utile la Pianta archeologica del Comune di Quarto Flegreo redatta dal Gruppo Archeologico Napoletano in: Gruppo Archeologico Napoletano (1980), Quarto Flegreo, Napoli, s. n., s. l.; e anche Amalfitano P., Camodeca G., Medri M. (1990), I Campi Flegrei: un itinerario archeologico, Marsilio, Venezia. 2 La citazione del Camodeca si riferisce a: Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, 18. 111. 3 La 'Montagna Spaccata', taglio nella roccia per consentire il transito nella piana di Quarto, rappresenta ancora oggi l’ingresso al comune di Quarto lungo la via Campana. L’appellativo è divenuto il nome della strada che dalla 'montagna spaccata', appunto, conduce verso le zone di Pianura e Soccavo. L’opera rappresenta una delle massime imprese dell’ingegneria stradale realizzate alla fine del I sec. a.C., probabilmente da Lucio Cocceio Aucto, autore, tra le altre cose, del Portus Iulius e della Crypta Neapolitana. 4 Nella forma programmatica del PIT: Progetto Integrato Territoriale e nell’ambito del Parco Regionale dei Campi Flegrei. Maria Falcone
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Figura 1. Regio Officio Topografico (1817-19), Carta topografica ed idrografica dei contorni di Napoli, Napoli; particolare della zona di Quarto.
Una delle azioni previste dal Progetto, non ancora portata a compimento, è la valorizzazione del Parco Archeologico di Quarto, comprendente anche la Mansio ad Quartum o Masseria Crisci, edificio agricolo del I-II sec. d. C. poi inglobato in una masseria a partire dal secolo XVIII (Falcone, 2012a). Si tratta, dunque, di un mirabile esempio di quanto sopra descritto: sui resti di una preesistenza archeologica con originarie funzioni agricole, si è sviluppato nei secoli successivi il nucleo di una masseria, in perfetta continuità con la funzione originaria. Il progetto di salvaguardia dell’edificio, sottoposto a vincolo archeologico ma di proprietà privata ed ancora abitato, si è purtroppo scontrato con le attuali dinamiche abitative, senza pervenire ad una soluzione idonea sia per gli interessi pubblici che privati (Fig.2).
Figura 2. Quarto, Masseria Crisci (foto Maria Falcone 2008): prospetto su Corso Italia.
Anche l’aspetto turistico-ricettivo ed enogastronomico, inoltre, ha avuto e continua ad avere grande importanza strategica nell’incentivazione del RE-TOUR: l’evento Strade del Vino dei Campi Flegrei, la creazione di un Maria Falcone
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sistema di 'ecomusei', agriturismi e il cosiddetto 'albergo diffuso' sono tutte azioni per lo sviluppo sostenibile e la crescita del territorio a partire dalle sue principali vocazioni. Gli obiettivi descritti, uniti ad incentivi pubblici, potrebbero certamente dare nuova vita ad un sistema di costruzioni rurali, talvolta in evidente stato di abbandono, che costituiscono un elemento fondamentale del paesaggio flegreo, ma che rischiano la cancellazione poiché di proprietà privata e non ancora sottoposti a vincolo architettonico diretto. Sul versante napoletano le strategie di salvaguardia sono completate nel Parco metropolitano delle Colline di Napoli (Fig. 3), istituito nel 2004 dalla Regione Campania per la salvaguardia del patrimonio rurale e boschivo delle colline napoletane, sulla base delle indicazioni della Variante Generale del Piano Regolatore Generale di Napoli approvata nello stesso anno. Il parco ha il compito di «individuare le componenti strutturanti la conformazione del territorio, proteggerne l’identità e l’integrità fisica, di identificarne i valori anche nell’uso del suolo, elaborandone la disciplina», ridonando così «unità e continuità al paesaggio» (AA. VV., s. d. c). Il recupero delle masserie come strutture ricettive o, per quanto ancora possibile, come aziende agricole è un importante obiettivo che è stato in parte raggiunto nell’ambito delle Masserie di Chiaiano, favorendo e incentivando le coltivazioni tradizionali della zona, tra cui le pregiate ciliegie di varietà ‘a Recca (dal nome della collina d’origine) anche grazie all’organizzazione dell’annuale sagra. Nel 2005, inoltre, è stato varato il progetto Hortus Conclusus, con lo scopo di garantire prodotti di qualità e creare un rapporto di fiducia tra cittadino e azienda agricola, offrendo la possibilità di fare la spesa direttamente in fattoria. Iniziative di questo tipo si pongono in continuità con la storia, le tradizioni e vocazioni secolari del territorio, favorendo la riscoperta di usi e costumi, incentivando il settore turistico e del tempo libero, senza snaturare la natura dei luoghi.
Figura 3. Parco Regionale Metropolitano delle Colline di Napoli, Perimetrazione e articolazione zonale provvisoria del parco metropolitano delle colline di Napoli, 2004.
I due parchi sopra citati si giustappongono proprio nelle aree di Pianura, Pisani e Soccavo, nelle quali, tuttavia, non è stata posta molta attenzione al sistema di masserie, talune ancora sede di vitigni (vino piedirosso) e varietà di frutta (mela annurca) autoctoni. Qui, in molti casi, il territorio agricolo che circondava la masseria è stato lottizzato, divenendo preda della speculazione edilizia. E’ il caso della Masseria S. Lorenzo a Pianura (Falcone, 2012b), che sorge in prossimità della via Montagna Spaccata: l’edificio, di origine gesuita, venne trasformato, dopo la seconda metà del XVIII secolo, in residenza di campagna di un nobile napoletano. Il vasto territorio agricolo che lo circondava è stato, nel tempo, lottizzato e sostituito da edilizia di recente costruzione e la masseria stessa, passata in proprietà agli eredi dei coloni dell’originario fondo rurale, è stata parcellizzata: il gran
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La tutela dell’architettura rurale come forma di sviluppo del territorio. Rigenerare il paesaggio agrario flegreo attraverso la conservazione e valorizzazione del sistema delle masserie.
numero dei proprietari ha forse impedito la definitiva distruzione del bene, lasciato a rudere e soggetto ad un graduale disfacimento, ma ancora latore di valori figurativi, spaziali e materiali5 (Fig.4 - 5). Entrambi i parchi sono divenuti, di recente, soggetti attivi dei progetti PIRAP (Progetti Integrati Rurali per le Aree Protette), messi in atto in seguito alla creazione del Programma di Sviluppo Rurale della Regione Campania, sottoscritto il 22 ottobre del 2009. Il programma prevede le realizzazione, mediante forme di partenariato pubblico-privato, di progetti che possano favorire uno sviluppo sostenibile del territorio agricolo, nel rispetto delle sue molteplici valenze. Il finanziamento pubblico di tali progetti, pertanto, è successivo ad una preventiva valutazione del livello di adeguamento della dotazione infrastrutturale e della compatibilità con gli obiettivi di conservazione, tutela e valorizzazione delle risorse storico-culturali, ambientali e paesaggistiche prescritte dai vigenti strumenti urbanistici. L’architettura rurale spontanea è un elemento fortemente caratterizzante il paesaggio agrario oggetto di tali tentativi di valorizzazione, fa parte integrante dell’immagine della campagna napoletana consolidata nella coscienza individuale (Pane, 1961), pertanto ogni tentativo di salvaguardia dovrebbe passare attraverso la conoscenza dei valori intrinseci del territorio, che non sono solo quelli naturalistici o archeologici, ma anche quelli della tradizione contadina, di cui tali espressioni architettoniche sono l’essenza stessa. La formazione di un inventario dell’architettura rurale ancora esistente, sopravvissuta alle devastazioni che l’espansione edilizia incontrollata e l’abusivismo hanno perpetrato con ritmo crescente sul territorio negli ultimi decenni, costituisce il primo passo verso la tutela di un patrimonio di saperi e tecniche costruttive tradizionali da salvaguardare. A causa del notevole incremento della popolazione residente, non più discendente di quel mondo di valori e tradizioni e, quindi, estranea al significato psicologico e al valore figurativo di tale architettura rurale (Lynch, 1964), origini e testimonianze materiali della civiltà contadina stanno progressivamente scomparendo a favore di una urbanizzazione diffusa di scarsa qualità architettonica, che finisce con lo stravolgere ed appiattire l’identità del luogo. Per tale motivo, una catalogazione sistematica delle emergenze architettoniche della tradizione vernacolare è uno strumento indispensabile per porre a buon fine le azioni di rivalutazione, valorizzazione e salvaguardia alle quali si è accennato sopra, che mostrano di non avere ancora del tutto delineato il quadro complessivo delle risorse materiali presenti sul territorio. Non può essere tutelato ciò che non si conosce o di cui si ignora addirittura l’esistenza. Il potenziale dell’architettura rurale è ormai noto agli addetti ai lavori nel suo valore di testimonianza storica di una identità culturale contadina e di una cultura materiale contadina secolare, ormai in via d’esaurimento. Tuttavia una possibile azione di valorizzazione di tale patrimonio architettonico e paesaggistico è attuabile solo tramite la diffusione della sua conoscenza ai non addetti ai lavori, affinché possano apprezzare l’ambiente rurale in ogni sua valenza, naturalistica, produttiva, architettonica. A tale scopo, nelle aree indagate, cioè nei quartieri napoletani di Pianura e Soccavo e nel limitrofo comune di Quarto, sono state censite dalla sottoscritta, nel 20076, un certo numero di masserie ed edifici rurali con l’ausilio della cartografia storica, confrontata di continuo con il dato materiale presente, e tramite le preziose indicazioni fornite dai testi di riferimento sulla storia del territorio e dalle fonti archivistiche. Questa operazione ha consentito la compilazione di un inventario, con schede puntuali e planimetria di riferimento, per ogni ambito territoriale studiato, individuando 25 edifici rurali nella piana di Quarto, 23 nei crateri di Pianura e Pisani, e 10 nel cratere di Soccavo. Alcuni di questi, allo stato di rudere, hanno conservato ancora i segni visibili della propria origine ed evoluzione storica, di altri è rimasta solo una debole traccia tipologica o morfologica a causa dei pesanti rimaneggiamenti subiti a causa dell’espansione urbana degli ultimi decenni, di altri ancora si conserva traccia solo nella memoria collettiva degli abitanti del luogo o nel dato toponomastico. Il forno, la cappella7, il cellaio o palmento8, la cisterna, la corte, l’aia sono gli elementi tipici ricorrenti in questo tipo di costruzione rurale, mentre le tipologie planimetriche principali sono riconducibili a poche varianti aggregative e le tecniche costruttive sono quelle della tradizione partenopea, derivanti da uso sapiente dei materiali locali quali tufo, piperno estratto nelle cave di Soccavo e Pianura, legno di castagno e pozzolana; anche il resto archeologico, utilizzato come fondazione o nucleo centrale delle nuove costruzioni rurali, diviene
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Le ricerche svolte dalla sottoscritta hanno contribuito alla emanazione del Decreto di dichiarazione di interesse culturale n°1011, da parte del Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Campania, in data 22 aprile 2011, ai sensi dell’articolo 10 del D. L.vo 42/2004. 6 Tale studio è stato affrontato durante la stesura della tesi di dottorato in Conservazione dei Beni Architettonici, XXII ciclo, svolta presso l’Università degli studi di Napoli Federico II, tutor prof. Arch. Renata Picone, dal titolo: L’architettura rurale nell’entroterra flegreo: dalle villae rusticae alle masserie. Problemi di tutela e conservazione. 7 Numerose masserie rivelano al loro interno la presenza di una cappella, costruita in genere per volere del monastero a cui inizialmente apparteneva la proprietà del fondo rustico. 8 Il palmento era un cellaio destinato alla lavorazione delle uve per la fabbricazione del vino. Maria Falcone
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La tutela dell’architettura rurale come forma di sviluppo del territorio. Rigenerare il paesaggio agrario flegreo attraverso la conservazione e valorizzazione del sistema delle masserie.
elemento ricorrente, palesandosi nei paramenti in opus reticulatum e listatum, ascrivibili al I-II sec. d. C. 9, e facendo rivivere la suggestione ed il mito dei Campi Flegrei.
Figura 4. Napoli, Masseria S. Lorenzo (foto M. Falcone 2008): prospetto sulla corte interna.
Figura 5. Napoli, Masseria S. Lorenzo (foto M. Falcone 2008): scala a lumaca di accesso al piano nobile.
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Il censimento dei resti archeologici presenti nel comune di Quarto è riportato sulla Carta Archeologica del Comune di Quarto, redatta a cura del Gruppo Archeologico Napoletano (Gruppo Archeologico Napoletano, 1980).
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La tutela dell’architettura rurale come forma di sviluppo del territorio. Rigenerare il paesaggio agrario flegreo attraverso la conservazione e valorizzazione del sistema delle masserie.
Le recenti legiferazioni in materia di tutela del patrimonio rurale hanno ricondotto all’attenzione degli addetti ai lavori la controversa questione delle scelte metodologiche per una corretta conservazione di questi manufatti architettonici, in base alle specificità insite nella loro consistenza materiale e conformazione tipologica e morfologica. Nel corso degli ultimi decenni c’è stato un graduale ma fondamentale superamento dell’iniziale concetto di paesaggio, contenuto nella legge 1497 del 1939 ormai confluita nel codice Urbani, legato a valutazioni meramente estetiche; tale concezione vedutistica ed artistica dell’ambiente ha condotto nel tempo ad una cristallizzazione di determinati valori pittorici identificati in uno scorcio panoramico piuttosto che in un altro, creando una situazione di stasi nella tutela paesistica del territorio con il rischio latente di una conservazione assolutamente soggettiva ed arbitraria (La Regina, 1980: 89). Gli orientamenti attuali della tutela tendono invece a considerare il paesaggio non come mera esperienza estetica ed emozionale legata ad un inesistente concetto di naturalità, ma il risultato di una secolare antropizzazione che ha modificato tanto il volto dell’ambiente urbano quanto quello dell’ambiente rurale, definendoli entrambi territorio urbanizzato (Gurrieri, 1983); il paesaggio è inteso come «integrazione dello spazio fisico, vissuto dall’uomo, e l’azione di tutela come insieme di politiche spaziali atte a definire una bilanciata evoluzione dell’ambiente» (Forte, 1969). A tale proposito l’immagine del paesaggio rurale ed i valori connessi a tale ambiente antropizzato sono un dato ormai acquisito; come lo sono l’importanza del substrato storico, il dato archeologico, l’importanza dell’aspetto ecologico, ma anche i valori della tradizione contadina, legati alle secolari attività produttive locali (Picone, 2005). Non è possibile, quindi, prescindere dal paesaggio in cui si collocano i singoli episodi architettonici, come non è possibile il contrario, poiché «il territorio diviene, in tal senso, l’idonea scala di programmazione della tutela, entro cui acquistano senso i singoli interventi di restauro» (Picone, 2005: 153). I progetti di valorizzazione sopra citati, tra cui soprattutto il PIRAP, sono certamente il necessario quadro all’interno del quale operare la tutela dell’architettura rurale, sulla base della normativa specifica di settore e, soprattutto, di linee guida ancora inesistenti. Gli obiettivi di gestione e di sviluppo sostenibili del territorio vanno di pari passo con la conservazione integrata delle emergenze contadine presenti, assecondandone le naturali vocazioni e restituendole alla fruizione, pubblica o privata.
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La tutela dell’architettura rurale come forma di sviluppo del territorio. Rigenerare il paesaggio agrario flegreo attraverso la conservazione e valorizzazione del sistema delle masserie.
Gurrieri F. (1983), Dal restauro dei monumenti al restauro del territorio, Sansoni, Firenze. La Regina F. (1980), Architettura rurale: problemi di storia e conservazione della civiltà edilizia contadina in Italia, Calderini, Bologna. Lepore E. (1967), “Napoli greco-romana. La vita politica e sociale”, in AA. VV., Storia di Napoli, vol°1, s. n., Napoli. Lynch K. (1964), L’immagine della città, Marsilio, Venezia. Mazzoleni S., Di Gennaro A., Ricciardi M., Filesi L., Motti R., Migliozzi A. (2001), Studio sul suolo e sulla naturalità potenziale del comune di Napoli, s.n., s.l. disponibile su Comune di Napoli, Aree Tematiche, Territorio Edilizia e Patrimonio, Pianificazione e gestione del territorio, Parco delle colline http://www.comune.napoli.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1071 Napoli M. (Rist., 1996), Napoli greco-romana, Colonnese, Napoli. Pane R. (1961), Campania, la casa e l’albero, Montanino, Napoli. Picone R. (2005), “La conservazione degli edifici storici: il riferimento all’ambiente e al territorio”, in Aveta A., Casiello S., La Regina F., Picone R. (a cura di, 2005), Restauro e Consolidamento. Atti del convegno: Restauro e consolidamento dei beni architettonici e ambientali. Problematiche attuali, Napoli, 31 marzo-1 aprile 2003, Mancosu, Roma. Regio Officio Topografico (1817-19), Carta topografica ed idrografica dei contorni di Napoli, Napoli. Rizzi Zannoni G. A. (1793), Topografia dell'agro napoletano con le sue adiacenze, Napoli. Sereni E. (1961), Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari.
Maria Falcone
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Per una ri-costruzione fisica ed economica del territorio aquilano dopo il sisma del 6 Aprile 2009
Per una ri-costruzione fisica ed economica del territorio aquilano dopo il sisma del 6 Aprile 2009 Paola Ianni Politecnico di Milano Dottorato in “Architettura, Urbanistica, Conservazione dei Luoghi dell’Abitare e del Paesaggio Email: paolaianni@libero.it Tel: 349.7760042
Abstract La tesi sostenuta nell’ambito del presente contributo è la seguente: esiste un rapporto inscindibile tra forma economica e forma fisica di un territorio; la strategia di sviluppo che per il territorio si definisce è funzionale sia alla sua sopravvivenza economica che alla conservazione dei suoi elementi formali riconosciuti quali valori identitari. Tale enunciato trova argomentazione in forma applicativa relativamente alla questione della ricostruzione del territorio aquilano in seguito al sisma del 6 Aprile 2009. In particolare, per temi specifici si pongono in relazione le questioni emergenti dalla collaborazione alla redazione dei Piani di Ricostruzione per quattro Comuni del cosiddetto “cratere sismico” con le previsioni contenute nello studio “L’Aquila 2030. Una strategia di sviluppo economico” promosso dal Ministero per la Coesione Territoriale nell’ambito del progetto “Ricostruzione de L’Aquila”. Parole chiave Strategia, sviluppo, forma del territorio.
Per una ri-costruzione fisica ed economica del territorio aquilano dopo il sisma del 6 Aprile 2009 Si riportano nel presente contributo le riflessioni critiche derivanti dall’aver avuto l’occasione di svolgere, nell’ambito di un Dottorato, un’attività di ricerca inerente il tema della ricostruzione post-sismica del territorio aquilano mentre, sulla medesima questione, ci si confrontava progettualmente collaborando alla redazione dei Piani di Ricostruzione per quattro Comuni1 del cosiddetto “cratere sismico”, inteso come totalità del territorio danneggiato. Si intende poi rapportare le questioni emergenti dal lavoro sull’area di riferimento alle previsioni contenute in un documento ritenuto di assoluta importanza per le future scelte strategiche relative al territorio aquilano: nell’ambito del progetto “Ricostruzione de L’Aquila” curato dal Ministero per la Coesione Territoriale è contenuta una relazione a firma del Prof. Antonio Calafati, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università Politecnica delle Marche, che titola «L’Aquila 2030. Una strategia di sviluppo economico»2. Si 1
Piani di Ricostruzione per i Comuni di Castelvecchio Calvisio, Castel del Monte, Santo Stefano di Sessanio e Villa Santa Lucia degli Abruzzi. Attività di supporto al R.U.P.: Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Costruzioni e Trasporti (responsabile scientifico: Ing. Prof. C. Modena); Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto per le Tecnologie della costruzione, sede di L’Aquila (responsabile scientifico: Ing. G. Cifani). Con la collaborazione di: Politecnico di Milano, Dipartimento di Progettazione dell’Architettura (responsabile scientifico: Arch. Prof. M. G. Folli); Politecnico di Milano, Dipartimento di Ingegneria Strutturale (responsabile scientifico: Arch. Prof. L. Binda); Università “La Sapienza” di Roma, Dipartimento di Design, Tecnologia dell’Architettura, Territorio e Ambiente (responsabile scientifico: Arch. Prof. G. Carbonara) 2 Calafati A., “L’Aquila 2030. Una strategia di sviluppo economico”, tratto dal progetto “Ricostruzione de L’Aquila”, a cura del Ministero per la Coesione Territoriale Paola Ianni
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Per una ri-costruzione fisica ed economica del territorio aquilano dopo il sisma del 6 Aprile 2009
tratta di uno studio estremamente accurato del sistema territoriale aquilano che, descritto nella sua situazione iniziale per ciò che attiene la struttura socio-economica, fisico-spaziale e politico-amministrativa, viene proiettato nella presumibile direzione evolutiva nell’ipotesi in cui non siano attuate politiche pubbliche di regolazione, per poi identificare il modello di città al quale tendere e le strategie in tal senso necessarie. In tale studio sono tutte ricomprese le questioni trattate nel presente contributo che, ponendo in raffronto per temi specifici le considerazioni emergenti da un lavoro di pianificazione “dal basso”, alla scala comunale, con quelle derivanti da una pianificazione strategica a livello territoriale, ne evidenzia concordanze e discrepanze, col solo obiettivo di fornire un contributo critico e costruttivo. Ebbene, pur dovendo redigere per i quattro Comuni aquilani uno strumento la cui completa denominazione è quella di “Piano di Ricostruzione per i centri storici”, è fondamentale notare come tra le sue finalità vi sia non solo la facilitazione del rientro della popolazione negli edifici danneggiati e la riqualificazione dell’abitato e del sistema urbano, ma pure la ripresa socio-economica del territorio di riferimento. È evidente come, per perseguire quest’ultimo obiettivo, osservare il singolo nucleo urbano si riveli insufficiente e la riflessione è necessariamente ricondotta ad un ambito territoriale. D’altra parte, tra gli elaborati richiesti ve n’è uno, ritenuto ai fini progettuali di assoluta pregnanza, che titola “valori ambientali ed architettonici del territorio di riferimento”: attraverso esso si sono definiti sia gli elementi tematici da affrontare, sia l’approccio metodologico che avrebbe poi dato forma al piano stesso. Si è trattato, in altri termini, di un’operazione di lettura del territorio inteso come forma fisica complessa definita dalla reciproca interazione di diversi elementi strutturanti: non solo i centri storici, dunque, ma tutto il sistema del costruito e delle infrastrutture che lo riconnettono nonché, senza ordine gerarchico alcuno, il sistema orografico, il sistema naturalistico e l’assetto del paesaggio agrario.
Come mostrato nello schema sopra riportato, il sistema insediativo ed in particolare i nuclei urbani storici, ovvero l’oggetto dei Piani di Ricostruzione, sono solo uno degli elementi che informano il territorio nella sua configurazione complessa: così, le strategie di piano sono intese come approfondimento “in verticale” di uno degli elementi del sistema, laddove questi vanno necessariamente letti “in orizzontale” e gestiti nelle loro reciproche relazioni per definire una strategia di valorizzazione paesistico-ambientale e sviluppo socioeconomico del territorio di riferimento, così come il PdR stesso si prefigge. Oggetto del presente contributo è proprio quest’ultimo tipo di lettura “in orizzontale”: per ogni elemento strutturante, ed in particolare per il sistema insediativo, infrastrutturale e l’assetto agrario, ci si pone l’obiettivo di evidenziare rischi e potenzialità delle strategie di sviluppo socio-economico adottabili.
Sul sistema insediativo: i nuclei urbani storici ed il settore turistico Tutti ricompresi in un’unica area omogenea3, quattro sono i Comuni per i quali si aveva l’incarico di redigere il Piano di Ricostruzione. Nelle “Linee di indirizzo strategico per la ripianificazione del territorio” pubblicate dalla Struttura Tecnica di Missione nel Marzo 2011, dell’area omogenea n. 4, ovvero quella di progetto, così si legge: «E' l'area omogenea più piccola. Tra i centri minori colpiti dal sisma raggruppa quelli meno popolosi, ma di maggior pregio storico-artistico. Fra tutti va segnalato il cento storico di Castelvecchio Calvisio, la cui forma urbana (ellisse) rappresenta un unicum da salvare e recuperare con la massima attenzione tecnica»4. Ebbene, purtroppo allo straordinario valore formale e identitario di questi centri urbani si contrappone un grave fenomeno di spopolamento il cui inizio avviene già a partire dal secondo dopoguerra a causa di ingenti fenomeni migratori e continua nel corso dei successivi decenni in concomitanza del declino delle attività economiche, 3 4
Aree omogenee: ambiti territoriali in cui più comuni sono raggruppati secondo specifiche logiche aggregative Linee di indirizzo strategico per la ripianificazione del territorio, STM, 1 Marzo 2011, p. 80
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prevalentemente legate alla pastorizia, che avevano in precedenza reso fiorente il territorio e permesso la costruzione di sistemi insediativi di elevata qualità architettonica e urbana. A tali dinamiche si associa il fatto che questi centri, pur gravitando funzionalmente sulla città di L’Aquila, sono posti dal Capoluogo ad una distanza non irrilevante che varia dai 30 km di Santo Stefano di Sessanio ai 44 di Castel del Monte, in parte da percorrere attraverso una viabilità di montagna. Così, attualmente, si stima che il rapporto tra abitazioni vuote ed abitazioni totali sia compreso tra il 71 e il 79%. Tuttavia è da rilevare che, seppur distanti dalla città, i nuclei urbani in questione godono di una localizzazione geografica potenzialmente privilegiata in quanto posti alle pendici dell’area naturalistica di Campo Imperatore ed in parte ricompresi nel Parco del Gran Sasso e dei Monti della Laga.
Figura 1. Inquadramento territoriale
Prendendo atto dell’impossibilità di recuperare nella contemporaneità l’originario nesso tra le attività economiche storiche ed i sistemi insediativi che con esse si sono strutturati, di tali nuclei urbani e del loro territorio si coglie tuttavia una evidente potenzialità turistica attualmente messa a frutto solo in minima parte. Sull’argomento, così si legge nella relazione del Prof. Calafati: «Benché parzialmente abbandonati e scarsamente manutenuti, gran parte degli edifici è in uno stato che permetterebbe il loro recupero funzionale. Come è avvenuto in altri piccoli paesi e borghi dell’Appennino abruzzese (e marchigiano), l’utilizzo temporaneo (soprattutto estivo) da parte della popolazione originaria trasferitasi in altre città ha dato luogo ad una pur minima manutenzione che ha permesso di mantenere gli edifici in condizioni accettabili. Un mix di residenza temporanea e di turismo è la base su cui costruire un progetto di rinascita economica e sociale di questi insediamenti storici»5. D’altra parte in tale direzione di sviluppo questi centri hanno già mostrato di voler tendere: Santo Stefano di Sessanio, in particolare, ha attivato un sistema di albergo diffuso attraverso cui si è potuto procedere ad una riqualificazione capillare del costruito storico. Tuttavia, l’interesse nel trattare tale l’argomento nell’ambito del presente contributo consiste nell’evidenziare un grave rischio che si considera celato nella gestione localistica di codeste dinamiche: il fatto che la pianificazione delle politiche di sviluppo socio-economico sia ricompresa tra le finalità del P.d.R., ovvero di uno strumento a livello comunale, fa sì che le azioni strategiche manchino di un quadro territoriale di riferimento, di cui evidentemente ci si è dotati solo a-posteriori proprio attraverso l’attività del Ministero per la Coesione Territoriale. Il rischio è ben esplicitato anche nell’ambito dello studio del Prof. Calafati e consiste in un potenziale conflitto interno allo stesso territorio. Così come negli anni ’60 infatti, confidando nel settore industriale come pressoché unico sviluppo proponibile, si incentrò la ricostruzione post-sismica del Belice intorno ad un progetto di industrializzazione del territorio per il cui perseguimento si pose in atto una colossale opera di infrastrutturazione notoriamente poi non utilizzata come previsto, in linea con le dinamiche economiche che investono l’Italia intera in questo periodo storico, con una diffusa crisi del settore industriale, manifatturiero e agricolo, il rischio è quello di una sopravvalutazione del settore turistico, sul quale ogni realtà territoriale che riflette sulla propria traiettoria di sviluppo sembra puntare oggi in modo quasi esclusivo. Sebbene, infatti, nello 5
Calafati A., “L’Aquila 2030. Una strategia di sviluppo economico”, p. 39
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studio del Prof. Calafati tale settore sia ricondotto con un peso relativo all’interno di un progetto di sviluppo complesso, basato anche sulle altre potenzialità che il territorio aquilano mostra di possedere, bisogna tener conto che tale visione d’insieme viene messa a punto solo dopo che la maggior parte dei Piani di Ricostruzione sono già stati redatti: leggendone le relazioni allegate appare evidente come, per tanti comuni ricompresi nel cratere, appunto sul turismo in modo diffuso si faccia prevalentemente leva per la rinascita del territorio. Pur vero è che lo stesso settore turistico-ricettivo può essere declinato sotto diverse forme, ma ciò non toglie validità alla convinzione che una pianificazione strategica di settore a livello territoriale sia ancora necessaria ad evitare sovrapposizioni e conflitti il cui esito sarebbe il fallimento di iniziative pubbliche e private su cui somme di denaro anche ingenti si è deciso di investire.
Sul sistema infrastrutturale e le politiche insediative Trattare la questione relativa al sistema infrastrutturale del territorio aquilano ha, nel presente contributo, rilevanza per ciò che attiene il suo rapporto con le politiche insediative. Il fenomeno di spopolamento descritto per i comuni ricompresi nell’area omogenea n. 4 è in realtà la punta emergente di una dinamica più generale in atto già prima del terremoto: un processo di decremento demografico associato ad uno spostamento della popolazione residente verso aree più vicine al centro del Capoluogo veniva già registrato nel 2002 nel P.T.C.P. come problematica emergente sulla quale intervenire. L’inversione di tal tendenza, ovvero l’avvio verso un incremento demografico, rientra pure tra gli obiettivi del piano economico del Ministero per la Coesione Territoriale, che riconosce questa come possibile strategia per fronteggiare il gravoso problema del surplus abitativo che si prevede a ricostruzione ultimata. Già nel P.T.C.P. si riconosceva l’importanza, ai fini dell’attrattività residenziale della città, di una efficiente rete della mobilità che, in presenza di un sistema come quello aquilano caratterizzato da una forte dipendenza dei piccoli nuclei urbani rispetto al centro della città capoluogo, permetta una riduzione dei tempi di percorrenza. A tal fine si considerava di importanza strategica un potenziamento della linea ferroviaria tra Sulmona e L’Aquila che, sebbene allo stato attuale abbisogni di un accurato ammodernamento, potrebbe costituire un importante elemento connettivo per l’intero territorio. Si tratta infatti di una linea che, in avvicinamento a L’Aquila, corre sul fondo della valle dell’Aterno, costituendo una sorta di “spina” di un “territorio urbano” che, configurandosi come sistema lineare, ricomprende tutti i centri posti alle diverse quote alle pendici delle due catene del Gran Sasso a nord-est e del Velino-Sirente a sud-ovest. Attraverso il presente scritto, si coglie tuttavia l’occasione per porre l’attenzione su un aspetto che appare finora tralasciato dalle varie previsioni strategiche e di piano: crescerebbe esponenzialmente la rilevanza del sistema infrastrutturale descritto se esso potesse essere agganciato ad un collegamento ferroviario diretto e veloce con la vicina città di Roma, nonché con la sponda Adriatica.
Figura 2. Schema del sistema di metropolitana di superficie
Ad oggi tal tipo di collegamento è affidato esclusivamente al trasporto su gomma: le società di autolinee garantiscono corse frequenti e il collegamento autostradale è efficiente, ma il tempo di percorrenza è suscettibile di imprevedibili e pesanti dilatazioni in funzione del traffico, prevalentemente in avvicinamento a Roma. Ebbene, tenuto conto che il flusso di pendolarismo giornaliero soprattutto verso Roma è estremamente intenso e che i tempi di viaggio risentono del grado di incertezza fin qui descritto, è facile supporre la valutazione, da parte di un pendolare, di un trasferimento di residenza. Chiaramente, nell’avanzare la proposta di un collegamento ferroviario diretto tra L’Aquila e Roma è necessaria una valutazione di fattibilità in un contesto fortemente montuoso. L’alternativa potrebbe essere costituita dalla riconnessione della linea Sulmona-L’Aquila-Rieti con la metropolitana romana, che raggiunge il punto più vicino a Passo Corese. Non è questa tuttavia la sede per discutere della fattibilità tecnica di tal tipo di intervento: l’obiettivo è invece quello di innescare il dibattito Paola Ianni
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sull’opportunità o meno di una scelta strategica che renderebbe il pendolarismo tanto agevole da permettere agli aquilani che lavorano a Roma di continuare a vivere nella propria città, e a qualche romano che soffre il congestionamento della Capitale di valutare il trasferimento in una città vicina. Quando pochi giorni fa, a seguito della morte di Pietro Mennea, è stata diffusa la notizia che un nuovo treno capace di coprire la distanza tra Roma e Milano in 2 ore e 15 minuti sarà intitolato in sua memoria, veniva spontaneo pensare che in Italia non mancano affatto i corridori; il problema è che corrono sempre sulle stesse tratte!
Sul paesaggio rurale ed il settore produttivo agrario Nel redigere l’elaborato sui valori architettonici e ambientali richiesto dal Piano di Ricostruzione è immediatamente risultato evidente il rapporto inscindibile esistente tra i nuclei urbani storici, il sistema orografico e l’assetto del paesaggio agrario che, in quest’area, assume una conformazione unica e caratterizzante, nota come sistema di “campi aperti”: in un territorio montuoso, roccioso e impervio, le coltivazioni interessano solo le aree vallive che a differenti quote si aprono tra i rilievi e che, in quanto ricoperte di depositi alluvionali, risultano fertili e dunque coltivabili. Qui l’accesso ai campi avviene mediante un percorso di fondovalle, che costituisce una sorta di “spina” del sistema di campi di forma rettangolare allungata nella direzione perpendicolare alla strada, in modo che le parti di terreno più fertile al centro della valle e quelle meno fertili a ridosso del pendio siano equamente suddivise nei vari appezzamenti.
Figura 3. Sistema di campi aperti
Figura 4. Sistema di campi aperti
Un’osservazione più accurata, tuttavia, permette di comprendere che tale sistema altro non è che una sorta di reiterazione per lacerti di un assetto agrario più ampio che nella Valle dell’Aterno trova la sua configurazione più generale. Questa, infatti, è interamente coltivata e si configura come un sistema agrario che si estende in un’area di fondovalle fino a lambire le pendici dei rilievi montuosi a nord e a sud. Anche qui l’assetto agrario si struttura
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Per una ri-costruzione fisica ed economica del territorio aquilano dopo il sisma del 6 Aprile 2009
come un sistema lineare, la cui “spina” centrale è costituita dal fiume Aterno e dai tracciati della ferrovia e della S.S. 17, che per buona parte ricalcano il tracciato storico del tracturo magno. Ebbene, nel riconoscere il valore formale dell’assetto agrario appena descritto e nel sancirne la sua rilevanza per l’identità del territorio al pari di quanto avviene per i nuclei urbani storici, emerge la questione di quali politiche siano attuabili ai fini della sua conservazione. Si ritiene, a tal proposito, che ingenuo e superficiale sarebbe un atteggiamento che pretenda di salvaguardare una forma fisica così intimamente legata al sistema economico e produttivo che l’ha generata senza riflettere sulla necessità di attualizzazione appunto di tal sistema produttivo. Si ritorna dunque a far riferimento alla relazione del Prof. Calafati. Sul tema in questione, in quello studio si propone il cosiddetto “paradigma neorurale”, destinato specificatamente a nuclei urbani la cui economia era originariamente basata su un’agricoltura di montagna e sugli usi civici e che oggi invece si avviano verso un progressivo abbandono. Per questi centri si considera la ricostruzione come occasione per una rivitalizzazione «fondata appunto su una prospettiva neorurale, ovvero sulla intersezione e sovrapposizione delle seguenti attività: agricoltura per l’autoconsumo, artigianato creativo, produzione di servizi avanzati, accoglienza turistica diffusa e residenza»6. Dunque, sul tema in questione la riflessione è la seguente: il cosiddetto “paradigma neorurale” è destinato a piccoli centri connessi ad aree rurali produttive di dimensioni contenute, per le quali anche solo un’agricoltura per l’autoconsumo, ridotta cioè ad una dimensione hobbistica, persegue l’obiettivo di una cura del territorio ed innesca un’economia locale utile a piccoli insediamenti. Ma il tema della produzione agraria, che nel territorio aquilano è sempre stata legata al settore dell’allevamento, andrebbe affrontato in termini strutturali, come reale settore economico da potenziare, attualizzare e rendere remunerativo. La posta in gioco è di assoluta importanza e attiene al rapporto tra forma economica e forma fisica del territorio: il disinteresse verso la prima implica la distruzione della seconda. Il fatto che il settore produttivo legato ad agricoltura ed allevamento non compaia tra quelli annoverati nella strategia di sviluppo del Ministero per la Coesione Territoriale è attribuibile forse al condivisibile atteggiamento che lega le scelte strategiche ai “germi” già in loco presenti. Viene da supporre che il declino del settore agrario negli ultimi decenni, già rilevato nell’ambito del P.T.C.P., ha fatto sì che questo non venisse considerato, al pari ad esempio del settore universitario, come potenzialità economica rilevante del territorio. Talune traiettorie di declino sembrano effettivamente inesorabili quando si dilatano su più decenni e coincidono con l’esistenza di una o più generazioni. Ma poi per fortuna interviene la storia: scrivendo la “Storia del paesaggio agrario italiano” Emilio Sereni mostra come, a partire da tempi remoti, il settore agrario abbia subito su questo territorio cicliche decadenze sempre seguite da rinascita. Necessaria, quest’ultima, perché a quel sistema economico e produttivo si lega la manutenzione del territorio, la sicurezza idro-geologica, la sopravvivenza dei popoli. È evidente che individuare politiche di rivitalizzazione del sistema produttivo agrario sia uno scopo non perseguibile solo a livello locale a causa del suo nesso inscindibile con politiche economiche nazionali e sovranazionali. Ma questo si verifica praticamente per tutti gli argomenti trattati: le politiche infrastrutturali coinvolgono più Regioni e se esse siano necessarie o meno è da decidere osservando il Paese intero e definendone le priorità. La questione del turismo e del rischio della sopravvalutazione di tal settore economico vale per L’Aquila, ma in questo periodo storico è tema su cui riflettere per l’Italia intera. Tuttavia, proprio nel fatto che i temi trattati in forma applicativa per questo territorio in crisi siano in realtà generalizzabili per l’intero Paese risiede la legittimazione a parlarne in un convegno organizzato dalla Società Italiana degli Urbanisti, con sincero spirito di impegno civile.
Bibliografia Sereni E. (1982), Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari. Bonamico S., Tamburini G. (1996), Centri antichi minori d'Abruzzo. Recupero e valorizzazione, Congeni, L'Aquila Porto A. (2007), Massari e padroni. Analisi sulla politica economica pastorale nella provincia dell'Aquila e sul ruolo della Rassegna degli Ovini di Campo Imperatore – 1947-2006, One Group, L'aquila Belli A., De Luca G., Fabbro S., Mesolella A., Ombuen S., Properzi P. (a cura di, 2008), Territori regionali e infrastrutture. La possibile alleanza, FrancoAngeli, Milano. Redi F., Di Blasio L. (2010), Segni del paesaggio agro pastorale. Il territorio del Gran Sasso – Monti della Laga e dell'Altopiano di Navelli, L’Una, L’Aquila. Calafati A. (2012), “L’Aquila 2030” una strategia di sviluppo economico, studio promosso dal Ministero per la Coesione Territoriale
Sitografia Progetto “Ricostruzione de L’Aquila, a cura del Ministero per la Coesione Territoriale http://www.coesioneterritoriale.gov.it/progetti/ricostruzionelaquila/ Linee di indirizzo strategico per la ripianificazione del territorio http://www.commissarioperlaricostruzione.it/Informare/Normative e Documenti/Atti e documenti della Struttura Tecnica di Missione STM/Linee di indirizzo strategico per la ripianificazione del territorio 6
Ibidem
Paola Ianni
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Gestione adattativa dei territori abbandonati: verso un nuovo approccio per la salvaguardia della funzionalità paesaggistica.
Gestione adattativa dei territori abbandonati: verso un nuovo approccio per la salvaguardia della funzionalità paesaggistica. Raffaele Pelorosso* Università degli Studi della Tuscia Dipartimento DAFNE - Dipartimento di scienze e tecnologie per l’Agricoltura, le Foreste, la Natura e l’Energia Email: pelorosso@unitus.it Tel: 0761.357359 Federica Gobattoni Università degli Studi della Tuscia Dipartimento DAFNE - Dipartimento di scienze e tecnologie per l’Agricoltura, le Foreste, la Natura e l’Energia Email: f.gobattoni@unitus.it Nicola Lopez CNR Istituto di Ricerca sulle Acque di Bari Email: nicola.lopez@ba.irsa.cnr.it Antonio Leone Università degli Studi della Tuscia Dipartimento DAFNE - Dipartimento di scienze e tecnologie per l’Agricoltura, le Foreste, la Natura e l’Energia Email: leone@unitus.it
Abstract I territori extraurbani sono una risorsa e un bene comune strettamente collegato alla città, parte dell’identità della popolazione e pilastro fondamentale della funzionalità degli ecosistemi. Occuparsi di pianificazione e gestione di beni paesaggistici e ambientali e dell’identità dei territori marginali ed abbandonati necessita un approccio olistico e transdisciplinare che parta dallo studio delle dinamiche dei sistemi ambientali e dalle leggi che le regolano. In questo contributo, si propone l’utilizzo dell’analisi diacronica dell’uso del suolo e lo studio delle dinamiche evolutive del mosaico paesaggistico, per individuare un nuovo equilibrio (metastabile), successivo all’abbandono delle terre, tra attività antropiche e processi naturali di forestazione. Tale equilibrio consente di suggerire strategie adattative di gestione del territorio finalizzate alla minimizzazione dei costi per la cura e restauro del paesaggio e al mantenimento/incremento dei beni e servizi fondamentali che il paesaggio stesso produce. Parole chiave gestione adattativa, abbandono, funzionalità paesaggistica.
Introduzione I paesaggi sono in continua mutazione e, come un complesso sistema di sistemi sociali ed ecologici, sono soggetti a continue perturbazioni naturali e antropiche che possono causare il passaggio da un stato di equilibrio all’altro a seconda della resilienza dello stesso paesaggio cioè della sua capacità di approcciarsi al cambiamento, in altre parole di persistere, adattarsi, trasformarsi e continuare a svilupparsi (Davoudi, 2012; Folke, Carpenter, Walker, Scheffer, & Chapin, 2010; Kato & Ahern, 2010). Pelorosso R., Gobattoni F., Lopez N., Leone A.
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Gestione adattativa dei territori abbandonati: verso un nuovo approccio per la salvaguardia della funzionalità paesaggistica.
A seguito della meccanizzazione agricola e della specializzazione produttiva dei terreni più fertili, della ricerca di occupazioni più remunerative e dell’invecchiamento della popolazione agricola, dal dopo guerra in poi si è verificato un importante abbandono delle terre (Pelorosso, Leone, and Boccia 2009). Per alcune aree rurali, dati recenti riportano un incremento negli ultimi 60 anni dei boschi e foreste superiore al 20% (Pelorosso, Della Chiesa, Tappeiner, Leone, & Rocchini, 2011; Sitzia, Semenzato, & Trentanovi, 2010). Infatti, se da un lato l’urbanizzazione, il consumo di suolo, “cannibalizza” territori rurali, anche altamente produttivi, dall’altro grandi superfici agricole sono abbandonate andando incontro ad un processo di rinaturalizzazione. Tale abbandono altera equilibri istauratesi nel tempo tra le azioni dell’uomo e i processi naturali (è il caso ad esempio dei pascoli, dei tratturi, delle vie di transumanza, dei terrazzamenti ma anche degli orti peri-urbani e i piccoli appezzamenti agricoli) con conseguenti ricadute sociali (es: perdita identitaria e delle tradizioni culturali) e ambientali (es: frane, smottamenti, aumento del rischio incendi). D’altro canto i territori abbandonati possono ospitare nuovi ecosistemi e fornire simili o incrementati flussi di beni e servizi ad esempio in termini di Habitat, capacità di sequestro della CO2, legname o regolazione dei regimi idrologici (R. J. Hobbs, Higgs, and Harris 2009). Tali processi di abbandono sono comunque variabili nel tempo e nello spazio e recenti mutamenti socio-economici, dovuti alla crisi attuale, consentono di ipotizzare scenari di uso del suolo diversificati, inversioni di tendenza delle dinamiche di abbandono e/o un aumento della domanda di terreni agricoli. I terreni agricoli, quindi, non possono più essere visti come territorio libero (blank space, Tassinari, Torreggiani, & Benni, 2013) ma come una risorsa e un bene comune strettamente collegato alla città, parte dell’identità della popolazione e con un ruolo fondamentale della funzionalità degli ecosistemi. Occuparsi di conservazione e gestione di beni paesaggistici e ambientali e dell’identità dei territori abbandonati e marginali significa necessariamente considerare non solo l’aspetto estetico ma, prioritariamente, il ruolo sociale e di regolazione dei processi ambientali che questi territori hanno. Vista poi la natura complessa dei sistemi socio-ecologici e delle interazioni e feedback tra le componenti paesaggistiche è necessario approcciarsi alla gestione e pianificazione dei territori abbandonati in maniera olistica e transdisciplinare. L’integrazione di strategie adattative di gestione del territorio e della landscape ecology (per il suo approccio spaziale esplicito all’analisi dei processi e dei pattern ambientali) nella pianificazione territoriale appare quindi essenziale e auspicata da più parti per il raggiungimento di effettivo sviluppo sostenibile nel senso ampio del termine (e.g: Allen, Fontaine, Pope, & Garmestani, 2011; Gissi, 2011; Opdam, Foppen, & Vos, 2002). In questo senso vanno anche le recenti linee di ricerca volte all’integrazione della valutazione della resilienza dei sistemi socio-ecologici (Cumming 2011; Folke et al. 2010) e della capacità degli ecosistemi e dei paesaggi di produrre beni e servizi (De Groot, Alkemade, Braat, Hein, & Willemen, 2010; Termorshuizen & Opdam, 2009) nella pianificazione territoriale. Recenti pubblicazioni hanno evidenziato come, per i territori abbandonati, il restauro paesaggistico e ambientale non abbia in molti casi raggiunto gli obiettivi prefissati con conseguente perdita di risorse economiche (e.g. Hobbs, 2004; Corsair, Ruch, Zheng, Hobbs, & Koonce, 2009). I cosiddetti paesaggi culturali infatti necessitano una costante azione dell’uomo per mantenere intatte le loro caratteristiche identitarie e le loro funzioni sociali ed ecologiche. Il paesaggio pre-abbandono, oltre ad essere a volte di difficile identificazione (quale assetto di riferimento considerare vista la scala temporale e spaziale delle dinamiche e la multifunzionalità paesaggistica?), può risultare irripristinabile, o per lo meno inconservabile, nonostante gli sforzi. Interventi di restauro quali decespugliamenti, incendi controllati o lavorazioni agricole, richiedono risorse nel lungo periodo per contrastare le dinamiche naturali di forestazione e di evoluzione del territorio (e.g. erosione) (Pelorosso et al. 2011). Processi e attività produttive economicamente non competitive non sopravvivono nel tempo senza il sostegno di contributi pubblici e, spesso, solo il forte legame identitario della popolazione residente riesce ad opporsi alle forze di cambiamento dei territori. Il caso italiano poi merita una ulteriore riflessione. In Italia, l’assetto strutturale e amministrativo, associato ad una scarsa cultura civile, ha contribuito e contribuisce alla realizzazione di inefficaci interventi, soprattutto in campo ambientale dove la scala dei processi ecologici supera quella dei confini amministrativi. Infatti, la gestione e l’uso del territorio sono affidati principalmente al Piano Urbanistico Comunale. Gran parte del territorio nazionale è gestito da piccoli comuni (in termini di abitanti residenti) che trovano difficoltà a sostenere gli sforzi economici necessari per sostentarsi e tanto più a perseguire obiettivi di qualità e sostenibilità con una visione di lungo termine (vedi Pileri & Granata, 2012). Soprattutto per la realtà italiana, dove vaste superfici agricole situate in territori marginali, periferici o di montagna sono oggetto di abbandono, è necessario, quindi, sviluppare metodi di analisi dei processi ambientali basati sui criteri della landscape ecology e replicabili in contesti di carenza di risorse e di dati. Questa è senz’altro una sfida ardua ma che sta alla base di una effettivo superamento dell’attuale empasse della pianificazione in campo ambientale e paesaggistico. In questo contributo, attraverso i metodi e i risultati pubblicati in un recente lavoro basato sui principi della landscape ecology (Pelorosso et al. 2011), si propone un frame-work per l’individuazione di stati di equilibrio (definiti metastabili o precari) del paesaggio e la definizione di strategie gestionali adattative dei territori abbandonati e marginali. Attraverso il caso specifico, si propone quindi un approccio innovativo generalizzabile anche alla pianificazione territoriale di altri sistemi socio-ecologici, finalizzato alla minimizzazione dei costi per la cura e restauro del paesaggio e al mantenimento/incremento dei beni e servizi fondamentali che il paesaggio stesso produce. Pelorosso R., Gobattoni F., Lopez N., Leone A.
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Gestione adattativa dei territori abbandonati: verso un nuovo approccio per la salvaguardia della funzionalità paesaggistica.
Materiali e metodi Il paesaggio, a seconda delle sue caratteristiche di resistenza e resilienza, può mantenere la sua capacità di organizzazione e auto-stabilizzazione solo entro un limitato range di perturbazioni e può eventualmente subire significative alterazioni se le costrizioni ambientali continuano a cambiare (Gobattoni, Pelorosso, Lauro, Leone, & Monaco, 2011). Un paesaggio è quindi definito metastabile (o in equilibrio precario) quando oscilla intorno ad una posizione di stabilità stazionaria ma è suscettibile di essere spostato verso un altro stato di equilibrio. Il concetto di stabilità e la sua valutazione sono tutt’oggi oggetto di discussione. Uno stato stabile può essere valutato in termini di costanza, persistenza o resilienza (Grimm and Wissel 1997). La ricerca di una stabilità del pattern paesaggistico può essere investigata a vari livelli ed attraverso differenti variabili (e.g. copertura e uso del suolo, biomassa presente, altezza della vegetazione ma anche, riferendoci ai sistemi socio-ecologici, il numero di impiegati in agricoltura o di residenti). Raramente un paesaggio è quindi in equilibrio e, comunque, è necessario definire sempre una specifica scala temporale e spaziale di analisi. Lo studio delle dinamiche del paesaggio al fine di individuare i trend del cambiamento ed eventuali periodi o stati di equilibrio può essere effettuato attraverso fonti documentali, cartografie e mappe storiche o immagini satellitari e aeree. Per l’analisi diacronica spaziale, l’informazione più utilizzata è la mappa del land cover o di copertura delle terre (cioè la copertura bio-fisica osservata sulla superficie terrestre, ad esempio, dalle foto aeree o dalle immagini satellitari) (Pelorosso, Leone, and Boccia 2009). La necessità di studiare le dinamiche paesaggistiche anche di lungo periodo, fa ricadere la scelta del supporto informativo sulle foto aeree. La gestione di foto aeree non può essere però semplicistica ed un corretto confronto di mappe di copertura delle terre necessità di alcuni accorgimenti metodologici. Per territori con morfologia complessa, infatti, sorge la necessità di effettuare una rettifica geometrica delle immagini al fine di ridurre gli errori di posizionamento e di stima delle superfici. Anche differenze di esposizione o/e di messa a fuoco possono rendere difficoltosa l’individuazione di elementi sul territorio e può quindi essere necessario effettuare una correzione radiometrica e mosaicatura delle immagini. Diverse metodologie, più o meno automatiche, di classificazione delle immagini per la produzione di mappe vettoriali o raster di copertura delle terre possono essere impiegate. Altre problematiche poi intervengono al momento del confronto tra mappe di copertura delle terre quali le differenze di risoluzione spaziale (e.g. minima unità di mappa) e tematica (disomogeneità numerica e semantica delle diverse classi di copertura). È necessaria quindi un operazione di armonizzazione o generalizzazione delle mappe (Pelorosso, Leone, and Boccia 2009; Pelorosso et al. 2011; Verburg, Neumann, and Nol 2011). In figura 1 è riportato un esempio di schema concettuale della metodologia adottabile per la produzione e confronto di mappe di copertura delle terre prodotte da foto aeree storiche in bianco e nero. Uno stato di equilibrio precario (o metastabile) in termini di copertura delle terre può quindi essere definito da un livello di cambiamento minimo tra due momenti storici descritti dalle stesse foto aeree. Vista la copertura fotogrammetrica del territorio disponibile raramente è possibile stabilire a priori archi temporali identici tra tre o più momenti storici. Questo fa si che nelle analisi diacroniche del cambiamento del paesaggio si debbano prendere opportuni accorgimenti esaminando ad esempio un tasso annuale di cambiamento. Nel presente lavoro sono state prodotte 3 coperture delle terre da foto aeree ed analizzati i due periodi temporali intercorsi tra di esse: il primo periodo dal 1954 al 1985 (31 anni) ed il secondo dal 1985 al 1999 (14 anni). 8 classi di copertura del suolo sono state identificate per ciascun mappa: boschi di latifoglie, aree aperte (prevalentemente pascoli), cespuglietti, alberi isolati, boschi di conifere, siepi, edificato, strade. Considerando gli obiettivi operativi prefissati di supporto alla pianificazione e tenendo conto delle limitazioni e delle caratteristiche delle mappe di copertura delle terre, l’analisi di stabilità è stata effettuata sulla magnitudine e tasso di cambiamento delle superfici e su alcuni indici di paesaggio (landscape metrics) strettamente relazionati alla funzionalità ecologica. L’analisi della forma, dimensione e arrangiamento spaziale del mosaico di patches che caratterizza il paesaggio è effettuata attraverso opportuni indici di paesaggio e sistemi di misure. Tale analisi metrica delle diverse mappe di copertura delle terre consente di caratterizzare ciascun periodo di riferimento ed effettuare considerazioni sulle dinamiche passate e i processi e le forze che le hanno generate. La stabilità delle dinamiche del mosaico paesaggistico, in termini di forma e dimensione delle singole patches, è stata in questo caso investigata attraverso il test non parametrico di Kruskal-Wallis. Mentre a livello delle classi di copertura nel suo insieme, la stabilità in termini areali è stata analizzata attraverso il Kappa Index of Agreement (KIA). Il tasso annuale di cambiamento è stato analizzato per individuare le dinamiche più attive nei diversi periodi e un modello di catene di Markov è stato impiegato per realizzare proiezioni di future distribuzioni di copertura delle terre verso un ipotetico stato stazionario. Per una trattazione completa dell’analisi di stabilità vedere il lavoro di Pelorosso et al., 2011. L’area di studio è il comune di Micigliano in Provincia di Rieti. Micigliano presenta un estensione di circa 3619 ha ed è situato in una zona montagnosa tra il Monte Terminillo e il Fiume Velino. Il caso studio appare molto rappresentativo dei territori svantaggiati poiché presenta uno tra i più alti tassi di emigrazione della popolazione residente nel Lazio (-77% circa tra il 1951 e il 2001). La vocazione del piccolo Comune di Micigliano (circa 140 abitanti) è silvo-pastorale ma negli ultimi decenni i livelli di abbandono delle terre sono incrementati fortemente. La gestione di questi territorio appare quindi problematica anche vista la bassissima densità per abitante di 3.7 abitanti/km2.
Pelorosso R., Gobattoni F., Lopez N., Leone A.
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Gestione adattativa dei territori abbandonati: verso un nuovo approccio per la salvaguardia della funzionalità paesaggistica.
Figura 1. Esempio di schema concettuale del processo produttivo di un mappa di copertura delle terre per lo studio delle dinamiche del paesaggio (Gennaretti et al. 2011).
Risultati I risultati dell’analisi di cambiamento hanno mostrato un forte abbandono dei territori aperti (prevalentemente pascoli) ed un relativo incremento dei boschi (vedi Fig. 2). Tale cambiamento è avvenuto prevalentemente nel primo periodo (vedi fig. 3) dove è si è verificato anche un intervento di forestazione programmata di conifere di ampia estensione. Il tasso annuale di cambiamento conferma questa dinamica passando dal 2.2% del primo periodo (1954-1985) al 0.16% del secondo periodo (1985-1999). L’analisi di stabilità a livello delle singole classi di copertura ha confermato un certa stazionarietà nel secondo periodo rispetto al primo periodo sia in termini di forma, sia in termini di dimensione delle patches di alberi isolati, conifere, siepi e strade. Le dinamiche dei boschi, aree aperte, cespuglieti ed edificati appaiono invece più attive. In termini di transizione (cioè di superfici soggette a conversione) nel secondo periodo è avvenuto un brusco arresto in tutte le coperture considerate; solamente nel caso di boschi di conifere e strade la copertura è risultata relativamente stabile con minimi cambiamenti avvenuti tra il 1985 e il 1999 (vedi tabella 1 riassuntiva). Un possibile adattamento del paesaggio ad un nuovo stato di equilibrio può essere dedotto dalla riduzione nelle differenze di distribuzione della copertura del suolo tra le osservazioni del 1999 e gli stati stazionari derivati dalle due matrici Markoviane di probabilità di transizione (Fig. 4). Infatti, il regime stazionario derivante dalle matrici di transizione del secondo periodo (A85-99) meglio si adatta alla distribuzione della copertura del suolo osservata nel 1999 rispetto allo stato stazionario derivato dalle matrici di transizione del primo periodo (A54-85). Pelorosso R., Gobattoni F., Lopez N., Leone A.
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Gestione adattativa dei territori abbandonati: verso un nuovo approccio per la salvaguardia della funzionalità paesaggistica.
Figura 2. Distribuzione percentuale delle 8 classi di copertura del suolo. Colonne nere, bianche e grigie rappresentano rispettivamente gli anni 1954, 1985 e 1999. Da notare l’incremento importante dei boschi nel primo periodo considerato e il relativo decremento delle aree aperte.
Figura 3. Distribuzione spaziale del cambiamento di copertura delle terre. Da notare la forte dinamica avvenuta tra il 1954 e il 1985.
Tabella I: Sintesi dell’analisi di stabilità.
Class Woodland Open areas Scrubland Isolated trees Conifers Hedges Buildings Roads
Shape stationarity NO NO YES YES YES YES NO YES
Pelorosso R., Gobattoni F., Lopez N., Leone A.
Size stationarity NO NO NO YES YES YES NO YES
Transition stationarity NO NO NO NO YES NO NO YES
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Figura 4. Scenari futuri (steady states) della distribuzione delle classi di copertura delle terre espressi in percentuale derivati dal modello di catene di Markov. Da notare la maggior similarità tra la distribuzione effettiva del 1999 e quella ottenuta utilizzando i tassi di cambiamento del secondo periodo (1985-1999) rispetto alla distribuzione ottenuta utilizzando i tassi di cambiamento del primo periodo (1954-1985).
Discussioni e Conclusioni L'analisi di stabilità ha permesso di evidenziare una riduzione del tasso di cambiamento e il probabile avvicinamento ad un nuovo equilibrio (metastabile) dello stato del paesaggio. Nel primo periodo (1954-1985), il paesaggio ha risposto ai cambiamenti indotti dall’uomo, come l'abbandono di attività zootecniche, con un processo naturale di forestazione. Negli ultimi anni (1985-1999), il tasso di cambiamento per l'intera area di studio si è ridotto: tale riduzione potrebbe rappresentare la dinamica di un paesaggio più vicino ad un nuovo stato metastabile dovuto a un equilibrio tra la pressione antropica reale (ad esempio, il pascolo ricorrente e le attività selvi-colturali) e i processi spontanei di naturalizzazione (successione secondaria) avvenuti nel tempo a scapito dei territori abbandonati o non più sfruttati in maniera intensiva. Né una particolare attenzione ambientale né opportune politiche nazionali o regionali sembrano motivare e sostenere gli impegni costosi di ripristino di un paesaggio tradizionale (di riferimento), tuttora indefinito, ed i relativi servizi paesaggistici. In queste condizioni, un approccio innovativo, come quello proposto da Pardini, Mosquera, e Rigueiro, (2002) vale la pena di essere considerato: gli autori hanno suggerito una gestione agricola minima assieme ad un controllo meccanico della vegetazione e una rotazione di pascoli, boschi e fasce tagliafuoco per ridurre la disponibilità di combustibile e mantenere un paesaggio ‘bello’ fruibile dai turisti. Tale forma di gestione potrebbe consentire una diversificazione del reddito agricolo attraverso lo sviluppo di un turismo legato alla natura, riducendo anche il processo di abbandono delle terre e il rischio d’incendio. Allo stesso tempo i cittadini potrebbero continuare a fruire dei beni e servizi del territorio che circonda la città come: produzioni agricole locali di qualità e a km zero, funzioni ricreative e sociali (territorio agricolo e forestale visto come luogo di incontro), funzioni culturali e didattiche (promuovendo la sensibilità ambientale) nonché funzioni psicologiche (contribuendo al benessere psicofisico dei visitatori). Una tale strategia di gestione potrebbe essere valida non solo per l'area di studio, ma, in generale, anche per altri territori extraurbani agricoli e marginali. Chiaramente una gestione adattativa di questo genere dovrebbe tenere conto di esigenze emergenti della popolazione (ad esempio di una domanda crescente di ‘bei’ paesaggi e di riscoperta di attività agro-silvo-pastorali tradizionali) o di rischi per gli esseri umani e gli ecosistemi (ad esempio l’instabilità idrogeologica del territorio, i rischi di incendio, la scomparsa di biodiversità, la diffusione eccessiva di infestanti e di fauna selvatica indesiderata) almeno fino a quando non saranno identificate chiare soglie socioecologiche di intervento ed obiettivi di protezione economicamente e socialmente accettabili. Dovrebbe quindi essere prevista la necessità di aumentare le conoscenze e le informazioni e di disporre di sistemi di monitoraggio e valutazione delle scelte di governo del territorio. In generale, si sostiene che, date le risorse limitate e la difficoltà di mantenere uno stato di riferimento ottimale per i paesaggi abbandonati, una delle principali sfide potrebbe essere quella di identificare le opportunità di gestione che massimizzino le funzioni ecologiche, nonché i servizi paesaggistici, riducendo al minimo le restrizioni umane sull’uso del suolo ed i costi. In altre parole, una strategia di gestione efficace ed affidabile per i paesaggi abbandonati dovrebbe prevedere un equilibrio dinamico tra attività antropica (uso del suolo), costi di Pelorosso R., Gobattoni F., Lopez N., Leone A.
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Gestione adattativa dei territori abbandonati: verso un nuovo approccio per la salvaguardia della funzionalità paesaggistica.
gestione (ad esempio per il mantenimento del pattern paesaggistico) e la funzionalità paesaggistica (capacità del paesaggio di fornire beni e servizi). Questo equilibrio deve essere mantenuto nel tempo attraverso una gestione adattativa tenendo conto della scala spaziale e temporale dei processi naturali nonché dello spostamento tra prospettiva umana ed ecologica del paesaggio. Nel caso specifico, la riduzione del rischio di incendio spontaneo e dei processi di erosione dovrebbe essere l'obiettivo principale da perseguire su larga scala per il mantenimento di una funzionalità a livello di sistema e di un flusso stabile e rinnovabile di servizi paesaggistici. Lo sviluppo di un metodo standardizzato per l’analisi dell’equilibrio del paesaggio deve ancora essere realizzato a causa della scarsità di dati e della forte variabilità spazio-temporale dei processi che guidano l'evoluzione del paesaggio. In questo lavoro è stato proposto un primo approccio metodologico allo studio della stabilità del paesaggio in termini di pattern di copertura del suolo. Tale analisi, inserita in un piano operativo di gestione del territorio (come ad esempio il Piano Urbanistico Comunale) può aggiungere, a nostro avviso, un ulteriore criterio di giudizio nella caratterizzazione dei territori extraurbani ed essere di supporto nella scelta delle strategie di gestione più efficaci per la valorizzazione delle identità territoriali e la massimizzazione della funzionalità socioecosistemica del paesaggio.
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La memoria come cura del territorio
La memoria come cura del territorio Daniele Balzano * Università degli Studi di Napoli “FedericoII” Dipartimento di Architettura Email: daniele-balzano@libero.it Tel: +393204049306 Andrea Tulisi 1 Seconda Università degli studi di Napoli Dipartimento di Restauro e Costruzione dell'Architettura e dell'Ambiente Email: andreatulisi@hotmail.it Tel: +393396951286
Abstract I ricordi sono memoria quando riusciamo ad integrarli al fluire della nostra vita. Quando non diventano pezzi disgiunti, quando, attraverso essi, diamo un valore amplificato ad un luogo o a un emozione. Nella moltitudine di frammenti sedimentati nel tempo che hanno conformato le nostre città esistono elementi architettonici e pezzi di città, che sono lì, e non riescono a restituirci alcun senso, divenendo in alcuni casi intralci da negare continuamente. Ricostituire partendo da queste presenze, capire cosa ancora ci raccontano, e che spazi sono in grado di rievocare, è nostro compito. Materiali di progetto sia dal punto di vista economico che fisico, possono rappresentare un valore aggiunto che può essere affermato nel momento in cui questi elementi vengono messi in gioco o danno forma alla costruzione. E' su queste considerazioni che trovano motivo di confronto due diverse esperienze maturate all'interno di differenti dottorati di ricerca e basati su casi studio specifici: i resti delle terme di Nettuno a Pozzuoli e il recupero dell'interno delle corti dell'Eixample' di Barcellona. Parole chiave memoria, ri-composizione, riconnessione
Introduzione Quali sono oggi gli strumenti di progettazione nella città? A cosa dobbiamo affidarci, per ridare riconoscibilità e appartenenza a quei luoghi pensati per il pubblico, a cui però non si riesce più a fare affidamento, e che sono diventate parti incancrenite della città contemporanea? Brani di città non più riconosciuti dentro di essa perché 'fuori del tempo'. Ma la città è un tutto, e non è possibile, soprattutto in questo periodo di 'fine impero' dell’egemonia occidentale, lasciare all’interno della città spazi non integrati, spazi fermi, spazi incompiuti e non utilizzati. In questo panorama, uno degli interventi da fare è soprattutto quello di guardare, e riconoscere quali pezzi di città, complessi e non, sono in grado di restituire un significato coerente con la loro forma, e attraverso quali interventi si possono rimettere in gioco con la stessa forza con cui sono stati originariamente pensati. La memoria ci soccorre nel riconoscere, rifar salire a galla il senso originale degli interventi fatti, che lo sviluppo senza progresso ha nascosto sotto coltri di incuria e dimenticanza.
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La redazione del paragrafo 'L'occasione dell'archeologia: il caso di Pozzuoli' è di Daniele Balzano, la redazione del paragrafo 'La città si racconta dall'interno: il recupero delle corti nell’esperienza di Barcellona' è di Andrea Tulisi
Daniele Balzano, Andrea Tulisi
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La memoria come cura del territorio
L’occasione dell’Archeologia: progetto per Pozzuoli «Un rapporto sano col proprio passato si vede non da un isolato sforzo di conservazione, ma dalla capacità progettuale sul futuro dell’immaginazione in movimento» (Luca Doninelli, 2012). La memoria quindi come prima capacità di progettare il futuro, tirare fuori, fare uscire, estrarre. Nella città la memoria è costituita da quegli elementi che si riconoscono all’interno della stratificazione del tessuto urbano. Quegli elementi che contengono ancora in sè un disegno integrato. Elementi rappresentativi riconoscibili, primi segni dell’architettura della città: nella riconoscibilità e rappresentazione di un luogo, rimasti lì come moniti su ciò che avviene nella città contemporanea. L’archeologia è uno degli elementi a cui aggrapparsi per riconoscere, conoscere di nuovo il rapporto stretto tra l’architettura come rappresentazione dell’uomo e come interpretazione di un luogo. Dove gli elementi venivano messi a sistema come elemento di riconoscibilità del luogo e del proprio carattere fisico. Nel caso studio di Pozzuoli, la presenza dell’archeologia all’interno del suolo urbanizzato è molto complessa. (Figura 1)
Figura 1. Planimetria di Pozzuoli con evidenziate le emergenze archeologiche
A volte la città ha provato a sbarazzarsi delle sue archeologie, altre volte ci ha convissuto egregiamente. Questa forte presenza della romanità in una delle città più ricche dell’impero è stato per certi versi un trauma della città contemporanea, perché si è perso quel «riconoscibile tratto unitario, al cui carattere generale, alla cui continuità storica, l’intera città aspira ad appartenere» (A. Rossi, 1990). Quell’archeologia è diventata un peso, un elemento quasi di intralcio, specialmente per tutta la costruzione senza regole avvenuta negli ultimi cinquant'anni. Il rudere è divenuto un elemento da impacchettare, da chiudere in un recinto, parte di una civiltà passata con cui cancellare ogni tipo di rapporto. Gli elementi archeologici, non sono stati in grado di darci un interpretazione e un senso della propria presenza nella città e la loro continua negazione ha creato situazioni paradossali. Ci sono molti casi a Pozzuoli in cui i reperti archeologici sono diventati caricature di se stessi, trovandosi vicini a condomini e diventando dei veri e propri parcheggi, in una sorta di finta considerazione. Tra i vari reperti archeologici presenti nell’area puteolana, uno tra i più suggestivi è conosciuto come il 'Tempio di Nettuno', che si trova a pochi passi dall’Anfiteatro Flavio. «Sulle terme romane esistenti in Pozzuoli le più importanti sono senza alcun dubbio le Terme di Nettuno, oggi volgarmente additate col nome di Tempio di Nettuno (Figura 2). Le rovine delle Terme di Nettuno sono di eccezionale bellezza e la loro maestosa ed imponente presenza agli occhi del visitatore incutono ammirato rispetto. Esse si compongono di due grandi muri paralleli, lunghi circa settanta metri, ognuno dallo spessore di 1 metro e 40 cm circa, distanti tra loro circa tredici metri. In alto vi si rilevano tracce di finestre, di nicchie e di passaggi che servivano a mettere in comunicazione i vari ambienti […] Si nota solo la imponente mole dell’opera, che per la sua grandiosità doveva raggiungere una maestà architettonica degna dell’intelletto di grandi costruttori. » (S. Ponzo, 1961). Daniele Balzano, Andrea Tulisi
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Figura 2. Il rilievo delle Terme di Nettuno (Pozzuoli)
I resti archeologici di cui parla il Ponzo, riguardano le due grosse mura sono sopravvissute ai secoli, e che contenevano il frigidarium delle terme, la zona con le piscine fredde. Altri elementi della struttura che erano sopravvissuti, sono stati inglobati nelle costruzioni residenziali adiacenti. Questi resti archeologici sono tra più grandi che si trovano nelle vicinanze dell’anfiteatro. Uno dei pochi resti che è riuscito a trovare un uso all’interno della città. Queste mura, difatti, trovandosi su un suolo privato, sono diventate uno spazio per cerimonie, che utilizza come scenografia la forza evocativa delle antiche mura. Questo elemento architettonico per le sue peculiarità e per la sua presenza all’interno della città è senza alcun dubbio un pretesto per far riappropriare alla popolazione uno spazio civile importante. Le terme infatti, in epoca romana, era il luogo civile per eccellenza. Il luogo dove oltre allo svago, si badava della cura del corpo e della mente, visto che erano progettati anche luoghi per la lettura. Il frigidarium a Nord ha diversi metri di giardino pubblico, prima di arrivare alla strada, sul lato Sud ha la vicinanza con una linea di edifici di due tre livelli, costruiti sopra quello che era il calidarium la sala più calda delle terme. La posizione sul quale fu costruito questo imponente edificio è paesaggisticamente vantaggiosa, poiché trovandosi su di un declivio, gli edifici che si trovano a sud sono sottoposti, cosicché non viene occlusa completamente la vista verso il mare e il forte impatto paesaggistico non ne è inficiato. L’ipotesi progettuale fatta su questo rudere è impostata su più livelli: il primo è quello di ridare alla popolazione uno spazio pubblico importante, il secondo è quello di interpretare questi resti della grande navata facendogli riacquistare il carattere proprio, attraverso le proporzioni originali. L’occasione dell’archeologia è in questo senso un ottimo pretesto per creare un nuovo spazio di riconoscimento della città contemporanea, attraverso un pezzo della città antica. La prima operazione fatta, è quella legata allo scavo, operazione fondamentale anche per la conoscenza della fabbrica. La quota di imposta del pavimento del frigidarium è sottoposta di sette metri rispetto all’attuale piano di calpestio. Lo scavo infatti, ridà alla grande navata la sua proporzione originaria, e partendo dalla ricostituzione di questo grande vuoto, anche ricostruendo la parte alta dei muri, si è provato a mettere a sistema gli elementi più importanti dell’edificio. L’operazione non è stata quella di ricostruire gli stessi rapporti delle terme romane, anche perché sarebbe improponibile oggi, ma quella di rimettere in gioco alcuni elementi importanti. A sud, infatti, nello spazio che intercorre tra il rudere e le costruzioni è stata proposta la costruzione di un edificio termale di dimensioni ridotte, che si affacci sul grande vuoto della navata principale (Figura 3).
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Figura 3. Il progetto dello spazio pubblico del Frigidarium e dell’edificio termale
Questa ricostruzione è stata un processo di riconoscimento del carattere dell’edificio antico. Un lavoro filologico ha infatti preceduto tutto il lavoro di ridisegno e di riprogetto del manufatto, in modo da riconoscere a quella costruzione antica, la possibilità di rinascere, di riavere il ruolo formale che aveva perso. Tutto il lavoro è stato quello di 'mettere in opera' l’edificio. «Il frigidarium anch’esso absidato, era compreso tra due ambienti che potevano contenere delle vasche […] o avevano la funzione di basilicae thermarum, sorta di foyers con accesso agli spogliatoi e alla palestra, che si estendeva a nord e doveva contenere una grande piscina fredda» (W. Johannowsky, 1993) «Il carattere di un edificio sta nella sua lunga storia e in ciò che la sua forma è in grado di esprimere di quella storia nel suo costante e progressivo definirsi e adattarsi alla vita quotidiana, fino a diventare essa stessa, quella forma, un elemento insostituibile della nostra identità (per il fatto i riconoscerci in un comune sentire), della nostra stessa umanità, diciamo così, che nel corso del tempo ha determinato quella forma così com’è, unica e insostituibile, per una sua irrinunciabile necessità.» (G. Grassi, 1993) Lo sforzo è stato quello di capire che tipo di nessi l’architettura antica può creare nella città di oggi. Se il paesaggio dell'archeologia può assumere oggi un carattere di risignificazione del territorio, se può essere la chiave per pensarlo come elemento intorno a cui si ristabilire un dialogo di senso. Per dare luogo a questa trasformazione è prevista un intervento che utilizzi l’investimento privato. Per creare quel circolo virtuoso in cui c’è dialogo, tra l’investitore (colui che gestirà le terme) che permette lo scavo, gli archeologi, la popolazione alla quale sarà riconsegnato il grande spazio della navata del frigidarium. Non più come spazio termale ma come spazio pubblico. La possibilità di cercare nella memoria quell’elemento vivo non commemorativo o celebrativo, la memoria come luogo riconoscibile per ripensare e vivere la città.
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La città si racconta dall'interno: il recupero delle corti nell’esperienza di Barcellona Il dialogo tra spazi confinati e spazi aperti, tra vuoti e pieni è ciò che conforma la geografia di ogni città, che si è trasformata nei secoli attraverso la giustapposizione, sovrapposizione e sostituzione di entità fisiche. Il risultato è una trama intricata composta da segni sedimentati nel tempo, in una forma in perenne divenire, «un edificio alla cui costruzione partecipiamo tutti, e che mai riusciremo a vedere concluso» (Moneo, 2010). La città è dunque il luogo dell'esperienza collettiva di cui l'architettura ne è rappresentazione e memoria. Ma la memoria, come suggeriscono studi di psicologia, è un percorso dinamico di ricostruzione e connessione di rappresentazioni, piuttosto che un semplice immagazzinamento di dati in uno spazio mentale statico. Affinché si affronti questo percorso cognitivo c'è bisogno che il materiale di cui le forme sono destinatarie si manifesti attraverso l'esperienza diretta e si riconnetta al processo collettivo. I luoghi dell'oblio, luoghi abbandonati, dimenticati, sviluppatisi tra le pieghe di una moltitudine di segni, di cui sono ormai colme le città contemporanee, generano invece quella staticità che impedisce di 'avere visioni', di immaginare e di 'creare altro': la città ha bisogno di essere vista e vissuta e l'architettura oggi ha il compito di disvelarne le intimità nascoste recuperando il racconto della città. E' in quest'ottica che si inserisce l'operazione condotta dal Comune di Barcellona a partire dalla seconda metà degli anni 90 con l'obiettivo di migliorare la qualità di vita degli abitanti in un area della città con un forte deficit di aree verdi ed attrezzature pubbliche. L'area oggetto di recupero è quella dell'espansione ottocentesca, sviluppatasi sulla base del progetto dell'ingegnere Ildefons Cerdà: una maglia regolare di lotti quadrati di circa 100 metri di lato, che estendeva i confini della città storica riconnettendola con i borghi circostanti. L'eredità formale di quest'intervento è rimasta intatta all'interno della composizione urbanistica della città, divenendo parte del patrimonio culturale dei suoi abitanti e dell'intera tradizione urbanistica europea. Col passare del tempo però la giustapposizione tra il pieno dei lotti e il vuoto delle strade si è trasformata in un'immagine statica, interrompendo il dialogo tra le parti; i lotti col tempo hanno perduto la loro vocazione originaria di luoghi permeabili il cui spazio interno − originariamente libero − fungeva da mediatore tra la dimensione privata degli edifici e quella pubblica delle strade; le facciate esterne dei lotti si sono così trasformate in cortine invalicabili, dietro le quali si sono sviluppati, all'ombra della città, i germi di un abusivismo incondizionato. Lo spazio costruito, oltre a crescere in altezza, ha conquistato l'interno delle corti, occludendolo e frammentandolo. Il merito dell'amministrazione locale è stato quello avere saputo interpretare l'eredità storica del luogo: a differenza di altri luoghi della città in cui piccoli brani di tessuto urbano sono stati rimossi per dare spazio a luoghi aperti da destinare alla collettività, in questo caso si è deciso di ripartire dal cuore delle costruzioni, pensando ad una rete di interventi di recupero degli spazi interni dei lotti. A tal fine è stata istituito il ProEixample, una società mista con capitale pubblico e privato, di cui il Comune è azionista per il 62%, che ha permesso di acquistare spazi privati, destinati in prevalenza a funzioni di deposito, nascosti all'interno degli isolati e da oltre un secolo dimenticati. L'obiettivo era quello di recuperare uno spazio aperto al pubblico che fosse a meno di 200 metri di distanza da ogni singolo lotto, ridisegnando così un paesaggio interno fruibile equamente da parte di tutti gli abitanti della zona (figura4).
Figura 4. Nella planimetria sono evidenziati in rosso gli interventi realizzati dalla Giunta Comunale dal 1987 ad oggi per di recupero di spazi destinati ad uso pubblico nell'area dell'Eixample di Barcellona (Immagine tratta dalla tesi di laurea di Teresa Pazos Ortega, Los espacios recobrados para uso público en los patios interiores de manzana del eixample. Hacer de la necesidad virtud) Daniele Balzano, Andrea Tulisi
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L'operazione è avvenuta nel tempo, attraverso la sottrazione di volumi, la riconnessione col tessuto urbano e la ricomposizione di spazi; man mano che si apriva una breccia nella cortina degli edifici ci si è trovati di fronte ad una serie di materiali disordinati con cui dialogare: luoghi nascosti divenuti visibili, aperture e collegamenti interni, hanno dettato le linee guida degli interventi progettuali; asili, scuole, centri civici, biblioteche, abitazioni antiche e moderne frammenti di archeologia industriale nascosti e spesso soffocati all'interno dei lotti, sono stati inglobati nei disegni e riconnessi tra loro in una nuova trama interna. Il 'materiale' risultante da questa operazione di sottrazione è stato dunque disvelato, reinterpretato , talvolta è ritornato protagonista di un racconto destinato ad interrompersi, altre volte ha fornito spunti per comporre una nuova storia. E' il caso della recupero de l'interior de manzana de la Torre de las Aigues, primo esperimento di recupero delle corti dell'amministrazione comunale prima dell'istituzione del ProEixample. All'interno del lotto era presente una torre, costruita all'inizio del 900'; sorta in un luogo ricco di sorgenti di acqua fungeva da serbatoio di distribuzione dell'acqua potabile per gli edifici circostanti. La torre perse la sua funzione con l'estensione dell'acquedotto pubblico verso la metà del ventesimo secolo e rimase abbandonata per lungo tempo. Quando nel 1987 si decise di recuperare lo spazio interno al lotto fu la torre stessa a suggerire la nuova vocazione del luogo: l'acqua di cui la torre era simbolo, diventò il tema centrale dell'operazione. La corte recuperata, a cui si accede attraverso un piccolo ingresso sulla strada, si presenta oggi come uno spazio aperto con una fitta alberatura dominato dalla torre ai cui piedi è presente una vasca d'acqua di 50 cm di profondità; attrezzato con docce e bagni pubblici e la creazione di una piccola di spiaggia artificiale, è un luogo molto frequentato in estate dalle famiglie con bambini piccoli, che lo utilizzano come una sorta di complesso balneare di quartiere. La sua dimensione intima e racchiusa, che le corti sempre sono in grado di evocare, lo rendono un'alternativa valida alle affollate e caotiche spiagge della città. Difatti, «l’atto di radunarsi intorno ad un grande vuoto è un’azione semplice e antica che indica la collettività dell’abitare, oltre che un modo sicuro di costruire un’immagine conclusa dell’insieme residenziale e garantire l’identità» (Zorza, 2005: 209). Ad oggi sono stati recuperati oltre 40 "interiores de manzana"; ciascuno di essi garantisce le funzioni proprie di uno spazio pubblico − aree gioco per bambini, zone alberate, attrezzature etc. − aumentando la superficie di aree verdi e zone pubbliche attrezzate al'interno del quartiere, e alimenta nel suo dialogo stretto con il costruito la coesione sociale dell'area e il suo racconto collettivo. In questo intervento quindi la memoria diventa elemento attivo della progettazione nella misura in cui le soluzioni progettuali nascono dalla reinterpretazione del tessuto edilizio, partendo dalle sue viscere in un dialogo dinamico con l'eredità culturale e formale della città.
Bibliografia Luca Doninelli, Salviamo Firenze, Bompiani, Milano 2012 Giorgio Grassi, Il carattere degli edifici, in Casabella n. 722 Salvatore Ponzo, Le terme flegree nella storia e nell'arte, Arti grafiche D. Conte, Pozzuoli 1961 Teresa Pazos Ortega (2012), Los espacios recobrados para uso público en los patios interiores de manzana del eixample. Hacer de la necesidad virtud, proyecto de tesis, UPC, Barcelona. Aldo Rossi, Autobiografia Scientifica, Il Saggiatore, Milano Franco Zevi (a cura di), Puteoli, Edizioni Banco di Napoli, 1993 Fabio Zorza (2005), La disposizione a corte nel progetto della residenza, Studio dell’evoluzione di un tipo urbano nel ‘900 in Europa, tesi di Dottorato di Ricerca in Architettura Urbanistica Conservazione dei Luoghi dell’Abitare e del Paesaggio del Politecnico di Milano.
Sitografia Entrevista a Rafael Moneo, disponibile su Public Space, sezione "Biblioteca" http://www.publicspace.org/ca/text-biblioteca/spa/c005-entrevista-a-rafael-moneo
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Territori del dissesto
Territori del dissesto Alessandro Boldo Università degli studi di Ferrara D.E.I.T. Dipartimento di Economia Istituzioni Territorio Email: bolds@libero.it Tel: 0423370006
Abstract Non passa autunno senza che si faccia appello alla necessità di inserire nell'agenda politica nazionale un grande piano di manutenzione del territorio. Con drammaticità i tempi sembrano stringersi sempre più; se appare collettivamente certa la necessità di fare manutenzione e quali tecniche usare, meno chiari sono i passaggi e gli apprendimenti in grado di ridurre i misfit spazio-temporali tra l'evento e le risposte organizzative. Partendo da un progetto sperimentale, apparentemente fallimentare, promosso dall'Autorità di Bacino del Fiume Po per la manutenzione dei territori montani e collinari del bacino, il paper si propone di indagare quali dispositivi socioistituzionali contribuiscano all'istituzione di 'territori del dissesto'. Si indagano non tanto le soluzioni tecniche per definire la migliore manutenzione possibile, ma gli aspetti del comportamento organizzativo spesso taciti e latenti capaci di riformulare contestualmente il problema per la resilienza dei sistemi socio-ecologici e destabilizzare quei processi critici ostativi all'istituzione di 'territori della cura'. Parole chiave Manutenzione, comunicazione, cura
Premessa Il ministro dell'ambiente Clini, a seguito del periodico fenomeno legato al dissesto del paese, ha proposto il 5 dicembre scorso al C.I.P.E. la stesura di un quadro strategico per la difesa del territorio. L'aumento della frequenza degli eventi, associata all'intensità dei fenomeni, e al crescere della disomogeneità delle precipitazioni, aumenta la vulnerabilità dei territori ed incide pesantemente sui bilanci pubblici1, acuita dal fatto che le società sono oggi decisamente più complesse e hanno (in)consapevolmente moltiplicato l'esposizione dei beni ai rischi2, aumentando la frequenza con cui eventi anche di minore intensità causano danni e perdita di beni. La richiesta di manutenzione del territorio è una necessità inderogabile. Nelle politiche di difesa del suolo e in quelle ambientali, questa strategia si innesta in ottica incrementale: dalla Commissione De Marchi3, che ha portato alla stesura della l.183/89 sulla difesa del suolo inaugurando la stagione dell'ambientalismo scientifico (Cannata, 1990), l'approccio al dissesto ha posto i margini dell'azione all'interno della dimensione eco-regionalista, spostando le problematiche non solo in riferimento alla localizzazione del danno e all'accidentalità dell'evento, ma quale gestione combinata delle matrici suolo-acque. Un approccio di frontiera, cui oggi partecipano a pieno titolo strategie di mitigazione ed adattamento ai cambiamenti climatici, il contenimento del consumo di suolo, la qualità-quantità delle risorse naturali e dei servizi ecosistemici, soprattutto le evoluzioni organizzative dei soggetti preposti alla tutela4 e la dimensione sociale5. Non si è quindi di fronte ad un foglio bianco: si continuano a istituire arene nuove su sintassi già avviate, recuperando contestualmente un ventaglio notevole di capabilities tecniche, poco espresse soprattutto per carenza di enforcement politico e nella riduzione del vocabolario organizzativo-istituzionale su quello deontico-normativo. Accanto ad un'ipertrofia legislativa6, all'annuale mobilitazione di ingenti somme di spesa pubblica rispetto una spesa Alessandro Boldo
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Territori del dissesto
davvero marginale circa le misure preventive, l'affinamento delle conoscenze e la programmazione strategica, le mosse istituzionali ed organizzative hanno imparato a comunicare attraverso un intreccio che con ridondanza -la predisposizione fisica dei territori ai rischi- e vincolo -la disposizione organizzativa dei territori ai rischi- contribuisce ad istituire 'territori del dissesto' in una sorta di autopoiesi (Maturana e Varela,1985).
La manutenzione dei territori montani del bacino del Po All'interno di questa cornice s'inquadra il caso del Progetto Manumont ed il piano di manutenzione -Pdm in seguito7, promosso dall'Autorità di Bacino del Fiume Po -AdB Po, in seguito- per la manutenzione dei territori montani e collinari del bacino, di concerto con l'Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani e 6 campi sperimentativi su altrettante Comunità Montane -CM in seguito- dello stesso bacino: progetto sperimentale, stabilito sul combinato montagna-difesa del suolo, i cui soggetti coinvolti, già istituzionalmente 'deboli', sono stati progressivamente depotenziati per la stretta dei trasferimenti statali a partire dal 20088. Ad oggi il Progetto Manumont richiede una riflessione, non tanto per valutare l'efficacia di una procedura in assonanza con le valenze strategiche del grande piano proposto dal Ministro dell'Ambiente, ma per indagare difficoltà cognitive prima che applicative , per l'incidenza della spesa9, per la complessità delle matrici socio-ecologiche da gestire, per la debolezza dei tessuti amministrativi coinvolti, nonché per verificare quale architettura possa costituirsi rispetto al tema 'manutenzione', all'interno del quadro ambientale -dove si scatena l'evento- ed in quello istituzionale e organizzativo -che cerca di risolverlo).
I soggetti Nel Progetto Manumont due sono gli attori che sostanziano l'azione di cui uno con (pre)dominanza: l'AdB Po e le CCMM. Protagonista e deuteragonista sono posti più che in un rapporto dialogico, in un'ottica di scala più complessa, a cui partecipano diversi soggetti nell'arena con il ruolo di promotori di manutenzione; l'AdB ne individua responsabilità e azioni nel rispetto dei criteri e del principio d'integrazione. Esercizio che introduce criticità tecniche -come fare manutenzione- e di architettura organizzativa. L'AdB Po agisce per valorizzare10 le CCMM, azione da imprenditore di policy e da gatekeeper11, vaglia le informazioni, crea i filtri su cui impostare i discorsi delle arene, ricerca la leadership su un terreno quasi inesplorato per le attività di pianificazione ed infine mette in gioco una componente di rischio -caratteristica dell'imprenditoresurrogando l'incertezza del panorama amministrativo con la parametrizzazione dei fenomeni e delle probabilità da controllare. L'AdB Po detiene le modalità di costruzione dell'agenda, sviluppa un mobilization model, di cui il piano non è esauriente, ma espediente affinché manutenzione entri nell'agenda politica per stimolare l'interesse di attori terzi, le Regioni su tutti12. Dall'altra parte le CCMM si impegnano in una responsabilizzazione che contempli «l'(auto)valutazione dell'efficacia/efficienza delle pratiche manutentive» (AdB Po, 2006), nei contenuti e nel coordinamento tra i soggetti.
Il predicato Sebbene sia collettivamente riconosciuta come necessità inderogabile ed urgente, 'Manutenzione' applicata al territorio può sembrare nome poco felice: per l'AdB Po l'insieme di «tutte le azioni materiali e amministrative volte al mantenimento o al ripristino di una entità territoriale in uno stato in cui possa eseguire le funzioni richieste in relazione ad obiettivi condivisi e sostenibili» (AdB Po, 2006)13. L'evoluzione culturale prima che tecnica in materia è notevole14. Conoscenze di tipo fisico e quantitativo si congiungono a conoscenze di carattere sociale, di sensibilizzazione e concertazione istituzionale15, mettendo alla prova la capacità delle AadB di inquadrare un problema tecnico e settoriale in ottica multiscala di chi il territorio lo amministra e di chi lo pratica quotidianamente. Appresa la lezione dell'approccio congiunto suolo-acque e per svincolarsi da semplici routine gestionali, l'AdB Po cerca di implementare il Progetto Manumont con due leve: • coglie i vincoli che l'UE pone sullo spazio politico europeo come opportunità16, • usa apprendimenti alla piccola scala, specializzati localmente e rafforzati dall'uso collaudato delle logiche del partenariato, dall'alleanza locale, dai saperi della micro-scala, già contaminati del respiro comunitario (tanti INTERREG, LEADER o LIFE, ...). Nella ricchezza di queste miscele, l'AdB Po non solo condivide regole e strumenti, ma cerca di innovare la propria programmazione in ottica laboratoriale, istituendo un processo cumulativo di conoscenze. In questa interazione per creare il 'fatto istituzionale' manutenzione, l'AdB ha bisogno: • di un linguaggio, il naming, che istituzionalizzi manutenzione del territorio, ibridando il bagaglio esperienziale Alessandro Boldo
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con le norme UNI della terotecnologia17 e l'approccio territorialista (Raffestin 1981, Magnaghi 2000). Convenzionalmente il naming legittima simboli comunicativi e lo strumento in grado di rappresentare la manutenzione (sfalci, terrazzamenti, …); • di un frame, Per essere rappresentata la manutenzione del territorio non ha alcuna capacità 'pre-linguistica', l'AdB Po lavora senza un modello, la sua razionalità è limita (Simon, 1973) persegue obiettivi di efficienza in condizioni di scarsità di risorse. Per i proponenti è necessario passare da «una manutenzione a rottura a una manutenzione per piani»18: lo strumento certifica simboli e convenzioni comunicative con cui l'AdB Po può «vedere una situazione come un'altra» (Lanzara, 1985), non iniziando da una tavolozza bianca. L'uso della territorializzazione è il contesto garante dell'innovazione: si sfruttano i margini laschi di un concetto poco sperimentato e molto dichiarato, si verificano le qualità generativa e la solidità simbolica. Così AdB Po, con il contributo congiunto di A.R.P.A. Piemonte, C.N.R.-Irpi, attiva congiuntamente la propria struttura cognitiva (Lanzara, 1985): delinea le modalità di organizzazione delle informazioni, la costruzione delle linee guida, stabilisce standard e criteri non negoziabili19, anticipa risultati auspicati e li proietta su contesti autorevoli per rafforzarli; • di un framing. Nel processo l'oggetto si fa problema, l'AdB Po (etero)dirige la cernita prima e la creazione stessa della partnership -formale quantomeno all'inizio- impone l'adesione al programma, e l'attivazione di un networking, come sotto-struttura ordinata su cui veicola i fattori cognitivi per la decisione. Si costituisce un gruppo di coordinamento: rappresentanti delle regioni del bacino, le CCMM e le Province di Torino e Verbania, per arrivare alla formazione dei 6 Gruppi di Lavoro Locale -GLL in seguito-, 1 per ogni CM, con il ruolo di tester. Queste relazioni tendono a sovrapporre ulteriori canovacci operativi e cognitivi, per cui l'arena nella fase implementativa si arricchisce di spunti nuovi e conflittuali. Il GLL, il Gruppo di Lavoro Multidisciplinare -GLM in seguito- le ditte tecniche incaricate con i responsabili dell'AdB Po e delle CCMM, hanno poi il compito di stimolare amministrazioni locali ed enti preposti; l'arena si sposta così a livello locale, dove i contesti di legittimazione, le basi geografiche e regolative, le procedure lavorano per creare forme di «intenzionalità collettiva», necessarie per creare i fatti istituzionali della Manutenzione (Searle, 2006). Nel processo di problem setting, gli attori avevano il compito di selezionare determinati elementi e trascurarne altri, (pre)definendo il ventaglio dell'azione: sia l'AdB che i GGLM muovono i passi su un terreno poco esplorato, cercano raccordi d'ordine e di significato sulle proprie esperienze di gestione o di progettazione, contaminandole con le complesse sollecitazioni tecniche e normative del panorama ambientale comunitario e nazionale. Programmi forse troppo ambiziosi20, rispetto i contesti sollecitati e che inizialmente detengono ampia libertà esplorativa. Se manutenzione del territorio è dispositivo per evolvere verso forme di solidarietà ambientale e sociale (AdB Po, 2009), si scoprono nell'immediato occasioni di convenienza operativa. Allenate anche a non ottenere nulla dai contesti esogeni, le CCMM sono disposte a una competizione sia dentro che fuori l'arena del Manumont. Superata una diffidenza iniziale21 e nel gioco di ruoli predisposto dall'AdB Po, le CCMM agiscono consapevolmente per malleare a proprio favore non solo i frames, ma anche il linguaggio e strumenti, secondo un'intenzionalità via interazione strategica (Lagerspetz, 1995). Nel momento in cui si redigeva il PdM, le CCMM, per adesione volontaria, si fidano della razionalità stessa dell'AdB Po e della sua influenza per finanziare progetti già sul tavolo22. Il comportamento delle CCMM appare tanto strategico (Schelling, 2006), quanto opportunista: si manipola su schemi familiari23 non la dimensione analitica del piano, ma quella reificata (Crosta, 1998), agendo su rappresentazione e uso dei termini. Tuttavia, nel momento in cui l'AdB Po vede costituirsi la possibilità di un finanziamento statale24 per sperimentare il proprio canovaccio, chiude il 'laboratorio locale' della manutenzione: da promotrice di (auo)implementazione e di accountability dei contesti locali, retrocede verso forme Command & Control, per certificare la bontà del proprio prodotto -il PdM-25, esigendo una spazializzazione dell'arena per ruoli/funzioni. La novità del progetto si riduce in griglia organizzativa, perdendo l'occasione per ridefinire la problematicità all'interno di un processo interattivo (Crosta, 1998) in cui molto era già sul campo.
Certificare il prodotto: «l'AdB fa piani»26 Quando i finanziamenti si dimostrano insussistenti e le CCMM vengono depotenziate si assiste a una progressiva fase di exit27. Le CCMM escono simbolicamente dall'arena e disattendono il protocollo d'intesa, non quali consumatori insoddisfatti, non recedono il 'contratto' manifestano piuttosto scarso interesse nel momento in cui il processo non genera possibilità concrete di spesa verso la propria progettualità, a cui si aggiunge l'aggravante indotta dal nuovo status istituzionale28. Questi fatti spostano definitivamente il baricentro della progettualità sull'aderenza alla procedura stabilita dall'AdB Po, verso forme di razionalità sostanziale per cui è necessario «certificare il prodotto, per certificare le aspettative»29. La necessità di europeizzazione riduce manutenzione a tecnicismo di piano, mal digerito dai contesti locali, i quali tornano all'ordinarietà gestionale (o commissariale). Ci si dissocia così da un learning congiunto (viziato di opportunismo) e si approfitta del misfit (istituzionale) per tornare a fare ciò che Alessandro Boldo
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si faceva. Il misfit è così una sorta di «malinteso doppiamente beninteso» (La Cecla, 1997), non un difetto di comunicazione à la Levì Strauss, ma una situazione nella quale «entramb[e le parti] sanno che c'è stato un malinteso e preferiscono lasciare le cose come stanno» (La Cecla 1997 p.18). La correttezza della procedura ordina le comunicazioni tra i soggetti: le griglie sono poco lasche e l'AdB Po è fortemente convinta dell'innesco innovativo, conditio sine qua non, su cui redigere i piani. Emerge la difficoltà del partenariato quale certificatore di questa piccola forma di Governance ambientale (Young 2002, Folke 2005) su cui le organizzazioni -forze «integrali per dare risposte complesse» (ibid)- avrebbero dovuto lavorare , cooperando sull'apprendimento e sull'azione congiunta. Il progetto costruito sulla razionalità limitata (Simon 1973), per garantire apprendimento, fit e ri-orientare i fini sull'azione, non può ora emanciparsi da forme sostanziali di razionalità, in quanto solo guidata dall'esportazione del modello e dalla best practice. I canali comunicativi sono ristretti a pochi attori competenti e concorrenti per accaparrarsi qualche finanziamento. Alla fine del percorso tutti i PdM tornano paradossalmente a chiedere -nel profilo attuativo- ciò da cui sono partiti -nel profilo strutturale- e su cui erano legittimati a muoversi: monitoraggi, quadri conoscitivi, procedure implementative su matrici socio-ambientali, schemi reificati per istituire un modello sul modello. Ovviamente, la raccolta dati, la sua sistematizzazione e il benchmarking territoriale sono alla base delle strategie di difesa, ma è innegabile che siano state la vera produzione quantitativa del PdM, attestanti la devoluzione di un'azione verso quel sapere expertise, che ricrea formalmente la struttura logica di 'poteri convenzionali'30. Si è in tal modo aperto il campo per un'ipertrofia rappresentativa -e sotto-rappresentativa- del sapere expertise, che ha descritto il problema stesso ipostaticamente rispetto alla dinamicità territoriale. In questa cornice il progetto Manumont è coerente con gli schemi terotecnologici: un'innovazione che produce quantificazioni, parcellizzazioni fisiche e assegnazioni di funzioni tutte ricomprese all'interno della logica 'dell'appalto'. Vincolo e ridondanza continuano a istituire i territori del dissesto.
De-strutturare Manutenzione: l'uso del suolo come difesa L'AdB Po consegna ai tecnici l'orizzonte metodologico, le linee guida per redigere il PdM, assieme ad opportune narrazioni bibliografiche legittimanti l'innovazione scelta. Mentre 5 PdM viaggiano e divagano nel solco tracciato dalle 'Linee guida' costruendo una quantità enorme di prescrizioni e oggetti cartografici; il GLM del Baldo accoglie il quadro iniziale con interesse, lo integra, mettendo in crisi non solo il framing locale, ma tutte le fasi di problem setting già formalmente attivate. Il dispositivo è l'innesto di un frame inedito, 'l'uso del suolo come difesa'31, deviazione accettata con curiosità e interesse da parte della stessa AdB, la quale sta ancora valutando pregi e difetti delle singole esperienze per porle poi sul panorama europeo. All'inizio tutto funziona bene gli argomenti sono situati nel posto giusto e non sono per nulla distanti dal bagaglio di chi ascolta, termini come 'difesa attiva-difesa passiva', 'aree a rischio attivo e passivo' (Cannata 1990, 2002), 'implementazione della rete ecologica', citazioni di nomi illustri come E. Sereni o A. Serpieri, ma anche procedure comunitarie quali orizzonte di garanzia, partecipano al re-framing locale per il Baldo. Nulla da eccepire, anzi queste parole si situano ancora di più nella vera mission delle AadB. La provocazione nasce non tanto dall'uso di nomi -territorializzazione, uso del suolo come difesa, difesa attiva, rischi passivi,...- ma dall'applicazione delle 'nominalizzazioni'. Le discordanze accadono sulle diverse valutazioni/osservazioni dei fatti bruti e sulle assegnazioni agli stessi di particolari funzioni agentive32 (Searle, 2006). Il GLM del Baldo recupera l'uso effettivo del 'vincolo' quello della gestione ai fini di difesa idrogeologica (R.D.L. 1923, n. 3267), che, sulle aree in abbandono, ha sostituito coltivazioni di frontiera, con la ri-colonizzazione dei versanti e con successioni spontanee di restauro del suolo (Cannata, 2002). Al presidio sociale del lavoro dell'uomo, che «conquistava la montagna metro per metro» (Taffarel, 1963) si sostituisce il presidio indotto dalla sua assenza33, la resilienza dei sistemi ecologici, la ri-naturazione spontanea delle specie autoctone: assume così ruolo strategico il percorso istituzionale non orientato alla «valorizzazione», ma al tutela dei suoli. Per la CM del Baldo significava impostare scelte di programmazione sulla base di un patrimonio naturalistico e culturale ricchissimo34 e in un contesto povero di fenomeni gravitativi rilevanti: tipicità facilmente orientabili dai rent seeker verso forme di 'valorizzazione' che spesso nascondono usi impropri e scorretti dei suoli. Aree a rischio attivo -quelle dove si originano i dissesti-, localizzate nelle zone a maggiore naturalità della CM stessa35 ed il refrain istituzionale locale di tantissime istituzioni e organizzazioni, il Parco (non-parco) del Monte Baldo, rappresentava per il GLM l'occasione al fine di sperimentare strategie di gestione passiva. Individuare aree a rischio attivo e aree a rischio passivo, zone di difesa passiva e aree a difesa attiva, rispetto alla divisione 'Ambiti territoriali-Entità territoriali-Oggetti territoriali', ha messo in crisi l'AdB Po, non predisponendo un 'programma di manutenzione' (analisi costi – benefici, computi metrici estimativi) ma un'istituzionalizzazione debole (non prevista negli ordinamenti) a garanzia dell'assetto e di cui l'AdB Po avrebbe potuto farsi garante. Il 'Parco-non parco' sul Manumont non sta in piedi nel momento in cui l'AdB Po perde il controllo delle rappresentazioni e Alessandro Boldo
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soluzioni a garanzia d'efficacia della procedura. Entrambi mal digeriscono differenti imposizioni di funzioni di status: per il GLM, la moltiplicazione di procedure, zonizzazioni e porzioni territoriali omogenee, su cui attribuire funzioni e usi -cosa che negli altri piani ha prodotto una quantità enorme di prescrizioni- per l'AdB, un PdM non riproducibile, poco parametrizzabile per il bacino.
Verso i territori della cura In questo conflitto la CM istituisce una doppia comunicazione: sottoscrive il protocollo, ma svolge un ruolo di agente negativo di comunicazione (Watzlawick et al, 1971), non raccorda i due frame, teme la gerarchia amministrativa dell'AdB e accelera la fase di exit36. In una fase di latenza e di tensione del PdM, in cui l'AdB spinge per la razionalizzazione del metodo e il GLM divaga verso altre mappe, intervengono a risolvere la tensione i Servizi Forestali della Regione Veneto. L'innesco è dovuto ancora una volta alla convenienza di disporre delle risorse per attuare progetti nel quadro del PdM. Il network cambia, altre organizzazioni occupano uno spazio lasciato vuoto e ne allargano la base: istituiscono sul dialogo interrotto ponti per la comunicazione tra i due frame, riducendo il rischio di un repentino abbandono del learning. I 'Servizi Forestali' accompagnati 'dall'Osservatorio Turri'37 hanno così preso in mano il PdM, condotto fisicamente GLM e AdB Po in un percorso inedito: uso del suolo come difesa e linee guida si sono incontrati nell'azione pratica, in un inedito 'profilo attuativo', hanno fornito dati tecnici in loro possesso relativi a frane, incendi e criticità, hanno fatto scoprire al GLM la ricchezza fisica e sociale del Baldo, portandoli 'in gita' lungo la forra del torrente Tasso, ispessendo la qualità dell'arena e della comunicazione e ampliando le basi della progettualità. Emergeva così la complessità socio-ambientale, prima delle criticità idrogeologiche, quale necessità per la resilienza locale (Folke, 2005): l'AdB Po abbandona l'attinenza alla procedura e ritorna a riflettere sul problema, se non meno attenta a parcellizzazioni e funzionalizzazioni delle matrici fisiche, quantomeno curiosa degli orientamenti pratici di chi la montagna la vive e la pratica quotidianamente, di chi sa intercettare la manutenzione nelle pratiche di cura. Pratiche di cura in quanto Servizi Forestali e Osservatorio Turri riportano il verbo 'mantenere' alla connotazione quotidiana: non tenere in mano, nella mano delle competenze, ma tenere per mano, accompagnare, nella misura della relazionalità. Aggiungendo responsività a ricettività -stimolata all'inizio dai finanziamenti-, si è risolto un misfit tutto istituzionale con processi cognitivi insoliti e allenandosi nella relazione (Foucault, 2003). Il ruolo d'attivatore dell'AdB Po38 è usata così non in funzione adattiva o mitigativa sullo stock degli asset territoriali presenti o dei fenomeni di misfit, ma generativa di processi auto-organizzati e framed creativity (Galaz, 2002), tramite cui il Progetto Manumont torna ad essere laboratorio dove si miscelano processi d'apprendimento e rafforzamento di capitale sociale39. Se non hanno prodotto la manutenzione del territorio, hanno tuttavia contribuito a destabilizzare i 'territori del dissesto' ed istituire 'territori della cura', in cui i soggetti non sono solo ricettivi rispetto il problema (o preventivi) ma «complementari, nel rispondere agli appelli dell'altro» (Mortari, 2006: 113), non riconducibili ad impostazioni preventive e sinottiche.
Conclusioni Si sono indagati gli sforzi cognitivi dell'AdB Po per istituire la manutenzione del territorio, in un percorso a ritroso dalla strategia delle formica (Simon 1973), a razionalità sostanziali, mettendo in crisi l'incrementalismo su cui si impostava l'incertezza per la decisione. La delega al piano, all'esperto e l’applicazione di procedure precise per ridurre i misfit spazio-temporali (Galaz, 2002), ha prolungato i territori del dissesto in un misfit fra realtà e politiche. Il conflitto, creato nell'arena del Baldo e risolto nella scala quasi familiare, orizzontale ha ridotto queste astrazioni sulle probabilità del rischio e aumentato le possibilità, le occasioni sulla resilienza, affinché manutenzione incontri cura nell'agire socio-politico. Con l'uso pratico di spazi di cura si è lavorato a vista, «non imponendo niente in anticipo, ma aderendo alla circostanza così bene da ottenere ogni volta una presa di cui [è possibile] approfittare» (Jullien, 1998: 31). Concordi sul potenziale di situazione, si è istituito uno spazio effettivo, non una procedura, in cui interdipendenze funzionali si sono sciolte: ruoli e funzioni si ricostruiscono criticamente nella specificità, esito non-deliberato, rispetto la codificazione di azioni imposte dalla competenza (Crosta, 1998). Lo spazio non condiziona più le modalità dello stare assieme, ma è lo stare assieme (Bruni, 2010) a condizionare uno spazio gratuito per la cura.
Alessandro Boldo
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Filmografia Taffarel G. (1963) Fazzoletti di Terra, Comune di Valstagna (VI)
Alessandro Boldo
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La riduzione del rischio sismico e lo sviluppo del territorio attraverso gli strumenti ordinari di pianificazione urbana
La riduzione del rischio sismico e lo sviluppo del territorio attraverso gli strumenti ordinari di pianificazione urbana Riccardo Bonotti Università degli studi di Brescia Dipartimento DICATAM Email: r.bonotti@studenti@unibs.it Tel: 0303711266 Claudia Confortini Università degli studi di Brescia Dipartimento DICATAM Email: claudia.confortini@ing.unibs.it Tel: 0303711305
Abstract Considerare il tema del rischio sismico all’interno della pianificazione urbanistica e della gestione dell’uso del suolo, rimane ancora oggi una grande sfida, soprattutto di carattere culturale. Legare questo tema a quello dello sviluppo socio-economico è ancora più complesso poiché chiama in gioco interessi privati e logiche di profitto che spesso sono in antitesi con l’obiettivo stesso di salvaguardia e tutela urbanistica del territorio. L’esperienza passata ha comunque presentato casi in cui lo strumento urbanistico in fase di ricostruzione è stato in grado di conciliare la difesa dal rischio sismico con quello della ripresa socioeconomica dell’area interessata. È possibile da questi esempi ricavare utili spunti e riflessioni per poter estendere tale principio da una logica del “rimedio” ad un approccio volto alla “prevenzione” ordinaria. Parole chiave Terremoto, pianificazione, sviluppo.
Introduzione Riguardo al tema della pianificazione urbana collegata al rischio sismico, l’Italia è un Paese che si è trovato sempre impegnato a 'rincorrere' i quotidiani disastri piuttosto che perseguire la strada di una ordinaria attività di difesa del suolo, attraverso una sorta di 'ricostruzione preventiva' anziché una reale 'prevenzione delle ricostruzioni'. Il dibattito tecnico scientifico e le normative statali e regionali a seguito di un evento calamitoso hanno evidentemente focalizzato sforzi ed interessi a riguardo della ricostruzione in corso non concedendo però al contempo altrettanta attenzione a come evitare una possibile futura ricostruzione. In particolare è facile constatare come l’emanazione di norme volte alla mitigazione del rischio sismico sia stata stimolata dalla constatazione dei disastrosi effetti di singoli eventi più che dalla volontà di prevenirli. Tali eventi sono stati tuttavia anche l’occasione per ripensare ad un rilancio socio-economico dei territori colpiti veicolato, almeno nelle intenzioni, da significativi interventi infrastrutturali e di trasformazione urbana, come nel caso dell’Irpinia (1980) e nella prima fase di emergenza-ricostruzione de L’Aquila (2009). Tali interventi, al di fuori dello stato di calamità, non avrebbero potuto trovare legittimazione politica, né forse il consenso delle popolazioni direttamente interessate. Al contempo, si è potuto assistere in alcuni casi alla ricostruzione di piccole realtà locali come nell’Umbria e nelle Marche (1998-99) così come quelle più recenti ed attualmente in corso in Abruzzo dove l’intervento di post-sisma si è proposto come fattore di coesione sociale, di tenuta psicologica collettiva, di aggregazione delle risorse locali, di accelerazione e sostegno dei processi economici, di attrazione di risorse straordinarie. Protagonisti nonché veicolo di tali processi sono stati i piani urbanistici dai cui obiettivi, indirizzi e specifiche tecniche sono derivati gli esiti della ricostruzione fisica, economica e sociale del territorio. I risultati sono stati Riccardo Bonotti, Claudia Confortini
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talvolta positivi, molto spesso da rivedere, ma sempre utilizzati come base di esperienza e stimolo per successive implementazioni e sperimentazioni. Se è vero che ogni luogo è unico e non esistono ‘ricette’ di ricostruzione di validità generale, di fatto le esperienze del passato hanno mostrato come le scelte urbanistiche attuate a seguito di un evento sismico possono essere determinanti per la ripresa della vita economica e sociale dei territori colpiti. Sono ben noti ad esempio gli effetti negativi dei nuovi insediamenti realizzati nel Belice dopo il sisma del 1968, in totale discontinuità con le preesistenze e, al contrario, gli effetti positivi delle scelte compiute in Friuli a seguito del terremoto avvenuto il 6 maggio 1976 (CeNSU, 2010).
Il Piano di Recupero In Irpinia e Basilicata, attraverso la legge n. 219 del 14 maggio 19811, sono stati introdotti nella legislazione italiana vigente meccanismi atti a disciplinare l’attività della ricostruzione, mediante i tipi di strumentazione urbanistica già contemplati nella legislazione nazionale e regionale, col fine di collegare la ricostruzione allo sviluppo delle aree colpite, nell’intento di favorire il decollo sociale e produttivo delle regioni interessate all’evento calamitoso (R. Busi e P. Pontradolfi, 1992). Lo Stato per la prima volta si è fatto carico quasi interamente dell’onere della ricostruzione e gran parte dei finanziamenti sono stati destinati alla realizzazione di aree industriali, alle attività produttive artigianali e commerciali, all’attuazione di una viabilità e di opere di urbanizzazione. Si è dato inoltre spazio alla applicazione sistematica di uno strumento urbanistico, il Piano di Recupero, che era stato usato fino ad allora principalmente per interventi sul tessuto storico esistente. Si è ritenuto infatti che tale strumento urbanistico potesse essere quello più rispondente al recupero dei centri abitati sconvolti dal sisma. Le finalità erano sia di impedirne lo svuotamento e l’abbandono, sia di migliorarne la qualità urbana complessiva, con una rilevante convinzione di fondo circa la necessità di considerare organismi urbanistici articolati. Da un lato, come ad esempio nel caso del piano di recupero di Corso Vittorio Emanuele ad Avellino, questo strumento ha avuto il pregio di evitare l’abbandono delle aree tramite il miglioramento dell’accessibilità, la riqualificazione e il recupero nelle caratteristiche storiche architettoniche dell’ambiente edilizio. Inoltre, per contrastare il fenomeno del pendolarismo e ridare sviluppo alla città, si è dato sostegno a nuove attività artigianali valorizzando le risorse naturalistiche storiche e paesaggistiche del territorio comunale. Dall’altra parte però, come per il comune di Biella, si sono manifestati tutti i limiti connessi all’utilizzo del Piano di Recupero in situazione ancora di emergenza: le procedure di redazione troppo rapide imposte (90 giorni destinati alla redazione ed adozione del piano) non consentivano una conoscenza approfondita della nuova situazione territoriale creatasi dopo il sisma, né un’adeguata riflessione sulla metodologia e sulla formulazione delle scelte progettuali. Indicazione per cui questa tipologia di piani ordinari offrono il massimo delle loro prestazioni solo se sono gestiti ed applicati in tempo ordinario (W. Fabietti, 1999). Nel complesso il Piano di Recupero, laddove la scelta è stata oculata (si vedano ad esempio gli interventi compiuti a Rocca S. Felice, Nusco, Gesualdo, S. Angelo e Guardia Lombardi e Sant’Andrea di Conza) ha consentito di ridefinire e salvaguardare aspetti urbanistici, storici e ambientali importanti compiutamente al processo di ricostruzione. Esso ha permesso di superare i tradizionali limiti legati alle proprietà dei singoli imponendo, attraverso la costituzione dei consorzi, il coinvolgimento di tutti i proprietari delle unità immobiliari ricomprese nell’ambito delle Unità Minime di Intervento. L’uso invece indiscriminato del PdR anche laddove risultava superfluo ha fatto sorgere molti problemi e ritardi a causa della natura rigida di difficile gestione propria del suddetto strumento urbanistico. In generale i Comuni non hanno saputo accogliere pienamente la valenza di questo strumento che favoriva il passaggio dalla scala edilizia a quella urbanistica, di conservazione del tessuto urbano nel suo complesso, coinvolgendo così nella politica di tutela anche gli spazi pubblici, le attrezzature collettive, i servizi pubblici, nonché il paesaggio urbano. Soprattutto vi è stato uno scollamento tra ricostruzione fisica ed un complessivo sviluppo economico e urbano dei centri abitati: il solo Piano di Ricostruzione non si è rivelato adeguato a conciliare assieme le due esigenze. Si è pensato che la crescita socio-economica dell’area potesse derivare, esclusivamente, dal rilancio delle attività industriali, senza promuovere al contempo programmi di sviluppo improntati sulla sostenibilità sociale e ambientale, che tenessero conto della vocazione prettamente agricola e delle effettive potenzialità dell’area. È mancata inoltre a monte un’opera più intensa di educazione e sensibilizzazione della popolazione sia verso il tema del recupero e della difesa dal rischio, sia verso una gestione più oculata del denaro volta all’impulso degli imprenditori locali. In definitiva, se massicci interventi di infrastrutturazione hanno apportato un netto miglioramento alle condizioni generali di vita della popolazione in Irpina e, in particolare, delle popolazioni rurali che, fino ad allora, avevano vissuto in situazione di isolamento e in dimore fatiscenti, tuttavia le aspettative sociali, politiche ed economiche, sono state profondamente deluse. Questo perché la speranza, allora condivisa, che quest’area potesse diventare il 1
Legge n. 219/1981, riguardante la conversione del Decreto Legislativo 75/1981 ‘Ulteriori interventi in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del novembre 1980 e del febbraio 1981’.
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centro ‘di un progetto capace di affrontare non solo i problemi inerenti al terremoto, ma di avviare a soluzione la stessa questione meridionale’ (Mazzoleni D. e Sepe S., 2005) è svanita man mano che la ricostruzione ha assunto le sembianze di progetti non conformi perché troppo grandi rispetto alle esigenze delle popolazioni, alle dimensioni degli spazi urbani e alla scala di intervento dei piani urbanistici.
Il Programma Integrato di Recupero Il terremoto umbro-marchigiano del settembre 1997 (durato fino alla primavera del 1998) ha prodotto effetti devastanti in un territorio molto esteso e diversificato sia dal punto di vista orografico che insediativo, comprendente vaste aree agricole, numerosi piccoli insediamenti e abitazioni sparse. Nei centri urbani colpiti la situazione socio-economica era precaria già prima del sisma e i danni più rilevanti si sono riscontrati in particolare sul patrimonio storico-architettonico, che costituisce, data la forte attrattività turistica, una delle principali fonti di ricchezza del territorio. È dunque subito parsa chiara l’opportunità di redigere progetti di ampio respiro sociale, in grado di garantire agli abitanti dei territori di pregio ambientale, ragionevoli condizioni di vita e di sviluppo improntati a logiche di sussidiarietà. Vale a dire modelli il più possibile ‘auto-gestiti’ ancorché variamente ‘assistiti’ e comunque ‘autocentrati’, ovvero costituiti strategicamente sulla valorizzazione delle risorse localmente disponibili, sull’intercettamento di risorse aggiuntive e sull’attivazione virtuosa di processi produttivi di scala locale frutto di una collaborazione tra pubblico e privato (Nigro G., Sartorio F.S., 2002). Pertanto, sulla base della valutazione delle precedenti esperienze, furono introdotte con la legge del 30 marzo 1998 n. 612 forme innovative di strumentazione intesa a risolvere i problemi della ricostruzione post sismica con quelli della riqualificazione urbanistica degli abitati e si è arrivati ad individuare nei Programmi Integrati di Recupero (PIR) lo strumento cardine per avviare il processo di ricostruzione. Tale processo, nel complesso, tranne qualche eccezione quale il comune di Nocera Umbra, ha presentato una qualità complessiva superiore alle precedenti esperienze post sismiche: paradossalmente, questo disastro naturale è stato accolto come occasione di rinascita di città che prima del terremoto presentavano condizioni di decadimento sociale ed economico, attraverso interventi infrastrutturali e di trasformazione urbana. In questa logica, il grande sforzo collettivo della ricostruzione non è stato finalizzato al semplice ripristino delle preesistenze, ma è diventata occasione per un miglioramento preventivo, sia del singolo edificio o aggregato, che dell’ambito urbano, al fine sia di ridurne la vulnerabilità al rischio sismico, che occasione per produrre nuove e migliori condizioni insediative, diventando, quindi, occasione di sviluppo. I PIR non possono però essere considerati quali strumento di sviluppo e di rinascita se non in senso lato. La ricostruzione integrata nei centri storici e negli altri insediamenti, se improntata nel prevedere il ripristino degli edifici pubblici e privati, la bonifica dei dissesti idrogeologici e il rifacimento delle infrastrutture da la possibilità di fungere da volano per la rivitalizzazione dell’insediamento interessato, a condizione che venga supportata da ulteriori specifici interventi realizzati ad un effettivo sviluppo economico e sociale. Va detto però che l’esigenza di rapidità della ricostruzione ha finito per interpretare il PIR come uno strumento ‘speditivo’ più che ‘flessibile’ e finalizzato alla integrazione di funzioni, soggetti e forme di finanziamento. Penalizzata da ciò è stata certamente la visione complessiva dei territori interessati e la messa in sistema delle risorse a scala territoriale.
Il Piano di ricostruzione A L’Aquila l’esperienza di ricostruzione tutt’ora in atto sta dimostrando come una alternativa alla logica dell’intervento straordinario adottato dal capoluogo (commissariamento), può dare luogo a programmazioni operative capaci di produrre nel loro iter una sperimentazione procedurale innovativa più efficace, da cui trarre utili suggerimenti per operare elementi di auto-riforma. Da una parte infatti la complessa opera di ricostruzione di una città-monumento, pesantemente condizionata dalle scelte ibride presenti all’interno del Decreto-Legge del 28 aprile 2009, n. 393 ha innescato un processo di ricostruzione lungo e farraginoso. Dall’altra, a conclusione del Seminario Nazionale Idee per la Ricostruzione delle città, Imprese e Università a confronto, svoltosi a L’Aquila il 5 maggio 2009, è scaturita l’idea di promuovere a livello nazionale e locale una piattaforma di iniziative a favore dei territori colpiti dal sisma. Si è trattato, per i comuni del cratere accorpati in 9 aree omogenee, di definire in concerto con la Pubblica Amministrazione e le università coinvolte nel progetto un rapporto di collaborazione finalizzato alla redazione di 2 3
Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 gennaio 1998, n. 6, recante ulteriori interventi urgenti in favore delle zone terremotate delle regioni Marche e Umbria e di altre zone colpite da eventi calamitosi. Decreto-Legge del 28 aprile 2009, n. 39 recante interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici nella regione Abruzzo e ulteriori interventi urgenti di protezione civile”, poi convertito nella Legge n.77 il 24 giugno 2009.
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Piani di Ricostruzione4 o più in generale di Master Plan mediante la realizzazione di laboratori interdisciplinari per le attività di ricerca, sperimentazione e formazione, tesi a predisporre studi per la ricostruzione e lo sviluppo territoriale sostenibile. Il processo di auto-aggregazione risponde agli obiettivi prefigurati dall’Unità tecnica di Missione nelle Linee di Indirizzo strategico per la Ripianificazione del territorio che promuovono iniziative in una visione di area vasta e di intercomunalità con l’obiettivo di “assicurare la ripresa socio-economica, la riqualificazione dell’abitato e l’armonica ricostruzione del tessuto urbano abitativo e produttivo nelle aree colpite dal sisma”5. In questo modo si è pensato di contribuire alla ricostruzione dell’Aquila salvaguardando il futuro delle realtà minori, ospitando servizi ed attrezzature in grado di frenare lo spopolamento delle aree montane, potenziando economie locali, turistiche in primo luogo e valorizzando in secondo luogo il patrimonio di risorse culturali e ambientali su cui fondare, in maniera collaborativa, lo sviluppo sostenibile del territorio colpito dal sisma. Nel primo caso è esemplare il lavoro portato avanti dall’Area omogenea 9 (Lucina Caravaggi, 2010), la quale, in disaccordo con la logica dell’emergenza, che rischiava di vanificare l’impegno e le risorse che gli enti locali, in particolare i comuni montani, hanno investito per garantire il consolidamento e il rilancio delle economie del territorio (turismo in particolare) hanno ripreso progetti già in corso, orientati a rafforzare la coesione territoriale e l’offerta turistica complessiva. Nel secondo caso di Poggio Picenze Interlab (AA.VV.,2010) il progetto di ricostruzione ha puntato a soluzioni di adeguamento strutturale connesso ad una reinterpretazione del patrimonio danneggiato attraverso una corretta esecuzione di riparazione e restauro secondo l’arte minore di costruzione locale e l’uso e il riuso dei materiali della tradizione edilizia locale. Emblematica è la riapertura delle cave per il riutilizzo della pietra che servirà non solo per uso specialistico nelle operazioni di restauro ma anche per usi contemporanei, dunque per un rilancio di tale prodotto e alla commercializzazione a livello nazionale. Inoltre le aree occupate attualmente dai MAP potrebbero dal vita ad un museo-laboratorio della pietra e a fornire ulteriori spazi per le iniziative culturali più note, legate allo sport e alla musica come ad esempio il festival Poggio Picenze in Blues.
Dal rimedio alla prevenzione Dalle esperienze descritte si può certamente affermare come il terremoto sia in grado di amplificare una situazione di sviluppo o di crisi già in essere: una crisi economica può accentuarsi, una crescita può incrementarsi. In Irpinia il terremoto ha provocato danni molto rilevanti ed i finanziamenti assegnati avrebbero avuto il duplice scopo di ricostruire i paesi distrutti e rilanciare un’economia ancora in stato di arretratezza. Di fatto gli interventi post-sisma hanno apportato miglioramenti soprattutto per quello che ha riguardato l’innalzamento della qualità della vita delle popolazioni rurali, che da tempo vivevano in dimore fatiscenti, e la realizzazione della nuova rete stradale, la quale, se da una parte ha reso possibile il collegamento tra i piccoli comuni con i centri maggiori, dall’altra non ha contribuito all’innesco dell’auspicato sviluppo industriale. In Umbria e Marche l’indirizzo verso una ricostruzione ‘dov’era com’era’ e il più possibilmente rapida e diffusa, ha reso però la ricostruzione pari ad un ripristino indistinto su tutto il territorio. Questo non ha permesso di concentrare in maniera efficace gli stessi fondi su pochi interventi strategici in grado di aggregare e indirizzare iniziative, risorse e progetti di soggetti diversi e affrontando in maniera estesa il problema della vulnerabilità urbana all’interno di programmi di iniziativa pubblica, quali la Struttura Urbana Minima: uno strumento in grado di dare un senso compiuto ai progetti proposti dai privati, scartando progetti più marginali. Recentemente è stata sperimentata nel comune di Faenza dopo il sisma in Emilia Romagna del maggio 2012 l’analisi della Condizione Limite di Emergenza6: strumento atto a valutare la condizione del sistema urbano al cui superamento, a seguito del manifestarsi di un evento sismico, pur in concomitanza con il verificarsi di danni fisici e funzionali tali da condurre alla quasi totalità delle funzioni urbane presenti compresa la residenza, l’insediamento urbano conserva comunque, nel suo complesso, l’operatività della maggior parte delle funzioni strategiche per l’emergenza, la loro accessibilità e connessione per il contesto urbano. Sia per la SUM che per la CLE si tratterà di verificare se le indicazioni fornite da tali strumenti potranno tradursi in progetti operativi mediante strumenti di pianificazione ordinaria, quali quelli adottati in Emilia Romagna all’interno del ‘Progetto Recupero’7: un modello di pianificazione concertata in cui pubblico e privato concorrono alla definizione di obiettivi comuni mettendo insieme risorse e competenze attraverso criteri 4
Il Decreto Commissariale n°3 del 9 marzo 2010 ha tracciato le linee guida per la ricostruzione, dettato termini e procedure per la definizione dei centri storici e predisposto l’attuazione dei piani di ricostruzione da parte dei Comuni del cratere. 5 Commissario delegato per la Ricostruzione, Presidente della Regione Abruzzo, Struttura Tecnica di Missione, Linee di Indirizzo Strategico per la Ripianificazione del Territorio, 20 luglio 2010. 6 OPCM 4700/2012 7 Si veda a tal proposito il documenti redatto dalla regione Emilia Romagna nel 2004 a cura dell’Arch. Irene Cremonini: “Analisi, valutazione e riduzione dell'esposizione e della vulnerabilità sismica dei sistemi urbani nei piani urbanistici attuativi”. Riccardo Bonotti, Claudia Confortini
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premiali, in grado non solo di conciliare gli aspetti urbanistici ed edilizi (sperimentazione edilizia nel campo della bioarchitettura ed ecologia urbana) legati al miglioramento antisimico, gli aspetti sociali e quelli di sviluppo economico ma di far emergere anche i bisogni e le necessità di gruppi sociali e categorie usualmente trascurate dalla pianificazione urbanistica tradizionale (donne, bambini, anziani, portatori di handicap). Certo è che tali strumenti dovrebbero essere utilizzati fin da subito quali cardine di una strategia di ricostruzione oculata nella gestione delle risorse e attenta alla prevenzione sismica. Ancora da superare è il problema di reperimento di risorse economiche certe per la messa in sicurezza di spazi aperti strategici: le perimetrazioni effettuate a L’Aquila per cui operare mediante Piano di Ricostruzione tengono conto degli aggregarti edilizi e degli spazi aperti comuni ma non considerano un disegno più strategico di messa in sicurezza di vie di fuga e aree di attesa e ricovero. Così che metodologie quali quella messa a punto nel Piano di Ricostruzione di Navelli (AQ), avente fine di definizione delle priorità di intervento e supporto alla decisione tecnica – non solo allo scopo di miglioramento della sicurezza dei percorsi nel caso di eventi straordinari, ma anche di miglioramento e razionalizzazione dell’accessibilità in favore degli utenti più deboli (in particolar modo i portatori di handicap) attraverso interventi consoni ai principi di conservazione dell’intero centro storico del comune – rischia di rimanere solo un’interessante analisi fine a sé stessa.
Figura 2. Analisi dell’accessibilità ordinaria dei percorsi del comune di Navelli integrata ad un analisi della vulnerabilità degli stessi in caso di vento sismico. (Metodologia: Ing. Riccardo Bonotti, elaborazione dati Arch. Melania Inselvini).
Pur a fronte di numerose metodologie e sperimentazioni esistenti la legislazione non contempla e incentiva anche economicamente all’interno del processo di ricostruzione criteri preventivi di riduzione del danno quali la definizione di pratiche di compensazione – utili per risolvere problemi antecedenti il sisma attraverso l’abbassamento del livello di densità insediative particolarmente critiche e l’integrato incremento di spazi e attrezzature collettive – nonché criteri premiali per gli interventi conformi a linee guida di prevenzione predefinite all’interno di un’azione ‘ordinaria’ di prevenzione sismica. Se da una parte nel processo della ricostruzione fisica è importante far crescere il tessuto imprenditoriale locale in modo da non disperdere quel patrimonio di esperienza e cultura materiale necessario per intervenire correttamente nei centri storici, dall’altra la riduzione del rischio come forma di sviluppo, da un mero punto di vista del danno fisico è relativo. Ben più importante appare lo sviluppo culturale di un approccio all’ambiente sempre più teso all’adattamento ed alla convivenza coi fenomeni calamitosi che possa fare da controbilancia ad una eccessiva spinta fideistica nei confronti della tecnologia per una sopraffazione del territorio trascurandone a volte i rischi in essa intrinseci (M. Tira, 1997). Se si vuole sviluppare questo approccio, in nome del piano della qualità, occorre pensare la ricostruzione in aree a rischio non più solo in termini di quanti miliardi verranno spesi, ma anche di come si cerchi, ricostruendo di prevenire i danni futuri (S. Menoni, 1997) avvalendosi di strumenti di analisi costo/benefici largamente utilizzati in altri contesti internazionali. Tale sviluppo potrà risultare compiuto solo quando non solo questi principi, ma anche le relative disposizioni tecniche troveranno modo di trasferirsi come ordinarietà nei processi di programmazione e pianificazione del territorio, quando non sarà più necessaria una distinzione tra la pianificazione pre e post evento.
Riccardo Bonotti, Claudia Confortini
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Bibliografia AA.VV. (2010), Poggio Picenze Interlab. Università abruzzesi per il terremoto, Aracne Editrice, Roma. Busi R., Pontrandolfi P. (1992), La strumentazione urbanistica generale ed attuativa in Basilicata nel decennio 1980-1990, Documentazione Regione, Potenza. Caravaggi L. (a cura di, 2010), Ricostruzione di territori. Progetti a supporto dei Comuni di Ovindoli, Rocca di Mezzo, Rocca di Cambio, Lucoli nella provincia di L’Aquila, Alinea Editrice, Firenze. CeNSU (2010), Documento conclusivo. In Censu convegno Dopo il terremoto: strategie e metodi per la ricostruzione, L’Aquila, 2 dicembre 2009, Roma. http://www.censu.it/wp-content/uploads/2011/06/CNSU-Aquila-Documento-27.01.10.pdf Fabietti W. (1999), Vulnerabilità e trasformazione dello spazio urbano, Alinea Editrice, Firenze. Mazzoleni D., Sepe M. (a cura di, 2005), Rischio sismico, paesaggio, architettura: Irpinia, contributi per un progetto, Università degli studi di Napoli Federico II – CRdC - AMRA. http://www.amracenter.com/doc/pubblicazioni/rischio_sismico_irpinia.pdf Menoni S. (1997), Pianificazione e incertezza. elementi per la valutazione e la gestione dei rischi territoriali, Francoangeli, Milano. Nigro G., Sartorio F.S. (a cura di, 2002), Ricostruire la complessità. I PIR e la ricostruzione in Umbria, alinea editrice, Firenze. Tira M. (1997), Pianificare la Città Sicura, Edizioni Librerie Dedalo, Roma.
Sitografia Sperimentazione Condizione Limite di Emergenza nel Comune di Faenza https://www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=0CDQQFjAA&url=http%3A% 2F%2Fwww.regione.abruzzo.it%2FprotezioneCivile%2Fasp%2FredirectApprofondimenti.asp%3FpdfDoc%3 DxProtCiv%2Fdocs%2FnewsProtCiv%2F96%2FCLE_20120705_Fazzio.pdf&ei=2HFlUdPmJqr74QTMuICY BA&usg=AFQjCNFMXPkiHrfQbZB9nfs_RFpkZPOVHw&sig2=TkktUjk0aeadwuEZhkWtg&bvm=bv.44990110,d.bGE
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Lo spazio del possibile: progetti di sviluppo per le “aree interne”. Lezioni apprese e indicazioni a partire da un caso
Lo spazio del possibile: progetti di sviluppo per le aree interne. Lezioni apprese e indicazioni a partire da un caso Claudio Calvaresi Istituto per la ricerca sociale Email: ccalvaresi@irsonline.it
Abstract Nelle aree interne si sta affrontando una sfida cruciale per lo sviluppo del nostro paese. La recente iniziativa del Ministro per la Coesione Territoriale la indica come una delle tre priorità strategiche della programmazione dei fondi strutturali 2014-20. Costruire un progetto di sviluppo per le aree interne è complicato, perché sono territori fragili, che sollecitano capacità di sperimentazione e strategie indirette. Occorre generare nuova conoscenza e dunque innovazione, cercando di praticare approcci inconsueti. Il paper prende spunto da una esperienza: la costruzione di progetti di sviluppo territoriale per il ciclo di programmazione 2014-20 nell’ambito del territorio dell’Oltrepo pavese, in Lombardia. L’autore sta accompagnando il Gal Alto Oltrepo nella valutazione di criticità e fattori di successo della programmazione in corso e nella identificazione di nuove strategie. Questo paper prova a dare alcune indicazioni su come costruire progetti di sviluppo per le aree interne. Lo spazio a disposizione non consente approfondite argomentazioni. Permette al più di formulare alcune policy lessons, esito di una riflessione nelle pratiche incrociata con qualche teoria che all’autore sembra promettente, forse trasferibili a contesti non marginali. Parole chiave aree interne, nuova politica di coesione, approccio place-based
1 | Una opportunità: il progetto per le aree interne Alla fine dello scorso anno, il Ministro per la Coesione Territoriale ha lanciato l’iniziativa “Un progetto per le aree interne dell’Italia”, definite come quella «vasta e maggioritaria parte del territorio nazionale non pianeggiante, fortemente policentrica, con diffuso declino della superficie coltivata e spesso affetta da particolare calo o invecchiamento demografico» (DPS & Ministro Coesione, 2012). L’idea di fondo è la seguente: lo sviluppo di queste aree è cruciale per l’intero paese; per questa ragione, il problema è dunque di livello nazionale e come tale va trattato con una iniziativa promossa dal centro. Nel corso di un primo seminario, svoltosi a Roma nel dicembre 2012, queste note sono state presentate e discusse da una serie di interlocutori. Alla conclusione di un secondo incontro del marzo del 2013, il Ministro Barca ha presentato delle ipotesi di policy, sostenendo che nelle aree interne va affrontato il nesso tra azioni di sviluppo locale e gestione associata dei servizi (prioritari scuola, salute e mobilità) e che le ipotesi di attuazione del Progetto Aree Interne prevedono una delega ai Programmi Operativi Regionali, ma possono anche dare luogo a progetti pilota regolati da dispositivi di governance multilivello o a più forte regia nazionale mediante una piattaforma di confronto gestita al livello centrale. Su questo, la discussione sta proseguendo.
2 | Un territorio, un attore Il Gal Alto Oltrepo pavese opera sulla porzione più meridionale dell’area oltrepadana della Provincia di Pavia, per un totale di 50 Comuni e poco più di 60mila abitanti. Il territorio del Gal è diviso in due parti: la ‘città lineare’ della via Emilia, che prosegue la direttrice del sistema metropolitano regionale emiliano verso Pavia e che ha conosciuto negli ultimi anni un grande sviluppo, tra piastre logistiche, centri commerciali, aree artigianali, Claudio Calvaresi
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Lo spazio del possibile: progetti di sviluppo per le “aree interne”. Lezioni apprese e indicazioni a partire da un caso
in virtù della sua straordinaria accessibilità data dalla prossimità a tre autostrade (Milano-Bologna, MilanoGenova, Torino-Brescia). Alle spalle di questa città in formazione, si stende il territorio dell’Oltrepo rurale, che ha caratteri misti: nel suo tratto di pianura e di prima collina partecipa ad una crescita di tipo periurbano, a ridosso dei centri della via Emilia, con la presenza significativa di seconde case ed economie in larga parte legate al vitivinicolo, ma anche con significative specializzazioni turistiche (si pensi a Salice e Rivanazzano). Nella sua parte più alta, ha invece caratteri più spiccatamente rurali, con fenomeni di spopolamento tipici delle terre marginali. La mia personale collaborazione con il Gal Alto Oltrepo pavese dura ormai da qualche anno, con contributi di formazione, ricerca, valutazione e progettazione sui temi delle politiche di sviluppo rurale. La più recente occasione di collaborazione riguarda un percorso di valutazione dei risultati conseguiti nella programmazione in corso 2007-13 e la conduzione di un processo di confronto con gli attori locali su orientamenti e temi della futura programmazione.
3 | Lezioni apprese Incrociando riflessioni maturate nel corso di un ormai esteso episodio professionale e rafforzate nella più recente esperienza, con le suggestioni espresse dal progetto Aree Interne, ho tratto alcune lezioni di policy. Proverò ad argomentarle sotto forma di indicazioni di lavoro, spero utili per suscitare discussione.
L’‘internità’ è, prima che una condizione, un sottoprodotto delle politiche pubbliche Una prima indicazione che mi sembra di poter trarre è che la condizione di area interna dipende certo da fattori fisici, ma è anche l’esito di processi di lunga durata e di scelte di policy. Si è aree interne, ma soprattutto lo si diventa. Secondo Sabrina Lucatelli (Lucatelli, 2013), coordinatrice del Comitato tecnico Aree interne, le aree interne sono state identificate sulla base della loro distanza da centri di offerta di servizi di base. Tali servizi sono: scuola secondaria superiore, ospedale con sede di Dea (Dipartimento di emergenza e accettazione), stazione ferroviaria di tipo ‘silver’ (cioè un impianto medio-piccolo con una frequentazione media per servizi metropolitani-regionali e di lunga percorrenza). La distanza è misurata in termini di tempi di percorrenza. Le aree interne sono quelle poste oltre i 20 minuti, con diverse soglie: intermedie (tra 20 e 40 minuti), periferiche (tra 40 e 75 minuti), ultraperiferiche (oltre 75 minuti). In base a questa classificazione, le aree interne rappresentano poco meno di un quarto della popolazione italiana e i due terzi della superficie del paese. La maggior parte dei Comuni hanno meno di 5mila abitanti, con andamenti demografici fortemente distinti tra aree intermedie (che nel periodo 1971-2011 crescono dell’11,6%) e periferiche e ultraperiferiche (che diminuiscono del 7,6%). I centri con più del 30% di anziani oltre i 65 anni sono il 15,8% delle aree interne, mentre rappresentano solo il 2,8% nel resto del paese. La quota di popolazione straniera invece, pur inferiore a quella dei centri maggiori, cresce con la stessa intensità. In termini di risorse territoriali, Lucatelli segnala che le aree intermedie sono in gran parte occupate da boschi e foreste, con importanti quote di SIC e ZPS ed economie diversificate. Sono tuttavia anche aree fragili, per la scarsità dei servizi, sia di quelli tradizionali (scuole, sanitari), sia dei nuovi (banda larga), e perché esposte a rischi (idrogeologico e sismico). Il lavoro svolto dal Comitato tecnico istituito presso il DPS è servito a descrivere e nominare le aree interne, che è il passo necessario rispetto a qualunque mossa di policy. Il punto che vorrei sollevare tocca però la dimensione interpretativa. Le aree interne in larga misura coincidono con le aree montane: tra queste, le terre alte sono le più periferiche. La mia ipotesi è che le politiche pubbliche, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, hanno favorito una logica di sviluppo del tipo ‘di versante’, in sostituzione di quella storicamente consolidata ‘di massiccio’: hanno cioè sostituito il crinale, come spazio privilegiato dello scambio, con il versante, come linea di relazione privilegiata con il fondovalle. Il miglioramento continuo delle infrastrutture di fondovalle ha favorito il rotolamento in basso di popolazione e attività. In più, la regionalizzazione delle politiche di sviluppo, lavorando sulla relazione fra alte valli, pedemonte e fondovalle, ha avuto l’effetto di rendere implicito un approccio di versante ai problemi dello sviluppo1. Ciò richiede dunque un ridefinizione del frame e uno sguardo che travalichi i confini (su questo tornerò più avanti). Nel caso dell’Oltrepo, affrontare il problema delle terre alte comporterebbe uno sguardo noncurante dei confini di quattro regioni, tra Lombardia, Emilia, Liguria e Piemonte. Inoltre, di fronte agli effetti di declino così innescati, le politiche pubbliche hanno fatto a volte ricorso a interventi che si pretendevano di grande impatto, esito di cospicui finanziamenti, di forte valore simbolico, che dovevano fungere ‘da risarcimento’ per il mancato (o per il ritardo di) sviluppo. E così si è assistito a interventi 1 Riprendo qui una tesi sostenuta Paolo Fareri in una ricerca sulle Terre Alte (IRS, 2006) e argomentata con maggiore agio in Calvaresi & Ridenti, 2010.
Claudio Calvaresi
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Lo spazio del possibile: progetti di sviluppo per le “aree interne”. Lezioni apprese e indicazioni a partire da un caso
senza contesto, a iniziative interpretabili come ‘accanimento terapeutico’ (Cognetti, 2009), a ‘planning disasters’ (Hall, 1980), nel migliore dei casi a ‘elefanti bianchi’ magari disponibili per futuri esercizi di policy design (Webber, 1976). Nell’Oltrepo, Regione Lombardia ha da qualche anno istituito il centro Riccagioia, per ricerca, formazione e servizi nel settore viti-vinicolo. Lo spazio che lo ospita è ampio e prestigioso, ma ancora scarse le interazioni con il contesto e incerto il destino di un investimento milionario.
Va superato l’approccio bottom-up a favore di un approccio place-based Nelle aree interne, l’approccio ‘dal basso’ non funziona, perché i nemici dello sviluppo sono soprattutto i locali. Il documento del Ministero della Coesione spiega bene come il ‘comunitarismo chiuso’ inibisce l’innovazione e condanna al declino; sono le elites locali parassitarie, quelle che traggono rendite dall’intervento pubblico, che condannano al fallimento le aree interne. Nella mia esperienza nell’Oltrepo ho avuto modo di cogliere con grande nettezza questo tipo di fenomeni: scarsa propensione all’innovazione da parte degli attori; produzione di nuove forme organizzative (distretti del prodotto tipico, e poi ipotesi di distretto territoriale per mettere a sistema i singoli distretti di filiera) per continuare ad alimentare il ceto politico; inseguimento di nuovi sogni infrastrutturali: non più le strade, ma oggi le energie rinnovabili, i cui impatti positivi sull’economia locale non sono dati, occorre costruirli. Le elites parassitarie mettono insieme attori politici, autonomie funzionali, agenzie tecniche, multiutilities, organizzazioni degli interessi, singoli imprenditori. Ho però visto anche qualche germe di innovazione: è l’associazione di produzione teatrale che vince progetti europei del programma ‘Youth In Action’; è la famiglia che fa permacultura; è l’imprenditrice (ex dirigente di multinazionale) che produce ottime marmellate al rosmarino; è la cooperativa che gestisce un osservatorio astronomico e lavora con le scuole; è la fondazione che cura il centro per bambini autistici. Hanno tutti in comune due elementi: non sono del posto, ma vi hanno portato saperi e competenze maturati altrove; hanno scarso ascolto presso le elites locali. A questo proposito è utile richiamare la distinzione che fa Fabrizio Barca (Barca, 2011) tra l’approccio ‘comunitario’ e quello ‘place-based’. Il primo considera la conoscenza e i sistemi di preferenze degli attori locali come i driver primari dello sviluppo, la funzione degli esterni dovendosi limitare a costruire le condizioni per consentire il processo deliberativo della comunità. La comunità sa ciò di cui ha bisogno; lo sviluppo non può che prendere corpo da una aderenza ai valori locali. La prospettiva ‘place-based’ invece, oltre che per il riconoscimento della funzione determinante dei contesti, si caratterizza per considerare fattore primario di sviluppo l’innovazione, cioè la nuova conoscenza che si forma nel corso del processo di interazione tra forze interne e forze esterne, e strumento per pilotare questo processo la multilevel governance. Trovo molto condivisibile l’approccio di Barca e penso che faccia almeno due vittime: la prima è la versione dello sviluppo locale, che fu del Cnel di De Rita e ancora oggi di Bonomi (Bonomi & De Rita, 1998), centrata sulla mobilitazione delle risorse endogene via ‘politiche a contratto’; la seconda vittima è la partecipazione come maieutica delle volizioni degli attori, che continua a costituire l’orizzonte teorico-metodologico della partecipazione assistita (Romano, 2012). Cosa deriva da tutto ciò? Che un attento policy design dovrebbe favorire l’alterazione dei pattern di interazione, promuovendo l’incontro (il conflitto?) tra attori e risorse esogene, da una parte, e attori e risorse endogene, dall’altra. Nello specifico, che il lavoro del Gal dovrebbe consistere nel cercare di fornire una sponda all’innovazione. Dunque, ad esempio, un progetto per la filiera bosco-legno-energia che parte da due domande: qual è l’offerta locale di materiale legnoso? Quale la quantità di domanda di energia termica? Saranno le risposte a queste due domande a costituire la base per progettare un eventuale impianto, stabilendone dimensione e caratteristiche. Il progetto del Gal, appena partito, dovrà superare l’approccio corrente. Negli ultimi anni infatti sono in corso di realizzazione molti impianti a biomassa, grazie a incentivi economici. La variabile indipendente però in questi casi è la dimensione dell’impianto, che spesso per poter mantenere livelli di redditività adeguati finisce per comprare legna da fuori. Ma anche, altro esempio, un progetto per un sistema culturale che mette al centro la produzione culturale come fattore di sviluppo, capace di porsi come operatore di connessioni tra turismo, agricoltura e welfare, che prova ad avvicinare le associazioni di promozione culturale che hanno scelto di lavorare in Oltrepo con le risorse e le opportunità che il territorio può offrire2.
Lavorare nelle aree interne significa assumere un approccio ‘al margine’, mantenendo la ‘giusta distanza’ Per progettare politiche territoriali efficaci, conviene assumere un approccio marginale. Marginale è la posizione del ricercatore, che si colloca al margine delle interpretazioni consuete e così facendo è in grado di cogliere fenomeni liminali. 2
Perché in fondo, occorre anche dire che alla miopia dei locali, può aggiungersi la presbiopia degli esterni, che si sono fatti così vicini da non cogliere più le pur lievi increspature del terreno, che non è sempre e solo desolatamente piatto.
Claudio Calvaresi
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Ciò ha due conseguenze. La prima conseguenza è metodologica: assumendo la marginalità come un ‘paio di occhiali’, si possono mettere a fuoco certi aspetti (e non altri); dobbiamo dunque essere coscienti che si tratta di una operazione selettiva dello sguardo. È un frame in senso proprio, che può essere più o meno fertile per trattare certi problemi di politiche e di conseguenza identificare possibili soluzioni. È un frame che consente di guardare ai contesti marginali riconoscendovi problemi, risorse, opportunità, attori, secondo una prospettiva progettuale, secondo la quale ciò che importa è non tanto enucleare i caratteri dell’oggi, ma i potenziali del futuro. La marginalità non richiede necessariamente – secondo questo frame – il suo ribaltamento in centralità per essere trattata efficacemente. La seconda conseguenza è valoriale: collocandosi al margine, si può più facilmente cogliere l’innovazione. Come scrive Carlo Donolo, oggi nel nostro paese «i fattori di innovazione si ritirano sul margine e nelle pieghe» (Donolo, 2011: 132). Dunque, essere marginali non significa condannarsi alla irrilevanza. Tutto il contrario: porsi al margine dà modo di sperimentare una diversa prospettiva; significa scegliere di affrontare un problema aggredendolo dai bordi; significa assumere uno sguardo liminale nella consapevolezza che è strategicamente fertile. Se scegliamo di leggere come marginali alcune situazioni territoriali, ne beneficiano la nostra comprensione dei fenomeni e la nostra capacità di disegnare interventi adeguati? Di recente, una ricerca curata dall’associazione Dislivelli ha messo in evidenza come alcune valli della montagna piemontese (ma ho il sospetto che analoghe indagini sulla montagna lombarda potrebbe dare luogo a risultati non diversi) stiano segnando un lieve recupero della popolazione (Dematteis, 2011). Qualcuno torna ad abitare le terre alte e diversa è la loro provenienze: sono quelli che resistono e si inventano nuovi (o vecchi mestieri rivisitati) per continuare a vivere in montagna; sono stranieri che fanno mestieri abbandonati dai locali; sono i professionisti del telelavoro (Corrado, 2011). Quindi: l’innovazione viene dai margini, ai margini si sviluppa. Riconoscerla è il primo passo per sostenerla (o almeno non contrastarla), accompagnando processi fragili, irrobustendo dinamiche spontanee. Ad esempio, nelle aree marginali possono svilupparsi (più facilmente che altrove?) sperimentazioni di modelli di welfare centrati su un rapporto tra pubblico e privato meno consueto, che lavora sulla coesione sociale, perseguendo una prospettiva di radicale ‘innovazione sociale’. In queste aree la produzione dei servizi potrebbe non dipendere dal pubblico, e neppure dal privato sociale, ma da gruppi e persone che, sostenuti in un percorso di capacitazione e di autoaffidamento, provvedono ai servizi per la comunità. Lavorare nella marginalità implica la prossimità, il prendersi cura (Laino, 2012). Massimo Cacciari afferma che ‘prossimità’ non designa uno stato, ma l’agire di colui che si approssima, chiunque egli sia, da dovunque venga e ovunque vada. Ci si approssima alla marginalità senza rendersi marginali (Bianchi & Cacciari, 2010). Un lavoro efficace sulle aree interne è dunque un lavoro di prossimità, che può garantire soltanto una struttura radicata in grado di mobilitare gli attori e tenere in tensione il processo, garantendo il mantenimento dell’approccio place-based non solo nella fase di disegno, ma lungo l’intero ciclo di policy, durante l’accompagnamento e fino alla implementazione. Tuttavia, il lavoro di prossimità è sfidante: implica radicarsi, accorciare massimamente le distanze (prossimo è superlativo assoluto), prendersi cura dei luoghi, mantenendo però una distanza critica per non schiacciare lo sguardo sulla contingenza e sullo spazio costipato della pura animazione di comunità. Implica diffuse capabilities e una buona dose di riflessività.
Varcando i confini, oltre le aree interne Per affrontare efficacemente i problemi delle aree interne, occorre ricostruire un ambito di intervento che non rispecchi confini dati (amministrativi, di piani di settore, della programmazione negoziata, ecc.), ma riconosca campi di azione dove sono presenti attori, criticità, risorse, opportunità di intervento. È evidente infatti che il preliminare tracciamento di un confine darebbe luogo a lobby che si autorappresentano su base territoriale e non a policy community costruite su progetti, capaci di intercettare risorse locali e non locali. Il superamento dei confini amministrativi per impostare efficaci politiche di sviluppo territoriale è, per altro, una opzione ormai chiaramente esplicitata dalle discussioni preparatorie alla nuova politica di coesione e dagli stessi Regolamenti dei fondi strutturali. Da un lato, nel documento della Commissione Cities of Tomorrow (EC, 2011), si afferma chiaramente che i confini amministrativi delle città non riflettono più la realtà fisica, sociale, economica, culturale e ambientale dello sviluppo urbano e che la città de facto coincide piuttosto con la nozione di Area Urbana Funzionale. Dall’altro, la gestione e attuazione dei nuovi strumenti della politica di coesione viene affidata dai Regolamenti a partnership che si formano su strategie di sviluppo territoriale, laddove evidentemente il territorio è l’esito della strategia, non preesiste ad essa. Si tenga presente inoltre che l’Azione preparatoria avviata dalla DG Regio su richiesta del Parlamento dal titolo RURBAN – Rural-Urban Partnership for Sustainable Development, che ha come obiettivo di migliorare l’integrazione tra politica regionale e politica di sviluppo rurale, consente di mettere a tema condizioni urbane miste, oltre i confini sempre più porosi dell’urbano e del rurale. Su questo terreno, gli stessi Gal sono sollecitati a sperimentarsi, come promotori di strumenti come il Community-Led Local Development, a sostegno di progettazioni integrate plurifondo, gestite con una logica di Claudio Calvaresi
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multilevel governance. Nel caso dell’Oltrepo pavese, stiamo ragionando sul completamento di una greenway realizzata sul sedime di una ferrovia dismessa, che potrebbe intercettare investimenti nell’ambito delle infrastrutture, del sostegno alla ricettività agrituristica localizzata lungo il percorso, della promozione della fruizione turistica, della tutela delle risorse naturalistiche e paesaggistiche. In conclusione, a me pare che la riflessione sulle aree interne, sullo sfondo del quadro di opportunità costruito dalla nuova politica di coesione, interroghi a fondo modi e possibilità della progettazione integrata. La progettazione integrata è stata ampiamente praticata nel nostro paese, con effetti largamente insoddisfacenti a tutti i livelli. Numerosi contributi ne hanno decretato quindi, un po’ corrivamente, l’esaurimento. Oggi è forse possibile riprendere una stagione di sperimentazione, con qualche evidenza in più rispetto a cosa funziona (e cosa no), cominciando da quei contesti marginali, eccentrici, anomali, che manifestano più chiaramente l’esigenza di uno sforzo progettuale non consueto. Dall’anomalia si può apprendere e forse generalizzare; non è vero il contrario.
Bibliografia Barca F. (2011), “Alternative approaches to development policy: Intersections and divergencies”, OECD Regional Outlook 2011, p. 215 – 225 Bianchi E., Cacciari M. (2010), Ama il tuo prossimo, Il Mulino, Bologna Bonomi A., De Rita G. (1998), Il manifesto per lo sviluppo locale, Bollati Boringhieri, Torino. Calvaresi C., Ridenti R. (2010), “Progettare politiche per le aree marginali: il caso delle Terre Alte”, in Archivio di Studi Urbani e Regionali, n. 97-98 Cognetti F. (2009), “Accanimento terapeutico”, in Laboratorio Città Pubblica, Città pubbliche. Linee guida per la riqualificazione urbana, Bruno Mondadori, Milano. Corrado F. (2011), “ Ri-abitare i territori alpini: il processo di ripopolamento delle Alpi Occidentali tra politiche territoriali e spontaneismo”, XIV Conferenza SIU, pubblicato su www.planum.net Dematteis G., a cura di, (2011), Montanari per scelta, Angeli, Milano Donolo C. (2011), Italia sperduta, Donzelli, Roma DPS, Ministro per la Coesione Territoriale, Un progetto per le aree interne dell’Italia. Note per la discussione, Roma, ottobre, disponibile all’indirizzo: http://www.coesioneterritoriale.gov.it/le-aree-interne-e-la-coesione-territoriale/ European Commission, DG Regio (2011), Cities of Tomorrow, European Union Hall P. (1980), Great Planning Disasters, Univ. of California press, Berkeley Irs (2006), Un futuro per le “Terre Alte”. Costruire le Terre Alte come territorio di politiche, Gal Appennino genovese, Gal Soprip, Gal Alto Oltrepò, Gal Giarolo. Laino G. (2012), Il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo, Angeli, Milano Lucatelli S. (2013), “Di quali territori parliamo: una mappa delle aree interne”: presentazione al Forum Aree Interne: nuove strategie per la programmazione 2014-20 della politica di coesione territoriale, disponibile all’indirizzo: http://www.coesioneterritoriale.gov.it/forum-rieti-aree-interne-11-12-marzo-2013/prima-sessione/ Romano I. (2012), Cosa fare, Come fare, Chiarelettere, Milano Webber M. (1976), The BART experience – What have we learned?, IURD – University of California at Berkeley
Claudio Calvaresi
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La cura del suolo per una diversa idea di crescita
La cura del suolo per una diversa idea di crescita Giuseppe Caridi Università Mediterranea di Reggio Calabria PAU - Dipartimento Patrimonio Architettura Urbanistica Email: giuseppe.caridi@alice.it
Abstract I principali problemi ambientali con i quali oggi siamo costretti a confrontarci sono fortemente ancorati ad un uso peculiare della risorsa suolo che è il riflesso dell’affermazione di un modello di sviluppo contraddistinto da una notevole crescita competitiva delle attività che si svolgono con e sul suolo. L’attuale situazione richiede di incrementare ed estendere a tutti i livelli della società, e non solo fra gli addetti ai lavori, un virtuoso rapporto dell’uomo con il suolo: ampliando e potenziando la nostra capacità di cura verso questa risorsa che ci garantisce la sopravvivenza e la qualità della vita. Ma per potere incidere, nel dibattito sui contenuti fondativi della disciplina urbanistica e nella sua pratica, la cura del suolo va necessariamente collocata nell’ambito, più generale, dell’insieme di pratiche tese ad interpretare criticamente la questione dell’indebolimento dei meccanismi democratici di appropriazione/controllo/uso delle risorse da parte delle comunità insediate: in questo quadro la prospettiva di ricerca del suolo bene comune ne rappresenta il riferimento privilegiato. Parole chiave Suolo,beni comuni, sviluppo
La necessità di avere cura del suolo Nell’antica lingua ebraica il termine adamat, che indica il suolo, ha la stessa radice di adam, il nome del primo uomo. Allo stesso modo, il nome della prima donna, hava, significa che dà la vita. Insieme, quindi Adamo ed Eva significano, etimologicamente il suolo che da la vita (Hillel, 1991). Riferendosi a questo Montgomery (2007) ha affermato che l’uomo dipende dal suolo e questo dipende dall’uomo: «dal suolo, sul suolo e nel suolo sono nate, prosperate e scomparse tutte le civiltà del passato». Questo perchè sin dall’epoca dei primi aggregati sociali, fossero essi stabili o migranti, il rapporto con il suolo è stato soggetto a regole d’uso, che hanno trovato la loro origine e peculiarità nelle dinamiche di interazione sociale che la collettività ha espresso. In questo senso le trasformazioni del suolo (e di conseguenza le dinamiche insediative) sono determinate dalla rete di relazioni che di fatto si realizza tra processi economici, relazioni sociali, le istituzioni e le politiche (nel complesso definibili come ‘processi di interazione sociale’) che la comunità insediata, consapevolmente o in maniera tacita, promuove. Ma è anche vero che le trasformazioni del suolo costituiscono a loro volta elementi che, di fatto, condizionano tale rete di relazioni. In altri termini come ha sostenuto Vernant (2000) all’origine della civiltà occidentale c’è il rapporto dell’uomo con la terra, un rapporto che è reso possibile attraverso la mediazione del suolo. Proprio a ciò si è riferito Cerdà (1876) quanto, scrivendo Teoria generale dell’urbanizzazione, con precisione filologica ha scelto di usare (o meglio di inventare) una nuova parola: urbanizaciòn (urbanizzazione) facendola derivare da urbum, l’impugnatura dell’aratro, lo strumento con cui gli antichi romani fondavano la città segnandone il confine. Fa una straordinaria impressione rileggere il passo menzionato nell’introduzione del libro di Cerdà e constatare come il suolo, elemento che rappresenta un carattere originario del nostro ‘stare al mondo’, sia stato espunto dall’immaginario collettivo e al contempo dai paradigmi fondanti la disciplina urbanistica. Nel lessico comune l’uso del termine suolo indica ciò che sta sotto i nostri piedi, la superficie terrestre su cui si cammina e, più in generale, si agisce. Un concetto semplice, quasi banale. Parliamo di suolo per indicare anche lo strato superficiale del terreno agricolo, quando vogliamo evidenziare un suo requisito fondamentale che è quello legato alla produzione agroalimentare. Usiamo questo termine anche associandolo ad una connotazione negativa: quando, per la diminuita interazione quotidiana con il suolo per la maggior parte dei membri della Giuseppe Caridi
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società moderna, il suo valore estetico e culturale si allenta e deteriora, riduciamo la sua immagine ed identità allo sporco. Come Warkentin (1994) ha osservato, «data l’importanza del suolo per la vita sulla terra esso è stato visto soggettivamente e oggettivamente, emotivamente e razionalmente». Questo è il motivo per cui al suolo si pensa secondo diversi stati di astrazione, legati ora ad aspetti culturali (estetici, spirituali, storici, etno-antropologici, etc.) ora a ruoli tradizionalmente riconosciuti (produzione di cibo, ruolo biogeochimico, etc.). Ciò lo ha condannato ad una sorta di abilità mimetica che lo rende quasi un enigma, un qualcosa di ambiguo ed evanescente. Da qui emerge l’esigenza di affrontare il tema della cura del suolo, una pratica complessa che, come bene argomenta Elena Pulcini (2009), si riferisce a un sistema di attività, di azioni multiple, di processi di responsabilizzazione tali da produrre ‘una presa a carico’, un concreto impegno collettivo. In ambito urbanistico si è confrontato con il tema Sergio Caldaretti (2011) portando avanti una prospettiva di cura intesa come pratica di consapevolezza che supera l’idea convenzionale e riduttiva di accudimento e di dedizione altruistica e che, invece, integra una più ampia dimensione legata alla pratica del progetto: «Avere cura, in concreto, vuol dire molte cose: Vuol dire guarire, lavorando per mitigare i rischi ambientali che l’incuria e l’indifferenza degli ultimi decenni hanno prodotto. […] Vuol dire mantenere, ossia agire con costanza per conservare i luoghi in condizioni accettabili dal punto di vista ambientale, funzionale, estetico. […] Infine vuol dire fare in modo che, guardando al futuro e al progetto». Risulta chiaro che il tema della cura del suolo deve essere necessariamente collocato nel quadro più generale della tutela delle risorse comuni, cioè l’insieme di pratiche tese ad interpretare criticamente questioni come la privatizzazione delle risorse idriche, la progressiva erosione dei beni e servizi pubblici, l’indebolimento dei meccanismi democratici di appropriazione/uso delle risorse da parte delle comunità insediate. Nell’ambito di questo quadro, la prospettiva di ricerca sul suolo come bene comune rappresenta il riferimento privilegiato. A partire da questo punto di vista, tento ora di proporre alcune ipotesi di lavoro utili a definire gli elementi costitutivi di una strategia d’azione.
La prospettiva di ricerca del suolo bene comune Per scardinare le dinamiche che hanno contribuito a determinare l’attuale piegatura ideologica e culturale nei confronti del suolo, la sua ‘essenza’ di mero elemento passivo, di banale merce, è necessario uno spostamento d’ottica e di prospettiva culturale: si deve recuperare l’originaria concezione del suolo come bene comune. Eppure, nel campo urbanistico non si è affatto consolidata una linea di riflessione basata sulla centralità di questo elemento nei processi di trasformazione territoriale e urbana; una centralità resa evidente non solo per una questione ‘fisica’ (che rimanda al tema del ‘consumo del suolo’) o per la sua valenza economica (che incide, in modo diretto o indiretto, nella capacità di controllare e governare le trasformazioni stesse), ma soprattutto per il suo portato culturale. Così, la maggior parte delle linee di elaborazione disciplinare riguardo al tema del suolo evita di porre la questione di fondo che riguarda l’attuale piegatura ideologica e culturale e, di conseguenza, rinuncia ad ogni obiettivo teso a scardinare i processi che hanno contribuito a determinarla. Credo che non sia sufficiente concentrarsi sulla ricerca di soluzioni tecniche specifiche ma piuttosto che il nodo stia nel punto di incontro tra ‘valori condivisi’ (intesi come norme sociali che regolano il comportamento della collettività) e ‘interessi delle comunità insediate’. E’ indispensabile sciogliere questo nodo gordiano e chiedersi: l’ennesima colata di cemento può valere più del nostro futuro? Quotidianamente domande del genere innescano accuse di atteggiamento ideologico. Ebbene, inutile fingere, questo accade perchè il valore profondo del suolo è invisibile agli occhi di chi basa la sua azione sull’interesse personale. Allora, la concezione del suolo come bene comune può costituire un’istanza capace di stabilire un nodo centrale nel dibattito sui ‘destini’ dell’urbanistica, e più in generale sui nuovi paradigmi per una società autenticamente consapevole e autodeterminata. Ciò costringerebbe a una chiara e netta presa di posizione politica e sociale. Su questo punto, va evidenziata una profonda e diffusa difficoltà (se non un senso di sufficienza, di estraneità, quando non di fastidio esplicito), anche negli ambienti della politica più impegnata, a coniugare complementarietà che richiedono uno sforzo di riconversione del proprio consolidato modo di pensare e osservare. Ciò ha portato ad un sostanziale appiattimento di ogni linea dialettica, specialmente in quella parte della società che, se non altro per l’accumulo di esperienze nella storia degli ultimi cinquant’anni, dovrebbe esprimere posizioni attente riguardo alla questioni della rendita e del controllo consapevole e democratico degli usi del suolo capace di rimuovere le disuguaglianze legate al suo accesso/controllo. Questi temi oltre a definire una buona agenda politica, rappresentano i cardini per la costruzione di un progetto di futuro in cui alcuni riferimenti minimi ed ineludibili che stanno alla base della democrazia possono essere rimeditati, e riappresi, alla luce delle potenti trasformazioni degli ultimi decenni: uguaglianza vs discriminazione, libertà vs repressione, parsimonia vs opulenza, diritti vs soprusi, sostenibilità vs sfruttamento, etc. In campo urbanistico, la tematica dei beni comuni dovrebbe diventare una linea di revisione concettuale delle modalità di controllo e gestione delle dinamiche territoriali; in altri termini il corpus su cui reimpostarne il quadro concettuale di riferimento. La questione del suolo come bene comune, e per traslato l’interpretazione in Giuseppe Caridi
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termini strategici del suo controllo (dal punto di vista della sua produzione e della sua riproduzione) sta entrando a pieno titolo fra i termini del dibattito urbanistico. Per poter assicurare questa diversa visione del suolo occorre un fondamentale cambio di paradigma nel modo in cui esso è definito e trattato. Serve la ‘mossa del cavallo’. Nel gioco degli scacchi il cavallo è l’unico pezzo che può scavalcare gli altri. E poi muovendo da una casella nera arriva sempre in una casella bianca. E viceversa. Perciò nel trattare il suolo occorre scavalcare la nostra stessa mentalità ribaltando l’ottica che, oggi, lo relega a sterile supporto per il mercato, pensando e ragionando piuttosto in termini di bene comune. Il graduale recupero di una percezione del suolo come bene comune ci permette invece di innescare una dinamica tesa a sottrarre il suolo alle logiche di mercato che hanno determinato negli ultimi decenni non solo una sua inesorabile e progressiva cannibalizzazione, ma anche una completa espropriazione di ogni significato ‘collettivo’. Poiché i ‘beni comuni’ sono una classe di beni che si proiettano nell’esperienza sociale come presupposti di ogni forma di agire e insieme come esiti dell’interazione sociale (Donolo, 1997), è necessario lavorare per mettere in primo piano l’intreccio fra processi di governo del territorio ed istanze che emergono dalle società insediate. Muoversi nella prospettiva del suolo come bene comune comporta quindi in primo luogo favorire la tensione creativa delle comunità insediate; una tensione frutto di consapevolezza e di partecipazione attiva, e che si esprime attraverso interazioni e conflitti al suo interno e con l’esterno. In questa interazione tra soggetti, l’amministrazione pubblica (o comunque il soggetto pubblico che ha competenza progettuale) è chiamata a svolgere un ruolo centrale; non solo per la sua capacità operativa, ma soprattutto per la sua funzione di rappresentante di una collettività. Ciò implica dare centralità alle relazioni di prossimità tra abitanti e risorse locali, ricostruire matrici identitarie, mettere in primo piano il valore costitutivo, etico dei rapporti sociali e della solidarietà, lavorando per riaffermare una cultura della sfera pubblica. E da qui, sedimentare una progettualità collettiva in grado di ridefinire il futuro del lavoro e dell’abitare. La diffusione di questa nuova visione deve ad ogni modo basarsi sulla produzione di strategie operative ed azioni concrete. Provo qui a suggerire due linee di lavoro che, se adeguatamente seguite, possono portare ad una ‘innovazione’, possono aiutare a sostanziare una diversa figura identificativa del suolo come bene comune. Prima linea di lavoro. E’ necessario superare l’ostacolo rappresentato dalla carenza di informazioni e valutazioni, riflesso dell’esiguità delle ricerche che hanno il suolo come tema di studio. Basti pensare che «non esistono dati di consumo di suolo aggiornati e di dettaglio a scala nazionale», come si scopre nel triste epilogo del film Il suolo minacciato (2010, regia e soggetto di Nicola Dall’Olio, prodotto da WWF Parma e Legambiente Parma). Occorre allora mettere in piedi ricerche capaci di individuare metodologie per indagare le trasformazioni insediative in relazione al tema suolo (ed al suo consumo), basate su parametri di interpretazione, già validati e di nuova identificazione, capaci di quantificare e qualificare le varie tipologie di consumo. Ciò comporta la descrizione e l’interpretazione dei fenomeni di trasformazione che hanno interessato i contesti insediativi negli ultimi anni con l’obiettivo di riconoscerne forme ed identità, nei rapporti con l’agricoltura ma anche con i processi di natura urbana e con le dinamiche produttive extra-agricole. Nell’individuare le diverse cause che concorrono a determinare tali trasformazioni, è centrale la valutazione dell’incidenza che hanno avuto le politiche programmatorie e di assetto territoriale condotte nello stesso frangente temporale, oltre che il mutare del quadro degli aspetti economici, politici e sociali. Questi percorsi di ricerca devono essere in grado di integrare sinergicamente l’indagine del fenomeno, la sua interpretazione e valutazione critica, e le proposizioni per la pianificazione ai diversi livelli. Seconda linea di lavoro. Come abbiamo già detto, fino ad oggi, le strategie di gestione della risorsa suolo sono state imperniate sulla considerazione del suolo come mera risorsa economica e/o produttiva. Nell’operare per implementare la visione del suolo come bene comune, ritengo si debba prestare la massima attenzione agli ‘strumenti formali’ di pianificazione e gestione del territorio. Qui, a mio avviso, va posto come obiettivo strategico l’uso sociale degli strumenti di pianificazione. Nella cassetta degli attrezzi della pianificazione e programmazione esistono molti strumenti; da più parti si afferma che sono ridondanti e che producono un sistema complicato, farraginoso e contraddittorio; ma, soprattutto, che hanno esaurito la loro ‘carica euristica’ di interpretazione e prefigurazione della realtà. Queste osservazioni sono certamente condivisibili; ma ritengo che è ancora possibile una reinterpretazione di tali strumenti, un loro utilizzo consapevole e soprattutto creativo, tale da contribuire ad aggredire il tema con esiti positivi. E’ questa la sfida dell’efficacia del piano nel nuovo millennio, che non è tanto legata a questioni tecniche, come lo è stata negli anni passati, quanto alla loro essenza politica ed alla possibilità di un loro uso sociale, in grado di riconsegnare alle comunità insediate capacità creativa (perciò progettuale) e di autodeterminazione. Ai fini del nostro discorso, e per lavorare nella direzione tesa a responsabilizzare il ciclo dell’urbanizzazione, assumono un ruolo cardine quegli strumenti che le leggi affidano alle istituzioni territoriali (Regioni, Province e Comuni). Qui, è a mio avviso prioritario l’obiettivo di ridare centralità alla pianificazione comunale. E’ a questo livello che trova maggior forza l’istanza del suolo come bene comune, perché sono i Comuni le istituzioni territoriali che hanno, per norma, il compito di definire le dinamiche ‘concrete’ di insediamento e le modalità di uso del suolo. Più in generale dovrebbe essere incentivata la capacità degli enti locali di mettere in campo azioni basate su metodiche d’uso del suolo capaci di porre attenzione verso il tema dei beni comuni (ad esempio per le terre di uso civico, per i beni demaniali di proprietà pubblica, per i terreni confiscati alla criminalità organizzata, etc.); o, comunque, capaci promuovere esperienze ‘virtuose’ come quelle legate da una parte all’agricoltura contadina e di prossimità, ed alle pratiche delle reti di cooperazione (tendenti a privilegiare i consumi collettivi e Giuseppe Caridi
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non quelli individuali, la solidarietà e non la concorrenza), e dall’altra alla revisione del concetto di vuoto/non edificato ed alla successiva definizione di politiche di appropriazione sociale di questi vuoti (portate avanti, ad esempio, attraverso la tematica dei cosiddetti orti urbani). Sempre su questa linea di lavoro, va prestata comunque particolare attenzione alle possibili sinergie fra strumenti ‘formali’ e strumenti ‘diversamente orientati’. Mettere al centro la pianificazione istituzionale, ed in particolare quella comunale, non significa rinunciare alle possibilità offerte dagli altri strumenti: va quindi prestata particolare attenzione alle possibili sinergie fra strumenti ‘formali’ e strumenti ‘diversamente orientati’. Mentre, al contrario, vanno assolutamente combattuti quegli strumenti che tendono a mortificare la cogenza e la valenza strategica dei piani ed a espropriare gli abitanti della loro capacità creativa. Per concludere, il diritto a definire le modalità di uso del suolo è comune, in ultima istanza spetta a ciascuno di noi esercitarlo nell’interesse della collettività: dal modo in cui ciò è reso possibile si misura la qualità della nostra vita. Ed in questo quadro l’esercizio della cura del suolo bene comune, attraverso il recupero di forme di alleanza e di solidarietà, può contribuire a contrastare le patologie di un individualismo sempre più dominante e a proporre una diversa idea di crescita, al di là di ogni velleitarismo.
Bibliografia Pulcini E. (2009), La cura del mondo, Bollati Boringhieri, Torino. Caldaretti S. (2011), “Come avere cura del territorio”, in Il Manifesto, 2 gennaio. Hillel D. (1991), Out of the earth. Civilization and the life of the soil, University of California Press, Berkley. Montgomery D. (2007), Dirt. The erosion of civilization, University of California Press, Berkley. Vernant J.P. (2000), L' universo, gli dèi, gli uomini: il racconto del mito, Einaudi, Torino. Cerdà I. (1995), Teoria generale dell’urbanizzazione, Jaka Book, Milano (ed. or. 1867). Warkentin B.P. (1994), “Trends and developments in soil science”, in McDonald P. (eds.), The Literature of Soil Science, Cornell University Press, Ithaca. Donolo C. (1997), L’intelligenza delle istituzioni, Feltrinelli, Milano.
Giuseppe Caridi
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Abstract Il presente contributo ha come presupposto di partenza quello di considerare il territorio come un complesso unico, dinamico ed in continua trasformazione. Così come nell’organismo vivente il benessere di ogni singola parte influenza la qualità di vita dell’organismo stesso, nel territorio contemporaneo le aree marginali, come tutte le altre parti che lo compongono, giocano un ruolo determinante nella qualità complessiva. Uno degli strumenti fondamentali per consentire di far emergere identità e potenzialità specifiche di un luogo è l’analisi morfologico-conoscitiva , intesa non solo come strumento in grado di restituire la lettura degli assetti attuali, ma soprattutto come chiave di interpretazione del codice genetico dell’organismo città. La lettura del DNA è, infatti, una fonte inesauribile di comprensione delle possibilità delle trasformazioni future. Il primo passo è mappare le aree d’interesse, delimitandole attraverso il riconoscimento di caratteri identitari condivisi e delle tipologie presenti. In una fase successiva si passa all’elaborazione delle strategie d’intervento, dopo aver stabilito una gerarchia di obiettivi condivisi dalla collettività. Parole chiave Leggere, integrare, pianificare
La cura del paesaggio urbanizzato Conoscere il tempo del frammento La struttura e la morfologia della maggior parte dei paesaggi che ci circondano è cambiata radicalmente nel corso degli ultimi cinquant’anni. Basta confrontare le fotografie aeree degli anni ’50-’80 con le attuali per leggere il processo di trasformazione. Si passa da un territorio con uso del suolo perfettamente differenziato e limiti ben precisi, con netto margine che segna la fine della città e l’inizio della campagna degli anni passati, ad una struttura morfologica caratterizzata da un’alta frammentazione, che determina l’era della post-metropoli. L’antica delimitazione zonale si è offuscata e ha perso leggibilità. Tutto ciò è dovuto all’emergere di nuove aree urbane, alle intense dinamiche di metropolizzazione e urbanizzazione diffusa e dispersa del territorio, provocate, a loro volta, da fattori quali il massivo intervento del terziario, la rivoluzione tecnologica, il prezzo del suolo, il boom immobiliare e anche una certa crisi dello spazio pubblico e di alcuni elementi propri della città tradizionale. I paesaggi ibridi sono il risultato più evidente e con maggiore impatto dello spettacolare urban sprawl, gli effetti includono la riduzione degli spazi verdi, il consumo del suolo, la dipendenza dalle auto a causa della maggiore distanza dai servizi, dal posto di lavoro, dai mezzi di trasporto pubblico locale, e in generale per la mancanza di infrastrutture per la mobilità alternativa come piste ciclabili, marciapiedi o attraversamenti pedonali adeguatamente connessi. La cura del territorio, dell’oikos, che passa per la tutela, la gestione e la valorizzazione dei nostri beni paesaggistici e ambientali è, dunque, il primo passo per affrontare uno sviluppo possibile, credibile, replicabile, mediante la costruzione di una strategia urbana condivisa: l’innovazione attraverso la conservazione.
«Dal punto di vista sociale bisogna correggere un indirizzo comune : costruire, recuperare e ricostruire bene sono buone pratiche e non delitti. Come buona pratica è indurre dei processi di riqualificazione senza il luogo comune di spettacolari demolizioni (…).Bisognerebbe demolire quasi tutto ed essere così ricchi da sapere dove mettere le macerie realizzando poi una ricomposizione paesaggistica virtualmente impossibile.(…). Pertanto sarebbe opportuno che i comuni spendessero i ricavi degli oneri di urbanizzazione e delle sanzioni negli stessi luoghi dove il danno è stato causato(…); è questa una prospettiva che potrebbe apportare veri miglioramenti al paesaggio urbano e rurale.» (Gambardella A., Abusivismo:né ruspe,né condono,è possibile esplorare una terza via, Corriere del Mezzogiorno,2011: p. 12).
Analizzare il paesaggio del frammento Edges-margini, fratture lineari nel paesaggio (spiagge, ferrovie, barriere che bloccano gli spostamenti), pathspercorsi, vie abituali o occasionali, linee di riferimento; nodes-nodi, incroci ove avvengono gli scambi o le rotture di carico; districts-quartieri, grandi settori della città; landmarks-riferimenti, punti di alta rilevanza per l’orientamento dell’osservatore che in genere coincidono con i monumenti o gli spazi pubblici : sono questi gli elementi che costituiscono da sempre il punto di partenza della mappatura morfologico-conoscitiva di un territorio urbanizzato. Ma nell’analisi dell’attuale contesto periferico questi elementi formali assumono un significato diverso:il margine diventa un lembo variabile che si smaterializza fino a scomparire; i percorsi sono costituiti dalle grandi arterie di collegamento; i nodi sono costituiti da grandi vuoti ridotti a parcheggi pertinenziali o d’interscambio, dai punti di connessione tra luoghi privi d’identità e il centro urbano; i quartieri sono ridotti ad agglomerati monofunzione; i riferimenti non coincidono più con i monumenti e gli spazi pubblici, bensì con le svettanti ciminiere delle industrie e gli imponenti centri commerciali. Alla luce di questa riflessione, si ritiene che la riqualificazione delle aree periferiche sia strettamente connessa al riconoscimento delle loro specificità e potenzialità, sia in base ai loro caratteri identitari, sia in base alle relazioni che esse hanno con il resto della città. E’ necessario conoscere in maniera capillare l’impianto urbano per attuare processi di riassetto e riuso . Se la morfologia urbana studia le forme della città, la conoscenza acquisita di tali forme garantisce una solida cognizione dei principali fattori (economici, politici, sociali o antropo-geografici) che hanno determinato l’assetto spaziale, le mutazioni nel tempo, le alterazioni talvolta violente di un certo paesaggio costruito. In altre parole attraverso un esame morfologico possono emergere dati riguardo: • norme, regolamenti e tipi edilizi, • l’evoluzione storica, • criteri per l’individuazione e la classificazione di zone-tessuto e relativa legge di sviluppo formale. Uno screening esauriente si fonda sui seguenti punti: • uso del suolo, vincoli ed aree di pertinenza dei manufatti, • dinamica demografica, • ubicazione e stato delle infrastrutture e dei servizi sociali, • consistenza del patrimonio edilizio esistente, • ubicazione e stato degli impianti produttivi, • inventario del patrimonio storico artistico ed ambientale. E’ evidente allora che una prima ricognizione riguarda l’assetto fisico del territorio pertinente l’insediamento nell’intento di comprendere i motivi della primitiva localizzazione, il ruolo del sito e delle relazioni reciproche con l’area circostante, la struttura dei percorsi rispetto alle linee di minor resistenza. Si passa, quindi, ad individuare i rapporti gerarchici e i ruoli funzionali esistenti fra gli elementi che compongono l’insieme urbano : • confronto tra quantità e qualità edilizia, • rapporto tra rete dei percorsi e spazi aperti, • rapporto tra assi di innervamento del territorio, • correlazione tra centri commerciali, amministrativi e religiosi. Infine si procede con una ricognizione urbano-funzionale mediante mappatura di: • tessuti residenziali; • tessuti produttivi; • aree produttive defunzionalizzate; • attrezzature pubbliche; • altre strutture; • verde privato; • verde pubblico;
• aree militari; • aree urbane prive di funzioni. Terminata la fase analitico-ricognitiva dell’intero territorio esaminato, si focalizza l’attenzione sull’area oggetto d’intervento per abbracciare la scala architettonica: centri storici degradati, vuoti urbani sospesi tra quello che hanno smesso di essere e quello che saranno, cave dismesse, opifici abbandonati. Risulta, a questo punto, di fondamentale importanza stabilire una gerarchia di obiettivi approvati dalla collettività attraverso processi di pianificazione partecipata affinché si realizzino progetti condivisi. E’ fuori dubbio che in questa operazione l’ente promotore dovrà creare un apposito ufficio che si dedichi a semplificare e facilitare la reale attuazione delle strategie urbanistiche contenute nel piano e indirizzi la collettività nella concreta realizzazione di tutte le possibilità di sviluppo. Saranno attivati laboratori di partecipazione e Urban Center (Figura 1) per raccogliere le indicazioni e i suggerimenti dei soggetti rappresentativi del tessuto sociale, culturale ed economico locale e della cittadinanza in genere. Gli strumenti che potranno essere utilizzati nelle altre fasi concertative sono Forum, Workshop, Focus Group, Design day, Passeggiata di Quartiere. Tutte le attività poste in essere per la partecipazione dei cittadini e degli enti al processo di formazione potranno essere meglio definite all’interno di un apposito documento: il ‘Fascicolo della partecipazione e della concertazione’.
Risolvere il frammento - Restauro paesistico: il riscatto dei paesaggi degradati E’ necessario conoscere il carattere di questi luoghi, la sequenza degli elementi che li compongono, i labili confini, la geometria, il linguaggio formale e quello spontaneo, il tessuto agricolo, la texture verde. La filosofia alla quale facciamo riferimento quando affrontiamo un progetto di Restauro del paesaggio sostiene il tema del risanamento e del recupero ambientale utilizzando principi teorici e parametri culturali derivanti dall’alveo metodologico della teoria del Restauro dei BB.CC. L’obiettivo non è congelare lo stato dei luoghi ma accompagnarli verso un cambiamento auspicabile che valorizzi le qualità insite in essi. Con tali presupposti, la strategia progettuale deve necessariamente ispirarsi al minimalismo, evitando artifici e favorendo uno sviluppo sostenibile del territorio, una gestione integrata che sappia coniugare la tutela e la valorizzazione del patrimonio naturalistico-ambientale e del patrimonio storico-culturale con lo sviluppo della comunità locale conservando la memoria dei luoghi. Si propone il rafforzamento di un assetto urbano policentrico fatto di identità urbane storicamente riconosciute anche nelle zone periferiche, che di fatto può contribuire alla ricostruzione del senso di appartenenza e promuovere nuove forme di autosostenibilità locale. Le strategie territoriali da promuovere saranno rivolte alla: • ‘tutela e valorizzazione del patrimonio storico-culturale e del patrimonio ambientale’: valorizzazione mediante interventi volti alla creazione di servizi e attrezzature per i cittadini e alla rivitalizzazione dell’insediamento storico (piccole attività turistiche ricettive e artigianali); salvaguardia delle risorse naturalistico-forestali, del reticolo idrografico, la creazione di parchi, con percorsi e aree attrezzate, la tutela e valorizzazione delle aree di pregio agronomico produttivo e delle colture tradizionali, il mantenimento e ripristino degli ecosistemi e difesa della biodiversità, la prevenzione del rischio; • ‘definizione di una disciplina d’uso del suolo’ per garantire la conservazione e il mantenimento degli aspetti significativi e caratteristici del paesaggio; • ‘riorganizzazione e riqualificazione urbanistica e ambientale del territorio’, anche mediante l’integrazione edilizia e, in particolare, di edilizia pubblica, il potenziamento e l’ampliamento di servizi e attrezzature connesse a servizio dei cittadini e dei turisti e il riordino del ‘campo aperto’; • ‘valorizzazione turistica del territorio’ legata alle ricchezze paesaggistiche e naturalistiche; • ‘promozione di attività produttive’, riordino, riqualificazione ed integrazione delle attività esistenti, delocalizzazione di attività in ambiti già urbanizzati, valorizzazione delle produzioni tipiche e delle risorse enogastronomiche, potenziamento dei servizi e delle attività turistiche; • ‘miglioramento del sistema della mobilità’, ammodernamento della viabilità principale, adeguamento della viabilità poderale a servizio dell’agricoltura, mitigazione dell’inquinamento acustico. Al di là degli obiettivi, delle strategie e degli indirizzi di pianificazione, per ovviare al costante deficit delle casse comunali per l’acquisizione delle aree da espropriare per la realizzazione di servizi e di attrezzature, rispetto ai piani tradizionali, la nuova generazione di piani valuta la possibilità di eventuali collaborazione con altre amministrazioni, o con i privati, attraverso programmi intercomunali o project financing. Al fine di individuare modelli di intervento di recupero paesistico, si presentano tre casi emblematici.
La storicità Caso studio: ‘Riconoscimento di Centro storico di pregio’: recupero e riqualificazione del borgo di Castelcivita (SA),2007.
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Castelcivita è un comune della provincia salernitana, con nucleo fortificato risalente all’epoca medioevale, su cui insistono architetture di notevole pregio, sia civili che religiose: un ‘sistema monumentale, di particolare interesse, da inglobare in un circuito turistico più ampio da conservare e valorizzare. La stretta relazione con le mura rappresenta un elemento significativo, in quanto esse diventano lo strumento di comunicazione tra città storica e città consolidata attraverso la progettazione di sistemi di collegamento diretti. Tutta l’area circostante presenta un’elevata potenzialità determinata da una serie di fattori favorevoli: un’alta vocazione agro-pastorale dell’intera zona con produzioni tipiche pregiate (olio d’oliva, vino Doc, marroni, prodotti caseari e del sottobosco) e con manifestazioni tradizionali legate al mondo rurale, la presenza di un patrimonio ambientale di eccezionale valore, in quanto buona parte dell’area ricade entro i confini del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano e nei pressi della Costiera cilentana e Paestum, luoghi di notevole richiamo turistico. L’assenza di politiche di valorizzazione delle risorse ambientali e culturali del territorio e la scarsa presenza di strutture e di servizi di interesse turistico hanno generato la necessità di un intervento volto al recupero e alla riqualificazione del nucleo storico, da considerare come volano di sviluppo dell’intero comune. Le prime analisi a scala territoriale hanno evidenziato: • un'assenza di dialogo tra città antica e città consolidata; • una sovrapposizione di flussi veicolari di diverso tipo; • una disponibilità di aree non utilizzate potenzialmente soggette a riconversione ambientale. Sono stati articolati criteri di lettura (funzionale, ecologico, formale, e socio-economici) attraverso i quali è stata analizzata l'area del centro storico. Inoltre si sono individuati, insieme alla cittadinanza, gli elementi di potenzialità e criticità che hanno permesso di definire i principali obiettivi verso cui indirizzare il progetto di recupero. Al fine di rilanciare nuovamente il centro storico come parte di una nuova città e di salvaguardarne la conformazione, non cristallizzandolo ma accompagnandolo verso un cambiamento possibile e conservandone l’identità , sono stati previsti: • interventi di ripristino delle facciate degradate; • interventi di restauro/ristrutturazione; • un ripensamento morfologico dei tessuti attraverso la redistribuzione di funzioni al suo interno (ricettive, servizi privati, residenziale, mix funzionale) e l'integrazione di spazi di relazione con accesso pedonale facilitato da/verso il centro; interventi di riqualificazione della viabilità con recupero delle pavimentazioni storiche da integrare impiegando materiali locali, in continuità con la tradizione.
La centralità
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Caso studio: Programma Integrato di riqualificazione urbanistica, edilizia ed ambientale – Casalbuono (SA),2007. Allo scopo di riqualificare e recuperare i territori caratterizzati dalla presenza di elevate valenze naturalistiche, ambientali e culturali, nonché per riqualificare ambiti urbani con presenza di tessuti edilizi disorganici o incompiuti, l'Amministrazione Comunale di Casalbuono adotta il Programma Integrato con lo scopo di perseguire essenzialmente due obiettivi: contribuire alla qualificazione dei singoli interventi edilizi; valorizzare l'identità del paese come centro storico nel suo insieme. L'identità è molto di più dell'immagine del luogo, perché costituita da molti altri fattori – semantici, culturali, artistici, storici, emotivi, fisici - che contribuiscono a determinare la qualità del luogo stesso e la sua fisionomia nel contesto dell'identità urbana. Il primo obiettivo del Programma è stato quello di individuare una metodologia di approccio alla conservazione del patrimonio edilizio storico in grado di garantire un livello minimo di ‘qualità culturale’ sia al progetto che all'esecuzione di ogni singolo intervento, mediante una metodica che fonda le proposte operative sullo schema: • analisi documentate, • ipotesi interpretativa, • rilievo critico (Figura 3). Contemporaneamente si è proposto l'obiettivo di rivitalizzare il centro storico, attraverso il coinvolgimento dell'imprenditoria sia esistente che futura, favorendo la riapertura del mercato immobiliare e di servizi tali da valorizzare le risorse endogene. Considerando che il pregio più comunemente riconosciuto dei centri storici è il fascino della loro ‘identità ed unicità’, si punta sempre alla ‘riconoscibilità’ (leggibilità) delle ‘trasformazioni’ (epoche), delle ‘diversità’ (stili) e dei ‘linguaggi’ (progettuali, materiali, e tecniche), rivitalizzando l’insediamento storico con piccole attività turistiche ricettive e artigianali e valorizzando l’autenticità di ogni singolo edificio attraverso il recupero della funzione comunicativa propria dei segni dell’ornato.
La marginalità Caso studio: Progetto di recupero e riqualificazione ambientale dell’ex convento S.Pasquale, Grotta e Tratturello S. Michele – Faicchio (BN),2003.
Gli interventi programmati dall’Ente sono stati finalizzati all’incremento della fruizione turistica, partendo dalla constatazione della necessità di rinnovare il rapporto con l’ambiente ed i beni culturali. Il Comune di Faicchio, infatti, possiede notevoli risorse che mal valorizzava. Attraverso l’intervento effettuato si è riusciti a sfruttare tali potenzialità mediante semplici operazioni di riconnessione tra tessuto centrale e periferico, affrontando il tema del margine, del “bordo ammalorato” da riqualificare. Il progetto, sostanzialmente, ha promosso: • la ricucitura della frattura tra monte Monaco e centro del comune; • la trasformazione del significato del luogo, da architettura militare sannitica a luogo ameno, esaltando le valenze naturalistiche in nuce. Risalendo la costa montana e conducendo il visitatore ad avere un contatto visivo diretto con i tratti di Murature Poligonali presenti, il percorso ricalca vecchi sentieri e mulattiere. L’intento è quello di offrire la possibilità di godere di vedute privilegiate del paesaggio e dei manufatti sannitici. Si è realizzato un sistema di percorsi che dal convento di S. Pasquale, risalendo le pendici del monte Monaco, potesse condurre il visitatore alla grotta di S. Michele (Figura 4), costruendo promenades panoramiche in grado di consentire la fruizione dei luoghi, attualmente pressoché inaccessibili. L’intero impianto progettuale è stato orientato all’utilizzo di materiali naturali e tecniche di ingegneria naturalistica al fine di evitare dissonanze. Il progetto di valorizzazione della Grotta di S. Michele e delle Mura Poligonali è stato studiato con una strategia operativa che si compone di diverse operazioni, alcune dirette, altre indirette: tra le tante il restauro delle superfici che hanno portato alla luce suggestivi affreschi risalenti al XII sec. L’intervento riguardante una parte del Convento di S. Pasquale è ,invece, rivolto al recupero di alcuni locali e all’allestimento di un museo delle armi antiche e scuola di restauro, interessando le strutture del piano seminterrato, del piano terra e dell’annesso chiostro. (Figura 5)
Figura 1. Locandina Urban Center & Laboratori di partecipazione per l’attivazione di urbanistica partecipata ai fini della redazione del Piano Strutturale Comunale di Galatro (RC).
Figura 2. Schizzi illustrativi del recupero e riqualificazione del “centro storico di particolare pregio� di Castelcivita (SA)
Figura 3. Programma Integrato di riqualificazione urbanistica, edilizia ed ambientale, Casalbuono (SA) – localizzazione e individuazione degli interventi.
Figura 4. Progetto di recupero e riqualificazione ambientale dell’ex convento S.Pasquale, Grotta e Tratturello S. Michele, Faicchio (BN) – localizzazione degli interventi
Figura 5. Progetto di recupero e riqualificazione ambientale dell’ex convento S.Pasquale, Grotta e Tratturello S. Michele, Faicchio (BN) – stralcio degli interventi
Bibliografia Lynch K., (2006 [1964] ), “L’immagine della città”, Marsilio, Venezia. Gambardella A. (2011), “Abusivismo:né ruspe,né condono,è possibile esplorare una terza via”, in Corriere del Mezzogiorno, p. 12 Noguè J., (2010), “Altri paesaggi”, Angeli, Milano. Secchi B., (1998), “Città moderna, città contemporanea e loro futuri”, convegno nazionale di Cortona “I futuri della città”. Vicari Haddock S., (2004), “La città contemporanea”, il Mulino, Bologna. Castiello P., “Recupero e riqualificazione area destinata ad uso tecnologico ambientale in contrada del Lacco: Museo nella natura”, Mormanno (CS). Castiello P. (2007), “Programma Integrato di riqualificazione urbanistica, edilizia ed ambientale”, Casalbuono (SA). Castiello P. (2003), “Progetto di recupero e riqualificazione ambientale dell’ex convento S.Pasquale, Grotta e Tratturello S. Michele”, Faicchio (BN).
Riconoscimenti Si ringraziano la dott.ssa Melania Mainolfi e la dott.ssa Gabriella Giraldi.
Giocare sui due tavoli del tempo per liberare le energie imprigionate nelle sopravvivenze del passato e risvegliare un sentimento di cura dei paesaggi contemporanei
Giocare sui due tavoli del tempo per liberare le energie imprigionate nelle sopravvivenze del passato e risvegliare un sentimento di cura dei paesaggi contemporanei Lidia Decandia Università degli Studi di Sassari Dipartimento di Architettura, Design, Urbanistica Email: decandia@uniss.it Tel: 3209234027
Abstract Il contributo intende partire dall'idea che non sia sufficiente conservare il patrimonio che la storia ha depositato sul territorio, ma occorra rivitalizzarlo, risvegliando in chi lo vive, lo abita e lo attraversa, un desiderio di prendersene cura. Partire da questi presupposti significa non solo ripensare le nostre modalità di progetto e azione, ma costruire nuove chiavi per accedere allo spessore di memorie, depositato sui calchi del territorio; lavorare sui due tavoli del tempo intrecciando la memoria del passato con i linguaggi del contemporaneo, mescolando la memoria con l'immaginazione. Attraverso il racconto di un’esperienza il saggio intende mostrare che solo se saremo capaci di produrre una conoscenza, in grado di far rivivere rigogliosamente quelle sopravvivenze esauste e imbalsamate che oggi non sappiamo più interrogare, potremo pensare di innescare nuovi processi di cura e di riappropriazione ‘creativa’ dello stesso paesaggio contemporaneo. Parole chiave Memoria, temporalità, dispositivi di conoscenza
Dall’idea di una temporalità lineare ad una prospettiva anacronistica Sardegna. Alghero. Nuraghe Palmavera. Un pullman di turisti entra nel recinto delle riunioni. Una guida che parla. I turisti fotografano dallo stesso punto di vista l’immagine del nuraghe che porteranno come trofeo al rientro delle vacanze. Il nuraghe, privato di ogni aura, si tramuta in un oggetto di consumo visivo. Come «un liuto dimenticato che nessuno è più capace di suonare, resta lì muto e silenzioso» (Agamben, 2008: 44), incapace di rimandare ad altro se non che a se stesso. La carta di un piano paesaggistico. Il territorio, quasi come un cadavere, viene decomposto: i beni archeologici, i beni ambientali, i beni paesaggistici… etc. Quel territorio che, nell’ottica premoderna, costituiva insieme alla sua comunità, un corpo intero continuamente alimentato dalle relazioni vitali che connettevano le parti e il tutto, viene invece ridotto in compartimenti stagni. Attraverso un’operazione di classificazione gli oggetti del passato possono essere separati dal presente, ‘recintati’ e sottoposti ad una operazione di tutela e di museificazione. Questi due atteggiamenti – la trasformazione del nuraghe in un’immagine estetizzata e l’operazione che separa il bene culturale dalla vita complessa del territorio – ci rimandano a un’idea di tempo molto precisa. Quell’idea di tempo, emersa con la modernità, che ha condizionato in maniera forte il nostro stesso modo di trattare il territorio. L’idea, cioè, che il tempo possa essere inteso come una sorta di linea progressiva, una successione di cronologie sovrapposte ed a se stanti. Una sorta di filo, che si può srotolare secondo un unico racconto (Benjamin, 1977) e in cui il passato può essere distaccato dal presente e come tale abolito o semplicemente conservato. Da questa concezione temporale nasce infatti l’idea che il territorio contemporaneo, proprio in quanto sia separato dal passato, possa essere sgombrato dai detriti che la storia vi ha sedimentato, ed essere immaginato Lidia Decandia
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Giocare sui due tavoli del tempo per liberare le energie imprigionate nelle sopravvivenze del passato e risvegliare un sentimento di cura dei paesaggi contemporanei
come una ‘terra desolata e priva di qualità’ su cui depositare qualsiasi contenuto; ma da questa stessa idea di temporalità, nasce però anche la concezione opposta: quella che immagina che ciò che resta del passato non vada né eliminato, né mescolato ed incrociato col presente, ma proprio, in quanto tale, preservato, recintato e tutelato semplici operazione di imbalsamazione e di museificazione. Due concezioni dunque apparentemente lontane, ma che ad uno sguardo attento si mostrano in realtà paradossalmente vicine, e che oggi rimettere profondamente in discussione. E’ proprio la presenza delle sopravvivenze che ci arrivano dal passato, infatti, a costringerci a ripensare questa idea semplice di temporalità a cui la modernità ci aveva abituato. Con la loro stessa esistenza ci pongono dinanzi ad una idea di tempo molto più complessa. Parafrasando Didi-Huberman potremmo dire che queste sopravvivenze «giocano contemporaneamente sui due tavoli del tempo: sulla lunga durata e sull’istante presente» (Didi-Huberman, 2009: 20). Da un lato ognuno di questi segni o oggetti, come una sorta di orma, ci mette in rapporto con il passato. Quell’orma ci indica che qualcuno è passato di là, che qualcuno ha impresso quel segno o realizzato quell’oggetto. Dall’altro queste orme non solo sono qui dinanzi a noi, ma portano con sé le tracce di un tempo continuamente operante. Esse si presentano a noi non come sono state realizzate nel passato, ma profondamente trasformate dalle azioni che il tempo ha prodotto su di esse. In quelle immagini provenienti dal passato si materializza dunque una sostanziale commistione di temporalità. Da un lato questi oggetti ci rimandano a qualcosa che è oltre l’immagine, e dall’altra ci mettono di fronte ad una assenza1. Non abbiamo, infatti, più chi li ha costruiti, e tuttavia sappiamo che qualcuno li ha prodotti. Come le punte di un iceberg, inoltre, queste sopravvivenze che arrivano da profondità temporali non omogenee, ma estremamente diversificate, raffiorano nei territori andandosi a mescolare e a intessersi con le trame del nostro presente.
Il passato ci dice qualcosa del nostro presente Questa idea di temporalità complessa rimette profondamente in discussione il rapporto che noi abbiamo stabilito con le preesistenze del passato. Quel passato, appunto, che non «ha mai smesso di essere» (Deleuze, 1966: 42). E che il territorio conserva e accumula nell’adesso, trasformandolo continuamente, ma la» sciandolo vivere nel presente. Un passato che il territorio contiene, quasi come se fosse «una placenta d’ombra» (Zambrano, cit. in Prezzo: 49) che emerge continuamente nell’orizzonte attuale non solo attraverso le orme, le tracce, i segni che lo popolano; ma spesso anche attraverso le storie, le memorie, i ricordi invisibili che riaffiorano nelle menti delle persone. In questa idea di temporalità, in cui il passato convive con il presente, il rapporto tra le diverse dimensioni (il passato, il presente e il futuro) appare dunque tutt’altro che lineare e continuo, ma piuttosto fatto di successioni salti e discontinuità. Al posto di una storia tesa come un punto che si muove su una linea che ha una direzione progressiva compare una storia fatta di continui rimescolamenti, montaggi e smontaggi, fratture, sopravvivenze e anacronismi, cesure, regressioni che si susseguono in un tempo che presenta piuttosto un andamento spiraliforme e stratificato. Non è un caso che Freud, per farci comprendere il significato dell’inconscio abbia proprio utilizzato l’immagine di una città – Roma in particolare – caratterizzata in maniera evidente da queste mescolanze di temporalità. Ha usato l’immagine di questa città ed in particolare proprio l’immagine delle sopravvivenze , che come dei gheiser risalgono in superficie da epoche lontane, per farci comprendere che questi spezzoni non sono semplicemente qualcosa di antico, ma parlano piuttosto del nostro presente: sono sintomi, segnali, che ci dicono qualcosa di noi. Il fatto che siano li adesso e che siano sopravvissuti, trasformati nel tempo ha un significato. Così, allo stesso modo anche ciò che non si è conservato o è stato rimosso, contribuisce a dar forma e consistenza alla trama dei nostri territori e tavolta può acquisire un’importanza cruciale per ripensare il nostro presente2. 1
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Come afferma Didi-Huberman a proposito dell’impronta – ma la stessa riflessione, secondo me, può essere considerata pregnante per comprendere la natura di qualsiasi oggetto provenga dal passato – «le impronte appaiono come ‘cose’ perlomeno anacronistiche – se rappresentano quel ‘presente’ reminiscente visivo e tattile di un passato che non smette di ‘lavorare’, di trasformare il substrato in cui ha lasciato il segno….è qualcosa che ci parla sia del contatto (il piede che sprofonda nella sabbia), sia della perdita (l’assenza del piede nella sua impronta; qualcosa che esprime il contatto sia la perdita di contatto. Ed è proprio rispetto ad una tale conflagrazione che l’impronta ci impone di ripensare alcuni modelli di temporalità» (Didi-Huberman, 2009: 20). Come osserva Agamben commentando il pensiero di Freud «nel presente convive non solo ciò che si vede del passato…ciò che si ricorda, ma anche le rimozioni che entrano a far parte di una latenza …non solo il ricordo, ma anche l’oblio è contemporaneo della percezione e del presente» (Agamben, 2008: 101) ogni presente contiene una parte di non vissuto «ciò significa che non è solo e non tanto il vissuto, ma anche è innanzitutto il non vissuto a dar forma e consistenza alla trama della personalità psichica e della tradizione storica, ad assicurar loro continuità e consistenza. E lo fa nella forma dei fantasmi, dei desideri e delle pulsioni ossessive che incessantemente urgono nella coscienza (individuale o collettiva)» (Agamben, 2008: 102).
Lidia Decandia
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Giocare sui due tavoli del tempo per liberare le energie imprigionate nelle sopravvivenze del passato e risvegliare un sentimento di cura dei paesaggi contemporanei
E’ allora forse è proprio secondo questa modalità, suggeritaci più dal versante psicoanalitico che da quello storico, che diventa necessario riconsiderare le sopravvivenze del passato: non tanto e non solo come oggetti, immagini da conservare e da contemplare, ma piuttosto come tracce in grado di rivelarci qualcosa della nostra complessa e ‘pieghettata’ contemporaneità. Queste tracce possono infatti aiutarci a comprendere quel paesaggio che oggi ci appartiene, di cui dobbiamo reimparare a prenderci cura, non semplicemente salvando alcuni oggetti, ma riconsiderando quello spessore temporale che lo ha fatto essere quello che è. Credo che proprio questi oggetti che «giocano su questi due tavoli del tempo», mettendo insieme «il già stato con l’adesso» (Benjamin, 2007: 518), meritino qualche attenzione in più della semplice conservazione. Credo che questa doppiezza, questo scarto a cui essi ci rimandano, ci mettano di fronte alla necessità di «risalire la storia a contropelo» (Benjamin, 1940: 486 ). Ci invitino a bucare le superfici delle immagini, per riapprendere ad entrare in contatto con quella temporalità spessa che vive nel nostro presente. Ci indicano che occorre andare oltre il consumo visivo per provare ad «accendere la miccia esplosiva riposta nel già stato» (Benjamin, ibidem). Ci mostrano che non è sufficiente fermarci alla conservazione dell’immagine, ma che occorre semmai lavorare per decomporre, decostruire, erodere questo passato e trasformare il lutto e la nostalgia in fonte creativa di cambiamento e di trasformazione. In questo senso le tracce depositate dalla storia sul territorio anziché essere trattate come semplici oggetti da museificare, possano diventare delle chiavi attraverso cui accedere proprio a quello spessore, a quella latenza che lo stesso paesaggio contemporaneo contiene.
Costruire nuove chiavi di conoscenza per accedere al passato Perché questo avvenga occorre tuttavia costruire nuove forme di conoscenza. Quella conoscenza pietrificata e classificatoria che la modernità ci ha consegnato, tutta incentrata sulla separazione tra soggetto e oggetto, sulla scomposizione e sulla classificazione, non aiuta a metterci in contatto con la ‘mescolanza composta’ che costituisce il tempo del nostro presente. Proprio in quanto non ci aiuta a smontare e a lavorare questa temporalità complessa, non ci offre chiavi e strumenti adatti a risvegliare un profondo senso cura di questi dei nostri paesaggi contemporanei. Per «disfare il territorio videomostrato ed estetizzante che assedia la nostra esistenza e poterne inventare un altro» (Villani 2006: 54) dobbiamo allora imparare a trovare strumenti per far rivivere rigogliosamente quei monumenti accartocciati e imbalsamati chiusi su sé stessi, che oggi non sappiamo più interrogare. Andare oltre le immagini per trasformare ‘questi segni muti’ in veri e propri ‘segni parlanti’ da decifrare, restituendogli quei «significati che sono stati erosi, in quanto superflui o marginali, dall’usura dell’abitudine, dall’allentamento della memoria storica e dalla pratica delle generalizzazioni scientifiche» (Bodei, 2009: 82). Provare, in qualche modo, a riaccendere la forza ‘numinosa’ del monumento. Superare il punto di vista visivo per ricominciare a mettere in relazione il mondo degli oggetti e delle cose con le dimensioni immateriali, le immagini, le voci e i suoni da cui sono stati prodotti. Costruire non luoghi di imbalsamazione e di conservazione, ma situazioni vitali di conoscenza in cui produrre una memoria capace di nutrire l’immaginazione e il progetto, di fornire risorse di senso, di darci energia e motivazioni, di lanciare metafore comunicative in grado di sgelare e di rimettere in moto il desiderio di riprendersi cura collettivamente degli ambienti che ci circondano.
Il racconto di un’esperienza All’interno di queste premesse si colloca il progetto “La strada che parla” portato dal Laboratorio Matrica da me coordinato, e svolto insieme ad Anna Uttaro e Leonardo Lutzoni3. Un progetto di ricerca-azione volto ad innescare, in un piccolo centro del nord-Sardegna, un progetto di riappropriazione e di cura del territorio, da cui partire per innescare un più ampio progetto di sviluppo locale.
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Lo svolgimento di questo lavoro di sperimentazione e ricerca, oltre ad aver coinvolto gli studenti del corso di progetto nel contesto sociale, costituisce il nucleo fondante, oltre che di diverse tesi di laurea triennali, di una tesi di Dottorato ancora in corso ‘Territori in movimento. Ripensare la dimensione territoriale e collettiva del progetto a partire dalle diversità.Indizi di ri-conversione e traiettorie di sviluppo per Calangianus: un tassello dell’Alta Gallura’ dell’Urbanista Leonardo Lutzoni presso l’Università La Sapienza di Roma e della ricerca co-finanziata con fondi a valere sul PO Sardegna FSE 2007-2013 sulla L.R.7/2007:’Paesaggi contemporanei come dispositivi culturali. Sperimentazione di metodologie di interazione tra politiche territoriali e culturali in Sardegna’ dell’Arch. Anna Uttaro.
Lidia Decandia
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Giocare sui due tavoli del tempo per liberare le energie imprigionate nelle sopravvivenze del passato e risvegliare un sentimento di cura dei paesaggi contemporanei
La passeggiata come costruzione di un cantiere di conoscenza Nel capovolgere l’idea che per immaginare un progetto di sviluppo sia necessario avere grandi finanziamenti noi siamo partiti proprio da una passeggiata, convinti che talvolta siano proprio le piccole mosse a poter mettere in moto processi di cambiamento. Una passeggiata lungo un vecchio percorso ferroviario dismesso, parte della vecchia linea a scartamento ridotto Monti-Tempio, che attraversa, passando ai piedi del massiccio del Limbara, un territorio dalle eccezionali qualità ambientali. Un territorio oggi apparentemente vuoto e deserto, muto e silenzioso che, per molti aspetti, non riesce più a ‘parlare all’uomo’, a raccontarsi. Eppure invece, in passato, questo ambiente era particolarmente vissuto. Investito di desideri, paure, affetti, è stato fonte di economie e di legami sociali. La toponomastica, il tessuto proprietario, il reticolo dei muri a secco, la presenza degli stazzi, le grotte abitate dai pastori transumanti, che si snodano lungo il suo percorso, sono solo alcuni dei segni che rivelano come le sue qualità siano l’esito di un lungo processo che ha visto l’uomo interagire con l’ambiente.
Figura 1. La passeggiata
A saperli interrogare questi segni, insieme agli alberi muti e alle rocce bucate dal vento e lavorate dall’atmosfera, ai sentieri minimi che si dipanano nelle campagne, costituiscono veri e propri ‘scrigni di racconti e di storie’. È proprio attraverso questo mondo di significati che gli uomini, nell’intessere legami affettivi, impalpabili e invisibili con questi ambienti di vita, hanno prodotto un territorio ricco di senso, hanno avvolto i muri, gli alberi e le pietre di significati: li hanno resi, per poterli pensare, animati e viventi. Nel prendere spunto da queste premesse, abbiamo deciso di trasformare questa strada muta in una ‘strada che parla’, per promuovere un vero e proprio viaggio di scoperta delle memorie e dei sogni che continuano a popolare questo territorio. Non per abbandonarsi alla nostalgia di un tempo che fu, ma piuttosto per favorire nuove forme di appropriazione e di cura e nutrire l'immaginazione e il progetto. Per trasformare questa ‘strada muta’ in una ‘strada che parla’ siamo partiti dalla costruzione di una passeggiata molto particolare lungo il vecchio tracciato, coinvolgendo da un lato gli studenti di un corso della Facoltà di Architettura e la comunità calangianese. Prima di incontrarci sul percorso nelle aule universitarie insieme agli allievi abbiamo ricostruito gli assetti ambientali e la storia del territorio che si dipanava lungo il percorso, restituendola attraverso originali cartografie interpretative, che nel corso della passeggiata, gli studenti hanno ‘indossato’ sui loro corpi (fig. 1). Contemporaneamente, attraverso un lavoro minuto e capillare di incontri e di interviste con esperti locali ed abitanti del paese, abbiamo selezionato i temi chiave che avremmo approfondito durante la passeggiata. Abbiamo scelto di coinvolgere, come testimoni da intervistare, trenta, persone con memorie, competenze e saperi diversi. Dopo questo lavoro di preparazione, ci siamo incontrati per due giorni lungo il percorso della ex-ferrovia per camminare insieme e costruire, in una sequenza di soste tematiche che hanno ritmato il nostro cammino, un processo interattivo di produzione della conoscenza (fig. 2). L'antico tracciato ferroviario è stato un pretesto per costruire uno spazio di discussione pubblica che ci ha permesso di ragionare, mettendo insieme memorie, desideri e sogni, sul futuro di questo territorio.
Lidia Decandia
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Giocare sui due tavoli del tempo per liberare le energie imprigionate nelle sopravvivenze del passato e risvegliare un sentimento di cura dei paesaggi contemporanei
Dopo questo evento siamo ritornati nelle aule universitarie e, a partire dai materiali raccolti, abbiamo cominciato un lavoro di restituzione e di approfondimento delle questioni emerse. La passeggiata ci ha spinto ad allargare lo sguardo all’intero territorio calangianese. Il lavoro di ricerca sulla struttura ambientale, sulla storia delle relazioni tra uomini e luoghi, depositata nei segni, nei nomi e nei racconti, ci ha aperto un mondo animato di vite e di storie.
Figura 2. La passeggiata: stazioni di conoscenza
Le forme e la struttura del paesaggio hanno cominciato ad animarsi e popolarsi: ci siamo trovati di fronte ad una sorta di ‘città diffusa’ che abbiamo denominato la città degli stazzi, con i suoi vicinati ambientali (le cussorge) e le sue piazze (le chiese campestri). E’ a questo punto che la storia è entrata in corto-circuito con il presente. Abbiamo, infatti cominciato ad osservare che, per certi aspetti, la contemporaneità, nei suoi nuovi usi del territorio, sta riscoprendo l’arcaico. E da questi indizi siamo ripartiti per cominciare ad indicare alcune piste di progetto. Contemporaneamente Anna Uttaro insieme al fotografo Alessandro Graffi ha messo in piedi un Workshop di fotografia ‘Visioni di paesaggio’, rivolto ad un più ampio contesto territoriale. L’Workshop, ha assunto la funzione di pungolo per la riflessione e la stimolazione dell’immaginario a partire dall’esistente.
La mostra: restituire la conoscenza e animare un progetto di futuro Dopo due anni di lavoro sul campo e nelle aule universitarie, abbiamo restituito agli abitanti il lavoro svolto. L’idea è stata quella di realizzare un ‘dispositivo’ (Agamben 2006; Deleuze 2010) in cui gli abitanti non fossero spettatori passivi, ma protagonisti attivi del percorso espositivo e che soprattutto la mostra fosse un’occasione, per mettere finalmente in comunicazione il lavoro culturale con quello di gestione e progettazione del paesaggio per rilanciare un’azione sul territorio La mostra, curata da Anna Uttaro e Leonardo Lutzoni, è stata immaginata seguendo una struttura narrativa che mette in sequenza: la restituzione dell’evento e la storia del percorso ferroviario, innesco dell’intera operazione di conoscenza, il lavoro di approfondimento svolto sul territorio, il lavoro fotografico prodotto nell’workshop insieme ad alcune tesi e ad un video a cui abbiamo affidato il compito di aprire delle piste di futuro per il territorio calangianese. Lungo il percorso della mostra i volti delle diverse persone incontrate nel corso della passeggiata, fotografati e riprodotti in grandezza naturale hanno accompagnato lo spettatore nella visita sino all’ingresso della stanza più piccola dedicata al futuro. Nel frattempo in una sala accanto, un montaggio delle riprese effettuate nel corso della passeggiata, secondo una sequenza di episodi che riprendeva i temi rappresentati nelle cartografie tematiche, accompagnava i visitatori, attraverso il racconto di quei volti incontrati nel percorso, a riscoprire e a rivivere, nel territorio, i contenuti presenti nella mostra (fig. 3). L'inaugurazione dell'allestimento è stata egualmente concepita per favorire lo scambio, la socializzazione delle conoscenze. Nell'arco di un paio d'ore circa trecento persone hanno attraversato gli spazi allestiti, ascoltando le nostre visite guidate, ponendo domande, scambiandosi commenti, giocando a Cunterra (un gioco elaborato per illustrare i processi di privatizzazioni delle terre messi in atto dalla Legge delle Chiudende). Al termine ci siamo ritrovati in una calda discussione collettiva a ragionare insieme sul futuro delle aree interne. A questa discussione hanno partecipato, insieme alla popolazione e agli amministratori locali, degli esperti esterni. Lidia Decandia
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Giocare sui due tavoli del tempo per liberare le energie imprigionate nelle sopravvivenze del passato e risvegliare un sentimento di cura dei paesaggi contemporanei
Figura 3. La mostra
Dalla memoria al progetto: l’Workshop sulle aree interne e il concorso di recupero del tracciato Ed è proprio da questo desiderio di futuro che siamo ripartiti per allargare il nostro scambio e abbiamo deciso, dopo aver coinvolto l’intero collegio dei Docenti del Dottorato di Tecnica Urbanistica di Roma La Sapienza di organizzare, un Workshop itinerante nel territorio Calangianese. Dal 7 all’11 giugno in forma itinerante, immergendoci nella natura silente o entrando in risonanza con antichi luoghi di culto, di festa e di socialità abbiamo costruito piazze virtuali e luoghi di incontro e di scambio sul territorio (fi. 4). In queste “piazze” temporanee urbanisti, geografi sociologi, antropologi, economisti, insieme a figure significative del contesto isolano, testimoni di esperienze di avanguardia, e agli allievi delle Scuole di Dottorato di Roma e Alghero, hanno provato a mettere in connessione idee ed esperienze per indicare futuri e prospettive possibili. L’idea messa al lavoro stata è che questi territori, rimasti marginali alle dinamiche di sviluppo costiero, proprio in quanto portatori di valori e sopravvivenze che provengono da un passato arcaico che non ha mai smesso di essere, possano offrire all’uomo contemporaneo materiali importanti per costruire una inedita dimensione urbana. Da queste giornate è nata l’idea di lanciare nella Facoltà di Architettura un Concorso di idee per il recupero e la reinterpretazione del tratto del percorso della nostra strada che parla che abbiamo fatto con l’obbiettivo di raccogliere idee e contributi per trasformare questo ex tracciato ferroviario all’interno di un contesto territoriale più ampio, ripensandolo come possibile nuova centralità all’interno di un progetto di area vasta: la città-territorio dell’Alta Gallura. Le soluzioni proposte estremamente interessanti, originali e innovative testimoniano come alla fine di un viaggio attraverso la memoria e il sogno si possa davvero riguardare il luogo da cui si è partiti con
Figura 4. Workshop Lidia Decandia
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Bibliografia Agamben G. (2008), Signatura Rerum. Sul metodo, Torino, Bollati Boringhieri. Benjamin W. (1982), Das Passagenwerk, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, trad. It. 2007, I «passages» di Parigi, Torino, Einaudi. Benjamin W. (1977), Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi. Bodei R. (2009), La vita delle cose, Roma-Bari, Laterza. Decandia L. (2000), Dell'identità. Saggio sui luoghi: per una critica della razionalità urbanistica, Soveria Mannelli, Rubbettino. Deleuze G. (1966), Le bergsonisme, Paris, Presses universitaires de France; trad. it. 2001, Il bergsonismo e altri saggi, Torino, Einaudi. Di Giacomo M. (2003), Introduzione a Klee, Roma, Laterza. Didi-Huberman G. (2000), Devant le temps. Histoire dell’art et anachronisme des images, Paris Édition de Minuit; trad. it. 2007, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Torino, Bollati Boringhieri. Didi-Huberman G. (2008), La ressemblance par contact. Archéologie, anachronisme et modernité de l’empreinte, Paris, Édition de Minuit; trad. it. 2009, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta, Bollati Boringhieri, Torino. Freud S. (1930), Das Unbehagen in der Kultur, Berlin, Internationaler Psychoanalytischer Verlag; trad.it 1971, Il disagio della civiltà, Torino, Bollati Boringhieri. Prezzo P. (2006), Pensare in un’altra luce. L’opera aperta di Maria Zambrano, Milano, Raffaello Cortina. Villani T. (2006), Il tempo della trasformazione. Corpi territori e tecnologie, Roma, Manifestolibri.
Lidia Decandia
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I paesaggi delle industrie: un approccio per problemi
I paesaggi delle industrie: un approccio per problemi Claudia Cassatella Ricercatore, Politecnico di Torino Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio Email: claudia.cassatella@polito.it Stefania Maria Guarini Architetto, Politecnico di Torino Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio Email: stefania.guarini@polito.it Luigi La Riccia Ph.D., Politecnico di Torino Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio Email: luigi.lariccia@polito.it
Abstract Le aree produttive sono generalmente intese come monofunzionali, la ricerca di qualità investe diversi piani, strumenti, attori. L’articolazione di possibili indirizzi deve cercare un punto di partenza trasversale: la considerazione di specifici problemi di paesaggio. Tale approccio è stato sperimentato alla scala regionale nell’ambito della ricerca “Indirizzi per i paesaggi industriali in Sardegna”, commissionata al Politecnico di Torino dalla Regione Autonoma Sardegna (2010-2012), finalizzata alla definizione di strumenti operativi di supporto alla pianificazione, progettazione e gestione dei paesaggi produttivi. La tesi è discussa attraverso la presentazione di un percorso metodologico di analisi di problematiche ed esemplificazione attraverso casi di studio, che trova sintesi in una griglia interpretativa che da conto dei diversi gradi di rappresentatività e intensità delle diverse situazioni locali e permette di convenire ad un unico quadro territoriale. Parole chiave paesaggi produttivi, linee guida, approccio per problemi
1 | Paesaggi industriali Parlare di “paesaggio industriale” può sembrare un ossimoro. Questo tema richiama alcuni interrogativi: l’industria è un paesaggio? Se lo è, ha senso occuparsene? Ancor più, ha senso occuparsene in un periodo di crisi economica? E ancora, è un ambito di azione operabile? Il paesaggio industriale può essere oggetto di un progetto? La Convenzione Europea del Paesaggio (CoE, 2000) poggia su un assunto fondamentale: tutto il territorio è paesaggio, ossia, in quanto “ambiente di vita” delle popolazioni, interessa la sua qualità paesaggistica. I luoghi della produzione non solo fanno parte del paesaggio che vediamo – producendo, nell’osservatore medio, giudizi spesso negativi o effetti di impatto visivo – ma soprattutto sono luoghi del lavoro, un quotidiano ambiente di vita per molte persone. E se anche, in Sardegna, la genesi del fenomeno industriale fa sì che molte aree produttive siano separate dagli abitati, la tendenza attuale, incoraggiata da alcune politiche per le cosiddette APEA (Aree Produttive Ecologicamente Attrezzate)1, è di una sempre maggiore commistione tra luoghi della produzione, del consumo, dei servizi. In definitiva, possiamo affermare con certezza che le aree produttive sono paesaggi e, in quanto tali, ci interessa la loro qualità paesaggistica.
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Si veda, a titolo esemplificativo, la nuova direttiva della Regione Sardegna in materia (D.G.R. n. 4/2 del 25.1.2013).
Claudia Cassatella, Stefania Maria Guarini, Luigi La Riccia
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I paesaggi delle industrie: un approccio per problemi
Nello scenario globale in cui, com’è noto, l’industria occidentale tenta di competere sul versante di attività ad alta specializzazione e contenuto di ricerca ed innovazione, la localizzazione e la qualità insediativa non sono indifferenti. Da un lato, le certificazioni ambientali stanno diventando un must; dall’altro, il marketing del prodotto ‘incorpora’ a volte lo stesso territorio di produzione. In questo senso, ecco che il nascere di ‘parchi industriali’ o di ‘parchi scientifico-tecnologici’, si lega a strategie di marketing territoriale (Fig. 1).
Figura 1. Nuova sede di Tiscali (foto degli autori, 2011).
Figura 2. Il diagramma che sta alla base del funzionamento del parco eco-industriale di Kalundborg in Danimarca. (fonte: http://www.symbiosis.dk).
L’ecologia industriale, nata all’inizio degli anni ottanta, è centrata su questioni strettamente ambientali, come i cicli di energia, acqua, rifiuti, che si vorrebbero chiusi all’interno del singolo parco eco-industriale (Fig. 2). Questo è il concetto posto alla radice delle APEA, che però si è arricchito, nel tempo – grazie alla teoria e alla sperimentazione dei parchi industriali – di esigenze e requisiti legati alla qualità insediativa, alla presenza di servizi per le persone (mobility manager, verde attrezzato, ecc.) e all’integrazione con l’ambiente circostante. Per semplificare, se l’APEA è un ciclo chiuso nel suo perimetro, il paesaggio industriale cui ora aspiriamo considera i diversi sistemi di relazioni, alle diverse scale, tra l’area e il territorio: reti ambientali “lunghe”, reti infrastrutturali, sistemi di servizi, fino alle relazioni visive e storico-culturali. Forse proprio per questo motivo ha ancor più senso occuparcene oggi, in un’epoca di crisi economica. Infatti, si moltiplicano in tutta Europa, così come anche negli Stati Uniti, linee guida elaborate da regioni o istituti, o ricerche commissionate dalle stesse associazioni dei soggetti economici, per la qualificazione delle aree industriali2. Il panorama degli studi mostra 2
Si rimanda ai lavori di C. Tandy (1975) Landscape of Industry, Leonard Hill Books, London; R.A. Frosh, N. Gallopoulos (1989), “Strategies for manufacturing”, in Scientific American, nn. 261-263; R. P. Coté, J. Hall (1995), “Industrial Parks as Ecosystems”, in Journal of Cleaner Production, n. 3; E. Cohen-Rosenthal (2003), Ecoindustrial Strategies, Greenleafpublishing, Sheffield.
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linee guida, raccolte di best practices, strumenti di indirizzo, sistemi di certificazione della qualità volontari (es. EMAS o ISO14001). In Italia, alcune Regioni hanno da tempo linee guida sulle APEA, ma la questione paesistica risulta estremamente marginale. Nei casi migliori ci si preoccupa della qualità dello spazio pubblico interno alle aree; o anche, relativamente agli aspetti ecologici, delle reti ambientali; talvolta si affronta la qualità architettonica (es. Regione Piemonte, 2010). In alcune linee guida estere, ad esempio quelle della Catalunya (2007) che sono senz’altro tra le più ricche ed esaustive, la qualità progettuale, l’immagine d’insieme e l’immagine di dettaglio, sono esaminate attraverso un’articolazione molto dettagliata degli spazi e dei componenti (dagli edifici ai singoli oggetti di arredo): si tratta, nel caso catalano, di linee guida per i parchi tecnologici, luoghi che hanno interesse a qualificare la propria immagine. Le indicazioni, per la maggior parte, si applicano ad uno spazio progettuale ‘bianco’, chiuso, e sembrano non ricercare un appoggio sul terreno. Nelle linee guida inglesi e francesi troviamo attenzioni anche per le situazioni miste, interne all’urbano: gli affacci, i bordi, gli accessi, i flussi pedonali, le preesistenze sono temi evocati. Restano, tuttavia, linee guida pensate per aree omogenee, monofunzionali. Allo stesso modo, sono concepite quelle che si occupano di aree estrattive, o di aree per la produzione di energia da fonti rinnovabili. E qui che sussiste un problema, e una prospettiva di lavoro, che si è provato a cogliere nel lavoro per fornire indirizzi per i paesaggi industriali della Sardegna. In tale contesto territoriale, infatti, anche le più grandi aree industriali non possono più rientrare entro una logica chiusa, omogenea – e non sarebbe questa la prospettiva delle politiche future – ma semmai necessitano di essere interpretati come paesaggi produttivi integrati. La logica elementarista, quella che finora ha caratterizzato questo tipo di paesaggi e che procede, ancora, per addizioni di volumi e componenti ciascuno dei quali è scelto da un abaco di soluzioni genericamente ritenute ‘buone’, non assicura affatto la qualità finale del progetto perché non è la logica del paesaggio. Lo sguardo paesaggistico serve proprio a cambiare approccio: la localizzazione, i segni del terreno, la percezione, sono tutti elementi da considerare in una visione d’insieme e soprattutto multiscalare. L’esercizio che è stato sperimentato in Sardegna parte da specifici ‘problemi’ di paesaggio, che si pongono in modo olistico e richiedono soluzioni complesse, a più livelli, in cui ogni soggetto fa la sua parte, se riconosce e condivide la diagnosi.
2 | Geografia delle aree produttive della Sardegna La geografia della realtà industriale sarda è legata alla costruzione di un mosaico complesso di situazioni territoriali. Questa realtà pone innanzitutto il problema di assumere una chiara metodologia d’indagine per restituire l’intera complessità del fenomeno industriale, costituito dalle diverse dimensioni degli insediamenti produttivi, dalla differente incidenza sulla struttura insediativa del territorio, dall’eterogeneità dei rapporti con il contesto paesaggistico. L’immagine complessiva che ne risulta restituisce un quadro piuttosto ampio di situazioni, che evidenziano differenti strategie di sviluppo susseguitesi nel tempo: da un lato, i grandi agglomerati industriali, che nella loro unitarietà definiscono un paesaggio ben riconoscibile, anche se la percezione prevalente è data da un impressione di luoghi totalmente anonimi e da una scarsa caratterizzazione positiva; dall’altro, situazioni più ibride, dove alcuni insediamenti industriali costituiscono aree di transizione tra il territorio urbano consolidato e le espansioni urbane, senza un ordine spaziale definito e spesso collidenti con importanti aree protette naturali. I paesaggi industriali della Sardegna, pertanto, possono essere preliminarmente ricondotti a due macro categorie: le grandi aree industriali e gli insediamenti produttivi minori. La distribuzione territoriale delle aree industriali si caratterizza per la numerosità di aree localizzate in modo pressoché omogeneo su tutto il territorio regionale. Le grandi aree industriali sono localizzate in modo prevalente nelle zone costiere (Fig. 3), in prossimità dei grandi centri urbani (Porto Torres, Olbia, Cagliari, Arbatax, Oristano, Portovesme). Nei territori più interni alla regione possono essere individuate per la maggior parte zone industriali minori. Questa particolare distribuzione trae origine dalle diverse fasi dello sviluppo economico della Sardegna: fino ai tempi recenti l’attività produttiva prevalente era legata all’estrazione in miniere e cave, di carbone e metalli; dal secondo dopoguerra, incentivi per lo sviluppo del Mezzogiorno (legge n. 634/1957) hanno consentito di incrementare la diffusione del settore petrolchimico. Le ASI (Aree di Sviluppo Industriale) e i NI (Nuclei di Industrializzazione) sono ubicati sul mare, per assolvere ad una funzione di attrazione nei confronti di iniziative industriali legate al movimento marittimo. A queste, si aggiungono le ZIR (Zone di Interesse Regionale), individuate già dalla legge regionale n. 22/1953 e situate nelle zone più interne dell’isola, che assolvono invece una funzione tesa a evitare una polarizzazione delle industrie per diffondere in modo equilibrato su tutto il territorio regionale il tessuto produttivo. Infine, notevole è la distribuzione territoriale dei Piani per gli Insediamenti Produttivi (PIP): tali aree, spesso di impianto recente, sono localizzate prevalentemente a ridosso delle principali infrastrutture (la “distanza inferiore media” è di circa 20 km), distribuite in modo lineare o in prossimità dei centri urbani (con fenomeni di terziarizzazione).
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Figura 3. Distribuzione delle grandi aree industriali in Sardegna (sinistra) e casi studio selezionati (destra). Fonte: elaborazioni degli autori.
In generale, le aree produttive sarde presentano diversi problemi di origine e natura economica, sociale, ambientale (Fig. 4). In particolare, i problemi emergenti possono essere riassunti per le tre tipologie di paesaggi produttivi: paesaggi industriali, paesaggi estrattivi e paesaggi della produzione di energia da fonti rinnovabili. Per quanto riguarda le aree industriali emergono con forza problemi di abbandono e sottoutilizzo, con pesanti effetti di degrado del paesaggio percepibile e dell’ambiente: i paesaggi industriali spesso si presentano come luoghi privi di cura, con molte superfici vincolate ad uso produttivo ma poco o nulla utilizzate. Questi problemi si intrecciano con altri di natura economica che acuiscono la difficoltà di intervento e sottolineano l’esigenza di soluzioni “sostenibili”. Allo stesso tempo si trovano aree industriali dinamiche, soprattutto quando connotate dalla commistione con attività commerciali. Il risultato di tale frammistione è spesso un disordine urbanistico e visivo che si accompagna alla scarsa vivibilità di ambienti per molti aspetti inidonei ad accogliere i fruitori, presenze inizialmente non previste. Si consideri anche che la prospettiva delle Apea è quella di aree miste, con componenti rilevanti di servizi e persino residenze; ciò richiede un ripensamento radicale di aree finora non concepite per una frequentazione “umana”, negli spazi, nelle distanze, nelle attrezzature. Inoltre, a differenza di altre regioni, in Sardegna le aree produttive sono spesso isolate rispetto agli insediamenti, delimitate, frutto e oggetto di pianificazione; il margine è quindi prevalentemente agricolo o naturale: i problemi di definizione dei bordi, e di interferenze tra la vegetazione sinantropica e quella naturale, sono quindi più rilevanti. Quanto ai paesaggi della produzione di energie da fonti rinnovabili, la regione si caratterizza per la diffusione di impianti di dimensioni rilevanti, che interagiscono in maniera spesso conflittuale con il contesto. Accanto a questo, i programmati nuovi impianti collocati in aree industriali, pongono il tema della configurazione di paesaggi “tecnologici”, che presentano il rischio di aggiungere criticità ad aree la cui gestione e qualità del paesaggio è già adesso complessa da governare. Le logiche di distribuzione e di densificazione degli impianti eolici, così come risultano dai criteri normativi, appaiono insufficienti rispetto alle strategie di mitigazione degli impatti, sia nel territorio libero, sia all’interno dei complessi industriali. Anche le attività estrattive presentano problemi peculiari. I diffusi valori di antichità e/o di memoria rendono ambigua la definizione degli obiettivi di recupero, che non possono essere generalizzati ma solo cautamente verificati caso per caso. Ad esempio, la grande visibilità di alcune cave di versante può essere considerata talvolta un impatto, talvolta un segno identitario3. La vastità del patrimonio culturale e identitario legato ai 3
Alcune situazioni giudicabili come “negative” dal punto di vista scenico da un outsider (visibilità di discariche e scarti...), possono invece essere ritenute “da conservare” dagli insider, poiché ormai entrate a far parte del senso identitario dei luoghi. Segnalazioni nelle schede d'ambito del PPR: “Testimonianze della miniera dismessa di Pranu Sartu con il piazzale di raccolta e gli impianti di prima lavorazione e di trasporto del minerale, inserite nel sistema della costa alta di Buggerru”; “Sistema dell'insediamento produttivo minerario di Nebida: ruderi della laveria La Marmora, costruita in pietra...su una ripida scarpata, quasi a picco sul mare…”.
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luoghi della produzione (basti citare il Parco Ambientale Geominerario, che occupa una superficie pari a circa il 20% della sup. regionale e comprende aree estrattive, stabilimenti, villaggi) richiede un atteggiamento progettuale che rimetta in circolo le risorse, nell’impossibilità di generalizzare ipotesi di valorizzazione in chiave esclusivamente ricreativa e museale (come negli esempi più noti di intervento sull’industrial heritage).
Figura 4. Relazioni tra paesaggi produttivi in Sardegna e problematiche emergenti. Con il tratto a linea continua si rileva una relazione diretta con il problema; le linee in tratteggio rappresentano invece relazioni con le problematiche di secondaria importanza.
La specificità del territorio impone una particolare attenzione anche per altri aspetti: ad esempio, l’esistenza di vasti contesti seminaturali e territori integri, la ricchezza di aree umide, la predominanza di vegetazione autoctona, la rara e preziosa visibilità del cielo notturno, la concentrazione delle aree produttive maggiori (e la minor dispersione rispetto alla situazione continentale), mettono in luce l’importanza di preservare l’integrità dei paesaggi sardi, ovunque essa sia riscontrabile, usando quindi molta cautela nelle ipotesi di nuove localizzazioni o espansioni. Inoltre, emerge la numerosità delle situazioni di interferenza tra aree produttive e aree di valore naturalistico o paesaggistico accertato, oggetto di vincolo (beni paesaggistici, aree protette di varia natura). Ciò pone sia problemi di merito, sia di metodo e di processo. In alcuni casi, sviluppi pianificati nelle aree “interstiziali” risultanti dai vincoli producono squilibri sia sull’assetto funzionale, sia sul paesaggio. Carenza di vivibilità, disordine, impatto visivo, consumo di suolo, criticità ambientali, sottoutilizzo, abbandono, sono situazioni problematiche per il paesaggio che connotano diffusamente i territori delle attività industriali, delle attività estrattive e della produzione di energia da fonti rinnovabili della Sardegna.
3 | Dalle situazioni problematiche agli indirizzi specifici La trattazione di specifici casi studio in Sardegna si è dimostrata funzionale a focalizzare la corrispondenza tra i problemi, gli indirizzi e le misure specifiche, verificandone l’applicazione al caso volta a volta in oggetto. A valle del riconoscimento delle tre principali tipologie di paesaggi produttivi altrove richiamati, l’analisi dei paesaggi industriali si definisce secondo una lettura a tre scale: l’area di sviluppo dell’impianto (il sito), le aree che la inquadrano alla scala vasta (il contesto di localizzazione), l’ambito paesaggistico individuato dal PPR entro cui è compreso l’impianto. Alla scala del sito i caratteri spaziali e paesaggistici del singolo impianto Claudia Cassatella, Stefania Maria Guarini, Luigi La Riccia
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industriale sono considerati con riferimento alla grana dell’edificato, alle tipologie edilizie, al principio insediativo suggerito dal rapporto tra edificio e lotto, alle giaciture dell’edificato rispetto al sistema infrastrutturale di distribuzione interna. Accanto a ciò, si osservano i caratteri dello spazio aperto, delle reti infrastrutturali e dei servizi comuni (parcheggi, aree verdi, spazi per la logistica, impianti di trattamento acque reflue o rifiuti, ecc.). Alla scala del contesto di localizzazione, i caratteri paesaggistici sono considerati con riferimento a singoli nuclei o complessi industriali e alle relazioni esistenti tra essi ed il territorio circostante. A tal fine, si osservano le situazioni di bordo, le zone di contatto tra il nucleo industriale e gli spazi agricoli, urbani o naturali limitrofi. Si osserva inoltre la collocazione del nucleo industriale in oggetto rispetto ai sistemi infrastrutturale, insediativo e ambientale entro cui è inserito, nonché le sue relazioni con altre componenti paesaggistiche significative. L’obiettivo è quello di individuare il rapporto che lo spazio industriale istituisce con il suo territorio e le relative componenti (ambientali, agricole e naturali). Infine, al terzo livello, i caratteri dei singoli nuclei o complessi sono considerati con riferimento all’ambito paesaggistico, così come individuato dal PPR, entro cui sono compresi. In questo caso, il “paesaggio industriale” definito dal singolo impianto è valutato a fronte dei caratteri paesaggistici dell’ambito geografico, con particolare considerazione delle reti ambientali e dei rapporti che esso instaura con i sistemi culturali e fruitivi.
Figura 5. Paesaggi industriali di Portovesme e Ottana (foto sinistra di D. Atzoi, 2010, e destra degli autori, 2011).
Tra i diversi problemi sopra elencati, l’impatto visivo è forse quello che maggiormente può esemplificare la condizione specifica della maggior parte dei paesaggi industriali della Sardegna. Esso riguarda la localizzazione di impianti e manufatti produttivi in punti molto visibili, che interferiscono direttamente con contesti paesaggistici di valore (ad esempio, i versanti e le aree boscate di pregio). Ciò che definisce nei diversi casi l’impatto visivo è specificamente lo svincolamento formale dell’insediamento produttivo rispetto alle forme del paesaggio, con forme incongruenti o incompatibili, dovute alla scala dei manufatti, alle trasformazioni della morfologia del sito, al tracciamento delle reti di servizio, alla mancata sistemazione degli spazi per la raccolta e il trattamento dei rifiuti, ecc. In particolare, il ‘fuori scala’ dei manufatti sottolinea la differenza tra la grana del tessuto industriale e il contesto paesaggistico nonché la diversità che intercorre, quantitativamente, tra le dimensioni degli spazi industriali e gli spazi urbani. Si tratta di rapporti quantitativi anche di un ordine di dieci a uno, che condizionano inevitabilmente le scelte di riutilizzo ad uso urbano di questi spazi. L’impatto visivo si manifesta altresì sul piano del linguaggio architettonico: la maggioranza degli edifici industriali è spesso il risultato di assemblaggio di elementi modulari che produce uniformità delle superfici. Le ragioni dell’uso e dell’economia (di costruzione e di manutenzione), prevalgono su quelle del comfort o estetiche. In alcuni casi questo fenomeno si riscontra all’interno di uno stesso sito industriale, quando questo è configurato da un differenziato insieme di grandi impianti produttivi di base (con le loro grandi dimensioni e geometrie) e di capannoni di piccola taglia per spazi produttivi di tipo artigianale. In ogni caso gli impatti visivi risultano tanto più rilevanti quanto più scarsa è la presenza di vegetazione, la cui adeguata e maggiore utilizzazione negli spazi aperti potrebbe ridurre significativamente l’interferenza con gli elementi di valore paesaggistico. La definizione di indirizzi specifici (Fig. 6) per la risoluzione di tale problematica è sintetizzata come segue attraverso alcune indicazioni di massima: 1. Preservazione dei paesaggi integri ad alta sensibilità paesaggistica: evitando la localizzazione di nuovi manufatti industriali nelle aree interessate da un alto valore di sensibilità paesaggistica, prestando attenzione al mantenimento e al miglioramento dell’intervisibilità tra gli elementi di valore storico culturale e quelli di interesse paesaggistico. L’obiettivo può essere perseguito attraverso l’elaborazione di analisi specifiche di visibilità, che consentano di determinare gli spazi maggiormente soggetti ad alto grado di sensibilità paesaggistica. 2. Riqualificazione figurativa del complesso industriale: promuovendo la definizione di una qualità figurativa complessiva del complesso industriale, prestando attenzione, in sede progettuale, agli elementi di dettaglio (ad esempio, le coperture) e mitigando l’effetto di “fuori scala” di alcuni manufatti impianti con l’uso di Claudia Cassatella, Stefania Maria Guarini, Luigi La Riccia
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coloriture e materiali che riducano la percezione del volume degli edifici. Il miglioramento dell’immagine del complesso industriale passa altresì attraverso una regolazione attenta dell’illuminazione, della segnaletica e della pubblicità, curando la coerenza tra materiali, elementi di arredo, forme, colori, caratteri di insegne e pannelli pubblicitari. 3. Inserimento nel contesto paesaggistico: qualificando l’immagine perimetrale del complesso industriale attraverso un uso diffuso di siepi di recinzione e limitando l’uso di recinzioni non vegetali solo ai casi in cui motivi di sicurezza esigano forme di restrizione all’accesso più sicure. Conservare per quanto possibile le variazioni altimetriche del suolo, per contenere la compromissione dei profili paesaggistici e armonizzare le forme di occupazione del suolo con quelle del mosaico particellare agrario e i tracciati storici esistenti. Strutturare un disegno degli spazi aperti, di mediazione spaziale e di riequilibrio tra l’insediamento industriale e l’area urbana, anche mediante l’impiego di ampie fasce di forestazione al margine delle lottizzazioni.
Figura 6. Esemplificazione di possibili indirizzi generali applicati ai casi studio ed estratti di schematizzazioni specifiche (fonte: elaborazioni degli autori).
4 | Spunti conclusivi Il percorso metodologico, qui presentato, che lega la problematica a una o più soluzioni progettuali, è di fatto un complesso cammino di sequenze interpretative, di quadri di sviluppo e di definizione di indirizzi e linee guida a diversi livelli di dettaglio: ne sono oggetto i territori più sensibili, quelli degradati, compromessi, marginali che necessitano di nuovi stimoli per il recupero, la valorizzazione e lo sviluppo. Tale percorso di certo non fornisce gli unici suggerimenti per intervenire sulla specifica natura e le potenzialità di questi vuoti, ma si limita a offrire possibilità verso trasformazioni che risultino comunque compatibili con il valore paesaggistico di riferimento. D’altra parte, bisogna constatare che è arduo fornire soluzioni a problemi i cui contorni non sempre sono adeguatamente delineati: basti notare che sulle aree gravate dai dette condizioni non esiste una domanda sociale univocamente determinata, di cui il solo ente pubblico possa farsi interprete. Né esiste solamente quella del mercato, la cui attuale condizione di crisi non ammette fondate ipotesi di sviluppo.
Claudia Cassatella, Stefania Maria Guarini, Luigi La Riccia
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L’unico dato certo è che l’attenzione progettuale non può essere limitata alla scala del sito (in senso architettonico) e all’interno del suo perimetro d’impianto, ma deve essere supportata dalle scelte della pianificazione. Monitoraggio, strumenti operativi, best practices sono ulteriori componenti necessarie per integrare il più possibile gli aspetti di natura paesaggistica delle aree produttive nell’ottica progettuale.
Bibliografia Cohen-Rosenthal E. (2003), Ecoindustrial Strategies, Green leaf publishing, Sheffield. Coté R.P., Hall J. (1995), “Industrial Parks as Ecosystems”, in Journal of Cleaner Production, n. 3. Council of Europe (2000), European Landscape Convention, European Treaty Series n. 176, Firenze. Frosh R.A., Gallopoulos N. (1989), “Strategies for manufacturing”, in Scientific American, nn. 261-263. Generalitat de Catalunya, Departament de Politica Territorial i Obres Pùbliques (2007) Polìgons industrials i sectors d’activitat econòmica (Guia d’integraciò paisatgìstica). Regione Autonoma della Sardegna (2013), Direttive regionali in materia di aree produttive ecologicamente attrezzate. D.G.R. n. 4/2 del 25.1.2013. Regione Piemonte, DIPRADI (2010) Buone Pratiche per la Pianificazione Locale. Tandy C. (1975) Landscape of Industry, Leonard Hill Books, London.
Claudia Cassatella, Stefania Maria Guarini, Luigi La Riccia
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Politiche e criteri di intervento per il paesaggio storico urbano. Un contributo dai documenti internazionali
Politiche e criteri di intervento per il paesaggio storico urbano. Un contributo dai documenti internazionali Elvira Petroncelli Università degli Studi di Napoli Federico II DICEA − Dipartimento di Ingegneria Civile Edile ed Ambientale Email: elvira.petroncelli@unina.it Tel: 081.76.82313
Abstract L'attenzione e l'avidità, quasi, con cui oggi si guarda alla possibilità di aprirsi al turismo molto spesso non tiene nel dovuto conto le negatività che spesso lo caratterizzano. I processi di cambiamento indotti dalle esigenze di insediare nuovi tipi di attività, dai mutamenti delle condizioni economiche che inevitabilmente si possono ripercuotere sul contesto fisico e sui modi di fruirne, nonché dai flussi di soggetti con diversi stili di vita e culture, rendono fondamentale centrare l'attenzione sugli impatti delle trasformazioni e sulle relative esternalità. Parole chiave paesaggio storico urbano, documenti internazionali, criteri intervento
Premessa I rapidi processi di cambiamento, in atto, inducono modificazioni nei comportamenti dei soggetti, nei loro modi di vita e di assegnazione di valori − così come sui contesti fisici − anche in seguito ad inconsce azioni umane. Un tempo gran parte delle azioni di trasformazione era l’esito di proiezioni nel futuro e quindi fortemente rivolta a trasformare in una prospettiva di lunga durata ed a ricercare forme di stabilità. Oggi, di contro, il presente tende a prendere il sopravvento e rischia di favorire comportamenti predatori, pur in presenza di un’auspicata sostenibilità. I documenti internazionali che hanno trovato formalizzazione con il nuovo millennio, partendo da tali premesse, si sono sforzati di cogliere le problematiche emergenti e di delineare linee operative, aprendo la strada anche ad approcci meno tradizionali, come nel caso del concetto di ‘landscape’ o di ‘nuclei urbani storici’.
Documenti internazionali La firma della Convenzione Europea del Paesaggio (CEP), nel 2000, ha rappresentato senza dubbio un momento emblematico, sia per la costruzione di un pensiero unitario in materia, che per la promozione di un innovato tipo di approccio e l’introduzione di nuovi attori di riferimento. La Convenzione ha messo in luce la stretta relazione esistente tra popolazione e paesaggio e l'importanza che riveste la percezione che la popolazione ha del contesto che vive, non certo esclusivamente in funzione di come esso sia in grado di rispondere alle esigenze di questa, quanto quale espressione dei modi di rapportarsi dei soggetti con il paesaggio. L'uomo con le sue azioni ha sempre contribuito a plasmare il paesaggio ed a modificare il territorio fisicamente, ma nel tempo sono andati mutando i modi di fruirne e di relazionarsi, e questo viene continuamente a cambiare i termini del discorso. Dopo otto conferenze internazionali organizzate a scala regionale, per dibattere il concetto di paesaggio storico urbano, la Raccomandazione dell'UNESCO del 2011 (Recommendation on the Historic Urban Landscape, including a glossary of definitions) − tenendo anche conto delle nuove minacce e sfide, cui sono continuamente
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Politiche e criteri di intervento per il paesaggio storico urbano. Un contributo dai documenti internazionali
sottoposte le città storiche e le zone urbane in generale, e di come i rapidi processi di urbanizzazione in atto mettono di fronte al rischio di alterazione/perdita dei caratteri identitari (generatori di specificità e valori) − ha finito anch’essa con il guardare al contesto in generale − quale espressione delle azioni e aspirazioni umane − pur se ha focalizzato l’attenzione sull’ambiente costruito, in quanto espressione e depositario di valori naturali e culturali stratificati. La Raccomandazione, ritenendo che un approccio paesaggistico aiuti a salvaguardare l’identità urbana, ribadisce il concetto di ‘paesaggio storico urbano’, afferma l’importanza di allargare il campo di osservazione fino a comprendere la topografia del sito, la sua geomorfologia e le caratteristiche naturali, l’ambiente costruito1 storico e contemporaneo (con tutto il sistema infrastrutturale e degli spazi verdi) ed evidenzia la necessità di considerare i valori e le pratiche socio-culturali, i processi economici e la dimensione immateriale del patrimonio, in relazione alle nozioni di diversità e di identità. In tal modo, riprendendo invero il tipo di approccio della CEP, finisce con il fare riferimento a questioni ben più ampie, gettando le basi per un approccio globale all’ambiente costruito e volto a identificare, conservare e gestire le zone urbane storiche nel quadro di un progetto di sviluppo sostenibile. L’approccio proposto mira alla preservazione della qualità dell’ambiente di vita, al miglioramento della produttività degli spazi urbani e ad integrare la conservazione del patrimonio urbano in un quadro di obiettivi di sviluppo socio-economico. Il documento è dello stesso tono quando passa a delineare le politiche e gli strumenti per attuare tutto ciò, ovvero auspica ‘a new generation of public policies’ o politiche capaci di fornire ‘mechanism for balancing conservation and sustainability in the short and in the long terms’. In piena sintonia con quanto si cerca di portare avanti negli attuali processi di pianificazione, la ‘ricetta’ che fornisce fa leva su: il coinvolgimento di diversi tipi di stakeholders (messi in grado di cogliere i valori chiave, sviluppare visioni, porre traguardi, definire azioni volte a salvaguardare il patrimonio ed a promuovere sviluppo sostenibile); strumenti per la conoscenza e pianificazione atti a proteggere integrità e autenticità degli attributi del patrimonio urbano, migliorando la qualità della vita; sistemi di norme e regole; strumenti finanziari. La questione del cambiamento e degli interventi nei centri storici è stata posta, infine, in modo altrettanto ampio nel documento ‘The Valletta Principles for the Safeguarding and Management of Historic Cities, Towns and Urban Areas’ (elaborato dal Comitato Scientifico Internazionale CIVVIH (Comité International sur les Villes et Villages Historiques), adottato dalla XVII Assemblea Generale ICOMOS (Parigi, 2011))2. Il Documento, pur se per scelta trova formulazione in termini generali, cela concretezza di contenuti e vuole rappresentare un punto di riferimento per la definizione di tipi di intervento in centri storici e aree urbane storiche di qualunque entità e valore. È ormai forte la consapevolezza del grande ruolo che può rivestire il patrimonio storico materiale e immateriale che l'uomo contribuisce a creare con la sua lenta e costante azione, giorno dopo giorno, ed è importante che il processo creativo non venga interrotto o contaminato da processi di trasformazione estranei. Il documento propone pertanto criteri per l’intervento, metodologie e strategie da adottare. Oggi l’uomo corre il rischio di farsi fagocitare dagli eventi, di perdere il controllo delle proprie azioni, di vagare senza obiettivi e mete, di divenire una ‘scheggia’ in balia degli eventi o di menti oscure. È per questo che il Documento, prendendo in considerazione i diversi aspetti dei cambiamenti in atto, evidenzia problematiche e sfide. Gli ‘Intervention Criteria’ rappresentano degli imprescindibili punti di riferimento oggi (‘Values’, ‘Quality’, ‘Quantity’, ‘Coherence’, ‘Balace and compatibility’, ‘Method and scientific discipline’, ‘Governance’). ‘Time’, ‘Multidisciplinarity and Cooperation’, ‘Cultural diversity’ suggeriscono i focus su cui fondare le scelte politiche, alla luce però di alcune questioni particolari che emergono con forza (‘New functions’, ‘Contemporary architecture’, ‘Public space’, ‘Facilities and modifications’, ‘Mobility’, ‘Tourism’, ‘Risks’, ‘Energy saving’, ‘Participation’). Per quanto ampia sia l’apertura di tali documenti internazionali ai naturali processi di cambiamento e, di conseguenza, alle forme di rivisitazione e riposizionamento per la lettura dei contesti storico-culturali-ambientali − onde poter trovare un giusto equilibrio tra valorizzazione e gestione delle testimonianze storiche e assetti futuri − esistono alcune questioni che devono essere osservate attentamente. Sulla base del nuovo approccio al paesaggio e della considerazione che i rapidi processi di urbanizzazione in atto mettono di fronte al rischio di alterazione/perdita dei caratteri identitari, generatori di specificità e valori, ci si è orientati alla preservazione della qualità dell'ambiente antropizzato, promuovendo usi produttivi e sostenibili dello spazio urbano, nonché nel rispetto della loro dinamicità e delle diversità sociali e funzionali. La preoccupazione è andata, da un lato, all’individuazione di forme di salvaguardia del patrimonio, dall'altro, allo sviluppo economico e sociale, con l'obiettivo di rispondere alle attuali necessità, così come a quelle delle generazioni future, facendo leva sul passato.
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La Raccomandazione, nell’Appendice, tra le definizioni date inserisce quella di ambiente costruito: “The built environment refers to human-made (versus natural) resources and infrastructure designed to support human activity, such as buildings, roads, parks, and other amenities.” Il Documento (redatto in inglese e francese, ma tradotto anche in spagnolo, russo, greco e cinese), messo a punto nell’ambito del CIVVIH nel corso di un dibattito a scala internazionale durato sei anni, mi ha visto come principale redattore e curatore.
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Politiche e criteri di intervento per il paesaggio storico urbano. Un contributo dai documenti internazionali
Politiche e criteri per l’intervento La globalizzazione dei mercati e l'innovazione di processo e di prodotto, in generale, inducono trasformazioni sostanziali nelle politiche di governo e nei modi di vita e finiscono con il configurare istanze sociali nuove, così come comportamenti che potrebbero arrivare ad avere l'effetto di alterare irreversibilmente le identità e lo stesso patrimonio storico-culturale. Le grandi trasformazioni epocali che viviamo inducono un generale senso di spaesamento, soprattutto se ci confrontiamo con un'idea di futuro. Ormai il presente non appare più come l'esito del lento evolversi del passato, ma spesso si impone come un fatto compiuto la cui comparsa fa svanire sia il ricordo del passato che l'immaginazione dell'avvenire. La straordinaria dilatazione dello spazio, reso accessibile a tutti da un sistema di trasporto e di comunicazione impensabile fino a qualche decennio fa, porta ad un'irriducibile contrazione del tempo, schiacciato dall'immediatezza. Il forte ruolo assegnato alla variabile ‘tempo’ porta ad enfatizzare la dimensione del presente con precisi effetti sia sui modi di guardare al passato che su quelli di costruire il futuro. È anche alla luce di tali riflessioni che risulta opportuno considerare le problematiche e le possibili prospettive, nonché delineare le politiche da adottare per una corretta valorizzazione e sostenibilità degli insediamenti umani. Pur se in un certo senso mutano alcune componenti o la loro valenza, invero esistono molti elementi di fondo che possono venire ad accomunare logiche e politiche per i diversi tipi di paesaggio: il tema della valorizzazione del patrimonio materiale e immateriale trova sponda per le diverse tematiche in generale. Come evidenzia il documento ICOMOS-CIVVIH della Valletta, ad esempio, a fronte di alcuni temi di fondo (‘Time’, ‘Multidisciplinarity and Cooperation’, ‘Cultural diversity’), che portano a precisare il contesto del discorso e che vanno assumendo nuove fisionomie e nevralgiche valenze, esistono temi in un certo senso nodali da affrontare in modo specifico (‘New functions’, ‘Contemporary architetcture’, ‘Public space’, ‘Facilities and modifications’, ‘Mobility’, ‘Tourism’, ‘Risks’, ‘Energy saving’, ‘Participation’), i quali esigono riflessioni a monte, se poi vogliamo essere in grado di operare scelte consapevoli. Il rischio di determinare alterazioni irreversibili o la perdita di caratteri identitari è d’altra parte forte se si perdono di vista i reali valori da salvaguardare. Non è possibile subordinare le esigenze delle collettività a quelle del turismo, ad esempio. La salvaguardia delle identità va oltre la semplice preoccupazione per l’introduzione di nuova architettura o la trasformazione di funzioni o utilizzi. Nuovi manufatti, e quanto essi possono contenere ed offrire, possono anche venire ad incidere sulla quantità e qualità dei flussi ed avere gravi ripercussioni su tutto il sistema di vita e di uso del territorio. È per questo che nel documento della Valletta non a caso si evidenzia un insieme di fattori, ritenuti oggi imprescindibili ed inderogabili (valori, qualità, quantità, coerenza, equilibrio e compatibilità) ai quali occorre prestare particolare attenzione. Oggi non si possono pensare piani per le città ed il territorio preoccupandosi solo di soddisfare parametri puramente quantitativi. La ricerca della qualità implica il far riferimento anche ai possibili valori tangibili ed intangibili di tutto il contesto, avendo chiaro che occorre un attento controllo e una diligente gestione per trovare forme armoniose di sviluppo. Superando una posizione fortemente vincolistica, tenendo conto dell’importanza di considerare le aree storiche nella loro totalità − onde permettere la valorizzazione dell’insieme −, occorre mettere in essere un approccio fortemente integrato e coinvolgente l’intero territorio. Un rapporto equilibrato tra le parti contribuisce a rafforzare le connessioni, ovvero è la premessa per l’adozione di politiche di sviluppo economico e sociale coerenti e sostenibili. Ancora, se per la salvaguardia spesso si richiede la non alterazione degli equilibri spaziali, ambientali, sociali, culturali ed economici, è pur vero che solo un’azione concepita a livello dell’intero contesto consentirà di definire politiche atte a permettere una buona qualità della vita sia dei residenti che degli users, ovvero di individuare consone politiche di sviluppo senza indurre, a seconda dei casi, congestione o abbandono. La definizione degli usi, nel piano, pone inevitabilmente in evidenza la questione relativa al ruolo che vengono a rivestire le aree storiche. Prima di definire le possibili destinazioni d’uso, occorre valutare il numero di users che potrebbero venire ad essere coinvolti, la durata degli utilizzi, la compatibilità con le altre funzioni già presenti o lo stesso impatto sulle tradizionali abitudini locali. Non certo può essere demonizzata la realizzazione di interventi nuovi a livello edilizio o negli spazi urbani, ma è pur vero che le innovazioni dovranno essere coerenti con l’esistente assetto spaziale e ambientale. Esse devono essere rispettose della scala del sito ed in stretto rapporto con l’esistente. Possibili negativi impatti visivi si potrebbero determinare e dunque occorrono preventive valutazioni sotto il profilo funzionale, oltre che formale, specialmente quando vengono ad essere introdotte nuove attività. Al di là del valore che può rivestire il patrimonio edilizio, grande deve essere l’attenzione agli spazi pubblici, al tessuto connettivo, a come esso può essere percorso e fruito, non ultimo sotto il profilo della comunicazione sociale che esso veicola. Spesso possono anche divenire basilari forme di frammistione e queste devono dare spazio a rapporti armonici e non ad esclusioni o creazioni di artificialità. Occorre incoraggiare forme di comportamento e non interdire utilizzi, indicare priorità e accrescere la sensibilità. Il tema risulta fortemente pertinente anche se parliamo di mobilità e turismo. Sia che facciamo riferimento a città storiche che al territorio in generale la leva del turismo si è dimostrata particolarmente rilevante negli ultimi
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Politiche e criteri di intervento per il paesaggio storico urbano. Un contributo dai documenti internazionali
decenni. Basta pensare a Bilbao o a Berlino, per non parlare delle tradizionali città storiche. Da che si preconizzava la crisi della città, a seguito dello sviluppo delle nuove tecnologie, invero si è assistito ad un più forte suo potere attrattivo ed al suo porsi in ‘vetrina’, lì dove si è guardato alla sua immagine o all’intero contesto territoriale. Questo potrebbe venire a significare che, se vogliamo parlare di sviluppi sostenibili, forte è l’esigenza di piani, strutturati però su visioni di lungo periodo, ovvero che diano spazio a meccanismi volti a bilanciare la salvaguardia delle identità storiche con i principi della sostenibilità. Nel caso delle aree urbane storiche, in particolare, si sono anche andate definendo politiche volte ad incentivare possibili nuove forme di turismo, pur consapevoli delle numerose criticità che si potrebbero generare. Partendo dall’osservazione di come sia tuttora forte la ricerca di autenticità e di appartenenza ad un contesto sociale, l’attenzione è andata oltre che ai valori storico-architettonici ed estetici ai mutati rapporti tra azioni umane e ambienti, nonché alle nuove forme di connessione città-territorio, attraverso il recupero di percorsi e luoghi simbolo, ad esempio. Si è cominciato a guardare al turismo non più solo come forma di leisure per antonomasia, ma come occasione per stimolare ‘racconto del territorio’ attraverso tipi di luoghi diversi: da quelli legati all’arte e architettura, al mondo rurale o a vicende storico-politiche, ai paesaggi di autore o del mondo operaio, ecc.. Tutto ciò tenendo anche in conto come l’affermarsi dell’informatica e delle ITC o l’evoluzione dei mezzi di trasporto e la globalizzazione, facendo leva su valenze in un certo senso nuove, hanno permesso una diversificazione delle forme di turismo. Una simile ricchezza di risvolti ha portato ad una interessante rivisitazione del ‘turismo’ e delle sue interazioni con il territorio, non ultimo quale risorsa ancora ricca di forti potenzialità. Come il Progetto PRIN ’08 ‘ITATOUR Visioni territoriali e nuove mobilità’ (AA.VV., 2012) ha evidenziato esistono ‘per ogni territorio un insieme di occasioni di scambio definite dalle interrelazioni che possono avere o non avere successo in ragione delle differenti forme di turismo’: queste influenzano la qualità della presenza turistica, ovvero vengono ad incidere sulla domanda, sui beni di consumo e sui beni prodotti nel territorio e possono generare diverse forme di turismo e di stanzialità. Nuovi sbocchi si configurano per le politiche territoriali. Il quadro di fattori che concorrono alla formazione di flussi turistici va oggi dilatandosi, da un lato, trovando variegate specificazioni − anche in rapporto a contesti che potremmo definire minori − ed evidenziando alcuni caratteri peculiari che mettono in luce piccole ‘nicchie’ (in un certo senso privilegiate), dall’altro, aprendo il campo ad una serie di problematiche, di cui facilmente si rischia di perderne il controllo. Invero, se la molteplicità di sbocchi e possibili sviluppi evidenzia la presenza di una grande quantità di valenze, e quindi potenzialità delle risorse, le criticità si moltiplicano a dismisura, non solo in rapporto ad ognuna di esse, quanto in ragione di possibili loro diverse combinazioni. Centri storici e paesaggi sono due categorie di beni di grande richiamo per il turismo, ma al tempo stesso contesti di vita di comunità stanziali. Si tratta di riuscire a coniugare istanze di tipo diverso e di trovare condizioni di equilibrio, di volta in volta diverse, tra esigenze economiche, sociali e culturali. Il problema di certo non si può esaurire con l’introduzione dell’appellativo ‘historic urban landscape’, ovvero riportando tutto sotto un unico ombrello, come la Raccomandazione UNESCO potrebbe fare intendere, ma richiede un’attenta valutazione del ruolo e del significato del contesto, e di quanto per esso si prospetta, in relazione al alcuni fattori e criteri di fondo. Come ormai ben sappiamo, tra gli aspetti politicamente rilevanti, oltre quelli culturali e lo stesso valore economico, vi è oggi la percezione sociale che inevitabilmente viene ad influenzare i comportamenti. Il ruolo che riveste la società è dunque sempre più nevralgico e ricco di sfaccettature diverse. Ciò non di meno tutto non può essere lasciato in balia dei momenti e degli eventi. Se a nessuno può essere permesso di guardare solo alle proprie esigenze o ad una piena ma anarchica libertà di espressione e di azione è pur vero che oggi si rendono quanto mai necessari chiari traguardi, ovvero che si sente il bisogno di piani di medio lungo periodo sufficientemente strutturati, pur se flessibili. La partecipazione responsabile diviene la chiave di volta del sistema, ma naturalmente richiede azioni di formazione e momenti di apprendimento. In questo senso quanto maturato nel corso del tempo per la definizione di documenti ampiamenti condivisi a livello internazionale può costituire un prezioso supporto per la definizione di indirizzi e strategie da adottare per favorire lo sviluppo del territorio.
Bibliografia Leone N.G. (a cura di, 2012). ITATOUR Visioni territoriali e nuove mobilità Progetti integrati per il turismo nella città e nell’ambiente, FrancoAngeli/Urbanistica, Milano. Petroncelli E. (2012). “The Valletta Principles: the paradigm of change and research of a convergence among culture and different experiences”, in The Valletta Principles for the Safeguarding and Management of Historic Cities, Towns and Urban Areas, CIVVIH-ICOMOS, Athens, pp. 7 - 10. Stanganelli M. (2012). “New Policies and Intervention Criteria for the Safeguarding and Management of Historic Cities, Towns and Urban Areas”, in The Valletta Principles for the Safeguarding and Management of Historic Cities, Towns and Urban Areas, CIVVIH-ICOMOS, Athens, pp. 10 - 16.
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Le trasformazioni territoriali, strumenti di sicurezza
Le trasformazioni territoriali, strumenti di sicurezza Maria Sapone Università Mediterranea di Reggio Calabria - PAU maria.sapone@unirc.it Domenico Passarelli Università Mediterranea di Reggio Calabria - PAU domenico.passarelli@unirc.it Nicola Tucci Università Mediterranea di Reggio Calabria - PAU nicotucci73@gmail.com Antonino Labate Università Mediterranea di Reggio Calabria - PAU antonino.labate@unirc.it Caterina Barrese Università Mediterranea di Reggio Calabria - PAU kate.barrese@gmail.com Salvatore Barbagallo Università Mediterranea di Reggio Calabria - PAU sbarbagallo1@alice.it
Abstract Oggi, diventa più che mai cruciale saper gestire l’eredità del passato interpretando il presente, per progettare il futuro. L’organismo territoriale, quindi, non si pone più esclusivamente come oggetto fisico empiricamente osservabile a supporto delle attività, ma diventa la vera risorsa per lo sviluppo. Queste esigenze hanno fatto emergere sempre più la necessità di avviare processi di valorizzazione del paesaggio al fine di produrre un “nuovo sviluppo territoriale” basato sulla fruizione turistica, sulla tutela e salvaguardia del territorio anche dal punto di vista della sicurezza ambientale. Le trasformazioni territoriali, così concepite, offrono il campo in cui attuare la ricerca degli EcoVillaggi, basata sulla sostenibilità ambientale, quale paradigma di una nuova forma di sviluppo al fine di garantire l'innalzamento della qualità territoriale.
Marketing e trasformazioni territoriali verso una sostenibilità delle risorse endogene Sull’onda di un nuovo scenario, caratterizzato sia dalla ridefinizione dei rapporti tra pianificazione territoriale, società e territorio, sia dal rapporto sempre più sinergico tra economie locali e globali, oggi più che mai, le trasformazioni territoriali devono svolgere responsabilmente un ruolo attivo nel processo di promozione e gestione del territorio. Del resto, il territorio ricopre un ruolo guida nella costruzione della competitività e della coesione, qualificandosi come nodo di eccellenza territoriale, vero e proprio motore propulsore dello sviluppo del complessivo sistema territoriale. Prima di entrare nel merito dell’importanza per un territorio di essere supportato da un’attività di marketing, appare opportuno sottolineare come il ruolo attribuito ad esso, inteso come spazio pensato, sia cambiato nel tempo enfatizzando, quindi, la necessità di pianificare le azioni future. Passare dalla progettazione dello spazio alla pianificazione del territorio vuol dire passare da una visione falsamente oggettiva, che riduce in modo arbitrario la complessità, ad una visione più realistica che, invece di escludere le differenze, le contraddizioni ed i conflitti, ne tiene conto e, anzi, li pone al centro dell’analisi e delle Maria Sapone, Domenico Passarelli, Nicola Tucci, Antonino Labate, Caterina Barrese, Salvatore Barbagallo
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misure da prendere. Vuol dire anche passare da un progetto che si occupa di definire degli oggetti nello spazio, ad un progetto che si pone l’obiettivo di rispondere alle esigenze degli attori territoriali attraverso il governo, la pianificazione e la trasformazione del territorio. Tale organismo, quindi, non si pone più esclusivamente come oggetto fisico empiricamente osservabile a supporto delle attività, ma diventa la vera risorsa per lo sviluppo, da leggere come esito di un processo di territorializzazione dello spazio, intendendo con ciò il processo di sedimentazione dell’azione e dell’interazione della collettività sul territorio. Le cause che oggi stanno spingendo sempre di più verso l’applicazione di principi di marketing per la valorizzazione del territorio, sono riconducibili a tre fattori principali riassuntivi degli elementi che influenzano l’attrattività di un’area: il declino economico di alcuni territori storicamente di grande importanza. Ci riferiamo principalmente alle aree montane, che con il passare del tempo diventano sempre più marginali a causa del progressivo abbandono da parte dell’uomo a favore delle aree urbane; lo sfruttamento delle risorse ambientali che ha portato a un costante degrado fisico; la mancanza di un sistema di programmazione territoriale in grado di concentrare idee e risorse. La necessità di trovare soluzioni ottimali a questi problemi ha fatto emergere sempre più l’esigenza di utilizzare nuovi modelli di gestione e di trasformazione basati su metodologie di analisi e valorizzazione delle potenzialità locali, andando a definire: il sistema di interazione e integrazione tra i diversi attori locali, i quali dovranno mettere in atto le azione prefissate; il valore aggiunto di un territorio, determinato dal sistema di relazioni delle diverse risorse che lo costituiscono, nel fornire servizi e creare opportunità di sviluppo. In altre parole, le azioni di marketing territoriale si dovranno focalizzare sia nel soddisfare e supportare le necessità del sistema sociale ed economico, sia nel promuovere e valorizzare tutte quelle risorse che contraddistinguono, perché uniche, il tessuto vivo del territorio. Attraverso la lettura sinergica e incrociata delle variabili che contraddistinguono il sistema; la costruzione di un’unica visione di sviluppo; un costante processo di ascolto degli attori locali, ci consente di individuare le priorità espresse dal territorio, che se colmate consentono: alle realtà locali di ritrovare le condizioni ottimali per svilupparsi; al ripopolamento di tutte quelle aree marginali che sono soggette all’abbandono; agli attori esterni di individuare, nel territorio oggetto dell’azione di marketing, quelle opportunità convergenti e sinergiche alle rispettive strategie di sviluppo. Da quanto detto emerge la necessità di affrontare la complessità del sistema in modo nuovo, rispetto sia alla capacità di rileggere ogni fenomeno utilizzando un approccio multidisciplinare, sia all’esigenza di orientare una pluralità di attori verso obiettivi comuni di sviluppo, utilizzando forme di partecipazione e concertazione strutturata nella consapevolezza esplicita di dover costruire una rappresentazione condivisa del divenire del territorio stesso. In particolare, l’approccio strategico e sostenibile della pianificazione deve consentire la definizione di una “strategia del divenire” del territorio funzionale all’individuazione e valutazione degli investimenti che, in modo settoriale e trasversale, impattino sul contesto, con l’obiettivo di sostenere e strutturare il tessuto economico e sociale locale, innescare meccanismi di sviluppo endogeni ed ottimizzare la mobilità sul territorio, con il fine di creare un eco-sistema basato sulla sostenibilità ambientale, quale paradigma di una nuova forma di sviluppo, rappresentando, così, lo strumento principe su cui fondare le politiche di pianificazione e garantire l'innalzamento della qualità territoriale, in modo tale che, le trasformazioni, non solo fisiche ma anche sociali ed economiche, che si susseguono nel territorio e sul territorio hanno offerto il campo in cui attuare la ricerca sugli EcoVillagi volta al recupero, alla riqualificazione e alla messa in sicurezza di tutte quelle aree marginali, caratterizzate da un crescente degrado non solo fisico dei luoghi.
Gli ecovillaggi: la rivitalizzazione delle aree marginali La determinazione di azioni e progetti tesi a riqualificare le aree montane e i sistemi insediativi e naturalisticiambientali che le compongono, richiede l’identificazione delle principali problematiche relative a tali contesti e alle possibili direttrici di sviluppo eco-sostenibile già intraprese o ancora da intraprendere. Tali temi, soprattutto in questi ultimi anni, registrano una crescente attenzione ed un diverso grado d’approfondimento. Un’analisi critica degli effetti prodotti sugli elementi socio-economici e territoriali, che i principali strumenti messi in atto e le diverse modalità d’intervento attivate hanno determinato, riguardo le aree montane ed i contesti rurali calabresi, potrà fornire un quadro strategico operativo sul quale proiettare forme innovative d’intervento sui sistemi insediativi e naturalistico-ambientali che costituiscono i territori montani. L’idea degli ecovillaggi, quale azione di progetto e strumento di riqualificazione territoriale, urbanistica, ambientale e socio-economica, nasce per far fronte ad un fenomeno di spopolamento che ha investito molti centri minori presenti nelle aree interne, e della conseguenza perdita di identità territoriale e qualità socio-economica e ambientale. Risulta utile ribadire che gli ecovillaggi rappresentano una comunità di persone con un forte senso Maria Sapone, Domenico Passarelli, Nicola Tucci, Antonino Labate, Caterina Barrese, Salvatore Barbagallo
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identitario e d’appartenenza; normalmente sono centri di dimensioni ridotte, in cui è facile poter attivare i processi decisionali partecipativi. Alcuni centri montani calabresi, tra cui quelli concernenti la Comunità Montana presa in esame, si prestano per iniziative simili tanto da ipotizzare la creazione di una rete di ecovillaggi da far confluire in una Rete Globale, in modo tale da avere continui confronti e scambi culturali con gli altri paesi facenti parte della rete. La ricerca1, avente come obiettivo la realizzazione di una rete di ecovillaggi nel territorio della Comunità montana Reventino Tiriolo Mancuso, è stata condotta attraverso una metodologia flessibile, multidisciplinare ed integrata, per poter analizzare concretamente l’eventuale opportunità della creazione di una rete in un ambito territoriale ben preciso. Il lavoro di ricerca viene indirizzato al soddisfacimento dell’obiettivo generale che è quello di migliorare le politiche regionali considerando la valorizzazione economica del patrimonio delle montagne mediterranee come asse maggiore del loro sviluppo, producendo uno studio per l’individuazione dei parametri finalizzati alla realizzazione di una rete di Ecovillaggi, attraverso l’individuazione come luoghi di sperimentazione dei territori montani, con particolar attenzione agli abitati minori dell’entroterra calabrese. Le finalità perseguite si possono sintetizzare nella valorizzazione delle emergenze culturali ed ambientali presenti sul territorio, attraverso il recupero e la valorizzazione delle risorse endogene, con l’obiettivo di favorire lo sviluppo ecosostenibile delle diverse attività al fine di creare una rete integrata territoriale, cercando di rafforzare lo spazio di cooperazione economica, culturale, ambientale e sociale tra i diversi territori. La ricerca affronta le diverse dinamiche, con lo scopo di rifunzionalizzare il patrimonio edilizio e urbanistico esistente, migliorando, così, la qualità della vita dei centri rurali. Questo modello può rappresentare concretamente una delle possibili soluzioni allo spopolamento, nel conservare e tutelare lo spazio naturale attraverso la promozione di sistemi di produzione sostenibili, nel rispetto dei requisiti ambientali, nell’attivazione di sistemi energetici rinnovabili, nella gestione dei rifiuti e nel richiamo turistico del patrimonio storico-culturale della montagna calabrese. Risulta necessario, per i contesti rurali, porre in atto strumenti, modalità e forme innovative d’intervento capaci di rivitalizzare le aree montane. Il fine della ricerca è stata la predisposizione di un modello territoriale, basato su stili di vita alternativi all’attuale modello socio-economico; cercando di perseguire il massimo dell’autosufficienza, attraverso azioni sostenibili sia sul piano economico che su quello sociale ed ecologico. Tale modello può essere implementato in qualsiasi contesto locale con determinate qualità ambientali, sociali ed economiche, orientato alla valorizzazione e sviluppo del patrimonio delle montagne calabresi, che con il passare del tempo sono soggette ad un progressivo abbandono da parte della popolazione, lasciando al proprio destino questi luoghi che un tempo erano ricchi di vitalità. Quanto detto mette in evidenza come le esigenze dell’organismo territoriale suggeriscono l’attivazione di nuove forme di co-pianificazione e partecipazione al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile in una visione integrata dello spazio territoriale, sulla base di principi di sussidiarietà e coesione, attraverso cui giungere all’individuazione del miglior uso potenziale del territorio, ricercando il coordinamento delle azioni necessarie da attuare per la valorizzazione e la tutela delle sue risorse, secondo la migliore e consolidata tradizione della pianificazione internazionale.
Sicurezza e identità del territorio Il trend calabrese, ma non solo, di cui siamo stati testimoni negli ultimi decenni ha visto un costante e progressivo abbandono dei centri rurali, montani o, a volte, solamente decentrati a scapito delle zone urbanizzate costiere più ricche di servizi e più facilmente accessibili. Questo spopolamento ha portato, oltre ad un drastico decremento della popolazione, ad un graduale e sempre maggiore distacco dalle tradizioni agricole e culturali che per secoli hanno retto l’economia della nostra terra. Così facendo, però, non essendoci stata più una costante gestione e manutenzione dei terreni, la natura si è riappropriata dei suoi spazi coprendo le opere che l’uomo aveva creato per la sua economia ma anche per la sua sicurezza. L’incuria del proprio territorio non garantisce più la tranquillità per le popolazioni che lo abitano, i terrazzamenti un tempo coltivati divengono predisposti al rischio di frane, la mancata cura dei boschi li rende più facilmente soggetti agli incendi, la mancanza di coltivazioni arboree li rende inclini a tutti i fenomeni idrogeologici distruttivi di cui troppo spesso sentiamo parlare. Ulteriori conseguenze, oltre al rischio per la popolazione insediata, sono la perdita delle seppur piccole attività economiche, commerciali, agricole o manifatturiere tradizionali residue. Tutto ciò non fa che aumentare esponenzialmente la tendenza all’emigrazione verso nuove opportunità facendo perdere l’identità ed i valori territoriali costruiti in secoli, millenni di permanenza antropica fatta di trasformazioni ma anche dell’adattarsi a quei territori e alle risorse da questi offerte, che hanno permesso la crescita di una civiltà che affonda le sue radici ancor prima della conquista magno-greca. L’esperienza degli ecovillaggi può essere una nuova proposta di riappropriarsi del proprio territorio e della propria cultura rendendolo anche promotore ed attrattore di sviluppo sia economico che per il benessere dell’ambiente e di una società forse un po’ troppo frenetica. Il ripristino degli antichi equilibri, le coltivazioni di colture specifiche per la salvaguardia del territorio, la pulizia dei boschi, il ripristino della funzionalità dei corsi d’acqua, il controllo ed il rispetto delle aree di attenzione. 1
La ricerca prevede il calcolo dell'impronta ecologica e della biocapacità, curata da Nicola Tucci
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Piccole azioni soprattutto di gestione e manutenzione dell’esistente, a basso costo e basso impatto ma che permetterebbero di ripristinare la sicurezza, l’utilizzazione e la piena e libera fruibilità dei luoghi. La filosofia dell’ecovillaggio si propone di insediarsi o re-insediarsi in un territorio e ottimizzare le sue peculiarità ripristinando gli antichi equilibri uomo-natura per il rispetto e la sostenibilità ambientale ma anche per la sicurezza delle popolazioni che questo territorio lo abitano ma, soprattutto, lo vivono.
Cultura del paesaggio come strumento di benessere “Attivare azioni volte ad assicurare interventi sostenibili” è l’obiettivo condiviso da tutte le forme di Ecovillaggio(sia esso urbano, rurale, costruito ex novo o frutto di progetti di recupero e di riqualificazione del patrimonio edilizio esistente) riscontrabile nel panorama nazionale ed internazionale, e partire da una gestione equilibrata e razionale del paesaggio e delle sue risorse (biologiche, ecologiche, storiche, semiologiche e scenico-percettibili) non può che costituire un efficace “primo passo” finalizzato ad ostacolare concretamente la perdita di identità territoriale e della qualità economica-ambientale dei luoghi, oltre a soddisfare obiettivi sociali di interesse rilevante: la qualità della vita dei cittadini che vi abitano e lo sviluppo equilibrato e sostenibile dei loro spazi di vita. Sarebbe interessante riuscire a coniugare il significato fortemente “culturale” del paesaggio, così come individuato dal Codice dei Beni Culturali – un paesaggio fatto di storia, memoria, senso del luogo e identità, “patrimonio identitario dell’intera collettività nazionale” – con una sua considerazione “strategica” quale risorsa fondamentale per la per la creazione di opportunità occupazionali e sviluppo. Pensare alla realizzazione di una rete di ecovillaggi nel territorio montano calabrese significa intercettare tutte le connotazioni costitutive del paesaggio regionale, valorizzando contesti dalla straordinaria diversità paesaggistica caratterizzati da ambienti naturali unici: luoghi dalla singolarità assoluta sul piano biologico ed ecologico, luoghi panoramici dalle visuali sceniche-percettive privilegiate, luoghi che contengono delle testimonianze della morfologia del terreno; integrati a testimonianze e “segni” della storia di grande ricchezza, rintracciabili negli elementi storico-architettonici tradizionali ma soprattutto nella “memoria” di vite e stili di vita delle comunità che vi abitano, fatta di abbigliamenti tipici, tradizioni, dialetti, storie e professionalità legate ad antichi mestieri oggi sostituiti dalle “innovazioni” contemporanee, ricordando che tra gli obiettivi delle politiche regionali, ed in particolare del QTRP vi è :“favorire un orientamento culturale che partendo dalla valorizzazione delle risorse endogene insite nei paesaggi calabresi e intese nel loro dinamismo, porta alla possibilità dell’autoriconoscimento identitario come elemento significativo per sentirsi parte dei cambiamenti in atto. Un percorso di riappropriazione in cui lo sviluppo e le strategie siano condivise con la comunità, in quanto derivano dai caratteri più riconoscibili all’interno del territorio e attuati attraverso strategie integrate di sviluppo sostenibile”. Partire da queste considerazioni, da queste “sensibilità”, significa assumere il tema del paesaggio quale leva fondamentale per lo sviluppo e la creazione di una “nuova” immagine di futuro del territorio calabrese, inteso come sistema complesso, come insieme di più paesaggi dal valore “forte”, capace di proporre, attraverso la conoscenza e la valorizzazione delle sue risorse: turismo, qualità, forme di benessere sociale e crescita economica sostenibile.
Risorse territoriali e turismo sostenibile Sempre di più, la pianificazione turistico-territoriale, come gestione ordinata dello sviluppo di un territorio e dell’intero settore è un tema attuale. Il fattore su cui bisogna agire è espresso dal territorio, solo in seguito ad una sua valorizzazione e ad un incremento del suo livello di attrattività e di differenziazione, sarà possibile alle destinazioni di difendere il proprio vantaggio competitivo. Infatti, è proprio sulle risorse disponibili che ogni destinazione deve focalizzare l’attenzione, implementando logiche e strumenti tipici del marketing turistico territoriale, ai fini di un sistematico sviluppo turistico. La pianificazione turistico-territoriale intesa come l’insieme delle azioni strategiche e operative che portano alla promozione e valorizzazione di una destinazione turistica, il tutto in maniera sostenibile, deve iniziare con un’analisi del potenziale di attrazione delle risorse del territorio. La presenza di risorse è senz’altro la condizione essenziale dell’evoluzione turistica di un territorio; il fatto di avere delle emergenze territoriali è l’elemento di partenza di qualsiasi pianificazione turistico-territoriale. Queste risorse possiamo vederle declinate in: naturali, culturali, di evento e di attività, con cui intendiamo rispettivamente emergenze di tipo ambientale - naturalistico, emergenze di tipo antropico, manifestazioni di richiamo e attività tipiche del territorio. L’approccio che attualmente viene adottato nella pianificazione turistica, come anche in altri tipi di sviluppo, è quello basato sul conseguimento di uno sviluppo sostenibile. Nella pianificazione turistica un approccio basato su uno sviluppo sostenibile appare particolarmente appropriato, proprio in relazione alle peculiarità di tale attività che è strettamente legata all’ambiente naturale ed all’eredità storica e culturale del luogo. Il degrado o la distruzione di queste risorse riduce la capacità d’attrazione delle aree, fino a far cessare l’attività turistica stessa. Maria Sapone, Domenico Passarelli, Nicola Tucci, Antonino Labate, Caterina Barrese, Salvatore Barbagallo
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Nell’ottica di realizzare uno sviluppo turistico sostenibile emerge, con evidenza, il ruolo positivo che possono svolgere enti di natura pubblica che sono chiamati ad assicurare, data la rilevanza degli interessi coinvolti, la corretta gestione del territorio. Tuttavia l’obiettivo di uno sviluppo turistico sostenibile si ritiene sia conseguibile solo con il coinvolgimento della comunità locale nel processo di pianificazione e di sviluppo, assicurando che la gran parte dei benefici derivanti dal turismo rimangano all’interno dell’area. Lo sviluppo sostenibile è una strategia per affrontare i temi dello sviluppo e dell'ambiente, da questo consegue che è necessario un approccio globale e preventivo piuttosto che settoriale e curativo. Perciò non basta una buona normativa, in cui comunque i singoli provvedimenti devono essere coerenti tra loro e rispecchiare un comune disegno strategico, ma occorrono anche la volontà politica e la capacità culturale di coinvolgere e di convincere le popolazioni verso la costruzione di nuovi stili di vita.
Riferimenti bibliografici Caroli M.(1999), Il Marketing territoriale, Franco Angeli, Milano. Cini F., (2008). Promuovere l'ecoturismo. Una strategia di marketing sociale, Roma, Bonanno Golinelli, C. M., (2002). Il territorio sistema vitale: verso un modello di analisi, Giappichelli, Torino. Gibelli M.C., (1996). Pianificazione strategica e gestione dello sviluppo urbano, Alinea, Firenze. Montanari A., (2009). Ecoturismo. Principi, metodi e pratiche, Bruno Mondadori, Torino. Passarelli D., & Errigo M. F., & Tucci N., (2008). La realizzazione di una rete di ecovillaggi per il territorio montano calabrese. Un caso studio: la Comunità Montana dei Monti Tiriolo Reventino e Mancuso, Samperi, Messina.
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Progetti per sistemi territoriali in trasformazione
Progetti per sistemi territoriali in trasformazione Angioletta Voghera Politecnico di Torino DIST – Dipartimento Interateneo Scienze, Progetto e Politiche del Territorio Ricercatore in pianificazione e progettazione urbanistica e territoriale angioletta.voghera@polito.it Tel 011/5647468-7477 / Fax 011/5647499 Dafne Regis Politecnico di Torino DIST – Dipartimento Interateneo Scienze, Progetto e Politiche del Territorio Dottorando in Ambiente e Territorio dafne.regis@polito.it
Abstract Il paper intende affrontare il tema dello sviluppo urbanistico, economico e sociale di territori in trasformazione, a partire dall’interpretazione critica di progetti territoriali internazionali e nazionali, caratterizzati da diversi metodi, ma accomunati da un approccio interdisciplinare e interscalare. La lettura dei casi è occasione per definire criteri e indicazioni metodologiche per lo sviluppo territoriale sostenibile; in particolare lo sviluppo di sistemi territoriali complessi necessita di una progettualità fondata sull’interazione tra diverse forme di governo del territorio (straordinarie e ordinarie, d’area vasta e locali, strategiche e operative), tipologie di progetti (generali e puntuali, d’iniziativa pubblica e privata), responsabilità degli attori coinvolti, risorse territoriali e economiche. In questo quadro alcune esperienze come le IBA in Germania, i Contratti di Fiume (CdF) e il Progetto per lo sviluppo della Valle di Susa in Piemonte sono occasione per sperimentare metodi e progetti alle diverse scale, attraverso l’individuazione di “modelli organizzativi” e/o di “soluzioni temporanee” per la gestione del processo trasformativo, la sua attuazione e finanziamento. Parole chiave Strategie, progetti, gestione
1 | Il progetto di territorio per lo sviluppo sostenibile In Europa si stanno sviluppando molteplici iniziative politiche, programmatiche e progettuali, orientate alla riqualificazione e rigenerazione di aree urbane, periurbane e rurali, finalizzate a promuovere la qualità ambientale, del paesaggio e degli insediamenti, oltre che la capacità di attrarre popolazione, attività economiche e investimenti. Queste iniziative trovano riferimento in progetti diversificati dal punto di vista metodologico, ma ugualmente orientati ad uno sviluppo territoriale sostenibile, basato sull’ambiente e il paesaggio come principale fattore di crescita economica e culturale. Gli aspetti comuni dei territori in trasformazione attraverso grandi progetti di sistema - coinvolgenti aree, regioni e parti di territorio con caratteristiche fisiche, geografiche e culturali anche molto diverse - sono la presenza di criticità ambientali, economiche e sociali diffuse, che si presentano in maniera congiunta influenzando la complessità dei processi decisionali, strategici e operativi. Le decisioni e le azioni per la trasformazione devono quindi basarsi su una visione integrata dei valori, dei problemi, delle possibili soluzioni per rilanciare i sistemi territoriali. Il paper indaga progetti di territorio d’area vasta, leggendo la complessità delle relazioni tra valori, strategie e progetti locali. Le IBA in Germania, i Contratti di Fiume in Piemonte e il Progetto per lo sviluppo della Valle di Susa sono casi in cui si opera in ambiti territoriali complessi, agendo in modo sinergico sul contesto urbano, rurale e naturale, oltre che integrando azioni materiali e immateriali per la cultura, la qualità di vita, del Angioletta Voghera, Dafne Regis
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paesaggio e dell’economia. Questi progetti intervengono per il mutamento strutturale di contesti territoriali in crisi, con conseguente frammentazione dei legami e perdita di risorse, identità e attività. Per ripristinare valori, funzioni e ruoli perduti e, talvolta, per proporre nuove alternative di sviluppo, i territori si attivano rilanciando azioni di progetto strategiche, multidisciplinari e interscalari che integrano sviluppo urbanistico, economico e sociale, superando la logica della “trasformazione per parti” (Mazza, 2003) e ricostruendo un tessuto territoriale di qualità su cui fondare la crescita economica, culturale e sociale futura. I progetti discussi, oltre ad intervenire secondo una visione d’insieme del territorio, promuovono strategie di gestione per capitalizzare, valorizzare e gestire le risorse, con effetti di medio-lungo termine. La sfida è infatti creare la basi per il cambiamento nel tempo, coinvolgendo risorse e attori pubblici e privati. Le ricadute dei progetti di sviluppo proposti dipendono dalla capacità delle politiche con carattere di straordinarietà di intessere proficue relazioni con gli strumenti di governo del territorio e di gestione che possono supportarli1. Integrando soluzioni programmatiche di sistema e azioni operative si può cercare di produrre effetti immediati e contribuire a generare ricadute destinate a durare nel tempo; occorrono tuttavia attenzioni specifiche all’organizzazione, alla gestione dei processi trasformativi e alla definizione di strumenti innovativi per l’attuazione.
2 | Le IBA in Germania, i Contratti di Fiume e il Progetto per lo sviluppo della Valle di Susa in Piemonte: strategie a confronto I progetti di seguito discussi si caratterizzano per approcci progettuali innovativi per il governo di territori “fragili”, in cui politiche e strategie condivise sono parte di processi complessi per l’attuazione degli obiettivi alle diverse scale, integrando interventi urbanistici, paesaggistici e architettonici che intervengono sulla qualità estetica e ambientale dei territori e ne promuovono la riconoscibilità territoriale, economica e sociale. L’esperienza dell’IBA2 Emscher Park (1989-1999) è un interessante “modello” di gestione di un processo di trasformazione del territorio complesso che integra strumenti programmatici straordinari, promossi dalle istituzioni locali per risolvere le criticità legate al vivere nella Valle dell’Emscher nella regione della Ruhr in dismissione industriale, e progetti mirati, coerenti con la strategia generale di miglioramento sociale, ecologico e paesaggistico. L’occasione dell’esposizione internazionale si innesta su un programma politico, strategico e culturale, corredato da specifici strumenti attuativi e finanziari, per costituire un “parco” per la memoria e la valorizzazione urbanistica, ambientale, edilizia del territorio (Figura 1). Estremamente interessante è l’approccio strategico adottato del “planning via projects” (Ganser, 1999) che interrela, in un quadro di unitarietà operativa, gli obiettivi di ammodernamento della regione, a partire dalle politiche regionali di risanamento ambientale e riconversione industriale delineate nella Conferenza per la Ruhr del 19793. Il “programma-progetto” dell’IBA ha così avviato un processo di trasformazione, capace di generare ricadute successive alla mostra temporanea, basato su “strumenti” per la valorizzazione delle potenzialità e criticità endogene: l’avvio di tavoli di lavoro, eventi e concorsi di idee per garantire qualità e condivisione dei progetti; il quadro-guida per il processo e i progetti strategici in cui trasferire la visione di sviluppo; nuove forme di governo del territorio4 più flessibili, capaci di mettere in sinergia gli strumenti straordinari per definire obiettivi e strategie 1
Il Programma Olimpico di Torino 2006, nonostante l’approccio sistemico adottato nell’aggregare azioni diffuse legate ad aspetti ambientali, paesistici, urbanistici, infrastrutturali e socioeconomici, non ha creato concrete prospettive di sviluppo, perché non supportato da adeguate politiche territoriali strategiche, visioni condivise e aspettative coerenti da parte dei diversi gruppi sociali e istituzionali coinvolti. Il progetto di sistema, avviato in occasione dell’evento olimpico, ha lasciato nuove dotazioni territoriali, nuove opportunità e un’immagine in parte nuova di Torino e le Valli Olimpiche, ma in assenza di un quadro politico e strategico complessivo, la possibilità di gestire e fare leva sulle risorse ereditate è risultata molto contenuta. Cfr. Bottero M. (a cura di, 2007), L’eredità di un grande evento. Monitoraggio ex post delle Olimpiadi di Torino 2006, Celid, Torino. 2 IBA, abbreviazione di Internationale Bauausstellung, esposizione internazionale di edilizia. 3 La Conferenza per la Ruhr, indetta dal Land NRW nel 1979 per fronteggiare la crisi senza precedenti e affrontare la questione della riconversione della regione, portò alla stesura di un documento nel quale si definirono obiettivi e strategie per il futuro della regione. Il Land elaborò una nuova politica che, muovendosi sia sul versante economico che territoriale e ambientale, portasse a una nuova fase di sviluppo. I principi formatori del documento furono il coordinamento tra autorità e operatori privati, la diversificazione delle realtà urbane secondo le loro potenzialità territoriali, sociali e culturali e la ricerca, attraverso cui perseguire le quattro linee strategiche delle nuova politica di sistema: lo sviluppo urbano coordinato, l’incentivazione di nuove tecnologie al tessuto produttivo, la definizione di progetti per una nuova immagine della regione e la riqualificazione professionale e sociale delle persone. 4 Nel 1988 fu costituita l’IBA Emscher Park GmbH, società di pianificazione a responsabilità limitata di proprietà interamente regionale, che ha esordito tracciando il quadro di riferimento per la progettazione degli interventi e, agendo in modo interdisciplinare e interoperativo, occupandosi di promozione e coordinamento di iniziative per il territorio, ha gestito il programma dell’esposizione internazionale per la sua intera durata,. Il compito della società è stato inoltre quello di coordinare e gestire l’elaborazione e la presentazione dei piani e dei progetti, promuovendo la raccolta di spunti e idee e scegliendo i più significativi attraverso concorsi di idee. Angioletta Voghera, Dafne Regis
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e quelli ordinari per attuare gli scenari con progetti concreti; la cooperazione sovracomunale per legare le scelte di governo del territorio puntuali in un disegno strategico; l’utilizzo dell’incentivo pubblico in modo mirato per guidare l’iniziativa privata verso obiettivi comuni (Kipar,1993; Minucci,1996; Zlonicky,1996). Il modello di gestione della trasformazione strutturale del territorio introdotto dall’IBA, ha impostato alcuni principi e criteri per l’attività di pianificazione e progettazione, diventando caso esemplare per i processi di ristrutturazione territoriale (Kunzmann, 2011). Il progetto di rigenerazione della Valle dell’Emscher ha dimostrato inoltre che la riqualificazione dell’ambiente, accompagnata dall’innovazione e da iniziative culturali, genera le condizioni per la crescita economica e occupazionale. L’IBA ha dunque lasciato un patrimonio di idee e progetti, che trovano continuo riscontro nel dibattito nazionale e internazionale per il progetto di territorio (Reicher, Niemann, Uttke, 2011). Il metodo si è consolidato, rinnovandosi anche nei risultati e criteri, in Germania in altri progetti territoriali: in Lusatia per la trasformazione dell’ex-paesaggio minerario (2000-10 Fürst-Pückler-Land), in Sassonia per la rigenerazione urbana di diciannove città distribuite nella regione (2002-2010 IBA Stadtbau) e ad Amburgo per la rivitalizzazione di un distretto della città (2007-2013 IBA Hamburg). Attualmente si sta tentando di esportarlo al di fuori dei confini nazionali tedeschi nell’IBA Basilea 2020 attraverso la cooperazione transnazionale di Svizzera, Germania e Francia, creando nuove e proficue relazioni politiche e amministrative.
Figura1. IBA Emscher Park: planning area e struttura del programma-progetto
Anche alcune esperienze dei contratti di fiume (CdF), sviluppate negli ultimi dieci anni in Italia5, rappresentano occasione per l’adozione di approcci progettuali multidisciplinari, per promuovere progetti concreti nel quadro di visioni e scenari condivisi, permettendo di implementare misure e azioni in modo integrato. Il CdF, introdotto dalla Direttiva 2000/60/EC per garantire quantità e qualità dell’acqua e sicurezza lungo i fiumi, diventa strumento innovativo per la gestione del territorio, utile per promuovere strategie, azioni e regole comuni per lo sviluppo ambientale, paesaggistico, socio-economico dei bacini fluviali, integrando le strategie per la sostenibilità. Il territorio e i fiumi hanno oggi bisogno di una riorganizzazione funzionale e conseguentemente di una concreta ed efficace politica di riqualificazione ambientale e del paesaggio. Inoltre, le azioni devono essere necessariamente condivise, attuabili ed efficaci nella direzione di valorizzare i bacini fluviali nel lungo periodo non solo in termini di sicurezza e qualità ambientale, ma anche come rilancio occupazionale ed economico dei territori. Pertanto, il progetto territoriale necessita di processi complessi e partecipativi, progetti strategici e scelte di gestione e di sviluppo condivise. In questo quadro, il CdF in Piemonte si configura come strumento flessibile, utile per comporre a livello locale i conflitti e gli interessi mediante processi negoziali, aderenti alle vocazioni territoriali e capaci di far dialogare i diversi strumenti di programmazione e progettazione degli interventi socio-economici con quelli di pianificazione territoriale e urbanistica (Voghera, 2009). A partire dalle prime esperienze di accordo volontario tra soggetti pubblici e privati i CdF, seppur in assenza di una loro istituzionalizzazione nel quadro della legislazione nazionale, si sono consolidati come nuova forma di programmazione negoziata per la tutela e riqualificazione dei fiumi e del loro territorio. L’obiettivo nella fase iniziale del progetto è individuare principi e priorità d’interesse collettivo, attraverso processi di concertazione tra attori pubblici e privati per aprire il dibattito e creare consenso. Il CdF attraverso un quadro-guida − Piano d’Azione del CdF – flessibile, orienta le scelte e gli interventi integrandosi con la pianificazione ordinaria per attuare lo scenario condiviso attraverso progetti alle diverse scale. Il CdF è dunque utile strumento che, a 5
In occasione del VII Tavolo Nazionale CdF per un “Green New Deal” dei territori fluviali italiani, tenutosi a Bologna nel novembre 2012, si contavano 56 esperienze di CdF in 16 regioni, distribuiti tra nord, centro e sud Italia.
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supporto delle comunità locali nella cura e valorizzazione del territorio fluviale e perifluviale, crea strategie, dichiara interessi, individua talvolta risorse e finanziamenti, lega scenari, politiche e strategie con azioni di gestione. In proposito sono istituite Cabine di Regia con il compito di integrare progetti, politiche e finanziamenti. Tuttavia, è prassi che le Cabine di regia siano composte prevalentemente da organi tecnici e che i Piani d’azione non ricevano la dovuta attenzione nel tempo da parte degli organi istituzionali causando spesso l’inattuabilità del piano complessivo. L’esperienza del CdF del Torrente Sangone in Piemonte è esempio interessante per le ricadute sul territorio; si basa sul metodo del “progetto integrato e multiscalare”, strategico, multidisciplinare che supporta l’attuazione degli scenari territoriali prefigurati dal piano d’azione, attraverso un masterplan e sistemi di progetti puntuali, cui sono collegati specifici finanziamenti (Ingaramo, Voghera, 2012). In particolare i finanziamenti europei, previsti nell’ambito del progetto regionale “Corona Verde” 6 (Figura 2), hanno consentito in molti comuni la realizzazione di tratti di parco fluviale e di piste ciclabili lungo il fiume, secondo le indicazioni del CdF. Nonostante la limitata adesione politica di alcuni comuni, il CdF ha inoltre assegnato alle istituzioni e alle popolazioni locali un ruolo centrale nella ricostruzione del paesaggio in un territorio fluviale debole, orientando l’attenzione non solo verso il tema dell’acqua, dell’uso del suolo, della sicurezza e dell’assetto idrogeologico, ma anche verso la costruzione di reti ecologiche e fruitive per la qualità della vita. Il programma si è svolto secondo processi e procedure consolidate nei CdF (tavoli di lavoro, conferenze e workshop); innovativa è la territorializzazione delle azioni nel Masterplan del Piano d’Azione per definire progetti alla scala vasta del fiume e del suo territorio, fornendo indicazioni per i piani e per il progetto di singoli nodi alla scala locale.
Figura2. Masterplan Corona Verde II: Valorizzazione ambientale e fruibilità della fascia fluviale del Sangone
Il progetto per lo sviluppo della Valle di Susa7 definisce scenari di sviluppo alla scala vasta e progetti puntuali alla scala locale in risposta alle esigenze emerse dal territorio: valorizzazione del contesto di crisi industriale, occupazionale, sociale e estetico-paesaggistica; strategie di promozione e sviluppo dell’identità territoriale; creazione di connessioni funzionali per garantire competitività ed economie di scala. La cornice è l’opera infrastrutturale ferroviaria Torino-Lione; l’opera rende necessario un grande sforzo di coesione, coordinamento e organizzazione istituzionale per integrare le trasformazioni sul territorio, per gestire le risorse che si renderanno disponibili nei prossimi decenni e per individuare iniziative strutturali di investimento (Coordinamento Associazioni Imprenditoriali e Sindacali del Piemonte, 2012). Il progetto per la riqualificazione fisica, funzionale, economica e occupazionale della Valle lancia diverse linee strategiche individuandone priorità, costi e tempi: • tempi di realizzazione a lungo termine per gli scenari di trasformazione, meglio rappresentati dagli assi di intervento con obiettivi e strategie d’azione complessi e sinergici; • a medio e breve termine per i progetti pilota, esemplificativi di alcune azioni prioritarie ed efficaci ad innescare alla scala locale processi molto più complessi di rigenerazione territoriale alla scala vasta. La strategia progettuale avvia il confronto fra tecnici, attori pubblici e privati per creare consenso sull’iniziativa che tocca un territorio già fortemente compromesso dalla scarsa qualità del paesaggio, della vita e del lavoro, ma soprattutto dai conflitti interni tra gruppi della stessa comunità con interessi sul territorio anche molto diversi. 6
“Corona Verde”, progetto strategico a regia regionale nell’area metropolitana torinese (finanziato con il Docup 2000/2006 e POR FESR 2007/2013), che promuove l’interconnesione tra il sistema della “Corona di Delitiae” (relativa alle residenze sabaude intorno a Torino) con il verde periurbano e urbano e le aste fluviali, associando al progetto di masterplan specifici finanziamenti. 7 Il progetto, avviato nella primavera del 2012, è stato voluto e curato dal Coordinamento delle Associazioni Imprenditoriali e Sindacali del Piemonte ed è stato realizzato grazie al lavoro di ricerca condotto dal DIST (Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio) e SiTI (Istituto Superiore sui Sistemi Territoriali per l’Innovazione) del Politecnico di Torino. Coordinamento strategico: Gruppo di Lavoro delle Associazioni Imprenditoriali e Sindacali del Piemonte − Coordinamento scientifico: Giulio Mondini, Attilia Peano, Riccardo Roscelli − Coordinamento del progetto: Lino Malara, Matteo Tabasso, Angioletta Voghera − Ricercatori: Marco Bagnasacco, Angela de Candia, Alessio Re, Dafne Regis. Angioletta Voghera, Dafne Regis
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Progetti per sistemi territoriali in trasformazione
La Valle di Susa si caratterizza infatti per una radicata divisione tra Alta e Bassa Valle – oggi accentuata dalle posizioni a favore e contro la NLTL –: la prima dedita al turismo, specialmente invernale, la seconda interessata dall’espansione delle attività industriali dell’area metropolitana torinese, oggi fortemente in crisi con conseguente degrado ambientale e abbandono del territorio da parte della popolazione. Il progetto è orientato ad una visione di trasformazione complessiva della Valle, rappresentata dagli assi progettuali di intervento8, nella prospettiva di ricostruire un’identità forte, capace di unire il territorio, attraverso lo sviluppo turistico diversificato tra le montagne olimpiche e il patrimonio naturale, culturale e storicoarchitettonico diffuso, la migliore qualità urbanistica e architettonica nel fondovalle e sui versanti, la riqualificazione ambientale lungo l’asse della Dora Riparia e la crescita dei settori terziario e produttivo, legati alla ricerca e all’innovazione tecnologica. Infine, il processo di rifunzionalizzazione e di rivitalizzazione del territorio parte dall’individuazione di alcuni progetti “pilota”, esemplificativi di buone pratiche da ripetersi in un susseguirsi di interventi puntuali per valorizzare la complessiva qualità ambientale, del paesaggio e della vita alla base della capacità di un territorio di attrarre nel lungo termine persone e investimenti dall’esterno (Figura 3). Il progetto si presenta dunque come strumento straordinario per la progettualità complessiva e sovracomunale della Valle, per il quale è opportuno individuare un modello di gestione efficace per intervenire sinergicamente alle diverse scale e sui diversi temi, per gestire in modo coerente le risorse e i finanziamenti e per individuare le competenze specifiche nell’ambito dell’attuazione dei progetti alla scala locale. L’organo di coordinamento per la coerenza generale delle iniziative è stato riconosciuto nell’Osservatorio sulla linea Torino-Lione, che dovrà in futuro individuare un team operativo dedicato alle attività di realizzazione. Strategica risulterà la capacità di intercettare le competenze tecniche, gli strumenti amministrativi e le risorse specifiche di volta in volta disponibili in un quadro di procedure che si avvarranno di bandi e concorsi di idee, di interventi pubblici e privati, di fondi europei, nazionali e regionali – non istituiti ad hoc – e di investimenti privati, attratti dalla logica di crescita della competitività e di incremento della qualità del territorio e della vita. ASSI
RICADUTE Ambiente
AZIONI-PROGETTI
Asse 1
Ecologia
Ferrovia storica
Asse 2
Economia
Asse 3
Dora Riparia Infrastrutture verdi
Asse 4
Fondovalle Versanti
Mobilità Turismo Società
Asse 5 Asse 6
Id. Locale
“Sistema Susa”
territoriale
Valle
di
locale Sicurezza
Figura 3. Concept Scenario di trasformazione . Cfr. Coordinamento delle Associazioni imprenditoriali del Piemonte e CGIL, CISL, UIL del Piemonte, DIST, SiTI (2012),“Un progetto di sviluppo per la Valle di Susa: assi di intervento e suggestioni progettuali”, in Atti del Convegno Un futuro per la Valle di Susa. Progetti per lo sviluppo del territorio, Torino, 10dicembre.
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Assi di intervento per lo scenario di sviluppo della Valle di Susa: il Parco fluviale della Dora e fondovalle, il patrimonio architettonico, la riqualificazione urbana ed edilizia, l’accessibilità e ricettività, la comunicazione e promozione, lo sviluppo economico e produttivo.
Angioletta Voghera, Dafne Regis
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Progetti per sistemi territoriali in trasformazione Tabella 2: Strategie a confronto
Progetto Ambito d’intervento
IBA (Emscher Park) Emscher (83 km)
CdF (torrente Sangone) Sangone (47 km)
Progetto Valle Susa Dora Riparia (70 km)
Promotore Partners
Land NRW Associazione comuni (Kvr)
Provincia di Torino Comuni
Parti sociali Provincia Torino e comuni
Politiche di supporto
Land NRW
-
Modello gestione
IBA GmbH
Cabina di Regia
Ministero Infrastrutture e Trasporto Osservatorio NLTL
Strumenti strategici
Memorandum
Piano d’Azione
Piano strategico
Visions Progetti Strumenti d’attuazione
7 scenari guida 130 progetti locali ordinari (B-plan)
6 assi di intervento 9 progetti pilota ordinari (PRG) e straordinari
Risorse territoriali
paesaggio, patrimonio storico-culturale, attori sociali (cittadini, imprese, università),
3 linee strategiche masterplan ordinari (PRG) e straordinari (Piani e Accordi di programma) paesaggio, patrimonio storico-culturale, attori sociali (cittadini, ASSOT e università)
Risorse finanziarie
Fondi pubblici e investimenti privati ambiente, identità, immagine, occupazione
Fondi pubblici ambiente, identità, immagine, occupazione
paesaggio, patrimonio storico-culturale, attori sociali (associazioni di categoria, cittadini, imprese e università) Fondi pubblici e investimenti privati ambiente, identità, immagine, occupazione
Tempi
1989-1999
2007-2015
2012-2022
Stato dell’arte
ex post
in itinere
ex ante
Obiettivi/Ricadute
3 | Questioni di metodo Nel tentativo di delineare aspetti strategici per garantire efficacia ai progetti di territorio è opportuno riflettere sui metodi e sui loro fattori comuni, capaci di aiutare le scelte decisionali e gestionali in modo integrato e condiviso per la tutela, valorizzazione e riqualificazione dei sistemi territoriali in trasformazione. In primo luogo, i progetti avviano processi trasformativi “aperti” e di lungo termine, che non si limitano a progettare opere eccezionali localizzate sul territorio e da realizzarsi in un certo periodo, ma sono il punto di partenza per sviluppare modalità organizzative e di gestione anche innovative che hanno alla base del successo il progetto. Il progetto territoriale non appare esito di una serie di azioni indipendenti e non individua soluzioni definitive per il territorio, ma è strumento programmatico straordinario, a supporto delle iniziative locali per promuovere un insieme complesso di azioni intersettoriali, coerenti e interrelate tra loro, convergenti verso un comune e condiviso obiettivo di sviluppo alla scala vasta. Nella direzione di creare scenari condivisi e ricadute a lungo termine che coinvolgono il sistema territoriale nel suo complesso, i “programmi-progetti” si avvalgono di strumenti di gestione ad hoc, senza spostare le competenze istituzionalizzate, per integrare e rendere sinergici nell’azione puntuale i diversi strumenti di piano. Strumenti di gestione specifici sono inoltre necessari, nel quadro di programmi di così ampio orizzonte, per ottimizzare l’uso delle risorse − ambientali, economiche e finanziarie – che, senza un quadro generale di riferimento e una scala di priorità condivise, rischierebbero di sprecare e compromettere l’efficacia del progetto complessivo. La condivisione degli obiettivi e delle regole, generalmente orientate ad una migliore qualità ambientale e allo sviluppo socio-economico, è aspetto fondamentale per contribuire al conseguimento di risultati. Oltre ad ampie politiche a sostegno dei progetti che ne costituiscono il quadro di riferimento, sono necessari processi partecipativi per la discussione e la definizione di scenari e criteri progettuali a partire dal riconoscimento delle potenzialità e criticità del contesto, garantendo la condivisione delle iniziative e la coerenza tra piani e progetti alle diverse scale. Mettere insieme esperienze diverse di enti, associazioni, esperti, attori privati e organi locali permette infatti di individuare le giuste priorità per la cura e lo sviluppo del territorio e chiarire, fin dalle prime fasi, le responsabilità e le competenze in gioco (Voghera, 2009).
Angioletta Voghera, Dafne Regis
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Progetti per sistemi territoriali in trasformazione
Si richiede anche un’ampia azione di coordinamento, che possa supportare la gestione di tutte le operazioni all’interno dei programmi, senza sostituirsi agli enti e alle istituzioni di governo del territorio, proponendosi come luogo di incontro per favorire la cooperazione interistituzionale, avviare le attività di progetto, comunicazione, informazione e partecipazione. Per dare impulso allo sviluppo e alla sostenibilità di territori in “crisi” e per garantirne un’effettiva valorizzazione a lungo termine del paesaggio, della qualità della vita e della società, risulta dunque necessario ripensare al metodo progettuale e promuovere processi di trasformazione del territorio, che agiscano alla diverse scale con piani e progetti, che individuino le soluzioni attuative, gestionali e economiche, toccando in modo sinergico il territorio, la città, la natura, l’agricoltura, il patrimonio architettonico, culturale e sociale (Ingaramo, Voghera, 2012).
Bibliografia Bastiani M. (a cura di, 2012), Contratti di fiume. Pianificazione strategica e partecipata dei bacini fluviali, Dario Flaccovio Editore, Palermo. Bottero M., Mondini G. (a cura di, 2009), Valutazione e sostenibilità. Piani, programmi e progetti, Celid, Torino. Ganser K., (1999), “Emscher Park Building Exhibition: a motor of structural change”, in Topos, n.26, pp.6-14. IBA, 2010, IBA meets IBA, Jovis, Berlin. Ingaramo R., Voghera A. (2012), “Finding a design method: integrate multiscale project”, in Cities in transformation. Research & Design. Ideas, Methods, Tecniques, Tools, Case Studies. EAAE/ARCC International Conference on Architectural Research, Milano, 7-10 June. pp. 526-529 Ingaramo R., Voghera A. (2012), Planning and Architecture. Searching for an approach, Alinea international, Firenze. Kipar A., (1993), Emscher Park nel bacino della Ruhr: un progetto di ristrutturazione ambientale per l’esposizione internazionale di costruzioni (IBA), Il Pomerio Editore. Kunzmann K.R., (2011), “L’IBA Emscher Park nel territorio della Ruhr: una retrospettiva”, in Urbanistica Dossier, n°126. Mazza L., (2003), Trasformazioni del piano, Franco Angeli, Milano. Minucci F., (1996), Le regioni industrializzate tra declino e innovazione. Il caso della Ruhr in un contesto europeo, Franco Angeli, Milano. Reicher C., Niemann L., Uttke A. (eds., 2011), Internationale Bauausstellung Emscher Park: Impulse. Local, regional, national, international, Klartext, Essen. Voghera A., (2009), “Il contratto come strumento di governo”, in Urbanistica Informazioni, n. 226, pp. 54-56. Zlonicky P., (1996), “L’attuazione del progetto IBA Emcher Park”, in Ambiente e pianificazione, Quaderno n°1, IUAV, Venezia.
Sitografia Coordinamento delle Associazioni imprenditoriali del Piemonte e CGIL, CISL, UIL del Piemonte, DIST, SiTI (2012), “Un progetto di sviluppo per la Valle di Susa: assi di intervento e suggestioni progettuali”, in Atti del Convegno Un futuro per la Valle di Susa. Progetti per lo sviluppo del territorio, Torino, 10 dicembre. http://www.confindustria.piemonte.it/index.php/infrastrutture-trasporti-logistica/convegni-ed-eventi/1362-torino10-dicembre-2012-convegno-un-futuro-per-la-valle-di-susa Corona Verde II: le progettualità sul territorio del Contratto di Fiume del Torrente Sangone http://www.provincia.torino.gov.it/ambiente/filestorage/download/ris_idriche/pdf/assemblea_bacino_2011/POR RO_20_12_2011.pdf http://issuu.com/landscapefor/docs/progr_a_sud Progetto della Ruhr – IBA Emscher Park. http://www.mai-nrw.de/Projection-Ruhr.141.0.html?&L=1 Provincia di Torino, Concorso di progettazione. Contratto di Fiume del bacino del torrente Sangone. Masterplan del Piano d’Azione. http://www.provincia.torino.gov.it/ambiente/risorse_idriche/pubblicazioni/masterplan_sangone
Angioletta Voghera, Dafne Regis
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by Planum. The Journal of Urbanism ISSN 1723 - 0993 | no. 27, vol. II [2013] www.planum.net Proceedings published in October 2013